31 luglio

 

Una cascata di cemento

di Paolo Biondani

Il governo Berlusconi ha promesso di battere la crisi rilanciando il business del mattone. In realtà dietro ai piani dell'esecutivo, a cominciare da quello sulla casa, non c'è altro che un nuovo sacco edilizio. Regione per regione ecco la mappa della nuova speculazione

Più cemento per tutti. Con il cosiddetto piano casa, e con altri interventi ispirati alla stessa ideologia della deregulation edilizia, il governo Berlusconi promette di battere la crisi rilanciando il business del mattone. Ma la ripresa resta dubbia. La crisi e il crescente indebitamento delle imprese e delle famiglie compromettono le capacità di investimento dei privati. A guadagnarci sicuramente saranno pochi grandi speculatori. Mentre per la maggioranza dei cittadini il nuovo boom dei cantieri rischia di produrre danni a lungo termine molto più gravi dei benefici apparenti e immediati. Un colpo di grazia per il già moribondo territorio italiano. Un'ipoteca pesante sul futuro del turismo, dell'agricoltura di qualità e della nuova economia verde. A lanciare l'allarme,insieme a tutte le più importanti associazioni per la difesa dell'ambiente e del paesaggio, sono autorevoli studi tecnicoscientifici e perfino gli asettici rapporti dell'Istituto nazionale di statistica. A differenza dei politici, gli esperti concordano che gran parte delle regioni hanno già raggiunto un livello di «saturazione edilizia ». Una nuova ondata di cemento «in un Paese come l'Italia, in cui il territorio è da sempre molto sfruttato», avverte l'Istat, «non può essere considerata in nessun caso un fenomeno sostenibile». Ma il peggio è che il piano casa è come una scommessa al buio: l'Italia è l'unico Stato occidentale dove già ora l'edilizia è fuori controllo, perché mancano perfino le misurazioni di quanti boschi, prati e campi vengono ricoperti ogni giorno dalla crosta inquinante del cemento e dell'asfalto.

Assalto al territorio
Dagli anni Novanta i comuni italiani stanno autorizzando nuove costruzioni a ritmi vertiginosi: oltre 261 milioni di metri cubi ogni 12 mesi. Nel giro di tre lustri, dal 1991 al 2006, ai fabbricati già esistenti si sono aggiunti altri 3 miliardi e 139 milioni di metri cubi di capannoni industriali e lottizzazioni residenziali.
È come se ciascun italiano, neonati compresi, si fosse costruito 55 scatole di cemento di un metro per lato. Il record negativo è del Nordest, con oltre un miliardo di metri cubi, pari a una media di 98 scatoloni di cemento per ogni abitante. Il risultato, secondo l'Istat, è «impressionante ». Al Nord l'intera fascia pedemontana è diventata un'interminabile distesa di cemento e asfalto «quasi senza soluzioni di continuità»: città e paesi si sono fusi formando «una delle più vaste conurbazioni europee». Una megalopoli di fatto, cresciuta senza regole e senza alcuna pianificazione, che dalla Lombardia e dal Veneto arriva fino alla Romagna. Al Centro «stanno ormai saldandosi Roma e Napoli». E nel Mezzogiorno «l'urbanizzazione sta occupando gran parte delle aree costiere». L'escalation edilizia, come certifica sempre l'Istat, non ha alcuna giustificazione demografica. Tra il 1991 e i 2001, date degli ultimi censimenti, la popolazione italiana è lievitata solo del 4 per mille, immigrati compresi, mentre «le località edificate sono cresciute del 15 per cento».

Nonostante questo, dal 2001 al 2008 il consumo di territorio è aumentato ancora: in media del 7,8 per cento, con punte tra il 12 e il 15 in Basilicata, Puglia e Marche e un record del 17,8 in Molise. Fino agli anni '80 la Liguria era la regione più cementificata. Negli ultimi sette anni le capitali del mattone, come quantità assolute, sono diventate Lazio, Puglia e Veneto. Solo quest'ultima regione ha perso altri 100 chilometri quadrati di campagne. A colpi di condoni Le statistiche dell'Istatsegnalano un rapporto diretto tra i nuovi fabbricati e le sanatorie dei vecchi abusi, varate sia dal primo che dal secondo governo Berlusconi. Nonostante i proclami di regolarizzazione che accompagnavano ogni condono, l'edilizia selvaggia ha continuato ad arricchire i furbi: nel 2008 l'Agenzia per il territorio ha scoperto, solo grazie alle foto aeree, oltre un milione e mezzo di immobili totalmente sconosciuti al catasto, cioè non registrati neppure come abusivi. Uno scandalo concentrato al Sud. Al Nord invece la legge Tremonti del '94, che detassava gli utili per farli reinvestire in nuovi macchinari aziendali, in realtà ha fatto esplodere la costruzione e l'ampliamento dei capannoni industriali e commerciali: oltre 156 milioni milioni di metri cubi all'anno.

Dietro la cementificazione del territorio c'è anche un'altra ingiustizia fiscale. Damiano Di Simine, responsabile di Legambiente in Lombardia, spiega che «l'assurdità del caso italiano è che i comuni sono costretti a finanziarsi svendendo il territorio »: «Gli oneri di urbanizzazione, da contributi necessari a dotare le nuove costruzioni di verde e servizi, si sono trasformati in entrate tributarie, per cui le giunte più ricche e magari più votate sono quelle che favoriscono le speculazioni». Nei paesi europei più avanzati succede il contrario: apposite "tasse di scopo" puniscono chi consuma territorio. Mentre in Italia, come segnala l'Istat, la pressione edilizia è tanto forte da scaricare i cittadini perfino «in aree inidonee per il rischio sismico o idrogeologico ». E tra migliaia di enti inutili, non esiste neppure un ufficio pubblico che misuri l'avanzata del cemento. La distruzione del verde L'unico studio di livello scientifico è stato pubblicato all'inizio di luglio da un gruppo di ricercatori del Politecnico di Milano, dell'Istituto nazionale di urbanistica e di Legambiente. L'Istat infatti può quantificare, scontando i ritardi delle burocrazie locali, solo i «permessi di costruire», cioè le licenze legali. Alle statistiche ufficiali, dunque, sfuggono tutti gli abusi edilizi, oltre alle chilometriche colate di asfalto, dalle strade ai parcheggi, che accompagnano e spesso precedono le nuove costruzioni.

Mettendo a confronto foto aree e mappe della stessa scala (GUARDA), disponibili solo in tre regioni e in poche altre province, i ricercatori di questo "Osservatorio nazionale sui consumi di suolo" hanno scoperto che in Lombardia, tra il 1999 e il 2005, sono spariti 26.728 ettari di terreni agricoli. È come se in sei anni fossero nate dal nulla cinque nuove città come Brescia. La media quotidiana è spaventosa: ogni giorno il cemento e l'asfalto cancellano più di 10 ettari di campagne in Lombardia e altri 8 in Emilia, dove tra il 1976 e il 2003 (ultimo aggiornamento geografico) è come se Bologna si fosse moltiplicata per 14. Lo studio smentisce anche il luogo comune che vede nel cemento l'effetto dello sviluppo produttivo. In Friuli, tra il 1980 e il 2000, è scomparso meno di un ettaro al giorno. Mentre il Piemonte ha perso più di 68 chilometri quadrati di campagne nel decennio 1991-2001, quando il suolo urbanizzato è aumentato dell'8,7 per cento, mentre la popolazione è scesa dell'1,4. Gli urbanisti del Politecnico ammoniscono che questo modello di sfruttamento (l'Istat lo chiama «consumismo del territorio») ha ricadute pesantissime sulla vita delle famiglie. «Il fenomeno delle seconde e terze case è legato anche alla fuga dalle città sempre più invivibili», riassume il professor Arturo Lanzani: «Ma la scarsissima qualità dei nuovi progetti finisce per spostare il traffico e lo smog verso nuovi spazi congestionati ». Paolo Pileri, il docente che dirige l'Osservatorio, fa notare che «in Germania, Olanda, Gran Bretagna, Svezia e Svizzera i governi cambiano le leggi urbanistiche per limitare fino ad azzerare i consumi di suolo. Mentre in Italia non abbiamo neppure dati attendibili». Anzi, il governo punta tutto su un nuovo boom edilizio.

Le pagelle al piano casa
Per il presidente di Italia Nostra, Giovanni Losavio, la riforma berlusconiana «è peggio di un condono, perché abolisce le regole anche per il futuro: permessi e controlli diventano inutili, ora basta la parola del progettista». «Bocciatura piena » anche da Legambiente, che ha fatto l'esame delle singole leggi (o progetti) regionali di attuazione: «promosse» solo Toscana, Puglia e provincia di Bolzano, che oltre a salvare parchi e centri storici, impongono rigorose migliorie ecologiche e risparmi energetici. A meritare i voti peggiori sono i piani casa delle regioni più cementificate: in Veneto la legge Galan concede aumenti di volume perfino ai capannoni più orribili, in Sicilia la giunta progetta «bonus edilizi fino al 90 per cento acquistabili dai vicini». E in Lombardia spunta il "lodo Cielle": un premio del 40 per cento per l'edilizia sociale, ma con «possibile vendita a operatori privati». «Rimandate con debiti» tutte le altre regioni, mentre in Val d'Aosta è pronto il «piano camere»: più cubatura anche per gli alberghi. Il bilancio nazionale è «un puzzle urbanistico con regole diverse in ogni regione». E se in generale le giunte di sinistra resistono al Far West edilizio, la Campania fa eccezione. Vezio De Lucia, urbanista di Italia Nostra, e Ornella Capezzuto, presidente del Wwf Campania, sono i primi firmatari di un appello che descrive il piano casa varato dalla giunta Bassolino come «un nuovo sacco edilizio»: «Il solo annuncio della liberalizzazione delle nuove residenze nelle aree dismesse, senza neppure il limite che le fabbriche interessate siano davvero già chiuse, ha fatto triplicare in pochi giorni il valore dei capannoni». Il consigliere regionale della sinistra Gerardo Rosania, che da sindaco di Eboli fece demolire 437 villette abusive, lancia una mobilitazione antimafia: «Ci si dimentica che qui siamo in Campania. Chi può fare incetta di industrie abbandonate pagando subito è solo la camorra».

Lupi in agguato
Il cosiddetto piano casa (o piano-capannoni?) è solo il più pubblicizzato tra i programmi edilizi del governo. Italia Nostra denuncia anche «gli effetti perversi dell'abolizione di tutti i vincoli ambientali e paesistici per le grandi opere. L'esperienza dimostra che l'urbanizzazione più caotica si sviluppa proprio sulle direttrici delle nuove infrastutture». Vezio De Lucia e Antonello Alici temono soprattutto il ritorno del disegno di legge, approvato nel 2005 solo dalla Camera, che porta il nome di Maurizio Lupi, ex assessore ciellino a Milano, oggi sottosegretario del premier: «Una controriforma urbanistica che vuole applicare a tutta Italia il rito ambrosiano dell'edilizia contrattata direttamente dai privati. Un modello che cancella le quantità minime di verde e servizi abrogando lo stesso principio del governo pubblico del territorio». Un professore del Politecnico, Andrea Arcidiacono, ha provato a calcolare chi ci ha guadagnato davvero a Milano: «I maggiori programmi integrati hanno prodotto 2,3 milioni di metri quadrati di nuove costruzioni. Il settore pubblico ha ottenuto benefici lordi per 360 milioni, per lo più verde senza manutenzione e parcheggi di servizio agli stessi fabbricati (55 ettari su 200): si tratta del 4 o 5 per cento dei presumibili ricavi dei privati ». Come dire che, ogni cento euro, al Comune ne vanno 5 di incassi teorici, ai re del mattone 95 di soldi veri. Il titolo dello studio è una domanda: «E i cittadini cosa ci guadagnano?».

 

Colorado, la guerra uccide due volte

Nello Stato Usa, i reduci di guerra commettono omicidi e crimini violenti in misura cento volte maggiore rispetto alla media

I militari statunitensi rientrati dall'Iraq che hanno prestato servizio nella brigata da combattimento Fort Carson, partita dal Colorado, hanno mostrato un'inclinazione straordinariamente alta alla criminalità, mettendo a segno una lunga serie di omicidi e altri reati.

La lezione della guerra. Secondo l'inchiesta di un quotidiano locale, la Colorado Spring Gazette, che ha svolto un'inchiesta di sei mesi tra i militari di ritorno dalle missioni, tale atteggiamento sarebbe il risultato della mancanza di disciplina e delle uccisioni indiscriminate che hanno caratterizzato il periodo del loro dispiegamento in guerra. Secondo gli stessi militari di questa brigata, le condizioni brutali sperimentate in Iraq tra il 2004 e il 2007 e l'incapacità dell'Esercito di garantire un appropriata assistenza psicologica a coloro che manifestavano segni di stress, sarebbero le principali cause che hanno spinto i soldati a commettere crimini quali violenze sessuali, abusi su familiari, sparatorie, accoltellamenti, rapimenti e suicidi.

Brutalità. Il tasso di omicidi tra le unità combattenti di Fort Carson è risultato essere 114 volte più elevato rispetto a quello del Colorado. Durante il loro dispiegamento, i militari si dedicavano ad attività tra le più feroci e disumane: uccidevano civili a caso, a volte anche a sangue freddo; utilizzavano sui prigionieri pistole elettriche quali le Taser; gettavano persone giù dai ponti, caricavano le loro armi con i cosiddetti proiettili 'hollow point' (la cui punta è modificata per provocare impatto più forte e devastazione maggiore sul bersaglio, ndr); abusavano di alcool e droga e occasionalmente si dedicavano a mutilazioni di civili, sempre secondo quanto racconta la 'Colorado Springs Gazette'.

"Conseguenze negative". Nel dicembre 2007, un membro della brigata avrebbe raccontato ai superiori che nella sua unità si stavano commettendo 'crimini di guerra', tra cui l'uccisione di un sedicenne e il suo smembramento. Dal rientro dalla missione, almeno dieci membri della brigata hanno commesso un omicidio o quantomeno tentato di farlo, stando almeno all'inchiesta condotta dalla Colorado Springs Gazette: l'Esercito Usa al momento si è limitato ad affermare di non aver trovato alcuna prova delle tesi sostenute dal quotidiano. L'esercito Usa ha recentemente incaricato una commissione di indagare sugli omicidi commessi dai reduci delle guerre in Iraq e in Afghanistan. La commissione ha concluso, in un rapporto di 126 pagine, che "l'intensità e l'esposizione al combattimento, le accresciute responsabilità e le difficoltà nel trovare adeguate forme di assistenza" possono aver aumentato i rischi di "conseguenze negative" nei comportamenti degli ex-soldati.

Luca Galassi

 

Sudan, la battaglia di Lubna

Dopo l'udienza la polizia aggredisce i giornalisti, ma nonostante le intimidazioni un'attivista dei diritti per le donne assicura che la battaglia per i diritti umani continuerà

Di Giacomo Corticelli e Luca Galassi

Nessuna decisione è stata presa dalla corte di Khartoum che sta processando la giornalista Lubna Ahmed Al-Hussein.
Il processo riprenderà il primo di agosto. L'imputata aveva deciso di non avvalersi dell'immunità che le è stata proposta dai giudici di Khartoum, in quanto impiegata delle Nazioni Unite.
Dieci delle tredici donne arrestate con la Hussein in un ristorante di Khartoum all'inizio del mese, sono già state 'punite' poiché hanno ammesso la loro 'colpevolezza', pur non essendo tutte di religione musulmana. Per aver vestito camicette e pantaloni, sono state inflitte loro 'solamente' 10 frustate. Il crimine d'indossare abiti scandalosi, che offenderebbe i valori e le virtù della società sudanese, viene normalmente punito con 40 frustate, quelle che si ipotizza verranno comminate alle 'non pentite'.
In un'affollata aula del tribunale nel quale si è svolto il processo, la signora Hussein ha dichiarato: ''mi dimetterò dall'Onu, desidero che questo processo continui''. ''Voglio cambiare questa legge'', continua la giornalista ''perché non è umana e non corrisponde con la sharia''. Nei giorni scorsi la giornalista ha lanciato numerosi appelli e invitato più persone possibili, in particolare osservatori e giornalisti, a seguire il processo. La Hussein è determinata a pubblicizzare il caso il più possibile. Tuttavia nei giorni scorsi un'altra giornalista, Amal Habbani, è stata accusata di diffamazione dalle autorità per essersi associata alla causa e potrebbe rischiare un'ammenda da 400 mila dollari. Un articolo della Habbani apparso nei giorni scorsi sul giornale Ajrass Al-Horreya e intitolato ''Lubna, un caso di sottomissione del corpo di una donna'', criticava l'autorità giuridica islamista in quanto volta ''all'intimidazione politica per terrorizzare gli oppositori''.

Peacereporter ha contattato telefonicamente Nahid Jabr, che era presente al processo. E' impegnata con il Seema, Centro per la formazione e la protezione dei diritti delle donne e dei bambini, ed è attualmente una delle più importanti attiviste per i diritti umani in Sudan.

Che cosa ci può dire a proposito della linea assunta dalla signora Hussein di proseguire la sua battaglia per i diritti delle donne?
Lubna ha detto al giudice di non voler avvalersi del diritto all'immunità perché è fortemente intenzionata a supportare i diritti delle donne, vuole contribuire a cambiare la situazione anche perché questa corte è illegittima. Non si tratta infatti di un tribunale normale, dove ci sono dei diritti e l'imputato si può difendere. E' una corte religiosa e popolare che regola a suo piacimento l'ordine pubblico.

L'attenzione posta dai giornalisti su questo evento è stata molto alta, erano in molti presenti oggi?
C'erano molti media internazionali ad attendere la sentenza, molti leader politici, attivisti dei diritti umani e anche un forte schieramento di polizia. Quest'ultima ha aggredito i giornalisti sequestrando telefoni cellulari e macchine fotografiche. Un cameraman e due giornalisti dei giornali sudanesi Ajrass Al-Horreya e di Al-Medan sono stati arrestati e poi rilasciati.

Cosa comporta la sharia in Sudan per le donne per quanto riguarda l'abbigliamento?
Vivo in un paese multietnico e multiconfessionale, per me questo processo non è il risultato della sharia poiché non ci sono considerevoli legami tra i vestiti e la legge islamica. La questione riguarda piuttosto il diritto alle scelte personali e i diritti delle donne, di cui Lubna rappresenta solo un esempio. La situazione è ora molto critica. In caso di condanna, la comunità internazionale assisterà all'avanzare di una dittatura islamica. Se venisse dichiarata innocente potrebbero scoppiare dei conflitti interni allo Stato, perché verrebbe delegittimato il potere degli integralisti islamici che costituiscono una parte considerevole del potere nella città.

E' un clima teso e intimidatorio quello che si respira in Sudan. La giurisdizione islamica introdotta nel 1991 solo nel nord del paese, è stata resa valida anche per i non musulmani della capitale in seguito agli accordi di pace del 2005, stipulati tra ribelli del sud e governo centrale. Per anni Lubna Al-Hussein ha coraggiosamente criticato, dalle colonne della rivista Men Talk, i metodi fondamentalisti del regime e l'oppressione delle donne nella società sudanese. Secondo un comunicato dell'Arabic Network for Human Rights Information (Anhri), le accuse mosse alla coraggiosa donna sarebbero un pretesto per ''spezzare una penna libera''. La disciplina di derivazione coranica imposta in Sudan è una delle più discriminatorie nei confronti delle donne: sembra che l'obiettivo della legislazione sia quello di colpire studentesse e lavoratrici, al fine di isolarle il più possibile dalla partecipazione nella sfera pubblica.

 

24 luglio

 

Domani andrà peggio

L'Undp pubblica il rapporto 2009 sulla condizione del mondo arabo, dal quale emerge una situazione drammatica

Ci sono parole che pesano come pietre. Il 21 luglio 2009 è stato pubblicato l'Arab Human Development Report 2009, uno studio che il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (Undp) commissiona, ogni anno dal 2002, a un gruppo di cento intellettuali arabi indipendenti.

Fosche previsioni. ''La sicurezza umana è un prerequisito fondamentale per lo sviluppo umano. La diffusa mancanza di sicurezza nei paesi arabi li costringe in una condizione di sottosviluppo. L'insicurezza umana nella regione araba è endemica, sempre più intensa e con conseguenze che riguardano un numero crescente di persone, soffocando sempre più le possibilità di sviluppo del mondo arabo''. Un quadro soffocante, claustrofobico. Lo stesso quadro che, con parole di rara intensità, rese il giornalista libanese Samir Kassir nel suo libro L'infelicità araba. Uscito postumo, perché Samir venne ucciso in un attentato nella sua Beirut il 2 giugno 2005. A proposito di sicurezza umana.
''Il mondo arabo ha perso il tipo di fondamenta morali e materiali che sono alla base di una vita sicura, i mezzi di sussistenza per garantire alla maggioranza della popolazione un livello accettabile di esistenza'', continua il rapporto di 208 pagine, che individua nella malnutrizione, nello scarso accesso alle risorse idriche, nella corruzione delle istituzioni alcune delle cause di questo mancato sviluppo. Il tutto aggravato da una crescita demografica senza sosta: se nel 1980 l'Undp calcolava in 150 milioni gli abitanti della regione che va dal Marocco all'Iraq, nel 2015 si stima che nella stessa terra vivranno 395 milioni di persone. Una popolazione, per il 60 percento, sotto i 25 anni di vita, ma che si confronterà con un mercato del lavoro quasi inesistente. Servirebbe uno sforzo enorme a livello di programmazione economica, capace di generare 50 milioni di posti di lavoro entro il 2020.

Crisi economica e cattiva gestione. Un'economia, secondo gli studiosi che hanno lavorato al rapporto, che viene 'drogata' dai proventi del petrolio che però riguardano solo pochi paesi e, all'interno di questi ultimi, pochissime persone. Quindi ragionare in termini di reddito pro capite è fuorviante, perché le sperequazioni all'interno della regione araba sono ancora più violente che altrove. La prima raccomandazione del rapporto, dunque, è per i governi dei paesi arabi ricchi grazie all'oro nero. Devono emanciparsene, fino a quando possono. Anche perché è un bene esauribile e se le lobby al potere in stati come l'Algeria o i paesi del Golfo Persico non saranno capaci di diversificare gli investimenti dei proventi del petrolio e non sapranno usare il denaro per creare sviluppo, nei loro paesi la situazione è destinata a peggiorare. Questa è un'analisi più che condivisibile anche se, come spesso accade con i documenti ufficiali delle agenzie Onu, si denuncia la situazione lasciando perdere le cause che l'hanno generata. Uno dei passaggi chiave del libro di Kassir era proprio il j'accuse diretto a tutti quei paesi ricchi che per gli interessi economici legati a petrolio tengono in vita governi illiberali che soffocano le società civili arabe. Finendo così per spingere tra le braccia del fondamentalismo islamico una massa di giovani ai quali manca il respiro, chiusi tra povertà e dittatura, senza nessuna possibilità di emanciparsi.

Senza libertà. Un riferimento chiaro all'assenza di regole democratiche nella regione araba lo descrive anche il rapporto Undp, quando parla dei sistemi giudiziari. ''Tutti i sistemi giudiziari arabi, come quelli legislativi, soffrono di una forma di sottomissione al potere esecutivo che ne mina qualsiasi parvenza d'indipendenza. In sei paesi, poi, è vietata la costituzione di partiti politici, in altri casi la repressione di qualsiasi forma di dissenso funziona meglio del divieto esplicito - spiega il rapporto - E' necessario un sostegno alla nascita di programmi di sviluppo democratico e di programmi di rafforzamento degli stessi. Per garantire uno sviluppo sotto tutti i punti di vista, dall'assistenza sanitaria alle pari opportunità, fino ai programmi alimentari per sconfiggere la fame'', concludono gli autori del documento. ''Il problema per i nostri paesi è che il concetto di sicurezza è legato solo all'apparato militare e poliziesco'', commenta Amat al-Alim Alsowa, direttore dell'ufficio dell'Undp per gli stati arabi, ''la sicurezza di una popolazione passa attraverso, invece, la sconfitta della fame, dell'ignoranza, della discriminazione e della disoccupazione''.

Christian Elia

 

Discesa a nord delle mafie in occasione dell'Expo 2015

Le prossime faide tra clan rivali si svolgeranno all'ombra della Madonnina e i lumbard si affiliano alle cosche

Scritto da Gian Luca Ursini

In vista dell'Expo 2015 le cosche calabresi stanno infiltrando il tessuto imprenditoriale lombardo e spostano il centro dei propri interessi all'ombra della Madonnina; tanto che i magistrati nazionali antimafia avvisano: "Milano è la nuova capitale della ‘ndrangheta e la Lombardia è diventata la quarta regione mafiosa d'Italia". Una torta così allettante, gli affari in vista al Nord, da fare pensare che la "prossima guerra di mafia si combatterà nel capoluogo lombardo", come ha previsto Paolo Pollichieni, direttore del quotidiano ‘Calabria ora', da anni attento osservatore dell'espansione imprenditoriale della ‘Ndrangheta. I capoclan lombardi sono infatti, secondo l'ultima relazione della procura antimafia, sempre più autonomi e indipendenti dalle famiglie rimaste in Calabria, tanto da preparare gli arsenali per un sempre più probabile scontro tra ‘scissionisti' (così il sostituto procuratore nazionale Roberto Pennisi) e cosche ancorate alla terra d'origine.

Obiettivo Expo. Gli affari languono nel Meridione, per le imprese legate ai clan che negli anni hanno monopolizzato i mercati del calcestruzzo, del movimento terra e inerti, fino a essere presenti in ogni cantiere pubblico e privato in Calabria: nei prossimi anni la torta più grande verrà dalle opere legate alla grande Esposizione universale prevista a Milano nel 2015. E' il tam tam che si sta diffondendo in quella ristretta comunità di ingegneri e costruttori che si contendevano gli appalti da Caserta in giù. "Dopo aver lavorato ai macro lotti Gioia - Palmi e di recente Palmi - Villa san Giovanni dell'autostrada Salerno-Reggio - spiega un ingegnere veneto trasferitosi da un decennio - la mia ditta, emiliana, mi chiede se sono disposto a programmare i prossimi dieci anni a Milano: si apre un ufficio lì, ci saranno fin troppi appalti da gestire". L'atmosfera del colloquio è serena, incline alle rivelazioni: davanti, la vista dello Stretto si apre sul terrazzo di un ristorante di Scilla affacciato sugli scogli, mentre una brezza si incunea sulle acque tra le due terre e attenua il calore feroce della giornata sul Tirreno reggino. I clan hanno capito che non c'è più da fare affidamento sui grandi appalti in queste regioni, e così come le ditte ‘pulite' direzionano la bussola degli affari verso l'altro polo. "Qui stanno smobilitando tutti - continua l'ingegnere, sotto garanzia di anonimato - fino a febbraio mi chiedevano ancora se avevo intenzione di restare perché c'erano grosse aspettative legate al Ponte sullo Stretto, ma poi si è capito che per 5 anni soldi non ne arrivano. Sono previsti 2 anni per il progetto esecutivo, ma sappiamo tutti che ce ne vorranno più del doppio. Cantieri a breve non apriranno, quindi tutte le ditte hanno una sola preoccupazione: non rimanere indietro a Milano. E' lì che si lavorerà bene. Quelli del posto che ho visto per anni sui cantieri della Salerno- Reggio mi dicono da mesi: ci vediamo in Lombardia. Ora di salutare la Calabria, ciao vecio".

Milano, Calabria.
E' tempo di preparare i bagagli per il Nord: per i calabresi non è certo un mercato nuovo. Le imprese legate ai clan hanno messo radici da almeno due generazioni nelle terre tra il Ticino e l'Adda: già nel 1999 il magistrato milanese Armando Spataro avvisava la commissione parlamentare antimafia di Beppe Lumia come nel capoluogo padano "il 90 percento delle inchieste riguarda clan di 'Ndrangheta: le mafie della Locride stanno penetrando il cuore finanziario d'Italia". Infiltrazione andata a buon fine dieci anni dopo, se nell'ultima relazione della procura antimafia, su 900 pagine si dedica un lungo capitolo a Milano e ai calabresi in Lombardia, passando a setaccio territori diversi. La metropoli e il suo hinterland sono "appannaggio delle cosche reggine, sia della costa Jonica che Tirreniche come pure le famiglie di Reggio città, che agiscono in sintonia con i siciliani di Cosa Nostra legati da antichi rapporti con i clan della Locride; in mano a loro la gestione del pizzo degli investimenti immobiliari e le infiltrazioni nel commercio". L'ortomercato si era rivelato terreno di casa dei Morabito di Ardore dopo un blitz della polizia nel 2007. E in provincia gli investigatori scoprono crotonesi e vibonesi sempre più presenti in alta Brianza e Valtellina, nelle provincie di Lecco Como e Sondrio. Già nel 2006 la procura di Lecco riesce a incriminare 20 persone legate ai clan Coco-Trovato che in zona hanno creato un loro ‘locale' (come vengono chiamate le nuove cellule dagli affiliati) collegato con i clan Arena di Isola Capo Rizzuto a Crotone e con i potentissimi De Stefano di Reggio. I Farao Marincola, crotonesi di Cirò Marina, sono presenti nei cantieri e si occupano di recupero crediti, tra Varese Legnano e Busto Arsizio, a ovest del capoluogo, monopolizzando anche il traffico di cocaina. I Mancuso di Limbadi (Vibo) controllano Monza; nella periferia milanese di Sud ovest, tra Buccinasco, Cesano Boscone e Assago, le famiglie dell'Aspromonte si sono radicate da tre generazioni creando un ‘consorzio del Nord' che impone le proprie imprese in subappalto in ogni cantiere, con le buone o con le cattive. Fanno capo ai Barbaro di Platì, che coordinano le famiglie Perre, Trimboli Sergi e Papalia, già inserite negli appalti per l'Alta velocità, come pure al raddoppio della Venezia-Milano; adesso aspettano Pedemontana lombarda e nuova Tangenziale est milanese. Lo scorso marzo tre pm del Tribunale di Milano hanno chiesto 21 arresti per i compari di Marcello Paparo, imprenditore edile che riforniva di bazooka i parenti di Isola Capo rizzuto dalla sua ditta di Cologno Monzese. Dalle 400 pagine del gip Caterina Intelandi emerge una ‘cabina di regia' unica delle cosche sugli appalti lombardi, che impongono "quale impresa lavora e quale no" e dividono la torta in parti uguali, anche per Tav a quarta corsia della A4. Nella stessa inchiesta emerge anche un fattore nuovo: queste imprese dai profitti elevati fanno gola anche agli autoctoni, generando una devianza insospettabile: i lumbard che si affiliano alle cosche. Almeno quattro nominativi di contabili, geometri e piccoli imprenditori del Milanese sono stati indicati dalla gip Interlandi.

Metastasi oltre confine. "Un cancro calabrese si diffonde in Ticino", scriveva sul giornale ‘TicinoOggi' un deputato locale della xenofoba Udc di Blocher a inizio 2003, dopo che le cosche calabresi avevano fatto saltare nella notte di san Silvestro la pizzeria di un ribelle del clan, fuori Bellinzona. Il capoluogo del cantone era già allora appannaggio dei crotonesi; tutti di Mesoraca, per la precisione, un paese vicino alla preSila catanzarese. Ma ora la cosca Ferrazzo a Bellinzona ha imparato come offrire servizi raffinati ai ‘compari' che lavorano nel Milanese. Tanto da attirare l'attenzione della Dda milanese che ha investigato insieme con i magistrati svizzeri nell'inchiesta ‘Dirty money', dove hanno messo sotto la lente due finanziarie di Lugano, la Wsf Ag e la Pf Finanz Ag. In teoria incaricate di raccogliere capitali svizzeri da investire nel mercato Forex. In realtà collettore di capitali sporchi da riciclare, ma anche di profitti di società lecite, intitolate a uomini dei clan da sottrarre al fisco; le due società sono fallite, decine di milioni di franchi scomparsi, come gli investimenti immobiliari in Spagna e Sardegna, su residence intestati a uomini della cosca Ferrazzo.

Pax mafiosa agli sgoccioli. Cinque Kalashnikov; tre mitragliette Uzi; tre pistole Sig sauer. "Su ordine del boss Trovato le consegnai ad un capofamiglia alleato nel ristorante ‘Il Portico' di Airuno in Brianza", confidava un testimone di giustizia al gip milanese Vittorio Foschini a inizio anno; "le forniture di armi erano iniziate nel 2002, dopo che clan rivali nel milanese avevano ordito un attentato contro Peppe De Stefano e Franco Trovato a Bresso (periferia nord di Milano, a ovest di Sesto san Giovanni)". Gli arsenali vengono preparati in vista della possibile guerra degli scissionisti; per il sostituto procuratore antimafia Pennisi "inchieste come la Over size del 2006 dimostrano il graduale affrancamento dei clan calabresi di Lombardia dalla regione d'origine, con la sostanziale autonomia dei nuovi clan brianzoli e milanesi"; una novità segnata dal fatto che le nuove famiglie possono comprendere elementi che provengono da province, paesi diversi, sfuggendo "all'elemento di radicamento con la comunità originale", con un territorio calabrese ben definito, come aveva scritto il magistrato antimafia Nicola Gratteri nel libro ‘Fratelli di sangue' (per Mondadori, coautore il criminologo Antonio Nicaso).
E queste nuove famiglie hanno fame di appalti, di altri soldi. Tanto da far temere che ben presto, in vista dei soldi in arrivo con l'Expo, i kalashnikov si faranno sentire anche in Lombardia. "I sempre più rilevanti interessi nel settore dell'edilizia e dei subappalti per opere pubbliche, possono far saltare alleanze e spartizioni di territorio consolidati da tempo", avvisa la Direzione investigativa antimafia nella sua ultima relazione. E le lupare hanno fatto risuonare i loro primi colpi: il 27 marzo 2008 Rocco Cristello, ex alleato dei Mancuso caduto in disgrazia, viene ucciso in Brianza; il 14 luglio tocca a Carmelo Novella a San Vittore Olona, territorio dei Farao Marincola, che pagano con il sangue del loro affiliato Aloisio Cataldo, ucciso fuori Legnano il 27 settembre scorso.

 

Carceri, bomba a orologeria

Stato di agitazione dei sindacati di polizia carceraria, dato il terrificante stato delle prigioni italiane

Scritto da Giacomo Corticelli

Napoli, davanti al carcere di Poggioreale, l'ennesima manifestazione indetta da varie sigle sindacali, rappresentanti l'85 percento del personale di polizia penitenziaria sindacalizzato, per protestare contro la drammatica situazione rilevata all'interno degli istituti penitenziari italiani. Le manifestazioni programmate sono già in corso dal 30 giugno in tutta Italia e si concluderanno con un corteo nazionale a Roma il prossimo 22 settembre. Martedì il Sappe, sindacato autonomo di polizia penitenziaria, ha rilanciato l'allarme sovraffollamento carceri, presentando i dati delle undici regioni che risultano fuorilegge per quanto concerne le condizioni di reclusione.

Dal Trentino alla Sicilia, è già stato superato il limite cosiddetto ''tollerabile'' previsto dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (Dap), andando ben oltre la capienza regolamentare degli istituti di pena italiani. A livello nazionale, citando i dati forniti dal Sappe, il conto alla rovescia per l'esplosione delle prigioni è quasi scaduto: il livello di tollerabilità ha raggiunto il 99 percento dati i 63 mila e 661 reclusi rilevati il 20 luglio, a fronte di un massimo previsto in 64 mila 111 unità. E si fa riferimento al massimo 'tollerato', poiché la capienza regolare fissata dal Dap è di 43 mila 327 posti. La denuncia esposta dal segretario generale del Sappe, Donato Capece, assegna il record del superamento della capienza 'regolamentare' alla casa circondariale di Caltagirone, Catania: sono attualmente presenti 259 detenuti, ma il limite tollerabile sarebbe di 150, ben il 345 percento in più rispetto alla capienza originaria fissata in 75 posti. La situazione più 'intollerabile' si registra invece a San Severo, provincia di Foggia, dove si arriva al 213 percento della capienza tollerabile.

La situazione è evidentemente disumana e degradante, eppure l'articolo 27 della Costituzione prevede chiaramente che ''le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato''. ''Si continua a parlare di un piano sull'edilizia di prossima attuazione, ma in realtà ci vorranno anni prima che venga costruito un nuovo carcere'', mette in evidenza Capece riferendosi alle volontà ministeriali, rimaste tutte sulla carta e prive di copertura finanziaria. La situazione sanitaria è definita ''da terzo mondo'' dal segretario del Sappe, data anche la presenza di malattie che nel nostro Paese si ritenevano debellate. Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura, branca ufficiale del Consiglio d'Europa, indica che lo spazio in una cella multipla per detenuto non può essere inferiore ai quattro metri quadri. Ma in Italia si registrano casi di reclusione allucinanti, come ad esempio nel carcere di Bolzano, dove 10 metri di cella vengono condivisi da dodici prigionieri. Per Capece ''l'unica via d'uscita sono le misure alternative alla detenzione'', ma secondo l'associazione Antigone sono solo 9 mila 406 i privilegiati per questo tipo di provvedimenti.

L'aumento esponenziale dei detenuti è dovuto ad una maggiore repressione penale nei confronti di consumatori e trafficanti di droga, nonché verso gli immigrati illegali e i recidivi. Secondo i dati Dap dello scorso anno, i tossicodipendenti ed alcoldipendenti reclusi erano 18 mila 484: basterebbe l'affidamento ai servizi sociali di questi detenuti in adeguate strutture, dalle quali ne trarrebbero largo beneficio, per dare ai penitenziari un largo respiro. Per quanto riguarda gli immigrati, quasi 14 mila risultano in stato di carcerazione preventiva e oltre 2 mila sono imprigionati per non aver rispettato l'obbligo imposto di espatriare fornito dalle questure. La nuova legge sulla sicurezza approvata lo scorso 2 luglio non farà che peggiorare questa situazione, in quanto si moltiplicheranno gli ordini di espulsione di cittadini senza documenti da parte dei prefetti che, se non ottemperati, li spediranno dritti in prigione.


 

19 luglio

 

Silvio in the Sky

di Alessandro Gilioli

Berlusconi prepara l'offensiva d'autunno contro Murdoch. Basata anche su nuove leggi. Come quella che taglierà gli spot a tutti. Tranne che a Mediaset. In edicola da venerdì

Rupert Murdoch

Bisogna ammetterlo: l'uomo che Silvio Berlusconi ha messo a disegnare il futuro della tivù italiana non ha mai lavorato a Mediaset. Da giovane, infatti, il viceministro Paolo Romani ha tenuto le redini di Rete A (perlopiù televendite), poi di Telelombardia (legatissima al Psi milanese), infine di Lombardia 7 (con qualche problema giudiziario per una trasmissione a luci rosse di Maurizia Paradiso). Insomma, a Cologno non ha mai messo piede, quindi non è sospettabile in alcun modo di conflitto d'interessi. Se ne deduce che è solo per amore di un mercato televisivo più equo e dinamico che qualche giorno fa ha rivelato l'intenzione sua e del governo di tagliare per legge gli spot "a tutte le reti che hanno ricavi anche da canoni o abbonamenti". E dev'essere puramente casuale che l'unica rete con il canone è la Rai e l'unica con gli abbonamenti è Sky: vale a dire i due principali concorrenti di Mediaset.

La battaglia sui tetti pubblicitari sarà il nuovo fronte della guerra tra Silvio Berlusconi e Rupert Murdoch e si consumerà entro Natale. Romani ha infatti deciso di inventarsi una nuova legge pro Mediaset utilizzando come pretesto la direttiva europea del 2007 sulla tv a cui l'Italia si adeguerà entro la fine dell'anno. La Ue ovviamente non entra nel merito dei canali, ma chiede soltanto una maggiore 'flessibilità' dei tetti pubblicitari e stimola una sostanziale deregulation del settore. Insomma, nulla che imponga di differenziare i tetti degli spot tra Mediaset e le altre tivù private nazionali, attualmente uguali per legge (la Gasparri, tra l'altro, opera del centrodestra): il 15 per cento dell'orario giornaliero e il 18 per cento di ogni ora. La Rai invece ha un affollamento massimo del 4 per cento sull'orario settimanale e del 12 per cento di ogni ora.

Ma è soprattutto l'attuale parità di trattamento sul fronte pubblicitario fra tivù berlusconiane e Sky che Romani vuole scardinare, con il pieno accordo di Mediaset la cui consigliera d'amministrazione Gina Nieri ha subito raccolto la palla dal viceministro, chiedendo che i tetti del Biscione e di Sky vengano diversificati al più presto.

La mossa congiunta di Romani e Nieri si inserisce in un contesto di grande movimento della tivù italiana. Le polveri hanno preso fuoco nel dicembre scorso, con l'aumento dell'Iva su Sky deciso dal governo Berlusconi, ma ora lo scontro è su molti campi, dai diritti sul calcio ai film. La questione è prevalentemente economica (anche se ha riflessi politici) e affonda le radici nel calo della pubblicità di Mediaset, quindi la diminuzione dei soldi che vanno in tasca al Cavaliere. Nonostante gli inviti del premier affinché gli inserzionisti investano sui media 'non disfattisti', le sue tivù hanno chiuso il primo semestre del 2009 con una raccolta in discesa del 12-13 per cento rispetto all'anno precedente, il risultato peggiore di sempre nella storia dell'azienda. La causa non sta tanto nell'audience (quella delle reti Mediaset tiene benino), quanto nella recessione mondiale, di cui pure il proprietario di Mediaset, da Palazzo Chigi, tende a minimizzare gli effetti sull'Italia. Così i ricavi complessivi di Mediaset nel 2008 si sono attestati su 2.532 milioni di euro, sorpassati per la prima volta da quelli di Sky, superiori di circa 100 milioni e basati sugli abbonamenti più che sugli spot. è in questo contesto che è partita la strategia a tenaglia del governo e di Mediaset con l'idea di regalare più spot ai canali del premier rispetto al concorrente australiano. A farne le spese però non sarebbe solo Murdoch: infatti sul bouquet di Sky trasmettono decine di altri editori (da De Agostini a Rizzoli, da Discovery a Jetix) che Mediaset e governo vorrebbero 'soffocare da piccoli' prima che diventino anche loro una minaccia nella spartizione della torta pubblicitaria.

Il ventilato ritocco dei tetti a favore di Cologno e contro tutti gli altri costituisce solo una delle azioni di attacco ideate da Berlusconi e dai suoi per contrastare la presenza di Murdoch in Italia. Allo stesso tempo, i vertici del Biscione stanno pensando di ridurre l'appeal dei canali Sky Cinema togliendo loro tutti i film prodotti e distribuiti da Medusa, che controlla nomi come Muccino, Aldo, Giovanni e Giacomo, Pieraccioni e Boldi. C'è poi la questione dei diritti sul calcio, per i quali partirà a breve l'asta della Lega: scontato che Mediaset si aggiudichi quelli per il digitale terrestre e Sky quelli per il satellite, resta da capire come verrà spartita la spesa, vista la crescita enorme nei prossimi due anni dei potenziali clienti di Mediaset Premium, dovuta a sua volta all'imposizione del digitale terrestre. In altre parole: prima il calcio in diretta veniva guardato soprattutto su Sky, ma adesso che milioni di italiani sono più o meno costretti a dotarsi del decoder per il digitale terrestre, a molti appassionati può convenire vederlo sui canali di Berlusconi, che vendono ogni evento singolarmente (con una carta prepagata) anziché all'interno di un abbonamento (che rappresenta una spesa fissa per le famiglie). In una fase di crisi economica non è un vantaggio da poco: infatti le carte Premium attive sono già tre milioni e mezzo, i ricavi delle pay tv berlusconiane sono cresciuti dell'85 per cento nel 2008 e nel 2009 dovrebbero avvicinari ai 500 milioni di euro. Dunque, le prospettive per le casse di Cologno in questo segmento - quando tutti o quasi avranno il decoder del digitale terrestre in casa - sono ottime.

E a proposito di digitale terrestre, anche questa rivoluzione televisiva in Italia è diventata un fronte aperto tra Berlusconi e Murdoch. Lo switch off, cioè l'abbandono dell'analogico, pone infatti i teleutenti davanti alla scelta obbligata tra digitale terrestre e tivù satellitare: il primo targato Mediaset, il secondo Sky. Di qui le dispendiosissime campagne realizzate con soldi pubblici a favore del digitale terrestre e per incentivare l'acquisto di decoder; di qui la minacciata fuoriuscita dei canali Rai (ma forse in futuro anche Mediaset) dal bouquet di Sky; e di qui anche la nascita della piattaforma Tivusat, la prima alleanza formale tra Rai e Mediaset, per creare un pacchetto satellitare gratuito o semigratuito da contrapporre a Sky, dove il segnale del digitale terrestre non arriva o arriva male. I primi dati dalla Sardegna (la regione che ha anticipato tutte le altre nella chiusura della tivù analogica) paiono dimostrare che la strategia funziona, se è vero che nell'isola, come ha dichiarato trionfante Piersilvio Berlusconi, "solo nell'ultimo mese l'ascolto di Sky è caduto di due punti percentuali e mezzo". Anche per questo a Cologno hanno deciso di rinforzare ulteriormente l'offerta nel dtt con un nuovo canale che si chiamerà Italia 2, gratuito e con un target giovanile.

Quanto alla discesa dei ricavi pubblicitari, per invertire la tendenza a Mediaset non stanno pensando solo ad aumentare l'affollamento degli spot, ma anche a utilizzare al massimo il cosiddetto Product placement. Di che che cosa si tratta? Di quella che una volta si chiamava pubblicità occulta, cioè l'inserimento nei film e nei telefilm di prodotti e marchi ben visibili, in mano ai protagonisti o alle spalle degli stessi. La direttiva europea in effetti liberalizza questo tipo di inserzioni e c'è da prevedere che la forma in cui il viceministro Romani la consentirà in Italia non sarà - per usare un eufemismo - molto restrittiva.

L'offensiva congiunta di esecutivo e Mediaset va a scontrarsi contro un colosso mondiale che in Italia ha tuttavia non pochi problemi. Il sorpasso dei ricavi Sky su quelli Mediaset nel 2008 non deve trarre in inganno: infatti, dopo anni di crescita verticale, gli abbonamenti della tivù di Murdoch battono in testa e i quasi cinque milioni di paganti raggiunti nel 2008 sembrano costituire ora un tetto molto difficile da superare. Dal 2009, complice il rincaro dell'Iva e la crisi che colpisce i consumi voluttuari, i nuovi entranti sono molti meno che negli anni precedenti (vedi tabella a fianco) e a sentire Fininvest il saldo tra nuovi abbonamenti e disdette di quelli vecchi sarebbe addirittura in negativo. L'audience complessiva non è male, ma difficilmente supera il 10 per cento e adesso c'è pure l'incubo dello spostamento dei calciofili sui canali Premium di Mediaset (due spettatori di Sky su tre pagavano l'abbonamento sostanzialmente per il pallone).

In via Salaria hanno tentato di rispondere all'impasse con la creazione di un canale generalista (quello su cui è andato in onda Fiorello) che tuttavia non ha dato i risultati sperati. Adesso è in corso una campagna serrata per i 30 canali ad alta definizione, un segmento di mercato promettente, ma ancora di nicchia. Nascono anche nuove reti, per rendere più appetibile il pacchetto: come Fox Retrò (un inno alla nostalgia per i quarantenni, con la riproposizione di serie come 'Starsky & Hutch' e 'Mork & Mindy') o Baby tv (un'ennesima rete per i più bulimici consumatori di piccolo schermo esistenti, quelli in età prescolare). Dopo l'estate dovrebbe arrivare anche Sky Cinema Italia, per gli amanti delle pellicole nostrane anche d'epoca. Sui canali di Murdoch approderà infine il 'David Letterman Show', che prima veniva mandato in onda da Raisat. Tutto molto bello, ma pochissima cosa rispetto al crollo di contenuti che Sky rischia di subire se perde i film di Medusa e i canali Rai.

E a proposito della tivù di Stato: la sua arretratezza sul digitale terrestre ne fa già ora, per Mediaset, un concorrente sempre meno temibile. E se il disegno di Romani di ridurne gli spot andasse in porto, per viale Mazzini sarebbe il colpo di grazia: già in crisi di ascolti (meno cinque punti di share a giugno rispetto allo stesso mese dell'anno precedente), il broadcaster pubblico ha perso 27 milioni di euro nei primi tre mesi del 2009 rispetto al budget approvato a gennaio, che già era in rosso, sicché a fine anno la Rai dovrebbe avere una voragine di circa 120 milioni. E nel caso che, per far contento Berlusconi, i vertici Rai decidessero di rinunciare ai soldi offerti da Sky per ospitare i canali satellitari di Stato, il buco si allargherebbe di altri 60 milioni l'anno. Un quadro che potrebbe diventare ancora più agghiacciante se - come ha proposto Sandro Bondi - uno dei tre canali pubblici dovesse rinunciare del tutto agli spot: il ministro berlusconiano sostiene che questo scenario è ispirato al modello scelto dal governo francese, peccato che in Francia il primo competitor della tivù pubblica non sia di proprietà di Sarkozy.

Ma forse il destino della Rai lo abbiamo visto segnato già cinque mesi fa, durante il siparietto interpretato da Maria De Filippi e Paolo Bonolis all'ultimo Festival di Sanremo. Un gradevole duetto di reciproci complimenti, ma soprattutto una prova generale del programma musicale che i due condurranno insieme, dall'autunno prossimo.  Dove? Su una delle reti di Berlusconi, naturalmente.

 

Di bene in meglio

Fuori dall'Ecuador, gli Usa guardano alla Colombia, che si dice più che disposta ad accogliere l'amico di sempre

Gli Stati Uniti dopo dieci anni dicono addio all'Ecuador. Venerdì 17 luglio è scaduto il contratto siglato dal governo di Quito con le forze armate Usa, in base al quale si concedeva in uso la base militare di Manta per operazioni legate alla lotta contro il narcotraffico. Un accordo che il presidente Rafael Correa non ha voluto rinnovare, costringendo la Casa Bianca a studiare un'altra sistemazione in quella regione strategica nel cuore del Sudamerica. Sistemazione presto rimpiazzata nella vicina Colombia, nella quale sono già attivi numerosi "siti avanzati", utilizzati a supporto delle operazioni di fumigazione aerea o delle missioni d'intelligence e radio-telecomunicazione statunitensi. Gli scali aerei meridionali di Tolemaida, Larandia, Tres Esquinas, Leticia e Puerto Leguizamo, o le stazioni radar dell'isola caraibica di San Andrés, di Marandúa (alla frontiera orientale con il Venezuela), Riohacha (nordest) e San José del Guaviare (sudest). Con il nuovo patto, la Colombia cementerà quello che è già il suo ruolo da tempo: partner d'eccellenza degli Usa in Sudamerica.
Il governo di Bogotà ha, infatti, dichiarato nei giorni scorsi che sarebbe prossimo alla firma di un accordo con Washington per fare della Colombia il maggior centro delle operazioni anti-droga per tutto il Sud America. E va da sé che questo implicherà un supporto ancor più diretto alla lotta contro i gruppi guerriglieri, accusati di avere le mani in pasta nel narcotraffico internazionale, quindi inseriti nella lista Usa dei gruppi terroristi, e per questo assunti a nemico numero uno anche di Washington. Una buona scusa per sorvolare indisturbati aree strategiche dal punto di vista economico e militare.
Secondo questo nuovo accordo Palazzo Narino-Casa Bianca, gli Stati Uniti avrebbero accesso alle basi aeree colombiane per smistare i servizi di intelligence che supportano la guerra alla produzione di droga e che si occupano di lotta al terrorismo. I dettagli dell'accordo non sono ancora definitivi, ma almeno tre basi aeree - Malambo nel nord, Palanquero e Apiay, nel centro - dovrebbero essere a disposizione degli Usa, che opereranno 24 ore al giorno per monitorare la regione, intercettare comunicazioni e coordinare con satelliti spia i progetti di loro interesse. Il nuovo Manta, dunque, è stato trovato e anzi si va di bene in meglio, dato che il nuovo centro regionale è assai più ampio e lascia molto sciolte le briglie ai soldati a stelle e strisce.

Intanto, Manta festeggia l'inizio dello sgombero Usa: militari e contractors (alle società di guardie del corpo private sono affidati molti servizi nella zona amazzonica e andina, quali per esempio le fumigazioni) hanno due mesi di tempo per sgomberare. "A partire da oggi - ha dichiarato il sindaco di Manta, Jorge Zambrano - il Forward Operating Locations (Fol) comincia la sua ritirata per lasciare le installazioni nuovamente nelle mani delle autorità ecuadoriane. E comunque, Manta mai è stata una base militare straniera", ha precisato per smorzare ogni polemica sull'infiltrazione Usa nel paese, aggiungendo che ogni azione antidroga in territori d'Ecuador è stata fatta da militari d'Ecuador. E inoltre, ogni missione portata avanti dagli Usa partendo da Manta avveniva con la presenza di un rappresentante ecuadoriano. O per lo meno così recitavano le carte dell'accordo firmato dall'allora presidente Jamil Mahaud nel 1998. In questa base, a quanto riferiscono le fonti ufficiali, ci sono sempre stati non più di trecento militari e contratistas Usa che "eseguivano alcuni voli per tener d'occhio il traffico di droga, con piccoli aerei, aerei o barche in acque internazionali". Da lì sono partite tutte le micidiali fumigazioni che hanno segnato la vita a migliaia di contadini.
Su quanto per gli Usa sia importante restare militarmente in Sudamerica sono stati versati fiumi di inchiostro. Ma anche per la Colombia è fondamentale il supporto del Nordamerica. E non lo ha nascosto il presidente Alvaro Uribe, che da tempo, dopo il tramonto di Bush, va cercando nuovi vincoli con la Casa Bianca. "Questo trattato di cooperazione militare è una convenienza per un Paese come il mio impegnato contro il terrorismo e il traffico illegale di cocaina", tirando fuori sempre le medesime ragioni. Terrorismo e droga il binomio dietro il quale si nascondono inenarrabili crimini di Stato che fanno della Colombia una paese in guerra in piena emergenza umanitaria. Ma di questo non si parla a voce alta nei palazzi presidenziali. E nemmeno Washington . Quindi ottocento soldati e seicento contrattisti. Queste le cifre del nuovo accordo, ancora tutto da concludere ma sulla via della definizione. "Ottenere accordi con paesi come gli Stati Uniti affinché, in tutto rispetto della Costituzione colombiana e dell'autonomia della Colombia, ci aiutino nella battaglia contro il terrorimo, contro il narcotraffico, è la più grande delle convenienze per il nostro paese". E contro la parapolitica e i suoi boss chi aiuta chi?

Stella Spinelli

 

La casta

Israele e gli ultraortodossi: un rapporto complesso che mostra tutte le sue contraddizioni

''Centinaia di poliziotti, sostenuti anche da guardie di frontiera, presidieranno le strade di Gerusalemme. Nessun tipo di violenza sarà tollerata''. Il portavoce della polizia israeliana, Micky Rosenfeld, ha annunciato alla stampa la tolleranza zero verso gli ebrei ultraortodossi che hanno messo a ferro e fuoco nelle ultime 48 ore due quartieri di Gerusalemme.
Il pretesto. Tutto è nato, martedì scorso, dall'arresto di un una donna ultraortodossa accusata dai servizi sociali israeliani di negligenza. Il suo bimbo di tre anni, ultimo di cinque figli, era stato trovato in condizioni di denutrizione dalle autorità di Tel Aviv che accusano la madre di aver privato sistematicamente dell'alimentazione necessaria il piccolo. La donna nega, sostenuta da tutta la comunità, che è scesa in piazza per dimostrare. Bilancio della battaglia: 18 poliziotti feriti e 34 ultraortodossi arrestati. Il sindaco di Gerusalemme, Nir Barkat, aveva reagito ai disordini ordinando la sospensione di qualsiasi servizio comunale nei quartieri di Geula e Mea Shearim, teatro degli scontri. Barkat, a sentir lui, ha preso la decisione per proteggere gli impiegati comunali, in quanto tutte le istituzioni erano diventate un bersaglio delle proteste degli ultraortodossi. In molti, però, hanno parlato di un'ingiusta punizione collettiva. Dopo la mediazione del presidente israeliano Peres, sono arrivati gli arresti domiciliari per la donna. Questo potrebbe stemperare la tensione, ma l'episodio ha riportato alla luce una tensione di fondo che attraversa la società israeliana: il rapporto con gli ultraortodossi.
Un salto nel tempo. Fare una passeggiata per Mea Shearim, che in ebraico significa 'delle cento porte', è come fare un viaggio nel tempo. Costruito a partire dal 1875, il quartiere è il secondo agglomerato formatosi fuori dalla città vecchia, dai seguaci del rabbino Auerbach. Loro si sono rinchiusi in un ghetto volontario, per vivere nella più totale osservanza degli scritti religiosi e si vestono come i loro antenati dell'Europa centro-orientale del Settecento. I cappelli a falda larga, le lunghe barbe e i riccioli che escono dai copricapi sono i segni distintivi di una comunità che non riconosce lo Stato d'Israele, perché la tradizione vuole che lo fonderà il Messia al suo ritorno e non possono farlo degli uomini comuni. Non parlano la lingua ebraica, ritenuta sacra e da utilizzare solo per la preghiera, e si esprimono in yiddish, l'idioma degli ebrei originari dell'Europa dell'est. Per una passeggiata tra le migliaia di sinagoghe e di yeshivot (le scuole talmudiche) è consigliabile un atteggiamento composto e un abbigliamento castigato. Inoltre durante il sacro sabbath (dal tramonto del venerdì al tramonto del sabato) è proibito fumare e fotografare per le strade del quartiere. Un altro mondo, fatto anche di privilegi, però. Nel 1947, dopo un accordo tra Ben Gurion, uno dei padri d'Israele, e i leader ultraortodossi, si stabilì che questi ultimi potevano rimandare il servizio militare, le loro scuole ricevono fino a 170 milioni di dollari di sussidi e non lavorano.
Ben Gurion ne ottenne l'appoggio politico, ma il resto della società israeliana ha sempre mal tollerato i loro privilegi che, secondo una stima, costano alla comunità un miliardo di dollari l'anno in termini di forza lavoro sottratta all'economia israeliana.
Rabbini contro Israele. Da sempre posti agli estremi della società israeliana, nella galassia ultraortodossa non mancano neanche quelli che non accettano denaro e non fanno patti con lo Stato. Come il gruppo di Neturei Karta, per esempio. Il movimento è stato fondato a Gerusalemme, nel 1938, schierandosi da subito su posizioni anti sioniste. Partendo da presupposti, però, differenti da quelli degli anti sionisti politici. I seguaci del movimento, infatti, partono da una base teologica e sostengono d'interpretare alla lettera la Torah, il libro sacro dell'ebraismo. Secondo loro, le sacre scritture proibiscono la creazione di uno stato ebraico prima della venuta del Messia. Quindi, secondo questa lettura, lo stato d'Israele è un'impostura e la sovranità sulla Terra santa è dei palestinesi. Uno di loro divenne consigliere di Yasser Arafat per le questioni ebraiche.
Il movimento è stato oggetto, nel tempo, di polemiche e di attentati da parte di ebrei che li vedono come il fumo negli occhi. A settembre dello scorso anno, a Teheran, il governo di Mahmoud Ahmadinejad organizzò un convengo contro il sionismo che, tra gli ospiti, contava tanti negazionisti dello stesso Olocausto. Facile immaginare la reazione in Israele alle immagini provenienti dall'Iran, dove alcuni esponenti di Neturei Karta pregavano con Ahmadinejad. Ieri, mentre gli ultraortodossi di Gerusalemme davano battaglia, quattro di loro sono andati a trovare Ismail Hanyieh, leader di Hamas, a Gaza.
''Noi sentiamo la vostra sofferenza, noi piangiamo le stesse vostre lacrime'', ha detto ad Haniyeh il rabbino Yisroel Weiss, uno dei leader di Naturei Karta. Una dichiarazione decisamente poco ortodossa.

Christian Elia

 

15 luglio

 

La porta del paradiso

Gabriele Del Grande

Agadez, in Niger, è uno dei crocevia dei flussi di disperati che tentano di raggiungere il Mediterraneo
Arrivo ad Agadez con un convoglio scortato dai mezzi blindati dell'esercito. è notte. Siamo una cinquantina di veicoli, tra camion, autobus e fuoristrada. La ribellione dei tuareg non è ancora domata. E nel caos che si è generato, hanno preso piede gruppi di banditi che assalgono e derubano chi attraversa le strade del nord del paese. Quando scendo dall'autobus, all'autostazione della Rimbo Transports, vengo subito fermato da un intermediario. Un certo Musa. Gli parlo in arabo senza svelare la mia nazionalità. E dico che cerco un passaggio per la Libia, prima possibile. Il suo arabo è più elementare del mio, e se la beve. Dopo venti minuti a piedi nelle strade buie e polverose di Agadez, facciamo ingresso nell'autostazione. Abderrahman è il titolare dell'agenzia Akakus.

Sulla porta è appeso un poster di Gheddafi. Su una lavagnetta sul muro, sono scritti a gesso i prezzi dei trasporti: Dirkou 25.000 franchi (38 euro), Djanet 110.000 (167 euro) Ghat 140.000 (212 euro) Gatrun 150.000 (228 euro) Tamanrasset 110.000 (167 euro). Mi presento. Un ragazzo nigeriano ci interrompe, ma è urgente. Ha il numero di cellulare della sorella in Spagna, che può mandare i soldi del biglietto con Western Union. Ma non sa il prefisso. Glielo dico io. Non prende. Pazienza. Abderrahman, camicia e pantaloni di jeans, torna al nostro discorso. A Dirkou si va con i camion e sempre più spesso con i pick-up, specie ora che i cinesi hanno trovato il petrolio e si sono affittati metà dei camion che prima facevano i viaggi verso la Libia. Da Dirkou altri mezzi partono per Tumu, in Libia, al prezzo di 35.000 franchi (53 euro). In questo periodo si viaggia solo coi convogli scortati dall'esercito. Troppo pericoloso andare da soli. E di convogli ce n'è uno al mese. L'ultimo è partito due giorni fa. Mi tocca aspettare. Dirkou è meno cara, mi dice, ma devo mettere in conto 5.000 franchi per ogni posto di blocco, per la polizia. Massima sicurezza, dice Musa. La polizia ha la lista dei passeggeri, le macchine vanno in gruppo, hanno i telefoni satellitari, e ci sono pozzi lungo le piste, per l'acqua. Ma la frode è la frode. "Sai che parti per la vita o la morte - dice sorridendo -. Noi ce la mettiamo tutta, ma non possiamo darti la certezza". Solo adesso vedo che sulla lavagna, sotto i prezzi, c'è scritto: "Bonne chance". Buona fortuna.

Il giorno dopo incontro Brahim Manzo Diallo, direttore del bi-mensile AÔr Info, stampato in francese e diffuso in 1.500 esemplari da 7 anni in tutto il paese. Lo hanno rilasciato un anno fa, nel febbraio del 2008, dopo quattro mesi di carcere e torture. Il paese era già sotto lo stato di emergenza. E la polizia sospettava che Diallo fosse un membro della ribellione tuareg al nord del paese. Il suo giornale si è spesso occupato dell'emigrazione. Mi parla di un video girato da un poliziotto libico col cellulare in cui si vedono i resti di 150 persone morte disidratate a fianco del camion rimasto in panne nel deserto. Diallo sostiene che a migliaia siano morti nel deserto. Nessuno sa quanti familiari attendono da anni una chiamata dei figli, partiti per l'Europa e mai più tornati. Diallo dice che a Agadez non si è mai vista tanta gente come nel 2008. Il che è in linea con il raddoppio degli arrivi in Sicilia prima dei respingimenti e in particolare con l'aumento dei nigeriani. Nell'ultimo convoglio partito per Dirkou tre giorni prima, c'erano 18 camion diretti in Libia. Con a bordo oltre 3.000 emigranti. Tanti quante le dosi di vaccino contro la meningite che sono state loro somministrate. Già perchè a Dirkou c'è una brutta epidemia e si dice che il focolaio sia partito proprio dai ghetti degli immigrati che nell'oasi vivono bloccati in pessime condizioni. Diallo dice che in tempi di crisi, con la ribellione e il crollo del turismo, gli emigrati hanno salvato l'economia. Tanto più in uno dei paesi più poveri del mondo. Sono ospitati dappertutto. C'è gente che manda la famiglia dai parenti per affittare agli immigrati. E la polizia non è da meno. C'è tutto un tariffario: 5.000 franchi (8 euro) al posto di blocco di Agadez, 1.000 a Turayat, 3.000 all'ingresso di Dirkou e altri 5.000 all'uscita. E i costi raddoppiano per chi non ha documenti. Diallo accende il computer in redazione e mi mostra alcune foto. Si vede un sei ruote carico di un centinaio di nigeriani. In un'altra foto una donna con le lacrime agli occhi. Non voleva partire, racconta il direttore. Gridava "I don't want to come, I want to go back to Nigeria". Doveva essere una delle tante donne trafficate. Le costringono a prostituirsi già a Agadez. Nel quartiere di Nassaraoua ad esempio.

Al Nigeria Restaurant incontro diversi ragazzi. Uno di loro è appena tornato da Dirkou. Lo hanno respinto alla frontiera libica. » bloccato a Agadez. Dice di venire dalla regione del delta del Niger. Una zona disastrata dall'inquinamento delle raffinerie, la cui popolazione non ha visto un centesimo di quello che è uno dei più ricchi bacini di petrolio al mondo. A colpirmi è la contropartita che chiede per non partire. "Se domani trovassi un lavoro stabile, diciamo che mi facesse guadagnare 50.000 franchi, tornerei immediatamente in Nigeria". 50.000 franchi sono 75 euro. Dal tavolo accanto si avvicina Solomon. Ha in mano un cartone di vino, gronda sudore. Vuole vendermi una copia di "Europe by Road", un film nigeriano sull'emigrazione. Ma il dvd non funziona. Non è l'unico alcolizzato in giro. Il loro viaggio è fallito. E tornare da sconfitti sarebbe un'onta.

Torno all'autostazione. "Stupri, Aids, aggressioni". Un inquietante cartellone sbiadito dal sole campeggia sul grande parcheggio. Lungo tutto il perimetro ci sono gli uffici delle agenzie di viaggio, un Western Union e quattro negozi che vendono le taniche per il deserto. Sono centinaia le taniche esposte sul piazzale. Ce ne sono da 20 litri, e da cinque. Sono ricoperte di juta, con una corda per legarle al camion, dopo averci scritto su il proprio nome per riconoscerla. Grande e piccola insieme si possono comprare per 3.000 franchi. In un angolo d'ombra conosco Afis del Ghana e Johnson della Liberia. Afis era partito col convoglio di un mese fa, ma il camion si è rotto ed è dovuto tornare. Adesso non sa se ripartire o tornare in Ghana con i pochi soldi rimastigli. Ne hanno sentite tante. Gli autisti li lasciano nel deserto. Indicano loro le flebili luci delle città, all'orizzonte, e dicono di continuare a piedi. Di notte sembra tutto vicino. Ma di giorno scoprono che sono decine e decine di chilometri. Altre volte il problema sono i banditi e la polizia.

Il prossimo convoglio per Dirkou parte dopo tre settimane. Non ho il tempo di aspettare. Decido di raggiungere Arlit. La città dell'uranio. Ancora più a nord, in direzione del posto di frontiera con l'Algeria di Samaka. Per lo sfruttamento dell'uranio in Niger si sta giocando sporco. La scoperta di nuovi giacimenti farà del Niger il secondo produttore al mondo del carburante delle centrali nucleari. I nuovi contratti sono stati concessi alla Cina. E subito dopo è scoppiata la rivolta armata dei ribelli tuareg al nord. Una coincidenza? Che interessi ci sono dietro? La Francia? Da sempre primo importatore dell'uranio nigerino. La Libia? Da sempre alleata dei tuareg? La scoperta di petrolio nel deserto non faciliterà le cose. Soprattutto alla vigilia delle elezioni presidenziali. Alla fine del 2009 si va a votare. E il presidente Tandja ha deciso di presentarsi per il terzo mandato, nonostante la legge lo vieti. Il leader dell'opposizione è finito in carcere per aver protestato. Da Tripoli però Gheddafi ha dato il suo placet all'operazione. In tutto questo, paradossalmente la tensione politica e militare ha solo favorito i trasportatori di emigranti e i contrabbandieri. L'esercito scorta i convogli, compresi i carichi di droga, armi e sigarette, che prima erano spesso assaliti dai banditi. Mentre il netto giro di vite praticato dall'Algeria alle sue frontiere, per contrastare l'emigrazione verso la Spagna, ha spostato i flussi verso la Libia. Che ormai è la meta principale anche per chi parte da Arlit.

 

13 luglio

 

Saverio Ferrari
Le camicie verdi

Quando nel maggio 1996 la Lega Nord decise di istituire le Camicie verdi, l’On. Domenico Gramazio della direzione nazionale di Alleanza nazionale così commentò la notizia: “Bossi non sa che le Camicie verdi appartengono alla storia e alla tradizione del vecchio mondo attivistico della destra italiana. Apparvero per la prima volta nel 1953 ai funerali del maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani. È proprio con le Camicie verdi che nel lontano 1956 l’allora segretario giovanile del Movimento sociale italiano, Giulio Caradonna, preparò il famoso attacco alle Botteghe Oscure, al quale parteciparono con la camicia verde, fra gli altri, Vittorio Sbardella, Mario Gionfrida, Romolo Baldoni e tanti altri attivisti dell’Msi”.
Gramazio, pur sbagliando data, rammentò un episodio realmente accaduto. L’assalto alla sede nazionale del Pci avvenne infatti un anno prima, nel 1955, la sera del 9 marzo, quando un centinaio di neofascisti con camicie verdi, bracciali tricolori e cravatte nere, scesi da due pullman, tentarono di irrompere all’interno del “Bottegone”. La porta venne prontamente chiusa. A quel punto si scagliarono contro la sottostante libreria Rinascita con molotov, pietre e bastoni. Nell’occasione Mario Gionfrida, detto “er gatto” (mai appellativo fu così azzardato), nel tentativo di lanciare una bomba si tranciò di netto una mano. Lo si rivedrà di nuovo in giro con una protesi in legno.
Tornando al 1996, il 15 settembre Umberto Bossi dichiarava l’indipendenza della Padania, minacciando il ricorso a vie non democratiche. Il 22 settembre, come filiazione delle Camicie verdi, decideva anche di istituire la Guardia nazionale Padana, suddivisa in cinquanta compagnie e dedita all’“esercizio del tiro a segno come motivo di aggregazione sociale”. Erano gli anni in cui ai magistrati ricordava che “Una pallottola costa solo 300 lire”. L’ex senatore Corinto Marchini, il primo comandante delle Camicie verdi, poi fuoriuscito dalla Lega, solo qualche anno fa in un’intervista a Claudio Lazzaro che stava appunto girando “Camicie verdi”, un film-documentario uscito nel 2006, raccontò come lo stesso Bossi lo avesse istigato a organizzare manifestazioni eclatanti, ben più del semplice bruciare il tricolore nelle piazze. “Bossi mi chiamò all’una e mezza di notte” – ribadì Marchini – “mi disse di sparare ai carabinieri, che le Camicie verdi dovevano essere pronte a sparare”. Seguirà a fine gennaio 1998 la richiesta di rinvio a giudizio del procuratore della Repubblica di Verona Guido Papalia per tutta la dirigenza della Lega e una ventina di Camicie verdi. I reati: attentato contro la Costituzione e l’integrità dello Stato, oltre a formazione di associazione militare a fini politici. Un processo mai fatto.
Sarà forse un caso, ma la camicia verde come uniforme fu anche adottata in Europa nel secolo scorso da alcuni dei principali movimenti fascisti. Tra loro, le Croci frecciate ungheresi, fondate nella primavera del 1935 da Ferenc Szalasy, un ufficiale ultranazionalista. Lo stemma ricordava la bandiera nazista: un cerchio bianco, su sfondo rosso, con all’interno al posto della svastica due frecce disposte a forma di croce. Strutturate come un ordine religioso invocavano la benedizione del cielo per la loro crociata “contro gli ebrei e i bolscevichi”. Alleati dei nazisti, costituirono nell’ottobre del 1944 un governo fantoccio in Ungheria sotto la guida di Szalasy, autoproclamatosi “Reggente della nazione”, deportando migliaia di ebrei nei campi di sterminio. Almeno 15 mila, invece, secondo gli storici, gli ebrei direttamente massacrati in quei mesi dalle Croci frecciate a Budapest.
Assai simile all'esperienza ungherese fu la Guardia di ferro rumena, movimento fanatico e antisemita fondato nel 1927 da Cornelius Zelea Codreanu. Nel gennaio del 1941, in un tentativo di colpo di Stato, le bande paramilitari della Guardia di ferro, con tanto di camicia verde, fecero irruzione al quartiere ebraico incendiando case e sinagoghe. Al termine trascinarono al mattatoio comunale centinaia di sventurati. Molti di loro furono sgozzati, simulando una cerimonia kosher, altri decapitati. I corpi furono successivamente appesi ai ganci da macellaio. “Li avevano scorticati vivi a giudicare dalla quantità di sangue”, riferì in un suo telegramma l’ambasciatore degli Stati Uniti in Romania. Tra loro anche una bambina di cinque anni appesa per i piedi.
Movimenti fascisti a sfondo mistico-religioso che percorsero l’Europa, come furono anche i Verdinazo (Vereinigung dienst national-solidaristen) o Associazione dei solidaristi fiamminghi, fondata negli anni Venti da Joris van Severen, il cui progetto era di riunificare il Belgio, il Lussemburgo, i Paesi Bassi e le Fiandre francesi, riportando la ruota della storia al tempo dell’impero di Carlo V. Dotata di milizie con camicia verde, originò anche un corpo parapoliziesco che collaborò con i nazisti. Storie terribili e lontane, chissà se conosciute dai dirigenti leghisti.

 

I diritti, per una volta, prima di tutto

Gli istituti finanziari europei si ritirano dal progetto della diga di Ilisu. La Turchia non ha rispettato i diritti delle popolazioni coinvolte

Il 7 luglio 2009 sarà un giorno da ricordare per almeno 60mila persone. Sono gli abitanti della valle del Tigri, tutti curdi, che sarebbe stata sommersa dalla costruzione della diga di Ilisu, nella Turchia sud-orientale. Le banche che finanziavano il progetto hanno ritirato la loro partecipazione al progetto, lasciando il governo turco da solo di fronte a una spesa immensa.

Lieto fine. La sensazione è che più dei diritti delle popolazioni civili interessate poté la crisi economica, ma il comunicato stampa diffuso il 7 luglio dalle agenzie per l'esportazione del credito di Germania, Austria e Svizzera rende onore alle necessità di tutte quelle persone che avrebbero visto la loro vita sconvolta da grande bacino idrico.
''L'accordo stipulato, fin dall'inizio, prevedeva il rispetto di rigide condizioni'', recita la nota per la stampa diffusa dalle agenzie Euler Hermes Kdreditversicherung, tedesca, Kontrollbank, austriaca, e Exportrisikoversicherungg, svizzera. ''L'obiettivo principale consisteva nella riduzione al minimo dell'impatto della centrale idroelettrica sugli abitanti della regione, sull'ambiente e sui beni culturali'', recita il comunicato.

Mancati adempimenti. ''Ma nonostante i notevoli miglioramenti, restano lacune su alcuni punti essenziali, come ad esempio la mancanza di uno studio di fattibilità sullo spostamento delle rovine di Hasankeyf in un parco di beni culturali o l'assenza di una regolamentazione che stabilisca l'indennizzo da pagare secondo gli standard internazionali ai 60mila sfollati''. Tutte motivazioni nobili, come quella sulla distruzione di Hasankeyf, che avrebbe cancellato per sempre un sito millenario. Nessuno saprà mai se la decisione del consorzio finanziario, comunicato alla scadenza dell'ultima proroga di 180 giorni concessa al governo turco per applicare le condizioni preliminari, sia stata dettata dalla cattiva congiuntura o dalla cattiva pubblicità che avrebbe garantito loro un progetto osteggiato da tanti. Resta che questa decisione regala un sospiro di sollievo a tante persone, almeno per ora.

Un progetto controverso. ''L'annullamento del contratto di finanziamento non ha alcun fondamento scientifico e tecnico. Si tratta interamente di una decisione politica. La Turchia in questo momento è una grande potenza nella sua area. E' del tutto naturale che alcuni paesi si sentano disturbati da questa realtà''. Veysel Eroglu, ministro turco delle Politiche Ambientali e Forestali, ha commentato così a nome del governo turco, con un riferimento all'Iraq, da sempre contrario al progetto. Ankara ostenta sicurezza, anche se l'annunciato inizio dei lavori per il 30 luglio prossimo è da ritenersi superato. I 1,2 miliardi di euro garantiti dagli istituti di credito europei erano fondamentali per andare avanti con il progetto, che risale al 1954, e che prevede la costruzione di 22 dighe e 19 centrali idroelettriche. Per l'esecutivo turco, da sempre, la diga non distruggerà il contesto socio-culturale del bacino ma anzi porterà occupazione e sviluppo in una regione economicamente depressa.

Un sospiro di sollievo. Non la pensano così, però, gli abitanti della zona. ''Ho subito sentito gli esponenti delle associazioni e delle organizzazioni non governative che si sono battute contro le dighe e siamo tutti contenti. Per martedì prossimo, a Roma, si sta organizzando una grande festa e abbiamo notizie di feste e balli nella regione'', racconta Luca Saltalamacchia, giovane avvocato napoletano in prima fila nella battaglia legale in rappresentanza delle popolazioni locali. Saltalamacchia si è sempre confrontato con i vertici del gruppo Unicredit, mettendoli di fronte alle loro responsabilità morali nel caso avesser finanziato il progetto. Il gruppo amministrato da Alessandro Profumo, infatti, controlla la Bank of Austria Creditanstalt, uno degli istituti che finanzia il progetto della diga.

Visto dall'Italia. Il gruppo italiano non figura direttamente, ma è coinvolto nella storia. ''Quando è stato emesso il comunicato delle agenzie per l'esportazione del credito abbiamo tempestato di e-mail tutti i dirigenti di Unicredit con i quali ci siamo interfacciati in questi anni - racconta l'avvocato - Ieri mattina mi ha risposto uno di loro dicendomi che si ritiravano. Sul loro sito, poi, ho trovato anche la dichiarazione ufficiale che cita proprio le rimostranze delle ong sulla sostenibilità del progetto tra i motivi della decisione. Aspettavano che le altre agenzie si pronunciassero, per non pagare la penale prevista, ma avevano capito che era un disastro mediatico''. Una grande vittoria, insomma. ''Più che altro è un precedente importante. Pressando i finanziatori abbiamo ottenuto che questi pressassero le agenzie per ottenere che il governo di Ankara applicasse i prerequisiti richiesti'', risponde Saltalamacchia. ''Resta il problema, perché il progetto va avanti lo stesso, ma resta anche un precedente per i rapporti tra le multinazionali e i diritti umani delle popolazioni civili interessate dai grandi progetti economici. Un meccanismo virtuoso che spero si trasformi in un'onda''.

La lunga attesa. Molto soddisfatto anche Mauro Colombo, il regista di Hasankeyf, waiting life, un documentario che raccontava l'attesa impotente della popolazione interessata dal progetto che, dagli anni Cinquanta, incombe sul loro futuro. ''Quello che è accaduto è un caso raro, ed è il benvenuto. Un progetto come questo fermate da considerazioni non solo finanziarie è un'ottima notizia'', risponde Colombo. ''Mi auguro solo che adesso la condizione delle popolazioni di quella regione non resti, ancora una volta, come sospesa. Il governo turco vuole andare avanti e c'è il rischio che continui a tenere la regione nella situazione attuale. Manca tutto, davvero. C'è urgente bisogno di forti investimenti per lo sviluppo della regione. La gente ha paura che, prima o poi, il progetto si realizzi e nessuno si sente d'investire in un luogo che, tra vent'anni, potrebbe non esserci più''.

Christian Elia
 

 

10 luglio


Il nemico della stampa

di Umberto Eco
Il premier vuole imbavagliare l'informazione. E nella nostra società malata la maggioranza degli italiani sembra pronta ad accettare anche questo strappo. Ma il famoso intellettuale dice: 'Io non ci sto'.

Umberto Eco
Sarà il pessimismo della tarda età, sarà la lucidità che l'età porta con sé, ma provo una certa esitazione, frammista a scetticismo, a intervenire, su invito della redazione, in difesa della libertà di stampa. Voglio dire: quando qualcuno deve intervenire a difesa della libertà di stampa vuole dire che la società, e con essa gran parte della stampa, è già malata. Nelle democrazie che definiremo 'robuste' non c'è bisogno di difendere la libertà di stampa, perché a nessuno viene in mente di limitarla.

Questa la prima ragione del mio scetticismo, da cui discende un corollario. Il problema italiano non è Silvio Berlusconi. La storia (vorrei dire da Catilina in avanti) è stata ricca di uomini avventurosi, non privi di carisma, con scarso senso dello Stato ma senso altissimo dei propri interessi, che hanno desiderato instaurare un potere personale, scavalcando parlamenti, magistrature e costituzioni, distribuendo favori ai propri cortigiani e (talora) alle proprie cortigiane, identificando il proprio piacere con l'interesse della comunità. È che non sempre questi uomini hanno conquistato il potere a cui aspiravano, perché la società non glielo ha permesso. Quando la società glielo ha permesso, perché prendersela con questi uomini e non con la società che li ha lasciati fare?

Ricorderò sempre una storia che raccontava mia mamma che, ventenne, aveva trovato un bell'impiego come segretaria e dattilografa di un onorevole liberale - e dico liberale. Il giorno dopo la salita di Mussolini al potere quest'uomo aveva detto: "Ma in fondo, con la situazione in cui si trovava l'Italia, forse quest'Uomo troverà il modo di rimettere un po' d'ordine". Ecco, a instaurare il fascismo non è stata l'energia di Mussolini (occasione e pretesto) ma l'indulgenza e la rilassatezza di quell'onorevole liberale (rappresentante esemplare di un Paese in crisi).

E quindi è inutile prendersela con Berlusconi che fa, per così dire, il proprio mestiere. È la maggioranza degli italiani che ha accettato il conflitto di interessi, che accetta le ronde, che accetta il lodo Alfano, e che ora avrebbe accettato abbastanza tranquillamente - se il presidente della Repubblica non avesse alzato un sopracciglio - la mordacchia messa (per ora sperimentalmente) alla stampa. La stessa nazione accetterebbe senza esitazione, e anzi con una certa maliziosa complicità, che Berlusconi andasse a veline, se ora non intervenisse a turbare la pubblica coscienza una cauta censura della Chiesa - che sarà però ben presto superata perché è da quel dì che gli italiani, e i buoni cristiani in genere, vanno a mignotte anche se il parroco dice che non si dovrebbe.

Allora perché dedicare a questi allarmi un numero de 'L'espresso' se sappiamo che esso arriverà a chi di questi rischi della democrazia è già convinto, ma non sarà letto da chi è disposto ad accettarli purché non gli manchi la sua quota di Grande Fratello - e di molte vicende politico-sessuali sa in fondo pochissimo, perché una informazione in gran parte sotto controllo non gliene parla neppure?

Già, perché farlo? Il perché è molto semplice. Nel 1931 il fascismo aveva imposto ai professori universitari, che erano allora 1.200, un giuramento di fedeltà al regime. Solo 12 (1 per cento) rifiutarono e persero il posto. Alcuni dicono 14, ma questo ci conferma quanto il fenomeno sia all'epoca passato inosservato lasciando memorie vaghe. Tanti altri, che poi sarebbero stati personaggi eminenti dell'antifascismo postbellico, consigliati persino da Palmiro Togliatti o da Benedetto Croce, giurarono, per poter continuare a diffondere il loro insegnamento. Forse i 1.188 che sono rimasti avevano ragione loro, per ragioni diverse e tutte onorevoli. Però quei 12 che hanno detto di no hanno salvato l'onore dell'Università e in definitiva l'onore del Paese.

Ecco perché bisogna talora dire di no anche se, pessimisticamente, si sa che non servirà a niente.

Almeno che un giorno si possa dire che lo si è detto


 

di Marco D'Eramo
Uno stanco rituale

Se continua così, quando un leone scapperà dallo zoo di Pechino, noi italiani saremo indotti a chiederci con ansia: «Ma per Berlusconi questa notizia è buona o cattiva?». È infatti straordinario come ci si possa scannare, insultare, ghignare su temi ineffabili quanto il sesso degli angeli (chiacchierato almeno quanto quello del nostro anziano premier).
Già di per sé infatti il G8 è un involucro vuoto, obsoleto residuo di un passato coloniale, che non corrisponde alla scala di potere del pianeta dove nulla può essere deciso senza Cina, India, Brasile.
I leader europei più realisti lo sanno benissimo e la cancelliera tedesca Angela Merkel propone da mesi di eliminare il G8 e riversare tutte le discussioni nel G20, dotandolo di poteri decisionali. Già ora il G8 rispecchia solo nelle forme e solo nel primo giorno il numero 8 (che è 2 al cubo), mentre già da tempo gli osservatori internazionali sostengono che in realtà quel che conta è il G2, cioè il vertice tra Usa e Cina.
Ma c'è di più: questo stanco rituale non riesce a conseguire neanche gli obiettivi che si era prefisso. E i leader delle grandi potenze, gli uomini «più potenti del mondo», alzano inermi bandiera bianca sul tema del riscaldamento globale e aspettano fatalisti la catastrofe ambientale prossima ventura. Ci ammanniranno certo le buone parole che concludono tutti i vertici di questa terra: non ci saranno risparmiati commossi impegni di aiuto al Terzo mondo (che, se avesse ricevuto un centesimo per ogni promessa sbandierata, nuoterebbe ormai nell'oro). Sulla crisi ci diranno che stiamo sulla buona via, il peggio è passato, ma il meglio ancora non si vede e ci aspettano ancora lacrime e sangue. Ma niente paura: il lieto fine trionferà. Le decine (forse centinaia) di milioni di disoccupati provocati dalla recessione sono una triste fatalità, come le tendopoli sulla piana di Novelli.
A questa doppia vacuità, per quanto ci riguarda, si sovrappone la patetica irrilevanza della vecchia preoccupazione che da sempre domina la commedia all'italiana e che Alberto Sordi così formulava: «Ma che figura ci faremo con gli stranieri?». Con tutti a disquisire sui comunicati della delegazione Usa, sulle singole parole del presidente Barack Obama, persino sulle biografie distribuite dall'Ufficio stampa della Casa bianca.
A confronto, i capziosi sofismi dei retori della Magna Grecia ci paiono di una concretezza brutale: l'apprezzamento (di prammatica) degli Usa per l'Italia - paese ospitante - sarà o no una «stampella per Berlusconi»? Al contrario, la stringata biografia (7 righe) del nostro ineffabile primo ministro sarà invece una «sconfessione velata» (in confronto alle tre pagine dedicate al presidente Giorgio Napoletano)?
L'unico aspetto davvero evocativo di questo vertice aquilano è quindi quello metaforico: se la crisi ha colpito il pianeta come il terremoto ha devastato l'Abruzzo, allora siamo tutti sfollati della recessione e possiamo tutti fare nostra l'incontrovertibile affermazione: «Yes, we camp».

 

di Angela Pascucci
XINJIANG

Lo smacco di Hu Jintao

Una decisione di buon senso, quella presa dal presidente Hu Jintao di rinunciare a partecipare al G8 e rientrare a Pechino, dove presumibilmente i vertici cinesi sono riuniti in permanenza per fronteggiare la crisi nello Xinjiang. Eppure quella partenza precipitosa equivale a un grave smacco, una «perdita di faccia», per la leadership cinese che aveva fatto della presenza ai vertici internazionali una conferma del ruolo di nuova potenza globale senza la quale nessuna delle grandi questioni che affliggono il pianeta può essere affrontata e risolta.
Vero è anche che le immagini della più alta carica della Repubblica popolare a spasso per i fori romani o impegnata in colloqui non certo urgenti con le autorità italiane o portoghesi (Lisbona avrebbe dovuto essere la tappa successiva all'Italia) sarebbe stata controproducente in un momento di emergenza nazionale. Le dinamiche interne del potere cinese sono insidiose e la spaccatura al vertice tra il presidente Hu e il premier Wen Jiabao su una serie di questioni, a partire dalla gestione dell'economia, è uno degli argomenti preferiti di quei cinesi che sanno, o pensano di sapere, cosa accade dietro i portoni serrati di Zhongnanhai, la cittadella del potere a ridosso della Città proibita.
Le ragioni non mancavano dunque per spingere quello che è anche il capo della Commissione militare centrale, quindi la suprema autorità delle forze armate, a fare ritorno in patria quanto prima. E tuttavia resta la constatazione che una simile decisione poteva essere presa solo davanti a una situazione di estrema gravità.
Ieri le autorità locali hanno affermato che a Urumqi militarizzata la situazione è finalmente «sotto controllo». Ma chi può crederci stante che la dinamica degli scontri resta misteriosa e che, dopo ormai quattro giorni dall'inizio della battaglia, è ancora impossibile sapere che cosa sia davvero accaduto, a quali gruppi etnici appartenessero i morti e quanti ce ne siano davvero stati (c'è un abisso, al solito, tra le cifre ufficiali e quelle dell'opposizione uigura ma anche quella minima, 156 morti, data dal governo, resta una cifra enorme se si considera che si sono verificate in un solo giorno di scontri, mentre appare assai improbabile che i sanguinosi scontri all'arma bianca che si sono susseguiti non abbiano provocato altre vittime). Tutto appare strano, persino il fatto che l'apparato di sicurezza cinese in una zona considerata ad alto rischio sia stato colto di sorpresa dal deflagrare degli scontri. Era avvenuto anche a Lhasa, l'anno scorso, quando le prime ore di rivolta avevano trovato le truppe cinesi impreparate, tanto da non poter arginare l'attacco agli han che aveva segnato l'avvio della sollevazione tibetana.
Quel che accade adesso sotto gli occhi di tutti però è chiaro: la scintilla ha appiccato il fuoco a una prateria arida che continua a bruciare. Le autorità cinesi hanno di che riflettere e preoccuparsi. Stavano tirando il fiato, perché in un anno di anniversari «sensibili», tutto era passato liscio, persino il ventennale del massacro di Tian'anmen, e si preparavano a celebrare trionfalmente i 60 anni dalla fondazione della Repubblica popolare. Invece si è materializzato l'incubo uiguro, agitato forsennatamente prima delle Olimpiadi, e non con spaventosi attentati ma con una vera ribellione, seguita da un'ancora più inaspettata reazione incendiaria dell'etnia che teoricamente dovrebbe essere sotto il loro controllo. E' il momento che i vertici cinesi guardino al proprio interno per capire anche l'esasperazione dei loro governati.
Il 2008 è stato un anno di svolta, per la Cina, ma la leadership non sembra averlo capito. La rivolta tibetana, i successivi attacchi alla fiaccola olimpica che hanno suscitato la reazione indignata e specularmente violenta dei cinesi, anche all'estero; lo shock del terremoto nel Sichuan (cheha suscitato anche un'ondata di partecipazione popolare infrantasi poi contro il muro del controllo innalzato dalle autorità), lo stesso orgoglio olimpico. Tutto questo ha dato il via a un mix di dinamiche di tipo nazionalistico, o comunque identitarie, la cui configurazione è ancora in pieno svolgimento. E se il governo centrale può averne tratto finora motivo di rassicurazione, potrebbe presto accorgersi di qualche amaro risvolto.


 

8 luglio

 

G8, Grande fratello
Loretta Napoleoni

Due giorni prima dell’inizio del G8 il Presidente Obama firma a Mosca un accordo storico, le immagini, che fanno il giro del mondo, sembrano un de-ja-vu della Guerra fredda. All’Aquila il sindaco denuncia la mancata ricostruzione, si domanda che fine hanno fatto I soldi promessi e mai arrivati e parla di una città in rovina, che teme una diaspora dei terremotati, mandati a vivere in altre città e in altre regioni. I giornali esteri, con il Guardian in testa, quegli stessi quindi che solo tre mesi fa osannavano il governo Berlusconi per la risposta rapida ed efficiente al terremoto, adesso lo deridono per la scelta dell’Aquila. Hanno scoperto che è ancora una tendopoli. Cosa lega il processo di denuclearizzazione, i terremotati abruzzesi e la facilità con la quale i media cambiano opinione riguardo al nostro paese? Il G8.
I motivi per i quali il presidente russo e quello americano si sono incontrati prima del G8 sono gli stessi che alimentano la denuncia del sindaco dell’Aquila e le critiche dei giornali: questo evento è solo mediatico e le promesse che elargisce sono quelle dei marinai. Questa settimana Kofi Annan l’ha ricordato in una lettera a Berlusconi dove accusa l’Italia di non aver raddoppiato gli aiuti all’Africa come stabilito a Gleneagle, al G8 del 2005, ma di averli dimezzati. A che scopo incontrarsi quattro anni dopo all’Aquila per discutere degli stessi problemi? Questa la domanda provocatoria di Annan.
Il G8 ormai serve solo a soddisfare gli istinti voyeristici degli abitanti del villaggio globale, è il Grande Fratello della politica. Da incontro informale, senza protocollo, dove i potenti del mondo potevano parlarsi guardandosi negli occhi e sondare opinioni e intenzioni reciproche, è diventato la mecca dei paparazzi, pronti a scattare foto da gita scolastica come quelle dell’ultimo G20: Berlusconi che fa cucù tra Obama e Medvedev, la Merkel che lo sgrida perché è al telefonino. D’altronde perché meravigliarci? Da anni la politica va a braccetto con il mondo dello spettacolo, anzi fa spettacolo. A Greneagle, Tony Blair invita un ex cantante punk, Bono, ed un mediocre cantante pop, Bob Geldof, per risolvere i problemi dell’Africa. Il G8 si è trasformato in un evento rock.
Quest’anno la stampa mondiale si aspetta grandi cose da Silvio Berlusconi, lo show man, il grande comunicatore, ma poco dall’uomo di Stato. L’evento mediatico oscura quello politico al punto da farci dimenticare il motivo per il quale si tiene il G8 all’Aquila: la crisi economica e il terremoto. Macerie su macerie, quindi. Peccato, perché l’Italia una proposta di riforma del sistema economico e finanziario la presenta: a prescindere dai contenuti che conosceremo nei dettagli nei prossimi giorni, è un primo passo importante per uscire dalla nebulosa delle politiche recessive improvvisate da ogni paese. Ma, a giudicare dall’agenda, lo spazio riservatole è minore di quello per le foto di gruppo e i convivi, meno di due ore, frazione infinitesimale delle tre settimane trascorse a Bretton Woods per ridisegnare il sistema monetario mondiale. Allora tutto avveniva a porte chiuse, lontano dagli occhi del mondo, ma si sa: allora il Grande Fratello non esisteva.

PARTITO DEL SUD: IL GRANDE INGANNO

 di Agostino Spataro

 Si torna a parlare di “partito del Sud” come la panacea di tutti i mali che affliggono le regioni meridionali e come contrappeso al “partito del Nord”, (la Lega) che farebbe man bassa di finanziamenti anche di pertinenza del sud.   

Il problema esiste, ma non può imputarsi al solo Bossi ma a tutta la corte del Pdl che gli tiene bordone. A cominciare dalla “guida suprema”.

Nei giorni scorsi ne ha parlato il sottosegretario Micciché del Pdl che s’atteggia come uno che non è mai entrato nel nuovo partito di Berlusconi e Fini.

E come a voler rassicurare i perplessi ha sottolineato che dietro di lui c’è il sen. Dell’Utri. 

Quanto rassicuri o inquieti la “buona novella” è questione di punti di vista.

Sappiamo, inoltre, che a tale ipotesi pensano anche alcuni governatori in affanno tra cui quelli della Sicilia e della Campania.  

E’ probabile, dunque, che nei prossimi mesi saremo costretti ad occuparci del “partito del sud” ovvero di un espediente velleitario che, se attuato, potrebbe rivelarsi per le regioni meridionali più dannoso del governo Berlusconi che invece di dare prende dal Meridione.

Non a caso, l’idea nasce nel vivo di una crisi acuta che evidenzia i limiti e gli errori di un’impostazione politica subalterna al gran capo e agli interessi personali e sociali che rappresenta.

Un coacervo d’interessi, largamente concentrati al nord, dove non c’è spazio per questo generoso Sud che si è svenato per mantenere al potere la più ingorda coalizione nordista che si ricordi nella storia repubblicana.

Alla quale- non bisogna dimenticare- il centro-destra ha consegnato di recente un’arma micidiale, il federalismo fiscale, puntata contro il sud e la Sicilia.

 Questione meridionale o dualismo meridionale?

Perciò, la gente, soprattutto nel mezzogiorno, comincia ad essere nervosa, stanca di attendere, con le mani vuote, che chi ha fatto il pieno di voti gliene renda conto.

E questi, non sapendo che dire, ecco farsi venire l’idea del “partito del sud” da contrapporre al malefico “partito del nord” col quale- per altro- sono state strette alleanze elettorali anche nel Sud e in Sicilia e col quale tuttora si collabora al governo del Paese.

A me sembra un diversivo, una trovata per a tirare a campare per un altro paio di legislature e, al contempo, evitare all’esercito di ministri, sottosegretari, parlamentari di spiegare ai  meridionali la loro passività politica che ha sacrificato i voti e le speranze del Sud sull’altare dell’accordo Berlusconi - Bossi.

Ma entriamo nel merito di questa “idea” ondivaga, fumosa che nemmeno i suoi fautori sanno definire.

Comincio con una domanda provocatoria, ma non troppo: esiste ancora una questione meridionale?

Sicuramente non più nei termini e nelle dimensioni di come è stata individuata e teorizzata dall’unità d’Italia in poi e, più segnatamente, nell’ultimo mezzo secolo.

Diversi indicatori economici dicono che fra le otto regioni meridionali è in atto un processo di divaricazione che presto potrebbe portare ad una sorta di “dualismo meridionale”.

Nel senso che almeno quattro regioni (Sardegna, Abruzzo, Molise, Basilicata), seguite dalla Puglia, potrebbero, economicamente, fuoriuscire dal Mezzogiorno, mentre Sicilia, Calabria e Campania, buon ultime, resterebbero a testimoniare l’esistenza dell’antico problema.

Restano, cioè, ferme le regioni più segnate dalla “trimafia” (mi si passi il neologismo) col rischio che taluni sprovveduti potrebbero far coincidere la residua questione meridionale con la questione criminale.    

La somma di più debolezze fa una più grande debolezza

Curiosamente, è in queste regioni che più s’insiste per creare un “partito del sud” da contrapporre al “partito del nord”.

Provate a immaginare questa nostra, cara Italia, preda delle lotte feroci di due partiti populisti e impastati di razzismo egoista, come potrà stare dentro una moderna Europa destinata a volgere verso la sua unione politica ed economica. Che barbarie!

Ma in concreto cosa potrebbe essere il partito del sud?

Così come immaginato dai suoi fautori vorrebbe dire l’unione di tante debolezze in una.

Ovvero il fiasco. Giacché, la somma di più debolezze non fa una grande forza ma una più grande debolezza.

Se oggi il nord prevale non è perché ci sono Bossi e le sue camice verdi, ma perché in questa lunga transizione (dalla prima alla seconda Repubblica) a Roma non ci sono stati governi capaci di garantire la solidarietà nazionale e quindi un’equa distribuzione delle risorse e di frenare la bramosia dei centri fondamentali del potere economico e finanziario che si trovano al nord.  

Poteri forti che per realizzare i loro disegni hanno “lanciato” Berlusconi e gonfiato il partitino di Bossi. Tutto ciò non può essere scambiato per il “partito del nord” che non c’è.

In realtà, la Lega nord è un movimento xenofobo, che si alimenta di un certo disagio sociale (in gran parte gonfiato ad arte), voluto da certi gruppi economici del nord con l’obiettivo d’indebolire, condizionare lo Stato democratico.

Basti ricordare che uno dei primi importanti finanziamenti “coperti” in favore della Lega fu elargito dalla Montedison.

In particolare, la Lega porta la tremenda responsabilità d’avere infranto il principio della solidarietà nazionale ed ha in programma d’infrangere, col pieno accordo di Berlusconi e soci, altre solidarietà fondamentali come quella umana che è alla base di ogni degna civiltà. Rilevato ciò, non possiamo però assolvere le gravissime responsabilità dei ceti dominanti meridionali per avere trascinato il Sud nella spaventosa crisi attuale. Anzi, prima d’andare a cercare nemici esterni, bisognerebbe individuare e combattere quelli interni al Mezzogiorno. Che sono tanti.

 Non si deve imitare la Lega di Bossi

Tuttavia – insisto- la Lega non è il partito che esprime davvero lo spirito del Nord italiano, ma è solo uno strumento usato da chi vuol condizionare maldestramente la vita democratica e il governo del Paese. Un giochino avventuroso, pericoloso, anche per i veri interessi del Nord, destinato a fallire. Perciò, ritengo che non si debba imitare la Lega di Bossi.

Il Sud italiano ha tanti problemi irrisolti, ma avrebbe anche le idee per trovare le soluzioni, ma non può scendere ad un livello culturale pre-politico, razzista.

Qui sono fiorite, e da qui trasmesse, le più grandiose civiltà mediterranee. Fra Palermo e  Napoli, fra Melfi e la terra di Puglia nacquero, per merito dell’illuminato, e laico, imperatore Federico II, l’idea e i primi rudimenti giuridici della moderna Europa.

Certo, oggi, siamo poveri, mal governati, emarginati per colpa di un ceto dominante subalterno agli interessi illeciti ed affaristici, tuttavia riusciamo a conservare una condizione di vita più a misura d’uomo, a coltivare sentimenti altrove smarriti o confusi con pessimi valori venali.

Il razzismo egoista non ci appartiene e desideriamo che se ne liberino anche quelle aree infettate da questo virus letale iniettato da chi vuol dividere i popoli, i lavoratori per dominarli.   

In conclusione. I problemi del Sud e della Sicilia non si possono risolvere creando nuovi partiti territoriali, ma rimettendo al centro della programmazione e della spesa la nuova questione meridionale così come si va configurando nelle sue relazioni con l’Europa e il Mediterraneo.

C’è necessità di progetti, idee innovative, d’investimenti leciti e non di nuovi capetti populisti e clientelari che andranno a Roma, con la coppola in mano, a questuare o a minacciare (che cosa?).

La Sicilia e il mezzogiorno hanno bisogno di partiti veramente democratici, nazionali e sovranazionali, capaci di portare una ventata d’aria fresca che prosciughi il mefitico pantano dell’affarismo e della sopraffazione.

                                          Agostino Spataro

 * testo ampliato rispetto a quello pubblicato in “La Repubblica” del 4/7/2009

 

 

3 luglio

 

Relazioni pericolose

Il fatto. In una sera di maggio si incontrano a cena due giudici costituzionali, il premier, il sottosegretario alla presidenza del consiglio, il ministro della giustizia, i presidenti delle commissioni affari costituzionali di camera e senato. Il luogo è la casa di uno dei giudici costituzionali. Si discute, tra l'altro, la prospettiva di una radicale riforma della giustizia, volta a ridisegnare in specie la figura del pubblico ministero, non più magistrato. Nei giorni successivi circola una bozza di riforma costituzionale in tal senso, si dice ispirata da uno dei giudici presenti alla cena. E tra non molto la corte deciderà sul lodo Alfano, che impedisce per la durata del mandato di sottoporre il presidente del consiglio a giudizio, o di proseguire i giudizi in corso. Di tutto, la stampa dà notizia.
Il diritto. Interpellato, il giudice ospitante risponde con parole sprezzanti che in casa sua invita chi gli pare. E comunque un giudice costituzionale incontra politici di ogni calibro e colore. Da ultimo, invia al presidente del consiglio una lettera aperta - come tale rivolta al popolo italiano - in cui ribadisce anzitutto il «diritto umano» di invitarlo a cena, e di vederlo «insieme a persone a me altrettanto care e conversare tutti insieme in tranquilla amicizia». Ovviamente, le notizie di stampa sono «frottole» raccontate a «ignari lettori». Il tutto condito con ampi riferimenti alla libertà e alla democrazia.
Tutti argomenti privi di sostanza.
Partiamo dai fondamentali. La corte costituzionale è il principale organo di garanzia del sistema. Deve essere - e mostrare di essere - assolutamente autonoma e indipendente. Di mestiere, la corte si contrappone al legislatore, quando valuta la conformità a Costituzione di una legge. Se la legge è recente, si contrappone anche alla maggioranza politica del momento. Da qui la necessità che nessuna contiguità ci sia o appaia tra i giudici e chi ha poteri formali o sostanziali nella formazione della legge. Anzitutto, i titolari - come il presidente del consiglio o un ministro - dell'iniziativa legislativa del governo. Ovvero i presidenti di commissione, che sono il braccio armato della maggioranza. Ancor più quando si discute di temi che direttamente toccano i potenti. Ed in specie quando liste bloccate e scelta oligarchica dei parlamentari rendono le assemblee legislative un obbediente parco buoi. Più è asservito il parlamento, più indipendente e autonoma deve essere la corte in difesa della Costituzione. E la notte della Repubblica che viviamo preclude a un custode della Costituzione - come la corte - opinioni e suggerimenti su eventuali e stravolgenti riforme della stessa Costituzione.
Né vale l'argomento che tra giudici e politici il contatto è inevitabile. Altro è se il giudice incontra il politico in una occasione istituzionale, o a casa di amici che hanno invitato entrambi. In tal caso il giudice si trova in una situazione che non ha contribuito a determinare, non avendo in alcun modo scelto i partecipanti. Nulla gli può essere imputato, ad esempio, se incontra il presidente del consiglio a un ricevimento del Quirinale.
Diversamente, nel caso di una cena a casa del giudice. L'argomento «a casa mia invito chi voglio» diventa decisivo. La libertà del domicilio rende la scelta dell'invitato rilevante: si potrebbe decidere di non invitarlo. Dunque si è responsabili della scelta degli invitati. Si risponde di una scelta per qualsiasi motivo inappropriata.
Chi può escludere che siano state scambiate assicurazioni sul futuro voto dei due giudici per il lodo Alfano? Non sfugge a nessuno che solo la sentenza della corte separa Berlusconi dalla ripresa dei processi a suo carico. Né sfugge che già la prima sentenza - quella sul lodo Schifani - non fu particolarmente incisiva sul principio di eguaglianza. Il voto di due giudici potrebbe alla fine determinare una maggioranza, e quindi la decisione della corte.
Stupisce che dell'accaduto si sia parlato - in fondo - poco. Qui non è questione di tregua per il G8. Non di bassa cucina si tratta, ma della salute delle istituzioni. E dov'è la torma di opinionisti e costituzionalisti veri o presunti che di norma intasa carta stampata e talk show? Conformismo e autocensura calano sul paese. Non si considera che l'etica pubblica pone parametri più stringenti di quelli giuridici. Non si vuole vedere che il privato dei potenti ha spesso un rilievo pubblico. E si richiama a sproposito la privacy, dimenticando che in paesi di più solida democrazia rispetto al nostro si ritiene che per le figure pubbliche debba prevalere l'informazione. Leggi in itinere apprestano bavagli per la stampa e la magistratura, quando le cronache dimostrano l'assoluto bisogno del contrario. Alla fine, accade in Italia quel che altrove sarebbe impensabile.
Per questi motivi la cena de qua, e la lettera che ad essa ha dato seguito, sono gravemente lesive del ruolo della corte costituzionale, e pericolose per la Repubblica.

 

Sovversione di Stato

In un paese normale non dovrebbe stupire la richiesta di condannare Gianni De Gennaro per le falsità dette e per quelle che ordinò di dire ai suoi sottoposti sulla razzia poliziesca del 20 luglio 2001 alla scuola Diaz di Genova. Invece qui da noi rischia di essere considerato un caso esemplare. Per la rilevanza e la storia di chi è alla sbarra, ma anche per il rigore con cui è stata condotta un'inchiesta che proprio lo stesso imputato ha cercato in tutti i modi di svuotare, utilizzando il proprio potere.
Del resto è anche vero che qui da noi di normale non c'è nulla, dalla macelleria genovese di nove anni fa ai tentativi di ricondurre la magistratura a una dependance dell'esecutivo e degli apparati di cui si circonda.
Gianni De Gennaro - capo della polizia nel 2001, poi promosso a capo Gabinetto del Viminale, infine tra i massimi dirigenti dei servizi segreti - è uno degli uomini più potenti d'Italia. La sua carriera ha attraversato governi di colore diverso, la sua scalata ai vertici dello Stato non ha conosciuto freni. Certamente possiede una grande professionalità, sicuramente conosce tutto di tutti quelli che contano, senza dubbio sa usare le informazioni in suo possesso e muoversi bene nelle stanze del potere. Insomma, non è l'ultimo arrivato, anzi. Eppure nel tentativo di depistaggio del processo che ne metteva in discussione l'agire durante il G8 di Genova e sotto accusa i suoi più stretti collaboratori, si è mosso come un elefante in un negozio di porcellane. Come se avesse da difendere ben di più che se stesso o l'onorabilità propria e del Corpo.
Da capo dei poliziotti ha ordinato ad altri poliziotti di mentire per evitare che emergessero le sue responsabilità «politiche» nella mattanza della Diaz. Che non fu solo un atto di violenza gratuita o una «lezione» da impartire a una generazione per convincerla - con le cattive - a non occuparsi più dei destini propri e del mondo, a starsene a casa. Ma che fu pure la pratica di un obiettivo prodomo di un progetto: la messa a regime dell'indipendenza delle forze dell'ordine rispetto all'organismo che - invece - dovrebbe lui sì essere indipendente, la magistratura. Vale la pena di ricordare come l'irruzione notturna alla scuola Diaz fu un atto criminale anche perché fatto al di fuori delle minime regole del diritto: nessun magistrato era stato avvisato, la polizia agì autonomamente, appropriandosi del potere d'arresto e di persecuzione penale. Cosa che il nostro ordinamento non prevede, cosa che rovescia i dettami costituzionali, come se un regime presidenziale prendesse il posto di uno parlamentare.
Fu una sovversione di stato. Che poi De Gennaro - con la copertura di tutti i governi che ne hanno scandito l'irresistibile carriera - cercò di coprire con l'eversione istituzionale della menzogna come ordine di servizio.
Sono passati quasi nove anni. Durante i quali la democrazia è dovuta arretrare lasciando spazio al populismo e all'autoritarismo. Le debolezze della sinistra, le sue subalternità, ne portano parte delle responsabilità; l'ascesa e la crisi del liberismo hanno avuto un ruolo. Ma le pratiche dispotiche che sono riuscite a diventare egemonia nella società italiana hanno trovato negli apparati dello stato delle sponde straordinarie. Ora - alla vigilia di un nuovo G8, mentre l'accumulo di potere in poche mani assume caratteristiche da fine impero - la richiesta di condanna per uno dei protagonisti di quella deriva autoritaria può aprire due strade diverse e opposte tra loro: ristabilire un punto di diritto, se l'imputato sarà trattato come un «comune cittadino»; sprofondare nel verminaio delle lotte di potere, se la sua eversione istituzionale troverà il conforto di una «considerazione speciale.

 

L'agente è gay? Va punita

di Paolo Tessadri
Ha dichiarato di essere lesbica. Ha denunciato le discriminazioni subite. Ha sfilato al Pride. E ora il questore di Padova vuole il suo licenziamento


Il giorno prima aveva sfilato con altri 150 mila contro le discriminazioni sessuali al Gay Pride di Genova. Una volta ritornata a casa però ha trovato ad attenderla la lettera del suo 'capo', il questore di Padova, Luigi Savina, con cui si avvia la pratica della sua destituzione dalla Polizia. Luana Zanaga, 39 anni di Rovigo, in forza alla polizia patavina, nei mesi passati ha fatto coming out, rivelando pubblicamente la propria omosessualità. E da ottobre dello scorso anno, da quando ha reso pubblica la sua tendenza sessuale, per lei è cominciato un calvario. Dapprima è stata 'processata' da una commissione di disciplina, che ha proposto di punirla con una sospensione dal servizio 'fino a sei mesi'. Ma ora, forse, non farà nemmeno in tempo a scontare quella sanzione, perché è arrivata la nuova tegola: la destituzione. Che nei fatti significa licenziamento.

Il questore Savina nega che nel provvedimento si parli di licenziamento, ma non dice quale punizione intende infliggere all'agente Zanaga. Infatti con la lettera si è solo avviata la pratica di contestazione degli addebiti, mentre i provvedimenti adottati verranno resi noti solo successivamente. A parlare apertamente di destituzione è invece il funzionario incaricato di seguire il caso per conto del questore. E Savina infatti scrive che non è più sufficiente la sola 'deplorazione' con la conseguente sospensione. D'altra parte in questi giorni Luana Zanaga si è anche sentita rivolgere l'accusa di essere pericolosa. Perché, come è scritto espressamente nella lettera del questore Savina, alla fine di maggio ha rilasciato delle dichiarazioni, senza autorizzazione a 'L'espresso', riportate nell'articolo 'Agente gay a rapporto' e poi riprese dal sito Dagospia. Nell'articolo l'agente gay diceva di vivere in un ambiente omofobico, di aver subito il mobbing e di essere stata sottoposta a vessazioni. Come successe anni fa, quando la costrinsero ad andare dal medico per attestarne l'idoneità visto che era omosessuale. "Mi chiedevano se stavo bene con la mia omosessualità e io rispondevo che stavo benissimo", accennava nell'articolo.

Per il capo della Questura di Padova queste accuse sono fortemente denigratorie e portano discredito alla Polizia. Nessun cenno invece, nella lettera, agli altri giornali, riviste e tv che hanno riferito della poliziotta. O alla solidarietà manifestatale dal presidente della Camera, Gianfranco Fini. Pubblicazioni uscite nello stesso periodo e anche successivamente.

Più che per le dichiarazioni dell'agente Zanaga, viene il sospetto che l'infrazione più grave sia aver parlato con il nostro giornale. Invece di approfondire e verificare le accuse della poliziotta sull'ambiente omofobico, si preferisce rimuovere chi solleva dubbi e parla di discriminazioni. Nessuno, infatti, ha chiesto all'agente di portare le prove delle sue accuse. Una denuncia, la sua, circostanziata, precisa e grave, come nel caso dei due poliziotti che le scrissero che doveva "bruciare in un lager". Dunque non c'è stato accertamento della verità, ma è comunque in arrivo una punizione esemplare perché ha parlato.

Così Luana Zanaga rischia di veder svanire il sogno di una vita, cioè fare la poliziotta, solo perché difende e rivendica la propria sessualità.
 

Le candidate di papi

di Marco Lillo
Ronzulli, Matera, Comi. Prima nelle residenze del Cavaliere tra escort e ballerine, poi elette al Parlamento europeo. Ecco come si sceglie la nuova classe politica

La festa a villa La Certosa
Tutte sono passate per villa Certosa e palazzo Grazioli. Sia le bad girls, Patrizia D'Addario e Barbara Montereale, che le angeliche Licia Ronzulli, Barbara Matera e Lara Comi. Tutte hanno partecipato alle feste leggendarie del Cavaliere ma solo poche fortunate (Ronzulli, Matera e Comi) sono arrivate all'Europarlamento.

Per cinque anni avranno uno stipendio garantito di 20 mila euro con assistenti e benefit a disposizione. Mentre le due protagoniste del sexgate barese, Patrizia D'Addario e Barbara Montereale, si sono dovute accontentare di un posticino in una lista apparentata al Pdl che correva per le comunali di Bari.

Dopo aver fallito l'elezione hanno deciso di raccontare tutto a stampa e magistratura. A unire mondi così diversi in uno scenario unico però non sono stati i pm e i giornalisti ma Berlusconi in persona. È stato lui a ospitare contemporaneamente volontarie in partenza per il Bangladesh e ragazze di ritorno da una trasferta a Dubai con lo sceicco.

Nemmeno il più fervido sceneggiatore della commedia italiana avrebbe potuto immaginare a villa Certosa una comitiva che include la direttrice sanitaria destinata all'Europarlamento, Licia Ronzulli, e la mangiatrice di fuoco Siria De Fazio, più nota come la 'lesbica del Grande fratello'. Senza controllo e senza filtro, tutte hanno avuto il privilegio di entrare nelle dimore del sultano. Le bocconiane, come Lara Comi, ma anche le escort da duemila euro a notte come Patrizia D'Addario.

Persone e storie totalmente diverse che dovevano restare distinte e che invece sono state mescolate nel gran frullatore impazzito delle candidature 2009. A imbastire questa matassa che lega insieme manager, letteronze, annunciatrici, dirigenti e stelline dei reality ha contribuito l'incapacità del premier di distinguere pubblico da privato, dovere da piacere, festa e politica. Le protagoniste delle riunioni e delle cene, con le loro bugie e i loro silenzi, hanno fatto il resto.

Paradossalmente a parlare sono le escort. Mentre le ragazze 'serie' restano silenziose. E se parlano dicono bugie. La migliore allieva del Cavaliere da questo punto di vista è certamente Licia Ronzulli. Questa infermiera 34enne ha raccolto oltre 40 mila preferenze nel nord-ovest grazie anche alle indicazioni che provenivano da Roma. I coordinatori locali dicevano che se non fosse stata eletta, avrebbero perso il posto.

Quando 'L'espresso', la settimana scorsa, le ha chiesto cosa facesse sulla barca di Berlusconi il 14 agosto 2008 con altre sei giovani che non hanno nulla a che fare con la politica, lei ha risposto: "Sbaglia, non ci sono io. Ci sono tante ragazze more. Mai stata a villa Certosa. Cado dalle nuvole".

Finché un'altra amica e ospite del Cavaliere, Barbara Montereale, l'ha smentita su 'Repubblica': "A metà gennaio 2009 sono stata accolta a villa Certosa da Licia Ronzulli. È lei che organizza la logistica dei viaggi delle ragazze. Che decide chi arriva e chi parte e smista nelle varie stanze".

Invece di dimettersi all'istante l'europarlamentare-receptionist ha vergato un comunicato per annunciare querela confermando en passant che la sua parola non vale nulla: "Più di una volta, in occasione di vacanze, sono stata ospite a villa Certosa con mio marito". Del quale nelle foto non c'è traccia.

Prodiga di particolari sulle sue umili origini nel quartiere Baggio di Milano, sulla passione per il Milan, sul papà maresciallo dei carabinieri e sulle sue attività di volontariato, Ronzulli non ha mai spiegato perché sia stata incaricata dal premier di ricevere un tipino come Barbara Montereale, una ragazza madre di 23 anni pagata per mostrarsi carina con gli ospiti del Billionaire che non si tira indietro se c'è da accompagnare l'amica escort in trasferta sul panfilo dello sceicco.

Spedita in villa dall'imprenditore barese Giampaolo Tarantini, indagato per induzione alla prostituzione, è prima apprezzata da Emilio Fede, poi sistemata da Licia Ronzulli e infine gratificata dal Cavaliere con una busta con dentro diecimila euro. Montereale, che dice di non avere avuto rapporti sessuali con il Cavaliere, riconosce tra le ospiti del premier anche Carolina Marconi, reduce del Grande fratello, e Susanna Petrone, conduttrice del calcio su Mediaset. Ed è un'altra strana coincidenza.

Pochi mesi prima, il 14 agosto sulla barca del premier ritroviamo la Petrone accanto alla solita Ronzulli e alla futura protagonista del reality Mediaset: Siria. Tutte e tre all'epoca non erano note al grande pubblico. Pochi mesi dopo quella gita diverranno tutte famose ciascuna nel proprio settore.

Se si può sorvolare sui criteri di selezione delle reti televisive berlusconiane (Siria è stata segnalata agli autori del Gf dalla segreteria del premier) non si può fare lo stesso con le elezioni. Le candidature non sono casting e l'Europarlamento non un reality né tanto meno un luogo da escort, come farebbe pensare la storia raccontata da Patrizia D'Addario. La donna che ha passato la notte del 4 novembre 2008 sul lettone donato da Putin a Silvio Berlusconi, ha raccontato che pochi mesi dopo le sarebbe stata ventilata dal solito Tarantini una candidatura alle europee.

Nonostante non avesse mai nascosto di avere registrato le sue trasferte romane e nonostante tutti sapessero quale fosse il suo mestiere. Patrizia, dopo l'intervento di Veronica Lario, non è poi stata candidata per Bruxelles ma solo per le comunali con la lista 'Puglia prima di tutto', ora confluita nel Pdl.

Scelte come queste gettano un'ombra anche su candidature limpide come quella di Lara Comi. Anche lei ha avuto l'onore di essere trasportata sull'aereoFininvest in Sardegna? 'L'espresso' pubblica una serie di foto scattate il 14 ottobre 2006 all'aeroporto di Olbia nelle quali appare una donna mentre scende dal jet di Berlusconi a lei molto somigliante. Il contesto però è ben diverso dalle foto in barca. La ragazza è in compagnia di altre giovani azzurre e sembra diretta a una riunione politica non a una convention di veline.

Lara Comi, a 26 anni può vantare una laurea in Bocconi con il massimo dei voti e un impiego da manager alla Giochi preziosi, nessuno può accomunarla a una velina o a un'esperta di 'logistica'. Probabilmente il presidente l'ha aiutata a raggranellare 63 mila voti perché stima questa milanista temeraria che gli si è presentata durante una partita di calcio nel giugno del 2004.

Più oscura l'origine della scintilla scoccata tra Berlusconi e Barbara Matera. L'ex annunciatrice Rai in anni non troppo lontani non stravedeva per il suo attuale mentore. Alla fine del 2003 la letteronza della Gialappa's era diventata una delle annunciatrici di RaiUno insieme a Virginia Santjust di Teulada. In quel periodo la sua collega era legata da una relazione sentimentale ('platonica', dice lei) a Silvio Berlusconi e volava spesso a villa Certosa.

Nella foto pubblicata da 'L'espresso' a pagina 43, scattata nel settembre del 2006, si vede una ragazza in bianco che somiglia molto a Virginia scendere dall'aereo con il deputato-segretario di Berlusconi Valentino Valentini. Una scena consueta in quel periodo. Quando Virginia raggiungeva Silvio a Olbia, Barbara era costretta a coprire gli annunci del week-end su RaiUno e non poteva far visita ai genitori a Lucera, in provincia di Foggia.

In quei week end solitari si racconta anche di una breve storia sentimentale con il marito separato di Virginia, l'agente segreto Federico Armati. Da allora sono cambiate molte cose. Virginia Sanjust non è più nelle grazie del Cavaliere e non se la passa bene. Barbara Matera è fidanzata con un altro agente segreto ed è diventata la giovane promessa del Pdl.

Chissà se l'europarlamentare ricorda quei giorni lontani nei quali non lesinava critiche al Cavaliere, a Virginia e alla Rai che la trattavano da brutto anatroccolo rispetto all'amica del premier. Acqua passata. Oggi Berlusconi è dalla sua parte. Nella vita, basta sapere aspettare.

 

1 luglio

L'Aquila tradita

di Riccardo Bocca
Da un lato lo spiegamento di forze e l'efficienza per il G8. Dall'altro la disperazione nelle tendopoli. Tra disagi, spaccio di droga e violenze. Mentre la terra non smette di tremare
 
 
La sede della Prefettura
Sono le sette di mattina del 19 giugno, quando una Punto bianca si ferma sul ciglio della statale 17 che attraversa L'Aquila. Al volante c'è un uomo in giacca e cravatta che spegne il motore, abbassa i finestrini e sfoglia il giornale appena acquistato. Vita quotidiana, niente di strano. Eppure all'improvviso il clima cambia, diventa teso. Dalla corsia opposta, spunta una berlina metallizzata che fa inversione inchiodando davanti alla Punto. Scende un giovane alto, palestrato, in jeans slavati e maglietta attillata. Si affianca al conducente e chiede i documenti senza qualificarsi. "Ma cosa sta succedendo? E lei chi è?", replica allarmato il conducente. "Attenda", risponde lo sconosciuto. Annota la targa della Punto, si attacca al cellulare, e infine torna con un sorriso finto: "A posto, può andare...".

L'assedio, lo chiamano gli aquilani. La soffocante militarizzazione che sta stressando il territorio in vista del G8. Migliaia di soldati, poliziotti, carabinieri, agenti dei servizi segreti e paracadutisti calati in città nelle ultime settimane. Forze operative giorno e notte. Per le strade, sulle colline. Ovunque. Tutti ossessionati dalla sicurezza dei 23 capi di Stato e di governo che, dall'8 al 10 luglio, si confronteranno con le loro delegazioni nella caserma della Guardia di finanza ?Vincenzo Giudice?. "Prevenzione indispensabile", è definita dalla Protezione civile. Ma anche una presenza che esaspera gli sfollati del post terremoto, inchiodati a tutt'altre priorità. A quasi tre mesi dall'apocalisse del 6 aprile, la terra continua a tremare. Tre punto due, tre punto tre, fino a quattro punto cinque come lunedì 22 giugno. Numeri che sulla carta dicono poco, ma da queste parti sono muri che vibrano, angoscia che non passa, riflesso a correre in strada. "Abbiamo sempre in testa l'odore delle macerie, le urla dei feriti e lo strazio dei 300 cadaveri", dice Rinaldo Tordera, direttore generale della Cassa di risparmio della provincia dell'Aquila. Lui per primo, racconta, si è faticosamente imposto di non mollare, di "annodare la cravatta e tirare avanti". Ma la volontà non basta.
Gli ostacoli sono tanti, in questo Abruzzo triste: a partire dal crollo economico. "Per la prima volta in vent'anni", informa l'Istat, "la regione segna un tasso di disoccupazione (9,7 per cento) superiore a quello italiano (7,9)". Dal 2008 al 2009 sono scomparsi 26 mila posti di lavoro. E a leggere questi dati, gli artigiani, gli operai, ma anche i manager e i professionisti ospitati dalle tendopoli tremano, sovrastati dal -14 della produzione industriale.

"Superata la prima emergenza, dovrebbe essere questa la principale preoccupazione ", dice il presidente della Provincia Stefania Pezzopane (Pd). "Dovremmo concentrarci sulle necessità pratiche e psicologiche delle 25 mila persone ancora accampate, senza dimenticare le 35 mila esiliate sulla costa adriatica". Invece non è così. Capita qualcosa di grottesco, e crudele, davanti agli occhi dei terremotati: "La città si sta spaccando in due", spiega Marco Morante del Collettivo 99 (composto da una cinquantina di giovani ingegneri, architetti e geologi aquilani). "In primo piano, sotto i riflettori, c'è l'efficentismo sfrenato per adeguare la città al G8. E intanto in penombra, trascurata della politica, cresce la frustrazione della gente comune, vittima di una quotidianità invivibile e di una ricostruzione avventata".

Parole che trovano continui riscontri, girando per l'Aquila. Basta raggiungere la caserma della Guardia di finanza, in zona Coppito, e chiedere alle imprese associate I platani e Todima come hanno realizzato la strada che collegherà la sede del G8 all'aeroporto di Preturo. "In soli 24 giorni abbiamo allargato e sistemato un percorso di due chilometri e 800 metri", dicono i titolari. Il tutto con un impiego massiccio di mezzi: "60 tra ruspe e scavatori", attivi sette giorni su sette, grazie ai quali "abbiamo costruito anche tre rotatorie e un piccolo ponte sul fiume Aterno". Il massimo, con i 3 milioni 200 mila euro stanziati dal Provveditorato alle opere pubbliche. E altrettanto apprezzabile è il rifacimento dell'aeroporto, fino a ieri snobbato per mancanza di strumentazioni, e oggi "dotato di ottimi sistemi radar e illuminazione della pista", assicura un tecnico dell'aeronautica
 
 
Insomma: basta pronunciare la parola G8 e tutto scorre, tutto funziona. "Sobrietà con efficienza", aveva promesso il capo della Protezione civile Guido Bertolaso. Ed è stato di parola. Ha affidato il coordinamento a Marcello Fiori, l'uomo che ha gestito i funerali di papa Wojtyla, puntando su due fronti: "Il primo", spiega un ufficiale della Guardia di finanza, "riguarda la caserma dove alloggeranno i capi di Stato, presentata ai mass media come ideale per il G8, ma in realtà bisognosa di forti interventi ". Altro che rinfrescata generale o aggiunta di mobili: il piano di adeguamento, riassunto in un documento del ministero delle Infrastrutture, mostra ben cinque ditte abruzzesi (Iannini, Edilfrair costruzioni generali, Mancini, Di Vincenzo Dino & C. e Iciet Engineering) all'opera per reinventare le palazzine alloggi "B1, B2, D, E, E1, F4, F5, F6, H, M, P1 e P2". Quanto al secondo fronte, quello della sicurezza fuori dalla caserma, è tutto indicato in una mappa riservata e titolata "Sistema delle misure interdittive ". Una cartina da cui si vede che nei giorni cruciali sarà proibita la "circolazione veicolare, pedonale e di sosta"in tre strade essenziali (la statale 80, viale Fiamme Gialle e la provinciale 33), mentre in altre zone sarà impossibile "il transito di mezzi pesanti" o si accederà a piedi.

"Complessivamente un'ottima organizzazione ", commenta un alto grado dell'esercito. "Ma anche un cumulo di spese che offende gli sfollati". Il riferimento, esplicito, è "alla disperazione che regna in certe tendopoli ". Qualcosa di impossibile da immaginare, per chi abita altrove, ma che diventa realtà allucinante entrando nel campo di piazza d'Armi, gestito dalla Protezione civile e vietato alla stampa. All'interno, un migliaio di senzatetto sopravvivono in tende che bruciano quando c'è il sole (fino a 48 gradi) e si allagano appena piove. "E c'è di peggio", testimonia un'anziana: "Le tende hanno otto brande, e le famiglie vengono mischiate con i balordi". Sere fa, racconta, è esploso uno scontro tra slavi con coltelli e botte. Quanto alla droga, c'è l'imbarazzo della scelta tra leggera e pesante. Così le retate aumentano (il 19 giugno sono finiti in manette un invalido e un minorenne, che spacciavano nelle tendopoli 3 chili di hashish) e gli sfollati si rassegnano. Gli uomini, quelli senza lavoro, avviliti, camminano avanti e indietro nell'afa come animali in gabbia. Le mogli, mentre i bambini giocano, si arrangiano con gli stendibiancheria, infilati tra tende appiccicate una all'altra. E persino i poliziotti, dopo mesi di superlavoro, hanno di che lamentarsi: "Una collega, sfollata nel centro di piazza d'Armi, è costretta ad alloggiare davanti alla tenda di un delinquente ai domiciliari. Possibile? Torna a fine turno, appoggia la pistola sulla branda, e sa che qualcuno può rubargliela...".

Problemi che pochi conoscono, e ancora meno considerano. Nel caos endemico del dopo terremoto, le sofferenze private non trovano ascolto. Spariscono coperte dalle urgenze pubbliche, dal timore di nuove scosse devastanti. Tanta è la confusione, in queste settimane, che passano sotto silenzio anche questioni gravissime, come i tentati stupri avvenuti nelle tendopoli. Fatti confermati dalle forze dell'ordine, ma che non arrivano all'opinione pubblica. La parola d'ordine è chiara, sia a livello politico che di Protezione civile: costruire l'ottimismo. Puntare sul fascino del G8. Sul futuro vincente dell'Abruzzo testardo. Che sarà anche una scelta cinica, ma funziona: "Domenica scorsa, c'è stata la riapertura di un minuscolo pezzo del centro storico", dice l'avvocato Luisa Leopardi, dell'associazione "Un centro storico da salvare". "La notizia è finita sui quotidiani nazionali, si è spiegato all'Italia intera che era un segnale importante, tornare a bere il caffè in piazza Duomo nel bar di Ninetto Nurzia. Si è scritto, anche, che gli aquilani erano entusiasti, di passeggiare in centro per qualche centinaio di metri (a gruppi di massimo 60 persone, dalle 11 alle 22, ndr)". Ma non è vero, testimonia Leopardi. "Siamo stanchi di questi colpi d'immagine. Il nostro centro è ancora macerie, infinite macerie, e sofferenza viva. Tant'è che il sottosegretario Gianni Letta, presente alla riapertura, è stato sonoramente fischiato".
 
 
Piuttosto, concordano i comitati cittadini, quello che gli abruzzesi vorrebbero al più presto è una ricostruzione ragionevole. Condivisa. Lungimirante. Ne parlano di continuo, gli sfollati, ai margini della zona rossa dove giacciono cumuli di mattoni e ferraglia. Ripensano alle promesse del premier Berlusconi e masticano amaro: "Dove sono le ville che dovevano ospitarci?", urla un avvocato rimasto senza casa e studio. "E le crociere che ci doveva pagare?", scuote la testa Rita, 23 anni, sulla sedia a rotelle a causa del 6 aprile. In compenso, si potrebbe ribattere, sono iniziati a L'Aquila i lavori per costruire 150 palazzine antisismiche, finanziate con 700 milioni di euro, destinate a circa 13 mila persone e sparse su venti siti periferici. "Ma anche qui non c'è da gioire", dice l'architetto Marco Morante. "Quello che resterà, alla fine di questa storia, è un mostruoso stravolgimento urbanistico; un intervento che massacra i piccoli centri limitrofi, sopraffatti dalla nuova edilizia, senza restituire un'identità cittadina". Ragionamenti che i comitati popolari stanno girando ai politici, assieme a progetti alternativi e meno invasivi. Ma ad accoglierli ci sono disinteresse e sarcasmo. L'onorevole pidiellino Giorgio Straquadanio, ad esempio, per giustificare questa ricostruzione discutibile, ha replicato che "quando si allaga una casa bisogna togliere l'acqua, non salvare i quadri...". E se qualcuno non è d'accordo, ha aggiunto, pazienza: deve prendere atto che "siamo in democrazia, e che il Pdl alle europee ha ottenuto la maggioranza aquilana" (verissimo, anche se a votare è stato un misero 27,9 per cento, figlio proprio della rivolta antipolitica). "Il pericolo", dice il presidente della Provincia Pezzopane, "è che gli italiani credano alla campagna d'immagine lanciata dal governo Berlusconi. Che si convincano che tutto procede, che siamo tranquilli, e ci lascino soli". Un rischio probabile. Basti pensare al flusso di notizie fantasiose uscite in questi mesi sulle scuole aquilane. Dopo il sisma, un quotidiano nazionale ha titolato entusiasta ?Il miracolo di palazzo Quinzi?. "Eppure questa struttura, che ospita il mio liceo classico, è a pezzi", s'indigna il preside Angelo Mancini, "sono crollate le volte a crociera e si trovano danni ovunque, dalle scale alle aule agli uffici". Poi è toccato al sottosegretario all'Ambiente, Roberto Menia, dichiarare che "l'80 per cento delle scuole è già praticabile". ("Anche se l'unico istituto superiore completamente agibile", documenta Mancini, "è l'Accademia di belle arti, mentre tra materne, elementari e medie le scuole pronte sono 14 su 49"). Fino al paradosso di sabato 28 giugno, quando un quotidiano abruzzese ha inserito nella tabella ?Scuole agibili? 15 istituti classificati in fascia B: ossia "temporaneamente inagibili, totalmentete o parzialmente ", per citare l'ordinanza 3.779 del presidente del Consiglio.

Cambierà la situazione? Tornerà un barlume di vita normale? Finiranno le polemiche attorno al decreto casa, assicurando a tutti un sostegno sicuro? Finirà lo strazio degli appartamenti sventrati, dei negozi chiusi, degli anziani sacrificati in camper, dell'ospedale improvvisato nelle tende accanto a quello inagibile di San Salvatore, dove la gente attende stremata, in fila sotto il sole, per l'accettazione?"Ci vorranno anni", rispondono a registratore spento le istituzioni. Non certo i pochi giorni "bastati per smontare a La Maddalena un ottimo ospedale da campo (40 posti letto e due sale operatorie) e trasferirlo a L'Aquila per il G8". Ma si sa: tutto è possibile, in onore dei 23 leader mondiali. Anche che Berlusconi sfoderi, nel bel mezzo della tre giorni internazionale, la sua sorpresa più ambiziosa: un lavoro preparato ad hoc dal ministero dei Beni culturali, dalla Protezione civile e dalla Direzione regionale per i beni culturali abruzzesi. "Fotografie e schede", informa una nota riservata, con i monumenti danneggiati "adottabili dai Paesi esteri".

Il colpo di teatro per un premier traballante. Ma anche l'estrema speranza per una terra in ginocchio.
 
 

Iran, è una lotta fra ayatollah

Khamenei e Ahmadinejad agitano polverosi fantasmi
capaci di accendere l'immaginazione popolare

Iran, è una lotta fra ayatollah
di BERNARDO VALLI
LA PROTESTA è stata dispersa, frantumata, almeno per ora, dalle milizie islamiche, e adesso, con le piazze deserte, il regime basato su un voto inquinato cerca di squalificare quella protesta di massa. Non era una spontanea collera popolare, esplosa all'interno della società, ma un complotto ordito dai nemici storici dell'Iran. Questo dicono, in coro, la Guida suprema Khamenei e il presidente Ahmadinejad, e con loro tutti gli artefici dell'elezione contestata. La trionfante comitiva dei repressori tenta di darsi una legittimità denunciando la mano straniera alle spalle dei milioni di manifestanti che hanno fatto barcollare la Repubblica islamica. E, frugando più nel passato che nel presente, sceglie come bersaglio principale delle invettive la vecchia Inghilterra. La riesumazione dell'ex potenza coloniale, ormai più presente nei testi di storia che nelle memorie, equivale a un colpo di scena.

Sembra un trucco teatrale ad uso non soltanto interno. È un'idea geniale mettere sotto accusa l'ex impero britannico, un tempo tanto presente nella regione, e in particolare coautore, con la Cia, nel 1953, del colpo di Stato contro Mohammed Mossadegh, colpevole di avere nazionalizzato il petrolio e di avere cacciato (temporaneamente) lo shah e la moglie Soraya.

La storia alimenta così il sempre vivo orgoglio della patria persiana. Khamenei e Ahmadinejad agitano polverosi fantasmi capaci di accendere l'immaginazione popolare: espellono (la settimana scorsa) due diplomatici britannici provocando la risposta di Londra, che espelle a sua volta due diplomatici iraniani. È un conflitto incruento destinato ad avvalorare la tesi della mano straniera dietro la protesta di piazza.

Seguendo lo stesso copione, viene messo alla porta il corrispondente della Bbc, voce della perfida Albione che diffonde in lingua farsi notizie ignorate o truccate dalle emittenti iraniane. Ulteriore colpo di teatro, nelle ultime ore: l'arresto di impiegati iraniani dell'ambasciata di Gran Bretagna, accusati di essere tra gli ammiratori del complotto contro la Repubblica islamica.

Questa è una prima lettura, direi classica. Il regime squalifica gli oppositori, denunciando interessi stranieri alle loro spalle, e rilancia lo scontro con l'Occidente. È una tattica elementare. Ma perché indicare come principale nemico la vecchia potenza coloniale, e non il "grande satana", ossia gli Stati Uniti? Anche a loro sono indirizzate le accuse di Teheran.

Barack Obama non è risparmiato. Viene descritto come una brutta copia di Bush Jr. E la Cia non è trascurata. Sarebbe difficile ignorarla.

La stessa stampa americana ha più volte dato notizia dei milioni di dollari destinati da Washington, ai tempi di Bush Jr., alla "destabilizzazione" della Repubblica islamica, sospettata di preparare armi nucleari.
Tuttavia l'America non è il bersaglio principale. Non è risparmiata, è investita frontalmente, ma l'Inghilterra fa da schermo. Pur ricorrendo agli stereotipi dei momenti di crisi, ad uso interno, l'ayatollah Khamenei e il presidente Ahmadinejad esitano a sbattere la porta in faccia a Barack Obama.

Con lui dovranno affrontare un giorno la questione nucleare, la quale resta all'ordine del giorno, chiunque sia ufficialmente al potere a Teheran.
Attaccare l'Inghilterra costa poco. La vecchia potenza coloniale è, appunto, uno schermo ideale.

Il bersaglio inglese rivela anche l'incerta situazione interna al gruppo dirigente che, secondo Mir Hussein Moussavi, il leader dell'opposizione repressa, ha preparato e compiuto il "colpo elettorale". L'Inghilterra è un bersaglio provvisorio, nell'attesa che si chiariscano gli equilibri tra le varie correnti. I comandanti della Guardia rivoluzionaria, espressione dell'estrema destra e della seconda generazione dall'avvento della Repubblica islamica, sarebbero i veri autori del colpo elettorale. Avevano vent'anni nel '78-'79, quando l'ayatollah Khomeini arrivò al potere, e hanno vissuto tutte le successive prove: la guerra contro l'Iraq di Saddam Hussein; la repressione interna avvenuta a conclusione di quel conflitto; la precedente eliminazione dei Mujahiddin Khalq, gli islamici di sinistra decimati ed esiliati; la morte di Khomeini e la nomina di Khamenei al suo posto, come guida suprema, ossia vero capo dello Stato. Nel corso degli anni si è formata la forte corrente di estrema destra che ha via via preso il controllo della Guardia rivoluzionaria.

I nomi più noti sono quelli oggi alla sua testa: i generali Jafari e Javani, che hanno accusato Moussavi di promuovere una "rivoluzione di velluto". Ex della Guardia rivoluzionaria hanno invece fatto carriera nella burocrazia: il ministro degli Interni Sadegh Mahsouli, il suo vice Kamran Daneshjou, supervisore delle elezioni, e lo stesso presidente Ahmadinejad. Il loro ispiratore è l'ayatollah Mohammed Taghi Mesbah Yazdi, il più conservatore dei grandi capi religiosi. Molti si sono formati nel suo seminario "la scuola Haghani" a Qom. L'ayatollah Mesbah, così è chiamato in Iran, è noto per le sue sentenze. Ne viene spesso citata una: "Non ha importanza quel che pensa la gente. La gente è ignorante come una capra". Gli attuali capi dell'intelligence, come non pochi responsabili delle milizie Bassiji, formazioni paramilitari controllate dalla Guardia rivoluzionaria, sono discepoli dell'ayatollah Mesbah. Il quale, prima delle elezioni, avrebbe lanciato una fatwa che autorizzava l'uso di qualsiasi mezzo al fine di far rieleggere Ahmadinejad.

L'ayatollah Mesbah e lo stesso Ahmadinejad citano di rado la Repubblica islamica, preferiscono parlare di governo islamico. L'espressione "repubblica" non va a genio né a l'uno né all'altro, implica un coinvolgimento popolare e quindi elezioni che essi tendono a rifiutare. Il potere discende direttamente dalla volontà di dio, e loro ne sono gli interpreti. Per questo attendono che l'ayatollah Khamenei, malandato di salute e non del tutto allineato sulle loro posizioni, tolga il disturbo. Per designare il successore. Ma la lotta tra le varie correnti non si è ancora conclusa.

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