26 febbraio

Il leader di Corso Italia, dopo le anticipazioni sul disegno di legge
che domani verrà approvato dal Cdm. La relazione dell'Authority

Epifani: "Il governo stia attento
sciopero è libertà fondamentale
"

Sacconi: "Ampia convergenza dei sindacati, Cgil unica eccezione"
Brunetta: "Domani il ddl di riforma verrà approvato dal Consiglio dei ministri"

Epifani: "Il governo stia attento sciopero è libertà fondamentale"

ROMA - Scontro tra il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi e il segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani sulla riforma del diritto di sciopero. Sul disegno di legge messo a punto dal governo, ha detto Sacconi, c'è "una larga convergenza con la gran parte delle organizzazioni sindacali e dei datori di lavoro". "Temo però che manchi la Cgil", aveva aggiunto stamane il ministro, a margine della relazione dell'Authority sugli scioperi, osservando subito dopo che "l'unanimità non è di questo mondo, appartiene al mondo del nulla, del non fare".

Pronta la reazione di Epifani: "Stia attento, perché in materia di libertà del diritto di sciopero costituzionalmente garantito bisogna procedere con molta attenzione. Se c'è qualcosa da aggiustare rispetto a una normativa già rigida eventualmente lo si può vedere. Ma se si vogliono introdurre forzature che limitano poteri e prerogative è altra questione".

Il disegno di legge che regolamenta il diritto di sciopero è all'esame del governo, e dovrebbe essere approvato già nel prossimo Consiglio dei Ministri, previsto per domani, ha confermato nella trasmissione "Panorama del giorno", su Canale 5, il ministro della Funzione Pubblica Renato Brunetta.

"Non si tratta ovviamente di soffocare il diritto di sciopero, ma di armonizzarlo con l'esercizio degli altri diritti di tutti i cittadini, in un'opera di bilanciamento che deve tener conto dell'evoluzione sociale", ha detto il presidente della Camera Gianfranco Fini, nel presentare stamane la relazione del presidente della Commissione di garanzia dell'attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, Antonio Martone.

"E' auspicabile" che almeno alcuni aspetti dell'esercizio del diritto dello sciopero "possano essere riassorbiti sul terreno politico delle trattative tra datori di lavoro e sindacati, ma è sempre più urgente avviare una riflessione sulla 'tenuta' della vigente disciplina di settore per individuarne lacune e prospettare ipotesi di adeguamento alla nuova realtà", ha detto ancora Fini.

Nella sua relazione Martone ha ricordato che nel biennio 2007-2008 sono state oltre 4.000 le proclamazioni di sciopero pervenute alla Commissione di Garanzia. Un ricorso allo sciopero generale, dunque "mai avvenuto in precedenza", ha sottolineato Martone, indicando anche le cause: "L'eccessiva frammentazione della rappresentanza in relazione anche all'articolazione del processo produttivio dei servizi pubblici essenziali, come conseguentza della spinta verso la liberalizzazione e la privatizzazione e, di riflesso, della necessità di contenere i costi". Ma più che la mole di proclamazioni di scioperi sembra pesare l'effetto annuncio visto che delle 4.212 mobilitazioni annunciate ne sono state poi revocate circa 1,587. Gli scioperi effettuati dunque sono stati oltre 2600, poco più che la metà di quelli proclamati.

Secondo Martone, sono in particolare i recenti scioperi dell'Alitalia a far emergere "anomalie e inadeguatezza" della disciplina vigente. Per Martone nel settore del trasporto, infatti, "si sono verificati scioperi dove, pur essendo la percentuale di adesione estremamente bassa, si è verificata, nella stessa occasione, un'altissima percentuale di assenza dal servizio dei dipenenti e, di riflesso, la soppressione di centinaia di voli".

 

24 febbraio

Chiamiamola pure la vendetta dei due mascalzoni

L'America e il mondo intero, negli anni a venire, dovranno convivere con le conseguenze delle disastrose politiche di Bush e Cheney
 
Inquinamento negli Usa
Quando il mese scorso George W. Bush e Dick Cheney hanno finalmente lasciato la Casa Bianca, non hanno potuto fare a meno di notare quanto la stragrande maggioranza degli americani ? per non parlare del resto del mondo ? fosse felice di vederli andar via.

I due milioni di persone che secondo alcune stime si sono accalcati in piedi per ore a quasi sette gradi sotto zero per festeggiare l'inaugurazione della presidenza di Barack Obama - e per fischiare in faccia a Bush ? l'hanno ampiamente dimostrato. (Non vi è parso che Cheney, in sedia a rotelle e col cappello nero in testa, incarnasse alla perfezione il gangster che i suoi detrattori hanno sempre detto che era?). Anche il presidente Obama non ha usato mezzi termini, allorché ha promesso l'avvento di una "nuova era di responsabilità", che rimpiazzi "l'avidità" e "le false promesse" degli ultimi otto anni.

L'amara verità è che non sarà così semplice lasciarsi Bush e Cheney alle spalle: Obama, l'America e il mondo intero negli anni a venire dovranno convivere con le conseguenze delle loro disastrose politiche. (Attribuisco a entrambi la responsabilità in egual misura e ne parlo come se fossero uno perché, come ha documentato nel suo libro The Angler il giornalista del Washington Post Barton Gellman, negli ultimi otto anni Cheney ha esercitato il potere tanto quanto Bush).

L'influenza prolungata di Bush-Cheney è quanto mai evidente nell'economia, dove i massicci sgravi fiscali - da loro voluti - per i ricchi e i privilegiati hanno profondamente indebitato gli Stati Uniti prima ancora che il loro fallimentare sistema di regolamentazione di Wall Street spalancasse le porte alla peggiore crisi economica dagli anni Trenta. Adesso l'unica speranza per Obama di riportare il benessere è riposta nell'approvazione di un imponente pacchetto di incentivi economici che finirà con l'indebitare Washington ancor più. Rispetto a ciò, molto meno lampante è la montagna molto erta e scoscesa che Bush-Cheney hanno lasciato a Obama da scalare nella lotta al cambiamento del clima: dopo aver negato per ben otto anni l'esistenza del problema e aver procrastinato nel tempo qualsiasi seria iniziativa volta a porvi rimedio, gli Stati Uniti hanno finalmente un presidente che ha enormemente a cuore il cambiamento del clima. Le sue prime dichiarazioni in proposito indicano la rotta giusta: Obama ha promesso entro il 2020 di riportare ai livelli del 1990 le emissioni di gas serra ed entro il 2050 di ridurle fino all'80 per cento, portandole a livelli ancora inferiori a quelli del 1990. Avendo compreso perfettamente che la battaglia contro il clima non potrà essere vinta se a essa non si abbinerà la battaglia per il benessere economico, il nuovo presidente intende destinare una significativa percentuale del pacchetto di stimoli economici a investimenti per posti di lavoro "verdi" e per lo sviluppo energetico. Obama ha anche promesso di costruire istituti scolastici rispettosi dell'ambiente, di incentivare l'efficienza energetica, di coibentare milioni di abitazioni e così facendo creare al contempo milioni di nuovi posti di lavoro per gli americani. Ma ecco il disguido: considerato che con Bush-Cheney l'America ha fatto meno di niente per ridurre le emissioni, le proposte di Obama ? per quanto suonino straordinarie dopo il silenzio assordante degli ultimi otto anni ? sono di fatto inadeguate rispetto a ciò che occorrerebbe fare secondo gli scienziati per scongiurare un catastrofico cambiamento del clima terrestre.

Con Bush-Cheney le emissioni dell'America, e di conseguenza quelle dell'intero pianeta, sono aumentate a tal punto che adesso si rendono necessarie drastiche riduzioni per modificare la traiettoria presa. Rajendra Pachauri, presidente dell'Intergovernmental Panel on Climate Change, ha sollevato proprio questo aspetto del problema nella recente conferenza di Washington sponsorizzata dal Worldwatch Institute, che pubblica il fondamentale rapporto ambientale annuale intitolato State of the World. Per intervenire, la Terra ha ormai una "strettissima finestra temporale", se si vuole che il genere umano eviti le ripercussioni più gravi del cambiamento del clima: lo ha affermato Pachauri che ha poi aggiunto che già ora le conseguenze si prospettano serie e inevitabili. Ma se intendiamo far sì che non si verifichino scenari apocalittici da incubo ? quali la scomparsa totale dei ghiacciai himalayani, che comporterebbe la siccità per oltre 500 milioni di asiatici ? l'aumento delle temperature globali dovrà a ogni costo essere contenuto a 2.0-2.4 gradi Celsius al di sopra dei livelli dell'era pre-industriale.

 

19 febbraio

La condanna del legale accusato di aver mentito per favorire il premier
conquista ampio spazio sui giornali stranieri. "L'avvocato corrotto dal cavaliere"

Mills condannato, la stampa estera
"Berlusconi si è protetto col lodo Alfano"

Mills condannato, la stampa estera "Berlusconi si è protetto col lodo Alfano"

ROMA - La condanna dell'ex legale di Silvio Berlusconi David Mills a quattro anni e mezzo di carcere per aver mentito, dietro compenso di denaro, per favorire il premier, trova ampio risalto sulla stampa straniera, che dedica diversi articoli e, in alcuni casi, la prima pagina, al caso e al coinvolgimento diretto del presidente del Consiglio.

"Avvocato condannato per corruzione per aver protetto Berlusconi" titola l'International Herald Tribune. Nel pezzo a firma di Rachel Donadio, apparso anche sul New York Times, si mostra sorpresa per il fatto che la notizia, "che avrebbe mandato in fibrillazione il sistema politico di diversi Paesi", non abbia meritato l'apertura dei telegiornali serali italiani, monopolizzati dalle dimissioni di Walter Veltroni da segretario del Partito Democratico dopo la sconfitta alle elezioni in Sardegna di Renato Soru. "Così la notizia del giorno non era la corruzione, ma il dominio sempre più esteso sull'Italia di Berlusconi", si legge sul quotidiano, che sottolinea, in un lungo e duro articolo, come da co-imputato nello stesso processo, Berlusconi sia riuscito a garantirsi l'immunità grazie al Lodo Alfano e come "in 15 anni di dominio della vita politica italiana, sia riuscito a trasformare ogni sconfitta legale in un capitale politico". E ancora: "Più Berlusconi riesce a manipolare il sistema a suo vantaggio, più italiani sembrano ammirarlo".

Ampio spazio alla sentenza su Mills sui giornali britannici. Il Guardian alla vicenda dedica diversi servizi, dalla caduta di Mills, "che dopo la tempesta giudiziaria in Italia ha cercato di mantenere un basso profilo", al Lodo Alfano, "considerato una priorità del governo Berlusconi" grazie al quale il premier ha conquistato l'immunità, "e la sentenza di ieri mostra quanto sia stato utile", anche se la Corte costituzionale, rileva sempre il quotidiano britannico, deve pronunciarsi ancora sulla sua legittimità.

Il tribunale ha riconosciuto Mills colpevole di aver accettato 600mila euro da Silvio Berlusconi, si legge sull'Independent, "in cambio di aver taciuto informazioni che avrebbero potuto danneggiare il premier". Segue un ritratto dell'avvocato, "brillante, dalle amicizie importanti, ma troppo impulsivo".

Anche sul francese Figaro si parla delle vicende giudiziarie italiane. "Lo scorso ottobre, Silvio Berlusconi si è messo al riparo della giustizia facendo approvare una legge che gli garantisce l'immunità penale durante il suo mandato alla guida del governo italiano. Immunità che non copre però il suo ex avvocato, condannato per falsa testimonianza in favore del Cavaliere", si legge sul giornale, che sottolinea come Mills non sia l'unico legale del premier ad essere condannato al carcere e cita Cesare Previti, riconosciuto "colpevole di corruzione di magistrati nell'affare Fininvest".

Per lo spagnolo El Pais, la sentenza "getta un'ombra inquietante" sul Cavaliere, mentre El Mundo richiama in prima pagina il caso Mills, "l'avvocato corrotto da Berlusconi per mentire".

 

12 febbraio


I nuovi barbari sono tra noi

di Fabrizio Gatti
Aggressioni. Stupri. Rappresaglie. La questione immigrazione fa esplodere paura e ostilità. E la cultura della violenza trionfa
Bandiere con svastiche allo Stadio Olimpico
 
Alle cinque del mattino, sulla provinciale 101, c'è un solo bar aperto. Il busto di Benito Mussolini osserva il viavai di clienti da uno scaffale dietro la cassa. Una foto del duce ribadisce le simpatie del proprietario che, sui 50 anni e rigorosa camicia nera, batte gli scontrini. La vetrina non espone liquori ma magliette e gadget del Ventennio. Caffè, affari e fascio littorio. Questa è la banlieue appena fuori Roma. Via dei Castelli Romani, la strada che dal mare sale alle zone industriali. Una periferia che nella cronaca di questi giorni sembra aver perso l'anima. La geografia della violenza gira intorno a questi paesi. A pochi chilometri da qui, per passatempo, una gang di italiani ha bruciato un disoccupato indiano che dormiva alla stazione di Nettuno. Più a nord una banda di romeni ha massacrato un ragazzo e violentato la sua fidanzata italiana di 21 anni nelle campagne di Guidonia. Un altro stupro a Primavalle. Le ritorsioni contro i negozi degli immigrati. Gli striscioni di solidarietà allo stupratore italiano arrestato per l'aggressione alla festa di Capodanno del Comune di Roma. Una centrifuga che in pochi giorni ha mostrato la faccia di un Paese in crisi economica e soprattutto di identità.

I sintomi sono qui davanti: il busto di Mussolini e la testa rasata del barista in camicia nera, unico ritrovo aperto per i giovani operai del primo turno che salgono a lavorare nella zona industriale di Pomezia. È il Nord-est dell'Italia centrale. Fabbriche, contratti precari. E competizione al ribasso. Immigrati e locali sono obbligati a convivere. E a volte i ruoli si invertono: il capo è straniero, il sottoposto italiano. Basta mandare un curriculum per scoprire quanto sia profonda la trasformazione. Risponde una cooperativa che imballa i prodotti di una grossa industria alimentare. La caposquadra è romena, una signora minuta sulla quarantina. Lei decide i contratti e i turni di lavoro. Il colloquio dura pochi minuti: "Seicento euro al mese", dice la caposquadra: "Sei ore al giorno pagate, ma ne facciamo almeno dieci. Si comincia alle sei del mattino. Un mese di prova e tre mesi di contratto co.co.co". I suoi sottoposti sono qualche immigrato e molti ragazzi della periferia romana. Falliti a scuola, senza titolo di studio. Per raggiungere 800-900 euro al mese, quando ci sono commesse, lavorano anche 12, 13 ore al giorno. Non leggono giornali. Non ne hanno il tempo e, dicono, nemmeno i soldi. Guardano poca tv. Dormono e lavorano. Il calcio è l'unico argomento di cui parlano. Ma mai un contatto con i colleghi stranieri. Su questo hanno le idee chiare: "Se c'è lavoro per tutti bene. Altrimenti gli immigrati, clandestini o no, se ne devono andare". Simpatizzano a destra. Ma da queste parti la Lega che grida 'Roma ladrona' non può attecchire. La tolleranza zero nei loro discorsi è il mito del duce.

Italiani brava gente o fascisti incalliti? Dalla celebrazione di Mussolini all'annuncio del ministro dell'Interno Roberto Maroni per il quale contro i clandestini bisogna essere "cattivi": come leggere tutto questo con quanto è avvenuto negli ultimi giorni? Bastano la xenofobia o il razzismo? "Il contesto sicuramente indirizza la violenza", osserva Anna Lisa Tota, professore associato dell'Università Roma Tre e studiosa dei processi di comunicazione e di integrazione culturale: "Il discorso mediatico così forte contro gli immigrati e anche contro le persone che vivono ai margini ha un peso molto forte nel far sì che questi eventi siano possibili". Le autorità però minimizzano l'aggressione di Nettuno escludendo il movente razzista. "Questa sorta di visione soft è molto grave. Peggiora la situazione", spiega la ricercatrice, "perché non dà nemmeno il nome al fenomeno, non lo riconosciamo nemmeno. Il problema è l'immaginario della violenza che circola. Ma può esserlo anche il modo in cui i mezzi di informazione trattano la notizia". In che senso? "La stampa aumenta la probabilità di costruire razzismo. I media finiscono con il fare cassa di risonanza e questo può avere effetti perversi. Diventa cruciale il fatto che un senzatetto sia immigrato, oppure che in un atto criminale ci sia l'appartenenza etnica". Allora come se ne esce? "Minimizzando la componente etnica: fare quello che ha fatto Tony Blair e hanno fatto gli inglesi dopo gli attentati a Londra nel 2005. Dopo l'11 settembre ci si è accorti che i media erano diventati funzionali al terrorismo. Colpita Londra, Blair chiese ai media di non pubblicare foto degli attentati per ridurre l'impatto emotivo e non scatenare ritorsioni razziste. Questo tipo di strategia può essere vincente".
 
L'arresto di uno degli stupratori di Guidonia
 
Conosciamo i numeri delle violenze denunciate. Ma nessuno classifica i reati in base a una eventuale matrice razzista. Mancano così le serie storiche perché questi casi siano studiati. "Ciò che è accertato è una profonda trasformazione negli ultimi vent'anni", spiega il sociologo Marzio Barbagli, "che ha avuto un'accelerazione negli ultimi cinque. Cioè la presenza di immigrati irregolari a cui ha fatto fronte non la paura del diverso, ma il peggioramento di alcune situazioni sociali. Consideriamo il peggioramento del servizio sanitario che è sotto gli occhi di tutti da anni: è aumentato il numero di utenti, ma non è aumentato il numero di medici e infermieri. Oppure consideriamo le scuole materne ed elementari: è aumentato il numero di alunni stranieri senza che le risorse disponibili siano aumentate. Questo crea resistenza e ostilità. Che gli immigrati siano una risorsa è stato ripetuto fino alla nausea, ci sono però costi sociali che non ricadono su tutti nello stesso modo ma ricadono su alcune fasce della popolazione che sono le più deboli. Non c'è stato nessuno sforzo, che invece dovrebbe essere messo in campo in grande stile, per integrare i figli degli immigrati o per rendere più adeguato il servizio sanitario nazionale. Se non risolviamo questo, è prevedibile che ci siano atti di ostilità".

Gli italiani finiscono così per dare la colpa agli immigrati per servizi che spesso erano già scadenti prima del loro arrivo. E le zone dove questi servizi sono contesi, sono proprio le aree metropolitane. "Quello dell'immigrazione dovrebbe essere il settore dove raggiungere un consenso bipartisan", continua Barbagli, "invece resta uno dei pochi settori che ancora suscitano passioni ideologiche". Da cosa bisognerebbe partire? "Avviare l'espulsione degli irregolari che commettono attività illecite e creare sistemi che guidino l'integrazione. Ma non c'è mai stato un grande slancio, nemmeno da parte della sinistra. Le leggi Turco-Napolitano e Bossi-Fini hanno portato miglioramenti rispetto alla legge Martelli. Ma ancora oggi è un fenomeno non sufficientemente governato".

Un dato significativo, che poi riemerge nella cronaca, sono le violenze sessuali denunciate. Vent'anni fa, il 9 per cento era commesso da stranieri. Nel 2007 la percentuale è salita al 40 per cento. Non va sottovalutato che la maggior parte delle violenze denunciate in Italia sono commesse da italiani. Ma quando la vittima è italiana e gli autori sono stranieri, ecco che si scatena la paura collettiva. "Le violenze contro le donne sono l'ennesimo sintomo che si è ridotta la prevenzione", avverte Salvatore Palidda, docente di sociologia della devianza e del controllo sociale all'Università di Genova: "La repressione non è una risposta che risolve i problemi perché li riproduce e i tassi di recidività dei reati si alzano. Spendiamo risorse per la videosorveglianza ovunque. Ma le telecamere non fanno prevenzione. Sono solo un business. Molto dipende dall'atteggiamento delle autorità politiche e dalla voce che ne danno i media: se ci sono sempre più segnali di giustificazione, episodi come quelli accaduti negli ultimi giorni prendono piede". In un momento di crisi, anche una battuta potrebbe scatenare violenze: cosa succederà in Veneto dove gli italiani disoccupati sono ora in competizione con gli immigrati che hanno lavoro? Un segnale è la recente dichiarazione del capogruppo della Lega, Roberto Cota, a sostegno delle proteste anti italiane in gran Bretagna: "Vedrete in Veneto", ha detto Cota in una intervista.

"Quanto è accaduto è il disprezzo dei poveri, degli emarginati, delle donne", dice Lorenza Maluccelli, docente di Metodologia della ricerca sociale all'Università di Bologna: "La violenza è nei rapporti sociali. Basterebbe considerare la relazione tra prostitute e clienti: non ce n'è una, tra le donne incontrate nelle mie ricerche, che non abbia subito violenze. E questo è un segnale molto forte".

La mancanza di occasioni di integrazione è un problema con cui gli immigrati devono fare i conti. Se ne parla in questi giorni nei blog della comunità romena che ha trasferito in Italia la sua difficile convivenza con i nomadi rom di Romania. "La confusione che si continua a fare tra rom e romeni danneggia tutti quanti", sostiene Liliana Iacob, 33 anni, da dieci a Torino, prima come colf clandestina e ora consulente in amministrazione e gestione aziendale: "In Romania si sente dire che in Italia la legge permette di commettere reati e poi di trovarsi un buon avvocato per uscire dal carcere. C'è un accordo che prevede che i detenuti romeni scontino la pena in Romania, dove le pene sono più severe: perché non viene rispettato?". Intanto ci sono immigrati che la sera non escono di casa per paura di essere aggrediti per il colore della loro pelle: "I giovani italiani che commettono questi reati non si ricordano da dove vengono", osserva Geber Shawky, sindacalista a Milano della Cgil: "Questo è il risultato della cultura che sta cambiando: gli stranieri sono visti come braccia, non come testa. Di giorno devono lavorare, di notte non devono esistere più".

 

10 febbraio

 

Viaggio nei "diplomifici" campani. Nel programma "Presadiretta" di RaiTre
la vita di chi è disposto a tutto pur di non perdere il posto in graduatoria

E il preside disse al professore "Non disturbi i ragazzi..."

di PAOLA COPPOLA

 
E il preside disse al professore "Non disturbi i ragazzi..."ROMA - Fabbriche di diplomi, dove basta pagare alcune migliaia di euro per ottenere un titolo di studi, i voti sono alti, la presenza in classe può essere sporadica. Può costare fino 4500 euro fare l'esame di Stato in uno dei tanti diplomifici della provincia campana. Circa 70 persone hanno preso la maturità nell'ultimo anno in uno di questi centri, nessuno è stato bocciato, e così è andata negli ultimi sei anni. In un'altra scuola paritaria - che sforna 120 diplomati ogni anno - agli studenti lavoratori è richiesta la presenza una volta al mese. "Gli scritti glieli facciamo noi" garantisce un responsabile. In un altro istituto lo sforzo richiesto per sostenere gli esami è imparare una tesina di una ventina di pagine.

Un sistema che non viene alla luce perché non è nell'interesse di nessuno denunciarlo, raccontato da Domenico Iannacone, autore dell'inchiesta sui precari della scuola trasmessa ieri ne la puntata "La scuola tagliata" dal programma "Presadiretta" su RaiTre.
Fuori dalle scuole paritarie gli studenti raccontano che i professori non segnano le assenze e "i compiti in classe li facciamo con il libro davanti". Un'università telematica promette a chi paga programmi di studio ridotti a un terzo, esami solo scritti. Una laurea vale 7.900 euro. Le famiglie sborsano i soldi, i ragazzi sono promossi e se non superano l'esame di stato alcune scuole promettono di non far pagare l'ultimo anno per la seconda volta.

Qui il reclutamento degli insegnanti avviene in nero e nessuno denuncia perché che il sistema funzioni conviene a tutti. Racconta una professoressa: "Gli studenti devono avere una media alta, chi vuole in classe può spiegare, se non si oppone il dirigente scolastico, perché i ragazzi non devono essere disturbati". E denuncia: "Non sto lavorando, sto barattando punti". E un'altra dice che quanti più ragazzi riescono a far promuovere tanto più aumenta la possibilità che il suo contratto sia rinnovato.
 

Gli insegnanti che bussano a queste scuole sono i precari che sono rimasti fuori dagli incarichi statali. Entrano in una giungla dove si lavora gratis: la busta paga c'è, ma la retribuzione è pari zero, se va bene hanno contributi e rimborso spese, se va male pagano anche quelli. Per i professori è l'ultima spiaggia per accumulare punti e non perdere il posto in graduatoria. Fabbriche di schiavi, le definisce l'inchiesta che racconta la vita di questi precari disposti a tutto. In attesa di un posto fisso - che nella scuola può arrivare dopo i 40 anni - si adattano anche a questo.

"Con i tagli introdotti dalla riforma Gelmini per loro andrà anche peggio: nessuno li ha ascoltati, lamentano sui blog dove cova e si diffonde la rabbia di chi deve affrontare questa condizione", dice Iannacone. "Esiste un sistema di sfruttamento di questi professori senza un contratto a tempo indeterminato", continua. Passa anche dai master che portano punti per le graduatorie, e sono una scelta obbligata che arricchisce gli istituti che li erogano. E finisce con delle giornate paragonabili a un terno al lotto: da Aversa parte un treno chiamato "treno del provveditorato" che arriva a Roma in tempo per entrare in aula. Lo prende chi fa le supplenze nella capitale, e lo prendono anche quelli che aspettano la "chiamata". Loro sono a disposizione dei circoli didattici, contattati solo se c'è necessità. Si fermano alla stazione, e vanno a lavorare solo se il telefonino squilla.
 
 

Euronorevoli fannulloni

di Emiliano Fittipaldi
Sono i meno presenti e i più pagati. La metà degli eletti si è dimessa per tornare in patria. Non partecipano ai lavori. Ecco il primato negativo degli italiani a Strasburgo. Dove si decide il nostro futuro
Il Parlamento europeo a Strasburgo
C'è seduta plenaria all'Europarlamento, ma Gianni De Michelis è a Roma. Non tenta nemmeno di giustificarsi. "La seduta a Strasburgo di oggi? Ma lo sanno tutti che quelle del lunedì non contano niente. Parto domani". In effetti lunedì non si vota, ma inglesi, francesi e tedeschi stanno discutendo importanti dossier su energia, commercio, economia e discriminazione etnica. A guardare bene, il deputato socialista è stato poco assiduo anche altri giorni della settimana: durante la legislatura che sta per finire una volta su due ha saltato gli incontri al Parlamento. "Senta, il mio personale obiettivo era quello di tornare nelle istituzioni nonostante l'accanimento dei giudici, ed essere ammesso nel Partito socialista europeo. Ci sono riuscito". Pure Vito Bonsignore, eletto con l'Udc e poi passato in Forza Italia, 45 per cento di assenze, è in altre faccende affaccendato. "In questo momento sta parlando in un convegno sul programma elettorale per le amministrative in Val di Susa, non posso passarglielo", dice l'assistente. La plenaria è iniziata da un pezzo, Bonsignore parla a Torino. Chi è partito, ma a sera inoltrata è fermo a Lione in attesa della coincidenza, è l'ex diessino Mauro Zani. Nessuna relazioni in quasi cinque anni di attività. "Lasci perdere le presenze, il lavoro vero si fa a Bruxelles, nelle commissioni. Gli italiani disertano anche quelle? Non posso contestarlo, non frequento quelle degli altri. Di sicuro posso dirle che in Europa contiamo come il due di coppe quando briscola è bastoni. Zero relazioni all'attivo? Guardi che se uno vuole farle basta che si metta in fila...". Iva Zanicchi, di Forza Italia, di fare la coda non ci pensa proprio. È stata ripescata a maggio, e in otto mesi ha collezionato 23 assenze (su 43 plenarie a disposizione), e un solo intervento sulla povertà nel mondo. Quando squilla il telefono la cantante è a Milano, l'Europa è lontana. "Sta facendo una visita, solo un controllo per l'influenza, la faccio richiamare", dice gentile l'addetto stampa. Sanremo si avvicina, Iva vuole essere in forma. Convocata da Paolo Bonolis, canterà 'Ti voglio senza amore', la storia di una donna che decide di smettere di soffrire e comincia a fare sesso senza preoccuparsi dei sentimenti. "Certo che sta provando la canzone. Ma al Festival parteciperà a titolo gratuito, lo scriva".

Record europeo De Michelis, la Zanicchi e gli altri assenti giustificati e non, che tra indennità e spese varie incassano più di 35 mila euro al mese, sono in ottima compagnia. Rispettando la tradizione, anche nella legislatura in corso gli eurodeputati italiani restano tra i più assenteisti d'Europa. Secondo i dati ufficiali del Parlamento europeo, che sul sito pubblica l'elenco dei presenti per ogni plenaria (e sono appena 60 l'anno), i nostri eletti sono rimasti a casa una volta su tre. 'L'espresso' ha preso in considerazione le sedute tenute a Strasburgo e a Bruxelles dal luglio 2004 al 15 gennaio 2009, parametrando le presenze anche in relazione al periodo in cui i deputati sono rimasti in carica: se secondo uno studio Acli nel periodo 1999-2004 l'Italia era fanalino di coda con il 69 per cento di presenze sul totale delle assemblee (i finlandesi, primi, sfioravano il 90 per cento; i francesi, benché penultimi, ci staccavano di 10 punti), nella legislatura corrente siamo migliorati di appena un punto. I calcoli non sono facili, anche perché i politici italiani considerano le aule europee poco più di un albergo: sui 78 parlamentari iniziali, solo 48 sono tuttora in carica. Trenta, quasi tutti i big, sono andati via in cerca di poltrone migliori, sostituiti dalle seconde file. Di questi, sei sono fuggiti dopo poche settimane, a loro volta rimpiazzati da altri peones. In tutto gli italiani che hanno bivaccato a Bruxelles sono 114, una truppa indisciplinata che è entrata e uscita dalle commissioni come se fosse in un autogrill.

Ancor più gravi delle assenze, sono i tassi scandalosi di produttività: 61 deputati non hanno mai presentato una relazione (che, a differenza delle inutili interrogazioni, sono testi 'legislativi' o 'di indirizzo'), e 17 non si sono mai scomodati ad aprire bocca in assemblea. I sei europarlamentari ciprioti, che guadagnano un quarto degli italiani, sono intervenuti più di tutti i 'fuggitivi' e i loro sostituti messi insieme. In totale un esercito silenzioso di 76 persone. La delegazione slovena, sette persone che prendono un terzo dei nostri eletti, ha portato a casa più relazioni e dichiarazioni di tutti i 36 italiani entrati a Strasburgo grazie agli avvicendamenti. Squadernando la classifica dei partiti, poi, si capisce perché i parlamentari del Pdl siano stati tra i pochi ad aver votato contro la proposta del radicale Marco Cappato, che costringerà nel futuro prossimo venturo le istituzioni a una maggiore trasparenza: se gli euroscettici della Lega non hanno rivali, grazie a un tasso di assenze medio del 43 per cento, i 'virtuosi' sono i Verdi, quelli di Sinistra democratica, i comunisti del Pdci e quelli di Rifondazione. Deputati diligenti che, a causa dello sbarramento al 4 per cento voluto da Berlusconi e Veltroni, alla tornata elettorale del 6 giugno rischiano il posto. A vantaggio di An, Forza Italia e Pd, partiti infarciti di fannulloni con percentuali di assenza che in qualche caso superano il 70 per cento.
 

Lilli Gruber durante la campagna elettorale

Arance e cinghiali Nel quadro desolante, non sorprende che Adriana Poli Bortone sia rimasta a Lecce due volte su tre: caso unico nel Continente, la legge italiana permette a sindaci e presidenti di provincia di ricoprire anche l'incarico a Bruxelles. La Poli Bortone, durante il mandato, non si è fatta mancare nulla: era contemporaneamente vicepresidente dell'Anci, coordinatrice del partito in Puglia, fondatrice della scuola di formazione dei dirigenti di An, prima sindaco e poi vicesindaco della sua città, presidente dell'Agenzia per il patrimonio culturale euromediterraneo. Ovvio che per le plenarie ci fosse poco spazio in agenda. Giorgio Carollo, ex forzista, di tempo invece ne aveva. Ma negli ultimi anni si è occupato soprattutto del suo nuovo movimento politico, Veneto per il Ppe. Nel suo carniere non c'è traccia di interventi o relazioni, nonostante il deputato sul sito prometta ai fan "di tenerli aggiornati su tutte le iniziative che prenderemo". Attento ai settori della pesca e dell'agricoltura, nel 2004 in campagna elettorale si è fatto notare come organizzatore di un corso contro l'invasione di cinghiali abusivi nei boschi veneti. Anche Nello Musumeci della Destra, tra gli italiani più assenti, nel suo ultimo intervento in aula si è occupato di agricoltura, chiedendo all'Europa unita il riconoscimento della Dieta mediterranea come patrimonio dell'Unesco. "L'arancia rossa di Sicilia, unica al mondo per i suoi pigmenti ricchi di sostanze antiossidanti", ha ribadito, "occupa un posto d'onore tra i prodotti della dieta".

I lobbisti che difendono gli interessi delle aziende italiane sono disperati. "Abbiamo pochissimi interlocutori", racconta un pr che preferisce restare anonimo, "la maggioranza dei nostri non sa nemmeno parlare inglese, non sono capaci di difendere le proposte e gli emendamenti in riunione. Non vanno alle sedute di gruppo, disertano le commissioni economiche perché sono troppo tecniche. Invece di gente preparata, qui arrivano leader che devono svernare, politici trombati, fratelli di potenti e seconde scelte. E se tra quadri intermedi e uscieri facciamo furore, a livello di direttori generali facciamo pena. Nonostante l'importante nomina di Marco Buti agli Affari economici, il peso specifico resta inferiore a quello di Olanda e Irlanda. Paradossalmente comandiamo l'ufficio 'Traduttori e interpreti'".

I primi della classe "Neugierig auf mein tagebuch?", dice dal suo sito un sorridente Sepp Kusstatscher. Non è uno scherzo: l'europarlamentare italiano più affidabile (che invita a leggere il suo diario online) parla in tedesco. Sudtirolese, teologo ed ex esponente della Svp, è passato nei Verdi altoatesini, e tra i nostri detiene il record di presenze: 272 plenarie su 274, percentuale del 99 per cento. "Meglio dei finlandesi", sospirano i funzionari tricolori, tra cui Sepp è un mito, una bandiera, una mosca bianca. Anche Pasqualina Napoletano è tra i pochi italiani rispettati dai colleghi stranieri. Praticamente sconosciuta in patria, nonostante sia stata a capo della segreteria di Veltroni ai tempi del primo governo Prodi, fa la terapista del linguaggio ed è stata eletta tre volte a Strasburgo. Una stakanov che è diventata vicepresidente del Pse, con la responsabilità della politica estera, e che ha lasciato il Pd per la Sinistra democratica. Quarto in classifica, dopo il rifondarolo Musacchio, c'è Luca Romagnoli, che riscatta l'onore degli altri parlamentari di estrema destra: il geografo che insegna alla Sapienza, accusato di essere un negazionista dell'Olocausto, ligio al dovere è mancato solo sette volte su cento, e ha straparlato con 238 interventi in plenaria. Solo Mario Mauro ha premuto il pulsante rosso più volte di lui: ben 357. Il forzista di Comunione e liberazione non è solo un fanatico delle chiacchiere, ma uno dei parlamentari più seri in circolazione: l'ultima battaglia, combattuta insieme al democrat Gianni Pittella, è per raccogliere le firme necessarie a varare gli eurobond, le obbligazioni che permetterebbero ai paesi Ue di continuare a investire in infrastrutture nonostante la crisi.

Hotel Strasburgo Per il resto, i successi degli nostri deputati sono davvero pochini. Non solo per la svogliatezza, come ha chiosato Gian Antonio Stella, con cui partecipano ai lavori, ma anche perché spesso e volentieri abbandonano Strasburgo per altri lidi. Un posto a Montecitorio, la presidenza di una Regione, un'assessorato, una trasmissione televisiva, qualsiasi cosa è preferibile al tedio dell'Europarlamento. Complice, forse, anche il rigido clima nordico, in quattro anni e mezzo su 78 seggi a disposizione l'Italia ha visto fuggire ben 36 parlamentari. Dopo di noi i francesi, con 11 abbandoni. I tedeschi, con 99 seggi di diritto, contano appena otto fuggitivi, gli inglesi solo cinque. Inutile invocare le elezioni politiche del 2006 e del 2008: nel quinquennio si è votato quasi in ogni Stato membro, ma quasi nessun europarlamentare straniero si è sognato di lasciare Strasburgo. I nostri big, al contrario, si mettono in lista per fare da specchietti per gli elettori, ma appena possono lasciano il posto a sconosciuti. Per il Paese il turn-over selvaggio è un disastro. In Parlamento vengono emendate tutte le decisioni della Commissione Ue, e nelle commissioni si decidono norme che diventeranno leggi nazionali. "L'altro ieri", ricorda il lobbista, "a causa delle pressioni di inglesi, francesi e altri ci siamo giocati un pacco di milioni, che invece di cantieri nazionali andranno a finanziare opere strategiche straniere".

I primi a lasciare sono stati Ottaviano Del Turco e Mercedes Bresso, eletti nel 2005 governatori di Abruzzo e Piemonte. Sono stati sostituiti da Vincenzo Lavarra e dall'ex calciatore Gianni Rivera. Stessa scelta per l'Udc Antonio De Poli, che non ha resistito a un'assessorato regionale alle Politiche sociali offerto dal neo presidente Giancarlo Galan. Michele Santoro, con all'attivo zero relazioni e due interventi due in aula, tediato dall'esperienza dopo appena un anno e mezzo ha lasciato baracca e burattini per partecipare allo show di Celentano 'Rockpolitik'. Il sostituto, Giovanni Procacci del Pd, è riuscito a fare peggio: nessun intervento, niente relazioni, 45 per cento di assenze, dopo cinque mesi viene eletto in Parlamento e lascia la poltrona a Donato Veraldi. Per molti un miracolato, su Internet viene definito "il parlamentare europeo calabrese più votato nella storia".

La grande fuga Le elezioni dell'aprile 2006 che riportano Romano Prodi al governo svuotano il team di centrosinistra di tutte le punte. La girandola fa venire mal di testa. Enrico Letta va a sostituire lo zio Gianni come sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Massimo D'Alema lascia la delicata presidenza della delegazione per le relazioni con il Mercosur (la Cee del Sudamerica) e diventa ministro degli Esteri. Al loro posto Gianluca Susta e Andrea Losco, da sempre vite da mediani. Fanno le valigie, senza lasciare rimpianti, anche Bersani, Cirino Pomicino, la Bonino e l'Ucd Cesa. Per la sostituzione di Di Pietro, altro campione di assenze, scoppia addirittura una guerra. Il posto e il lauto stipendio toccherebbero ad Achille Occhetto, che nel 2004 aveva lasciato spazio a Giulietto Chiesa. Ma il leader dell'Italia dei Valori, la cui amicizia con Occhetto è intanto finita sotto montagne di carte bollate, pretende che la sua poltrona sia assegnata al fedelissimo Beniamino Donnici. L'ex segretario del Pds ha rinunciato anni prima, questa l'accusa, e ora non può tornare sui suoi passi. Un voto ad hoc in plenaria è favorevole a Occhetto, Di Pietro insiste e si rivolge nientemeno che alla Corte di giustizia europea. "Si tratta di un affare di Stato che se sottovalutato", esclamava, "rischia di calpestare le basi costituzionali della nostra sovranità". Il tribunale accoglie il ricorso di Donnici, il resto d'Europa assiste sconsolata.

Contro ogni logica a Strasburgo fanno una breve visita anche Corrado Gabriele, che resta 40 giorni prima di tornare a fare l'assessore con Antonio Bassolino, e il leghista Gianpaolo Gobbo, che fa una capatina ma poi preferisce indossare la fascia di primo cittadino di Treviso. Il curriculum europeo del piddì Giuseppe Bova segnala due presenze in due mesi: famoso in Calabria per aver querelato i ragazzi del movimento antimafia di Locri, ha preferito rimanere presidente del Consiglio regionale. Superassenteista giustificato Umberto Bossi, che dopo l'ictus è andato a Strasburgo 21 volte (per le elezioni di giugno conta di ricandidarsi come capolista), mentre poche scuse possono accampare Alessandra Mussolini e Lilli Gruber, che prima di preferire il Parlamento e la conduzione di 'Otto e mezzo' non si sono certo distinte per iperattivismo. Anche il ministro Renato Brunetta non può fare la morale: assente una volta su tre, nessuna relazione all'attivo. Non ha fatto meglio la sua sostituta, quella Elisabetta Gardini che faceva il portavoce di Forza Italia e che in Europa ha aperto bocca solo una volta e si è fatta vedere di rado.

Il modello 'porte girevoli' inventato dagli 'italians' di Strasburgo tocca quota 36 avvicendamenti lo scorso novembre, quando viene regalata anche ad Antonio Mussa, oncologo di An, l'ebbrezza di una gita nelle aule Ue. Mussa deve ringraziare Romano La Russa. Il fratello del ministro Ignazio lo scorso giugno non ha potuto resistere alla chiamata di Roberto Formigoni, che lo ha voluto assessore regionale. Una delle sue ultime apparizioni pubbliche come europarlamentare (ha mantenuto il doppio incarico per mesi, chissà come si sarà regolato con gli stipendi) è stata nel campionato di 'Calciobalilla umano': La Russa era la stella del team Italy and friends. Non ci sono tabellini delle partite, ma da Bruxelles giurano che la squadra italiana, almeno con il pallone tra i piedi, si è fatta valere.
 
 
Ondata di polemiche contro Uribe dopo la liberazione di Jara
I rilasci avvengono dopo uno scambio epistolare durato sei mesi tra le FARC e un gruppo d'intellettuali, giornalisti, professori e gente comune preoccupati per la pace e il futuro del paese. Colombiane e Colombiani per la pace, come hanno deciso di chiamarsi gli oltre 130.000 firmanti, rappresentano un risveglio da quella atavica indifferenza verso le violenze del conflitto interno, di cui sembrano afflitti i Colombiani. Forse il secondo sintomo dopo le enormi manifestazioni contro il sequestro del 2008.
Tra gli esponenti di Colombiane e Colombiani per la pace la senatrice liberale Piedad Cordoba, già protagonista al tempo della mediazione del presidente Venezuelano Hugo Chávez, ha guidato la commissione umanitaria che si è incaricata di riportare a casa i sequestrati.

Altra novità sembra l'apertura al dialogo delle FARC dell'era di Alfonso Cano, nuovo comandante massimo, dopo la morte dello storico capo Manuel Marulanda, che ha guidato l'organizzazione per oltre 40 anni. Cano e la maggior parte del segretariato delle FARC non sono contadini che hanno impugnato il fucile per difendersi, come i loro predecessori, ma ex studenti delle grandi città che hanno abbracciato le idee rivoluzionarie. Domenica sono stati liberati quattro rappresentanti delle forze dell'ordine, Martedì è stato il turno di Alan Jara, ex governatore liberale della regione del Meta e per Giovedì si aspetta Sigfrido López, uno dei dodici deputati del Valle sequestrati da quasi 7 anni. López è l'unico dei 12 ancora in vita, nel Giugno del 2007 si è appreso, infatti, che in circostanza non chiare, gli altri 11 erano stati uccisi. Si spera che l'ex deputato possa aiutare a chiarire questi eventi. Jara faceva parte di quel gruppo di sequestrati in mano alla Farc cosiddetti scambiabili, lo stesso di Ingrid Betancourt. Dopo sette anni e mezzo di sequestro ha potuto riabbracciare sua moglie Claudia e suo figlio Alan Felipe ormai adolescente. Nella conferenza stampa immediatamente successiva al suo arrivo all'aeroporto di Villavicencio a bordo di un elicottero offerto dal governo Brasiliano, che, con la croce rossa internazionale, ha agito da garante durante queste liberazioni, Jara non ha usato mezzi termini con il governo di Álvaro Uribe Velez.

"Parlando in tutta sincerità - ha affermato - devo dire che penso che Uribe non abbia fatto nulla per la nostra libertà [...] la sua attitudine non ha aiutato in nessun modo affinché si produca uno scambio umanitario." Jara, estremamente lucido e con la battuta sempre pronta, si è spinto oltre nella sua analisi dell' attuale congiuntura politica del paese: "io mi azzardo a dire che sembra che al presidente Uribe convenga la situazione di guerra del paese e che, qui sta la perversione, alla guerriglia serva il presidente Uribe." Jara spiegando questo punto ha citato una conversazione con il comandante guerrigliero incaricato della sua liberazione, durante la quale il ribelle avrebbe affermato che la rivoluzione prospera in una situazione di crisi, come quella che genera il governo Uribe, rifacendosi alla categoria politica della situazione rivoluzionaria Leninista, e che lui, personalmente, avrebbe visto di buon occhio un eventuale terzo periodo del presidente. Jara ha parlato anche della sua impressione sulla guerriglia più antica del continente, le FARC: "non so che impressione abbiate voi da fuori, ma io durante il mio cammino verso la libertà ho camminato per sei settimane in un territorio dove c'erano guerriglieri ovunque e quasi tutti molto giovani, alcuni minorenni". Secondo Jara le FARC risentono dell'offensiva militare degli ultimi anni ma sono ben lontane dall'essere sconfitte: "hanno una logistica invidiabile, una rete di approvvigionamento funzionante e tanta gente". "Dico questo - ha continuato - sentendo ancora il freddo della catena alla mia caviglia". Rispondendo alle domande dei giornalisti l' ex governatore del Meta spiega come mai, secondo lui, tanti giovani continuano ad entrare nella guerriglia: "le ragioni sono tante, ma si riassumono nella mancanza di opportunità: non hanno possibilità di lavorare, di studiare, sono umiliati e non hanno alternative, finché esisteranno queste condizioni esisterà la guerriglia."

Il paese che vede il presidente Uribe è invece molto diverso e diversa è la sua soluzione che per il conflitto: "se so che in qualche punto del paese ci sono guerriglieri io mando gli aerei a bombardarli, questo è chiaro", ha affermato dopo un'ora di conversazione con Alan Jara, solo, sull'uscio della sua casa, in una iraconda conferenza stampa. "Sarei ipocrita - ha continuato - se dicessi che l'esercito non sta cercando i sequestrati nella foresta per liberarli". A questa frase ha risposto il giorno seguente lo stesso Jara: "allora speriamo che non li trovino, perché se c'è una cosa che i guerriglieri sanno per certo e che non si lasceranno togliere gli ostaggi vivi dalle mani [...] quando c'era un rumore nella foresta il fucile lo puntavano su di noi e non verso il rumore. [...]A parte il primo mese durante il quale avevo paura che mi uccidessero, ho passato 7 anni in un mondo al contrario. La guerriglia ci proteggeva e l'esercito ci bombardava o quasi ci faceva ammazzare." Il paese sta vivendo una crescente polarizzazione tra i sostenitori del presidente che vedono nella guerra e nella vittoria militare l'unica soluzione e una parte della società civile di cui fa parte Colombiane e Colombiani per la pace che invece crede sia giunta l'ora per una negoziazione seria con il gruppo guerrigliero. Quello che è chiaro è che nel settimo anno del governo di Uribe il presidente sembra aver esaurito il capitale politico e anche quello economico, per la crisi e i cambiamenti a Washington, per continuare l'offensiva militare che caratterizzato la sua presidenza

 

5 febbraio

 

Alitalia/Cai: il figlio di papà non resta a terra
 
Matteoli_220Qualcuno nasce con la camicia, qualcuno con le ali ai piedi. Federico Matteoli, figlio dell’Altero ministro alle Infrastrutture, può vantare di avere sia le ali, sia la camicia: almeno quella con i gradi di pilota della Cai di Roberto Colaninno & Company, che il giovane aviatore è riuscito a strappare di dosso a colleghi più titolati per anzianità aziendale, età, esperienza e figli a carico. Come ha fatto? Matteoli junior era già stato graziato una volta: nella defunta compagnia di bandiera era entrato solo nel 2002, unico e ultimo assunto a tempo indeterminato, con le assunzioni chiuse da mesi. Il papà allora era ministro all’Ambiente. E il suo partito, An, nella vecchia Alitalia contava su Silvano Manera, poi nominato direttore generale dell’Ente per l’aviazione civile (Enac), e Luigi Martini, ex parlamentare, oggi consulente personale di Rocco Sabelli, l’ad della nuova compagnia. Questa volta però il Federico volante sembrava destinato alla cassa integrazione, anche perché l’aereo che guida, l’Md80, finirà in pensione. Invece ecco il colpo di scena: i manager di Colaninno-Sabelli-Martini hanno inventato una graduatoria di anzianità a parte a Milano, la città dove Matteoli junior era stato assunto. E così il figlio del ministro ha potuto scavalcare centinaia di colleghi davanti a lui. Un buon inizio per un’operazione che già ci costa 3 miliardi e 300 milioni: 55 euro di debiti per ciascun italiano, compresi i bambini.    F. G.
 

"Per ogni donna offesa, siamo tutte parte lesa"...
di Barbara Tummolo

Valanghe di parole e lacrime di comprensione dalle tv, dalla radio e ai giornali. Tutto un mondo maschile che commisera, e si flagella in diretta. Le ultime cronache di violenza carnale hanno innescato una corsa senza precedenti alla solidarieta’ a mezzo stampa verso le vittime, robustamente sostenuta da cifre, dati, opinioni degli esperti, commenti sulla devianza giovanile e sulla criminalita’ degli immigrati. Tutto bene, ma non di soli dati si vive…
Ci vogliono interventi concreti, per contrastare seriamente questo reato. Interventi che invece non sembrano proprio all’orizzonte. Fatta salva l'importante delibera del Consiglio comunale di Roma che permette al Comune di costituirsi parte civile nei processi per stupro, oppure di dare mandato a rappresentarlo alle associazioni attive sul territorio, ne’ il Governo ne’ altre istituzioni, o altre amministrazioni comunali, hanno sino ad oggi messo in piedi un qualsiasi piano d’intervento concreto per prevenire il reato, mantenendo fermo il punto della liberta’ femminile.
Proprio partendo dalla delibera romana, che realizza una vecchia richiesta del movimento delle donne - la costituzione delle associazioni ai processi per stupro -, cassata dal Parlamento al tempo dell’approvazione della prima legge contro la violenza sessuale - correva l’anno 1997 -, siamo andate a vedere che cosa succede sul piano legislativo a proposito del reato di violenza sessuale. Che ne e' del disegno di riforma della legge presentato in Parlamento, e attualmente giacente in prima Commissione?

Ecco dunque il viaggio di women nella legislazione italiana che persegue e punisce gli stupratori, vale a dire chi si rende attore e complice del reato di violenza sessuale perpetrato ai danni della “persona donna”. Non si tratta di una puntualizzazione fuori luogo, l’indagine sulla sorte del disegno di riforma della legge sopracitato, rimanda pari pari alla “vecchia legge del 1996, che il Parlamento approvò dopo ben diciassette anni (avete letto bene, DICIASSETTE) di dibattito in Aula sul testo di iniziativa popolare, presentato al Senato nel 1981 dopo la raccolta firme organizzata dal movimento delle donne. Strada per strada.
Non c’e’ bisogno di sottolineare che, se quella legge arrivò in Parlamento, fu perché le donne l’avevano fortemente voluta. Pensata e scritta.
Sottolineiamo invece la pietra dello scandalo, che comportò un dibattito durato quasi quanto una generazione. Prevedeva infatti quella legge che il reato di violenza sessuale venisse considerato reato “contro la persona” e non “contro la morale”, com’era sino a quel momento con buona pace di tutti i conformismi. Come dire, offesa dal reato non era la cittadina donna, persona titolare del diritto all’integrità del corpo, ma la morale, vale a dire l’onore della famiglia e del contesto sociale. Preistoria? Magari…. Temiamo però di no, e che i vecchi vizi di un Paese privo della cultura dell’uguaglianza di genere, tornino ciclicamente come il lupo sotto mentite spoglie…
Iniziamo dunque il nostro viaggio nelle due leggi, cominciando con il riportare alla memoria similitudini inquietanti. Fu uno stupro di gruppo, uguale e diverso da quello di Guidonia, ad accendere l’attenzione sulla questione “violenza sessuale” e la reazione delle donne che avrebbe portato alla legge d’iniziativa popolare del 1979…

29 settembre 1975. Due giovani ragazze, Donatella Colasanti e Rosaria Lopez, invitate ad una festa in una villa sul Circeo, nel litorale laziale, da tre giovani della Roma “pariolina”, Giovanni Guido, Angelo Izzo e Andrea Ghira, vengono violentate, seviziate e picchiate per un giorno intero. Gli aguzini, completamente drogati si scoprira’ dopo, le chiudono alle fine nel bagagliaio di un’automobile. Rosaria vi muore dentro, Donatella sara’ ritrovata dalla polizia con il corpo martoriato ed in grave stato di choc. (Per la cronaca, i tre violentatori, poi arrestati, tutti rei confessi, riusciranno in vario modo ad espatriare ed ad evitare la galera. Clamoroso il caso di Izzo, autore di un altro efferato stupro e duplice assassinio).
Parte dal massacro del Circeo, la reazione del movimento delle donne. Nel 1976, una manifestazione notturna attraversa Roma; alla luce delle fiaccole, le ragazze del movimento gridano un solo slogan “Riprendiamoci la notte”.
Ancora in questi anni, vige nell’Italia repubblicana il Codice Rocco del periodo fascista. Restera’ in vigore sino all’entrata in vigore dell’attuale codice penale approvato solo nel 1989. Tramanda, il Codice Rocco, la concezione familiare veicolata dal Fascismo apertamente patriarcale. La donna ,“sposa e madre esemplare”, e’ soggetta al suo destino biologico per il bene della Patria…. I reati di violenza sessuale vengono di conseguenza rubricati come “reati contro la morale pubblica e il buon costume”, non portanti perciò offesa alla persona che li subisce. Lo stupro, per essere perseguito, necessita di querela della parte offesa, ovvero la denuncia da parte della donna stuprata.
La legge seguirà due percorsi diversi, in Parlamento e nelle piazze. Il movimento femminista e i movimenti storici fanno quadrato con le donne parlamentari dei partiti della sinistra storica, PCI e PSI. Seguono manifestazioni e iniziative, prese di posizione del movimento delle donne nei processi per stupro. Fanno emergere gli abissi di silenzio in cui vivono migliaia di donne “madri di famiglia”, vittime di stereotipi culturali secolari.
Intanto, in piazza, il movimento delle donne rinito in un Comitato, sollecitato dall’MLD - Movimento di Liberazione delle donne e dall’UDI - Unione Donne Italiane, che si riunisce a Roma, a Governo Vecchio, nella casa delle donne occupata dalle femministe, rivendicava l’approvazione di una legge che configuri la violenza sessuale come reato grave, e stabilisca nuove modalità processuali a protezione della vittima.
Anita Pasquali, militante dell’UDI in quegli anni, ricorda quell’anno, il 1979, quando nacque l’idea di promuovere la legge di iniziativa popolare della Repubblica contro la violenza sulle donne, la costituzione del comitato promotore (a cui fecero parte l’MLD, UDI, il collettivo Pompeo Magno, i giornali delle donne, le forze femminili del sindacato CGIL), che dette vita ad una clamorosa raccolta di firme. 300.000 in poco tempo, senza alcun apporto nemmeno finanziario da parte dei partiti di sinistra.

Storico è rimasto l’8 marzo del 1980, quando un corteo di donne, con le carriole piene di fogli, arriva davanti al Senato per consegnare le firme al Parlamento…
Lo stesso Parlamento che continuava a tentennare tra continui rinvii, rifiuti, approvazioni parziali di altri disegni di legge presentati nel frattempo da alcune forze politiche. Quelli erano gli anni in cui la DC era ancora il partito principale in Italia, non esisteva un fronte laico compatto, - Pli, Pri, Psdi sono tutti satelliti della DC che rifiuta la questione della procedurabilità d’ufficio, come la querela nella coppia.
La legge sara’ approvata nel 1996, dopo ben sedici anni di dibattito, monca rispetto al testo proposto dalla Commissione Giustizia. Riconosce lo stupro come reato contro la persona e non più vs la morale, ma cassa la procedurabilità d’ufficio per i reati commessi nel rapporto di coppia, e la partecipazione delle associazioni come parte civile nei processi.
Nel frattempo, molta acqua e’ passata sotto i ponti per la politica delle donne, e non solo…
Il movimento femminista si e’ ritirato dalle piazze, il terrorismo entra nella cronaca quotidiana e nella politica quotidiana, cosi’ la questione “mafia” con i suoi delitti eccellenti, poi sara’ la volta di tangentopoli, la fine della prima repubblica… La questione della violenza sessuale conitnua a stare in soffitta…

Eccoci ai giorni nostri. Durante il secondo governo Prodi, Barbara Pollastrini, nella sua qualita’ di minstra per le pari opportunita’, presenta un progetto di riforma della legge sulla violenza sessuale. il 1 luglio 2008, per iniziativa del Governo Berlusconi, il progetto è stato assegnato alla Commissione Giustizia, presieduta da Giulia Buongiorno, PdL, che ha approvato un documento unificato, comprensivo di alcuni compendi, che adesso è in attesa di passare alla Camera per la prima discussione.
Le nuove disposizioni prevedono, all’articolo 1 (delitto di violenza sessuale) che chiunque costringe con violenza, minaccia, abuso taluno a compiere o subire atti sessuali è punito, con la reclusione da 5 a 12 anni, stessa pena se il reato è compiuto verso persona con inferiorità fisica, psichica, in caso di recidiva gli anni di carcere possono raddoppiare.
All’art.2 (circostanze aggravanti) la pena va dai 6 ai 12 anni, nel caso in cui le violenze sono commesse contro minori di 16 anni, con l’uso di droghe, armi, sostanze alcoliche… ,nei confronti di persona del quale il colpevole è il genitore, tutore,l a pena sale ad una massimo di 16 anni, se la persona offesa è minore di 10 anni, se dalla violenza è derivata la morte della persona offesa la pena è l’ergastolo.
Altro compendio è all’art. 4 (violenza sessuale di gruppo) che prevede la punizione, per chi prende parte ad atti di violenza in gruppo da 6 a 16 anni di carcere, che diventano 20 se la violenza è stata commessa su un minore, se alla persona offesa sono conseguite lesioni personali gravi, fino all’ergastolo se ne consegue la morte.
Il testo unificato prevede inoltre all’art.7 (intervento in giudizio) la partecipazione in giudizio dell’ente locale impegnato direttamente o tramite servizi di assistenza, centri antiviolenza alla cura della persona offesa, cosi come se commesso nei confronti di minori o nella famiglia. Ad intervenire in giudizio è la Presidenza del Consiglio dei Ministri o l’Osservatorio per il contrasto alla pedofilia e pornografia.
Chiude l’art.9 con il gratuito patrocinio per le vittime di reati di violenza sessuale….come ha già anticipato il Ministro della Giustizia Alfano, dichiarando l’intezione del Governo Berlusconi di inserire nel ddl sicurezza un emendamento che garantisca il patrocinio gratuito per le vittime di violenza sessuale.

La legge c’è, per giunta in un testo unificato…e allora?... che cosa manca per renderla effettiva? Manca l’impulso all’iter parlamentare, sino all’approvazione.
Intanto, i numeri della violenza salgono: 6.271.000 le donne che hanno subito violenze sessuali, fisiche, psicologiche dal partner, 5.000.000 solo quelle sessuali, 1.000.000 gli stupri o i tentati stupri, 2.077.000 le donne oggetto di stalking da parte di ex-mariti e fidanzati, 1.400.000 le minorenni vittime di violenze sessuali e fisiche, e dato più amaro, solo il 7,3% le donne che hanno denunciato gli abusi da parte dei partner.
In attesa della nuova legge, “..basterebbe applicare le norme già esistenti, non tagliare risorse preziose al fondo antiviolenza, che ha aiutato le “ case delle donne” dove le vittime di abusi possono rifugiarsi, sfuggendo a mariti, amanti aguzzini”, ammonisce comunque Emma Bonino,
E Vittoria Franco, senatrice del Pd, “occorre intervenire sulla sicurezza ma anche sulla prevenzione, vogliamo che il Governo promuova campagne antiviolenza per informare le donne sulle strutture di prevenzione e contrasto, e nello stesso tempo istituisca corsi di educazione al rispetto della differenza femminile nelle scuole,per aiutare i giovani ad imparare il rispetto della dignità delle donne.”
A rimanere sempre valido, e’ sempre l’antico slogan delle femministe, “per ogni donna offesa, siamo tutti parte lesa.”.

 

 In citta'

Stupri, razzismo e media

di Nella Condorelli

Domenica mattina, in un bar familiare a Roma. Atmosfera tranquilla, poster giallorossi, la cassiera legge Gente, pigrizia nell’aria e davanti al caffe”. Entra una signora sui cinquant’anni, biondina e grassottella. Compra due bottiglie di latte fresco. La conosco, e’ rumena, abita oltre questo municipio, il marito e’ muratore, il cognato capomastro, lei sta a casa con i due figli. Ogni tanto, viene da queste parti e fa qualche servizio domestico. Ogni tanto torna in Romania (ma tutto costa sempre di piu’, e si viaggia sempre meno). Ogni tanto, racconta del villaggio che ha lasciato. E mostra qualche fotografia: una valletta ondulata (potrebbe essere pascolo ma la terra e’ troppo dura), un gruppo di case in un angolo (si potrebbe stare bene, ma e’ troppo isolato e lontano da qualunque citta’, non c’e’ lavoro). Ogni tanto, si fa prendere dalla nostalgia di casa, di quando la scuola e la salute erano gratuiti, e tutti andavano con le scarpe ai piedi, facevano le scuole, e imparavano pure un mestiere. Ogni tanto, porta un po’ di biscotti tipici rumeni fatti in casa, e li conserva nella biscottiera mulino qualcosa, contenta: “bella Romania, bella Romania”.
Entrano nel bar due ragazzotti, ordinano un caffe’ in vetro, rumoreggiano spavaldi, la rumena va alla cassa a pagare. La cassiera gentile le chiede se e’ straniera. Con un soffio di voce roca che non le conosco, nel suo italiano eternamente stentato, la sento rispondere “sono bosniaca”.
Vado via mentre il Gr Lazio calca in testa la notizia di una bomba carta lanciata stanotte contro un negozietto gestito da rumeni, in un quartiere della capitale. Rivedicazione dei soliti autori: vendetta per lo stupro di Guidonia.

Ecco il teorema, penso incamminandomi verso casa. Stupri, media, razzismo. 
Ha ragione Natalia Aspesi (La Repubblica, 28 gennaio, “La barbarie dello stupro in tv”): se la notizia degli stupri diventa la prima notizia dei telegiornali, non c’e’ da stare allegri,. “Vuol dire che lo stupro e’ diventato arma politica”. E se diventa arma politica, cancella il crimine, e utilizza il dramma individuale per altri fini. Aggiungiamoci la struttura della nostra informazione televisiva che della cronaca nera ha fatto il suo vessillo di liberta’, e’ il prisma e’ chiaro.
Ecco dunque, dalla Tv, l’ultimo utile modello femminile, la “vittima di stupro”. Un modello uniforme (ai canali pubblici e privati, terrestri e satellitari) che passa attraverso la proposizione di una categoria ben definita. Donne-vittime. Donne da tutelare. Donne da proteggere. Donne da raccontare con la solidarieta’ pelosa che si riserva ad un “minus habens”. Donne da dimenticare un attimo dopo.
Quali informazioni, infatti, dietro l’effluvio di parole intrise di commozione? Nulla. E’ qui, temo, che la questione si fa veramente politica, nella direzione delle donne.
A mancare, infatti, e’ la parte propositiva. A mancare, sono tanto i commenti e le analisi (per esempio, sui meccanismi di sviluppo della violenza sessuale, a livello sociale e di genere, attraverso le generazioni), quanto le informazioni su quello che la politica fa per contrastare questo “reato”.
Ecco, la parola chiave. Reato. Parola semplice, che definisce cio’ che in sostanza e’ la violenza sessuale. Un reato perpetrato ai danno di una persona.  Se fosse posta al centro del servizio informativo, questa parola, quanto meno darebbe senso sociale alle tragedia individuali. Forse, spianerebbe anche la strada all’educazione in famiglia, alla chiarezza a scuola, alla generale definizione di “rispetto della persona umana” da parte dello stato. Per non dire, dei concetti di parita’ e uguaglianza.
Di notizie da approfondite, in questa direzione, ce ne sarebbero ad ufo, e tutte di prima mano.
Dall’iter della riforma della legge sulla violenza sessuale che giace alla 1.a Commissione in Parlamento, al  dibattito innescato dalla delibera approvata dal Consiglio comunale di Roma che permettera’ alla Giunta (o ad associazioni designate a rappresentarla), di costituirsi parte civile nei processi per stupro, -  una norma richiesta una trentina d’anni fa al movimento delle donne, e cassata dal Parlamento nell’ approvazione della legge contro la violenza sessuale del 1996 -, alla storia di quella legge.

Per l'appunto. Sarebbe istruttivo, vederci dedicato un programma di approfondimento. La memoria aiuta a districarsi nel presente.
La memoria della prima legge italiana specificatamente rivolta a definire e contrastare il reato di violenza sessuale racconta che il nostro Parlamento impiego’ ben sedici per approvarla. Dal 1981, anno in cui il testo di legge di iniziativa popolare ( fortemente voluta dal movimento delle donne con un’imponente campagna di raccolta firme), arrivo’ con le sue firme al Senato, al 1997 quando venne finalmente licenziato, con modifiche e stravolgimenti rispetto alla stesura originaria.
Il punto, ricordiamolo, e’ che introduceva un concetto fondamentale, uno solo: la violenza sessuale e’ un “reato contro la persona”. Sembra banale adesso, ma sino a poco piu’ di dieci anni fa, alle soglie del Terzo Millennio, la violenza sessuale in Italia era ancora considerata un reato ”contro la morale e la razza”. Inesistenti le donne, parte offesa. In nome dell’onore, sede di tutti i patriarcati.

Con questo passato prossimo alla spalle, lasciatemi nutrire piu’ di un sospetto sull’attuale stupro in tv. Temo che dietro il modello delle donne-vttime si nasconda il vero oggetto dell’eterna contesa politica tra uguaglianza e disparita’: il diritto alla liberta’. Che e’ liberta’ del corpo e della mente. Piagate dalla paura, ridotte al rango di vittime mute (emblematica, l’evoluzione del messaggio trasmesso dalla ragazza violentata per Capodanno, da giustiziera solitaria a incappucciata in cucina), ghettizzate in massa  nel nome  taciuto del "sesso violato", quel che rischiamo di perdere e’ la liberta’ femminile insieme al diritto di piena cittadinanza.

Per questo, tornare a chiedere fermamente che la violenza sessuale sia trattata, dunque considerata, un reato nella sua specifica dimensione di reato (escludendo qualsiasi concessione all'eterno agguato della "sacralita'" del sesso), rifiutarsi a strumentalizzazioni in nome della "sicurezza", pretendere un linguaggio appropriato, opporsi ai compiacimenti mediatici,  mettere un punto fermo sugli appelli, i comunicati e le marce finalizzate a sensibilizzare (chi?), rifiutarsi di partecipare a programmi tv schiacciati sul nuovo sensazionalismo delle poveredonne-poverevittime, diventa oggi piu’ che urgente, vitale, morale.
Di mezzo, c’e’ la (ri)definizione dell’identita’ femminile, attraverso il braccio secolare della paura. Ci passa accanto di tutto. Compresi razzismi e intolleranze,  vecchi e nuovi. La donna rumena che si finge bosniaca docet.


di Enrico Piovesana
 
Il governo di Colombo rivendica il diritto di bombardare gli ospedali

Gli incessanti e indiscriminati bombardamenti governativi su quel che rimane del territorio controllato dai ribelli tamil dell'Ltte hanno provocato la morte di altri 52 civili e costretto la Croce Rossa Internazionale a evacuare l'unico ospedale della zona, nuovamente bombardato dall'artiglieria singalese. "Obiettivo legittimo", per il governo di Colombo.

Croce Rossa: "Violata la Convezione di Ginevra". di "Ieri sera il nostro ospedale di Puthukkudiyiruppu è stato bombardato per la quarta volta in pochi giorni, per sedici ore consecutive: la prima bomba ha centrato la sala operatoria durante un intervento", ha riferito a PeaceReporter Sophie Romanens, portavoce della Croce Rossa Internazionale a Colombo. "I morti sono tanti ma non c'è stato il tempo di contarli: questa mattina, appena sono finite di cadere le bombe, l'ospedale è stato evacuato in gran fretta. I nostri coordinatori medici, il personale locale e circa trecento pazienti si sono mossi in convoglio, allontanandosi dalla linea del fonte e dirigendosi a nord, verso Puttamatalam, sempre all'interno del territorio ribelle, alla ricerca di un posto più sicuro dove allestire un ospedale di fortuna. Bombardare un ospedale civile costituisce una flagrante violazione dell'articolo 18 della Quarta Convenzione di Ginevra sulla protezione dei civili in teatro di guerra".

L'Onu conferma: 52 civili tamil uccisi ieri. Intervistato da SkyNews, il ministro della Difesa Gotabaya Rajapaksa aveva esplictamente rivendicato la legittimità dei bombardamenti sull'ospedale: "Nessun ospedale dovrebbe operare all'esterno dalla 'No Fire Zone', tutto ciò che si trova fuori dalla zona di sicurezza è un obiettivo legittimo", ha dichiarato davanti alla telecamere PeaceReporter ha chiesto un commento al portavoce delle Nazioni Unite in Sri Lanka, Gordon Weiss. "La legge umanitaria internazionale è molto chiara: nessun ospedale, ovunque si trovi, per nessuna ragione può essere considerato un obiettivo militare".
Weiss ha anche confermato l'uccisione di 52 civili nei bombardamenti di ieri, smentita dall'esercito singalese che ha accusato i ribelli dell'Ltte di mostrare come civili i suoi combattenti uccisi dopo aver loro tolto armi e uniformi. "La notizia di questo ennesimo massacro di civili, avvenuto nella zona di Sudanthirapuram, mi è stata riferita dal nostro personale in loco ed è quindi da ritenere assolutamente attendibile".

Il governo rifiuta la tregua umanitaria. Ieri sera il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, e il ministro degli Esteri britannico, David Miliband hanno emesso una dichiarazione congiunta in cui chiedono una tregua umanitaria immediata per portare aiuto ed evacuare i 250 mila civili intrappolati nella zona di conflitto.
Ma il governo dello Sri Lanka ha risposto che un cessate il fuoco è fuori discussone e che l'obiettivo è "schiacciare i ribelli".

 

 

 

Santità e pedofilia

di Paolo Tessadri

Le accuse di molestie coinvolgono l'ex vescovo di Verona. La Curia replica: menzogne

 
Il vescovo Giuseppe Zenti
Bruno, il 'bello' del collegio, viso angelico e occhi azzurri, capelli ricci biondo-castani, lo ha indicato tra coloro che avrebbero abusato di lui. Un alto prelato che si sarebbe intrattenuto con lui nel 1959, quando aveva 11 anni e viveva con altri bambini sordi nell'Istituto Provolo. Una denuncia circostanziata, quella di Bruno, che indica l'alto prelato in monsignor Giuseppe Carraro, vescovo di Verona morto nel 1981, per il quale è stato avviato quattro anni fa un processo di beatificazione. Ma dopo le accuse di 15 degli ex allievi sordomuti riuniti nell'Associazione Provolo contro sacerdoti pedofili rivelate da 'L'espresso' nel numero della scorsa settimana, il processo di beatificazione è stato sostanzialmente sospeso. La Curia, che ha reso noto il nome del monsignore, dovrà trasmettere al Vaticano i nuovi elementi perché vengano valutati.

Gli ex allievi, bambini e bambine affidati all'Istituto per sordi, hanno descritto tre decenni di molestie commesse da 25 tra religiosi e fratelli laici: l'ultima risale al 1984. Fatti che per il codice penale non costituiscono più reato. Ma le accuse rivolte contro monsignor Carraro sono l'elemento che ha maggiormente indignato l'attuale vescovo di Verona, Giuseppe Zenti. Dopo un primo comunicato in cui parlava di "profonda sofferenza e di accertamento della verità", ha poi alzato i toni: "Una montatura infamante, menzogne". Il vescovo ha attaccato il presidente dell'Associazione, Giorgio Dalla Bernardina, che avrebbe "plagiato" i sordi: "Sospetto che le dichiarazione le abbia firmate lui". Inoltre ha ribadito le accuse di "ricatto" per ottenere una serie di richieste economiche. Richieste che s'incentrano sulla sede dell'Associazione, di proprietà dell'Istituto Provolo, da dove sono stati sfrattati. Immediata la riposta dell'Associazione: "Il problema della sede è inesistente, ci hanno domandato 200 euro al mese, dopo una prima richiesta di 3 mila. Noi non abbiamo accettato e ne abbiamo trovata un'altra. Un ricatto per 200 euro, ma siamo matti? E perché non ci ha denunciato?". La loro versione è opposta a quella della Curia: "I nostri problemi sono cominciati più di tre anni fa, quando abbiamo denunciato i casi di pedofilia all'arcivescovado. Da allora hanno cercato di cancellare la nostra presenza e la nostra voce. Ma i sordi parlavano di abusi già 30 anni fa. Visto che il vescovo parla di ricatto, l'Associazione è pronta a querelarlo", riferiscono i portavoce Giorgio Della Bernardina e Marco Lodi Rizzini.

Nella loro sede il clima è sereno. Ogni sera qui si ritrovano più di cento persone, di tutte le età. Giuseppe è uno dei 15 ex allievi del Provolo che hanno scritto l'atto d'accusa. Fa parte dell'Ente nazionale sordi e non nasconde l'irritazione per le parole del vescovo: "Io ho firmato tutto volontariamente e consapevolmente. L'ho confessato a mia moglie tre anni fa che sono stato sodomizzato e all'epoca abbiamo denunciato tutto alla Curia. Dopo l'uscita de 'L'espresso' ne ho parlato anche con mia madre, che ha 88 anni. Così mi sono finalmente tolto questo peso dalla coscienza. Ma non ho mai voluto figli, perché non nascessero sordi e potesse accadere anche a loro". Bruno quando parla di quegli incontri in Curia non riesce a fermare le lacrime. Sessant'anni, timido per carattere, ha paura di rendere pubblico il suo nome: "Avrei troppa vergogna, come allora". È pronto a ripetere le sue accuse davanti a qualunque giudice, ma in Curia "no, mai più". Ricorda bene quel prelato e quegli incontri, cominciati poco prima del Natale 1959. Era arrivato, verso le 22, accompagnato da un fratello, oggi ancora in vita. Partivano dal Provolo a piedi o in auto. Cinque incontri dagli 11 ai 14 anni, sempre di sera, ad esclusione di uno, il giorno del diploma di terza media. Il vescovo lo fa accompagnare alle 10, poco prima dell'interrogazione. L'esame non lo fece, tuttavia il vescovo avrebbe telefonato in sua presenza al Provolo e ricevette lo stesso il diploma. Lui non è iscritto a nessuna associazione: in questi anni si è tenuto dentro il dolore. "Ma ora", dichiara, "è giusto parlare".
 
 

Vera Tim e false sim

di Vittorio Malagutti
Migliaia di telefonini intestati dai dealer a nomi di fantasia. Per incassare i premi dell'azienda. Così Bernabè è stato costretto a cambiare tutta la prima fila dei manager. E il sistema degli incentivi

Il primo affondo degli investigatori risale a qualche mese fa, in piena estate, quando, per due volte, una squadra della Guardia di Finanza ha perquisito le sedi romane di Telecom Italia. Le Fiamme Gialle cercavano documenti utili a un'inchiesta giudiziaria nata qualche tempo prima nel Nord-est, dalle parti di Vicenza. Una brutta storia: migliaia di telefonini intestati a nomi di fantasia oppure con proprietari e utilizzatori che non corrispondevano ai titolari della carta sim. Tutto faceva pensare a una gigantesca truffa in violazione, tra l'altro, delle recenti norme antiterrorismo che hanno reso ancora più stringenti le procedure per identificare chi usa un cellulare. Partita da un controllo di routine, l'indagine si è poi concentrata su cinque dealer veneti della rete commerciale di Telecom Italia. E infine, come era facile prevedere, l'onda lunga dell'inchiesta ha raggiunto anche i piani alti del gruppo telefonico guidato da Franco Bernabè.

Nel novembre scorso è stato sospeso, e quindi rimosso dall'incarico, Daniele Scaramastra, il manager con base a Padova che dirigeva l'intera rete di vendita di Tim per il Nord-est. A dicembre, invece, ha perso il posto, licenziato in tronco, Lucio Golinelli, 45 anni, un nome di peso nell'organigramma aziendale. A lui, infatti, faceva capo tutto il network commerciale dei telefonini. In sostanza, dopo le verifiche degli ispettori interni guidati da Federico Maurizio D'Andrea, il vertice di Telecom ha contestato a Golinelli la mancata vigilanza sui suoi dipendenti. Sembra esclusa, quindi, la complicità con i presunti truffatori. Il manager avrebbe dovuto controllare e invece non l'ha fatto. Queste, in breve, le accuse che hanno portato al licenziamento, che è stato accompagnato da un riassetto complessivo della struttura commerciale. Oltre a Scaramastra sono usciti di scena altri importanti capo area come Roberto Vergari e Alessandro Turco, responsabili, rispettivamente, per il sud e il centro Italia.

Insomma, l'indagine penale ha innescato un vero ribaltone. I collaboratori di Bernabè, però, hanno scelto di tenere un profilo basso, bassissimo sulla vicenda. Nessuna dichiarazione, nessun comunicato ufficiale. E anche l'uscita di Golinelli è emersa nei giorni scorsi soltanto in occasione della nomina del suo successore. La direzione 'sales' è infatti stata affidata al sessantenne Roberto Pellegrini, un dirigente di lungo corso che aveva perso la poltrona qualche anno fa, dopo la fusione tra Telecom e Tim ai tempi della presidenza di Marco Tronchetti Provera.

Tra i dipendenti del gruppo l'improvviso avvicendamento al vertice di un'area strategica come quella commerciale ha suscitato un'ondata di voci e interpretazioni. Non è un caso. Da tempo la rete di vendita viene chiamata in causa per vicende poco chiare. Per esempio i furti in serie di telefonini durante il trasporto ai negozi. Oppure il traffico fasullo verso numeri cosiddetti a valore aggiunto (178, 199, 899) che va a gonfiare i bilanci di società off shore controllate da misteriosi azionisti. E, infine, l'attivazione di carte sim a nome di persone inesistenti o diverse dal reale proprietario.

L'indagine veneta (ancora in corso) che ha portato al siluramento di Golinelli lascia per il momento senza risposta almeno un interrogativo. Perché mai i dealer sotto accusa si sarebbero prestati a una simile frode? Perché moltiplicare le intestazioni fittizie? Questione di benefit, probabilmente. Ovvero i premi destinati ai venditori che raggiungono i target commerciali fissati anno per anno dall'azienda. In altre parole, i guadagni aumentano in base al numero di sim attivate. Il sospetto è che la frode fosse incominciata parecchio tempo fa. Una volta scoperto il sistema per aggirare i controlli, evidentemente non proprio accurati, i dealer sarebbero riusciti ad attivare migliaia di carte taroccate moltiplicando i loro profitti. Ma c'è di più. Il mercato delle sim 'anonime' è potenzialmente molto ricco. E tra i clienti più affezionati ci sono le organizzazioni criminali.

Va detto che i manager di Bernabè, messi sotto pressione dall'inchiesta veneta, nei mesi scorsi sono corsi ai ripari. Il meccanismo di incentivazione commerciale è stato completamente rivisto, premiando il volume di traffico generato dalle sim, piuttosto che il numero delle attivazioni. E c'è stato anche un giro di vite sui controlli.
 

Franco Bernabè
Intanto Golinelli ha perso il posto. La sua sostituzione è stata decisa in una fase molto delicata per gli equilibri interni al gruppo. Luca Luciani, capo della telefonia mobile e quindi diretto superiore di Golinelli, è stato dirottato oltreoceano alla Tim Brasil. Luciani, assai rampante durante l'era Tronchetti, mesi fa era diventato (ma ne avrebbe fatto volentieri a meno) il protagonista di un esilarante caso mediatico. "A Waterloo vinse Napoleone", disse il top manager durante una convention, finendo su YouTube e poi anche in tv. Luciani a parte (definito da Bernabè in una recente intervista "il migliore dei nostri manager del mobile"), nelle settimane scorse sono state varate una serie di nomine importanti nell'organigramma manageriale. L'effetto finale è stato quello di rafforzare la presa di Oscar Cicchetti sull'azienda telefonica.

Veterano della Telecom, che lasciò quasi un decennio fa per seguire Bernabè nelle sue iniziative da imprenditore in proprio, l'abruzzese Cicchetti, 56 anni, da fine dicembre guida la nuova direzione domestic market. Come dire che dipende da lui la gestione operativa delle due aree di attività principali del gruppo: la telefonia fissa e quella mobile. Che adesso sono organizzate secondo il tipo di clientela. Pietro Labriola si occupa del settore business, cioè le aziende. I top clients (istituzioni e grandi gruppi) fanno capo a Gianfilippo D'Agostino, mentre lo spagnolo (basco) Carlos Lambarri è stato appena nominato al vertice l'area consumer. Toccherà a lui rimettere ordine nella rete di vendita dopo la truffa delle carte sim taroccate.

 

4 febbraio

Chiude Indesit, 600 persone a casa
La Indesit di None
 
Annuncio a sorpresa dell'azienda.
I sindacati: domani 2 ore di sciopero
TORINO
La Indesit, azienda di elettrodomestici di Vittorio Merloni, ha annunciato l’intenzione di chiudere lo stabilimento di None, nel Torinese, dove lavorano circa 600 persone. La Indesit, che ha un altro stabilimento nell’Est europeo, produce a None fino a 900 mila lavastoviglie all’anno. I dipendenti sono in gran parte giovani e sono numerose le donne.

«Colpisce che l’annuncio venga da un gruppo che non ha mai chiuso uno stabilimento in Italia - commenta il segretario generale della Fiom torinese, Giorgio Airaudo - in un momento di crisi in cui dovrebbe esserci da parte degli imprenditori un sostegno all’economia del Paese. Il territorio torinese, già fortemente gravato dalla cassa, non può sopportare la chiusura di uno stabilimento, soprattutto se diversificato dall’auto e con un prodotto innovativo. Va respinta qualunque ipotesi di chiusura, perchè le aziende che chiuderanno in questa crisi non riapriranno più».

«Ritengo sia inaccettabile questa prospettiva - osserva Dario Basso della segreteria della Uilm piemontese - in quanto fino ad ieri l’azienda era data per sana, progettava e investiva per il futuro. Non è accettabile che si disattendano gli impegni senza spiegazioni. Il territorio non vive, così come tutto il comparto metalmeccanico, un momento tranquillo e i lavoratori impiegati alla Merloni sono in prevalenza monoreddito. Il sindacato si opporrà a questa decisione cercando di favorire soluzioni che non gravino sui lavoratori». «Purtroppo non si tratta di un caso isolato. Faremo di tutto per tutelare e difendere i posti di lavoro», afferma il segretario nazionale della Uilm Giancarlo Ficco, responsabile del settore.

La Indesit - secondo dati sindacali - aveva previsto un aumento dei volumi produttivi del 5% tra il 2008 e il 2010, effettuando investimenti in una nuova piattaforma e per un nuovo prodotto. I sindacati immediatamente annunciano il via alla mobilitazione. Fim, Fiom, Uilm nazionali ed il Coordinamento nazionale delle Rsu del gruppo Indesit esprimono «netta contrarietà ad ogni ipotesi di chiusura degli stabilimenti per affrontare la crisi in atto». Questa la posizione dei sindacati in merito all’ipotesi prospettata dalla stessa azienda, riferiscono i sindacati, di chiusura dello stabilimento di None (Torino) dove sono occupati 600 dipendenti, per concentrare la produzione di lavastoviglie nel nuovo stabilimento costruito in Polonia, a Radomsko. «A sostegno di tale impostazione, Fim, Fiom, Uilm e il Coordinamento nazionale del gruppo Indesit proclamano 2 ore di sciopero con cui convocare e svolgere assemblee in tutti gli stabilimenti italiani del gruppo.»
Una dottoressa denuncia: ho visto tutto.
«I carcerati malmenati tacciono per paura»
I sindacati: non è vero
MASSIMO NUMA
TORINO
Squadrette» di agenti picchiatori, scene-horror nei reparti pschiatrici, medici complici o conniventi dei violenti o costretti a dimettersi se non «allineati». E’ la sintesi della pubblica denuncia di un ex medico delle Vallette, Ilaria Bologna. Adesso la senatrice pd Donatella Porretti presenterà un’interrogazione al ministro della Giustizia, Angelino Alfano. «Se vera, la situazione è a dir poco gravissima. Mi sono già messa in contatto con la dottoressa. Vogliamo sapere la verità».

Scrive Bologna: «...Mi sento di sottolineare che all’interno delle strutture carcerarie i pestaggi da parte degli agenti, addirittura organizzati in apposite “squadrette”, sono all’ordine del giorno, sono l’ovvietà...». Poi: «...Nella maggior parte delle Case Circondariali il medico, presente 24 ore su 24, volente o nolente a stretto contatto con gli agenti, ha un ruolo da “manutentore”... L’istituzione per cui lavora esige ordine, e non esiste ordine se non attraverso “la salute” del detenuto...». Ancora: «...Il pestaggio raramente avviene nella totale ignoranza del medico: è piuttosto frequente che il detenuto picchiato venga poi portato in infermeria per “un controllo” e che siano palesi segni che rendono possibile, e francamente non solo al cosiddetto “occhio clinico”, risalire all’accaduto. A seconda di quanta complicità-connivenza esista tra il medico e gli agenti, più o meno espliciti nel riconoscere cosa è effettivamente successo: potranno sostenere che “sono stati costretti”, che “il detenuto era agitato e aggressivo”, o addirittura apertamente compiacersi di “aver dato una lezione”». E i detenuti pestati? «Non parlano per paura - osserva il medico - e in alcuni casi non vengono nemmeno portati in infermeria».

Quindi l’agghiacciante capitolo delle «violenze praticate nei Reparti di Osservazione Psichiatrica: «...La contenzione a mezzo di manette, la sedazione non consensuale con iniezioni di psicofarmaci, la rimozione degli oggetti personali e di abiti, lenzuola e coperte “a scopo precauzionale” sono comuni ed “automatiche”, e anche quando sono iniziative autonome degli agenti di polizia penitenziaria devono comunque essere confermate ed autorizzate in cartella clinica dal medico, quasi sempre uno psichiatra».

E i medici? «La risposta è duplice...I medici penitenziari si dividono grossolanamente in due categorie. Alcuni, sia per convinzione, comodità o quieto vivere, assumono totalmente il ruolo dei garanti dell’ordine e nella pratica...indistinguibili dagli agenti, se non perché rispetto a loro hanno più potere. Certamente non saranno loro a denunciare i pestaggi. Altri, la minoranza, pur riconoscendo la realtà della sistematica violenza di Stato, arrivano comunque presto a considerarla la “tragica quotidianità” con cui devono avere a che fare...I pochi che condannano e tentano di denunciare sono voci sole facilmente zittite, anche con la perdita del posto di lavoro: un medico “disallineato” crea diseconomia nel sistema».

La dottoressa Bologna non lavora più nel carcere, per una «sua scelta...francamente anche indotta». Dopo avere realizzato «...l’enormità dell’aberrante meccanismo...». Gelida la reazione dei sindacati della polizia penitenziaria. Dice Gerardo Romano, segretario regionale Osap: «E’ tutto falso. Ma ora si rischia di pregiudicare ulteriormente la già difficile situazione che c’è nel carcere, dove le condizioni di lavoro sono pesantissime. Viene infangata l’immagine degli agenti, che in passato hanno pagato un alto tributo di sangue nel nome delle istituzioni. A questo punto, solo la magistratura potrà fare chiarezza».
03/02/2009
 
 
 
Il leader dell'opposizione chiede la destituzione del presidente Ravalomanana e annuncia un nuovo governo

scritto da
Matteo Fagotto

 Dopo le violenze della scorsa settimana è tornata la calma nella capitale malgascia Antananarivo. I negozi hanno riaperto, così come gli uffici e le scuole, e le 68 vittime provocate dai disordini e dagli scontri tra manifestanti dell'opposizione e forze dell'ordine sembrano solo un ricordo. Ma Andry Rajoelina, il sindaco della capitale e anima del movimento di contestazione al presidente Marc Ravalomanana, è deciso ad andare fino in fondo. Rovesciando il capo di stato e ponendosi a capo di un governo di transizione.

Manifestanti a AntananarivoNulla sembra poter fermare il TGV malgascio, come è soprannominato Rajoelina per analogia con il treno superveloce francese. Ieri, per nulla sconfortato dalla scarsa risposta della popolazione allo sciopero generale da lui proclamato, il sindaco ha presentato alla Corte Costituzionale una richiesta ufficiale di rimozione dall'incarico per il presidente, accusato di ripetute violazioni della Costituzione. Per sabato prossimo, inoltre, Rajoelina ha annunciato la nascita del nuovo governo di transizione da lui stesso presieduto. Passi che difficilmente otterranno qualche risultato concreto: nessuno ha infatti dato al leader dell'opposizione l'incarico di formare un nuovo esecutivo, mentre la richiesta di impeachment per il presidente dovrebbe partire dal Parlamento, dove Ravalomanana ha una solida maggioranza.

Le iniziative di Rajoelina sembrano più mirate a mantenere calda la piazza che a ottenere risultati concreti: la scorsa settimana, denunciando l'operato del presidente e accusandolo di governare tramite una pseudo-dittatura, Rajoelina era riuscito a mobilitare per diversi giorni migliaia di persone. L'inizio dell'attuale settimana ha però fatto registrare un deciso ritorno alla normalità che va a tutto vantaggio del presidente. Inoltre, oggi sei leader dell'opposizione sarebbero stati arrestati nella città portuale di Tamatave mentre tentavano di organizzare una marcia di protesta contro il presidente, secondo quanto riferito dal quotidiano locale L'Express.

Il presidente Marc RavalomananaA livello internazionale, intanto, si moltiplicano le richieste per una soluzione pacifica della crisi. In questo senso si sono espresse sia la ex-madrepatria coloniale francese che l'Onu e l'Unione Africana. Per il momento, però, non sembra ci siano margini di trattativa tra il presidente e il sindaco di Antananarivo, che si rifiuta di incontrare Ravalomanana finché non sarà fatta luce sulle violenze avvenute la scorsa settimana. La grande maggioranza delle vittime sarebbe morta nei roghi causati dal saccheggio dei negozi del centro, condotto dai manifestanti, ma secondo l'opposizione almeno un ragazzo sarebbe stato ucciso dalle forze di sicurezza durante l'assalto ai locali dell'emittente televisiva Madagascar Broadcasting System, di proprietà del presidente.

 
 
 

3 febbraio

La Spagna incrimina Israele per un omicidio mirato a Gaza nel 2002. Morirono quattordici persone
Mentre in tutto il mondo infuria il dibattito sulla possibilità o meno di incriminare lo stato d'Israele per crimini di guerra e contro l'umanità per l'operazione Piombo Fuso che ha causato la morte di almeno 1300 persone, in Spagna viene aperta un'inchiesta rispetto a un omicidio mirato del 2002.

In mezzo ai civili. L'obiettivo del caccia bombardiere F-16 era Salah Shehadeh, ritenuto il capo e fondatore delle brigate Izzedine al Qassam, braccio armato di Hamas. Arrestato dagli israeliani negli anni Ottanta, il militante era stato poi dato in custodia all'Autorità palestinese che l'aveva liberato nel 1990. Nel 2002, in piena Seconda Intifada, l'aviazione israeliana sganciò una bomba da una tonnellata sulla sua abitazione, ma con lui persero la vita anche 14 civili, fra cui nove bambini. I feriti furono 150. L'alta densità abitativa della zona dell'attacco, secondo il Centro palestinese per i diritti umani (Pchr), un'organizzazione non governativa di Gaza del network International Commission of Jurist, era un elemento noto alle forze armate israeliane che hanno deliberatamente deciso di agire lo stesso. Questo elemento configurerebbe, per lo stato d'Israele, un crimine contro l'umanità e il ricorso è stato presentato in Spagna, per la giurisdizione universale che lo stato iberico riconosce alla materia.

Dura motivazione. Il giudice Fernando Andreu dell'Audiencia Nacional, tribunale speciale spagnolo, ha accolto oggi il ricorso presentato dal Pchr e da alcuni parenti delle vittime palestinesi. Andreu, nel depositare l'istanza, ha motivato la sua decisione dichiarandosi competente in base alla Ley organica del Poder Judicial che, all'articolo 23, ritiene i magistrati spagnoli competenti in casi di terrorismo, genocidio e altri reati commessi anche fuori dal territorio nazionale ma che violano trattati internazionali. Andreu ha citato anche lo Statuto della Corte penale internazionale che, all'articolo 8, definisce 'crimine di guerra' un attacco premeditato contro civili o non militari o un attacco contro un obiettivo militare sapendo in anticipo che ci saranno vittime civili. Andreu conclude che nel caso di Shehadeh lo stato d'Israele ha commesso ''un attacco contro la popolazione civile che ha come origine un altro fatto illecito e cioè l'omicidio del dirigente di Hamas, che rientra in una decisione eccessiva e sproporzionata''.

Scarse aspettative. Adesso, secondo procedura, l'ordinanza sarà notificata alle parti, l'Autorità Nazionale Palestinese e lo stato israeliano. Il giudice spagnolo ha presentato una rogatoria internazionale e, tra gli inquisiti, figurano personaggi di primo piano come l'attuale ministro delle Infrastrutture, allora titolare della Difesa Benyamin Ben Eliezer, e l'ex capo di Stato maggiore Dan Halutz. Andreu ha anche aggiunto che, appena possibile, verrà inviata a Gaza una commissione d'inchiesta per raccogliere le testimonianze di persone che erano presenti al momento dell'attacco. Le possibilità che l'inchiesta vada in porto sono poche, tanto che lo stesso giudice Andreu ha ricordato come già in passato ha presentato al governo d'Israele notizia dell'indagine e non ha ottenuto risposta. E oggi, giusto per capire che aria tira, Benjamin Netanyahu, leader del partito Likud, in testa ai sondaggi per le prossime elezioni in Israele, ha definito ''ridicolo'' il procedimento.

Christian Elia
 
 
 

 
La tutela del popolo della rete è necessaria per garantire la convivenza tra libertà e privacy
Sai che guaio se l'ultimo colloquio di lavoro è andato bene ma hai messo su internet le foto dell'ultima festa con gli amici, ovviamente sbracate. Il pericolo che anche questa sia l'ultima occasione di lavoro mancata è dietro l'angolo. E il perché lo spiega l'autorità garante della privacy che mette in guardia i fan della rete e del social network più amato, Facebook, dati alla mano. Secondo una ricerca, infatti, il 77% di chi recluta personale cerca possibili candidati sul web e il 35% di loro afferma di aver eliminato un candidato sulla base di informazioni scoperte navigando in rete.

Insomma, nell'era di internet, con l'avvento della realtà virtuale, la tutela del popolo della rete è necessaria per garantire la convivenza tra libertà e privacy. Il 2008 è stato l'anno del consolidamento dei social network, non più solo fenomeno per teen-agers e di nicchia, ma strumento di condivisione di pensieri, ricordi, abitudini e immagini per utenti di ogni età. E sono più di 580 milioni le persone che, al giugno 2008, secondo i dati comScore, hanno utilizzato i siti dei social network. Caso emblematico Facebook che, ad oggi, secondo Alexa.com, conta solo in Italia 6 milioni e mezzo di profili personali registrati. I social network sono "piazze virtuali", luoghi di socializzazione senza limiti di spazio, straordinari strumenti di innovazione sociale. Ma chi si mette in rete e condivide informazioni sa a quali rischi espone se stesso e gli altri?

La risposta è no, come ricorda il Garante italiano per la privacy che, in occasione della Giornata Europea della protezione dei dati personali, ha invitato tutti gli utilizzatori dei social network ad adottare l'unico vero "antivirus": diventare utenti più consapevoli dei rischi che possono derivare da un uso senza criterio della rete.

L'invito a non caderci dentro parte dall'individuazione delle trappole disseminate sul web. Per esempio, ritrovare on line immagini e informazioni che ci riguardano ma che non vorremmo rendere note, mentre non tutti sanno che è impossibile eliminare totalmente dati e immagini immessi nel social network. Senza contare il fatto che ogni informazione si presta a furti d'identità o al suo utilizzo a fini commerciali senza il nostro consenso. Il rischio maggiore, però, è soprattutto per i giovani: la permanenza illimitata nella rete di informazioni o immagini che non corrispondono più alla propria persona potrebbe creare grossi problemi in futuro.

In verità, la percezione che i giovani hanno di uno spazio privato o di una piccola comunità, alla quale si rivolgono sul web, falsa la prospettiva generale: scrivendo, in realtà, non sapremo mai qual è veramente la nostra platea. Infatti, una delle garanzie che, secondo l'Autorità, i gestori dei social network devono assicurare è che i dati degli utenti non siano rintracciabili dai motori di ricerca, se non con il loro previo consenso. Se così non fosse, qualunque navigatore della rete potrebbe recuperare i nostri dati personali, le nostre fotografie e le nostre informazioni. La nostra platea, a quel punto, diventerebbe indefinita e sconosciuta.

Senza demonizzare il mezzo, è stato lo stesso Garante, Franco Pizzetti, a scoprire le carte: «Esiste la necessità di promuovere un'azione comune e internazionale a tutela di chi naviga sulla rete, perché internet è un medium globale e, come tale, ha bisogno di regole condivise dalla comunità internazionale». Ad oggi la rete non è assistita da un soggetto come potrebbe essere un'autorità garante mondiale che vada oltre l'ordinamento degli stati-nazione. Ecco la contraddizione. Come per la crisi finanziaria, anche per la rete non esistono convenzioni che regolino un fenomeno così planetario. «Di fronte a questa mancanza - aggiunge Pizzetti -, le autorità garanti e le leggi nazionali sono estremamente deboli e, ancora una volta, non adeguate allo sviluppo della globalizzazione. Ma, dall'ottobre 2008, discutiamo a Strasburgo una serie di strategie internazionali comuni sul fenomeno Facebook ». Vale a dire: stiamo lavorando per voi. Prima che nasca il prossimo social network.

 

 

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