gennaio 2009

29 gennaio

Al processo contro il signore della guerra congolese Thomas Lubanga
una piccola vittima testimonia davanti al Tribunale penale internazionale

"Così ci arruolavano all'uscita da scuola"
all'Aja il racconto di un ex bambino soldato

Trovati nel nord-est del Paese cento cadaveri di civili uccisi nella rappresaglia dei ribelli dell'Lra
di DANIELE MASTROGIACOMO


 
"Così ci arruolavano all'uscita da scuola" all'Aja il racconto di un ex bambino soldato
Sono trascorsi dieci anni, ma ricorda tutto come fosse stato ieri. Nel 1999 era uno studente. Quinta elementare, pochi libri sotto il braccio, il sorriso stampato sulla bocca, lo sguardo spensierato, la voglia di divertirsi. Nonostante la guerra, gli scontri per il controllo dello Iuri, piccola regione nel nord est del Congo. Adesso è qui, davanti alla Corte penale internazionale, il Tribunale per i crimini dell'Aja.

Lo hanno contattato, protetto, convinto a testimoniare nel primo, grande processo per uno dei crimini più orrendi e diffusi in molti paesi centroafricani: il reclutamento dei soldati bambino. "Alcuni studenti", rievoca in swaili, l'unica lingua che sa parlare, "erano direttamente arruolati per strada. Io sono stato uno di questi. Ci hanno portato nei campi militari mentre tornavamo a casa, all'uscita di scuola".

Protetto da una tendina, la voce alterata dal computer, l'ex soldato bambino evita di guardare il grande imputato del processo che lo scruta serio, a pochi metri di distanza: Thomas Lubanga, oggi 48 anni, dal 1999 al 2003 leader dell'Union des patriotes congolaise, colpito da mandato di cattura internazionale per crimini di guerra e arruolamento di minori durante il conflitto per il controllo dello Iuri, arrestato nel febbraio del 2005 poco dopo l'uccisione di nove caschi blu della Monuc, la missione Onu in Congo.

Rinchiuso in un carcere di Kinshasa, Lubanga aveva atteso la sua estradizione a l'Aja. Le autorità della Rdc avevano evitato di incriminarlo per consentire ai magistrati della Cpi di concludere le loro indagini. Lo scorso 10 febbraio, dopo mesi di investigazioni, raccolta di prove e di testimonianze, scritte e filmate, l'ex leader dell'Upc era stato trasferito in Olanda dove lunedì scorso è stato aperto il dibattimento.

Ci vorranno mesi prima di arrivare ad una sentenza. Ma quella di stamani è stata un'udienza che a ragione, senza voler essere retorici, la Corte di giustizia internazionale ha definito storica. La piaga dei bambini soldato è una realtà sempre denunciata in Africa ma mai approdata ad un giudizio di tipo penale. Per la difficoltà a trovare i testimoni, a raccogliere prove concrete, visive. A definire una pratica odiosa in un contesto processuale, con le sue regole, i suoi tempi, le sue garanzie.

Nella sua relazione introduttiva il procuratore argentino Luis Moreno-Ocampo ha accusato l'imputato di aver reclutato e addestrato centinaia di giovani tra i 9 e i 13 anni per uccidere, saccheggiare e violentare migliaia di nemici o di semplici abitanti delle zone contese. "I bambini", ha sostenuto il procuratore, "continuano a soffrire delle conseguenze dei crimini che sono stati costretti a commettere. Non possono dimenticare ciò che hanno visto. Molti tra loro riescono a sopravvivere ai terribili ricordi solo ricorrendo a droghe, altri vivono prostituendosi".

Thomas Lubanga, attraverso il suo difensore, l'avvocato Catherine Mabille, ha respinto le accuse. Ha negato di aver arruolato bambini. Ha ricordato le particolari condizioni in cui si svolgeva il conflitto, ha ammesso i suoi orrori ma li ha attribuiti a tutte le parti sul campo.

Mentre il giovane "kadogo", il soldato-bambino, tornava a quegli anni, Lubanga ha seguito in silenzio, stretto nel suo completo scuro, una cravatta rossa che spiccava sulla camicia chiara, la breve testimonianza. Ha preso molti appunti, ma non ha mai interrotto il racconto. "Ci dicevano", ha spiegato ancora il testimone, oggi ventenne, "che il paese stava vivendo forti tensioni e che i giovani dovevano mobilitarsi per salvare la nazione. Io ho avuto la forza di dire che eravamo ancora troppo giovani, che tra noi c'erano dei bambini di nove anni".
 
"Così ci arruolavano all'uscita da scuola" all'Aja il racconto di un ex bambino soldato

Thomas Lubanga all'Aja


Il ragazzo ha avuto difficoltà a rispondere a tutte le domande del procuratore aggiunto Fatou Bensouda che insisteva nel conoscere l'identità dei suoi amici, anche questi reclutati. "Tante domande mi mettono in difficoltà. Sono passati molti anni e non ricordo con precisione nomi e date. Non vorrei sbagliare", ha spiegato il testimone, "ho giurato di dire la verità. Una semplice contraddizione potrebbe inficiare tutto il mio racconto". Il giudice ha sospeso l'udienza. La pressione era troppo forte. Ma l'omertà che ha sempre circondato l'arruolamento dei bambini soldato, quasi seimila nel solo Iuri, è stata finalmente infranta. Si riprenderà venerdì prossimo.

Non c'è pace nella martoriata regione. Oggi nel nordest della Repubblica democratica del Congo sono stati trovati almeno 100 cadaveri di civili uccisi dai ribelli ugandesi della Lord's Resistance Army (Lra), come ritorsione alla campagna militare congiunta lanciata dai governi di Congo, Uganda e Sudan per catturare il signore della guerra Joseph Kony. L'Onu afferma che la popolazione civile è stata sottoposta a terribilli violenze nel sud-est di Dungu, dove il 16 gennaio scorso i ribelli hanno sferrato un duro attacco ai villaggi.
 

Tra arresti e pentiti, l'incredibile resistenza del mastelliano Ferraro

Brancacciointerna Resistere, resistere, resistere. Un motto che Nicola Ferraro da Casal di Principe, consigliere regionale campano, ha trasformato in azione politica. Imprenditore attivo nel settore dei rifiuti e nella gestione delle discariche, ha venduto le aziende dopo la mancata concessione del certificato antimafia: una decisione provocata dalle sue parentele con elementi di spicco del clan dei casalesi. In passato tesserato con Forza Italia, nel 2005 ha trasportato il suo peso elettorale nell'Udeur di Clemente Mastella, diventando segretario provinciale per Caserta e sfiorando l'elezione in Parlamento. Nel Consiglio Regionale presieduto da Sandra Lonardo Mastella ottiene però un incarico di prestigio: la presidenza della prima commissione che gestisce tra l'altro il personale e i rapporti con i comuni. Un anno fa, nella retata che azzera l'Udeur nazionale, finisce agli arresti domiciliari con l'accusa di concussione. I giudici li revocano solo per imporgli l'obbligo di dimora a Casal di Principe, negandogli la possibilità di raggiungere il consiglio regionale e paralizzando così l'attività della commissione da lui presieduta. E Ferraro cosa fa? Si dimette? No, a giugno chiede formalmente che la commissione vada a riunirsi a casa sua. Poi a settembre "L'espresso" rivela che diversi pentiti di camorra hanno fatto il suo nome, indicandolo come un uomo legato al vertice dei Casalesi e attivo nello smaltimento illegale dei rifiuti. Ferraro respinge le accuse. Ma di dimissioni non si parla nemmeno in questo caso. La sua posizione appare comunque imbarazzante per il Pd che continua a proclamare la svolta in Campania. Anche perché Ferraro e l'Udeur lì sono ancora determinanti nel garantire la maggioranza del governatore Antonio Bassolino. Visto che il presidente non molla, la scorsa settimana decidono di dimettersi in massa gli esponenti di centrosinistra della sua commissione. Una mossa voluta dal capogruppo Pd Pietro Ciarlo: cadendo la commissione, deve decadere anche il presidente Ferraro. Finora però la signora Mastella non ha ancora posto la questione all'ordine dei lavori. Intanto l'imprenditore di Casal di Principe ha ottenuto la revoca dell'obbligo di dimora: dal primo febbraio potrà tornare a Napoli e dopo un anno riprendere la sua attività politica. Come se nulla fosse. A proposito: in questo anno di assenza, lo stipendio (11 mila euro tra busta paga e rimborsi) è stato bloccato?

 

Regione Veneto, i supermanager beffano Brunetta

Galan0 Hanno fatto infuriare persino Brunetta. Proprio nel suo Veneto, proprio nella Regione amministrata dal suo centrodestra, hanno cercato di mettere i boiardi al riparo dalle leggi anti-fannulloni. Nel silenzio delle vacanze natalizie, una circolare ha esentato i top manager della Regione dalle nuove trattenute malattia. Da giugno infatti ai dipendenti pubblici che restano a letto nel periodo iniziale viene decurtato lo stipendio di ogni voce accessoria. Ma il Veneto ha aspettato fine anno prima di varare la norma, con il risultato di dovere chiedere un semestre di tagli arretrati a chi era già caduto vittima dei malanni. Poi dall'inizio del 2008 sono diventati operative le sottrazioni: per ogni giorno di malattia, un usciere del livello più basso perderà otto euro, un funzionario da dieci a 20, un dirigente da 64 fino a 77. Un salasso che dovrebbe dissuadere dalle assenze ingiustificate. Il problema è che i top manager, quei 70 amministratori che siedono nella stanza dei bottoni della Regione guidata da Giancarlo Galan, si sono auto-esentati: per loro non sono previste sanzioni nè deterrenti. Il loro contratto garantisce stipendi da 100 mila euro l'anno  in su e non segue le regole della pubblica amministrazione. Una scelta che ha fatto infuriare i sindacati. E che ha spinto Renato Brunetta a scrivere a Galan: «La legge vale per tutti». Ora la Regione cercherà di trovare una soluzione. Sperando che i supermanager non si ammalino prima.

 

Palermo, mogli e parenti sfrecciano col pass

Qual è il problema più grave che affligge la Sicilia? La piaga che la diffama nel mondo? Il traffico, certamente. Era la battuta chiave del film di Roberto Benigni "Johnny Stecchino". Ed è forse per questo che in tanti a Palermo si sono lanciati su uno dei privilegi più ambiti nell'Italietta delle scorciatoie: il permesso per le corsie preferenziali. Come la più celebre spedizione garibaldina, oggi sono a mille a fare breccia nei divieti alla circolazione e infilarsi in strade libere sfrecciando accanto a code consolidate. La cronaca cittadina di Repubblica ha reso noto l'elenco dei 1060 infiltrati. C'è ad esempio Vittorio Sgarbi, che fa il sindaco di Salermi (Trapani) ma ottenne il pass quando  era commissario per il sito archeologico di Piazza Armerina (Enna): in entrambi i casi, incarichi che non dovrebbero richiedere l'alta velocità nell'attraversare Palermo. Ma fa molto discutere anche il permesso concesso alla moglie di Angelo Alfano, ministro per la giustizia. Per carità, di sicuro oggi la signora Alfano ha sacrosanto diritto a scorta e corsie lampo. Il fatto è che il permesso venne concesso prima della nomina a Guardasigilli, quando il marito era il coordinatore regionale di Forza Italia: la signora Alfano lo chiese e ottenne come "titolare di uno studio legale", praticamente la sola con questa motivazione. Molti invece sono i parenti che circolano rapidamente grazie ad illustri rappresentati in Comune che hanno ottenuto pacchetti di autorizzazioni. C'è Massimo Collesano, funzionario municipale ed ex responsabile dei Grandi eventi cittadini, ne ha ottenuti otto: uno è andato alla compagna, uno a un 73 enne con utilitaria Ford e uno a una signora di 83 anni che lo usa per una potente Bmw. Otto permessi anche al dirigente del settore Verde, uno per la Fiat della sua consorte: ma si vede che i giardini impongono la fretta. Un esponente dell'Udc ne ha ottenuti tre, pur non avendo incarichi nell'amministrazione cittadina: ma la politica non può perdere tempo nel traffico normale. Altri invece hanno presentato motivazioni singolari. Lucio Tasca, patron della casa vinicola, ha ottenuto il lasciapassare come avvocato cassazionista. Per non parlare di una lista di raccomandati, beneficiati come esponenti di onlus, prive di telefono e di sito web, ma pronte a correre senza intoppi. Adesso il sindaco di centrodestra Diego Cammarata dovrà rinnovare i permessi che la sua giunta ha regalato: chissà se usera maggior rigore. O se la logica del piccolo privilegio verrà premiata ancora una volta.

 

28 gennaio

Croce Rossa: "Centinaia di morti"
Basandosi sulle testimonianze dirette del personale della Croce Rossa Internazionale presente nella zone dei combattimenti, l'Icrc denuncia da Ginevra "le centinaia di morti e la marea di feriti" provocate dall'offensiva militare in corso contro le ultime roccaforti delle Tigri tamil nel nord-est dello Sri Lanka.

Croce Rossa: "Proteggere i civili". "Quando la polvere si poserà, troveremo innumerevoli vittime e una situazione umanitaria terribile se i civili non verranno protetti e la legge umanitaria non verrà rispettata". ha dichiarato Jacques de Maio, responsabile delle operazioni della Croce Rossa Internazionale nell'Asia meridionale. "E' il momento di fare qualcosa e fermare ulteriori bagni di sangue, perché il tempo stringe. L'Icrc rivolge un appello urgente a entrambe le parti affinché venga concesso e facilitata l'evacuazione dei civili dalla zona dei combattimenti.

"Colpiti ospedali e ambulanze". "La gente è stata presa tra i due fuochi - continua de Maio - ospedali e ambulanze sono stati colpiti dalle bombe e diversi operatori umanitari sono rimasti feriti durante l'evacuazione dei feriti. La violenza sta impedendo alla Croce Rossa Internazionale (Icrc) di operare nella regione. La popolazione è terrorizzata e bisognosa di protezione, cure mediche e assistenza di base. Circa 250 mila persone sono intrappolate in un'area di 250 chilometri quadrati, teatro di intensi combattimenti. Questa gente non ha aree sicure dove rifugiarsi ed è impossibilitata a lasciare la zona: centinaia di pazienti necessitano d cure urgenti e di essere quindi trasportate all'ospedale di Vavuniya".

Governo: "300 feriti ostaggio dei ribelli". Il primo tentativo di trasferire i civili feriti più gravi fuori dalla zona dei combattimenti era fallito ieri, quando un convoglio della Croce Rossa e dalle Nazioni Unite con 300 pazienti, partito dall'ospedale di Putukkundiruppu e diretto a Vavuniya è stato fermato sulla linea del fronte. Secondo il quotidiano filo-governativo singalese Daily News sono stati i guerriglieri dell'Ltte a bloccare il convoglio "al sinistro scopo di usare i pazienti come scudi umani".
La portavoce della Croce Rossa Internazionale in Sri Lanka, Sarasi Wijeratne, contattata da PeaceReporter, ha confermato il fallimento della missione ma non ha voluto rilasciare dichiarazioni su chi sia stato a bloccare il convoglio: "Non volgiamo puntare il dito contro l'una o l'altra parte: il convoglio non ha proseguito perché non c'erano le condizioni di sicurezza necessarie".

Onu: "Bombe sulla zona si sicurezza". Anche la sede locale delle Nazioni Unite denuncia una situazione divenuta insostenibile. "Questa è una crisi grave: il nostro personale che si trovava nell'area di sicurezza designata dal governo è stato testimone diretto dei bombardamenti d'artiglieria su quest'area. Le bombe hanno ucciso e ferito decine e decine di persone", ha dichiarato Gordon Weiss, portavoce dell'Onu in Sri Lanka.

Enrico Piovesana

 

Lo sciopero dei contadini è il segnale del disagio sociale che travolge il governo di Atene. Ma anche nell'Ue non tira una bella aria
Nove giorni di sciopero. Dopo il naufragio delle trattative con il governo di Atene, oggi sono proseguiti i blocchi sulle principali arterie stradali greche, che stanno paralizzando il Paese e rendono impossibile anche il transito alle frontiere con Bulgaria, Macedonia e Turchia.

Contadini in strada. Il governo della Bulgaria ha protestato per la chiusura dei valichi, minacciando di ricorrere all'Unione europea, ma i contadini bulgari hanno ventilato di unirsi alla protesta dei greci. Bloccate anche, per alcune ore, la strada che collega l'istmo di Corinto ad Atene e la superstrada che collega la capitale a Salonicco. Le proteste si sono estese anche all'isola di Creta e il traffico aereo sull'aeroporto di Atene ha accusato un rallentamento. I contadini e i lavoratori dell'indotto agricolo greco chiedono sussidi e compensazioni allo Stato per le perdite subite a causa della crisi dei prezzi nell'Ue. I settori più colpiti sono quelli della produzione, e vendita, di olio d'oliva, riso, cotone e cereali. Ieri il premier greco Costas Karamanlis, dopo che la Commissione che rappresenta gli agricoltori aveva rifiutato il pacchetto di incentivi di 500mila euro offerto dall'esecutivo ellenico, ha ammonito i manifestanti rispetto all'obbligo di rimuovere i blocchi e i pacchetti che impediscono il traffico.Il ministro dell'Agricoltura Sotiris Hatzigakis ha detto che ''la palla passa ad altri ministri'', lasciando intendere che sarà il ripristino dell'ordine pubblico a prendere il sopravvento sulle trattative.

Ordine e ribellione. Una mossa che, alla fine del 2008, dopo l'omicidio dello studente Alexis Grigoropulos da parte di un poliziotto, aveva scatenato una vera e propria guerriglia in tutto il Paese. Centinaia i feriti negli scontri tra dimostranti e forze dell'ordine, migliaia gli arresti. La tensione per gli incidenti di dicembre scorso non è ancora sopita. Pochi giorni fa, nello stesso quartiere dov'è avvenuto l'omicidio di Alexis, due poliziotti sono stati feriti in un agguato. Rivendicati da Lotta Rivoluzionaria, gruppo ritenuto terrorista dall'Ue. Il 24 gennaio scorso, scontri ad Atene e Patrasso tra studenti e polizia. I dimostranti chiedevano il rilascio dei manifestanti arrestati a dicembre. Il governo appare sempre più in difficoltà. Dopo tutto quello che è accaduto a dicembre, adesso si trova ad affrontare lo scontento dei contadini. Molti osservatori, a dicembre, si erano detti convinti che l'omicidio di Alexis Grigoropulos era stato l'episodio che aveva dato il via a uno scontento sociale sempre più forte in Grecia. Il premier Karamanlis aveva risposto con un rimpasto di governo e la promessa di riforme. La rabbia popolare, però, non si placa. Anche l'opposizione, dai comunisti ai socialisti del partito Pasok, pur condividendo gran parte delle rivendicazioni sociali, chiede manifestazioni pacifiche. Ma non sembra avere sotto controllo la situazione.

Alta tensione. Solo in Grecia? Lo sciopero dei contadini chiude un periodo difficile per la Grecia. Prima degli agricoltori era stato, come detto, il turno degli studenti. Sempre lo scorso anno, dopo l'estate, erano stati i detenuti a iniziare un lungo e duro sciopero della fame. Denunciavano condizioni inumane di detenzione e la violazione dei loro diritti. Uno degli scioperanti è morto durante la protesta, in circostanze ancora poco chiare. A metà del 2008 erano stati gli autotrasportatori a paralizzare il Paese, sostenuti dai marittimi e dai ferrovieri. Chiedevano sgravi fiscali rispetto all'aumento del costo della benzina, come avevano fatto i pescatori pochi mesi prima. Un malessere sociale che ha caratteristiche specifiche e storie differenti, ma che rende l'immagine di un Paese in difficoltà. ''La gente è esasperata. Se non fosse stata la morte di un adolescente, la miccia sarebbe stata un'altra. Ma la bomba sociale sarebbe comunque scoppiata'', aveva detto il grande scrittore greco Nikos Themelis, in un'intervista all'Osservatorio sui Balcani. Forse un anticipo di una situazione che, presto, potrebbero toccare altri paesi dell'Unione, che al momento godono di maggiori strumenti per far fronte alla crisi economica e civile che attraversa l'Europa.

Christian Elia
 
 
L'Italia ferma a Eboli

Danilo Orlando, 27 anni, morto schiacciato da una frana sull'autostrada Salerno-Reggio Calabria, rientra nella casistica degli incidenti stradali prima causa di morte in Italia degli uomini sotto i 40 anni, o no? E l'altra vittima, Nicola Pariano, a 59 anni è l'eccezione che conferma la regola, o no? Bisogna andarci sulla A3, per capire cosa significa rischiare di morire in automobile. L'Italia si è spezzata in due domenica, o forse si è fermata a Eboli. Un'autostrada che è la metafora di questo paese: insicura a ogni velocità, da operetta e non da grandi opere, quasi berlusconiana nella sua eternità.
Il chilometro 283 della A3, ultima cicatrice del paese (in ordine di tempo), «non è ammodernato» e «non ancora oggetto di lavori», come recita a difesa sul suo sito l'Anas, la società controllata dal ministero dell'economia che gestisce 1.000 chilometri di autostrade, 15.000 di statali e ha «l'alta sorveglianza» sul resto della rete autostradale data in concessione. I lavori di ammodernamento per i circa 450 chilometri della Salerno-Reggio Calabria sono cominciati nel 1999, 25 anni dopo il completamento della A3, e non finiscono mai. C'è una data annunciata per la chiusura dei cantieri, il 2011, ma è come credere agli elefanti rosa.
Bisogna andarci in automobile, tra Salerno e Reggio Calabria, e sfilare per decine di chilometri a corsia unica e incrociare le dita, per sperare di uscirne vivi. D'inverno ogni tanto scatta l'obbligo di catene a bordo, c'è la Sila che svetta, ma dove diavolo ci si ferma a montarle, se fosse necessario, con una sola corsia? D'estate, escludete di avere un malore, un colpo di caldo, perché sennò un frontale è assicurato.
Per questo governo, la sicurezza è roba da soldati. Il criterio è quantomeno più ampio: in Italia, la strada e i suoi mezzi uccidono ogni anno 8.000 persone, 170.000 vengono ricoverate, 600.000 ricorrono al pronto soccorso. Un costo sociale di 35 miliardi di euro all'anno, sostiene l'Aci, piò o meno il 2,5% del Pil 2008. Sicurezza fa rima con un mucchio di cose, dissesto idrogeologico incluso. Il criterio è stato disatteso da tanti governi, ma che Berlusconi lo affronti puntando innanzitutto sulle grandi opere è cosa da denuncia per dolo, da azione legale collettiva, da class action (se non l'avesse cancellata).
Il Cipe ha appena stanziato 7,3 miliardi di euro per «infrastrutture al sud», di cui 1,3 è stato subito dirottato nella casse della società per il Ponte sullo stretto, azzerata da Prodi e rimessa ora in piedi con questi soldi, più 300 milioni precedentemente decisi. Un Ponte per qualcosa che non serve, già lungo quarant'anni di chiacchiere e di sprechi di soldi pubblici. Ma per questo governo, da erigere ai danni di qualcos'altro, dalla insicurezza della Salerno-Reggio Calabria in giù. E' che Berlusconi guida da ritiro patente: «Si potrà andare in Italia dalla Sicilia anche di notte, e se uno ha un grande amore dall'altra parte dello stretto, potrà andarci anche alle 4 del mattino senza traghetto».
 
L'Alcatraz di Lampedusa

Da base della Nato a Centro di detenzione per immigrati. Viaggio nella Loran, dove in un edificio fatiscente e semi-abbandonato sono già state trasferite alcune donne. Mentre gli abitanti dell'isola si preparano allo sciopero generale
Nove chilometri dal centro cittadino, in fondo a una strada che oltrepassa la paradisiaca isola dei conigli e corre verso ovest. Eccola la base Loran, il pomo della discordia, l'angolo di Lampedusa dove il ministro degli interni Roberto Maroni vuole costruire a tutti i costi il nuovo centro per rimpatriare gli immigrati irregolari direttamente dal punto di arrivo. Strana storia quella di questa base in fondo al mondo, posta nel luogo più remoto della più lontana isola italiana.
Già nel 1986 assurse agli onori delle cronache quando il leader libico Muammar Gheddafi spedì un paio di missili sull'isola per vendicare il bombardamento di Tripoli ordinato da Ronald Reagan. I razzi caddero in acqua, ma l'opinione pubblica nostrana scoprì che a Lampedusa c'era una base Nato. Una base Loran per l'appunto, acronimo di Long Range Radioaid to Navigation, un sistema di triangolazione usato per orientarsi in mare. Abbandonata dall'Alleanza atlantica, la struttura è stata affidata ai corpi giunti sull'isola Pelagia per gestire la nuova emergenza: l'immigrazione clandestina. La guardiacostiera ci ha spostato alcuni materiali e vi ha fatto alloggiare un gruppo di suoi uomini finché, la settimana scorsa, gli ospiti sono stati spostati in fretta e furia in un albergo per consentire la creazione del nuovo centro di identificazione ed espulsione (Cie).
Un centro già aperto, secondo quanto dichiarato con espressione solenne e soddisfatta da Maroni in uscita dal consiglio dei ministri di venerdì, ma in cui sono state fatte alloggiare solo donne tunisine e nigeriane, la maggior parte delle quali sono poi state trasferite ieri sul continente. Un edificio a due piani in condizioni disastrate, l'intonaco che cade dai muri, il controsoffitto tutto da rifare, una quindicina di piccole stanze semi-abbandonate in cui sono ancora appesi poster un po' osé attaccati da qualcuno dei suoi passati occupanti. Le donne sono state spostate qui giovedì notte. «Per decongestionare il centro di prima accoglienza in cui erano ospitate», assicura il prefetto Mario Morcone. «Per nascondere alla delegazione del Partito democratico la promiscuità raggiunta nel Cpa», ribattono le malelingue. Fatto sta che quella notte, con il favore delle tenebre, le donne africane sono state spostate in questa struttura fatiscente e messe a dormire come meglio capitava. Sono rimaste al piano terra, in una grande camerata, e spostate nelle stanze solo la mattina dopo, tanto che la delegazione del Pd è piombata nel centro proprio mentre si stavano organizzando le camere.
Al piano terra un piccolo bar è stato trasformato in un'infermeria d'emergenza. Nel grande salone antistante giacciono vecchie librerie in disuso, sacchi a pelo militari e cumuli di materassi. Sono stati proprio quei materassi a far capire alla popolazione lampedusana che il sito scelto per il nuovo centro era quello dell'ex caserma della Nato. «Un giorno abbiamo visto arrivare aerei che scaricavano materassi e brandine e camion che li trasportavano verso ponente», racconta Giusi Nicolini, responsabile della sezione locale di Legambiente. «E abbiamo capito cosa stavano architettando». Così la popolazione si è mobilitata, alcuni esponenti del comitato Sos Pelagie hanno fatto i blocchi e impedito il trasferimento dei migranti, che sono stati spostati di notte.
«Noi siamo contro la creazione di un carcere a cielo aperto sulla nostra isola. Lampedusa non può diventare una nuova Asinara», continua a ripetere il sindaco Bernardino De Rubeis alla folla sempre più agitata. La popolazione lampedusana è totalmente contraria al nuovo centro e ha rinnegato e fischiato l'ex vice-sindaco e senatrice leghista Angela Maraventano, che ha difeso domenica in piazza il piano di Maroni. La creazione di un Cei a Lampedusa vorrebbe dire che i migranti arrivati sarebbero trattenuti anche mesi qui, in attesa della loro identificazione e dell'espulsione. «Una eventualità impossibile per Lampedusa», ragiona Nicolini. «Qui non ci sono i servizi sanitari essenziali per i locali, figuriamoci per tutti gli immigrati che arrivano». Il sindaco e tutta la popolazione non sono disposti ad accettare un nuovo centro e dicono di non poter concedere allo stato più di quel Centro di prima accoglienza (Cpa) della contrada Imbriacola in cui gli immigrati che arrivano via mare sono trattenuti teoricamente due giorni prima di essere spostati in altre strutture sul territorio nazionale. Il ministro Maroni e la "pasionaria" Maraventano, sono invece per l'apertura del Cie alla Loran «per mandare un segnale forte ai clandestini e ai trafficanti».
A vederlo da dentro, questo «segnale forte» sembra assai flebile. Il posto è piccolo e poco attrezzato. Nelle stanze, potrebbero entrare massimo una cinquantina di immigrati. Per creare un Cei degno di questa sigla, ci vorrebbero ampi lavori di ristrutturazione. Ma dopo lo scoppio della rivolta nessuna ditta ha accettato di accettare la commessa, tanto che il Viminale si è dovuto rivolgere al genio militare. Si parla di installare container sopra la piscina vuota, coperta opportunamente con una colata di cemento. Ma anche così, il massimo di permanenze non potrebbe superare il centinaio. Senza contare il fatto più importante: la maggior parte degli immigrati che arrivano a Lampedusa non si può espellere, o perché ha diritto a ottenere l'asilo politico o perché proviene da paesi con i quali non sono stati firmati accordi bilaterali. Ma quali rimpatri? Che minchia disse u' ministro?», tuona uno dei manifestanti in piazza. «Le carcere fatele al nord. Anche lì spazio ce n'è», indica uno dei cartelloni che campeggia sotto il municipio, dove la bandiera italiana è stata opportunamente ammainata e listata a lutto.
Maroni assicura che il Cie aprirà solo temporaneamente, «fino al termine dell'emergenza», e promette 40-45 milioni di euro all'isola in cambio dell'accettazione del suo piano. Ma per il momento gli abitanti non sono disposti a cedere. «Lampedusa non è in vendita», grida De Rubeis dal palco in piazza. E gli applausi scendono a valanga, mentre sulla strada di ponente i carabinieri bloccano il passaggio per impedire a chiunque di avvicinarsi alla base, che si staglia lontana come una cattedrale nel deserto, con le sue ospiti temporanee del tutto ignare della battaglia che si sta combattendo intorno alla loro residenza temporanea.

 

26 gennaio

 

Cessate il fuoco

Il bollettino settimanale delle guerre e dei conflitti in corso n. 3 - 2009 dal 15/1/2009 al 21/1/2009
Dall'inizio dell'anno, in tutti i Paesi in guerra, sono morte almeno 1.213 persone


Israele e Palestina
Nell'ultima settimana sono morte almeno 608 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 1641

Sri Lanka
Nell'ultima settimana sono morte almeno 159 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 305

Pakistan Talebani
Nell'ultima settimana sono morte almeno 130 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 339

Iraq
Nell'ultima settimana sono morte almeno 73 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 252

Afghanistan
Nell'ultima settimana sono morte almeno 66 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 238

Rep. Dem. Congo
Nell'ultima settimana sono morte almeno 46 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 65

Sudan
Nell'ultima settimana sono morte almeno 33 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 142

India Naxaliti
Nell'ultima settimana sono morte almeno 25 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 67

Somalia
Nell'ultima settimana sono morte almeno 22 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 84

India Nordest
Nell'ultima settimana sono morte almeno 22 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 45

Nigeria
Nell'ultima settimana sono morte almeno 13 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 562

Nord Caucaso
Nell'ultima settimana sono morte almeno 7 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 16

Filippine Milf
Nell'ultima settimana sono morte almeno 4 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 53

Thailandia del sud
Nell'ultima settimana sono morte almeno 2 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 14

Pakistan Balucistan
Nell'ultima settimana è morta almeno 1 persona
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 33

India Kashmir
Nell'ultima settimana è morta almeno 1 persona
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 16

Filippine Npa
Nell'ultima settimana è morta almeno 1 persona
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 3

 

Rotta verso la guerra

Secondo un'inchiesta indipendente, un cargo carico di armi Usa per Israele è in giro per il Mediterraneo. È in corso un'iniziativa di 'contrabbando' di armi che ha sostenuto l'offensiva militare d'Israele. E non è finita con la 'tregua'.

1. Il 6 Dicembre 2008 un contratto dello US Military Sealift Command, l'entità logistica della Marina Usa, viene vinto dalla compagnia marittima tedesca Oskar Wehr che gestisce una trentina di navi, perlopiù portacontainers di media dimensione. Il contratto (N00033-09-R-5505, N00033-09-C-5505, per 635.000 dollari richiede il trasporto di 989 containers dalla base navale di Sunny Point (North Carolina, poco a sud del porto di Southport, sulla costa orientale statunitense) al porto israeliano di Ashdod, 39 km a nord di Gaza City. La destinazione di questo carico è il deposito statunitense «War Reserve Stockpile for Allies (WRSA-I)» in Israele e il caricamento, dice il contratto, deve iniziare il 13 dicembre.
Poco dopo (31 dicembre), lo stesso Sealift Command fa un'offerta per altri due contratti (N00033-09-R-5205; N00033-09-R-5205), per il trasporto di 157 e 168 container rispettivamente, con destinazione ancora Ashdod e origine il porto di Navipe-Astakos - sulla costa ionica greca, poco a Nord dell'isola di Cefalonia. Il caricamento va effettuato a partire dal 15 gennaio.
Ashdod non è nuova come destinazione di armi e munizioni Usa - sia dirette alle forze armate israeliane, sia al deposito statunitense in Israele. Contratti di tale tipo sono stati assegnati dal Military Sealift Command in varie occasioni negli anni recenti (dal 2002 al 2008) con trasporti da Livorno (Camp Darby) e da vari porti greci e statunitensi ad Israele. Esempi recenti sono due contratti del 17 agosto 2007 assegnati all' italiana «Enrico Bonistalli» di Livorno (247.500 dollari per il trasporto di 125 containers di munizioni) e alla statunitense TransAtlantic Lines LLC (449.000 dollari per 125 containers di munizioni) e un contratto del 28 agosto 2007 alla statunitense Sealift Inc. (745.000 dollari per 125 containers di munizioni), quest'ultimo proprio dal porto di Navipe-Astakos ad Ashdod (1.535 km di viaggio).
Alcuni ricercatori che seguono di routine i contratti e i trasporti militari s'accorgono che i contratti del dicembre 2008, oltre ad avere come destinazione Ashdod in questo momento, includono menzione del tipo di carico da trasportare: una vasta gamma sia di esplosivi ad alto potenziale (816 tonnellate nel primo contratto) che di esplosivi inclusi nella categoria H delle merci pericolose, ovvero fosforo bianco (secondo e terzo contratto), oltre ad altro munizionamento e ordigni esplosivi (da testate per missili a munizioni di vario tipo e bombe anti-bunker).
Agli inizi di gennaio i ricercatori rintracciano la nave incaricata del trasporto, la «Wehr Elbe» (IMO 9236688), capace di caricare 2.500 containers. Presente a Sunny Point il 13 dicembre, la nave parte il 20 con prima destinazione Astakos. La scoperta finisce sui tavoli della segreteria internazionale di Amnesty International, che già il 2 gennaio aveva in un comunicato chiesto l'embargo completo di invii di armi ad Israele e ad Hamas. Viene allertata la stampa e l'agenzia Reuters ne dà notizia il 10 di gennaio, provocando i primi sconquassi e smentite. Il Pentagono si affretta a precisare che i carichi non erano diretti alle forze armate israeliane, ma al deposito Usa succitato e il 12 gennaio il governo greco smentisce he navi dirette ad Ashdod siano partite dai porti greci. Compaiono altri articoli sulla stampa internazionale e il 13 gennaio una dichiarazione del Comando statunitense in Europa afferma che gli ultimi due contratti sono stati «cancellati» (teoricamente l'8 gennaio) e che l'operazione è stata «rimandata». Il 14 gennaio, un comunicato di Amnesty dettaglia tuttavia i termini delle operazioni, chiedendo che la nave venga fermata e Stop the War, il movimento greco di solidarietà, protesta contro l'attracco a Astakos. Il 17 il premier greco Costas Karamanlis, pur ammettendo che c'è stata la richiesta degli Stati uniti, afferma che la Grecia non avrebbe tuttavia dato il permesso agli americani di far attraccare la nave ad Astakos e che anche in passato nessun porto greco sarebbe stato interessato a tali invii. Pressioni del ministero degli esteri tedesco sulla Oskar Wehr perchè fermi la nave non sortiscono effetto dato che la Wehr Elbe non è più sotto controllo dell'armatore, ma direttamente del Sealift Command e ha a bordo militari statunitensi armati. Le cose però non stanno proprio così.

2. Le dichiarazioni Usa sottolineano come tali trasferimenti di munizionamento fossero stati programmati molto prima del conflitto a Gaza e non avessero relazioni con le necessità dell'esercito israeliano. Vediamo i fatti. È certamente possibile che i trasferimenti siano stati discussi o decisi qualche mese prima del dicembre (probabilmente anche l'operazione israeliana è stata «discussa» con il Pentagono qualche mese prima di iniziare...), ma resta il fatto che il bando di gara del primo contratto è datato 4 dicembre e i tempi di carico e scarico che esso prevede sono inusualmente stretti, ad indicare un'operazione urgente e non routinaria. A quella prima offerta di contratto se ne aggiungono altre due il 31 dicembre, quattro giorni dopo l'inizio dell'assalto israeliano su Gaza.
Quanto poi al fatto che i containers fossero realmente diretti al deposito Usa in Israele, le dichiarazioni del Pentagono omettono un particolare importante: come è scritto in una comunicazione del Pentagono al residente del Comitato sulle Forze Armate del Senato Usa, John Warner, datata 10 Aprile 2003, «il Dipartimento della Difesa mantiene un deposito - War Reserve Stockpile - in Israele. Tale deposito è un'entità separata che contiene munizioni e materiale posseduti dagli Stati Uniti e destinati all'uso di riserva di guerra da parte degli Stati Uniti e possono essere trasferiti al governo di Israele in una emergenza, previo rimborso». Mentre si ribadisce che nulla è gratis al mondo, la clausola finale è chiara.

3. Sulle dichiarazioni del governo greco che vorrebbero la Grecia alla fine estranea a questi trasferimenti. Anche qui è certo possibile - e vi sono dichiarazioni statunitensi del 13 gennaio al proposito - che le autorità greche, vista la malparata, abbiano all'ultimo momento negato agli Usa l'approdo ad Astakos, ma è del tutto irrealistico che la Grecia non avesse dato il benestare all'operazione.
Tutti e tre gli invii previsti coinvolgono il porto di Navipe-Astakos: due differenti strumenti di tracciamento dei percorsi delle navi danno a Wehr Elbe a Sunny Point il 13 dicembre con partenza il 20 per il porto di Astakos e tracciano la nave vicino a Gibilterra il 28 dicembre, specificando ancora Astakos come destinazione. Non c'è ragione di pensare che la destinazione non fosse quella, dato che le informazioni arrivano a tali strumenti dalle navi stesse e dagli agenti assicurativi. Inoltre, i due ultimi contratti («cancellati») menzionano esplicitamente Astakos come porto di partenza per Ashdod. Nessuno, in trasporti marittimi di tale genere e che nel caso prevedevano l'assistenza di almeno quattro imbarcazioni anti-incendio per le operazioni di carico e scarico, può sensatamente (e anche per legge) mettere come destinazione un porto a cui non abbia comunicato l'arrivo della nave e il tipo di carico e non ne abbia ricevuto approvazione. È del tutto falsa poi l'affermazione del premier greco relativa all'inesistenza di invii di munizioni ad Israele nel passato. Vi sono, come detto, almeno tre altri contratti del Sealift Command, assegnati nel 2007, che nominano o Astakos o genericamente la Grecia come punto di partenza di ingenti invii di munizioni ad Ashdod. E non si tratta di bandi di concorso, ma di contratti vinti e assegnati a trasportatori marittimi per svariate centinaia di migliaia di dollari. Vi è infine da notare che il reale percorso della Wehr Elbe mostra alcuni elementi che contrastano direttamente con quanto affermato dal governo greco, indicando inoltre un possibile coinvolgimento dell'Italia.
A Gaza l'assalto israeliano ha provocato la morte di 1.400 persone (la più parte civili) e il ferimento grave di altre 5.100. Tutto è ora appeso a una fragilissima tregua unilaterale annunciata da Israele e anche da Hamas, rispetto alle quali buon ultima è arrivata l'Unione europea che non ha posto termini al ririto israeliano e che, fin qui, è stata immobile se non complice delle scelte della leadership israeliana. Con l'Onu in macerie, fra l'altro almeno tre volte bersaglio dei raid israeliani. Unico obiettivo dichiarato è quello di «fermare il contrabbadno di armi», naturalmente solo quello illegale per Hamas. Ma se l'offensiva dovesse riprendere e allargarsi, l'enorme e letale carico della Wehr Elbe non resterebbe certo nei depositi statunitensi ma verrebbe probabilmente «trasferito al governo di Israele in una emergenza, previo rimborso». Se Wehr Elbe è davvero attraccata a Taranto vi è la possibilità che essa abbia trasferito il suo carico su una veloce portacontainer che ha lasciato proprio Taranto il 15/1 ed è arrivata ad Ashdot sabato 17. Fermiamo il «contrabbando» di questi carichi di morte prima che sia troppo tardi.

SCHEDA

La Wehr Elbe parte da Sunny Point/Southport il 20 dicembre. La sua velocità massima è di 22 nodi (22 miglia nautiche all'ora) e la velocità di crociera è intorno ai 18 nodi. I segnali satellitari mandati dalla nave la vedono il 28 dicembre al largo di Ceuta, poco oltre lo Stretto di Gibilterra. Da Sunny Point allo Stretto di Gibilterra vi sono circa 3.524 miglia nautiche (6.526 km), che la nave poteva percorrere in circa 8 giorni a 18 nodi di velocità media, a conferma della data succitata. Un'informativa di fonte assicurativa afferma che la Wehr Elbe sarebbe arrivata in primo luogo a Zeebrugge, in Belgio, e si sarebbe poi diretta verso Gibilterra e Astakos. Non c'è conferma indipendente di tale percorso, ma il passaggio da Zeebrugge avrebbe aggiunto più di tre giorni al viaggio e la nave non avrebbe verosimilmente potuto essere vicina a Ceuta il 28 dicembre. I segnali satellitari mostrano poi che la nave, passata Gibilterra, non si dirige verso Ashdod ma direttamente verso Astakos e il 31 dicembre è a circa 150 km dal porto greco. Il primo gennaio è a 4 miglia dal porto e si ferma. Dall'1 all'11 gennaio la nave sembra non sapere che fare e i segnali la danno continuamente in circolo intorno a quell'ultimo punto. Il 12 gennaio tuttavia, alle ore 9, la nave riparte in direzione Sud e passa intorno alla costa meridionale di Cefalonia e alle 12 cambia ancora direzione, puntando dritta verso Nord e il mare Adriatico. Alle alle 15 e 30, ultimo rilievo disponibile (dato che probabilmente ha spento il segnalatore), modifica ancora la rotta in direzione Nord-Ovest. Poi il silenzio. Se davvero il governo greco non avesse mai dato alcun permesso d'attracco ad Astakos, perché il capitano avrebbe portato la nave dritta ad Astakos invece che ad Ashdod? Il noleggio di una tale nave costa in media 18/20 mila dollari al giorno (e probabilmente molto di più per carichi di questo genere), i suoi spostamenti vengono preparati con grande cura e certo non si va alla speraindio. Evidentemente, il Sealift Command aveva per qualche ragione pianificato sin dall'inizio un passaggio da Astakos, probabilmente in congiunzione con le spedizioni previste dai due contratti poi «cancellati» l'8 gennaio. Infine, il fatto che la nave giri in circolo per più di dieci giorni (200 mila dollari aggiuntivi a tariffe normali) potrebbe segnalare che o era in corso una frenetica trattativa tra greci e statunitensi per evitare l'approdo effettivo ad Astakos o si aspettava che arrivassero i container relativi ai contratti «cancellati». L'armatore della Wehr Elbe afferma di non aver concorso per gli altri due contratti. Dovevano dunque arrivare altre navi? O semplicemente il Sealift Command voleva far caricare sulla Wehr Elbe gli ulteriori 325 containers previsti dai due contratti «cancellati»? Dove sono finiti quei 325 container di munizioni che avrebbero dovuto essere caricati ad Astakos? Al porto di Astakos stanno arrivando gruppi dello «Stop the War» greco e forse potrebbero dirci qualcosa in proposito, ma dove sta andando la Wehr Elbe con i suoi 989 containers originali e le 816 tonnellate di esplosivi ad alto potenziale? Senza poter escludere l'approdo in due vicini porti albanesi e montenegrini, la rotta sembrerebbe indicare come possibili destinazioni Brindisi o Taranto. Soprattutto in quest'ultimo la Us Navy e la Nato godono di diritti di approdo esclusivi nell'area portuale e di attrezzature adeguate ad accogliere quella bomba natante. Nessuno, tranne il Sealift Command e certo qualche autorità italiana, sa dove sia attualmente la nave. Forse è già arrivata da qualche parte e aspetta, letteralmente, che si calmino le acque.

 

Noi vittime dei preti pedofili

di Paolo Tessadri

Decine di bambini e ragazzi sordi violentati e molestati in un istituto di Verona fino al 1984. E dopo decenni di tormenti, gli ex allievi trovano la forza di denunciare gli orrori. Ma molti dei sacerdoti sono ancora lì

Per oltre un secolo è stato un simbolo della carità della Chiesa: una scuola specializzata per garantire un futuro migliore ai bambini sordi e muti, sostenendoli negli studi e nell'inserimento al lavoro. L'Istituto Antonio Provolo di Verona ospitava i piccoli delle famiglie povere, figli di un Nord-est contadino dove il boom economico doveva ancora arrivare. Fino alla metà degli anni Ottanta è stato un modello internazionale, ma nel tetro edificio di Chievo, una costruzione a metà strada tra il seminario e il carcere, sarebbero avvenuti episodi terribili.

Solo oggi, rincuorati dalle parole di condanna pronunciate da papa Ratzinger contro i sacerdoti pedofili, decine di ex ospiti hanno trovato la forza per venire allo scoperto e denunciare la loro drammatica esperienza: "Preti e fratelli religiosi hanno abusato sessualmente di noi". Un'accusa sottoscritta da oltre 60 persone, bambini e bambine che hanno vissuto nell'Istituto, e che ora scrivono: "Abbiamo superato la nostra paura e la nostra reticenza".

Gli abusi di cui parlano sarebbero proseguiti per almeno trent'anni, fino al 1984. Sono pronti a elencare una lunga lista di vittime e testimoni, ma non possono più rivolgersi alla magistratura: tutti i reati sono ormai prescritti, cancellati dal tempo. I sordomuti che dichiarano di portarsi dentro questo dramma sostengono però di non essere interessati né alle condanne penali né ai risarcimenti economici. Loro, scrivono, vogliono evitare che altri corrano il rischio di subire le stesse violenze: una decina dei religiosi che accusano oggi sono anziani, ma restano ancora in servizio nell'Istituto, nelle sedi di Verona e di Chievo. Per questo, dopo essersi rivolti al vescovo di Verona e ai vertici del Provolo, 15 ex allievi hanno inviato a 'L'espresso' le testimonianze - scritte e filmate - della loro esperienza.
Documenti sconvolgenti, che potrebbero aprire uno squarcio su uno dei più gravi casi di pedofilia in Italia: gli episodi riguardano 25 religiosi, le vittime potrebbero essere almeno un centinaio.

La denuncia
Gli ex allievi, nonostante le difficoltà nell'udito e nella parola, sono riusciti a costruirsi un percorso di vita, portandosi dentro le tracce dell'orrore. Dopo l'esplosione dello scandalo statunitense che ha costretto la Chiesa a prendere atto del problema pedofilia, e la dura presa di posizione di papa Benedetto XVI anche loro hanno deciso di non nascondere più nulla. Si sono ritrovati nell'Associazione sordi Antonio Provolo e poi si sono rivolti alla curia e ai vertici dell'Istituto. Una delle ultime lettere l'hanno indirizzata a monsignor Giampietro Mazzoni, il vicario giudiziale, ossia il magistrato del Tribunale ecclesiastico della diocesi di Verona. È il 20 novembre 2008: "I sordi hanno deciso di far presente a Sua Eminenza il Vescovo quanto era loro accaduto. Nella stanza adibita a confessionale della chiesa di Santa Maria del Pianto dell'Istituto Provolo, alcuni preti approfittavano per farsi masturbare e palpare a loro volta da bambine e ragazze sorde (la porta era in quei momenti sempre chiusa a chiave).

I rapporti sodomitici avvenivano nel dormitorio, nelle camere dei preti e nei bagni sia all'Istituto Provolo di Verona che al Chievo e, durante il periodo delle colonie, a Villa Cervi di San Zeno di Montagna". E ancora: "Come non bastasse, i bambini e ragazzi sordi venivano sottoposti a vessazioni, botte e bastonature. I sordi possono fare i nomi dei preti e dei fratelli laici coinvolti e dare testimonianza". Seguono le firme: nome e cognome di 67 ex allievi.

Le storie
I protagonisti della denuncia citano un elenco di casi addirittura molto più lungo, che parte dagli anni Cinquanta. Descrivono mezzo secolo di sevizie, perfino sotto l'altare, in confessionale, dentro ai luoghi più sacri.
Quei bambini oggi hanno in media tra i 50 e i 70 anni: il più giovane compirà 41 anni fra pochi giorni. Qualcuno dice di essere stato seviziato fino quasi alla maggiore età. Gli abusi, raccontano, avvenivano anche in gruppo, sotto la doccia. Scene raccapriccianti, impresse nella loro memoria. Ricorda Giuseppe, che come tutti gli altri ha fornito a 'L'espresso' generalità complete: "Tre ragazzini e tre preti si masturbavano a vicenda sotto la doccia". Ma la storia più angosciante è quella di Bruno, oggi sessantenne, che alla fine degli anni Cinquanta spiccava sugli altri bambini per i lineamenti angelici: era il 'bello' della sua classe. E solo ora tira fuori l'incubo che lo ha tormentato per tutta la vita: "Sono diventato sordo a otto anni, a nove frequentavo il Provolo che ho lasciato a 15 anni. Tre mesi dopo la mia entrata in istituto e fino al quindicesimo anno sono stato oggetto di attenzioni sessuali, sono stato sodomizzato e costretto a rapporti di ogni tipo dai seguenti preti e fratelli.". Ha elencato 16 nomi. Nella lista anche un alto prelato, molto famoso a Verona: due sacerdoti del Provolo avrebbero accompagnato Bruno nel palazzo dell'ecclesiastico. "Era il 1959, avevo 11 anni. Mi ha sodomizzato e preteso altri giochi sessuali. È stata un'esperienza terribile che mi ha procurato da adulto gravi problemi psicologici".

Il dramma
Un altro ex allievo, Guido, dichiara di essere stato molestato da un prete: "Avveniva nella sua stanza all'ultimo piano. E mi costringeva a fare queste cose anche a Villa Cervi durante le colonie estive e al campeggio sul lago di Garda". Carlo è rimasto all'istituto dai 7 ai 18 anni, e chiama in causa un altro sacerdote: "Mi costringeva spesso con punizioni (in ginocchio per ore in un angolo) e percosse (violenti schiaffi e bastonature) ad avere rapporti con lui". Altre volte si sarebbe trattato di bacchettate sulle mani, mentre di notte "nello stanzone dove dormivo con altri sordi spesso mi svegliava per portarmi nei bagni dove mi sodomizzava o si faceva masturbare. Non ho mai dimenticato".
Sono racconti simili. Tragedie vissute da bambini di famiglie povere, colpiti dalla sordità e poi finiti tra le mura dell'istituto; drammi tenuti dentro per decenni. Ricostruisce Ermanno: "La violenza è avvenuta nei bagni e nelle stanze dell'Istituto Provolo e anche nella chiesa adiacente". "Se rifiutavo minacciava di darmi un brutto voto in condotta, questi fatti mi tornano sempre in mente", scrive un altro. Giuseppe qualche volta a Verona incontra il suo violentatore, "ancora oggi quando lo vedo provo molto disagio. Non sono mai riuscito a dimenticare". Stando alle denunce, le vittime erano soprattutto ragazzini. Ma ci sono anche episodi testimoniati da bambine. Lina ora ha cinquant'anni, è rimasta "all'istituto per sordomuti dai sei ai 17 anni. A tredici anni nella chiesa, durante la confessione faccia a faccia (senza grata), il sacerdote mi ha toccata il seno più volte. Ricordo bene il suo nome. Io mi sono spaventata moltissimo e da allora non mi sono più confessata". Giovanna scrive che un altro prete "ha tirato fuori il membro e voleva che lo toccassi". E per molte ragazzine i fatti avvenivano nella chiesa dell'istituto, sotto l'altare. A qualcuna, però, è andata molto peggio.

Gli esposti
Oggi l'Istituto Antonio Provolo ha cambiato completamente struttura e missione. Le iniziative per il sostegno ai sordomuti sono state ridimensionate e vengono finanziate anche dalla Regione Veneto. Adesso l'attività principale è il Centro educativo e di formazione professionale, gestito interamente da laici, che offre corsi d'avanguardia per giovani ed è specializzato nella riqualificazione di disoccupati. Al vertice di tutto ci sono sempre i religiosi della Congregazione della Compagnia di Maria per l'educazione dei sordomuti, che dipendono direttamente dalla Santa Sede. Alla Congregazione si sono rivolti gli ex allievi chiedendo l'allontanamento dei sacerdoti chiamati in causa. Secondo la loro associazione, "c'è già stata più di un'ammissione di colpa". La più importante risale al 2006, quando don Danilo Corradi, superiore generale dell'Istituto Provolo, avrebbe incontrato più di 50 ex allievi. Secondo l'Associazione, il superiore a nome dell'Istituto avrebbe chiesto 12 volte scusa per gli abusi commessi dagli altri religiosi. I testimoni ricostruiscono una riunione dai toni drammatici: don Corradi che stringe il capo fra le mani, suda, chiede perdono, s'inginocchia. Ma i sordomuti avrebbero preteso l'allontanamento dei sacerdoti coinvolti, senza ottenerlo. A 'L'espresso' don Danilo Corradi fornisce una versione diversa: "Ho sentito qualcosa, ma io sono arrivato nel 2003 e di quello che è successo prima non so. Non rispondo alle accuse, non so chi le faccia: risponderemo dopo aver letto l'articolo".

La Curia
Da quasi due anni gli ex allievi si sono appellati anche alla Curia di Verona, informandola nel corso di più incontri. Il presidente della Associazione sordi Antonio Provolo, Giorgio Dalla Bernardina, ne elenca tre: a uno hanno preso parte 52 persone. E scrive al vescovo: "Nonostante i nostri incontri in Curia durante i quali abbiamo fatto presente anche e soprattutto gli atti di pedofilia e gli abusi sessuali subiti dai sordomuti durante la permanenza all'istituto, a oggi non ci è stata data alcuna risposta". L'ultima lettera è dell'8 dicembre 2008. Pochi mesi prima, a settembre, avevano fatto l'ennesimo tentativo, inviando una raccomandata al vescovo di Verona, monsignor Giuseppe Zenti. Senza risposta, "nonostante le sue rassicurazioni e promesse di intervento". Questa missiva è stata firmata da tre associazioni di sordi: Associazione Sordi Antonio Provolo, Associazione non udenti Provolo, Associazione sordi Basso Veronese-Legnago.

Il vescovo, interpellato da 'L'espresso', replica con una nota scritta: "Il Provolo è una congregazione religiosa. In quanto tale è di diritto pontificio e perciò sotto la giurisdizione del Dicastero dei religiosi. La diocesi di Verona, sul cui territorio è sorta la Congregazione, apprezza l'opera di carattere sociale da essa svolta in favore dei sordomuti". Poi monsignor Giuseppe Zenti entra nel merito: "Per quanto attiene l'accusa di eventuale pedofilia, rivolta a preti e fratelli laici, che risalirebbe ad alcune decine di anni fa, la diocesi di Verona è del tutto all'oscuro. A me fecero cenno del problema alcuni di una Associazione legata al Provolo, ma come ricatto rispetto a due richieste di carattere economico, nell'eventualità che non fossero esaudite. Tuttavia a me non rivolsero alcuna accusa circostanziata riferita a persone concrete, ma unicamente accuse di carattere generico. Non ho altro da aggiungere se non l'impegno a seguire in tutto e per tutto le indicazioni contenute nel codice di diritto canonico e nelle successive prese di posizione della Santa Sede. Nella speranza che presto sia raggiunto l'obiettivo di conoscere la verità dei fatti".

L'Associazione sordi Antonio Provolo risponde al vescovo negando qualunque ricatto o interesse economico: "Gli abbiamo soltanto fatto presente i problemi, noi vogliamo che quei sacerdoti vengano allontanati perché quello che hanno fatto a noi non accada ad altri".

 

Zimbabwe, fumata nera

Nuovo fallimento, forse definitivo, ai colloqui di pace tra maggioranza e opposizione

scritto da Matteo Fagotto

Ancora una fumata nera. L'ennesima, in un processo di transizione che, dallo scorso settembre, non ha fatto registrare progressi. Ma il fallimento del vertice di lunedì scorso tra il presidente dello Zimbabwe, Robert Mugabe, e il leader dell'opposizione, Morgan Tsvangirai, è più grave di quanto si pensi. Presentato come l'incontro risolutivo, quello che avrebbe dovuto portare alla nascita del nuovo governo di unità nazionale, il colloquio è invece fallito dopo 12 ore di trattativa. E lo stesso Tsvangirai ha parlato apertamente del "giorno più nero delle nostre vite".

Come nelle precedenti occasioni, il fallimento delle trattative ha portato i due partiti (lo Zanu-Pf di Mugabe e il Mdc di Tsvangirai) ad accusarsi a vicenda per la rottura: il presidente ha accusato il leader dell'opposizione di essersi presentato ai colloqui con nuove richieste, invece di accettare il posto di premier offerto dallo Zanu-Pf; dal canto suo, il Mdc ritiene di aver acquisito maggior peso dopo la vittoria alle elezioni politiche dello scorso anno, e pretende per sé alcuni tra i ministeri maggiori, tra i quali gli Interni, l'Informazione e le Finanze. Una distanza di vedute che i mediatori della Southern African Development Community tenteranno di colmare nel loro prossimo vertice, in programma lunedì prossimo. Ma è stato lo stesso Mdc a dirsi scettico sulla riuscita del nuovo vertice, se prima i leader dell'Africa meridionale non adotteranno una linea più ferma nei confronti di Mugabe.

Vincitore del ballottaggio dello scorso giugno a causa del ritiro di Tsvangirai, che aveva denunciato una campagna di terrore nei confronti dei propri sostenitori nei giorni precedenti le consultazioni, Mugabe ha mentenuto il potere, ma a un prezzo molto alto. L'economia del Paese si è liquefatta, con un'inflazione che ha raggiunto quota 231.000.000 percento, polverizzando moneta e risparmi. Lo stato non ha più i fondi per garantire i servizi di base come l'erogazione idrica e la sanità, tanto che un focolaio di colera nato lo scorso agosto si è trasformato in un'epidemia che ha ucciso finora 2.500 persone. Le voci che chiedono le dimissioni di Mugabe, sempre più isolato diplomaticamente, si moltiplicano. Uno sciopero della fame organizzato questa settimana in Sudafrica da 40 tra le personalità più eminenti del Paese, tra le quali l'arcivescovo Desmond Tutu e la moglie di Nelson Mandela, Graca Machel, chiede ai leader della Sadc di cessare la "quiet diplomacy" nei confronti di Mugabe, una politica che secondo gli organizzatori non avrebbe raggiunto i risultati sperati.

Per ora, però, i leader regionali preferiscono continuare con le trattative. Dallo scorso settembre, quando maggioranza e opposizione firmarono un memorandum di intesa per la nascita del nuovo esecutivo, le trattative non hanno portato alcun risultato. La paralisi politica, che dura ormai da quasi un anno, impedisce alle autorità di affrontare i problemi più pressanti del Paese. La crisi economica ha colpito anche l'esercito, tradizionale sostenitore del presidente. A dicembre, alcuni soldati devastarono il centro della capitale Harare a causa del mancato pagamento dei loro stipendi. Una situazione che si sta ripetendo a gennaio, tanto che il governo non ha più i soldi neanche per dar da mangiare alle truppe. Una possibile sollevazione militare contro il presidente non è più un'ipotesi così remota.

 

25 gennaio

 

La rivoluzione di un padre

di ROBERTO SAVIANO

BEPPINO Englaro, il papà di Eluana, sta dando forza e senso alle istituzioni italiane e alla possibilità che un cittadino del nostro Paese, nonostante tutto, possa ancora sperare nelle leggi e nella giustizia. Ciò credo debba essere evidente anche per chi non accetta di voler sospendere uno stato vegetativo permanente e ritiene che ogni forma di vita, anche la più inerte, debba essere tutelata.

Mi sono chiesto perché Beppino Englaro, come qualcuno del resto gli aveva suggerito, non avesse ritenuto opportuno risolvere tutto "all'italiana". Molti negli ospedali sussurrano: "Perché farne una battaglia simbolica? La portava in Olanda e tutto si risolveva". Altri ancora consigliavano il solito metodo silenzioso, due carte da cento euro a un'infermiera esperta e tutto si risolveva subito e in silenzio.

Come nel film "Le invasioni barbariche", dove un professore canadese ormai malato terminale e in preda a feroci dolori si raccoglie con amici e familiari in una casa su un lago e grazie al sostegno economico del figlio e a una brava infermiera pratica clandestinamente l'eutanasia.

Mi chiedo perché e con quale spirito accetta tutto questo clamore. Perché non prende esempio da chi silenziosamente emigra alla ricerca della felicità, sempre che le proprie finanze glielo permettano. Alla ricerca di tecniche di fecondazione in Italia proibite o alla ricerca di una fine dignitosa. Con l'amara consapevolezza che oramai non si emigra dall'Italia solo per trovare lavoro, ma anche per nascere e per morire. Nella vicenda Englaro ritornano sotto veste nuova quelle formule lontane e polverose che ci ripetevano all'università durante le lezioni di filosofia.

Il principio kantiano: "Agisci in modo che tu possa volere che la massima delle tue azioni divenga universale" si fa carne e sudore. E forse solo in questa circostanza riesci a spiegarti la storia di Socrate e capisci solo ora dopo averla ascoltata migliaia di volte perché ha bevuto la cicuta e non è scappato. Tutto questo ritorna attuale e risulta evidente che quel voler restare, quella via di fuga ignorata, anzi aborrita è molto più di una campagna a favore di una singola morte dignitosa, è una battaglia in difesa della vita di tutti. E per questo Beppino, nonostante il suo dramma privato, ha dovuto subire l'accusa di essere un padre che vuole togliere acqua e cibo alla propria figlia, contro coloro che dileggiano la Suprema Corte e contro chi minaccia sanzioni e ritorsioni per le Regioni che accettino di accogliere la sua causa, nel pieno rispetto di una sentenza della Corte di cassazione.

L'unica risposta che ho trovato a questa domanda, la più plausibile, è che la lotta quotidiana di Beppino Englaro non sia solo per Eluana, sua figlia, ma anche e soprattutto in difesa del Diritto, perché è chiaro che la vita del Diritto è diritto alla vita. Beppino Englaro con la sua battaglia sta aprendo una nuova strada, sta dimostrando che in Italia si può e si deve restare utilizzando gli strumenti che la democrazia mette a disposizione. In Italia non esiste nulla di più rivoluzionario della certezza del Diritto. E mi viene in mente che tutelare la certezza dei diritti, la certezza dei crediti, costituirebbe la stangata definitiva all'economia criminale. Se fosse possibile, nella mia terra, rivolgersi a un tribunale per veder riconosciuto, in un tempo congruo, la fondatezza del proprio diritto, non si avvertirebbe certo il bisogno di ricorrere a soluzioni altre. Beppino questo sta dimostrando al Paese. Non sarebbe necessario ricorrere al potere di dissuasione delle organizzazioni criminali, che al Sud hanno il monopolio, illegale, nel fruttuoso business del recupero crediti.

E a lui il merito di aver insegnato a questo Paese che è ancora possibile rivolgersi alle istituzioni e alla magistratura per vedere affermati i propri diritti in un momento di profonda e tangibile sfiducia. E nonostante tutte le traversie burocratiche, è lì a dimostrare che nel diritto deve esistere la possibilità di trovare una soluzione.

Per una volta in Italia la coscienza e il diritto non emigrano. Per una volta non si va via per ottenere qualcosa, o soltanto per chiederla. Per una volta non si cerca altrove di essere ascoltati, qualsiasi cittadino italiano, comunque la pensi non può non considerare Beppino Englaro un uomo che sta restituendo al nostro Paese quella dignità che spesso noi stessi gli togliamo.

Immagino che Beppino Englaro, guardando la sua Eluana, sappia che il dolore di sua figlia è il dolore di ogni singolo individuo che lotta per l'affermazione dei propri diritti. Se avesse agito in silenzio, trovando scorciatoie a lui sarebbe rimasto forse solo il suo dolore. Rivolgendosi al diritto, combattendo all'interno delle istituzioni e con le istituzioni, chiedendo che la sentenza della Suprema Corte sia rispettata, ha fatto sì, invece, che il dolore per una figlia in coma da 17 anni, smettesse di essere un dolore privato e diventasse anche il mio, il nostro, dolore. Ha fatto riscoprire una delle meraviglie dimenticate del principio democratico, l'empatia. Quando il dolore di uno è il dolore di tutti. E così il diritto di uno diviene il diritto di tutti.

 

REPORTAGE. Viaggio nel Cpt, tra risse e degrado. "Morti in mare 10 di noi". "Cercavo la libertà, sono finito all'inferno"

Lampedusa, girone dei disperati. Le storie dei sopravvissuti al mare

dal nostro inviato FRANCESCO VIVIANO

LAMPEDUSA - "Respira, respira ancora, quindi è viva" dice, Odemije, 22 anni, nigeriano, subito dopo essere uscito dal pronto soccorso di Lampedusa dov'era stato portato per l'"ultimo saluto" alla sua compagna, Vivede, 19 anni, appena intubata e subito dopo trasferita con l'elicottero del 118 a Palermo, dove i medici disperano di salvarla. È in coma, ricoverata in rianimazione, ha ustioni su tutto il corpo ed una sindrome di assideramento gravissima. Sono davvero poche le speranze che possa cavarsela, dopo una settimana in mare aperto senza acqua e senza viveri, per raggiungere Lampedusa. L'"inferno" di Lampedusa dove Odemije è arrivato con la sua compagna ieri mattina con un gommone. Insieme con altri 61 disperati, con i loro racconti dell'orrore: 10 dei loro compagni di viaggio, spiegano, sono morti di stenti e di freddo durante la traversata e buttati in mare dai sopravvissuti. Ma tutti loro, come altre centinaia dei 1900 clandestini che attualmente si trovano nel centro di accoglienza, dormiranno all'aperto.

In ripari di fortuna, tende improvvisate con teli leggeri, perché il centro è al collasso. Sporcizia, escrementi, gabinetti e fognature intasate, camere di tre metri per tre che ospitano fino a 15 persone, oltre 100 minori stipati per terra su finti materassi, senza coperte e senza teli, con bottiglie di plastica ed altri rifiuti sparsi ovunque. Anche gli uffici dei dirigenti del Centro di accoglienza non ci sono più. Ospitano decine e decine di immigrati, appollaiati uno sull'altro.
"Voglio andare via, ritornare in Tunisia, non ne posso più. Sono qui da 30 giorni. Speravo di trovare la libertà ed un po' di serenità, ma qui è peggio che all'inferno". L'esterno del centro di accoglienza che sorge su una vecchia base dell'Aeronautica Militare è circondato da bersaglieri, dentro una cinquantina di carabinieri e poliziotti che a turno sorvegliano quella piccola città della speranza che da settimane si è trasformata in una bolgia. I responsabili del centro alzano le spalle, fanno tutto il possibile. "Ma miracoli non ne possiamo fare - dicono - i posti letto sono 800, loro sono quasi duemila. Come possiamo fare a sistemarli in maniera un po' più decente? Riusciamo a farli mangiare tutti, a vestirli tutti, ma non possiamo trovare un letto ed un riparo per tutti". Al ministero dell'Interno, alle prefetture, sono state inviate relazioni che segnalano la grave situazione. Hanno paura che possano scoppiare delle rivolte, delle risse per conquistare un letto o un riparo.

Quanto durerà ancora, si chiedono gli operatori e i militari che lavorano nel centro di accoglienza. Temono, e non ne fanno un mistero, che "prima o poi ci scapperà il morto". E mentre dentro il centro la tensione aumenta, fuori, tra i cittadini di Lampedusa, la protesta contro il ministro degli interni Maroni che ha deciso di non trasferire i clandestini in altri centri, monta ogni ora di più. Accusano di "tradimento" anche la loro ex pasionaria, Angela Maraventano che ha conquistato una poltrona da senatrice proprio con la Lega. Il sindaco Rino De Rubeis le ha revocato l'incarico di vice sindaco, molti suoi concittadini la chiamano già "giuda" perché asseconda le scelte del ministro Maroni. E i lampedusani minacciano azioni eclatanti, dopo la conferma di quello che un paio di giorni fa l'ex sindaco dell'isola, Totò Martello, aveva denunciato pubblicamente: la realizzazione di un altro centro di accoglienza nella base Loran della Marina Militare di Lampedusa. Una decisione che ieri sera ha provocato altre tensioni e minacce di bloccare il porto e l'aeroporto: oltre duecento abitanti dell'isola hanno inscenato una manifestazione davanti all'ingresso del Cpt, guardati a vista dai militari della sorveglianza.

 

22 gennaio

 

Baghdad manda l'esercito a Kirkuk, già controllata dalle forze curde

La situazione di Kirkuk, rimasta pressoché stabile nel corso del 2008, rischia di precipitare nuovamente.

La città petrolifera del nord dell'Iraq, ai confini della regione del Kurdistan iracheno, è stata esclusa dalle prossime elezioni amministrative, che si terranno il 31 gennaio, per evitare il riaccendersi delle tensioni tra i gruppi che la contendono: curdi, turcomanni e arabi soprattutto. Per risolvere la contesa sul controllo della provincia è stato creato un consiglio provinciale, con il compito di traghettare la città verso il referendum che ne deciderà l'appartenenza o meno alla regione curda.

Da oltre un anno la politica ha preso il posto delle bombe a Kikruk, che fino al 2007 è stata teatro di numerosi attentati. "Non c'è un solo metro della provincia che non sia sotto il nostro controllo" diceva a peaceReporter il capo del consiglio provinciale Ali Rizgar Hamajan, spiegando come il merito fosse delle forze di sucurezza curde, i peshmergha. Anche il vescovo della città, Louis Sako, conveniva che le truppe curde sono molto efficienti e hanno garantito sicurezza per tutti i gruppi etnici e religiosi. Lo scorso 13 gennaio, però, il governo di Baghdad ha deciso di mandare una divisione dell'esercito a pattugliare la provincia, provocando la reazione dei partiti curdi. "è una provocazione da parte del governo di Baghdad" ha commentato una fonte politica curda all'agenzia Aki, precisando che "le aree in cui sono state mandate le forze di Baghdad si contraddistinguono per la stabilità a livello politico e di sicurezza, e non hanno bisogno di rinforzi". Il leader della coalizione curda della provincia di Tamim, Muhammad Kamal, ha persino accusato il governo di Baghdad di "imporre un assedio militare intorno alla provincia".

Nonostante l'apparente tranquillità, dovuta anche alla muscolare presenza delle forze di sicurezza curde, lo scorso dicembre un attentatore si è fatto esplodere in un ristorante della città, causando la morte di 55 persone. Lo scorso 11 gennaio, un settimanale curdo divulgava una statistica secondo cui, nel corso del 2008, 218 persone sono rimaste uccise nella provincia. L'invio dei rinfozi militari di Baghdad, tuttavia, è parso ai più come una manovra spinta da ragioni politice più che di sicurezza. Uno sgarbo che, se le truppe fossero state schierate in città, avrebbe potuto portare a un conflitto aperto con i peshmergha, che nominalmente fanno parte dell'esercito nazionale. Qualcosa del genere era accaduto anche lo scorso agosto a Khanaqin, una città che vive una situazione molto simiile a quella di Kirkuk. Entrambe sono popolate da una maggioranza curda e giacciono su enormi pozzi di petrolio, entrambe sono contese tra il governo di Baghdad, che le vorrebbe includere nella regione centrale a maggironza araba, e il governo del Kurdistan, che vorrebbe annetterle. Entrambe sono pattugliate dalle forze di sicurezza curde. Ad agosto Baghdad mandò l'esercito iracheno a Khanaqin, per sostiture i peshmergha, ma la popolazione si ribellò e, dopo alcuni giorni di pericolosa tensione, si giunse a un compromesso: I peshmergha sono rimasti a controllare l'interno della città, mentre l'esercito iracheno è stato diclocato all'esterno della provincia. Oggi a Kikruk accade qualcosa di simile, il governo di Baghdad, inviando i soldati, ha mandato un segnale ai curdi, che vengono accusati dalla componente araba cittadina di monopolizzare il consiglio provinciale, di cui detengono la maggioranza. Il processo politico per la soluzione del problema Kirkuk è ancora lungo, e nessuna delle parti ha realmente intenzione di boicottarlo apertamente, per timore di riaprire le porte al terrorismo.

Naoki Tomasini

 

Morti non casuali
  • Il colpo di pistola che ha ucciso lunedì a Mosca Anastasia Baburova, giovanissima praticante giornalista, è stato quasi certamente casuale: possiamo supporre che il killer non sapesse chi era Anastasia e nemmeno che si sarebbe trovata lì in quel momento. Il suo obiettivo era un altro, un conosciutissimo avvocato, coinvolto in molte cause “calde” connesse con la violenza dei potenti legati al regime russo. Anastasia è stata uccisa semplicemente perché si trovava insieme a lui, ha visto il killer e ha tentato coraggiosamente di reagire e bloccarlo. Ma nonostante le circostanze, la sua non è stata un’uccisione casuale; e possiamo supporre che i mandanti del killer siano rimasti molto contenti di questo esito che, senza esser stato previsto e cercato, ha raddoppiato il successo dell’operazione.

    Anastasia lavorava per la Novaja Gazeta, il giornale dove scriveva Anna Politkovskaja: un giornale che non ha mai smesso di cercare quel che dovrebbero cercare tutti i giornali, la verità e la giustizia,  soprattutto quando per avere un risultato è necessario sfidare, a nome dei cittadini che non possono farlo di persona, l’omertà e la prepotenza di chi sta in alto. Non era casuale che una giornalista della Novaja fosse alla conferenza stampa dell’avvocato Stanislav Markelov, che vi aveva annunciato un ricorso contro la scandalosa rimessa in libertà di un colonnello dell’esercito, stupratore e assassino confesso, da parte del tribunale. Non era casuale che questa giovane giornalista seguisse poi Markelov per discutere con lui della causa e delle prossime mosse da compiere: anche lei, anche il suo giornale erano molto coinvolti, nella disgustosa vicenda giudiziaria del colonnello Yurij Budanov; come l’avvocato, erano molto vicini alla famiglia di Elza Kungaeva, la ragazzina cecena violentata e strangolata da Budanov nel 2000, durante la guerra. Non era casuale infine che Anastasia fosse tanto coraggiosa da cercar di fermare il killer: occorre essere coraggiosi per fare il lavoro che voleva fare lei, in un giornale come quello, occupandosi di argomenti come quelli, in un paese come la Russia di oggi.

    Per questo i mandanti di quel killer possono essere doppiamente soddisfatti: non solo hanno eliminato un fastidioso tipo che metteva in cattiva luce la gloriosa macchina delle forze armate nazionali, cercando di minare il consacrato diritto dei militari a violentare e uccidere chi vogliono (tantopiù se trattasi di femmina e non slava, dunque due volte inferiore), ma hanno anche mandato un fortissimo messaggio ai giornali, ai giornalisti e ai cittadini tutti – non ficcate il naso dove non dovete, non cercate di essere coraggiosi, non state dalla parte di chi rompe i coglioni.

     

    E’ un messaggio forte perché la società russa odierna non si oppone molto a questo modo di pensare; le centinaia di persone che ieri si sono ritrovate in piazza a piangere e manifestare il loro lutto per la morte di due coraggiosi non devono trarre in inganno.
    Lutto sul luogo dove Baburova e Markelov sono stati uccisi

    Lutto sul luogo dove Baburova e Markelov sono stati uccisi

    Inutile illudersi che in Russia ci sia una dittatura che governa contro una popolazione ostile: non è così. A dirlo non sono soltanto le percentuali di consenso intorno ai capi supremi, che possono essere manipolate o non significare granché al di là di un generico bisogno di stabilità e sicurezza. No, a dire che il terreno in cui si muovono gli avvocati e i giornalisti coraggiosi come Markelov o Baburova è duro e difficile è l’impunità sostanziale di cui godono le bande di assassini neonazisti  – che guardacaso proprio lunedì hanno ammazzato a Mosca un ragazzo di vent’anni reo di appartenere a un movimento di sinistra, e che praticamente tutti i giorni uccidono qualche immigrato asiatico o caucasico preso a casaccio per strada (il processo e la condanna dei sette membri di una di queste bande, qualche settimana fa, ha fatto sensazione). A dirlo sono le manifestazioni pubbliche di sostegno a Yurij Budanov, perché la vita di “una puttanella cecena” non vale il disonore della prigione per un ufficiale; a dirlo è il silenzio, l’indifferenza con cui vengono accolte le uccisioni, o i pestaggi quasi mortali, degli uomini e delle donne che cercano di far qualcosa per opporsi a tutto questo – gli ambientalisti che lottano contro l’inquinamento della Siberia, i giornalisti locali che denunciano i furti e la corruzione di sindaci e di governatori (Markelov era anche il difensore di Beketov, giornalista di una città alla periferia di Mosca ridotto in fin di vita per aver denunciato uno scandalo dell’amministrazione locale). Non occorre che sia il vertice del potere a dar l’ordine di far fuori qualcuno “scomodo”: è una vasta e ramificata  rete intermedia, ereditata ancora dai tempi del Pcus, che consente impunità e copertura alle prepotenze, ai soprusi, alle intimidazioni violente.

  • Dmitrij Medvedev, salendo al Cremlino, aveva promesso un cambiamento in questo modo di essere del potere, una riforma della giustizia, una riduzione, quantomeno, del tasso di illegalità esibito dalle autorità pubbliche. Qualche timidissimo segno in questa direzione, nei primi sette mesi del suo mandato, si è anche visto: ma puntualmente è stato seguito da pesanti segni contrari, tanto da far persino supporre che qualche sorda lotta sotterranea fosse in corso, nei corridoi del Cremlino e degli altri palazzi del potere. E adesso la tremenda crisi globale che ha investito anche la Russia, con il suo corollario di disoccupazione e infelicità, non contribuirà certo a migliorare le cose – razzismo, nazionalismo, odio per l’altro, il diverso, il “rompicoglioni”, avranno ancor più terreno fertile su cui svilupparsi.

    Di tutto questo però, nessuno fuori dai confini russi sembra granché preoccuparsi. Si fa gran scandalo per la vicenda del gas, che in fondo è una banale lite commerciale complicata da oggettive difficoltà tecniche e geopolitiche, e per qualche giorno di rubinetti chiusi si considera la Russia un nemico: mentre si fa finta di niente sulle vere dinamiche malvagie che sono in atto sotto i nostri occhi in un grandissimo e importante paese. Non sarà che, almeno in Italia ma non solo, sono in tanti a pensare che questo sia il modo giusto di trattare i problemi?

Rulli di tamburo a Pasco
Cerro de Pasco: è la capitale mineraria del Perú, oltre 4.300 metri di altitudine, su un arido altipiano andino spazzato dal vento dove cresce quasi solo erba nana. Cerro de Pasco Corporation: è una rapace multinazionale mineraria attiva lassù fin dagli inizi del secolo. Sono luoghi e soggetti indimenticabili per chi ha letto i micidiali romanzi storico-magici, un'opera epica, dello scrittore e attivista peruviano Manuel Scorza. Già negli anni venti si scoprì che le estrazioni e lavorazioni minerarie sull'altipiano avvelenavano l'ambiente. Per evitare lo scandalo, la Cerro de Pasco comprò dallo stato peruviano enormi distese di terreno inquinato, usandolo per allevarvi le pecore. Per impedire ai pastori del posto di pascolarvi i propri animali recintò i terreni. La comunità di Rancas si ribellò per prima, senza mezzi né sostegno e con esiti tragici, ma accendendo la miccia dell'ondata di protesta contadina che travolse il Perù.
Negli anni '70 la Cerro de Pasco Corporation diventò proprietà dello stato. Ma l'inquinamento è continuato e tuttora persiste, connaturato alla più fossile di tutte le attività umane (insieme a quella bellica): l'attività estrattiva. Dal 1999 la compagnia peruviana - privata - Volcan gestisce una miniera a cielo aperto lunga 1,8 chilometri. Ne estrae zinco, piombo e argento. Nella regione del Pasco i posti di lavoro sono sempre stati barattati con la salute e dure condizioni di vita.
Il 13 dicembre scorso il governo peruviano ha firmato un provvedimento per spostare 11mila famiglie lontano dal territorio che circonda la miniera e le aree destinate a discarica delle scorie. Là è più forte l'inquinamento da polvere di piombo, dinamite e gas tossici. Già nel 2006 l'Istituto per la difesa civile aveva concluso che l'85% delle abitazioni intorno alla miniera erano inabitabili - i bambini hanno elevatissimi livelli di piombo nel sangue, e nelle campagne il bestiame muore per mancanza di acqua ed erba contaminata - ma c'è voluto tempo perché il governo decidesse di trasferire quella popolazione, come «questione di necessità pubblica e interesse nazionale».
Nel 2005 uno studio dell'agenzia sanitaria regionale di Pasco aveva trovato che l'80% dei bambini nelle comunità di Quiulacocha e Champamarca avevano livelli di piombo superiori a 10 microgrammi per decilitro di sangue, il limite considerato accettabile dalle autorità sanitarie mondiali. Nel 2006, analoghi risultati a Yanacancha. L'inquinamento cronico da piombo provoca danni neurologici e al sistema riproduttivo, malattie renali, anemia, pressione alta e problemi cardiovascolari. Nei bambini impedisce la crescita, causa disturbi comportamentali e problemi nell'apprendimento, fino al ritardo mentale. Le concentrazioni più elevate possano portare alla morte. Nel 2007 un centro statunitense per la salute preventiva ha analizzato suoli e case ed esaminato 357 abitanti (bambini e donne) delle comunità di Ayapoto, Chaupimarca e Paragsha. Conclusione: il 91% dei bambini fra uno e dodici anni e l'82% delle donne in età riproduttiva presentavano livelli elevati di sostanze tossiche nel sangue: piombo, cesio, tallio... Peggio ancora a Quiulalocha, dove 850 persone vivono vicino ai punti di discarica delle scorie e del materiale tossico minerario.
Mentre la Volcan prevede di espandere ulteriormente le proprie attività, il progetto governativo di trasferimento della popolazione inquinata prenderà dai 15 ai 20 anni, per un costo di 1,5 miliardi di dollari. «Venti anni? Per allora sarò già morto» ha commentato un (giovane) abitante.

 

STATALI
L'ultima di Brunetta: 1200 euro in meno l'anno in tutte le buste paga


Non si arrestano i tagli del ministro: gli stipendi di gennaio perdono 79 euro sul salario accessorio. La denuncia della Fp Cgil


Le promesse non mantenute del ministro Renato Brunetta cominciano a venire al pettine: la Funzione Pubblica Cgil, studiando le prime buste paga di gennaio, mostra che il taglio del salario accessorio raggiunge addirittura i 1200 euro l'anno, visto che ogni mese la perdita è di 79 euro. «Purtroppo per i lavoratori e le lavoratrici delle pubbliche amministrazioni - spiega il segretario nazionale della Fp Cgil Alfredo Garzi - sulla busta paga di gennaio si vedono i primi effetti dei tagli al salario accessorio previsti dal decreto Tremonti».
Il sindacalista illustra come esempio una busta paga del ministero dell'ambiente: «E' stata decurtata mediamente di circa 79 euro. Più di quanto prevede, come incremento, l'ipotesi di contratto dei ministeri». E non basta, perché alla decurtazione mensile, in sede di conguaglio annuale, si aggiungeranno altri 350 euro. «Il governo - calcola così Garzi - in questo modo toglie 1200 euro dalle tasche dei lavoratori nell'arco di un anno».
«Questo è quello che accade nel mondo reale - continua la Cgil - Svaniscono le favole raccontate dal 30 ottobre a oggi, sul fatto che il governo, e i sindacati che hanno sottoscritto il Protocollo Brunetta e le ipotesi di contratto, avrebbero recuperato le somme sottratte e garantito le retribuzioni attuali. Solo le modalità di pagamento del salario accessorio, che scontano spesso ritardi di parecchi mesi tra la prestazione lavorativa e il pagamento delle spettanze, in parte ancora consentono di mascherare gli effetti concreti dei tagli del governo».
Classica, dopo la critica della Cgil, a tamburo battente arriva la risposta del ministro Brunetta: «Sorprende che un sindacato possa dare un'informazione sbagliata ai lavoratori - spiega - La Cgil 'dimentica' che il recupero integrale dei tagli sui fondi dell'accessorio del decreto legge 112 sarà definito entro il 30 giugno: lo prevedono il Protocollo del 30 ottobre, la legge 133 del 2008 e la finanziaria 2009. Molti degli emolumenti del trattamento accessorio vengono pagati solo a consuntivo, in pratica alla fine dell'anno». «Nel frattempo - conclude il ministero - tutte le procedure dei contratti degli statali si chiuderanno mercoledì con la certificazione della Corte dei conti, e solo allora potranno essere apprezzati in busta paga gli effetti del protocollo sottoscritto. Una volta era la Cgil che si lamentava della lentezza delle procedure contrattuali, ora sembra che si dolga esattamente del contrario».
La disputa tra il ministro Brunetta e la Cgil si svolge quasi ogni giorno a colpi di denunce e comunicati: ma intanto si rafforzano le ragioni dello sciopero che la Funzione pubblica Cgil ha indetto insieme alla Fiom per il 13 febbraio. Con tanto di manifestazione comune a Roma.

 

 

20 gennaio

Si chiamava Anastasia Baburova. Lei e il suo avvocato freddati da un sicario
Il legale difendeva una ragazza cecena violentata e uccisa da un colonnello russo

Mosca, uccisa una giornalista
stesso giornale della Politkovskaia

Collaborava con la 'Novaia Gazeta', il giornale della cronista assassinata nel 2006

Mosca, uccisa una giornalista stesso giornale della Politkovskaia
MOSCA - L'hanno ammazzata nel pieno centro di Mosca. E con lei è stato ucciso l'avvocato Stanislav Markelov, il difensore della famiglia di Elsa Kungaeva, una ragazza cecena seviziata e uccisa dall'ex colonnello Yuri Budanov.

Anastasia Baburova, collaboratrice del quotidiano 'Novaia Gazeta' (la stessa testata per la quale lavorava Anna Politkovskaia, la giornalista uccisa nel 2006) era in compagnia dell'avvocato sulla via Prechistenka, a pochi passi dalla cattedrale di Cristo Salvatore.
All'improvviso un uomo mascherato con un passamontagna si è avvicinato e ha sparato un colpo di pistola alla nuca di Markelov. Baburova ha cercato di inseguirlo ed è stata colpita anch'essa alla testa.

Il caso rischia di diventare un boomerang per la Russia sul fronte dei diritti fondamentali e un ulteriore capitolo della tragedia della diciottenne Elsa Kungaeva. La giovane venne rapita dalla sua casa nel villaggio a sud di Grozny, la notte del 26 marzo 2000 da soldati russi comandati dal colonnello Budanov. Il suo corpo fu ritrovato in una discarica. L'autopsia del medico legale del ministero della difesa ha stabilito che la ragazza aveva subito ripetutamente violenza sessuale, circa un'ora prima della morte.

Il colonnello Budanov è stato arrestato il 30 marzo 2000 e poi condannato a 10 anni di carcere. Durante le indagini ha ammesso di averla uccisa, ma ha sostenuto di aver agito in stato di "temporanea insanità mentale". L'accusa ha ignorato le prove esistenti sul fatto che la ragazza fosse stata violentata prima di essere uccisa. Il colonnello è stato incriminato per omicidio, sequestro di persona e abuso di potere.
L'avvocato ucciso oggi aveva annunciato l'intenzione di presentare ricorso presso un tribunale internazionale contro il rilascio anticipato di Budanov.
 
 
Crisi economica e rapporti diplomatici: l'avvento di Obama cambierà il volto anche al Sudamerica.
Oggi Barack Obama prenderà definitivamente possesso della poltrona presidenziale statunitense e aprirà la porta della sua nuova "Casa Bianca". Molte le gatte da pelare per il primo presidente afroamericano eletto, prima fra tutte le grave crisi economica che ha trasversalmente colpito tutti. E che ne sarà dei rapporti con il cortile di casa? Ne abbiamo discusso con il direttore del Foreign Policy, Moises Naim*.

Moises Naim direttore del Foreign Policy"In questo momento è molto più importante che la politica del presidente Barack Obama guardi all'interno del Paese e non fuori. Ma non è certo una novità: tutti i presidenti che hanno preceduto Obama hanno messo gli affari di politica interna in cima ai loro pensieri", ha detto il direttore al telefono con PeaceReporter. "Tutto però è legato da una catena: solo se gli Stati Uniti riusciranno a riprendere la crescita, diminuire la crisi e ristabilire una normalità economica, anche i paesi dell'America Latina potranno risollevarsi dalla crisi che li sta colpendo e sta anche facendo molto male".

Barack ObamaMa come potranno reagire davanti alla crisi le nazioni del Sudamerica? "I paesi dell'America Latina avranno differenti conseguenze da questa crisi economica" racconta Naim. "Ci saranno nazioni che soffriranno perchè i prezzi delle loro materie prime d'esportazione stanno scendendo, penso al petrolio venezuelano, al rame cileno, alla carne e alla soia argentina, al greggio dell'Ecuador. Questi Paesi soffriranno sicuramente perchè il volume delle esportazioni diminuirà. Altri invece, quelli più piccoli, avranno difficoltà nella ricezione delle rimesse dei loro cittadini che, guadagnando meno denaro ne spediranno meno a casa. Si calcola che le rimesse nel 2009 caleranno del 9 percento (nel 2008 a livello mondiale sfioravano i 280.000 milioni di dollari). Ovvio che Paesi che vedono una forte emigrazione verso gli Usa come il Messico, Repubblica Dominicana o i paesi dell'America Centrale, sentiranno la crisi in modo più forte. Per capirci: Leon Tolstoy inizia Ana Karenina dicendo che tutte le famiglie felici sono uguali. Ma che quelle infelici lo sono tutte a loro modo. Tutti i paesi dell'America Latina saranno duramente colpiti dalla crisi però ognuno a modo suo. Così come i governanti reagiranno differentemente fra loro."

Il presidente di Cuba, Raul CastroPerò sembra che i mercati internazionali non guardino in modo approfondito quello che accade in America Latina. Forse per poco interesse, forse perchè la regione da qualche tempo a questa parte è piuttosto unita e ha adottato, con solo alcune piccole defezioni, una politica socioeconomica di stampo socialista come il Venezuela, la Bolivia, l'Ecuador, l'Uruguay, il Brasile, il Cile. "Ma il vero problema dell'America Latina è che è un continente perso che non produce grandi interessi né negli Stati Uniti né in Europa" prosegue Naim. "In sostanza l'interesse generato dall'America Latina è quello culturale. Si, io credo che con l'arrivo di Barack Obama l'embargo a cui è sottoposta Cuba da decenni sarà fortemente ammorbidito. Da quel momento inizierà un percorso che porterà alla riapertura delle relazioni diplomatiche e alla normalizzazione dei rapporti fra i due Paesi".

Alessandro Grandi


 
Centinaia di migranti della comunità Rohingya, provenienti dal Bangladesh sono stati rispediti indietro dalla Guardia costiera thailandese. Facendo in modo che non ritornino
Alessandro Ursic

 Frustrati, ammanettati, portati al largo e lasciati alla deriva. Centinaia di migranti della comunità Rohingya, una minoranza musulmana presente sulle coste del Bangladesh e della Birmania nord-occidentale, hanno subito questo trattamento da parte della Guardia costiera thailandese: così denunciano alcuni tra quelli che sono sopravvissuti per raccontarlo. Altri, oltre 300 persone, sono dispersi e con ogni probabilità deceduti in mare.

Una delle immagini scattate dalla Guardia costiera thailandese, che mostra i Rohingya ammanettati sulla spiaggiaI dettagli non sono ancora completi, ma dai racconti di due superstiti e i resoconti delle autorità indiane e indonesiane sta emergendo un quadro abbastanza chiaro. Nella prima settimana di dicembre, quasi un migliaio di Rohingya hanno affidato le loro vite all'Oceano Indiano, montando su alcuni vecchi barconi nella speranza di arrivare in Thailandia, e da lì probabilmente procedere per la Malaysia via terra. Ma i soldati thailandesi che li hanno intercettati, invece di soccorrerli dopo vari giorni di navigazione, li hanno tenuti in arresto per otto giorni e poi ricacciati indietro nel più crudele dei modi: con mani e in alcuni casi piedi legati, trainati a decine di chilometri dalla riva a bordo di barconi senza motore, e poi lasciati in balia delle onde, con a bordo solo qualche sacco di riso e pochi litri d'acqua.

Molti sono annegati cercando di nuotare incontro a navi che passavano nelle vicinanze, altri sono morti disidratati. Dei partiti, 193 sono arrivati moribondi il 28 dicembre alle isole Andamane, indiane ma in mezzo all'Oceano, altri 180 circa sono giunti fino alla provincia indonesiana di Aceh, dove sono stati salvati da alcuni pescatori il 7 gennaio. Altri barconi senza motore, con decine di Rohingya a bordo, sono approdati in territorio indiano e thailandese. Ma centinaia di migranti - 300 persone secondo le autorità indiane, 538 nella versione del quotidiano "Sunday Morning Post" di Hong Kong - sono dispersi. Un eufemismo: a un mese dalla partenza, nessuno pensa che possano essere ancora in vita.

I fatti sono stati descritti da due sopravvissuti tra quelli soccorsi alle isole Andamane, mentre i profughi arrivati in Indonesia . ancora detenuti in una base navale - non sono stati raggiunti dai media o dagli operatori umanitari, ansiosi di corroborare gli incredibili racconti. Ma ci sono anche conferme fotografiche, almeno del trattamento che i migranti ricevono a terra dalla Guardia costiera thailandese. Alcune immagini scattate proprio dagli agenti mostrano decine di Rohingya ammanettati sulla spiaggia, e poi imbarcati per essere portati al largo.

"Pensavo che queste cose accadessero in Birmania, non in Thailandia", dice a PeaceReporter Chris Lewa, una ricercatrice che da anni si occupa dei Rohingya, nell'ambito dell'associazione Arakan Project. "I miei collaboratori in Bangladesh mi avevano riferito già l'11 dicembre che c'erano voci di barconi rispediti indietro verso la Birmania, dove i Rohingya subiscono trattamenti durissimi. Ora abbiamo due superstiti che ce lo confermano, e con questi dettagli. Se è vero, questi sono omicidi deliberati". Secondo la Lewa, già lo scorso marzo l'allora premier Samak Sundaravej aveva preannunciato un giro di vite contro i boat people provenienti dalle coste bengalesi e birmane, con deportazioni in isole usate come centri di detenzione. Di una sbandierata collaborazione con l'Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), anch'essa annunciata in primavera, non se n'è poi fatto nulla.

Nonostante alcuni membri della Guardia costiera abbiano confermato che episodi del genere accadono, le autorità thailandesi hanno negato ogni colpa. Sotto la pressione dei gruppi per i diritti umani, il primo ministro Abhisit Vejjajiva ha promesso che il governo farà luce sulla vicenda. Ma solo il giorno prima, la Marina aveva fatto sapere che non ritiene necessaria un'indagine, perché "è chiaro che niente di illegale è avvenuto". E' procedura standard ammanettare i migranti con le mani sopra la testa, è stato spiegato, quando sono in numero così superiore a quello degli agenti della Guardia costiera. Se è per questo, i migranti Rohingya sono sempre di più: secondo cifre ufficiali, gli arrivi sono passati da 1.225 a 4.886 annui dal 2005 a oggi. Non li vuole nessuno: vivono in condizioni di indigenza e non hanno un volto rappresentativo che combatta per la loro causa a livello internazionale. Si dice che le autorità thailandesi, in particolare, non li vogliano perché sono tutti uomini; temono che possano unirsi alla guerriglia separatista musulmana nel sud del Paese, la cui lotta ha causato oltre 3.500 morti dal 2004.

 

Chi è più libero di evadere

di Paolo Biondani e Luca Piana

Nuove direttive e nuovi uomini: il ministro Tremonti ha cambiato il volto del fisco. Con quale effetto? Favorire alcune categorie di elettori. Perché l'Iva scende mentre sale il prelievo in busta paga

 
La lotta all'evasione ai tempi di Giulio Tremonti? Letteralmente dimenticata. Per fotografare cosa è cambiato nella politica fiscale con il ritorno al governo di Silvio Berlusconi, alcuni alti ufficiali della Guardia di Finanza tornano al primo giorno. Tremonti si è appena insediato. Al comando generale delle Fiamme Gialle è fissata la prima riunione operativa: il vertice del Corpo deve trasmettere a tutti i comandanti regionali le direttive e priorità indicate dal nuovo ministro dell'Economia. Gli ordini si susseguono: lotta alla contraffazione, concorrenza cinese, immigrazione clandestina, pattugliamento delle coste. All'uscita, diversi comandanti sono stupefatti: "E l'evasione fiscale? Ma non era questa la nostra missione?".

L'argomento è politicamente bollente. L'opposizione accusa il governo di aver mollato la presa sugli evasori, compromettendo i 23 miliardi di gettito aggiuntivo garantiti dal governo Prodi. L'andamento dei conti è "coerente con gli impegni europei", ribatte Tremonti, forte dei dati della Banca d'Italia: nei primi undici mesi del 2008 le entrate tributarie sono cresciute del 3 per cento circa rispetto a un anno prima. Il ministro esibisce anche i 2,3 miliardi che l'Agenzia delle Entrate, affidata al fedelissimo Attilio Befera, ha incassato alla voce 'riscossioni da accertamento' sempre tra gennaio e novembre: il 46 per cento in più del 2007.

Gli stessi dati, tuttavia, armano i critici. L'Agenzia delle Entrate incassa oggi il frutto delle indagini chiuse negli anni di Prodi. Una larga fetta degli introiti del 2008, in effetti, deriva da alcune ispezioni chiave della passata gestione: i casi del motociclista Valentino Rossi, della finanziaria lussemburghese Bell, del raider Stefano Ricucci. Analizzando mese per mese le cifre di Bankitalia, poi, la crescita delle entrate risulta in realtà concentrata nella prima parte dell'anno. Insomma, è l'onda lunga delle politiche anti-evasione del precedente governo. Ma c'è di più. Il centro studi Nens, fondato dall'ex viceministro diessino Vincenzo Visco, ha calcolato che l'aumento delle entrate nel periodo gennaio-ottobre 2008 è dovuto unicamente all'Irpef. Che è cresciuta grazie "ai numerosi rinnovi contrattuali". Un'analisi che per i lavoratori dipendenti ha un gusto amaro. Se così stanno le cose, infatti, sarebbero proprio gli italiani che non possono evadere, perché tassati alla fonte, a garantire la tenuta dei conti pubblici.

Il ritorno dei furbetti fiscali, invece, emerge dal calo del gettito dell'Iva (vedi grafico a pagina 112). Per spiegarlo, sostiene sempre il Nens, non basta la crisi, visto che nei mesi considerati l'Iva crolla di quasi 3 miliardi, ma i consumi su cui è calcolata aumentano. Che succede allora? "Non tutti registrano le vendite e il fenomeno sembra peggiorare", conclude lo studio.

Il grande ritorno dell'evasione si può raccontare da diversi punti di vista. C'è l'analisi delle norme varate da Tremonti. E c'è l'occupazione sistematica delle poltrone chiave nella macchina dei controlli fiscali. Ma andiamo con ordine.

Finito il boom prodiano delle entrate, le preoccupazioni degli esperti ora riguardano le dichiarazioni dei redditi che verranno presentate nel prossimo giugno da professionisti, imprenditori e autonomi. Nel presente, queste categorie hanno versato anticipi fiscali che in grande maggioranza sono calcolati sui redditi passati. Il problema è l'effetto futuro dei segnali inviati da Tremonti al popolo delle partite Iva. Sotto accusa c'è lo smantellamento, come lo definisce l'opposizione, delle misure varate per ridurre il nero.

Si tratta delle norme con cui l'Italia aveva applicato le più importanti direttive europee per la lotta al riciclaggio di denaro sporco. Regole che rendono più rischioso anche accumulare i soldi 'grigi' dell'evasione. Prodi aveva fissato un drastico divieto di usare denaro contante sopra i 5 mila euro. Oltre la stessa soglia, scattava l'obbligo di emettere assegni non trasferibili, per identificare l'effettivo beneficiario. Sempre per evitare girate di comodo, anche gli assegni 'liberi' sotto i 5 mila euro dovevano indicare il codice fiscale o la partita Iva. E per i liberi professionisti era prevista la "tracciabilità" di tutti i compensi sopra i 500 euro.

Appena tornato in sella, il 24 giugno, Tremonti ha più che raddoppiato la soglia di tolleranza per il contante: 12.500 euro. Anche gli assegni sono tornati liberamente trasferibili fino a 12.499 euro. E il limite di 500 per i professionisti è scomparso. "Così ricostruire a posteriori la provenienza del denaro è diventato impossibile", spiegano due colonnelli della Guardia di Finanza. Un consulente della Banca d'Italia riassume con amarezza la nuova filosofia: "Per favorire gli evasori, il governo accetta il rischio di ostacolare le indagini contro i patrimoni di mafiosi, bancarottieri e speculatori".

Effetti negativi derivano anche da altre contro-riforme. Con gli incentivi per la ristrutturazione ecologica delle case, Prodi aveva introdotto un meccanismo che trasforma il contribuente in alleato del fisco: per ottenere gli sconti, l'interessato doveva convincere l'azienda di turno a fatturare tutto. A fine anno, è bastato l'annuncio di una limitazione del beneficio per far tornare in nero molti lavori già eseguiti: se il vantaggio fiscale diventa incerto, meglio pagare meno e non dichiarare niente.

A completare il quadro è l'incredibile storia dell'evaporazione del comitato di esperti per la lotta al riciclaggio e ai paradisi fiscali. È l'organismo tecnico a cui la legge affida il compito fondamentale di studiare i cosiddetti "indici di anomalia": quali operazioni sono "sospette"? Quando una banca (o un avvocato, un notaio o una fiduciaria) è obbligata a denunciare il cliente? Scegliendo indici sbagliati, la guerra è persa in partenza. Per questo Bankitalia aveva selezionato quattro specialisti dal curriculum indiscutibile.

Il 28 febbraio 2008 Giovanni Castaldi, il dirigente che guida l'apposita Unità d'informazione finanziaria (Uif), comunica all'allora sottosegretario Mario Lettieri, "sentito il governatore" Mario Draghi, i nomi dei designati: Stefania Chiaruttini, consulente della procura di Milano; Gianfranco Donadio, magistrato antimafia; e i docenti universitari Emanuele Fisicaro e Donato Masciandaro.

Il 28 marzo l'allora ministro Tommaso Padoa Schioppa firma il decreto che istituisce il comitato per tre anni rinnovabili. Tre giorni dopo Castaldi comunica le nomine "con sincere felicitazioni". Con il nuovo governo, però, il decreto sembra scomparire. La prima riunione del comitato slitta da maggio a luglio, quando viene annullata senza spiegazioni. La nomina è protocollata al ministero (numero 6994) da più di dieci mesi, eppure il decreto resta nei cassetti. Ma non basta: in queste settimane gli ordini dei notai e dei commercialisti hanno ricevuto le bozze dei famosi "indici di anomalia". E chi le ha preparate, all'insaputa dei saggi? I dirigenti del ministero fedeli a Tremonti. Insomma, basta con gli specialisti esterni: la lotta al nero, il governo vuole farla in casa.

Al di là delle norme, tuttavia, la caccia agli evasori è soprattutto l'effetto del lavoro quotidiano degli ispettori dell'Agenzia e dei finanzieri. E qui si apre un secondo fronte della contro-riforma: il controllo politico della Guardia di Finanza. Chi guida i comandi centrali e territoriali è in grado di controllare anche l'ultimo dei 68.134 finanzieri. Il nuovo governo ha reso ancora più potente la cordata che era vincente già dal 2001. L'indiscusso dominus è il neo promosso generale di corpo d'armata Emilio Spaziante, già responsabile del sevizio segreto interno. Secondo fonti autorevoli, Spaziante punta a diventare il primo comandante proveniente dal Corpo. Nell'attesa, occupa la carica, considerata preparatoria, di comandante per l'Italia centrale. E i posti chiave sono tornati (o rimasti) ai suoi fedelissimi. A Milano il comandante provinciale è Attilio Iodice e quello lombardo è Mario Forchetti. Sempre Spaziante è lo sponsor del nuovo capo di stato maggiore, Michele Adinolfi, già comandante del Lazio.

Secondo testimonianze di alti ufficiali che non vogliono esporsi, la "definitiva tremontizzazione" delle Fiamme Gialle si completa con la promozione e il trasferimento dei graduati che avevano raggiunto i maggiori risultati contro evasione e criminalità economica: tutti via da città come Milano o Palermo. E trasferiti dove? In province e regioni 'rosse'.

A questo punto resta da capire come sono state attuate, in giro per l'Italia, le nuove direttive del governo. I dati nazionali sembrano smentire cali di tensione. Un esempio per tutti: nei primi undici mesi del 2008 i controlli sugli scontrini fiscali risultano in aumento del 4,6 per cento. Se si spulciano però i numeri diffusi dai singoli comandi regionali, non mancano le contraddizioni. Il caso più vistoso è la Lombardia: nel 2007 il comando regionale dichiarava 68 mila controlli, nel 2008 solo 51 mila. Sempre il comando lombardo nel 2007 annunciava di aver scoperto 12 miliardi di evasione, quest'anno si è fermato a sette. Ma Roma parla di dati provvisori, poi variati. Di qui il dubbio: quali cifre sono attendibili? Erano sballati i dati di Prodi o quelli di Tremonti? A conti fatti, più che il numero delle verifiche contano i risultati: ammende e sanzioni. E qui il dato è pacifico: il federalismo fiscale è già una realtà. I controlli sugli scontrini chiusi con multe ai commercianti sono diminuiti in regioni cruciali del Nord, come Lombardia e Veneto (vedi tabella a pagina 108). In compenso, aumentano in Sicilia e in quasi tutte le regioni rosse.
 
 

 

14 gennaio

Berlusconi ha ragione a non andare da Obama
 
Passeggiando per Roma come del resto usavano gli antichi romani, Berlusconi ha dispensato parole per tutti, mettendo insieme il Grande Fratello e Kakà, Obama e Beckam. Ma diamo a Cesare quel che è di Cesare: presidente, andrà alla cerimonia di inaugurazione del nuovo capo della Casa Bianca? «No, gli sto scrivendo una lettera di auguri. Non sono andato nemmeno a quello di Bush e poi io sono un protagonista, non una comparsa». Bella battuta, in italiano, e speriamo che nessuno la traduca in inglese. Ma per una volta, Berlusconi ha proprio ragione: lui non è una comparsa, è un paggio dell'ex amministrazione americana mentre a Washington è più facile che il 20 gennaio andranno molti protagonisti che la pensano diversamente. Niente rischi di cucù nel giardino delle Rose e di foto di famiglia con corna dietro le orecchie, Obama può tirare un sospiro di sollievo.
 
 
 
Mancano i 120 euro di accredito su oltre un terzo delle tessere distribuite ai cittadini

La grande beffa della social card
Una su tre è senza soldi

di ANTONELLO CAPORALE

La grande beffa della social card Una su tre è senza soldi

Il ministro Giulio Tremonti

ROMA - Si dice: morire di vergogna. "Avevo il Dixan in mano, anche una confezione di orzo e una scatola di tonno ma mi è venuto un presentimento: vuoi vedere che non funziona? Allora ho preso la tessera e ho chiesto alla commessa di digitare i numeri, io non vedo bene. Non era stata caricata. Avevo i soldi stretti nell'altra mano, già tutti contati, e glieli ho dati e così è finita. Non l'ho più usata". Maria Pia, 67 anni, è fuggita via dal supermercato di Viareggio rossa in viso, e meno male che non c'era nessuno in fila. Comunque in quel supermercato non ci tornerà più.

La tessera di Tremonti è di un bel azzurro sereno. Come il cielo di Forza Italia, quello di una volta. Un tricolore ondulato la attraversa da sinistra a destra e sembra la scia delle mitiche frecce. "E' anonima naturalmente per non creare imbarazzo", commentò Silvio Berlusconi il giorno dell'inaugurazione della campagna dei 40 euro mensili ai bisognosi d'Italia.

Anonima. Infatti ieri, supermercato Sma di Roma, commessa indaffarata alla cassa, signore anziano in fila: "Ha per caso la social card?". Il no è asciutto e risentito. "Scusi, ma era per capire come pagava".
Lusy Montemarian non ha pagato, anzi è scoppiata in un pianto dirotto quando le hanno comunicato, come fa il medico alla famiglia del congiunto morente, che non ce l'aveva fatta. Un pianto raccolto da una microtelecamera di "Mi manda Raitre" e unito ad altri pietosi casi. Un mattone sull'altro, e un altro ancora. Alla fine si edifica questo incredibile muro della vergogna che attraversa la penisola e la trafigge senza colpa.

La Social Card, il circuito Mastercard. Protagonisti di una favola. Una strisciata e via. La pensionata indigente che alla cassa del panificio, come la donna chic di via Condotti, apre il borsello, non tocca i soldi sporchi, ma sfila la carta di credito. Un secondo magnetico. Se la carta è piena. Se è vuota - e lo sono un terzo delle circa 500 mila distribuite - la pensionata deve restituire il pane e ritirare l'umiliazione pubblica.
 

Era il 19 giugno, era estate, e il ministro Giulio Tremonti annunciava una vecchia novità: la carta di credito per i poveri. Vecchia perché l'aveva pensata Vincenzo Visco, nell'arcaico '97: sconti sulla spesa, sugli affitti, sui beni di prima necessità. Vecchia perché l'aveva apprezzata Ermanno Gorrieri, comandate partigiano, fondatore del movimento Cristiano Sociali. Gorrieri è morto nel 2004. Nel 2008 è Tremonti a presenziare e presentare la svolta: una manovrina da 450 milioni di euro, 200 coperti dall'Eni, 50 dall'Enel, altri dalla Robin Tax. Togliere ai ricchi, dare ai poveri: 40 euro al mese, 80 euro accreditati ogni due mesi. Per un anno intero. Quattro mesi di annunci, di serrata organizzazione. Pronti. Si parte il primo dicembre. Attenzione: chi conserva 15 mila euro, in banca o alla posta, pensionato o disoccupato, non ha diritto alla carta di credito dello Stato.

Sono in 520 mila a dicembre a chiedere la social card, pensionati con reddito dai 6 mila euro agli 8 mila, coppie di anziani, famiglie con figli a carico, non oltre i tre anni però. Con una sola casa di proprietà, un'automobile e un'utenza elettrica attiva. In fila, per ore, davanti ai 9 mila uffici postali. Perché chi completava le pratiche entro il 31 dicembre, aveva diritto a 120 euro (ottobre, novembre e appunto dicembre) di partenza. Una corsa verso il nulla. Perché il 30 dicembre, con ottimismo natalizio, l'Inps - che doveva accertare il reddito - dichiarava di aver ricaricato 330 mila tessere. Le altre erano vuote.

Migliaia di italiani si sono ritrovati in mano una patacca. Una carta azzurra, di plastica, con il retro magnetico, il numero, il logo giallo e rosso della Mastercard. Belle, eccome. E di valore: si stima costi almeno 50 centesimi l'una, più 1 euro per la ricarica bimestrale, più il 2 per cento per le spese del circuito bancario. Uno scherzetto da 8 milioni e 500mila di euro, a pieno regime. Una lotteria per il mezzo milione di italiani che, soltanto alla cassa e davanti al commesso, saprà se la sua carta annonaria è buona oppure è uno scherzo del destino, se può permettere di fare la spese oppure di annunciare la propria povertà a tutti.

Duecentomila tessere vagano scoperte di tasca in tasca, sospese o respinte. Duecentomila italiani, forse di più, le possiedono senza poterle utilizzare. Alcuni (pochi) lo sanno. Altri, molti altri, che non sanno, vanno incontro alla sciagura.

Ci vuole del metodo per ideare una così lunga e inutile fatica. Prima fila: farsi certificare la povertà, la disgrazia assoluta. Seimila euro all'anno. In fila, naturalmente per vedersi attestata dal patronato la sospirata povertà. Poi l'Inps, le Poste, sempre in fila, sempre allo stesso modo. Infine, coraggio, andare al supermercato ed esibirla questa maledetta povertà. E poi, duecentomila volte finora, vederla svergognata: "La tessera non è carica". Ma ha letto bene?

Per la social card un poveretto di Catania è ricoverato (coma farmacologico) in ospedale a seguito di furiosa lite, recita un dispaccio dell'Ansa del 3 gennaio scorso, generata "dalla discussione per l'ottenimento della social card". Giovanni Spatola, imbianchino di 47 anni, si è costituito ai carabinieri confessando di aver fracassato il cranio del conoscente con una chiave inglese. Chi dei due doveva ottenere la social card? A Verona boom di ritiri. Il dato, riferisce la direzione delle Poste, è connesso alla presenza nel luogo di molti istituti religiosi. Trecento tra suore e frati si sono presentati all'incasso. Nullatenenti. Perciò potevano. A Castelletto di Brenzone, minuscolo villaggio sul lago di Garda, ne sono state elargite più di cinquanta. Come mai? Lì ha sede l'istituto delle piccole suore della Sacra Famiglia. Amen.

"Disagi e umiliazioni di ogni genere. Accreditategli questi benedetti quaranta euro sulle pensioni, così risparmierete dei soldi anche voi", ha consigliato Pierluigi Bersani ieri alla Camera al ministro dell'Economia. "E' la truffa del secolo, un flop, il più grande bluff tremontiano", dice Franco Laratta, il deputato calabrese del Partito democratico mentre raccoglie le firme per un'interpellanza urgente sulla precoce agonia di questa tesserina azzurrissima, molto patriottica con quel fascio tricolore.
 
Uno degli aspetti più indagati e allo stesso tempo meno chiari delle guerre è il punto di vista dei combattenti.

Uno degli aspetti più indagati e allo stesso tempo meno chiari delle guerre è il punto di vista dei combattenti. Non i generali pieni di stellette, ma i soldati comuni, i giovani strappati alle loro vite e precipitati in contensti dove la disumanizzazione del nemico è parte integrante del processo di rimozione che riesce, in certi casi, a rendere possibili violenze senza alcuna giustificazione. A volte, però, in questo meccanismo, qualcosa s'inceppa. E' il caso di Yehuda Shaul, 25 anni, militare israeliano dei corpi speciali. All'inizio della Seconda Intifada, nel 2000, Yehuda è stato mandato nei Territori Occupati, a Hebron in particolare. Nel 2004, alla fine del suo servizio militare, ha deciso che la gente doveva sapere quello che i militari facevano ai civili palestinesi. Ha fondato Breaking the Silence, un'associazione che si occupa di raccogliere e diffondere le testimonianze dei militari che hanno prestato servizio nei Territori. Perchè solo rompendo il silenzio attorno a questa violenza, si può capire cosa vuole davvero dire la guerra.

Yehuda ShaulI giorni dell'operazione Piombo Fuso sono drammatici per i palestinesi, ovviamente, ma anche per gli esponenti della società israeliana che non si rivedono in questa visione ella sicurezza nazionale che giustifica massacri indiscriminati.

Cosa pensa di questa guerra?
In quanto ex soldati abbiamo discusso a lungo nelle ultime settimane, migliaia di volte.
Ma sa di cosa si occupa Breaking the Silence, qual è la sua impostazione? Non sentirà mai da me, come dire, un commento sulla guerra, se questa guerra è giustificata oppure no, non è questo il compito dell'associazione. La sola cosa che penso, su quello che sta accadendo a Gaza in questi giorni, il mio modo di vedere, è che questa non è una guerra.

In che senso, scusi?
Risponderò alla sua domanda con un'altra domanda. Qual è la differenza tra quello che sta accadendo ora e quello che è accaduto otto mesi fa? In operazioni chiamate... non so... Inverno Rovente o Pioggia d'Estate. Qual è la differenza? Perché all'epoca erano semplicemente operazioni che non hanno attirato l'attenzione in Israele o all'estero, della sinistra o della destra, e adesso invece è un orrore? Qual è la differenza? Che lo Stato d'Israele l'abbia chiamata guerra? Qual è la differenza? I soldati sono entrati a Gaza otto mesi fa, un anno fa, tre anni fa, tre anni e mezzo fa, con l'operazione Giardino del Re. Basta controllare la cronaca. Ogni sei, sette mesi si ha un'invasione di Gaza. Ma non come questa. E perché? Per il numero di soldati? Non sono d'accordo. Abbiamo avuto operazioni con un numero elevato di soldati. Nella missione di otto mesi fa quasi trecento palestinesi sono stati uccisi, dopo che due bambini di Sderot erano stati uccisi dai razzi Qassam. Allora l'esercito è entrato a Gaza e quasi trecento persone sono state uccise, armate e non armate. Questa come si chiama? E nessuno ha detto niente. Per me tutto questo è uno di quei ‘segni di guerra' contro cui Breaking the Silence ha deciso di costituirsi. Quando diventi abituato al male, il male non è più tale per nessuno. Alla fine del 2003 si è avuta l'operazione chiamata Giardino del Re. L'esercito, per errore, ha demolito cinquanta case a Rafah. L'operazione è stata fermata e il comandante della divisione è stato costretto alle dimissioni. Anche nel maggio 2004 ci fu un'operazione e centinaia di case furono demolite, ma nessuno ha dovuto dimettersi. E poi, all'inizio del 2005 un'operazione in cui è morto uno dei miei soldati. Sono morti venti civili palestinesi. Ma non è successo niente, il limite si sposta sempre oltre. Così adesso puoi saltare a centinaia di vittime e hai bisogno di chiamarla guerra. Non hai bisogno di una guerra, hai bisogno solo di chiamarla guerra. Così puoi superare i limiti senza critiche. E tutto il mondo ti si stringe intorno... Credo sia solo una questione di manipolazione, un modo molto cinico di utilizzare la parola guerra, per essere autorizzati a compiere cose che non hai compiuto prima, non tanto per la qualità, quanto per la quantità. In scala. Non vedo niente più che questo. E' ovvio che questa guerra non risolverà nulla, la maggioranza degli israeliani lo sa. Non sarà la fine dei razzi Qassam, Hezbollah continuerà a lanciare i suoi razzi, Sderot e altre cittadine israeliane continueranno a essere colpite... Penso solo che tutto questo sia un pessimo segno per tutti noi, per l'intera società israeliana, per gli ebrei nel mondo, perché se non fosse stata usata la parola guerra, nessuno si sarebbe opposto, nessuno sarebbe stato così attivo nel tentare di fermarla, come adesso. Otto mesi fa, circa 270 palestinesi sono stati uccisi, e nessuno si è opposto. Vedo solo moltissimo cinismo, in tutto questo. Preferisco usare il termine operazione, perché questo è quello che credo sia, non una guerra. Siamo messi male se abbiamo bisogno di chiamarla guerra per opporci.

Quali sono, invece, le reazioni della società israeliana?
Una volta che l'hai chiamata guerra... Contro un'operazione militare puoi opporti, puoi manifestare in strada, ma quando è una guerra devi stare dalla parte del tuo Paese. E per questo che viene chiamata guerra prima di essere realmente guerra. Dovremmo indagare dentro di noi, per capire cosa è accaduto... Perché abbiamo bisogno di chiamarla guerra per batterci? A favore o contro, poi non importa. Perdi così tanto la tua sensibilità che hai bisogno di raggiungere la cifra di cinquecento persone. Riflettici un momento, cazzo, cinquecento persone! Sono cinquecento famiglie! Cinquecento mondi! Ma alla fine diventa semplicemente un numero, niente di speciale, e otto mesi fa erano 270, 280, 220, e adesso sono seicento e così via. Sono molto perplesso.

Lei, però, non è una persona normale. E' stato un soldato, che dalla sua esperienza ha deciso di rompere il silenzio. Può essere che tra i militari non prevalga un senso di smarrimento, un'idea di ingiustizia inflitta ai civili palestinesi?
Eldad, un clown di Tel Aviv che prende in giro i soldatiCosa intende? Che adesso sono i soldati le vittime della guerra? Noi non siamo gente che ha rifiutato di partire, non ci occupiamo di refusenik, siamo gente che ha deciso di denunciare, di parlare, di spiegare cosa fa l'esercito. Il mio lavoro non è analizzare la situazione politica, trovare una soluzione al conflitto tra israeliani e palestinesi. Io voglio che questa occupazione finisca perché sono stato un'occupante, perché so cosa significa. E qui comincia e finisce Breaking the Silence: noi vogliamo raccontare cosa abbiamo fatto come soldati. Sederci intorno a un tavolo, e raccontare, spiegare quali sono le conseguenze, cosa implicano operazioni come quella in corso a Gaza. So che ci sono dei membri di Breaking the Silence che ora sono stati richiamati e hanno rifiutato, come ci sono altri membri ora in servizio, ognuno decide da solo. Il nostro lavoro sarà raccontare cosa è accaduto. Gaza è sempre stata un posto estremamente diverso dalla Cisgiordania. La Cisgiordania è un asilo, al confronto. Il problema di Breaking the Silence è che noi lavoriamo in differita, in un certo senso, con uno scarto di un anno o due rispetto agli eventi, perché dobbiamo aspettare che i ragazzi finiscano il servizio militare e che prima rompano il silenzio dentro se stessi, poi si alzino a denunciare. Per cui io non posso dirti cosa sta accadendo a Gaza adesso, ma se guardo indietro nel tempo, se guardo ai membri di Breaking the Silence che hanno servito nelle varie operazioni condotte a Gaza, uno, due, tre anni fa... del tutto fuori di testa. Oltre quello che possiamo immaginare. Le operazioni a Gaza hanno raggiunto un livello di corruzione morale tale che la Cisgiordania non ha mai conosciuto. Fino a quando non avrò qualcuno che deciderà di denunciare dall'interno, di dire questo è quello che io ho fatto a Gaza, e potrò credergli, dopo avere controllato e incrociato le testimonianze, i fatti le fonti, e allora potrò denunciare come Breaking the Silence. Ma fino a quel momento, possiamo solo dire che sulla base della mia, della nostra esperienza, probabilmente qualcosa di non positivo sta accadendo a Gaza. E ognuno deve poter decidere da solo, se essere parte di tutto questo oppure no.

Da ex militare, però, si sarà posto delle domande su quale sia l'obiettivo strategico di questa operazione?
Non sono un esperto militare e non faccio analisi. Ritengo che quello che accade a Gaza non sia una questione militare. E' una questione politica. Niente a che vedere con l'esercito. Nel senso, l'esercito è lì, che agisce, ma tutto questo non riguarda l'esercito, riguarda qualcosa di veramente fondamentale nella nostra società, qualcosa di più o meno invariato dalla Seconda Guerra Mondiale. Da allora esiste una sola istituzione in Israele che elabora piani e programmi, nell'ipotesi che accada qualcosa. Questo è l'esercito. Nessun altro ministero ha una pianificazione, è incredibile. Solo l'esercito. Così si è avuta l'ultima guerra in Libano. Un soldato viene rapito, e si riunisce il governo, per capire cosa fare. Nessuno sa cosa fare. Oh, bene, l'esercito ha pronte tre operazioni, tre opzioni possibili. Come l'ebraico, l'unica lingua che so parlare, è la violenza l'unica lingua che conoscono. E' una cosa che tocca molto nel profondo il nostro modo di pensare in questa società, di risolvere i problemi. Abbiamo un problema, dobbiamo risolverlo, questa è la nostra unica opzione, anche se poi non è un vero modo di risolverlo. Rispondi nella lingua che conosci. E noi rispondiamo con l'esercito. E' l'unica lingua che comprendiamo. L'unica lingua con cui comunichiamo. Non è una questione militare. Credo sia una vergogna per questo Paese. Prendiamo razzi ogni giorno e il governo non fa niente. Puoi discutere politicamente su cosa sia meglio fare, dialogare con Hamas, invadere, bombardarli con armi nucleare, rinchiuderli tutti in carcere... Puoi discutere sul da farsi. Ma che il governo rimanga inerte, così a lungo... Hanno solo assediato Gaza, ma questo non è un fare qualcosa. E allora? Cosa fai? Non è che ripeti gli errori altrui, ripeti i tuoi stessi errori. E' veramente stupido.

Quali sono i progetti di Breaking the Silence, per il futuro?
Il futuro? Questo Paese non ha futuro... Quando la gente viene da noi, e ci chiede cosa abbiamo ottenuto, io rispondo sempre che non credo sia possibile cambiare una società in due anni, o quaranta. Ma voglio sottolineare una cosa: se fosse venuto cinque anni fa, quando abbiamo fondato Breaking the Silence, a dirmi che oggi saremmo stati seduti qui, dopo seicento testimonianze raccolte avrei solo riso. Eppure è successo. Seicento persone hanno rotto il silenzio, e credo che questo sia il grande risultato che abbiamo raggiunto, e queste seicento persone hanno amici, fidanzate, famiglie... Ma la cosa più importante è che ora le loro storie sono lì fuori, e se qualcuno è interessato a sapere cosa è accaduto qui tra il 2000 e il 2008, adesso ha seicento persone che parlano, a voce molto alta, raccontando la verità. So che può sembrare niente, ma io penso che è tutto. In Israele c'è una sola cosa su cui davvero Breaking the Silence può avere un impatto: quando verrà il giorno che la società israeliana costruirà la sua propria storia, e cercherà di capire cosa è successo in questi anni, durante la Seconda Intifada, la versione dominante sarà costretta a fare i conti con noi. Non dico che dovrà accettare il nostro punto di vista, ma come minimo confrontarsi con noi. Sono cresciuto in Israele, alla fine degli anni Novanta, e non ho mai studiato la Prima Intifada, non ho mai saputo cosa è accaduto nei Territori Occupati durante la Prima Intifada, non ne ho idea. Arriverà il giorno che la gente vorrà ricostruire la storia della Seconda Intifada, e noi saremo lì, cercando di inserire la nostra prospettiva nella storia di quello che è accaduto qui.
Ed è stato utile, ha avuto senso interrompere la mia vita e fare questo.

Lei è religioso. Nel mondo moltissimi hanno un'ottima opinione della cultura ebraica. Ma questa situazione non rappresenta un problema per l'immagine degli ebrei nel mondo?

Cosa intendi per situazione, le politiche israeliane? Sì, ma anche per i cristiani, i musulmani che vivono qui. In Israele, non all'estero, gli ebrei vengono uccisi perché sono ebrei. Poi possiamo discutere, certo, perché succede, politicamente... Ma è un fatto. Se è una continuazione del vecchio antisemitismo, o se è un fenomeno nuovo, non so, ma credo che la questione di che cosa sia il giudaismo, e chi sia l'ebreo, sia una delle ragioni per cui sto combattendo. Faccio quello che faccio perché penso che quando viene compiuto qualcosa come questo, e in tuo nome, non ti è concesso di rimanere in silenzio. Credo che quanto più ti avvicini al centro degli eventi, tanto più hai responsabilità, e questo è il punto in cui il giudaismo entra in gioco, perché tutto questo non avviene solo nel mio nome in quanto israeliano, ma nel mio nome in quanto ebreo, e nel nome di tutti gli ebrei nel mondo, e poi... E poi tocca a voi, ragazzi, nel nome degli esseri umani. Questo è il modo in cui vedo il coinvolgimento dell'intera comunità ebraica in quello che sta accadendo. Anche se non vogliono, gli ebrei nel mondo sono rappresentati da noi, perché rivendichiamo di essere i loro rappresentanti . C'è un proverbio, nella cultura ebraica: "Se taci, acconsenti". Non importa che ti piaccia o meno, sei moralmente obbligato a rispondere, a prendere posizione, sei responsabile di questa guerra. Sei moralmente obbligato ad agire. Questa è la connessione che vedo tra quanto sta accadendo e il giudaismo.

Christian Elia

 

  • TERRA TERRA   |   di Luca Fazio
    Pesticidi colposi
    Il parlamento europeo, con 624 voti a favore, 13 contro e 10 astenuti, ieri ha vietato l'uso di 22 pesticidi tossici (erbicidi, fungicidi e insetticidi) considerati a tutti gli effetti cancerogeni o «perturbatori» del sistema endocrino e riproduttivo. Un passo in avanti, se si considera che si è arrivati a votare il testo e a stilare la lista nera delle sostanze proibite dopo una lunga battaglia contro giganti dell'agrochimica come Bayer e Basf.
    «Gli ambientalisti hanno saputo resistere collettivamente a pressioni enormi», spiega Monica Frassoni, copresidente dei Verdi al parlamento europeo. Ma ancora insufficiente, poiché si tratta di appena 22 sostanze su 500 (meno del 5%), mentre gli industriali del settore fitosanitario avevano promesso la sospensione del 40% delle sostanze ritenute tossiche.
    Due fungicidi in particolare saranno vietati a partire da quest'anno, il Carbendazim e il Dinocap, in quanto esistono prove sufficienti per stabilire un nesso causale tra l'esposizione umana alla sostanza e lo sviluppo di tumori o di alterazioni genetiche, oppure il calo della fertilità (in Italia sono proibiti dal 2005); ma le autorizzazioni per certi prodotti perturbatori del sistema endocrino non scadranno prima del 2018.
    In Francia, il Movimento per il diritto e il rispetto delle generazioni future (Mdrgf) si è detto dispiaciuto per il fatto che siano state ammorbidite certe restrizioni iniziali nei confronti di alcuni pesticidi responsabili di «conseguenze neurologiche e immunologiche gravi per lo sviluppo prenatale». Altro aspetto negativo, secondo il Mdrgf, l'assenza di misure forti per proteggere i cittadini che risiedono nei pressi delle zone agricole sottoposte alla polverizzazione dei pesticidi». Di piccolo passo utile parla anche Francesco Ferrante, responsabile di Legambiente. «Questa scelta - spiega - fa ben sperare per il futuro di un settore importante come l'agricoltura biologica, ora però è necessario compiere un ulteriore passo avanti e rivedere sia le procedure autorizzative delle sostanze permesse che la normativa, attualmente inesistente, sul multiresiduo, cioé sulle sinergie legate alla presenza contemporanea di diversi principi attivi su uno stesso prodotto». In ogni caso, ce n'è di che per far infuriare Agrofarma, secondo cui la decisione del parlamento europeo è «inutilmente penalizzante» e porterà al «calo della produzione agricola italiana favorendo l'importazione di prodotti agricoli extrauropei». Agrofarma non mette in dubbio la pericolosità «in astratto» delle sostanze ma sostiene che il rischio per il consumatore vada valutato in base al livello massimo di residuo che «può essere eventualmente ingerito assieme ai prodotti agricoli consumati nel corso di una normale dieta».
    Intanto, la «madre» di tutti gli erbicidi, il Roundup della Monsanto, è stato messo sotto accusa da un nuovo studio di Gilles-Eric Séralini e Nora Benachour dell'università di Caen. Secondo gli scienziati, il glifosfato, principio attivo del Roundup, induce necrosi, asfissie e degradazioni del Dna nelle cellule neonatali tratte dal sangue del cordone ombellicale e nelle cellule della placenta. Per questo Séralini ha chiesto la pubblicazione degli esami del sangue di «ogni mammifero che abbia ricevuto l'erbicida al di fuori dai test regolamentari prima dell'autorizzazione commerciale».

     
  • In Sicilia un operatore portuale ucciso durante le operazioni di attracco di una nave
    A Trieste un operaio incastrato sotto alcuni ingranaggi. Altri episodi a Messina e Torino

    Incidenti sul lavoro, 4 vittime in 48 ore
    Sono 33 i morti dall'inizio dell'anno

    Incidenti sul lavoro, 4 vittime in 48 ore Sono 33 i morti dall'inizio dell'anno
    ROMA - Quattro incidenti mortali sul lavoro nelle ultime 48 ore, che aggravano il bilancio, già alto, delle morti bianche nel 2009: 33 i casi dal primo di gennaio a oggi. Da Nord a Sud, in questi due giorni quattro persone hanno perso la vita mentre svolgevano le loro mansioni: in Sicilia, a Trieste e a Torino.

    Sicilia. L'ultima vittima si chiama Rosario Cardile, aveva 47 anni, era dipendente del Gruppo ormeggiatori del porto di Augusta, in provincia di Siracusa). E' rimasto ucciso nel tardo pomeriggio di oggi, durante le operazioni di attracco di una nave. Un collega ha cercato di soccorrerlo: non ce l'ha fatta ed è rimasto ferito, in modo non grave. Cgil, Cisl e Uil hanno proclamato uno sciopero di 24 ore dei portuali siciliani a partire dalle 6 di domani mattina. La notte scorsa, invece, nel villaggio di Santa Margherita a Messina è morto Giovanni Puglisi, imprenditore di 63 anni. E' rimasto incastrato nella cabina di un escavatore mentre lavorava in una sua proprietà. L'ipotesi è che l'uomo abbia visto il mezzo in bilico e abbia cercato, da solo, di spostarlo, ma sia rimasto bloccato all'interno dell'abitacolo. La magistratura ha aperto un'inchiesta.

    Trieste. Stamattina Dusan Poldini, 37 anni, operaio, aveva iniziato il turno alle otto alla ferriera Lucchini-Servestal di Trieste. Alle dieci e mezza un collega lo ha trovato morto: il suo corpo era incastrato sotto alcuni ingranaggi. Aveva ferite profonde. Oggi le rappresentanze sindacali hanno proclamato uno sciopero di otto ore e hanno chiesto un incontro urgente con l'azienda per conoscere la dinamica dell'infortunio e l'attivazione del tavolo di sicurezza per verificare l'applicazione delle procedure.

    Torino. Stamattina è morto anche un operaio di 46 anni che lavorava in una cartiera della "Turincarta", a San Maurizio Canavese. L'uomo stava effettuando operazioni di manutenzione e pulizia di un nastro trasportatore, quando, secondo una prima ricostruzione non ancora confermata, un suo collega lo ha messo in azione, senza accorgersi della sua presenza. L'operaio è deceduto sul colpo, schiacciato dal nastro.
    I feriti. A Brindisi due operai sono rimasti feriti all'interno di una centrale Enel. Un altro uomo è in condizioni abbastanza gravi dopo l'incidente in un cantiere stradale nel Trevigiano.
     
     
    Schiaffo di Bush alla Rice sulla risoluzione Onu per Gaza
     
    Schiaffo di Bush alla Rice sulla risoluzione Onu per Gaza
    GERUSALEMME - Si chiude con una polemica pesante il rapporto tra Casa Bianca e Dipartimento di Stato nell'era Bush. Il retroscena rivelato oggi dal primo ministro israeliano Ehud Olmert illumina una relazione controversa tra Condoleezza Rice e George W. Bush sulla questione mediorientale, in particolare sulla vicenda dell'offensiva di Gaza. E anche la forte sintonia tra il presidente uscente e il governo di Israele.

    Parlando a Ashkelon, riferisce Afp, Olmert ha detto oggi di aver interrotto un discorso del presidente americano con una telefonata in cui gli diceva che gli Stati Uniti non avrebbero potuto votare in favore della risoluzione che faceva appello al cessate il fuoco a Gaza, che la stessa Rice aveva contribuito a stilare insieme ai rappresentanti di Gran Bretagna e Francia. Bush ha dunque ordinato alla Rice di astenersi e lei, dice Olmert, "si è vergognata". "Una risoluzione che aveva preparato e mediato, e poi non l'ha votata".

    La risoluzione, passata al Consiglio di sicurezza con 14 voti a favore e la sola astensione degli Usa, è stata poi rigettata sia da Israele che da Hamas e ignorata sul campo, dove sono proseguiti gli scontri interrotti solo dalla minitregua umanitaria di tre ore ogni giorno.

    "Nella notte tra giovedì e venerdì - ha rivelato Olmert - mentre il segretario di Stato voleva essere in prima linea nel voto sul cessate il fuoco, noi non volevamo che votasse a favore". Il premier prosegue: "Ho detto: datemi il presidente Bush al telefono. Mi hanno detto che era nel mezzo di un discorso a Philadelphia. Ho detto: non mi importa, ho bisogno di parlargli subito. Lui è sceso dal podio e mi ha risposto. Gli ho detto che gli Usa non avrebbero potuto votare a favore di quella risoluzione. Lui ha immediatamente chiamato il segretario di Stato e le ha detto di non votarla".

    Bush ha sempre attribuito ad Hamas la responsabilità del conflitto, e anche oggi ha ripetuto che la possibilità di un cessate il fuoco dipende dalla volontà di Hamas di bloccare il lancio di razzi su Israele.

     
     
    Il nuovo governo thailandese si rafforza nelle elezioni suppletive, mentre la magistratura mette la museruola a qualsiasi forma di dissenso
    Alessandro Ursic
     Migliaia di siti Internet censurati in quanto offensivi contro il re, cause di lesa maestà contro chi cerca di far luce intorno ai rapporti tra l'establishment e l'ex opposizione ora diventata governo, l'inazione della magistratura contro chi ha bloccato gli aeroporti di Bangkok e la solerzia nell'applicare la legge contro i sostenitori della parte politica opposta. Criticare il palazzo non paga di questi tempi, in Thailandia. Ma intanto i "gialli", la coalizione espressione della classe medio-alta che ha rivoltato la politica thailandese a forza di manifestazioni, oggi possono sorridere: il governo di Abhisit Vejjajiva, nato traballante solo due settimane fa, è uscito inaspettatamente rafforzato da una tornata di elezioni suppletive tenuta domenica 11 gennaio.

    Il premier Abhisit Vejjajiva si inginocchia davanti a un ritratto di re BhumibolLe elezioni. Su 29 seggi in palio, in precedenza occupati da deputati interdetti dall'attività politica per decisione della Corte costituzionale, la coalizione di Abhisit ne ha rastrellati 20 e ora può stare relativamente tranquilla. Dopo che decine di deputati avevano abbandonato la maggioranza fedele all'ex premier Thaksin Shinavatra, in un clamoroso ribaltone, il governo Abhisit era passato con 37 voti di maggioranza in Parlamento. Ma le elezioni di ieri avrebbero potuto portarlo quasi in minoranza: invece, il margine di sicurezza è aumentato. Non in modo tale da rendere il governo blindato, perché la coalizione si regge grazie al sostegno di diversi partiti minori. Nel giro di un mese, però, la forza politica che faceva riferimento a Thaksin - in esilio, ma amato dalle classe più povere - ha subito una sconfitta dietro l'altra.

    Due pesi e due misure. I "rossi", diventati improvvisamente opposizione anche se hanno vinto le ultime tre elezioni, hanno protestato più volte contro il "golpe giudiziario" che li ha privati dell'ennesimo primo ministro. Due anni fa Thaksin fu estromesso da un colpo di stato militare, a settembre Samak Sundaravej dovette dimettersi perché condannato per aver ricevuto compensi per le sue partecipazioni a un programma televisivo di cucina, un mese fa Somchai Wongsawat è stato ritenuto colpevole di frode elettorale. Dall'altra parte i leader del Pad (Alleanza del popolo per la democrazia) - protagonisti dell'occupazione della sede del governo per tre mesi e dei due aeroporti della capitale per otto giorni - sono stati arrestati e rilasciati pochi giorni dopo in ottobre. Contro chi ha paralizzato il Paese a dicembre, non è stata presentata nessuna causa. Invece, i procuratori hanno già annunciato l'intenzione di portare in tribunale i sostenitori dei "rossi" che hanno lanciato uova contro il Parlamento nel giorno dell'inaugurazione del governo Abhisit. I sostenitori di Thaksin vedono i diversi episodi come differenti pezzi dello stesso puzzle.

    Giles Ji Ungpakorn, il politologo accusato di lesa maestàLesa maestà contro i critici. Chi ha denunciato proprio questo, intanto, rischia di finire in prigione. Giles Ji Ungpakorn, un politologo thailandese che per tutte queste vicende ha avuto parole di fuoco, è stato accusato di lesa maestà. Ungpakorn aveva accusato i "fascisti" del Pad, i militari, la polizia, la magistratura e la regina Sirikit - che aveva partecipato ai funerali di un attivista del Pad ucciso in scontri con la polizia, in quello che è stato interpretato come un segnale del sostegno della famiglia reale ai "gialli" - di aver perpetrato un colpo di stato monarchico, da lui definito "il golpe dei ricchi". Potrebbe rischiare fino a 15 anni di carcere, la massima pena prevista per il reato di lesa maestà: una pena, tra l'altro, che recentemente un deputato dei Democratici ha proposto di portare a 25 anni. Al momento, si calcola che una trentina di persone stiano fronteggiando l'accusa di lesa maestà.

    Migliaia di siti fatti chiudere. Dal giro di vite non è al sicuro neanche Internet: qualche giorno fa, il ministero dell'Informazione ha rivelato che nell'ultimo anno sono stati oscurati 2.300 siti, ritenuti offensivi verso la famiglia reale, mentre un anno fa era stato addirittura oscurato YouTube, sempre per la presenza di alcuni video considerati insultanti nei confronti di re Bhumibol, al potere da 61 anni e venerato dai thailandesi. Le autorità hanno richiesto inoltre un'ingiunzione del tribunale, per far chiudere altri 400 siti. E' stato annunciato anche l'investimento di 45 milioni di baht (poco meno di un milione di euro) per creare un centro che tenga sotto controllo Internet 24 ore al giorno.

     

    La nuova giunta fa piazza pulita dei sostenitori dell'ex-presidente Conte

    scritto da
    Matteo Fagotto

    Prosegue la "campagna di moralizzazione" avviata dalla nuova leadership militare in Guinea, salita al potere il 23 dicembre scorso all'indomani della morte dell'ex-presidente Lansana Conte. I golpisti, guidati dal capitano Moussa Dadis Camara, dopo i primi giorni di incertezza hanno preso il pieno controllo del Paese, piegando la scarsa resistenza di partiti politici e sindacati, molti dei quali favorevoli al nuovo corso. La giunta militare, che promette nuove elezioni entro l'anno, si è data come primo obiettivo quello di fare piazza pulita dei sostenitori dell'ex-presidente.

    Il capitano Moussa Dadis CamaraPoco dopo la sua ascesa al potere, il capitano Camara aveva già provveduto a licenziare il generale Diarra Camara e l'ammiraglio Ali Daffe, rispettivamente capi di stato maggiore dell'esercito e della marina. Pochi giorni fa, notizie ancora non ufficialmente confermate parlavano di almeno venti arresti tra i vertici militari e i parenti più prossimi dell'ex-presidente Conte, che ha guidato la Guinea dal 1984 allo scorso dicembre. Più volte accusato di corruzione assieme al suo entourage, Conte era ritenuto il maggiore responsabile della stasi politica ed economica che ha colpito il Paese negli ultimi anni. Nonostante sia il secondo maggior produttore al mondo di bauxite, con oltre il 30 percento delle riserve mondiali, la Guinea è uno dei Paesi più poveri del continente.

    Ecco quindi che gli arresti si inseriscono nel disegno moralizzatore di Camara, il quale ha più volte dichiarato di aver preso il potere solo per dare una svolta al Paese, e di non mirare a conservare la guida della Guinea. Parole sentite fin troppo spesso nel continente, e in Guinea in particolare, dove finora i passaggi di potere tra i tre capi di stato avuti dall'indipendenza ad oggi sono sempre avvenuti attraverso golpe. Per questo motivo l'Unione Africana ha deciso di sospendere il Paese dall'organizzazione, dando alla giunta militare sei mesi di tempo per far tornare la Guinea alla legalità costituzionale. Gli Usa hanno sospeso la quasi totalità degli aiuti, e anche Unione Europea e Nazioni Unite hanno condannato il colpo di mano.

    Soldati guineaniDietro l'ufficialità, però, difficilmente la comunità internazionale si muoverà per rovesciare la nuova giunta, che ha ottenuto l'approvazione del vicino Senegal per bocca del presidente Abdoulaye Wade. Da sempre titolare anche del potere politico, l'esercito guineano era in prima fila per la successione a Conte. La classe politica e i sindacati, snervati da anni di inutili bracci di ferro con il presidente, difficilmente sarebbero stati in grado di garantire una transizione pacifica e senza intoppi. Stanca di 24 anni di malgoverno, anche la popolazione ha dato il suo sostanziale appoggio a Camara, deciso a ripulire il Paese prima di cedere il potere ai civili. Un'impresa ardua quasi quanto quella di far arrivare la democrazia in questo disgraziato Paese dell'Africa occidentale.

      

    Il bollettino settimanale delle guerre e dei conflitti in corso n. 1 - 2009 dal 1/1/2009 al 7/1/2009
    Dall'inizio dell'anno, in tutti i Paesi in guerra, sono morte almeno 919 persone.
    Il 2008 si è chiuso con un bilancio annuale di almeno 46.523 morti

    Israele-Palestina
    Dall'inizio dell'anno sono morte almeno 316 persone
    Nel 2008 i morti sono stati almeno 878

    Iraq
    Dall'inizio dell'anno sono morte almeno 122 persone
    Nel 2008 i morti sono stati almeno 10.872

    Sri Lanka
    Dall'inizio dell'anno sono morte almeno 116 persone
    Nel 2008 i morti sono stati almeno 11.144

    Afghanistan
    Dall'inizio dell'anno sono morte almeno 106 persone
    Nel 2008 i morti sono stati almeno 6.457

    Pakistan Talebani
    Dall'inizio dell'anno sono morte almeno 93 persone
    Nel 2008 i morti sono stati almeno 5.735

    Sudan
    Dall'inizio dell'anno sono morte almeno 50 persone
    Nel 2008 i morti sono stati almeno 1.273

    Somalia
    Dall'inizio dell'anno sono morte almeno 21 persone
    Nel 2008 i morti sono stati almeno 1.441

    Rep. Dem. Congo
    Dall'inizio dell'anno sono morte almeno 19 persone
    Nel 2008 i morti sono stati almeno 3.047

    Pakistan Balucistan
    Dall'inizio dell'anno sono morte almeno 18 persona
    Nel 2008 i morti sono stati almeno 254

    India Naxaliti
    Dall'inizio dell'anno sono morte almeno 14 persone
    Nel 2008 i morti sono stati almeno 638

    India Nordest
    Dall'inizio dell'anno sono morte almeno 12 persone

    Nel 2008 i morti sono stati almeno 846

    Filippine Milf
    Dall'inizio dell'anno sono morte almeno 11 persone
    Nel 2008 i morti sono stati almeno 748

    India Kashmir
    Dall'inizio dell'anno sono morte almeno 11 persone
    Nel 2008 i morti sono stati almeno 573

    Thailandia del sud
    Dall'inizio dell'anno sono morte almeno 5 persone
    Nel 2008 i morti sono stati almeno 363

    Nord Caucaso
    Dall'inizio dell'anno sono morte almeno 2 persone
    Nel 2008 i morti sono stati almeno 619

    Filippine Npa
    Dall'inizio dell'anno sono morte almeno 2 persone
    Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 272

    Colombia
    Dall'inizio dell'anno è morta almeno 1 persona
    Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 257

    Turchia
    Dall'inizio dell'anno non è morto nessuno
    Nel 2008 i morti sono stati almeno 587

    Nigeria
    Dall'inizio dell'anno non è morto nessuno
    Nel 2008 i morti sono stati almeno 519

     

     

     

     

    Sicurezza Bluff

    di Gianluca di Feo

    In aumento stupri, rapine ai negozi e sbarchi di clandestini. La tanto sbandierata lotta al crimine del governo Berlusconi non ha cambiato la situazione. Ma nessuno lo dice. In edicola da venerdì

    Militari in pattuglia a Casal del Principe
    Potevano stupirci con giochi di luce ed effetti speciali, con i soldati nelle strade e retate spettacolari. Ma alla fine le cose non cambiano: il primo bilancio della sicurezza nell'era Berlusconi è un bluff. La situazione migliora, certo. Ma i reati diminuiscono nell'identica maniera in cui stavano calando negli ultimi mesi del governo Prodi. Sì, perché i record annunciati in pompa magna da prefetti e questori sono tali solo grazie al confronto con il 2007, l'anno nero segnato dal boom dei crimini per effetto dell'indulto. La contabilità reale dell'Italia a mano armata non cambia. Anzi, in certi settori peggiora. C'è un picco di rapine contro i negozi. C'è un aumento in diverse città di quelle violenze sessuali che soltanto un anno fa avevano contribuito a far dilaniare il senso di insicurezza. E c'è un peggioramento drammatico dell'immigrazione 'clandestina' dall'Africa: 36.800 persone sbarcate nel 2008, la cifra più alta negli ultimi dieci anni. Insomma, una débâcle proprio su quel tema cavalcato dal centrodestra nell'ultima campagna elettorale.

    Banditi alla cassa Partiamo dal risultato migliore. Tutti i bilanci sbandierati per il capodanno mettono in evidenza un dato di sicuro effetto: il crollo delle rapine in banca. Tutto vero. Le statistiche che l'Ossif, l'osservatorio per la sicurezza dell'Abi (vedi box e tabella a pag.32), ha elaborato per 'L'espresso' mostrano da giugno a ottobre - i primi mesi del governo Berlusconi - un calo del 26,7 per cento rispetto allo stesso periodo dell'anno precente. Complimenti? Pochi. Perché già nell'ultimo semestre prodiano il miglioramento era stato netto: oltre il 23 per cento di colpi in meno. Insomma, persino in questo caso il cambiamento è minuscolo. E la medaglia al valore va soprattutto agli istituti di credito, che hanno incrementato le protezioni spingendo i banditi verso obiettivi meno difesi. Sono così finiti nel mirino uffici postali, supermercati e negozi. Le rapine agli esercizi commerciali sono in crescita quasi ovunque. A Milano i dati ufficiosi della questura, segnalano un boom: a metà dicembre ne erano state censite 626 contro le 460 dell'intero nefasto 2007, un terzo in più. Nella provincia di Bologna tra gennaio e novembre ne sono state contate 127 (7 per cento in più). A Napoli e a Bari le aggressioni ai negozianti sono in lieve aumento, nella capitale invece tocca alle Poste pagare il prezzo più caro. In tutta Italia però il primato negativo spetta alle farmacie. A Roma e Milano i colpi sono triplicati. Nel capoluogo lombardo si è passati da 131 a 267. Mentre i farmacisti si mobilitano, chiedendo più sicurezza, le altre categorie non danno visibilità all'allarme. Eppure erano state proprio le organizzazioni dei commercianti ad animare le proteste di piazza più clamorose contro il crimine.
     


    Indulto L'Italia delle statistiche criminali è un labirinto dove si fatica a trovare dati omogenei: di anno in anno cambiano i riferimenti territoriali e persino i criteri. È come se i numeri rispecchiassero la nostra atavica incapacità di coordinamento tra i responsabili dell'ordine pubblico. "È un caos, senza serie storiche, con procedure che risalgono all'epoca fascista", sintetizza il professor Giandomenico Amendola, autore per Liguori di 'Città, criminalità, paure': "Nessuno riesce ad avere basi per impostare una politica di sicurezza". "Quella che emerge è una criminalità a macchia di leopardo, senza aree omogenee. I dati sono controversi: diminuiscono i reati ma aumentano le persone denunciate", puntualizza Ernesto Savona, docente di criminologia alla Cattolica e direttore di Transcrime. Così 'L'espresso' ha dovuto attingere a fonti diverse. I bilanci, provvisori e parziali, di fine anno delle forze dell'ordine sono tutti positivi. C'è un dato però che tende ad uniformare le città del centro-nord: un calo dei reati totali nel 2008 tra il 15 e il 20 per cento, su cui incide soprattutto il crollo di furti e borseggi. Ed è sorprendente notare come questa flessione coincida in linea di massima con l'effetto determinato nel 2007 dall'indulto, la scarcerazione di massa senza prospettive di reinserimento che provocò un aumento dei reati predatori. A crollare ora sono le rapine in banca, i borseggi, i furti di auto: gli stessi misfatti che - come evidenzia un'analisi scientifica di Giovanni Mastrobuoni e Alessandro Barbarino del Collegio Carlo Alberto di Torino - subirono la maggiore impennata dopo la clemenza del 2006. Tra le pochissime città che possono vantare un miglioramento anche rispetto al 2005 spicca Verona. In tutta Italia, però, se si cerca di esaminare settori senza legami con l'indulto, come omicidi e narcotraffico, allora i buoni propositi svaniscono. Per gli omicidi, un orientamento arriva dal Web dove un gruppo di laureati in sociologia li censisce in tempo reale usando le cosiddette 'fonti aperte' (www.delittiimprefetti.com). Nel 2008 hanno contato 609 morti violente: solo 10 in meno dell'anno precedente. In 158 casi il movente è classificato come 'mafioso' e in 50 come rapina. Il primato di sangue va alla Campania (114) seguita dalla Lombardia (76).

    Spot marziale Il principale provvedimento show del governo è stato l'invio dei soldati nelle strade cittadine, sostenuto dal ministro Ignazio La Russa. Sono stati utili? Sicuramente, ma si è trattato di una misura essenzialmente di immagine. Il ministero dell'Interno ritiene che i tremila militari abbiano 'liberato' 1100 agenti e carabinieri. Per l'esattezza, con mille fanti davanti agli obiettivi sensibili sono stati recuperati 369 uomini delle forze dell'ordine; altri mille soldati hanno 'riscattato' 778 poliziotti dalla sorveglianza dei centri immigrati; infine altri mille sono andati di ronda nei quartieri. Mille è un numero evocativo, ma contrariamente allo spirito garibaldino di rivoluzionario si è visto poco. A Milano, per esempio, i 170 alpini che si sono alternati nei controlli di fatto hanno permesso di schierare una ventina di pattuglie al giorno. "Che senso ha impiegare l'esercito contro i piccoli spacciatori in una realtà come Torino?", commenta Fabrizio Battistelli, docente di sociologia alla Sapienza che ha appena pubblicato per Franco Angeli 'La fabbrica della sicurezza': "Non dimentichiamo che abbiano già le forze dell'ordine più numerose di tutta Europa, sarebbe assurdo pensare che tremila militari cambino la situazione". Una stima calcola che ci siano 355 mila uomini solo nei corpi di polizia nazionali: una massa che rende irrilevante il supporto dei soldati. "Le ronde miste non possono risolvere i problemi di metropoli complesse come Napoli", aggiunge il professor Amendola: "Anche un'innovazione positiva come il poliziotto di quartiere poi è stata applicata in modo sbagliato. A Napoli ce ne sono sei per vigilare su due quartieri con 200 mila abitanti". Quanto ai carabinieri e ai poliziotti 'liberati' dall'intervento dell'Esercito, senza addestramento e riqualificazione è difficile che diano contributi significativi. Ma alle forze dell'ordine mancano mezzi e uomini in tutti i reparti chiave. E non ci sono fondi nemmeno per rimpiazzare i vuoti. Secondo l'Arma, nel 2009 servirebbero 450 milioni di euro per addestramento e manutenzione mentre il bilancio dello Stato prevede solo 270 milioni: il taglio andrà a colpire soprattutto la preparazione e quindi i risultati operativi. In tutte le città si lamentano carenze di personale proprio in quei settori determinanti per la sicurezza. Il questore di Treviso Carmine Damiano ha parlato di otto volanti in meno. Riccardo Ficozzi, combattivo segretario del Siulp fiorentino, definisce "lo sforzo richiesto alla polizia" come "superiore alle nostre possibilità: per mantenere gli impegni elettorali ci avviciniamo al collasso. La richiesta di maggiore impegno, si traduce in pattuglioni straordinari e doppi turni mentre registriamo una drastica riduzione di agenti e mezzi. Firenze nel 2008 ha perso 49 poliziotti, mai rimpiazzati". Il sindacalista cita un episodio surreale: "La Squadra mobile per pedinare un criminale si è dovuta far prestare la moto da un privato cittadino".

    Violenza senza notizia L'episodio della ragazza stuprata a Roma durante il party di Capodanno patrocinato dal Campidoglio, conquistato dal Pdl grazie a una campagna martellante sulla sicurezza, ha riacceso i riflettori su questo reato, dimenticato dopo gli slogan elettorali. Ma l'anno appena chiuso non ha visto miglioramenti degni di nota. Nella Capitale il questore ha riconosciuto l'aumento degli abusi sulle donne. In Lombardia i carabinieri nel 2008 hanno registrato 583 casi, stesso numero del 2007, 22 in più del 2006. Nella provincia di Milano a fine novembre erano 208, contro i 228 dell'intero 2008. 'L'espresso' si è rivolto alla Mangiagalli, la struttura del Policlinico milanese che gestisce il Servizio di soccorso sulla violenza sessuale. Al 12 dicembre i casi erano stati 325, la stessa cifra dell'intero 2007 molti più del 2006 (vedi tabella a pag. 32). Alessandra Kustermann, responsabile del Centro violenze sessuali, spiega che mentre gli stupri 'da strada' sembrano in lieve calo, sono in aumento le aggressioni tra conoscenze occasionali. "Molte iniziative hanno dato i frutti sperati come una maggiore illuminazione notturna, gli autobus a chiamata e un aumento dei servizi pubblici. Tutti fattori che contribuiscono ad abbassare il numero delle aggressioni da parte di sconosciuti. Ma nel nostro centro registriamo un aumento degli stupri commessi da qualcuno incontrato in discoteca o presentato da amici; e sempre più spesso queste persone utilizzano le droghe dello stupro, sostanze che provocano perdita di coscienza e memoria, versate nei cocktail".

    La droga ordinaria Il settore della lotta agli stupefacenti è uno dei pochi che offre statistiche aggiornate su scala nazionale. Su questo fronte l'attenzione mediatica non sembra diminuita, anche a causa
     
    Ignazio La Russa
    dei reati causati dai tossicomani. Ma al dilagare del consumo non sembrano corrispondere attività di contrasto proporzionali. I dati ufficiali di giugno-novembre mostrano addirittura un calo delle quantità sequestrate rispetto agli stessi mesi del 2007 (vedi tabella): 14 tonnellate contro 18. Le forze dell'ordine hanno messo le mani su 3 quintali di eroina e 2,5 tonnellate di cannabis in meno. Positivo solo il bottino nella cocaina, 180 chili in più. A sorprendere però è il calo delle operazioni, 500 in meno, e soprattutto delle persone denunciate o arrestate, oltre 1700 in meno. Tutti gli esperti concordano su un fatto: in assoluto, questi dati hanno uno scarso rilievo statistico. Ne emerge però l'assenza di una mobilitazione straordinaria proprio su una materia che viene percepita come emergenza nazionale.

    Assalto alle coste Il ministro leghista Roberto Maroni ha fatto del contrasto all'immigrazione clandestina una delle priorità di governo. Finora però è stato sfortunato. Nel 2008 gli sbarchi dall'Africa sono moltiplicati, segnando un vertiginoso più 75 per cento: a Lampedusa e sulle coste di Calabria e Sardegna sono arrivati in 36.900. Sono cifre senza precedenti: i picchi del '98-'99 erano dovuti soprattutto all'emigrazione dai Balcani lungo la rotta albanese, in rapporto con il conflitto del Kosovo. Adesso invece i migranti arrivano dal Maghreb o dalla disperazione dell'Africa nera, partendo dagli scali libici riaperti dal governo di Tripoli dopo la vittoria elettorale di Berlusconi. In forte passivo anche il risultato dei rimpatri: nei primi sette mesi erano stati 4.082 su 14.420 nuovi arrivi e in tutto l'anno non dovrebbero avere superato gli ottomila. Mentre i bollettini delle questure sono pieni di espulsioni decretate ma teoriche, gli sforzi del ministro hanno permesso di noleggiare solo 38 voli charter per portare via 1199 extracomunitari.

    Paura repressa Se i reati non cambiano perché la percezione di insicurezza appare in calo? "Semplice: c'è un blackout nelle informazioni. I tg e i grandi quotidiani non ne parlano quasi più", commenta Battistelli: "Dopo due anni spesi ad esaltare ogni delitto, la materia non è più nell'agenda politica del centrodestra: non ci sono più proteste di piazza che chiedono maggiore protezione". Concorda Ernesto Savona di Transcrime: "Si è parlato molto meno di sicurezza e quindi si è creata sicurezza. Oggi la percezione del problema è di gran lunga inferiore rispetto a quanto accadeva in campagna elettorale, mentre i dati oggettivi sono sostanzialmente stabili. Ma non è un metodo solo italiano, accade così in tutti i paesi occidentali". Il professor Amendola pone l'accento su un altro aspetto: "Questo governo abbassa l'ansia tentando di contestualizzare i delitti. Se c'è un omicidio e viene presentato come una vendetta privata, un litigio passionale o un'esecuzione di mafia, così non si crea senso di insicurezza". Molti omicidi restano così con moventi sospesi. Il tabaccaio ucciso nel Lodigiano a Capodanno: rapina o vendetta? Il gioielliere ammazzato nella sua villa da una gang romena alle porte di Roma: razzia o punizione? L'effetto silenziatore è stato paradossale a Napoli con l'omicidio di Antonio Metafora, avvocato settantenne molto noto ucciso nel suo studio in pieno centro. La versione iniziale? Lite per uno sfratto: un giovane si è vendicato per l'ingiunzione contro la madre. Insomma un caso banale. Solo in un secondo momento è stato fornito un quadro diverso: il legale aveva dato lo sfratto a un garage di Secondigliano gestito dalla camorra e il killer era genero del boss Licciardi. Metafora era stato già minacciato, conosceva il pericolo ma non si era arreso, venendo punito con tre colpi di revolver: ai funerali è stato paragonato a Giorgio Ambrosoli, ma la storia è rimasta nelle cronache locali.

    La crisi criminogena Gli esperti sono convinti che il nuovo anno comporterà una sfida pesante: l'aumento dei reati predatori - furti e rapine - legato alla disoccupazione. Il questore di Treviso Damiano ha presentato lo scenario con chiarezza: "In quattro mesi hanno perso il lavoro 2500 persone, metà delle quali straniere. Mi pare evidente che gente senza lavoro, per mangiare, si deve arrangiare in qualche modo". "Il fenomeno sta emergendo con forza in Gran Bretagna, dove ci sono meno ammortizzatori sociali: la crisi sta facendo aumentare i reati di strada", spiega Savona. Ma l'impatto è stato misurato da uno studio di due professori, Riccardo Marselli e Marco Vannini: l'aumento di un punto del tasso di disoccupazione provoca 118 furti, 12 rapine e 0,2 omicidi in più ogni 100 mila abitanti. La loro analisi si spinge anche a calcolare il costo su scala nazionale per questi crimini da impoverimento: un miliardo di euro l'anno. E pensare che c'è chi teme un aumento della disoccupazione di due punti: una prospettiva, quella sì, da vera emergenza. Criminale, ma soprattutto sociale.

    Hanno collaborato Giorgio D'imporzano e Paolo Tessadri
     
    Raccolti da Reuters, i racconti della tragedia di Gaza attraverso le parole degli uomini della Croce Rossa e di Awni Al-Jaru, uomo di Gaza
    "I loro corpi puzzavano perché giacevano, là dove erano morti, da troppo tempo.
    I bambini erano deboli, troppo deboli anche per stare in piedi, perché lasciati privi dell'assistenza delle loro madri morte.
    Una donna, tagliata in due dal colpo di un carro armato.
    Due donne uccise da un missile nel cortile della loro abitazione."

    "Abbiamo tirato fuori dalle loro abitazioni più di 90 persone che erano rimaste intrappolate in casa. Il loro aspetto era orribile: sono rimasti senz'acqua e senza cibo per giorni e giorni. Lo spettacolo che si è presentato agli uomini della Croce Rossa era devastante. Abbiamo chiesto un passaggio sicuro all'esercito israeliano sin da sabato, ma il permesso ci è stato concesso solo oggi". 

    Il telefono alla radio locale squillava incessante. Richieste di aiuto e di cibo. Richieste di soccorso perché qualcuno li tirasse fuori dalle loro case che erano diventate della trappole.

     Il carro armato che ha sparato sulla casa di Awni Al-Jaru era a soli 150 metri: "Ero seduto nella mia stanza quando ho sentito l'esplosione... Sono corso in soggiorno e ho visto mio figlio Abdel-Rahim. Gli ho chiesto dove fosse la madre e il fratellino Youssuf. Ho trovato mia moglie Albina spezzata in due parti e mio figlio Youssef sbalzato contro il muro. Albina aveva il passaporto ucraino, ma non ha voluto lasciare Gaza. Youssef aveva solo 18 mesi"...

     ____________________


    Il Comitato internazionale della Croce Rossa ha diramato questo pomeriggio un comunicato molto duro contro l'eserciton israeliano. L'accusa è quella di non prendersi cura dei civili feriti sul campo e di ostacolare le operazioni di soccorso, in grave violazione delle convenzioni internazionali. Il portavoce Pierre Wettach ha raccontato che quindici morti sono stati ritrovati mercoledì nelle loro case nel quartiere di Zaytun, a Gaza, quando il permesso per il passaggio delle autoambulanze era stato rischiesto ben quattro giorni prima.

    il Comitato internazionale della Croce Rossa ha qualificato come "inaccettabile" il ritardo imposto da Tsahal (l'esercito israeliano) per autorizzare l'intervento dei soccorsi.

     

    Assassinato il direttore del più battagliero giornale d'opposizione del Paese
    Due sicari hanno assassinato questa mattina a Colombo Lasantha Wickrematunga, direttore del 'Sunday Leader': il più battagliero giornale d'opposizione dello Sri Lanka, da tempo impegnato nel denunciare la corruzione del governo nazionalista di Mahinda Rajapaksa e coraggioso critico della guerra contro la minoranza tamil.
    Per i colleghi di Lasantha e i locali attivisti per i diritti umani non ci sono dubbi: è l'ennesimo tentativo del governo di far tacere ogni voce critica. Per Reporter Senza Frontiere "il presidente Rajapaksa è da ritenere direttamente responsabile di questo omicidio".

    "Negli ultimi tempi i giornalisti indipendenti qui in Sri Lanka sono in pericolo - ricorda Vedivel Thevaraj, direttore del giornale tamil 'Virakesari' - e il mio collega e amico Lasantha, uno dei più coraggiosi, ha pagato con la sua vita. Gli attacchi politici, le minacce, le aggressioni sono sempre più frequenti. Solo pochi giorni fa una banda di uomini armati ha devastato gli impianti di una televisione accusata dal governo di scarso patriottismo per la copertura data alle vittorie dell'esercito contro le Tigri tamil".
    Da quando tre anni fa Rajapaksa è salto al potere in Sri Lanka, undici giornalisti sono stati assassinati e uno è sparito dopo l'arresto. "I responsabili di questi fatti non sono mai stati individuati e perseguiti dalle autorità governative", fa notare Poddala Jayantha, segretario generale del sindacato nazionale dei giornalisti dello Sri Lanka.
    'PeaceReporter' aveva recentemente incontrato e intervistato Lasantha Wickrematunga nel suo ufficio di Colombo. Ecco cosa ci aveva detto.

    Direttore, cosa pensa della sanguinosa guerra civile riesplosa con tanta violenza negli ultimi tre anni?
    La guerra è il principale strumento di potere del regime. Rajapaksa usa la guerra per giustificare la povertà della popolazione, le limitazioni alla libertà di stampa e perfino la violazione dei diritti umani.

    Il governo di Rajapaksa viola i diritti umani?
    Poliziotti, soldati e agenti governativi commettono gravi crimini contro i civili tamil: rapimemti, torture, esecuzioni extragiudiziali, violenze, stupri, bombardamenti di obiettivi civili. Anche le Tigri tamil, che sono un gruppo armato illegale, commettono gravi crimini, ma il governo, che in quanto tale deve rispettare le leggi internazionali, non può farlo!

    Perché la popolazione continua a sostenere la guerra?
    La povertà spinge migliaia di giovani singalesi ad arruolarsi come volontari per il fronte solo per i soldi. L'opinione pubblica è vittima della massiccia propaganda militarista del governo e nella società civile non esistono più movimenti pacifisti che la contrastino. Non parliamo del clero buddista, tradizionalmente nazionalista e favorevole alla guerra.

    E la stampa? La televisione? Anche loro schierati con il governo?
    In Sri Lanka non c'è libertà di stampa. Non c'è censura formale, ma ogni voce fuori dal coro viene duramente attaccata dal governo, intimidita, minacciata e spesso fisicamente aggredita. Questo basta a a ridurre al silenzio le voci critiche e a imporre un'efficace autocensura".

    Anche per lei?
    Io non mi faccio intimidire. So di rischiare, ma continuo a fare il mio lavoro. Lo scorso novembre una banda di scagnozzi del governo ha incendiato le rotative del mio giornale. Tempo fa ho addirittura avuto l'onore di ricevere una breve telefonata del presidente Rajapaksa che mi disse, non me lo dimentico, "Figlio di puttana, ti distruggerò!"

    Enrico Piovesana

     

    13 gennaio

     

    Quello che non sapete su Gaza

    di Rashid Khalidi

    Quasi tutto quello che siete stati portati a credere su Gaza è sbagliato. Alcuni punti essenziali sembrano mancare dal discorso, svoltosi per lo più sulla stampa, circa lattacco di Israele alla striscia di Gaza.

    Il popolo di Gaza
    La maggioranza di chi vive a Gaza non è lì per scelta. Un milione e cinquecentomila persone stipate nelle 140 miglia quadrate della striscia di Gaza fanno parte per lo più di famiglie provenienti dai paesi e dai villaggi attorno a Gaza come Ashkelon e Beersheba. Vi furono condotte a Gaza dall'esercito israeliano nel 1948.

    L'occupazione
    Gli abitanti di Gaza vivono sotto l'occupazione israeliana dall'epoca della Guerra dei sei giorni (1967). Israele è tuttora considerata una forza di occupazione, anche se ha tolto le sue truppe e i suoi coloni dalla striscia nel 2005. Israele controlla ancora l'accesso all'area, l'mport e l'export, e i movimenti di persone in ingresso e in uscita. Israele controlla lo spazio aereo e le coste di Gaza, e i suoi militari entrano nell'area a piacere. Come forza di occupazione, Israele ha la responsabilità di garantire il benessere della popolazione civile della striscia di Gaza (Quarta Convenzione di Ginevra).

    Il blocco
    Il blocco della striscia da parte di Israele, con l'appoggio degli Stati Uniti e dell'Unione Europea, si è fatto sempre più serrato da quando Hamas ha vinto le elezioni per il Consiglio Legislativo Palestinese nel gennaio 2006. Carburante, elettricità, importazioni, esportazioni e movimento di persone in ingresso e in uscita dalla striscia sono stati lentamente strozzati, causando problemi che minacciano la sopravvivenza (igiene, assistenza medica, approvvigionamento d'acqua e trasporti).

    Il blocco ha costretto molti alla disoccupazione, alla povertà e alla malnutrizione. Questo equivale alla punizione collettiva col tacito appoggio degli Stati Uniti- di una popolazione civile che esercita i suoi diritti democratici.

    Il cessate-il-fuoco
    Togliere il blocco, insieme con la cessazione del lancio dei razzi, era uno dei punti chiave del cessate-il-fuoco fra Israele e Hamas nel giugno scorso. L'accordo portò a una riduzione dei razzi lanciati dalla striscia: dalle centinaia di maggio e giugno a meno di venti nei quattro mesi successivi (secondo stime del governo israeliano). Il cessate-il-fuoco venne interrotto quando le forze israeliane lanciarono un imponente attacco aereo e terrestre ai primi di novembre; sei soldati di Hamas vennero uccisi.

    Crimini di guerra
    Colpire civili, sia da parte di Hamas che di Israele, è potenzialmente un crimine di guerra. Ogni vita umana è preziosa. Ma i numeri parlano da soli: circa 700 palestinesi, per la maggior parte civili, sono stati uccisi da quando è esploso il conflitto alla fine dello scorso anno. Per contro, sono stati uccisi 12 israeliani, per la maggior parte soldati. Il negoziato è un modo molto più efficace per affrontare razzi e altre forme di violenza. Questo sarebbe successo se Israele avesse rispettato i termini del cessate-il-fuoco di giugno e tolto il suo blocco dalla striscia di Gaza.

    Questa guerra contro la popolazione di Gaza non riguarda in realtà i razzi. Né riguarda il ristabilire la deterrenza di Israele, come la stampa israeliana vorrebbe farvi credere. Molto più rivelatrici le parole dette nel 2002 da Moshe Yaalon, allora capo delle Forze di Difesa israeliane:Occorre far capire ai palestinesi nei recessi più profondi della loro coscienza che sono un popolo sconfitto.

     

    Ci salvera dallorrore Bianca Jagger?

    Lo stupefacente silenzio delle diplomazie sulle pratiche belliche israeliane e stato rotto nei giorni scorsi da una socialite di qualche decade fa, ovvero la un tempo famosa ex moglie di Mike Jagger, Rolling Stones. A lei e toccato l'onere di riprendere pubblicamente le osservazioni formulate ai media internazionali dal responsabile UNRWA a Gaza al momento del bombardamento di una scuola delle Nazioni Unite: l'accorato ed emozionale appello al rispetto delle Convenzioni internazionali e al lavoro delle Organizzazioni umanitarie era infatti caduto nel più cinico ed ottuso disinteresse.

    E cosi toccato ad una ormai anziana ma volenterosa signora raccogliere questo richiamo disperato che ci richiama addirittura alla meta dell'Ottocento quando l'ottimismo positivista fece si che con Croce Rossa e via via altri strumenti ci si ponesse il problema di circoscrivere gli effetti della guerra tra i civili, ma anche tra i militari.

    Ma, ed e questo il punto, appare ormai chiaro che la litania sul carattere democratico di Israele, che può liberamente sostituire Sharon con Olmert e magari promuovere al premierato il Ministro degli Esteri ed ex agente del Mossad Livni, ha definitivamente trascolorato in una assoluta impunita per quanto attiene al rispetto non solo delle Convenzioni internazionali ma anche di quanto resta dell'opinione pubblica mondiale che non ama vedere donne e bambini maciullati in televisione. Magari alora di pranzo.

    Questo brutale punto e perfino più chiaro della conta dei mille morti, quasi esclusivamente civili inermi, e dei quasi quattro volte tanto feriti in nome di quella che rischia almeno in termini di casualties di essere la risposta fuori misura ad una poco più che puntura di spillo anche se a colpi di missili. Detto in altri termini una conta dieci ad uno, cento ad uno che ricorda altri tempi e logiche da quel Massacro di Nanchino attuato dall'esercito nipponico ai danni di un'intera città.

    Ma non e tutto. Esiste un solo esercito al mondo ed un solo Governo - che può ufficialmente e di forza escludere i media ed in particolare i giornalisti dal teatro di guerra: questo e quello che si fregia della Stella di David. Ebbene ciò e inaccettabile tanto quanto il mancato rispetto delle norme e degli usi internazionali.

    L'oscuramento informativo, comunque giustificato, produce e sempre più produrrà mostri e morti.

    Ed allora, arrivati fin qui e proprio nel momento in cui il dibattito su un altro orrore del diritto quello di Guantanamo entra in una qualche fase se non decisionale almeno di esplicito ripensamento, pare giunto il momento di indagare non più sul conflitto, sulle sue ragioni e sui suoi possibili esiti, quanto sulla latitudine che e stata concessa incautamente e colpevolmente ad Israele: questa, infatti, dopo aver completamente archiviato un'epopea di riscatto che poteva godere di una qualche simpatia, ha da tempo intrapreso la via di una inaccettabile e comunque non giustificabile brutalità ed indifferenza verso i diversi.

    E quanto si può riscontrare con una semplice passeggiata non nelle zone calde e contese, bensì nella stessa Gerusalemme ove gli Arabi, anche cittadini, sono trattati come esseri inferiori e disprezzabili. Non occorre ricordare come ciò sia gia avvenuto, e cosi le decimazioni e cosi i massacri.

    Ma questa e una via che non soltanto Bianca Jagger, ma molti altri nel mondo soprattutto fuori dalle Cancellerie, non sono disponibili a ripercorrere.

     

    8 gennaio

     

    Pubblichiamo il rapporto odierno di Sameh Habeeb, che risiede a Gaza City, attivista del movimento per la pace, e giornalista free lance, Samehd collabora con l'agenzia Ramattan News Agency, un media regionale che trasmette dalla Striscia di Gaza. Dopo aver ricevuto il suo "report" di oggi abbiamo tentato di contattarlo telefonicamente e via mail ma non abbiamo avuto ancora una risposta.

    GAZA CITY 9° giorno - La situazione umanitaria è catastrofica. 509 le vittime dei bombardameti e oltre 2600 feriti. Si registrano tantissimi morti tra i civili e il loro numero aumenta di ora in ora sotto i bombardamenti che adesso arrivano dall'artiglieria di terra, dalle navi delle marina e dalle incursioni degli F-16 e degli elicotteri Apache. I militari israeliani hanno aperto cinque varchi nel paese, nel nord hanno attraversato la città di Ertiz, mentre un altro convoglio si è aperto un passaggio superando la cittadina di Bait Lahia diretti verso il quartiere di Doghit. A sud est di Gaza city  i carri armati avanzano dalla direzione di Al Muntar e Nahal Oz per raggiungere e prendere il controllo di una delle strade principali, la Slah Al Edin. Nel Sud, invece, le truppe israeliane hanno occupato gli avamposti militari dell'aeroporto.
    Secondo alcune testimonianze è probabile che l'esercito israeliano stia facendo uso delle temibili bombe al fosforo, inoltre nuovi tipi di arma sarebbero usate per la prima volta dai militari.

    Nella città di Bait lahi, una granata ha ucciso 17 persone, dei quali la maggior parte civili. Tra loro anche bambini e il personale medico di un ambulanza sono rimasti uccisi. La benzina e il gas sono terminati, mentre moltissime zone della città sono senza elettricità e acqua potabile.  Difficile anche comunicare in quanto la  linea telefonica è fuori uso e la copertura per i telefoni cellulari è assente. La città di Gaza è completamente isolata da tutto e da tutti. Considerando la carenza di personale medico, anche gli studenti di medicina sono stati sollecitati a prestare il loro aiuto negli ospedali che sono al collasso, nonostante i farmaci reperibili sono pochissimi. Ed è proprio all'interno degli ospedali che si capisce che le vere vittime di questa operazione militare sono i civili. Dall'inizio dell'incursione via terra ne sono stati uccisi 70 oggi, e solo 10 di questi erano miliziani di Hamas. Così il totale delle vittime sale a 509. Un soldato israeliano, invece, è rimasto ucciso da un colpo di mortaio sparato dai militari di hamas nell'area di Beit Lahiya.

    Ecco alcuni risultati dell'operazione militare israeliana "piombo fuso" di oggi

    L'aviazione ha bombardato i serbatoi dell'acqua potabile che fornisce tutto il comprensorio di Jabal al Kashif a est della città di Gaza. Missili terra aria hanno bombardato un'abitazione a Nasir a nord ovest di Gaza uccidendo i figli del proprietario. Una vasta operazione di artiglieria ha raggiunto case e edifici vicino Al Jabal kashif nella parte settentrionale della striscia di Gaza, e quattro palestinesi sono stati uccisi a Rafah vicino le frontiere egiziane dal fuoco israeliano. Un F-16 ha colpito un'abitazione nel quartiere di Janinai, nella cittadina di Rafah. Diverse persone sono rimaste ferite. Intanto continua la massiccia emigrazione dal campo profughi di Jabilai e anche da quello di Al Nusairat dove migliaia di persone stanno tentando di mettersi in salvo. A Shija'ya un razzo ha colpito un'altra abitazione uccidendo una donna il figlio e un uomo anziano. L'artiglieria ha aperto il fuoco a Gaza a Zaytoun contro un panificio affollato dalle famiglie in fila per acquistare quel poco pane reperibile. Un morto e decine di feriti. Il bombardamento ha distrutto completamente il negozio che successivamente ha preso fuoco.
    Sempre a Zaytoun gli elicotteri Apache hanno sparato  su un gruppo di civili. Molte persone sono state uccise e altre ferite. ma l'artiglieria ha preso di mira anche un complesso  urbano nella periferia di Gaza nei pressi del mercato generale, dove diversi edifici sono stati danneggiati. Il rapporto medico parla di un numero imprecisato di morti e feriti.

    A Barbakh quattro palestinesi tutti fratelli della stessa famiglia  sono rimasti uccisi da una granata che ha colpito la loro casa nella città di Yonis Kahn. Un F-16 ha bombardato anche il ministero degli affari religiosi in uno dei quartieri più popolati di Gaza city. Anche qui si parla di almeno un centinaio di feriti. A Jabalia una donna è morta nella sua abitazione colpita da un missile e stessa sorte è toccata a due bambini che si trovavano all'interno della loro casa in località Al Mashrawi. Altri 17 persone sono state uccise da un missile nella città di Lahia a nord di Gaza. Tra di loro c'erano due ragazzi di 20 anni con persone anziane. Tra le vittime riconosciute; Osama Sliman, Abu Mueen Aljdya, Abu Ahmed sltan, Abu Hamaoda Sultan, Ali Al Sous, Muhammad al Atar e Ahmed Tantish.

     Secondo testimoni oculari i carri armati israeliani avrebbero impedito alle ambulanze di arrivare nel luogo per soccorrere i feriti. A ovest della città di gaza una madre con i suoi 4 figli sono morti dopo essere stati colpiti da un razzo lanciato da un F-16. Tre paramedici sono morti mentre viaggiavano nella loro ambulanza vicino a Shikh Ejlin da un colpo di mortaio. Il personale medico avrebbe dovuto portare soccorso ad una famiglia colpita al Mahrosa hall, che versava in condizioni gravissime. Un'altra famiglia colpita da una granata nel campo profughi di Shati è stata soccorsa ma le loro condizioni sono critiche. Secondo le fonti sanitarie dell'ospedale a Shgifa alle 18 di questo pomeriggio i feriti giunti al pronto soccorso sarebbero 50. Ma i medici riferiscono che a tanti non è stato possibile prestare soccorso, altri non hanno il coraggio di raggiungere l'ospedale per paura di morire durante il tragitto. I medici hanno fatto un appello umanitario per la donazione di sangue  per far fronte a un numero così elevato di feriti che versano in condizioni gravi.

     

    La connivenza internazionale
     
    di Zvi Schuldiner

    Più le forze israeliane avanzano nella loro distruttiva spedizione a Gaza, più si fa urgente mettere fine a questa criminale crociata. Ma c'è da chiedersi se esista una comunità internazionale interessata a fermare le ostilità - o se l'offensiva israeliana non possa continuare proprio grazie alla connivenza di vari attori mondiali. Gli Stati uniti, e non pochi altri governi, sembrano ben soddisfatti del lavoro sporco che l'esercito israeliano sta realizzando a favore di «un mondo migliore e con meno terroristi fondamentalisti».
    Il governo israeliano ha ripetuto in diverse occasioni di voler mettere fine agli attacchi nel sud di Israele. Poi ha aggiunto che questo implica anche prevenire il contrabbando di armi nella striscia di Gaza, giacché missili come i Grad - che arriverebbero dall'Iran - sono una minaccia per la popolazione israeliana. La destra israeliana continua a chiedere di mettere fine al governo di Hamas, tout court. La maggioranza del governo sembra sapere che questo sarebbe un grave errore: ma ciò non significa che l'offensiva non possa innescare una situazione in cui la caduta di Hamas sarà inevitabile. Alcuni, come il grandemente corrotto Mohammad Dahlan, il leader palestinese che dominava Gaza fino a quando è stato defenetrato dalla rivolta di Hamas, già si illude di poter tornare al potere.
    A Damasco Khaled Meshal, leader dell'ala politica di Hamas, tenta contatti che portino a un cessate il fuoco: ma alcune delle condizioni, come aprire il valico di Rafiah, non sono accettabili per Israele, l'Egitto né per l'Autorità palestinese se Hamas non modifica le condizioni dell'apertura. meshal dice una cosa significativa rispetto alla situazione generale: non pensavamo che lanciare quei missili, non così terribili, avrebbe provocato una reazione israeliana delle proporzioni attuali.
    A Ramallah, il presidente Abu Mazen denuncia con toni energici l'azione israeliana ma è difficile per la leadership dell'Olp nascondere la sua soddisfazione di fronte ai colpi inferti a Hamas. Peggio: il Consiglio di sicurezza dell'Onu, che doveva discutere la situazione a gaza lunedì notte, ha rinviato la sessione a mercoledì proprio su richiesta di Abu Mazen, che ha addotto di dover aspettare nella regione l'arrivo del presidente francese Nicolas Sarkozy.

    I vicini di casa
    L'Egitto ha visto fallire i suoi tentativi diplomatici su due fronti: non è riuscito a far accettare ad Hamas alcuni elementi dell'iniziativa egiziana per un cessate il fuoco (Hamas considerava di poter dettare condizioni migliori), e allo stesso tempo non è riuscito a portarla a negoziare con al Fatah per costruire l'unità nazionale. Per gli egiziani, Hamas rappresenta un doppio pericolo: da un lato è un alleato dei Fratelli musulmani in Egitto, dall'altro è una punta di lancia dell'Iran. La presenza di Mashal a Damasco significa che i siriani sono parte di un asse Hamas-Hezbollah-Iran-Siria: e questo spiega la molto moderata condanna dell'offensiva israeliana da parte dei paesi arabi: indebolire hamas darebbe grande soddisfazione non solo all'Olp ma anche a paesi arabi che vedono in quell'asse alleati all'Iran un pericolo per i rispettivi regimi.

    La «comunità» internazionale
    Non è casuale che l'offensiva israeliana sia cominciata poco prima che George W. Bush lasciasse la Casa bianca. L'amministrazione Bush avvalla l'azione di Israele, ostacola possibili movimenti diplomatici e preme sugli alleati europei perché si attengano alla stessa linea. Obama per ora tace - la scusa ufficiale è che non ci sono due presidenti. La presidenza céca dell'Unione europea è un triste riflesso della posizione americana, quando dichiara che quella di Israele è un'azione «difensiva».
    Di fronte all'immobilità americano-europea, brilla il presidente Sarkozy, anche se forse si limiterà a brillare. il presidente francese cerca di ridare una posizione di importanza internazionale al suo paese e sa che la chiave potrebbe passare attraverso l'egitto, con una certa elasticità della siria e la collaborazione attiva della turchia.
    Un cessate il fuoco potrebbe essere raggiunto a partire da una iniziativa che l'Egitto ha cominciato a elaborare, con un ritorno dell'Autorità palestinese e degli europei al passo di Rafah (da cui erano stati espulsi da hamas) e un controllo stretto del contrabbando alla frontiera egiziano-palestinese, quasta volta con forze internazionali.
    L'azione israeliana, criminale e sventata, è resa possibile da un teatro internazionale che deve preoccupare quanti sperano di uscire da questa situazione. Non basta sperare nel «miracolo Obama», bisogna cominciare a studiare a fondo cosa fa oggi degli Stati uniti e dell'Europa un baluardo dell'offensiva occidentale contro i popoli oppressi.
    Chi voglia davvero ricostruire un campo pacifista e della sinistra europea non può continuare a pensare in «guerre difensive», «terrorismo», fondamentalismo nei termini usati in questi giorni, in un quadro che legittima la criminale guerra scatenata dal governo israeliano con il pieno appoggio di Bush e dei suoi simili.
     
     
    Il dr. Gilbert: armi terribili contro i civili. Ospedale in ginocchio

    «A Beirut, nel 1982, sono stato testimone di orrori che pensavo non avrei mai più rivisto. E invece, 27 anni dopo, a Gaza la situazione dei palestinesi è ancora peggiore. Il governo israeliano dice che il 90% degli obiettivi distrutti sono quelli prestabiliti, ma oltre il 90% dei feriti che curiamo è rappresentato da civili: allora sono proprio i civili che vogliono colpire». Specializzato in anestesia e medicina d'urgenza, da anni Mads Gilbert cura le ferite dei palestinesi: quando il 6 giugno 1982 Israele invase il Libano dando l'avvio all'operazione «Pace in Galilea», era al «Gaza Hospital» di Shatila, dove assieme ad altri camici bianchi arrivati da mezzo mondo contribuì a salvare la vita a combattenti di Fatah e a tanti civili colpiti dai bombardamenti israeliani e dalla furia dei falangisti libanesi. Arrivato nel principale ospedale di Gaza city il 1 gennaio, fino a ieri ad aiutarlo c'era solo il cardiochirurgo Eric Fosse, anch'egli norvegese. Nel pomeriggio Israele ha fatto passare dal valico di Erez un gruppo di dottori stranieri che, assieme ai colleghi palestinesi, tenteranno di alleviare parzialmente quella che ieri la Croce rossa internazionale ha definito «una crisi umanitaria esplosa in pieno». Per Gilbert, che abbiamo raggiunto al telefono, quello contro Gaza è un «attacco brutale, inaccettabile, non necessario, senza speranza, contro la dignità umana e il diritto degli essere umani a vivere in pace. Siamo gli unici occidentali: hanno messo in atto un piano per calare il sipario sulla libertà di parola, i diritti umani e le convenzioni di Ginevra. Un enorme atto criminale».
    Dottor Gilbert, qual è la situazione nell'ospedale Shifa?
    È un disastro totale: anche oggi i feriti arrivano senza sosta. Le ambulanze entrano con i feriti dal portone d'ingresso e ripartono dal varco d'uscita trasportando i cadaveri di quelli che non siamo riusciti a salvare. Non abbiamo mezzi né personale sufficiente a fronteggiare una situazione simile. L'ospedale Shifa è in ginocchio e la responsabilità è del lungo (18 mesi ndr) assedio israeliano contro Gaza che ha preceduto l'attacco e i massacri di questi giorni.
    Quali sono le principali operazioni che state effettuando?
    Curiamo tantissime ferite causate da esplosivi, in genere molto estese e localizzate nella parte inferiore del corpo. Molti arrivano con amputazioni estreme, con entrambe le gambe spappolate. Abbiamo ferite da frammenti di proiettili: abbiamo appena finito di operare un bambino di cinque anni con ferite di questo tipo al fegato. Ma molte persone con queste patologie non possiamo più accoglierle: il nosocomio è strapieno e i parenti sono costretti a riportarsi a casa questi malati gravi.
    Quanti feriti avete operato finora?
    Non ho potuto contarli, ma sono centinaia. Lavoriamo mentre le esplosioni si susseguono, una dopo l'altra. È un'atrocità, un attacco inumano contro la popolazione palestinese indifesa. Il problema immediato a Gaza ora non è il personale medico né le medicine, ma fermare immediatamente questi bombardamenti che stanno massacrando il popolo palestinese.
    Avete curato combattenti di Hamas?
    Fino ad oggi solo un paio. Il 99% dei pazienti è rappresentato da civili, la maggior parte dei quali bambini e donne. Oggi i bambini feriti sono stati più di 900, ieri circa 800.
    Il Times di Londra ha denunciato l'utilizzo di bombe al fosforo bianco. Ha notato bruciature particolari sui corpi dei pazienti?
    Non abbiamo riscontrato ferite da fosforo bianco, ma quelle che io sospetto siano ferite da armi Dime (Dense inert metal explosive, proiettili che causano esplosioni particolarmente concentrate, ndr) già utilizzate, nell'estate 2006, prima in Libano e poi a Gaza. Si tratta di ordigni che hanno un enorme potenziale esplosivo che si concentra in un'area limitata dal punto in cui avviene l'esplosione e distruggono completamente i corpi delle vittime.

     
     

     
    Dietro il braccio di ferro commerciale Mosca e Kiev le pressioni contro il filo-occidentale Yushchenko
    La guerra del gas tra Russia ed Ucraina ha cominciato a far sentire i suoi effetti nell'Unione Europea, dove le consegne di gas russo sono crollate colpendo dodici paesi.

    Centro di controllo alla GazpromDomani negoziati a Bruxelles. Il colosso Gazprom ha ridotto del 90 per cento le esportazioni verso Kiev. Il gruppo francese Gdf Suez ha annunciato che ieri le consegne erano diminuite "di oltre il 70 per cento in Francia", in rapporto alle condizioni normali. Ma la Francia importa il 15 percento da Gazprom, di contro a Germania che ne importa il 44 percento e a Italia con il 37 percento. Nonostante l'Italia abbia ricevuto il 10 per cento del proprio approvvigionamento, il portavoce del ministro per lo Sviluppo economico Scajola ha riferito che lo stoccaggio del nostro Paese è al 90 percento, e in caso di necessità esistono altre fonti di approvigionamento. Le consegne verso Croazia, Grecia, Bulgaria ed Ungheria sono interrotte. Davanti a questa situazione, la Commissione europea ieri ha chiesto che "le consegne di gas vengano ristabilite immediatamente". Gazprom ha annunciato che Mosca terrà dei negoziati con i partner europei l'8 gennaio a Bruxelles.

    Ingrandisci immagineLa guerra del gas non è solo una guerra economica.Un quarto delle forniture di gas dell'Europa proviene dalla Russia. L'80 percento passa dall'Ucraina attraverso un network di gasdotti di epoca sovietica. Il primo gennaio la Russia ha tagliato le forniture a Kiev affermando che il debito ucraino è di oltre 600 milioni di dollari. Mosca vuole anche alzare le tariffe, portandole a 450 dollari per mille metri cubi, più del doppio di quanto Kiev è disposta a sborsare. I russi accusano inoltre gli ucraini di rubare 65 milioni di metri cubi destinato all'Europa. Il presidente ucraino Viktor Yushchenko accusa Mosca di usare la leva energetica per rovesciarlo in quanto filo-occidentale. L'Ucraina preme da anni per entrare nella Nato e nell'Unione Europea, e il Paese ha attraversato diverse crisi istituzionali, ultima delle quali a novembre, quando il Primo ministro Yulia Timoshenko ha appoggiato la proposta di legge del Partito delle regioni di Yanukovich tesa a limitare le prerogative presidenziali, innescando una paralisi che durerà fino alle prossime elezioni, che verranno indette entro giugno. Federico Bordonaro, analista politico e direttore del sito di informazione di geopolitica 'Power and Interests News Report', sostiene che sul braccio di ferro tra Mosca e Kiev si proietti un Europa la cui politica è tutt'altro che unitaria.

    Qual'è la posizione dell'Unione Europea di fronte alla crisi?

    Yushchenko e TimoshenkoL'Unione Europea è divisa tra un asse che possiamo chiamare continentalista capeggiato da Germania, Francia, Spagna e Italia, che vedono in Mosca un partner strategico con cui intraprendere non solo rapporti legati alla questione sicurezza in tutta la fascia dell'Europa orientale, del Caucaso e dell'Asia centrale, ma anche di collaborazione energetica, data la stretta interdipendenza tra Europa e Russia. L'altro asse ha il suo alfiere nella Polonia, nei Paesi baltici, nell'Ucraina - quella parte di Ucraina filo-occidentale - e nella Repubblica Ceca, che ha anche la presidenza di turno dell'Unione Europea. Questi ultimi Paesi sono spesso appoggiati da Gran Bretagna e Svezia, che in questo momento sono un po' più cauti, e Stati Uniti, anche loro relativamente silenti perchè in una fase di transizione. L'Ucraina è il terreno di battaglia. L'Europa che si presenta al tavolo della trattativa con Russia e Ucraina non è un'Europa monolitica, ma con due approcci: uno più incline ai russi, l'altro più rigido, poichè non vuole rinunciare all'Ucraina come membro della Nato e della Ue. Per i Paesi come la Polonia e i Paesi baltici allontanare la frontiera russa è una questione strategicamente rilevante: significa avere un cuscinetto garantito dalla presenza Nato - e quindi statunitense - ed espandere il loro sistema Paese, dal punto di vista economico, finanziario ed energetico. L'Ucraina è un grande mercato e una risorsa di manodopera specializzata di alto livello.

    Quando si sbloccherà il braccio di ferro?

    E' probabile che la situazione si sblocchi in poco tempo, anche perchè Russia e Ucraina si stanno screditando entrambi. Se i russi forzano la mano rischiano che gli europei possano orientarsi, per scongiurare nuove crisi come questa, a percorsi alternativi, come il progetto di gasdotto 'Nabucco', raffreddando il loro interesse per South Stream e North Stream. Una posizione troppo rigida da parte dell'Ucraina non gioverebbe alla sua credibilità come nuovo eventuale membro dell'Unione Europea. Dato che Gazprom ha bisogno di soldi, essendo fortemente indebitata, ciò che potrebbe avvenire è che il prezzo che gli ucraini dovranno pagare per il gas aumenterà, magari in modo graduale e non brutale.

    Come è successo con la Bielorussia il mese scorso...
    Sì, quando i prezzi sono aumentati di poco, e Lukashenko ha offerto come contropartita il riconoscimento di Ossezia del Sud e Abkhazia.

    In conclusione, l'obiettivo politico della guerra del gas è altrettanto importante rispetto a quello economico di Gazprom di 'far cassa'.
    La Russia vuole impedire che Kiev entri nella Nato, far fuori Yushchenko e creare un'Ucraina post-arancione. Può riuscirci in due modi: o facendo vincere Yanukovich con il suo Partito delle Regioni o cercare di sostituire Yushchenko con la Timoshenko, ed è forse questa la strada più percorribile.

    Luca Galassi
      

     

    Le acque dorate del Perù
    di Fulvio Gioanetto
    Cajamarca, regione andina del nord del Perú. La «città delle spine» in lingua quechua, acclamata nei depliant turistici come «autentica città del carnevale peruviano», è una regione cresciuta in fretta e in modo incontrollato. Quarta nelle statistiche nazionali per la produzione di latte, terza per livelli di denutrizione. Il «benessere» qui è arrivato con l'estrazione mineraria. Nel giugno 2000 la regione è balzata alle cronache per una grave contaminazione da mercurio nel distretto di Choropampa, quando un migliaio di famiglie sono rimaste intossicate e una trentina di abitanti sono morti (www.foei.org). La stampa la definì «la maggiore e più grave contaminazione da mercurio inorganico mondiale». Padrona e signora delle ricchezze minerarie della regione (oro, rame, argento, zinco, piombo) è la famiglia Benavides, socia azionista della Newmont Mining Corporation che controlla ormai il 60% dell'estrazione d'oro in Perù. Il distretto di Encañada, dove opera la compagnia, registra una denutrizione cronica fra il 67 e l'85%; analisi delle acque del Rio Grande Porcon, e delle trote morte nel medesimo fiume, effettuate dal municipio, hanno segnalato la presenza di alluminio, arsenico, mercurio e zinco. Che strano che lo studio di «impatto ambientale» presentato dall'impresa mineraria prima di iniziare le attività non facesse menzione dell'uso di arsenico nel processo di liscivazione, né del mercurio quale sottoprodotto finale. Fra il 1996 e il 2006 il trattamento dell'acqua potabile contaminata è costato 180.000 dollari. «La compagnia mineraria contamina, il costo del risanamento va sulla bolletta dell'acqua pagata dai cittadini».
    Quindici anni fa un orgoglioso presidente Fujimori aveva esibito il primo lingotto d'oro estratto: gli investimenti nascondevano i danni ambientali e i diritti dei lavoratori. Ma i tempi cambiano. Ora la potente compagnia mineraria Mysrl Yanacocha/Newmont estrae oro e argento in modo «sostenibile e appoggiando progetti comunitari», a quanto dice. Quest'anno ha addirittura ricevuto il primo premio nazionale per il progetto di responsabilità ambientale, consegnato dal presidente della repubblica Alan Garcia. Infatti, dopo aver quasi completamente dinaminato e distrutto una montagna a Cushuro per estrarre oro, nella sua magnanimità e creatività ambientale, la compagnia ha deciso di riutilizzare quello che resta di una zona estrattiva per raccogliere acqua piovana per i «poveri assetati abitanti della regione». Sembra che il progetto del bacino idrico San José, che sarà completato nel maggio 2009, fornirà acqua potabile ad allevatori, contadini e popolazione intera.
    Eppure molti non sono del tutto convinti dei benefici del progetto, nonostante il bombardamento mediatico in atto. Per le forti pressioni laterali e verticali, il bacino artificiale che conterrà sei milioni di metri cubici d'acqua presenta già filtrazioni nelle parti basse e fratture nella cresta del bacino di immagazzinamento. Inoltre la montagna a ridosso delle città di Cajamarca e Baños del Inca è già fratturata internamente con rischi di alluvioni. Molti ricordano che la miniera opera nella parte più alta della valle di Cajamarca, dove hanno origine tre microconche fluviali. Prima potevano attingere senza limitazioni le acque di questi fiumi e quella incanalata nei canali di Encajon Collotan, Quishuar, Llagamarca e Shacha, parte dei quali sono ormai secchi. Scrive il Comitato in difesa di Cajamarca: «tutto questo la compagnia mineraria Yanacocha lo chiama protezione ambientale e il governo sviluppo economico sostenibile».

     

    Il boss lo difende lo Stato

    di Paolo Fantuzzi
    Oltre 100 milioni di euro. A carico del ministero per garantire un avvocato a chi non può permetterselo. Ma l'Antimafia accusa: così si finanziano anche i padrini di camorra, mafia e 'ndrangheta
     
     
    Un'operazione antimafia dei carabinieri
    Prendete il maxiprocesso Mare nostrum, uno dei più lunghi e complessi della storia giudiziaria coi 271 imputati e 26 ergastoli: a oltre due anni dalla sentenza non si sa ancora quanto sia costato all'erario difendere i 31 imputati che hanno chiesto e ottenuto l'ammissione al gratuito patrocinio. Per completare il quadro, mancano ancora diverse decine di fascicoli e al momento la cifra corrisposta ai legali ammonta a 920 mila euro, con singole parcelle che in un paio di casi sfiorano quota 100 mila. Alla fine, dunque, lo Stato avrà speso più di un milione di euro per difendere imputati accusati di essere padrini, gregari, affiliati e killer delle cosche mafiose che fra il 1984 e il 1987 hanno insanguinato le province di Messina e Catania con 39 omicidi, 45 ferimenti più una serie di estorsioni e attentati.

    Mare nostrum, tuttavia, è solo uno dei tanti abusi di un istituto pensato per assicurare il diritto all'assistenza difensiva anche ai meno abbienti e divenuto, col tempo, lo strumento con cui le organizzazioni criminali riescono a farsi beffe dell'autorità giudiziaria anche quando vengono portate alla sbarra. L'espediente più diffuso ruota intorno alle confische: lo Stato sequestra il patrimonio dei mafiosi? Allora deve anche pagare loro l'avvocato, perché privati dei loro possedimenti, i boss diventano poveri e pretendono (e quasi sempre ottengono) il beneficio del gratuito patrocinio. Per la legge basta un'autocertificazione che attesti un reddito inferiore a 9.23 euro. E il traffico di droga come le estorsioni non lasciano tracce nel 740. Il giudice ha solo dieci giorni di tempo per decidere, pena la nullità del processo, e gli accertamenti, con un controllo sulla dichiarazione dei redditi, consentono all'80-90 per cento di chi ne fa richiesta l'accesso al gratuito patrocinio.
     


    Così nel 2007 lo Stato ha speso 103 milioni per 123 mila persone. E si tratta di dati incompleti, perché in ambito civile solo una metà degli uffici giudiziari ha inviato i dati al ministero. Tutti soldi spesi per garantire gli indigenti? Certo che no: una maggioranza di poveri veri (che comprende comunque una buona quota di evasori comuni) c'è; ma ad approfittare dell'istituto è sempre più la criminalità organizzata.

    E il denaro pubblico rischia di diventare una fonte di autofinanziamento, come ha documentato nel 2004 l'inchiesta Twister della Direzione nazionale antimafia di Catanzaro su alcune cosche del cosentino. "Nelle intercettazioni l'assistito diceva al difensore: 'Io ti nomino e tu mi dai parte dei soldi'. Rintracciammo perfino un accredito bancario del ministero che, dopo essere stato incassato, era stato in parte girato dal legale", ricorda l'ex pm della Direzione distrettuale Eugenio Facciola, oggi sostituto procuratore a Paola: "Capimmo che si trattava di un fenomeno consolidato e anche se è l'unico caso accertato, non è escluso che funzioni così in molte realtà, anche fuori dalla Calabria". Peraltro la 'ndrangheta ha spesso sfruttato il gratuito patrocinio: il colpo più grosso è stato il maxiprocesso Galassia istruito contro più di 150 affiliati alle cosche della Sibaritide e del crotonese, celebrato a fine anni '90; in due anni di dibattimento lo Stato ha sborsato 7 miliardi di lire solo per il primo grado, più altri 215 mila euro tra appello e Cassazione.

    Il fenomeno, comunque, va ben oltre le cosche calabre: la Direzione investigativa antimafia esamina in media 2.500 istanze l'anno. Gli ultimi in ordine di tempo, nella primavera scorsa, sono stati una decina di esponenti del clan Capriati di Bari vecchia. Prima, fra il 2002 e il 2007, in 24 procedimenti celebrati davanti alla Corte d'Assise, per gli imputati di associazione di stampo mafioso incapienti il tribunale di Palermo ha speso 890 mila euro. Per difendere anche boss condannati al carcere a vita come Giuseppe Agrigento, Domenico Ganci e Antonino Madonia. Quest'ultimo, assieme a Leoluca Bagarella, ha ricevuto l'ultima notifica del pagamento effettuato in favore del suo avvocato appena due anni fa, il 28 settembre 2006, nel carcere di Novara: 9.365 euro.

    Colpiti da un'offensiva giudiziaria senza precedenti e da un numero crescente di confische, anche i casalesi hanno intrapreso questa strada. Nel processo-simbolo contro Gomorra, lo Spartacus 1, il gratuito patrocinio è stato concesso a 20 imputati. In appello se ne sono aggiunti altri due. "Si tratta per lo più di seconde file, perché fino a qualche anno fa per la camorra era un disonore farsi pagare l'avvocato. Infatti, a eccezione di un ergastolo, comminato ad Alfredo Zara, e tre condanne a 25, 26 e 30 anni, la maggior parte delle pene per i beneficiari sono relativamente contenute, da tre a 12 anni di reclusione", afferma Raffaello Magi, il giudice a latere che scrisse le 3.200 pagine della sentenza e firmò le liquidazioni dei difensori. Il conteggio finale, anche in questo caso, è notevole: 906.460 euro. Ma i conti in tasca ormai se li sono fatti anche le prime file, assicura il pm della Dda di Napoli Francesco Curcio: "Negli ultimi anni hanno beneficiato del patrocinio in procedimenti paralleli anche esponenti di vertice, gli ex capi-zona dell'Agro aversano Francesco Biondino e Vincenzo Zagaria, e vecchi affiliati come Luigi De Rosa, Giorgio Marano e Luigi Costanzo".

    Per rendersene conto basta seguire la curva dei costi del gratuito patrocinio nei processi penali a Santa Maria Capua Vetere, dove negli ultimi dieci anni è stato necessario aprire due nuove sezioni in Assise per affrontare la crescente mole di lavoro: 133 mila euro nella seconda metà del 2003, 416 mila nel 2004, 654 mila nel 2005. Per effetto del decreto Bersani, che modifica le modalità dei pagamenti, nel 2006 e 2007 l'importo scende a 557 mila e 455 mila. Si tratta però di un semplice rallentamento nella liquidazione delle pratiche: nei primi sei mesi del 2008, il parziale è tornato a crescere, con 292 mila euro.

    Per porre riparo allo scandalo di uno Stato che paga l'avvocato ai clan, un emendamento al pacchetto sicurezza esclude dal patrocinio i condannati per associazione mafiosa e traffico di droga. Un cavallo di battaglia della Commissione antimafia, presentato dall'ex presidente Giuseppe Lumia, che tuttavia è stato paradossalmente contestato in Senato da un altro ex presidente, Roberto Centaro (Pdl), per la disparità di trattamento che si sarebbe creata fra i detenuti. Il governo aveva perfino dato parere negativo, ma davanti al clamore suscitato, alla fine l'approvazione è stata unanime.

     

     

    Lo scandalo G8 e l'hobby da 300mila euro

    di Fabrizio Gatti
    Scoperti altri affari tra la moglie del supermanager incaricato dalla Protezione civile e le imprese che si sono aggiudicate l’appalto più ricco per i cantieri della Maddalena
     
     
    Nulla di irregolare nei cantieri per il G8 sull'isola della Maddalena. Lo sostiene un comunicato della Protezione civile. La dichiarazione si basa su un rapporto al capo dipartimento Guido Bertolaso, che è anche commissario delegato per il G8, firmato da Angelo Balducci, presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici. Balducci da marzo è stato "soggetto attuatore" e poi coordinatore degli appalti da 300 milioni di euro per il supervertice tra capi di Stato, che si terrà alla Maddalena dall'8 al 10 luglio 2009. Ma L'espresso ha scoperto altri affari per 330 mila euro dichiarati nel 2007 che uniscono nella stessa società la moglie di Balducci, Rosanna Thau, 62 anni, e un imprenditore che controlla ed è legato alle ditte che si sono aggiudicate gli appalti più ricchi alla Maddalena.

    Pur promettendo la massima trasparenza sul caso, la Protezione civile ha nel frattempo tolto dal suo sito le ordinanze di Palazzo Chigi con cui Balducci era stato nominato e poi rimosso. E il provvedimento con cui Silvio Berlusconi aveva chiesto a Bertolaso di "assicurare un'adeguata attività di verifica degli interventi infrastrutturali posti in essere dai soggetti attuatori di cui alle ordinanze del presidente del Consiglio dei ministri numero 3629 del 20 novembre 2007 e numero 3663 del 19 marzo 2008, in termini di congruità dei relativi atti negoziali". L'espresso, nella sua inchiesta pubblicata la scorsa settimana, ha scoperto che il contratto più ricco è andato a imprenditori in affari proprio con la moglie del presidente del Consiglio superiore dei Lavori pubblici. Circostanza che Balducci smentisce annunciando querele. Alcuni documenti depositati alla Camera di commercio di Roma e altri pubblicati dal sito internet della Protezione civile però contraddicono sia la relazione di Balducci sia la precisazione della Protezione civile. Poiché si tratta di uno dei più grossi appalti pubblici nazionali, in un momento di grave difficoltà dell'economia e delle casse dello Stato, vale la pena leggere quei documenti.

    L'HOBBY DELLA SIGNORA

    Il presidente Balducci, massima carica dell'organo che valuta e guida le opere del ministero alle Infrastrutture di Altero Matteoli (An), precisa che la Erretifilm srl, società di produzioni cinematografiche, riguarda le "attività hobbistiche" di sua moglie, Rosanna Thau. Balducci smentisce l'esistenza di legami d'affari tra la sua famiglia e l'Impresa Anemone costruzioni intorno a cui, come ha rivelato L'espresso, ruota una fetta da 117 milioni di euro sui 300 che saranno spesi per costruire le strutture del G8. Il supermanager dello Stato sostiene che c'è solo "identità dello studio professionale commerciale usato dalla ditta Anemone e un componente della famiglia dell'ingegner Balducci". La nota del presidente del Consiglio superiore dei Lavori pubblici nasconderebbe però sia a Bertolaso, sia a Palazzo Chigi, sia al ministro Matteoli il resto della storia. È tutto scritto nei dossier depositati in Camera di commercio dalla stessa Erretifilm. Per la sua attività hobbistica, la moglie di Angelo Balducci e la sua società nel 2002 hanno ricevuto 25 mila euro come capitale sociale da un imprenditore, Vanessa Pascucci, 37 anni. Chi è Vanessa Pascucci? È la proprietaria al 50 per cento della Redim 2002 (vedi il diagramma degli appalti) la società che il 6 agosto 2008 ha messo il 35 per cento del capitale (7000 euro) per costituire l'Arsenale scarl e fornire manodopera al cantiere principale del G8. La ragnatela è molto più estesa. Perché la Redim 2002 di Vanessa Pascucci possiede il 70 per cento di un'altra impresa, la Minerva società consortile, amministrata da Daniele Anemone, 34 anni, titolare al 98 per cento dell'Impresa Anemone costruzioni: proprio la ditta che, con la Nuove infrastrutture di Fano, si è aggiudicata la fetta più grossa del contratto G8. Daniele Anemone è anche a capo dell'omonimoGruppo Anemone che possiede il 55 per cento della Maddalena scarl. E si torna al G8: la società è stata costituita il 17 luglio 2008 per fornire manodopera al cantiere dove già lavora l'Arsenale scarl. Il presidente del Consiglio superiore dei Lavori pubblici sostiene anche che la Erretifilm sia inattiva e in liquidazione. Dal bilancio 2007 di Erretifilm risulta invece che la società di Vanessa Pascucci e della moglie di Balducci dichiara un attivo di 330 mila euro di cui 293 mila in diritti cinematografici.

    Raccontandola in altre parole: Vanessa Pascucci nel 2002 mette a disposizione 25 mila euro per l'hobby della moglie del supermanager incaricato dalla Protezione civile, con lei nel 2007 condivide diritti cinematografici e altro per 330 mila euro e nel 2008 con le aziende del Gruppo Anemone per cui lavora ottiene dalla Protezione civile i superappalti per il G8. Appalti affidati proprio al coordinamento di Balducci. Una vicinanza curiosa, ma che non configura nessun reato. Allora perché il presidente del Consiglio superiore dei Lavori pubblici non ne parla nella sua relazione a Bertolaso? E davvero a Palazzo Chigi nessuno sapeva?

    QUESTIONE PRIVATA

    Sarebbe una questione strettamente privata se non fosse per l'incarico che ricopre Angelo Balducci. Fino al 13 giugno 2008 Balducci è "soggetto attuatore" di tutte le grandi opere per il G8, come indicato dall' Ordinanza 3684, con la nomina affidatagli il 20 marzo da Bertolaso. Il delicato compito di "soggetto attuatore", centrale a tutti gli appalti, è stabilito nell'articolo 5 comma 8 dell' Ordinanza 3663 del presidente del Consiglio dei ministri del 19 marzo 2008. Dopo la sostituzione, Balducci mantiene comunque un ruolo chiave nei cantieri con "le funzioni di raccordo tra la predetta struttura di missione, quale stazione appaltante... e i soggetti coinvolti dagli interventi infrastrutturali da porre in essere ai sensi dei grandi eventi richiamati in premessa". In gioco non ci sono soltanto gli appalti per il G8, ma anche i contratti per il 150° anniversario dell'Unità d'Italia e per i mondiali di nuoto "Roma 2009".

    IL RUOLO DELLA PROTEZIONE CIVILE

    Nel suo comunicato lo staff di Bertolaso precisa che Balducci non è "un funzionario della Protezione civile, ma il riferimento naturale per la realizzazione di opere pubbliche" in quanto presidente del Consiglio superiore dei Lavori pubblici: una "scelta del dipartimento di assegnare ruoli ai più alti livelli istituzionali nell'ambito delle rispettive competenze, per i diversi settori su cui si sta svolgendo l'attività preparatoria del prossimo G8". Sarebbe normale se tutto questo fosse vero.

    La realtà però è diversa. Angelo Balducci ricopre il ruolo più delicato nel ministero delle Infrastrutture soltanto dal 10 ottobre 2008, come indicato dalla delibera per la sua nomina. L'incarico come soggetto attuatore gli viene formalizzato già il 20 marzo 2008 dal commissario delegato Bertolaso. Pochi giorni prima Balducci è ancora capo dipartimento per lo Sviluppo e la competitività del turismo, come risulta da un documento ufficiale. E lì rimane. Fino al momento in cui Guido Bertolaso lo mette a gestire gli appalti per il G8. Balducci smentisce perfino che i progetti siano coperti da segreto di Stato.

    L'ordinanza del 19 marzo 2008, che il giorno dopo permette proprio la sua nomina, stabilisce invece "di dover estendere agli interventi realizzativi dell'intero complesso delle opere, nonché delle forniture e dei servizi interessati allo svolgimento del grande evento relativo alla Presidenza italiana del G8 la qualificazione di riservatezza e segretezza...". Venerdì 19 dicembre il procuratore di Tempio Pausania fa perquisire la casa e l'ufficio alla Maddalena di un sindacalista della Cgil, Tonino Cansella, 51 anni, che stava raccogliendo denunce dai lavoratori sul controllo del caporalato, i turni massacranti, gli straordinari pagati in nero e l'evasione dei contributi Inps dentro i cantieri del G8. Cansella è accusato di procacciamento di notizie sulla sicurezza dello Stato. Per aver tentato di difendere la sicurezza degli operai rischia da 3 a 10 anni di carcere. Nel totale silenzio del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, della Protezione civile e di buona parte d'Italia.

     

    7 gennaio


     
    Viaggio tra i bambini dei quartieri poveri di Panciu, città rumena della Vrancea
    Fernando osserva la strada attraverso il vetro dell'autobus e lo sguardo attento non nasconde il sorriso stupito: ha 4 anni e per la prima volta in vita sua mette il naso fuori da Panciu, realtà di meno di 10mila abitanti nella Vrancea centro orientale, la zona probabilmente più povera di Romania. E Fernando la povertà la conosce bene: vive a Valle Brazi, uno dei quartieri rom del paese, appena fuori dal centro, dove la situazione abitativa e quella sanitaria sono decisamente precarie; ha tre fratelli, Viorel, Vasile e Romeo, mamma e papà sono decisamente poco presenti, spesso fuori casa per lavorare occasionalmente nei campi, troppo spesso ubriachi quando invece si trovano fra le 4, spoglie, mura domestiche.

    L'inverno a Valle Brazi è decisamente rigido, la casa di Fernando come quasi tutte le atre, ha le finestre rotte e il tetto che lascia filtrare acqua; inoltre il sistema idrico e fognario lasciano decisamente a desiderare, con la conseguenza che dopo un'ora di pioggia, come stamattina, la Valle fatta di sentieri fangosi e non certo di strade asfaltate diventa un immensa piscina melmosa che i bambini devono attraversare per recarsi in paese. E' domenica mattina, piove nonostante le previsioni ottimistiche "del Mazzini" diano soleggiato "fino al 10 marzo, vedrai che la primavera è arrivata!"; il centro "Pinochio", sede dell' associazione Rom Pentru Rom a Panciu, che accoglie giornalmente trenta - quaranta bambini e ragazzi, sia romeni che rom, si è riempito già alle otto: oggi è prevista gita a Goleşti, presso il Centro di Accoglienza per ragazzi con disturbi mentali e sieropositivi; è la seconda gita nella storia dell' associazione, a pochi mesi di distanza dalla prima. "Domna" Daniela, la maestra romena che da quasi un anno collabora con l' associazione, è un po' nervosa: sa quanto è stato difficile convincere le famiglie dei bambini, in particolare quelle rom, meno tolleranti e più intimorite da certe problematiche, a lasciare i propri figli liberi di aggregarsi al gruppo in partenza; Vasile si aggira coi suoi modi bruschi e gli occhi buoni per il campo, urlando ai ragazzi frasi aspre in romeno, ottenendo l' effetto di far muovere tutti in modo frenetico: solo io e "il Mazzini" possiamo apprezzare l' occhiolino divertito di Vasile che ci fa capire quanto in realtà gli piaccia giocare a fare il poliziotto cattivo, lui così capace di gesti gentili, specialmente quando ci sono dei ragazzini di mezzo.

    Vasile è uno dei 4 romeni, tra cui 3 rom, che lavorano all' associazione, ed è il tuttofare del centro: non a caso tutti lo chiamano "Maestro", perché sa far tutto, dal falegname al piastrellaio, dal cuoco all' arbitro di calcetto. La gita prevede due musei, uno di scienze naturali, dove l' orso richiama l'attenzione dei bambini con la sua mole gigantesca, e uno di ricostruzione storica di case romene, che cattura l' attenzione dei bimbi per tutto il tempo della visita, fatto più unico che raro con personalità così vivaci. La tappa al Centro di Accoglienza di Goleşti è la più impegnativa, i ragazzi del centro sono sieropositivi e hanno forti disturbi mentali e fisici, sappiamo che i bambini e i ragazzi in visita potrebbero anche reagire male, ma l'invito del Centro è stato talmente sentito e stimolante che il tentativo era necessario; Elena, Rita e Iomelia hanno studiato le due ore da passare insieme preparando attività di lavoro che bambini e ospiti del centro condivideranno, come la preparazione di addobbi natalizi con carta, matite e colla in vista dell' arrivo di Moş Crăciun, il Babbo Natale di qui.

    Tra gli ospiti del Centro Mariela è una delle più amichevoli, parla e ride con una vitalità che non ti aspetteresti, tanto che Michaela, normalmente la meno concentrata tra le bimbe del Centro Pinochio, si ritrova a tagliare e incollare ghirlande e dipingere piccole scarpette con un entusiasmo contagioso.
    Michaela è un altro caso molto particolare che si presenta giornalmente ai volontari della Rom pentru Rom: ha 13 anni e passa buona parte del suo tempo in strada a elemosinare; è rom e come tale spesso viene emarginata, a scuola ma anche dai propri coetanei; accadeva spesso anche quando ha iniziato a frequentare il Centro "Pinochio", motivo per cui all' inizio era spesso silenziosa e introversa; vedere ora come ride e scherza provoca in tutti enorme soddisfazione e la sensazione che anche le situazioni più complicate possono cambiare quando ci si mette passione e impegno. Fernando invece è un ciclone con i suoi pantaloni militari e il suo maglione natalizio, si aggira tra gli ospiti del Centro di Goleşti con un misto di curiosità, attenzione e divertimento: dall' alto del suo metro scarso di altezza alterna sguardi di una dolcezza disarmante a occhiate torve da piccolo gangster. Vasile lo ha preso sotto la sua ala protettiva: ha passato tutto il giorno a coccolarlo e portarlo con se; lo abbandonerà soltanto sul pullman, durante il viaggio di ritorno, per raggiungere i ragazzi più grandi, i più esagitati, in fondo all' autobus, da dove dimostrerà di avere anche ottime doti di capocoro, dirigendo un' improvvisata orchestra in evoluzioni canore che provocano risate a tutti i passeggeri e un grosso mal di testa al povero autista.

    La giornata di oggi può chiudersi con un bilancio decisamente positivo: non soltanto l' incontro al Centro di Goleşti ha visto un inaspettato spirito collaborativo tra bambini e ospiti del Centro, ma l' idea che i vari Michaela e Fernando abbiano evitato di passare una giornata in strada ad elemosinare, uscendo per la prima volta dalla realtà di Panciu e facendo un'esperienza di vita che gli rimarrà impressa per molto tempo aiuta a scacciare il pensiero che forse domani la vita ricomincerà nella sua normale e triste routine.
    Forse la giornata di oggi non è la soluzione ai problemi di questa realtà, ma almeno aiuta a non perdere la speranza e ad avere un po' più fiducia in un cambiamento magari lento, ma non impossibile, e l' urlo di Fernando appena entrato in casa "Papà papà ho visto l' orso!" merita di certo un brindisi con vin fiert, il vino caldo speziato che è la specialità del maestro Vasile

     
     
    Nel 2008 il numero di esecuzioni negli Usa è calato ancora. L'abolizione è lontana, ma per la pena di morte ci sono sempre più ostacoli
    scritto da
    Alessandro Ursic

     L'abolizione è ancora lontana e parlarne è politicamente un tabù, dato che due terzi degli americani sono ancora favorevoli. Ma per la pena di morte negli Stati Uniti il 2008 è stato un anno di magra. Sono diminuite sia le esecuzioni sia le nuove condanne, a evidenziare quella che è ormai una tendenza in atto da anni.

    Secondo il Death Penalty Information Center, un gruppo che si batte per l'abolizione della pena capitale e raccoglie il più completo database sul tema negli Usa, nell'anno appena concluso le esecuzioni sono state 37: il numero più basso da 14 anni a questa parte, e una diminuzione del 62 percento rispetto a nove anni fa. Sono calate a 11, quattro in meno del 2007, anche le nuove sentenze di condanna a morte, e ciò rappresenta il minimo da quando la pena di morte è stata reintrodotta negli States, nel 1976.

    Uno dei motivi di questi risultati è sicuramente la sospensione temporanea delle esecuzioni, riprese lo scorso aprile dopo che la Corte suprema aveva ribadito la costituzionalità delle procedura di iniezione letale, contestata da due detenuti del Kentucky per i timori che tale morte sia tutt'altro che indolore. Ma una volta sbloccate, le esecuzioni avrebbero potuto riprendere una dopo l'altra. Invece, gli "intoppi" legali si sono moltiplicati, perché in molti dei 36 Stati che ancora praticano la pena di morte sono state aperte indagini interne sempre sull'iniezione letale, il metodo utilizzato da tutti gli Stati tranne uno.

    L'ingresso nella stanza della morte del carcere di San Quintino, in California: al momento ospita oltre 600 detenuti nel braccio della morte, il numero più alto negli UsaMentre un recente sondaggio ha mostrato che il 64 percento degli americani si dice ancora a favore della pena di morte, negli ultimi tempi diversi Stati si sono mossi verso un'abolizione de facto per i detenuti che non possono permettersi un avvocato difensore: gli alti giudici di New Mexico e Utah, per esempio, hanno fatto capire che sono pronti ad annullare qualsiasi sentenza di condanna a morte in casi del genere.

    C'è poi anche il fattore economico. La pena di morte, al contrario di quanto pensino molte persone a favore, costa. Anche più di un ergastolo: alla alcuni studi hanno evidenziato il peso della pena capitale sulle casse statali: tra interminabili procedure legali, spesso dalla condanna all'esecuzione passano anche 15 anni. Nel Maryland, dove si prevede che quest'anno la pena di morte verrà abolita come ha deciso nel 2007 il New Jersey, l'argomento che più sta a cuore ai cittadini è proprio quello economico. Dal 1976, nel piccolo Stato del nord-est sono state uccise "solo" cinque persone. Ma ognuno di quei casi è costato 37 milioni di dollari. E da quando è stata diffusa questa cifra, la bilancia ha improvvisamente cominciato.

     

    Niente cimici siamo italiani

    Berlusconi ha annunciato che bisogna riformare le intercettazioni e uno stuolo di giornalisti al seguito ha cominciato a ripeterlo a pappagallo. Senza peraltro spiegare il perché

     
    Bruno Vespa
    È bastato che Berlusconi strillasse per qualche mese che bisogna riformare le intercettazioni, perché uno stuolo di giornalisti al seguito cominciasse a ripeterlo a pappagallo. Senza peraltro spiegare il perché. Bruno Vespa scrive su 'Bresciaoggi' (imperversa pure lì) che "è sempre più urgente sanare la piaga delle intercettazioni", dopo averne sciorinate a centinaia nei tele-processi di Cogne, Erba, Garlasco e Perugia. Il 'Corriere' gli fa eco in prima pagina: "Riforma condivisa delle intercettazioni" in base al "testo del Consiglio dei ministri". Si spera che quel testo, al 'Corriere', non l'abbiano letto: altrimenti non si vede come possano sollecitare una legge che manda in galera (pena da 1 a 3 anni) i cronisti, anche del 'Corriere', che citano o riassumono intercettazioni o altri atti d'indagine, anche "non più coperti da segreto", prima del processo (potranno farlo solo 4-5 anni dopo la scoperta dei fatti). Alla prossima conferenza stampa uno dei fortunati giornalisti accreditati potrebbe domandare al premier: "Scusi, perché mai vuole riformare le intercettazioni?".

    Se dice che sono troppe, obiettare che ogni anno si fanno 3 milioni di nuovi processi e s'intercettano appena 15-20 mila persone. Se dice che costano troppo, obiettare che nel 2007 sono costate 224 milioni, ma han fatto recuperare allo Stato svariati miliardi da mafiosi, narcotrafficanti, finanzieri furbetti, corrotti, rapinatori, truffatori; comunque per risparmiare basta acquistare le apparecchiature anziché affittarle da privati, o imporre tariffe scontate alle compagnie telefoniche. Se dice che all'estero ne fanno di meno, obiettare che ne fanno di più, ma non risultano nelle statistiche perché non
    le dispongono solo i giudici, ma anche le polizie e i servizi segreti senza render conto a nessuno. Se dice che all'estero si fanno solo per mafia e terrorismo, obiettare che l'Fbi ha appena intercettato e arrestato il governatore dell'Illinois, Rod Blagojevic, e centinaia di top manager di Wall Street coinvolti nei mutui subprime.
     
    Se dice che all'estero i giornali non le pubblicano, esibire un giornale Usa a piacere con le telefonate di Blagojevic & C., compresi i non indagati Jesse Jackson jr. e Rahm Emanuel, braccio destro di Obama. Se dice che vanno escluse per i reati minori, obiettare che il testo governativo le vieta per associazione a delinquere, sequestro i persona, rapina, stupro, furto, spaccio, estorsione, truffa, frode fiscale, bancarotta, omicidio colposo, sfruttamento della prostituzione. Reati minori? Che ne pensano An e la Lega? Se dice che bastano e avanzano gli altri mezzi d'indagine, obiettare che tutti i più recenti scandali sono emersi grazie alle intercettazioni: Bancopoli, Calciopoli, Vallettopoli, casi Cuffaro e Saccà, clinica-horror Santa Rita, Abu Omar e Sismi deviato, Tangentopoli a Firenze, Pescara, Napoli, Potenza.

    Se dice che la riforma serve appunto per coprire gli scandali, ringraziarlo per la squisita sincerità. Poi avvertire Vespa e il 'Corriere'.
     
     
    Le truppe etiopi si ritirano dal Paese, lasciando il governo alla mercé degli islamici
    Poco più di due anni fa, alla fine di dicembre del 2006, migliaia di soldati etiopi entravano in Somalia per aiutare il governo di transizione locale (Tfg) a contrastare le Corti islamiche, che avevano accerchiato le truppe governative a Baidoa e si preparavano all'attacco finale. Oggi, a due anni di distanza, la situazione non è cambiata di molto: nei prossimi giorni, le truppe etiopi si ritireranno definitivamente dal Paese, lasciando alla mercé degli insorti un governo che controlla solo la città di Baidoa e alcuni quartieri della capitale Mogadiscio.

    L'ex-presidente somalo YusufSono poche le speranze di sopravvivenza per l'esecutivo, alla prese con una crisi politica interna dopo le dimissioni del presidente Abdullahi Yusuf. A difendere Baidoa e i pochi quartieri della capitale ancora in mano del governo rimarranno l'indisciplinato esercito somalo e le 3.600 truppe dell'Unione Africana, che nei prossimi mesi potrebbero ottenere rinforzi con l'invio di altre 2.500 unità da parte di Uganda, Burundi e Nigeria. Nel frattempo, però, per rimanere in piedi il governo dovrà sperare nelle divisioni interne al movimento islamico, spaccatosi da alcuni mesi in due tronconi: uno moderato, facente capo all'ex-leader delle Corti islamiche Sheikh Sharif e pronto a scendere a patti con il governo, e un'ala più radicale, guidata da Sheikh Hassan Dahir Aweys e decisa a continuare la lotta armata. Una divisione che si riflette da una settimana sul campo di battaglia, dove le due formazioni islamiche dello Shabaab e del neonato gruppo Ahlu Sunna Waljamaca si scontrano per il controllo del territorio.

    Il ritiro delle truppe etiopi è sempre stato chiesto dagli insorti come precondizione per avviare trattative con il governo. La partenza dei soldati di Addis Abeba, accusati dagli insorti di essere degli invasori al soldo degli Stati Uniti loro alleati, potrebbe perciò aprire nuove prospettive di pace. Il pericolo più immediato, però, è che il ritiro della formazione armata più preparata e meglio addestrata presente sul territorio somalo possa creare un vuoto di potere pericoloso da gestire, in un momento in cui il governo somalo non è mai stato così debole e le Nazioni Unite, preoccupate più dell'emergenza pirateria nel golfo di Aden, non hanno alcuna intenzione di inviare un contingente di peacekeepers nel Corno d'Africa. "Speriamo che il ritiro aumenti le prospettive di pace, ma al momento tutti gli scenari sono possibili. E' una situazione estremamente fluida", spiega a PeaceReporter un uomo d'affari residente a Mogadiscio, che preferisce non essere identificato per ragioni di sicurezza.

    Miliziani dello ShabaabPiù di diecimila morti, almeno un milione di sfollati e un'emergenza umanitaria senza precedenti, acuita dalle difficoltà che le organizzazioni internazionali incontrano nell'assistere la popolazione civile. La crisi somala è riassunta in questi pochi numeri, che testimoniano come la già precaria situazione del Paese sia precipitata negli ultimi due anni. Lacerato da lotte intestine e abbandonato dalla comunità internazionale, che non ha fornito alcun aiuto finanziario, il Tfg ha man mano perso terreno nei confronti degli insorti, che con i loro attacchi hanno logorato la resistenza delle truppe etiopi, per le quali rimanere a Mogadiscio si è rivelato sempre più oneroso. Con l'avvicinarsi della vittoria, però, anche il fronte islamico ha mostrato le proprie crepe, nonostante gli insorti abbiano conquistato quasi tutto il sud del Paese e buona parte della Somalia centrale. Il rischio che i due fronti si spacchino ulteriormente, sfociando in una guerra civile di tutti contro tutti, rimane concreto.
    Matteo Fagotto
     

     

    2 gennaio 2009

    Tra discariche e fannulloni

    di Mariaveronica Orrigoni
     
    Il primo Consiglio dei ministri del Berlusconi V si è simbolicamente riunito a Napoli, città al centro delle polemiche per i rifiuti. Il decreto legge lampo per risolvere l'emergenza spazzatura prevedeva, tra le altre cose, l'uso dell'esercito per presidiare zone a rischio e l'apertura di nuove discariche. È "la fine dell'emergenza", dirà poche settimane dopo il premier. Altro tema caldo di inizio legislatura è la sicurezza, affrontato dal neo ministro dell'Interno Roberto Maroni con un decreto convertito in legge il 23 luglio. Tra le novità, il congelamento dei processi meno urgenti e pene più dure per i clandestini. La lotta alla microcriminalità viene abbracciata anche dal ministro Mara Carfagna: è suo il disegno legge per cui prostituirsi sulla strada diventa reato, punibile con l'arresto.

    Fin da subito, efficienza e praticità sono le parole chiave del ministro Renato Brunetta. La sua battaglia contro i 'fannulloni' e 'l'assenteismo' parte già nei primi giorni della legislatura. Tra le iniziative di Brunetta, la diffusione degli elenchi delle consulenze delle pubbliche amministrazioni e la possibilità di licenziare i dipendenti pubblici per scarso rendimento. La manovra d'estate arriva in Consiglio dei ministri il 18 giugno, passerà alla storia come una della più rapide. Solo nove minuti e mezzo per approvare il progetto del ministro Tremonti, incentrato sulla semplificazione legislativa e sui tagli alle spese dei ministeri. Il decreto verrà convertito ad agosto nella legge 133; la stessa contestata dagli universitari nelle manifestazioni di novembre contro il ministro Gelmini. Gli studenti scendono in piazza a fianco di genitori e insegnanti, tutti contrari alla riforma della scuola, caratterizzata dal ritorno del maestro unico, diventato poi maestro prevalente, e dai tagli al tempo pieno e agli atenei.


    Il tira e molla estivo sul destino di Alitalia tra governo, sindacati e Cai, la cordata di imprenditori italiani scesa in campo per salvarla dal fallimento, si conclude il 19 novembre, quando il ministro Claudio Scajola autorizza il commissario straordinario Augusto Fantozzi a vendere: un accordo raggiunto dopo mesi di discussioni. A pochi giorni della vendita di Alitalia, l 28 novembre viene varato il pacchetto anticrisi di Tremonti: una serie di interventi per arginare gli effetti della crisi economica. Tra i principali provvedimenti, l'aumento degli ammortizzatori sociali, la social card per i meno abbienti e lo sblocco dei fondi per le grandi infrastrutture.

    Nel 2009, sarà la riforma della giustizia la prova del nove per il giovane ministro Angelino Alfano, già nel cuore di Berlusconi per il suo lodo, la legge che dallo scorso luglio rende immuni le prime quattro alte cariche dello Stato da qualsiasi processo penale a loro carico. Nelle ultime settimane, Alfano ha annunciato la presentazione a fine gennaio della sua bozza, che molto probabilmente modificherà anche il regime delle intercettazioni, uno degli ultimi sassi nella scarpa del premier.

     

    Costituzione ad personam

    di Marco Damilano
    Liberismo. Federalismo. E infine Presidenzialismo. Ecco l'Italia che progetta Silvio Berlusconi. Dopo aver regolato i conti con i magistrati. E messo il bavaglio alle intercettazioni
     
     
    Silvio Berlusconi
    C'è chi si è già portato avanti con il programma. Il ministro delle Politiche agricole, il super-leghista Luca Zaia, per esempio: di recente ha fatto togliere dal suo ufficio del ministero di via XX settembre la foto di Giorgio Napolitano, il capo dello Stato che rappresenta l'unità nazionale. Due istituzioni che nel 2009 potrebbero essere messe a rischio dalla girandola di riforme, costituzionali e non, che il centrodestra si prepara a mettere in campo nei prossimi mesi. Si comincia il 20 gennaio, quando il federalismo fiscale fortemente voluto dalla Lega arriverà alla prova dell'aula del Senato. Negli stessi giorni la Camera sarà impegnata in un altro disegno di legge che sta molto a cuore a Silvio Berlusconi, quello che vieta le intercettazioni. Per poi passare alle partite successive: la giustizia, con la riscrittura di alcuni articoli della Costituzione. E il piatto forte del menù berlusconiano: il presidenzialismo.

    "L'obiettivo del nostro governo si può riassumere in tre parole: liberismo, federalismo, presidenzialismo". Lo dichiarò il Cavaliere nell'aula di Montecitorio, era il 2 agosto 1994, e non si può negare che almeno in questo sia stato coerente. L'elezione diretta del presidente della Repubblica è nei suoi piani da quando è entrato in politica, esattamente 15 anni fa, dal discorso della discesa in campo in tv, con la calza a coprire la telecamera e alle spalle una libreria, già allora presidenziale. E ha ripetuto il suo credo nella conferenza stampa di fine anno: "È una riforma essenziale". Per poi frenare sui tempi di realizzazione: "Non abbiamo ancora esaminato il tema, non lo faremo nemmeno nel 2009. Ma nella seconda parte della legislatura bisogna arrivarci".

    Ma c'è chi pensa che in realtà il presidenzialismo potrebbe essere messo in cantiere già nella seconda metà di quest'anno. Uno dei più fieri oppositori di Berlusconi, il deputato centrista Bruno Tabacci, ne è convinto: "Conosco bene Silvio. Se la crisi economica dovesse aggravarsi nei prossimi mesi, la tentazione di trovare una via d'uscita istituzionale per lui diventerebbe irresistibile". E poi ci sono i tempi di approvazione: doppia votazione di Camera e Senato, a sei mesi di distanza. Se si cominciasse a discuterne nella seconda metà del 2009 la riforma arriverebbe ad approvazione alla fine del 2010, salvo intoppi: nella parte finale della legislatura, come annunciato dal Cavaliere, giusto in tempo per chiamare gli elettori a votare sul presidenzialismo all'italiana con il referendum confermativo previsto dall'articolo 138 della Costituzione. Un passaggio che il premier già mette nel conto, anzi, auspica. Qualcosa di simile solo al referendum del '46 in cui gli italiani decisero tra Monarchia e Repubblica: ma in questo caso la scelta sarebbe pro o contro il Cavaliere che sogna di passare alla storia come il fondatore della Terza Repubblica italiana. Eletto al Quirinale a furor di popolo.

    A interrompere la sua marcia trionfale, però, ci sono numerosi ostacoli. Non solo gli istituti di garanzia previsti dalla Costituzione in vigore, a partire dall'attuale presidente della Repubblica. Non solo i partiti dell'opposizione, da Casini a Di Pietro passando dal Pd, che minacciano di fare le barricate e potrebbero ritrovarsi uniti dalla battaglia comune. A guastare i sonni del Cavaliere ci sono soprattutto i contrasti all'interno del centrodestra dove i presidenzialisti sono per ora in minoranza.

    Nel governo siamo al bricolage costituzionale, al fai-da-te delle riforme. Ognuno ha la sua: la Lega è contraria all'elezione diretta del capo dello Stato e molto più interessata a portare a casa il federalismo fiscale. Per raggiungere l'obiettivo si sta ritagliando un inedito ruolo di mediazione con il Pd. Bossi, che nel governo Berlusconi è ministro delle Riforme, ha stoppato Berlusconi due volte in pochi giorni: la prima per bloccare la riforma della giustizia, che il premier voleva già prima di Natale per incassare il clima di discredito verso la magistratura provocato dalla guerra tra le procure di Salerno e di Catanzaro, la seconda per fermare sul nascere la tentazione presidenzialista del premier. "Berlusconi il Quirinale deve meritarselo sul campo. Si misurerà sulle riforme", avverte un altro ministro leghista, Roberto Calderoli. E già, perché dopo l'approvazione del federalismo da parte delle Camere arriverà il momento dei decreti di attuazione che spettano al governo: è lì che potrebbe scattare lo scambio. L'accelerazione dei decreti patteggiato con il via libera della Lega al presidenzialismo: la trattativa è aperta.

     
    Gianfranco Fini
    L'altro alleato di Berlusconi, Gianfranco Fini, ha accolto le esternazioni del premier con un gelido silenzio (a differenza del presidente del Senato Renato Schifani, come sempre fedele a palazzo Chigi). Per anni il presidenzialismo è stato il suo modello. Ma ora, da presidente della Camera, l'ex leader di An non perde occasione per professare la sua fede nel Parlamento e nel dialogo tra gli schieramenti: vedi la sua ultima uscita contro il "cesarismo" che ha fatto imbestialire Berlusconi.

    A spaccare il centrodestra non c'è solo l'elezione diretta del capo dello Stato. Le intercettazioni sono un'ossessione per il Cavaliere che ne parla in tutte le occasioni: visite all'estero, conferenze stampa, cene private. Il disegno di legge uscito dal Consiglio dei ministri non va bene, troppo debole, ripete Berlusconi, "bisogna restringere le intercettazioni anche sulle indagini sui reati contro la pubblica amministrazione", ovvero escludere dal divieto solo i reati di mafia e terrorismo. L'opposto di quello che predica la presidente della commissione Giustizia Giulia Bongiorno, ex avvocato di Giulio Andreotti e deputato di An, che è anche legale di Gianfranco Fini, considerata tra i più vicini al presidente della Camera: "Le intercettazioni vanno regolate, limitate, ma non si può impedire ai magistrati di utilizzarle". Anche per reati come la corruzione, quelli che i falchi berlusconiani vorrebbero proibire.

    Infine, nel calendario del 2009, ci sono i referendum elettorali di Mario Segni e Giovanni Guzzetta (un anno fa furono tra i motivi dell'uscita di Mastella dal governo Prodi, oggi non se li ricorda più nessuno) e la mini-riforma della legge elettorale per il Parlamento europeo. Per ora è finita nel cassetto l'idea iniziale di Berlusconi: soglia di sbarramento al 5 per cento e abolizione delle preferenze. La prima modifica serviva a eliminare l'Udc di Casini, la seconda a far rispettare a tavolino gli equilibri interni al Pdl: il 70 per cento degli eletti a Forza Italia, il 30 ad An. Con le preferenze il partito di Fini, molto più organizzato sul territorio, potrebbe strappare numerosi eletti in più e far entrare i forzisti in fibrillazione. Per questo, alla fine, non se ne farà niente. E poi, ragionano gli strateghi del premier, se alle elezioni europee dovesse tornare la frammentazione politica, con la rinascita di partiti e partitini, non sarebbe un male. Sarebbe un ottimo spot per la riforma presidenziale. Quella che dovrà trasformare la Repubblica italiana in una monarchia berlusconiana.
       
     

     
    Turchia Usa e governo del kurdistan iracheno hanno un piano per eliminare il Pkk
    [31/12/2008] In coincidenza con l'offensiva di Israele nella Striscia di Gaza, anche la Tuchia ha intensificato gli attacchi contro la guerriglia del Pkk sui monti Qandil, nel nord dell'Iraq. "L'aviazione turca ha pesantemente bombardato i distretti curdi di Khwakurk e Khnera" ha comunicato Ahmed Denis, un portavoce del Pkk, precisando di non disporre di dati certi su eventuali vittime. Non è raro che i bombradamenti turchi sulle montagne irachene coinvolgano anche la popolazione civile. Mercoledì 31, le bombe turche hanno colpito un cimitero dei guerriglieri del Pkk, distruggendolo. Questa nuova campagna di bombardamenti, iniziata sabato 27 dicembre e ancora in corso, segue i recenti incontri tra le autorità del Kurdistan iracheno e quelle di Ankara, che si sono accordate per collaborare maggiormente nella lotta alla guerriglia curda.


    La settimana prima di Natale, la zona di Choman, sui monti Qandil, nel nord dell'Iraq, è stata a più riprese bombardata dall'aviazione turca. Ancora una volta il raid, nella provincia settentrionale del Kurdistan iracheno, vicino ai confini di Turchia e Iran, puntava a colpire la guerriglia del Pkk che su quelle alture trova rifugio. Negli ultimi mesi, però, l'offensiva turca può contare sempre di più sull'appoggio degli Usa e anche delle autorità regionali del Kurdistan iracheno, una collaborazione contro uno stesso nemico, motivata da un interesse comune: gli affari.

    Lo scorso 15 dicembre la collaborazione anti-Pkk, tra Usa, Turchia, Kurdistan iracheno e governo centrale dell'Iraq è diventata ufficiale. Rappresentanti dei tre paesi coinvolti ne hanno discusso a novembre a Baghdad, e alla fine hanno concordato un piano in tre punti per risolvere definitivamente il problema della guerriglia curda nel nord dell'Iraq. Secondo la bozza trapelata alla stampa, la prima parte del piano prevede che il Pkk sia dichiarato fuorilegge dal Krg, il governo federale del Kurdistan Iracheno. In seguito, si consentirà ai guerriglieri di consegnare le armi e, come terzo passo, si inizieranno operazioni militari congiunte per eliminare i combattenti rimasti in attività nella zona di Qandil. Quest'ultima fase dovrebbe essere compiuta dalle forze armate turche e irachene, ma anche curde, uno scenario potenzialmente esplosivo per i politici che governano la regione del nord iracheno. Costoro sono gli stessi leader curdi del Puk e del Pdk (le principali fazioni curde ) che in passato combatterono contro Saddam proprio su quelle montagne, ma oggi si trovano a dover decidere se rinunciare al legame di fratellanza che li lega ai guerriglieri del Pkk, oppure, se riunciare a una montagna di affari.

    "Non cadete nel tranello turco" ha dichiarato dopo la divulgazione del piano un portavoce del Pkk, Kamal Kheyri, rivlgendosi ai leader curdi iracheni. "Siccome nel corso dell'ultimo anno la campagna militare nel nord del'Iraq è fallita, ora hanno pensato di tentare la carta del divide et impera: sperando di far combattere i curdi tra loro". Nonostante i loro sforzi, tuttavia, il portavoce del Pkk è convinto che non sia possibile mettere i curdi gli uni contro gli altri. E della stessa opinione sono anche diversi leader curdi iracheni, come Mola Bakhtyar, alto esponente del Puk, secondo cui gli affari con i paesi confinanti sono una componente indispensabile al benessere della regione, ma l'ipotesi di prendere le armi contro i cugini del Pkk è fuori discussione. La guerriglia, inoltre, gode ancora di grande sostegno tra la popolazione, che ben difficilmente capirebbe un simile gesto.

    Moderno quartiere di ErbilNegli ultimi mesi diversi diplmatici turchi hanno si sono recati in visita in Iraq e viceversa: questa settimana il vice presidente iracheno Al Hashimi era ad Ankara, per preparare il terreno alla prossima visita del premier Al Maliki. La politica turca verso il governo curdo, però, sembra essere a una svolta: in passato Ankara aveva evitato di interfacciarsi con la regione autonoma, per non riconoscerne in alcun modo l'autonomia, ma ora questo tabù sembra caduto. La collaborazione tra Ankara e Erbil, la capiale del Kurdistan iracheno, promette ricchezza e sviluppo per entrambe le parti. Resta giusto da vedere se i curdi andranno fino in fondo nel piano di lotta al Pkk.

    Oggi lo sviluppo del commercio tra Turchia e Kurdistan iracheno si vede nelle chilometriche code di tir che transitano per il confine tra i due paesi. I supermercati curdi sono colmi di merci turche, in genere più apprezzate di quelle iraniane e siriane. Almeno 500 compagnie turche sono registrate nel Kurdistan e sono almeno 15mila i lavoratori turchi impegnati nella regione curda dell'Iraq. Da alcuni mesi il Kurdistan riceve il 10 percento dell'elettricità dalle centrali di Ankara e nelle università di Erbil e Suleimaniya sono iniziati corsi di turco, che pare riscuotano un certo successo. Le transazioni economiche tra Turchia e Kurdistan ammontano oggi a tre miliardi di dollari l'anno, ma gli economisti sostengono che nei prossimi anni tale cifrà crescerà del 250 percento.

    Naoki Tomasini
     
     

     
    Il bollettino settimanale delle guerre e dei conflitti in corso n. 49 - 2008 dal 11/12/2008 al 17/12/2008
     

    Nell'ultima settimana, in tutti i Paesi in guerra, sono morte almeno 1.177 persone

    Sri Lanka
    Nell'ultima settimana sono morte almeno 347 persone
    Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 9.152

    Sudan
    Nell'ultima settimana sono morte almeno 250 persone
    Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 1.233

    Rep. Dem. Congo
    Nell'ultima settimana sono morte almeno 151 persone 
    Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 2.561

    Iraq
    Nell'ultima settimana sono morte almeno 145 persone
    Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 10.704

    Afghanistan
    Nell'ultima settimana sono morte almeno 102 persone
    Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 6.350

    Pakistan Talebani
    Nell'ultima settimana sono morte almeno 82 persone
    Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 5.554

    India Naxaliti
    Nell'ultima settimana sono morte almeno 22 persone
    Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 567

    Nigeria
    Nell'ultima settimana sono morte almeno 17 persone
    Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 516

    Somalia
    Nell'ultima settimana sono morte almeno 13 persone 
    Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 1.425

    Thailandia del sud
    Nell'ultima settimana sono morte almeno persone
    Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 355

    India Nordest
    Nell'ultima settimana sono morte almeno persone
    Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 818

    Filippine Milf
    Nell'ultima settimana sono morte almeno persone
    Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 735

    Nord Caucaso
    Nell'ultima settimana sono morte almeno persone
    dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 591

    Israele-Palestina
    Nell'ultima settimana sono morte almeno persone
    Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 488

    Pakistan Balucistan

    Nell'ultima settimana sono morte almeno persona
    Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 247

    India Kashmir

    Nell'ultima settimana sono morte almeno persone 
    Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 564

    Uganda 
    Nell'ultima settimana sono morte almeno persone 
    Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 175

    Filippine Npa
    Nell'ultima settimana sono morte almeno persone
    Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 267

    Colombia

    Nell'ultima settimana è morta almeno persona 
    Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 255

     

     

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