Un
ripensamento da trecento milioni di euro. La decisione del consiglio dei
ministri di spostare il vertice del G8 dalla Maddalena all'Aquila lascia
numerosi interrogativi aperti.
Il primo è sulla necessità di organizzare in due mesi un vertice mondiale in
un'area dove le priorità sono altre: trovare una sistemazione dignitosa a 68
mila sfollati. Il secondo è sulla destinazione delle strutture in fase di
completamento nell'arcipelago sardo. Alcune strutture, come i due hotel
destinati a ospitare i capi di stato e le loro delegazioni (132 milioni di euro)
potranno trovare forse una destinazione turistica, il centro conferenze da
milioni verrà sfruttato per convegni meno blasonati (58 milioni) e le
costruzioni sul lungomare (42 milioni) torneranno utili in futuro. Più difficile
immaginare un sistema per riciclare il centro stampa da 26 milioni di euro.
In un momento di crisi economica profonda, con le casse pubbliche vuote, ha
senso archiviare un investimento simile e cercare nuovi fondi per reinventare
l'accoglienza dei Grandi in Abruzzo? O non si rischia di mettere in cantiere uno
spreco doppio?
La strage nascosta
di Gianni Del Vecchio e Stefano Pitrelli
5.700 morti, 900 mila feriti, oltre tre milioni
e mezzo di incidenti: i dati delle assicurazioni svelano il massacro quotidiano
che avviene sulle strade
Vedi la macchina accartocciata contro il guard rail, i lampeggianti delle
ambulanze e i poliziotti a capo chino, e subito intuisci com'è andata. È
l'ennesimo bagno di sangue del sabato sera, che il lunedì poi si riduce a una
statistica. Come quelle Istat, secondo cui ogni dieci anni scompare un'intera
città delle dimensioni di Pordenone, Legnano o Avellino. Eppure le cifre
ufficiali non sono che la punta dell'iceberg: la realtà è più grave. I numeri
choc de 'L'espresso' rivelano come le nostre strade siano ancor più pericolose
di quanto si conosca, per numero di incidenti, morti e feriti. Una strage
nascosta che colpisce dove e quando non ce lo aspettiamo, falciando soprattutto
i più giovani e i più deboli.
Come stiano veramente le cose lo spiega la Fondazione per la sicurezza stradale
dell'Ania, l'associazione delle compagnie assicurative, che di incidenti nel
2007 ne conta quasi tre milioni e 700 mila. Non il doppio, ma 16 volte più di
quelli censiti ufficialmente: il contatore dell'Istituto nazionale di statistica
si ferma appena a 230 mila, ossia solo dove c'è stato l'intervento di
carabinieri e polizia. I danni dovuti a tamponamenti e scontri frontali sono
enormi. Ma il prezzo in vite umane è sconvolgente. "Pure il conto delle vittime
è sottostimato", sostiene Franco Taggi dell'Istituto superiore di sanità: "In
media il 10 per cento dei decessi sfugge alle statistiche". Il che significa 600
morti in più rispetto ai 5.131 noti finora: il valore più alto nell'Unione dopo
la Polonia. Anche qui l'Istat non riesce a fotografare il fenomeno, perché segue
il destino dei feriti solo per un mese, mentre gli effetti degli incidenti
uccidono anche più tardi.
Le ferite che restano Sui feriti, poi, il salto lascia sbalorditi. Triplicano,
arrivando poco al di sotto del milione, dai 325 mila di partenza. Di loro, 15
mila sono invalidi permanenti: i segni dello scontro se li porteranno addosso
per sempre, uno degli aspetti più drammatici e dimenticati di un bilancio che
grava sulle famiglie e sullo Stato. I costi sociali - spese sanitarie e
burocratiche, il danno morale e quello fisico, nonché tutto il lavoro che caduti
e sopravvissuti non potranno più svolgere - rappresentano nell'insieme un
ammanco imponente che solo nel 2007, per la Fondazione Ania, tocca i 30 miliardi
di euro (cioè il 2 per cento della ricchezza che produciamo ogni anno).
Le vittime più deboli Fra quelli che in Italia le bravate al volante le hanno
pagate con la vita c'è stato pure l'equivalente di un'intera scuola: in un anno
sono morti 130 bambini, secondo la stima dell'Aci. Non garantire la sicurezza
dei più piccoli ci condanna alla vergogna in Europa, dove negli ultimi dieci
anni siamo stati i peggiori. Perché il nostro non è certo un Paese per
ragazzini. E tanto meno per vecchi, soprattutto quelli che in giro ci vanno a
piedi. Fra i pedoni, infatti, sono gli anziani i più vulnerabili: e
costituiscono oltre la metà di chi ci rimette la pelle e il 30 per cento dei
feriti. In particolare, la fascia d'età compresa fra i 75 e i 79 anni è quella
più a rischio. Quando però l'anziano dal marciapiede sale al volante, ecco che a
rischio ci mette pure gli altri. Tant'è vero che, in un'audizione parlamentare,
la Fondazione Ania ha sentito di dover raccomandare maggiori controlli sulle
loro condizioni di salute. Nel 2007, ad esempio, in Italia sono morti 626
guidatori con più di settant'anni.
Weekend killer Molti altri invece non ce l'hanno neppure, il tempo di
invecchiare. Perché un terzo delle vittime delle corse sfrenate sono proprio i
giovani. Colpa, spesso, della diffusione di alcol e droga, e questo in misura di
gran lunga superiore a quanto non venga detto. Uno su tre si schianta in preda
all'ebbrezza, denuncia l'Istituto superiore di sanità, contro lo scarno 2 per
cento riportato dall'Istat. "Il fatto è che ad esempio a chi muore non sempre si
fa l'autopsia, e anche allora non è detto venga misurato il tasso alcolemico",
spiega Taggi. Ed è triste ma vero che per molti di loro la propria storia si
conclude sulla carreggiata in un fine settimana qualsiasi: il 35 per cento delle
vittime della strada si concentra nei due giorni festivi. Oltre a quella dei
weekend, di strage ce n'è un'altra di cui non si parla mai, forse perché meno
appariscente. Tuttavia nel 2007 ha fatto oltre un migliaio di vittime tra la
folla di chi semplicemente torna a casa dopo una giornata di lavoro, nella
fascia oraria fra le 5 e le 7 di sera. Quasi 70 mila inoltre i feriti lasciati
sul campo dall'esercito di pendolari che rincasa. Di paragoni per rendere
l'enormità di questa strage a puntate ne sono stati fatti tanti: due volte il
crollo delle Torri gemelle, 20 volte il terremoto in Abruzzo. Il fatto è che la
patente è un porto d'armi, e dalle nostre parti le automobili lasciano più morti
sull'asfalto dei rumorosi omicidi: il 79 per cento delle morti traumatiche
contro meno di quel 10 per cento di vittime delle pallottole. "Il parallelo fra
un'arma e una macchina non è poi così azzardato", argomenta Giordano Biserni,
presidente dell'Asaps, gli amici della stradale: "Anche se fra una vettura e una
pistola c'è una fondamentale differenza: la prima la sanno usare tutti, la
seconda no. A una certa distanza, tra un auto in arrivo e un proiettile, datemi
la pallottola. Perché il tiratore più è scarso e più è facile che ti manchi. Il
conducente più è scarso, più è facile che ti prenda in pieno". E nella maggior
parte dei casi, anche solo a 50 chilometri orari il risultato è comunque lo
stesso. Si muore.
Sicurezza tradita Il divario tra le vittime delle armi da fuoco e quelle degli
investimenti stradali fa riflettere sull'attuale definizione politica della
parola 'sicurezza'. Che si concentra sugli uni e dimentica gli altri. In Italia,
'annunci del lunedì' a parte, c'è un abisso fra le dichiarazioni e i fatti.
L'impegno preso in Europa nel 2001 di dimezzare le vittime del traffico entro il
2010 è ancora lontano e non sarà raggiunto. Secondo i dati dello European
Transport Safety Council, l'Italia è ferma al 32 per cento in meno rispetto alla
Francia che ha già praticamente raggiunto l'obiettivo, alla Spagna che è in
dirittura d'arrivo, e persino alla Germania. I benefici effetti della patente a
punti, inoltre, si stanno esaurendo. Come avverte la Fondazione Ania, si è
spento l'effetto novità, si sono allentati i controlli, ed è troppo facile
riguadagnare i punti persi. I controlli, appunto. È questa una chiave per
rallentare il contatore delle vittime. Il progressivo aumento dei posti di
blocco e dei test alcolemici, ad esempio, ha permesso ai francesi di dimezzare i
loro lutti. Oltralpe hanno superato la soglia dei cinque milioni di test, con
l'ambizioso obiettivo di arrivare a otto. In Italia invece siamo parecchio
dietro, nonostante l'enorme recupero degli ultimi tempi. Tre anni fa polizia e
carabinieri fermavano solo 240 mila guidatori l'anno, cifra cresciuta
esponenzialmente fino a sfiorare il milione e 400 mila del 2008. I risultati non
sono tardati: nello stesso periodo il numero di morti e feriti è costantemente
diminuito. La ricetta quindi sembra quella giusta, e la Fondazione Ania indica
un livello ottimale di controlli per il nostro Paese: per avere un buon effetto
deterrenza ogni anno ne servirebbero almeno tre milioni e mezzo. Purtroppo però
la risposta del governo è in netta controtendenza, visto che l'ultima
Finanziaria ha tagliato risorse alla sicurezza stradale (vedi box a pag. 55).
"Eppure investire di più oggi ci farebbe risparmiare domani in euro, ma
soprattutto in vite umane", nota Sandro Salvati della Fondazione Ania. Come
succede a chi punta sulla tecnologia. A detta di molti lo strumento principe
sembra essere l'ormai famoso Tutor. Col nuovo sistema di rilevazione della
velocità, Autostrade per l'Italia fa sapere di aver ridotto del 50 per cento la
mortalità, e assicura che ne farà uso sempre più esteso. Altrettanto convinti
all'Anas: nei prossimi mesi partirà la sperimentazione su alcune 'vie della
morte', come la Romea, l'Aurelia e la Domiziana.
La lista nera delle strade Del resto le strade pericolose contribuiscono
fortemente al tributo di sangue versato ogni anno. In Italia ce ne sono troppe,
e con assiduità forniscono materiale per la cronaca nera. Si stima infatti che
la stragrande maggioranza degli incidenti (circa l'80 per cento) si verifichi su
un numero limitato di arterie (il 20). Ma quali sono i killer d'asfalto? L'Aci
ha provato a stilare un elenco. Fra le autostrade cittadine primeggia la
Tangenziale di Napoli, seguita da alcuni tratti del Grande raccordo anulare
romano. Attenti anche su quelle extraurbane, in particolare se si viaggia sulla
Torino-Trieste. Passando alle statali, due volte più rischiose delle autostrade,
in testa alla classifica si trova la Tiburtina, fra Roma e Tivoli, seguita dalla
famigerata Jonica, nel tratto che solca il Crotonese. Meglio starsene in città?
Non proprio: nei centri urbani si verifica la maggior parte di tamponamenti e
affini. Basti pensare, lo scrive la Fondazione Ania, che in Italia ogni quattro
incidenti con danni alle persone, tre avvengono in ambito urbano. Anche in
questo caso il raffronto con l'Europa ci penalizza: secondo uno studio Eurostat,
Roma è la capitale dove si muore di più sulla strada. E dove negli ultimi dieci
anni sono stati fatti meno passi avanti quanto a prevenzione.
Niente prevenzione, ossia l'altra chiave del problema. Forse per questo, secondo
dati dell'Osservatorio il Centauro Asaps, dei 21 casi che a metà di questo mese
hanno mestamente spinto il Lazio al primo posto in classifica per pirateria
stradale, 17 si sono verificati nella capitale. La piaga però riguarda l'intero
Paese, e dopo il record 2008 (in tutta Italia 323 episodi, con 98 morti e 331
feriti) non accenna a diminuire. Oggi siamo già a quota 116, con 21 persone
uccise e 152 ricoveri. A tragedia avvenuta, che il pirata venga frequentemente
identificato (nel 72 per cento dei casi) è consolazione tardiva. Ma sempre in
nome della prevenzione, aiuterebbe capire cos'è che non va nella nostra guida.
Ci viene incontro l'Istat, che in cima alle cause di morte pone l'eccesso di
velocità. Subito dopo però troviamo la guida distratta. E per chi è al volante è
immediatamente chiaro che la distrazione ha un nome: telefonino. "Parlare al
cellulare rappresenta un pericolo enorme", avverte Taggi: "È come guidare con il
doppio del limite massimo di alcol nel sangue. Il rischio incidente aumenta
quattro volte".
Presunzione d'incolumità Controlli a parte, come sottolinea il vicequestore
della Stradale Elisabetta Mancini, "c'è tanto lavoro da fare da un punto di
vista culturale". "Il primo nodo da sciogliere è la nostra fatalistica
presunzione d'incolumità", osserva Gioia Longo Di Cristofaro, docente di
antropologia culturale a La Sapienza di Roma: "Ad esempio basterebbe spiegare
che cosa significa 'perdere la faccia'. Quando a uno studente, o persino al
tassista più navigato, fai capire che senza cinture rischia di deturparsi il
viso, e gli parli degli interventi maxillo-facciali di cui poi avrà bisogno,
vedi che cambia espressione e si mette la cintura". Ovviamente, però, è tutto
vano "se all'informazione sugli obblighi non seguono i controlli, perché sennò
ai giovani la società risulta incoerente, ergo poco credibile". Altra questione
culturale, per l'antropologa, è il rapporto con l'automobile stessa. "Mentre per
la donna è un mezzo di servizio, per l'uomo l'auto è biglietto da visita, totem
o protesi meccanica: fa vedere 'chi sei'. I Suv sono l'apice di questo
approccio".
Tra Suv e minicar Già, i gipponi: sicuri dentro, e inarrestabili fuori,
soprattutto quando la loro mole in città diventa un rischio per chi cammina o va
in bicicletta. Contro questa categoria gli strali di Altroconsumo: "Le vetture
sottoposte a crash test manifestano un punto critico generale: la sicurezza di
pedoni e ciclisti. E i produttori non fanno ancora abbastanza". Dagli elefanti
alle formiche, nulla cambia. Le minicar che scorrazzano per le nostre grandi
città sono vere e proprie mine vaganti: fanno il doppio degli incidenti di un
auto normale. Spesso vengono regalate ai ragazzi e affollano i parcheggi dei
licei: 'pistole' giocattolo, insomma, ma molto più pericolose di quelle vere.
Milano, l'Odissea dei
migranti
I richiedenti asilo del Corno d'Africa sgomberati
dai giardini di Porta Venezia per l'identificazione in Questura. In serata
incontro con il funzionario Onu per i rifugiati
Continua per la città di Mlano l'Odissea degli immigrati del Corno d'Africa che
chiedono una casa e il riconoscimento dello status di rifugiati. Da giorni
vagano per il centro, in attesa di una sistemazione dopo lo sgombero dal
residence 'Leonardo Da Vinci'.
Baci
e abbracci. Stamani oltre un centinaio di loro, dopo aver passato la notte nei
giardini di Porta Venezia, ha trovato le forze dell'ordine (Polizia,
Carabinieri, Guardia di Finanza) a tentare di 'sgomberarli' nuovamente. Gli
agenti si sono presentati nelle più svariate fogge: dall'uniforme grigia,
berretto verde e fazzoletto giallo della Guardia di Finanza al completo
ginocchiere-caschi-scudi nero e blu dell'antisommossa, fino alla polizia in
borghese, giacca e camicia leggera, o felpa griffata 'Baci e abbracci', giusto
perchè la stagione è incline al bel tempo, e col sole le divise fanno sudare. Le
forze di polizia hanno cordonato i migranti che sostavano nel parco, pronti a
caricarli sul pullman che li avrebbe condotti in Questura.
Ulteriore identificazione. Dopo qualche momento di tensione, ai giardini di
Porta Venezia è arrivato il funzionario dell'alto commissariato Onu per i
rifugiati, Riccardo Clerici, che ha preso parte attiva al 'negoziato' tra
immigrati e forze di polizia. La trattativa con i funzionari della Questura è
stata laboriosa perchè gli immigrati rifiutavano la verifica delle impronte
digitali in caserma, sostenendo di essere tutti regolari. Sostenendo inoltre che
erano già stati identificati ieri, ma probabilmente per un cittadino regolare,
come loro sono, in quanto titolari dello status di soggiornanti con permesso
umanitario, i documenti non bastano. Ci vogliono le impronte. Alcuni di loro,
memori degli scontri di due giorni fa, evidentemente temevano un trattamento
brutale da parte della polizia. Dopo aver lasciato la struttura occupata due
giorni fa, nel tentativo di uscire dal cordone delle forze di sicurezza, erano
stati manganellati riportando lievi ferite. Anche un operatore di PeaceReporter
nell'occasione era stato fermato. Una volta rassicurati anche sulla presenza in
caserma del funzionario Onu, gli immigrati hanno accettato di lasciare il parco
per venire condotti alla caserma Masarin, a Quarto Oggiaro, per l'ulteriore
identificazione.
"Manca la volontà politica". L'ennesima tappa del vagabondare degli immigrati
preluderà probabilmente a nuove offerte di alloggio da parte del Comune.
Sistemazioni temporanee e insufficienti, a sentire i rappresentanti delle
associazioni che non solo in questi giorni, ma da anni ormai, seguono il
problema dei richiedenti asili a Milano. Primi fra tutti i volontari del Naga,
organizzazione che presta assistenza sanitaria agli immigrati, e che denuncia
l'incapacità cronica del Comune di offrire accoglienza agli stranieri. "Non c'è
volontà politica - ha spiegato il presidente Pietro Massarotto - di trovare
soluzioni durevoli e non emergenziali, proseguendo nel generale processo di
criminalizzazione dell'immigrazione". La richiesta dei migranti, molti dei quali
sono presenti sul nostro territorio ormai da diversi anni, è di poter espatriare
e cercare lavoro e sistemazione altrove. Nei Paesi dell'Europa settentrionale,
dove il problema dei richiedenti asilo ha sicuramente un approccio più
razionale.
Luca Galassi
Le maestre fantasma di Milano
"Falsi certificati di invalidità"
Tutte residenti al Sud. Le
diagnosi: diabete, scoliosi, depressione e stati d'ansia
MILANO
- Certificati medici costruiti ad hoc per ottenere il trasferimento a casa.
Maestre elementari affette da invalidità immaginarie, provate da medici
compiacenti, per lasciare le scuole della provincia di Milano e farsi assegnare
al Sud. Le cartelle mediche parlano di scoliosi, ansia, depressione, diabete.
Patologie riscontrate dalle Asl di residenza e che scompaiono nei successivi
controlli. Ma che, per legge, consentono il trasferimento immediato a casa.
Spesso senza aver fatto nemmeno un giorno di lezione nella sede per cui si è
vinto il concorso.
Per vedere chiaro sulla fabbrica dei certificati truccati, il provveditorato
milanese ha inviato un dossier alle procure di Milano e di Reggio Calabria.
Nelle denunce si ricostruiscono i casi di 27 maestre, invalide e guarite per
miracolo, ma intanto trasferite. Le insegnanti sono tutte originarie della
provincia di Reggio Calabria: maestre che dal 2006 a oggi hanno chiesto (e
ottenuto) di lasciare Milano perché affette da invalidità fantasma. Casi gravi
di diabete mellito, almeno dieci, che di colpo si trasformano in "nessuna forma
di handicap". Dolori alla schiena "cronici e permanentemente invalidanti" che a
ogni prova medica successiva alla prima scompaiono. "Ma è solo la punta
dell'iceberg - assicurano all'ufficio scolastico - il malcostume delle false
invalidità per ottenere trasferimenti ha dimensioni preoccupanti".
A consentire questa "truffa di massa", come la definisce un funzionario del
provveditorato, sono alcune falle nella legge 104, quella che disciplina
l'handicap, e nel contratto sulla mobilità degli insegnanti. Per ottenere un
trasferimento è sufficiente presentare un certificato d'invalidità provvisorio,
fatto da un medico della Asl di residenza. Alla scuola che il docente lascia,
per tutela della privacy, non viene indicata né la patologia né il grado di
invalidità, che si presume quindi essere grave. E la maestra può fare le
valigie. Entro 90 giorni, a trasferimento già avvenuto, la stessa Asl è tenuta a
fare un secondo certificato di conferma, in cui invece si dichiara la
percentuale di invalidità. Il verdetto, nei casi arrivati alle procure, è sempre
lo stesso: "Non handicap", e a quel punto il trasferimento viene annullato. Ma
qui sorge il problema: fra la prima e la seconda visita, per l'inefficienza
delle aziende sanitarie, passano anche tre anni. E intanto la maestra insegna al
Sud, o non insegna proprio, lasciando scoperta la cattedra che le era stata
assegnata per concorso. Un "baco" che nella sola Lombardia lascia ogni anno
centinaia di cattedre vuote, da coprire con supplenze (costose).
Situazioni analoghe a quella milanese si trovano anche a Firenze, Venezia e
Torino. Le province di provenienza delle maestre sono sempre le stesse: Reggio
Calabria e Agrigento, ma ci sono segnalazioni di casi dal Casertano.
"Rivolgendoci alla procura abbiamo voluto compiere un atto di chiarezza", taglia
corto il provveditore di Milano, Antonio Lupacchino. E di fronte all'evidenza
documentale, neppure i sindacati della scuola coprono i colleghi. Pippo Frisone,
responsabile vertenze della Flc-Cgil a Milano, dice: "La responsabilità, specie
quella penale, è personale e non bisogna generalizzare. Certo, fa specie la
concentrazione di documentazione provvisoria compiacente, rilasciata in attesa
di quella collegiale definitiva".
Quanto al fatto che i casi si concentrino al Sud, Frisone attacca: "Se in mezza
Italia i tempi di attesa della certificazione Asl vanno oltre i novanta giorni
previsti, si lascia il campo libero anche agli abusi". Cgil chiede al governo
che "siano rese più rigide le norme contrattuali e chiusi tutti i varchi che
favoriscono gli abusi e il malaffare. Anche perché oggi si è trasferiti al Sud
solo se beneficiari della legge 104. Noi siamo per tutelare i diritti veri di
chi ha veramente riconosciuto il diritto per legge e per contratto".
21 aprile
Caccia,
arriva la legge liberi tutti
Ambientalisti: "Specie a rischio"
Una norma cancella i limiti: Italia sotto
accusa perché permette di uccidere specie che l'Ue vuole proteggere
ANTONIO CIANCIULLO
ROMA - Si potrà sparare a ferragosto, quando
la città si trasferisce in campagna. A febbraio, mentre i migratori
volano verso i luoghi della riproduzione. E poi, di deroga in deroga, i
confini della stagione venatoria potrebbero allargarsi erodendo sempre
di più il tempo della natura protetta. È la libera caccia versione due.
Il primo tentativo del governo di far saltare le regole del gioco
mettendo il fucile in mano ai sedicenni e permettendo di sparare a
pagamento anche con il buio e sulla neve non ha avuto un buon indice di
gradimento ed è rimasto prudentemente parcheggiato in Senato. Adesso il
blitz si ripete alla Camera con maggiore accortezza: questa mattina si
discute in commissione Agricoltura un testo in cui, camuffata sotto
formule ambigue, si offre la possibilità di ampliare la stagione
venatoria oltre i confini attuali che vanno dal primo settembre al 31
gennaio.
"È un capolavoro di retorica, nel senso peggiore del termine", spiega
Danilo Selvaggi, responsabile Lipu dei rapporti con le istituzioni. "Si
pretende di dare una risposta alle richieste dell'Unione europea che
accusa il nostro paese di cacciare troppo e male, ma in realtà si
propongono modifiche che peggiorano la situazione in modo drastico. Se
questa legge venisse approvata la pressione dei cacciatori dilagherebbe:
una volta saltati i paletti che fissano l'inizio e la fine della
stagione venatoria le Regioni potrebbero decidere deroghe in ogni
momento dell'anno. Uno schiaffo alla protezione della natura e
all'Unione europea".
Contro questa proposta si è immediatamente mobilitato un fronte composto
da oltre venti associazione ambientaliste (Lipu, Lav, Wwf, Legambiente,
Enpa, Animalisti italiani, Fare Verde) e dai cacciatori che difendono la
legge quadro e il legame con il territorio (Arcicaccia). In poche ore
sono arrivate le adesioni di personaggi del mondo della cultura e dello
spettacolo, da Susanna Tamaro a Licia Colò, da Maurizio Costanzo a
Danilo Mainardi, da Renato Zero a Marisa Laurito. E tra i parlamentari
del Pdl c'è chi non ha gradito la deregulation selvaggia delle
doppiette: Gianni Mancuso e Fiorella Ceccacci Rubino hanno presentato
emendamenti per correggere la pressione degli oltranzisti della
doppietta.
Anche all'interno del governo pare serpeggi un certo disagio. Un
malumore aggravato dalla beffa che si aggiunge al danno: per far passare
le misure anti europee si è usato lo strumento nato per sanare i
contrasti con Bruxelles. Nella Legge Comunitaria è stato infatti
inserito un emendamento firmato da due senatori del Pdl (Valerio Carrara
e Sergio Vetrella) che cancella i termini di riferimento della stagione
venatoria aprendo le porte a deroghe per allungare il calendario.
Insomma l'Italia è sotto accusa perché permette di sparare a specie che
secondo l'Unione europea vanno protette (ad esempio il fischione, la
canapiglia, il mestolone) e invece di mettersi in regola getta le
premesse per un altro contenzioso sui limiti della stagione venatoria
che l'Europa ha fissato in modo da evitare lo sterminio dei migratori
prima del momento della riproduzione.
Ma quanto ci costano i software di
Sacconi?
di Federico Ferrazza
Chissà se fra i tre (ex) dicasteri che coordina (Lavoro, Salute
e Politiche Sociali), il ministro Sacconi è riuscito a trovare
il tempo per dare un'occhiata al
bando per “l'affidamento dei servizi di consulenza
direzionale per l’evoluzione del Nuovo Sistema Informativo
Sanitario (NSIS) e per lo sviluppo di metodologie a supporto del
Sistema nazionale di verifica e controllo dell’assistenza
sanitaria (SiVeAS)”. Un avviso non proprio da quattro soldi.
Tutt'altro: in palio c'è una somma astronomica; la cifra massima
dell'asta è infatti 17,5 milioni di euro in tre anni.
Come
si legge sul sito
Internet ufficiale, “il Nuovo Sistema Informativo Sanitario,
nato a valle dell'Accordo Quadro tra lo Stato, le Regioni e le
Province Autonome di Trento e Bolzano del 22 febbraio 2001,
rappresenta la base dati condivisa finalizzata allo sviluppo di
misure necessarie al bilanciamento costi-qualità”.
Il
SiVeAS si è invece insediato ufficialmente a febbraio del
2007 e ha un'autorizzazione di spesa di otto milioni di euro
(anche se al momento non ha prodotto granché).
I due
progetti informatici oggetto del bando, quindi, non sono da
costruire da zero. E neanche da rifondare. A dirlo è lo stesso
avviso del ministero visto che si parla solamente di
“evoluzione”. Ciononostante sul piatto ci sono 17 milioni e
mezzo di euro. Ma non è tanto la cifra – che secondo molti
addetti ai lavori interpellati da L'espresso è davvero eccessiva
– a destare le maggiori perplessità, quanto i calcoli che il
personale del ministero ha fatto per arrivare a questi numeri.
Andando a pagina 100 del capitolato tecnico, si può infatti
notare che i giorni/persona richiesti per i due progetti sono in
tutto 16.432. Facendo due conti e considerando che, in media,
una persona lavora 200 giorni all'anno, le persone a tempo pieno
necessarie, secondo i calcoli del ministero, sono una trentina.
Che quindi avrebbero uno stipendio di oltre 16mila euro al mese
per tre anni. Non male se si aggiunge che nel bando si dice
esplicitamente che un terzo del lavoro potrebbe essere svolto da
personale “junior”, termine aziendale che indica l'ultima ruota
del carro. Che – nella migliore delle ipotesi – guadagna al
massimo 2.000 euro al mese.
Ma lo
spreco non si ferma qui. Il bando – che taglia fuori la maggior
parte delle piccole e medie imprese del settore visto che
accetta solamente aziende con un fatturato minimo di 35milioni
di euro nel triennio 2005-2007 e, nello stesso periodo, con un
giro d'affari di 12milioni nei “servizi di consulenza
strategica, organizzativa e gestionale nell'ambito del servizio
sanitario nazionale” – non richiede infatti solo una consulenza
informatica. Ma una vera e propria attività di ricerca
medico-scientifica.
Fra i servizi da offrire (riassunti in una tabella a pagina 70
del capitolato tecnico) ci sono:
1)
Supporto strategico per l’evoluzione del NSIS,
2)
Supporto alle analisi di qualità e completezza del patrimonio
informativo NSIS,
3)
Redazione degli studi di fattibilità NSIS,
4)
Supporto nel governo del programma di attuazione del NSIS, 5)
Sviluppo di metodologie per l’analisi dei fenomeni sanitari e 6)
Monitoraggio dei Piani di rientro.
E' dunque del tutto evidente che la consulenza sconfini in
attività di pura ricerca, come quelle del punto 5, per le quali
il dibattito nelle scienze cliniche, epidemiologiche, economiche
è in corso e tutt’altro che concluso. Anche altre attività, pur
potendosi configurare come consulenza, di fatto riguardano in
larga misura l’analisi statistica (punto 2), e quella
economico-giuridica (punto 6); viene poi naturale pensare che
anche sul punto 3 l’expertise di statistici e ingegneri
sia del tutto auspicabile.
C'è
chiedersi, poi, se la strada di affidare tutto all'esterno possa
coniugare efficienza e risultati: non sarebbe meglio pensare che
il ministero sviluppi al suo interno tali professionalità (il
fatto che vadano a gara deve far pensare che non siano
attualmente disponibili)? E anche se l’outsourcing fosse del
tutto necessario e opportuno, è possibile che non esistano
nell’ambito della Pa (e in particolare negli Enti tecnici del
settore sanitario) professionalità adeguate che possono essere
messe a disposizione del ministero? Istanze che se accolte
porterebbero a risparmiare parecchi soldi allo Stato.
Soprattutto considerando che sulla busta paga di un ricercatore
pubblico – con 25 anni di anzianità - risultano al massimo circa
150 euro al giorno. E non 533, come quelli previsti dal bando
ministeriale.
Polveriera Pomigliano
di Emiliano Fittipaldi
La produzione in caduta
libera. E il reddito di 9 mila famiglie a rischio. Cronaca da una piazza
che rischia di esplodere
Vincenzo, spalle larghe e lingua veloce, lavora alle carrozzerie da
vent'anni. Portare la grande croce per una cinquantina di metri non gli
ha pesato più di tanto. È fiero di aver messo in scena venerdì, insieme
ai suoi compagni, una delle 'Via Crucis' più operaiste degli ultimi
decenni. Una scelta del parroco don Peppino, che ha voluto le tute blu
della Fiat di Pomigliano, i "nuovi crocifissi", per rappresentare la
passione di Gesù. Sono passati quattro giorni dall'evento. Vincenzo
riempie i polmoni e sbraita. "Il macigno vero noi lo portiamo dentro.
Pomigliano ormai non è più una fabbrica, ma una polveriera. Se i
politici e l'azienda non si danno una mossa, qui esplode tutto. Sarà
molto peggio della Francia, dei sequestri in Belgio".
È martedì 14 aprile, ma il parcheggio destinato a carristi e lastratori
della Fiat è deserto come fosse domenica pomeriggio. Il piazzale delle
auto invendute, ordinate a comporre file colorate, è invece pieno come
un uovo. La crisi mondiale ha azionato il ralenty alla catena di
montaggio che mette insieme i pezzi delle Alfa 147 e 159. I lavoratori
sono tutti in cassa integrazione ordinaria. Spenti pure gli schermi al
plasma dell'area ristoro, inaugurata poco più di un anno fa. Era stata
creata per evitare che gli operai si preparassero il caffè durante il
turno: dentro una portiera era stato trovato un bicchierino di plastica
sporco. Colpa dell'indisciplina, della bassa produttività e
dell'assenteismo: i 5mila dipendenti erano stati costretti a seguire per
due mesi un 'corso di rieducazione'. Vincenzo al solo ricordo schiuma
altra rabbia. Poi guarda la fabbrica muta, e si fa cupo. "È una
tragedia. Pomigliano è l'ultima cattedrale della classe operaia rimasta
in Campania, l'ultimo grande impianto produttivo che genera un po' di
lavoro. Se chiude, è la fine".
Le forze dell'ordine, i sindaci della zona, persino la Chiesa sanno che
la santabarbara, in terra di camorra e tassi di disoccupazione a doppia
cifra, rischia davvero di saltare. È il punto più sensibile d'Italia,
dove la recessione s'intreccia con il disfacimento del patto tra
lavoratori, aziende e istituzioni. Il luogo, soprattutto, in cui
sindacati e partiti stanno perdendo il tradizionale ruolo di mediatori.
Le nuove Brigate rosse l'hanno capito al volo, e stanno tentando di
trasformare la vecchia Alfa Sud nel simbolo della lotta contro il
capitalismo delle disuguaglianze. "Con tre brutali cariche a freddo",
hanno scritto gli imputati al processo in Corte d'assise a Milano dopo
gli scontri sulla 'A1' dello scorso febbraio, "le forze della
repressione hanno cercato di impedire che la giusta lotta degli operai
valicasse i cancelli della fabbrica coinvolgendo la popolazione con il
blocco dell'autostrada. Vicinanza e solidarietà agli operai Fiat di
Pomigliano, così come a tutte quelle situazioni che lottando non
intendono subire passive gli effetti della crisi del capitalismo". Il pm
Ilda Boccassini ha impedito che il comunicato fosse letto in aula, ma
non ha potuto bloccarne la divulgazione su Internet: sul sito di
Indymedia, su quello di un collettivo antagonista, persino su una pagina
dedicata agli ultras è possibile trovare il testo con gli attacchi al
governo, al "padronato" e al giuslavorista Pietro Ichino.
Pomigliano è un'icona, da sempre. Difficile che oggi i metalmeccanici
facciano un tuffo all'indietro negli anni Settanta: le ideologie
egualitarie e solidali sono morte, gli operai non sono più, per dirla
alla maniera del sociologo Aris Accornero, "macchine per la lotta di
classe" come i loro padri. Sono individui, guardano il 'Grande Fratello'
e 'Amici', pensano solo a guadagnarsi 'la mesata'. "Ma la tempesta sta
arrivando lo stesso", avverte Andrea Amendola, capo della Fiom della
città e memoria storica dell'alfismo militante. Tra dipendenti e indotto
il vecchio stabilimento fa mangiare novemila famiglie, in tutta la
Campania il settore dell'auto occupa oltre 20 mila persone,
rappresentando una parte rilevante del Pil regionale. Decine di piccole
imprese gravitano intorno alla Fiat dal 1971. L'agonia dei consumi ha
gettato tutti nel panico. La produzione è passata dalle 195 mila auto
del 2001 alle 60 mila del 2008. Un crollo mai visto. Le stime per quest'anno
sono catastrofiche: se il trend non si inverte, si costruiranno in
totale meno di 40 mila vetture. "Il fatto è che, a parte la costosa 159,
non sono previste nuove linee", spiega Amendola:"Anche Termini Imerese,
che fa solo Lancia Y, se la passa male. A Melfi e Cassino, dove si
assemblano la Grande Punto e la nuova 149, respirano ancora".
In città la 'caccia al manager' organizzata dai lavoratori francesi
infuriati per tagli e licenziamenti inizia a far breccia nella
pianificazione delle proteste. I capifamiglia, quelli monoreddito,
pretendono che i sindacati alzino l'asticella della contestazione.
Qualcuno spiega che occupare Pomigliano sarebbe inutile, si farebbe solo
un favore ai manager di Torino. "Meglio puntare sui capannoni di Melfi",
dicono i più arrabbiati: "Il danno economico sarebbe ingente. Ma per
sfondare le porte e conquistare l'edificio servono circa 400 compagni,
il blitz va organizzato bene".
Il cellulare dei delegati sindacali squilla in continuazione. Arrivano
pressioni, minacce. Persino i duri della Fiom temono per la loro
incolumità. La sede dei metalmeccanici è un porto di mare. Arrivano
quelli dell'Avio, altra azienda traballante: la divisione che fa
revisione ai motori degli aerei ha perso la commessa Alitalia, che ha
preferito rivolgersi a una ditta israeliana, la Bedek. Si fanno sentire
quelli della Cablauto e dell'ex Selca, che tra pochi giorni rimarranno
senza alcun reddito. Il virus della cassa integrazione se lo sono presi
anche quelli della Marelli, che costruiscono sistemi di scarico; i
compagni della Lear, che montano i seggiolini; la G.M. di Arzano,
specializzata nella motorizzazione.
Aniello Niglio, operaio di 47 anni, due figlie di 15 e 16 anni da
mandare a scuola, un mutuo e qualche debito fatti con il credito al
consumo, spiega che il sindacato finora ha fatto da valvola di sfogo
alle tensioni. Ma annuncia che "il tempo delle chiacchiere sta
scadendo". L'appello di Paolo Bonolis durante Sanremo per la
sopravvivenza dell'impianto, come la solidarietà di Benedetto XVI, è
un'operazione mediatica che ha permesso alla vertenza di finire sulle
pagine dei giornali, ma i lavoratori si lamentano di aver raccolto, dopo
mesi di battaglia, assai poco. Il corso finanziato dalla Regione
Campania, importante welfare perequativo voluto da Antonio Bassolino,
non è ancora partito, mentre il patto tra Obama e la Fiat per salvare la
Chrysler dal fallimento ha ulteriormente esacerbato gli animi. "Marchionne
va a prendersi gli applausi a Detroit e abbandona al loro destino gli
operai italiani. Bisogna avere il coraggio di dire che le politiche
industriali per Pomigliano sono state fal-li-men-ta-ri". L'ingegnere
italo-canadese non ha per ora sciolto le riserve. La berlina 159, unico
modello rimasto appannaggio dello stabilimento, non rientra nemmeno tra
le vetture agevolate dagli incentivi statali. I politici hanno proposto
che il sito si riconverta alle auto verdi ultraecologiche, ma per ora
nessuna decisione è stata presa.
Anche il prefetto Alessandro Pansa ammette di essere preoccupato:
"Questa è l'unica area industriale importante della provincia. L'età
media degli operai Fiat, poi, è bassissima: trentasei anni. Non è un
caso che Berlusconi in persona abbia incontrato i lavoratori per più di
un'ora". Nel faccia a faccia il premier ha promesso di impegnarsi nella
vicenda "con la testa e con il cuore". Si è preso gli applausi appena ha
parlato di un (difficile) prolungamento della cassa integrazione, ma
qualcuno ha storto il naso quando, puntando l'indice sulla pancia
straripante di un delegato della Fim-Cisl, il Cavaliere gli ha prima
intimato una dieta ferrea, poi ha dichiarato alla platea che lui, se
fosse licenziato, si rimboccherebbe le maniche.
Il miscuglio di rabbia e indignazione che ribolle nel ventre della città
non si vede in superficie. Esclusi sei giorni di lavoro al mese gli
operai se ne stanno in famiglia, o ciondolano per le strade. "Qualcuno
cerca di arrotondare lo stipendio, ridotto a 7-800 euro, con qualche
lavoretto in nero, ma certe nicchie sono ormai monopolizzate da africani
e rumeni", dice Giuseppe Saccoia, in catena di montaggio da quasi 35
anni. Se i giovani non torneranno presto a indossare le loro tute da
Cipputi, dice, rischieranno di finire intrappolati nelle maglie della
camorra. Il prefetto getta acqua sul fuoco. "Il sistema non ha mai
reclutato operai, figuriamoci quelli della Fiat. A Pomigliano i rischi
veri", conclude Pansa,"sono l'indebitamento, il boom dell'usura,
l'infiltrazione della criminalità nelle piccole imprese".
L'operaio Saccoia scuote la testa e sorride amaro. Dice che è sempre
stato legato alle istituzioni, al sindacato, ai partiti. Stima il
presidente Giorgio Napolitano, che ha votato quando era candidato a
Bagnoli. Oggi racconta che se tutto andrà in malora anche lui si unirà
alla lotta. "Io ancora oggi credo in una democrazia compiuta. Ma voglio
proprio vedere quale giudice avrà il coraggio, dopo che sono stato
mortificato come uomo e come lavoratore, di dirmi in faccia che sono un
terrorista".
La guerra dei low cost
di Daniela Condorelli e Daniela Minerva
Italia i farmaci a basso
prezzo non decollano. La Ue accusa: Big Pharma gioca sporco. Per
proteggere il mercato e convincere i medici a prescrivere i brand. Ecco
come
I laboratori Beyer
Mezzo miliardo di euro, almeno. È quanto potremmo risparmiare se
utilizzassimo, come fanno gli altri paesi europei, i farmaci a basso
costo. Che non vuol dire a minor qualità, ma, semplicemente,
prodotti fuori dalla copertura brevettuale; insomma, i cosiddetti
generici. Invece, per colpa delle manovre delle aziende, per colpa
dei medici e anche un po' per colpa nostra regaliamo a Big Pharma
ogni anno una montagna di soldi che poi, lo Stato, è costretto a
tagliare da altre parti: ospedali, farmaci innovativi, assistenza
agli anziani, e così via.
La faccenda è talmente seria che l'Unione europea ha deciso di
correre ai ripari e avviare un'inchiesta sulle ragioni, e talvolta
gli illeciti, che impediscono al mercato dei generici di decollare
come sarebbe logico che fosse. Perché, se l'Italia è il fanalino di
coda (come mostra il
grafico) con un divario spaventoso con gli altri membri della
comunità, in tutta l'Unione i low cost arrancano. Le ragioni sono
squadernate in un rapporto redatto dagli ispettori della Commissione
europea sulla concorrenza: 426 pagine che riportano i risultati
preliminari di un'inchiesta nel settore farmaceutico che sarà
completata e resa nota nei prossimi mesi.
L'avvio dell'offensiva comunitaria è datato gennaio 2008, quando, a
sorpresa, la task force degli ispettori della Commissione è arrivata
negli headquarter di multinazionali come GlaxoSmithKline, Pfizer,
AstraZeneca, Wyeth, Merck e Sanofi-Aventis per indagare i meccanismi
di un mercato che fattura ogni anno oltre 214 miliardi di euro, 430
euro per ogni cittadino europeo nel 2007. Motivo dell'indagine, con
le parole di Neelie Kroes, commissario Ue per la Concorrenza:
"Capire perché non vi sia innovazione e perché le alternative
generiche più economiche vengano ostacolate. E prendere
provvedimenti". L'iniziativa di Kroes questa volta è a
trecentosessanta gradi e riguarda tutti i big, ma già nel 2005
AstraZeneca era stata multata dalla commissione: 60 milioni di euro
per aver ostacolato l'ingresso sul mercato del concorrente generico
del suo anti ulcera Losec. Secondo gli ispettori europei, la
compagnia francese aveva fornito agli uffici brevetti informazioni
fuorvianti nascondendo la data di rilascio della prima
autorizzazione al commercio per ottenere il prolungamento della
protezione.
Che il fuoco di sbarramento di Big Pharma sia sempre più serrato lo
dimostra il fatto che dal 2000 al 2007 sono stati messi in commercio
27 generici ogni anno, contro i 40 che arrivavano annualmente nelle
farmacie dal 1995 al 1999. Non solo: secondo un'indagine dell'European
generics Association, il prodotto low cost ci mette fino a 20 mesi
ad arrivare sul mercato dopo la scadenza del brevetto. Neelie Kroes
è preoccupata per il mancato risparmio: "Una stima su un campione di
farmaci nei 17 paesi membri ha evidenziato che tra il 2000 ed il
2007 i ritardi all'ingresso dei generici sono costati tre miliardi".
D'altra parte, pochi hanno interesse a sveltire le procedure e il
rapporto europeo lo spiega nel dettaglio.
A partire dagli accordi tra le aziende titolari dei brevetti e
quelle pronte a produrre generici per convincerle a temporeggiare,
come hanno scoperto gli ispettori della signora Kroes. Come
stupirsi, visto che le maggiori industrie di generici sono sorelle
delle grandi multinazionale? Sandoz è il braccio generico di
Novartis, Winthrop di Sanofi-Aventis, Angenerico dell'italiana
Angelini; e la numero uno Pfizer ha un accordo con la regina indiana
delle copiatrici, Aurobindo.
È ovvio quindi che i grandi gruppi programmino le uscite di prodotti
con criteri di profitto industriale e non di risparmio per i
consumatori. Come è ovvio che si battano come leoni per contrastare,
invece, le genericiste indipendenti. E per fare questo non mancano
di siglare accordi: l'inchiesta della Commissione ha evidenziato che
tra il 2000 ed il 2007 alcune industrie sarebbero state pagate per
aspettare a lanciare sul mercato i prodotti generici; 200
contenziosi sono terminati con un accordo economico privato tra
cosiddetti 'originator' e genericisti, pagati 200 milioni di euro
per restare fuori dal mercato.
Soldi benedetti perché, per Big Pharma è in arrivo una batosta senza
precedenti: lo scadere di decine di brevetti di farmaci blockbusters
tra il 2009 e il 2012, quando, sottolineano le ultime stime di Ims
Health, scadranno brevetti che oggi fatturano 134 miliardi di
dollari l'anno. 100 miliardi di euro di opportunità per i generici
negli otto mercati chiave entro il 2013 (vedi
tabella). Sarà un triennio di lacrime e sangue per la grande
industria. Che sulla durata dei brevetti punta molta della sua
attenzione: sin dal 1993 una legge europea prevede che la copertura
sul territorio dell'Unione sia di 20 anni a partire dalla
registrazione. E sono già tanti, considerato che negli Usa il
brevetto scade dopo 11 anni. Ma sempre pochi per Big Pharma che su
questo combatte battaglie portentose e, talvolta, le vince: in
Italia, ad esempio, con una complicata cabala di norme un farmaco
può restare protetto dai 5 ai 18 anni. Ma per i blockbuster della
tabella, il tempo, almeno in Europa, è scaduto.
Prima contromisura messa in campo, sin da oggi dalle industrie 'originator',
hanno svelato i commissari europei è la moltiplicazione dei
brevetti, il patent clustering, che crea intorno ad un unico
principio attivo una fitta e nebulosa rete protettiva. "Fino a 1300
brevetti per un'unica molecola", rivela il commissario Kroes. Che
cercano di ottenere prolungamenti della copertura con la scusa di
nuove indicazioni, formulazioni o addirittura dosaggi.
State a sentire, ad esempio, cosa si è inventata l'americana Merck
per proteggere il mercato del suo blockbuster contro l'osteoporosi,
l'alendronato, commercializzato col nome di Fosamax. Il farmaco era
venduto in blister da 10 milligrammi da assumere una volta al
giorno. Scaduto il brevetto, l'azienda ha creato un nuovo dosaggio:
70 milligrammi da assumere una volta alla settimana. Ma la molecola
è sempre la stessa e la genericista Teva ha portato la faccenda
davanti allo European Patent Office. "Dopo anni di contenziosi nei
tribunali in questi giorni l'Office ha revocato il brevetto Merck,
per mancanza di elementi di novità", riferisce l'avvocato Gian Paolo
Di Santo dello studio Pavia e Ansaldo, difensore di aziende di
generici.
Ma Merck non è un caso isolato: secondo il report, le aziende
lanciano prodotti di seconda generazione, cioè nuove versioni
leggermente modificate, nel 40 per cento dei casi indagati. Un
proliferare per lo più inutile sul piano terapeutico e velato da un
sospetto. "È un rilascio facile perché l'ufficio europeo percepisce
un compenso ogni volta che approva un brevetto?", si chiede Di
Santo.
Fabio Domanico, unico italiano nella Pharma task force della
commissione europea, ha un'altra idea: "Il nostro prodotto di
seconda generazione è l'iniziativa più efficace per contrastare il
generico". Perché, continua, "i brevetti secondari non fermeranno la
concorrenza generica per sempre, ma possono ritardarla di qualche
anno". E lo fanno legittimamente, secondo l'Efpia, European
Federation of Pharmaceuticals Industries and Association: il
pacchetto di strumenti delineati dall'inchiesta altro non sarebbero
se non legittime strategie commerciali.
Come legittimo è portare sempre i contenziosi in tribunale.
"Intentare processi per i brevetti non è l'ostacolo più efficace, ma
tiene fuori i generici", si legge in un documento trovato in
un'azienda, che la Commissione ha voluto mantenere segreta, durante
le ispezioni. E infatti, da gennaio 2008 a oggi, i commissari hanno
contato 700 contenziosi che riguardano una settantina di farmaci dal
brevetto in scadenza. La durata media dei processi è di tre anni e
il costo totale stimato è di oltre 420 milioni di euro. Nel 60 per
cento dei casi a vincere sono i produttori di generici, quota che
sale al 75 per cento se la battaglia è stata portata di fronte
all'ufficio brevetti europei. Ma è una vittoria sanguinosa perché
comporta mesi di ritardo, mentre Big Pharma continua a guadagnare.
E altri mesi di ritardo li regala all'industria la lentezza delle
procedure di approvazione. In questo l'Italia è Palma d'oro
nell'Unione. Michele Uda, responsabile del centro studi di
Assogenerici fa un esempio: "I tempi di approvazione del rimborso e
del prezzo del generico in Italia sono in media di 135 giorni contro
i 14 della Danimarca". Evidentemente le lobby di Big Pharma nel
nostro paese si muovono più agilmente che non, ad esempio, in
Danimarca. E che nella faccenda del mancato boom dei generici nel
nostro paese abbia impattato pesantemente la controffensiva degli
industriali lo dimostrano i dati di vendita.
Perché la vera contromisura per aprire definitivamente questo
mercato sarebbe, nel nostro paese, un patto tra i medici e il
ministero. Più forte di quello che stringono ogni giorno coi dottori
italiani gli uomini delle aziende, gli informatori farmaceutici che
battono il paese con un porta a porta incessante che oggi è l'unico
rapporto che i medici hanno con il mondo dell'innovazione. Perché il
motivo principe per il quale siamo il fanalino di coda dell'Europa è
che "in Italia i medici non hanno intenzione di prescrivere i
generici", dichiara lapidario Giorgio Foresti, presidente di
Assogenerici. E non c'è dubbio che se volesse veramente spezzare
questo patto, il ministero che, di fatto attraverso una convenzione
è il datore di lavoro dei medici di famiglia dovrebbe avere il pugno
duro ma dovrebbe anche mettersi in grado di essere un vero e
presente interlocutore per i dottori.
A sorpresa, concorda Claudio Cricelli, presidente
della Società italiana di medicina generale: "Il farmaco è un bene
complesso: l'industria farmaceutica non si limita a produrre
pasticche, come attualmente fanno le aziende di generici, anche le
maggiori, ma informa i medici. Per esempio: le nuove generazioni di
dottori non sanno nulla sul cortisone, nessun aggiornamento da anni.
Perché costa pochissimo ed è stato abbandonato dagli originators". E
propone: "Bisognerebbe vincolare parte del prezzo di ogni prodotto
alla formazione. Le aziende non dovrebbero avere solo il compito di
produrre, ma l'obbligo di formare".
Così la vede Cricelli, ma resta il dubbio che se a informare sono
solo le aziende, le informazioni che ricevono i medici non sono
molto obiettive. E all'orizzonte spuntano nuovamente i fantasmi dei
congressi-vacanza, dei seminari-cene, dei regalini e tutto quell'armamentario
più volte oggetto di episodi di cronaca e di denunce che l'Aifa
(l'agenzia per il farmaco) negli anni scorsi aveva, quasi
completamente, debellato. Oggi all'Agenzia sono cambiate molte cose
e di attività pubblica e indipendente di formazione e aggiornamento
dei medici non se ne vede granché.
Ed è un fatto che l'Aifa non riesce a mettere in campo misure
convincenti per imporre ai dottori e ai farmacisti l'uso dei
generici. In Francia, invece, un'idea ce l'hanno avuta. E funziona:
offrire incentivi economici che motivino medico e farmacista e quote
di prescrizione da raggiungere. Oltralpe le tre maggiori casse mutua
hanno concordato con i medici un target di prescrizioni di almeno il
25 per cento di farmaci non branded, pena il mancato rinnovo della
convenzione. Ai farmacisti poi viene rimborsata la stessa cifra che
otterrebbero se avessero venduto il brand, più costoso.
In Italia, invece, il farmacista è obbligato ad offrire il generico,
ma guadagna in percentuale sul prezzo del venduto.
E questa cabala spinge un'altra delle anomalie italiane: perché da
noi i generici costano fino a cinque volte quello che costano
altrove in Europa (vedi
tabella)? Risponde Foresti: "L'Italia è l'unico paese in cui al
momento dell'uscita del generico l'azienda originator abbassa il
prezzi. E questo nell'immediato fa risparmiare il Servizio Sanitario
Nazionale, ma impedisce alla concorrenza generica di aver accesso al
mercato. Ecco perché siamo ancora al 10 per cento dei volumi dopo
dieci anni: negli altri paesi l'originator non gioca al ribasso, si
accontenta dei clienti più fidelizzati". Abbassare i prezzi del
prodotto di marca per impedire ai generici di conquistare quote di
mercato è una contromisura delle industrie in Italia. Che forse non
avrebbe senso nei paesi dove medici e pazienti sono d'accordo nel
cambiare l'abitudine a quella certa scatoletta con quei colori di
sempre allo scadere del brevetto. In Italia, invece, annota Cricelli:
"Perché dovrei affannarmi a prescrivere il generico puro se il
paziente preferisce l'altro? Al discount vado se mi costa la metà,
altrimenti mi fermo in gastronomia. Finché il paziente scopre che
tra originator e generico la differenza è una manciata di centesimi
non ha alcun motivo per cambiare scatola, sapore, colore, persino
forma delle pastiglie a cui è abituato".
Il ragionamento di Cricelli non fa una grinza. E si potrebbe anche
riconoscere che, sui prodotti fuori brevetto, il Ssn risparmia
comunque. Ma l'attaccamento al brand è la linfa per Big Pharma. È la
garanzia che il consumatore rimarrà attaccato a quella scatola
seguendola nelle successive trasformazioni: piccole modifiche di
molecola che generano un nuovo brevetto e permettono di aumentare il
prezzo, cambiamenti di dosaggio cui si lega un cambiamento di costo,
innovazioni cosmetiche che di pregnanza terapeutica ne hanno ben
poca ma che proteggono il mercato. E fanno lievitare la spesa.
13 aprile
Norma Rangeri
Colpire Santoro per punirne
altri cento
Ci
sono cose che non si possono dire, equilibri che non si devono modificare. La
libertà di informazione è un bene sancito dalla Costituzione formale, ma
sfigurato da quella berlusconiana. Lo dimostra il virulento attacco che la
politica, nei suoi massimi rappresentanti istituzionali e di governo, ha
sferrato contro la puntata di Anno Zero sul terremoto in Abruzzo. Per la sua
natura strumentale e preventiva.
Chiunque abbia visto la trasmissione incriminata sa che la critica di Santoro
alla Protezione Civile è stata circostanziata e testimoniata. Che la struttura
di Bertolaso non avesse predisposto un piano di emergenza nella regione colpita,
è evidente. Nessuna esercitazione, nessuno in Prefettura pronto a intervenire.
Otto ore dopo la tragedia, alle 11,30 del mattino successivo alla grande scossa,
i medici dell’ospedale non avevano ricevuto aiuto, e alle 6 del mattino non
c’erano ambulanze disponibili. Sono i fatti testimoniati dai primari
intervistati dagli inviati di Anno Zero e confermati dal sismologo più
accreditato Boschi. Peccato che nessun telegiornale li avesse notati, e che solo
i cronisti di alcuni giornali li avessero denunciati. Sensatamente, Emma Bonino,
che non figura tra i filosantoriani, si chiede «Che cosa si contesta, visto che
la libertà di espressione ha un solo limite: la falsità. E per questo c’è la
magistratura».
La patente strumentalità delle accuse si lega alla necessità di prevenire, come
insegna la strategia dell’editto bulgaro, qualunque forma di dissenso e di
critica all’operato del governo da parte degli organi di informazione
controllati dal premier. E’ un avvertimento per tutti i giornalisti Rai, è un
preambolo al prossimo organigramma, alle nuove nomine con cui si sta mettendo a
punto la task-force che gestirà la comunicazione del servizio pubblico. Colpire
Santoro per educare tutti gli altri. Il consenso è una merce delicata, va
prodotta, distribuita e difesa senza fare prigionieri.
In questa replica dell’editto berlusconiano, a differenza di sette anni fa, il
clima politico del paese è cambiato, il centrodestra è diventato un partito
unico che marcia compatto a difesa del monopolio dell’informazione. Il
presidente della Camera si stringe al fianco del presidente del Consiglio, e i
caporali (da Cicchitto a Gasparri) seguono. Tutti uniti contro l’anomalia della
libertà di espressione e di informazione, consapevoli che incrinare la sfera del
potere mediatico potrebbe riverberare su quel che resta dell’opinione pubblica.
Con il rischio remoto di svegliare dal letargo il Pd, immediatamente
disinnescato dall’abbraccio nazionale attorno ai morti. A dir la verità, la voce
del democratico Merlo, vicepresidente della commissione di vigilanza, si è
levata, ma per attaccare Santoro («incredibile trasmissione») e chiedere ai
vertici Rai di riportarlo in riga. Più cauto e attento il presidente Zavoli.
All’unisono i capi di viale Mazzini, il presidente Garimberti e il direttore
generale Masi, hanno promesso di aprire un’inchiesta.
Del resto la prateria italiana in cui Berlusconi galoppa è un paesaggio spianato
dall’assenza di leader e di partiti capaci di ostacolarne l’egemonia culturale e
la presa proprietaria stabilmente incardinata sul conflitto d’interessi. Che
ancora possano alzare la voce giornalisti, giornali, forze sociali e sindacali è
un’eccezione alla regola.
13 aprile
Il dolore e la rabbia
di Fabrizio Gatti
Gli allarmi
inascoltati. La scossa devastatrice. Le vite spezzate. La disperazione dei
sopravvissuti. Il dramma dei bambini. Il reportage di Fabrizio Gatti nella
tragedia che ha sconvolto l'Abruzzo.
Qualcuno adesso dovrà indagare. Una volta sepolti i morti
e sistemati gli sfollati, dovrà spiegare perché a L'Aquila il cemento
impastato dieci o vent'anni fa già si sbriciola come pane secco. Dovrà
dire perché queste travi si sono spezzate e hanno fatto un massacro.
Come qui, adesso, in questa notte gelida, con il brivido delle scosse di
assestamento e il vento del Gran Sasso che spazza le macerie di via
Luigi Sturzo, centro città, cento per cento di morti nelle case nuove là
in fondo alla strada. Nuove. Eppure sono venute giù. Questa bambina di
tre anni che stanno tirando fuori immobile come una bambola non dovevano
ridurla così. In questo momento lei doveva essere con gli altri sfollati
a dormire sulle brande al campo sportivo. Invece la stanno portando
all'obitorio dentro una coperta di lana sporca e strappata. Uccisa nel
suo lettino, tra giocattoli e disegni sciupati dal crollo. Nessuno viene
ad accarezzarle i capelli sbiancati e invecchiati dalla polvere. Non c'è
nemmeno una persona che sappia dire qual è il suo nome. La sua mamma, il
papà, la sua sorellina sono ancora là sotto. E là sotto ci sono tutti i
loro vicini. Guardia forestale, vigili del fuoco e volontari cercano
ormai solo cadaveri.
Se due mesi di sciame sismico riducono così il cemento, allora l'allarme
lo dovevano dare molto prima. Invece questo passerà alla storia come il
primo terremoto previsto in Italia. E, purtroppo, anche come il primo
snobbato dalle autorità. Hanno ignorato l'annuncio del disastro molti
sindaci della provincia per finire, su su, agli esperti della Protezione
civile. Eppure la previsione di Giampaolo Giuliani, tecnico del
laboratorio scientifico del Gran Sasso insultato e denunciato per
procurato allarme, non è uno scoop da premio Nobel. Che la liberazione
di gas radon dagli strati profondi delle rocce riveli l'arrivo di un
forte terremoto, lo si impara al primo anno di Geologia all'università.
Anche in Italia. È vero che non è possibile conoscere con precisione
quando colpirà la scossa. Ma a L'Aquila e lungo l'Appennino la terra
tremava e trema tuttora da fine febbraio. Avere un laboratorio di fisica
proprio dentro il Gran Sasso, la montagna attraversata dalle faglie e
dalle tensioni geologiche di questo disastro, era poi una immensa
opportunità. Forse bastava sfruttarla. Nessun preallarme nemmeno per i
soccorsi in una regione fatta di antichi paesi di sassi e pietre.
Lunedì mattina a Civita, una frazione a pochi chilometri
da Onna, vicino all'epicentro in provincia, gli abitanti hanno dovuto
sbarrare la strada a un convoglio dei vigili del fuoco per chiedere loro
di estrarre due persone. Le hanno tirate fuori che erano già morte. I
pompieri son ripartiti subito per L'Aquila. I cadaveri sono rimasti a
Civita, per terra, fino alle quattro del pomeriggio: "Quando è arrivata
un'auto delle pompe funebri", raccontano i testimoni. Sono le priorità a
stabilire dove si devono fermare i convogli. I primi sono stati inviati
dove c'erano più cadaveri: a L'Aquila, a Onna, a Paganica. Così gli
abitanti delle piccole frazioni hanno dovuto aspettare. Non c'erano
alternative. Da martedì, secondo la Protezione civile, con l'arrivo dei
rinforzi da tutta Italia, anche i centri più piccoli sono stati
raggiunti. Nonostante la previsione del terremoto, però, gli abitanti
della città e di tutta la provincia avevano creduto alle rassicurazioni
degli esperti della commissione Grandi rischi, riprese dal capo della
Protezione civile, Guido Bertolaso, dal governo e dalle autorità locali.
Nessuno immaginava che perfino le costruzioni più moderne di L'Aquila
fossero trappole. Non lo sapevano i ragazzi italiani e stranieri morti e
feriti nel pensionato universitario, nemmeno i quattro studenti sepolti
in due stanze prese in affitto in un'altra villa in via Sturzo. Non lo
poteva sapere Alice Dal Brollo, 20 anni, scesa qui due anni fa da Cerete
in provincia di Bergamo per studiare Scienze investigative. Morta anche
lei con una sua compagna di camera: dormivano in una nuova palazzina sul
fianco della collina. Non lo poteva immaginare Antonio Cristiani, poco
più di cinquant'anni, di Sora in provincia di Frosinone, da ore in piedi
con sua moglie a sperare e aspettare il salvataggio del loro figlio
Armando, 24 anni, terzo anno di Fisica e inquilino con altri cinque
coetanei di un condominio completamente raso al suolo.
Il terremoto ha gli occhi sfiniti dell'insonnia. Le mani
giunte della mamma di Armando, di Alice, degli studenti che alle prime
ore della notte sono ancora dispersi. Ha il calore del sottile soffio di
brezza che precede le scosse più forti. Il suono che discende il fianco
della montagna come un tuono lontano. L'asfalto che si fa liquido e i
piedi che slittano come se stessero scivolando su un pavimento ricoperto
di sfere. Gran parte delle strade di L'Aquila è da giorni al buio. In
molte case però non manca la luce. Vedi le finestre illuminate dentro le
tapparelle abbassate. Credi che ci sia qualcuno lassù. Invece è la
fotografia di lunedì 6 aprile, ore 3,32, il momento esatto della scossa,
5,9 gradi della scala Richter, nemmeno un record in Italia.
A metà di via Sturzo la fuga di una famiglia su un'Alfa Romeo è rimasta
bloccata al cancello, quando un grosso pezzo di cornicione l'ha colpita
in pieno. In una camera da letto spogliata dai muri perimetrali è ancora
accesa l'abat-jour sul comodino. Sui balconi sopravvissuti al crollo, il
bucato steso domenica sera. I libri negli scaffali. Le sveglie che
ancora suonano la mattina presto. Persiane semichiuse che ricordano le
ville calcificate di Pompei. Istantanee di vita quotidiana. Al buio si
intuisce la sagoma di quattro donne avvolte nelle coperte di lana. Si
fanno coraggio insieme e dormono sulle sedie davanti alla casa di una di
loro. Non hanno voluto andarsene al centro di raccolta. Pochi passi più
avanti, in fondo a via Sturzo, le fotoelettriche illuminano il vuoto.
Due ruspe rimuovono il groviglio di tondini di ferro. L'armatura a
queste costruzioni non manca. Stupisce l'apparente fragilità del
cemento. Tre o quattro ville, tutte uguali, si sono accasciate sui loro
piani. Resta soltanto il tetto di due. In una sono morti due anziani.
Nella seconda almeno quattro studenti tra i quali un ragazzo della zona
di Vasto, in Abruzzo. La sua mamma sostenuta da un'amica piange da ore.
«Ho provato a far suonare il suo telefonino», sussurra, «risulta
irraggiungibile. Un collega di università di mio figlio ha invece
chiamato il telefonino di un suo compagno di stanza sepolto là sotto.
Quello suona ancora, ma da domenica notte nessuno risponde».
Subito più avanti il cumulo di macerie nasconde la bimba di tre anni e
tutta la sua famiglia. Rimossi i blocchi di cemento, trovano prima il
piccolo materasso del lettino. Si vede subito che apparirà un bambino.
Non ci sono più bare. Nemmeno bodybag, i sacchi utili per trasportare le
vittime delle emergenze, che l'Italia ha regalato negli anni scorsi alla
Libia. I soccorritori liberano dai calcinacci una coperta di lana. La
ripiegano per usarla come barella. Avvolgono la piccola nella lana e la
adagiano sulla terra. Vigili del fuoco e guardia forestale interrompono
per qualche minuto il lavoro a mani nude nei detriti. Li guida un
abitante del quartiere in tuta blu, grigio di polvere fin nei capelli.
«Adesso restano da trovare un'altra bambina, la sua mamma e il suo
papà», spiega l'uomo al capo operazioni dei pompieri: «Poi dobbiamo
tirare fuori gli anziani che abbiamo visto nella casa accanto. Ma non so
quanti sono». Arriva finalmente l'ambulanza, allontanata per caricare le
macerie su due grossi camion. «Come si chiama questa bambina?», chiede
un'infermiera della Croce rossa. Nessuno sa rispondere. Non ci sono
parenti. Non ci sono vicini. Tutti sotto le macerie. Forse una
quindicina di morti. Tutti sepolti dal crollo di case relativamente
nuove. Intorno le costruzioni più vecchie e i condomini sono rimasti in
piedi. Hanno danni strutturali. La facciate bombardate. Ma i loro
abitanti hanno almeno avuto il tempo di svegliarsi e fuggire.
In via Sant'Andrea all'angolo con Generale Francesco Rossi, prega la
mamma di Armando Cristiani. Per arrivare fin qui bisogna sfidare i
calcinacci che le scosse sparano come cecchini dalle cime dei palazzi.
Antonio Rossi, il papà, cammina su e giù con un piccolo ombrello in mano
e un sacchetto di biscotti sottobraccio. Era la cena che un vigile
urbano gli ha regalato. Sulla montagna di macerie continua il lavoro di
altri eroi. Rischiano la vita e altri crolli per salvare Marta, un'altra
studentessa tradita dalle norme antisismiche dei palazzi dell'Aquila.
Una ragazza raggiunta nel pomeriggio dagli speleologi e dai soccorritori
del Club alpino taliano. «Marta ci ha detto di aver sentito delle grida
salire dalla tromba delle scale. Una voce molto più sotto di lei»,
racconta uno speleologo: «Abbiamo chiamato, abbiamo provato ma non ci ha
risposto nessuno». Antonio Cristiani è convinto che suo figlio sia lì ad
aspettare che qualcuno lo tiri fuori. Erano sei studenti in affitto, in
un appartamento al terzo piano. Tutti dispersi. «Ho sentito mio figlio
sabato sera», racconta la mamma, «mi ha detto che c'era appena stata una
forte scossa. Eravamo preoccupati, ma lui diceva che poi passava».Trema
ancora la terra. Scosse forti che fanno crollare i muri che ormai non si
reggono più. Gli speleologi portano in superficie Marta, la avvolgono,
la caricano su un'ambulanza. «La ragazza era incastrata accanto a un
armadio», racconta il soccorritore che l'ha liberata: «Sotto c'era il
vuoto e dovevamo stare molto attenti a non farla cascare più in basso».
Questi soccorritori sono ragazzi di poche parole. Lo speleologo dice
solo che di mestiere fa il carpentiere- saldatore: «Niente nomi, non
servono». E se ne va sulla montagna di macerie a cercare Martina,
studentessa di Ingegneria gestionale. È la grande Italia dei volontari,
quanto mai uniti da Nord a Sud. I genitori di Martina aspettano avvolti
in una coperta. Il padre è rassegnato: «Ormai mi devo mettere il cuore
in pace». In via Persichetti, altro quartiere, altra strage. I condomini
sono sbrecciati. Le case dell'Ottocento sembrano quasi indenni. In mezzo
il crollo delle palazzine più nuove ha spianato l'isolato. Due bare
attendono in mezzo alla strada che qualcuno le recuperi: ?L'Aquila -
Visa Persichetti, non identificata", scrive un soccorritore con il
pennarello sul nastro adesivo. L'assenza di funzionari dell'anagrafe
impedisce al momento di sapere chi sono i residenti a ogni indirizzo.
L'identificazione verrà fatta nei prossimi giorni. Anche se la mancanza
di numero civico sul nastro adesivo non sarà d'aiuto. Appare nel buio
Pasqua E. , la mamma di Alice Dal Brollo. È arrivata da Cerete in
provincia di Bergamo e scopre che nessuno sta scavando nella casa di sua
figlia. Poco fa c'è stata una scossa oltre il quarto grado Richter. Per
questo i vigili del fuoco si sono allontanati. Tornano poco dopo con la
guardia forestale. «Alice è sicuramente lì. Una sua compagna di stanza
l'hanno già trovata morta. Un'altra, ritornata a L'Aquila da Sora poco
prima del terremoto, è riuscita a scappare. Forse mia figlia è
bloccata». La quarta studentessa, anche lei di Sora, deve ringraziare
l'influenza che si è presa. E domenica sera non è tornata a L'Aquila.Alle
nove del mattino i genitori scoprono che Alice è morta. Come Luigi
Giugno, 34 anni, guardia forestale, ucciso nell'unica camera da letto
crollata nel loro palazzo. L'hanno trovato sopra il lettino del suo
bimbo, Francesco, 2 anni, che ha tentato inutilmente di proteggere.
Accanto il cadavere della moglie e la valigia già pronta per il ricovero
al reparto maternità. Francesco questa settimana avrebbe avuto una
sorellina. Anche la loro casa sembrava sicura. Dovremmo costruire case
antisismiche, come in Giappone e in California dove i palazzi tremano ma
pochi si fanno male. Invece spenderemo quei soldi per un grande ponte a
Messina. Silvio Berlusconi l'ha ripetuto in questi giorni. Dove? Dopo
aver visto le macerie a L'Aquila.
Il bollettino settimanale delle guerre e dei
conflitti in corso n.13/14 - 2009 dal 26/03/2009 al
8/04/2009
Nelle ultime due settimane, in tutti i paesi in
guerra, sono morte almeno 2.712 persone
Sri Lanka
Nelle ultime due settimane sono morte almeno 1.788
persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 5.974
Pakistan
Talebani
Nelle ultime due settimane sono morte almeno 266
persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 1.614
Afghanistan
Nelle ultime due settimane sono morte almeno 243
persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 1.315
Iraq Nelle ultime due settimane sono morte almeno
117 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 1135
Filippine Milf
Nelle ultime due settimane sono morte almeno 42
persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 140
India
Naxaliti
Nelle ultime due settimane sono morte almeno 35
persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 207
India
Nordest
Nelle ultime due settimane sono morte almeno 33
persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 213
Colombia
Nelle ultime due settimane sono morte almeno 30
persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 63
Filippine Npa
Nelle ultime due settimane sono morte almeno 23
persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 92
India Kashmir
Nelle ultime due settimane sono morte almeno 22
persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 89
Rep. Dem.
Congo
Nelle ultime due settimane sono morte almeno 20
persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 399
Sudan
Nelle ultime due settimane sono morte almeno 18
persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 355
Thailandia del sud
Nelle ultime due settimane sono morte almeno 18
persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 76
Somalia
Nelle ultime due settimane sono morte almeno 14
persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 302
Nord
Caucaso
Nelle ultime due settimane sono morte almeno 14
persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 126
Nigeria
Nelle ultime due settimane sono morte almeno 8
persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 129
Algeria
Nelle ultime due settimane sono morte almeno 8
persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 97
Pakistan
Balucistan
Nelle ultime due settimane sono morte almeno 8
persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 61
Israele-Palestina
Nelle ultime due settimane sono morte almeno 5
persone
A Mazara del Vallo sono centinaia i migranti in
difficoltà salvati in mare aperto dai pescatori
"Ci troviamo nel passaggio. È la nostra zona di pesca, e
la loro zona di transito". Quasi ogni giorno i pescatori
del Canale di Sicilia incrociano le barche dei migranti
al largo di Lampedusa. E sempre più spesso sostituiscono
Guardia Costiera e Marina militare in difficili
salvataggi. L'ultimo è avvenuto lo scorso 28 novembre
2008. Col mare in burrasca e onde alte otto metri,
cinque equipaggi siciliani hanno coraggiosamente
soccorso 650 persone.
Per
incontrare i protagonisti di quel salvataggio, sono
andato a Mazara del Vallo, primo distretto della pesca
in Italia. E ho scoperto che non è la prima volta. Negli
ultimi anni i pescatori mazaresi hanno salvato la vita a
centinaia di uomini e donne. Le loro sono storie
incredibili, di uomini ripescati in alto mare, a mollo
da ore, aggrappati alla chiglia di un gommone affondato.
Sono storie drammatiche, di barche capovolte durante le
operazioni di salvataggio e di persone annegate a due
metri dalla loro salvezza. Storie eroiche, di marinai
saltati in mare, nella notte, per salvare una donna
caduta in acqua. Ma anche storie crudeli, indicibili, di
cadaveri ritrovati nelle reti, mangiati dai pesci. Sono
le storie di una profonda umanità. Di anonimi eroi che
non si sono girati dall'altra parte. Perché "quando vedi
un bambino di tre mesi a mare, non pensi più ai soldi,
né al tempo perso. Pensi soltanto a salvargli la vita".
E fu una bambina di pochi mesi, la prima a salire a
bordo del Ghibli, il pomeriggio dello scorso 28 novembre
a Lampedusa. "Era avvolta da una coperta. Ho aperto il
fagotto e le ho fatto un po' di smorfie. Lei rideva".
Era in mare da tre giorni quella bambina, insieme alla
madre, e altre 350 persone, stipate su un barcone di
dieci metri, in legno, rimasto bloccato nel mare in
tempesta, 10 miglia a sud est dell'isola. Il capitano
Pietro Russo non dimenticherà facilmente il volto di
quella bambina. Fu il comandante della Capitaneria di
porto a chiedergli di intervenire. La Guardia costiera
non aveva i mezzi per uscire col mare grosso e in zona
non c'erano navi della marina militare. A bordo c'erano
donne e bambini, così il capitano del Ghibli non poté
tirarsi indietro. Come non si era tirato indietro, la
notte precedente, il comandante del Twenty Two,
Salvatore Cancemi, detto Schillaci, che non aveva
esitato a uscire col mare forza 7 pur di portare in
salvo i 300 passeggeri dell'altro barcone in zona.
L'ultimo avvistamento era avvenuto 15 miglia a ovest
dell'isola, vicino allo scoglio di Lampione. Con la luce
dei fari, cinque pescherecci della flotta mazarese
passarono al setaccio la zona, nonostante le condizioni
proibitive del mare. "C'erano onde alte otto metri e
raffiche di vento grecale a 70 chilometri orari"
racconta Cancemi. "Il mare era troppo grosso per un
abbordaggio - dice - ma anche per il rimorchio, il cavo
si poteva spezzare. C'era troppa risacca. Così decidemmo
di scortarli. Stavamo di lato per fare muro contro il
vento". Era un barcone di 12 metri, di legno, pieno
zeppo, le onde sbattevano sul ponte della barca.
Cercarono riparo dalla risacca sotto gli scogli di
Lampedusa, a Cozzo Ponente, procedendo con lo
scandaglio, in piena notte. E poi li abbordarono per
trasbordare i passeggeri. Quello fu il momento più
difficile, dice il pescatore: se si fossero spostati di
fianco, la barca si sarebbe immediatamente sbilanciata e
rovesciata in mare. Non sarebbe stata la prima volta.
Successe il 17 luglio 2007 a Nicola Asaro, comandante
del Monastir, classe 1953. Stavano pescando gamberi
rossi al largo della costa libica, quando si avvicinò
loro una lancia in vetroresina con 26 persone a bordo.
"Erano senza carburante. Volevano della benzina, ma noi
andiamo a gasolio e non potevamo aiutarli". Asaro
abbassò la scaletta per farli salire. Il mare era
piatto. Fu un attimo. Qualcuno si alzò in piedi, da
dietro iniziarono a spingere e in un momento la barca si
capovolse. "Lanciammo immediatamente in mare i
salvagente e alcune cime. Non sapevano nuotare. Si
tiravano sotto uno con l'altro". Alla fine riuscirono a
trarne in salvo 14 e a recuperare un cadavere. "Gli
altri 11 li ho visti affondare con i miei occhi".
La stessa cosa è successa pochi mesi fa, a giugno, al
comandante dell'Ariete, Gaspare Marrone. Stavano
trainando le gabbie dei tonni. La barca, con 30 persone
a bordo, si capovolse a due metri dal peschereccio. In
cinque finirono aggrappati alla gabbia, altri 22 li
recuperò l'equipaggio. Tre persone invece, tra cui una
donna, scomparvero tra le onde. Un anno prima, nel
settembre del 2007, Marrone aveva salvato la vita a 10
uomini incontrati in alto mare, appesi alla chiglia di
un gommone affondato: un tubo largo 20 cm e lungo 4
metri. Stavano in mare da più di due ore, nudi. Gli
altri 30 compagni di viaggio erano annegati. "Da lontano
sembravano delle boe, quando capii che erano degli
uomini non ci volevo credere. Lanciammo i salvagente. Il
direttore macchine si tuffò per aiutarli, non avevano
più forza." E senza forza era anche il giovane mauritano
trovato da solo, in acqua, a 70 miglia da Lampedusa, dal
peschereccio Ofelia il 23 agosto 2007. "Era l'alba -
racconta il capitano Antonio Cittadino -. Lo vidi per
caso, dal finestrino. All'inizio mi sembrava un bidone.
Poi vidi muoversi qualcosa. Stava alzando la mano. Era
un uomo". Da 48 ore stava seduto in bilico sopra tre
tavole di legno dello scafo di un gommone affondato.
Unico superstite di 47 passeggeri. "Lo abbiamo tirato a
bordo di peso. Si è accasciato a terra. Non parlava.
Aveva le carni bianche dal sale. Quando si è ripreso, il
giorno dopo, mi chiamava l'amico di Dio".
Il Pentagono taglia i fondi per la difesa
antimissile, sollevando polemiche e preoccupazione
in Israele
Tra le misure studiate dalla nuova amministrazione
Usa contro la crisi economica, c'è anche la
riduzione di alcune voci del bilancio militare. Il
Congresso non le ha ancora votate, ma, già da
qualche settimana, l'ipotesi ha suscitato
preoccupazioni e polemiche in Israele, il principale
alleato e partner militare di Washington. La
settimana scorsa il segretario alla Difesa Usa
Robert Gates ha annunciato tagli del 15 percento sul
budget militare statunitense. Gates ha parlato di
ridurre le forniture di razzi antimissile in Alaska
e di sospendere il programma di laser antimissile in
sviluppo presso i laboratori della Boeing, ma è
probabile che i tagli condizioneranno anche le
forniture militari a Israele e il finanziamento di
alcuni progetti realizzati da industrie israeliane
insieme al Pentagono. Contro questi provvedimenti si
è subito espresso il ministro della Difesa
israeliano Ehud Barak, e non è certo un caso che,
nei giorni scorsi, sia il governo che l'intelligence
israeliana abbiano ricominciato a martellare la
stampa mondiale con la minaccia nucleare e balistica
iraniana.
L'amministrazione
Obama, ha scritto sabato il quotidiano israeliano
Ynet, sta valutando l'ipotesi di offrire a Israele
il sistema antimissile SM3 (Standard Missile 3,
prodotto dalla Raytheon) invece di finanziare lo
sviluppo dell'Arrow3 (prodotto dalle Israel
Aerospace Industries insieme alla Boeing). La
differenza tra i due sistemi è che l'Arrow opera da
terra e serve solo a intercettare missili a lunga
percorrenza, mentre l'SM3 può essere installato
sulle navi e può intercettare sia missili che aerei.
Il ministro della Difesa israeliano Ehud Barak ha
dichiarato che spera ancora di convincere gli Usa a
finanziare il progetto Arrow, che peraltro
costerebbe 1,5/2 milioni di dollari a unità contro
gli oltre 10 del sistema SM3. Il Pentagono sembra
però volere investire su progetti funzionali alle
esigenze Usa più che quelle israeliane, oltre che
sulle imprese americane, come la stessa Raytheon.
Nella speranza di sensibilizzare l'amministrazione
Usa, mercoledì 8 aprile la Difesa israeliana ha
testato un missile Arrow di tipo 2. Guidato dal
super radar X-Band installato otto mesi fa nel Negev,
l'Arrow israeliano ha intercettato un missile Blue
Sparrow, usato per simulare uno Shahab3 iraniano sul
Mediterraneo. Il test è riuscito, ma i tecnici
israeliani giurano che l'Arrow3 sarebbe in grado di
neutralizzare la minaccia molto prima. Israele
sostiene che il sistema Arrow3 sia ancora più
essenziale dopo che, settimana scorsa, la Corea del
Nord ha testato il suo missile Taepodong2, che
potrebbe vendere all'Iran.
Gli
Usa non sono interessati allo sviluppo dell'Arrow3,
ma potrebbero invece finanziare altri due progetti
antimissile dell'israeliana Rafael Defence Systems:
Duomo di Ferro e Bacchetta Magica. Quest'ultimo,
sostengono fonti del Pentagono, potrebbe essere
utilizzato in Afghanistan. Il sistema Bacchetta
Magica, noto anche come Fionda di David, serve per
intercettare i missili a medio raggio. Duomo di
Ferro, invece, è studiato per intercettare i razzi
Qassam sparati dalla Striscia di Gaza: 50mila
dollari ogni missile, per neutralizzare razzi da
pochi dollari l'uno. Secondo il ministero della
Difesa israeliano quest'ultimo sarà attivo nel 2010.
Oltre ai sistemi antimissile, il Pentagono
ridisegnerà anche i bilanci per gli aerei militari.
Lunedì scorso il segretario alla Difesa Gates ha
annunciato la sospensione della produzione dei
caccia F-22 Raptor, che Israele chiedeva da tempo
nonostante il bando alle esportazioni, e ha
l'allocazione di 11 miliardi per la produzione
dell'F.35 Lighting II, entrambi della Lockheed
Martin. La differenza tra i due sta soprattutto nel
costo: 120 milioni di dollari per il primo contro i
35 del secondo. La diminuzione dei finanziamenti
federali, però, minaccia di far salire di molto
anche il prezzo di quest'ultimo, cosa che renderebbe
gli F-35 non più appetibili per l'aviazione
israeliana. Forse dunque, nei prossimi mesi i piloti
israeliani dovranno accontentarsi di bombardare i
civili della Striscia di Gaza con i vecchi, ma pur
sempre letali, F-16.
Naoki Tomasini
Viaggio tra i
contadini dell'Amazzonia brasiliana, che proteggono
il polmone del mondo dallo scempio pur rischiando la
fame
di Carlo Cascione
"Vedere i pesci
morire annaspare senza acqua non é un bello
spettacolo". Antonio de Veira, un piccolo contadino
amazzonico, ci mostra il fiume confinante con la sua
proprietà e spiega: ¨Io ho lasciato la vegetazione
sulla riva, ma i proprietari dei terreni più a nord
non hanno fatto lo stesso, così ogni estate il fiume
si prosciuga e muoiono migliaia di pesci¨. Siamo in
Amazzonia, nello stato di Rondonia, a pochi
chilometri dal confine con la Bolivia. Il clima sta
cambiando, anche qui.
Al
di là dell'apparenza. Quella di Antonio è
una delle 50 famiglie che abitano nella comunità di
Cachoeira do Samuel. Qualche anno fa erano più di
settanta: ¨Piano piano stanno iniziando a vendere,
anche se per legge non potrebbero. Si trasferiscono
in città, dove però non trovano lavoro, a volte le
loro figlie sono costrette a prostituirsi¨. Antonio
per ora resiste, anche se vivere della terra non è
facile: i piccoli produttori vendono per una miseria
il frutto di giornate di fatica. Molti preferiscono
abbandonare: ¨Per noi è una sconfitta ogni volta che
un contadino vende, perché siamo noi contadini che
coltiviamo la terra, mentre i grandi possidenti
quasi sempre tagliano tutti gli alberi per farne
pascolo o al massimo impiantano una monocoltura".
Durante il percorso per arrivare qui, Antonio ci ha
indicato gli appezzamenti che appartengono agli
allevatori: enormi distese brulle, decine di buoi e
vacche.
¨Questo qui - ha detto a un certo punto - è del
giudice che si occupa di delitti ambientali nella
nostra provincia - era l'unico in cui si vedeva una
vegetazione fitta - ma è solo una piccola fascia,
quella che dà sulla strada. Il resto è totalmente
distrutto. Lo abbiamo anche denunciato, ma gli
stessi poliziotti sono proprietari terrieri, così
come i funzionari dell'istituto che si occupa di
tutelare la foresta. Sapete cosa mi ha detto il
magistrato quando sono andato a denunciare il caso
del giudice? 'non posso indagare, è un mio
superiore". La situazione è un po' migliorata negli
ultimi due o tre anni: il governo ha iniziato a fare
controlli, anche grazie allo sviluppo di un sistema
di monitoraggio satellitare. La moratoria sulla soia
prodotta in Amazzonia (del 2006), promossa da
diverse Ong e sostenuta dall'Unione Europea, ha
contribuito positivamente. "Ma c'é tanto lavoro da
fare ancora. E soprattutto bisogna farlo adesso. Non
c'è tempo da perdere. I nostri figli e i nostri
nipoti pagheranno il prezzo della nostra
irresponsabilitá¨.
Aiutateci
ad aiutare. Antonio è proprietario di venti
ettari di terreno. Secondo la legge brasiliana, in
almeno metà del terreno devono essere piantati
alberi. Il tempo per mettersi a norma è di trent'anni
dal momento dell'acquisto. Il proprietario
precedente del terreno di Antonio aveva raso al
suolo quasi tutto: ¨Ma non è solo una questione di
legge, noi della comunità ormai sappiamo qual è il
ruolo della foresta nell'ecosistema globale e
vogliamo preservarla. Ma bisogna anche portare il
pane a casa¨. Ci mostra gli appezzamenti, prima
brulli, dove ha iniziato a piantare alberi da
frutto: banane, cocco, açai, cupuaçu, castanha do
pará. Diserbare in piena foresta, mi fa capire, è
un'impresa titanica, soprattutto se non si hanno a
disposizione sostanze chimiche. A parte questo,
piantare alberi non rende, specie nei primi anni:
¨In molti casi, anche facendo gli innesti, devo
aspettare una decina d'anni prima che inizino a dare
frutti, e intanto?¨. Il problema principale in
Amazzonia è che un terreno senza alberi (da dedicare
al pascolo o alla soia) vale oggi più che un terreno
con la foresta intatta. Antonio ha un'idea per
invertire questa tendenza: ¨Se trovassimo
un'associazione o un gruppo di persone, tra tutti
quelli che si dicono preoccupati per la sorte della
foresta, che ci potesse fornire i mezzi tecnici e
finanziari per riforestare in maniera equilibrata
sarebbe perfetto. Noi potremmo mangiare e la foresta
sarebbe salva¨.
Welfare fai-da-te
di Paolo Tessadri
Volontari, sindacati, coop,
associazioni religiose, enti locali. Mentre lo stato latita, si moltiplicano
le iniziative di sostegno per gli italiani messi in ginocchio dalla crisi
economica
Manifestazione di disoccupati
Aiutati che lo Stato non ti aiuta. O lo fa in ritardo, con l'assegno
della cassa integrazione che arriva sempre fuori tempo. O che non ti
prende proprio in considerazione, se a rimanere senza stipendio sono
precari, forzati dei contratti di collaborazione o immigrati seppur
regolari. Per questo mentre la crisi apre ogni giorno nuove sacche di
povertà e disagio sociale, nell'Italia del centro-nord sta nascendo una
rete di welfare dal basso: un network spontaneo che spesso unisce laici
e cattolici, volontariato e professionisti, banche e non profit, enti
locali e cooperative. Non c'è solo la Conferenza episcopale, che con 30
milioni di euro garantisce prestiti dieci volte superiori alle famiglie
numerose. In tutte le regioni sembra quasi che colori politici e
interessi economici passino in secondo piano, mettendo allo stesso
tavolo sindaci rossi e vescovi. L'emergenza spinge tutti a rimboccarsi
le maniche. E sperimentare nuove forme di sostegno.
A Prato la stoffa non ha più colori, gli stabilimenti si fermano uno
dietro l'altro lasciando a casa armate di operai. Lì la mobilitazione è
diventata di massa, con l'invito a destinare dieci euro al mese da ogni
busta paga per soccorrere le vittime del crac. Un'intera provincia si è
mossa, dal vescovo agli imprenditori, dai sindacati ai commercianti:
cinque euro di contributi volontari da parte dei lavoratori e un
contributo almeno equivalente da parte delle aziende. Una "corale
mobilitazione" l'ha definita il vescovo Simoni, che ha lanciato il
progetto, in un distretto che vive la crisi peggiore dal dopoguerra.
L'iniziativa, nata a febbraio, si chiama 'Insieme per le famiglie' ed è
gestita dalla Caritas. Mario, 65 anni, di un comune vicino a Prato, lo
sta verificando di persona. La sua cooperativa di servizi cimiteriali è
fallita, nel giro di pochi mesi i tre figli impiegati nel tessile hanno
perso il lavoro: tutto il loro benessere si è dissolto. Vincendo
l'orgoglio, Mario ha chiesto aiuto: non avevano più da mangiare. Ora fa
la spesa all'emporio della Caritas per tutta la famiglia, senza pagare.
Per quasi 700 famiglie questo è l'unico supermercato possibile: nel 2009
ci si prepara a elargire cibo e generi di prima necessità per oltre
mezzo milione di euro.
"La situazione economica ha unito associazioni laiche e cattoliche in un
unico sforzo, non c'è più la vecchia differenza o rivalità. C'è un'unica
matrice ora: il bisogno", sottolinea Michele Mangano presidente di Auser,
la grande rete di volontariato per gli anziani. Perché se a Prato
l'iniziativa parte dalla curia, sulle rive dell'Adriatico a muoversi
sono due colossi della cooperazione 'rossa': Coop Adriatica e Coop
consumatori Nordest, un milione e mezzo di soci, quasi 3 miliardi di
fatturato, 24 ipercoop e 209 supermercati sparsi fra Emilia Romagna,
Friuli Venezia Giulia, Veneto, Marche, Lombardia e Abruzzo. Dal 14
aprile al 5 luglio licenziati, cassaintegrati o lavoratori in mobilità e
in aziende con contratti di solidarietà potranno fare acquisti con uno
sconto settimanale di sei euro su 60 di spesa. Che si sommeranno ai
prodotti già in offerta. Il 10 per cento di sconto, che per 12 settimane
significa un risparmio netto per ogni famiglia di 72 euro e che costerà
alle casse cooperative 5 milioni. Un'offerta veramente speciale, perché
solo a Bologna ci sono 20 mila famiglie in condizioni di chiedere questo
sconto, un segnale drammatico della situazione. Tanto che Gilberto
Coffari, presidente di Coop Adriatica, auspica che "altri seguano il
nostro esempio. È un segnale di attenzione di fronte all'emergenza".
L'assegno locale C'era una volta il ricco Trentino, poi anche lì le
fabbriche hanno cominciato a chiudere. E la Provincia-Stato ha impugnato
la sua autonomia, mettendo nel piatto un welfare scandinavo. Il famoso
assegno di solidarietà proposto dal segretario Pd Dario Franceschini qui
è già realtà. Lavoratori cassaintegrati, in mobilità e tutti quelli che
perdono il posto, come spesso tocca a somministrati (i vecchi
interinali) o precari, ricevono dalla Provincia un aiuto da 200 a 600
euro al mese. Che vanno a rinforzare l'assegno della cassa integrazione
o a creare un salario di disoccupazione. In Trentino l'intervento è
poderoso: poco meno del 5 per cento del Pil dell'intero territorio, un
quinto del bilancio della Provincia autonoma, 92 milioni a sostegno dei
redditi, fa notare il governatore Lorenzo Dellai. Mentre gli studenti
universitari bisognosi riceveranno 400 euro, purché dimostrino i loro
meriti accademici.
Ma spesso sono i comuni a spalancare le casse. Carlo Grazioli è primo
cittadino di Rodigo, 5 mila anime nel Mantovano. Lui ha deciso di
ridursi lo stipendio di sindaco e ha chiesto che lo facciano tutti gli
assessori, mentre l'avanzo di amministrazione del 2008 andrà a
interventi nel sociale: "Senza aspettare i benefici del ponte di
Messina, è meglio agire presto, anzi subito". Invece a Porcia, un comune
con meno di 14 mila abitanti in provincia di Pordenone, il sindaco
Stefano Purchet lancia una sua versione dei lavori socialmente utili.
Cassaintegrati e disoccupati potranno arrotondare il sussidio,
mettendosi al servizio della comunità: manutenzione di aree verdi,
scuole ed edifici pubblici.
Nel Friuli Venezia Giulia il governatore Renzo Tondo ha cominciato con
un contributo per le bollette della luce, poi ha deciso di aggiungere 20
euro alla family card nazionale alimentata dal governo Berlusconi. Ma la
desertificazione degli ordini richiede ben altre misure: ora nella
regione sono in arrivo 60 milioni di euro per ammortizzatori sociali e
incentivi. L'Italia in bolletta è sempre più larga. Può diventare
insopportabile anche pagare la tassa sui rifiuti e a Vicenza il sindaco
ha stanziato 150 mila euro per gli sconti. In Valle d'Aosta si arriva
all'esenzione per le vittime della crisi della tassa sui rifiuti e
sull'acqua.
Garantisce il municipio A Genova l'assessore al Bilancio, Francesca
Balzani, ha deciso di intervenire con una misura di sostegno decisamente
fuori dagli schemi. Le famiglie in difficoltà potranno andare in banca e
chiedere un prestito fino a 5 mila euro: gli interessi li pagherà il
Comune, mentre i beneficiari dovranno restituire solo il capitale. "Con
la recessione i tassi d'interesse sono scesi per tutti, tranne che per
quelli che ne hanno davvero bisogno", spiega l'assessore. L'elemento
cruciale dell'operazione è ripristinare il cerchio spezzato della
fiducia: la banca che si aggiudicherà l'incarico avrà come garante del
prestito la città, alla quale fa credito a tassi molto bassi, mentre il
Comune si fiderà dei propri cittadini, contando che restituiscano il
prestito nei tre anni di rateazione massima ipotizzata. Pochissime le
condizioni: basterà presentarsi allo sportello con la dichiarazione dei
redditi, che a livello familiare non dovranno superare i 25 mila euro
netti; il finanziamento non potrà superare il 35 per cento del reddito.
Chi lo otterrà, non dovrà aprire il conto nella banca convenzionata e
non dovrà dichiarare in che cosa intende investire i quattrini. "Con 3
milioni di euro stanzati, contiamo di mobilizzare risorse per oltre 10
milioni", dice Balzani.
Anche a Modena, dove il distretto della ceramica è stato investito dalla
gelata dei mercati, e ci sono 3,5 milioni di euro per i cassaintegrati.
A Pisa invece viene staccato un assegno di 1.623 euro annui alle
famiglie a basso reddito con almeno tre minori a carico e 1.497 euro per
le madri disoccupate, anche extracomunitarie. Altri 50 mila arrivano da
Borgomanero, nel Novarese. Qui le ore di cassaintegrazione sono passate
da 8 mila a 236 mila: è stato creato un fondo di solidarietà sociale per
tamponare le situazioni di emergenza. Si deve risparmiare pure sui
trasporti a Cormano, cintura milanese. Cinquantamila euro dal municipio
per l'iniziativa 'Sconto mese': una riduzione del 25 per cento sugli
abbonamenti mensili di treno e bus. A Sestri Levante le famiglie di chi
è rimasto senza lavoro o in cig possono chiedere di dimezzare le tariffe
scolastiche (pulmino e mensa). A Verona, Comune e Unicredit hanno
stanziato 120 mila euro per le donne separate con bambini, regalando una
carta prepagata, che verrà ricaricata con 200 euro al mese per un anno.
Per gli anziani ci sono aiuti per l'affitto e le medicine. Ma le loro
necessità spesso sono ancora più concrete: Nicola Doppio della
cooperativa Samarcanda, che si occupa di nuove e vecchie povertà nel
Nord-est, osserva che per la prima volta si vedono "case fredde delle
persone anziane, in altri casi abbiamo avuto chiari segni di
denutrizione. E al pronto soccorso notiamo persone con la biancheria
intima lisa, le scarpe consumate con i calzini bucati".
Aspettando Sacconi La cassa integrazione non rimpiazza la busta paga e
perdipiù arriva sempre in ritardo, mentre la tavola si deve
apparecchiare ogni giorno. A Brescia sono scese in campo le banche per
anticipare ai lavoratori l'assegno, ma è in tutta Italia che gli
istituti di credito cooperativo stanno realizzando accordi con enti
locali e sindacati per l'anticipo della cassa e la sospensione dei
mutui. Soprattutto i piccoli istituti bancari cooperativi, legati al
territorio, hanno introdotto il prestito di solidarietà a costo e tasso
zero. Il microcredito si allarga, infatti, anche grazie alla Caritas
italiana, da Termoli a Mazara del Vallo, da Frosinone a Vercelli. Poche
migliaia di euro per tirare avanti. L'azienda Revello, che commercia
prodotti per l'odontoiatria, nel Veronese, ha anticipato ai 270
dipendenti la tredicesima detassata. Solidarietà nel segno della
produttività.
Viaggio di ritorno La crisi indossa gli abiti dell'immigrazione. In
Veneto un disoccupato su quattro è immigrato e a Treviso sono già in 5
mila in cerca di lavoro. Mentre il Comune di Spresiano sulla riva del
Piave vuole concedere 2 mila euro all'immigrato che decide di
rimpatriare. Non è questione di intolleranza: nuclei spesso numerosi
senza redditi da mesi non riescono a pagare l'affitto né le bollette.
Alcune parrocchie e organizzazioni sindacali hanno perfino regalato il
biglietto d'aereo o di pullman per consentire a immigrati di far ritorno
nei loro paesi, come a Vittorio Veneto. "All'ennesima domanda di aiuto
di un'intera famiglia ho dovuto dare il consiglio di rimpatriare.
Vengono qui con debiti ingenti e senza più lavoro", confida sconsolato
monsignor Ferruccio Sant. In questi casi la Caritas è disponibile a
pagare il biglietto di rientro e a garantire una cifra simbolica.
Allarme casa Se manca il lavoro si rischia di perdere la casa, perché
non si può pagare il mutuo. Nel Lazio la Regione ha assegnato 10 milioni
di euro per nuclei con reddito fino a 25 mila euro. Servono per la
sospensione dell'ammortamento della rata o per la rinegoziazione. Ma il
problema è sentito in tutta la Penisola. Daniele Molinari, presidente
del consiglio notarile di Mantova rivela che all'asta va una casa al
giorno per mutui non pagati. E su dieci edifici all'incanto, solo in tre
casi sono i parenti del debitore che "presentano un'offerta, pur di
salvare l'abitazione di famiglia". Il grosso finisce nelle mani della
speculazione. E molte famiglie si ritrovano senza un tetto, costrette a
bussare alle porte delle parrocchie o, alcuni giovani, a dormire sulle
panchine: a Verona, tra i 442 homeless censiti nelle scorse settimane i
volontari hanno notato un numero crescente di italiani, con età
inferiore a 35 anni. L'anno scorso erano dei single soddisfatti dei loro
lavori a contratto che lasciavano spazio per il tempo libero: adesso
hanno archiviato la speranza.
Inps: nuovo boom a
marzo, aumenta del 925%
Nuovo dato boom per la cassa integrazione: a marzo, fa sapere l'Inps,
quella ordinaria è cresciuta del 925% rispetto allo stesso mese del
2008. Dato record anche per il primo trimestre 2009: l'aumento è stato
del 589% rispetto ai primi tre mesi dello scorso anno. Sommando la
ordinaria (cigo) e la straordinaria (cigs) le percentuali si abbassano:
+184% nel trimestre, e +292% in marzo. In aumento anche le domande di
disoccupazione e mobilità: da gennaio a marzo, l'Inps ha ricevuto oltre
750 mila domande (+45%). Nella gestione ordinaria i settori con i
maggiori incrementi di domanda di cassa rispetto al marzo del 2008
risultano essere il meccanico (+1262,49%), il metallurgico (+7004%), il
chimico (+1345,94%) e il legno (+1728,45%). La Cgil ribadisce la sua
richiesta al governo: «Va aumentata la cassa ordinaria da 52 a 104
settimane».
Sorpresa paradisi
fiscali: l'Ocse cassa la lista nera
di Maurizio Galvani
Escono gli ultimi 4 paesi, e
passano tutti alla «grigia»
Con un colpo a sorpresa, l'Ocse (Organizzazione per la
cooperazione e lo sviluppo) ha cancellato dalla lista nera i quattro
paesi che figuravano come paradisi fiscali e che in nessuna maniera si
volevano adeguare agli standard di controllo internazionali. E' bastato
un impegno formale (una telefonata) da parte dell'Uruguay, del Costa
Rica, delle Filippine e della Malaysia per essere messi fuori
dall'elenco dei «cattivi» stilato in occasione del vertice del G20 di
Londra, il 2 aprile scorso, dalla stessa Ocse. Soprattutto è bastata la
loro disponibilità a fare di più - ma non si sa ancora cosa - per
invalidare i propositi espressi dai capi di governo appartenenti al G20
di voler fare una battaglia frontale contro i paradisi, come avevano
chiesto sia il presidente francese Nicolas Sarkozy che la cancelliera
tedesca Angela Merkel.
Che si trattasse di una lista poco convincente si è visto fin dalla fine
della riunione, quando su pressione del governo cinese erano stati
cancellati sia il centro finanziario della città di Hong Kong che quello
di Macao. I due territori ad amministrazione speciale, infatti, non sono
stati inseriti tra le zone poco trasparenti. Al contrario, sono stati
considerati quasi una servitù della Cina, che è stata iscritta tra i
paesi virtuosi e inserita in una lista bianca.
Il primo rapporto Ocse (Harmful Tax Competition. An Emerging Global
Issue) era stato stilato nel 1998: dieci anni dopo ne è stata fatta una
nuova versione, sotto la spinta della crisi che stiamo vivendo. Nel
redigere il rapporto è stata messa molta enfasi, differenziando le liste
in bianche, grigie e nere; però il tutto è stato confuso con
l'introduzione di un elenco dei paesi appartenenti a una lista
grigio-nera cioè di chi vorrebbe adeguarsi ai canoni internazionali di
controllo dei movimenti finanziari. Si scopre che alcuni paesi
tradizionalmente conosciuti come paradisi fiscali - sconosciuti alla
maggior parte della gente - tipo Belize, Aruba, Saint Kitts e Nevis
figurano di fatto come «paesi in via di adeguamento». Alla stessa
maniera di Austria, Belgio, Lussemburgo e Svizzera che sono vicinissimi
ai nostri confini. La Svizzera - quando gli è stata data notizia di
questa decisione presa dal segretario generale dell'Ocse, Angel Gurria -
si è risentita tantissimo e ha chiesto «di avere delle spiegazioni». La
Confederazione Elvetica giorni fa - per non andare incontro alle
sanzioni dei paesi amici del G8 - si è resa disponibile a modificare il
suo sistema di trattamento del segreto bancario. Fino a spingersi a
mettere in discussione la distinzione, fin troppo stretta, tra coloro
che sarebbero perseguibili per frode e chi invece no perché opera
solamente l'evasione fiscale. La Svizzera si è sempre difesa dicendo che
il primo è «un delitto penale e il secondo solo amministrativo». La
Svizzera ha mostrato finora l'intenzione - a parole - di voler
modificare questo quadro, di fatto costretta anche dal contenzioso
aperto con gli Usa che vogliono l'elenco dei cittadini-evasori che hanno
depositi bancari.
Finora commenti a quanto ha deciso l'Ocse, in Italia, non sono stati
avanzati, tranne una interrogazione da parte dell'Idv all'indirizzo del
ministro dell'Economia Tremonti. L'Italia non ha avuto nessun beneficio
dalla lista compilata, a Londra, dall'Ocse. La «nostra black list» si
differenzia già moltissimo da questo elenco e include anche paesi quali
le Barbados, l'Isola di Man o Guernsey, e altre nazioni più sviluppate
(Svizzera, Lussemburgo). Vedremo quale delle due sarà presa in
considerazione. La misura dell'Ocse invalida l'impalcatura per la
stabilità della finanza, per la quale molti leader sono impegnati
addossando alla mancanza di trasparenza dei mercati, la responsabilità
di questa crisi economica.
Mille impiegati
Fiat a casa fino a settembre. Fiom: puzza di esuberi
di lo. c.
Questa volta il conto più salato della premiata casa Fiat è stato
presentato ai colletti bianchi: a quasi mille impiegati - 973 - sono
state annunciate 13 settimane di cassa integrazione, dal 4 maggio al 2
agosto. I marcapitati potranno rimettere piede in fabbrica solo a
settembre, dopo le ferie. Le conseguenze economiche sono pesantissime
per l'abbattimento del reddito, ma gli impiegati rischiano molto di più.
Secondo la Fiom una sospensione così lunga, in un momento in cui grazie
agli incentivi che hanno rianimato la domanda si è ridotta la cassa
integrazione per gli operai, potrebbe nascondere l'intenzione del
Lingotto di procedere alla dichiarazione di esuberi. In poche parole, i
973 colletti bianchi potrebbero diventare i soci della prima lista di
proscrizione. La metà lavora agli Enti centrali di Mirafiori, il cuore
strategico del Lingotto, gli altri sono alla Iveco e alla Powertrain.
Per altri 1.069 colletti bianchi sono state invece annunciate «soltanto»
6 settimane di Cig. La Fiom chiede al governo di convocare azienda e
sindacati per conoscere le vere intenzioni della Fiat che, secondo la
Fim, sta drammatizzando la crisi.
8 aprile
Presa di posizione dell'intero clero del centro
a 40 chilometri da Agrigento
E la Via Crucis del venerdì santo sarà dedicata
al "perdono a Dio e ai fratelli migranti"
Licata, sacerdoti, preti e
suore
contro la denuncia dei clandestini
di FABIO RUSSELLO
AGRIGENTO - Sacerdoti, suore e religiosi contro la
denuncia dei clandestini ad opera dei medici contenuta nel decreto sicurezza. La
presa di posizione viene da Licata, grosso centro a 40 km da Agrigento. Il clero
licatese ha deciso di aderire all'appello per "opporsi alla strage del
Mediterraneo" e per chiedere la disobbedienza civile contro il pacchetto
sicurezza varato dal Governo, che prevede tra le altre cose l'obbligo di
denuncia dei clandestini.
I sacerdoti, guidati dall'arciprete don Antonio Castronovo, hanno inoltre deciso
di dedicare la processione della Via Crucis di venerdì alla richiesta di
"perdono a Dio e ai fratelli migranti per il razzismo, la xenofobia, la caccia
al musulmano che, con forza diabolica, sono entrate nel corpo politico di questa
Italia".
La decisione di aderire all'appello, proposto da un frate comboniano che opera a
Licata, Gaspare di Vincenzo, è stata presa nel corso di un'assemblea a cui hanno
partecipato, aderendovi, tutti i sacerdoti in rappresentanza delle comunità
parrocchiali licatesi.
L'appello firmato dal clero licatese è quello proposto dalla comunità comboniana
del rione Sanità di Napoli, delle suore Orsoline di Caserta, dei Padri
Sacramentini di Caserta, delle suore missionarie di Torre Annunziata (Napoli) e
della comunità comboniana di Caserta. A Licata vi è una grande comunità di
stranieri, molti dei quali vivino in clandestinità, e come tante altre zone del
paese vi è qualche difficoltà di integrazione. Ma la stessa Licata è interessata
da un fenomeno migratorio massiccio con centinaia di giovani che, ogni
settimana, partono per il nord Italia e per il nord Europa.
Ruanda: a 15 anni da
genocidio,
i colpevoli sono ancora latitanti
Centinaia i genocidari riparati in Belgio,
Canada, Francia, Kenya
MONTREAL
A 15 anni dal genocidio ruandese, centinaia di presunti responsabili sono ancora
latitanti. Molti di loro hanno trovato rifugio in Belgio, Canada, Francia, Kenya
e nella Repubblica democratica del Congo (RDC). Furono almeno 800.000 i tutsi e
gli hutu moderati uccisi in meno di 100 giorni, tra aprile e luglio del 1994.
Formalmente ricercati dal Tribunale penale internazionale per il Ruanda, o
sospettati dai parenti delle vittime, i ricercati vivono sotto falsa identità o
alla luce del giorno, a volte godendo dello status di rifugiato politico.
In fuga davanti all’avanzata delle truppe guidate da Paul Kagame, numerosi
miliziani hutu, noti come ’Interahamwe', hanno trovato rifugio nel vicino Congo
subito dopo la fine dei massacri, dove non hanno mai veramente deposto le armi,
nonostante le operazioni militari lanciate contro di loro da Kinshasa, di cui
l’ultima lo scorso gennaio.
Altri
sospetti genocidari hanno preferito lasciare la regione dei Grandi Laghi: per
rimanere in Africa, come il presunto tesoriere del genocidio, Felicien Kabuga,
che avrebbe trovato rifugio in Kenya, secondo il Tribunale penale internazionale
per il Ruanda; oppure per andare in esilio in Europa o in America
settentrionale, in particolare in Belgio e Canada, dove «vivono centinaia di
presunti assassini», secondo la Corte ruandese.
I genocidari sono «ovunque» in metropolitana, nelle strade e nei caffè di
Bruxelles, denunciava lo scorso settembre un’inchiesta condotta dalla
televisione Rtbf. In Francia, le famiglie di vittime hanno presentato nel marzo
2008 una denuncia contro Agathe Habyarimana, vedova del presidente ruandese
Juvénal Habyarimana, ucciso nell’attentato messo a segno la sera del 6 aprile
1994 contro l’aereo con cui stava rientrando nel Paese e che innescò i massacri.
Secondo il Collettivo delle parti civili per il Ruanda, la signora Habyarimana
avrebbe partecipato alla «pianificazione, all’organizzazione e alla direzione
del genocidio». Parigi le ha rifiutato lo status di rifugiato politico, ma la
vedova continua ad abitare nell’area parigina senza essere indagata. Un’altra
decina di ruandesi che vivono in Francia sono sotto inchiesta per presunta
complicità nel genocidio. Tuttavia, il governo di Parigi si è opposto
all’estradizione a Kigali di tre ruandesi, giudicando insufficienti le garanzie
offerte dalla giustizia di Kigali che li ha condannati per il rispetto delle
norme internazionali.
Anche la Corte suprema del Canada ha dato parere negativo all’estradizione in
Ruanda di Leon Mugesera, ritenuto uno degli «strateghi» del genocidio.
Importante paese di immigrazione, in Canada vivrebbero 800 sospetti genocidari,
stando a stime delle associazioni dei superstiti. Ottawa ha ricevuto nel 2007 da
Kigali e dall’Interpol una richiesta di estradizione per cinque uomini, che è
rimasta sulla carta.
«Non è una priorità dare la caccia ai genocidari ruandesi», ha commentato René
Provost, direttore del Centro per i diritti della persona e per la pluralità
giuridica dell’Università McGill.
Tuttavia, è incoraggiante che nel 2007 sia stato portato a giudizio Desire
Munyaneza, un hutu accusato di aver guidato una milizia. Si tratta del primo
processo di questo tipo che si tiene in Canada, che sarà «un test», dice Provost,
perché «a parte l’Europa» pochi Stati fanno lo stesso, sebbene siano oltre un
centinaio i Paesi che hanno aderito alla Corte penale internazionale dell’Aia(Cpi),
il tribunale permanente chiamato a giudicare i crimini di genocidio. E,
nonostante la lentezza della giustizia, continua il giurista canadese, potrebbe
segnare «l’inizio di una cultura della giustizia penale internazionale», perchè
questo processo incoraggerà «gli Stati a riconoscere come uno dei loro obblighi
il dovere di arrestare e giudicare individui che hanno commesso atti di
genocidio».
Diritti indigeni violentati
Il governo Bachelet ha portato in Senato un progetto di riforma
costituzionale che ingabbia ogni diritto indigeno riconosciuto a livello
internazionale
Il governo Bachelet insiste con la riforma costituzionale improntata a limitare
i diritti dei popoli indigeni, imbrigliando quanto stabilito dal Convegno 169
dell'Organizzazione internazionale del lavoro e dalla Dichiarazione sui diritti
dei popoli indigeni dell'Onu. Anzi, eludendo quanto richiesto dal Relatore delle
Nazioni Unite - presto in visita in Cile proprio per discutere della questione -
di sospendere la "massima urgenza" nella votazione del progetto di riforma, il
ministro Viera Gallo e il Comisionado hanno ribadito che occorre votare subito
quello che gli indigeni Mapuche del Cile hanno definito "il lucchetto
costituzionale" ai diritti dei popoli indigeni. In breve, il Governo sta
tentando di incontrare il Relatore Onu a cose fatte. Ma i nativi non ci stanno.
La sottomissione dei diritti dei popoli indigeni. Il progetto incriminato
negherebbe espressamente che i popoli indigeni sono soggetti giuridici.
Cominciando dal cancellare ogni diritto delle comunità indios sulle acque che
passano nei territori ancestrali, pretende di sottomettere tutto il diritto
indigeno, il Convegno 169 e gli altri trattati già appurati, alla Costituzione
cilena. Un progetto questo che "violenta gravemente i diritti dei popoli" e che
è già stato approvato dalla Comisión de Constitución, Legislación y Justicia y
Reglamento del Senato, dopo un dibattito a porte chiuse. E, come se non
bastasse, sia il testo che la sua votazione sono caldamente promosse dalla
Presidenza della Repubblica.
Manovre giuridiche. Mascherando la manovra con un atto formale di riconoscimento
di quei popoli, in realtà il testo definisce la nazione cilena "una,
indivisibile e multiculturale", riconoscendo semplicemente la presenza dei
popoli in territorio cileno, senza specificarne nessuna rilevanza politica: "Lo
Stato riconosce l'esistenza dei popoli indigeni che abitano il loro territorio e
il diritto delle sue comunità, organizzazioni, membri...". Vale a dire: degni di
diritto non sono direttamente i popoli, bensì solo le comunità e i singoli.
Inoltre, anche quanto viene riconosciuto a queste comunità, secondo Vera
Millaquén , Coordinadora Andina de Organizaciones Indígenas, (Caoi), è "molto
poco".
Nel testo si riconosce alle comunità indigene il diritto a "conservare,
rafforzare e sviluppare la propria identità, cultura, lingua, istituzioni e
tradizione e a partecipare nella vita economica, sociale, politica e culturale
del paese nella forma che stabilisce l'ordinamento nazionale". Punto e basta.
Nessun riconoscimento al diritto che i popoli hanno di amministrare secondo la
propria legge ancestrale i propri territori. Niente. E in più, la suddetta
Commissione del Senato ha approvato la riforma senza rispettare il requisito di
"consultare i popoli interessati mediante procedimenti adeguati" e "attraverso
le loro istituzioni rappresentative". Requisito imposto dal Convegno 169 della
Oit, ratificato dal Cile nel settembre 2008. Anzi, è chiaro che questa riforma
ha lo scopo di limitare proprio i dettami del 169, come volevano fare i senatori
cileni prima della ratifica, con la fallita "dichiarazione interpretativa".
L'intenzione, secondo gli indios andini, è anche limitare quanto stabilisce la
Dichiarazione sui diritti dei popoli indigeni dell'Onu. "Il governo ha fatto un
patto con la Ultra destra per approvare questa riforma costituzionale, un vero e
proprio disconoscimento di diritti", ha precisato la Coordinatora.
Calpestati in toto. Dicendo, "la Legge protegge la proprietà sulle terre delle
persone e delle comunità indigene e i loro diritti a sfruttarne le acque in
conformità con quanto stabilito dalla Costituzione e dalle leggi" cilene, la
riforma violenta, sempre secondo l'analisi della Coordinadora Caoi, i diritti
riconosciuti dai trattati internazionali riguardo i territori ancestrali e le
fonti di acqua.
Stessa cosa per il diritto consuetudinario dei nativi, calpestato in toto. Il
testo afferma: "I popoli indigeni potranno organizzare la loro vita in accordo
ai loro costumi, sempre che questi non contravvengano la Constitución e le
leggi" dello Stato cileno.
Senza reali diritti. In sintesi, il governo cileno sta cercando di ingabbiare il
diritto indigeno internazionalmente riconosciuto e protetto da convegni e
trattati, ai quali lo stesso Cile si è sottomesso. Una situazione che i Mapuche
e le organizzazioni indigene della regione andina hanno denunciato con forza
agli organismi in difesa dei diritti umani, alla Oit, all'Onu e alla comunità
internazionale tutta. Mettendo la dicitura "somma urgenza" sul punto che
riguarda gli indios, il governo però vuole anticipare l'arrivo del commissario
Onu accogliendolo con la parte contestata già approvata.
"Siamo stati a Valparaíso per parlare con i senatori - ha spiegato. Abbiamo
convocato la Presidente affinché ritiri il progetto. Abbiamo parlato con gli
esponenti della Chiesa Cattolica. Ci siamo rivolti al Relator Onu e abbiamo
parlato con chiunque potesse esercitare qualsiasi tipo di influenza. Ma il
governo Bachelet continua nel suo irrinunciabile compito di lasciarci senza
reali diritti".
Stella Spinelli
7 aprile
Forza Nuova: silenzio a
Piazza Missori
Forza Nuova raduna i suoi e invita al Cavalieri
i leader ultranazionalisti delle destre europee
In un
hotel del centro a due passi dal Duomo, Forza Nuova (Fn) - il movimento
nazionalista e fascista guidato dall'eurodeputato Roberto Fiore - ha invitato i
leader dell'ultradestra francese, inglese e cipriota a un convegno per discutere
della crisi economica mondiale e dei suoi risvolti in Europa. L'argomento, in
realtà, è stato trattato solo in punta di lingua. Senza perdere troppo tempo si
è arrivati subito al dunque: fermare l'avanzata dell'Islam nell'Europa
cristiano-romano-ellenica; chiudere le porte dell'Unione Europea alla Turchia
"che con i suoi ritmi di crescita demografica presto ci inghiottirà tutti";
fermare i rom, gli asiatici e gli africani.
Milano, ore 13. Il clima intorno all'Hotel dei Cavalieri è surreale. Le
forze dell'ordine hanno transennato la zona: via Albricci, via Mazzini, Corso
Italia sono mantenute in chiusura ermetica da un centinaio di carabinieri. Dalle
13 non si passa e anche la stazione della metro gialla Missori è chiusa. Il
silenzio nella città di Milano è qualcosa di veramente raro. Gli unici suoni
presenti nella piazza sono i break multi-tono delle ricetrasmittenti e il volo
circolare di un elicottero. Chi si aspettava un'irruzione di manifestanti della
sinistra, o anche un solo tentativo di farsi sentire (così come facevano
presagire i comunicati lanciati a tamburo battente su blog e stampa), ha capito
subito che la domenica sarebbe passata liscia e pigra, senza scosse.
Ore 14. Alla spicciolata arrivano i primi ‘camerati'. A gruppi di tre,
quattro sparsi nella hall si scambiano vigorose strette d'avambraccio ma timidi
saluti romani, per non incappare forse nella censura della security di Fn, che
preferisce tenere certi segni di appartenenza fuori dalle sortite pubbliche.
Nell'attesa si beve una sanbuca "con un solo cubetto di ghiaccio" e qualche
birra. Poco dopo arrivano i relatori della conferenza: il padrone di casa
Roberto Fiore, Simon Darby del British National Party, Bruno Gollnish del Front
National, e Stratos Karanikolaou del movimento cipriota Proti Grammì (Linea di
Fronte). C'è fibrillazione: i ragazzi della sicurezza e quelli
dell'organizzazione si muovono per garantire un caloroso benvenuto ai loro
ospiti. Contemporaneamente, fuori, si aprono le porte dei quattro bus dell'Atm
incaricati di portare i ragazzi di Fn dalla sede di piazza Aspromonte all'hotel
in piazza Missori.
Ore 15. La sala Carmagnola, al secondo piano dell'albergo, non riesce a
contenere i circa 500 militanti di Fn. In molti si accontentano di schiacciarsi
contro il muro o di rimanere appena fuori, nel foyer. In platea ci sono due
presenze particolari: padre Tam, prete da sempre vicino al movimento
dell'ultradestra, scelto da Fn come candidato sindaco a Bologna e Natale Gattuso,
classe 1928, venerato dai giovani camerati: Natale a 15 anni si è arruolato
nelle Brigate Nere e suo padre era anche il suo capitano. Sul cappello porta lo
stemma della Repubblica di Salò; al collo, la foto di quando era un giovane
repubblichino in divisa, e quella del Duce, di Benito Mussolini. "Il fascismo
non morirà mai, è un valore troppo importante", dice più volte ai ragazzi che,
con ammirazione, gli stringono la mano.
A prendere la parola per primo è Paolo Caratossidis, il coordinatore nazionale
di Fn. Le sue parole fanno riferimento alla polemica che ha preceduto l'incontro
del 5 aprile: "Noi di certo non siamo gli adoratori della Costituzione, ma la
rispettiamo. In base alla Costituzione noi abbiamo il diritto di riunirci e
proprio chi si erge a difensore della Carta voleva impedircelo. La città è stata
militarizzata, ma non si capisce per difendere chi da chi". Le centinaia di
migliaia di euro spese per pagare gli straordinari alle forze dell'ordine
potevano servire, secondo Caratossidis, "a riportare un po' di pulizia e dignità
nelle strade di Milano".
Gli anticorpi d'Europa. "Cari compatrioti europei", esordisce Gianni
Correggiari, vice segretario di Fn, "il nostro nemico si chiama ‘liberal
capitalismo'. Questo mostro, svuotando le democrazie dei suoi contenuti,
svuotando l'Europa del concetto di Dio, di tradizione, cultura e patria ci ha
imposto la droga, l'aborto e l'eutanasia. I liberal capitalisti vogliono
sostituire le decine di migliaia di bambini abortiti con decine di milioni di
immigrati. L'Europa è una patria malata, cari compatrioti, ma noi saremo i suoi
anticorpi".
La ricetta di Fiore. Gli interventi di Gollnish, Karanikolaou e Darby
sono accomunati dalla stessa cifra: allontanare la minaccia dell'immigrazione,
dell'Islam, della Turchia. Difendere strenuamente l'identità dell'Europa
costruita sulle fondamenta di Roma e di Atene, resistere alla "dittatura del
mondialismo" e far trionfare il nazionalismo.
Poi il boato, il microfono è nelle mani di Roberto Fiore che orgogliosamente
raccoglie gli applausi per aver portato a Milano "un pezzo di Europa, di Europa
buona". Perché è stato scelto per questo 'evento storico' la Domenica delle
Palme? "Perché certamente duemila anni fa noi saremo stati lì tra quelli che
salutavano il Salvatore e non certo tra quelli che 5 giorni dopo lo hanno
crocifisso". Dopo due millenni, secondo Fiore, quella dicotomia culturale rimane
attuale. La ricetta del segretario di Fn ha pochi ingredienti: blocco delle
immigrazioni e ‘umano rimpatrio', sospensione del Trattato di Shengen - "che
sennò entrano pure i rom di Romania" -, espulsione dei criminali e interruzione
delle relazioni diplomatiche con la Libia, rea di non aver rispettato gli
accordi con il governo italiano di fermare i flussi migratori. E poi il tocco
finale che ha fatto venir giù la sala: "Tutti devono sapere che quando toccano
le nostre donne, scoppia la ribellione popolare".
Il congedo. Poco dopo le 17 tutto è finito. Fuori, i quattro autobus sono
già pronti con le porte aperte che aspettano di riportare i 400 di Forza Nuova
là da dove erano partiti, in piazza Aspromonte. E fuori nulla è cambiato se non
che l'asfalto è bagnato per un velocissimo scroscio di pioggia. Solo un
‘contestatore' si è fatto vivo: si tratta di Emanuele Fiano, deputato Pd e
figlio di un deportato di Auschwitz che ha avuto il tempo di esprimere li suo
disappunto ai microfoni della stampa.
Chi temeva (o auspicava) il ritorno agli Anni Settanta, può tirare un sospiro di
sollievo (o mettersi con l'animo in pace): oggi non era giornata.
Nicola Sessa
Cecenia, una guerra e una
pacificazione violenta
Buttino Marco e Rognoni Alessandra, Zamorani 2008
Scritto per noi da Maria Elena Murdaca
Ho visto un documentario sulla Cecenia mentre
ero all'estero...ho pianto tantissimo, poi ho deciso che non ne volevo più
sapere
M.V., 26 anni, russa
Noi russi siamo stanchi di queste cose, non vogliamo più sentire
N.N., 29 anni, russa
Per il fatto che loro non vogliono sapere, noi moriamo
B.A., 26 anni, ceceno
Sapere. Non è solo un diritto. In alcuni casi è
anche un dovere, un imperativo categorico. Quando si tratta di guerra, di
violenze, di torture, la repulsione è un istinto naturale. Ma non è giusto nei
confronti di chi la guerra, la violenza e la tortura le ha sperimentate sulla
propria pelle. E' così che l'informazione a volte può trasformarsi in un atto di
giustizia morale. Quando si parla di Cecenia è facile farsi prendere
dall'emotività o dall'incredulità. Mantenere un atteggiamento obiettivo e
cercare di capire che cosa è veramente successo, senza lasciarsi travolgere
dalle emozioni non è facile, eppure è doveroso se si vuole fare chiarezza,
perché un'informazione distorta è dannosa quanto l'assenza di informazione.
Per questo è più che benvenuto il volume "Cecenia. Una guerra e una
pacificazione violenta", che accompagna l'omonima mostra fotografica esposta a
Torino e dedicata ad Anna Politkovskaja, curata da Marco Buttino e Alessandra
Rognoni, in collaborazione con Memorial e Memorial Italia, che hanno messo a
disposizione di quanti vogliono sapere la loro vasta e approfondita competenza
scientifica in materia di Cecenia, realizzando un'opera che al momento è quanto
di più completo ci sia sull'argomento in lingua italiana, e probabilmente una
delle più pregevoli in circolazione, a livello internazionale. Un lavoro
impegnativo, perché, come precisa Marco Buttino nell'introduzione, qualsiasi
visione manichea del conflitto non rende giustizia all'intricata realtà dei
fatti. La questione cecena è materia estremamente complessa. I fattori in gioco
sono molteplici, e non sempre di immediata comprensione. La scarsa conoscenza
della storia della regione non aiuta.
Il volume è composto da 12 capitoli e due sezioni fotografiche. Dodici capitoli,
ognuno dedicato all'approfondimento di un aspetto della questione cecena. Già
solo questo dato, preso singolarmente, dà l'idea del labirinto in cui si sta per
addentrare il lettore che voglia saperne di più. Dodici capitoli realizzati da
un'equipe di esperti e accademici di livello internazionale: russi, americani,
ceceni e, naturalmente, italiani, hanno lavorato per garantire l'alto livello
scientifico della pubblicazione. Alcuni interventi trattano aspetti decisamente
trascurati dai media, anche se occorre precisare, che a parte gli spettacolari
attentati a Mosca e in Ossezia del Nord i media occidentali, e in particolare
quelli italiani, non hanno mai dedicato grande attenzione alla copertura
mediatica di un conflitto che si trascina da più di 10 anni, e ci piacerebbe
saperne la ragione. Apre e chiude la rassegna dei saggi la co-curatrice della
mostra Alessandra Rognoni. Il suo essay indaga gli avvenimenti in Cecenia nei
dieci anni precedenti il crollo dell'Urss, dando particolare rilievo al tema del
recupero della memoria, negli anni in cui si sono create le premesse del
conflitto, consentendo di inquadrare tutti i contributi successivi. La sua
raccolta di interviste "Voci dal Caucaso", in chiusura, ci ricorda che quando si
parla di guerre, si parla sempre e comunque di persone.
Il contributo di Georgi Derlughian, anch'esso di taglio storico, illustra le
circostanze economiche, sociali e politiche che hanno portato i due leader El'cin
e Dudaev ad optare per una guerra che avrebbe potuto e dovuto essere evitata.
Matthew Evangelista scende nel dettaglio dei tre periodi del conflitto,
distinguendo la guerra di El'cin, il periodo di assenza di combattimenti fra le
due guerre, e la guerra di Putin. Mairbek Vatchagaev, portavoce del Presidente
Makhadov, dedica il suo intervento alle dinamiche interne alla regione,
soffermandosi sul fenomeno della guerra cecena come fattore di aggregazione e
catalizzatore dei gruppi religiosi estremisti del Nord Caucaso, che da unità
sparse e autonome sono convogliate in un'unica rete armata, con direzione e
supervisione cecene. Aleksandr Cherkasov descrive nel dettaglio gli equilibri di
potere su cui si basa oggi la (fragile) stabilità della Cecenia, vanto delle
autorità locali e federali. La vicenda della famiglia Kadyrov e il passaggio dal
fronte indipendentista al fronte federale rappresentano il focus del saggio di
Giovanni Bensi.
La toccante testimonianza di Svetlana Gannushkina racconta invece le difficoltà
umane e burocratiche a cui sono andati incontro gli sfollati delle diverse
etnie, russi inclusi, che hanno lasciato Grozny all'inizio della guerra,
lasciati senza la minima assistenza da parte delle istituzioni e costretti a
rientrare senza che fossero state ripristinate le basi più elementari della
sicurezza. Alexis Berelowitch si concentra sulla percezione che l'opinione
pubblica russa ha avuto delle guerre e degli eventi più tragici ad esse
collegati, con l'aiuto delle cifre fornite dal Levada Centr, il più autorevole
centro di studi sull'opinione pubblica in Russia. Anna Zafesova parla invece dei
media russi e di come questi abbiano raccontato ai Russi il conflitto ceceno,
quando ancora si poteva parlarne, e del cambiamento sopraggiunto con la seconda
guerra cecena, legata al nome di Vladimir Putin e in particolare dello stretto
controllo messo in atto dopo la presa del Teatro Dubrovka. L'avvocato ceceno
Lidija Jusupova, due volte candidato nobel per la Pace, descrive le durissime
pressioni psicologiche cui va incontro chi decide di adire alla Corte di
Strasburgo, condizioni che riguardano i ricorrenti e i loro avvocati. Ludovica
Poli si sofferma sull'aspetto giuridico, illustrando i meccanismi applicati
dalla Corte Europea ai casi che i ricorrenti ceceni sono riusciti a portare al
vaglio di Strasburgo.
Le due sezioni fotografiche raccolgono invece le immagini in esposizione alla
mostra, con gli scatti di Heidi Bradner e Dima Belyakov, unitamente alle
fotografie documentarie fornite da Memorial. Grozny in rovine, bambini sfigurati
dalle mine, madri russe e cecene alla ricerca dei propri figli, i campi
profughi, volti noti, da Basaev a Gennadij Troshev, Maskhadov, Lebed, Dudaev,
El'cin; la ricostruzione di Grozny, con le grottesche gigantografie di Putin e
Kadyrov padre e figlio; i guerriglieri ceceni, i soldati russi, le operazioni
antiterrorismo. E, naturalmente, le immagini che - a differenza di quelle dei
bambini ceceni mutilati dalle mine o delle famiglie degli sfollati nei campi
profughi- hanno fatto il giro del mondo: la Dubrovka e Beslan.
Un ringraziamento alla Città di Torino e al Museo Diffuso della Resistenza,
della Deportazione, della Guerra, dei Diritti e delle Libertà, per aver
consentito la realizzazione dell'opera, è d'obbligo.
Sequestrata e torturata in
piena democrazia
La moglie del procuratore che indaga sui
crimini commessi durante la guerra civile in Guatemala è stata rapita e
seviziata
Uomini
non ancora identificati il 25 marzo hanno tenuto sotto sequestro per 13 ore la
moglie del procurador dei diritti umani del Guatemala, Galdys Monterroso, che ha
dovuto sopportare violenze e torture. "Sono stata torturata in piena democrazia,
in pieno XXI secolo". Queste le parole che Gladys Monterroso ha voluto
pronunciare dopo la tragica esperienza. "Adesso non siamo in guerra, stiamo
vivendo in una giungla. Non passa un giorno in cui non siamo costretti a contare
i morti".
Barbarie. Secondo quanto dichiarato dal marito, il procuratore Sergio
Morales, tre persone incappucciate l'hanno prelevata alle sette del mattino a
Città del Guatemala, mentre la donna stava andando a lavoro. "Alle 8 di sera è
riapparsa, drogata e stordita, in una via della zona 18 della capitale", ha
spiegato Morales, spiegando che da un mese le forze dell'ordine erano a
conoscenza di un piano contro di lui, che da tempo è minacciato come lo sono
tutti i suoi colleghi della Procuradoria. "Mi sento molto solidale - ha aggiunto
- con tutte le famiglie che passano e hanno passato questo penoso calvario della
desaparicion", sottolineando che si impegnerà ora più che mai per porre fine "a
questa terribile barbarie".
Guatemala oggi. Un episodio che si inserisce perfettamente nel Guatemala
2009, un paese teatro di continue violenze, tanto da occupare le prime posizioni
delle statistiche dei paesi più pericolosi al mondo. Secondo le cifre del Grupo
de Apoyo Mutuo, (Gam), fra le principali associazioni guatemaltece nella difesa
dei diritti umani, il 2008 ha contato 3305 morti ammazzati. Numeri che si sono
ripetuti nel 2007, 3319, nel 2006, con addirittura 5.885 e via via a ritroso
fino alla firma che siglò la fine del conflitto interno, che piegò il paese con
oltre 200mila morti. Un filo conduttore, quello rosso sangue, che non sembra
destinato a spezzarsi.
Il fantasma della guerra civile. Ed è proprio in una faccenda legata alle
responsabilità nel conflitto armato interno che sono da ricercare i motivi del
brutale sequestro lampo. La moglie di Morales è stata rapita proprio poco dopo
che il procuratore aveva reso pubblico lo studio sugli archivi della ex Polizia
Nazionale, dove si trovano documenti scottanti che inchiodano i responsabili di
molti omicidi e sparizioni risalenti a quel lungo e buio periodo.
"Il sequestro di Gladis Monterroso deve essere chiarito e non restare impunito -
ci spiega Mario Polanco, direttore del Gam -. E' evidente che siamo di fronte a
un chiaro messaggio minatorio rivolto a coloro che lavorano per una Guatemala
diversa. Gladis Monterroso è un noto avvocato e notaio, professoressa
universitaria, e in più Secretaria General Metropolitana de Encuentro por
Guatemala. Allo stesso tempo è la moglie dell'uomo che in questo momento sta
lavorando a importanti casi contro i responsabili di violazioni dei diritti
umani, e che solo 11 ore prima del sequestro aveva consegnato pubblicamente il
primo documento con i risultati ottenuti dallo studio degli archivi della
Policia Nacional". Quindi spiega che il fatto che i sequestratori non abbiano
avanzato nessuna richiesta di riscatto e che abbiano invece inviato attraverso
la donna una serie di messaggi al procurador va a confermare ulteriormente
questa tesi.
Nessun dubbio sui colpevoli. "Gladys è stata interrogata e bruciata con
la sigarette in varie parti del corpo - aggiunge Polanco - E questo è il
medesimo metodo usato dai militari che durante il conflitto hanno commesso ogni
tipo di violazione dei diritti umani. Si trattava di crimini che si ripetevano
costantemente ogni giorno contro dirigenti sociali, studenti, sindacalisti.
Quindi non ci sono dubbi: i colpevoli sono gli stessi, i medesimi aguzzini che
fecero sparire e assassinarono migliaia di persone per ragioni politiche e che
ora cercano di evitare di essere indagati e accusati per questi delitti".
Le colpe del governo. "Durante questo governo (di Álvaro Colóm ndr.) le
istituzioni sono andate indebolendosi, specialmente quelle che dovrebbero
garantire la giustizia - conclude il direttore Polanco - Il Grupo de Apoyo Mutuo
considera questo caso uno spartiacque che può dare la possibilità di passare
dall'immobilismo all'efficacia. Questo crimine può essere indagato e i colpevoli
arrestati, ma lo si deve fare immediatamente. Al contrario, si invierà un
messaggio negativo alla popolazione, che andrà solo ad alimentare la sfiducia
nel governo e la sfacciataggine dei criminali, protetti dall'impunità".
Stella Spinelli
2 aprile
Cessate il fuoco
Il bollettino settimanale delle guerre e dei
conflitti in corso n.12 - 2009 dal 19/03/2009 al 25/03/2009
Nell'ultima settimana, in tutti i paesi in guerra,
sono morte almeno 954 persone
Sri Lanka
Nell'ultima settimana sono morte almeno 486 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 4.186
Afghanistan
Nell'ultima settimana sono morte almeno 186 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 1.072
Iraq
Nell'ultima settimana sono morte almeno 92 persone
Dall'inizio dell'anno sono morte almeno 1018 persone
Nord Caucaso
Nell'ultima settimana sono morte almeno 32 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 112
Pakistan Talebani
Nell'ultima settimana sono morte almeno 27 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 1.348
India Kashmir
Nell'ultima settimana sono morte almeno 25 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 67
India Nordest
Nell'ultima settimana sono morte almeno 22 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 180
Colombia
Nell'ultima settimana sono morte almeno 22 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 33
India Naxaliti
Nell'ultima settimana sono morte almeno 13 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 172
Rep. Dem. Congo
Nell'ultima settimana sono morte almeno 12 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 379
Somalia
Nell'ultima settimana sono morte almeno 10 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 288
Algeria
Nell'ultima settimana sono morte almeno 9 persone
Dall'inizio dell'anno sono morte almeno 89 persone
Nigeria
Nell'ultima settimana sono morte almeno 6 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 121
Thailandia del sud
Nell'ultima settimana sono morte almeno 5 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 58
Sudan
Nell'ultima settimana sono morte almeno 3 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 337
Filippine Npa
Nell'ultima settimana sono morte almeno 3 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 69
Filippine Milf
Nell'ultima settimana è morta almeno 1 persona
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 98
Congedo con disonore
Condannato a 35 anni di prigione il sergente
che guidò l'esecuzione di quattro iracheni. Il sergente Joseph Mayo, 27 anni, è
stato condannato dalla corte marziale a 35 anni di carcere per aver ucciso nel
2007 quattro iracheni detenuti a Baghdad.
Esecuzione
sommaria. La formulazione dell'accusa prevedeva anche la pianificazione e la
premeditazione, di quella che è stata definita dalla corte una vera e propria
esecuzione sommaria. I quattro iracheni furono uccisi per ritorsione in seguito
a un attentato portato contro una pattuglia Usa che causò la morte di due
soldati statunitensi appartenenti all'unità di Mayo. Sebbene non fosse stato
trovato un diretto coinvolgimento dei quattro iracheni nell'agguato alla
pattuglia, questi furono portati alla base dell'unità per essere interrogati.
Gli uomini furono imprigionati sulla base del ritrovamento di armi e munizioni
nella casa dove abitavano. Successivamente, il militare più alto in grado, il
sergente John Hatley chiese a Mayo di "prendersi cura" dei prigionieri ed
evitare che ritornassero liberi di compiere nuovi attentati contro la loro
unità. Il sergente di primo grado Joseph Mayo, fece bendare i quattro detenuti e
con le mani legate furono fatti salire su un furgone. Appena raggiunta una zona
periferica, furono disposti in ginocchio davanti a un canale: quattro colpi alla
nuca, e i corpi caddero come sacchi nelle acque del canale.
Ammissione di colpevolezza. Nel corso dell'interrogatorio che si è svolto
nella base Usa Rose Barracks di Bad Kreuznach, in Germania meridionale, il
sergente Mayo si è dichiarato colpevole sostenendo, però, di aver agito
nell'interesse dei suoi soldati: "Non esiste cosa peggiore che perdere un tuo
commilitone, dover chiamare le famiglie, le fidanzate e dire che hai fatto tutto
il possibile ma che purtroppo il loro congiunto è morto", ha detto il sergente
al giudice, il colonnello Jeffrey Nance. Secondo quanto risulta dagli atti del
processo, che si è svolto a porte chiuse con la sola presenza dell'imputato,
dell'avvocato e del giudice, l'esecuzione non era necessaria in quanto né il
sergente, né i suoi uomini (per sua stessa ammissione) si erano trovati in
situazione di pericolo.
Congedo con disonore. Un teste a favore dell'imputato ha dichiarato che
l'unità era sotto forte stress: "C'era un'atmosfera di frustrazione e paura"
causata dai frequenti attacchi portati contro le loro pattuglie.
Il sergente Mayo è stato degradato e congedato con disonore. Sconterà la sua
pena nel carcere militare di Fort Leavenworth, Kansas. Il 27enne militare ha
chiesto scusa per la sua condotta e per aver danneggiato l'immagine
dell'esercito degli Stati Uniti d'America, ma, ha detto: "Io credo di aver agito
per legittima difesa, mi preoccupavo solo della sicurezza dei miei uomini". La
logica infatti era che un iracheno arrestato, sarebbe stato rilasciato nel giro
di pochi giorni tornando a costituire un pericolo per le truppe Usa. Per evitare
ciò, si procedeva dunque a una giustizia sommaria e "preventiva".
Altri responsabili. Mayo non è il primo ad essere condannato per questo
caso: all'inizio dell'anno, il sergente Joseph Leahy, si è visto emettere una
sentenza a vita. Mayo, fra dieci anni potrà invece essere rilasciato sulla
parola dal momento che ha deciso di collaborare e di testimoniare contro il
sergente istruttore Hatley, il più alto in comando dell'unità, che ha
orchestrato la regia dell'esecuzione. Il suo processo è previsto per il 13
aprile.
Nicola Sessa
Per un pugno di terra
"Sei anni sono tanti, resistere è difficile".
Viaggio in uno dei tanti accampamenti del Movimento dos Sem Terra (Mst) in
Brasile
di Carlo Cascione
"Sei anni sono tanti, resistere è difficile".
Siamo in uno dei tanti accampamenti del Movimento dos Sem Terra (Mst) sparsi in
Brasile. Ci accolgono Alcido e Vera, due delle seicento persone che vivono in
quella che è una baraccopoli, qualche chilometro più a ovest della città di
Caceres, nello stato del Mato Groso (il più grande produttore mondiale di soia).
Le case sono di legno, paglia e plastica. Non c'è nessuna installazione
elettrica né acqua corrente. Da più di dieci anni l'Mst organizza occupazioni di
fattorie, strade o semplicemente appezzamenti di terreno abbandonati, per
mettere pressione sul governo: l'obiettivo è che conceda la terra a chi vuole
lavorarla. Da qualche mese la campagna mediatica contro il movimento si è
intensificata, cosi come il conflitto per la terra. Le relazioni tra l'Mst e il
governo Lula non sono buone: la riforma agraria approvata dal governo è
giudicata insufficiente dal Mst. Per la grande stampa, e molta gente, quelli
dell'Mst non sono niente di più che "vagabondi e scansafatiche".
La storia che ci racconta Alcido, la sua, è tutt'altra. Nato nello stato
di San Paolo, figlio di contadini, a 10 anni si trasferì nel Mato Grosso, dove
il padre era riuscito ad acquistare un piccolo appezzamento di terra.
Coltivavano caffè: gli affari andavano bene, avevano di che mangiare, poco più.
Lavoravano "da sole a sole", ma non si lamentavano. Poi le cose iniziarono a
girare male, "il clima è cambiato, con la deforestazione progressiva le piogge
diminuirono e il caffè non cresceva più" - mi spiega. Ora, nelle stesse terre,
si pianta soia (un tipo di coltivazione che richiede pochissima mano d'opera, in
quanto privilegia coltivazioni estensive e meccanizzate). I cambiamenti del
clima hanno tolto la terra ad Alcido, ma gli hanno lasciato in eredità una
macchia rosa sulla guancia: "Un tumore che sto cercando di curare. Oggi non si
può lavorare come un tempo, bisogna indossare magliette con le maniche lunghe".
Senza più la terra, che dovettero vendere, cercò lavoro in città: per un anno e
mezzo fu impiegato in un mattatoio, ma uccidere bestie non è proprio la stessa
cosa che lavorare la terra: "All'inizio fu per mia madre che entrai nell'Mst:
abituata a vivere in campagna non sopportava stare in città, e il movimento era
l'unica possibilità che ci rimaneva per poter avere un pezzo di terra". Era il
2003. Con sua moglie, i suoi due figli (poi ne è nato un terzo) e la madre,
iniziarono le occupazioni: più di dieci in sei anni. La madre, all'epoca, aveva
ottantadue anni. Nel 2007, durante uno sgombero, si ruppe il femore, sopravvisse
per miracolo: "Arrivarono alle sette di mattina, e ci dettero tre ore per
abbandonare l'accampamento. Immaginatevi cosa dev'essere fare un "trasloco" in
tre ore. Mia madre si spaventò molto, mentre usciva dell'accampamento cadde e si
ruppe il femore. L'ambulanza arrivò solo cinque ore dopo".
"Siamo contadini, non possiamo vivere senza la terra" risponde timido.
"La vita in città è un'altra cosa, non fa per noi", aggiunge. In fondo non
chiedono molto: solo 25 ettari in una terra che ne dispone milioni, molti dei
quali concentrati nelle mani di poche persone (il governatore dello Stato,
Blairo Maggi, possiede 200.000 ettari coltivati a soia). Attualmente vivono
grazie alla "borsa famiglia" del governo Lula, una cesta basica di prodotti che
bastano appena per alimentarsi, e a qualche lavoretto in campagna al servizio di
altri: venti reais (sette euro) per dieci ore di lavoro, in nero. I figli vanno
a scuola con un autobus, quando il tempo lo permette. "Non so quanto ancora
riusciremo a resistere, l'unica cosa che ci fa andare avanti è il sogno della
terra, di quei 25 ettari che ci permetterebbero di portare avanti una vita
decente".
1 aprile
La nuova ondata
di Fabrizio Gatti
Dal Niger quasi 10 mila africani
fuggono verso le nostre coste. La guerra per l'uranio e l'alleanza
Gheddafi-Sarkozy favoriscono i trafficanti. E gli accordi Italia-Libia
diventano così una beffa.
Visto da Agadez, l'ultimo abbraccio tra il
premier Silvio Berlusconi e il colonnello Muhammar Gheddafi è una beffa. In
questa splendida città di fango rosso in mezzo al Sahara in Niger, l'accordo
sull'immigrazione ratificato a Tripoli il 2 marzo scorso è già carta
straccia. Da Agadez i camion e i fuoristrada stracarichi di emigranti
africani che sperano di arrivare a Lampedusa, in Italia o in Europa hanno
ripreso i loro viaggi verso la Libia. Il traffico è ripartito come ai tempi
d'oro. Sotto lo sguardo indifferente e spesso interessato dell'esercito
libico che controlla la pista di rocce e sabbia alla frontiera di Tumu, nel
silenzio del deserto.
Gheddafi, a sud del Sahara, oggi è soltanto un esecutore di decisioni prese
a Parigi. Per fermare o rallentare la marcia dei clandestini verso il loro
futuro, Berlusconi dovrebbe piuttosto chiedere l'intervento del presidente
francese Nikolas Sarkozy: perché la via ai trafficanti di uomini è stata
riaperta proprio grazie alla guerra dei tuareg. Una guerra per l'uranio
sostenuta dalla Francia nella regione di Agadez (vedi cronologia a pagina
36). Da novembre 2008 migliaia di persone sono passate dalla città rossa per
andare a nord. Con un record di partenze tra gennaio e febbraio: quasi 10
mila ragazzi e ragazze in fuga dall'Africa occidentale. Dalla prossima
estate capiremo se questa generazione di ventenni avrà trovato lavoro in
Libia o apparirà nei telegiornali sui barconi alla deriva nel Mediterraneo.
Il loro obiettivo, dicono, è arrivare in Italia o da qualche parte in
Europa.
Il 24 febbraio Berlusconi ha incontrato Sarkozy. Ma non gli ha parlato di
immigrazione. I due hanno discusso di ritorno all'energia nucleare in
Italia. E di contratti per miliardi di euro da oggi al 2030 a vantaggio di
Parigi. Areva, il colosso statale del nucleare francese, ha bisogno di nuovi
clienti. Perché dal 2012 la società avrà così tanto uranio a disposizione
che, per ammortizzare un investimento iniziale di 1,2 miliardi di euro, deve
trovare subito qualcuno disposto a comprarlo. Altrimenti rischia di pagare
cara la crisi finanziaria in cui è caduta. Tutto quell'uranio, però, non è
ancora arrivato in Francia. Per il momento è in Niger, vicino ad Agadez: a
Imouraren, sotto la sabbia nel mega-giacimento che comincerà a produrre fra
tre anni, il secondo al mondo dopo McArthur River in Canada.
Quello che nella sua visita a Roma il 24 febbraio Sarkozy non ha detto a
Berlusconi è che la Francia in Niger ha giocato una partita sporca. Come era
abituata a fare in Africa ai tempi del generale Charles de Gaulle. E solo
alla fine Areva è riuscita a strappare al Canada e alla Cina la concessione
per il mega-giacimento di Imouraren. Ma Sarkozy nemmeno ha raccontato a
Berlusconi che i tuareg, sostenuti dagli 007 francesi nei giochi di guerra,
si sono rimessi a trafficare con gli emigranti che vogliono approdare in
Italia. In fondo, si tratta sempre di energia e forza lavoro destinate ad
alimentare l'economia europea. La differenza è che i minerali di uraninite
trasformati in sali di uranio viaggiano protetti fino agli impianti di
arricchimento in Francia. Gli emigranti sono invece sottoposti a ogni tipo
di violenze e il 12 per cento muore prima di arrivare in Europa.
È italiano uno dei testimoni di questo gioco sporco francese. Un
commerciante di Torino, T. P., 50 anni, fermato per immigrazione clandestina
in Niger. Abitava ad Agadez. Ha trascorso qualche mese nel deserto con i
guerriglieri tuareg. E quando ha tentato di lasciare il Niger è finito in
commissariato. La polizia l'ha messo sotto torchio e lui che aveva il
permesso di soggiorno scaduto, in cambio della liberazione ha dovuto
raccontare quello che sapeva. Alla fine è stato espulso. Cittadino
indesiderato. L'intreccio tra la via dei clandestini e la via dell'uranio va
raccontato proprio da Agadez, dove il commerciante torinese aveva aperto un
negozio e dove migliaia di ragazzi africani ora approdano con la certezza di
sopravvivere al deserto che li aspetta.
La città-monumento al tramonto si incendia di rosso. Non sembra però una
comunità sotto assedio, né in guerra. A parte i pastori nomadi tamashek
venuti ad accamparsi nelle vie del centro, lontano dalle piste infestate
dalle mine e dalle imboscate. Sulla strada asfaltata davanti all'autogare,
l'autostazione dove arrivano gli autobus e partono i camion del deserto, gli
affari vanno al massimo. Centinaia di bancarelle sui due lati della via
vendono di tutto. Dalle scarpe usate ai filoni di pane fresco. Sacchetti di
datteri e biscotti. Barattoli di latte in polvere. Bidoni di olio ricoperti
di cartone e canapa e riciclati come taniche d'acqua. Passano carretti
spinti a mano. Persone ovunque. È il mercato dei poveri. Il posto di
rifornimento di quanti aspettano la partenza e cercano di spendere il meno
possibile. Perché ogni giorno di attesa è una piccola erosione ai 250 euro
che servono per attraversare il Sahara fino in Libia. E, per chi li ha già a
disposizione, ai 1.500 euro chiesti dai passatori libici di Al Zuwara per
sfidare la vita fino a Lampedusa. Gli emigranti bloccati ad Agadez mangiano
il meno possibile per non mettere a rischio il piccolo capitale necessario
al viaggio. Spesso solo gari, un impasto energetico fatto con le radici di
tapioca.
Ma questa strada è anche un mercato per ricchi. È la contraddizione di ogni
guerra. Vicino alla moschea un commerciante vende auto argentee importate o
contrabbandate dalla Nigeria. E la fila di negozi sotto i portici, una
decina di locali un tempo abbandonati e invasi dalla sabbia, ora sono
puliti. Non hanno insegne, non hanno manifesti pubblicitari appesi alle
vetrine. Ma sono agenzie di viaggio. Broker, passeur, mediatori. Prendono in
consegna gli emigranti in arrivo da Nigeria, Ghana, Liberia, Benin, Mali. E
in questi mesi, per la prima volta, anche dal Senegal. L'età di questa
generazione in fuga va dai 14 ai 30 anni. Hanno un progetto, un'idea, un
sogno da realizzare. Sono i fratelli e le sorelle minori degli emigranti
passati da Agadez tra il 2003 e il 2005. Sanno che le loro braccia si
aggrapperanno sicuramente a un lavoro. Il passaparola e l'esperienza di
quelli sopravvissuti prima di loro raccontano che è dura, ma qualcosa si
trova. I clandestini come motore insostituibile della ricchezza sommersa.
Soprattutto in Italia dove la produzione esentasse e in nero rappresenta il
23 per cento del Prodotto interno lordo.
Dentro il cortile dell'autogare centinaia di persone aspettano che tramonti
anche questo giorno. Una postazione di soldati, con mitragliatrice pesante
montata sul fuoristrada, sorveglia l'ingresso. A guardare bene ci sono
soldati ovunque. Meglio non entrare. Ad Agadez oggi è vietato fare domande,
fare fotografie, fare riprese filmate. Può capitare di essere visti o
ascoltati dalle spie in borghese o da chiunque voglia mettersi in mostra con
la gendarmeria in cambio di una soffiata. A fine febbraio il presidente del
Niger Mamadou Tandja ha rinnovato lo stato d'allerta, proclamato il 25
agosto 2007 come risposta agli attacchi dei tuareg. Nella regione di Agadez
la democrazia è sospesa e l'amministrazione è affidata all'esercito.
Giornalisti locali e francesi mesi fa sono finiti in cella. E l'arresto è
automatico per chiunque venga a fare indagini in città o nel deserto. Gli
stranieri, se non sono emigranti in partenza o tecnici minerari, devono
tenersi alla larga. E se passano, lo fanno a loro rischio.
La tensione appare già al posto di blocco alla periferia della città. Un
ufficiale, sempre con gentilezza, vuole trattenere il passaporto. "Questa è
la frontiera", dice: "Agadez in questo momento è come se non fosse in Niger.
Qui comandiamo noi". Lasciare il passaporto ai militari significa però
rischiare di perderlo. E dover poi affrontare l'ignoto della burocrazia di
guerra. L'ufficiale accetta un compromesso: "Allora facciamo così. Stasera
un ispettore di polizia verrà in hotel a interrogarla". I militari stanno
raccogliendo davanti al loro piccolo ufficio gli emigranti in transito.
Scendono dai pullman, dai minibus, dai camion. Oggi, come all'arrivo di ogni
convoglio, sono più di 400. Se ne stavano seduti, in cima alla cupola di
sacchi, teli e scatoloni. Devono pagare dieci dollari a testa come tassa di
passaggio. E chi non ha i documenti in regola, 20 dollari. Già qui
l'immigrazione per l'Europa è un affare.
Per arrivare ad Agadez c'è un solo modo. Bisogna unirsi ai convogli scortati
dall'esercito. Partono a giorni alterni da Zinder, 431 chilometri di deserto
a sud lungo la via dei clandestini. Un viaggio che dura una giornata. In
pieno Sahara le dune rosa hanno già coperto la nuova strada asfaltata. I
ragazzi dei camion devono scendere. Camminano oltre. Le grandi ruote
alleggerite superano le onde di sabbia a tutta potenza. Qualche autista
rallenta, ma non si ferma. E i suoi passeggeri devono correre per non
rimanere a terra, per non finire abbandonati prima ancora di attraversare la
parte più difficile del viaggio. I soldati scortano il convoglio sui loro
fuoristrada Toyota armati di mitragliatrice. Dicono che rischiamo un attacco
dei guerriglieri tuareg o dei banditi. Ma soprattutto, passando di qui fuori
dai convogli, il vero pericolo è di finire impallinati da loro. L'esercito
ha l'ordine di sparare a vista. È già successo. Alcuni emigranti sono stati
uccisi con gli autisti nel deserto del Ténéré, prima che i militari
potessero identificarli. Per arrivare in Italia avevano pagato il viaggio
sbagliato.
"Dove li metterete tutti questi immigrati con la crisi che avete in
Europa?", sorride un passatore tuareg di Agadez. Ovviamente non vuole essere
filmato né fotografato: "Da novembre scorso è come se la Libia avesse dato
il via libera. Ora che Gheddafi è stato eletto presidente dell'Unione
africana, non può certo rimandare indietro i suoi concittadini africani.
Abbiamo saputo che l'Italia investirà in Libia 5 miliardi di dollari.
Apriranno cantieri, ci sarà lavoro. Avranno bisogno di manodopera e noi
gliela portiamo. Se poi qualcuno vuole proseguire il viaggio in Europa, dal
nostro punto di vista è normale. Grazie all'immigrazione clandestina
potrebbe addirittura essere firmata la pace. È l'unico punto su cui esercito
del Niger, esercito libico, ribelli tuareg e noi tuareg esterni alla
ribellione andiamo d'accordo".
L'accordo sottobanco funziona dal novembre 2008. Il problema ora è la
mancanza di camion. "Ne stiamo facendo arrivare dalla Nigeria. Abbiamo più
gente disposta a partire che mezzi", racconta un altro broker ad Agadez: "A
novembre i ribelli tuareg amici della Francia, i militari libici e nigerini
e i trafficanti di tutto il Sahara hanno raggiunto un patto: tutti fanno
finta di non vedere e incassano la loro parte. Gli autisti tuareg dicevano
che senza lavoro, a causa della guerra, si sarebbero uniti alla ribellione.
Così adesso l'esercito del Niger scorta i camion fino a Dirkou. I libici
chiudono gli occhi. E i tuareg hanno il lavoro. Il limite è che anche per
Dirkou bisogna muoversi in convoglio. Fuori convoglio i militari sparano a
vista e c'è il rischio delle mine". Quelli di venerdì 13 marzo e martedì 17
marzo sono convogli giganteschi: una fila di decine di fuoristrada e 60
camion carichi di merci, sigarette di contrabbando ed emigranti. Le mine
anticarro sono ovunque. In settembre a 40 chilometri dal confine con la
Libia, l'esplosione improvvisa sotto le ruote di una camion ha ucciso cinque
passeggeri tra cui un ragazzo di 19 anni. Ma l'affare vale il rischio: 10
mila emigranti per 250 euro fanno 2 milioni e mezzo di incasso.
Dirkou in questi giorni è un'oasi che non sa come sfamare i suoi ospiti in
transito. Ci sono più stranieri che residenti: oltre 5 mila su 3 mila. Un
abitante racconta al telefono che non c'è abbastanza da mangiare per tutti
ed è scoppiata un'epidemia di meningite. Almeno 15 emigranti sono morti di
fame e di sete negli ultimi giorni e i loro cadaveri sono stati visti dagli
autisti di camion a sud di Tumu, la frontiera con la Libia. Forse sono stati
abbandonati dai trafficanti, forse avevano deciso di proseguire a piedi.
La fuga dall'Africa è un dramma anche nelle città dove le generazioni più
istruite si dissolvono lungo la rotta del deserto. Proprio in questi giorni
una delegazione del ministero dell'Educazione della Nigeria è venuta ad
Agadez a chiedere alle autorità di non lasciar passare i minori di 15 anni
nigeriani. L'incubo sono gli spacciatori di sogni che avvicinano i minorenni
davanti alle scuole: non vendono droga, ma un futuro impossibile. "I broker
mandano loro emissari davanti alle scuole nigeriane", spiega un funzionario:
"Raccontano che arrivare in Italia è facile. Ma una volta in viaggio i
ragazzi vengono rapinati dei loro soldi. E le ragazze devono prostituirsi
per pagarsi il resto del percorso". Irin, l'agenzia di analisi dell'ufficio
Affari umanitari dell'Onu, ha raccolto testimonianze di camion attaccati dai
banditi sulla rotta per Dirkou e di adolescenti rapite e scomparse nel
deserto.
Tutto questo, dalla fine del 2005 all'autunno 2008, era stato fermato.
L'esercito del Niger aveva bloccato il traffico di clandestini lungo la
pista degli schiavi: 1.500 chilometri di deserto che attraversano il Ténéré
e superata l'oasi di Dirkou salgono in Libia, la rotta che ha avuto il suo
picco di emigranti e cadaveri nel 2003 con 15 mila passaggi al mese. Tutto
questo non si sarebbe ripetuto se la guerra telecomandata dei tuareg non
avesse destabilizzato la regione. A fine 2006 Agadez è ancora una città
aperta al mondo e piena di turisti. Ma quelli sono i mesi in cui il costo
del petrolio corre. E il prezzo dell'uranio anche. Il presidente Mamadou
Tandja e il governo decidono che il Niger può finalmente puntare sulla
risorsa strategica di cui è piena la regione di Agadez. Le concessioni per
la ricerca dei minerali di uraninite, coffinite e pechblenda vengono messe a
disposizione del miglior offerente. La diplomazia francese mugugna. Parigi
ha sempre avuto il monopolio dell'uranio in Niger. Lo stabilisce già nel
1961 l'Accordo di difesa firmato tra i due paesi, in piena dominazione
coloniale. Il colosso Areva chiede per sé i primi 35 permessi di ricerca.
Tandja resiste e rilascia 15 concessioni a società canadesi, sete
all'Australia, sei al Sudafrica, solo quattro alla Francia, tre all'India e
due a Cina e Russia. In sospeso c'è ancora lo sfruttamento del giacimento di
Imouraren, vicino ad Agadez: una quantità di uranio estraibile di 5
tonnellate all'anno per 35 anni che porta il Niger dal quarto al secondo
posto tra i paesi esportatori al mondo. E che da solo equivale a tutta la
produzione mondiale di Areva.
L'attacco alla postazione dell'esercito nell'oasi di Iferouane, a nord di
Agadez l'8 febbraio 2007, è un'azione a sangue freddo. Un piano che ricorda
la morte dei dieci soldati francesi massacrati il 19 agosto 2008 in
Afghanistan. Da quel giorno di febbraio intorno ad Agadez muoiono padri di
famiglia e ragazzi che hanno indossato la divisa in cambio di uno stipendio.
Dietro l'assalto di Iferouane però non ci sono i talebani di Al Qaeda. C'è
un gruppo minoritario di tuareg fino a quel giorno sconosciuto. Si fanno
chiamare Mnj, Movimento dei nigerini per la giustizia, che nel giro di
qualche settimana riceve armi e munizioni dalla Libia. A loro si unisce
presto il capitano Mohamed Ajidar, comandante di un plotone del Fnis, la
Forza nigerina di intervento e sicurezza, reparto dell'esercito costituito
da tuareg. Il comandante Ajidar conosce da vicino gli interessi francesi
nella regione. Sette mesi prima Areva gli ha affidato la sorveglianza di tre
aree di concessione. E gli ha versato sul suo conto personale 56 milioni di
franchi africani, 85 mila 365 euro, un capitale da queste parti. Perché
tutti quei soldi? Tanto basta a far insospettire il governo che in pochi
giorni caccia dal Niger l'ex colonnello Gilles de Namur, responsabile per
Areva della sicurezza sul mega-giacimento di Imouraren. Una coincidenza: de
Namur è addetto militare all'ambasciata di Francia a Niamey durante la prima
rivolta tuareg sostenuta apertamente da Parigi. Il Mnj fa altri morti. E il
governo ordina l'arresto e l'espulsione del direttore generale di Areva
Niger, Dominique Pin. Nuova coincidenza: negli anni '90 Pin, mentre de Namur
lavora in ambasciata a Niamey, fa parte della sezione Africa dell'Eliseo
dove il presidente François Mitterrand ha un consigliere che farà strada
nell'industria strategica. Il consigliere è Anne Lauvergeon, attuale
amministratore delegato di Areva. Il retroscena più delicato sulla presunta
benevolenza tra la società statale di Parigi e i nuovi ribelli tuareg lo
rivela senza volerlo il commerciante di Torino messo sotto interrogatorio in
una camera di sicurezza a Niamey. Racconta che il vice presidente del
movimento tuareg, Asharif Mohamed-Almoctar, poi ucciso in combattimento
nell'estate 2008, chiama spesso la Francia con uno dei due telefoni
satellitari rapinati il 20 aprile 2007 dal cantiere di Areva sul
megagiacimento di Imouraren.
La cosa che stupisce la polizia di Niamey, secondo fonti investigative, è
che mesi dopo, a fine 2007 e in piena guerra, Areva stia ancora rinnovando
il credito dei due telefoni rapinati dai tuareg. Un curioso mistero mai
chiarito. Così come resta un giallo la rivendicazione da parte di Al Qaeda
del sequestro, tuttora in corso nel Sahara, dell'inviato dell'Onu in Niger:
l'ex ambasciatore del Canada a Roma, Robert Fowler, monsieur Afrique nella
politica estera di Ottawa, rapito il 14 dicembre a nord della capitale con
il connazionale Louis Guay e il loro autista nigerino Soumana Mounkaila.
Secondo i giornali del Canada, il paese che in Niger ha fatto il pieno di
concessioni per l'uranio, Fowler e Guay si occupavano di miniere fuori dal
mandato dell'Onu. Mouadibou Sisse, 19 anni, di Bamako, Mali, nemmeno
immagina il risiko che si sta giocando sulla testa di questa terra in cima
alle classifiche di povertà. Aspetta l'autobus per Agadez alla stazione di
Niamey. Vuole arrivare in Italia per raggiungere la Spagna. È già stato
espulso una volta da Madrid. Ma non s'arrende.
Una
proiezione elaborata dal sindacato sulla base dei tagli imposti con la
Finanziaria
L'anno prossimo il blocco in 17 atenei su 57, nel 2011 si salirebbe a 37
Cgil, nel 2010 niente assunzioni
in quasi un terzo delle università
di SALVO INTRAVAIA
Il ministro Gelmini
Blocco delle assunzioni più o meno in un terzo degli
atenei. Nel 2010, secondo una proiezione elaborata dalla Flc Cgil sulla base
del taglio operato dal governo attraverso la Finanziaria sui fondi destinati
alle università italiane, 17 atenei su 57 non potranno effettuare nuove
assunzioni. Sarebbe proprio questo per la Cgil l'effetto della cura
dimagrante imposta alle casse universitarie. Entro il 2013 il cosiddetto
Fondo per il finanziamento ordinario degli atenei subirà un taglio del 7 per
cento circa. Nel frattempo, gli stipendi di professori, ricercatori e
personale amministrativo cresceranno e parecchi atenei supereranno il tetto
stabilito dal ministro Mariastella Gelmini per individuare le università
virtuose: quelle che appunto potranno permettersi di assumere nuovo
personale.
La scorsa estate, l'esecutivo ha tagliato il Fondo per il finanziamento
ordinario degli atenei: meno 455 milioni entro il 2013. E a gennaio, per
spingere le università a spendere in modo più oculato i fondi statali, è
stato varato un provvedimento che blocca le assunzioni negli atenei in cui
il rapporto fra spesa per il personale e Fondo per il finanziamento
ordinario supererà il 90 per cento. La Cgil sulla base dei dati disponibili
ha effettuato una proiezione su 57 università.
"La tabella - spiegano da via Serra - è necessariamente indicativa ma è
costruita in modo da presentare una lettura prudenziale: eventuali
scostamenti possono solo essere in peggio".
Diciassette atenei (Firenze, Pisa, Tor Vergata, Perugia, Pavia, Siena,
Trieste, Modena, Udine, L'Aquila, Insubria, Tuscia, Orientale di Napoli,
Basilicata, Cassino, Molise e Mediterranea) sforeranno il tetto. Altre due
(Camerino e Genova) "si avvicinano pericolosamente al limite".
E dopo un anno la situazione peggiorerà considerevolmente. Gli atenei
"spendaccioni" saliranno a 37 travolgendo l'intero sistema universitario
che, "in assenza di correttivi sostanziali, nel giro di pochissimo tempo, si
troverà nell'impossibilità di rinnovare il proprio personale che cesserà dal
servizio". La previsione è che "un'intera generazione di studiosi verrà
bruciata e il Paese verrà condannato a una marginalità sullo scenario
internazionale ed europeo".
Per salvarsi dal blocco del turn-over i singoli atenei dovranno sperare che
tanti docenti vadano in pensione. In effetti l'età media di prof e
ricercatori universitari è piuttosto elevata (51 anni), soprattutto se
confrontata con quella degli altri Paesi europei. Sono i docenti all'apice
della carriera (i professori ordinari) che, carta d'identità alla mano,
fanno registrare il record. In Italia, metà degli ordinari ha superato i 60
anni e quasi otto docenti su 100 hanno spento almeno 70 candeline. Nei
prossimi anni parecchi di loro andranno in pensione e le relative università
potranno ritornare virtuose. Ma non potranno rimpiazzare chi si è ritirato
se non in parte, pena l'inclusione nel girone degli "spendaccioni".
di Marina Forti Il fango di
Jakarta
Sepolti sotto un fiume di fango, e di indifferenza dei media. Ieri
sera squadre di soccorritoti stavano ancora cercando 131 persone «disperse»
alla periferia della capitale indonesiana Jakarta, mentre il bilancio
ufficiale del crollo di una diga avvenuto il 27 marzo (venerdì) è salito a
97 morti. Alcuni corpi sono stati trovato nel fiume Pesanggrahan, cioè a tre
chilometri e mezzo di distanza dalla diga crollata, riferva ieri il
portavoce dell'ente nazionale per la «gestione dei disastri» (National
Disaster Management Agency). La diga, crollando, ha rilasciato milioni di
metri cubi di acqua e fango che hanno spazzato il sobborgo industriale di
Cirendeu, nella città di Tangerang, una delle città-satellite della Grande
Jakarta. La diga ha ceduto intorno alle due del mattino, quando molti
dirmivano ancora, altri si preperavano ad andare al lavoro: molti
sopravvissuti hanno descritto quell'ondata di fango come un «minitsunami»
che si è abbattuto sul sobborgo, con un'ondata alta 2 metri che ha
trascinato via persone e cose, travolto baracche. sollevato veicoli. per ore
dalle macerie e dal fango sono stati estratti corpi senza vita, ma ancora
131 persone mancano all'appello. E più passano le ore, minori sono le
speranze di ritrovarle in vita.
Certo, forse non tutti gli scomparsi sono davvero periti nel fango: la
polizia locale fa notare che molti, in quel sobborgo, abitano in pensionati
e magari qualcuno era via per il finesettimana. Pensionati: case divise in
cubicoli con tetti di lamiera, lavabo e servizi nel cortile, dove alloggiano
gli operai e operaie. Già, perché Cirendeu è un sobborgo industriale, e
molti dei lavoratori vengono da remoti villaggi. Ancor prima che la ricerca
dei dispersi sia conclusa, l'agenzia «gestione disastri» sta compilando un
bilancio dei danni: un migliaio tra le persone evacuate il 27 marzo sono
rientrate nelle loro case, dice il portavoce (al notiziario Irin, pubblicato
on line dell'Ufficio dell'Onu per gli affari umanitari), ma oltre 300 case
sono state distrutte, centinaia di persone sono ancora sfollate.
Dopo il crollo di Tangerang il governatore della Grande Jakarta ha ordinato
un'ispezione di tutte le 26 dighe che circondano la capitale (il territorio
della capitale sconfina a sud in una zona di colline da cui scendono
numerosi corsi d'acqua e canali). Ora i giornali scrivono che già nel
febbraio scorso erano stati segnalati segni di cedimento nella diga crollata
venerdì, Situ Gintung, costruita dagli olandesi nel 1933. Anzi, le perdite
erano segnalate da anni, dicono i residenti - e riportano i giornali.
Fattostà che quella diga di terra non ha retto le piogge torrenziali delle
settimane scorse, che hanno fatto straripare un lago che confina con
Cirendeu. La guerra delle responsabilità è scoppiata. Ieri il direttore del
dipartimento per i lavori pubblici e le acque, Iwan Nursyirwan, ha respinto
l'accusa che il disastri sia stata causata da incuria del suo servizio:
l'ultima ispezione è avvenuta in dicembre, e non c'erano segni di crepe. Ha
puntato il dito sulle piogge torrenziali, invece. Il fatto è che le grandi
piogge sono un'occorrenza stagionale, nel clima subtripocale dell'isola di
Java. E però spesso queste grandi piogge fanno straripare i canali che
tagliano la città, ostruiti da rifiuti, travolgendo le baraccopoli
accomodate lungo i corso d'acqua o comunque le zone più modeste della
metropoli indonesiana. E' l'urbanizzazione estrema di Jakarta una delle
cause del disastro. ma difficilmente sarà rimediata.
L'autosovvenzione
allo sceriffo di Treviso
Le parole di Giancarlo Gentilini spesso sono materia da aula di
giustizia. Proprio ieri è stato rinviato a giudizio per istigazione
all'odio razziale per le sue frasi su rom, immigrati e musulmani. Ma
nella deriva italiana ci siamo abituati a tutto. E così non
scandalizza scoprire che il Comune di Treviso ha stanziato diecimila
euro per fare stampare un volume sull'opera del più celebre
"sceriffo" leghista. Un finanziamento deciso mentre lo stesso
municipio taglia con la scure i fondi per assistenza sociale e per
altre iniziative di più diretta utilità. Gentilini, ex primo
cittadino per due mandati ora costretto a fare il vice sindaco ma di
fatto dominus dell'amministrazione, ha difeso l'auto-sovvenzione: "È
giusto che i cittadini sappiano cosa è stato fatto. E anche quelli
di Treviso devono sapere, altrimenti si dimenticano del casino che
c’era prima del mio arrivo, nel 1994. I soldi quindi li spendo prima
per i miei cittadini, per far vedere loro cosa abbiamo fatto per la
città. Per i servizi sociali, per gli immigrati, arriveranno altre
somme più avanti". Il popolo è sovrano e in ben quattro elezioni
consecutive i trevigiani hanno ribadito la loro fiducia a "Super G".
Resta il dubbio: ma se il libro venisse messo in vendita, non si
potrebbe fare a meno della sovvenzione pubblica? Una raccolta delle
frasi di Gentilini, da quando voleva far "vestire gli
extracomunitari da leprotti" per sparargli addosso o l'invito a
"mandare e pregare e pisciare i musulmani nel deserto" o
l'ultimissimo appello per "l'eliminazione dei bambini rom che rubano
agli anziani" potrebbe diventare un manuale di studio sull'era
dell'intolleranza, di grandissima diffusione.
Gas tossici in Val Padana
di Luca Carra e Luca Piana
La verità nascosta
sull'inquinamento in Lombardia: dove l'anidride carbonica e le
polveri sottili crescono a dismisura. Mentre aumentano le malattie
causate dallo smog
Vai a capirli, gli svizzeri. Gli italiani di Lombardia invidiano
il loro federalismo e, quando possono, depositano nelle banche
di Lugano un fiume di quattrini e quelli vogliono multarli per
eccesso di inquinamento. Proprio così. L'iniziativa è partita da
due deputati ticinesi, Milena Garobbio e Raoul Ghisletta. Il
ragionamento è questo. Visto che gli sforzi fatti dal Canton
Ticino per combattere l'inquinamento vengono vanificati dallo
smog che supera il balcone delle Prealpi, che almeno la
Lombardia risarcisca i danni causati dalla sua "manifesta
attitudine passiva nell'ambito del risanamento dell'aria".
Le autorità svizzere hanno per il momento respinto la richiesta,
preferendo invocare maggiore collaborazione. Chissà che cosa
direbbero, però, i due puntigliosi deputati ticinesi se
potessero leggere un rapporto che i sindaci lombardi e gli altri
addetti ai lavori stanno ricevendo proprio in questi giorni.
Si intitola 'Progetto Kyoto Lombardia' e arriva a
conclusioni così imbarazzanti sul dissesto ambientale in atto da
aver indotto la Regione a consigliare l'autore - la Fondazione
Lombardia per l'Ambiente - a tenere un basso profilo nel
diffonderne i contenuti.
Come accade spesso con i libri messi all'indice, la lettura
delle 278 pagine del volume si rivela però di estremo interesse.
Frutto del lavoro di decine di ricercatori di sei diverse
università e di numerosi centri di ricerca, lo studio è molto
chiaro nel dipingere una situazione di emergenza e le difficoltà
comuni a tutte le amministrazioni italiane nel rispondere alla
sfida posta dal cambiamento del clima.
Sul fronte dell'inquinamento, a dir la verità, il confronto con
il passato non è sempre privo di buone notizie. In Lombardia, ad
esempio, i dati ufficiali dicono che la chiusura di molte
fabbriche, la trasformazione delle caldaie domestiche da gasolio
a metano e la diffusione di motori più moderni ha fatto
diminuire rispetto ai primi anni Novanta la quantità delle
polveri sottili che avvelenano l'aria. Allo stesso tempo, però,
la Pianura Padana, chiusa dalle montagne che frenano il ricambio
dell'aria e favoriscono la deleteria alta pressione, resta una
delle aree più inquinate d'Europa, stando alle ultime stime
diffuse dalla Commissione di Bruxelles. E il calo delle polveri
sottili che si era registrato fino a una decina d'anni fa, ora
ha perso forza e la tendenza è verso un sostanziale
appiattimento. Una situazione che contribuisce a far condividere
alla Pianura Padana un record di Belgio e Olanda che nessuno
invidia: il più alto livello di mesi di vita che, nella cruda
statistica, ogni cittadino brucia per effetto delle malattie
mortali legate all'inquinamento (15 a testa, contro gli otto
della media italiana).
Non bastano però alcuni dati in chiaroscuro per
attenuare la durezza dell'analisi del rapporto 'Progetto Kyoto
Lombardia'. Come dice il titolo, il lavoro è incentrato
sui risultati ottenuti nel controllo delle emissioni dei gas
ammazza-clima, a cominciare dall'anidride carbonica. Il
protocollo firmato nel 1997 nella città giapponese imponeva
all'Italia una riduzione delle emissioni del 6,5 per cento entro
il 2012 rispetto ai quantitativi del 1995. Da allora, invece, in
Lombardia la situazione è costantemente peggiorata: il rapporto
fotografa un incremento complessivo del 15 per cento. Tre punti
in più rispetto alla media italiana (dove le emissioni sono
cresciute comunque del 12 per cento), che piazzano la Regione
presieduta da Roberto Formigoni a una distanza ormai
sostanzialmente incolmabile rispetto agli obiettivi fissati a
Kyoto.
Prima in Italia per popolazione e per rilevanza dell'industria,
la Lombardia sputa in atmosfera più di 90 milioni di tonnellate
di anidride carbonica l'anno. E se la chiusura o la
delocalizzazione all'estero di molte fabbriche ha alleggerito il
peso dei fumi industriali, e i loro effetti negativi, il
costante aumento del traffico ha dato una mazzata impossibile da
assorbire. La sconfitta, è ovvio, non è solo lombarda. Sono
rarissime le città che non hanno alzato bandiera bianca nella
lotta al traffico. Gli interventi dei sindaci sono spesso poco
più che simbolici, come le biciclette comunali in affitto (o
'bike sharing', in inglese) che accomunano Milano a Roma. E non
manca chi, come l'assessore all'Ambiente di Treviso, Vittorio
Zanini, cerca fantasiose fughe dalle proprie responsabilità:
"Chiediamo all'Europa lo stato di calamità naturale", ha
proposto di recente dalle pagine del quotidiano 'Libero'. Sta di
fatto, però, che la densità della popolazione, unita agli scarsi
investimenti nei trasporti pubblici, in Lombardia pesa. E i gas
di scarico delle auto contribuiscono ormai alle emissioni di
anidride carbonica per il 23 per cento del totale, superando le
caldaie condominiali (al 21 per cento) e gli impianti
industriali (al 18).
Uno dei risultati più preoccupanti di questa deriva è indicata
dal rapporto nell'aumento delle temperature medie. Se il freddo,
le nevicate e la pioggia dell'ultimo inverno hanno dato un po'
di respiro, il quadro generale non lascia molti dubbi: in un
secolo la temperatura media regionale è aumentata di un grado
centigrado e negli ultimi anni si è registrata un'accelerazione
particolarmente violenta, per i tempi lunghi della natura, nelle
città. A Milano lo scudo di cemento che isola il terreno ha
provocato una sorta di bolla di calore, con la temperatura media
che in un solo decennio è cresciuta di 1,8 gradi.
Il collasso climatico ha diverse ripercussioni sulla vita
quotidiana dei cittadini lombardi e sul sistema economico
regionale. I primi effetti, evidentemente, riguardano la salute
ma l'elenco è lungo e variegato. Comprende l'aumento delle
alluvioni, le frane, i danni sempre più profondi
all'agricoltura, la carenza d'acqua.
Per quel che riguarda la salute, il rapporto si sofferma in
particolare sugli effetti più direttamente legati all'aumento
delle emissioni di gas. Tutti ricordano l'estate bollente del
2003, quando a causa dell'afa persistente si calcola che siano
morte solo in Lombardia oltre duemila persone in più rispetto
all'anno precedente, e ben 35 mila in tutta Europa. E anche
l'esplosione dei casi di allergia e di asma, determinata
dall'effetto del caldo sui normali ritmi di pollinazione delle
piante, sono fenomeni che ormai appartengono all'esperienza
comune.
Per comprendere bene la portata dell'inquinamento, occorre però
uscire un momento dai confini del rapporto. Proprio in
Lombardia, infatti, una serie di ricerche condotte a livello
universitario negli ultimi anni hanno approfondito i meccanismi
con i quali agisce sulla salute un altro fattore d'inquinamento,
la concentrazione nell'aria delle polveri sottili. Da tempo
ormai gli abitanti delle città più grandi come quelle più
piccole convivono con livelli di polveri che, per molti giorni
durante l'anno, sono superiori alle soglie d'attenzione indicate
dall'Unione Europea. Nell'inverno da poco finito la situazione è
un po' migliorata, grazie alla neve e alle piogge frequenti, ma
anche in questo caso è davvero difficile parlare di
un'inversione di tendenza. Al punto che, per i continui
sforamenti, l'Unione europea ha avviato nei confronti della
Regione una procedura d'infrazione che potrebbe costare ai
contribuenti lombardi una multa di 800 milioni di euro, se
Formigoni e la sua giunta non prederanno contromisure
convincenti. L'Unione europea ha ben chiaro che, al di là delle
scelte politiche, in ballo ci sono questioni molto concrete di
salute dei cittadini. Perché è noto l'impatto devastante che
polveri e smog hanno su malattie respiratorie e
cardio-circolatorie, e, di più, che oscillazioni molto piccole
nella quantità di polveri presenti nell'aria si traducono in
rischi difficili da immaginare.
Negli ultimi anni un gruppo di ricercatori del Policlinico di
Milano ha condotto una serie di studi sulle malattie
cardiovascolari, la prima causa di morte nel mondo occidentale.
In particolare gli scienziati hanno incrociato i dati
sull'inquinamento rilevati giorno per giorno nelle strade
lombarde dall'Arpa con quelli delle persone colpite da trombosi
venosa. "Si trattava di pazienti dei quali conoscevamo
l'indirizzo, e quindi abbiamo potuto definire con buona
approssimazione i livelli di inquinamento ai quali erano stati
esposti", spiega Pier Mannuccio Mannucci, uno degli autori. I
primi risultati sono stati pubblicati nel maggio del 2008 e
suonano in modo piuttosto preoccupante. Un incremento minimo
nella media annua di polveri sottili, le cosiddette PM10, pari a
10 milionesimi di grammo per metro cubo d'aria, si traduce in un
aumento del 70 per cento del rischio di trombosi.
Partendo da questi risultati, e studiando i medesimi parametri
su oltre 1.200 persone, i ricercatori del Policlinico hanno
avviato un secondo studio, che ora è in fase di completamento. I
risultati, che almeno in parte 'L'espresso' è in grado di
anticipare, sono inquietanti. Ma anche sorprendenti, perché
ribaltano la percezione diffusa di vivere in una nuvola
indistinta di pulviscolo - quella che Pier Alberto Bertazzi, un
altro degli autori, definisce con efficacia come "un aerosol di
particelle solide e liquide" - dove tutti respiriamo le stesse
porcherie, con le medesime conseguenze. Non è così. "La verità è
che vivere a pochi metri da una strada trafficata, come può
essere la cerchia dei Navigli a Milano, è più pericoloso che
abitare in una strada laterale. Oppure, se volete un altro
esempio, vivere a Bergamo alta, dove circolano meno automobili,
è molto meglio che stare a Bergamo bassa", spiega Mannucci. Per
dare una misura del pericolo, si può dire che il rischio di
essere colpito da una trombosi venosa aumenta di quasi il 50 per
cento per le persone che vivono lungo una strada a intenso
traffico, rispetto a chi abita invece a una distanza di 250
metri. Man mano che ci si allontana, diminuisce linearmente il
rischio di ammalarsi.
Il rischio di essere colpiti da una trombosi venosa nei giovani
non è frequente. Ma man mano che l'età avanza, diventa sempre
più consistente. E l'associazione con una vita passata lungo una
strada sempre zeppa di automobili, magari abitando ai piani
bassi, può diventare un killer. Al punto che Mannucci butta lì
una provocazione: "Sembra paradossale ma non sarebbe così
insensato se il sistema sanitario, assieme agli altri fattori di
rischio come l'età o l'obesità, considerasse anche il livello di
smog respirato una buona ragione per assumere farmaci
anticoagulanti".
Questa dunque è la Lombardia, ma questo è tutto il Nord Italia,
a meno di vivere sui passi alpini. Qui i cittadini stanno
silenziosamente pagando un conto che diventa, giorno dopo
giorno, sempre più salato. Perché accanto ai rischi per la
salute, l'inquinamento colpisce in maniera diretta la ricchezza
della regione.
E qui torna di nuovo d'aiuto il rapporto elaborato dalla
Fondazione Lombardia per l'Ambiente e destinato alla
semi-clandestinità. Protagonisti sono nuovamente i gas che
contribuiscono all'effetto serra e che impattano direttamente
sul sistema produttivo dell'intera area. Innanzitutto con il
clima pazzo che osserviamo ogni giorno e che gli esperti
chiamano "polarizzazione dei fenomeni meteorologici": le piogge
si fanno torrenziali, il caldo estivo può trasformarsi
rapidamente in siccità. Risultato: occorre mettere in conto un
aumento di frane e alluvioni nei mesi freddi e un'agricoltura
assetata da maggio in avanti.
Gli autori quantificano in più di un miliardo di euro i danni
possibili nei prossimi anni alle infrastrutture colpite da frane
e allagamenti. E, a causa della siccità, ancora più severe
potrebbero rivelarsi le ripercussioni sulle coltivazioni più
diffuse in Lombardia, come il mais e il frumento. L'agricoltura,
infatti, continua ad occupare circa tre quarti del territorio
della regione, magari ritagliandosi gli spazi residui fra i
capannoni delle fabbrichette e le strade statali, e già oggi si
trova periodicamente a corto di risorse idriche, per le quali
deve combattere contro gli usi civili e quelli industriali.
La temperatura, informano i tecnici, ha poi un effetto diretto
su alcune produzioni più pregiate, come ad esempio l'uva per
fare il vino. E secondo gli autori del rapporto 'Kyoto
Lombardia' proprio il vino è una delle antenne più sensibili ai
cambiamenti climatici. Il caldo aumenta infatti il tasso
alcolico e può far perdere gli aromi caratteristici della
produzione lombarda, mettendo a repentaglio un mercato che
attualmente fattura circa 800 milioni di euro. Per non parlare
di conseguenze al limite della curiosità, che non si sa se
catalogare come novità interessanti o paradossi del clima: "I
cambiamenti climatici stanno già spostando le colture dell'ulivo
a ridosso delle Alpi", scrive Alessandra Goria, ricercatrice
della Fondazione Mattei: "Mentre il clima diventa più favorevole
alla coltivazione dei pomodori e del grano duro per la pasta".
Mantova come Villa Literno? Bisogna vedere se queste novità
avranno superato il gelo dell'inverno appena passato, che con un
freddo ormai quasi inconsueto potrebbe aver riportato un po'
indietro le lancette. Riservando qualche altra impensabile
bizzarria.
Un merito, però, va riconosciuto alla Lombardia: quello di aver
delineato la diagnosi di questo scacco climatico prima e meglio
degli altri. Sembra però che i rapporti degli scienziati e delle
associazioni ambientaliste si accumulino sui tavoli di chi
prende le decisioni senza che nessuno ci badi molto. Perché non
si vedono né si prevedono possibili strategie politiche per
tentare di mitigare o quanto meno adattarsi agli sconvolgimenti
in arrivo. "I dati indicano che la Lombardia non è molto diversa
dalle altre regioni italiane, come le sue istituzioni forse
amano immaginare", spiega Stefano Caserini, docente di Fenomeni
di inquinamento al Politecnico di Milano e autore del capitolo
sulle emissioni del Rapporto: "Mancano politiche sia nazionali
che regionali per controllare le crescita delle emissioni e il
riscaldamento del clima". Secondo lo studioso, strategie
possibili ce ne sarebbero:"In Lombardia si dovrebbe agire
soprattutto sui trasporti". commenta.
Ora che la Regione, con la sua rete che si prevede in forte
crescita di tangenziali e autostrade sarà più che mai a misura
di Tir e automobili, tuttavia, un passo indietro pare difficile,
come conferma Marzio Galeotti, economista ambientale
dell'Università di Milano e curatore nel rapporto del capitolo
su scenari e politiche: "Negli ultimi anni le emissioni di
anidride carbonica da parte delle automobili sono diminuite per
i miglioramenti tecnologici. Peccato che nel frattempo siano
aumentati la cilindrata e i chilometri percorsi delle auto in
circolazione, vanificando così i miglioramenti".