Al processo
contro il signore della guerra congolese Thomas Lubanga
una piccola vittima testimonia davanti al Tribunale penale internazionale
"Così ci arruolavano all'uscita da scuola"
all'Aja il racconto di un ex bambino soldato
Trovati nel nord-est del Paese cento cadaveri di
civili uccisi nella rappresaglia dei ribelli dell'Lra di DANIELE MASTROGIACOMO
Sono trascorsi dieci anni, ma ricorda tutto come
fosse stato ieri. Nel 1999 era uno studente. Quinta elementare, pochi
libri sotto il braccio, il sorriso stampato sulla bocca, lo sguardo
spensierato, la voglia di divertirsi. Nonostante la guerra, gli scontri
per il controllo dello Iuri, piccola regione nel nord est del Congo.
Adesso è qui, davanti alla Corte penale internazionale, il Tribunale per
i crimini dell'Aja.
Lo hanno contattato, protetto, convinto a testimoniare nel primo, grande
processo per uno dei crimini più orrendi e diffusi in molti paesi
centroafricani: il reclutamento dei soldati bambino. "Alcuni studenti",
rievoca in swaili, l'unica lingua che sa parlare, "erano direttamente
arruolati per strada. Io sono stato uno di questi. Ci hanno portato nei
campi militari mentre tornavamo a casa, all'uscita di scuola".
Protetto da una tendina, la voce alterata dal computer, l'ex soldato
bambino evita di guardare il grande imputato del processo che lo scruta
serio, a pochi metri di distanza: Thomas Lubanga, oggi 48 anni, dal 1999
al 2003 leader dell'Union des patriotes congolaise, colpito da mandato
di cattura internazionale per crimini di guerra e arruolamento di minori
durante il conflitto per il controllo dello Iuri, arrestato nel febbraio
del 2005 poco dopo l'uccisione di nove caschi blu della Monuc, la
missione Onu in Congo.
Rinchiuso in un carcere di Kinshasa, Lubanga aveva atteso la sua
estradizione a l'Aja. Le autorità della Rdc avevano evitato di
incriminarlo per consentire ai magistrati della Cpi di concludere le
loro indagini. Lo scorso 10 febbraio, dopo mesi di investigazioni,
raccolta di prove e di testimonianze, scritte e filmate, l'ex leader
dell'Upc era stato trasferito in Olanda dove lunedì scorso è stato
aperto il dibattimento.
Ci vorranno mesi prima di arrivare ad una sentenza. Ma quella di stamani
è stata un'udienza che a ragione, senza voler essere retorici, la Corte
di giustizia internazionale ha definito storica. La piaga dei bambini
soldato è una realtà sempre denunciata in Africa ma mai approdata ad un
giudizio di tipo penale. Per la difficoltà a trovare i testimoni, a
raccogliere prove concrete, visive. A definire una pratica odiosa in un
contesto processuale, con le sue regole, i suoi tempi, le sue garanzie.
Nella sua relazione introduttiva il procuratore argentino Luis
Moreno-Ocampo ha accusato l'imputato di aver reclutato e addestrato
centinaia di giovani tra i 9 e i 13 anni per uccidere, saccheggiare e
violentare migliaia di nemici o di semplici abitanti delle zone contese.
"I bambini", ha sostenuto il procuratore, "continuano a soffrire delle
conseguenze dei crimini che sono stati costretti a commettere. Non
possono dimenticare ciò che hanno visto. Molti tra loro riescono a
sopravvivere ai terribili ricordi solo ricorrendo a droghe, altri vivono
prostituendosi".
Thomas Lubanga, attraverso il suo difensore, l'avvocato Catherine
Mabille, ha respinto le accuse. Ha negato di aver arruolato bambini. Ha
ricordato le particolari condizioni in cui si svolgeva il conflitto, ha
ammesso i suoi orrori ma li ha attribuiti a tutte le parti sul campo.
Mentre il giovane "kadogo", il soldato-bambino, tornava a quegli anni,
Lubanga ha seguito in silenzio, stretto nel suo completo scuro, una
cravatta rossa che spiccava sulla camicia chiara, la breve
testimonianza. Ha preso molti appunti, ma non ha mai interrotto il
racconto. "Ci dicevano", ha spiegato ancora il testimone, oggi ventenne,
"che il paese stava vivendo forti tensioni e che i giovani dovevano
mobilitarsi per salvare la nazione. Io ho avuto la forza di dire che
eravamo ancora troppo giovani, che tra noi c'erano dei bambini di nove
anni".
Thomas Lubanga all'Aja
Il ragazzo ha avuto difficoltà a rispondere a tutte le domande del
procuratore aggiunto Fatou Bensouda che insisteva nel conoscere
l'identità dei suoi amici, anche questi reclutati. "Tante domande mi
mettono in difficoltà. Sono passati molti anni e non ricordo con
precisione nomi e date. Non vorrei sbagliare", ha spiegato il testimone,
"ho giurato di dire la verità. Una semplice contraddizione potrebbe
inficiare tutto il mio racconto". Il giudice ha sospeso l'udienza. La
pressione era troppo forte. Ma l'omertà che ha sempre circondato
l'arruolamento dei bambini soldato, quasi seimila nel solo Iuri, è stata
finalmente infranta. Si riprenderà venerdì prossimo.
Non c'è pace nella martoriata regione. Oggi nel nordest della Repubblica
democratica del Congo sono stati trovati almeno 100 cadaveri di civili
uccisi dai ribelli ugandesi della Lord's Resistance Army (Lra), come
ritorsione alla campagna militare congiunta lanciata dai governi di
Congo, Uganda e Sudan per catturare il signore della guerra Joseph Kony.
L'Onu afferma che la popolazione civile è stata sottoposta a terribilli
violenze nel sud-est di Dungu, dove il 16 gennaio scorso i ribelli hanno
sferrato un duro attacco ai villaggi.
Tra arresti e pentiti,
l'incredibile resistenza del mastelliano Ferraro
Resistere, resistere, resistere. Un motto che Nicola Ferraro da
Casal di Principe, consigliere regionale campano, ha trasformato
in azione politica. Imprenditore attivo nel settore dei rifiuti
e nella gestione delle discariche, ha venduto le aziende dopo la
mancata concessione del certificato antimafia: una decisione
provocata dalle sue parentele con elementi di spicco del clan
dei casalesi. In passato tesserato con Forza Italia, nel 2005 ha
trasportato il suo peso elettorale nell'Udeur di Clemente
Mastella, diventando segretario provinciale per Caserta e
sfiorando l'elezione in Parlamento. Nel Consiglio Regionale
presieduto da Sandra Lonardo Mastella ottiene però un incarico
di prestigio: la presidenza della prima commissione che gestisce
tra l'altro il personale e i rapporti con i comuni. Un anno fa,
nella retata che azzera l'Udeur nazionale, finisce agli arresti
domiciliari con l'accusa di concussione. I giudici li revocano
solo per imporgli l'obbligo di dimora a Casal di Principe,
negandogli la possibilità di raggiungere il consiglio regionale
e paralizzando così l'attività della commissione da lui
presieduta. E Ferraro cosa fa? Si dimette? No, a giugno chiede
formalmente che la commissione vada a riunirsi a casa sua. Poi a
settembre "L'espresso" rivela che diversi pentiti di camorra
hanno fatto il suo nome, indicandolo come un uomo legato al
vertice dei Casalesi e attivo nello smaltimento illegale dei
rifiuti. Ferraro respinge le accuse. Ma di dimissioni non si
parla nemmeno in questo caso. La sua posizione appare comunque
imbarazzante per il Pd che continua a proclamare la svolta in
Campania. Anche perché Ferraro e l'Udeur lì sono ancora
determinanti nel garantire la maggioranza del governatore
Antonio Bassolino. Visto che il presidente non molla, la scorsa
settimana decidono di dimettersi in massa gli esponenti di
centrosinistra della sua commissione. Una mossa voluta dal
capogruppo Pd Pietro Ciarlo: cadendo la commissione, deve
decadere anche il presidente Ferraro. Finora però la signora
Mastella non ha ancora posto la questione all'ordine dei lavori.
Intanto l'imprenditore di Casal di Principe ha ottenuto la
revoca dell'obbligo di dimora: dal primo febbraio potrà tornare
a Napoli e dopo un anno riprendere la sua attività politica.
Come se nulla fosse. A proposito: in questo anno di assenza, lo
stipendio (11 mila euro tra busta paga e rimborsi) è stato
bloccato?
Regione Veneto, i
supermanager beffano Brunetta
Hanno fatto infuriare persino Brunetta. Proprio nel suo
Veneto, proprio nella Regione amministrata dal suo
centrodestra, hanno cercato di mettere i boiardi al
riparo dalle leggi anti-fannulloni. Nel silenzio delle
vacanze natalizie, una circolare ha esentato i top
manager della Regione dalle nuove trattenute malattia.
Da giugno infatti ai dipendenti pubblici che restano a
letto nel periodo iniziale viene decurtato lo stipendio
di ogni voce accessoria. Ma il Veneto ha aspettato fine
anno prima di varare la norma, con il risultato di
dovere chiedere un semestre di tagli arretrati a chi era
già caduto vittima dei malanni. Poi dall'inizio del 2008
sono diventati operative le sottrazioni: per ogni giorno
di malattia, un usciere del livello più basso perderà
otto euro, un funzionario da dieci a 20, un dirigente da
64 fino a 77. Un salasso che dovrebbe dissuadere dalle
assenze ingiustificate. Il problema è che i top manager,
quei 70 amministratori che siedono nella stanza dei
bottoni della Regione guidata da Giancarlo Galan, si
sono auto-esentati: per loro non sono previste sanzioni
nè deterrenti. Il loro contratto garantisce stipendi da
100 mila euro l'anno in su e non segue le regole della
pubblica amministrazione. Una scelta che ha fatto
infuriare i sindacati. E che ha spinto Renato Brunetta a
scrivere a Galan: «La legge vale per tutti». Ora la
Regione cercherà di trovare una soluzione. Sperando che
i supermanager non si ammalino prima.
Palermo, mogli e parenti
sfrecciano col pass
Qual è il problema più grave che affligge la
Sicilia? La piaga che la diffama nel mondo? Il
traffico, certamente. Era la battuta chiave del
film di Roberto Benigni "Johnny Stecchino". Ed è
forse per questo che in tanti a Palermo si sono
lanciati su uno dei privilegi più ambiti nell'Italietta
delle scorciatoie: il permesso per le corsie
preferenziali. Come la più celebre spedizione
garibaldina, oggi sono a mille a fare breccia
nei divieti alla circolazione e infilarsi in
strade libere sfrecciando accanto a code
consolidate. La cronaca cittadina di Repubblica
ha reso noto l'elenco dei 1060 infiltrati. C'è
ad esempio Vittorio Sgarbi, che fa il sindaco di
Salermi (Trapani) ma ottenne il pass quando era
commissario per il sito archeologico di Piazza
Armerina (Enna): in entrambi i casi, incarichi
che non dovrebbero richiedere l'alta velocità
nell'attraversare Palermo. Ma fa molto discutere
anche il permesso concesso alla moglie di Angelo
Alfano, ministro per la giustizia. Per carità,
di sicuro oggi la signora Alfano ha sacrosanto
diritto a scorta e corsie lampo. Il fatto è che
il permesso venne concesso prima della nomina a
Guardasigilli, quando il marito era il
coordinatore regionale di Forza Italia: la
signora Alfano lo chiese e ottenne come
"titolare di uno studio legale", praticamente la
sola con questa motivazione. Molti invece sono i
parenti che circolano rapidamente grazie ad
illustri rappresentati in Comune che hanno
ottenuto pacchetti di autorizzazioni. C'è
Massimo Collesano, funzionario municipale ed ex
responsabile dei Grandi eventi cittadini, ne ha
ottenuti otto: uno è andato alla compagna, uno a
un 73 enne con utilitaria Ford e uno a una
signora di 83 anni che lo usa per una potente
Bmw. Otto permessi anche al dirigente del
settore Verde, uno per la Fiat della sua
consorte: ma si vede che i giardini impongono la
fretta. Un esponente dell'Udc ne ha ottenuti
tre, pur non avendo incarichi
nell'amministrazione cittadina: ma la politica
non può perdere tempo nel traffico normale.
Altri invece hanno presentato motivazioni
singolari. Lucio Tasca, patron della casa
vinicola, ha ottenuto il lasciapassare come
avvocato cassazionista. Per non parlare di una
lista di raccomandati, beneficiati come
esponenti di onlus, prive di telefono e di sito
web, ma pronte a correre senza intoppi. Adesso
il sindaco di centrodestra Diego Cammarata dovrà
rinnovare i permessi che la sua giunta ha
regalato: chissà se usera maggior rigore. O se
la logica del piccolo privilegio verrà premiata
ancora una volta.
Basandosi sulle testimonianze dirette del
personale della Croce Rossa Internazionale presente nella zone dei
combattimenti, l'Icrc denuncia da Ginevra "le centinaia di morti e la
marea di feriti" provocate dall'offensiva militare in corso contro le
ultime roccaforti delle Tigri tamil nel nord-est dello Sri Lanka.
Croce
Rossa: "Proteggere i civili". "Quando la polvere si poserà,
troveremo innumerevoli vittime e una situazione umanitaria terribile se
i civili non verranno protetti e la legge umanitaria non verrà
rispettata". ha dichiarato Jacques de Maio, responsabile delle
operazioni della Croce Rossa Internazionale nell'Asia meridionale. "E'
il momento di fare qualcosa e fermare ulteriori bagni di sangue, perché
il tempo stringe. L'Icrc rivolge un appello urgente a entrambe le parti
affinché venga concesso e facilitata l'evacuazione dei civili dalla zona
dei combattimenti.
"Colpiti
ospedali e ambulanze". "La gente è stata presa tra i due fuochi
- continua de Maio - ospedali e ambulanze sono stati colpiti dalle bombe
e diversi operatori umanitari sono rimasti feriti durante l'evacuazione
dei feriti. La violenza sta impedendo alla Croce Rossa Internazionale (Icrc)
di operare nella regione. La popolazione è terrorizzata e bisognosa di
protezione, cure mediche e assistenza di base. Circa 250 mila persone
sono intrappolate in un'area di 250 chilometri quadrati, teatro di
intensi combattimenti. Questa gente non ha aree sicure dove rifugiarsi
ed è impossibilitata a lasciare la zona: centinaia di pazienti
necessitano d cure urgenti e di essere quindi trasportate all'ospedale
di Vavuniya".
Governo:
"300 feriti ostaggio dei ribelli". Il primo tentativo di
trasferire i civili feriti più gravi fuori dalla zona dei combattimenti
era fallito ieri, quando un convoglio della Croce Rossa e dalle Nazioni
Unite con 300 pazienti, partito dall'ospedale di Putukkundiruppu e
diretto a Vavuniya è stato fermato sulla linea del fronte. Secondo il
quotidiano filo-governativo singalese Daily News sono stati i
guerriglieri dell'Ltte a bloccare il convoglio "al sinistro scopo di
usare i pazienti come scudi umani".
La portavoce della Croce Rossa Internazionale in Sri Lanka, Sarasi
Wijeratne, contattata da PeaceReporter, ha confermato il
fallimento della missione ma non ha voluto rilasciare dichiarazioni su
chi sia stato a bloccare il convoglio: "Non volgiamo puntare il dito
contro l'una o l'altra parte: il convoglio non ha proseguito perché non
c'erano le condizioni di sicurezza necessarie".
Onu: "Bombe sulla zona si
sicurezza". Anche la sede locale delle Nazioni Unite denuncia
una situazione divenuta insostenibile. "Questa è una crisi grave: il
nostro personale che si trovava nell'area di sicurezza designata dal
governo è stato testimone diretto dei bombardamenti d'artiglieria su
quest'area. Le bombe hanno ucciso e ferito decine e decine di persone",
ha dichiarato Gordon Weiss, portavoce dell'Onu in Sri Lanka.
Lo sciopero dei contadini è il
segnale del disagio sociale che travolge il governo di Atene. Ma
anche nell'Ue non tira una bella aria
Nove giorni di sciopero. Dopo il
naufragio delle trattative con il governo di Atene, oggi sono
proseguiti i blocchi sulle principali arterie stradali greche, che
stanno paralizzando il Paese e rendono impossibile anche il transito
alle frontiere con Bulgaria, Macedonia e Turchia.
Contadini
in strada. Il governo della Bulgaria ha protestato per la
chiusura dei valichi, minacciando di ricorrere all'Unione europea,
ma i contadini bulgari hanno ventilato di unirsi alla protesta dei
greci. Bloccate anche, per alcune ore, la strada che collega l'istmo
di Corinto ad Atene e la superstrada che collega la capitale a
Salonicco. Le proteste si sono estese anche all'isola di Creta e il
traffico aereo sull'aeroporto di Atene ha accusato un rallentamento.
I contadini e i lavoratori dell'indotto agricolo greco chiedono
sussidi e compensazioni allo Stato per le perdite subite a causa
della crisi dei prezzi nell'Ue. I settori più colpiti sono quelli
della produzione, e vendita, di olio d'oliva, riso, cotone e
cereali. Ieri il premier greco Costas Karamanlis, dopo che la
Commissione che rappresenta gli agricoltori aveva rifiutato il
pacchetto di incentivi di 500mila euro offerto dall'esecutivo
ellenico, ha ammonito i manifestanti rispetto all'obbligo di
rimuovere i blocchi e i pacchetti che impediscono il traffico.Il
ministro dell'Agricoltura Sotiris Hatzigakis ha detto che ''la palla
passa ad altri ministri'', lasciando intendere che sarà il
ripristino dell'ordine pubblico a prendere il sopravvento sulle
trattative.
Ordine
e ribellione. Una mossa che, alla fine del 2008, dopo
l'omicidio dello studente Alexis Grigoropulos da parte di un
poliziotto, aveva scatenato una vera e propria guerriglia in tutto
il Paese. Centinaia i feriti negli scontri tra dimostranti e forze
dell'ordine, migliaia gli arresti. La tensione per gli incidenti di
dicembre scorso non è ancora sopita. Pochi giorni fa, nello stesso
quartiere dov'è avvenuto l'omicidio di Alexis, due poliziotti sono
stati feriti in un agguato. Rivendicati da Lotta Rivoluzionaria,
gruppo ritenuto terrorista dall'Ue. Il 24 gennaio scorso, scontri ad
Atene e Patrasso tra studenti e polizia. I dimostranti chiedevano il
rilascio dei manifestanti arrestati a dicembre. Il governo appare
sempre più in difficoltà. Dopo tutto quello che è accaduto a
dicembre, adesso si trova ad affrontare lo scontento dei contadini.
Molti osservatori, a dicembre, si erano detti convinti che
l'omicidio di Alexis Grigoropulos era stato l'episodio che aveva
dato il via a uno scontento sociale sempre più forte in Grecia. Il
premier Karamanlis aveva risposto con un rimpasto di governo e la
promessa di riforme. La rabbia popolare, però, non si placa. Anche
l'opposizione, dai comunisti ai socialisti del partito Pasok, pur
condividendo gran parte delle rivendicazioni sociali, chiede
manifestazioni pacifiche. Ma non sembra avere sotto controllo la
situazione.
Alta
tensione. Solo in Grecia? Lo sciopero dei contadini chiude
un periodo difficile per la Grecia. Prima degli agricoltori era
stato, come detto, il turno degli studenti. Sempre lo scorso anno,
dopo l'estate, erano stati i detenuti a iniziare un lungo e duro
sciopero della fame. Denunciavano condizioni inumane di detenzione e
la violazione dei loro diritti. Uno degli scioperanti è morto
durante la protesta, in circostanze ancora poco chiare. A metà del
2008 erano stati gli autotrasportatori a paralizzare il Paese,
sostenuti dai marittimi e dai ferrovieri. Chiedevano sgravi fiscali
rispetto all'aumento del costo della benzina, come avevano fatto i
pescatori pochi mesi prima. Un malessere sociale che ha
caratteristiche specifiche e storie differenti, ma che rende
l'immagine di un Paese in difficoltà. ''La gente è esasperata. Se
non fosse stata la morte di un adolescente, la miccia sarebbe stata
un'altra. Ma la bomba sociale sarebbe comunque scoppiata'', aveva
detto il grande scrittore greco Nikos Themelis, in un'intervista
all'Osservatorio
sui Balcani. Forse un anticipo di una situazione che, presto,
potrebbero toccare altri paesi dell'Unione, che al momento godono di
maggiori strumenti per far fronte alla crisi economica e civile che
attraversa l'Europa.
Christian Elia
L'Italia ferma a
Eboli
Danilo Orlando, 27 anni, morto
schiacciato da una frana sull'autostrada Salerno-Reggio Calabria, rientra
nella casistica degli incidenti stradali prima causa di morte in Italia
degli uomini sotto i 40 anni, o no? E l'altra vittima, Nicola Pariano, a 59
anni è l'eccezione che conferma la regola, o no? Bisogna andarci sulla A3,
per capire cosa significa rischiare di morire in automobile. L'Italia si è
spezzata in due domenica, o forse si è fermata a Eboli. Un'autostrada che è
la metafora di questo paese: insicura a ogni velocità, da operetta e non da
grandi opere, quasi berlusconiana nella sua eternità.
Il chilometro 283 della A3, ultima cicatrice del paese (in ordine di tempo),
«non è ammodernato» e «non ancora oggetto di lavori», come recita a difesa
sul suo sito l'Anas, la società controllata dal ministero dell'economia che
gestisce 1.000 chilometri di autostrade, 15.000 di statali e ha «l'alta
sorveglianza» sul resto della rete autostradale data in concessione. I
lavori di ammodernamento per i circa 450 chilometri della Salerno-Reggio
Calabria sono cominciati nel 1999, 25 anni dopo il completamento della A3, e
non finiscono mai. C'è una data annunciata per la chiusura dei cantieri, il
2011, ma è come credere agli elefanti rosa.
Bisogna andarci in automobile, tra Salerno e Reggio Calabria, e sfilare per
decine di chilometri a corsia unica e incrociare le dita, per sperare di
uscirne vivi. D'inverno ogni tanto scatta l'obbligo di catene a bordo, c'è
la Sila che svetta, ma dove diavolo ci si ferma a montarle, se fosse
necessario, con una sola corsia? D'estate, escludete di avere un malore, un
colpo di caldo, perché sennò un frontale è assicurato.
Per questo governo, la sicurezza è roba da soldati. Il criterio è quantomeno
più ampio: in Italia, la strada e i suoi mezzi uccidono ogni anno 8.000
persone, 170.000 vengono ricoverate, 600.000 ricorrono al pronto soccorso.
Un costo sociale di 35 miliardi di euro all'anno, sostiene l'Aci, piò o meno
il 2,5% del Pil 2008. Sicurezza fa rima con un mucchio di cose, dissesto
idrogeologico incluso. Il criterio è stato disatteso da tanti governi, ma
che Berlusconi lo affronti puntando innanzitutto sulle grandi opere è cosa
da denuncia per dolo, da azione legale collettiva, da class action (se non
l'avesse cancellata).
Il Cipe ha appena stanziato 7,3 miliardi di euro per «infrastrutture al
sud», di cui 1,3 è stato subito dirottato nella casse della società per il
Ponte sullo stretto, azzerata da Prodi e rimessa ora in piedi con questi
soldi, più 300 milioni precedentemente decisi. Un Ponte per qualcosa che non
serve, già lungo quarant'anni di chiacchiere e di sprechi di soldi pubblici.
Ma per questo governo, da erigere ai danni di qualcos'altro, dalla
insicurezza della Salerno-Reggio Calabria in giù. E' che Berlusconi guida da
ritiro patente: «Si potrà andare in Italia dalla Sicilia anche di notte, e
se uno ha un grande amore dall'altra parte dello stretto, potrà andarci
anche alle 4 del mattino senza traghetto».
L'Alcatraz di
Lampedusa
Da base della Nato a Centro di detenzione per
immigrati. Viaggio nella Loran, dove in un edificio fatiscente e
semi-abbandonato sono già state trasferite alcune donne. Mentre gli abitanti
dell'isola si preparano allo sciopero generale
Nove chilometri dal centro cittadino, in fondo a una
strada che oltrepassa la paradisiaca isola dei conigli e corre verso ovest.
Eccola la base Loran, il pomo della discordia, l'angolo di Lampedusa dove il
ministro degli interni Roberto Maroni vuole costruire a tutti i costi il
nuovo centro per rimpatriare gli immigrati irregolari direttamente dal punto
di arrivo. Strana storia quella di questa base in fondo al mondo, posta nel
luogo più remoto della più lontana isola italiana.
Già nel 1986 assurse agli onori delle cronache quando il leader libico
Muammar Gheddafi spedì un paio di missili sull'isola per vendicare il
bombardamento di Tripoli ordinato da Ronald Reagan. I razzi caddero in
acqua, ma l'opinione pubblica nostrana scoprì che a Lampedusa c'era una base
Nato. Una base Loran per l'appunto, acronimo di Long Range Radioaid to
Navigation, un sistema di triangolazione usato per orientarsi in mare.
Abbandonata dall'Alleanza atlantica, la struttura è stata affidata ai corpi
giunti sull'isola Pelagia per gestire la nuova emergenza: l'immigrazione
clandestina. La guardiacostiera ci ha spostato alcuni materiali e vi ha
fatto alloggiare un gruppo di suoi uomini finché, la settimana scorsa, gli
ospiti sono stati spostati in fretta e furia in un albergo per consentire la
creazione del nuovo centro di identificazione ed espulsione (Cie).
Un centro già aperto, secondo quanto dichiarato con espressione solenne e
soddisfatta da Maroni in uscita dal consiglio dei ministri di venerdì, ma in
cui sono state fatte alloggiare solo donne tunisine e nigeriane, la maggior
parte delle quali sono poi state trasferite ieri sul continente. Un edificio
a due piani in condizioni disastrate, l'intonaco che cade dai muri, il
controsoffitto tutto da rifare, una quindicina di piccole stanze
semi-abbandonate in cui sono ancora appesi poster un po' osé attaccati da
qualcuno dei suoi passati occupanti. Le donne sono state spostate qui
giovedì notte. «Per decongestionare il centro di prima accoglienza in cui
erano ospitate», assicura il prefetto Mario Morcone. «Per nascondere alla
delegazione del Partito democratico la promiscuità raggiunta nel Cpa»,
ribattono le malelingue. Fatto sta che quella notte, con il favore delle
tenebre, le donne africane sono state spostate in questa struttura
fatiscente e messe a dormire come meglio capitava. Sono rimaste al piano
terra, in una grande camerata, e spostate nelle stanze solo la mattina dopo,
tanto che la delegazione del Pd è piombata nel centro proprio mentre si
stavano organizzando le camere.
Al piano terra un piccolo bar è stato trasformato in un'infermeria
d'emergenza. Nel grande salone antistante giacciono vecchie librerie in
disuso, sacchi a pelo militari e cumuli di materassi. Sono stati proprio
quei materassi a far capire alla popolazione lampedusana che il sito scelto
per il nuovo centro era quello dell'ex caserma della Nato. «Un giorno
abbiamo visto arrivare aerei che scaricavano materassi e brandine e camion
che li trasportavano verso ponente», racconta Giusi Nicolini, responsabile
della sezione locale di Legambiente. «E abbiamo capito cosa stavano
architettando». Così la popolazione si è mobilitata, alcuni esponenti del
comitato Sos Pelagie hanno fatto i blocchi e impedito il trasferimento dei
migranti, che sono stati spostati di notte.
«Noi siamo contro la creazione di un carcere a cielo aperto sulla nostra
isola. Lampedusa non può diventare una nuova Asinara», continua a ripetere
il sindaco Bernardino De Rubeis alla folla sempre più agitata. La
popolazione lampedusana è totalmente contraria al nuovo centro e ha
rinnegato e fischiato l'ex vice-sindaco e senatrice leghista Angela
Maraventano, che ha difeso domenica in piazza il piano di Maroni. La
creazione di un Cei a Lampedusa vorrebbe dire che i migranti arrivati
sarebbero trattenuti anche mesi qui, in attesa della loro identificazione e
dell'espulsione. «Una eventualità impossibile per Lampedusa», ragiona
Nicolini. «Qui non ci sono i servizi sanitari essenziali per i locali,
figuriamoci per tutti gli immigrati che arrivano». Il sindaco e tutta la
popolazione non sono disposti ad accettare un nuovo centro e dicono di non
poter concedere allo stato più di quel Centro di prima accoglienza (Cpa)
della contrada Imbriacola in cui gli immigrati che arrivano via mare sono
trattenuti teoricamente due giorni prima di essere spostati in altre
strutture sul territorio nazionale. Il ministro Maroni e la "pasionaria"
Maraventano, sono invece per l'apertura del Cie alla Loran «per mandare un
segnale forte ai clandestini e ai trafficanti».
A vederlo da dentro, questo «segnale forte» sembra assai flebile. Il posto è
piccolo e poco attrezzato. Nelle stanze, potrebbero entrare massimo una
cinquantina di immigrati. Per creare un Cei degno di questa sigla, ci
vorrebbero ampi lavori di ristrutturazione. Ma dopo lo scoppio della rivolta
nessuna ditta ha accettato di accettare la commessa, tanto che il Viminale
si è dovuto rivolgere al genio militare. Si parla di installare container
sopra la piscina vuota, coperta opportunamente con una colata di cemento. Ma
anche così, il massimo di permanenze non potrebbe superare il centinaio.
Senza contare il fatto più importante: la maggior parte degli immigrati che
arrivano a Lampedusa non si può espellere, o perché ha diritto a ottenere
l'asilo politico o perché proviene da paesi con i quali non sono stati
firmati accordi bilaterali. Ma quali rimpatri? Che minchia disse u'
ministro?», tuona uno dei manifestanti in piazza. «Le carcere fatele al
nord. Anche lì spazio ce n'è», indica uno dei cartelloni che campeggia sotto
il municipio, dove la bandiera italiana è stata opportunamente ammainata e
listata a lutto.
Maroni assicura che il Cie aprirà solo temporaneamente, «fino al termine
dell'emergenza», e promette 40-45 milioni di euro all'isola in cambio
dell'accettazione del suo piano. Ma per il momento gli abitanti non sono
disposti a cedere. «Lampedusa non è in vendita», grida De Rubeis dal palco
in piazza. E gli applausi scendono a valanga, mentre sulla strada di ponente
i carabinieri bloccano il passaggio per impedire a chiunque di avvicinarsi
alla base, che si staglia lontana come una cattedrale nel deserto, con le
sue ospiti temporanee del tutto ignare della battaglia che si sta
combattendo intorno alla loro residenza temporanea.
26 gennaio
Cessate il fuoco
Il bollettino settimanale delle guerre e dei
conflitti in corso n. 3 - 2009 dal 15/1/2009 al 21/1/2009
Dall'inizio dell'anno, in tutti i Paesi in guerra, sono morte almeno 1.213
persone
Israele e Palestina
Nell'ultima settimana sono morte almeno 608 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 1641
Sri Lanka
Nell'ultima settimana sono morte almeno 159 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 305
Pakistan Talebani
Nell'ultima settimana sono morte almeno 130 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 339
Iraq
Nell'ultima settimana sono morte almeno 73 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 252
Afghanistan
Nell'ultima settimana sono morte almeno 66 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 238
Rep. Dem. Congo
Nell'ultima settimana sono morte almeno 46 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 65
Sudan
Nell'ultima settimana sono morte almeno 33 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 142
India Naxaliti
Nell'ultima settimana sono morte almeno 25 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 67
Somalia
Nell'ultima settimana sono morte almeno 22 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 84
India Nordest
Nell'ultima settimana sono morte almeno 22 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 45
Nigeria
Nell'ultima settimana sono morte almeno 13 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 562
Nord Caucaso
Nell'ultima settimana sono morte almeno 7 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 16
Filippine Milf
Nell'ultima settimana sono morte almeno 4 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 53
Thailandia del sud
Nell'ultima settimana sono morte almeno 2 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 14
Pakistan Balucistan
Nell'ultima settimana è morta almeno 1 persona
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 33
India Kashmir
Nell'ultima settimana è morta almeno 1 persona
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 16
Filippine Npa
Nell'ultima settimana è morta almeno 1 persona
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 3
Rotta verso la guerra
Secondo un'inchiesta indipendente, un cargo
carico di armi Usa per Israele è in giro per il Mediterraneo. È in corso
un'iniziativa di 'contrabbando' di armi che ha sostenuto l'offensiva militare
d'Israele. E non è finita con la 'tregua'.
1.
Il 6 Dicembre 2008 un contratto dello US Military Sealift Command, l'entità
logistica della Marina Usa, viene vinto dalla compagnia marittima tedesca Oskar
Wehr che gestisce una trentina di navi, perlopiù portacontainers di media
dimensione. Il contratto (N00033-09-R-5505, N00033-09-C-5505, per 635.000
dollari richiede il trasporto di 989 containers dalla base navale di Sunny Point
(North Carolina, poco a sud del porto di Southport, sulla costa orientale
statunitense) al porto israeliano di Ashdod, 39 km a nord di Gaza City. La
destinazione di questo carico è il deposito statunitense «War Reserve Stockpile
for Allies (WRSA-I)» in Israele e il caricamento, dice il contratto, deve
iniziare il 13 dicembre.
Poco dopo (31 dicembre), lo stesso Sealift Command fa un'offerta per altri due
contratti (N00033-09-R-5205; N00033-09-R-5205), per il trasporto di 157 e 168
container rispettivamente, con destinazione ancora Ashdod e origine il porto di
Navipe-Astakos - sulla costa ionica greca, poco a Nord dell'isola di Cefalonia.
Il caricamento va effettuato a partire dal 15 gennaio.
Ashdod non è nuova come destinazione di armi e munizioni Usa - sia dirette alle
forze armate israeliane, sia al deposito statunitense in Israele. Contratti di
tale tipo sono stati assegnati dal Military Sealift Command in varie occasioni
negli anni recenti (dal 2002 al 2008) con trasporti da Livorno (Camp Darby) e da
vari porti greci e statunitensi ad Israele. Esempi recenti sono due contratti
del 17 agosto 2007 assegnati all' italiana «Enrico Bonistalli» di Livorno
(247.500 dollari per il trasporto di 125 containers di munizioni) e alla
statunitense TransAtlantic Lines LLC (449.000 dollari per 125 containers di
munizioni) e un contratto del 28 agosto 2007 alla statunitense Sealift Inc.
(745.000 dollari per 125 containers di munizioni), quest'ultimo proprio dal
porto di Navipe-Astakos ad Ashdod (1.535 km di viaggio).
Alcuni ricercatori che seguono di routine i contratti e i trasporti militari
s'accorgono che i contratti del dicembre 2008, oltre ad avere come destinazione
Ashdod in questo momento, includono menzione del tipo di carico da trasportare:
una vasta gamma sia di esplosivi ad alto potenziale (816 tonnellate nel primo
contratto) che di esplosivi inclusi nella categoria H delle merci pericolose,
ovvero fosforo bianco (secondo e terzo contratto), oltre ad altro munizionamento
e ordigni esplosivi (da testate per missili a munizioni di vario tipo e bombe
anti-bunker).
Agli inizi di gennaio i ricercatori rintracciano la nave incaricata del
trasporto, la «Wehr Elbe» (IMO 9236688), capace di caricare 2.500 containers.
Presente a Sunny Point il 13 dicembre, la nave parte il 20 con prima
destinazione Astakos. La scoperta finisce sui tavoli della segreteria
internazionale di Amnesty International, che già il 2 gennaio aveva in un
comunicato chiesto l'embargo completo di invii di armi ad Israele e ad Hamas.
Viene allertata la stampa e l'agenzia Reuters ne dà notizia il 10 di gennaio,
provocando i primi sconquassi e smentite. Il Pentagono si affretta a precisare
che i carichi non erano diretti alle forze armate israeliane, ma al deposito Usa
succitato e il 12 gennaio il governo greco smentisce he navi dirette ad Ashdod
siano partite dai porti greci. Compaiono altri articoli sulla stampa
internazionale e il 13 gennaio una dichiarazione del Comando statunitense in
Europa afferma che gli ultimi due contratti sono stati «cancellati»
(teoricamente l'8 gennaio) e che l'operazione è stata «rimandata». Il 14
gennaio, un comunicato di Amnesty dettaglia tuttavia i termini delle operazioni,
chiedendo che la nave venga fermata e Stop the War, il movimento greco di
solidarietà, protesta contro l'attracco a Astakos. Il 17 il premier greco Costas
Karamanlis, pur ammettendo che c'è stata la richiesta degli Stati uniti, afferma
che la Grecia non avrebbe tuttavia dato il permesso agli americani di far
attraccare la nave ad Astakos e che anche in passato nessun porto greco sarebbe
stato interessato a tali invii. Pressioni del ministero degli esteri tedesco
sulla Oskar Wehr perchè fermi la nave non sortiscono effetto dato che la Wehr
Elbe non è più sotto controllo dell'armatore, ma direttamente del Sealift
Command e ha a bordo militari statunitensi armati. Le cose però non stanno
proprio così.
2. Le dichiarazioni Usa sottolineano come tali trasferimenti di
munizionamento fossero stati programmati molto prima del conflitto a Gaza e non
avessero relazioni con le necessità dell'esercito israeliano. Vediamo i fatti. È
certamente possibile che i trasferimenti siano stati discussi o decisi qualche
mese prima del dicembre (probabilmente anche l'operazione israeliana è stata
«discussa» con il Pentagono qualche mese prima di iniziare...), ma resta il
fatto che il bando di gara del primo contratto è datato 4 dicembre e i tempi di
carico e scarico che esso prevede sono inusualmente stretti, ad indicare
un'operazione urgente e non routinaria. A quella prima offerta di contratto se
ne aggiungono altre due il 31 dicembre, quattro giorni dopo l'inizio
dell'assalto israeliano su Gaza.
Quanto poi al fatto che i containers fossero realmente diretti al deposito Usa
in Israele, le dichiarazioni del Pentagono omettono un particolare importante:
come è scritto in una comunicazione del Pentagono al residente del Comitato
sulle Forze Armate del Senato Usa, John Warner, datata 10 Aprile 2003, «il
Dipartimento della Difesa mantiene un deposito - War Reserve Stockpile - in
Israele. Tale deposito è un'entità separata che contiene munizioni e materiale
posseduti dagli Stati Uniti e destinati all'uso di riserva di guerra da parte
degli Stati Uniti e possono essere trasferiti al governo di Israele in una
emergenza, previo rimborso». Mentre si ribadisce che nulla è gratis al mondo, la
clausola finale è chiara.
3. Sulle dichiarazioni del governo greco che vorrebbero la Grecia alla
fine estranea a questi trasferimenti. Anche qui è certo possibile - e vi sono
dichiarazioni statunitensi del 13 gennaio al proposito - che le autorità greche,
vista la malparata, abbiano all'ultimo momento negato agli Usa l'approdo ad
Astakos, ma è del tutto irrealistico che la Grecia non avesse dato il benestare
all'operazione.
Tutti e tre gli invii previsti coinvolgono il porto di Navipe-Astakos: due
differenti strumenti di tracciamento dei percorsi delle navi danno a Wehr Elbe a
Sunny Point il 13 dicembre con partenza il 20 per il porto di Astakos e
tracciano la nave vicino a Gibilterra il 28 dicembre, specificando ancora
Astakos come destinazione. Non c'è ragione di pensare che la destinazione non
fosse quella, dato che le informazioni arrivano a tali strumenti dalle navi
stesse e dagli agenti assicurativi. Inoltre, i due ultimi contratti
(«cancellati») menzionano esplicitamente Astakos come porto di partenza per
Ashdod. Nessuno, in trasporti marittimi di tale genere e che nel caso
prevedevano l'assistenza di almeno quattro imbarcazioni anti-incendio per le
operazioni di carico e scarico, può sensatamente (e anche per legge) mettere
come destinazione un porto a cui non abbia comunicato l'arrivo della nave e il
tipo di carico e non ne abbia ricevuto approvazione. È del tutto falsa poi
l'affermazione del premier greco relativa all'inesistenza di invii di munizioni
ad Israele nel passato. Vi sono, come detto, almeno tre altri contratti del
Sealift Command, assegnati nel 2007, che nominano o Astakos o genericamente la
Grecia come punto di partenza di ingenti invii di munizioni ad Ashdod. E non si
tratta di bandi di concorso, ma di contratti vinti e assegnati a trasportatori
marittimi per svariate centinaia di migliaia di dollari. Vi è infine da notare
che il reale percorso della Wehr Elbe mostra alcuni elementi che contrastano
direttamente con quanto affermato dal governo greco, indicando inoltre un
possibile coinvolgimento dell'Italia.
A Gaza l'assalto israeliano ha provocato la morte di 1.400 persone (la più parte
civili) e il ferimento grave di altre 5.100. Tutto è ora appeso a una
fragilissima tregua unilaterale annunciata da Israele e anche da Hamas, rispetto
alle quali buon ultima è arrivata l'Unione europea che non ha posto termini al
ririto israeliano e che, fin qui, è stata immobile se non complice delle scelte
della leadership israeliana. Con l'Onu in macerie, fra l'altro almeno tre volte
bersaglio dei raid israeliani. Unico obiettivo dichiarato è quello di «fermare
il contrabbadno di armi», naturalmente solo quello illegale per Hamas. Ma se
l'offensiva dovesse riprendere e allargarsi, l'enorme e letale carico della Wehr
Elbe non resterebbe certo nei depositi statunitensi ma verrebbe probabilmente
«trasferito al governo di Israele in una emergenza, previo rimborso». Se Wehr
Elbe è davvero attraccata a Taranto vi è la possibilità che essa abbia
trasferito il suo carico su una veloce portacontainer che ha lasciato proprio
Taranto il 15/1 ed è arrivata ad Ashdot sabato 17. Fermiamo il «contrabbando» di
questi carichi di morte prima che sia troppo tardi.
SCHEDA
La Wehr Elbe parte da Sunny Point/Southport il 20
dicembre. La sua velocità massima è di 22 nodi (22 miglia nautiche all'ora) e la
velocità di crociera è intorno ai 18 nodi. I segnali satellitari mandati dalla
nave la vedono il 28 dicembre al largo di Ceuta, poco oltre lo Stretto di
Gibilterra. Da Sunny Point allo Stretto di Gibilterra vi sono circa 3.524 miglia
nautiche (6.526 km), che la nave poteva percorrere in circa 8 giorni a 18 nodi
di velocità media, a conferma della data succitata. Un'informativa di fonte
assicurativa afferma che la Wehr Elbe sarebbe arrivata in primo luogo a
Zeebrugge, in Belgio, e si sarebbe poi diretta verso Gibilterra e Astakos. Non
c'è conferma indipendente di tale percorso, ma il passaggio da Zeebrugge avrebbe
aggiunto più di tre giorni al viaggio e la nave non avrebbe verosimilmente
potuto essere vicina a Ceuta il 28 dicembre. I segnali satellitari mostrano poi
che la nave, passata Gibilterra, non si dirige verso Ashdod ma direttamente
verso Astakos e il 31 dicembre è a circa 150 km dal porto greco. Il primo
gennaio è a 4 miglia dal porto e si ferma. Dall'1 all'11 gennaio la nave sembra
non sapere che fare e i segnali la danno continuamente in circolo intorno a
quell'ultimo punto. Il 12 gennaio tuttavia, alle ore 9, la nave riparte in
direzione Sud e passa intorno alla costa meridionale di Cefalonia e alle 12
cambia ancora direzione, puntando dritta verso Nord e il mare Adriatico. Alle
alle 15 e 30, ultimo rilievo disponibile (dato che probabilmente ha spento il
segnalatore), modifica ancora la rotta in direzione Nord-Ovest. Poi il silenzio.
Se davvero il governo greco non avesse mai dato alcun permesso d'attracco ad
Astakos, perché il capitano avrebbe portato la nave dritta ad Astakos invece che
ad Ashdod? Il noleggio di una tale nave costa in media 18/20 mila dollari al
giorno (e probabilmente molto di più per carichi di questo genere), i suoi
spostamenti vengono preparati con grande cura e certo non si va alla speraindio.
Evidentemente, il Sealift Command aveva per qualche ragione pianificato sin
dall'inizio un passaggio da Astakos, probabilmente in congiunzione con le
spedizioni previste dai due contratti poi «cancellati» l'8 gennaio. Infine, il
fatto che la nave giri in circolo per più di dieci giorni (200 mila dollari
aggiuntivi a tariffe normali) potrebbe segnalare che o era in corso una
frenetica trattativa tra greci e statunitensi per evitare l'approdo effettivo ad
Astakos o si aspettava che arrivassero i container relativi ai contratti
«cancellati». L'armatore della Wehr Elbe afferma di non aver concorso per gli
altri due contratti. Dovevano dunque arrivare altre navi? O semplicemente il
Sealift Command voleva far caricare sulla Wehr Elbe gli ulteriori 325 containers
previsti dai due contratti «cancellati»? Dove sono finiti quei 325 container di
munizioni che avrebbero dovuto essere caricati ad Astakos? Al porto di Astakos
stanno arrivando gruppi dello «Stop the War» greco e forse potrebbero dirci
qualcosa in proposito, ma dove sta andando la Wehr Elbe con i suoi 989
containers originali e le 816 tonnellate di esplosivi ad alto potenziale? Senza
poter escludere l'approdo in due vicini porti albanesi e montenegrini, la rotta
sembrerebbe indicare come possibili destinazioni Brindisi o Taranto. Soprattutto
in quest'ultimo la Us Navy e la Nato godono di diritti di approdo esclusivi
nell'area portuale e di attrezzature adeguate ad accogliere quella bomba
natante. Nessuno, tranne il Sealift Command e certo qualche autorità italiana,
sa dove sia attualmente la nave. Forse è già arrivata da qualche parte e
aspetta, letteralmente, che si calmino le acque.
Noi vittime dei preti
pedofili
di Paolo Tessadri
Decine di bambini e ragazzi sordi violentati e
molestati in un istituto di Verona fino al 1984. E dopo decenni di tormenti, gli
ex allievi trovano la forza di denunciare gli orrori. Ma molti dei sacerdoti
sono ancora lì
Per oltre un secolo è stato un simbolo della
carità della Chiesa: una scuola specializzata per garantire un futuro migliore
ai bambini sordi e muti, sostenendoli negli studi e nell'inserimento al lavoro.
L'Istituto Antonio Provolo di Verona ospitava i piccoli delle famiglie povere,
figli di un Nord-est contadino dove il boom economico doveva ancora arrivare.
Fino alla metà degli anni Ottanta è stato un modello internazionale, ma nel
tetro edificio di Chievo, una costruzione a metà strada tra il seminario e il
carcere, sarebbero avvenuti episodi terribili.
Solo oggi, rincuorati dalle parole di condanna pronunciate da papa Ratzinger
contro i sacerdoti pedofili, decine di ex ospiti hanno trovato la forza per
venire allo scoperto e denunciare la loro drammatica esperienza: "Preti e
fratelli religiosi hanno abusato sessualmente di noi". Un'accusa
sottoscritta da oltre 60 persone, bambini e bambine che hanno vissuto
nell'Istituto, e che ora scrivono: "Abbiamo superato la nostra paura e la nostra
reticenza".
Gli abusi di cui parlano sarebbero proseguiti per almeno trent'anni, fino al
1984. Sono pronti a elencare una lunga lista di vittime e testimoni, ma non
possono più rivolgersi alla magistratura: tutti i reati sono ormai prescritti,
cancellati dal tempo. I sordomuti che dichiarano di portarsi dentro questo
dramma sostengono però di non essere interessati né alle condanne penali né ai
risarcimenti economici. Loro, scrivono, vogliono evitare che altri corrano il
rischio di subire le stesse violenze: una decina dei religiosi che accusano oggi
sono anziani, ma restano ancora in servizio nell'Istituto, nelle sedi di Verona
e di Chievo. Per questo, dopo essersi rivolti al vescovo di Verona e ai
vertici del Provolo, 15 ex allievi hanno inviato a 'L'espresso' le testimonianze
- scritte e filmate - della loro esperienza.
Documenti sconvolgenti, che potrebbero aprire uno squarcio su uno dei più gravi
casi di pedofilia in Italia: gli episodi riguardano 25 religiosi, le vittime
potrebbero essere almeno un centinaio.
La denuncia
Gli ex allievi, nonostante le difficoltà nell'udito e nella parola, sono
riusciti a costruirsi un percorso di vita, portandosi dentro le tracce
dell'orrore. Dopo l'esplosione dello scandalo statunitense che ha costretto la
Chiesa a prendere atto del problema pedofilia, e la dura presa di posizione di
papa Benedetto XVI anche loro hanno deciso di non nascondere più nulla. Si sono
ritrovati nell'Associazione sordi Antonio Provolo e poi si sono rivolti alla
curia e ai vertici dell'Istituto. Una delle ultime lettere l'hanno indirizzata a
monsignor Giampietro Mazzoni, il vicario giudiziale, ossia il magistrato del
Tribunale ecclesiastico della diocesi di Verona. È il 20 novembre 2008: "I sordi
hanno deciso di far presente a Sua Eminenza il Vescovo quanto era loro accaduto.
Nella stanza adibita a confessionale della chiesa di Santa Maria del Pianto
dell'Istituto Provolo, alcuni preti approfittavano per farsi masturbare e
palpare a loro volta da bambine e ragazze sorde (la porta era in quei
momenti sempre chiusa a chiave).
I rapporti sodomitici avvenivano nel dormitorio, nelle camere dei preti e
nei bagni sia all'Istituto Provolo di Verona che al Chievo e, durante il periodo
delle colonie, a Villa Cervi di San Zeno di Montagna". E ancora: "Come non
bastasse, i bambini e ragazzi sordi venivano sottoposti a vessazioni, botte e
bastonature. I sordi possono fare i nomi dei preti e dei fratelli laici
coinvolti e dare testimonianza". Seguono le firme: nome e cognome di 67 ex
allievi.
Le storie
I protagonisti della denuncia citano un elenco di casi addirittura molto più
lungo, che parte dagli anni Cinquanta. Descrivono mezzo secolo di sevizie,
perfino sotto l'altare, in confessionale, dentro ai luoghi più sacri.
Quei bambini oggi hanno in media tra i 50 e i 70 anni: il più giovane compirà 41
anni fra pochi giorni. Qualcuno dice di essere stato seviziato fino quasi alla
maggiore età. Gli abusi, raccontano, avvenivano anche in gruppo, sotto la
doccia. Scene raccapriccianti, impresse nella loro memoria. Ricorda Giuseppe,
che come tutti gli altri ha fornito a 'L'espresso' generalità complete: "Tre
ragazzini e tre preti si masturbavano a vicenda sotto la doccia". Ma la storia
più angosciante è quella di Bruno, oggi sessantenne, che alla fine degli anni
Cinquanta spiccava sugli altri bambini per i lineamenti angelici: era il 'bello'
della sua classe. E solo ora tira fuori l'incubo che lo ha tormentato per tutta
la vita: "Sono diventato sordo a otto anni, a nove frequentavo il Provolo che ho
lasciato a 15 anni. Tre mesi dopo la mia entrata in istituto e fino al
quindicesimo anno sono stato oggetto di attenzioni sessuali, sono stato
sodomizzato e costretto a rapporti di ogni tipo dai seguenti preti e fratelli.".
Ha elencato 16 nomi. Nella lista anche un alto prelato, molto famoso a Verona:
due sacerdoti del Provolo avrebbero accompagnato Bruno nel palazzo
dell'ecclesiastico. "Era il 1959, avevo 11 anni. Mi ha sodomizzato e preteso
altri giochi sessuali. È stata un'esperienza terribile che mi ha procurato da
adulto gravi problemi psicologici".
Il dramma
Un altro ex allievo, Guido, dichiara di essere stato molestato da un prete:
"Avveniva nella sua stanza all'ultimo piano. E mi costringeva a fare queste cose
anche a Villa Cervi durante le colonie estive e al campeggio sul lago di Garda".
Carlo è rimasto all'istituto dai 7 ai 18 anni, e chiama in causa un altro
sacerdote: "Mi costringeva spesso con punizioni (in ginocchio per ore in un
angolo) e percosse (violenti schiaffi e bastonature) ad avere rapporti con lui".
Altre volte si sarebbe trattato di bacchettate sulle mani, mentre di notte
"nello stanzone dove dormivo con altri sordi spesso mi svegliava per portarmi
nei bagni dove mi sodomizzava o si faceva masturbare. Non ho mai dimenticato".
Sono racconti simili. Tragedie vissute da bambini di famiglie povere, colpiti
dalla sordità e poi finiti tra le mura dell'istituto; drammi tenuti dentro per
decenni. Ricostruisce Ermanno: "La violenza è avvenuta nei bagni e nelle stanze
dell'Istituto Provolo e anche nella chiesa adiacente". "Se rifiutavo minacciava
di darmi un brutto voto in condotta, questi fatti mi tornano sempre in mente",
scrive un altro. Giuseppe qualche volta a Verona incontra il suo violentatore,
"ancora oggi quando lo vedo provo molto disagio. Non sono mai riuscito a
dimenticare". Stando alle denunce, le vittime erano soprattutto ragazzini. Ma ci
sono anche episodi testimoniati da bambine. Lina ora ha cinquant'anni, è rimasta
"all'istituto per sordomuti dai sei ai 17 anni. A tredici anni nella chiesa,
durante la confessione faccia a faccia (senza grata), il sacerdote mi ha toccata
il seno più volte. Ricordo bene il suo nome. Io mi sono spaventata moltissimo e
da allora non mi sono più confessata". Giovanna scrive che un altro prete "ha
tirato fuori il membro e voleva che lo toccassi". E per molte ragazzine i fatti
avvenivano nella chiesa dell'istituto, sotto l'altare. A qualcuna, però, è
andata molto peggio.
Gli esposti
Oggi l'Istituto Antonio Provolo ha cambiato completamente struttura e missione.
Le iniziative per il sostegno ai sordomuti sono state ridimensionate e vengono
finanziate anche dalla Regione Veneto. Adesso l'attività principale è il Centro
educativo e di formazione professionale, gestito interamente da laici, che offre
corsi d'avanguardia per giovani ed è specializzato nella riqualificazione di
disoccupati. Al vertice di tutto ci sono sempre i religiosi della Congregazione
della Compagnia di Maria per l'educazione dei sordomuti, che dipendono
direttamente dalla Santa Sede. Alla Congregazione si sono rivolti gli ex allievi
chiedendo l'allontanamento dei sacerdoti chiamati in causa. Secondo la loro
associazione, "c'è già stata più di un'ammissione di colpa". La più
importante risale al 2006, quando don Danilo Corradi, superiore generale
dell'Istituto Provolo, avrebbe incontrato più di 50 ex allievi. Secondo
l'Associazione, il superiore a nome dell'Istituto avrebbe chiesto 12 volte scusa
per gli abusi commessi dagli altri religiosi. I testimoni ricostruiscono una
riunione dai toni drammatici: don Corradi che stringe il capo fra le mani, suda,
chiede perdono, s'inginocchia. Ma i sordomuti avrebbero preteso l'allontanamento
dei sacerdoti coinvolti, senza ottenerlo. A 'L'espresso' don Danilo Corradi
fornisce una versione diversa: "Ho sentito qualcosa, ma io sono arrivato nel
2003 e di quello che è successo prima non so. Non rispondo alle accuse, non so
chi le faccia: risponderemo dopo aver letto l'articolo".
La Curia
Da quasi due anni gli ex allievi si sono appellati anche alla Curia di Verona,
informandola nel corso di più incontri. Il presidente della Associazione sordi
Antonio Provolo, Giorgio Dalla Bernardina, ne elenca tre: a uno hanno preso
parte 52 persone. E scrive al vescovo: "Nonostante i nostri incontri in Curia
durante i quali abbiamo fatto presente anche e soprattutto gli atti di pedofilia
e gli abusi sessuali subiti dai sordomuti durante la permanenza all'istituto, a
oggi non ci è stata data alcuna risposta". L'ultima lettera è dell'8 dicembre
2008. Pochi mesi prima, a settembre, avevano fatto l'ennesimo tentativo,
inviando una raccomandata al vescovo di Verona, monsignor Giuseppe Zenti. Senza
risposta, "nonostante le sue rassicurazioni e promesse di intervento". Questa
missiva è stata firmata da tre associazioni di sordi: Associazione Sordi Antonio
Provolo, Associazione non udenti Provolo, Associazione sordi Basso
Veronese-Legnago.
Il vescovo, interpellato da 'L'espresso', replica con una nota scritta: "Il
Provolo è una congregazione religiosa. In quanto tale è di diritto pontificio e
perciò sotto la giurisdizione del Dicastero dei religiosi. La diocesi di
Verona, sul cui territorio è sorta la Congregazione, apprezza l'opera di
carattere sociale da essa svolta in favore dei sordomuti". Poi monsignor
Giuseppe Zenti entra nel merito: "Per quanto attiene l'accusa di eventuale
pedofilia, rivolta a preti e fratelli laici, che risalirebbe ad alcune decine di
anni fa, la diocesi di Verona è del tutto all'oscuro. A me fecero cenno del
problema alcuni di una Associazione legata al Provolo, ma come ricatto rispetto
a due richieste di carattere economico, nell'eventualità che non fossero
esaudite. Tuttavia a me non rivolsero alcuna accusa circostanziata riferita a
persone concrete, ma unicamente accuse di carattere generico. Non ho altro da
aggiungere se non l'impegno a seguire in tutto e per tutto le indicazioni
contenute nel codice di diritto canonico e nelle successive prese di posizione
della Santa Sede. Nella speranza che presto sia raggiunto l'obiettivo di
conoscere la verità dei fatti".
L'Associazione sordi Antonio Provolo risponde al vescovo negando qualunque
ricatto o interesse economico: "Gli abbiamo soltanto fatto presente i
problemi, noi vogliamo che quei sacerdoti vengano allontanati perché quello che
hanno fatto a noi non accada ad altri".
Zimbabwe, fumata nera
Nuovo fallimento, forse definitivo, ai colloqui
di pace tra maggioranza e opposizione
scritto da Matteo Fagotto
Ancora una fumata nera. L'ennesima, in un processo
di transizione che, dallo scorso settembre, non ha fatto registrare progressi.
Ma il fallimento del vertice di lunedì scorso tra il presidente dello Zimbabwe,
Robert Mugabe, e il leader dell'opposizione, Morgan Tsvangirai, è più grave di
quanto si pensi. Presentato come l'incontro risolutivo, quello che avrebbe
dovuto portare alla nascita del nuovo governo di unità nazionale, il colloquio è
invece fallito dopo 12 ore di trattativa. E lo stesso Tsvangirai ha parlato
apertamente del "giorno più nero delle nostre vite".
Come nelle precedenti occasioni, il fallimento delle trattative ha portato i due
partiti (lo Zanu-Pf di Mugabe e il Mdc di Tsvangirai) ad accusarsi a vicenda per
la rottura: il presidente ha accusato il leader dell'opposizione di essersi
presentato ai colloqui con nuove richieste, invece di accettare il posto di
premier offerto dallo Zanu-Pf; dal canto suo, il Mdc ritiene di aver acquisito
maggior peso dopo la vittoria alle elezioni politiche dello scorso anno, e
pretende per sé alcuni tra i ministeri maggiori, tra i quali gli Interni,
l'Informazione e le Finanze. Una distanza di vedute che i mediatori della
Southern African Development Community tenteranno di colmare nel loro prossimo
vertice, in programma lunedì prossimo. Ma è stato lo stesso Mdc a dirsi scettico
sulla riuscita del nuovo vertice, se prima i leader dell'Africa meridionale non
adotteranno una linea più ferma nei confronti di Mugabe.
Vincitore del ballottaggio dello scorso giugno a causa del ritiro di Tsvangirai,
che aveva denunciato una campagna di terrore nei confronti dei propri
sostenitori nei giorni precedenti le consultazioni, Mugabe ha mentenuto il
potere, ma a un prezzo molto alto. L'economia del Paese si è liquefatta, con
un'inflazione che ha raggiunto quota 231.000.000 percento, polverizzando moneta
e risparmi. Lo stato non ha più i fondi per garantire i servizi di base come
l'erogazione idrica e la sanità, tanto che un focolaio di colera nato lo scorso
agosto si è trasformato in un'epidemia che ha ucciso finora 2.500 persone. Le
voci che chiedono le dimissioni di Mugabe, sempre più isolato diplomaticamente,
si moltiplicano. Uno sciopero della fame organizzato questa settimana in
Sudafrica da 40 tra le personalità più eminenti del Paese, tra le quali
l'arcivescovo Desmond Tutu e la moglie di Nelson Mandela, Graca Machel, chiede
ai leader della Sadc di cessare la "quiet diplomacy" nei confronti di Mugabe,
una politica che secondo gli organizzatori non avrebbe raggiunto i risultati
sperati.
Per ora, però, i leader regionali preferiscono continuare con le trattative.
Dallo scorso settembre, quando maggioranza e opposizione firmarono un memorandum
di intesa per la nascita del nuovo esecutivo, le trattative non hanno portato
alcun risultato. La paralisi politica, che dura ormai da quasi un anno,
impedisce alle autorità di affrontare i problemi più pressanti del Paese. La
crisi economica ha colpito anche l'esercito, tradizionale sostenitore del
presidente. A dicembre, alcuni soldati devastarono il centro della capitale
Harare a causa del mancato pagamento dei loro stipendi. Una situazione che si
sta ripetendo a gennaio, tanto che il governo non ha più i soldi neanche per dar
da mangiare alle truppe. Una possibile sollevazione militare contro il
presidente non è più un'ipotesi così remota.
25 gennaio
La rivoluzione di un padre
di ROBERTO SAVIANO
BEPPINO Englaro, il papà di Eluana, sta dando
forza e senso alle istituzioni italiane e alla possibilità che un cittadino del
nostro Paese, nonostante tutto, possa ancora sperare nelle leggi e nella
giustizia. Ciò credo debba essere evidente anche per chi non accetta di voler
sospendere uno stato vegetativo permanente e ritiene che ogni forma di vita,
anche la più inerte, debba essere tutelata.
Mi sono chiesto perché Beppino Englaro, come qualcuno del resto gli aveva
suggerito, non avesse ritenuto opportuno risolvere tutto "all'italiana". Molti
negli ospedali sussurrano: "Perché farne una battaglia simbolica? La portava in
Olanda e tutto si risolveva". Altri ancora consigliavano il solito metodo
silenzioso, due carte da cento euro a un'infermiera esperta e tutto si risolveva
subito e in silenzio.
Come nel film "Le invasioni barbariche", dove un professore canadese ormai
malato terminale e in preda a feroci dolori si raccoglie con amici e familiari
in una casa su un lago e grazie al sostegno economico del figlio e a una brava
infermiera pratica clandestinamente l'eutanasia.
Mi chiedo perché e con quale spirito accetta tutto questo clamore. Perché non
prende esempio da chi silenziosamente emigra alla ricerca della felicità, sempre
che le proprie finanze glielo permettano. Alla ricerca di tecniche di
fecondazione in Italia proibite o alla ricerca di una fine dignitosa. Con
l'amara consapevolezza che oramai non si emigra dall'Italia solo per trovare
lavoro, ma anche per nascere e per morire. Nella vicenda Englaro ritornano sotto
veste nuova quelle formule lontane e polverose che ci ripetevano all'università
durante le lezioni di filosofia.
Il principio kantiano: "Agisci in modo che tu possa volere che la massima delle
tue azioni divenga universale" si fa carne e sudore. E forse solo in questa
circostanza riesci a spiegarti la storia di Socrate e capisci solo ora dopo
averla ascoltata migliaia di volte perché ha bevuto la cicuta e non è scappato.
Tutto questo ritorna attuale e risulta evidente che quel voler restare, quella
via di fuga ignorata, anzi aborrita è molto più di una campagna a favore di una
singola morte dignitosa, è una battaglia in difesa della vita di tutti. E per
questo Beppino, nonostante il suo dramma privato, ha dovuto subire l'accusa di
essere un padre che vuole togliere acqua e cibo alla propria figlia, contro
coloro che dileggiano la Suprema Corte e contro chi minaccia sanzioni e
ritorsioni per le Regioni che accettino di accogliere la sua causa, nel pieno
rispetto di una sentenza della Corte di cassazione.
L'unica risposta che ho trovato a questa domanda, la più plausibile, è che la
lotta quotidiana di Beppino Englaro non sia solo per Eluana, sua figlia, ma
anche e soprattutto in difesa del Diritto, perché è chiaro che la vita del
Diritto è diritto alla vita. Beppino Englaro con la sua battaglia sta aprendo
una nuova strada, sta dimostrando che in Italia si può e si deve restare
utilizzando gli strumenti che la democrazia mette a disposizione. In Italia non
esiste nulla di più rivoluzionario della certezza del Diritto. E mi viene in
mente che tutelare la certezza dei diritti, la certezza dei crediti,
costituirebbe la stangata definitiva all'economia criminale. Se fosse possibile,
nella mia terra, rivolgersi a un tribunale per veder riconosciuto, in un tempo
congruo, la fondatezza del proprio diritto, non si avvertirebbe certo il bisogno
di ricorrere a soluzioni altre. Beppino questo sta dimostrando al Paese. Non
sarebbe necessario ricorrere al potere di dissuasione delle organizzazioni
criminali, che al Sud hanno il monopolio, illegale, nel fruttuoso business del
recupero crediti.
E a lui il merito di aver insegnato a questo Paese che è ancora possibile
rivolgersi alle istituzioni e alla magistratura per vedere affermati i propri
diritti in un momento di profonda e tangibile sfiducia. E nonostante tutte le
traversie burocratiche, è lì a dimostrare che nel diritto deve esistere la
possibilità di trovare una soluzione.
Per una volta in Italia la coscienza e il diritto non emigrano. Per una volta
non si va via per ottenere qualcosa, o soltanto per chiederla. Per una volta non
si cerca altrove di essere ascoltati, qualsiasi cittadino italiano, comunque la
pensi non può non considerare Beppino Englaro un uomo che sta restituendo al
nostro Paese quella dignità che spesso noi stessi gli togliamo.
Immagino che Beppino Englaro, guardando la sua Eluana, sappia che il dolore di
sua figlia è il dolore di ogni singolo individuo che lotta per l'affermazione
dei propri diritti. Se avesse agito in silenzio, trovando scorciatoie a lui
sarebbe rimasto forse solo il suo dolore. Rivolgendosi al diritto, combattendo
all'interno delle istituzioni e con le istituzioni, chiedendo che la sentenza
della Suprema Corte sia rispettata, ha fatto sì, invece, che il dolore per una
figlia in coma da 17 anni, smettesse di essere un dolore privato e diventasse
anche il mio, il nostro, dolore. Ha fatto riscoprire una delle meraviglie
dimenticate del principio democratico, l'empatia. Quando il dolore di uno è il
dolore di tutti. E così il diritto di uno diviene il diritto di tutti.
REPORTAGE. Viaggio nel Cpt, tra risse e
degrado. "Morti in mare 10 di noi". "Cercavo la libertà, sono finito
all'inferno"
Lampedusa, girone dei
disperati. Le storie dei sopravvissuti al mare
dal nostro inviato FRANCESCO VIVIANO
LAMPEDUSA
- "Respira, respira ancora, quindi è viva" dice, Odemije, 22 anni, nigeriano,
subito dopo essere uscito dal pronto soccorso di Lampedusa dov'era stato portato
per l'"ultimo saluto" alla sua compagna, Vivede, 19 anni, appena intubata e
subito dopo trasferita con l'elicottero del 118 a Palermo, dove i medici
disperano di salvarla. È in coma, ricoverata in rianimazione, ha ustioni su
tutto il corpo ed una sindrome di assideramento gravissima. Sono davvero poche
le speranze che possa cavarsela, dopo una settimana in mare aperto senza acqua e
senza viveri, per raggiungere Lampedusa. L'"inferno" di Lampedusa dove Odemije è
arrivato con la sua compagna ieri mattina con un gommone. Insieme con altri 61
disperati, con i loro racconti dell'orrore: 10 dei loro compagni di viaggio,
spiegano, sono morti di stenti e di freddo durante la traversata e buttati in
mare dai sopravvissuti. Ma tutti loro, come altre centinaia dei 1900 clandestini
che attualmente si trovano nel centro di accoglienza, dormiranno all'aperto.
In ripari di fortuna, tende improvvisate con teli leggeri, perché il centro è al
collasso. Sporcizia, escrementi, gabinetti e fognature intasate, camere di tre
metri per tre che ospitano fino a 15 persone, oltre 100 minori stipati per terra
su finti materassi, senza coperte e senza teli, con bottiglie di plastica ed
altri rifiuti sparsi ovunque. Anche gli uffici dei dirigenti del Centro di
accoglienza non ci sono più. Ospitano decine e decine di immigrati, appollaiati
uno sull'altro.
"Voglio andare via, ritornare in Tunisia, non ne posso più. Sono qui da 30
giorni. Speravo di trovare la libertà ed un po' di serenità, ma qui è peggio che
all'inferno". L'esterno del centro di accoglienza che sorge su una vecchia base
dell'Aeronautica Militare è circondato da bersaglieri, dentro una cinquantina di
carabinieri e poliziotti che a turno sorvegliano quella piccola città della
speranza che da settimane si è trasformata in una bolgia. I responsabili del
centro alzano le spalle, fanno tutto il possibile. "Ma miracoli non ne possiamo
fare - dicono - i posti letto sono 800, loro sono quasi duemila. Come possiamo
fare a sistemarli in maniera un po' più decente? Riusciamo a farli mangiare
tutti, a vestirli tutti, ma non possiamo trovare un letto ed un riparo per
tutti". Al ministero dell'Interno, alle prefetture, sono state inviate relazioni
che segnalano la grave situazione. Hanno paura che possano scoppiare delle
rivolte, delle risse per conquistare un letto o un riparo.
Quanto durerà ancora, si chiedono gli operatori e i militari che lavorano nel
centro di accoglienza. Temono, e non ne fanno un mistero, che "prima o poi ci
scapperà il morto". E mentre dentro il centro la tensione aumenta, fuori, tra i
cittadini di Lampedusa, la protesta contro il ministro degli interni Maroni che
ha deciso di non trasferire i clandestini in altri centri, monta ogni ora di
più. Accusano di "tradimento" anche la loro ex pasionaria, Angela Maraventano
che ha conquistato una poltrona da senatrice proprio con la Lega. Il sindaco
Rino De Rubeis le ha revocato l'incarico di vice sindaco, molti suoi
concittadini la chiamano già "giuda" perché asseconda le scelte del ministro
Maroni. E i lampedusani minacciano azioni eclatanti, dopo la conferma di quello
che un paio di giorni fa l'ex sindaco dell'isola, Totò Martello, aveva
denunciato pubblicamente: la realizzazione di un altro centro di accoglienza
nella base Loran della Marina Militare di Lampedusa. Una decisione che ieri sera
ha provocato altre tensioni e minacce di bloccare il porto e l'aeroporto: oltre
duecento abitanti dell'isola hanno inscenato una manifestazione davanti
all'ingresso del Cpt, guardati a vista dai militari della sorveglianza.
Baghdad manda l'esercito a Kirkuk, già controllata dalle forze
curde
La situazione di Kirkuk, rimasta pressoché stabile nel
corso del 2008, rischia di precipitare nuovamente.
La città petrolifera del nord dell'Iraq, ai confini della regione del
Kurdistan iracheno, è stata esclusa dalle prossime elezioni amministrative,
che si terranno il 31 gennaio, per evitare il riaccendersi delle tensioni
tra i gruppi che la contendono: curdi, turcomanni e arabi soprattutto. Per
risolvere la contesa sul controllo della provincia è stato creato un
consiglio provinciale, con il compito di traghettare la città verso il
referendum che ne deciderà l'appartenenza o meno alla regione curda.
Da
oltre un anno la politica ha preso il posto delle bombe a Kikruk, che fino
al 2007 è stata teatro di numerosi attentati. "Non c'è un solo metro della
provincia che non sia sotto il nostro controllo" diceva a peaceReporter il
capo del consiglio provinciale Ali Rizgar Hamajan, spiegando come il merito
fosse delle forze di sucurezza curde, i peshmergha. Anche il vescovo della
città, Louis Sako, conveniva che le truppe curde sono molto efficienti e
hanno garantito sicurezza per tutti i gruppi etnici e religiosi. Lo scorso
13 gennaio, però, il governo di Baghdad ha deciso di mandare una divisione
dell'esercito a pattugliare la provincia, provocando la reazione dei partiti
curdi. "è una provocazione da parte del governo di Baghdad" ha commentato
una fonte politica curda all'agenzia Aki, precisando che "le aree in cui
sono state mandate le forze di Baghdad si contraddistinguono per la
stabilità a livello politico e di sicurezza, e non hanno bisogno di
rinforzi". Il leader della coalizione curda della provincia di Tamim,
Muhammad Kamal, ha persino accusato il governo di Baghdad di "imporre un
assedio militare intorno alla provincia".
Nonostante
l'apparente tranquillità, dovuta anche alla muscolare presenza delle forze
di sicurezza curde, lo scorso dicembre un attentatore si è fatto esplodere
in un ristorante della città, causando la morte di 55 persone. Lo scorso 11
gennaio, un settimanale curdo divulgava una statistica secondo cui, nel
corso del 2008, 218 persone sono rimaste uccise nella provincia. L'invio dei
rinfozi militari di Baghdad, tuttavia, è parso ai più come una manovra
spinta da ragioni politice più che di sicurezza. Uno sgarbo che, se le
truppe fossero state schierate in città, avrebbe potuto portare a un
conflitto aperto con i peshmergha, che nominalmente fanno parte
dell'esercito nazionale. Qualcosa del genere era accaduto anche lo scorso
agosto a Khanaqin, una città che vive una situazione molto simiile a quella
di Kirkuk. Entrambe sono popolate da una maggioranza curda e giacciono su
enormi pozzi di petrolio, entrambe sono contese tra il governo di Baghdad,
che le vorrebbe includere nella regione centrale a maggironza araba, e il
governo del Kurdistan, che vorrebbe annetterle. Entrambe sono pattugliate
dalle forze di sicurezza curde. Ad agosto Baghdad mandò l'esercito iracheno
a Khanaqin, per sostiture i peshmergha, ma la popolazione si ribellò e, dopo
alcuni giorni di pericolosa tensione, si giunse a un compromesso: I
peshmergha sono rimasti a controllare l'interno della città, mentre
l'esercito iracheno è stato diclocato all'esterno della provincia. Oggi a
Kikruk accade qualcosa di simile, il governo di Baghdad, inviando i soldati,
ha mandato un segnale ai curdi, che vengono accusati dalla componente araba
cittadina di monopolizzare il consiglio provinciale, di cui detengono la
maggioranza. Il processo politico per la soluzione del problema Kirkuk è
ancora lungo, e nessuna delle parti ha realmente intenzione di boicottarlo
apertamente, per timore di riaprire le porte al terrorismo.
Naoki Tomasini
Morti non casuali
Il
colpo di pistola che ha ucciso lunedì a Mosca Anastasia Baburova,
giovanissima praticante giornalista, è stato quasi certamente
casuale: possiamo supporre che il killer non sapesse chi era
Anastasia e nemmeno che si sarebbe trovata lì in quel momento. Il
suo obiettivo era un altro, un conosciutissimo avvocato, coinvolto
in molte cause “calde” connesse con la violenza dei potenti legati
al regime russo. Anastasia è stata uccisa semplicemente perché si
trovava insieme a lui, ha visto il killer e ha tentato
coraggiosamente di reagire e bloccarlo. Ma nonostante le
circostanze, la sua non è stata un’uccisione casuale; e possiamo
supporre che i mandanti del killer siano rimasti molto contenti di
questo esito che, senza esser stato previsto e cercato, ha
raddoppiato il successo dell’operazione.
Anastasia lavorava per la Novaja Gazeta, il giornale dove scriveva
Anna Politkovskaja: un giornale che non ha mai smesso di cercare
quel che dovrebbero cercare tutti i giornali, la verità e la
giustizia, soprattutto quando per avere un risultato è necessario
sfidare, a nome dei cittadini che non possono farlo di persona,
l’omertà e la prepotenza di chi sta in alto. Non era casuale che una
giornalista della Novaja fosse alla conferenza stampa dell’avvocato
Stanislav Markelov, che vi aveva annunciato un ricorso contro la
scandalosa rimessa in libertà di un colonnello dell’esercito,
stupratore e assassino confesso, da parte del tribunale. Non era
casuale che questa giovane giornalista seguisse poi Markelov per
discutere con lui della causa e delle prossime mosse da compiere:
anche lei, anche il suo giornale erano molto coinvolti, nella
disgustosa vicenda giudiziaria del colonnello Yurij Budanov; come
l’avvocato, erano molto vicini alla famiglia di Elza Kungaeva, la
ragazzina cecena violentata e strangolata da Budanov nel 2000,
durante la guerra. Non era casuale infine che Anastasia fosse tanto
coraggiosa da cercar di fermare il killer: occorre essere coraggiosi
per fare il lavoro che voleva fare lei, in un giornale come quello,
occupandosi di argomenti come quelli, in un paese come la Russia di
oggi.
Per
questo i mandanti di quel killer possono essere doppiamente
soddisfatti: non solo hanno eliminato un fastidioso tipo che metteva
in cattiva luce la gloriosa macchina delle forze armate nazionali,
cercando di minare il consacrato diritto dei militari a violentare e
uccidere chi vogliono (tantopiù se trattasi di femmina e non slava,
dunque due volte inferiore), ma hanno anche mandato un fortissimo
messaggio ai giornali, ai giornalisti e ai cittadini tutti – non
ficcate il naso dove non dovete, non cercate di essere coraggiosi,
non state dalla parte di chi rompe i coglioni.
E’
un messaggio forte perché la società russa odierna non si oppone
molto a questo modo di pensare; le centinaia di persone che ieri
si sono ritrovate in piazza a piangere e manifestare il loro
lutto per la morte di due coraggiosi non devono trarre in
inganno.
Lutto sul luogo dove Baburova
e Markelov sono stati uccisi
Inutile illudersi
che in Russia ci sia una dittatura che governa contro una
popolazione ostile: non è così. A dirlo non sono soltanto le
percentuali di consenso intorno ai capi supremi, che possono essere
manipolate o non significare granché al di là di un generico bisogno
di stabilità e sicurezza. No, a dire che il terreno in cui si
muovono gli avvocati e i giornalisti coraggiosi come Markelov o
Baburova è duro e difficile è l’impunità sostanziale di cui godono
le bande di assassini neonazisti – che guardacaso proprio lunedì
hanno ammazzato a Mosca un ragazzo di vent’anni reo di appartenere a
un movimento di sinistra, e che praticamente tutti i giorni uccidono
qualche immigrato asiatico o caucasico preso a casaccio per strada
(il processo e la condanna dei sette membri di una di queste bande,
qualche settimana fa, ha fatto sensazione). A dirlo sono le
manifestazioni pubbliche di sostegno a Yurij Budanov, perché la vita
di “una puttanella cecena” non vale il disonore della prigione per
un ufficiale; a dirlo è il silenzio, l’indifferenza con cui vengono
accolte le uccisioni, o i pestaggi quasi mortali, degli uomini e
delle donne che cercano di far qualcosa per opporsi a tutto questo –
gli ambientalisti che lottano contro l’inquinamento della Siberia, i
giornalisti locali che denunciano i furti e la corruzione di sindaci
e di governatori (Markelov era anche il difensore di Beketov,
giornalista di una città alla periferia di Mosca ridotto in fin di
vita per aver denunciato uno scandalo dell’amministrazione locale).
Non occorre che sia il vertice del potere a dar l’ordine di far
fuori qualcuno “scomodo”: è una vasta e ramificata rete intermedia,
ereditata ancora dai tempi del Pcus, che consente impunità e
copertura alle prepotenze, ai soprusi, alle intimidazioni violente.
Dmitrij
Medvedev, salendo al Cremlino, aveva promesso un cambiamento in
questo modo di essere del potere, una riforma della giustizia, una
riduzione, quantomeno, del tasso di illegalità esibito dalle
autorità pubbliche. Qualche timidissimo segno in questa direzione,
nei primi sette mesi del suo mandato, si è anche visto: ma
puntualmente è stato seguito da pesanti segni contrari, tanto da far
persino supporre che qualche sorda lotta sotterranea fosse in corso,
nei corridoi del Cremlino e degli altri palazzi del potere. E adesso
la tremenda crisi globale che ha investito anche la Russia, con il
suo corollario di disoccupazione e infelicità, non contribuirà certo
a migliorare le cose – razzismo, nazionalismo, odio per l’altro, il
diverso, il “rompicoglioni”, avranno ancor più terreno fertile su
cui svilupparsi.
Di
tutto questo però, nessuno fuori dai confini russi sembra granché
preoccuparsi. Si fa gran scandalo per la vicenda del gas, che in
fondo è una banale lite commerciale complicata da oggettive
difficoltà tecniche e geopolitiche, e per qualche giorno di
rubinetti chiusi si considera la Russia un nemico: mentre si fa
finta di niente sulle vere dinamiche malvagie che sono in atto sotto
i nostri occhi in un grandissimo e importante paese. Non sarà che,
almeno in Italia ma non solo, sono in tanti a pensare che questo sia
il modo giusto di trattare i problemi?
Rulli di tamburo a
Pasco Cerro de Pasco: è la
capitale mineraria del Perú, oltre 4.300 metri di altitudine, su un arido
altipiano andino spazzato dal vento dove cresce quasi solo erba nana. Cerro
de Pasco Corporation: è una rapace multinazionale mineraria attiva lassù fin
dagli inizi del secolo. Sono luoghi e soggetti indimenticabili per chi ha
letto i micidiali romanzi storico-magici, un'opera epica, dello scrittore e
attivista peruviano Manuel Scorza. Già negli anni venti si scoprì che le
estrazioni e lavorazioni minerarie sull'altipiano avvelenavano l'ambiente.
Per evitare lo scandalo, la Cerro de Pasco comprò dallo stato peruviano
enormi distese di terreno inquinato, usandolo per allevarvi le pecore. Per
impedire ai pastori del posto di pascolarvi i propri animali recintò i
terreni. La comunità di Rancas si ribellò per prima, senza mezzi né sostegno
e con esiti tragici, ma accendendo la miccia dell'ondata di protesta
contadina che travolse il Perù.
Negli anni '70 la Cerro de Pasco Corporation diventò proprietà dello stato.
Ma l'inquinamento è continuato e tuttora persiste, connaturato alla più
fossile di tutte le attività umane (insieme a quella bellica): l'attività
estrattiva. Dal 1999 la compagnia peruviana - privata - Volcan gestisce una
miniera a cielo aperto lunga 1,8 chilometri. Ne estrae zinco, piombo e
argento. Nella regione del Pasco i posti di lavoro sono sempre stati
barattati con la salute e dure condizioni di vita.
Il 13 dicembre scorso il governo peruviano ha firmato un provvedimento per
spostare 11mila famiglie lontano dal territorio che circonda la miniera e le
aree destinate a discarica delle scorie. Là è più forte l'inquinamento da
polvere di piombo, dinamite e gas tossici. Già nel 2006 l'Istituto per la
difesa civile aveva concluso che l'85% delle abitazioni intorno alla miniera
erano inabitabili - i bambini hanno elevatissimi livelli di piombo nel
sangue, e nelle campagne il bestiame muore per mancanza di acqua ed erba
contaminata - ma c'è voluto tempo perché il governo decidesse di trasferire
quella popolazione, come «questione di necessità pubblica e interesse
nazionale».
Nel 2005 uno studio dell'agenzia sanitaria regionale di Pasco aveva trovato
che l'80% dei bambini nelle comunità di Quiulacocha e Champamarca avevano
livelli di piombo superiori a 10 microgrammi per decilitro di sangue, il
limite considerato accettabile dalle autorità sanitarie mondiali. Nel 2006,
analoghi risultati a Yanacancha. L'inquinamento cronico da piombo provoca
danni neurologici e al sistema riproduttivo, malattie renali, anemia,
pressione alta e problemi cardiovascolari. Nei bambini impedisce la
crescita, causa disturbi comportamentali e problemi nell'apprendimento, fino
al ritardo mentale. Le concentrazioni più elevate possano portare alla
morte. Nel 2007 un centro statunitense per la salute preventiva ha
analizzato suoli e case ed esaminato 357 abitanti (bambini e donne) delle
comunità di Ayapoto, Chaupimarca e Paragsha. Conclusione: il 91% dei bambini
fra uno e dodici anni e l'82% delle donne in età riproduttiva presentavano
livelli elevati di sostanze tossiche nel sangue: piombo, cesio, tallio...
Peggio ancora a Quiulalocha, dove 850 persone vivono vicino ai punti di
discarica delle scorie e del materiale tossico minerario.
Mentre la Volcan prevede di espandere ulteriormente le proprie attività, il
progetto governativo di trasferimento della popolazione inquinata prenderà
dai 15 ai 20 anni, per un costo di 1,5 miliardi di dollari. «Venti anni? Per
allora sarò già morto» ha commentato un (giovane) abitante.
STATALI L'ultima di
Brunetta: 1200 euro in meno l'anno in tutte le buste paga
Non si arrestano
i tagli del ministro: gli stipendi di gennaio perdono 79 euro sul salario
accessorio. La denuncia della Fp Cgil
Le promesse non mantenute del ministro Renato Brunetta
cominciano a venire al pettine: la Funzione Pubblica Cgil, studiando le
prime buste paga di gennaio, mostra che il taglio del salario accessorio
raggiunge addirittura i 1200 euro l'anno, visto che ogni mese la perdita è
di 79 euro. «Purtroppo per i lavoratori e le lavoratrici delle pubbliche
amministrazioni - spiega il segretario nazionale della Fp Cgil Alfredo Garzi
- sulla busta paga di gennaio si vedono i primi effetti dei tagli al salario
accessorio previsti dal decreto Tremonti».
Il sindacalista illustra come esempio una busta paga del ministero
dell'ambiente: «E' stata decurtata mediamente di circa 79 euro. Più di
quanto prevede, come incremento, l'ipotesi di contratto dei ministeri». E
non basta, perché alla decurtazione mensile, in sede di conguaglio annuale,
si aggiungeranno altri 350 euro. «Il governo - calcola così Garzi - in
questo modo toglie 1200 euro dalle tasche dei lavoratori nell'arco di un
anno».
«Questo è quello che accade nel mondo reale - continua la Cgil - Svaniscono
le favole raccontate dal 30 ottobre a oggi, sul fatto che il governo, e i
sindacati che hanno sottoscritto il Protocollo Brunetta e le ipotesi di
contratto, avrebbero recuperato le somme sottratte e garantito le
retribuzioni attuali. Solo le modalità di pagamento del salario accessorio,
che scontano spesso ritardi di parecchi mesi tra la prestazione lavorativa e
il pagamento delle spettanze, in parte ancora consentono di mascherare gli
effetti concreti dei tagli del governo».
Classica, dopo la critica della Cgil, a tamburo battente arriva la risposta
del ministro Brunetta: «Sorprende che un sindacato possa dare
un'informazione sbagliata ai lavoratori - spiega - La Cgil 'dimentica' che
il recupero integrale dei tagli sui fondi dell'accessorio del decreto legge
112 sarà definito entro il 30 giugno: lo prevedono il Protocollo del 30
ottobre, la legge 133 del 2008 e la finanziaria 2009. Molti degli emolumenti
del trattamento accessorio vengono pagati solo a consuntivo, in pratica alla
fine dell'anno». «Nel frattempo - conclude il ministero - tutte le procedure
dei contratti degli statali si chiuderanno mercoledì con la certificazione
della Corte dei conti, e solo allora potranno essere apprezzati in busta
paga gli effetti del protocollo sottoscritto. Una volta era la Cgil che si
lamentava della lentezza delle procedure contrattuali, ora sembra che si
dolga esattamente del contrario».
La disputa tra il ministro Brunetta e la Cgil si svolge quasi ogni giorno a
colpi di denunce e comunicati: ma intanto si rafforzano le ragioni dello
sciopero che la Funzione pubblica Cgil ha indetto insieme alla Fiom per il
13 febbraio. Con tanto di manifestazione comune a Roma.
20 gennaio
Si chiamava Anastasia Baburova. Lei e il suo avvocato
freddati da un sicario
Il legale difendeva una ragazza cecena violentata e uccisa da un colonnello
russo
Mosca, uccisa una
giornalista
stesso giornale della Politkovskaia
Collaborava con la 'Novaia Gazeta', il giornale
della cronista assassinata nel 2006
MOSCA - L'hanno ammazzata nel pieno centro
di Mosca. E con lei è stato ucciso l'avvocato Stanislav Markelov, il
difensore della famiglia di Elsa Kungaeva, una ragazza cecena seviziata
e uccisa dall'ex colonnello Yuri Budanov.
Anastasia Baburova, collaboratrice del quotidiano 'Novaia Gazeta' (la
stessa testata per la quale lavorava
Anna Politkovskaia, la giornalista uccisa nel 2006) era in
compagnia dell'avvocato sulla via Prechistenka, a pochi passi dalla
cattedrale di Cristo Salvatore.
All'improvviso un uomo mascherato con un passamontagna si è avvicinato e
ha sparato un colpo di pistola alla nuca di Markelov. Baburova ha
cercato di inseguirlo ed è stata colpita anch'essa alla testa.
Il caso rischia di diventare un boomerang per la Russia sul fronte dei
diritti fondamentali e un ulteriore capitolo della tragedia della
diciottenne Elsa Kungaeva. La giovane venne rapita dalla sua casa nel
villaggio a sud di Grozny, la notte del 26 marzo 2000 da soldati russi
comandati dal colonnello Budanov. Il suo corpo fu ritrovato in una
discarica. L'autopsia del medico legale del ministero della difesa ha
stabilito che la ragazza aveva subito ripetutamente violenza sessuale,
circa un'ora prima della morte.
Il colonnello Budanov è stato arrestato il 30 marzo 2000 e poi
condannato a 10 anni di carcere. Durante le indagini ha ammesso di
averla uccisa, ma ha sostenuto di aver agito in stato di "temporanea
insanità mentale". L'accusa ha ignorato le prove esistenti sul fatto che
la ragazza fosse stata violentata prima di essere uccisa. Il colonnello
è stato incriminato per omicidio, sequestro di persona e abuso di
potere.
L'avvocato ucciso oggi aveva annunciato l'intenzione di presentare
ricorso presso un tribunale internazionale contro il rilascio anticipato
di Budanov.
Crisi economica e rapporti diplomatici: l'avvento di Obama
cambierà il volto anche al Sudamerica.
Oggi Barack Obama prenderà definitivamente possesso della poltrona
presidenziale statunitense e aprirà la porta della sua nuova "Casa
Bianca". Molte le gatte da pelare per il primo presidente
afroamericano eletto, prima fra tutte le grave crisi economica che
ha trasversalmente colpito tutti. E che ne sarà dei rapporti con il
cortile di casa? Ne abbiamo discusso con il direttore del Foreign
Policy, Moises Naim*.
"In
questo momento è molto più importante che la politica del presidente
Barack Obama guardi all'interno del Paese e non fuori. Ma non è
certo una novità: tutti i presidenti che hanno preceduto Obama hanno
messo gli affari di politica interna in cima ai loro pensieri", ha
detto il direttore al telefono con PeaceReporter. "Tutto però è
legato da una catena: solo se gli Stati Uniti riusciranno a
riprendere la crescita, diminuire la crisi e ristabilire una
normalità economica, anche i paesi dell'America Latina potranno
risollevarsi dalla crisi che li sta colpendo e sta anche facendo
molto male".
Ma
come potranno reagire davanti alla crisi le nazioni del Sudamerica?
"I paesi dell'America Latina avranno differenti conseguenze da
questa crisi economica" racconta Naim. "Ci saranno nazioni che
soffriranno perchè i prezzi delle loro materie prime d'esportazione
stanno scendendo, penso al petrolio venezuelano, al rame cileno,
alla carne e alla soia argentina, al greggio dell'Ecuador. Questi
Paesi soffriranno sicuramente perchè il volume delle esportazioni
diminuirà. Altri invece, quelli più piccoli, avranno difficoltà
nella ricezione delle rimesse dei loro cittadini che, guadagnando
meno denaro ne spediranno meno a casa. Si calcola che le rimesse nel
2009 caleranno del 9 percento (nel 2008 a livello mondiale
sfioravano i 280.000 milioni di dollari). Ovvio che Paesi che vedono
una forte emigrazione verso gli Usa come il Messico, Repubblica
Dominicana o i paesi dell'America Centrale, sentiranno la crisi in
modo più forte. Per capirci: Leon Tolstoy inizia Ana Karenina
dicendo che tutte le famiglie felici sono uguali. Ma che quelle
infelici lo sono tutte a loro modo. Tutti i paesi dell'America
Latina saranno duramente colpiti dalla crisi però ognuno a modo suo.
Così come i governanti reagiranno differentemente fra loro."
Però
sembra che i mercati internazionali non guardino in modo
approfondito quello che accade in America Latina. Forse per poco
interesse, forse perchè la regione da qualche tempo a questa parte è
piuttosto unita e ha adottato, con solo alcune piccole defezioni,
una politica socioeconomica di stampo socialista come il Venezuela,
la Bolivia, l'Ecuador, l'Uruguay, il Brasile, il Cile. "Ma il vero
problema dell'America Latina è che è un continente perso che non
produce grandi interessi né negli Stati Uniti né in Europa" prosegue
Naim. "In sostanza l'interesse generato dall'America Latina è quello
culturale. Si, io credo che con l'arrivo di Barack Obama l'embargo a
cui è sottoposta Cuba da decenni sarà fortemente ammorbidito. Da
quel momento inizierà un percorso che porterà alla riapertura delle
relazioni diplomatiche e alla normalizzazione dei rapporti fra i due
Paesi".
Centinaia di migranti della comunità Rohingya, provenienti
dal Bangladesh sono stati rispediti indietro dalla Guardia costiera
thailandese. Facendo in modo che non ritornino
Alessandro Ursic
Frustrati, ammanettati, portati
al largo e lasciati alla deriva. Centinaia di migranti della
comunità Rohingya, una minoranza musulmana presente sulle coste del
Bangladesh e della Birmania nord-occidentale, hanno subito questo
trattamento da parte della Guardia costiera thailandese: così
denunciano alcuni tra quelli che sono sopravvissuti per raccontarlo.
Altri, oltre 300 persone, sono dispersi e con ogni probabilità
deceduti in mare.
I
dettagli non sono ancora completi, ma dai racconti di due superstiti
e i resoconti delle autorità indiane e indonesiane sta emergendo un
quadro abbastanza chiaro. Nella prima settimana di dicembre, quasi
un migliaio di Rohingya hanno affidato le loro vite all'Oceano
Indiano, montando su alcuni vecchi barconi nella speranza di
arrivare in Thailandia, e da lì probabilmente procedere per la
Malaysia via terra. Ma i soldati thailandesi che li hanno
intercettati, invece di soccorrerli dopo vari giorni di navigazione,
li hanno tenuti in arresto per otto giorni e poi ricacciati indietro
nel più crudele dei modi: con mani e in alcuni casi piedi legati,
trainati a decine di chilometri dalla riva a bordo di barconi senza
motore, e poi lasciati in balia delle onde, con a bordo solo qualche
sacco di riso e pochi litri d'acqua.
Molti sono annegati cercando di nuotare incontro a navi che
passavano nelle vicinanze, altri sono morti disidratati. Dei
partiti, 193 sono arrivati moribondi il 28 dicembre alle isole
Andamane, indiane ma in mezzo all'Oceano, altri 180 circa sono
giunti fino alla provincia indonesiana di Aceh, dove sono stati
salvati da alcuni pescatori il 7 gennaio. Altri barconi senza
motore, con decine di Rohingya a bordo, sono approdati in territorio
indiano e thailandese. Ma centinaia di migranti - 300 persone
secondo le autorità indiane, 538 nella versione del quotidiano "Sunday
Morning Post" di Hong Kong - sono dispersi. Un eufemismo: a un mese
dalla partenza, nessuno pensa che possano essere ancora in vita.
I fatti sono stati descritti da due sopravvissuti tra quelli
soccorsi alle isole Andamane, mentre i profughi arrivati in
Indonesia . ancora detenuti in una base navale - non sono stati
raggiunti dai media o dagli operatori umanitari, ansiosi di
corroborare gli incredibili racconti. Ma ci sono anche conferme
fotografiche, almeno del trattamento che i migranti ricevono a terra
dalla Guardia costiera thailandese. Alcune immagini scattate proprio
dagli agenti mostrano decine di Rohingya ammanettati sulla spiaggia,
e poi imbarcati per essere portati al largo.
"Pensavo
che queste cose accadessero in Birmania, non in Thailandia", dice a
PeaceReporter Chris Lewa, una ricercatrice che da anni si
occupa dei Rohingya, nell'ambito dell'associazione Arakan
Project. "I miei collaboratori in Bangladesh mi avevano
riferito già l'11 dicembre che c'erano voci di barconi rispediti
indietro verso la Birmania, dove i Rohingya subiscono trattamenti
durissimi. Ora abbiamo due superstiti che ce lo confermano, e con
questi dettagli. Se è vero, questi sono omicidi deliberati". Secondo
la Lewa, già lo scorso marzo l'allora premier Samak Sundaravej aveva
preannunciato un giro di vite contro i boat people provenienti dalle
coste bengalesi e birmane, con deportazioni in isole usate come
centri di detenzione. Di una sbandierata collaborazione con l'Alto
commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), anch'essa annunciata in
primavera, non se n'è poi fatto nulla.
Nonostante alcuni membri della Guardia costiera abbiano confermato
che episodi del genere accadono, le autorità thailandesi hanno
negato ogni colpa. Sotto la pressione dei gruppi per i diritti
umani, il primo ministro Abhisit Vejjajiva ha promesso che il
governo farà luce sulla vicenda. Ma solo il giorno prima, la Marina
aveva fatto sapere che non ritiene necessaria un'indagine, perché "è
chiaro che niente di illegale è avvenuto". E' procedura standard
ammanettare i migranti con le mani sopra la testa, è stato spiegato,
quando sono in numero così superiore a quello degli agenti della
Guardia costiera. Se è per questo, i migranti Rohingya sono sempre
di più: secondo cifre ufficiali, gli arrivi sono passati da 1.225 a
4.886 annui dal 2005 a oggi. Non li vuole nessuno: vivono in
condizioni di indigenza e non hanno un volto rappresentativo che
combatta per la loro causa a livello internazionale. Si dice che le
autorità thailandesi, in particolare, non li vogliano perché sono
tutti uomini; temono che possano unirsi alla guerriglia separatista
musulmana nel sud del Paese, la cui lotta ha causato oltre 3.500
morti dal 2004.
Chi è più libero di evadere
di Paolo Biondani e Luca Piana
Nuove direttive e
nuovi uomini: il ministro Tremonti ha cambiato il volto del fisco.
Con quale effetto? Favorire alcune categorie di elettori. Perché
l'Iva scende mentre sale il prelievo in busta paga
La lotta all'evasione ai tempi di Giulio Tremonti? Letteralmente
dimenticata. Per fotografare cosa è cambiato nella politica
fiscale con il ritorno al governo di Silvio Berlusconi, alcuni
alti ufficiali della Guardia di Finanza tornano al primo giorno.
Tremonti si è appena insediato. Al comando generale delle Fiamme
Gialle è fissata la prima riunione operativa: il vertice del
Corpo deve trasmettere a tutti i comandanti regionali le
direttive e priorità indicate dal nuovo ministro dell'Economia.
Gli ordini si susseguono: lotta alla contraffazione, concorrenza
cinese, immigrazione clandestina, pattugliamento delle coste.
All'uscita, diversi comandanti sono stupefatti: "E l'evasione
fiscale? Ma non era questa la nostra missione?".
L'argomento è politicamente bollente.
L'opposizione accusa il governo di aver mollato la presa sugli
evasori, compromettendo i 23 miliardi di gettito aggiuntivo
garantiti dal governo Prodi. L'andamento dei conti è "coerente
con gli impegni europei", ribatte Tremonti, forte dei dati della
Banca d'Italia: nei primi undici mesi del 2008 le entrate
tributarie sono cresciute del 3 per cento circa rispetto a un
anno prima. Il ministro esibisce anche i 2,3 miliardi che
l'Agenzia delle Entrate, affidata al fedelissimo Attilio Befera,
ha incassato alla voce 'riscossioni da accertamento' sempre tra
gennaio e novembre: il 46 per cento in più del 2007.
Gli stessi dati, tuttavia, armano i critici. L'Agenzia
delle Entrate incassa oggi il frutto delle indagini chiuse negli
anni di Prodi. Una larga fetta degli introiti del 2008,
in effetti, deriva da alcune ispezioni chiave della passata
gestione: i casi del motociclista Valentino Rossi, della
finanziaria lussemburghese Bell, del raider Stefano Ricucci.
Analizzando mese per mese le cifre di Bankitalia, poi, la
crescita delle entrate risulta in realtà concentrata nella prima
parte dell'anno. Insomma, è l'onda lunga delle politiche
anti-evasione del precedente governo. Ma c'è di più. Il centro
studi Nens, fondato dall'ex viceministro diessino Vincenzo Visco,
ha calcolato che l'aumento delle entrate nel periodo
gennaio-ottobre 2008 è dovuto unicamente all'Irpef. Che è
cresciuta grazie "ai numerosi rinnovi contrattuali". Un'analisi
che per i lavoratori dipendenti ha un gusto amaro. Se così
stanno le cose, infatti, sarebbero proprio gli italiani che non
possono evadere, perché tassati alla fonte, a garantire la
tenuta dei conti pubblici.
Il ritorno dei furbetti fiscali, invece, emerge dal calo
del gettito dell'Iva (vedi grafico a pagina 112). Per
spiegarlo, sostiene sempre il Nens, non basta la crisi, visto
che nei mesi considerati l'Iva crolla di quasi 3 miliardi, ma i
consumi su cui è calcolata aumentano. Che succede allora? "Non
tutti registrano le vendite e il fenomeno sembra peggiorare",
conclude lo studio.
Il grande ritorno dell'evasione si può raccontare da
diversi punti di vista. C'è l'analisi delle norme
varate da Tremonti. E c'è l'occupazione sistematica delle
poltrone chiave nella macchina dei controlli fiscali. Ma andiamo
con ordine.
Finito il boom prodiano delle entrate, le preoccupazioni degli
esperti ora riguardano le dichiarazioni dei redditi che verranno
presentate nel prossimo giugno da professionisti, imprenditori e
autonomi. Nel presente, queste categorie hanno versato anticipi
fiscali che in grande maggioranza sono calcolati sui redditi
passati. Il problema è l'effetto futuro dei segnali inviati da
Tremonti al popolo delle partite Iva. Sotto accusa c'è lo
smantellamento, come lo definisce l'opposizione, delle misure
varate per ridurre il nero.
Si tratta delle norme con cui l'Italia aveva applicato
le più importanti direttive europee per la lotta al riciclaggio
di denaro sporco. Regole che rendono più rischioso
anche accumulare i soldi 'grigi' dell'evasione. Prodi aveva
fissato un drastico divieto di usare denaro contante sopra i 5
mila euro. Oltre la stessa soglia, scattava l'obbligo di
emettere assegni non trasferibili, per identificare l'effettivo
beneficiario. Sempre per evitare girate di comodo, anche gli
assegni 'liberi' sotto i 5 mila euro dovevano indicare il codice
fiscale o la partita Iva. E per i liberi professionisti era
prevista la "tracciabilità" di tutti i compensi sopra i 500
euro.
Appena tornato in sella, il 24 giugno, Tremonti ha più
che raddoppiato la soglia di tolleranza per il contante: 12.500
euro. Anche gli assegni sono tornati liberamente
trasferibili fino a 12.499 euro. E il limite di 500 per i
professionisti è scomparso. "Così ricostruire a posteriori la
provenienza del denaro è diventato impossibile", spiegano due
colonnelli della Guardia di Finanza. Un consulente della Banca
d'Italia riassume con amarezza la nuova filosofia: "Per favorire
gli evasori, il governo accetta il rischio di ostacolare le
indagini contro i patrimoni di mafiosi, bancarottieri e
speculatori".
Effetti negativi derivano anche da altre contro-riforme. Con gli
incentivi per la ristrutturazione ecologica delle case, Prodi
aveva introdotto un meccanismo che trasforma il contribuente in
alleato del fisco: per ottenere gli sconti, l'interessato doveva
convincere l'azienda di turno a fatturare tutto. A fine anno, è
bastato l'annuncio di una limitazione del beneficio per far
tornare in nero molti lavori già eseguiti: se il vantaggio
fiscale diventa incerto, meglio pagare meno e non dichiarare
niente.
A completare il quadro è l'incredibile storia
dell'evaporazione del comitato di esperti per la lotta al
riciclaggio e ai paradisi fiscali. È l'organismo
tecnico a cui la legge affida il compito fondamentale di
studiare i cosiddetti "indici di anomalia": quali operazioni
sono "sospette"? Quando una banca (o un avvocato, un notaio o
una fiduciaria) è obbligata a denunciare il cliente? Scegliendo
indici sbagliati, la guerra è persa in partenza. Per questo
Bankitalia aveva selezionato quattro specialisti dal curriculum
indiscutibile.
Il 28 febbraio 2008 Giovanni Castaldi, il
dirigente che guida l'apposita Unità d'informazione finanziaria
(Uif), comunica all'allora sottosegretario Mario Lettieri,
"sentito il governatore" Mario Draghi, i nomi dei designati:
Stefania Chiaruttini, consulente della procura di Milano;
Gianfranco Donadio, magistrato antimafia; e i docenti
universitari Emanuele Fisicaro e Donato Masciandaro.
Il 28 marzo l'allora ministro Tommaso Padoa Schioppa
firma il decreto che istituisce il comitato per tre anni
rinnovabili. Tre giorni dopo Castaldi comunica le nomine "con
sincere felicitazioni". Con il nuovo governo, però, il decreto
sembra scomparire. La prima riunione del comitato slitta da
maggio a luglio, quando viene annullata senza spiegazioni. La
nomina è protocollata al ministero (numero 6994) da più di dieci
mesi, eppure il decreto resta nei cassetti. Ma non basta: in
queste settimane gli ordini dei notai e dei commercialisti hanno
ricevuto le bozze dei famosi "indici di anomalia". E chi le ha
preparate, all'insaputa dei saggi? I dirigenti del ministero
fedeli a Tremonti. Insomma, basta con gli specialisti esterni:
la lotta al nero, il governo vuole farla in casa.
Al di là delle norme, tuttavia, la caccia agli evasori è
soprattutto l'effetto del lavoro quotidiano degli ispettori
dell'Agenzia e dei finanzieri. E qui si apre un secondo fronte
della contro-riforma: il controllo politico della Guardia di
Finanza. Chi guida i comandi centrali e territoriali è in grado
di controllare anche l'ultimo dei 68.134 finanzieri. Il nuovo
governo ha reso ancora più potente la cordata che era vincente
già dal 2001. L'indiscusso dominus è il neo promosso generale di
corpo d'armata Emilio Spaziante, già responsabile del sevizio
segreto interno. Secondo fonti autorevoli, Spaziante punta a
diventare il primo comandante proveniente dal Corpo.
Nell'attesa, occupa la carica, considerata preparatoria, di
comandante per l'Italia centrale. E i posti chiave sono tornati
(o rimasti) ai suoi fedelissimi. A Milano il comandante
provinciale è Attilio Iodice e quello lombardo è Mario Forchetti.
Sempre Spaziante è lo sponsor del nuovo capo di stato maggiore,
Michele Adinolfi, già comandante del Lazio.
Secondo testimonianze di alti ufficiali che non vogliono
esporsi, la "definitiva tremontizzazione" delle Fiamme Gialle si
completa con la promozione e il trasferimento dei graduati che
avevano raggiunto i maggiori risultati contro evasione e
criminalità economica: tutti via da città come Milano o Palermo.
E trasferiti dove? In province e regioni 'rosse'.
A questo punto resta da capire come sono state attuate, in giro
per l'Italia, le nuove direttive del governo. I dati nazionali
sembrano smentire cali di tensione. Un esempio per tutti: nei
primi undici mesi del 2008 i controlli sugli scontrini fiscali
risultano in aumento del 4,6 per cento. Se si spulciano però i
numeri diffusi dai singoli comandi regionali, non mancano le
contraddizioni. Il caso più vistoso è la Lombardia: nel 2007 il
comando regionale dichiarava 68 mila controlli, nel 2008 solo 51
mila. Sempre il comando lombardo nel 2007 annunciava di aver
scoperto 12 miliardi di evasione, quest'anno si è fermato a
sette. Ma Roma parla di dati provvisori, poi variati. Di qui il
dubbio: quali cifre sono attendibili? Erano sballati i dati di
Prodi o quelli di Tremonti? A conti fatti, più che il numero
delle verifiche contano i risultati: ammende e sanzioni. E qui
il dato è pacifico: il federalismo fiscale è già una realtà. I
controlli sugli scontrini chiusi con multe ai commercianti sono
diminuiti in regioni cruciali del Nord, come Lombardia e Veneto
(vedi tabella a pagina 108). In compenso, aumentano in Sicilia e
in quasi tutte le regioni rosse.
14 gennaio
Berlusconi ha ragione a
non andare da Obama
Passeggiando per Roma come del resto usavano gli
antichi romani, Berlusconi ha dispensato parole per tutti, mettendo insieme
il Grande Fratello e Kakà, Obama e Beckam. Ma diamo a Cesare quel che è di
Cesare: presidente, andrà alla cerimonia di inaugurazione del nuovo capo
della Casa Bianca? «No, gli sto scrivendo una lettera di auguri. Non sono
andato nemmeno a quello di Bush e poi io sono un protagonista, non una
comparsa». Bella battuta, in italiano, e speriamo che nessuno la traduca in
inglese. Ma per una volta, Berlusconi ha proprio ragione: lui non è una
comparsa, è un paggio dell'ex amministrazione americana mentre a Washington
è più facile che il 20 gennaio andranno molti protagonisti che la pensano
diversamente. Niente rischi di cucù nel giardino delle Rose e di foto di
famiglia con corna dietro le orecchie, Obama può tirare un sospiro di
sollievo.
Mancano i
120 euro di accredito su oltre un terzo delle tessere distribuite ai
cittadini
La grande beffa della
social card
Una su tre è senza soldi
di
ANTONELLO CAPORALE
Il ministro Giulio Tremonti
ROMA - Si dice: morire di vergogna. "Avevo il
Dixan in mano, anche una confezione di orzo e una scatola di tonno ma mi è
venuto un presentimento: vuoi vedere che non funziona? Allora ho preso la
tessera e ho chiesto alla commessa di digitare i numeri, io non vedo bene.
Non era stata caricata. Avevo i soldi stretti nell'altra mano, già tutti
contati, e glieli ho dati e così è finita. Non l'ho più usata". Maria Pia,
67 anni, è fuggita via dal supermercato di Viareggio rossa in viso, e meno
male che non c'era nessuno in fila. Comunque in quel supermercato non ci
tornerà più.
La tessera di Tremonti è di un bel azzurro sereno. Come il cielo di Forza
Italia, quello di una volta. Un tricolore ondulato la attraversa da sinistra
a destra e sembra la scia delle mitiche frecce. "E' anonima naturalmente per
non creare imbarazzo", commentò Silvio Berlusconi il giorno
dell'inaugurazione della campagna dei 40 euro mensili ai bisognosi d'Italia.
Anonima. Infatti ieri, supermercato Sma di Roma, commessa indaffarata alla
cassa, signore anziano in fila: "Ha per caso la social card?". Il no è
asciutto e risentito. "Scusi, ma era per capire come pagava".
Lusy Montemarian non ha pagato, anzi è scoppiata in un pianto dirotto quando
le hanno comunicato, come fa il medico alla famiglia del congiunto morente,
che non ce l'aveva fatta. Un pianto raccolto da una microtelecamera di "Mi
manda Raitre" e unito ad altri pietosi casi. Un mattone sull'altro, e un
altro ancora. Alla fine si edifica questo incredibile muro della vergogna
che attraversa la penisola e la trafigge senza colpa.
La Social Card, il circuito Mastercard. Protagonisti di una favola. Una
strisciata e via. La pensionata indigente che alla cassa del panificio, come
la donna chic di via Condotti, apre il borsello, non tocca i soldi sporchi,
ma sfila la carta di credito. Un secondo magnetico. Se la carta è piena. Se
è vuota - e lo sono un terzo delle circa 500 mila distribuite - la
pensionata deve restituire il pane e ritirare l'umiliazione pubblica.
Era il 19 giugno, era estate, e il ministro Giulio Tremonti annunciava una
vecchia novità: la carta di credito per i poveri. Vecchia perché l'aveva
pensata Vincenzo Visco, nell'arcaico '97: sconti sulla spesa, sugli affitti,
sui beni di prima necessità. Vecchia perché l'aveva apprezzata Ermanno
Gorrieri, comandate partigiano, fondatore del movimento Cristiano Sociali.
Gorrieri è morto nel 2004. Nel 2008 è Tremonti a presenziare e presentare la
svolta: una manovrina da 450 milioni di euro, 200 coperti dall'Eni, 50 dall'Enel,
altri dalla Robin Tax. Togliere ai ricchi, dare ai poveri: 40 euro al mese,
80 euro accreditati ogni due mesi. Per un anno intero. Quattro mesi di
annunci, di serrata organizzazione. Pronti. Si parte il primo dicembre.
Attenzione: chi conserva 15 mila euro, in banca o alla posta, pensionato o
disoccupato, non ha diritto alla carta di credito dello Stato.
Sono in 520 mila a dicembre a chiedere la social card, pensionati con
reddito dai 6 mila euro agli 8 mila, coppie di anziani, famiglie con figli a
carico, non oltre i tre anni però. Con una sola casa di proprietà,
un'automobile e un'utenza elettrica attiva. In fila, per ore, davanti ai 9
mila uffici postali. Perché chi completava le pratiche entro il 31 dicembre,
aveva diritto a 120 euro (ottobre, novembre e appunto dicembre) di partenza.
Una corsa verso il nulla. Perché il 30 dicembre, con ottimismo natalizio, l'Inps
- che doveva accertare il reddito - dichiarava di aver ricaricato 330 mila
tessere. Le altre erano vuote.
Migliaia di italiani si sono ritrovati in mano una patacca. Una carta
azzurra, di plastica, con il retro magnetico, il numero, il logo giallo e
rosso della Mastercard. Belle, eccome. E di valore: si stima costi almeno 50
centesimi l'una, più 1 euro per la ricarica bimestrale, più il 2 per cento
per le spese del circuito bancario. Uno scherzetto da 8 milioni e 500mila di
euro, a pieno regime. Una lotteria per il mezzo milione di italiani che,
soltanto alla cassa e davanti al commesso, saprà se la sua carta annonaria è
buona oppure è uno scherzo del destino, se può permettere di fare la spese
oppure di annunciare la propria povertà a tutti.
Duecentomila tessere vagano scoperte di tasca in tasca, sospese o respinte.
Duecentomila italiani, forse di più, le possiedono senza poterle utilizzare.
Alcuni (pochi) lo sanno. Altri, molti altri, che non sanno, vanno incontro
alla sciagura.
Ci vuole del metodo per ideare una così lunga e inutile fatica. Prima fila:
farsi certificare la povertà, la disgrazia assoluta. Seimila euro all'anno.
In fila, naturalmente per vedersi attestata dal patronato la sospirata
povertà. Poi l'Inps, le Poste, sempre in fila, sempre allo stesso modo.
Infine, coraggio, andare al supermercato ed esibirla questa maledetta
povertà. E poi, duecentomila volte finora, vederla svergognata: "La tessera
non è carica". Ma ha letto bene?
Per la social card un poveretto di Catania è ricoverato (coma farmacologico)
in ospedale a seguito di furiosa lite, recita un dispaccio dell'Ansa del 3
gennaio scorso, generata "dalla discussione per l'ottenimento della social
card". Giovanni Spatola, imbianchino di 47 anni, si è costituito ai
carabinieri confessando di aver fracassato il cranio del conoscente con una
chiave inglese. Chi dei due doveva ottenere la social card? A Verona boom di
ritiri. Il dato, riferisce la direzione delle Poste, è connesso alla
presenza nel luogo di molti istituti religiosi. Trecento tra suore e frati
si sono presentati all'incasso. Nullatenenti. Perciò potevano. A Castelletto
di Brenzone, minuscolo villaggio sul lago di Garda, ne sono state elargite
più di cinquanta. Come mai? Lì ha sede l'istituto delle piccole suore della
Sacra Famiglia. Amen.
"Disagi e umiliazioni di ogni genere. Accreditategli
questi benedetti quaranta euro sulle pensioni, così risparmierete dei soldi
anche voi", ha consigliato Pierluigi Bersani ieri alla Camera al ministro
dell'Economia. "E' la truffa del secolo, un flop, il più grande bluff
tremontiano", dice Franco Laratta, il deputato calabrese del Partito
democratico mentre raccoglie le firme per un'interpellanza urgente sulla
precoce agonia di questa tesserina azzurrissima, molto patriottica con quel
fascio tricolore.
Uno degli aspetti più indagati e allo stesso tempo meno chiari
delle guerre è il punto di vista dei combattenti.
Uno degli aspetti più indagati e allo stesso tempo meno chiari
delle guerre è il punto di vista dei combattenti. Non i generali pieni
di stellette, ma i soldati comuni, i giovani strappati alle loro vite e
precipitati in contensti dove la disumanizzazione del nemico è parte
integrante del processo di rimozione che riesce, in certi casi, a
rendere possibili violenze senza alcuna giustificazione. A volte, però,
in questo meccanismo, qualcosa s'inceppa. E' il caso di Yehuda Shaul, 25
anni, militare israeliano dei corpi speciali. All'inizio della Seconda
Intifada, nel 2000, Yehuda è stato mandato nei Territori Occupati, a
Hebron in particolare. Nel 2004, alla fine del suo servizio militare, ha
deciso che la gente doveva sapere quello che i militari facevano ai
civili palestinesi. Ha fondato Breaking the Silence, un'associazione che
si occupa di raccogliere e diffondere le testimonianze dei militari che
hanno prestato servizio nei Territori. Perchè solo rompendo il silenzio
attorno a questa violenza, si può capire cosa vuole davvero dire la
guerra.
I
giorni dell'operazione Piombo Fuso sono drammatici per i palestinesi,
ovviamente, ma anche per gli esponenti della società israeliana che non
si rivedono in questa visione ella sicurezza nazionale che giustifica
massacri indiscriminati.
Cosa pensa di questa guerra?
In quanto ex soldati abbiamo discusso a lungo nelle ultime settimane,
migliaia di volte.
Ma sa di cosa si occupa Breaking the Silence, qual è la sua
impostazione? Non sentirà mai da me, come dire, un commento sulla
guerra, se questa guerra è giustificata oppure no, non è questo il
compito dell'associazione. La sola cosa che penso, su quello che sta
accadendo a Gaza in questi giorni, il mio modo di vedere, è che questa
non è una guerra.
In che senso, scusi?
Risponderò alla sua domanda con un'altra domanda. Qual è la differenza
tra quello che sta accadendo ora e quello che è accaduto otto mesi fa?
In operazioni chiamate... non so... Inverno Rovente o Pioggia d'Estate.
Qual è la differenza? Perché all'epoca erano semplicemente operazioni
che non hanno attirato l'attenzione in Israele o all'estero, della
sinistra o della destra, e adesso invece è un orrore? Qual è la
differenza? Che lo Stato d'Israele l'abbia chiamata guerra? Qual è la
differenza? I soldati sono entrati a Gaza otto mesi fa, un anno fa, tre
anni fa, tre anni e mezzo fa, con l'operazione Giardino del Re. Basta
controllare la cronaca. Ogni sei, sette mesi si ha un'invasione di Gaza.
Ma non come questa. E perché? Per il numero di soldati? Non sono
d'accordo. Abbiamo avuto operazioni con un numero elevato di soldati.
Nella missione di otto mesi fa quasi trecento palestinesi sono stati
uccisi, dopo che due bambini di Sderot erano stati uccisi dai razzi
Qassam. Allora l'esercito è entrato a Gaza e quasi trecento persone sono
state uccise, armate e non armate. Questa come si chiama? E nessuno ha
detto niente. Per me tutto questo è uno di quei ‘segni di guerra' contro
cui Breaking the Silence ha deciso di costituirsi. Quando diventi
abituato al male, il male non è più tale per nessuno. Alla fine del 2003
si è avuta l'operazione chiamata Giardino del Re. L'esercito, per
errore, ha demolito cinquanta case a Rafah. L'operazione è stata fermata
e il comandante della divisione è stato costretto alle dimissioni. Anche
nel maggio 2004 ci fu un'operazione e centinaia di case furono demolite,
ma nessuno ha dovuto dimettersi. E poi, all'inizio del 2005
un'operazione in cui è morto uno dei miei soldati. Sono morti venti
civili palestinesi. Ma non è successo niente, il limite si sposta sempre
oltre. Così adesso puoi saltare a centinaia di vittime e hai bisogno di
chiamarla guerra. Non hai bisogno di una guerra, hai bisogno solo di
chiamarla guerra. Così puoi superare i limiti senza critiche. E tutto il
mondo ti si stringe intorno... Credo sia solo una questione di
manipolazione, un modo molto cinico di utilizzare la parola guerra, per
essere autorizzati a compiere cose che non hai compiuto prima, non tanto
per la qualità, quanto per la quantità. In scala. Non vedo niente più
che questo. E' ovvio che questa guerra non risolverà nulla, la
maggioranza degli israeliani lo sa. Non sarà la fine dei razzi Qassam,
Hezbollah continuerà a lanciare i suoi razzi, Sderot e altre cittadine
israeliane continueranno a essere colpite... Penso solo che tutto questo
sia un pessimo segno per tutti noi, per l'intera società israeliana, per
gli ebrei nel mondo, perché se non fosse stata usata la parola guerra,
nessuno si sarebbe opposto, nessuno sarebbe stato così attivo nel
tentare di fermarla, come adesso. Otto mesi fa, circa 270 palestinesi
sono stati uccisi, e nessuno si è opposto. Vedo solo moltissimo cinismo,
in tutto questo. Preferisco usare il termine operazione, perché questo è
quello che credo sia, non una guerra. Siamo messi male se abbiamo
bisogno di chiamarla guerra per opporci.
Quali sono, invece, le reazioni della società israeliana?
Una volta che l'hai chiamata guerra... Contro un'operazione militare
puoi opporti, puoi manifestare in strada, ma quando è una guerra devi
stare dalla parte del tuo Paese. E per questo che viene chiamata guerra
prima di essere realmente guerra. Dovremmo indagare dentro di noi, per
capire cosa è accaduto... Perché abbiamo bisogno di chiamarla guerra per
batterci? A favore o contro, poi non importa. Perdi così tanto la tua
sensibilità che hai bisogno di raggiungere la cifra di cinquecento
persone. Riflettici un momento, cazzo, cinquecento persone! Sono
cinquecento famiglie! Cinquecento mondi! Ma alla fine diventa
semplicemente un numero, niente di speciale, e otto mesi fa erano 270,
280, 220, e adesso sono seicento e così via. Sono molto perplesso.
Lei, però, non è una persona normale. E' stato un soldato,
che dalla sua esperienza ha deciso di rompere il silenzio. Può essere
che tra i militari non prevalga un senso di smarrimento, un'idea di
ingiustizia inflitta ai civili palestinesi? Cosa
intende? Che adesso sono i soldati le vittime della guerra? Noi non
siamo gente che ha rifiutato di partire, non ci occupiamo di refusenik,
siamo gente che ha deciso di denunciare, di parlare, di spiegare cosa fa
l'esercito. Il mio lavoro non è analizzare la situazione politica,
trovare una soluzione al conflitto tra israeliani e palestinesi. Io
voglio che questa occupazione finisca perché sono stato un'occupante,
perché so cosa significa. E qui comincia e finisce Breaking the Silence:
noi vogliamo raccontare cosa abbiamo fatto come soldati. Sederci intorno
a un tavolo, e raccontare, spiegare quali sono le conseguenze, cosa
implicano operazioni come quella in corso a Gaza. So che ci sono dei
membri di Breaking the Silence che ora sono stati richiamati e hanno
rifiutato, come ci sono altri membri ora in servizio, ognuno decide da
solo. Il nostro lavoro sarà raccontare cosa è accaduto. Gaza è sempre
stata un posto estremamente diverso dalla Cisgiordania. La Cisgiordania
è un asilo, al confronto. Il problema di Breaking the Silence è che noi
lavoriamo in differita, in un certo senso, con uno scarto di un anno o
due rispetto agli eventi, perché dobbiamo aspettare che i ragazzi
finiscano il servizio militare e che prima rompano il silenzio dentro se
stessi, poi si alzino a denunciare. Per cui io non posso dirti cosa sta
accadendo a Gaza adesso, ma se guardo indietro nel tempo, se guardo ai
membri di Breaking the Silence che hanno servito nelle varie operazioni
condotte a Gaza, uno, due, tre anni fa... del tutto fuori di testa.
Oltre quello che possiamo immaginare. Le operazioni a Gaza hanno
raggiunto un livello di corruzione morale tale che la Cisgiordania non
ha mai conosciuto. Fino a quando non avrò qualcuno che deciderà di
denunciare dall'interno, di dire questo è quello che io ho fatto a Gaza,
e potrò credergli, dopo avere controllato e incrociato le testimonianze,
i fatti le fonti, e allora potrò denunciare come Breaking the Silence.
Ma fino a quel momento, possiamo solo dire che sulla base della mia,
della nostra esperienza, probabilmente qualcosa di non positivo sta
accadendo a Gaza. E ognuno deve poter decidere da solo, se essere parte
di tutto questo oppure no.
Da ex militare, però, si sarà posto delle domande su quale
sia l'obiettivo strategico di questa operazione?
Non sono un esperto militare e non faccio analisi. Ritengo che quello
che accade a Gaza non sia una questione militare. E' una questione
politica. Niente a che vedere con l'esercito. Nel senso, l'esercito è
lì, che agisce, ma tutto questo non riguarda l'esercito, riguarda
qualcosa di veramente fondamentale nella nostra società, qualcosa di più
o meno invariato dalla Seconda Guerra Mondiale. Da allora esiste una
sola istituzione in Israele che elabora piani e programmi, nell'ipotesi
che accada qualcosa. Questo è l'esercito. Nessun altro ministero ha una
pianificazione, è incredibile. Solo l'esercito. Così si è avuta l'ultima
guerra in Libano. Un soldato viene rapito, e si riunisce il governo, per
capire cosa fare. Nessuno sa cosa fare. Oh, bene, l'esercito ha pronte
tre operazioni, tre opzioni possibili. Come l'ebraico, l'unica lingua
che so parlare, è la violenza l'unica lingua che conoscono. E' una cosa
che tocca molto nel profondo il nostro modo di pensare in questa
società, di risolvere i problemi. Abbiamo un problema, dobbiamo
risolverlo, questa è la nostra unica opzione, anche se poi non è un vero
modo di risolverlo. Rispondi nella lingua che conosci. E noi rispondiamo
con l'esercito. E' l'unica lingua che comprendiamo. L'unica lingua con
cui comunichiamo. Non è una questione militare. Credo sia una vergogna
per questo Paese. Prendiamo razzi ogni giorno e il governo non fa
niente. Puoi discutere politicamente su cosa sia meglio fare, dialogare
con Hamas, invadere, bombardarli con armi nucleare, rinchiuderli tutti
in carcere... Puoi discutere sul da farsi. Ma che il governo rimanga
inerte, così a lungo... Hanno solo assediato Gaza, ma questo non è un
fare qualcosa. E allora? Cosa fai? Non è che ripeti gli errori altrui,
ripeti i tuoi stessi errori. E' veramente stupido.
Quali sono i progetti di Breaking the Silence, per il futuro?
Il
futuro? Questo Paese non ha futuro... Quando la gente viene da noi, e ci
chiede cosa abbiamo ottenuto, io rispondo sempre che non credo sia
possibile cambiare una società in due anni, o quaranta. Ma voglio
sottolineare una cosa: se fosse venuto cinque anni fa, quando abbiamo
fondato Breaking the Silence, a dirmi che oggi saremmo stati seduti qui,
dopo seicento testimonianze raccolte avrei solo riso. Eppure è successo.
Seicento persone hanno rotto il silenzio, e credo che questo sia il
grande risultato che abbiamo raggiunto, e queste seicento persone hanno
amici, fidanzate, famiglie... Ma la cosa più importante è che ora le
loro storie sono lì fuori, e se qualcuno è interessato a sapere cosa è
accaduto qui tra il 2000 e il 2008, adesso ha seicento persone che
parlano, a voce molto alta, raccontando la verità. So che può sembrare
niente, ma io penso che è tutto. In Israele c'è una sola cosa su cui
davvero Breaking the Silence può avere un impatto: quando verrà il
giorno che la società israeliana costruirà la sua propria storia, e
cercherà di capire cosa è successo in questi anni, durante la Seconda
Intifada, la versione dominante sarà costretta a fare i conti con noi.
Non dico che dovrà accettare il nostro punto di vista, ma come minimo
confrontarsi con noi. Sono cresciuto in Israele, alla fine degli anni
Novanta, e non ho mai studiato la Prima Intifada, non ho mai saputo cosa
è accaduto nei Territori Occupati durante la Prima Intifada, non ne ho
idea. Arriverà il giorno che la gente vorrà ricostruire la storia della
Seconda Intifada, e noi saremo lì, cercando di inserire la nostra
prospettiva nella storia di quello che è accaduto qui.
Ed è stato utile, ha avuto senso interrompere la mia vita e fare questo.
Lei è religioso. Nel mondo moltissimi hanno un'ottima
opinione della cultura ebraica. Ma questa situazione non rappresenta un
problema per l'immagine degli ebrei nel mondo?
Cosa intendi per situazione, le politiche israeliane? Sì, ma anche
per i cristiani, i musulmani che vivono qui. In Israele, non all'estero,
gli ebrei vengono uccisi perché sono ebrei. Poi possiamo discutere,
certo, perché succede, politicamente... Ma è un fatto. Se è una
continuazione del vecchio antisemitismo, o se è un fenomeno nuovo, non
so, ma credo che la questione di che cosa sia il giudaismo, e chi sia
l'ebreo, sia una delle ragioni per cui sto combattendo. Faccio quello
che faccio perché penso che quando viene compiuto qualcosa come questo,
e in tuo nome, non ti è concesso di rimanere in silenzio. Credo che
quanto più ti avvicini al centro degli eventi, tanto più hai
responsabilità, e questo è il punto in cui il giudaismo entra in gioco,
perché tutto questo non avviene solo nel mio nome in quanto israeliano,
ma nel mio nome in quanto ebreo, e nel nome di tutti gli ebrei nel
mondo, e poi... E poi tocca a voi, ragazzi, nel nome degli esseri umani.
Questo è il modo in cui vedo il coinvolgimento dell'intera comunità
ebraica in quello che sta accadendo. Anche se non vogliono, gli ebrei
nel mondo sono rappresentati da noi, perché rivendichiamo di essere i
loro rappresentanti . C'è un proverbio, nella cultura ebraica: "Se taci,
acconsenti". Non importa che ti piaccia o meno, sei moralmente obbligato
a rispondere, a prendere posizione, sei responsabile di questa guerra.
Sei moralmente obbligato ad agire. Questa è la connessione che vedo tra
quanto sta accadendo e il giudaismo.
Christian Elia
TERRA TERRA |
di Luca Fazio Pesticidi colposi
Il parlamento europeo, con 624 voti a favore, 13 contro e 10
astenuti, ieri ha vietato l'uso di 22 pesticidi tossici (erbicidi,
fungicidi e insetticidi) considerati a tutti gli effetti cancerogeni o
«perturbatori» del sistema endocrino e riproduttivo. Un passo in avanti,
se si considera che si è arrivati a votare il testo e a stilare la lista
nera delle sostanze proibite dopo una lunga battaglia contro giganti
dell'agrochimica come Bayer e Basf.
«Gli ambientalisti hanno saputo resistere collettivamente a pressioni
enormi», spiega Monica Frassoni, copresidente dei Verdi al parlamento
europeo. Ma ancora insufficiente, poiché si tratta di appena 22 sostanze
su 500 (meno del 5%), mentre gli industriali del settore fitosanitario
avevano promesso la sospensione del 40% delle sostanze ritenute
tossiche.
Due fungicidi in particolare saranno vietati a partire da quest'anno, il
Carbendazim e il Dinocap, in quanto esistono prove sufficienti per
stabilire un nesso causale tra l'esposizione umana alla sostanza e lo
sviluppo di tumori o di alterazioni genetiche, oppure il calo della
fertilità (in Italia sono proibiti dal 2005); ma le autorizzazioni per
certi prodotti perturbatori del sistema endocrino non scadranno prima
del 2018.
In Francia, il Movimento per il diritto e il rispetto delle generazioni
future (Mdrgf) si è detto dispiaciuto per il fatto che siano state
ammorbidite certe restrizioni iniziali nei confronti di alcuni pesticidi
responsabili di «conseguenze neurologiche e immunologiche gravi per lo
sviluppo prenatale». Altro aspetto negativo, secondo il Mdrgf, l'assenza
di misure forti per proteggere i cittadini che risiedono nei pressi
delle zone agricole sottoposte alla polverizzazione dei pesticidi». Di
piccolo passo utile parla anche Francesco Ferrante, responsabile di
Legambiente. «Questa scelta - spiega - fa ben sperare per il futuro di
un settore importante come l'agricoltura biologica, ora però è
necessario compiere un ulteriore passo avanti e rivedere sia le
procedure autorizzative delle sostanze permesse che la normativa,
attualmente inesistente, sul multiresiduo, cioé sulle sinergie legate
alla presenza contemporanea di diversi principi attivi su uno stesso
prodotto». In ogni caso, ce n'è di che per far infuriare Agrofarma,
secondo cui la decisione del parlamento europeo è «inutilmente
penalizzante» e porterà al «calo della produzione agricola italiana
favorendo l'importazione di prodotti agricoli extrauropei». Agrofarma
non mette in dubbio la pericolosità «in astratto» delle sostanze ma
sostiene che il rischio per il consumatore vada valutato in base al
livello massimo di residuo che «può essere eventualmente ingerito
assieme ai prodotti agricoli consumati nel corso di una normale dieta».
Intanto, la «madre» di tutti gli erbicidi, il Roundup della Monsanto, è
stato messo sotto accusa da un nuovo studio di Gilles-Eric Séralini e
Nora Benachour dell'università di Caen. Secondo gli scienziati, il
glifosfato, principio attivo del Roundup, induce necrosi, asfissie e
degradazioni del Dna nelle cellule neonatali tratte dal sangue del
cordone ombellicale e nelle cellule della placenta. Per questo Séralini
ha chiesto la pubblicazione degli esami del sangue di «ogni mammifero
che abbia ricevuto l'erbicida al di fuori dai test regolamentari prima
dell'autorizzazione commerciale».
In Sicilia un operatore portuale ucciso durante le operazioni di
attracco di una nave
A Trieste un operaio incastrato sotto alcuni ingranaggi. Altri episodi a
Messina e Torino
Incidenti sul lavoro,
4 vittime in 48 ore
Sono 33 i morti dall'inizio dell'anno
ROMA - Quattro
incidenti mortali sul lavoro nelle ultime 48 ore, che aggravano il
bilancio, già alto, delle morti bianche nel 2009: 33 i casi dal
primo di gennaio a oggi. Da Nord a Sud, in questi due giorni quattro
persone hanno perso la vita mentre svolgevano le loro mansioni: in
Sicilia, a Trieste e a Torino.
Sicilia. L'ultima vittima si chiama Rosario
Cardile, aveva 47 anni, era dipendente del Gruppo ormeggiatori del
porto di Augusta, in provincia di Siracusa). E' rimasto ucciso nel
tardo pomeriggio di oggi, durante le operazioni di attracco di una
nave. Un collega ha cercato di soccorrerlo: non ce l'ha fatta ed è
rimasto ferito, in modo non grave. Cgil, Cisl e Uil hanno proclamato
uno sciopero di 24 ore dei portuali siciliani a partire dalle 6 di
domani mattina. La notte scorsa, invece, nel villaggio di Santa
Margherita a Messina è morto Giovanni Puglisi, imprenditore di 63
anni. E' rimasto incastrato nella cabina di un escavatore mentre
lavorava in una sua proprietà. L'ipotesi è che l'uomo abbia visto il
mezzo in bilico e abbia cercato, da solo, di spostarlo, ma sia
rimasto bloccato all'interno dell'abitacolo. La magistratura ha
aperto un'inchiesta.
Trieste. Stamattina Dusan Poldini, 37 anni, operaio, aveva
iniziato il turno alle otto alla ferriera Lucchini-Servestal di
Trieste. Alle dieci e mezza un collega lo ha trovato morto: il suo
corpo era incastrato sotto alcuni ingranaggi. Aveva ferite profonde.
Oggi le rappresentanze sindacali hanno proclamato uno sciopero di
otto ore e hanno chiesto un incontro urgente con l'azienda per
conoscere la dinamica dell'infortunio e l'attivazione del tavolo di
sicurezza per verificare l'applicazione delle procedure.
Torino. Stamattina è morto anche un operaio di 46 anni che
lavorava in una cartiera della "Turincarta", a San Maurizio Canavese.
L'uomo stava effettuando operazioni di manutenzione e pulizia di un
nastro trasportatore, quando, secondo una prima ricostruzione non
ancora confermata, un suo collega lo ha messo in azione, senza
accorgersi della sua presenza. L'operaio è deceduto sul colpo,
schiacciato dal nastro.
I feriti. A Brindisi due operai
sono rimasti feriti all'interno di una centrale Enel. Un altro
uomo è in condizioni abbastanza gravi dopo l'incidente in un
cantiere stradale nel Trevigiano.
Schiaffo di Bush alla Rice sulla risoluzione Onu
per Gaza
GERUSALEMME - Si
chiude con una polemica pesante il rapporto tra Casa Bianca e
Dipartimento di Stato nell'era Bush. Il retroscena rivelato oggi dal
primo ministro israeliano Ehud Olmert illumina una relazione controversa
tra Condoleezza Rice e George W. Bush sulla questione mediorientale, in
particolare sulla vicenda dell'offensiva di Gaza. E anche la forte
sintonia tra il presidente uscente e il governo di Israele.
Parlando a Ashkelon, riferisce Afp, Olmert ha detto oggi di aver
interrotto un discorso del presidente americano con una telefonata in
cui gli diceva che gli Stati Uniti non avrebbero potuto votare in favore
della risoluzione che faceva appello al cessate il fuoco a Gaza, che la
stessa Rice aveva contribuito a stilare insieme ai rappresentanti di
Gran Bretagna e Francia. Bush ha dunque ordinato alla Rice di astenersi
e lei, dice Olmert, "si è vergognata". "Una risoluzione che aveva
preparato e mediato, e poi non l'ha votata".
La risoluzione, passata al Consiglio di sicurezza con 14 voti a favore e
la sola astensione degli Usa, è stata poi rigettata sia da Israele che
da Hamas e ignorata sul campo, dove sono proseguiti gli scontri
interrotti solo dalla minitregua umanitaria di tre ore ogni giorno.
"Nella notte tra giovedì e venerdì - ha rivelato Olmert - mentre il
segretario di Stato voleva essere in prima linea nel voto sul cessate il
fuoco, noi non volevamo che votasse a favore". Il premier prosegue: "Ho
detto: datemi il presidente Bush al telefono. Mi hanno detto che era nel
mezzo di un discorso a Philadelphia. Ho detto: non mi importa, ho
bisogno di parlargli subito. Lui è sceso dal podio e mi ha risposto. Gli
ho detto che gli Usa non avrebbero potuto votare a favore di quella
risoluzione. Lui ha immediatamente chiamato il segretario di Stato e le
ha detto di non votarla".
Bush ha sempre attribuito ad Hamas la responsabilità del conflitto, e
anche oggi ha ripetuto che la possibilità di un cessate il fuoco dipende
dalla volontà di Hamas di bloccare il lancio di razzi su Israele.
Il nuovo governo thailandese si
rafforza nelle elezioni suppletive, mentre la magistratura mette la
museruola a qualsiasi forma di dissenso
Alessandro Ursic
Migliaia di siti Internet censurati in
quanto offensivi contro il re, cause di lesa maestà contro chi cerca di
far luce intorno ai rapporti tra l'establishment e l'ex opposizione ora
diventata governo, l'inazione della magistratura contro chi ha bloccato
gli aeroporti di Bangkok e la solerzia nell'applicare la legge contro i
sostenitori della parte politica opposta. Criticare il palazzo non paga
di questi tempi, in Thailandia. Ma intanto i "gialli", la coalizione
espressione della classe medio-alta che ha rivoltato la politica
thailandese a forza di manifestazioni, oggi possono sorridere: il
governo di Abhisit Vejjajiva, nato traballante solo due settimane fa, è
uscito inaspettatamente rafforzato da una tornata di elezioni suppletive
tenuta domenica 11 gennaio.
Le
elezioni. Su 29 seggi in palio, in precedenza occupati da
deputati interdetti dall'attività politica per decisione della Corte
costituzionale, la coalizione di Abhisit ne ha rastrellati 20 e ora può
stare relativamente tranquilla. Dopo che decine di deputati avevano
abbandonato la maggioranza fedele all'ex premier Thaksin Shinavatra, in
un clamoroso ribaltone, il governo Abhisit era passato con 37 voti di
maggioranza in Parlamento. Ma le elezioni di ieri avrebbero potuto
portarlo quasi in minoranza: invece, il margine di sicurezza è
aumentato. Non in modo tale da rendere il governo blindato, perché la
coalizione si regge grazie al sostegno di diversi partiti minori. Nel
giro di un mese, però, la forza politica che faceva riferimento a
Thaksin - in esilio, ma amato dalle classe più povere - ha subito una
sconfitta dietro l'altra.
Due pesi e due misure. I "rossi", diventati
improvvisamente opposizione anche se hanno vinto le ultime tre elezioni,
hanno protestato più volte contro il "golpe giudiziario" che li ha
privati dell'ennesimo primo ministro. Due anni fa Thaksin fu estromesso
da un colpo di stato militare, a settembre Samak Sundaravej dovette
dimettersi perché condannato per aver ricevuto compensi per le sue
partecipazioni a un programma televisivo di cucina, un mese fa Somchai
Wongsawat è stato ritenuto colpevole di frode elettorale. Dall'altra
parte i leader del Pad (Alleanza del popolo per la democrazia) -
protagonisti dell'occupazione della sede del governo per tre mesi e dei
due aeroporti della capitale per otto giorni - sono stati arrestati e
rilasciati pochi giorni dopo in ottobre. Contro chi ha paralizzato il
Paese a dicembre, non è stata presentata nessuna causa. Invece, i
procuratori hanno già annunciato l'intenzione di portare in tribunale i
sostenitori dei "rossi" che hanno lanciato uova contro il Parlamento nel
giorno dell'inaugurazione del governo Abhisit. I sostenitori di Thaksin
vedono i diversi episodi come differenti pezzi dello stesso puzzle.
Lesa
maestà contro i critici. Chi ha denunciato proprio questo,
intanto, rischia di finire in prigione. Giles Ji Ungpakorn, un
politologo thailandese che per tutte queste vicende ha avuto parole di
fuoco, è stato accusato di lesa maestà. Ungpakorn aveva accusato i
"fascisti" del Pad, i militari, la polizia, la magistratura e la regina
Sirikit - che aveva partecipato ai funerali di un attivista del Pad
ucciso in scontri con la polizia, in quello che è stato interpretato
come un segnale del sostegno della famiglia reale ai "gialli" - di aver
perpetrato un colpo di stato monarchico, da lui definito "il golpe dei
ricchi". Potrebbe rischiare fino a 15 anni di carcere, la massima pena
prevista per il reato di lesa maestà: una pena, tra l'altro, che
recentemente un deputato dei Democratici ha proposto di portare a 25
anni. Al momento, si calcola che una trentina di persone stiano
fronteggiando l'accusa di lesa maestà.
Migliaia di siti fatti chiudere. Dal giro di vite non è
al sicuro neanche Internet: qualche giorno fa, il ministero
dell'Informazione ha rivelato che nell'ultimo anno sono stati oscurati
2.300 siti, ritenuti offensivi verso la famiglia reale, mentre un anno
fa era stato addirittura oscurato YouTube, sempre per la presenza di
alcuni video considerati insultanti nei confronti di re Bhumibol, al
potere da 61 anni e venerato dai thailandesi. Le autorità hanno
richiesto inoltre un'ingiunzione del tribunale, per far chiudere altri
400 siti. E' stato annunciato anche l'investimento di 45 milioni di baht
(poco meno di un milione di euro) per creare un centro che tenga sotto
controllo Internet 24 ore al giorno.
La nuova giunta fa piazza
pulita dei sostenitori dell'ex-presidente Conte
scritto da
Matteo Fagotto
Prosegue la "campagna di
moralizzazione" avviata dalla nuova leadership militare in Guinea,
salita al potere il 23 dicembre scorso all'indomani della morte
dell'ex-presidente Lansana Conte. I golpisti, guidati dal capitano
Moussa Dadis Camara, dopo i primi giorni di incertezza hanno preso
il pieno controllo del Paese, piegando la scarsa resistenza di
partiti politici e sindacati, molti dei quali favorevoli al nuovo
corso. La giunta militare, che promette nuove elezioni entro l'anno,
si è data come primo obiettivo quello di fare piazza pulita dei
sostenitori dell'ex-presidente.
Poco
dopo la sua ascesa al potere, il capitano Camara aveva già
provveduto a licenziare il generale Diarra Camara e l'ammiraglio Ali
Daffe, rispettivamente capi di stato maggiore dell'esercito e della
marina. Pochi giorni fa, notizie ancora non ufficialmente confermate
parlavano di almeno venti arresti tra i vertici militari e i parenti
più prossimi dell'ex-presidente Conte, che ha guidato la Guinea dal
1984 allo scorso dicembre. Più volte accusato di corruzione assieme
al suo entourage, Conte era ritenuto il maggiore responsabile della
stasi politica ed economica che ha colpito il Paese negli ultimi
anni. Nonostante sia il secondo maggior produttore al mondo di
bauxite, con oltre il 30 percento delle riserve mondiali, la Guinea
è uno dei Paesi più poveri del continente.
Ecco quindi che gli arresti si
inseriscono nel disegno moralizzatore di Camara, il quale ha più
volte dichiarato di aver preso il potere solo per dare una svolta al
Paese, e di non mirare a conservare la guida della Guinea. Parole
sentite fin troppo spesso nel continente, e in Guinea in
particolare, dove finora i passaggi di potere tra i tre capi di
stato avuti dall'indipendenza ad oggi sono sempre avvenuti
attraverso golpe. Per questo motivo l'Unione Africana ha deciso di
sospendere il Paese dall'organizzazione, dando alla giunta militare
sei mesi di tempo per far tornare la Guinea alla legalità
costituzionale. Gli Usa hanno sospeso la quasi totalità degli aiuti,
e anche Unione Europea e Nazioni Unite hanno condannato il colpo di
mano.
Dietro
l'ufficialità, però, difficilmente la comunità internazionale si
muoverà per rovesciare la nuova giunta, che ha ottenuto
l'approvazione del vicino Senegal per bocca del presidente Abdoulaye
Wade. Da sempre titolare anche del potere politico, l'esercito
guineano era in prima fila per la successione a Conte. La classe
politica e i sindacati, snervati da anni di inutili bracci di ferro
con il presidente, difficilmente sarebbero stati in grado di
garantire una transizione pacifica e senza intoppi. Stanca di 24
anni di malgoverno, anche la popolazione ha dato il suo sostanziale
appoggio a Camara, deciso a ripulire il Paese prima di cedere il
potere ai civili. Un'impresa ardua quasi quanto quella di far
arrivare la democrazia in questo disgraziato Paese dell'Africa
occidentale.
Il bollettino settimanale delle guerre e dei
conflitti in corso n. 1 - 2009 dal 1/1/2009 al 7/1/2009
Dall'inizio dell'anno, in tutti i Paesi
in guerra, sono morte almeno 919 persone. Il 2008 si è chiuso con un bilancio annuale di almeno 46.523
morti
Israele-Palestina
Dall'inizio dell'anno sono morte almeno 316
persone Nel 2008 i morti sono stati almeno 878
Iraq
Dall'inizio dell'anno sono morte almeno 122
persone Nel 2008 i morti sono stati almeno 10.872
Sri Lanka
Dall'inizio dell'anno sono morte almeno 116
persone Nel 2008 i morti sono stati almeno 11.144
Afghanistan
Dall'inizio dell'anno sono morte almeno 106
persone Nel 2008 i morti sono stati almeno 6.457
Pakistan Talebani
Dall'inizio dell'anno sono morte almeno 93
persone Nel 2008 i morti sono stati almeno 5.735
Sudan
Dall'inizio dell'anno sono morte almeno 50
persone Nel 2008 i morti sono stati almeno 1.273
Somalia
Dall'inizio dell'anno sono morte almeno 21
persone Nel 2008 i morti sono stati almeno 1.441
Rep. Dem. Congo
Dall'inizio dell'anno sono morte almeno 19
persone Nel 2008 i morti sono stati almeno 3.047
Pakistan Balucistan
Dall'inizio dell'anno sono morte almeno 18
persona Nel 2008 i morti sono stati almeno 254
India Naxaliti
Dall'inizio dell'anno sono morte almeno 14
persone Nel 2008 i morti sono stati almeno 638
India Nordest
Dall'inizio dell'anno sono morte almeno 12
persone
Nel 2008 i morti sono stati almeno 846
Filippine Milf
Dall'inizio dell'anno sono morte almeno 11
persone Nel 2008 i morti sono stati almeno 748
India Kashmir
Dall'inizio dell'anno sono morte almeno 11
persone Nel 2008 i morti sono stati almeno 573
Thailandia del sud
Dall'inizio dell'anno sono morte almeno 5
persone Nel 2008 i morti sono stati almeno 363
Nord Caucaso
Dall'inizio dell'anno sono morte almeno 2
persone Nel 2008 i morti sono stati almeno 619
Filippine Npa
Dall'inizio dell'anno sono morte almeno 2
persone Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 272
Colombia
Dall'inizio dell'anno è morta almeno 1 persona Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 257
Turchia
Dall'inizio dell'anno non è morto nessuno Nel 2008 i morti sono stati almeno 587
Nigeria
Dall'inizio dell'anno non è morto nessuno Nel 2008 i morti sono stati almeno 519
Sicurezza Bluff
di Gianluca di Feo
In aumento stupri, rapine ai negozi e sbarchi di
clandestini. La tanto sbandierata lotta al crimine del governo
Berlusconi non ha cambiato la situazione. Ma nessuno lo dice. In
edicola da venerdì
Militari in pattuglia a Casal del Principe
Potevano stupirci con giochi di luce ed effetti speciali, con i
soldati nelle strade e retate spettacolari. Ma alla fine le cose
non cambiano: il primo bilancio della sicurezza nell'era
Berlusconi è un bluff. La situazione migliora, certo. Ma i reati
diminuiscono nell'identica maniera in cui stavano calando negli
ultimi mesi del governo Prodi. Sì, perché i record annunciati in
pompa magna da prefetti e questori sono tali solo grazie al
confronto con il 2007, l'anno nero segnato dal boom dei crimini
per effetto dell'indulto. La contabilità reale dell'Italia a
mano armata non cambia. Anzi, in certi settori peggiora. C'è un
picco di rapine contro i negozi. C'è un aumento in diverse città
di quelle violenze sessuali che soltanto un anno fa avevano
contribuito a far dilaniare il senso di insicurezza. E c'è un
peggioramento drammatico dell'immigrazione 'clandestina'
dall'Africa: 36.800 persone sbarcate nel 2008, la cifra più alta
negli ultimi dieci anni. Insomma, una débâcle proprio su quel
tema cavalcato dal centrodestra nell'ultima campagna elettorale.
Banditi alla cassa Partiamo dal risultato
migliore. Tutti i bilanci sbandierati per il capodanno mettono
in evidenza un dato di sicuro effetto: il crollo delle rapine in
banca. Tutto vero. Le statistiche che l'Ossif, l'osservatorio
per la sicurezza dell'Abi (vedi box e tabella a pag.32), ha
elaborato per 'L'espresso' mostrano da giugno a ottobre - i
primi mesi del governo Berlusconi - un calo del 26,7 per cento
rispetto allo stesso periodo dell'anno precente. Complimenti?
Pochi. Perché già nell'ultimo semestre prodiano il miglioramento
era stato netto: oltre il 23 per cento di colpi in meno.
Insomma, persino in questo caso il cambiamento è minuscolo. E la
medaglia al valore va soprattutto agli istituti di credito, che
hanno incrementato le protezioni spingendo i banditi verso
obiettivi meno difesi. Sono così finiti nel mirino uffici
postali, supermercati e negozi. Le rapine agli esercizi
commerciali sono in crescita quasi ovunque. A Milano i dati
ufficiosi della questura, segnalano un boom: a metà dicembre ne
erano state censite 626 contro le 460 dell'intero nefasto 2007,
un terzo in più. Nella provincia di Bologna tra gennaio e
novembre ne sono state contate 127 (7 per cento in più). A
Napoli e a Bari le aggressioni ai negozianti sono in lieve
aumento, nella capitale invece tocca alle Poste pagare il prezzo
più caro. In tutta Italia però il primato negativo spetta alle
farmacie. A Roma e Milano i colpi sono triplicati. Nel capoluogo
lombardo si è passati da 131 a 267. Mentre i farmacisti si
mobilitano, chiedendo più sicurezza, le altre categorie non
danno visibilità all'allarme. Eppure erano state proprio le
organizzazioni dei commercianti ad animare le proteste di piazza
più clamorose contro il crimine.
Indulto L'Italia delle statistiche criminali è
un labirinto dove si fatica a trovare dati omogenei: di anno in
anno cambiano i riferimenti territoriali e persino i criteri. È
come se i numeri rispecchiassero la nostra atavica incapacità di
coordinamento tra i responsabili dell'ordine pubblico. "È un
caos, senza serie storiche, con procedure che risalgono
all'epoca fascista", sintetizza il professor Giandomenico
Amendola, autore per Liguori di 'Città, criminalità, paure':
"Nessuno riesce ad avere basi per impostare una politica di
sicurezza". "Quella che emerge è una criminalità a macchia di
leopardo, senza aree omogenee. I dati sono controversi:
diminuiscono i reati ma aumentano le persone denunciate",
puntualizza Ernesto Savona, docente di criminologia alla
Cattolica e direttore di Transcrime. Così 'L'espresso' ha dovuto
attingere a fonti diverse. I bilanci, provvisori e parziali, di
fine anno delle forze dell'ordine sono tutti positivi. C'è un
dato però che tende ad uniformare le città del centro-nord: un
calo dei reati totali nel 2008 tra il 15 e il 20 per cento, su
cui incide soprattutto il crollo di furti e borseggi. Ed è
sorprendente notare come questa flessione coincida in linea di
massima con l'effetto determinato nel 2007 dall'indulto, la
scarcerazione di massa senza prospettive di reinserimento che
provocò un aumento dei reati predatori. A crollare ora sono le
rapine in banca, i borseggi, i furti di auto: gli stessi
misfatti che - come evidenzia un'analisi scientifica di Giovanni
Mastrobuoni e Alessandro Barbarino del Collegio Carlo Alberto di
Torino - subirono la maggiore impennata dopo la clemenza del
2006. Tra le pochissime città che possono vantare un
miglioramento anche rispetto al 2005 spicca Verona. In tutta
Italia, però, se si cerca di esaminare settori senza legami con
l'indulto, come omicidi e narcotraffico, allora i buoni
propositi svaniscono. Per gli omicidi, un orientamento arriva
dal Web dove un gruppo di laureati in sociologia li censisce in
tempo reale usando le cosiddette 'fonti aperte'
(www.delittiimprefetti.com). Nel 2008 hanno contato 609 morti
violente: solo 10 in meno dell'anno precedente. In 158 casi il
movente è classificato come 'mafioso' e in 50 come rapina. Il
primato di sangue va alla Campania (114) seguita dalla Lombardia
(76).
Spot marziale Il principale provvedimento show
del governo è stato l'invio dei soldati nelle strade cittadine,
sostenuto dal ministro Ignazio La Russa. Sono stati utili?
Sicuramente, ma si è trattato di una misura essenzialmente di
immagine. Il ministero dell'Interno ritiene che i tremila
militari abbiano 'liberato' 1100 agenti e carabinieri. Per
l'esattezza, con mille fanti davanti agli obiettivi sensibili
sono stati recuperati 369 uomini delle forze dell'ordine; altri
mille soldati hanno 'riscattato' 778 poliziotti dalla
sorveglianza dei centri immigrati; infine altri mille sono
andati di ronda nei quartieri. Mille è un numero evocativo, ma
contrariamente allo spirito garibaldino di rivoluzionario si è
visto poco. A Milano, per esempio, i 170 alpini che si sono
alternati nei controlli di fatto hanno permesso di schierare una
ventina di pattuglie al giorno. "Che senso ha impiegare
l'esercito contro i piccoli spacciatori in una realtà come
Torino?", commenta Fabrizio Battistelli, docente di sociologia
alla Sapienza che ha appena pubblicato per Franco Angeli 'La
fabbrica della sicurezza': "Non dimentichiamo che abbiano già le
forze dell'ordine più numerose di tutta Europa, sarebbe assurdo
pensare che tremila militari cambino la situazione". Una stima
calcola che ci siano 355 mila uomini solo nei corpi di polizia
nazionali: una massa che rende irrilevante il supporto dei
soldati. "Le ronde miste non possono risolvere i problemi di
metropoli complesse come Napoli", aggiunge il professor Amendola:
"Anche un'innovazione positiva come il poliziotto di quartiere
poi è stata applicata in modo sbagliato. A Napoli ce ne sono sei
per vigilare su due quartieri con 200 mila abitanti". Quanto ai
carabinieri e ai poliziotti 'liberati' dall'intervento
dell'Esercito, senza addestramento e riqualificazione è
difficile che diano contributi significativi. Ma alle forze
dell'ordine mancano mezzi e uomini in tutti i reparti chiave. E
non ci sono fondi nemmeno per rimpiazzare i vuoti. Secondo
l'Arma, nel 2009 servirebbero 450 milioni di euro per
addestramento e manutenzione mentre il bilancio dello Stato
prevede solo 270 milioni: il taglio andrà a colpire soprattutto
la preparazione e quindi i risultati operativi. In tutte le
città si lamentano carenze di personale proprio in quei settori
determinanti per la sicurezza. Il questore di Treviso Carmine
Damiano ha parlato di otto volanti in meno. Riccardo Ficozzi,
combattivo segretario del Siulp fiorentino, definisce "lo sforzo
richiesto alla polizia" come "superiore alle nostre possibilità:
per mantenere gli impegni elettorali ci avviciniamo al collasso.
La richiesta di maggiore impegno, si traduce in pattuglioni
straordinari e doppi turni mentre registriamo una drastica
riduzione di agenti e mezzi. Firenze nel 2008 ha perso 49
poliziotti, mai rimpiazzati". Il sindacalista cita un episodio
surreale: "La Squadra mobile per pedinare un criminale si è
dovuta far prestare la moto da un privato cittadino".
Violenza senza notizia L'episodio della ragazza
stuprata a Roma durante il party di Capodanno patrocinato dal
Campidoglio, conquistato dal Pdl grazie a una campagna
martellante sulla sicurezza, ha riacceso i riflettori su questo
reato, dimenticato dopo gli slogan elettorali. Ma l'anno appena
chiuso non ha visto miglioramenti degni di nota. Nella Capitale
il questore ha riconosciuto l'aumento degli abusi sulle donne.
In Lombardia i carabinieri nel 2008 hanno registrato 583 casi,
stesso numero del 2007, 22 in più del 2006. Nella provincia di
Milano a fine novembre erano 208, contro i 228 dell'intero 2008.
'L'espresso' si è rivolto alla Mangiagalli, la struttura del
Policlinico milanese che gestisce il Servizio di soccorso sulla
violenza sessuale. Al 12 dicembre i casi erano stati 325, la
stessa cifra dell'intero 2007 molti più del 2006 (vedi tabella a
pag. 32). Alessandra Kustermann, responsabile del Centro
violenze sessuali, spiega che mentre gli stupri 'da strada'
sembrano in lieve calo, sono in aumento le aggressioni tra
conoscenze occasionali. "Molte iniziative hanno dato i frutti
sperati come una maggiore illuminazione notturna, gli autobus a
chiamata e un aumento dei servizi pubblici. Tutti fattori che
contribuiscono ad abbassare il numero delle aggressioni da parte
di sconosciuti. Ma nel nostro centro registriamo un aumento
degli stupri commessi da qualcuno incontrato in discoteca o
presentato da amici; e sempre più spesso queste persone
utilizzano le droghe dello stupro, sostanze che provocano
perdita di coscienza e memoria, versate nei cocktail".
La droga ordinaria Il settore della lotta agli
stupefacenti è uno dei pochi che offre statistiche aggiornate su
scala nazionale. Su questo fronte l'attenzione mediatica non
sembra diminuita, anche a causa
Ignazio La Russa
dei reati causati dai tossicomani. Ma al dilagare del consumo
non sembrano corrispondere attività di contrasto proporzionali.
I dati ufficiali di giugno-novembre mostrano addirittura un calo
delle quantità sequestrate rispetto agli stessi mesi del 2007
(vedi tabella): 14 tonnellate contro 18. Le forze dell'ordine
hanno messo le mani su 3 quintali di eroina e 2,5 tonnellate di
cannabis in meno. Positivo solo il bottino nella cocaina, 180
chili in più. A sorprendere però è il calo delle operazioni, 500
in meno, e soprattutto delle persone denunciate o arrestate,
oltre 1700 in meno. Tutti gli esperti concordano su un fatto: in
assoluto, questi dati hanno uno scarso rilievo statistico. Ne
emerge però l'assenza di una mobilitazione straordinaria proprio
su una materia che viene percepita come emergenza nazionale.
Assalto alle coste Il ministro leghista Roberto
Maroni ha fatto del contrasto all'immigrazione clandestina una
delle priorità di governo. Finora però è stato sfortunato. Nel
2008 gli sbarchi dall'Africa sono moltiplicati, segnando un
vertiginoso più 75 per cento: a Lampedusa e sulle coste di
Calabria e Sardegna sono arrivati in 36.900. Sono cifre senza
precedenti: i picchi del '98-'99 erano dovuti soprattutto
all'emigrazione dai Balcani lungo la rotta albanese, in rapporto
con il conflitto del Kosovo. Adesso invece i migranti arrivano
dal Maghreb o dalla disperazione dell'Africa nera, partendo
dagli scali libici riaperti dal governo di Tripoli dopo la
vittoria elettorale di Berlusconi. In forte passivo anche il
risultato dei rimpatri: nei primi sette mesi erano stati 4.082
su 14.420 nuovi arrivi e in tutto l'anno non dovrebbero avere
superato gli ottomila. Mentre i bollettini delle questure sono
pieni di espulsioni decretate ma teoriche, gli sforzi del
ministro hanno permesso di noleggiare solo 38 voli charter per
portare via 1199 extracomunitari.
Paura repressa Se i reati non cambiano perché
la percezione di insicurezza appare in calo? "Semplice: c'è un
blackout nelle informazioni. I tg e i grandi quotidiani non ne
parlano quasi più", commenta Battistelli: "Dopo due anni spesi
ad esaltare ogni delitto, la materia non è più nell'agenda
politica del centrodestra: non ci sono più proteste di piazza
che chiedono maggiore protezione". Concorda Ernesto Savona di
Transcrime: "Si è parlato molto meno di sicurezza e quindi si è
creata sicurezza. Oggi la percezione del problema è di gran
lunga inferiore rispetto a quanto accadeva in campagna
elettorale, mentre i dati oggettivi sono sostanzialmente
stabili. Ma non è un metodo solo italiano, accade così in tutti
i paesi occidentali". Il professor Amendola pone l'accento su un
altro aspetto: "Questo governo abbassa l'ansia tentando di
contestualizzare i delitti. Se c'è un omicidio e viene
presentato come una vendetta privata, un litigio passionale o
un'esecuzione di mafia, così non si crea senso di insicurezza".
Molti omicidi restano così con moventi sospesi. Il tabaccaio
ucciso nel Lodigiano a Capodanno: rapina o vendetta? Il
gioielliere ammazzato nella sua villa da una gang romena alle
porte di Roma: razzia o punizione? L'effetto silenziatore è
stato paradossale a Napoli con l'omicidio di Antonio Metafora,
avvocato settantenne molto noto ucciso nel suo studio in pieno
centro. La versione iniziale? Lite per uno sfratto: un giovane
si è vendicato per l'ingiunzione contro la madre. Insomma un
caso banale. Solo in un secondo momento è stato fornito un
quadro diverso: il legale aveva dato lo sfratto a un garage di
Secondigliano gestito dalla camorra e il killer era genero del
boss Licciardi. Metafora era stato già minacciato, conosceva il
pericolo ma non si era arreso, venendo punito con tre colpi di
revolver: ai funerali è stato paragonato a Giorgio Ambrosoli, ma
la storia è rimasta nelle cronache locali.
La crisi criminogena Gli esperti sono convinti
che il nuovo anno comporterà una sfida pesante: l'aumento dei
reati predatori - furti e rapine - legato alla disoccupazione.
Il questore di Treviso Damiano ha presentato lo scenario con
chiarezza: "In quattro mesi hanno perso il lavoro 2500 persone,
metà delle quali straniere. Mi pare evidente che gente senza
lavoro, per mangiare, si deve arrangiare in qualche modo". "Il
fenomeno sta emergendo con forza in Gran Bretagna, dove ci sono
meno ammortizzatori sociali: la crisi sta facendo aumentare i
reati di strada", spiega Savona. Ma l'impatto è stato misurato
da uno studio di due professori, Riccardo Marselli e Marco
Vannini: l'aumento di un punto del tasso di disoccupazione
provoca 118 furti, 12 rapine e 0,2 omicidi in più ogni 100 mila
abitanti. La loro analisi si spinge anche a calcolare il costo
su scala nazionale per questi crimini da impoverimento: un
miliardo di euro l'anno. E pensare che c'è chi teme un aumento
della disoccupazione di due punti: una prospettiva, quella sì,
da vera emergenza. Criminale, ma soprattutto sociale.
Hanno collaborato Giorgio D'imporzano e Paolo
Tessadri
Raccolti da Reuters, i racconti della tragedia
di Gaza attraverso le parole degli uomini della Croce
Rossa e di Awni Al-Jaru, uomo di Gaza
"I
loro corpi puzzavano perché giacevano, là dove erano
morti, da troppo tempo.
I bambini erano deboli, troppo deboli anche per stare in
piedi, perché lasciati privi dell'assistenza delle loro
madri morte.
Una donna, tagliata in due dal colpo di un carro armato.
Due donne uccise da un missile nel cortile della loro
abitazione."
"Abbiamo tirato fuori dalle loro
abitazioni più di 90 persone che erano rimaste
intrappolate in casa. Il loro aspetto era orribile: sono
rimasti senz'acqua e senza cibo per giorni e giorni. Lo
spettacolo che si è presentato agli uomini della Croce
Rossa era devastante. Abbiamo chiesto un passaggio
sicuro all'esercito israeliano sin da sabato, ma il
permesso ci è stato concesso solo oggi".
Il telefono alla radio locale squillava incessante.
Richieste di aiuto e di cibo. Richieste di soccorso
perché qualcuno li tirasse fuori dalle loro case che
erano diventate della trappole.
Il carro armato che ha sparato sulla casa di Awni
Al-Jaru era a soli 150 metri: "Ero seduto nella mia
stanza quando ho sentito l'esplosione... Sono corso in
soggiorno e ho visto mio figlio Abdel-Rahim. Gli ho
chiesto dove fosse la madre e il fratellino Youssuf. Ho
trovato mia moglie Albina spezzata in due parti e mio
figlio Youssef sbalzato contro il muro. Albina aveva il
passaporto ucraino, ma non ha voluto lasciare Gaza.
Youssef aveva solo 18 mesi"...
____________________
Il Comitato internazionale della Croce Rossa ha
diramato questo pomeriggio un comunicato molto duro
contro l'eserciton israeliano. L'accusa è quella di non
prendersi cura dei civili feriti sul campo e di
ostacolare le operazioni di soccorso, in grave
violazione delle convenzioni internazionali. Il
portavoce Pierre Wettach ha raccontato che quindici
morti sono stati ritrovati mercoledì nelle loro case nel
quartiere di Zaytun, a Gaza, quando il permesso per il
passaggio delle autoambulanze era stato rischiesto ben
quattro giorni prima.
il Comitato internazionale della Croce Rossa ha
qualificato come "inaccettabile" il ritardo imposto da
Tsahal (l'esercito israeliano) per autorizzare
l'intervento dei soccorsi.
Assassinato il direttore del più battagliero
giornale d'opposizione del Paese
Due
sicari hanno assassinato questa mattina a Colombo
Lasantha Wickrematunga, direttore del 'Sunday Leader':
il più battagliero giornale d'opposizione dello Sri
Lanka, da tempo impegnato nel denunciare la corruzione
del governo nazionalista di Mahinda Rajapaksa e
coraggioso critico della guerra contro la minoranza
tamil.
Per i colleghi di Lasantha e i locali attivisti per i
diritti umani non ci sono dubbi: è l'ennesimo tentativo
del governo di far tacere ogni voce critica. Per
Reporter Senza Frontiere "il presidente Rajapaksa è da
ritenere direttamente responsabile di questo omicidio". "Negli ultimi tempi i giornalisti indipendenti qui
in Sri Lanka sono in pericolo - ricorda Vedivel Thevaraj,
direttore del giornale tamil 'Virakesari' - e il mio
collega e amico Lasantha, uno dei più coraggiosi, ha
pagato con la sua vita. Gli attacchi politici, le
minacce, le aggressioni sono sempre più frequenti. Solo
pochi giorni fa una banda di uomini armati ha devastato
gli impianti di una televisione accusata dal governo di
scarso patriottismo per la copertura data alle vittorie
dell'esercito contro le Tigri tamil".
Da quando tre anni fa Rajapaksa è salto al potere in Sri
Lanka, undici giornalisti sono stati assassinati e uno è
sparito dopo l'arresto. "I responsabili di questi fatti
non sono mai stati individuati e perseguiti dalle
autorità governative", fa notare Poddala Jayantha,
segretario generale del sindacato nazionale dei
giornalisti dello Sri Lanka.
'PeaceReporter' aveva recentemente incontrato e
intervistato Lasantha Wickrematunga nel suo ufficio di
Colombo. Ecco cosa ci aveva detto.
Direttore, cosa pensa della sanguinosa guerra civile
riesplosa con tanta violenza negli ultimi tre anni?
La guerra è il principale strumento di potere del
regime. Rajapaksa usa la guerra per giustificare la
povertà della popolazione, le limitazioni alla libertà
di stampa e perfino la violazione dei diritti umani.
Il governo di Rajapaksa viola i diritti
umani?
Poliziotti, soldati e agenti governativi commettono
gravi crimini contro i civili tamil: rapimemti, torture,
esecuzioni extragiudiziali, violenze, stupri,
bombardamenti di obiettivi civili. Anche le Tigri tamil,
che sono un gruppo armato illegale, commettono gravi
crimini, ma il governo, che in quanto tale deve
rispettare le leggi internazionali, non può farlo!
Perché la popolazione continua a sostenere la
guerra?
La povertà spinge migliaia di giovani singalesi ad
arruolarsi come volontari per il fronte solo per i
soldi. L'opinione pubblica è vittima della massiccia
propaganda militarista del governo e nella società
civile non esistono più movimenti pacifisti che la
contrastino. Non parliamo del clero buddista,
tradizionalmente nazionalista e favorevole alla guerra.
E la stampa? La televisione? Anche loro
schierati con il governo?
In Sri Lanka non c'è libertà di stampa. Non c'è censura
formale, ma ogni voce fuori dal coro viene duramente
attaccata dal governo, intimidita, minacciata e spesso
fisicamente aggredita. Questo basta a a ridurre al
silenzio le voci critiche e a imporre un'efficace
autocensura".
Anche per lei?
Io non mi faccio intimidire. So di rischiare, ma
continuo a fare il mio lavoro. Lo scorso novembre una
banda di scagnozzi del governo ha incendiato le rotative
del mio giornale. Tempo fa ho addirittura avuto l'onore
di ricevere una breve telefonata del presidente
Rajapaksa che mi disse, non me lo dimentico, "Figlio di
puttana, ti distruggerò!"
Enrico Piovesana
13
gennaio
Quello
che non sapete su Gaza
di Rashid Khalidi
Quasi tutto quello
che siete stati portati a credere su Gaza è sbagliato. Alcuni punti essenziali
sembrano mancare dal discorso, svoltosi per lo più sulla stampa, circa lattacco
di Israele alla striscia di Gaza.
Il popolo di Gaza La maggioranza di chi vive a Gaza non è lì per scelta. Un milione e
cinquecentomila persone stipate nelle 140 miglia quadrate della striscia di Gaza
fanno parte per lo più di famiglie provenienti dai paesi e dai villaggi attorno
a Gaza come Ashkelon e Beersheba. Vi furono condotte a Gaza dall'esercito
israeliano nel 1948.
L'occupazione Gli abitanti di Gaza vivono sotto l'occupazione israeliana dall'epoca della
Guerra dei sei giorni (1967). Israele è tuttora considerata una forza di
occupazione, anche se ha tolto le sue truppe e i suoi coloni dalla striscia nel
2005. Israele controlla ancora l'accesso all'area, l'mport e l'export, e i
movimenti di persone in ingresso e in uscita. Israele controlla lo spazio aereo
e le coste di Gaza, e i suoi militari entrano nell'area a piacere. Come forza di
occupazione, Israele ha la responsabilità di garantire il benessere della
popolazione civile della striscia di Gaza (Quarta Convenzione di Ginevra).
Il blocco Il blocco della striscia da parte di Israele, con l'appoggio degli Stati
Uniti e dell'Unione Europea, si è fatto sempre più serrato da quando Hamas ha
vinto le elezioni per il Consiglio Legislativo Palestinese nel gennaio 2006.
Carburante, elettricità, importazioni, esportazioni e movimento di persone in
ingresso e in uscita dalla striscia sono stati lentamente strozzati, causando
problemi che minacciano la sopravvivenza (igiene, assistenza medica,
approvvigionamento d'acqua e trasporti).
Il blocco ha costretto molti alla disoccupazione, alla povertà e alla
malnutrizione. Questo equivale alla punizione collettiva col tacito appoggio
degli Stati Uniti- di una popolazione civile che esercita i suoi diritti
democratici.
Il cessate-il-fuoco Togliere il blocco, insieme con la cessazione del lancio dei razzi, era
uno dei punti chiave del cessate-il-fuoco fra Israele e Hamas nel giugno scorso.
L'accordo portò a una riduzione dei razzi lanciati dalla striscia: dalle
centinaia di maggio e giugno a meno di venti nei quattro mesi successivi
(secondo stime del governo israeliano). Il cessate-il-fuoco venne interrotto
quando le forze israeliane lanciarono un imponente attacco aereo e terrestre ai
primi di novembre; sei soldati di Hamas vennero uccisi.
Crimini di guerra Colpire civili, sia da parte di Hamas che di Israele, è potenzialmente un
crimine di guerra. Ogni vita umana è preziosa. Ma i numeri parlano da soli:
circa 700 palestinesi, per la maggior parte civili, sono stati uccisi da quando
è esploso il conflitto alla fine dello scorso anno. Per contro, sono stati
uccisi 12 israeliani, per la maggior parte soldati. Il negoziato è un modo molto
più efficace per affrontare razzi e altre forme di violenza. Questo sarebbe
successo se Israele avesse rispettato i termini del cessate-il-fuoco di giugno e
tolto il suo blocco dalla striscia di Gaza. Questa guerra contro la popolazione di Gaza non riguarda in realtà i
razzi. Né riguarda il ristabilire la deterrenza di Israele, come la stampa
israeliana vorrebbe farvi credere. Molto più rivelatrici le parole dette nel
2002 da Moshe Yaalon, allora capo delle Forze di Difesa
israeliane:Occorre far capire ai palestinesi nei recessi più profondi della loro
coscienza che sono un popolo sconfitto.
Ci
salvera dallorrore Bianca Jagger?
Lo stupefacente
silenzio delle diplomazie sulle pratiche belliche israeliane e stato rotto nei
giorni scorsi da una socialite di qualche decade fa, ovvero la un tempo famosa
ex moglie di Mike Jagger, Rolling Stones. A lei e toccato l'onere di riprendere
pubblicamente le osservazioni formulate ai media internazionali dal responsabile
UNRWA a Gaza al momento del bombardamento di una scuola delle Nazioni Unite:
l'accorato ed emozionale appello al rispetto delle Convenzioni internazionali e
al lavoro delle Organizzazioni umanitarie era infatti caduto nel più cinico ed
ottuso disinteresse.
E cosi toccato ad una ormai anziana ma volenterosa signora raccogliere
questo richiamo disperato che ci richiama addirittura alla meta dell'Ottocento
quando l'ottimismo positivista fece si che con Croce Rossa e via via altri
strumenti ci si ponesse il problema di circoscrivere gli effetti della guerra tra
i civili, ma anche tra i militari.
Ma, ed e questo il punto, appare ormai chiaro che la litania sul
carattere democratico di Israele, che può liberamente sostituire Sharon con
Olmert e magari promuovere al premierato il Ministro degli Esteri ed ex agente
del Mossad Livni, ha definitivamente trascolorato in una assoluta impunita per
quanto attiene al rispetto non solo delle Convenzioni internazionali ma anche di
quanto resta dell'opinione pubblica mondiale che non ama vedere donne e bambini
maciullati in televisione. Magari alora di pranzo.
Questo brutale punto e perfino più chiaro della conta dei mille morti,
quasi esclusivamente civili inermi, e dei quasi quattro volte tanto feriti in
nome di quella che rischia almeno in termini di casualties di essere la risposta
fuori misura ad una poco più che puntura di spillo anche se a colpi di missili.
Detto in altri termini una conta dieci ad uno, cento ad uno che ricorda altri
tempi e logiche da quel Massacro di Nanchino attuato dall'esercito nipponico ai
danni di un'intera città.
Ma non e tutto. Esiste un solo esercito al mondo ed un solo Governo - che
può ufficialmente e di forza escludere i media ed in particolare i giornalisti
dal teatro di guerra: questo e quello che si fregia della Stella di David.
Ebbene ciò e inaccettabile tanto quanto il mancato rispetto delle norme e degli
usi internazionali.
L'oscuramento informativo, comunque giustificato, produce e sempre più
produrrà mostri e morti.
Ed allora, arrivati fin qui e proprio nel momento in cui il dibattito su
un altro orrore del diritto quello di Guantanamo entra in una qualche fase se
non decisionale almeno di esplicito ripensamento, pare giunto il momento di
indagare non più sul conflitto, sulle sue ragioni e sui suoi possibili esiti,
quanto sulla latitudine che e stata concessa incautamente e colpevolmente ad
Israele: questa, infatti, dopo aver completamente archiviato un'epopea di
riscatto che poteva godere di una qualche simpatia, ha da tempo intrapreso la
via di una inaccettabile e comunque non giustificabile brutalità ed indifferenza
verso i diversi.
E quanto si può riscontrare con una semplice passeggiata non nelle zone
calde e contese, bensì nella stessa Gerusalemme ove gli Arabi, anche cittadini,
sono trattati come esseri inferiori e disprezzabili. Non occorre ricordare come
ciò sia gia avvenuto, e cosi le decimazioni e cosi i massacri.
Ma questa e una via che non soltanto Bianca Jagger, ma molti altri nel
mondo soprattutto fuori dalle Cancellerie, non sono disponibili a ripercorrere.
8
gennaio
Pubblichiamo il
rapporto odierno di Sameh Habeeb, che risiede a Gaza City, attivista del
movimento per la pace, e giornalista free lance, Samehd collabora con l'agenzia
Ramattan News Agency, un media regionale che trasmette dalla Striscia di Gaza.
Dopo aver ricevuto il suo "report" di oggi abbiamo tentato di contattarlo
telefonicamente e via mail ma non abbiamo avuto ancora una risposta.
GAZA
CITY 9° giorno
- La situazione umanitaria è catastrofica. 509 le vittime dei bombardameti e
oltre 2600 feriti. Si registrano tantissimi morti tra i civili e il loro numero
aumenta di ora in ora sotto i bombardamenti che adesso arrivano dall'artiglieria
di terra, dalle navi delle marina e dalle incursioni degli F-16 e degli
elicotteri Apache. I militari israeliani hanno aperto cinque varchi nel paese,
nel nord hanno attraversato la città di Ertiz, mentre un altro convoglio si è
aperto un passaggio superando la cittadina di Bait Lahia diretti verso il
quartiere di Doghit. A sud est di Gaza city i carri armati avanzano dalla
direzione di Al Muntar e Nahal Oz per raggiungere e prendere il controllo di una
delle strade principali, la Slah Al Edin. Nel Sud, invece, le truppe israeliane
hanno occupato gli avamposti militari dell'aeroporto.
Secondo alcune testimonianze è probabile che l'esercito israeliano stia facendo
uso delle temibili bombe al fosforo, inoltre nuovi tipi di arma sarebbero usate
per la prima volta dai militari.
Nella città di Bait lahi, una granata ha ucciso 17 persone, dei quali la maggior
parte civili. Tra loro anche bambini e il personale medico di un ambulanza sono
rimasti uccisi. La benzina e il gas sono terminati, mentre moltissime zone della
città sono senza elettricità e acqua potabile. Difficile anche comunicare in
quanto la linea telefonica è fuori uso e la copertura per i telefoni cellulari
è assente. La città di Gaza è completamente isolata da tutto e da tutti.
Considerando la carenza di personale medico, anche gli studenti di medicina sono
stati sollecitati a prestare il loro aiuto negli ospedali che sono al collasso,
nonostante i farmaci reperibili sono pochissimi. Ed è proprio all'interno degli
ospedali che si capisce che le vere vittime di questa operazione militare sono i
civili. Dall'inizio dell'incursione via terra ne sono stati uccisi 70 oggi, e
solo 10 di questi erano miliziani di Hamas. Così il totale delle vittime sale a
509. Un soldato israeliano, invece, è rimasto ucciso da un colpo di mortaio
sparato dai militari di hamas nell'area di Beit Lahiya.
Ecco alcuni risultati dell'operazione
militare israeliana "piombo fuso" di oggi
L'aviazione ha bombardato i serbatoi dell'acqua potabile che fornisce tutto il
comprensorio di Jabal al Kashif a est della città di Gaza. Missili terra aria
hanno bombardato un'abitazione a Nasir a nord ovest di Gaza uccidendo i figli
del proprietario. Una vasta operazione di artiglieria ha raggiunto case e
edifici vicino Al Jabal kashif nella parte settentrionale della striscia di
Gaza, e quattro palestinesi sono stati uccisi a Rafah vicino le frontiere
egiziane dal fuoco israeliano. Un F-16 ha colpito un'abitazione nel quartiere di
Janinai, nella cittadina di Rafah. Diverse persone sono rimaste ferite. Intanto
continua la massiccia emigrazione dal campo profughi di Jabilai e anche da
quello di Al Nusairat dove migliaia di persone stanno tentando di mettersi in
salvo. A Shija'ya un razzo ha colpito un'altra abitazione uccidendo una donna il
figlio e un uomo anziano. L'artiglieria ha aperto il fuoco a Gaza a Zaytoun
contro un panificio affollato dalle famiglie in fila per acquistare quel poco
pane reperibile. Un morto e decine di feriti. Il bombardamento ha distrutto
completamente il negozio che successivamente ha preso fuoco.
Sempre a Zaytoun gli elicotteri Apache hanno sparato su un gruppo di civili.
Molte persone sono state uccise e altre ferite. ma l'artiglieria ha preso di
mira anche un complesso urbano nella periferia di Gaza nei pressi del mercato
generale, dove diversi edifici sono stati danneggiati. Il rapporto medico parla
di un numero imprecisato di morti e feriti.
A Barbakh quattro palestinesi tutti fratelli della stessa
famiglia sono rimasti uccisi da una granata che ha colpito la loro casa nella
città di Yonis Kahn. Un F-16 ha bombardato anche il ministero degli affari
religiosi in uno dei quartieri più popolati di Gaza city. Anche qui si parla di
almeno un centinaio di feriti. A Jabalia una donna è morta nella sua abitazione
colpita da un missile e stessa sorte è toccata a due bambini che si trovavano
all'interno della loro casa in località Al Mashrawi. Altri 17 persone sono state
uccise da un missile nella città di Lahia a nord di Gaza. Tra di loro c'erano
due ragazzi di 20 anni con persone anziane. Tra le vittime riconosciute; Osama
Sliman, Abu Mueen Aljdya, Abu Ahmed sltan, Abu Hamaoda Sultan, Ali Al Sous,
Muhammad al Atar e Ahmed Tantish.
Secondo testimoni oculari i carri armati israeliani avrebbero
impedito alle ambulanze di arrivare nel luogo per soccorrere i feriti. A ovest
della città di gaza una madre con i suoi 4 figli sono morti dopo essere stati
colpiti da un razzo lanciato da un F-16. Tre paramedici sono morti mentre
viaggiavano nella loro ambulanza vicino a Shikh Ejlin da un colpo di mortaio. Il
personale medico avrebbe dovuto portare soccorso ad una famiglia colpita al
Mahrosa hall, che versava in condizioni gravissime. Un'altra famiglia colpita da
una granata nel campo profughi di Shati è stata soccorsa ma le loro condizioni
sono critiche. Secondo le fonti sanitarie dell'ospedale a Shgifa alle 18 di
questo pomeriggio i feriti giunti al pronto soccorso sarebbero 50. Ma i medici
riferiscono che a tanti non è stato possibile prestare soccorso, altri non hanno
il coraggio di raggiungere l'ospedale per paura di morire durante il tragitto. I
medici hanno fatto un appello umanitario per la donazione di sangue per far
fronte a un numero così elevato di feriti che versano in condizioni gravi.
La connivenza
internazionale
di Zvi Schuldiner
Più le forze israeliane avanzano nella loro distruttiva
spedizione a Gaza, più si fa urgente mettere fine a questa criminale
crociata. Ma c'è da chiedersi se esista una comunità internazionale
interessata a fermare le ostilità - o se l'offensiva israeliana non
possa continuare proprio grazie alla connivenza di vari attori mondiali.
Gli Stati uniti, e non pochi altri governi, sembrano ben soddisfatti del
lavoro sporco che l'esercito israeliano sta realizzando a favore di «un
mondo migliore e con meno terroristi fondamentalisti».
Il governo israeliano ha ripetuto in diverse occasioni di voler mettere
fine agli attacchi nel sud di Israele. Poi ha aggiunto che questo
implica anche prevenire il contrabbando di armi nella striscia di Gaza,
giacché missili come i Grad - che arriverebbero dall'Iran - sono una
minaccia per la popolazione israeliana. La destra israeliana continua a
chiedere di mettere fine al governo di Hamas, tout court. La maggioranza
del governo sembra sapere che questo sarebbe un grave errore: ma ciò non
significa che l'offensiva non possa innescare una situazione in cui la
caduta di Hamas sarà inevitabile. Alcuni, come il grandemente corrotto
Mohammad Dahlan, il leader palestinese che dominava Gaza fino a quando è
stato defenetrato dalla rivolta di Hamas, già si illude di poter tornare
al potere.
A Damasco Khaled Meshal, leader dell'ala politica di Hamas, tenta
contatti che portino a un cessate il fuoco: ma alcune delle condizioni,
come aprire il valico di Rafiah, non sono accettabili per Israele,
l'Egitto né per l'Autorità palestinese se Hamas non modifica le
condizioni dell'apertura. meshal dice una cosa significativa rispetto
alla situazione generale: non pensavamo che lanciare quei missili, non
così terribili, avrebbe provocato una reazione israeliana delle
proporzioni attuali.
A Ramallah, il presidente Abu Mazen denuncia con toni energici l'azione
israeliana ma è difficile per la leadership dell'Olp nascondere la sua
soddisfazione di fronte ai colpi inferti a Hamas. Peggio: il Consiglio
di sicurezza dell'Onu, che doveva discutere la situazione a gaza lunedì
notte, ha rinviato la sessione a mercoledì proprio su richiesta di Abu
Mazen, che ha addotto di dover aspettare nella regione l'arrivo del
presidente francese Nicolas Sarkozy.
I vicini di casa
L'Egitto ha visto fallire i suoi tentativi diplomatici su due fronti:
non è riuscito a far accettare ad Hamas alcuni elementi dell'iniziativa
egiziana per un cessate il fuoco (Hamas considerava di poter dettare
condizioni migliori), e allo stesso tempo non è riuscito a portarla a
negoziare con al Fatah per costruire l'unità nazionale. Per gli
egiziani, Hamas rappresenta un doppio pericolo: da un lato è un alleato
dei Fratelli musulmani in Egitto, dall'altro è una punta di lancia
dell'Iran. La presenza di Mashal a Damasco significa che i siriani sono
parte di un asse Hamas-Hezbollah-Iran-Siria: e questo spiega la molto
moderata condanna dell'offensiva israeliana da parte dei paesi arabi:
indebolire hamas darebbe grande soddisfazione non solo all'Olp ma anche
a paesi arabi che vedono in quell'asse alleati all'Iran un pericolo per
i rispettivi regimi.
La «comunità» internazionale
Non è casuale che l'offensiva israeliana sia cominciata poco prima che
George W. Bush lasciasse la Casa bianca. L'amministrazione Bush avvalla
l'azione di Israele, ostacola possibili movimenti diplomatici e preme
sugli alleati europei perché si attengano alla stessa linea. Obama per
ora tace - la scusa ufficiale è che non ci sono due presidenti. La
presidenza céca dell'Unione europea è un triste riflesso della posizione
americana, quando dichiara che quella di Israele è un'azione
«difensiva».
Di fronte all'immobilità americano-europea, brilla il presidente Sarkozy,
anche se forse si limiterà a brillare. il presidente francese cerca di
ridare una posizione di importanza internazionale al suo paese e sa che
la chiave potrebbe passare attraverso l'egitto, con una certa elasticità
della siria e la collaborazione attiva della turchia.
Un cessate il fuoco potrebbe essere raggiunto a partire da una
iniziativa che l'Egitto ha cominciato a elaborare, con un ritorno
dell'Autorità palestinese e degli europei al passo di Rafah (da cui
erano stati espulsi da hamas) e un controllo stretto del contrabbando
alla frontiera egiziano-palestinese, quasta volta con forze
internazionali.
L'azione israeliana, criminale e sventata, è resa possibile da un teatro
internazionale che deve preoccupare quanti sperano di uscire da questa
situazione. Non basta sperare nel «miracolo Obama», bisogna cominciare a
studiare a fondo cosa fa oggi degli Stati uniti e dell'Europa un
baluardo dell'offensiva occidentale contro i popoli oppressi.
Chi voglia davvero ricostruire un campo pacifista e della sinistra
europea non può continuare a pensare in «guerre difensive»,
«terrorismo», fondamentalismo nei termini usati in questi giorni, in un
quadro che legittima la criminale guerra scatenata dal governo
israeliano con il pieno appoggio di Bush e dei suoi simili.
Il dr. Gilbert: armi terribili contro i civili. Ospedale in ginocchio
«A Beirut, nel 1982, sono stato testimone di orrori che pensavo
non avrei mai più rivisto. E invece, 27 anni dopo, a Gaza la situazione
dei palestinesi è ancora peggiore. Il governo israeliano dice che il 90%
degli obiettivi distrutti sono quelli prestabiliti, ma oltre il 90% dei
feriti che curiamo è rappresentato da civili: allora sono proprio i
civili che vogliono colpire». Specializzato in anestesia e medicina
d'urgenza, da anni Mads Gilbert cura le ferite dei palestinesi: quando
il 6 giugno 1982 Israele invase il Libano dando l'avvio all'operazione
«Pace in Galilea», era al «Gaza Hospital» di Shatila, dove assieme ad
altri camici bianchi arrivati da mezzo mondo contribuì a salvare la vita
a combattenti di Fatah e a tanti civili colpiti dai bombardamenti
israeliani e dalla furia dei falangisti libanesi. Arrivato nel
principale ospedale di Gaza city il 1 gennaio, fino a ieri ad aiutarlo
c'era solo il cardiochirurgo Eric Fosse, anch'egli norvegese. Nel
pomeriggio Israele ha fatto passare dal valico di Erez un gruppo di
dottori stranieri che, assieme ai colleghi palestinesi, tenteranno di
alleviare parzialmente quella che ieri la Croce rossa internazionale ha
definito «una crisi umanitaria esplosa in pieno». Per Gilbert, che
abbiamo raggiunto al telefono, quello contro Gaza è un «attacco brutale,
inaccettabile, non necessario, senza speranza, contro la dignità umana e
il diritto degli essere umani a vivere in pace. Siamo gli unici
occidentali: hanno messo in atto un piano per calare il sipario sulla
libertà di parola, i diritti umani e le convenzioni di Ginevra. Un
enorme atto criminale». Dottor Gilbert, qual è la situazione nell'ospedale Shifa? È un disastro totale: anche oggi i feriti arrivano senza sosta.
Le ambulanze entrano con i feriti dal portone d'ingresso e ripartono dal
varco d'uscita trasportando i cadaveri di quelli che non siamo riusciti
a salvare. Non abbiamo mezzi né personale sufficiente a fronteggiare una
situazione simile. L'ospedale Shifa è in ginocchio e la responsabilità è
del lungo (18 mesi ndr) assedio israeliano contro Gaza che ha preceduto
l'attacco e i massacri di questi giorni. Quali sono le principali operazioni che state effettuando? Curiamo tantissime ferite causate da esplosivi, in genere molto
estese e localizzate nella parte inferiore del corpo. Molti arrivano con
amputazioni estreme, con entrambe le gambe spappolate. Abbiamo ferite da
frammenti di proiettili: abbiamo appena finito di operare un bambino di
cinque anni con ferite di questo tipo al fegato. Ma molte persone con
queste patologie non possiamo più accoglierle: il nosocomio è strapieno
e i parenti sono costretti a riportarsi a casa questi malati gravi. Quanti feriti avete operato finora? Non ho potuto contarli, ma sono centinaia. Lavoriamo mentre le
esplosioni si susseguono, una dopo l'altra. È un'atrocità, un attacco
inumano contro la popolazione palestinese indifesa. Il problema
immediato a Gaza ora non è il personale medico né le medicine, ma
fermare immediatamente questi bombardamenti che stanno massacrando il
popolo palestinese. Avete curato combattenti di Hamas? Fino ad oggi solo un paio. Il 99% dei pazienti è rappresentato
da civili, la maggior parte dei quali bambini e donne. Oggi i bambini
feriti sono stati più di 900, ieri circa 800. Il Times di Londra ha denunciato l'utilizzo di bombe al fosforo
bianco. Ha notato bruciature particolari sui corpi dei pazienti? Non abbiamo riscontrato ferite da fosforo bianco, ma quelle che
io sospetto siano ferite da armi Dime (Dense inert metal explosive,
proiettili che causano esplosioni particolarmente concentrate, ndr) già
utilizzate, nell'estate 2006, prima in Libano e poi a Gaza. Si tratta di
ordigni che hanno un enorme potenziale esplosivo che si concentra in
un'area limitata dal punto in cui avviene l'esplosione e distruggono
completamente i corpi delle vittime.
Dietro il braccio di ferro commerciale Mosca e Kiev le pressioni
contro il filo-occidentale Yushchenko
La guerra del gas tra Russia ed Ucraina ha cominciato a far
sentire i suoi effetti nell'Unione Europea, dove le consegne di gas
russo sono crollate colpendo dodici paesi.
Domani
negoziati a Bruxelles. Il colosso Gazprom ha ridotto del 90 per
cento le esportazioni verso Kiev. Il gruppo francese Gdf Suez ha
annunciato che ieri le consegne erano diminuite "di oltre il 70 per
cento in Francia", in rapporto alle condizioni normali. Ma la Francia
importa il 15 percento da Gazprom, di contro a Germania che ne importa
il 44 percento e a Italia con il 37 percento. Nonostante l'Italia abbia
ricevuto il 10 per cento del proprio approvvigionamento, il portavoce
del ministro per lo Sviluppo economico Scajola ha riferito che lo
stoccaggio del nostro Paese è al 90 percento, e in caso di necessità
esistono altre fonti di approvigionamento. Le consegne verso Croazia,
Grecia, Bulgaria ed Ungheria sono interrotte. Davanti a questa
situazione, la Commissione europea ieri ha chiesto che "le consegne di
gas vengano ristabilite immediatamente". Gazprom ha annunciato che Mosca
terrà dei negoziati con i partner europei l'8 gennaio a Bruxelles.
La
guerra del gas non è solo una guerra economica.Un quarto delle
forniture di gas dell'Europa proviene dalla Russia. L'80 percento passa
dall'Ucraina attraverso un network di gasdotti di epoca sovietica. Il
primo gennaio la Russia ha tagliato le forniture a Kiev affermando che
il debito ucraino è di oltre 600 milioni di dollari. Mosca vuole anche
alzare le tariffe, portandole a 450 dollari per mille metri cubi, più
del doppio di quanto Kiev è disposta a sborsare. I russi accusano
inoltre gli ucraini di rubare 65 milioni di metri cubi destinato
all'Europa.Il presidente ucraino Viktor Yushchenko
accusa Mosca di usare la leva energetica per rovesciarlo in quanto
filo-occidentale. L'Ucraina preme da anni per entrare nella Nato e
nell'Unione Europea, e il Paese ha attraversato diverse crisi
istituzionali,
ultima delle quali a novembre, quando il Primo ministro Yulia
Timoshenko ha appoggiato la proposta di legge del Partito delle regioni
di Yanukovich tesa a limitare le prerogative presidenziali, innescando
una paralisi che durerà fino alle prossime elezioni, che verranno
indette entro giugno. Federico Bordonaro, analista politico e direttore
del sito di informazione di geopolitica 'Power and Interests News
Report', sostiene che sul braccio di ferro tra Mosca e Kiev si proietti
un Europa la cui politica è tutt'altro che unitaria.
Qual'è la posizione dell'Unione Europea di fronte alla crisi?
L'Unione
Europea è divisa tra un asse che possiamo chiamare continentalista
capeggiato da Germania, Francia, Spagna e Italia, che vedono in Mosca un
partner strategico con cui intraprendere non solo rapporti legati alla
questione sicurezza in tutta la fascia dell'Europa orientale, del
Caucaso e dell'Asia centrale, ma anche di collaborazione energetica,
data la stretta interdipendenza tra Europa e Russia. L'altro asse ha il
suo alfiere nella Polonia, nei Paesi baltici, nell'Ucraina - quella
parte di Ucraina filo-occidentale - e nella Repubblica Ceca, che ha
anche la presidenza di turno dell'Unione Europea. Questi ultimi Paesi
sono spesso appoggiati da Gran Bretagna e Svezia, che in questo momento
sono un po' più cauti, e Stati Uniti, anche loro relativamente silenti
perchè in una fase di transizione. L'Ucraina è il terreno di battaglia.
L'Europa che si presenta al tavolo della trattativa con Russia e Ucraina
non è un'Europa monolitica, ma con due approcci: uno più incline ai
russi, l'altro più rigido, poichè non vuole rinunciare all'Ucraina come
membro della Nato e della Ue. Per i Paesi come la Polonia e i Paesi
baltici allontanare la frontiera russa è una questione strategicamente
rilevante: significa avere un cuscinetto garantito dalla presenza Nato -
e quindi statunitense - ed espandere il loro sistema Paese, dal punto di
vista economico, finanziario ed energetico. L'Ucraina è un grande
mercato e una risorsa di manodopera specializzata di alto livello.
Quando si sbloccherà il braccio di ferro?
E' probabile che la situazione si sblocchi in poco tempo, anche perchè
Russia e Ucraina si stanno screditando entrambi. Se i russi forzano la
mano rischiano che gli europei possano orientarsi, per scongiurare nuove
crisi come questa, a percorsi alternativi, come il progetto di gasdotto
'Nabucco', raffreddando il loro interesse per South Stream e North
Stream. Una posizione troppo rigida da parte dell'Ucraina non gioverebbe
alla sua credibilità come nuovo eventuale membro dell'Unione Europea.
Dato che Gazprom ha bisogno di soldi, essendo fortemente indebitata, ciò
che potrebbe avvenire è che il prezzo che gli ucraini dovranno pagare
per il gas aumenterà, magari in modo graduale e non brutale.
Come è successo con la
Bielorussia il mese scorso...
Sì, quando i prezzi sono aumentati di poco, e Lukashenko ha offerto come
contropartita il riconoscimento di Ossezia del Sud e Abkhazia.
In conclusione, l'obiettivo politico della guerra del gas è
altrettanto importante rispetto a quello economico di Gazprom di 'far
cassa'.
La Russia vuole impedire che Kiev entri nella Nato, far fuori Yushchenko
e creare un'Ucraina post-arancione. Può riuscirci in due modi: o facendo
vincere Yanukovich con il suo Partito delle Regioni o cercare di
sostituire Yushchenko con la Timoshenko, ed è forse questa la strada più
percorribile.
Luca Galassi
Le acque dorate del
Perù
di Fulvio
Gioanetto
Cajamarca, regione andina del nord del Perú. La «città delle
spine» in lingua quechua, acclamata nei depliant turistici come
«autentica città del carnevale peruviano», è una regione cresciuta in
fretta e in modo incontrollato. Quarta nelle statistiche nazionali per
la produzione di latte, terza per livelli di denutrizione. Il
«benessere» qui è arrivato con l'estrazione mineraria. Nel giugno 2000
la regione è balzata alle cronache per una grave contaminazione da
mercurio nel distretto di Choropampa, quando un migliaio di famiglie
sono rimaste intossicate e una trentina di abitanti sono morti
(www.foei.org). La stampa la definì «la maggiore e più grave
contaminazione da mercurio inorganico mondiale». Padrona e signora delle
ricchezze minerarie della regione (oro, rame, argento, zinco, piombo) è
la famiglia Benavides, socia azionista della Newmont Mining Corporation
che controlla ormai il 60% dell'estrazione d'oro in Perù. Il distretto
di Encañada, dove opera la compagnia, registra una denutrizione cronica
fra il 67 e l'85%; analisi delle acque del Rio Grande Porcon, e delle
trote morte nel medesimo fiume, effettuate dal municipio, hanno
segnalato la presenza di alluminio, arsenico, mercurio e zinco. Che
strano che lo studio di «impatto ambientale» presentato dall'impresa
mineraria prima di iniziare le attività non facesse menzione dell'uso di
arsenico nel processo di liscivazione, né del mercurio quale
sottoprodotto finale. Fra il 1996 e il 2006 il trattamento dell'acqua
potabile contaminata è costato 180.000 dollari. «La compagnia mineraria
contamina, il costo del risanamento va sulla bolletta dell'acqua pagata
dai cittadini».
Quindici anni fa un orgoglioso presidente Fujimori aveva esibito il
primo lingotto d'oro estratto: gli investimenti nascondevano i danni
ambientali e i diritti dei lavoratori. Ma i tempi cambiano. Ora la
potente compagnia mineraria Mysrl Yanacocha/Newmont estrae oro e argento
in modo «sostenibile e appoggiando progetti comunitari», a quanto dice.
Quest'anno ha addirittura ricevuto il primo premio nazionale per il
progetto di responsabilità ambientale, consegnato dal presidente della
repubblica Alan Garcia. Infatti, dopo aver quasi completamente
dinaminato e distrutto una montagna a Cushuro per estrarre oro, nella
sua magnanimità e creatività ambientale, la compagnia ha deciso di
riutilizzare quello che resta di una zona estrattiva per raccogliere
acqua piovana per i «poveri assetati abitanti della regione». Sembra che
il progetto del bacino idrico San José, che sarà completato nel maggio
2009, fornirà acqua potabile ad allevatori, contadini e popolazione
intera.
Eppure molti non sono del tutto convinti dei benefici del progetto,
nonostante il bombardamento mediatico in atto. Per le forti pressioni
laterali e verticali, il bacino artificiale che conterrà sei milioni di
metri cubici d'acqua presenta già filtrazioni nelle parti basse e
fratture nella cresta del bacino di immagazzinamento. Inoltre la
montagna a ridosso delle città di Cajamarca e Baños del Inca è già
fratturata internamente con rischi di alluvioni. Molti ricordano che la
miniera opera nella parte più alta della valle di Cajamarca, dove hanno
origine tre microconche fluviali. Prima potevano attingere senza
limitazioni le acque di questi fiumi e quella incanalata nei canali di
Encajon Collotan, Quishuar, Llagamarca e Shacha, parte dei quali sono
ormai secchi. Scrive il Comitato in difesa di Cajamarca: «tutto questo
la compagnia mineraria Yanacocha lo chiama protezione ambientale e il
governo sviluppo economico sostenibile».
Il boss lo difende lo Stato
di Paolo Fantuzzi
Oltre 100 milioni di euro. A carico del ministero per
garantire un avvocato a chi non può permetterselo. Ma l'Antimafia accusa:
così si finanziano anche i padrini di camorra, mafia e 'ndrangheta
Un'operazione antimafia dei carabinieri
Prendete il maxiprocesso Mare nostrum,
uno dei più lunghi e complessi della storia giudiziaria coi 271 imputati
e 26 ergastoli: a oltre due anni dalla sentenza non si sa ancora quanto
sia costato all'erario difendere i 31 imputati che hanno chiesto e
ottenuto l'ammissione al gratuito patrocinio. Per completare il quadro,
mancano ancora diverse decine di fascicoli e al momento la cifra
corrisposta ai legali ammonta a 920 mila euro, con singole parcelle che
in un paio di casi sfiorano quota 100 mila. Alla fine, dunque, lo Stato
avrà speso più di un milione di euro per difendere imputati accusati di
essere padrini, gregari, affiliati e killer delle cosche mafiose che fra
il 1984 e il 1987 hanno insanguinato le province di Messina e Catania
con 39 omicidi, 45 ferimenti più una serie di estorsioni e attentati.
Mare nostrum, tuttavia, è solo uno dei tanti abusi di un istituto
pensato per assicurare il diritto all'assistenza difensiva anche ai meno
abbienti e divenuto, col tempo, lo strumento con cui le organizzazioni
criminali riescono a farsi beffe dell'autorità giudiziaria anche quando
vengono portate alla sbarra. L'espediente più diffuso ruota intorno alle
confische: lo Stato sequestra il patrimonio dei mafiosi? Allora deve
anche pagare loro l'avvocato, perché privati dei loro possedimenti, i
boss diventano poveri e pretendono (e quasi sempre ottengono) il
beneficio del gratuito patrocinio. Per la legge basta
un'autocertificazione che attesti un reddito inferiore a 9.23 euro. E il
traffico di droga come le estorsioni non lasciano tracce nel 740. Il
giudice ha solo dieci giorni di tempo per decidere, pena la nullità del
processo, e gli accertamenti, con un controllo sulla dichiarazione dei
redditi, consentono all'80-90 per cento di chi ne fa richiesta l'accesso
al gratuito patrocinio.
Così nel 2007 lo Stato ha speso 103 milioni per 123 mila
persone. E si tratta di dati incompleti, perché in ambito civile solo
una metà degli uffici giudiziari ha inviato i dati al ministero. Tutti
soldi spesi per garantire gli indigenti? Certo che no: una maggioranza
di poveri veri (che comprende comunque una buona quota di evasori
comuni) c'è; ma ad approfittare dell'istituto è sempre più la
criminalità organizzata.
E il denaro pubblico rischia di diventare una fonte di
autofinanziamento, come ha documentato nel 2004 l'inchiesta
Twister della Direzione nazionale antimafia di Catanzaro su
alcune cosche del cosentino. "Nelle intercettazioni l'assistito diceva
al difensore: 'Io ti nomino e tu mi dai parte dei soldi'. Rintracciammo
perfino un accredito bancario del ministero che, dopo essere stato
incassato, era stato in parte girato dal legale", ricorda l'ex pm della
Direzione distrettuale Eugenio Facciola, oggi sostituto procuratore a
Paola: "Capimmo che si trattava di un fenomeno consolidato e anche se è
l'unico caso accertato, non è escluso che funzioni così in molte realtà,
anche fuori dalla Calabria". Peraltro la 'ndrangheta ha spesso sfruttato
il gratuito patrocinio: il colpo più grosso è stato il maxiprocesso
Galassia istruito contro più di 150 affiliati alle cosche della
Sibaritide e del crotonese, celebrato a fine anni '90; in due anni di
dibattimento lo Stato ha sborsato 7 miliardi di lire solo per il primo
grado, più altri 215 mila euro tra appello e Cassazione.
Il fenomeno, comunque, va ben oltre le cosche calabre: la Direzione
investigativa antimafia esamina in media 2.500 istanze l'anno. Gli
ultimi in ordine di tempo, nella primavera scorsa, sono stati una decina
di esponenti del clan Capriati di Bari vecchia. Prima, fra il 2002 e il
2007, in 24 procedimenti celebrati davanti alla Corte d'Assise, per gli
imputati di associazione di stampo mafioso incapienti il tribunale di
Palermo ha speso 890 mila euro. Per difendere anche boss condannati al
carcere a vita come Giuseppe Agrigento, Domenico Ganci e Antonino
Madonia. Quest'ultimo, assieme a Leoluca Bagarella, ha ricevuto l'ultima
notifica del pagamento effettuato in favore del suo avvocato appena due
anni fa, il 28 settembre 2006, nel carcere di Novara: 9.365 euro.
Colpiti da un'offensiva giudiziaria senza precedenti e da un numero
crescente di confische, anche i casalesi hanno intrapreso questa strada.
Nel processo-simbolo contro Gomorra, lo Spartacus 1, il
gratuito patrocinio è stato concesso a 20 imputati. In appello se ne
sono aggiunti altri due. "Si tratta per lo più di seconde file, perché
fino a qualche anno fa per la camorra era un disonore farsi pagare
l'avvocato. Infatti, a eccezione di un ergastolo, comminato ad Alfredo
Zara, e tre condanne a 25, 26 e 30 anni, la maggior parte delle pene per
i beneficiari sono relativamente contenute, da tre a 12 anni di
reclusione", afferma Raffaello Magi, il giudice a latere che scrisse le
3.200 pagine della sentenza e firmò le liquidazioni dei difensori. Il
conteggio finale, anche in questo caso, è notevole: 906.460 euro. Ma i
conti in tasca ormai se li sono fatti anche le prime file, assicura il
pm della Dda di Napoli Francesco Curcio: "Negli ultimi anni hanno
beneficiato del patrocinio in procedimenti paralleli anche esponenti di
vertice, gli ex capi-zona dell'Agro aversano Francesco Biondino e
Vincenzo Zagaria, e vecchi affiliati come Luigi De Rosa, Giorgio Marano
e Luigi Costanzo".
Per rendersene conto basta seguire la curva dei costi del gratuito
patrocinio nei processi penali a Santa Maria Capua Vetere, dove negli
ultimi dieci anni è stato necessario aprire due nuove sezioni in Assise
per affrontare la crescente mole di lavoro: 133 mila euro nella seconda
metà del 2003, 416 mila nel 2004, 654 mila nel 2005. Per effetto del
decreto Bersani, che modifica le modalità dei pagamenti, nel 2006 e 2007
l'importo scende a 557 mila e 455 mila. Si tratta però di un semplice
rallentamento nella liquidazione delle pratiche: nei primi sei mesi del
2008, il parziale è tornato a crescere, con 292 mila euro.
Per porre riparo allo scandalo di uno Stato che paga l'avvocato ai clan,
un emendamento al pacchetto sicurezza esclude dal patrocinio i
condannati per associazione mafiosa e traffico di droga. Un cavallo di
battaglia della Commissione antimafia, presentato dall'ex presidente
Giuseppe Lumia, che tuttavia è stato paradossalmente contestato in
Senato da un altro ex presidente, Roberto Centaro (Pdl), per la
disparità di trattamento che si sarebbe creata fra i detenuti. Il
governo aveva perfino dato parere negativo, ma davanti al clamore
suscitato, alla fine l'approvazione è stata unanime.
Lo scandalo G8 e l'hobby da 300mila euro
di Fabrizio Gatti
Scoperti altri affari tra la moglie del supermanager incaricato dalla
Protezione civile e le imprese che si sono aggiudicate l’appalto più ricco
per i cantieri della Maddalena
Nulla di irregolare nei cantieri per il G8 sull'isola della Maddalena.
Lo sostiene
un comunicato della Protezione civile. La dichiarazione si basa su
un
rapporto al capo dipartimento Guido Bertolaso, che è anche
commissario delegato per il G8, firmato da Angelo Balducci, presidente
del Consiglio superiore dei lavori pubblici. Balducci da marzo è stato
"soggetto attuatore" e poi coordinatore degli appalti da 300 milioni di
euro per il supervertice tra capi di Stato, che si terrà alla Maddalena
dall'8 al 10 luglio 2009. Ma L'espresso ha scoperto altri
affari per 330 mila euro dichiarati nel 2007 che uniscono nella stessa
società la moglie di Balducci, Rosanna Thau, 62 anni, e un imprenditore
che controlla ed è legato alle ditte che si sono aggiudicate gli appalti
più ricchi alla Maddalena.
Pur promettendo la massima trasparenza sul caso, la Protezione civile ha
nel frattempo tolto dal suo sito le ordinanze di Palazzo Chigi con cui
Balducci era stato nominato e poi rimosso. E il provvedimento con cui
Silvio Berlusconi aveva chiesto a Bertolaso di "assicurare un'adeguata
attività di verifica degli interventi infrastrutturali posti in essere
dai soggetti attuatori di cui alle ordinanze del presidente del
Consiglio dei ministri numero 3629 del 20 novembre 2007 e numero 3663
del 19 marzo 2008, in termini di congruità dei relativi atti negoziali".
L'espresso, nella sua inchiesta pubblicata la scorsa settimana,
ha scoperto che il contratto più ricco è andato a imprenditori in affari
proprio con la moglie del presidente del Consiglio superiore dei Lavori
pubblici. Circostanza che Balducci smentisce annunciando querele. Alcuni
documenti depositati alla Camera di commercio di Roma e altri pubblicati
dal sito internet della Protezione civile però contraddicono sia la
relazione di Balducci sia la precisazione della Protezione civile.
Poiché si tratta di uno dei più grossi appalti pubblici nazionali, in un
momento di grave difficoltà dell'economia e delle casse dello Stato,
vale la pena leggere quei documenti.
L'HOBBY DELLA SIGNORA
Il presidente Balducci, massima carica dell'organo che valuta e
guida le opere del ministero alle Infrastrutture di Altero Matteoli (An),
precisa che la Erretifilm srl, società di produzioni cinematografiche,
riguarda le "attività hobbistiche" di sua moglie, Rosanna Thau. Balducci
smentisce l'esistenza di legami d'affari tra la sua famiglia e l'Impresa
Anemone costruzioni intorno a cui, come ha rivelato L'espresso, ruota
una fetta da 117 milioni di euro sui 300 che saranno spesi per costruire
le strutture del G8. Il supermanager dello Stato sostiene che c'è solo
"identità dello studio professionale commerciale usato dalla ditta
Anemone e un componente della famiglia dell'ingegner Balducci". La nota
del presidente del Consiglio superiore dei Lavori pubblici nasconderebbe
però sia a Bertolaso, sia a Palazzo Chigi, sia al ministro Matteoli il
resto della storia. È tutto scritto nei dossier depositati in Camera di
commercio dalla stessa
Erretifilm. Per la sua attività hobbistica, la moglie di Angelo
Balducci e la sua società nel 2002 hanno ricevuto 25 mila euro come
capitale sociale da un imprenditore, Vanessa Pascucci, 37 anni.
Chi è Vanessa Pascucci? È la proprietaria al 50 per cento della
Redim 2002 (vedi il diagramma
degli appalti) la società che il 6 agosto 2008 ha messo il
35 per cento del capitale (7000 euro) per costituire l'Arsenale scarl e
fornire manodopera al cantiere principale del G8. La ragnatela è molto
più estesa. Perché la Redim 2002 di Vanessa Pascucci possiede il 70 per
cento di un'altra impresa, la
Minerva società consortile, amministrata da Daniele Anemone, 34
anni, titolare al 98 per cento dell'Impresa
Anemone costruzioni: proprio la ditta che, con la Nuove
infrastrutture di Fano, si è aggiudicata la fetta più grossa del
contratto G8. Daniele Anemone è anche a capo dell'omonimoGruppo
Anemone che possiede il 55 per cento della
Maddalena scarl. E si torna al G8: la società è stata costituita il
17 luglio 2008 per fornire manodopera al cantiere dove già lavora
l'Arsenale scarl. Il presidente del Consiglio superiore dei Lavori
pubblici sostiene anche che la Erretifilm sia inattiva e in
liquidazione. Dal
bilancio 2007 di Erretifilm risulta invece che la società di Vanessa
Pascucci e della moglie di Balducci dichiara un attivo di 330 mila euro
di cui 293 mila in diritti cinematografici.
Raccontandola in altre parole: Vanessa Pascucci nel 2002 mette a
disposizione 25 mila euro per l'hobby della moglie del supermanager
incaricato dalla Protezione civile, con lei nel 2007 condivide diritti
cinematografici e altro per 330 mila euro e nel 2008 con le aziende del
Gruppo Anemone per cui lavora ottiene dalla Protezione civile i
superappalti per il G8. Appalti affidati proprio al coordinamento di
Balducci. Una vicinanza curiosa, ma che non configura nessun reato.
Allora perché il presidente del Consiglio superiore dei Lavori pubblici
non ne parla nella sua relazione a Bertolaso? E davvero a Palazzo Chigi
nessuno sapeva?
QUESTIONE PRIVATA
Sarebbe una questione strettamente privata se non fosse per l'incarico
che ricopre Angelo Balducci. Fino al 13 giugno 2008 Balducci è "soggetto
attuatore" di tutte le grandi opere per il G8, come indicato dall'
Ordinanza 3684, con la nomina affidatagli il 20 marzo da Bertolaso.
Il delicato compito di "soggetto attuatore", centrale a tutti gli
appalti, è stabilito nell'articolo 5 comma 8 dell'
Ordinanza 3663 del presidente del Consiglio dei ministri del 19
marzo 2008. Dopo la sostituzione, Balducci mantiene comunque un ruolo
chiave nei cantieri con "le funzioni di raccordo tra la predetta
struttura di missione, quale stazione appaltante... e i soggetti
coinvolti dagli interventi infrastrutturali da porre in essere ai sensi
dei grandi eventi richiamati in premessa". In gioco non ci sono soltanto
gli appalti per il G8, ma anche i contratti per il 150° anniversario
dell'Unità d'Italia e per i mondiali di nuoto "Roma 2009".
IL RUOLO DELLA PROTEZIONE CIVILE
Nel suo comunicato lo staff di Bertolaso precisa che Balducci non è "un
funzionario della Protezione civile, ma il riferimento naturale per la
realizzazione di opere pubbliche" in quanto presidente del Consiglio
superiore dei Lavori pubblici: una "scelta del dipartimento di assegnare
ruoli ai più alti livelli istituzionali nell'ambito delle rispettive
competenze, per i diversi settori su cui si sta svolgendo l'attività
preparatoria del prossimo G8". Sarebbe normale se tutto questo fosse
vero.
La realtà però è diversa. Angelo Balducci ricopre il ruolo più delicato
nel ministero delle Infrastrutture soltanto dal 10 ottobre 2008, come
indicato dalla delibera per la sua
nomina. L'incarico come soggetto attuatore gli viene formalizzato
già il 20 marzo 2008 dal commissario delegato Bertolaso. Pochi giorni
prima Balducci è ancora capo dipartimento per lo Sviluppo e la
competitività del turismo, come risulta da un
documento ufficiale. E lì rimane. Fino al momento in cui Guido
Bertolaso lo mette a gestire gli appalti per il G8. Balducci smentisce
perfino che i progetti siano coperti da segreto di Stato.
L'ordinanza del 19 marzo 2008, che il giorno dopo permette proprio la
sua nomina, stabilisce invece "di dover estendere agli interventi
realizzativi dell'intero complesso delle opere, nonché delle forniture e
dei servizi interessati allo svolgimento del grande evento relativo alla
Presidenza italiana del G8 la qualificazione di riservatezza e
segretezza...". Venerdì 19 dicembre il procuratore di Tempio Pausania fa
perquisire la casa e l'ufficio alla Maddalena di un sindacalista della
Cgil, Tonino Cansella, 51 anni, che stava raccogliendo denunce dai
lavoratori sul controllo del caporalato, i turni massacranti, gli
straordinari pagati in nero e l'evasione dei contributi Inps dentro i
cantieri del G8. Cansella è accusato di procacciamento di notizie sulla
sicurezza dello Stato. Per aver tentato di difendere la sicurezza degli
operai rischia da 3 a 10 anni di carcere. Nel totale silenzio del
presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, della Protezione civile
e di buona parte d'Italia.
Viaggio tra i bambini dei quartieri poveri di Panciu, città
rumena della Vrancea
Fernando osserva la strada attraverso il vetro dell'autobus e lo sguardo
attento non nasconde il sorriso stupito: ha 4 anni e per la prima volta
in vita sua mette il naso fuori da Panciu, realtà di meno di 10mila
abitanti nella Vrancea centro orientale, la zona probabilmente più
povera di Romania. E Fernando la povertà la conosce bene: vive a Valle
Brazi, uno dei quartieri rom del paese, appena fuori dal centro, dove la
situazione abitativa e quella sanitaria sono decisamente precarie; ha
tre fratelli, Viorel, Vasile e Romeo, mamma e papà sono decisamente poco
presenti, spesso fuori casa per lavorare occasionalmente nei campi,
troppo spesso ubriachi quando invece si trovano fra le 4, spoglie, mura
domestiche.
L'inverno
a Valle Brazi è decisamente rigido, la casa di Fernando come quasi tutte
le atre, ha le finestre rotte e il tetto che lascia filtrare acqua;
inoltre il sistema idrico e fognario lasciano decisamente a desiderare,
con la conseguenza che dopo un'ora di pioggia, come stamattina, la Valle
fatta di sentieri fangosi e non certo di strade asfaltate diventa un
immensa piscina melmosa che i bambini devono attraversare per recarsi in
paese. E' domenica mattina, piove nonostante le previsioni ottimistiche
"del Mazzini" diano soleggiato "fino al 10 marzo, vedrai che la
primavera è arrivata!"; il centro "Pinochio", sede dell' associazione
Rom Pentru Rom a Panciu, che accoglie giornalmente trenta - quaranta
bambini e ragazzi, sia romeni che rom, si è riempito già alle otto: oggi
è prevista gita a Goleşti, presso il Centro di Accoglienza per ragazzi
con disturbi mentali e sieropositivi; è la seconda gita nella storia
dell' associazione, a pochi mesi di distanza dalla prima. "Domna"
Daniela, la maestra romena che da quasi un anno collabora con l'
associazione, è un po' nervosa: sa quanto è stato difficile convincere
le famiglie dei bambini, in particolare quelle rom, meno tolleranti e
più intimorite da certe problematiche, a lasciare i propri figli liberi
di aggregarsi al gruppo in partenza; Vasile si aggira coi suoi modi
bruschi e gli occhi buoni per il campo, urlando ai ragazzi frasi aspre
in romeno, ottenendo l' effetto di far muovere tutti in modo frenetico:
solo io e "il Mazzini" possiamo apprezzare l' occhiolino divertito di
Vasile che ci fa capire quanto in realtà gli piaccia giocare a fare il
poliziotto cattivo, lui così capace di gesti gentili, specialmente
quando ci sono dei ragazzini di mezzo.
Vasile
è uno dei 4 romeni, tra cui 3 rom, che lavorano all' associazione, ed è
il tuttofare del centro: non a caso tutti lo chiamano "Maestro", perché
sa far tutto, dal falegname al piastrellaio, dal cuoco all' arbitro di
calcetto. La gita prevede due musei, uno di scienze naturali, dove l'
orso richiama l'attenzione dei bambini con la sua mole gigantesca, e uno
di ricostruzione storica di case romene, che cattura l' attenzione dei
bimbi per tutto il tempo della visita, fatto più unico che raro con
personalità così vivaci. La tappa al Centro di Accoglienza di Goleşti è
la più impegnativa, i ragazzi del centro sono sieropositivi e hanno
forti disturbi mentali e fisici, sappiamo che i bambini e i ragazzi in
visita potrebbero anche reagire male, ma l'invito del Centro è stato
talmente sentito e stimolante che il tentativo era necessario; Elena,
Rita e Iomelia hanno studiato le due ore da passare insieme preparando
attività di lavoro che bambini e ospiti del centro condivideranno, come
la preparazione di addobbi natalizi con carta, matite e colla in vista
dell' arrivo di Moş Crăciun, il Babbo Natale di qui.
Tra
gli ospiti del Centro Mariela è una delle più amichevoli, parla e ride
con una vitalità che non ti aspetteresti, tanto che Michaela,
normalmente la meno concentrata tra le bimbe del Centro Pinochio, si
ritrova a tagliare e incollare ghirlande e dipingere piccole scarpette
con un entusiasmo contagioso.
Michaela è un altro caso molto particolare che si presenta giornalmente
ai volontari della Rom pentru Rom: ha 13 anni e passa buona parte del
suo tempo in strada a elemosinare; è rom e come tale spesso viene
emarginata, a scuola ma anche dai propri coetanei; accadeva spesso anche
quando ha iniziato a frequentare il Centro "Pinochio", motivo per cui
all' inizio era spesso silenziosa e introversa; vedere ora come ride e
scherza provoca in tutti enorme soddisfazione e la sensazione che anche
le situazioni più complicate possono cambiare quando ci si mette
passione e impegno. Fernando invece è un ciclone con i suoi pantaloni
militari e il suo maglione natalizio, si aggira tra gli ospiti del
Centro di Goleşti con un misto di curiosità, attenzione e divertimento:
dall' alto del suo metro scarso di altezza alterna sguardi di una
dolcezza disarmante a occhiate torve da piccolo gangster. Vasile lo ha
preso sotto la sua ala protettiva: ha passato tutto il giorno a
coccolarlo e portarlo con se; lo abbandonerà soltanto sul pullman,
durante il viaggio di ritorno, per raggiungere i ragazzi più grandi, i
più esagitati, in fondo all' autobus, da dove dimostrerà di avere anche
ottime doti di capocoro, dirigendo un' improvvisata orchestra in
evoluzioni canore che provocano risate a tutti i passeggeri e un grosso
mal di testa al povero autista.
La giornata di oggi può chiudersi con un
bilancio decisamente positivo: non soltanto l' incontro al Centro di
Goleşti ha visto un inaspettato spirito collaborativo tra bambini e
ospiti del Centro, ma l' idea che i vari Michaela e Fernando abbiano
evitato di passare una giornata in strada ad elemosinare, uscendo per la
prima volta dalla realtà di Panciu e facendo un'esperienza di vita che
gli rimarrà impressa per molto tempo aiuta a scacciare il pensiero che
forse domani la vita ricomincerà nella sua normale e triste routine.
Forse la giornata di oggi non è la soluzione ai problemi di questa
realtà, ma almeno aiuta a non perdere la speranza e ad avere un po' più
fiducia in un cambiamento magari lento, ma non impossibile, e l' urlo di
Fernando appena entrato in casa "Papà papà ho visto l' orso!" merita di
certo un brindisi con vin fiert, il vino caldo speziato che è la
specialità del maestro Vasile
Nel 2008 il numero di esecuzioni negli Usa è calato ancora.
L'abolizione è lontana, ma per la pena di morte ci sono sempre più ostacoli
scritto da
Alessandro Ursic
L'abolizione è ancora lontana e parlarne è
politicamente un tabù, dato che due terzi degli americani sono ancora
favorevoli. Ma per la pena di morte negli Stati Uniti il 2008 è stato un
anno di magra. Sono diminuite sia le esecuzioni sia le nuove condanne, a
evidenziare quella che è ormai una tendenza in atto da anni.
Secondo
il Death Penalty Information Center, un gruppo che si batte per l'abolizione
della pena capitale e raccoglie il più completo database sul tema negli Usa,
nell'anno appena concluso le esecuzioni sono state 37: il numero più basso
da 14 anni a questa parte, e una diminuzione del 62 percento rispetto a nove
anni fa. Sono calate a 11, quattro in meno del 2007, anche le nuove sentenze
di condanna a morte, e ciò rappresenta il minimo da quando la pena di morte
è stata reintrodotta negli States, nel 1976.
Uno dei motivi di questi risultati è sicuramente la sospensione temporanea
delle esecuzioni, riprese lo scorso aprile dopo che la Corte suprema aveva
ribadito la costituzionalità delle procedura di iniezione letale, contestata
da due detenuti del Kentucky per i timori che tale morte sia tutt'altro che
indolore. Ma una volta sbloccate, le esecuzioni avrebbero potuto riprendere
una dopo l'altra. Invece, gli "intoppi" legali si sono moltiplicati, perché
in molti dei 36 Stati che ancora praticano la pena di morte sono state
aperte indagini interne sempre sull'iniezione letale, il metodo utilizzato
da tutti gli Stati tranne uno.
Mentre
un recente sondaggio ha mostrato che il 64 percento degli americani si dice
ancora a favore della pena di morte, negli ultimi tempi diversi Stati si
sono mossi verso un'abolizione de facto per i detenuti che non possono
permettersi un avvocato difensore: gli alti giudici di New Mexico e Utah,
per esempio, hanno fatto capire che sono pronti ad annullare qualsiasi
sentenza di condanna a morte in casi del genere.
C'è poi anche il fattore economico. La pena di morte, al contrario di quanto
pensino molte persone a favore, costa. Anche più di un ergastolo: alla
alcuni studi hanno evidenziato il peso della pena capitale sulle casse
statali: tra interminabili procedure legali, spesso dalla condanna
all'esecuzione passano anche 15 anni. Nel Maryland, dove si prevede che
quest'anno la pena di morte verrà abolita come ha deciso nel 2007 il New
Jersey, l'argomento che più sta a cuore ai cittadini è proprio quello
economico. Dal 1976, nel piccolo Stato del nord-est sono state uccise "solo"
cinque persone. Ma ognuno di quei casi è costato 37 milioni di dollari. E da
quando è stata diffusa questa cifra, la bilancia ha improvvisamente
cominciato.
Niente cimici siamo italiani
Berlusconi ha annunciato che bisogna riformare le intercettazioni e
uno stuolo di giornalisti al seguito ha cominciato a ripeterlo a pappagallo.
Senza peraltro spiegare il perché
Bruno Vespa
È bastato che Berlusconi strillasse per qualche mese che bisogna
riformare le intercettazioni, perché uno stuolo di giornalisti al
seguito cominciasse a ripeterlo a pappagallo. Senza peraltro spiegare il
perché. Bruno Vespa scrive su 'Bresciaoggi' (imperversa
pure lì) che "è sempre più urgente sanare la piaga delle
intercettazioni", dopo averne sciorinate a centinaia nei tele-processi
di Cogne, Erba, Garlasco e Perugia. Il 'Corriere' gli fa eco in prima
pagina: "Riforma condivisa delle intercettazioni" in base al "testo del
Consiglio dei ministri". Si spera che quel testo, al 'Corriere', non
l'abbiano letto: altrimenti non si vede come possano sollecitare una
legge che manda in galera (pena da 1 a 3 anni) i cronisti, anche del 'Corriere',
che citano o riassumono intercettazioni o altri atti d'indagine, anche
"non più coperti da segreto", prima del processo (potranno farlo solo
4-5 anni dopo la scoperta dei fatti). Alla prossima conferenza stampa
uno dei fortunati giornalisti accreditati potrebbe domandare al premier:
"Scusi, perché mai vuole riformare le intercettazioni?".
Se dice che sono troppe, obiettare che ogni anno si
fanno 3 milioni di nuovi processi e s'intercettano appena 15-20 mila
persone. Se dice che costano troppo, obiettare che nel 2007 sono costate
224 milioni, ma han fatto recuperare allo Stato svariati miliardi da
mafiosi, narcotrafficanti, finanzieri furbetti, corrotti, rapinatori,
truffatori; comunque per risparmiare basta acquistare le apparecchiature
anziché affittarle da privati, o imporre tariffe scontate alle compagnie
telefoniche. Se dice che all'estero ne fanno di meno, obiettare che ne
fanno di più, ma non risultano nelle statistiche perché non
le dispongono solo i giudici, ma anche le polizie e i servizi segreti
senza render conto a nessuno. Se dice che all'estero si fanno solo per
mafia e terrorismo, obiettare che l'Fbi ha appena intercettato e
arrestato il governatore dell'Illinois, Rod Blagojevic, e centinaia di
top manager di Wall Street coinvolti nei mutui subprime.
Se dice che all'estero i giornali non le pubblicano,
esibire un giornale Usa a piacere con le telefonate di Blagojevic & C.,
compresi i non indagati Jesse Jackson jr. e Rahm Emanuel, braccio destro
di Obama. Se dice che vanno escluse per i reati minori, obiettare che il
testo governativo le vieta per associazione a delinquere, sequestro i
persona, rapina, stupro, furto, spaccio, estorsione, truffa, frode
fiscale, bancarotta, omicidio colposo, sfruttamento della prostituzione.
Reati minori? Che ne pensano An e la Lega? Se dice che bastano e
avanzano gli altri mezzi d'indagine, obiettare che tutti i più recenti
scandali sono emersi grazie alle intercettazioni: Bancopoli, Calciopoli,
Vallettopoli, casi Cuffaro e Saccà, clinica-horror Santa Rita, Abu Omar
e Sismi deviato, Tangentopoli a Firenze, Pescara, Napoli, Potenza.
Se dice che la riforma serve appunto per coprire gli scandali,
ringraziarlo per la squisita sincerità. Poi avvertire Vespa e il 'Corriere'.
Le truppe etiopi si ritirano dal Paese, lasciando il governo
alla mercé degli islamici
Poco più di due anni fa, alla fine di dicembre del 2006, migliaia di
soldati etiopi entravano in Somalia per aiutare il governo di
transizione locale (Tfg) a contrastare le Corti islamiche, che
avevano accerchiato le truppe governative a Baidoa e si preparavano
all'attacco finale. Oggi, a due anni di distanza, la situazione non
è cambiata di molto: nei prossimi giorni, le truppe etiopi si
ritireranno definitivamente dal Paese, lasciando alla mercé degli
insorti un governo che controlla solo la città di Baidoa e alcuni
quartieri della capitale Mogadiscio.
Sono
poche le speranze di sopravvivenza per l'esecutivo, alla prese con
una crisi politica interna dopo le dimissioni del presidente
Abdullahi Yusuf. A difendere Baidoa e i pochi quartieri della
capitale ancora in mano del governo rimarranno l'indisciplinato
esercito somalo e le 3.600 truppe dell'Unione Africana, che nei
prossimi mesi potrebbero ottenere rinforzi con l'invio di altre
2.500 unità da parte di Uganda, Burundi e Nigeria. Nel frattempo,
però, per rimanere in piedi il governo dovrà sperare nelle divisioni
interne al movimento islamico, spaccatosi da alcuni mesi in due
tronconi: uno moderato, facente capo all'ex-leader delle Corti
islamiche Sheikh Sharif e pronto a scendere a patti con il governo,
e un'ala più radicale, guidata da Sheikh Hassan Dahir Aweys e decisa
a continuare la lotta armata. Una divisione che si riflette da una
settimana sul campo di battaglia, dove le due formazioni islamiche
dello Shabaab e del neonato gruppo Ahlu Sunna Waljamaca si scontrano
per il controllo del territorio.
Il ritiro delle truppe etiopi è sempre stato chiesto dagli insorti
come precondizione per avviare trattative con il governo. La
partenza dei soldati di Addis Abeba, accusati dagli insorti di
essere degli invasori al soldo degli Stati Uniti loro alleati,
potrebbe perciò aprire nuove prospettive di pace. Il pericolo più
immediato, però, è che il ritiro della formazione armata più
preparata e meglio addestrata presente sul territorio somalo possa
creare un vuoto di potere pericoloso da gestire, in un momento in
cui il governo somalo non è mai stato così debole e le Nazioni
Unite, preoccupate più dell'emergenza pirateria nel golfo di Aden,
non hanno alcuna intenzione di inviare un contingente di
peacekeepers nel Corno d'Africa. "Speriamo che il ritiro aumenti le
prospettive di pace, ma al momento tutti gli scenari sono possibili.
E' una situazione estremamente fluida", spiega a PeaceReporter un
uomo d'affari residente a Mogadiscio, che preferisce non essere
identificato per ragioni di sicurezza.
Più
di diecimila morti, almeno un milione di sfollati e un'emergenza
umanitaria senza precedenti, acuita dalle difficoltà che le
organizzazioni internazionali incontrano nell'assistere la
popolazione civile. La crisi somala è riassunta in questi pochi
numeri, che testimoniano come la già precaria situazione del Paese
sia precipitata negli ultimi due anni. Lacerato da lotte intestine e
abbandonato dalla comunità internazionale, che non ha fornito alcun
aiuto finanziario, il Tfg ha man mano perso terreno nei confronti
degli insorti, che con i loro attacchi hanno logorato la resistenza
delle truppe etiopi, per le quali rimanere a Mogadiscio si è
rivelato sempre più oneroso. Con l'avvicinarsi della vittoria, però,
anche il fronte islamico ha mostrato le proprie crepe, nonostante
gli insorti abbiano conquistato quasi tutto il sud del Paese e buona
parte della Somalia centrale. Il rischio che i due fronti si
spacchino ulteriormente, sfociando in una guerra civile di tutti
contro tutti, rimane concreto.
Matteo Fagotto
2
gennaio 2009
Tra discariche e fannulloni
di Mariaveronica Orrigoni
Il primo Consiglio dei
ministri del Berlusconi V si è simbolicamente riunito a Napoli,
città al centro delle polemiche per i rifiuti. Il decreto legge
lampo per risolvere l'emergenza spazzatura prevedeva, tra le altre
cose, l'uso dell'esercito per presidiare zone a rischio e l'apertura
di nuove discariche. È "la fine dell'emergenza", dirà poche
settimane dopo il premier. Altro tema caldo di inizio legislatura è
la sicurezza, affrontato dal neo ministro dell'Interno Roberto
Maroni con un decreto convertito in legge il 23 luglio. Tra le
novità, il congelamento dei processi meno urgenti e pene più dure
per i clandestini. La lotta alla microcriminalità viene abbracciata
anche dal ministro Mara Carfagna: è suo il disegno legge per cui
prostituirsi sulla strada diventa reato, punibile con l'arresto.
Fin da subito, efficienza e praticità sono le parole chiave del
ministro Renato Brunetta. La sua battaglia contro i 'fannulloni' e
'l'assenteismo' parte già nei primi giorni della legislatura. Tra le
iniziative di Brunetta, la diffusione degli elenchi delle consulenze
delle pubbliche amministrazioni e la possibilità di licenziare i
dipendenti pubblici per scarso rendimento. La manovra d'estate
arriva in Consiglio dei ministri il 18 giugno, passerà alla storia
come una della più rapide. Solo nove minuti e mezzo per approvare il
progetto del ministro Tremonti, incentrato sulla semplificazione
legislativa e sui tagli alle spese dei ministeri. Il decreto verrà
convertito ad agosto nella legge 133; la stessa contestata dagli
universitari nelle manifestazioni di novembre contro il ministro
Gelmini. Gli studenti scendono in piazza a fianco di genitori e
insegnanti, tutti contrari alla riforma della scuola, caratterizzata
dal ritorno del maestro unico, diventato poi maestro prevalente, e
dai tagli al tempo pieno e agli atenei.
Il tira e molla estivo sul destino di
Alitalia tra governo, sindacati e Cai, la cordata di imprenditori
italiani scesa in campo per salvarla dal fallimento, si conclude il
19 novembre, quando il ministro Claudio Scajola autorizza il
commissario straordinario Augusto Fantozzi a vendere: un accordo
raggiunto dopo mesi di discussioni. A pochi giorni della vendita di
Alitalia, l 28 novembre viene varato il pacchetto anticrisi di
Tremonti: una serie di interventi per arginare gli effetti della
crisi economica. Tra i principali provvedimenti, l'aumento degli
ammortizzatori sociali, la social card per i meno abbienti e lo
sblocco dei fondi per le grandi infrastrutture.
Nel 2009, sarà la riforma della giustizia la prova del nove per il
giovane ministro Angelino Alfano, già nel cuore di Berlusconi per il
suo lodo, la legge che dallo scorso luglio rende immuni le prime
quattro alte cariche dello Stato da qualsiasi processo penale a loro
carico. Nelle ultime settimane, Alfano ha annunciato la
presentazione a fine gennaio della sua bozza, che molto
probabilmente modificherà anche il regime delle intercettazioni, uno
degli ultimi sassi nella scarpa del premier.
Costituzione ad personam
di Marco Damilano
Liberismo. Federalismo. E infine Presidenzialismo. Ecco l'Italia che
progetta Silvio Berlusconi. Dopo aver regolato i conti con i
magistrati. E messo il bavaglio alle intercettazioni
Silvio Berlusconi
C'è chi si è già portato avanti con il programma. Il ministro delle
Politiche agricole, il super-leghista Luca Zaia, per esempio: di
recente ha fatto togliere dal suo ufficio del ministero di via XX
settembre la foto di Giorgio Napolitano, il capo dello Stato che
rappresenta l'unità nazionale. Due istituzioni che nel 2009
potrebbero essere messe a rischio dalla girandola di riforme,
costituzionali e non, che il centrodestra si prepara a mettere in
campo nei prossimi mesi. Si comincia il 20 gennaio,
quando il federalismo fiscale fortemente voluto dalla Lega arriverà
alla prova dell'aula del Senato. Negli stessi giorni la Camera sarà
impegnata in un altro disegno di legge che sta molto a cuore a
Silvio Berlusconi, quello che vieta le intercettazioni. Per poi
passare alle partite successive: la giustizia, con la riscrittura di
alcuni articoli della Costituzione. E il piatto forte del menù
berlusconiano: il presidenzialismo.
"L'obiettivo del nostro governo si può riassumere in tre parole:
liberismo, federalismo, presidenzialismo". Lo
dichiarò il Cavaliere nell'aula di Montecitorio, era il 2 agosto
1994, e non si può negare che almeno in questo sia stato coerente.
L'elezione diretta del presidente della Repubblica è nei suoi piani
da quando è entrato in politica, esattamente 15 anni fa, dal
discorso della discesa in campo in tv, con la calza a coprire la
telecamera e alle spalle una libreria, già allora presidenziale. E
ha ripetuto il suo credo nella conferenza stampa di fine anno: "È
una riforma essenziale". Per poi frenare sui tempi di realizzazione:
"Non abbiamo ancora esaminato il tema, non lo faremo nemmeno nel
2009. Ma nella seconda parte della legislatura bisogna arrivarci".
Ma c'è chi pensa che in realtà il presidenzialismo potrebbe essere
messo in cantiere già nella seconda metà di quest'anno. Uno dei più
fieri oppositori di Berlusconi, il deputato centrista Bruno Tabacci,
ne è convinto: "Conosco bene Silvio. Se la crisi economica dovesse
aggravarsi nei prossimi mesi, la tentazione di trovare una via
d'uscita istituzionale per lui diventerebbe irresistibile". E poi ci
sono i tempi di approvazione: doppia votazione di Camera e Senato, a
sei mesi di distanza. Se si cominciasse a discuterne nella seconda
metà del 2009 la riforma arriverebbe ad approvazione alla fine del
2010, salvo intoppi: nella parte finale della legislatura, come
annunciato dal Cavaliere, giusto in tempo per chiamare gli elettori
a votare sul presidenzialismo all'italiana con il referendum
confermativo previsto dall'articolo 138 della Costituzione. Un
passaggio che il premier già mette nel conto, anzi, auspica.
Qualcosa di simile solo al referendum del '46 in cui gli italiani
decisero tra Monarchia e Repubblica: ma in questo caso la scelta
sarebbe pro o contro il Cavaliere che sogna di passare alla storia
come il fondatore della Terza Repubblica italiana. Eletto al
Quirinale a furor di popolo.
A interrompere la sua marcia trionfale, però, ci sono numerosi
ostacoli. Non solo gli istituti di garanzia previsti dalla
Costituzione in vigore, a partire dall'attuale presidente della
Repubblica. Non solo i partiti dell'opposizione, da Casini a Di
Pietro passando dal Pd, che minacciano di fare le barricate e
potrebbero ritrovarsi uniti dalla battaglia comune. A guastare i
sonni del Cavaliere ci sono soprattutto i contrasti all'interno del
centrodestra dove i presidenzialisti sono per ora in minoranza.
Nel governo siamo al bricolage costituzionale, al fai-da-te
delle riforme. Ognuno ha la sua: la Lega è contraria
all'elezione diretta del capo dello Stato e molto più interessata a
portare a casa il federalismo fiscale. Per raggiungere l'obiettivo
si sta ritagliando un inedito ruolo di mediazione con il Pd. Bossi,
che nel governo Berlusconi è ministro delle Riforme, ha stoppato
Berlusconi due volte in pochi giorni: la prima per bloccare la
riforma della giustizia, che il premier voleva già prima di Natale
per incassare il clima di discredito verso la magistratura provocato
dalla guerra tra le procure di Salerno e di Catanzaro, la seconda
per fermare sul nascere la tentazione presidenzialista del premier.
"Berlusconi il Quirinale deve meritarselo sul campo. Si misurerà
sulle riforme", avverte un altro ministro leghista, Roberto
Calderoli. E già, perché dopo l'approvazione del federalismo da
parte delle Camere arriverà il momento dei decreti di attuazione che
spettano al governo: è lì che potrebbe scattare lo scambio.
L'accelerazione dei decreti patteggiato con il via libera della Lega
al presidenzialismo: la trattativa è aperta.
Gianfranco Fini
L'altro alleato di Berlusconi, Gianfranco Fini, ha
accolto le esternazioni del premier con un gelido silenzio (a
differenza del presidente del Senato Renato Schifani, come sempre
fedele a palazzo Chigi). Per anni il presidenzialismo è stato il suo
modello. Ma ora, da presidente della Camera, l'ex leader di An non
perde occasione per professare la sua fede nel Parlamento e nel
dialogo tra gli schieramenti: vedi la sua ultima uscita contro il
"cesarismo" che ha fatto imbestialire Berlusconi.
A spaccare il centrodestra non c'è solo l'elezione diretta del capo
dello Stato. Le intercettazioni sono un'ossessione per il Cavaliere
che ne parla in tutte le occasioni: visite all'estero, conferenze
stampa, cene private. Il disegno di legge uscito dal Consiglio dei
ministri non va bene, troppo debole, ripete Berlusconi, "bisogna
restringere le intercettazioni anche sulle indagini sui reati contro
la pubblica amministrazione", ovvero escludere dal divieto solo i
reati di mafia e terrorismo. L'opposto di quello che predica la
presidente della commissione Giustizia Giulia Bongiorno, ex avvocato
di Giulio Andreotti e deputato di An, che è anche legale di
Gianfranco Fini, considerata tra i più vicini al presidente della
Camera: "Le intercettazioni vanno regolate, limitate, ma non si può
impedire ai magistrati di utilizzarle". Anche per reati come la
corruzione, quelli che i falchi berlusconiani vorrebbero proibire.
Infine, nel calendario del 2009, ci sono i
referendum elettorali di Mario Segni e Giovanni Guzzetta (un anno fa
furono tra i motivi dell'uscita di Mastella dal governo Prodi, oggi
non se li ricorda più nessuno) e la mini-riforma della legge
elettorale per il Parlamento europeo. Per ora è finita nel cassetto
l'idea iniziale di Berlusconi: soglia di sbarramento al 5 per cento
e abolizione delle preferenze. La prima modifica serviva a eliminare
l'Udc di Casini, la seconda a far rispettare a tavolino gli
equilibri interni al Pdl: il 70 per cento degli eletti a Forza
Italia, il 30 ad An. Con le preferenze il partito di Fini, molto più
organizzato sul territorio, potrebbe strappare numerosi eletti in
più e far entrare i forzisti in fibrillazione. Per questo, alla
fine, non se ne farà niente. E poi, ragionano gli strateghi del
premier, se alle elezioni europee dovesse tornare la frammentazione
politica, con la rinascita di partiti e partitini, non sarebbe un
male. Sarebbe un ottimo spot per la riforma presidenziale. Quella
che dovrà trasformare la Repubblica italiana in una monarchia
berlusconiana.
Turchia Usa e governo del kurdistan iracheno hanno un piano per
eliminare il Pkk
[31/12/2008] In coincidenza con l'offensiva di
Israele nella Striscia di Gaza, anche la Tuchia ha intensificato gli
attacchi contro la guerriglia del Pkk sui monti Qandil, nel nord
dell'Iraq. "L'aviazione turca ha pesantemente bombardato i distretti
curdi di Khwakurk e Khnera" ha comunicato Ahmed Denis, un portavoce del
Pkk, precisando di non disporre di dati certi su eventuali vittime. Non
è raro che i bombradamenti turchi sulle montagne irachene coinvolgano
anche la popolazione civile. Mercoledì 31, le bombe turche hanno colpito
un cimitero dei guerriglieri del Pkk, distruggendolo. Questa nuova
campagna di bombardamenti, iniziata sabato 27 dicembre e ancora in
corso, segue i recenti incontri tra le autorità del Kurdistan iracheno e
quelle di Ankara, che si sono accordate per collaborare maggiormente
nella lotta alla guerriglia curda.
La settimana prima di Natale, la zona di Choman, sui monti Qandil, nel
nord dell'Iraq, è stata a più riprese bombardata dall'aviazione turca.
Ancora una volta il raid, nella provincia settentrionale del Kurdistan
iracheno, vicino ai confini di Turchia e Iran, puntava a colpire la
guerriglia del Pkk che su quelle alture trova rifugio. Negli ultimi
mesi, però, l'offensiva turca può contare sempre di più sull'appoggio
degli Usa e anche delle autorità regionali del Kurdistan iracheno, una
collaborazione contro uno stesso nemico, motivata da un interesse
comune: gli affari.
Lo
scorso 15 dicembre la collaborazione anti-Pkk, tra Usa, Turchia,
Kurdistan iracheno e governo centrale dell'Iraq è diventata ufficiale.
Rappresentanti dei tre paesi coinvolti ne hanno discusso a novembre a
Baghdad, e alla fine hanno concordato un piano in tre punti per
risolvere definitivamente il problema della guerriglia curda nel nord
dell'Iraq. Secondo la bozza trapelata alla stampa, la prima parte del
piano prevede che il Pkk sia dichiarato fuorilegge dal Krg, il governo
federale del Kurdistan Iracheno. In seguito, si consentirà ai
guerriglieri di consegnare le armi e, come terzo passo, si inizieranno
operazioni militari congiunte per eliminare i combattenti rimasti in
attività nella zona di Qandil. Quest'ultima fase dovrebbe essere
compiuta dalle forze armate turche e irachene, ma anche curde, uno
scenario potenzialmente esplosivo per i politici che governano la
regione del nord iracheno. Costoro sono gli stessi leader curdi del Puk
e del Pdk (le principali fazioni curde ) che in passato combatterono
contro Saddam proprio su quelle montagne, ma oggi si trovano a dover
decidere se rinunciare al legame di fratellanza che li lega ai
guerriglieri del Pkk, oppure, se riunciare a una montagna di affari.
"Non
cadete nel tranello turco" ha dichiarato dopo la divulgazione del piano
un portavoce del Pkk, Kamal Kheyri, rivlgendosi ai leader curdi
iracheni. "Siccome nel corso dell'ultimo anno la campagna militare nel
nord del'Iraq è fallita, ora hanno pensato di tentare la carta del
divide et impera: sperando di far combattere i curdi tra loro".
Nonostante i loro sforzi, tuttavia, il portavoce del Pkk è convinto che
non sia possibile mettere i curdi gli uni contro gli altri. E della
stessa opinione sono anche diversi leader curdi iracheni, come Mola
Bakhtyar, alto esponente del Puk, secondo cui gli affari con i paesi
confinanti sono una componente indispensabile al benessere della
regione, ma l'ipotesi di prendere le armi contro i cugini del Pkk è
fuori discussione. La guerriglia, inoltre, gode ancora di grande
sostegno tra la popolazione, che ben difficilmente capirebbe un simile
gesto.
Negli
ultimi mesi diversi diplmatici turchi hanno si sono recati in visita in
Iraq e viceversa: questa settimana il vice presidente iracheno Al
Hashimi era ad Ankara, per preparare il terreno alla prossima visita del
premier Al Maliki. La politica turca verso il governo curdo, però,
sembra essere a una svolta: in passato Ankara aveva evitato di
interfacciarsi con la regione autonoma, per non riconoscerne in alcun
modo l'autonomia, ma ora questo tabù sembra caduto. La collaborazione
tra Ankara e Erbil, la capiale del Kurdistan iracheno, promette
ricchezza e sviluppo per entrambe le parti. Resta giusto da vedere se i
curdi andranno fino in fondo nel piano di lotta al Pkk.
Oggi lo sviluppo del commercio tra Turchia e Kurdistan iracheno si vede
nelle chilometriche code di tir che transitano per il confine tra i due
paesi. I supermercati curdi sono colmi di merci turche, in genere più
apprezzate di quelle iraniane e siriane. Almeno 500 compagnie turche
sono registrate nel Kurdistan e sono almeno 15mila i lavoratori turchi
impegnati nella regione curda dell'Iraq. Da alcuni mesi il Kurdistan
riceve il 10 percento dell'elettricità dalle centrali di Ankara e nelle
università di Erbil e Suleimaniya sono iniziati corsi di turco, che pare
riscuotano un certo successo. Le transazioni economiche tra Turchia e
Kurdistan ammontano oggi a tre miliardi di dollari l'anno, ma gli
economisti sostengono che nei prossimi anni tale cifrà crescerà del 250
percento.