29 aprile


G8, un ripensamento da 300 milioni

Un ripensamento da trecento milioni di euro. La decisione del consiglio dei ministri di spostare il vertice del G8 dalla Maddalena all'Aquila lascia numerosi interrogativi aperti.

Il primo è sulla necessità di organizzare in due mesi un vertice mondiale in un'area dove le priorità sono altre: trovare una sistemazione dignitosa a 68 mila sfollati. Il secondo è sulla destinazione delle strutture in fase di completamento nell'arcipelago sardo. Alcune strutture, come i due hotel destinati a ospitare i capi di stato e le loro delegazioni (132 milioni di euro) potranno trovare forse una destinazione turistica, il centro conferenze da milioni verrà sfruttato per convegni meno blasonati (58 milioni) e le costruzioni sul lungomare (42 milioni) torneranno utili in futuro. Più difficile immaginare un sistema per riciclare il centro stampa da 26 milioni di euro.

In un momento di crisi economica profonda, con le casse pubbliche vuote, ha senso archiviare un investimento simile e cercare nuovi fondi per reinventare l'accoglienza dei Grandi in Abruzzo? O non si rischia di mettere in cantiere uno spreco doppio?



La strage nascosta

di Gianni Del Vecchio e Stefano Pitrelli

5.700 morti, 900 mila feriti, oltre tre milioni e mezzo di incidenti: i dati delle assicurazioni svelano il massacro quotidiano che avviene sulle strade

Vedi la macchina accartocciata contro il guard rail, i lampeggianti delle ambulanze e i poliziotti a capo chino, e subito intuisci com'è andata. È l'ennesimo bagno di sangue del sabato sera, che il lunedì poi si riduce a una statistica. Come quelle Istat, secondo cui ogni dieci anni scompare un'intera città delle dimensioni di Pordenone, Legnano o Avellino. Eppure le cifre ufficiali non sono che la punta dell'iceberg: la realtà è più grave. I numeri choc de 'L'espresso' rivelano come le nostre strade siano ancor più pericolose di quanto si conosca, per numero di incidenti, morti e feriti. Una strage nascosta che colpisce dove e quando non ce lo aspettiamo, falciando soprattutto i più giovani e i più deboli.

NUMERI CHOC: Tutti i dati, le tabelle e le mappe degli incidenti stradali

Come stiano veramente le cose lo spiega la Fondazione per la sicurezza stradale dell'Ania, l'associazione delle compagnie assicurative, che di incidenti nel 2007 ne conta quasi tre milioni e 700 mila. Non il doppio, ma 16 volte più di quelli censiti ufficialmente: il contatore dell'Istituto nazionale di statistica si ferma appena a 230 mila, ossia solo dove c'è stato l'intervento di carabinieri e polizia. I danni dovuti a tamponamenti e scontri frontali sono enormi. Ma il prezzo in vite umane è sconvolgente. "Pure il conto delle vittime è sottostimato", sostiene Franco Taggi dell'Istituto superiore di sanità: "In media il 10 per cento dei decessi sfugge alle statistiche". Il che significa 600 morti in più rispetto ai 5.131 noti finora: il valore più alto nell'Unione dopo la Polonia. Anche qui l'Istat non riesce a fotografare il fenomeno, perché segue il destino dei feriti solo per un mese, mentre gli effetti degli incidenti uccidono anche più tardi.

Le ferite che restano Sui feriti, poi, il salto lascia sbalorditi. Triplicano, arrivando poco al di sotto del milione, dai 325 mila di partenza. Di loro, 15 mila sono invalidi permanenti: i segni dello scontro se li porteranno addosso per sempre, uno degli aspetti più drammatici e dimenticati di un bilancio che grava sulle famiglie e sullo Stato. I costi sociali - spese sanitarie e burocratiche, il danno morale e quello fisico, nonché tutto il lavoro che caduti e sopravvissuti non potranno più svolgere - rappresentano nell'insieme un ammanco imponente che solo nel 2007, per la Fondazione Ania, tocca i 30 miliardi di euro (cioè il 2 per cento della ricchezza che produciamo ogni anno).


Le vittime più deboli Fra quelli che in Italia le bravate al volante le hanno pagate con la vita c'è stato pure l'equivalente di un'intera scuola: in un anno sono morti 130 bambini, secondo la stima dell'Aci. Non garantire la sicurezza dei più piccoli ci condanna alla vergogna in Europa, dove negli ultimi dieci anni siamo stati i peggiori. Perché il nostro non è certo un Paese per ragazzini. E tanto meno per vecchi, soprattutto quelli che in giro ci vanno a piedi. Fra i pedoni, infatti, sono gli anziani i più vulnerabili: e costituiscono oltre la metà di chi ci rimette la pelle e il 30 per cento dei feriti. In particolare, la fascia d'età compresa fra i 75 e i 79 anni è quella più a rischio. Quando però l'anziano dal marciapiede sale al volante, ecco che a rischio ci mette pure gli altri. Tant'è vero che, in un'audizione parlamentare, la Fondazione Ania ha sentito di dover raccomandare maggiori controlli sulle loro condizioni di salute. Nel 2007, ad esempio, in Italia sono morti 626 guidatori con più di settant'anni.

Weekend killer Molti altri invece non ce l'hanno neppure, il tempo di invecchiare. Perché un terzo delle vittime delle corse sfrenate sono proprio i giovani. Colpa, spesso, della diffusione di alcol e droga, e questo in misura di gran lunga superiore a quanto non venga detto. Uno su tre si schianta in preda all'ebbrezza, denuncia l'Istituto superiore di sanità, contro lo scarno 2 per cento riportato dall'Istat. "Il fatto è che ad esempio a chi muore non sempre si fa l'autopsia, e anche allora non è detto venga misurato il tasso alcolemico", spiega Taggi. Ed è triste ma vero che per molti di loro la propria storia si conclude sulla carreggiata in un fine settimana qualsiasi: il 35 per cento delle vittime della strada si concentra nei due giorni festivi. Oltre a quella dei weekend, di strage ce n'è un'altra di cui non si parla mai, forse perché meno appariscente. Tuttavia nel 2007 ha fatto oltre un migliaio di vittime tra la folla di chi semplicemente torna a casa dopo una giornata di lavoro, nella fascia oraria fra le 5 e le 7 di sera. Quasi 70 mila inoltre i feriti lasciati sul campo dall'esercito di pendolari che rincasa. Di paragoni per rendere l'enormità di questa strage a puntate ne sono stati fatti tanti: due volte il crollo delle Torri gemelle, 20 volte il terremoto in Abruzzo. Il fatto è che la patente è un porto d'armi, e dalle nostre parti le automobili lasciano più morti sull'asfalto dei rumorosi omicidi: il 79 per cento delle morti traumatiche contro meno di quel 10 per cento di vittime delle pallottole. "Il parallelo fra un'arma e una macchina non è poi così azzardato", argomenta Giordano Biserni, presidente dell'Asaps, gli amici della stradale: "Anche se fra una vettura e una pistola c'è una fondamentale differenza: la prima la sanno usare tutti, la seconda no. A una certa distanza, tra un auto in arrivo e un proiettile, datemi la pallottola. Perché il tiratore più è scarso e più è facile che ti manchi. Il conducente più è scarso, più è facile che ti prenda in pieno". E nella maggior parte dei casi, anche solo a 50 chilometri orari il risultato è comunque lo stesso. Si muore.

Sicurezza tradita Il divario tra le vittime delle armi da fuoco e quelle degli investimenti stradali fa riflettere sull'attuale definizione politica della parola 'sicurezza'. Che si concentra sugli uni e dimentica gli altri. In Italia, 'annunci del lunedì' a parte, c'è un abisso fra le dichiarazioni e i fatti. L'impegno preso in Europa nel 2001 di dimezzare le vittime del traffico entro il 2010 è ancora lontano e non sarà raggiunto. Secondo i dati dello European Transport Safety Council, l'Italia è ferma al 32 per cento in meno rispetto alla Francia che ha già praticamente raggiunto l'obiettivo, alla Spagna che è in dirittura d'arrivo, e persino alla Germania. I benefici effetti della patente a punti, inoltre, si stanno esaurendo. Come avverte la Fondazione Ania, si è spento l'effetto novità, si sono allentati i controlli, ed è troppo facile riguadagnare i punti persi. I controlli, appunto. È questa una chiave per rallentare il contatore delle vittime. Il progressivo aumento dei posti di blocco e dei test alcolemici, ad esempio, ha permesso ai francesi di dimezzare i loro lutti. Oltralpe hanno superato la soglia dei cinque milioni di test, con l'ambizioso obiettivo di arrivare a otto. In Italia invece siamo parecchio dietro, nonostante l'enorme recupero degli ultimi tempi. Tre anni fa polizia e carabinieri fermavano solo 240 mila guidatori l'anno, cifra cresciuta esponenzialmente fino a sfiorare il milione e 400 mila del 2008. I risultati non sono tardati: nello stesso periodo il numero di morti e feriti è costantemente diminuito. La ricetta quindi sembra quella giusta, e la Fondazione Ania indica un livello ottimale di controlli per il nostro Paese: per avere un buon effetto deterrenza ogni anno ne servirebbero almeno tre milioni e mezzo. Purtroppo però la risposta del governo è in netta controtendenza, visto che l'ultima Finanziaria ha tagliato risorse alla sicurezza stradale (vedi box a pag. 55). "Eppure investire di più oggi ci farebbe risparmiare domani in euro, ma soprattutto in vite umane", nota Sandro Salvati della Fondazione Ania. Come succede a chi punta sulla tecnologia. A detta di molti lo strumento principe sembra essere l'ormai famoso Tutor. Col nuovo sistema di rilevazione della velocità, Autostrade per l'Italia fa sapere di aver ridotto del 50 per cento la mortalità, e assicura che ne farà uso sempre più esteso. Altrettanto convinti all'Anas: nei prossimi mesi partirà la sperimentazione su alcune 'vie della morte', come la Romea, l'Aurelia e la Domiziana.

La lista nera delle strade Del resto le strade pericolose contribuiscono fortemente al tributo di sangue versato ogni anno. In Italia ce ne sono troppe, e con assiduità forniscono materiale per la cronaca nera. Si stima infatti che la stragrande maggioranza degli incidenti (circa l'80 per cento) si verifichi su un numero limitato di arterie (il 20). Ma quali sono i killer d'asfalto? L'Aci ha provato a stilare un elenco. Fra le autostrade cittadine primeggia la Tangenziale di Napoli, seguita da alcuni tratti del Grande raccordo anulare romano. Attenti anche su quelle extraurbane, in particolare se si viaggia sulla Torino-Trieste. Passando alle statali, due volte più rischiose delle autostrade, in testa alla classifica si trova la Tiburtina, fra Roma e Tivoli, seguita dalla famigerata Jonica, nel tratto che solca il Crotonese. Meglio starsene in città? Non proprio: nei centri urbani si verifica la maggior parte di tamponamenti e affini. Basti pensare, lo scrive la Fondazione Ania, che in Italia ogni quattro incidenti con danni alle persone, tre avvengono in ambito urbano. Anche in questo caso il raffronto con l'Europa ci penalizza: secondo uno studio Eurostat, Roma è la capitale dove si muore di più sulla strada. E dove negli ultimi dieci anni sono stati fatti meno passi avanti quanto a prevenzione.

Niente prevenzione, ossia l'altra chiave del problema. Forse per questo, secondo dati dell'Osservatorio il Centauro Asaps, dei 21 casi che a metà di questo mese hanno mestamente spinto il Lazio al primo posto in classifica per pirateria stradale, 17 si sono verificati nella capitale. La piaga però riguarda l'intero Paese, e dopo il record 2008 (in tutta Italia 323 episodi, con 98 morti e 331 feriti) non accenna a diminuire. Oggi siamo già a quota 116, con 21 persone uccise e 152 ricoveri. A tragedia avvenuta, che il pirata venga frequentemente identificato (nel 72 per cento dei casi) è consolazione tardiva. Ma sempre in nome della prevenzione, aiuterebbe capire cos'è che non va nella nostra guida. Ci viene incontro l'Istat, che in cima alle cause di morte pone l'eccesso di velocità. Subito dopo però troviamo la guida distratta. E per chi è al volante è immediatamente chiaro che la distrazione ha un nome: telefonino. "Parlare al cellulare rappresenta un pericolo enorme", avverte Taggi: "È come guidare con il doppio del limite massimo di alcol nel sangue. Il rischio incidente aumenta quattro volte".

Presunzione d'incolumità Controlli a parte, come sottolinea il vicequestore della Stradale Elisabetta Mancini, "c'è tanto lavoro da fare da un punto di vista culturale". "Il primo nodo da sciogliere è la nostra fatalistica presunzione d'incolumità", osserva Gioia Longo Di Cristofaro, docente di antropologia culturale a La Sapienza di Roma: "Ad esempio basterebbe spiegare che cosa significa 'perdere la faccia'. Quando a uno studente, o persino al tassista più navigato, fai capire che senza cinture rischia di deturparsi il viso, e gli parli degli interventi maxillo-facciali di cui poi avrà bisogno, vedi che cambia espressione e si mette la cintura". Ovviamente, però, è tutto vano "se all'informazione sugli obblighi non seguono i controlli, perché sennò ai giovani la società risulta incoerente, ergo poco credibile". Altra questione culturale, per l'antropologa, è il rapporto con l'automobile stessa. "Mentre per la donna è un mezzo di servizio, per l'uomo l'auto è biglietto da visita, totem o protesi meccanica: fa vedere 'chi sei'. I Suv sono l'apice di questo approccio".

Tra Suv e minicar Già, i gipponi: sicuri dentro, e inarrestabili fuori, soprattutto quando la loro mole in città diventa un rischio per chi cammina o va in bicicletta. Contro questa categoria gli strali di Altroconsumo: "Le vetture sottoposte a crash test manifestano un punto critico generale: la sicurezza di pedoni e ciclisti. E i produttori non fanno ancora abbastanza". Dagli elefanti alle formiche, nulla cambia. Le minicar che scorrazzano per le nostre grandi città sono vere e proprie mine vaganti: fanno il doppio degli incidenti di un auto normale. Spesso vengono regalate ai ragazzi e affollano i parcheggi dei licei: 'pistole' giocattolo, insomma, ma molto più pericolose di quelle vere.
 

Milano, l'Odissea dei migranti

I richiedenti asilo del Corno d'Africa sgomberati dai giardini di Porta Venezia per l'identificazione in Questura. In serata incontro con il funzionario Onu per i rifugiati
Continua per la città di Mlano l'Odissea degli immigrati del Corno d'Africa che chiedono una casa e il riconoscimento dello status di rifugiati. Da giorni vagano per il centro, in attesa di una sistemazione dopo lo sgombero dal residence 'Leonardo Da Vinci'.

Baci e abbracci. Stamani oltre un centinaio di loro, dopo aver passato la notte nei giardini di Porta Venezia, ha trovato le forze dell'ordine (Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza) a tentare di 'sgomberarli' nuovamente. Gli agenti si sono presentati nelle più svariate fogge: dall'uniforme grigia, berretto verde e fazzoletto giallo della Guardia di Finanza al completo ginocchiere-caschi-scudi nero e blu dell'antisommossa, fino alla polizia in borghese, giacca e camicia leggera, o felpa griffata 'Baci e abbracci', giusto perchè la stagione è incline al bel tempo, e col sole le divise fanno sudare. Le forze di polizia hanno cordonato i migranti che sostavano nel parco, pronti a caricarli sul pullman che li avrebbe condotti in Questura.

Ulteriore identificazione. Dopo qualche momento di tensione, ai giardini di Porta Venezia è arrivato il funzionario dell'alto commissariato Onu per i rifugiati, Riccardo Clerici, che ha preso parte attiva al 'negoziato' tra immigrati e forze di polizia. La trattativa con i funzionari della Questura è stata laboriosa perchè gli immigrati rifiutavano la verifica delle impronte digitali in caserma, sostenendo di essere tutti regolari. Sostenendo inoltre che erano già stati identificati ieri, ma probabilmente per un cittadino regolare, come loro sono, in quanto titolari dello status di soggiornanti con permesso umanitario, i documenti non bastano. Ci vogliono le impronte. Alcuni di loro, memori degli scontri di due giorni fa, evidentemente temevano un trattamento brutale da parte della polizia. Dopo aver lasciato la struttura occupata due giorni fa, nel tentativo di uscire dal cordone delle forze di sicurezza, erano stati manganellati riportando lievi ferite. Anche un operatore di PeaceReporter nell'occasione era stato fermato. Una volta rassicurati anche sulla presenza in caserma del funzionario Onu, gli immigrati hanno accettato di lasciare il parco per venire condotti alla caserma Masarin, a Quarto Oggiaro, per l'ulteriore identificazione.

"Manca la volontà politica". L'ennesima tappa del vagabondare degli immigrati preluderà probabilmente a nuove offerte di alloggio da parte del Comune. Sistemazioni temporanee e insufficienti, a sentire i rappresentanti delle associazioni che non solo in questi giorni, ma da anni ormai, seguono il problema dei richiedenti asili a Milano. Primi fra tutti i volontari del Naga, organizzazione che presta assistenza sanitaria agli immigrati, e che denuncia l'incapacità cronica del Comune di offrire accoglienza agli stranieri. "Non c'è volontà politica - ha spiegato il presidente Pietro Massarotto - di trovare soluzioni durevoli e non emergenziali, proseguendo nel generale processo di criminalizzazione dell'immigrazione". La richiesta dei migranti, molti dei quali sono presenti sul nostro territorio ormai da diversi anni, è di poter espatriare e cercare lavoro e sistemazione altrove. Nei Paesi dell'Europa settentrionale, dove il problema dei richiedenti asilo ha sicuramente un approccio più razionale.

Luca Galassi


Le maestre fantasma di Milano
"Falsi certificati di invalidità"

Tutte residenti al Sud. Le diagnosi: diabete, scoliosi, depressione e stati d'ansia

MILANO - Certificati medici costruiti ad hoc per ottenere il trasferimento a casa. Maestre elementari affette da invalidità immaginarie, provate da medici compiacenti, per lasciare le scuole della provincia di Milano e farsi assegnare al Sud. Le cartelle mediche parlano di scoliosi, ansia, depressione, diabete.

Patologie riscontrate dalle Asl di residenza e che scompaiono nei successivi controlli. Ma che, per legge, consentono il trasferimento immediato a casa. Spesso senza aver fatto nemmeno un giorno di lezione nella sede per cui si è vinto il concorso.

Per vedere chiaro sulla fabbrica dei certificati truccati, il provveditorato milanese ha inviato un dossier alle procure di Milano e di Reggio Calabria. Nelle denunce si ricostruiscono i casi di 27 maestre, invalide e guarite per miracolo, ma intanto trasferite. Le insegnanti sono tutte originarie della provincia di Reggio Calabria: maestre che dal 2006 a oggi hanno chiesto (e ottenuto) di lasciare Milano perché affette da invalidità fantasma. Casi gravi di diabete mellito, almeno dieci, che di colpo si trasformano in "nessuna forma di handicap". Dolori alla schiena "cronici e permanentemente invalidanti" che a ogni prova medica successiva alla prima scompaiono. "Ma è solo la punta dell'iceberg - assicurano all'ufficio scolastico - il malcostume delle false invalidità per ottenere trasferimenti ha dimensioni preoccupanti".

A consentire questa "truffa di massa", come la definisce un funzionario del provveditorato, sono alcune falle nella legge 104, quella che disciplina l'handicap, e nel contratto sulla mobilità degli insegnanti. Per ottenere un trasferimento è sufficiente presentare un certificato d'invalidità provvisorio, fatto da un medico della Asl di residenza. Alla scuola che il docente lascia, per tutela della privacy, non viene indicata né la patologia né il grado di invalidità, che si presume quindi essere grave. E la maestra può fare le valigie. Entro 90 giorni, a trasferimento già avvenuto, la stessa Asl è tenuta a fare un secondo certificato di conferma, in cui invece si dichiara la percentuale di invalidità. Il verdetto, nei casi arrivati alle procure, è sempre lo stesso: "Non handicap", e a quel punto il trasferimento viene annullato. Ma qui sorge il problema: fra la prima e la seconda visita, per l'inefficienza delle aziende sanitarie, passano anche tre anni. E intanto la maestra insegna al Sud, o non insegna proprio, lasciando scoperta la cattedra che le era stata assegnata per concorso. Un "baco" che nella sola Lombardia lascia ogni anno centinaia di cattedre vuote, da coprire con supplenze (costose).


Situazioni analoghe a quella milanese si trovano anche a Firenze, Venezia e Torino. Le province di provenienza delle maestre sono sempre le stesse: Reggio Calabria e Agrigento, ma ci sono segnalazioni di casi dal Casertano. "Rivolgendoci alla procura abbiamo voluto compiere un atto di chiarezza", taglia corto il provveditore di Milano, Antonio Lupacchino. E di fronte all'evidenza documentale, neppure i sindacati della scuola coprono i colleghi. Pippo Frisone, responsabile vertenze della Flc-Cgil a Milano, dice: "La responsabilità, specie quella penale, è personale e non bisogna generalizzare. Certo, fa specie la concentrazione di documentazione provvisoria compiacente, rilasciata in attesa di quella collegiale definitiva".

Quanto al fatto che i casi si concentrino al Sud, Frisone attacca: "Se in mezza Italia i tempi di attesa della certificazione Asl vanno oltre i novanta giorni previsti, si lascia il campo libero anche agli abusi". Cgil chiede al governo che "siano rese più rigide le norme contrattuali e chiusi tutti i varchi che favoriscono gli abusi e il malaffare. Anche perché oggi si è trasferiti al Sud solo se beneficiari della legge 104. Noi siamo per tutelare i diritti veri di chi ha veramente riconosciuto il diritto per legge e per contratto".
 


21 aprile

Caccia, arriva la legge liberi tutti
Ambientalisti: "Specie a rischio"

Una norma cancella i limiti: Italia sotto accusa perché permette di uccidere specie che l'Ue vuole proteggere

ANTONIO CIANCIULLO

 
ROMA - Si potrà sparare a ferragosto, quando la città si trasferisce in campagna. A febbraio, mentre i migratori volano verso i luoghi della riproduzione. E poi, di deroga in deroga, i confini della stagione venatoria potrebbero allargarsi erodendo sempre di più il tempo della natura protetta. È la libera caccia versione due. Il primo tentativo del governo di far saltare le regole del gioco mettendo il fucile in mano ai sedicenni e permettendo di sparare a pagamento anche con il buio e sulla neve non ha avuto un buon indice di gradimento ed è rimasto prudentemente parcheggiato in Senato. Adesso il blitz si ripete alla Camera con maggiore accortezza: questa mattina si discute in commissione Agricoltura un testo in cui, camuffata sotto formule ambigue, si offre la possibilità di ampliare la stagione venatoria oltre i confini attuali che vanno dal primo settembre al 31 gennaio.

"È un capolavoro di retorica, nel senso peggiore del termine", spiega Danilo Selvaggi, responsabile Lipu dei rapporti con le istituzioni. "Si pretende di dare una risposta alle richieste dell'Unione europea che accusa il nostro paese di cacciare troppo e male, ma in realtà si propongono modifiche che peggiorano la situazione in modo drastico. Se questa legge venisse approvata la pressione dei cacciatori dilagherebbe: una volta saltati i paletti che fissano l'inizio e la fine della stagione venatoria le Regioni potrebbero decidere deroghe in ogni momento dell'anno. Uno schiaffo alla protezione della natura e all'Unione europea".

Contro questa proposta si è immediatamente mobilitato un fronte composto da oltre venti associazione ambientaliste (Lipu, Lav, Wwf, Legambiente, Enpa, Animalisti italiani, Fare Verde) e dai cacciatori che difendono la legge quadro e il legame con il territorio (Arcicaccia). In poche ore sono arrivate le adesioni di personaggi del mondo della cultura e dello spettacolo, da Susanna Tamaro a Licia Colò, da Maurizio Costanzo a Danilo Mainardi, da Renato Zero a Marisa Laurito. E tra i parlamentari del Pdl c'è chi non ha gradito la deregulation selvaggia delle doppiette: Gianni Mancuso e Fiorella Ceccacci Rubino hanno presentato emendamenti per correggere la pressione degli oltranzisti della doppietta.
 

Anche all'interno del governo pare serpeggi un certo disagio. Un malumore aggravato dalla beffa che si aggiunge al danno: per far passare le misure anti europee si è usato lo strumento nato per sanare i contrasti con Bruxelles. Nella Legge Comunitaria è stato infatti inserito un emendamento firmato da due senatori del Pdl (Valerio Carrara e Sergio Vetrella) che cancella i termini di riferimento della stagione venatoria aprendo le porte a deroghe per allungare il calendario. Insomma l'Italia è sotto accusa perché permette di sparare a specie che secondo l'Unione europea vanno protette (ad esempio il fischione, la canapiglia, il mestolone) e invece di mettersi in regola getta le premesse per un altro contenzioso sui limiti della stagione venatoria che l'Europa ha fissato in modo da evitare lo sterminio dei migratori prima del momento della riproduzione.
 

Ma quanto ci costano i software di Sacconi?

di Federico Ferrazza

Chissà se fra i tre (ex) dicasteri che coordina (Lavoro, Salute e Politiche Sociali), il ministro Sacconi è riuscito a trovare il tempo per dare un'occhiata al bando  per “l'affidamento dei servizi di consulenza direzionale per l’evoluzione del Nuovo Sistema Informativo Sanitario (NSIS) e per lo sviluppo di metodologie a supporto del Sistema nazionale di verifica e controllo dell’assistenza sanitaria (SiVeAS)”. Un avviso non proprio da quattro soldi. Tutt'altro: in palio c'è una somma astronomica; la cifra massima dell'asta è infatti 17,5 milioni di euro in tre anni.

 

Come si legge sul sito Internet ufficiale, “il Nuovo Sistema Informativo Sanitario, nato a valle dell'Accordo Quadro tra lo Stato, le Regioni e le Province Autonome di Trento e Bolzano del 22 febbraio 2001, rappresenta la base dati condivisa finalizzata allo sviluppo di misure necessarie al bilanciamento costi-qualità”.

Il SiVeAS  si è invece insediato  ufficialmente a febbraio del 2007 e ha un'autorizzazione di spesa di otto milioni di euro (anche se al momento non ha prodotto granché).

 

I due progetti informatici oggetto del bando, quindi, non sono da costruire da zero. E neanche da rifondare. A dirlo è lo stesso avviso del ministero visto che si parla solamente di “evoluzione”. Ciononostante sul piatto ci sono 17 milioni e mezzo di euro. Ma non è tanto la cifra – che secondo molti addetti ai lavori interpellati da L'espresso è davvero eccessiva – a destare le maggiori perplessità, quanto i calcoli che il personale del ministero ha fatto per arrivare a questi numeri.

 

Andando a pagina 100 del capitolato tecnico, si può infatti notare che i giorni/persona richiesti per i due progetti sono in tutto 16.432. Facendo due conti e considerando che, in media, una persona lavora 200 giorni all'anno, le persone a tempo pieno necessarie, secondo i calcoli del ministero, sono una trentina. Che quindi avrebbero uno stipendio di oltre 16mila euro al mese per tre anni. Non male se si aggiunge che nel bando si dice esplicitamente che un terzo del lavoro potrebbe essere svolto da personale “junior”, termine aziendale che indica l'ultima ruota del carro. Che – nella migliore delle ipotesi – guadagna al massimo 2.000 euro al mese.

 

Ma lo spreco non si ferma qui. Il bando – che taglia fuori la maggior parte delle piccole e medie imprese del settore visto che accetta solamente aziende con un fatturato minimo di 35milioni di euro nel triennio 2005-2007 e, nello stesso periodo, con un giro d'affari di 12milioni nei “servizi di consulenza strategica, organizzativa e gestionale nell'ambito del servizio sanitario nazionale” – non richiede infatti solo una consulenza informatica. Ma una vera e propria attività di ricerca medico-scientifica.

Fra i servizi da offrire (riassunti in una tabella a pagina 70 del capitolato tecnico) ci sono:

1) Supporto strategico per l’evoluzione del NSIS,

2) Supporto alle analisi di qualità e completezza del patrimonio informativo NSIS,

3) Redazione degli studi di fattibilità NSIS,

4) Supporto nel governo del programma di attuazione del NSIS, 5) Sviluppo di metodologie per l’analisi dei fenomeni sanitari e 6) Monitoraggio dei Piani di rientro.

 

E' dunque del tutto evidente che la consulenza sconfini in attività di pura ricerca, come quelle del punto 5, per le quali il dibattito nelle scienze cliniche, epidemiologiche, economiche è in corso e tutt’altro che concluso. Anche altre attività, pur potendosi configurare come consulenza, di fatto riguardano in larga misura l’analisi statistica (punto 2), e quella economico-giuridica (punto 6); viene poi naturale pensare che anche sul punto 3 l’expertise di statistici e ingegneri sia del tutto auspicabile.

 

C'è chiedersi, poi, se la strada di affidare tutto all'esterno possa coniugare efficienza e risultati: non sarebbe meglio pensare che il ministero sviluppi al suo interno tali professionalità (il fatto che vadano a gara deve far pensare che non siano attualmente disponibili)? E anche se l’outsourcing fosse del tutto necessario e opportuno, è possibile che non esistano nell’ambito della Pa (e in particolare negli Enti tecnici del settore sanitario) professionalità adeguate che possono essere messe a disposizione del ministero? Istanze che se accolte porterebbero a risparmiare parecchi soldi allo Stato. Soprattutto considerando che sulla busta paga di un ricercatore pubblico – con 25 anni di anzianità - risultano al massimo circa 150 euro al giorno. E non 533, come quelli previsti dal bando ministeriale.


 

Polveriera Pomigliano

di Emiliano Fittipaldi
La produzione in caduta libera. E il reddito di  9 mila famiglie a rischio. Cronaca da una piazza che rischia di esplodere
 
 
Vincenzo, spalle larghe e lingua veloce, lavora alle carrozzerie da vent'anni. Portare la grande croce per una cinquantina di metri non gli ha pesato più di tanto. È fiero di aver messo in scena venerdì, insieme ai suoi compagni, una delle 'Via Crucis' più operaiste degli ultimi decenni. Una scelta del parroco don Peppino, che ha voluto le tute blu della Fiat di Pomigliano, i "nuovi crocifissi", per rappresentare la passione di Gesù. Sono passati quattro giorni dall'evento. Vincenzo riempie i polmoni e sbraita. "Il macigno vero noi lo portiamo dentro. Pomigliano ormai non è più una fabbrica, ma una polveriera. Se i politici e l'azienda non si danno una mossa, qui esplode tutto. Sarà molto peggio della Francia, dei sequestri in Belgio".

È martedì 14 aprile, ma il parcheggio destinato a carristi e lastratori della Fiat è deserto come fosse domenica pomeriggio. Il piazzale delle auto invendute, ordinate a comporre file colorate, è invece pieno come un uovo. La crisi mondiale ha azionato il ralenty alla catena di montaggio che mette insieme i pezzi delle Alfa 147 e 159. I lavoratori sono tutti in cassa integrazione ordinaria. Spenti pure gli schermi al plasma dell'area ristoro, inaugurata poco più di un anno fa. Era stata creata per evitare che gli operai si preparassero il caffè durante il turno: dentro una portiera era stato trovato un bicchierino di plastica sporco. Colpa dell'indisciplina, della bassa produttività e dell'assenteismo: i 5mila dipendenti erano stati costretti a seguire per due mesi un 'corso di rieducazione'. Vincenzo al solo ricordo schiuma altra rabbia. Poi guarda la fabbrica muta, e si fa cupo. "È una tragedia. Pomigliano è l'ultima cattedrale della classe operaia rimasta in Campania, l'ultimo grande impianto produttivo che genera un po' di lavoro. Se chiude, è la fine".
 

Le forze dell'ordine, i sindaci della zona, persino la Chiesa sanno che la santabarbara, in terra di camorra e tassi di disoccupazione a doppia cifra, rischia davvero di saltare. È il punto più sensibile d'Italia, dove la recessione s'intreccia con il disfacimento del patto tra lavoratori, aziende e istituzioni. Il luogo, soprattutto, in cui sindacati e partiti stanno perdendo il tradizionale ruolo di mediatori. Le nuove Brigate rosse l'hanno capito al volo, e stanno tentando di trasformare la vecchia Alfa Sud nel simbolo della lotta contro il capitalismo delle disuguaglianze. "Con tre brutali cariche a freddo", hanno scritto gli imputati al processo in Corte d'assise a Milano dopo gli scontri sulla 'A1' dello scorso febbraio, "le forze della repressione hanno cercato di impedire che la giusta lotta degli operai valicasse i cancelli della fabbrica coinvolgendo la popolazione con il blocco dell'autostrada. Vicinanza e solidarietà agli operai Fiat di Pomigliano, così come a tutte quelle situazioni che lottando non intendono subire passive gli effetti della crisi del capitalismo". Il pm Ilda Boccassini ha impedito che il comunicato fosse letto in aula, ma non ha potuto bloccarne la divulgazione su Internet: sul sito di Indymedia, su quello di un collettivo antagonista, persino su una pagina dedicata agli ultras è possibile trovare il testo con gli attacchi al governo, al "padronato" e al giuslavorista Pietro Ichino.

Pomigliano è un'icona, da sempre. Difficile che oggi i metalmeccanici facciano un tuffo all'indietro negli anni Settanta: le ideologie egualitarie e solidali sono morte, gli operai non sono più, per dirla alla maniera del sociologo Aris Accornero, "macchine per la lotta di classe" come i loro padri. Sono individui, guardano il 'Grande Fratello' e 'Amici', pensano solo a guadagnarsi 'la mesata'. "Ma la tempesta sta arrivando lo stesso", avverte Andrea Amendola, capo della Fiom della città e memoria storica dell'alfismo militante. Tra dipendenti e indotto il vecchio stabilimento fa mangiare novemila famiglie, in tutta la Campania il settore dell'auto occupa oltre 20 mila persone, rappresentando una parte rilevante del Pil regionale. Decine di piccole imprese gravitano intorno alla Fiat dal 1971. L'agonia dei consumi ha gettato tutti nel panico. La produzione è passata dalle 195 mila auto del 2001 alle 60 mila del 2008. Un crollo mai visto. Le stime per quest'anno sono catastrofiche: se il trend non si inverte, si costruiranno in totale meno di 40 mila vetture. "Il fatto è che, a parte la costosa 159, non sono previste nuove linee", spiega Amendola:"Anche Termini Imerese, che fa solo Lancia Y, se la passa male. A Melfi e Cassino, dove si assemblano la Grande Punto e la nuova 149, respirano ancora".

In città la 'caccia al manager' organizzata dai lavoratori francesi infuriati per tagli e licenziamenti inizia a far breccia nella pianificazione delle proteste. I capifamiglia, quelli monoreddito, pretendono che i sindacati alzino l'asticella della contestazione. Qualcuno spiega che occupare Pomigliano sarebbe inutile, si farebbe solo un favore ai manager di Torino. "Meglio puntare sui capannoni di Melfi", dicono i più arrabbiati: "Il danno economico sarebbe ingente. Ma per sfondare le porte e conquistare l'edificio servono circa 400 compagni, il blitz va organizzato bene".
 
 
Il cellulare dei delegati sindacali squilla in continuazione. Arrivano pressioni, minacce. Persino i duri della Fiom temono per la loro incolumità. La sede dei metalmeccanici è un porto di mare. Arrivano quelli dell'Avio, altra azienda traballante: la divisione che fa revisione ai motori degli aerei ha perso la commessa Alitalia, che ha preferito rivolgersi a una ditta israeliana, la Bedek. Si fanno sentire quelli della Cablauto e dell'ex Selca, che tra pochi giorni rimarranno senza alcun reddito. Il virus della cassa integrazione se lo sono presi anche quelli della Marelli, che costruiscono sistemi di scarico; i compagni della Lear, che montano i seggiolini; la G.M. di Arzano, specializzata nella motorizzazione.

Aniello Niglio, operaio di 47 anni, due figlie di 15 e 16 anni da mandare a scuola, un mutuo e qualche debito fatti con il credito al consumo, spiega che il sindacato finora ha fatto da valvola di sfogo alle tensioni. Ma annuncia che "il tempo delle chiacchiere sta scadendo". L'appello di Paolo Bonolis durante Sanremo per la sopravvivenza dell'impianto, come la solidarietà di Benedetto XVI, è un'operazione mediatica che ha permesso alla vertenza di finire sulle pagine dei giornali, ma i lavoratori si lamentano di aver raccolto, dopo mesi di battaglia, assai poco. Il corso finanziato dalla Regione Campania, importante welfare perequativo voluto da Antonio Bassolino, non è ancora partito, mentre il patto tra Obama e la Fiat per salvare la Chrysler dal fallimento ha ulteriormente esacerbato gli animi. "Marchionne va a prendersi gli applausi a Detroit e abbandona al loro destino gli operai italiani. Bisogna avere il coraggio di dire che le politiche industriali per Pomigliano sono state fal-li-men-ta-ri". L'ingegnere italo-canadese non ha per ora sciolto le riserve. La berlina 159, unico modello rimasto appannaggio dello stabilimento, non rientra nemmeno tra le vetture agevolate dagli incentivi statali. I politici hanno proposto che il sito si riconverta alle auto verdi ultraecologiche, ma per ora nessuna decisione è stata presa.

Anche il prefetto Alessandro Pansa ammette di essere preoccupato: "Questa è l'unica area industriale importante della provincia. L'età media degli operai Fiat, poi, è bassissima: trentasei anni. Non è un caso che Berlusconi in persona abbia incontrato i lavoratori per più di un'ora". Nel faccia a faccia il premier ha promesso di impegnarsi nella vicenda "con la testa e con il cuore". Si è preso gli applausi appena ha parlato di un (difficile) prolungamento della cassa integrazione, ma qualcuno ha storto il naso quando, puntando l'indice sulla pancia straripante di un delegato della Fim-Cisl, il Cavaliere gli ha prima intimato una dieta ferrea, poi ha dichiarato alla platea che lui, se fosse licenziato, si rimboccherebbe le maniche.

Il miscuglio di rabbia e indignazione che ribolle nel ventre della città non si vede in superficie. Esclusi sei giorni di lavoro al mese gli operai se ne stanno in famiglia, o ciondolano per le strade. "Qualcuno cerca di arrotondare lo stipendio, ridotto a 7-800 euro, con qualche lavoretto in nero, ma certe nicchie sono ormai monopolizzate da africani e rumeni", dice Giuseppe Saccoia, in catena di montaggio da quasi 35 anni. Se i giovani non torneranno presto a indossare le loro tute da Cipputi, dice, rischieranno di finire intrappolati nelle maglie della camorra. Il prefetto getta acqua sul fuoco. "Il sistema non ha mai reclutato operai, figuriamoci quelli della Fiat. A Pomigliano i rischi veri", conclude Pansa,"sono l'indebitamento, il boom dell'usura, l'infiltrazione della criminalità nelle piccole imprese".

L'operaio Saccoia scuote la testa e sorride amaro. Dice che è sempre stato legato alle istituzioni, al sindacato, ai partiti. Stima il presidente Giorgio Napolitano, che ha votato quando era candidato a Bagnoli. Oggi racconta che se tutto andrà in malora anche lui si unirà alla lotta. "Io ancora oggi credo in una democrazia compiuta. Ma voglio proprio vedere quale giudice avrà il coraggio, dopo che sono stato mortificato come uomo e come lavoratore, di dirmi in faccia che sono un terrorista".

 

La guerra dei low cost

di Daniela Condorelli e Daniela Minerva
Italia i farmaci a basso prezzo non decollano. La Ue accusa: Big Pharma gioca sporco. Per proteggere il mercato e convincere i medici a prescrivere i brand. Ecco come
 
 
I laboratori Beyer
Mezzo miliardo di euro, almeno. È quanto potremmo risparmiare se utilizzassimo, come fanno gli altri paesi europei, i farmaci a basso costo. Che non vuol dire a minor qualità, ma, semplicemente, prodotti fuori dalla copertura brevettuale; insomma, i cosiddetti generici. Invece, per colpa delle manovre delle aziende, per colpa dei medici e anche un po' per colpa nostra regaliamo a Big Pharma ogni anno una montagna di soldi che poi, lo Stato, è costretto a tagliare da altre parti: ospedali, farmaci innovativi, assistenza agli anziani, e così via.

La faccenda è talmente seria che l'Unione europea ha deciso di correre ai ripari e avviare un'inchiesta sulle ragioni, e talvolta gli illeciti, che impediscono al mercato dei generici di decollare come sarebbe logico che fosse. Perché, se l'Italia è il fanalino di coda (come mostra il grafico) con un divario spaventoso con gli altri membri della comunità, in tutta l'Unione i low cost arrancano. Le ragioni sono squadernate in un rapporto redatto dagli ispettori della Commissione europea sulla concorrenza: 426 pagine che riportano i risultati preliminari di un'inchiesta nel settore farmaceutico che sarà completata e resa nota nei prossimi mesi.

L'avvio dell'offensiva comunitaria è datato gennaio 2008, quando, a sorpresa, la task force degli ispettori della Commissione è arrivata negli headquarter di multinazionali come GlaxoSmithKline, Pfizer, AstraZeneca, Wyeth, Merck e Sanofi-Aventis per indagare i meccanismi di un mercato che fattura ogni anno oltre 214 miliardi di euro, 430 euro per ogni cittadino europeo nel 2007. Motivo dell'indagine, con le parole di Neelie Kroes, commissario Ue per la Concorrenza: "Capire perché non vi sia innovazione e perché le alternative generiche più economiche vengano ostacolate. E prendere provvedimenti". L'iniziativa di Kroes questa volta è a trecentosessanta gradi e riguarda tutti i big, ma già nel 2005 AstraZeneca era stata multata dalla commissione: 60 milioni di euro per aver ostacolato l'ingresso sul mercato del concorrente generico del suo anti ulcera Losec. Secondo gli ispettori europei, la compagnia francese aveva fornito agli uffici brevetti informazioni fuorvianti nascondendo la data di rilascio della prima autorizzazione al commercio per ottenere il prolungamento della protezione.
 

Che il fuoco di sbarramento di Big Pharma sia sempre più serrato lo dimostra il fatto che dal 2000 al 2007 sono stati messi in commercio 27 generici ogni anno, contro i 40 che arrivavano annualmente nelle farmacie dal 1995 al 1999. Non solo: secondo un'indagine dell'European generics Association, il prodotto low cost ci mette fino a 20 mesi ad arrivare sul mercato dopo la scadenza del brevetto. Neelie Kroes è preoccupata per il mancato risparmio: "Una stima su un campione di farmaci nei 17 paesi membri ha evidenziato che tra il 2000 ed il 2007 i ritardi all'ingresso dei generici sono costati tre miliardi". D'altra parte, pochi hanno interesse a sveltire le procedure e il rapporto europeo lo spiega nel dettaglio.

A partire dagli accordi tra le aziende titolari dei brevetti e quelle pronte a produrre generici per convincerle a temporeggiare, come hanno scoperto gli ispettori della signora Kroes. Come stupirsi, visto che le maggiori industrie di generici sono sorelle delle grandi multinazionale? Sandoz è il braccio generico di Novartis, Winthrop di Sanofi-Aventis, Angenerico dell'italiana Angelini; e la numero uno Pfizer ha un accordo con la regina indiana delle copiatrici, Aurobindo.

È ovvio quindi che i grandi gruppi programmino le uscite di prodotti con criteri di profitto industriale e non di risparmio per i consumatori. Come è ovvio che si battano come leoni per contrastare, invece, le genericiste indipendenti. E per fare questo non mancano di siglare accordi: l'inchiesta della Commissione ha evidenziato che tra il 2000 ed il 2007 alcune industrie sarebbero state pagate per aspettare a lanciare sul mercato i prodotti generici; 200 contenziosi sono terminati con un accordo economico privato tra cosiddetti 'originator' e genericisti, pagati 200 milioni di euro per restare fuori dal mercato.

Soldi benedetti perché, per Big Pharma è in arrivo una batosta senza precedenti: lo scadere di decine di brevetti di farmaci blockbusters tra il 2009 e il 2012, quando, sottolineano le ultime stime di Ims Health, scadranno brevetti che oggi fatturano 134 miliardi di dollari l'anno. 100 miliardi di euro di opportunità per i generici negli otto mercati chiave entro il 2013 (vedi tabella). Sarà un triennio di lacrime e sangue per la grande industria. Che sulla durata dei brevetti punta molta della sua attenzione: sin dal 1993 una legge europea prevede che la copertura sul territorio dell'Unione sia di 20 anni a partire dalla registrazione. E sono già tanti, considerato che negli Usa il brevetto scade dopo 11 anni. Ma sempre pochi per Big Pharma che su questo combatte battaglie portentose e, talvolta, le vince: in Italia, ad esempio, con una complicata cabala di norme un farmaco può restare protetto dai 5 ai 18 anni. Ma per i blockbuster della tabella, il tempo, almeno in Europa, è scaduto.

Prima contromisura messa in campo, sin da oggi dalle industrie 'originator', hanno svelato i commissari europei è la moltiplicazione dei brevetti, il patent clustering, che crea intorno ad un unico principio attivo una fitta e nebulosa rete protettiva. "Fino a 1300 brevetti per un'unica molecola", rivela il commissario Kroes. Che cercano di ottenere prolungamenti della copertura con la scusa di nuove indicazioni, formulazioni o addirittura dosaggi.

State a sentire, ad esempio, cosa si è inventata l'americana Merck per proteggere il mercato del suo blockbuster contro l'osteoporosi, l'alendronato, commercializzato col nome di Fosamax. Il farmaco era venduto in blister da 10 milligrammi da assumere una volta al giorno. Scaduto il brevetto, l'azienda ha creato un nuovo dosaggio: 70 milligrammi da assumere una volta alla settimana. Ma la molecola è sempre la stessa e la genericista Teva ha portato la faccenda davanti allo European Patent Office. "Dopo anni di contenziosi nei tribunali in questi giorni l'Office ha revocato il brevetto Merck, per mancanza di elementi di novità", riferisce l'avvocato Gian Paolo Di Santo dello studio Pavia e Ansaldo, difensore di aziende di generici.

Ma Merck non è un caso isolato: secondo il report, le aziende lanciano prodotti di seconda generazione, cioè nuove versioni leggermente modificate, nel 40 per cento dei casi indagati. Un proliferare per lo più inutile sul piano terapeutico e velato da un sospetto. "È un rilascio facile perché l'ufficio europeo percepisce un compenso ogni volta che approva un brevetto?", si chiede Di Santo.

Fabio Domanico, unico italiano nella Pharma task force della commissione europea, ha un'altra idea: "Il nostro prodotto di seconda generazione è l'iniziativa più efficace per contrastare il generico". Perché, continua, "i brevetti secondari non fermeranno la concorrenza generica per sempre, ma possono ritardarla di qualche anno". E lo fanno legittimamente, secondo l'Efpia, European Federation of Pharmaceuticals Industries and Association: il pacchetto di strumenti delineati dall'inchiesta altro non sarebbero se non legittime strategie commerciali.

Come legittimo è portare sempre i contenziosi in tribunale. "Intentare processi per i brevetti non è l'ostacolo più efficace, ma tiene fuori i generici", si legge in un documento trovato in un'azienda, che la Commissione ha voluto mantenere segreta, durante le ispezioni. E infatti, da gennaio 2008 a oggi, i commissari hanno contato 700 contenziosi che riguardano una settantina di farmaci dal brevetto in scadenza. La durata media dei processi è di tre anni e il costo totale stimato è di oltre 420 milioni di euro. Nel 60 per cento dei casi a vincere sono i produttori di generici, quota che sale al 75 per cento se la battaglia è stata portata di fronte all'ufficio brevetti europei. Ma è una vittoria sanguinosa perché comporta mesi di ritardo, mentre Big Pharma continua a guadagnare.

E altri mesi di ritardo li regala all'industria la lentezza delle procedure di approvazione. In questo l'Italia è Palma d'oro nell'Unione. Michele Uda, responsabile del centro studi di Assogenerici fa un esempio: "I tempi di approvazione del rimborso e del prezzo del generico in Italia sono in media di 135 giorni contro i 14 della Danimarca". Evidentemente le lobby di Big Pharma nel nostro paese si muovono più agilmente che non, ad esempio, in Danimarca. E che nella faccenda del mancato boom dei generici nel nostro paese abbia impattato pesantemente la controffensiva degli industriali lo dimostrano i dati di vendita.

Perché la vera contromisura per aprire definitivamente questo mercato sarebbe, nel nostro paese, un patto tra i medici e il ministero. Più forte di quello che stringono ogni giorno coi dottori italiani gli uomini delle aziende, gli informatori farmaceutici che battono il paese con un porta a porta incessante che oggi è l'unico rapporto che i medici hanno con il mondo dell'innovazione. Perché il motivo principe per il quale siamo il fanalino di coda dell'Europa è che "in Italia i medici non hanno intenzione di prescrivere i generici", dichiara lapidario Giorgio Foresti, presidente di Assogenerici. E non c'è dubbio che se volesse veramente spezzare questo patto, il ministero che, di fatto attraverso una convenzione è il datore di lavoro dei medici di famiglia dovrebbe avere il pugno duro ma dovrebbe anche mettersi in grado di essere un vero e presente interlocutore per i dottori.

A sorpresa, concorda Claudio Cricelli, presidente della Società italiana di medicina generale: "Il farmaco è un bene complesso: l'industria farmaceutica non si limita a produrre pasticche, come attualmente fanno le aziende di generici, anche le maggiori, ma informa i medici. Per esempio: le nuove generazioni di dottori non sanno nulla sul cortisone, nessun aggiornamento da anni. Perché costa pochissimo ed è stato abbandonato dagli originators". E propone: "Bisognerebbe vincolare parte del prezzo di ogni prodotto alla formazione. Le aziende non dovrebbero avere solo il compito di produrre, ma l'obbligo di formare".

Così la vede Cricelli, ma resta il dubbio che se a informare sono solo le aziende, le informazioni che ricevono i medici non sono molto obiettive. E all'orizzonte spuntano nuovamente i fantasmi dei congressi-vacanza, dei seminari-cene, dei regalini e tutto quell'armamentario più volte oggetto di episodi di cronaca e di denunce che l'Aifa (l'agenzia per il farmaco) negli anni scorsi aveva, quasi completamente, debellato. Oggi all'Agenzia sono cambiate molte cose e di attività pubblica e indipendente di formazione e aggiornamento dei medici non se ne vede granché.

Ed è un fatto che l'Aifa non riesce a mettere in campo misure convincenti per imporre ai dottori e ai farmacisti l'uso dei generici. In Francia, invece, un'idea ce l'hanno avuta. E funziona: offrire incentivi economici che motivino medico e farmacista e quote di prescrizione da raggiungere. Oltralpe le tre maggiori casse mutua hanno concordato con i medici un target di prescrizioni di almeno il 25 per cento di farmaci non branded, pena il mancato rinnovo della convenzione. Ai farmacisti poi viene rimborsata la stessa cifra che otterrebbero se avessero venduto il brand, più costoso.

In Italia, invece, il farmacista è obbligato ad offrire il generico, ma guadagna in percentuale sul prezzo del venduto.

E questa cabala spinge un'altra delle anomalie italiane: perché da noi i generici costano fino a cinque volte quello che costano altrove in Europa (vedi tabella)? Risponde Foresti: "L'Italia è l'unico paese in cui al momento dell'uscita del generico l'azienda originator abbassa il prezzi. E questo nell'immediato fa risparmiare il Servizio Sanitario Nazionale, ma impedisce alla concorrenza generica di aver accesso al mercato. Ecco perché siamo ancora al 10 per cento dei volumi dopo dieci anni: negli altri paesi l'originator non gioca al ribasso, si accontenta dei clienti più fidelizzati". Abbassare i prezzi del prodotto di marca per impedire ai generici di conquistare quote di mercato è una contromisura delle industrie in Italia. Che forse non avrebbe senso nei paesi dove medici e pazienti sono d'accordo nel cambiare l'abitudine a quella certa scatoletta con quei colori di sempre allo scadere del brevetto. In Italia, invece, annota Cricelli: "Perché dovrei affannarmi a prescrivere il generico puro se il paziente preferisce l'altro? Al discount vado se mi costa la metà, altrimenti mi fermo in gastronomia. Finché il paziente scopre che tra originator e generico la differenza è una manciata di centesimi non ha alcun motivo per cambiare scatola, sapore, colore, persino forma delle pastiglie a cui è abituato".

Il ragionamento di Cricelli non fa una grinza. E si potrebbe anche riconoscere che, sui prodotti fuori brevetto, il Ssn risparmia comunque. Ma l'attaccamento al brand è la linfa per Big Pharma. È la garanzia che il consumatore rimarrà attaccato a quella scatola seguendola nelle successive trasformazioni: piccole modifiche di molecola che generano un nuovo brevetto e permettono di aumentare il prezzo, cambiamenti di dosaggio cui si lega un cambiamento di costo, innovazioni cosmetiche che di pregnanza terapeutica ne hanno ben poca ma che proteggono il mercato. E fanno lievitare la spesa.

 

13 aprile

Norma Rangeri

Colpire Santoro per punirne altri cento

Ci sono cose che non si possono dire, equilibri che non si devono modificare. La libertà di informazione è un bene sancito dalla Costituzione formale, ma sfigurato da quella berlusconiana. Lo dimostra il virulento attacco che la politica, nei suoi massimi rappresentanti istituzionali e di governo, ha sferrato contro la puntata di Anno Zero sul terremoto in Abruzzo. Per la sua natura strumentale e preventiva.
Chiunque abbia visto la trasmissione incriminata sa che la critica di Santoro alla Protezione Civile è stata circostanziata e testimoniata. Che la struttura di Bertolaso non avesse predisposto un piano di emergenza nella regione colpita, è evidente. Nessuna esercitazione, nessuno in Prefettura pronto a intervenire. Otto ore dopo la tragedia, alle 11,30 del mattino successivo alla grande scossa, i medici dell’ospedale non avevano ricevuto aiuto, e alle 6 del mattino non c’erano ambulanze disponibili. Sono i fatti testimoniati dai primari intervistati dagli inviati di Anno Zero e confermati dal sismologo più accreditato Boschi. Peccato che nessun telegiornale li avesse notati, e che solo i cronisti di alcuni giornali li avessero denunciati. Sensatamente, Emma Bonino, che non figura tra i filosantoriani, si chiede «Che cosa si contesta, visto che la libertà di espressione ha un solo limite: la falsità. E per questo c’è la magistratura».
La patente strumentalità delle accuse si lega alla necessità di prevenire, come insegna la strategia dell’editto bulgaro, qualunque forma di dissenso e di critica all’operato del governo da parte degli organi di informazione controllati dal premier. E’ un avvertimento per tutti i giornalisti Rai, è un preambolo al prossimo organigramma, alle nuove nomine con cui si sta mettendo a punto la task-force che gestirà la comunicazione del servizio pubblico. Colpire Santoro per educare tutti gli altri. Il consenso è una merce delicata, va prodotta, distribuita e difesa senza fare prigionieri.
In questa replica dell’editto berlusconiano, a differenza di sette anni fa, il clima politico del paese è cambiato, il centrodestra è diventato un partito unico che marcia compatto a difesa del monopolio dell’informazione. Il presidente della Camera si stringe al fianco del presidente del Consiglio, e i caporali (da Cicchitto a Gasparri) seguono. Tutti uniti contro l’anomalia della libertà di espressione e di informazione, consapevoli che incrinare la sfera del potere mediatico potrebbe riverberare su quel che resta dell’opinione pubblica. Con il rischio remoto di svegliare dal letargo il Pd, immediatamente disinnescato dall’abbraccio nazionale attorno ai morti. A dir la verità, la voce del democratico Merlo, vicepresidente della commissione di vigilanza, si è levata, ma per attaccare Santoro («incredibile trasmissione») e chiedere ai vertici Rai di riportarlo in riga. Più cauto e attento il presidente Zavoli. All’unisono i capi di viale Mazzini, il presidente Garimberti e il direttore generale Masi, hanno promesso di aprire un’inchiesta.
Del resto la prateria italiana in cui Berlusconi galoppa è un paesaggio spianato dall’assenza di leader e di partiti capaci di ostacolarne l’egemonia culturale e la presa proprietaria stabilmente incardinata sul conflitto d’interessi. Che ancora possano alzare la voce giornalisti, giornali, forze sociali e sindacali è un’eccezione alla regola.

 

13 aprile

Il dolore e la rabbia

di Fabrizio Gatti

Gli allarmi inascoltati. La scossa devastatrice. Le vite spezzate. La disperazione dei sopravvissuti. Il dramma dei bambini. Il reportage di Fabrizio Gatti nella tragedia che ha sconvolto l'Abruzzo.
 
 
Qualcuno adesso dovrà indagare. Una volta sepolti i morti e sistemati gli sfollati, dovrà spiegare perché a L'Aquila il cemento impastato dieci o vent'anni fa già si sbriciola come pane secco. Dovrà dire perché queste travi si sono spezzate e hanno fatto un massacro. Come qui, adesso, in questa notte gelida, con il brivido delle scosse di assestamento e il vento del Gran Sasso che spazza le macerie di via Luigi Sturzo, centro città, cento per cento di morti nelle case nuove là in fondo alla strada. Nuove. Eppure sono venute giù. Questa bambina di tre anni che stanno tirando fuori immobile come una bambola non dovevano ridurla così. In questo momento lei doveva essere con gli altri sfollati a dormire sulle brande al campo sportivo. Invece la stanno portando all'obitorio dentro una coperta di lana sporca e strappata. Uccisa nel suo lettino, tra giocattoli e disegni sciupati dal crollo. Nessuno viene ad accarezzarle i capelli sbiancati e invecchiati dalla polvere. Non c'è nemmeno una persona che sappia dire qual è il suo nome. La sua mamma, il papà, la sua sorellina sono ancora là sotto. E là sotto ci sono tutti i loro vicini. Guardia forestale, vigili del fuoco e volontari cercano ormai solo cadaveri.

Se due mesi di sciame sismico riducono così il cemento, allora l'allarme lo dovevano dare molto prima. Invece questo passerà alla storia come il primo terremoto previsto in Italia. E, purtroppo, anche come il primo snobbato dalle autorità. Hanno ignorato l'annuncio del disastro molti sindaci della provincia per finire, su su, agli esperti della Protezione civile. Eppure la previsione di Giampaolo Giuliani, tecnico del laboratorio scientifico del Gran Sasso insultato e denunciato per procurato allarme, non è uno scoop da premio Nobel. Che la liberazione di gas radon dagli strati profondi delle rocce riveli l'arrivo di un forte terremoto, lo si impara al primo anno di Geologia all'università. Anche in Italia. È vero che non è possibile conoscere con precisione quando colpirà la scossa. Ma a L'Aquila e lungo l'Appennino la terra tremava e trema tuttora da fine febbraio. Avere un laboratorio di fisica proprio dentro il Gran Sasso, la montagna attraversata dalle faglie e dalle tensioni geologiche di questo disastro, era poi una immensa opportunità. Forse bastava sfruttarla. Nessun preallarme nemmeno per i soccorsi in una regione fatta di antichi paesi di sassi e pietre.
 
 
Lunedì mattina a Civita, una frazione a pochi chilometri da Onna, vicino all'epicentro in provincia, gli abitanti hanno dovuto sbarrare la strada a un convoglio dei vigili del fuoco per chiedere loro di estrarre due persone. Le hanno tirate fuori che erano già morte. I pompieri son ripartiti subito per L'Aquila. I cadaveri sono rimasti a Civita, per terra, fino alle quattro del pomeriggio: "Quando è arrivata un'auto delle pompe funebri", raccontano i testimoni. Sono le priorità a stabilire dove si devono fermare i convogli. I primi sono stati inviati dove c'erano più cadaveri: a L'Aquila, a Onna, a Paganica. Così gli abitanti delle piccole frazioni hanno dovuto aspettare. Non c'erano alternative. Da martedì, secondo la Protezione civile, con l'arrivo dei rinforzi da tutta Italia, anche i centri più piccoli sono stati raggiunti. Nonostante la previsione del terremoto, però, gli abitanti della città e di tutta la provincia avevano creduto alle rassicurazioni degli esperti della commissione Grandi rischi, riprese dal capo della Protezione civile, Guido Bertolaso, dal governo e dalle autorità locali. Nessuno immaginava che perfino le costruzioni più moderne di L'Aquila fossero trappole. Non lo sapevano i ragazzi italiani e stranieri morti e feriti nel pensionato universitario, nemmeno i quattro studenti sepolti in due stanze prese in affitto in un'altra villa in via Sturzo. Non lo poteva sapere Alice Dal Brollo, 20 anni, scesa qui due anni fa da Cerete in provincia di Bergamo per studiare Scienze investigative. Morta anche lei con una sua compagna di camera: dormivano in una nuova palazzina sul fianco della collina. Non lo poteva immaginare Antonio Cristiani, poco più di cinquant'anni, di Sora in provincia di Frosinone, da ore in piedi con sua moglie a sperare e aspettare il salvataggio del loro figlio Armando, 24 anni, terzo anno di Fisica e inquilino con altri cinque coetanei di un condominio completamente raso al suolo.

 
 
Il terremoto ha gli occhi sfiniti dell'insonnia. Le mani giunte della mamma di Armando, di Alice, degli studenti che alle prime ore della notte sono ancora dispersi. Ha il calore del sottile soffio di brezza che precede le scosse più forti. Il suono che discende il fianco della montagna come un tuono lontano. L'asfalto che si fa liquido e i piedi che slittano come se stessero scivolando su un pavimento ricoperto di sfere. Gran parte delle strade di L'Aquila è da giorni al buio. In molte case però non manca la luce. Vedi le finestre illuminate dentro le tapparelle abbassate. Credi che ci sia qualcuno lassù. Invece è la fotografia di lunedì 6 aprile, ore 3,32, il momento esatto della scossa, 5,9 gradi della scala Richter, nemmeno un record in Italia.

A metà di via Sturzo la fuga di una famiglia su un'Alfa Romeo è rimasta bloccata al cancello, quando un grosso pezzo di cornicione l'ha colpita in pieno. In una camera da letto spogliata dai muri perimetrali è ancora accesa l'abat-jour sul comodino. Sui balconi sopravvissuti al crollo, il bucato steso domenica sera. I libri negli scaffali. Le sveglie che ancora suonano la mattina presto. Persiane semichiuse che ricordano le ville calcificate di Pompei. Istantanee di vita quotidiana. Al buio si intuisce la sagoma di quattro donne avvolte nelle coperte di lana. Si fanno coraggio insieme e dormono sulle sedie davanti alla casa di una di loro. Non hanno voluto andarsene al centro di raccolta. Pochi passi più avanti, in fondo a via Sturzo, le fotoelettriche illuminano il vuoto. Due ruspe rimuovono il groviglio di tondini di ferro. L'armatura a queste costruzioni non manca. Stupisce l'apparente fragilità del cemento. Tre o quattro ville, tutte uguali, si sono accasciate sui loro piani. Resta soltanto il tetto di due. In una sono morti due anziani. Nella seconda almeno quattro studenti tra i quali un ragazzo della zona di Vasto, in Abruzzo. La sua mamma sostenuta da un'amica piange da ore. «Ho provato a far suonare il suo telefonino», sussurra, «risulta irraggiungibile. Un collega di università di mio figlio ha invece chiamato il telefonino di un suo compagno di stanza sepolto là sotto. Quello suona ancora, ma da domenica notte nessuno risponde».

Subito più avanti il cumulo di macerie nasconde la bimba di tre anni e tutta la sua famiglia. Rimossi i blocchi di cemento, trovano prima il piccolo materasso del lettino. Si vede subito che apparirà un bambino. Non ci sono più bare. Nemmeno bodybag, i sacchi utili per trasportare le vittime delle emergenze, che l'Italia ha regalato negli anni scorsi alla Libia. I soccorritori liberano dai calcinacci una coperta di lana. La ripiegano per usarla come barella. Avvolgono la piccola nella lana e la adagiano sulla terra. Vigili del fuoco e guardia forestale interrompono per qualche minuto il lavoro a mani nude nei detriti. Li guida un abitante del quartiere in tuta blu, grigio di polvere fin nei capelli. «Adesso restano da trovare un'altra bambina, la sua mamma e il suo papà», spiega l'uomo al capo operazioni dei pompieri: «Poi dobbiamo tirare fuori gli anziani che abbiamo visto nella casa accanto. Ma non so quanti sono». Arriva finalmente l'ambulanza, allontanata per caricare le macerie su due grossi camion. «Come si chiama questa bambina?», chiede un'infermiera della Croce rossa. Nessuno sa rispondere. Non ci sono parenti. Non ci sono vicini. Tutti sotto le macerie. Forse una quindicina di morti. Tutti sepolti dal crollo di case relativamente nuove. Intorno le costruzioni più vecchie e i condomini sono rimasti in piedi. Hanno danni strutturali. La facciate bombardate. Ma i loro abitanti hanno almeno avuto il tempo di svegliarsi e fuggire.

In via Sant'Andrea all'angolo con Generale Francesco Rossi, prega la mamma di Armando Cristiani. Per arrivare fin qui bisogna sfidare i calcinacci che le scosse sparano come cecchini dalle cime dei palazzi. Antonio Rossi, il papà, cammina su e giù con un piccolo ombrello in mano e un sacchetto di biscotti sottobraccio. Era la cena che un vigile urbano gli ha regalato. Sulla montagna di macerie continua il lavoro di altri eroi. Rischiano la vita e altri crolli per salvare Marta, un'altra studentessa tradita dalle norme antisismiche dei palazzi dell'Aquila. Una ragazza raggiunta nel pomeriggio dagli speleologi e dai soccorritori del Club alpino taliano. «Marta ci ha detto di aver sentito delle grida salire dalla tromba delle scale. Una voce molto più sotto di lei», racconta uno speleologo: «Abbiamo chiamato, abbiamo provato ma non ci ha risposto nessuno». Antonio Cristiani è convinto che suo figlio sia lì ad aspettare che qualcuno lo tiri fuori. Erano sei studenti in affitto, in un appartamento al terzo piano. Tutti dispersi. «Ho sentito mio figlio sabato sera», racconta la mamma, «mi ha detto che c'era appena stata una forte scossa. Eravamo preoccupati, ma lui diceva che poi passava».Trema ancora la terra. Scosse forti che fanno crollare i muri che ormai non si reggono più. Gli speleologi portano in superficie Marta, la avvolgono, la caricano su un'ambulanza. «La ragazza era incastrata accanto a un armadio», racconta il soccorritore che l'ha liberata: «Sotto c'era il vuoto e dovevamo stare molto attenti a non farla cascare più in basso». Questi soccorritori sono ragazzi di poche parole. Lo speleologo dice solo che di mestiere fa il carpentiere- saldatore: «Niente nomi, non servono». E se ne va sulla montagna di macerie a cercare Martina, studentessa di Ingegneria gestionale. È la grande Italia dei volontari, quanto mai uniti da Nord a Sud. I genitori di Martina aspettano avvolti in una coperta. Il padre è rassegnato: «Ormai mi devo mettere il cuore in pace». In via Persichetti, altro quartiere, altra strage. I condomini sono sbrecciati. Le case dell'Ottocento sembrano quasi indenni. In mezzo il crollo delle palazzine più nuove ha spianato l'isolato. Due bare attendono in mezzo alla strada che qualcuno le recuperi: ?L'Aquila - Visa Persichetti, non identificata", scrive un soccorritore con il pennarello sul nastro adesivo. L'assenza di funzionari dell'anagrafe impedisce al momento di sapere chi sono i residenti a ogni indirizzo. L'identificazione verrà fatta nei prossimi giorni. Anche se la mancanza di numero civico sul nastro adesivo non sarà d'aiuto. Appare nel buio Pasqua E. , la mamma di Alice Dal Brollo. È arrivata da Cerete in provincia di Bergamo e scopre che nessuno sta scavando nella casa di sua figlia. Poco fa c'è stata una scossa oltre il quarto grado Richter. Per questo i vigili del fuoco si sono allontanati. Tornano poco dopo con la guardia forestale. «Alice è sicuramente lì. Una sua compagna di stanza l'hanno già trovata morta. Un'altra, ritornata a L'Aquila da Sora poco prima del terremoto, è riuscita a scappare. Forse mia figlia è bloccata». La quarta studentessa, anche lei di Sora, deve ringraziare l'influenza che si è presa. E domenica sera non è tornata a L'Aquila.Alle nove del mattino i genitori scoprono che Alice è morta. Come Luigi Giugno, 34 anni, guardia forestale, ucciso nell'unica camera da letto crollata nel loro palazzo. L'hanno trovato sopra il lettino del suo bimbo, Francesco, 2 anni, che ha tentato inutilmente di proteggere. Accanto il cadavere della moglie e la valigia già pronta per il ricovero al reparto maternità. Francesco questa settimana avrebbe avuto una sorellina. Anche la loro casa sembrava sicura. Dovremmo costruire case antisismiche, come in Giappone e in California dove i palazzi tremano ma pochi si fanno male. Invece spenderemo quei soldi per un grande ponte a Messina. Silvio Berlusconi l'ha ripetuto in questi giorni. Dove? Dopo aver visto le macerie a L'Aquila.

 
Il bollettino settimanale delle guerre e dei conflitti in corso n.13/14 - 2009 dal 26/03/2009 al 8/04/2009
Nelle ultime due settimane, in tutti i paesi in guerra, sono morte almeno 2.712 persone

Sri Lanka
Nelle ultime due settimane sono morte almeno 1.788 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 5.974

Pakistan Talebani
Nelle ultime due settimane sono morte almeno 266 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 1.614

Afghanistan
Nelle ultime due settimane sono morte almeno 243 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 1.315

Iraq
Nelle ultime due settimane sono morte almeno 117 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 1135

Filippine Milf

Nelle ultime due settimane sono morte almeno 42 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 140

India Naxaliti
Nelle ultime due settimane sono morte almeno 35 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 207

India Nordest
Nelle ultime due settimane sono morte almeno 33 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 213

Colombia
Nelle ultime due settimane sono morte almeno 30 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 63

Filippine Npa

Nelle ultime due settimane sono morte almeno 23 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 92

India Kashmir

Nelle ultime due settimane sono morte almeno 22 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 89

Rep. Dem. Congo
Nelle ultime due settimane sono morte almeno 20 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 399

Sudan
Nelle ultime due settimane sono morte almeno 18 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 355

Thailandia del sud

Nelle ultime due settimane sono morte almeno 18 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 76

Somalia
Nelle ultime due settimane sono morte almeno 14 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 302

Nord Caucaso
Nelle ultime due settimane sono morte almeno 14 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 126

Nigeria

Nelle ultime due settimane sono morte almeno 8 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 129

Algeria
Nelle ultime due settimane sono morte almeno 8 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 97

Pakistan Balucistan
Nelle ultime due settimane sono morte almeno 8 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 61

Israele-Palestina
Nelle ultime due settimane sono morte almeno 5 persone

 

A Mazara del Vallo sono centinaia i migranti in difficoltà salvati in mare aperto dai pescatori
"Ci troviamo nel passaggio. È la nostra zona di pesca, e la loro zona di transito". Quasi ogni giorno i pescatori del Canale di Sicilia incrociano le barche dei migranti al largo di Lampedusa. E sempre più spesso sostituiscono Guardia Costiera e Marina militare in difficili salvataggi. L'ultimo è avvenuto lo scorso 28 novembre 2008. Col mare in burrasca e onde alte otto metri, cinque equipaggi siciliani hanno coraggiosamente soccorso 650 persone.

Per incontrare i protagonisti di quel salvataggio, sono andato a Mazara del Vallo, primo distretto della pesca in Italia. E ho scoperto che non è la prima volta. Negli ultimi anni i pescatori mazaresi hanno salvato la vita a centinaia di uomini e donne. Le loro sono storie incredibili, di uomini ripescati in alto mare, a mollo da ore, aggrappati alla chiglia di un gommone affondato. Sono storie drammatiche, di barche capovolte durante le operazioni di salvataggio e di persone annegate a due metri dalla loro salvezza. Storie eroiche, di marinai saltati in mare, nella notte, per salvare una donna caduta in acqua. Ma anche storie crudeli, indicibili, di cadaveri ritrovati nelle reti, mangiati dai pesci. Sono le storie di una profonda umanità. Di anonimi eroi che non si sono girati dall'altra parte. Perché "quando vedi un bambino di tre mesi a mare, non pensi più ai soldi, né al tempo perso. Pensi soltanto a salvargli la vita". E fu una bambina di pochi mesi, la prima a salire a bordo del Ghibli, il pomeriggio dello scorso 28 novembre a Lampedusa. "Era avvolta da una coperta. Ho aperto il fagotto e le ho fatto un po' di smorfie. Lei rideva". Era in mare da tre giorni quella bambina, insieme alla madre, e altre 350 persone, stipate su un barcone di dieci metri, in legno, rimasto bloccato nel mare in tempesta, 10 miglia a sud est dell'isola. Il capitano Pietro Russo non dimenticherà facilmente il volto di quella bambina. Fu il comandante della Capitaneria di porto a chiedergli di intervenire. La Guardia costiera non aveva i mezzi per uscire col mare grosso e in zona non c'erano navi della marina militare. A bordo c'erano donne e bambini, così il capitano del Ghibli non poté tirarsi indietro. Come non si era tirato indietro, la notte precedente, il comandante del Twenty Two, Salvatore Cancemi, detto Schillaci, che non aveva esitato a uscire col mare forza 7 pur di portare in salvo i 300 passeggeri dell'altro barcone in zona.

L'ultimo avvistamento era avvenuto 15 miglia a ovest dell'isola, vicino allo scoglio di Lampione. Con la luce dei fari, cinque pescherecci della flotta mazarese passarono al setaccio la zona, nonostante le condizioni proibitive del mare. "C'erano onde alte otto metri e raffiche di vento grecale a 70 chilometri orari" racconta Cancemi. "Il mare era troppo grosso per un abbordaggio - dice - ma anche per il rimorchio, il cavo si poteva spezzare. C'era troppa risacca. Così decidemmo di scortarli. Stavamo di lato per fare muro contro il vento". Era un barcone di 12 metri, di legno, pieno zeppo, le onde sbattevano sul ponte della barca. Cercarono riparo dalla risacca sotto gli scogli di Lampedusa, a Cozzo Ponente, procedendo con lo scandaglio, in piena notte. E poi li abbordarono per trasbordare i passeggeri. Quello fu il momento più difficile, dice il pescatore: se si fossero spostati di fianco, la barca si sarebbe immediatamente sbilanciata e rovesciata in mare. Non sarebbe stata la prima volta. Successe il 17 luglio 2007 a Nicola Asaro, comandante del Monastir, classe 1953. Stavano pescando gamberi rossi al largo della costa libica, quando si avvicinò loro una lancia in vetroresina con 26 persone a bordo. "Erano senza carburante. Volevano della benzina, ma noi andiamo a gasolio e non potevamo aiutarli". Asaro abbassò la scaletta per farli salire. Il mare era piatto. Fu un attimo. Qualcuno si alzò in piedi, da dietro iniziarono a spingere e in un momento la barca si capovolse. "Lanciammo immediatamente in mare i salvagente e alcune cime. Non sapevano nuotare. Si tiravano sotto uno con l'altro". Alla fine riuscirono a trarne in salvo 14 e a recuperare un cadavere. "Gli altri 11 li ho visti affondare con i miei occhi".

La stessa cosa è successa pochi mesi fa, a giugno, al comandante dell'Ariete, Gaspare Marrone. Stavano trainando le gabbie dei tonni. La barca, con 30 persone a bordo, si capovolse a due metri dal peschereccio. In cinque finirono aggrappati alla gabbia, altri 22 li recuperò l'equipaggio. Tre persone invece, tra cui una donna, scomparvero tra le onde. Un anno prima, nel settembre del 2007, Marrone aveva salvato la vita a 10 uomini incontrati in alto mare, appesi alla chiglia di un gommone affondato: un tubo largo 20 cm e lungo 4 metri. Stavano in mare da più di due ore, nudi. Gli altri 30 compagni di viaggio erano annegati. "Da lontano sembravano delle boe, quando capii che erano degli uomini non ci volevo credere. Lanciammo i salvagente. Il direttore macchine si tuffò per aiutarli, non avevano più forza." E senza forza era anche il giovane mauritano trovato da solo, in acqua, a 70 miglia da Lampedusa, dal peschereccio Ofelia il 23 agosto 2007. "Era l'alba - racconta il capitano Antonio Cittadino -. Lo vidi per caso, dal finestrino. All'inizio mi sembrava un bidone. Poi vidi muoversi qualcosa. Stava alzando la mano. Era un uomo". Da 48 ore stava seduto in bilico sopra tre tavole di legno dello scafo di un gommone affondato. Unico superstite di 47 passeggeri. "Lo abbiamo tirato a bordo di peso. Si è accasciato a terra. Non parlava. Aveva le carni bianche dal sale. Quando si è ripreso, il giorno dopo, mi chiamava l'amico di Dio".
 

La Freccia, la Fionda di David e il Duomo di Ferro

Il Pentagono taglia i fondi per la difesa antimissile, sollevando polemiche e preoccupazione in Israele
Tra le misure studiate dalla nuova amministrazione Usa contro la crisi economica, c'è anche la riduzione di alcune voci del bilancio militare. Il Congresso non le ha ancora votate, ma, già da qualche settimana, l'ipotesi ha suscitato preoccupazioni e polemiche in Israele, il principale alleato e partner militare di Washington.
La settimana scorsa il segretario alla Difesa Usa Robert Gates ha annunciato tagli del 15 percento sul budget militare statunitense. Gates ha parlato di ridurre le forniture di razzi antimissile in Alaska e di sospendere il programma di laser antimissile in sviluppo presso i laboratori della Boeing, ma è probabile che i tagli condizioneranno anche le forniture militari a Israele e il finanziamento di alcuni progetti realizzati da industrie israeliane insieme al Pentagono. Contro questi provvedimenti si è subito espresso il ministro della Difesa israeliano Ehud Barak, e non è certo un caso che, nei giorni scorsi, sia il governo che l'intelligence israeliana abbiano ricominciato a martellare la stampa mondiale con la minaccia nucleare e balistica iraniana.

L'amministrazione Obama, ha scritto sabato il quotidiano israeliano Ynet, sta valutando l'ipotesi di offrire a Israele il sistema antimissile SM3 (Standard Missile 3, prodotto dalla Raytheon) invece di finanziare lo sviluppo dell'Arrow3 (prodotto dalle Israel Aerospace Industries insieme alla Boeing). La differenza tra i due sistemi è che l'Arrow opera da terra e serve solo a intercettare missili a lunga percorrenza, mentre l'SM3 può essere installato sulle navi e può intercettare sia missili che aerei. Il ministro della Difesa israeliano Ehud Barak ha dichiarato che spera ancora di convincere gli Usa a finanziare il progetto Arrow, che peraltro costerebbe 1,5/2 milioni di dollari a unità contro gli oltre 10 del sistema SM3. Il Pentagono sembra però volere investire su progetti funzionali alle esigenze Usa più che quelle israeliane, oltre che sulle imprese americane, come la stessa Raytheon. Nella speranza di sensibilizzare l'amministrazione Usa, mercoledì 8 aprile la Difesa israeliana ha testato un missile Arrow di tipo 2. Guidato dal super radar X-Band installato otto mesi fa nel Negev, l'Arrow israeliano ha intercettato un missile Blue Sparrow, usato per simulare uno Shahab3 iraniano sul Mediterraneo. Il test è riuscito, ma i tecnici israeliani giurano che l'Arrow3 sarebbe in grado di neutralizzare la minaccia molto prima. Israele sostiene che il sistema Arrow3 sia ancora più essenziale dopo che, settimana scorsa, la Corea del Nord ha testato il suo missile Taepodong2, che potrebbe vendere all'Iran.


Gli Usa non sono interessati allo sviluppo dell'Arrow3, ma potrebbero invece finanziare altri due progetti antimissile dell'israeliana Rafael Defence Systems: Duomo di Ferro e Bacchetta Magica. Quest'ultimo, sostengono fonti del Pentagono, potrebbe essere utilizzato in Afghanistan. Il sistema Bacchetta Magica, noto anche come Fionda di David, serve per intercettare i missili a medio raggio. Duomo di Ferro, invece, è studiato per intercettare i razzi Qassam sparati dalla Striscia di Gaza: 50mila dollari ogni missile, per neutralizzare razzi da pochi dollari l'uno. Secondo il ministero della Difesa israeliano quest'ultimo sarà attivo nel 2010. Oltre ai sistemi antimissile, il Pentagono ridisegnerà anche i bilanci per gli aerei militari. Lunedì scorso il segretario alla Difesa Gates ha annunciato la sospensione della produzione dei caccia F-22 Raptor, che Israele chiedeva da tempo nonostante il bando alle esportazioni, e ha l'allocazione di 11 miliardi per la produzione dell'F.35 Lighting II, entrambi della Lockheed Martin. La differenza tra i due sta soprattutto nel costo: 120 milioni di dollari per il primo contro i 35 del secondo. La diminuzione dei finanziamenti federali, però, minaccia di far salire di molto anche il prezzo di quest'ultimo, cosa che renderebbe gli F-35 non più appetibili per l'aviazione israeliana. Forse dunque, nei prossimi mesi i piloti israeliani dovranno accontentarsi di bombardare i civili della Striscia di Gaza con i vecchi, ma pur sempre letali, F-16.

Naoki Tomasini


 

Viaggio tra i contadini dell'Amazzonia brasiliana, che proteggono il polmone del mondo dallo scempio pur rischiando la fame
di Carlo Cascione

"Vedere i pesci morire annaspare senza acqua non é un bello spettacolo". Antonio de Veira, un piccolo contadino amazzonico, ci mostra il fiume confinante con la sua proprietà e spiega: ¨Io ho lasciato la vegetazione sulla riva, ma i proprietari dei terreni più a nord non hanno fatto lo stesso, così ogni estate il fiume si prosciuga e muoiono migliaia di pesci¨. Siamo in Amazzonia, nello stato di Rondonia, a pochi chilometri dal confine con la Bolivia. Il clima sta cambiando, anche qui.

amazzonia brasilianaAl di là dell'apparenza. Quella di Antonio è una delle 50 famiglie che abitano nella comunità di Cachoeira do Samuel. Qualche anno fa erano più di settanta: ¨Piano piano stanno iniziando a vendere, anche se per legge non potrebbero. Si trasferiscono in città, dove però non trovano lavoro, a volte le loro figlie sono costrette a prostituirsi¨. Antonio per ora resiste, anche se vivere della terra non è facile: i piccoli produttori vendono per una miseria il frutto di giornate di fatica. Molti preferiscono abbandonare: ¨Per noi è una sconfitta ogni volta che un contadino vende, perché siamo noi contadini che coltiviamo la terra, mentre i grandi possidenti quasi sempre tagliano tutti gli alberi per farne pascolo o al massimo impiantano una monocoltura". Durante il percorso per arrivare qui, Antonio ci ha indicato gli appezzamenti che appartengono agli allevatori: enormi distese brulle, decine di buoi e vacche.
¨Questo qui - ha detto a un certo punto - è del giudice che si occupa di delitti ambientali nella nostra provincia - era l'unico in cui si vedeva una vegetazione fitta - ma è solo una piccola fascia, quella che dà sulla strada. Il resto è totalmente distrutto. Lo abbiamo anche denunciato, ma gli stessi poliziotti sono proprietari terrieri, così come i funzionari dell'istituto che si occupa di tutelare la foresta. Sapete cosa mi ha detto il magistrato quando sono andato a denunciare il caso del giudice? 'non posso indagare, è un mio superiore". La situazione è un po' migliorata negli ultimi due o tre anni: il governo ha iniziato a fare controlli, anche grazie allo sviluppo di un sistema di monitoraggio satellitare. La moratoria sulla soia prodotta in Amazzonia (del 2006), promossa da diverse Ong e sostenuta dall'Unione Europea, ha contribuito positivamente. "Ma c'é tanto lavoro da fare ancora. E soprattutto bisogna farlo adesso. Non c'è tempo da perdere. I nostri figli e i nostri nipoti pagheranno il prezzo della nostra irresponsabilitá¨.

vivere nell'amazzonia brasilianaAiutateci ad aiutare. Antonio è proprietario di venti ettari di terreno. Secondo la legge brasiliana, in almeno metà del terreno devono essere piantati alberi. Il tempo per mettersi a norma è di trent'anni dal momento dell'acquisto. Il proprietario precedente del terreno di Antonio aveva raso al suolo quasi tutto: ¨Ma non è solo una questione di legge, noi della comunità ormai sappiamo qual è il ruolo della foresta nell'ecosistema globale e vogliamo preservarla. Ma bisogna anche portare il pane a casa¨. Ci mostra gli appezzamenti, prima brulli, dove ha iniziato a piantare alberi da frutto: banane, cocco, açai, cupuaçu, castanha do pará. Diserbare in piena foresta, mi fa capire, è un'impresa titanica, soprattutto se non si hanno a disposizione sostanze chimiche. A parte questo, piantare alberi non rende, specie nei primi anni: ¨In molti casi, anche facendo gli innesti, devo aspettare una decina d'anni prima che inizino a dare frutti, e intanto?¨. Il problema principale in Amazzonia è che un terreno senza alberi (da dedicare al pascolo o alla soia) vale oggi più che un terreno con la foresta intatta. Antonio ha un'idea per invertire questa tendenza: ¨Se trovassimo un'associazione o un gruppo di persone, tra tutti quelli che si dicono preoccupati per la sorte della foresta, che ci potesse fornire i mezzi tecnici e finanziari per riforestare in maniera equilibrata sarebbe perfetto. Noi potremmo mangiare e la foresta sarebbe salva¨.

 

 

  

Welfare fai-da-te

di Paolo Tessadri
Volontari, sindacati, coop, associazioni religiose, enti locali. Mentre lo stato latita, si moltiplicano le iniziative di sostegno per gli italiani messi in ginocchio dalla crisi economica
 
 
Manifestazione di disoccupati
Aiutati che lo Stato non ti aiuta. O lo fa in ritardo, con l'assegno della cassa integrazione che arriva sempre fuori tempo. O che non ti prende proprio in considerazione, se a rimanere senza stipendio sono precari, forzati dei contratti di collaborazione o immigrati seppur regolari. Per questo mentre la crisi apre ogni giorno nuove sacche di povertà e disagio sociale, nell'Italia del centro-nord sta nascendo una rete di welfare dal basso: un network spontaneo che spesso unisce laici e cattolici, volontariato e professionisti, banche e non profit, enti locali e cooperative. Non c'è solo la Conferenza episcopale, che con 30 milioni di euro garantisce prestiti dieci volte superiori alle famiglie numerose. In tutte le regioni sembra quasi che colori politici e interessi economici passino in secondo piano, mettendo allo stesso tavolo sindaci rossi e vescovi. L'emergenza spinge tutti a rimboccarsi le maniche. E sperimentare nuove forme di sostegno.

A Prato la stoffa non ha più colori, gli stabilimenti si fermano uno dietro l'altro lasciando a casa armate di operai. Lì la mobilitazione è diventata di massa, con l'invito a destinare dieci euro al mese da ogni busta paga per soccorrere le vittime del crac. Un'intera provincia si è mossa, dal vescovo agli imprenditori, dai sindacati ai commercianti: cinque euro di contributi volontari da parte dei lavoratori e un contributo almeno equivalente da parte delle aziende. Una "corale mobilitazione" l'ha definita il vescovo Simoni, che ha lanciato il progetto, in un distretto che vive la crisi peggiore dal dopoguerra. L'iniziativa, nata a febbraio, si chiama 'Insieme per le famiglie' ed è gestita dalla Caritas. Mario, 65 anni, di un comune vicino a Prato, lo sta verificando di persona. La sua cooperativa di servizi cimiteriali è fallita, nel giro di pochi mesi i tre figli impiegati nel tessile hanno perso il lavoro: tutto il loro benessere si è dissolto. Vincendo l'orgoglio, Mario ha chiesto aiuto: non avevano più da mangiare. Ora fa la spesa all'emporio della Caritas per tutta la famiglia, senza pagare. Per quasi 700 famiglie questo è l'unico supermercato possibile: nel 2009 ci si prepara a elargire cibo e generi di prima necessità per oltre mezzo milione di euro.
 

"La situazione economica ha unito associazioni laiche e cattoliche in un unico sforzo, non c'è più la vecchia differenza o rivalità. C'è un'unica matrice ora: il bisogno", sottolinea Michele Mangano presidente di Auser, la grande rete di volontariato per gli anziani. Perché se a Prato l'iniziativa parte dalla curia, sulle rive dell'Adriatico a muoversi sono due colossi della cooperazione 'rossa': Coop Adriatica e Coop consumatori Nordest, un milione e mezzo di soci, quasi 3 miliardi di fatturato, 24 ipercoop e 209 supermercati sparsi fra Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Veneto, Marche, Lombardia e Abruzzo. Dal 14 aprile al 5 luglio licenziati, cassaintegrati o lavoratori in mobilità e in aziende con contratti di solidarietà potranno fare acquisti con uno sconto settimanale di sei euro su 60 di spesa. Che si sommeranno ai prodotti già in offerta. Il 10 per cento di sconto, che per 12 settimane significa un risparmio netto per ogni famiglia di 72 euro e che costerà alle casse cooperative 5 milioni. Un'offerta veramente speciale, perché solo a Bologna ci sono 20 mila famiglie in condizioni di chiedere questo sconto, un segnale drammatico della situazione. Tanto che Gilberto Coffari, presidente di Coop Adriatica, auspica che "altri seguano il nostro esempio. È un segnale di attenzione di fronte all'emergenza".

L'assegno locale C'era una volta il ricco Trentino, poi anche lì le fabbriche hanno cominciato a chiudere. E la Provincia-Stato ha impugnato la sua autonomia, mettendo nel piatto un welfare scandinavo. Il famoso assegno di solidarietà proposto dal segretario Pd Dario Franceschini qui è già realtà. Lavoratori cassaintegrati, in mobilità e tutti quelli che perdono il posto, come spesso tocca a somministrati (i vecchi interinali) o precari, ricevono dalla Provincia un aiuto da 200 a 600 euro al mese. Che vanno a rinforzare l'assegno della cassa integrazione o a creare un salario di disoccupazione. In Trentino l'intervento è poderoso: poco meno del 5 per cento del Pil dell'intero territorio, un quinto del bilancio della Provincia autonoma, 92 milioni a sostegno dei redditi, fa notare il governatore Lorenzo Dellai. Mentre gli studenti universitari bisognosi riceveranno 400 euro, purché dimostrino i loro meriti accademici.

 
 
Ma spesso sono i comuni a spalancare le casse. Carlo Grazioli è primo cittadino di Rodigo, 5 mila anime nel Mantovano. Lui ha deciso di ridursi lo stipendio di sindaco e ha chiesto che lo facciano tutti gli assessori, mentre l'avanzo di amministrazione del 2008 andrà a interventi nel sociale: "Senza aspettare i benefici del ponte di Messina, è meglio agire presto, anzi subito". Invece a Porcia, un comune con meno di 14 mila abitanti in provincia di Pordenone, il sindaco Stefano Purchet lancia una sua versione dei lavori socialmente utili. Cassaintegrati e disoccupati potranno arrotondare il sussidio, mettendosi al servizio della comunità: manutenzione di aree verdi, scuole ed edifici pubblici.

Nel Friuli Venezia Giulia il governatore Renzo Tondo ha cominciato con un contributo per le bollette della luce, poi ha deciso di aggiungere 20 euro alla family card nazionale alimentata dal governo Berlusconi. Ma la desertificazione degli ordini richiede ben altre misure: ora nella regione sono in arrivo 60 milioni di euro per ammortizzatori sociali e incentivi. L'Italia in bolletta è sempre più larga. Può diventare insopportabile anche pagare la tassa sui rifiuti e a Vicenza il sindaco ha stanziato 150 mila euro per gli sconti. In Valle d'Aosta si arriva all'esenzione per le vittime della crisi della tassa sui rifiuti e sull'acqua.

Garantisce il municipio A Genova l'assessore al Bilancio, Francesca Balzani, ha deciso di intervenire con una misura di sostegno decisamente fuori dagli schemi. Le famiglie in difficoltà potranno andare in banca e chiedere un prestito fino a 5 mila euro: gli interessi li pagherà il Comune, mentre i beneficiari dovranno restituire solo il capitale. "Con la recessione i tassi d'interesse sono scesi per tutti, tranne che per quelli che ne hanno davvero bisogno", spiega l'assessore. L'elemento cruciale dell'operazione è ripristinare il cerchio spezzato della fiducia: la banca che si aggiudicherà l'incarico avrà come garante del prestito la città, alla quale fa credito a tassi molto bassi, mentre il Comune si fiderà dei propri cittadini, contando che restituiscano il prestito nei tre anni di rateazione massima ipotizzata. Pochissime le condizioni: basterà presentarsi allo sportello con la dichiarazione dei redditi, che a livello familiare non dovranno superare i 25 mila euro netti; il finanziamento non potrà superare il 35 per cento del reddito. Chi lo otterrà, non dovrà aprire il conto nella banca convenzionata e non dovrà dichiarare in che cosa intende investire i quattrini. "Con 3 milioni di euro stanzati, contiamo di mobilizzare risorse per oltre 10 milioni", dice Balzani.

Anche a Modena, dove il distretto della ceramica è stato investito dalla gelata dei mercati, e ci sono 3,5 milioni di euro per i cassaintegrati. A Pisa invece viene staccato un assegno di 1.623 euro annui alle famiglie a basso reddito con almeno tre minori a carico e 1.497 euro per le madri disoccupate, anche extracomunitarie. Altri 50 mila arrivano da Borgomanero, nel Novarese. Qui le ore di cassaintegrazione sono passate da 8 mila a 236 mila: è stato creato un fondo di solidarietà sociale per tamponare le situazioni di emergenza. Si deve risparmiare pure sui trasporti a Cormano, cintura milanese. Cinquantamila euro dal municipio per l'iniziativa 'Sconto mese': una riduzione del 25 per cento sugli abbonamenti mensili di treno e bus. A Sestri Levante le famiglie di chi è rimasto senza lavoro o in cig possono chiedere di dimezzare le tariffe scolastiche (pulmino e mensa). A Verona, Comune e Unicredit hanno stanziato 120 mila euro per le donne separate con bambini, regalando una carta prepagata, che verrà ricaricata con 200 euro al mese per un anno. Per gli anziani ci sono aiuti per l'affitto e le medicine. Ma le loro necessità spesso sono ancora più concrete: Nicola Doppio della cooperativa Samarcanda, che si occupa di nuove e vecchie povertà nel Nord-est, osserva che per la prima volta si vedono "case fredde delle persone anziane, in altri casi abbiamo avuto chiari segni di denutrizione. E al pronto soccorso notiamo persone con la biancheria intima lisa, le scarpe consumate con i calzini bucati".

Aspettando Sacconi La cassa integrazione non rimpiazza la busta paga e perdipiù arriva sempre in ritardo, mentre la tavola si deve apparecchiare ogni giorno. A Brescia sono scese in campo le banche per anticipare ai lavoratori l'assegno, ma è in tutta Italia che gli istituti di credito cooperativo stanno realizzando accordi con enti locali e sindacati per l'anticipo della cassa e la sospensione dei mutui. Soprattutto i piccoli istituti bancari cooperativi, legati al territorio, hanno introdotto il prestito di solidarietà a costo e tasso zero. Il microcredito si allarga, infatti, anche grazie alla Caritas italiana, da Termoli a Mazara del Vallo, da Frosinone a Vercelli. Poche migliaia di euro per tirare avanti. L'azienda Revello, che commercia prodotti per l'odontoiatria, nel Veronese, ha anticipato ai 270 dipendenti la tredicesima detassata. Solidarietà nel segno della produttività.

Viaggio di ritorno La crisi indossa gli abiti dell'immigrazione. In Veneto un disoccupato su quattro è immigrato e a Treviso sono già in 5 mila in cerca di lavoro. Mentre il Comune di Spresiano sulla riva del Piave vuole concedere 2 mila euro all'immigrato che decide di rimpatriare. Non è questione di intolleranza: nuclei spesso numerosi senza redditi da mesi non riescono a pagare l'affitto né le bollette. Alcune parrocchie e organizzazioni sindacali hanno perfino regalato il biglietto d'aereo o di pullman per consentire a immigrati di far ritorno nei loro paesi, come a Vittorio Veneto. "All'ennesima domanda di aiuto di un'intera famiglia ho dovuto dare il consiglio di rimpatriare. Vengono qui con debiti ingenti e senza più lavoro", confida sconsolato monsignor Ferruccio Sant. In questi casi la Caritas è disponibile a pagare il biglietto di rientro e a garantire una cifra simbolica.

Allarme casa Se manca il lavoro si rischia di perdere la casa, perché non si può pagare il mutuo. Nel Lazio la Regione ha assegnato 10 milioni di euro per nuclei con reddito fino a 25 mila euro. Servono per la sospensione dell'ammortamento della rata o per la rinegoziazione. Ma il problema è sentito in tutta la Penisola. Daniele Molinari, presidente del consiglio notarile di Mantova rivela che all'asta va una casa al giorno per mutui non pagati. E su dieci edifici all'incanto, solo in tre casi sono i parenti del debitore che "presentano un'offerta, pur di salvare l'abitazione di famiglia". Il grosso finisce nelle mani della speculazione. E molte famiglie si ritrovano senza un tetto, costrette a bussare alle porte delle parrocchie o, alcuni giovani, a dormire sulle panchine: a Verona, tra i 442 homeless censiti nelle scorse settimane i volontari hanno notato un numero crescente di italiani, con età inferiore a 35 anni. L'anno scorso erano dei single soddisfatti dei loro lavori a contratto che lasciavano spazio per il tempo libero: adesso hanno archiviato la speranza.
 
 
Inps: nuovo boom a marzo, aumenta del 925%

Nuovo dato boom per la cassa integrazione: a marzo, fa sapere l'Inps, quella ordinaria è cresciuta del 925% rispetto allo stesso mese del 2008. Dato record anche per il primo trimestre 2009: l'aumento è stato del 589% rispetto ai primi tre mesi dello scorso anno. Sommando la ordinaria (cigo) e la straordinaria (cigs) le percentuali si abbassano: +184% nel trimestre, e +292% in marzo. In aumento anche le domande di disoccupazione e mobilità: da gennaio a marzo, l'Inps ha ricevuto oltre 750 mila domande (+45%). Nella gestione ordinaria i settori con i maggiori incrementi di domanda di cassa rispetto al marzo del 2008 risultano essere il meccanico (+1262,49%), il metallurgico (+7004%), il chimico (+1345,94%) e il legno (+1728,45%). La Cgil ribadisce la sua richiesta al governo: «Va aumentata la cassa ordinaria da 52 a 104 settimane».
 
 
Sorpresa paradisi fiscali: l'Ocse cassa la lista nera
di Maurizio Galvani

Escono gli ultimi 4 paesi, e passano tutti alla «grigia»
Con un colpo a sorpresa, l'Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo) ha cancellato dalla lista nera i quattro paesi che figuravano come paradisi fiscali e che in nessuna maniera si volevano adeguare agli standard di controllo internazionali. E' bastato un impegno formale (una telefonata) da parte dell'Uruguay, del Costa Rica, delle Filippine e della Malaysia per essere messi fuori dall'elenco dei «cattivi» stilato in occasione del vertice del G20 di Londra, il 2 aprile scorso, dalla stessa Ocse. Soprattutto è bastata la loro disponibilità a fare di più - ma non si sa ancora cosa - per invalidare i propositi espressi dai capi di governo appartenenti al G20 di voler fare una battaglia frontale contro i paradisi, come avevano chiesto sia il presidente francese Nicolas Sarkozy che la cancelliera tedesca Angela Merkel.
Che si trattasse di una lista poco convincente si è visto fin dalla fine della riunione, quando su pressione del governo cinese erano stati cancellati sia il centro finanziario della città di Hong Kong che quello di Macao. I due territori ad amministrazione speciale, infatti, non sono stati inseriti tra le zone poco trasparenti. Al contrario, sono stati considerati quasi una servitù della Cina, che è stata iscritta tra i paesi virtuosi e inserita in una lista bianca.
Il primo rapporto Ocse (Harmful Tax Competition. An Emerging Global Issue) era stato stilato nel 1998: dieci anni dopo ne è stata fatta una nuova versione, sotto la spinta della crisi che stiamo vivendo. Nel redigere il rapporto è stata messa molta enfasi, differenziando le liste in bianche, grigie e nere; però il tutto è stato confuso con l'introduzione di un elenco dei paesi appartenenti a una lista grigio-nera cioè di chi vorrebbe adeguarsi ai canoni internazionali di controllo dei movimenti finanziari. Si scopre che alcuni paesi tradizionalmente conosciuti come paradisi fiscali - sconosciuti alla maggior parte della gente - tipo Belize, Aruba, Saint Kitts e Nevis figurano di fatto come «paesi in via di adeguamento». Alla stessa maniera di Austria, Belgio, Lussemburgo e Svizzera che sono vicinissimi ai nostri confini. La Svizzera - quando gli è stata data notizia di questa decisione presa dal segretario generale dell'Ocse, Angel Gurria - si è risentita tantissimo e ha chiesto «di avere delle spiegazioni». La Confederazione Elvetica giorni fa - per non andare incontro alle sanzioni dei paesi amici del G8 - si è resa disponibile a modificare il suo sistema di trattamento del segreto bancario. Fino a spingersi a mettere in discussione la distinzione, fin troppo stretta, tra coloro che sarebbero perseguibili per frode e chi invece no perché opera solamente l'evasione fiscale. La Svizzera si è sempre difesa dicendo che il primo è «un delitto penale e il secondo solo amministrativo». La Svizzera ha mostrato finora l'intenzione - a parole - di voler modificare questo quadro, di fatto costretta anche dal contenzioso aperto con gli Usa che vogliono l'elenco dei cittadini-evasori che hanno depositi bancari.
Finora commenti a quanto ha deciso l'Ocse, in Italia, non sono stati avanzati, tranne una interrogazione da parte dell'Idv all'indirizzo del ministro dell'Economia Tremonti. L'Italia non ha avuto nessun beneficio dalla lista compilata, a Londra, dall'Ocse. La «nostra black list» si differenzia già moltissimo da questo elenco e include anche paesi quali le Barbados, l'Isola di Man o Guernsey, e altre nazioni più sviluppate (Svizzera, Lussemburgo). Vedremo quale delle due sarà presa in considerazione. La misura dell'Ocse invalida l'impalcatura per la stabilità della finanza, per la quale molti leader sono impegnati addossando alla mancanza di trasparenza dei mercati, la responsabilità di questa crisi economica.
 
Mille impiegati Fiat a casa fino a settembre. Fiom: puzza di esuberi
di lo. c.

Questa volta il conto più salato della premiata casa Fiat è stato presentato ai colletti bianchi: a quasi mille impiegati - 973 - sono state annunciate 13 settimane di cassa integrazione, dal 4 maggio al 2 agosto. I marcapitati potranno rimettere piede in fabbrica solo a settembre, dopo le ferie. Le conseguenze economiche sono pesantissime per l'abbattimento del reddito, ma gli impiegati rischiano molto di più. Secondo la Fiom una sospensione così lunga, in un momento in cui grazie agli incentivi che hanno rianimato la domanda si è ridotta la cassa integrazione per gli operai, potrebbe nascondere l'intenzione del Lingotto di procedere alla dichiarazione di esuberi. In poche parole, i 973 colletti bianchi potrebbero diventare i soci della prima lista di proscrizione. La metà lavora agli Enti centrali di Mirafiori, il cuore strategico del Lingotto, gli altri sono alla Iveco e alla Powertrain. Per altri 1.069 colletti bianchi sono state invece annunciate «soltanto» 6 settimane di Cig. La Fiom chiede al governo di convocare azienda e sindacati per conoscere le vere intenzioni della Fiat che, secondo la Fim, sta drammatizzando la crisi.

 

8 aprile

 

Presa di posizione dell'intero clero del centro a 40 chilometri da Agrigento

E la Via Crucis del venerdì santo sarà dedicata al "perdono a Dio e ai fratelli migranti"

Licata, sacerdoti, preti e suore
contro la denuncia dei clandestini

di FABIO RUSSELLO

AGRIGENTO - Sacerdoti, suore e religiosi contro la denuncia dei clandestini ad opera dei medici contenuta nel decreto sicurezza. La presa di posizione viene da Licata, grosso centro a 40 km da Agrigento. Il clero licatese ha deciso di aderire all'appello per "opporsi alla strage del Mediterraneo" e per chiedere la disobbedienza civile contro il pacchetto sicurezza varato dal Governo, che prevede tra le altre cose l'obbligo di denuncia dei clandestini.

I sacerdoti, guidati dall'arciprete don Antonio Castronovo, hanno inoltre deciso di dedicare la processione della Via Crucis di venerdì alla richiesta di "perdono a Dio e ai fratelli migranti per il razzismo, la xenofobia, la caccia al musulmano che, con forza diabolica, sono entrate nel corpo politico di questa Italia".

La decisione di aderire all'appello, proposto da un frate comboniano che opera a Licata, Gaspare di Vincenzo, è stata presa nel corso di un'assemblea a cui hanno partecipato, aderendovi, tutti i sacerdoti in rappresentanza delle comunità parrocchiali licatesi.

L'appello firmato dal clero licatese è quello proposto dalla comunità comboniana del rione Sanità di Napoli, delle suore Orsoline di Caserta, dei Padri Sacramentini di Caserta, delle suore missionarie di Torre Annunziata (Napoli) e della comunità comboniana di Caserta. A Licata vi è una grande comunità di stranieri, molti dei quali vivino in clandestinità, e come tante altre zone del paese vi è qualche difficoltà di integrazione. Ma la stessa Licata è interessata da un fenomeno migratorio massiccio con centinaia di giovani che, ogni settimana, partono per il nord Italia e per il nord Europa.

 

Ruanda: a 15 anni da genocidio,
i colpevoli sono ancora latitanti

Centinaia i genocidari riparati in Belgio, Canada, Francia, Kenya

MONTREAL
A 15 anni dal genocidio ruandese, centinaia di presunti responsabili sono ancora latitanti. Molti di loro hanno trovato rifugio in Belgio, Canada, Francia, Kenya e nella Repubblica democratica del Congo (RDC). Furono almeno 800.000 i tutsi e gli hutu moderati uccisi in meno di 100 giorni, tra aprile e luglio del 1994. Formalmente ricercati dal Tribunale penale internazionale per il Ruanda, o sospettati dai parenti delle vittime, i ricercati vivono sotto falsa identità o alla luce del giorno, a volte godendo dello status di rifugiato politico.

In fuga davanti all’avanzata delle truppe guidate da Paul Kagame, numerosi miliziani hutu, noti come ’Interahamwe', hanno trovato rifugio nel vicino Congo subito dopo la fine dei massacri, dove non hanno mai veramente deposto le armi, nonostante le operazioni militari lanciate contro di loro da Kinshasa, di cui l’ultima lo scorso gennaio.

Altri sospetti genocidari hanno preferito lasciare la regione dei Grandi Laghi: per rimanere in Africa, come il presunto tesoriere del genocidio, Felicien Kabuga, che avrebbe trovato rifugio in Kenya, secondo il Tribunale penale internazionale per il Ruanda; oppure per andare in esilio in Europa o in America settentrionale, in particolare in Belgio e Canada, dove «vivono centinaia di presunti assassini», secondo la Corte ruandese.

I genocidari sono «ovunque» in metropolitana, nelle strade e nei caffè di Bruxelles, denunciava lo scorso settembre un’inchiesta condotta dalla televisione Rtbf. In Francia, le famiglie di vittime hanno presentato nel marzo 2008 una denuncia contro Agathe Habyarimana, vedova del presidente ruandese Juvénal Habyarimana, ucciso nell’attentato messo a segno la sera del 6 aprile 1994 contro l’aereo con cui stava rientrando nel Paese e che innescò i massacri.

Secondo il Collettivo delle parti civili per il Ruanda, la signora Habyarimana avrebbe partecipato alla «pianificazione, all’organizzazione e alla direzione del genocidio». Parigi le ha rifiutato lo status di rifugiato politico, ma la vedova continua ad abitare nell’area parigina senza essere indagata. Un’altra decina di ruandesi che vivono in Francia sono sotto inchiesta per presunta complicità nel genocidio. Tuttavia, il governo di Parigi si è opposto all’estradizione a Kigali di tre ruandesi, giudicando insufficienti le garanzie offerte dalla giustizia di Kigali che li ha condannati per il rispetto delle norme internazionali.

Anche la Corte suprema del Canada ha dato parere negativo all’estradizione in Ruanda di Leon Mugesera, ritenuto uno degli «strateghi» del genocidio.

Importante paese di immigrazione, in Canada vivrebbero 800 sospetti genocidari, stando a stime delle associazioni dei superstiti. Ottawa ha ricevuto nel 2007 da Kigali e dall’Interpol una richiesta di estradizione per cinque uomini, che è rimasta sulla carta.

«Non è una priorità dare la caccia ai genocidari ruandesi», ha commentato René Provost, direttore del Centro per i diritti della persona e per la pluralità giuridica dell’Università McGill.

Tuttavia, è incoraggiante che nel 2007 sia stato portato a giudizio Desire Munyaneza, un hutu accusato di aver guidato una milizia. Si tratta del primo processo di questo tipo che si tiene in Canada, che sarà «un test», dice Provost, perché «a parte l’Europa» pochi Stati fanno lo stesso, sebbene siano oltre un centinaio i Paesi che hanno aderito alla Corte penale internazionale dell’Aia(Cpi), il tribunale permanente chiamato a giudicare i crimini di genocidio. E, nonostante la lentezza della giustizia, continua il giurista canadese, potrebbe segnare «l’inizio di una cultura della giustizia penale internazionale», perchè questo processo incoraggerà «gli Stati a riconoscere come uno dei loro obblighi il dovere di arrestare e giudicare individui che hanno commesso atti di genocidio».

 

Diritti indigeni violentati

Il governo Bachelet ha portato in Senato un progetto di riforma costituzionale che ingabbia ogni diritto indigeno riconosciuto a livello internazionale

Il governo Bachelet insiste con la riforma costituzionale improntata a limitare i diritti dei popoli indigeni, imbrigliando quanto stabilito dal Convegno 169 dell'Organizzazione internazionale del lavoro e dalla Dichiarazione sui diritti dei popoli indigeni dell'Onu. Anzi, eludendo quanto richiesto dal Relatore delle Nazioni Unite - presto in visita in Cile proprio per discutere della questione - di sospendere la "massima urgenza" nella votazione del progetto di riforma, il ministro Viera Gallo e il Comisionado hanno ribadito che occorre votare subito quello che gli indigeni Mapuche del Cile hanno definito "il lucchetto costituzionale" ai diritti dei popoli indigeni. In breve, il Governo sta tentando di incontrare il Relatore Onu a cose fatte. Ma i nativi non ci stanno.

La sottomissione dei diritti dei popoli indigeni. Il progetto incriminato negherebbe espressamente che i popoli indigeni sono soggetti giuridici. Cominciando dal cancellare ogni diritto delle comunità indios sulle acque che passano nei territori ancestrali, pretende di sottomettere tutto il diritto indigeno, il Convegno 169 e gli altri trattati già appurati, alla Costituzione cilena. Un progetto questo che "violenta gravemente i diritti dei popoli" e che è già stato approvato dalla Comisión de Constitución, Legislación y Justicia y Reglamento del Senato, dopo un dibattito a porte chiuse. E, come se non bastasse, sia il testo che la sua votazione sono caldamente promosse dalla Presidenza della Repubblica.

Manovre giuridiche. Mascherando la manovra con un atto formale di riconoscimento di quei popoli, in realtà il testo definisce la nazione cilena "una, indivisibile e multiculturale", riconoscendo semplicemente la presenza dei popoli in territorio cileno, senza specificarne nessuna rilevanza politica: "Lo Stato riconosce l'esistenza dei popoli indigeni che abitano il loro territorio e il diritto delle sue comunità, organizzazioni, membri...". Vale a dire: degni di diritto non sono direttamente i popoli, bensì solo le comunità e i singoli. Inoltre, anche quanto viene riconosciuto a queste comunità, secondo Vera Millaquén , Coordinadora Andina de Organizaciones Indígenas, (Caoi), è "molto poco".
Nel testo si riconosce alle comunità indigene il diritto a "conservare, rafforzare e sviluppare la propria identità, cultura, lingua, istituzioni e tradizione e a partecipare nella vita economica, sociale, politica e culturale del paese nella forma che stabilisce l'ordinamento nazionale". Punto e basta. Nessun riconoscimento al diritto che i popoli hanno di amministrare secondo la propria legge ancestrale i propri territori. Niente. E in più, la suddetta Commissione del Senato ha approvato la riforma senza rispettare il requisito di "consultare i popoli interessati mediante procedimenti adeguati" e "attraverso le loro istituzioni rappresentative". Requisito imposto dal Convegno 169 della Oit, ratificato dal Cile nel settembre 2008. Anzi, è chiaro che questa riforma ha lo scopo di limitare proprio i dettami del 169, come volevano fare i senatori cileni prima della ratifica, con la fallita "dichiarazione interpretativa". L'intenzione, secondo gli indios andini, è anche limitare quanto stabilisce la Dichiarazione sui diritti dei popoli indigeni dell'Onu. "Il governo ha fatto un patto con la Ultra destra per approvare questa riforma costituzionale, un vero e proprio disconoscimento di diritti", ha precisato la Coordinatora.

Calpestati in toto. Dicendo, "la Legge protegge la proprietà sulle terre delle persone e delle comunità indigene e i loro diritti a sfruttarne le acque in conformità con quanto stabilito dalla Costituzione e dalle leggi" cilene, la riforma violenta, sempre secondo l'analisi della Coordinadora Caoi, i diritti riconosciuti dai trattati internazionali riguardo i territori ancestrali e le fonti di acqua.
Stessa cosa per il diritto consuetudinario dei nativi, calpestato in toto. Il testo afferma: "I popoli indigeni potranno organizzare la loro vita in accordo ai loro costumi, sempre che questi non contravvengano la Constitución e le leggi" dello Stato cileno.

Senza reali diritti. In sintesi, il governo cileno sta cercando di ingabbiare il diritto indigeno internazionalmente riconosciuto e protetto da convegni e trattati, ai quali lo stesso Cile si è sottomesso. Una situazione che i Mapuche e le organizzazioni indigene della regione andina hanno denunciato con forza agli organismi in difesa dei diritti umani, alla Oit, all'Onu e alla comunità internazionale tutta. Mettendo la dicitura "somma urgenza" sul punto che riguarda gli indios, il governo però vuole anticipare l'arrivo del commissario Onu accogliendolo con la parte contestata già approvata.
"Siamo stati a Valparaíso per parlare con i senatori - ha spiegato. Abbiamo convocato la Presidente affinché ritiri il progetto. Abbiamo parlato con gli esponenti della Chiesa Cattolica. Ci siamo rivolti al Relator Onu e abbiamo parlato con chiunque potesse esercitare qualsiasi tipo di influenza. Ma il governo Bachelet continua nel suo irrinunciabile compito di lasciarci senza reali diritti".

Stella Spinelli
 

7 aprile

 

Forza Nuova: silenzio a Piazza Missori

Forza Nuova raduna i suoi e invita al Cavalieri i leader ultranazionalisti delle destre europee

In un hotel del centro a due passi dal Duomo, Forza Nuova (Fn) - il movimento nazionalista e fascista guidato dall'eurodeputato Roberto Fiore - ha invitato i leader dell'ultradestra francese, inglese e cipriota a un convegno per discutere della crisi economica mondiale e dei suoi risvolti in Europa. L'argomento, in realtà, è stato trattato solo in punta di lingua. Senza perdere troppo tempo si è arrivati subito al dunque: fermare l'avanzata dell'Islam nell'Europa cristiano-romano-ellenica; chiudere le porte dell'Unione Europea alla Turchia "che con i suoi ritmi di crescita demografica presto ci inghiottirà tutti"; fermare i rom, gli asiatici e gli africani.

Milano, ore 13. Il clima intorno all'Hotel dei Cavalieri è surreale. Le forze dell'ordine hanno transennato la zona: via Albricci, via Mazzini, Corso Italia sono mantenute in chiusura ermetica da un centinaio di carabinieri. Dalle 13 non si passa e anche la stazione della metro gialla Missori è chiusa. Il silenzio nella città di Milano è qualcosa di veramente raro. Gli unici suoni presenti nella piazza sono i break multi-tono delle ricetrasmittenti e il volo circolare di un elicottero. Chi si aspettava un'irruzione di manifestanti della sinistra, o anche un solo tentativo di farsi sentire (così come facevano presagire i comunicati lanciati a tamburo battente su blog e stampa), ha capito subito che la domenica sarebbe passata liscia e pigra, senza scosse.

Ore 14. Alla spicciolata arrivano i primi ‘camerati'. A gruppi di tre, quattro sparsi nella hall si scambiano vigorose strette d'avambraccio ma timidi saluti romani, per non incappare forse nella censura della security di Fn, che preferisce tenere certi segni di appartenenza fuori dalle sortite pubbliche. Nell'attesa si beve una sanbuca "con un solo cubetto di ghiaccio" e qualche birra. Poco dopo arrivano i relatori della conferenza: il padrone di casa Roberto Fiore, Simon Darby del British National Party, Bruno Gollnish del Front National, e Stratos Karanikolaou del movimento cipriota Proti Grammì (Linea di Fronte). C'è fibrillazione: i ragazzi della sicurezza e quelli dell'organizzazione si muovono per garantire un caloroso benvenuto ai loro ospiti. Contemporaneamente, fuori, si aprono le porte dei quattro bus dell'Atm incaricati di portare i ragazzi di Fn dalla sede di piazza Aspromonte all'hotel in piazza Missori.

Ore 15. La sala Carmagnola, al secondo piano dell'albergo, non riesce a contenere i circa 500 militanti di Fn. In molti si accontentano di schiacciarsi contro il muro o di rimanere appena fuori, nel foyer. In platea ci sono due presenze particolari: padre Tam, prete da sempre vicino al movimento dell'ultradestra, scelto da Fn come candidato sindaco a Bologna e Natale Gattuso, classe 1928, venerato dai giovani camerati: Natale a 15 anni si è arruolato nelle Brigate Nere e suo padre era anche il suo capitano. Sul cappello porta lo stemma della Repubblica di Salò; al collo, la foto di quando era un giovane repubblichino in divisa, e quella del Duce, di Benito Mussolini. "Il fascismo non morirà mai, è un valore troppo importante", dice più volte ai ragazzi che, con ammirazione, gli stringono la mano.
A prendere la parola per primo è Paolo Caratossidis, il coordinatore nazionale di Fn. Le sue parole fanno riferimento alla polemica che ha preceduto l'incontro del 5 aprile: "Noi di certo non siamo gli adoratori della Costituzione, ma la rispettiamo. In base alla Costituzione noi abbiamo il diritto di riunirci e proprio chi si erge a difensore della Carta voleva impedircelo. La città è stata militarizzata, ma non si capisce per difendere chi da chi". Le centinaia di migliaia di euro spese per pagare gli straordinari alle forze dell'ordine potevano servire, secondo Caratossidis, "a riportare un po' di pulizia e dignità nelle strade di Milano".

Gli anticorpi d'Europa. "Cari compatrioti europei", esordisce Gianni Correggiari, vice segretario di Fn, "il nostro nemico si chiama ‘liberal capitalismo'. Questo mostro, svuotando le democrazie dei suoi contenuti, svuotando l'Europa del concetto di Dio, di tradizione, cultura e patria ci ha imposto la droga, l'aborto e l'eutanasia. I liberal capitalisti vogliono sostituire le decine di migliaia di bambini abortiti con decine di milioni di immigrati. L'Europa è una patria malata, cari compatrioti, ma noi saremo i suoi anticorpi".

La ricetta di Fiore. Gli interventi di Gollnish, Karanikolaou e Darby sono accomunati dalla stessa cifra: allontanare la minaccia dell'immigrazione, dell'Islam, della Turchia. Difendere strenuamente l'identità dell'Europa costruita sulle fondamenta di Roma e di Atene, resistere alla "dittatura del mondialismo" e far trionfare il nazionalismo.
Poi il boato, il microfono è nelle mani di Roberto Fiore che orgogliosamente raccoglie gli applausi per aver portato a Milano "un pezzo di Europa, di Europa buona". Perché è stato scelto per questo 'evento storico' la Domenica delle Palme? "Perché certamente duemila anni fa noi saremo stati lì tra quelli che salutavano il Salvatore e non certo tra quelli che 5 giorni dopo lo hanno crocifisso". Dopo due millenni, secondo Fiore, quella dicotomia culturale rimane attuale. La ricetta del segretario di Fn ha pochi ingredienti: blocco delle immigrazioni e ‘umano rimpatrio', sospensione del Trattato di Shengen - "che sennò entrano pure i rom di Romania" -, espulsione dei criminali e interruzione delle relazioni diplomatiche con la Libia, rea di non aver rispettato gli accordi con il governo italiano di fermare i flussi migratori. E poi il tocco finale che ha fatto venir giù la sala: "Tutti devono sapere che quando toccano le nostre donne, scoppia la ribellione popolare".

Il congedo. Poco dopo le 17 tutto è finito. Fuori, i quattro autobus sono già pronti con le porte aperte che aspettano di riportare i 400 di Forza Nuova là da dove erano partiti, in piazza Aspromonte. E fuori nulla è cambiato se non che l'asfalto è bagnato per un velocissimo scroscio di pioggia. Solo un ‘contestatore' si è fatto vivo: si tratta di Emanuele Fiano, deputato Pd e figlio di un deportato di Auschwitz che ha avuto il tempo di esprimere li suo disappunto ai microfoni della stampa.
Chi temeva (o auspicava) il ritorno agli Anni Settanta, può tirare un sospiro di sollievo (o mettersi con l'animo in pace): oggi non era giornata.

Nicola Sessa

 

Cecenia, una guerra e una pacificazione violenta

Buttino Marco e Rognoni Alessandra, Zamorani 2008
Scritto per noi da Maria Elena Murdaca

Ho visto un documentario sulla Cecenia mentre ero all'estero...ho pianto tantissimo, poi ho deciso che non ne volevo più sapere
M.V., 26 anni, russa

Noi russi siamo stanchi di queste cose, non vogliamo più sentire
N.N., 29 anni, russa

Per il fatto che loro non vogliono sapere, noi moriamo
B.A., 26 anni, ceceno

Sapere. Non è solo un diritto. In alcuni casi è anche un dovere, un imperativo categorico. Quando si tratta di guerra, di violenze, di torture, la repulsione è un istinto naturale. Ma non è giusto nei confronti di chi la guerra, la violenza e la tortura le ha sperimentate sulla propria pelle. E' così che l'informazione a volte può trasformarsi in un atto di giustizia morale. Quando si parla di Cecenia è facile farsi prendere dall'emotività o dall'incredulità. Mantenere un atteggiamento obiettivo e cercare di capire che cosa è veramente successo, senza lasciarsi travolgere dalle emozioni non è facile, eppure è doveroso se si vuole fare chiarezza, perché un'informazione distorta è dannosa quanto l'assenza di informazione.

Per questo è più che benvenuto il volume "Cecenia. Una guerra e una pacificazione violenta", che accompagna l'omonima mostra fotografica esposta a Torino e dedicata ad Anna Politkovskaja, curata da Marco Buttino e Alessandra Rognoni, in collaborazione con Memorial e Memorial Italia, che hanno messo a disposizione di quanti vogliono sapere la loro vasta e approfondita competenza scientifica in materia di Cecenia, realizzando un'opera che al momento è quanto di più completo ci sia sull'argomento in lingua italiana, e probabilmente una delle più pregevoli in circolazione, a livello internazionale. Un lavoro impegnativo, perché, come precisa Marco Buttino nell'introduzione, qualsiasi visione manichea del conflitto non rende giustizia all'intricata realtà dei fatti. La questione cecena è materia estremamente complessa. I fattori in gioco sono molteplici, e non sempre di immediata comprensione. La scarsa conoscenza della storia della regione non aiuta.

Il volume è composto da 12 capitoli e due sezioni fotografiche. Dodici capitoli, ognuno dedicato all'approfondimento di un aspetto della questione cecena. Già solo questo dato, preso singolarmente, dà l'idea del labirinto in cui si sta per addentrare il lettore che voglia saperne di più. Dodici capitoli realizzati da un'equipe di esperti e accademici di livello internazionale: russi, americani, ceceni e, naturalmente, italiani, hanno lavorato per garantire l'alto livello scientifico della pubblicazione. Alcuni interventi trattano aspetti decisamente trascurati dai media, anche se occorre precisare, che a parte gli spettacolari attentati a Mosca e in Ossezia del Nord i media occidentali, e in particolare quelli italiani, non hanno mai dedicato grande attenzione alla copertura mediatica di un conflitto che si trascina da più di 10 anni, e ci piacerebbe saperne la ragione. Apre e chiude la rassegna dei saggi la co-curatrice della mostra Alessandra Rognoni. Il suo essay indaga gli avvenimenti in Cecenia nei dieci anni precedenti il crollo dell'Urss, dando particolare rilievo al tema del recupero della memoria, negli anni in cui si sono create le premesse del conflitto, consentendo di inquadrare tutti i contributi successivi. La sua raccolta di interviste "Voci dal Caucaso", in chiusura, ci ricorda che quando si parla di guerre, si parla sempre e comunque di persone.

Il contributo di Georgi Derlughian, anch'esso di taglio storico, illustra le circostanze economiche, sociali e politiche che hanno portato i due leader El'cin e Dudaev ad optare per una guerra che avrebbe potuto e dovuto essere evitata. Matthew Evangelista scende nel dettaglio dei tre periodi del conflitto, distinguendo la guerra di El'cin, il periodo di assenza di combattimenti fra le due guerre, e la guerra di Putin. Mairbek Vatchagaev, portavoce del Presidente Makhadov, dedica il suo intervento alle dinamiche interne alla regione, soffermandosi sul fenomeno della guerra cecena come fattore di aggregazione e catalizzatore dei gruppi religiosi estremisti del Nord Caucaso, che da unità sparse e autonome sono convogliate in un'unica rete armata, con direzione e supervisione cecene. Aleksandr Cherkasov descrive nel dettaglio gli equilibri di potere su cui si basa oggi la (fragile) stabilità della Cecenia, vanto delle autorità locali e federali. La vicenda della famiglia Kadyrov e il passaggio dal fronte indipendentista al fronte federale rappresentano il focus del saggio di Giovanni Bensi.

La toccante testimonianza di Svetlana Gannushkina racconta invece le difficoltà umane e burocratiche a cui sono andati incontro gli sfollati delle diverse etnie, russi inclusi, che hanno lasciato Grozny all'inizio della guerra, lasciati senza la minima assistenza da parte delle istituzioni e costretti a rientrare senza che fossero state ripristinate le basi più elementari della sicurezza. Alexis Berelowitch si concentra sulla percezione che l'opinione pubblica russa ha avuto delle guerre e degli eventi più tragici ad esse collegati, con l'aiuto delle cifre fornite dal Levada Centr, il più autorevole centro di studi sull'opinione pubblica in Russia. Anna Zafesova parla invece dei media russi e di come questi abbiano raccontato ai Russi il conflitto ceceno, quando ancora si poteva parlarne, e del cambiamento sopraggiunto con la seconda guerra cecena, legata al nome di Vladimir Putin e in particolare dello stretto controllo messo in atto dopo la presa del Teatro Dubrovka. L'avvocato ceceno Lidija Jusupova, due volte candidato nobel per la Pace, descrive le durissime pressioni psicologiche cui va incontro chi decide di adire alla Corte di Strasburgo, condizioni che riguardano i ricorrenti e i loro avvocati. Ludovica Poli si sofferma sull'aspetto giuridico, illustrando i meccanismi applicati dalla Corte Europea ai casi che i ricorrenti ceceni sono riusciti a portare al vaglio di Strasburgo.

Le due sezioni fotografiche raccolgono invece le immagini in esposizione alla mostra, con gli scatti di Heidi Bradner e Dima Belyakov, unitamente alle fotografie documentarie fornite da Memorial. Grozny in rovine, bambini sfigurati dalle mine, madri russe e cecene alla ricerca dei propri figli, i campi profughi, volti noti, da Basaev a Gennadij Troshev, Maskhadov, Lebed, Dudaev, El'cin; la ricostruzione di Grozny, con le grottesche gigantografie di Putin e Kadyrov padre e figlio; i guerriglieri ceceni, i soldati russi, le operazioni antiterrorismo. E, naturalmente, le immagini che - a differenza di quelle dei bambini ceceni mutilati dalle mine o delle famiglie degli sfollati nei campi profughi- hanno fatto il giro del mondo: la Dubrovka e Beslan.

Un ringraziamento alla Città di Torino e al Museo Diffuso della Resistenza, della Deportazione, della Guerra, dei Diritti e delle Libertà, per aver consentito la realizzazione dell'opera, è d'obbligo.

 

Sequestrata e torturata in piena democrazia

La moglie del procuratore che indaga sui crimini commessi durante la guerra civile in Guatemala è stata rapita e seviziata

Uomini non ancora identificati il 25 marzo hanno tenuto sotto sequestro per 13 ore la moglie del procurador dei diritti umani del Guatemala, Galdys Monterroso, che ha dovuto sopportare violenze e torture. "Sono stata torturata in piena democrazia, in pieno XXI secolo". Queste le parole che Gladys Monterroso ha voluto pronunciare dopo la tragica esperienza. "Adesso non siamo in guerra, stiamo vivendo in una giungla. Non passa un giorno in cui non siamo costretti a contare i morti".

Barbarie. Secondo quanto dichiarato dal marito, il procuratore Sergio Morales, tre persone incappucciate l'hanno prelevata alle sette del mattino a Città del Guatemala, mentre la donna stava andando a lavoro. "Alle 8 di sera è riapparsa, drogata e stordita, in una via della zona 18 della capitale", ha spiegato Morales, spiegando che da un mese le forze dell'ordine erano a conoscenza di un piano contro di lui, che da tempo è minacciato come lo sono tutti i suoi colleghi della Procuradoria. "Mi sento molto solidale - ha aggiunto - con tutte le famiglie che passano e hanno passato questo penoso calvario della desaparicion", sottolineando che si impegnerà ora più che mai per porre fine "a questa terribile barbarie".

Guatemala oggi. Un episodio che si inserisce perfettamente nel Guatemala 2009, un paese teatro di continue violenze, tanto da occupare le prime posizioni delle statistiche dei paesi più pericolosi al mondo. Secondo le cifre del Grupo de Apoyo Mutuo, (Gam), fra le principali associazioni guatemaltece nella difesa dei diritti umani, il 2008 ha contato 3305 morti ammazzati. Numeri che si sono ripetuti nel 2007, 3319, nel 2006, con addirittura 5.885 e via via a ritroso fino alla firma che siglò la fine del conflitto interno, che piegò il paese con oltre 200mila morti. Un filo conduttore, quello rosso sangue, che non sembra destinato a spezzarsi.

Il fantasma della guerra civile. Ed è proprio in una faccenda legata alle responsabilità nel conflitto armato interno che sono da ricercare i motivi del brutale sequestro lampo. La moglie di Morales è stata rapita proprio poco dopo che il procuratore aveva reso pubblico lo studio sugli archivi della ex Polizia Nazionale, dove si trovano documenti scottanti che inchiodano i responsabili di molti omicidi e sparizioni risalenti a quel lungo e buio periodo.
"Il sequestro di Gladis Monterroso deve essere chiarito e non restare impunito - ci spiega Mario Polanco, direttore del Gam -. E' evidente che siamo di fronte a un chiaro messaggio minatorio rivolto a coloro che lavorano per una Guatemala diversa. Gladis Monterroso è un noto avvocato e notaio, professoressa universitaria, e in più Secretaria General Metropolitana de Encuentro por Guatemala. Allo stesso tempo è la moglie dell'uomo che in questo momento sta lavorando a importanti casi contro i responsabili di violazioni dei diritti umani, e che solo 11 ore prima del sequestro aveva consegnato pubblicamente il primo documento con i risultati ottenuti dallo studio degli archivi della Policia Nacional". Quindi spiega che il fatto che i sequestratori non abbiano avanzato nessuna richiesta di riscatto e che abbiano invece inviato attraverso la donna una serie di messaggi al procurador va a confermare ulteriormente questa tesi.

Nessun dubbio sui colpevoli. "Gladys è stata interrogata e bruciata con la sigarette in varie parti del corpo - aggiunge Polanco - E questo è il medesimo metodo usato dai militari che durante il conflitto hanno commesso ogni tipo di violazione dei diritti umani. Si trattava di crimini che si ripetevano costantemente ogni giorno contro dirigenti sociali, studenti, sindacalisti. Quindi non ci sono dubbi: i colpevoli sono gli stessi, i medesimi aguzzini che fecero sparire e assassinarono migliaia di persone per ragioni politiche e che ora cercano di evitare di essere indagati e accusati per questi delitti".

Le colpe del governo. "Durante questo governo (di Álvaro Colóm ndr.) le istituzioni sono andate indebolendosi, specialmente quelle che dovrebbero garantire la giustizia - conclude il direttore Polanco - Il Grupo de Apoyo Mutuo considera questo caso uno spartiacque che può dare la possibilità di passare dall'immobilismo all'efficacia. Questo crimine può essere indagato e i colpevoli arrestati, ma lo si deve fare immediatamente. Al contrario, si invierà un messaggio negativo alla popolazione, che andrà solo ad alimentare la sfiducia nel governo e la sfacciataggine dei criminali, protetti dall'impunità".

Stella Spinelli

 

2 aprile

 

Cessate il fuoco

Il bollettino settimanale delle guerre e dei conflitti in corso n.12 - 2009 dal 19/03/2009 al 25/03/2009

Nell'ultima settimana, in tutti i paesi in guerra, sono morte almeno 954 persone

Sri Lanka
Nell'ultima settimana sono morte almeno 486 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 4.186

Afghanistan
Nell'ultima settimana sono morte almeno 186 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 1.072

Iraq
Nell'ultima settimana sono morte almeno 92 persone
Dall'inizio dell'anno sono morte almeno 1018 persone

Nord Caucaso
Nell'ultima settimana sono morte almeno 32 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 112

Pakistan Talebani
Nell'ultima settimana sono morte almeno 27 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 1.348

India Kashmir
Nell'ultima settimana sono morte almeno 25 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 67

India Nordest
Nell'ultima settimana sono morte almeno 22 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 180

Colombia
Nell'ultima settimana sono morte almeno 22 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 33

India Naxaliti
Nell'ultima settimana sono morte almeno 13 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 172

Rep. Dem. Congo
Nell'ultima settimana sono morte almeno 12 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 379

Somalia
Nell'ultima settimana sono morte almeno 10 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 288

Algeria
Nell'ultima settimana sono morte almeno 9 persone
Dall'inizio dell'anno sono morte almeno 89 persone

Nigeria
Nell'ultima settimana sono morte almeno 6 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 121

Thailandia del sud
Nell'ultima settimana sono morte almeno 5 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 58

Sudan
Nell'ultima settimana sono morte almeno 3 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 337

Filippine Npa
Nell'ultima settimana sono morte almeno 3 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 69

Filippine Milf
Nell'ultima settimana è morta almeno 1 persona
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 98

 

Congedo con disonore

Condannato a 35 anni di prigione il sergente che guidò l'esecuzione di quattro iracheni. Il sergente Joseph Mayo, 27 anni, è stato condannato dalla corte marziale a 35 anni di carcere per aver ucciso nel 2007 quattro iracheni detenuti a Baghdad.

Esecuzione sommaria. La formulazione dell'accusa prevedeva anche la pianificazione e la premeditazione, di quella che è stata definita dalla corte una vera e propria esecuzione sommaria. I quattro iracheni furono uccisi per ritorsione in seguito a un attentato portato contro una pattuglia Usa che causò la morte di due soldati statunitensi appartenenti all'unità di Mayo. Sebbene non fosse stato trovato un diretto coinvolgimento dei quattro iracheni nell'agguato alla pattuglia, questi furono portati alla base dell'unità per essere interrogati. Gli uomini furono imprigionati sulla base del ritrovamento di armi e munizioni nella casa dove abitavano. Successivamente, il militare più alto in grado, il sergente John Hatley chiese a Mayo di "prendersi cura" dei prigionieri ed evitare che ritornassero liberi di compiere nuovi attentati contro la loro unità. Il sergente di primo grado Joseph Mayo, fece bendare i quattro detenuti e con le mani legate furono fatti salire su un furgone. Appena raggiunta una zona periferica, furono disposti in ginocchio davanti a un canale: quattro colpi alla nuca, e i corpi caddero come sacchi nelle acque del canale.

Ammissione di colpevolezza. Nel corso dell'interrogatorio che si è svolto nella base Usa Rose Barracks di Bad Kreuznach, in Germania meridionale, il sergente Mayo si è dichiarato colpevole sostenendo, però, di aver agito nell'interesse dei suoi soldati: "Non esiste cosa peggiore che perdere un tuo commilitone, dover chiamare le famiglie, le fidanzate e dire che hai fatto tutto il possibile ma che purtroppo il loro congiunto è morto", ha detto il sergente al giudice, il colonnello Jeffrey Nance. Secondo quanto risulta dagli atti del processo, che si è svolto a porte chiuse con la sola presenza dell'imputato, dell'avvocato e del giudice, l'esecuzione non era necessaria in quanto né il sergente, né i suoi uomini (per sua stessa ammissione) si erano trovati in situazione di pericolo.

Congedo con disonore. Un teste a favore dell'imputato ha dichiarato che l'unità era sotto forte stress: "C'era un'atmosfera di frustrazione e paura" causata dai frequenti attacchi portati contro le loro pattuglie.
Il sergente Mayo è stato degradato e congedato con disonore. Sconterà la sua pena nel carcere militare di Fort Leavenworth, Kansas. Il 27enne militare ha chiesto scusa per la sua condotta e per aver danneggiato l'immagine dell'esercito degli Stati Uniti d'America, ma, ha detto: "Io credo di aver agito per legittima difesa, mi preoccupavo solo della sicurezza dei miei uomini". La logica infatti era che un iracheno arrestato, sarebbe stato rilasciato nel giro di pochi giorni tornando a costituire un pericolo per le truppe Usa. Per evitare ciò, si procedeva dunque a una giustizia sommaria e "preventiva".

Altri responsabili. Mayo non è il primo ad essere condannato per questo caso: all'inizio dell'anno, il sergente Joseph Leahy, si è visto emettere una sentenza a vita. Mayo, fra dieci anni potrà invece essere rilasciato sulla parola dal momento che ha deciso di collaborare e di testimoniare contro il sergente istruttore Hatley, il più alto in comando dell'unità, che ha orchestrato la regia dell'esecuzione. Il suo processo è previsto per il 13 aprile.

Nicola Sessa

 

Per un pugno di terra

"Sei anni sono tanti, resistere è difficile". Viaggio in uno dei tanti accampamenti del Movimento dos Sem Terra (Mst) in Brasile

di Carlo Cascione

"Sei anni sono tanti, resistere è difficile". Siamo in uno dei tanti accampamenti del Movimento dos Sem Terra (Mst) sparsi in Brasile. Ci accolgono Alcido e Vera, due delle seicento persone che vivono in quella che è una baraccopoli, qualche chilometro più a ovest della città di Caceres, nello stato del Mato Groso (il più grande produttore mondiale di soia).

Le case sono di legno, paglia e plastica. Non c'è nessuna installazione elettrica né acqua corrente. Da più di dieci anni l'Mst organizza occupazioni di fattorie, strade o semplicemente appezzamenti di terreno abbandonati, per mettere pressione sul governo: l'obiettivo è che conceda la terra a chi vuole lavorarla. Da qualche mese la campagna mediatica contro il movimento si è intensificata, cosi come il conflitto per la terra. Le relazioni tra l'Mst e il governo Lula non sono buone: la riforma agraria approvata dal governo è giudicata insufficiente dal Mst. Per la grande stampa, e molta gente, quelli dell'Mst non sono niente di più che "vagabondi e scansafatiche".

La storia che ci racconta Alcido, la sua, è tutt'altra. Nato nello stato di San Paolo, figlio di contadini, a 10 anni si trasferì nel Mato Grosso, dove il padre era riuscito ad acquistare un piccolo appezzamento di terra. Coltivavano caffè: gli affari andavano bene, avevano di che mangiare, poco più.
Lavoravano "da sole a sole", ma non si lamentavano. Poi le cose iniziarono a girare male, "il clima è cambiato, con la deforestazione progressiva le piogge diminuirono e il caffè non cresceva più" - mi spiega. Ora, nelle stesse terre, si pianta soia (un tipo di coltivazione che richiede pochissima mano d'opera, in quanto privilegia coltivazioni estensive e meccanizzate). I cambiamenti del clima hanno tolto la terra ad Alcido, ma gli hanno lasciato in eredità una macchia rosa sulla guancia: "Un tumore che sto cercando di curare. Oggi non si può lavorare come un tempo, bisogna indossare magliette con le maniche lunghe". Senza più la terra, che dovettero vendere, cercò lavoro in città: per un anno e mezzo fu impiegato in un mattatoio, ma uccidere bestie non è proprio la stessa cosa che lavorare la terra: "All'inizio fu per mia madre che entrai nell'Mst: abituata a vivere in campagna non sopportava stare in città, e il movimento era l'unica possibilità che ci rimaneva per poter avere un pezzo di terra". Era il 2003. Con sua moglie, i suoi due figli (poi ne è nato un terzo) e la madre, iniziarono le occupazioni: più di dieci in sei anni. La madre, all'epoca, aveva ottantadue anni. Nel 2007, durante uno sgombero, si ruppe il femore, sopravvisse per miracolo: "Arrivarono alle sette di mattina, e ci dettero tre ore per abbandonare l'accampamento. Immaginatevi cosa dev'essere fare un "trasloco" in tre ore. Mia madre si spaventò molto, mentre usciva dell'accampamento cadde e si ruppe il femore. L'ambulanza arrivò solo cinque ore dopo".

"Siamo contadini, non possiamo vivere senza la terra" risponde timido. "La vita in città è un'altra cosa, non fa per noi", aggiunge. In fondo non chiedono molto: solo 25 ettari in una terra che ne dispone milioni, molti dei quali concentrati nelle mani di poche persone (il governatore dello Stato, Blairo Maggi, possiede 200.000 ettari coltivati a soia). Attualmente vivono grazie alla "borsa famiglia" del governo Lula, una cesta basica di prodotti che bastano appena per alimentarsi, e a qualche lavoretto in campagna al servizio di altri: venti reais (sette euro) per dieci ore di lavoro, in nero. I figli vanno a scuola con un autobus, quando il tempo lo permette. "Non so quanto ancora riusciremo a resistere, l'unica cosa che ci fa andare avanti è il sogno della terra, di quei 25 ettari che ci permetterebbero di portare avanti una vita decente".

 

 

1 aprile


 

La nuova ondata

di Fabrizio Gatti
Dal Niger quasi 10 mila africani fuggono verso le nostre coste. La guerra per l'uranio e l'alleanza Gheddafi-Sarkozy favoriscono i trafficanti. E gli accordi Italia-Libia diventano così una beffa.
Visto da Agadez, l'ultimo abbraccio tra il premier Silvio Berlusconi e il colonnello Muhammar Gheddafi è una beffa. In questa splendida città di fango rosso in mezzo al Sahara in Niger, l'accordo sull'immigrazione ratificato a Tripoli il 2 marzo scorso è già carta straccia. Da Agadez i camion e i fuoristrada stracarichi di emigranti africani che sperano di arrivare a Lampedusa, in Italia o in Europa hanno ripreso i loro viaggi verso la Libia. Il traffico è ripartito come ai tempi d'oro. Sotto lo sguardo indifferente e spesso interessato dell'esercito libico che controlla la pista di rocce e sabbia alla frontiera di Tumu, nel silenzio del deserto.

Gheddafi, a sud del Sahara, oggi è soltanto un esecutore di decisioni prese a Parigi. Per fermare o rallentare la marcia dei clandestini verso il loro futuro, Berlusconi dovrebbe piuttosto chiedere l'intervento del presidente francese Nikolas Sarkozy: perché la via ai trafficanti di uomini è stata riaperta proprio grazie alla guerra dei tuareg. Una guerra per l'uranio sostenuta dalla Francia nella regione di Agadez (vedi cronologia a pagina 36). Da novembre 2008 migliaia di persone sono passate dalla città rossa per andare a nord. Con un record di partenze tra gennaio e febbraio: quasi 10 mila ragazzi e ragazze in fuga dall'Africa occidentale. Dalla prossima estate capiremo se questa generazione di ventenni avrà trovato lavoro in Libia o apparirà nei telegiornali sui barconi alla deriva nel Mediterraneo. Il loro obiettivo, dicono, è arrivare in Italia o da qualche parte in Europa.

Il 24 febbraio Berlusconi ha incontrato Sarkozy. Ma non gli ha parlato di immigrazione. I due hanno discusso di ritorno all'energia nucleare in Italia. E di contratti per miliardi di euro da oggi al 2030 a vantaggio di Parigi. Areva, il colosso statale del nucleare francese, ha bisogno di nuovi clienti. Perché dal 2012 la società avrà così tanto uranio a disposizione che, per ammortizzare un investimento iniziale di 1,2 miliardi di euro, deve trovare subito qualcuno disposto a comprarlo. Altrimenti rischia di pagare cara la crisi finanziaria in cui è caduta. Tutto quell'uranio, però, non è ancora arrivato in Francia. Per il momento è in Niger, vicino ad Agadez: a Imouraren, sotto la sabbia nel mega-giacimento che comincerà a produrre fra tre anni, il secondo al mondo dopo McArthur River in Canada.
 
Quello che nella sua visita a Roma il 24 febbraio Sarkozy non ha detto a Berlusconi è che la Francia in Niger ha giocato una partita sporca. Come era abituata a fare in Africa ai tempi del generale Charles de Gaulle. E solo alla fine Areva è riuscita a strappare al Canada e alla Cina la concessione per il mega-giacimento di Imouraren. Ma Sarkozy nemmeno ha raccontato a Berlusconi che i tuareg, sostenuti dagli 007 francesi nei giochi di guerra, si sono rimessi a trafficare con gli emigranti che vogliono approdare in Italia. In fondo, si tratta sempre di energia e forza lavoro destinate ad alimentare l'economia europea. La differenza è che i minerali di uraninite trasformati in sali di uranio viaggiano protetti fino agli impianti di arricchimento in Francia. Gli emigranti sono invece sottoposti a ogni tipo di violenze e il 12 per cento muore prima di arrivare in Europa.

È italiano uno dei testimoni di questo gioco sporco francese. Un commerciante di Torino, T. P., 50 anni, fermato per immigrazione clandestina in Niger. Abitava ad Agadez. Ha trascorso qualche mese nel deserto con i guerriglieri tuareg. E quando ha tentato di lasciare il Niger è finito in commissariato. La polizia l'ha messo sotto torchio e lui che aveva il permesso di soggiorno scaduto, in cambio della liberazione ha dovuto raccontare quello che sapeva. Alla fine è stato espulso. Cittadino indesiderato. L'intreccio tra la via dei clandestini e la via dell'uranio va raccontato proprio da Agadez, dove il commerciante torinese aveva aperto un negozio e dove migliaia di ragazzi africani ora approdano con la certezza di sopravvivere al deserto che li aspetta.

La città-monumento al tramonto si incendia di rosso. Non sembra però una comunità sotto assedio, né in guerra. A parte i pastori nomadi tamashek venuti ad accamparsi nelle vie del centro, lontano dalle piste infestate dalle mine e dalle imboscate. Sulla strada asfaltata davanti all'autogare, l'autostazione dove arrivano gli autobus e partono i camion del deserto, gli affari vanno al massimo. Centinaia di bancarelle sui due lati della via vendono di tutto. Dalle scarpe usate ai filoni di pane fresco. Sacchetti di datteri e biscotti. Barattoli di latte in polvere. Bidoni di olio ricoperti di cartone e canapa e riciclati come taniche d'acqua. Passano carretti spinti a mano. Persone ovunque. È il mercato dei poveri. Il posto di rifornimento di quanti aspettano la partenza e cercano di spendere il meno possibile. Perché ogni giorno di attesa è una piccola erosione ai 250 euro che servono per attraversare il Sahara fino in Libia. E, per chi li ha già a disposizione, ai 1.500 euro chiesti dai passatori libici di Al Zuwara per sfidare la vita fino a Lampedusa. Gli emigranti bloccati ad Agadez mangiano il meno possibile per non mettere a rischio il piccolo capitale necessario al viaggio. Spesso solo gari, un impasto energetico fatto con le radici di tapioca.

Ma questa strada è anche un mercato per ricchi. È la contraddizione di ogni guerra. Vicino alla moschea un commerciante vende auto argentee importate o contrabbandate dalla Nigeria. E la fila di negozi sotto i portici, una decina di locali un tempo abbandonati e invasi dalla sabbia, ora sono puliti. Non hanno insegne, non hanno manifesti pubblicitari appesi alle vetrine. Ma sono agenzie di viaggio. Broker, passeur, mediatori. Prendono in consegna gli emigranti in arrivo da Nigeria, Ghana, Liberia, Benin, Mali. E in questi mesi, per la prima volta, anche dal Senegal. L'età di questa generazione in fuga va dai 14 ai 30 anni. Hanno un progetto, un'idea, un sogno da realizzare. Sono i fratelli e le sorelle minori degli emigranti passati da Agadez tra il 2003 e il 2005. Sanno che le loro braccia si aggrapperanno sicuramente a un lavoro. Il passaparola e l'esperienza di quelli sopravvissuti prima di loro raccontano che è dura, ma qualcosa si trova. I clandestini come motore insostituibile della ricchezza sommersa. Soprattutto in Italia dove la produzione esentasse e in nero rappresenta il 23 per cento del Prodotto interno lordo.

Dentro il cortile dell'autogare centinaia di persone aspettano che tramonti anche questo giorno. Una postazione di soldati, con mitragliatrice pesante montata sul fuoristrada, sorveglia l'ingresso. A guardare bene ci sono soldati ovunque. Meglio non entrare. Ad Agadez oggi è vietato fare domande, fare fotografie, fare riprese filmate. Può capitare di essere visti o ascoltati dalle spie in borghese o da chiunque voglia mettersi in mostra con la gendarmeria in cambio di una soffiata. A fine febbraio il presidente del Niger Mamadou Tandja ha rinnovato lo stato d'allerta, proclamato il 25 agosto 2007 come risposta agli attacchi dei tuareg. Nella regione di Agadez la democrazia è sospesa e l'amministrazione è affidata all'esercito. Giornalisti locali e francesi mesi fa sono finiti in cella. E l'arresto è automatico per chiunque venga a fare indagini in città o nel deserto. Gli stranieri, se non sono emigranti in partenza o tecnici minerari, devono tenersi alla larga. E se passano, lo fanno a loro rischio.

La tensione appare già al posto di blocco alla periferia della città. Un ufficiale, sempre con gentilezza, vuole trattenere il passaporto. "Questa è la frontiera", dice: "Agadez in questo momento è come se non fosse in Niger. Qui comandiamo noi". Lasciare il passaporto ai militari significa però rischiare di perderlo. E dover poi affrontare l'ignoto della burocrazia di guerra. L'ufficiale accetta un compromesso: "Allora facciamo così. Stasera un ispettore di polizia verrà in hotel a interrogarla". I militari stanno raccogliendo davanti al loro piccolo ufficio gli emigranti in transito. Scendono dai pullman, dai minibus, dai camion. Oggi, come all'arrivo di ogni convoglio, sono più di 400. Se ne stavano seduti, in cima alla cupola di sacchi, teli e scatoloni. Devono pagare dieci dollari a testa come tassa di passaggio. E chi non ha i documenti in regola, 20 dollari. Già qui l'immigrazione per l'Europa è un affare.

Per arrivare ad Agadez c'è un solo modo. Bisogna unirsi ai convogli scortati dall'esercito. Partono a giorni alterni da Zinder, 431 chilometri di deserto a sud lungo la via dei clandestini. Un viaggio che dura una giornata. In pieno Sahara le dune rosa hanno già coperto la nuova strada asfaltata. I ragazzi dei camion devono scendere. Camminano oltre. Le grandi ruote alleggerite superano le onde di sabbia a tutta potenza. Qualche autista rallenta, ma non si ferma. E i suoi passeggeri devono correre per non rimanere a terra, per non finire abbandonati prima ancora di attraversare la parte più difficile del viaggio. I soldati scortano il convoglio sui loro fuoristrada Toyota armati di mitragliatrice. Dicono che rischiamo un attacco dei guerriglieri tuareg o dei banditi. Ma soprattutto, passando di qui fuori dai convogli, il vero pericolo è di finire impallinati da loro. L'esercito ha l'ordine di sparare a vista. È già successo. Alcuni emigranti sono stati uccisi con gli autisti nel deserto del Ténéré, prima che i militari potessero identificarli. Per arrivare in Italia avevano pagato il viaggio sbagliato.

"Dove li metterete tutti questi immigrati con la crisi che avete in Europa?", sorride un passatore tuareg di Agadez. Ovviamente non vuole essere filmato né fotografato: "Da novembre scorso è come se la Libia avesse dato il via libera. Ora che Gheddafi è stato eletto presidente dell'Unione africana, non può certo rimandare indietro i suoi concittadini africani. Abbiamo saputo che l'Italia investirà in Libia 5 miliardi di dollari. Apriranno cantieri, ci sarà lavoro. Avranno bisogno di manodopera e noi gliela portiamo. Se poi qualcuno vuole proseguire il viaggio in Europa, dal nostro punto di vista è normale. Grazie all'immigrazione clandestina potrebbe addirittura essere firmata la pace. È l'unico punto su cui esercito del Niger, esercito libico, ribelli tuareg e noi tuareg esterni alla ribellione andiamo d'accordo".

L'accordo sottobanco funziona dal novembre 2008. Il problema ora è la mancanza di camion. "Ne stiamo facendo arrivare dalla Nigeria. Abbiamo più gente disposta a partire che mezzi", racconta un altro broker ad Agadez: "A novembre i ribelli tuareg amici della Francia, i militari libici e nigerini e i trafficanti di tutto il Sahara hanno raggiunto un patto: tutti fanno finta di non vedere e incassano la loro parte. Gli autisti tuareg dicevano che senza lavoro, a causa della guerra, si sarebbero uniti alla ribellione. Così adesso l'esercito del Niger scorta i camion fino a Dirkou. I libici chiudono gli occhi. E i tuareg hanno il lavoro. Il limite è che anche per Dirkou bisogna muoversi in convoglio. Fuori convoglio i militari sparano a vista e c'è il rischio delle mine". Quelli di venerdì 13 marzo e martedì 17 marzo sono convogli giganteschi: una fila di decine di fuoristrada e 60 camion carichi di merci, sigarette di contrabbando ed emigranti. Le mine anticarro sono ovunque. In settembre a 40 chilometri dal confine con la Libia, l'esplosione improvvisa sotto le ruote di una camion ha ucciso cinque passeggeri tra cui un ragazzo di 19 anni. Ma l'affare vale il rischio: 10 mila emigranti per 250 euro fanno 2 milioni e mezzo di incasso.

Dirkou in questi giorni è un'oasi che non sa come sfamare i suoi ospiti in transito. Ci sono più stranieri che residenti: oltre 5 mila su 3 mila. Un abitante racconta al telefono che non c'è abbastanza da mangiare per tutti ed è scoppiata un'epidemia di meningite. Almeno 15 emigranti sono morti di fame e di sete negli ultimi giorni e i loro cadaveri sono stati visti dagli autisti di camion a sud di Tumu, la frontiera con la Libia. Forse sono stati abbandonati dai trafficanti, forse avevano deciso di proseguire a piedi.

La fuga dall'Africa è un dramma anche nelle città dove le generazioni più istruite si dissolvono lungo la rotta del deserto. Proprio in questi giorni una delegazione del ministero dell'Educazione della Nigeria è venuta ad Agadez a chiedere alle autorità di non lasciar passare i minori di 15 anni nigeriani. L'incubo sono gli spacciatori di sogni che avvicinano i minorenni davanti alle scuole: non vendono droga, ma un futuro impossibile. "I broker mandano loro emissari davanti alle scuole nigeriane", spiega un funzionario: "Raccontano che arrivare in Italia è facile. Ma una volta in viaggio i ragazzi vengono rapinati dei loro soldi. E le ragazze devono prostituirsi per pagarsi il resto del percorso". Irin, l'agenzia di analisi dell'ufficio Affari umanitari dell'Onu, ha raccolto testimonianze di camion attaccati dai banditi sulla rotta per Dirkou e di adolescenti rapite e scomparse nel deserto.

Tutto questo, dalla fine del 2005 all'autunno 2008, era stato fermato. L'esercito del Niger aveva bloccato il traffico di clandestini lungo la pista degli schiavi: 1.500 chilometri di deserto che attraversano il Ténéré e superata l'oasi di Dirkou salgono in Libia, la rotta che ha avuto il suo picco di emigranti e cadaveri nel 2003 con 15 mila passaggi al mese. Tutto questo non si sarebbe ripetuto se la guerra telecomandata dei tuareg non avesse destabilizzato la regione. A fine 2006 Agadez è ancora una città aperta al mondo e piena di turisti. Ma quelli sono i mesi in cui il costo del petrolio corre. E il prezzo dell'uranio anche. Il presidente Mamadou Tandja e il governo decidono che il Niger può finalmente puntare sulla risorsa strategica di cui è piena la regione di Agadez. Le concessioni per la ricerca dei minerali di uraninite, coffinite e pechblenda vengono messe a disposizione del miglior offerente. La diplomazia francese mugugna. Parigi ha sempre avuto il monopolio dell'uranio in Niger. Lo stabilisce già nel 1961 l'Accordo di difesa firmato tra i due paesi, in piena dominazione coloniale. Il colosso Areva chiede per sé i primi 35 permessi di ricerca. Tandja resiste e rilascia 15 concessioni a società canadesi, sete all'Australia, sei al Sudafrica, solo quattro alla Francia, tre all'India e due a Cina e Russia. In sospeso c'è ancora lo sfruttamento del giacimento di Imouraren, vicino ad Agadez: una quantità di uranio estraibile di 5 tonnellate all'anno per 35 anni che porta il Niger dal quarto al secondo posto tra i paesi esportatori al mondo. E che da solo equivale a tutta la produzione mondiale di Areva.

L'attacco alla postazione dell'esercito nell'oasi di Iferouane, a nord di Agadez l'8 febbraio 2007, è un'azione a sangue freddo. Un piano che ricorda la morte dei dieci soldati francesi massacrati il 19 agosto 2008 in Afghanistan. Da quel giorno di febbraio intorno ad Agadez muoiono padri di famiglia e ragazzi che hanno indossato la divisa in cambio di uno stipendio. Dietro l'assalto di Iferouane però non ci sono i talebani di Al Qaeda. C'è un gruppo minoritario di tuareg fino a quel giorno sconosciuto. Si fanno chiamare Mnj, Movimento dei nigerini per la giustizia, che nel giro di qualche settimana riceve armi e munizioni dalla Libia. A loro si unisce presto il capitano Mohamed Ajidar, comandante di un plotone del Fnis, la Forza nigerina di intervento e sicurezza, reparto dell'esercito costituito da tuareg. Il comandante Ajidar conosce da vicino gli interessi francesi nella regione. Sette mesi prima Areva gli ha affidato la sorveglianza di tre aree di concessione. E gli ha versato sul suo conto personale 56 milioni di franchi africani, 85 mila 365 euro, un capitale da queste parti. Perché tutti quei soldi? Tanto basta a far insospettire il governo che in pochi giorni caccia dal Niger l'ex colonnello Gilles de Namur, responsabile per Areva della sicurezza sul mega-giacimento di Imouraren. Una coincidenza: de Namur è addetto militare all'ambasciata di Francia a Niamey durante la prima rivolta tuareg sostenuta apertamente da Parigi. Il Mnj fa altri morti. E il governo ordina l'arresto e l'espulsione del direttore generale di Areva Niger, Dominique Pin. Nuova coincidenza: negli anni '90 Pin, mentre de Namur lavora in ambasciata a Niamey, fa parte della sezione Africa dell'Eliseo dove il presidente François Mitterrand ha un consigliere che farà strada nell'industria strategica. Il consigliere è Anne Lauvergeon, attuale amministratore delegato di Areva. Il retroscena più delicato sulla presunta benevolenza tra la società statale di Parigi e i nuovi ribelli tuareg lo rivela senza volerlo il commerciante di Torino messo sotto interrogatorio in una camera di sicurezza a Niamey. Racconta che il vice presidente del movimento tuareg, Asharif Mohamed-Almoctar, poi ucciso in combattimento nell'estate 2008, chiama spesso la Francia con uno dei due telefoni satellitari rapinati il 20 aprile 2007 dal cantiere di Areva sul megagiacimento di Imouraren.

La cosa che stupisce la polizia di Niamey, secondo fonti investigative, è che mesi dopo, a fine 2007 e in piena guerra, Areva stia ancora rinnovando il credito dei due telefoni rapinati dai tuareg. Un curioso mistero mai chiarito. Così come resta un giallo la rivendicazione da parte di Al Qaeda del sequestro, tuttora in corso nel Sahara, dell'inviato dell'Onu in Niger: l'ex ambasciatore del Canada a Roma, Robert Fowler, monsieur Afrique nella politica estera di Ottawa, rapito il 14 dicembre a nord della capitale con il connazionale Louis Guay e il loro autista nigerino Soumana Mounkaila. Secondo i giornali del Canada, il paese che in Niger ha fatto il pieno di concessioni per l'uranio, Fowler e Guay si occupavano di miniere fuori dal mandato dell'Onu. Mouadibou Sisse, 19 anni, di Bamako, Mali, nemmeno immagina il risiko che si sta giocando sulla testa di questa terra in cima alle classifiche di povertà. Aspetta l'autobus per Agadez alla stazione di Niamey. Vuole arrivare in Italia per raggiungere la Spagna. È già stato espulso una volta da Madrid. Ma non s'arrende.
 
 
 
 Una proiezione elaborata dal sindacato sulla base dei tagli imposti con la Finanziaria
L'anno prossimo il blocco in 17 atenei su 57, nel 2011 si salirebbe a 37

Cgil, nel 2010 niente assunzioni
in quasi un terzo delle università

di SALVO INTRAVAIA

 
Cgil, nel 2010 niente assunzioni in quasi un terzo delle università

Il ministro Gelmini

Blocco delle assunzioni più o meno in un terzo degli atenei. Nel 2010, secondo una proiezione elaborata dalla Flc Cgil sulla base del taglio operato dal governo attraverso la Finanziaria sui fondi destinati alle università italiane, 17 atenei su 57 non potranno effettuare nuove assunzioni. Sarebbe proprio questo per la Cgil l'effetto della cura dimagrante imposta alle casse universitarie. Entro il 2013 il cosiddetto Fondo per il finanziamento ordinario degli atenei subirà un taglio del 7 per cento circa. Nel frattempo, gli stipendi di professori, ricercatori e personale amministrativo cresceranno e parecchi atenei supereranno il tetto stabilito dal ministro Mariastella Gelmini per individuare le università virtuose: quelle che appunto potranno permettersi di assumere nuovo personale.

La scorsa estate, l'esecutivo ha tagliato il Fondo per il finanziamento ordinario degli atenei: meno 455 milioni entro il 2013. E a gennaio, per spingere le università a spendere in modo più oculato i fondi statali, è stato varato un provvedimento che blocca le assunzioni negli atenei in cui il rapporto fra spesa per il personale e Fondo per il finanziamento ordinario supererà il 90 per cento. La Cgil sulla base dei dati disponibili ha effettuato una proiezione su 57 università.

"La tabella - spiegano da via Serra - è necessariamente indicativa ma è costruita in modo da presentare una lettura prudenziale: eventuali scostamenti possono solo essere in peggio".
Diciassette atenei (Firenze, Pisa, Tor Vergata, Perugia, Pavia, Siena, Trieste, Modena, Udine, L'Aquila, Insubria, Tuscia, Orientale di Napoli, Basilicata, Cassino, Molise e Mediterranea) sforeranno il tetto. Altre due (Camerino e Genova) "si avvicinano pericolosamente al limite".
 

E dopo un anno la situazione peggiorerà considerevolmente. Gli atenei "spendaccioni" saliranno a 37 travolgendo l'intero sistema universitario che, "in assenza di correttivi sostanziali, nel giro di pochissimo tempo, si troverà nell'impossibilità di rinnovare il proprio personale che cesserà dal servizio". La previsione è che "un'intera generazione di studiosi verrà bruciata e il Paese verrà condannato a una marginalità sullo scenario internazionale ed europeo".

Per salvarsi dal blocco del turn-over i singoli atenei dovranno sperare che tanti docenti vadano in pensione. In effetti l'età media di prof e ricercatori universitari è piuttosto elevata (51 anni), soprattutto se confrontata con quella degli altri Paesi europei. Sono i docenti all'apice della carriera (i professori ordinari) che, carta d'identità alla mano, fanno registrare il record. In Italia, metà degli ordinari ha superato i 60 anni e quasi otto docenti su 100 hanno spento almeno 70 candeline. Nei prossimi anni parecchi di loro andranno in pensione e le relative università potranno ritornare virtuose. Ma non potranno rimpiazzare chi si è ritirato se non in parte, pena l'inclusione nel girone degli "spendaccioni".

 

di Marina Forti
Il fango di Jakarta
Sepolti sotto un fiume di fango, e di indifferenza dei media. Ieri sera squadre di soccorritoti stavano ancora cercando 131 persone «disperse» alla periferia della capitale indonesiana Jakarta, mentre il bilancio ufficiale del crollo di una diga avvenuto il 27 marzo (venerdì) è salito a 97 morti. Alcuni corpi sono stati trovato nel fiume Pesanggrahan, cioè a tre chilometri e mezzo di distanza dalla diga crollata, riferva ieri il portavoce dell'ente nazionale per la «gestione dei disastri» (National Disaster Management Agency). La diga, crollando, ha rilasciato milioni di metri cubi di acqua e fango che hanno spazzato il sobborgo industriale di Cirendeu, nella città di Tangerang, una delle città-satellite della Grande Jakarta. La diga ha ceduto intorno alle due del mattino, quando molti dirmivano ancora, altri si preperavano ad andare al lavoro: molti sopravvissuti hanno descritto quell'ondata di fango come un «minitsunami» che si è abbattuto sul sobborgo, con un'ondata alta 2 metri che ha trascinato via persone e cose, travolto baracche. sollevato veicoli. per ore dalle macerie e dal fango sono stati estratti corpi senza vita, ma ancora 131 persone mancano all'appello. E più passano le ore, minori sono le speranze di ritrovarle in vita.
Certo, forse non tutti gli scomparsi sono davvero periti nel fango: la polizia locale fa notare che molti, in quel sobborgo, abitano in pensionati e magari qualcuno era via per il finesettimana. Pensionati: case divise in cubicoli con tetti di lamiera, lavabo e servizi nel cortile, dove alloggiano gli operai e operaie. Già, perché Cirendeu è un sobborgo industriale, e molti dei lavoratori vengono da remoti villaggi. Ancor prima che la ricerca dei dispersi sia conclusa, l'agenzia «gestione disastri» sta compilando un bilancio dei danni: un migliaio tra le persone evacuate il 27 marzo sono rientrate nelle loro case, dice il portavoce (al notiziario Irin, pubblicato on line dell'Ufficio dell'Onu per gli affari umanitari), ma oltre 300 case sono state distrutte, centinaia di persone sono ancora sfollate.
Dopo il crollo di Tangerang il governatore della Grande Jakarta ha ordinato un'ispezione di tutte le 26 dighe che circondano la capitale (il territorio della capitale sconfina a sud in una zona di colline da cui scendono numerosi corsi d'acqua e canali). Ora i giornali scrivono che già nel febbraio scorso erano stati segnalati segni di cedimento nella diga crollata venerdì, Situ Gintung, costruita dagli olandesi nel 1933. Anzi, le perdite erano segnalate da anni, dicono i residenti - e riportano i giornali. Fattostà che quella diga di terra non ha retto le piogge torrenziali delle settimane scorse, che hanno fatto straripare un lago che confina con Cirendeu. La guerra delle responsabilità è scoppiata. Ieri il direttore del dipartimento per i lavori pubblici e le acque, Iwan Nursyirwan, ha respinto l'accusa che il disastri sia stata causata da incuria del suo servizio: l'ultima ispezione è avvenuta in dicembre, e non c'erano segni di crepe. Ha puntato il dito sulle piogge torrenziali, invece. Il fatto è che le grandi piogge sono un'occorrenza stagionale, nel clima subtripocale dell'isola di Java. E però spesso queste grandi piogge fanno straripare i canali che tagliano la città, ostruiti da rifiuti, travolgendo le baraccopoli accomodate lungo i corso d'acqua o comunque le zone più modeste della metropoli indonesiana. E' l'urbanizzazione estrema di Jakarta una delle cause del disastro. ma difficilmente sarà rimediata.

 

 

L'autosovvenzione allo sceriffo di Treviso

Le parole di Giancarlo Gentilini spesso sono materia da aula di giustizia. Proprio ieri è stato rinviato a giudizio per istigazione all'odio razziale per le sue frasi su rom, immigrati e musulmani. Ma nella deriva italiana ci siamo abituati a tutto. E così non scandalizza scoprire che il Comune di Treviso ha stanziato diecimila euro per fare stampare un volume sull'opera del più celebre "sceriffo" leghista. Un finanziamento deciso mentre lo stesso municipio taglia con la scure i fondi per assistenza sociale e per altre iniziative di più diretta utilità. Gentilini, ex primo cittadino per due mandati ora costretto a fare il vice sindaco ma di fatto dominus dell'amministrazione, ha difeso l'auto-sovvenzione: "È giusto che i cittadini sappiano cosa è stato fatto. E anche quelli di Treviso devono sapere, altrimenti si dimenticano del casino che c’era prima del mio arrivo, nel 1994. I soldi quindi li spendo prima per i miei cittadini, per far vedere loro cosa abbiamo fatto per la città. Per i servizi sociali, per gli immigrati, arriveranno altre somme più avanti". Il popolo è sovrano e in ben quattro elezioni consecutive i trevigiani hanno ribadito la loro fiducia a "Super G". Resta il dubbio: ma se il libro venisse messo in vendita, non si potrebbe fare a meno della sovvenzione pubblica? Una raccolta delle frasi di Gentilini, da quando voleva far "vestire gli extracomunitari da leprotti" per sparargli addosso o l'invito a "mandare e pregare e pisciare i musulmani nel deserto" o l'ultimissimo appello per "l'eliminazione dei bambini rom che rubano agli anziani" potrebbe diventare un manuale di studio sull'era dell'intolleranza, di grandissima diffusione.

  

Gas tossici in Val Padana

di Luca Carra e Luca Piana

La verità nascosta sull'inquinamento in Lombardia: dove l'anidride carbonica e le polveri sottili crescono a dismisura. Mentre aumentano le malattie causate dallo smog

 
Vai a capirli, gli svizzeri. Gli italiani di Lombardia invidiano il loro federalismo e, quando possono, depositano nelle banche di Lugano un fiume di quattrini e quelli vogliono multarli per eccesso di inquinamento. Proprio così. L'iniziativa è partita da due deputati ticinesi, Milena Garobbio e Raoul Ghisletta. Il ragionamento è questo. Visto che gli sforzi fatti dal Canton Ticino per combattere l'inquinamento vengono vanificati dallo smog che supera il balcone delle Prealpi, che almeno la Lombardia risarcisca i danni causati dalla sua "manifesta attitudine passiva nell'ambito del risanamento dell'aria".

Le autorità svizzere hanno per il momento respinto la richiesta, preferendo invocare maggiore collaborazione. Chissà che cosa direbbero, però, i due puntigliosi deputati ticinesi se potessero leggere un rapporto che i sindaci lombardi e gli altri addetti ai lavori stanno ricevendo proprio in questi giorni. Si intitola 'Progetto Kyoto Lombardia' e arriva a conclusioni così imbarazzanti sul dissesto ambientale in atto da aver indotto la Regione a consigliare l'autore - la Fondazione Lombardia per l'Ambiente - a tenere un basso profilo nel diffonderne i contenuti.

Come accade spesso con i libri messi all'indice, la lettura delle 278 pagine del volume si rivela però di estremo interesse. Frutto del lavoro di decine di ricercatori di sei diverse università e di numerosi centri di ricerca, lo studio è molto chiaro nel dipingere una situazione di emergenza e le difficoltà comuni a tutte le amministrazioni italiane nel rispondere alla sfida posta dal cambiamento del clima.

Sul fronte dell'inquinamento, a dir la verità, il confronto con il passato non è sempre privo di buone notizie. In Lombardia, ad esempio, i dati ufficiali dicono che la chiusura di molte fabbriche, la trasformazione delle caldaie domestiche da gasolio a metano e la diffusione di motori più moderni ha fatto diminuire rispetto ai primi anni Novanta la quantità delle polveri sottili che avvelenano l'aria. Allo stesso tempo, però, la Pianura Padana, chiusa dalle montagne che frenano il ricambio dell'aria e favoriscono la deleteria alta pressione, resta una delle aree più inquinate d'Europa, stando alle ultime stime diffuse dalla Commissione di Bruxelles. E il calo delle polveri sottili che si era registrato fino a una decina d'anni fa, ora ha perso forza e la tendenza è verso un sostanziale appiattimento. Una situazione che contribuisce a far condividere alla Pianura Padana un record di Belgio e Olanda che nessuno invidia: il più alto livello di mesi di vita che, nella cruda statistica, ogni cittadino brucia per effetto delle malattie mortali legate all'inquinamento (15 a testa, contro gli otto della media italiana).
 


Non bastano però alcuni dati in chiaroscuro per attenuare la durezza dell'analisi del rapporto 'Progetto Kyoto Lombardia'. Come dice il titolo, il lavoro è incentrato sui risultati ottenuti nel controllo delle emissioni dei gas ammazza-clima, a cominciare dall'anidride carbonica. Il protocollo firmato nel 1997 nella città giapponese imponeva all'Italia una riduzione delle emissioni del 6,5 per cento entro il 2012 rispetto ai quantitativi del 1995. Da allora, invece, in Lombardia la situazione è costantemente peggiorata: il rapporto fotografa un incremento complessivo del 15 per cento. Tre punti in più rispetto alla media italiana (dove le emissioni sono cresciute comunque del 12 per cento), che piazzano la Regione presieduta da Roberto Formigoni a una distanza ormai sostanzialmente incolmabile rispetto agli obiettivi fissati a Kyoto.

Prima in Italia per popolazione e per rilevanza dell'industria, la Lombardia sputa in atmosfera più di 90 milioni di tonnellate di anidride carbonica l'anno. E se la chiusura o la delocalizzazione all'estero di molte fabbriche ha alleggerito il peso dei fumi industriali, e i loro effetti negativi, il costante aumento del traffico ha dato una mazzata impossibile da assorbire. La sconfitta, è ovvio, non è solo lombarda. Sono rarissime le città che non hanno alzato bandiera bianca nella lotta al traffico. Gli interventi dei sindaci sono spesso poco più che simbolici, come le biciclette comunali in affitto (o 'bike sharing', in inglese) che accomunano Milano a Roma. E non manca chi, come l'assessore all'Ambiente di Treviso, Vittorio Zanini, cerca fantasiose fughe dalle proprie responsabilità: "Chiediamo all'Europa lo stato di calamità naturale", ha proposto di recente dalle pagine del quotidiano 'Libero'. Sta di fatto, però, che la densità della popolazione, unita agli scarsi investimenti nei trasporti pubblici, in Lombardia pesa. E i gas di scarico delle auto contribuiscono ormai alle emissioni di anidride carbonica per il 23 per cento del totale, superando le caldaie condominiali (al 21 per cento) e gli impianti industriali (al 18).

Uno dei risultati più preoccupanti di questa deriva è indicata dal rapporto nell'aumento delle temperature medie. Se il freddo, le nevicate e la pioggia dell'ultimo inverno hanno dato un po' di respiro, il quadro generale non lascia molti dubbi: in un secolo la temperatura media regionale è aumentata di un grado centigrado e negli ultimi anni si è registrata un'accelerazione particolarmente violenta, per i tempi lunghi della natura, nelle città. A Milano lo scudo di cemento che isola il terreno ha provocato una sorta di bolla di calore, con la temperatura media che in un solo decennio è cresciuta di 1,8 gradi.

Il collasso climatico ha diverse ripercussioni sulla vita quotidiana dei cittadini lombardi e sul sistema economico regionale. I primi effetti, evidentemente, riguardano la salute ma l'elenco è lungo e variegato. Comprende l'aumento delle alluvioni, le frane, i danni sempre più profondi all'agricoltura, la carenza d'acqua.

Per quel che riguarda la salute, il rapporto si sofferma in particolare sugli effetti più direttamente legati all'aumento delle emissioni di gas. Tutti ricordano l'estate bollente del 2003, quando a causa dell'afa persistente si calcola che siano morte solo in Lombardia oltre duemila persone in più rispetto all'anno precedente, e ben 35 mila in tutta Europa. E anche l'esplosione dei casi di allergia e di asma, determinata dall'effetto del caldo sui normali ritmi di pollinazione delle piante, sono fenomeni che ormai appartengono all'esperienza comune.

Per comprendere bene la portata dell'inquinamento, occorre però uscire un momento dai confini del rapporto. Proprio in Lombardia, infatti, una serie di ricerche condotte a livello universitario negli ultimi anni hanno approfondito i meccanismi con i quali agisce sulla salute un altro fattore d'inquinamento, la concentrazione nell'aria delle polveri sottili. Da tempo ormai gli abitanti delle città più grandi come quelle più piccole convivono con livelli di polveri che, per molti giorni durante l'anno, sono superiori alle soglie d'attenzione indicate dall'Unione Europea. Nell'inverno da poco finito la situazione è un po' migliorata, grazie alla neve e alle piogge frequenti, ma anche in questo caso è davvero difficile parlare di un'inversione di tendenza. Al punto che, per i continui sforamenti, l'Unione europea ha avviato nei confronti della Regione una procedura d'infrazione che potrebbe costare ai contribuenti lombardi una multa di 800 milioni di euro, se Formigoni e la sua giunta non prederanno contromisure convincenti. L'Unione europea ha ben chiaro che, al di là delle scelte politiche, in ballo ci sono questioni molto concrete di salute dei cittadini. Perché è noto l'impatto devastante che polveri e smog hanno su malattie respiratorie e cardio-circolatorie, e, di più, che oscillazioni molto piccole nella quantità di polveri presenti nell'aria si traducono in rischi difficili da immaginare.

Negli ultimi anni un gruppo di ricercatori del Policlinico di Milano ha condotto una serie di studi sulle malattie cardiovascolari, la prima causa di morte nel mondo occidentale. In particolare gli scienziati hanno incrociato i dati sull'inquinamento rilevati giorno per giorno nelle strade lombarde dall'Arpa con quelli delle persone colpite da trombosi venosa. "Si trattava di pazienti dei quali conoscevamo l'indirizzo, e quindi abbiamo potuto definire con buona approssimazione i livelli di inquinamento ai quali erano stati esposti", spiega Pier Mannuccio Mannucci, uno degli autori. I primi risultati sono stati pubblicati nel maggio del 2008 e suonano in modo piuttosto preoccupante. Un incremento minimo nella media annua di polveri sottili, le cosiddette PM10, pari a 10 milionesimi di grammo per metro cubo d'aria, si traduce in un aumento del 70 per cento del rischio di trombosi.

Partendo da questi risultati, e studiando i medesimi parametri su oltre 1.200 persone, i ricercatori del Policlinico hanno avviato un secondo studio, che ora è in fase di completamento. I risultati, che almeno in parte 'L'espresso' è in grado di anticipare, sono inquietanti. Ma anche sorprendenti, perché ribaltano la percezione diffusa di vivere in una nuvola indistinta di pulviscolo - quella che Pier Alberto Bertazzi, un altro degli autori, definisce con efficacia come "un aerosol di particelle solide e liquide" - dove tutti respiriamo le stesse porcherie, con le medesime conseguenze. Non è così. "La verità è che vivere a pochi metri da una strada trafficata, come può essere la cerchia dei Navigli a Milano, è più pericoloso che abitare in una strada laterale. Oppure, se volete un altro esempio, vivere a Bergamo alta, dove circolano meno automobili, è molto meglio che stare a Bergamo bassa", spiega Mannucci. Per dare una misura del pericolo, si può dire che il rischio di essere colpito da una trombosi venosa aumenta di quasi il 50 per cento per le persone che vivono lungo una strada a intenso traffico, rispetto a chi abita invece a una distanza di 250 metri. Man mano che ci si allontana, diminuisce linearmente il rischio di ammalarsi.

Il rischio di essere colpiti da una trombosi venosa nei giovani non è frequente. Ma man mano che l'età avanza, diventa sempre più consistente. E l'associazione con una vita passata lungo una strada sempre zeppa di automobili, magari abitando ai piani bassi, può diventare un killer. Al punto che Mannucci butta lì una provocazione: "Sembra paradossale ma non sarebbe così insensato se il sistema sanitario, assieme agli altri fattori di rischio come l'età o l'obesità, considerasse anche il livello di smog respirato una buona ragione per assumere farmaci anticoagulanti".

Questa dunque è la Lombardia, ma questo è tutto il Nord Italia, a meno di vivere sui passi alpini. Qui i cittadini stanno silenziosamente pagando un conto che diventa, giorno dopo giorno, sempre più salato. Perché accanto ai rischi per la salute, l'inquinamento colpisce in maniera diretta la ricchezza della regione.

E qui torna di nuovo d'aiuto il rapporto elaborato dalla Fondazione Lombardia per l'Ambiente e destinato alla semi-clandestinità. Protagonisti sono nuovamente i gas che contribuiscono all'effetto serra e che impattano direttamente sul sistema produttivo dell'intera area. Innanzitutto con il clima pazzo che osserviamo ogni giorno e che gli esperti chiamano "polarizzazione dei fenomeni meteorologici": le piogge si fanno torrenziali, il caldo estivo può trasformarsi rapidamente in siccità. Risultato: occorre mettere in conto un aumento di frane e alluvioni nei mesi freddi e un'agricoltura assetata da maggio in avanti.

Gli autori quantificano in più di un miliardo di euro i danni possibili nei prossimi anni alle infrastrutture colpite da frane e allagamenti. E, a causa della siccità, ancora più severe potrebbero rivelarsi le ripercussioni sulle coltivazioni più diffuse in Lombardia, come il mais e il frumento. L'agricoltura, infatti, continua ad occupare circa tre quarti del territorio della regione, magari ritagliandosi gli spazi residui fra i capannoni delle fabbrichette e le strade statali, e già oggi si trova periodicamente a corto di risorse idriche, per le quali deve combattere contro gli usi civili e quelli industriali.

La temperatura, informano i tecnici, ha poi un effetto diretto su alcune produzioni più pregiate, come ad esempio l'uva per fare il vino. E secondo gli autori del rapporto 'Kyoto Lombardia' proprio il vino è una delle antenne più sensibili ai cambiamenti climatici. Il caldo aumenta infatti il tasso alcolico e può far perdere gli aromi caratteristici della produzione lombarda, mettendo a repentaglio un mercato che attualmente fattura circa 800 milioni di euro. Per non parlare di conseguenze al limite della curiosità, che non si sa se catalogare come novità interessanti o paradossi del clima: "I cambiamenti climatici stanno già spostando le colture dell'ulivo a ridosso delle Alpi", scrive Alessandra Goria, ricercatrice della Fondazione Mattei: "Mentre il clima diventa più favorevole alla coltivazione dei pomodori e del grano duro per la pasta". Mantova come Villa Literno? Bisogna vedere se queste novità avranno superato il gelo dell'inverno appena passato, che con un freddo ormai quasi inconsueto potrebbe aver riportato un po' indietro le lancette. Riservando qualche altra impensabile bizzarria.

Un merito, però, va riconosciuto alla Lombardia: quello di aver delineato la diagnosi di questo scacco climatico prima e meglio degli altri. Sembra però che i rapporti degli scienziati e delle associazioni ambientaliste si accumulino sui tavoli di chi prende le decisioni senza che nessuno ci badi molto. Perché non si vedono né si prevedono possibili strategie politiche per tentare di mitigare o quanto meno adattarsi agli sconvolgimenti in arrivo. "I dati indicano che la Lombardia non è molto diversa dalle altre regioni italiane, come le sue istituzioni forse amano immaginare", spiega Stefano Caserini, docente di Fenomeni di inquinamento al Politecnico di Milano e autore del capitolo sulle emissioni del Rapporto: "Mancano politiche sia nazionali che regionali per controllare le crescita delle emissioni e il riscaldamento del clima". Secondo lo studioso, strategie possibili ce ne sarebbero:"In Lombardia si dovrebbe agire soprattutto sui trasporti". commenta.

Ora che la Regione, con la sua rete che si prevede in forte crescita di tangenziali e autostrade sarà più che mai a misura di Tir e automobili, tuttavia, un passo indietro pare difficile, come conferma Marzio Galeotti, economista ambientale dell'Università di Milano e curatore nel rapporto del capitolo su scenari e politiche: "Negli ultimi anni le emissioni di anidride carbonica da parte delle automobili sono diminuite per i miglioramenti tecnologici. Peccato che nel frattempo siano aumentati la cilindrata e i chilometri percorsi delle auto in circolazione, vanificando così i miglioramenti".

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