IL REPORTAGE. Il racconto di Titti e Hadengai,
due dei cinque sopravvissuti sul gommone maledetto
Un anno, 4 mesi e 21 giorni,
viaggio dalla morte all'Italia
di EZIO MAURO
PALERMO - Italia? È una stanza bianca e blu, la
numero 1703, pneumologia 1, primo piano dell'ospedale "Cervello". Un tavolino
con quattro sedie, due donne coi capelli bianchi negli altri due letti, dalla
finestra aperta le case chiare del quartiere Cruillas, le montagne di Altofonte
Monreale, il caldo d'agosto a Palermo. Sui due muri, in alto, la televisione e
il crocifisso, una di fronte all'altro.
È
quel che vede Titti Tazrar da ieri mattina, quando apre gli occhi. Quando li
chiude tutto balla ancora, ogni cosa gira intorno, il letto è una barca che si
inclina e poi si piega sulle onde. Titti cerca la corda per reggersi, d'istinto,
come ha fatto per 21 giorni e 21 notti, con la mano che da nera sembra diventata
bianca per la desquamazione, una mano forata dalle flebo per ridare un po' di
vita a quel corpo divorato dalla mancanza d'acqua. La gente che ha saputo apre
la porta e la guarda: è l'unica donna sopravvissuta - con altri quattro giovani
uomini - sul gommone nero che è partito dalla Libia con un carico di 78
disperati eritrei ed etiopi, ha vagato in mare senza benzina per 21 giorni, ha
scaricato nel Mediterraneo 73 cadaveri e ha sbarcato infine a Lampedusa cinque
fantasmi stremati da un mese di morte, di sete, di fame e di terrore.
Quei cinque sono anche gli ultimi, modernissimi criminali italiani, prodotto
inconsapevole della crudeltà ideologica che ha travolto la civiltà dei nostri
padri e delle nostre madri, e oggi ci governa e si fa legge. I magistrati li
hanno dovuti iscrivere, appena salvati, al registro degli indagati per il nuovo
reato d'immigrazione clandestina, i sondaggi plaudono. Anche se poi la vergogna
- una vergogna della democrazia - darà un calcio alla legge, e per Titti e gli
altri arriverà l'asilo politico. Scampati alla morte e alla disumanità, potranno
scoprire quell'Italia che cercavano, e incominciare a vivere.
Un'Italia che non sa come cominciano questi viaggi, da quanto lontano, da quanto
tempo: e come al fondo basti un richiamo composto da una fotografia e una
canzone. Titti ad Asmara aveva un'amica col telefonino, e ascoltavano venti
volte al giorno Eros Ramazzotti nella suoneria, con "L'Aurora". In più, a casa
la madre conservava da anni una cartolina di Roma, i ponti, una cupola, il fiume
e il verde degli alberi. Tutti parlavano bene dell'Italia, le mail che
arrivavano in Eritrea, i biglietti con i soldi di chi aveva trovato un lavoro.
Quando la bocciano a scuola, l'undicesimo anno, e scatta l'arruolamento
obbligatorio nell'esercito, Titti decide che scapperà in Italia. E dove, se no?
Fa due mesi di addestramento in un forte fuori città, soldato semplice. Poi,
quando torna ad Asmara, si toglie per sempre la divisa, passa da casa il tempo
per cambiarsi, prendere un vestito di scorta, una bottiglia d'acqua più la metà
dei soldi della madre, delle cinque sorelle e del fratello (200 nakfa, più o
meno 10 euro), e segue un vecchio amico di famiglia che la porterà fuori dal
Paese, in Sudan. Prima viaggiano in pullman, poi cresce la paura che la stiano
cercando, e allora camminano di notte, dormendo nel deserto per sette giorni.
Senza più un soldo, Titti va a servizio in una casa come donna delle pulizie,
vitto e alloggio pagati, così può mettere da parte interamente i 250 pound
sudanesi mensili. Quando va al mercato chiede dove sono i mercanti di uomini,
che organizzano i viaggi in Europa. Li trova, e quando dice che vuole l'Italia
le chiedono 900 dollari tutto compreso, dal Sudan alla Libia attraversando il
Sahara, poi il ricovero in attesa della barca illegale, quindi il viaggio
finale.
Ci vuole un anno per risparmiare quei soldi. E quando si parte, sul camion i
mercanti caricano 250 persone, sul fondo del cassone dov'è più riparato dalla
sabbia ci sono con Titti due donne incinte e una madre col bimbo di tre mesi.
Lei ha due bottiglie d'acqua, le divide con le altre, ci sono i bambini di
mezzo, non si può farne a meno. Prima della frontiera con la Libia li aspettano,
tutti guardano giù dal camion, temono un posto di blocco, invece sono gli agenti
locali dei mercanti, li guidano per una strada sicura e li portano nei rifugi,
disperdendoli: parte ammassati in un capannone, parte nei casolari isolati,
soprattutto le donne. Le fanno lavorare in casa e negli orti, cibo e acqua sono
come in galera, il minimo indispensabile. Trattano male, fanno tutto quel che
vogliono. Dicono sempre che la barca è pronta, che adesso si parte, ma non si
parte mai. Intimano alle donne di non uscire di casa e Titti diventa amica di
Ester e Luam, che abitano con lei per quasi quattro mesi. Chi ha parenti in
Europa deve dare l'indirizzo mail, in modo che i mercanti scrivano, chiedano
soldi urgenti per aiutare il viaggio, per poi intascare la somma quando arriva
al money transfer, da qualche parte sicura.
Invece un pomeriggio alle cinque tutti urlano, bisogna uscire, sembra che si
parta davvero. Le ragazze dicono che non hanno niente di pronto, non hanno messo
da parte il pane e nemmeno l'acqua dalle porzioni razionate, non sapevano:
possono avere qualcosa da portare in barca? Non c'è tempo, alle sei bisogna
essere in mare, via con quello che avete addosso, e tutti lontani dalla spiaggia
che possono arrivare i soldati, meglio nascondersi dietro i cespugli e le dune,
forza. La barca è un gommone nero di dodici metri, che normalmente porta dieci,
dodici persone. Loro sono settantotto, nessun bambino, venticinque donne. Non
riescono a trovare spazio, c'è qualche tanica di benzina sotto i piedi, stanno
appiccicati, incastrati, accovacciati, qualcuno in ginocchio, altri in piedi
tenendosi alle spalle di chi sta sotto, nessuno può allungare le gambe. Ma ci
siamo, è l'ultimo viaggio, in fondo a quel mare da qualche parte c'è l'Italia,
Titti a 27 anni non ha la minima idea della distanza, pensa che arriveranno
presto. Ecco perché è tranquilla quando arriva la prima notte, lei che è partita
solo con dieci dinari, i suoi jeans, una maglia bianca e uno scialle nero.
Nient'altro.
"Adei", madre, sto andando, pensa senza dormire. "Amlak", dio, mi hai aiutato,
continua a ripetersi mentre scende il freddo. A metà del secondo giorno, quando
le ragazze pensano già quasi di essere arrivate, la barca si ferma. Il pilota
improvvisato dice che non c'è più benzina. Schiaccia il bottone rosso come gli
ha insegnato il trafficante d'uomini, ma non c'è nessun rumore. Adesso si sente
il rumore delle onde. Nessuno sa cosa fare. Gli uomini provano col bottone,
danno consigli, uno scende in mare a guardare l'elica. Le donne si coprono la
testa con gli scialli. Si avverte il caldo, nessuno lo dice, ma tutti pensano
che l'acqua sta finendo. Chi ha pane lo divide coi vicini. Un pizzico di mollica
per volta, facendo economia, allungandola nel pugno chiuso per farla bastare
fino a sera, cinque, sei bocconi.
La notte fa più paura. Non c'è una bussola, e poi a cosa servirebbe, con il
gommone trasportato dalle onde, spinto dalla corrente, e nessuno può fare
niente. Finiscono i fiammiferi, dopo le sigarette, non si vede più niente. Tutti
a guardare il mare, sembra che nessuno dorma. La quarta notte spuntano delle
luci a sinistra, poi se ne vanno, o forse la barca ha girato a destra. Era una
nave? Era un paese? Era Roma? Cominci a sentirti impotente, sei un naufrago.
All'inizio ci si vergogna per i bisogni, fingi di fare un bagno attaccato con
una mano alla corda, chiedi per favore di rallentare, e fai quel che devi in
mare. Poi man mano che cresce l'ansia e anche la disperazione, non ti vergogni
più. Chi sta male, chi sviene dal caldo e dalla fame, i bisogni se li fa
addosso. Quando la situazione diventa insopportabile tutti urlano in quella
parte del gommone: "Giù, giù, vai in mare, vai". Ma il settimo giorno i problemi
cambiano.
Muore Haddish, che ha vent'anni, ed è il prino. Continua a vomitare da
ventiquattr'ore, sta male, si lamenta prima della fame poi solo della sete.
"Mai", acqua. Lo ripete continuamente. Anche Titti ripete "mai" nella testa, c'è
solo acqua intorno a loro, eppure stanno morendo di sete, non riescono a pensare
ad altro. Due ragazzi, Biji e Ghenè, si danno il turno a sorreggere Haddish,
altri fanno il turno in piedi per lasciargli lo spazio per distendersi, uno sale
persino sul motore. Dopo il tramonto tutti lo sentono piangere, urlare, gemere,
poi non sentono più niente e non sanno se si è addormentato o se è morto. "E'
arrivato - dice all'alba Ghenè - noi siamo in viaggio e lui è arrivato". I due
giovani prendono Haddish per le spalle e per i piedi, dopo avergli tolto le
scarpe, e lo gettano in mare. Le ragazze piangono, una donna canta una nenia
sottovoce.
Yassief si è portato in barca una Bibbia. La apre, e legge i Salmi: "Quando ti
invoco rispondimi, Dio, mia giustizia: dalle angosce mi hai liberato, pietà di
me, ascolta la mia preghiera". Titti piange per il ragazzo morto, e pensa che
non si poteva fare altrimenti. Adesso ha paura che il viaggio duri ancora giorni
e giorni, che il mare li risospinga indietro verso la Libia, non possono
viaggiare con un cadavere, e poi hanno bisogno di spazio. "Meut", la morte,
comincia a dominare tutti i pensieri, riempie "semai", il cielo, verrà dal mare,
"bahari". Le donne si coprono la testa, il sole stordisce più della fame, tutto
gira intorno, la nausea cresce, salgono vapori ustionanti di benzina e di acqua
dal fondo del gommone. A sera, ogni sera, Yassief leggerà la Bibbia, Giosuè,
Tobia, i Salmi, e cercherà di confortare i compagni: noi stiamo morendo, ma
qualcuno ce la farà.
Muore qualcuno ogni giorno, ormai, e il numero varia. Uno, poi tre, quindi
cinque, un giorno quattordici e si va avanti così. Dicono che i primi a morire
sono quelli che hanno bevuto l'acqua di mare, Titti non sapeva che era mortale,
non l'ha bevuta solo per il gusto insopportabile, si bagnava le labbra
continuamente. Poi Hadengai ha l'idea di prendere un bidone vuoto di benzina,
tagliarlo a metà, lavare bene la base e metterla sul fondo della barca, dove i
morti hanno aperto uno spazio. Spiega che dovranno raccogliere lì la loro orina,
per poi berla quando la sete diventa irresistibile, pochi sorsi, ma possono
permettere di sopravvivere. Lo fanno, anche le donne, però di notte. Titti beve,
come gli altri. Potrebbe bere qualsiasi cosa: anzi, lo sta facendo.
Dopo quindici giorni, appare una nave in lontananza. Sembra piccolissima, ma
tutti la vedono, c'è. Chi ce la fa si alza in piedi, si toglie la maglia
ingessata dal sale per agitarla in alto, urla. A Titti cade lo scialle in mare,
l'unica protezione dal freddo, l'unico cuscino, la coperta, l'unico bene.
Yassief e un altro ragazzo sono i soli che sanno nuotare: lasciano la Bibbia a
una donna che ha la borsa con sé, si tuffano, è l'ultima speranza, torneranno a
salvarli con la nave e li prenderanno tutti a bordo, dove c'è acqua e cibo.
Tutti si alzano a guardarli, ma il gommone va dove vuole, dopo un po' nessuno li
ha più visti, e pian piano la nave lontana è scomparsa, loro non ci sono più.
L'acqua è un'ossessione e intanto pensi al pane, al riso, alla carne, scambi i
frammenti di legno per briciole, sai che è un inganno ma te li metti in bocca.
Senti le forze che vanno via, vedi buttare a mare i cadaveri e non t'importa
più. Ora quando arriva la morte butteranno giù anche me, pensa Titti, spero che
mi chiudano gli occhi. Non sai i nomi dei tuoi compagni, conosci solo le facce.
Al mattino ne cerchi una e non la vedi più, oppure ne trovi una che avevi visto
calare in mare, non sai più dove finisce l'incubo e comincia la realtà. Ma
adesso in barca tutti sanno che le due amiche, Ester e Luam, sono incinte, anche
se non lo dicevano perché la gravidanza era cominciata in Libia, nella casa dei
mercanti d'uomini, tra le minacce e la paura. Tutti lo sanno perché loro stanno
male e parlano dei bambini. Gli altri ascoltano, la pietà è silenziosa, nessuno
litiga, qualcuno sposta chi gli cade addosso dormendo. Anche se non è dormire, è
mancare. Non sai quando svieni e quando dormi. Ora allunghi le gambe sul fondo,
i morti hanno lasciato spazio ai vivi.
Titti è più forte delle amiche. Quando Ester perde il bambino, è lei che getta
tutto in mare, poi lava il vestito, e pulisce il gommone mentre tiene la mano
all'amica, che dice basta, tutto è inutile, vado. Muore subito dopo, Titti non
piange perché non ha più le forze, quando muore anche Luam due giorni dopo lei
si lascia andare. Pensa solo più a morire, scuote la testa quando la donna con
la Bibbia ripete quel che ha sentito da Yassief, ed ecco, noi stiamo morendo ma
qualcuno arriverà. No, lei adesso rinuncia. Non pensa più all'Italia, non sa
dov'è, non la vuole. Non ha più nessuna paura. Ripete a se stessa che dev'essere
così in guerra, nelle carestie. Basta, vuoi finire, vuoi solo arrivare al fondo
della fame, della sete, di questo esaurimento, non hai il coraggio o l'energia o
la lucidità per buttarti e lasciarti andare, affondare sott'acqua e sparire, ma
vuoi che sia finita. Persa l'Italia, il gommone adesso ha di nuovo uno scopo:
diventa un viaggio per la morte, e va bene così. La diciassettesima notte,
forse, Titti si separa da tutto e raduna tutto, la madre e Dio, il cielo, il
mare e la morte, "Adei, Amlak, semai, bahari, meut". Rivede suo padre
accovacciato, che fuma contro il muro la sera. Si accorge che la sua lingua, il
tigrigno, non ha la parola aiuto.
Si accorge dalle urla, all'improvviso, che c'è una barca di pescatori e li ha
visti. Arriva, e nessuno ce la fa più a gridare. Accostano, ma quando vedono
sette cadaveri a bordo e quegli esseri moribondi hanno paura e vanno indietro.
Allora i due ragazzi si avventano, non lasciateci qui. La barca si ferma,
lanciano un sacchetto di plastica, ma finisce in acqua. Si avvicinano, ne
lanciano un altro. Hadangai lo afferra e mentre lo aprono i pescatori se ne
vanno, indicando col braccio una direzione.
Dentro c'è il pane, con due bottiglie. Titti beve, ma afferra il pane. Appena ha
bevuto ne ingoia un morso, ma urla e sputa tutto. Il pane taglia la gola, non
passa, lo stomaco e il cuore lo vogliono ma il dolore è più forte, ti scortica
dentro, è una lama, non puoi mangiare più niente. Ma con l'acqua l'anima
comincia a risvegliarsi. Forse siamo vicini a qualche terra. Sia pure la Libia,
basta che sia terra. Ed ecco un rumore grande, più forte, più vicino poi sopra,
davanti al sole. E' un elicottero, si abbassa, si rialza. Arriva una motovedetta
di uomini bianchi, non vogliono prenderli a bordo, ma hanno la benzina, sanno
far ripartire il motore, dicono ai ragazzi come si guida e il gommone li deve
seguire.
Un giorno e una notte. Poi l'ultima barca. Questa volta li fanno salire. Sono
rimasti in cinque: cinque su 78. Chi ce la fa ancora va da solo, Titti la devono
portare a braccia. Non capisce più niente, tutto è offuscato, c'è soltanto il
sole e lo sfinimento. La siedono. Poi le buttano acqua in faccia. Lì capisce di
essere viva. Non chiede con chi è, né dov'è. Che importanza può avere, ormai?
Forse non è nemmeno vero, basta chiudere gli occhi per rivedere la stessa scena
fissa di un mese, gli odori, gli sbalzi, il rumore delle onde. Così anche in
ospedale, dove le visioni continuano, volti, cadaveri, immagini notturne, incubi
sul soffitto e sul muro bianco e blu.
Ma se allunga la mano, Titti adesso trova una bottiglietta d'acqua. Attorno non
muoiono più. Ieri le hanno dato una card per telefonare a sua madre ad Asmara,
le hanno detto che è in Italia. Le persone entrano e le sorridono. Due ore fa un
medico le ha raccontato in inglese che hanno perso l'altro naufrago ricoverato
al "Cervello", Hadengai, in camera non c'è, l'hanno chiamato per una radiografia
e non si è presentato, hanno guardato sulle panchine nel giardino ma nessuno sa
dove sia. Lei non vuole più pensare a niente. Tiene una mano sulle labbra
gonfie, con l'altra mano, dove c'è un anello giallo alto e sottile, tira il
lenzuolo per coprire la piccola scollatura a V del camice. Ha paura che sapendo
della sua fuga all'Asmara facciano qualcosa di brutto a sua madre e alle sue
sorelle. E però vorrebbe dire a tutti che ha fatto la cosa giusta, anche se
adesso sa cosa vuol dire morire: ma oggi, in realtà, è la sua vera data di
nascita. Quando non ci sperava più ce l'ha fatta, è arrivata. Non ha più niente
da dire, può solo aspettare.
Poi si apre la porta, e arriva Hadengai. Ha una tuta da ginnastica nera, con la
maglietta bianca, cammina lentamente incurvando tutti i suoi 24 anni, e spinge
piano il vassoio col cibo che vuole mangiare qui. Ci ha messo un po' di tempo ad
arrivare, si è perso, è tornato indietro, guardava senza capire tutte quelle
scritte, la sala dialisi, le proposte assicurative in bacheca, i cartelli dell'Avis,
la macchinetta al pian terreno che distribuisce dolci e caramelle e funzionava
da punto di riferimento. Poi ha trovato la camera di Titti. Si è seduto sul
bordo del letto della paziente accanto, che sotto le coperte si è fatta un po'
più in là.
I due naufraghi parlano sottovoce, lui assaggia qualcosa del pollo con patate
che ha sul vassoio, non apre nemmeno il nailon del pane, lei taglia in quattro
un maccherone. Ma va meglio, ormai. Non hanno un'idea di che cosa sia davvero
l'Italia 2009, fuori da quella porta. Ma prima o poi capiranno che sopra
l'ascensore numero 21, proprio davanti a loro, c'è scritto "la vita è un bene
prezioso".
26 agosto
Rosarno, il limbo dei
disperati
I 200 immigrati della Cartiera
bruciata a luglio, tra l'incertezza del futuro e le maglie sempre più strette
del pacchetto sicurezza
Scritto da Gianluca Ursini
Un semplice gesto, come colpire inavvertitamente un fornelletto. Un piccolo
oggetto, cose della vita di tutti i giorni. Ma se si vive nelle condizioni
disperate che vedete ritratte nelle foto in queste pagine si può trasformare in
un inferno. E cambiarti la vita. Se la tua vita è ristretta al limitato
orizzonte di una fabbrica abbandonata a Rosarno, Africa. O Calabria, alle porte
di quell'Africa così vicina ma così lontana per i ragazzi che hanno provato ad
attraversare il mare a rischio della propria vita per vedere tutti i loro sogni
infrangersi contro la realtà di una economia che ha bisogno del loro lavoro in
nero e che non ha nessun interesse a legalizzarli.
Bruciano
le speranze. La notte del 20 luglio alla Cartiera (una ex fabbrica messa su
da un imprenditore romagnolo con fondi dell'Unione europea, poi scomparso prima
ancora di iniziare a produrre) sulla statale tra i paesoni di Rosarno e San
Ferdinando nella piana di Gioja Tauro sono andati in fumo tutti i piccoli averi
dei duecento lavoratori stagionali che vi abitano da oltre cinque anni
nell'incapacità delle istituzioni di affrontare la situazione. La Regione si è
affrettata a dire che la protezione civile calabrese ha portato ristoro e abiti
per duecento persone a questi ragazzi; la Cgil, i sindacati, la Cisl hanno
chiesto "soluzioni definitive" al dramma dei sans papiers nei paesi della ricca
vallata calabrese, un continuo di aranceti ed uliveti. In realtà, qualche prete
gesuita delle comunità mariane di vita cristiana, i volontari locali
dell'Osservatorio Migranti e i reggini del centro sociale Cartella' hanno
provato a portare mercoledì 23 luglio un po' di conforto ai duecento ragazzi che
sono rimasti bloccati in questo angolo di Sud dal decreto Maroni. E sì, perché
se ti fermi a farci quattro chiacchiere ti spiegheranno perché non sono in
movimento ("in questo periodo dell'anno di solito sono già a Siracusa a
raccogliere ortaggi o sono pronti ad andare a Foggia per i pomodori" spiega Rita
Libri, volontaria dell'Osservatorio migranti) a cercarsi lavoro da un'altra
parte.
Hanno paura a mettersi in treno. A viaggiare; sono bloccati in Calabria. Hanno
il terrore di essere arrestati. Stefano (qui tutti lo chiamano cosi) è del Ghana
e organizza la truppa dei suoi connazionali mentre i volontari del Kollettivo
Onda Rossa di Cinquefrondi, paesino attiguo, distribuiscono shampoo, magliette
calze e pantaloni. "Qui a Rosarno non c'è niente da fare ma quale alternativa
abbiamo? I ragazzi del centro sociale ci hanno messo a disposizione degli
avvocati per capire la nuova legge, e se non capisco che cosa mi succede, io non
mi muovo di qua..."
E non si muovono anche se le condizioni sono sempre peggiori: "Lavoro ne hanno
poco, fanno quattro lavoretti nei campi per i piccoli proprietari, e la loro
paga è diminuita, da 25 a 20 euro al giorno, ora che la raccolta dei mandarini è
finita; ma non hanno dove andare e non hanno alternative". Stessa scena nella ex
fabbrica di succo d'arance Rognetta' sulla statale che va a Gioja: una lunga
fila di ragazzi burkinabé, ghanesi e nigeriani, togolesi e ivoriani. Tutti con
un tratto comune: sono sbarcati a Lampedusa per la maggior parte, quasi tutti
sono stati deportati al centro Sant'Anna di Crotone, vicino l'aeroporto: un
grosso girone infernale dove la ruota non gira quasi mai verso l'espulsione. Il
centro è ingestibile per il numero di immigrati in arrivo, e i poliziotti dopo
qualche settimana li lasciano liberi. Da Crotone si riversano nelle campagne
calabresi, in attesa di trovare qualcuno che li regolarizzi; quasi nessuno di
loro ha dei documenti. Hanno tutti il terrore di quello che succederà adesso con
il decreto Maroni. Nessuno sa spiegare loro bene di che si tratti, sono
spaventati. L'unico placido è Vladimir, un enorme ucraino 50enne; la sua figura
figurerebbe bene sotto una di quelle didascalie: "Che ci faccio io qui?" mentre
fa la fila tra i suoi compari africani per ritirare un paio di mutande pulite e
una maglietta che lo tenga fresco di sera. E' tranquillo perché sa che un bianco
non verrà mai espulso dalla polizia italiana. Sì, lavoro c'è poco, e pagano poco
una giornata, ma cosa vuoi fare? Dove posso andare? In Sicilia o Puglia no è
meglio. Stiamo qui e vediamo se spunta un lavoro fisso". L'unico che proverà la
fortuna è David, un ivoriano invasato che strepita e litiga con tutti quelli che
lo voglionio togliere dalla fila che ha imboccato per la quarta volta alla
ricerca della felpa sulla quale si è fissato: "Io sono ivoriano ed ero regolare.
Avevo la mia vita tranquillina a Bologna finchè non mi hanno rubato tutti i
documenti; ho un fratello là di 40 anni, con una bella moglie e un buon lavoro.
Ma adesso lui deve pensare ai suoi figli, ed io a me stesso. Mi metterò sul
treno per Foggia: sono sicuro che nessun poliziotto mi rimanderà in Africa;
sanno che qua servono i lavoratori come noi".
Essere buoni non rende, è il messaggio italiano. Di sicuro consegnare dei
criminali alla giustizia non aiuta a diventare italiani; il ragazzo ivoriano e
il ghanese che hanno subito l'aggressione di due malavitosi calabresi l'11
dicembre passato avevano fatto domanda per ottenere il permesso di soggiorno in
base all'articolo 18 della legge Bossi - Fini. Come spiega l'avvocatessa Anna
Foti dell'associazione di aiuto ai migranti di Reggio, l'articolo era stato
pensato per le ragazze che si prostituivano e decidevano di denunciare i loro
sfruttatori. Anche i due africani colpiti da una raffica di kalashnikov quella
sera d'inverno e che con le loro testimonianze hanno portato all'arresto di due
balordi (uno dei due, Andrea Fortugno, è stato condannato a maggio a 16 anni di
carcere per tentato omicidio in primo grado) pensavano di meritare un permesso
di soggiorno "per buona condotta". La loro richiesta è stata purtroppo rigettata
dal questore reggino Musolino. Un caso del quale lo Stato dovrebbe rendere
conto. Chissà perché alla televisione queste notizie non vengono mai
riportate...
Permesso di soggiorno in nome di Dio. "Noi accoglieremo questi ragazzi e non
permetteremo che vengano rimandati al loro Paese. Siamo tutti figli della stessa
terra e figli dello stesso Dio. Concederemo loro, come fanno i nostri fratelli
comboniani, un permesso di soggiorno in nome di Dio". Don Gianni Ladiana è il
prete animatore del centro mariano Cvx' di Reggio e insieme con altri sacerdoti
delle comunità valdesi e ortodosse e battiste della provincia reggina sta
organizzando una rete di sostegno perché nessuno di questi ragazzi che non ha
mai commesso un reato, ma ha subito estorsioni e intimidazioni di ogni tipo dai
mafiosetti della Piana, non abbia a subire altri torti, oltre a quello di avere
già pagato in media 3mila dollari per arrivare in un Paese che adesso li
considera dei criminali; dal giorno 8 agosto, il giorno della vergogna italiana.
Il muro di gomma
I parenti degli eritrei morti nel Mediterraneo
chiedevano da un mese informazioni sui loro congiunti, ignorati da tutti
tratto da Fortresse Europe
La prima mail l'ha spedita il 31 luglio scorso. Al Consiglio dei rifugiati di
Bonn, in Germania, dove vive da vent'anni. Suo fratello era partito dalla Libia
soltanto tre giorni prima, eppure lei già presagiva che quel viaggio avrebbe
potuto trasformarsi in tragedia.
Da Tripoli le avevano detto tutti di non preoccuparsi, perché dal gommone
avevano telefonato col satellitare il 29 luglio, verso le sette di sera, dicendo
che vedevano già Malta all'orizzonte. Tuttavia su internet non c'erano notizie
di sbarchi. E nemmeno di respingimenti. Lei glielo aveva sempre detto di non
partire. Perché 16 anni sono troppo pochi per sfidare la morte attraversando il
Mediterraneo. Gli aveva consigliato di chiedere asilo politico in Libia, ma lui
si era scoraggiato. Le Nazioni Unite gli avevano dato appuntamento per il 10
gennaio del 2010, ma con le continue retate della polizia, un futuro in Libia
era inimmaginabile. Ed era partito senza dirle niente. A Bonn non sapevano
niente, così sempre più preoccupata, ha iniziato a contattare chiunque potesse
darle informazioni sulla sorte del fratello. Nel giro di due settimane è
arrivata fino al ministero dell'Interno maltese, ma senza risultati. La conferma
l'ha avuta soltanto sabato. Dopo vari tentativi, è riuscita a parlare al
telefono con uno dei cinque superstiti al centro d'accoglienza di Lampedusa, che
suo fratello lo conosceva e come. Prima di partire, a Tripoli, vivevano nella
stessa casa.
C'era
anche lui sul gommone. L'hanno visto spegnersi lentamente, e poi l'hanno
abbandonato in mare come tutti gli altri. Il dolore per il lutto, aggravato dal
senso dell'ingiustizia, l'ha spinta a consegnarci una copia del fitto scambio di
email che ha avuto nelle prime due settimane di agosto con varie associazioni e
autorità a Malta e in Germania, che dimostrano come la notizia della presenza di
questa imbarcazione alla deriva fosse filtrata attraverso vari canali fin dalla
fine di luglio.
I primi contatti furono con gli eritrei a Malta. Sì perché a Malta correva voce
che il tre agosto un eritreo avesse ricevuto una richiesta d'aiuto da un parente
che viaggiava a bordo del gommone dei 78. Lo aveva chiamato col satellitare
prima che le batterie del telefono si scaricassero definitivamente. A far
perdere le tracce di questa pista fu il respingimento del 12 agosto. Un gommone
con un'ottantina di persone a bordo era stato respinto in Libia dalla Marina
italiana. Una donna somala che aveva partorito in mare era però stata trasferita
in elicottero all'ospedale Mater Dei di Malta. Il numero di passeggeri, la
posizione, la data, tutto faceva presupporre che fosse quello il gommone dove si
trovava il fratello della signora. Nel carteggio spuntano una serie di mail
scritte a partire dal 14 agosto proprio all'ospedale Mater Dei.
C'è anche una foto in allegato. La signora chiede di mostrarla alla donna
ricoverata per chiederle se lo riconosce. La risposta è negativa. Il Consiglio
dei rifugiati di Colonia allora scrive direttamente al ministro dell'Interno
maltese. Risponde un funzionario dell'ufficio richiedenti asilo, che il 20
agosto alle 6:40 scrive "Come le ho detto al telefono non abbiamo avuto sbarchi
tra il 25 luglio e il 12 agosto, pertanto sono sicuro che suo fratello non sia
arrivato Malta". Il consiglio è di rivolgersi alla Croce rossa tedesca. Ma la
signora lo ha già fatto, il 12 agosto. E l'ufficio per la ricerca delle persone
scomparse di Monaco le ha detto che hanno girato la segnalazione a Malta e a
Lampedusa senza risultati. Ma ormai è troppo tardi. Il giorno dopo infatti, sui
quotidiani tedeschi campeggiano i titoli della strage a Lampedusa.
Prima di riagganciare il telefono, la signora mi chiede notizie sulla sorte
delle salme dei naufraghi ripescate nel Canale di Sicilia. Difficilmente si
ripescherà il corpo del fratello e difficilmente sarà identificabile. La
famiglia tuttavia confida in una busta di plastica chiusa ermeticamente. Dentro
c'è un biglietto di carta con su scritto il suo nome. Se lo era messo in tasca
prima di partire, dicono gli amici rimasti a Tripoli. Un giorno i pescatori
ritroveranno quella busta in mezza al pescato. E scuoteranno la testa pensando a
quando il mare non assomigliava tanto alla morte.
Gabriele Del Grande
Muhanga, crocevia di
eserciti e ribelli
Gli eserciti si alternano e si alleano nel
tentativo di controllare il piccolo villaggio di montagna del Nord Kivu e le sue
ricchezze
Scritto da Giorgio Caccamo
Muhanga è un piccolo villaggio di montagna, a 0° 25' di latitudine, non lontano
dall'Equatore, circondato dalla foresta, insomma simile a tanti altri che
costellano il Nord Kivu. Ma a differenza di altri villaggi, e nonostante le
difficoltà per raggiungerli, Muhanga e Bunyatenge sono da tempo al centro
dell'interesse di tutti i gruppi armati (governativi e "ribelli"), sia per
ragioni strategiche che per la grande ricchezza del loro sottosuolo.
Deviando dalla grande strada Butembo-Goma, gli ultimi chilometri da Mbingi a
Muhanga sono i più duri. Appena 43 km, poco più della distanza di una maratona;
eppure una jeep impiega almeno quattro ore per giungere a Muhanga, praticamente
il doppio di un atleta olimpionico. A volte però di ore ne occorrono quasi
venti... Dopo alcuni mesi di stanziamento dei ribelli mayi-mayi, all'inizio di
luglio l'esercito regolare, FARDC (forze armate della RDCongo), ha annunciato di
voler riassumere il controllo dell'area Mbingi-Bunyatenge-Muhanga, nell'ambito
dell'operazione Kimya II, condotta contro i gruppi FDLR (Forces Démocratiques de
Libération du Rwanda), considerati pericolosi dal governo ruandese e una
"presenza che turba la pace" dal Congo. L'arrivo a Muhanga di decine di soldati
e mezzi militari non è stato affatto indolore, come ogni arrivo di un gruppo
armato, ma questa volta aggravato dalla mescolanza - mixage - con gli elementi
provenienti dal CNDP (Congrès National pour la Défense du Peuple), filo-ruandesi,
spesso aggressivi nei confronti della popolazione e degli stessi "commilitoni"
congolesi.
Già prima dell'arrivo della 112ª brigata FARDC, il villaggio si era svuotato,
con la gente impaurita che su consiglio delle autorità del territorio di Lubero
si era rifugiata sulla collina sovrastante. Così i soldati hanno avuto vita
facile nell'entrare e rovistare nelle capanne del villaggio. Ma neanche il
rientro delle famiglie nelle proprie case ha scongiurato il ripetersi di episodi
simili, denunciati dalla gente di Muhanga, pur tra comprensibili timori e spesso
in anonimato. Una
maman, una donna del villaggio, ha riferito di un soldato che esigeva un maiale
per il contingente, pretendendolo prima gratis e poi per non più di cinque
dollari. Sulla strada la scena è sempre la stessa: uomini e donne costretti a
caricare sulle proprie schiene cibo e taniche d'acqua per i soldati, fino
all'accampamento o addirittura fino a Fatua, a due giorni di marcia. La gente va
ai campi a procurarsi qualche tubero da mangiare, prima che siano "requisiti"
dai soldati. D'altra parte la strada tortuosa rende difficili anche i
rifornimenti per l'esercito, dunque le richieste di cibo ricadono
inevitabilmente sulla gente dei villaggi. Gli uomini sono obbligati a sdraiarsi
per terra prima che vengano perquisite le loro abitazioni. I soldati sfoggiano i
loro fucili e le loro granate anche in mezzo ai bambini che giocano e guardano
impauriti. Più di una volta i militari hanno proditoriamente abbandonato
proiettili nelle case - non prima di averle saccheggiate - con l'intento di
estendere a tutti l'accusa di nascondere armi e collaborare con i ribelli.
Non tutti però sembrano aver paura. C'è pure chi, con cinico pragmatismo, trova
il modo di fare affari con i soldati governativi, buoni clienti tanto quanto i
"patrioti resistenti congolesi" (PARECO), i mayi-mayi, e le FDLR. Poco contano
infatti le divise, le bandiere o le sigle: un militare va volentieri alla
ricerca delle stesse "merci", sesso e alcol. Ed infatti sono le stesse
prostitute a vendere ai soldati anche un pessimo liquore distillato
artigianalmente.
Il grande consumo di alcol e droghe tra le truppe non aiuta certo a infondere
fiducia nella gente, né a garantire sicurezza. È stato nondimeno un soldato
ubriaco a svelare spontaneamente i piani originari dell'esercito: l'ordine
ufficiale era infatti di incendiare tutte le case di Muhanga, presunti covi di
ribelli, ordine fortunatamente non eseguito.
In questa situazione non può non destare perplessità l'atteggiamento
inspiegabile delle ONG e degli altri organismi internazionali, comprese le
agenzie delle Nazioni Unite. Se una volta giustificavano la loro assenza da
quest'area perché considerata "zona rossa" e dunque pericolosa, oggi continuano
- salvo rarissime eccezioni, come OLK e Handicap International - a non
intervenire nonostante il grande dispiegamento di mezzi e la distribuzione di
aiuti lungo lo stradone.
In realtà Muhanga e Bunyatenge non sono più solo vijiji, un villaggi come tanti
altri: qui sono ormai concreti gli effetti delle strategie politiche e militari
del governo di Kinshasa (ma anche di Washington, Parigi o Kigali...). È stato
imposto il mixage tra FARDC e CNDP, e la promiscuità all'interno delle forze
armate rende difficilissimo il controllo della disciplina da parte di qualche
ufficiale impegnato e volenteroso.
Può essere in questo senso emblematico quanto è accaduto il 15 luglio a me e ad
un altro ragazzo italiano. Mentre viaggiavamo con altre sette persone a bordo di
un'auto della missione Waibrahimu, a pochi chilometri da Muhanga abbiamo subìto
un'aggressione armata da parte di tre militari a volto coperto, tra i quali un
ufficiale con il grado di comandante - presumibilmente CNDP. Costretti sotto la
minaccia delle armi a scendere dalla jeep, siamo stati poi derubati dei nostri
bagagli, dei passaporti, dei soldi.
I soldati hanno poi preso a calci uno dei nostri compagni di viaggio congolesi e
ci hanno intimato di risalire a bordo, sparando anche qualche colpo di fucile,
fortunatamente senza fare feriti. Effettuate le debite denunce alle autorità
militari e civili, locali e della MONUC (missione ONU in RDCongo), la refurtiva
è stata comunque recuperata molto presto, anche perché i tre si erano subito
diretti al villaggio, dove sono stati catturati da uomini della stessa brigata
di cui facevano parte. In realtà è molto probabile che si trattasse di una
intimidazione, più che di un'aggressione a fini di rapina. Ancora una volta,
però, si sono palesate le lacerazioni interne all'esercito congolese ed appunto
le difficoltà di mantenere una certa disciplina tra le truppe.
L'equilibrio è pertanto pericolosamente instabile: la coesistenza forzata e le
tensioni tutt'altro che latenti sfociano troppo spesso in scontri anche fisici
tra soldati ubriachi di entrambi i gruppi. Semplicemente, come ha confessato
amaramente un ufficiale congolese, «non si può mischiare lo zucchero con il
pili, con il peperoncino".
Donne coraggio
di Federica Bianchi
Si battono per i diritti umani. Contro i regimi e le repressioni. Spesso al
prezzo della vita. Dalla Birmania all'Iran. Dalla Cina alla Russia
Narges Mohammadi Minute
e anziane, e preparate. Giovani e indomite, e determinate. Per loro la vita è
lotta. Contro governi che brandiscono la religione come arma di guerra per
azzittirle e farne docili serve, e contro quelle società - dal Messico al Congo
- che semplicemente ne umiliano il corpo e l'anima. Contro l'inetta giunta
militare birmana (è il caso famoso di Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la
pace, appena condannata ad altri 18 mesi di arresti domiciliari) e contro la più
potente dittatura del mondo, la Cina. Non hanno paura. Combattono contro una
diga in India perché "i dollari non sono commestibili" (l'attivista Medha Patkar),
e in nome degli alberi portatori di pace in Kenya (il premio Nobel Wangaari
Mathai). Osano indossare i pantaloni in Sudan. Rivendicare a costo della vita il
diritto alla maternità in Zambia e in Cina. Cercano di guidare l'automobile o
varcare il confine dell'Arabia Saudita non accompagnate da un uomo. I nemici
sono sempre l'ingiustizia e la sopraffazione. Ma le forme di lotta sono
infinite. Con ognuna mettono in gioco la vita perché un giorno altre donne
possano averla, una vita. Sono le eroine del nuovo millennio: le donne che non
si arrendono a società fatte contro di loro. A differenza degli eroi uomini,
quando combattono nel nome dei diritti umani, della democrazia, della libertà,
lottano prima di tutto per la sopravvivenza loro e dei loro figli.
Secondo Amnesty International, una donna su tre subisce una qualche forma di
violenza e, in determinati Paesi, due su tre. "Eccezione fatta per i paesi
Scandinavi, nel resto del mondo le donne sono vittime di una qualche forma di
discriminazione", spiega Mary Hawkesworth, direttore di 'Signs: Journal of Women
in Culture and Society', la rivista guru del femminismo mondiale. Ciò che è
peggio è che queste donne coraggio sono spesso, troppo spesso, lasciate a
combattere da sole. "Ci sono 12 agenzie dell'Onu e 17 mila peacekeeper in Congo,
ma il responsabile umanitario dell'Onu è andato a visitare il Paese soltanto
quando Eve Ensler, autrice dei 'Monologhi della Vagina', ha raccontato ai
giornalisti americani di essere 'ritornata dall'inferno'" (un luogo in cui
ribelli rwandesi e soldati congolesi con uguale violenza da 15 anni considerano
gli uteri delle donne personale terreno di gioco, e vi trascinando bastoni,
sedie e machete), racconta Stephen Lewis, co-direttore di Aids-Free World.
Ma da quest'autunno qualcosa potrebbe cambiare. L'assemblea generale delle
Nazioni Unite, un'organizzazione ancora figlia degli anni 50, patriarcale e
gerarchica, dovrebbe finalmente dare il via libera a una superagenzia dedicata
ai diritti delle donne. Quelle che esistono oggi - Unifem, Daw, Osagi e Instraw
- hanno budget ridicoli, nessun coordinamento e sono completamente escluse dal
processo decisionale dei vertici.
Non potrebbe esserci momento migliore per cambiare rotta. Perché questa non è
stata un'estate facile per le donne-eroine. Il 15 luglio è stata uccisa a Grozny,
in Cecenia, Natalia Estemirova, una giornalista impegnata a rivendicare i
soprusi commessi con il sigillo del Cremlino dal brutale regime di Ramzan
Kadirov. Era amica ed erede della russa Anna Politkovskaja, l'attivista per i
diritti umani, acerrima nemica del premier Vladimir Putin, silenziata dal regime
nel 2006. Faceva parte di Memorial, una ong che si batte per il rispetto dei
diritti civili in molti stati dell' ex Unione Sovietica, fondata da un'altra
donna, l'avvocatessa Lidia Yusupova, oggi sotto minaccia di morte. "Durante gli
anni del conflitto, quando gli uomini sparivano a migliaia, le donne hanno
iniziato ad avere un ruolo sempre più importante nella società cecena, per
questo adesso ci sono tante attiviste donne, e per questo Kadirov vuole
rimetterle 'al loro posto' appoggiando, ad esempio, la poligamia e vietando i
vestiti scollati all'europea", spiega Tanya Lokshina, vide direttore di Human
Rights Watch in Russia.
Il 4 agosto Rabiya Kadeer, 62 anni, la 'Dalai Lama degli uiguri' (i cinesi
di etnia turcomanna perseguitati dalla dittatura cinese), in esilio dal 2005
dopo anni di prigionia, ha visto i suoi figli apparire sulle televisioni di
Stato per condannarla come malefica regista occulta delle sanguinose rivolte di
luglio. Negli stessi giorni i registi cinesi boicottavano il Film Festival di
Melbourne e gli hacker con gli occhi a mandorla ne bloccavano il sito: era la
vendetta di Pechino dopo che l'organizzazione aveva rifiutato la sua richiesta
di non proiettare il film sulla Kadeer, 'Le 10 condizione dell'amore', diretto
da Jeff Daniels.
L'11 agosto la 63enne leader democraticamente eletta della Birmania, Aung
San Suu Kyi, agli arresti domiciliari dal 1988, è stata condannata
pretestuosamente dalla giunta militare a un altro anno e mezzo di detenzione per
evitare che si presenti alle elezioni del prossimo dicembre, che, fossero
libere, vincerebbe senza un giorno di campagna elettorale. Lei, donna coraggio
in un Paese in cui le donne sono sistematicamente soggette a violenza da parte
delle uniformi militari, è diventata non solo il simbolo della Birmania oppressa
ma di quell'intera parte di mondo.
I blogger asiatici non hanno perso tempo a tracciare paragoni tra Aung San Suu
Kyi e Mu Sochua, una parlamentare dell'opposizione in Cambogia, candidata
al premio Nobel per la pace, in lotta aperta con il primo ministro Hun Sen dal
2004.
"Hun Sen sa bene che quest'anno ha rubato le elezioni e che il suo partito non
avrebbe mai vinto se le elezioni si fossero svolte liberamente", ripete Sochua,
che accusa: "La Cambogia ormai è una democrazia soltanto sulla carta". Nata in
una ricca famiglia di Phnom Penh che l'ha spedita a Parigi quando la Cambogia è
diventata terreno di guerra, Sochua ha vissuto in esilio per 18 anni e non ha
mai piu rivisto i suoi genitori, spariti nell'abisso creato dai Khmer Rouge. Al
rientro in patria nel 1989, ha fondato Khemara, la prima ong al femminile del
Paese, e ha iniziato a battersi per i diritti delle donne. Ottenuto un seggio in
parlamento nel 1998, è stata nominata ministro delle Donne in un paese con un
livello di alfabetizzazione drammaticamente inferiore a quello maschile. Si è
dimessa da ministro nel 2004, accusando il governo di corruzione, e si è unita
al partito d'opposizione. "Credo che la Birmania e la Cambogia abbiano problemi
simili anche se differiscono in intensità", spiega Sam Rainsy, il leader del
partito di opposizione: "In ogni dittatura i diritti delle minoranze e quelli
delle donne sono oppressi. Così le donne diventano la testa d'ariete di
qualsiasi lotta in nome della democrazia e della dignità umana".
Ed è esattamente in nome di una discriminazione feroce da parte di una dittatura
religiosa bugiarda che centinaia di migliaia di donne, decorate di verde, si
sono riversate nelle strade iraniane lo scorso luglio, quando Mahmoud
Ahmadinejad ha vinto coi brogli le elezioni presidenziali. "Nei paesi islamici -
e sono oltre 60 - le attiviste si dedicano soprattutto alla difesa dei diritti
delle donne", spiega Hawkesworth: "Nel farlo è inevitabile che finiscano in
diretto contrasto con la leadership del Paese".
Tra loro c'era Neda, la giovane colpita a morte dai basij e santificata da una
comunità on line che ne ha diffuso il messaggio ben oltre i confini nazionali. E
poi Shadi Sadr, un'avvocatessa dei diritti umani, arrestata, picchiata,
minacciata e più tardi rilasciata. E ancora la giornalista Narges Mohammadi,
portavoce del 'Centro in difesa dei diritti umani,' fondato dal premio Nobel per
la Pace Shirin Ebadi e chiuso quest'inverno dal regime. Avrebbe dovuto venire in
Italia a luglio a ritirare il premio Alexander Langer, ma le è stato confiscato
il passaporto. Al suo posto è venuta Ebadi, che se oggi è il più celebre
avvocato iraniano per i diritti umani, nel 1969 - dieci anni prima della
rivoluzione islamica - era il primo giudice donna nella storia dell'Iran. Già
perché oltre al coraggio queste donne hanno in comune una preparazione culturale
al di sopra della media del loro Paese, di cui, nella veste di avvocatesse,
dottoresse o giornaliste, ne finiscono per diventare potente coscienza civile.
La Ebadi del Pakistan è Hina Jilani, l'avvocato che ha creato nel 1980,
con la sorella Asma, il Women's Action Forum per aiutare le donne ad ottenere il
divorzio da mariti violenti. Nel 1981 ha fondato il primo studio legale
femminile del Pakistan, diventando più volte obiettivo di attacchi violenti e
minacce all'interno e all'esterno del suo ufficio. Cinque anni dopo ha dato vita
alla Commissione pachistana per i diritti umani ed è diventata primo
rappresentante speciale del segretario generale dell'Onu per la difesa dei
diritti umani.
In Afghanistan, il regno degli uomini misogini per ideologia - i talebani
- ha scelto di intraprendere la via del governo, e quindi diventare un facile
bersaglio degli studenti coranici, la dottoressa ematologa Habiba Sarabi: è il
primo governatore donna del Paese, nella provincia di Bamyan. Era stata ministro
degli Affari delle donne e, prima, ministro della Cultura e dell'educazione. I
galloni li aveva guadagnati sul campo: fuggita in Pakistan con l'arrivo al
potere dei talebani, aveva lavorato come insegnante per ragazze nei campi per
rifugiati. Al rientro in Afghanistan, dove oltre l'80 per cento delle donne è
analfabeta e ha un'aspettativa di vita di 45 anni a causa delle morti per parto,
aveva fondato l'Associazione per l'assistenza umanitaria alle donne e ai
bambini.
Non avrebbe invece mai immaginato di diventare una leader dell'opposizione Ding
Dizilin, un'ex professoressa di filosofia all'Università del Popolo di
Pechino, oggi settantenne. Fino a quando in quel lontano 4 giugno del 1989
le uccisero il figlio 17enne in piazza Tian An Men. Prima tentò la via del
suicidio, poi quella dell'impegno civile, e fondò 'Le madri di Tian An Men'.
Nata per portare conforto alle centinaia, forse migliaia, di madri che Deng
Xiaoping aveva privato dei figli pur di non mettere a rischio la sopravvivenza
del regime comunista, l'organizzazione è diventata, vent'anni dopo, un potente
simbolo politico: in una società priva di valori etici ed affettivi non
sopravvive la verità; senza verità, non può esistere giustizia; e senza
giustizia donne - e uomini - non potranno mai essere liberi.
24 agosto
Un ponte tra due mafie
L'intreccio di interessi pubblici e privati, la
longa manus delle mafie locali, la devastazione del paesaggio: a migliaia in
piazza per dire no a un mostro che fagociterà miliardi della comunità
Scritto da Gianluca Ursini
Messina,
8 agosto 2009. Il popolo del ‘No al Ponte' sullo Stretto si ritrova dopo i
due anni di tregua concessi dal refrain di R. Prodi: ‘'Bamboli non c'è una
lira!" Una italia più tristana rispetto a quella burlesque di Papi Silvio, ma
con i piedi per terra.
Ottomila persone (per gli organizzatori) tra siciliani, calabresi e altre realtà
solidali alla lotta, come le comunità del No Tav o Wwf Legambiente e altre
associazioni ecologiste, hanno invaso i viali dell'Araba fenice rinata dopo lo
tsunami del 1908; immancabilmente, per la Questura hanno sfilato in tremila.
Quel che conta è che sia ripartita, oltre alle minacce berlusconiane ("useremo
l'esercito" ha promesso cupo il ministro Claudio Scajola,) la rete di chi non
chiede più investimenti pubblici-monstre ma "investimenti locali di prossimità:
compatibili e immediati, come la metropolitana del mare qui sullo Stretto e la
messa in sicurezza delle due sponde dal rischio antisismico; costerebbero più
del ponte", spiega Antonello Mangano, autore con Gigi Sturniolo e Peppe Marra
del libro ‘'Ponte sullo Stretto e mucche da mungere".
Per voi tre autori ci sono sette buoni motivi per essere ‘contro' e uno
interessa da vicino PeaceReporter
"Fino a pochi mesi fa si diceva che l'investimento pubblico rappresentava il
peggiore dei mali, ora è essenziale per socializzare le perdite - la crisi la
paghiamo noi - mentre le mega opere basate sulla partnership pubblico-privato
diventano delle vacche da mungere che portano ai privati denaro pubblico. La
tesi del nostro libro è che tra una diga in Lesotho, il Ponte, la
privatizzazione dell'acqua in Calabria, le razioni di pollo per i soldati in
Afghanistan, i rifiuti accumulati a Napoli e un hotel extralusso a Khartum con
vista sulle baracche in latta, non esiste nessuna differenza".
Mangano è un blogger con venature da sociologo, Marra un attivista ecologista al
quale potreste chiedere ogni particolare su come la multinazionale francese
‘Veolia' abbia trovato l'America in Calabria, gestendo i tesori locali: acqua e
rifiuti; Sturniolo ha formazione economica e la ‘fissa' marxista di trovare a
tutto motivazioni economiche; nel libro si propone un'analisi, economica e
politica, che parte dal presupposto degli ‘interessi discordanti' e del loro
riequilibrio. Dietro la artificialmente indotta esigenza del Ponte, ci sono
interessi molto forti: movimento terra, betoniere delle ‘ndrine che impastano
calcestruzzo a buon mercato come quello sbriciolatosi per la scossa dell'Aquila,
e movimento inerti. Le cosche della Piana di Gioja e i picciotti catanesi ci
hanno prosperato per anni, costruendo autostrade e seconde ‘town' ai presidenti
del Consiglio: dietro le reali esigenze del ‘No Ponte', non si riescono ad
aggregare movimenti di opinione. Non si riesce ad impedire che si diano poteri
generali al commissario straordinario Piero Ciucci per ‘'accelerare i lavori'' e
traformare lo Stretto nei prossimi sette anni (ammesso che ce la facciano...) in
una miriade di svincoli, curve e sopraelevate. Piccola nota: Ciucci il
commissario straordinario, è anche a capo dell'Anas, che detiene la quota
dell'82 percento della società ‘Stretto di Messina' incaricata di delineare i
termini tecnici dell'opera. A metterlo in atto sarà Impregilo, (gruppo Romiti)
che si è aggiudicata i lavori. Gli stessi che si erano aggiudicati nel '90
l'ammodernamento dell'autostrada Salerno-Reggio. Era ancora premier Bettino
Craxi e ministro ai Lavori pubblici un democristiano calabrese, Riccardo Misasi.
Anas e Impregilo in 17 anni non hanno completato quello che avevano promesso di
chiudere in cinque (anche il ministro berlusconiano Piero Lunardi nel 2001 aveva
indidcato come fine lavori per la Sa-Rc il 2005), e i costi sono lievitati di 17
volte. C'è da scommetterci che riusciranno a ultimare una opera-monstre in 7
anni...
Torniamo a noi. Se hanno fallito, soprattuto nel vigilare sulle infiltrazioni
mafiose sulla Salerno- Reggio, figurarsi per il ponte... ... che unirà due cosche, non due coste..."
Come si attua la fregatura?
Negli anni ‘70 sembrava si fosse assistito ad un ritorno del pubblico: shock
petrolifero, economie assistite, misure keynesiane; poi gli anni '80 reaganiani
dell'iperliberismo. Ora dopo lo shock 11 settembre ma soprattutto dopo la caduta
del "Muro di Wall Street" è arrivato il momento della PPP (Partnership pubblico
- privato). Cosi le perdite saranno collettivizzate e i guadagni privatizzati; è
lo stesso discorso per il quale chi fornisce (vedi Halliburton) le razioni ai
soldati in Iraq ha da guadagnare tanto quanto coloro che vincono la commessa per
la diga in Lesotho che i lesothiani non hanno chiesto e che non finanzieranno,
ma che si ritroverranno grazie a fondi Onu. O per il Ponte o per lo sfruttamento
delle risorse, come potrebbe essere il caso dei rifiuti, mentre il loro
sfruttamento viene lasciato (Impregilo, sempre lei, ha rinunciato a costruire i
termovalorizzatori) in mano alle ecomafie o tout court ai casalesi.
Mi ripete il settimo comandamento del ‘No al Ponte'?
Le opere PPP sono utili ai generali e ai loro eserciti, all'industria della
guerra, altro ottimo investimento richiesto dal pubblico e attuato dai privati.
Per questo Matteoli (Lavori pubblici) e Scajola hanno promesso di usare
l'esercito contro le ‘'sparute minoranze che si opporranno al Ponte''...
Quali sono gli altri punti fermi del vostro comitato?
No al partito del cemento. No allo strapotere economico delle mafie. No alla
finta promessa di occupazione (40mila posti di lavoro per il governo; ma quando
i cantieri saranno finiti?). No alle finte promesse di sviluppo..
Cosa comporta la commistione pubblico-privato?
Lo Stato è rimasto stazione appaltante ed assicura alle imprese private profitti
al riparo dalla concorrenza, rischi di mercato, verifiche di efficienza.
L'arretramento dello Stato ha significato riduzione di regole e controlli,
discrezionalità dei "General Contractor" nell'assegnazione di subappalti o nella
gestione privatistica di voci di bilancio, con perdita di rilevanza penale di
comportamenti dannosi per la società. Ha significato nei fatti maggiore spazio
per la criminalità, l'annullamento dei diritti dei lavoratori, l'allontanamento
di imprese che non accettano tavolini di spartizione.
Il titolo sarebbe ‘'Attenti a quei due!"
Sappiamo cos'è la Salerno- Reggio; non tutti sanno che i responsabili sono gli
stessi che devono fare il Ponte: Anas e Impregilo. Quanto hanno vigilato sulle
infiltrazioni mafiose?
Per Piero Ciucci, nel 2007, la Salerno-Reggio era una ‘'autostrada pienamente
sotto controllo''. Per questa strada "pienamente sotto controllo" l'intervento
della polizia è stato richiesto in diverse occasioni, con mandati di catttura
dei giudici: si inizia con l'operazione Tamburo (2002), che riguarda il tratto
da Castrovillari a Rogliano; si prosegue con l'operazione della Dia contro la
camorra (aprile 2005) per la realizzazione degli svincoli di Castellammare di
Stabia e Scafati e dei caselli di Nocera Inferiore e Cava dei Tirreni; ancora
l'operazione Arca (luglio 2007), chiusa esattamente due anni dopo con otto
condanne e 44 assoluzioni per una forma di pizzo che prevedeva manodopera e
calcestruzzo a prezzi gonfiati tra gli svincoli di Mileto e Rosarno-Gioia Tauro.
Nel febbraio 2009, l'operazione "Autostrada" riguardava ancora il tratto sotto
l'egemonia del clan Mancuso (svincolo di Mileto): pizzo pari all'1 per cento
degli importo e materiali scadenti, giudicati però adeguati dai controlli
eseguiti dall`Anas
Le mafie sempre più ricche; il territorio devastato; i costi in capo alla
comunità e profitti astronomici per Impregilo e per chi gestirà il pedaggio
dell'opera finita; una colata di cemento seppellirà le due città dello Stretto
per le opere di adeguamento ad una tensostruttura mostruosa sospesa a un
centinaio di metri d'altezza; la curva per portare ad altezza Ponte treni e auto
comincerà a un chilometro del mare e descriverà quasi una inversione a U: la
madre di tutte le sopraelevate che hanno deturpato le nostre città.
Ma c'è un motivo che sta sopra a tutti, il più evidente e il più logico. Lo
forniscono gli ingegneri, come è loro prassi, molto razionalmente: con il
progetto attuale se i venti sorpassano i 10 nodi, la struttura andrebbe chiusa.
Si tornerebbe a traversare in barca. Nella regione dello Stretto, una delle più
ventose d'Italia (chiedere ai wind e kite surfer che arrivano fin dal Friuli o
dalla Slovenia per volare su quelle acque) almeno per un centinaio di giorni
l'anno si supera questa velocità. La Grande opera del Governo Berlusconi sarebbe
inservibile per un terzo dell'anno.
I redditi non dichiarati nei primi 7 mesi
scoperti dalla Guardia di Finanza in seguito alle indagini sulle
operazioni "con risvolti oltre confine"
Fisco, evasi 3,3 miliardi da
gennaio. Un terzo nei paradisi fiscali
L'Iva sottratta allo Stato ammonta invece a 1,8
miliardi. Denunce in aumento del 17%
ROMA - Ammontano a 3,3, miliardi di euro i redditi
non dichiarati scoperti dalla Guardia di Finanza nei primi sette mesi del 2009,
in seguito delle "investigazioni sulle altre operazioni evasive ed elusive con
risvolti oltre confine".
Oltre 600 milioni di euro facevano capo a soggetti e imprese che, per sfuggire
al fisco, avevano falsamente localizzato la propria residenza o la sede della
propria attività all'estero, mentre 1,1 miliardi di euro è stato scovato nelle
transazioni e nelle operazioni finanziarie con i paradisi fiscali. Altri 1,6
miliardi, infine, erano nella titolarità di "organizzazioni di imprese estere
operanti in Italia", che non dichiaravano nulla al fisco.
Inoltre, secondo quanto reso noto dalle Fiamme Gialle, "ammonta a 1,8 miliardi
l'Iva evasa a seguito di frodi scoperte nelle indagini su triangolazioni
commerciali". Sono stati denunciati 3.557 soggetti," pari al 17% in più dello
scorso anno".
Ammontano infine a 396 milioni di euro i titoli e la valuta sequestrati in
occasione dei controlli sui movimenti di capitale effettuati al confine in
collaborazione con l'Agenzia delle Dogane.
20 agosto
Pubblica insicurezza
Di Riccardo Bocca
I tagli dei fondi rendono la vita degli agenti
impossibile. E lasciano i cittadini senza protezione. Mentre partono le ronde,
ecco in quali condizioni opera la polizia italiana
Ci sono due parole che irritano profondamente i
poliziotti italiani. La prima è 'ronde': le cosiddette associazioni di volontari
per la sicurezza. Quelle tanto apprezzate dal ministero dell'Interno, e che
stanno per pattugliare le nostre città (sperando non finisca sempre come a
Massa, dove lo scorso 26 luglio una ronda di destra e una di sinistra si sono a
prese a pugni e seggiolate). La seconda parola sgradita, invece, è 'militari'.
Almeno quelli utilizzati, da circa un anno, per arginare la delinquenza urbana.
Secondo il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, è merito loro se in certi
quartieri i reati sono diminuiti del 40 per cento. Al contrario, i poliziotti li
considerano "perfetti in guerra ma non nell'ordine pubblico". E, per giunta,
ironizzano, "dobbiamo fargli da balia".
Polemiche su polemiche. È questa la quotidianità degli agenti di pubblica
sicurezza. Si dicono dimenticati. Stanchi. Avviliti. E delusi, soprattutto. Come
il graduato che parla a ruota libera nei 40 gradi della Palermo estiva. Scuote
la testa e spiega come, nel disinteresse generale, sono costretti a lavorare i
colleghi che scortano Maria Falcone, sorella dell'icona antimafia Giovanni e
divulgatrice della legalità nelle scuole. "Alla signora spetta una protezione di
terzo livello, cioè una Lancia K blindata con due uomini armati a bordo", dice,
"ma questo non basta a garantirne la sicurezza". Oltre alla minaccia delle
cosche, infatti, "c'è da combattere la drammatica condizione del nostro parco
automobili". Di recente, ad esempio, "la macchina di Maria Falcone non ce l'ha
fatta a uscire dal deposito della caserma: perdeva potenza". E quando è stata
sostituita da un'altra vettura, quello stesso giorno, è finita ancora peggio:
"Di colpo, lungo la strada, si è rotta l'aria condizionata e si sono bloccati i
finestrini, trasformando l'abitacolo in un forno e obbligando la scorta a
chiedere rinforzi".
"Assurdo
ma frequente", confermano altri agenti. Lo sa bene il magistrato Anna Maria
Palma, capo di gabinetto alla Presidenza del Senato, che si è trovata con l'auto
della scorta inchiodata sulla Palermo-Messina. E altrettanto bene lo sa il
sindaco di Palermo, Diego Cammarata, i cui uomini di protezione hanno dovuto
muoversi - causa assenza fondi- anche su una vecchia Punto senza blindatura.
"Episodi che altrove farebbero scandalo, mentre in Italia sono diventati
normali", dice Felice Romano, segretario generale delSiulp(Sindacato italiano
unitario lavoratori di polizia): "Ormai la pubblica sicurezza è allo stremo in
ogni parte d'Italia e su ogni fronte operativo: dalle scorte all'antidroga, dai
commissariati di zona alle squadre volanti". Non a caso. Sul tavolo, il capo del
Siulp ha le carte dei tagli che il governo ha riservato alle forze dell'ordine.
Cifre paurose, quando si arriva al capitolo polizia di Stato: 263 milioni 497
mila euro cancellati nel 2009. Altri 283 milioni levati nel 2010. Ulteriori 492
milioni 726 mila euro eliminati nel 2011. Unica voce incoraggiante, i 100
milioni destinati alle polizie comunali, che sono un niente rispetto ai
complessivi 3 miliardi e mezzo tagliati al comparto Sicurezza e difesa. Morale:
da un lato "l'opinione pubblica viene stordita con gli effetti speciali",
denuncia il sindacato Uilps, dall'altro si "trascura la gestione ordinaria".
Cioè l'indispensabile.
Cosa significhi, in concreto, si può vedere a Milano: in teoria il simbolo
dell'efficienza padana, in pratica una metropoli dove la polizia è in ginocchio.
Basti pensare all'organico bloccato da 18 anni a 3.900 uomini, con una carenza
di 50 sovrintendenti e ispettori, 30 funzionari, dieci dirigenti e oltre 500
agenti. Per non parlare delle 487 auto in dotazione alla questura, delle quali
250 ferme per riparazioni che avverranno quando avverranno. O ancora, dei 13
membri del pool antiterrorismo internazionale Digos, costretti a indagare fianco
a fianco in un ufficio di 12 metri quadri. "La politica ci aveva promesso più
personale, più mezzi, più soldi; ci aveva illuso che da bruchi saremmo diventati
farfalle", spiega un agente milanese: "Invece siamo sprofondati in un baratro
dove manca tutto: dalle divise alla carta del fax. Fino ai giubbotti
antiproiettile, in certi casi scaduti dal '92". Un incubo che si materializza
alla caserma Garibaldi di piazza Sant'Ambrogio, dove si trovano gli uffici che
gestiscono volanti, scorte e personale. "S'intrufoli al secondo o al terzo
piano", suggerisce qualcuno. Ed è una scena sconsolante, quella che appare. Una
sequenza di vetri spaccati, bagni con porte mancanti, cumuli di mozziconi e
spazzatura, televisori preistorici abbandonati nei corridoi, neon che non si
accendono e materassi lerci appoggiati alle pareti. "Da qui parte il degrado",
annuisce un sindacalista: "dal nostro quartier generale...".
Poi c'è l'esterno: ossia la parte che tutti i milanesi possono vedere e
giudicare. A partire dai 17 commissariati, dei quali solo cinque riescono a
garantire volanti per penuria di uomini e auto. "Contenitori di storie
grottesche", li chiama chi ci lavora. Senza esagerare. Al commissariato
Greco-Turro, ogni giorno confluisce un mare di extracomunitari per i permessi di
soggiorno, e ad accoglierlo c'è il bagno dei disabili riadattato a stanzetta per
le impronte. Il commissariato Porta Genova, invece, è un ex carcere minorile
dove anche i settori aperti al pubblico hanno finestre sbarrate (in barba alle
più ovvie norme di sicurezza), mentre il pavimento dell'archivio è
pericolosamente piegato sotto a una montagna di fascicoli. "Problemi segnalati e
mai risolti", lamentano i poliziotti. Al pari del commissariato
Monforte-Vittoria, nel centro storico, gestito a colpi di buona volontà da
Edmondo Capecelatro (anche dirigente del Siulp): "Nel 2003", dice, "l'organico
prevedeva 99 persone: oggi siamo rimasti in 75, dei quali due ispettori
pensionandi, due aggregati fuori sede, 15 assenti in media per ferie o malattia,
una decina disseminati tra centralino e altri servizi, sette o otto richiesti
ogni giorno per i servizi di ordine pubblico e un'altra decina bloccata negli
uffici denunce e passaporti, ai quali va sommato un gruppetto per la burocrazia
indispensabile. Risultato: ho circa sette uomini per presidiare una zona con 90
mila residenti. Che razza di sicurezza posso garantire?".
Scarsa, risponde lui stesso: anzi scarsissima. Come nella vicina Monza, dove gli
agenti della squadra investigativa hanno dovuto attraversare la città in
autobus, con i faldoni sottobraccio, perché tutte le auto erano fuori servizio.
O come alla Stazione Centrale di Milano, dove l'area di sorveglianza è stata
quasi raddoppiata per l'apertura di nuovi spazi, ma senza aggiungere un solo
agente alla già misera polizia ferroviaria. Il che può stupire i non addetti ai
lavori, ma conferma il contenuto di un appunto riservato a firma Dipartimento di
pubblica sicurezza. Due pagine nelle quali si indicano i tagli più pesanti alla
polizia di Stato: meno 5,1 milioni di euro per le missioni nazionali, meno 2,3
per quelle all'estero, meno 3,8 per i servizi di pulizia e meno 10,8 per le
spese telefoniche. Fino alla batosta conclusiva: 6,2 milioni tagliati agli
armamenti, pari a un meno 84,72 per cento. "Tenuto conto di quanto sopra
premesso", si legge in calce al documento, "anche quest'anno vi saranno notevoli
difficoltà per assicurare alcuni dei servizi particolarmente penalizzati". Di
più: "La situazione", scrive il Dipartimento, "è aggravata dal trascinamento di
notevoli debiti dei passati esercizi", i quali a quanto pare "non hanno trovato
copertura nelle dotazioni di bilancio".
Parole chiare. Lapidarie. Sufficienti, insomma, per catalogare automaticamente
sotto la voce 'uscite infelici' quella di Renato Brunetta, ministro della
Funzione pubblica, secondo cui il guaio della polizia è di avere troppi
"panzoni" dietro le scrivanie e pochi Rambo in strada: dichiarazione dello
scorso 28 maggio, poi rimediata con scuse generiche. "Una visione distorta della
realtà", la chiama uno dei sovrappeso sotto accusa: "Non siamo noi poliziotti da
ufficio a essere scadenti, ma le strumentazioni che abbiamo e le strutture in
cui operiamo". Caso esemplare, in questo senso, è la sede della polizia postale
di viale Trastevere, a Roma, nella quale si combattono crimini tutt'altro che
secondari come la pedofilia on line. Al primo piano del palazzo, solo in teoria
inaccessibile agli estranei, gli uffici operativi hanno vetri blindati che non
si possono aprire: "Neanche se scoppia un incendio", testimoniano i dipendenti:
"Inoltre, l'areazione è quasi sempre rotta, tant'è che una collega è svenuta dal
caldo". Quanto all'aspetto investigativo, "il 30 per cento dei computer risale a
fine anni '90: quindi è obsoleto, lento ed esposto ad hackeraggi". Ragione per
cui gli agenti, stufi di chiedere e non ricevere, si arrangiano portando avanti
e indietro da casa i loro personal, "con comprensibili timori per la
riservatezza dei dati".
Dopodiché tutto è possibile, nell'Italia delle polemiche. Si può sostenere, come
ha fatto il ministro dell'Interno Roberto Maroni, che nel bilancio 2009 la
polizia ha avuto circa il 10 per cento in più rispetto all'anno precedente per
le spese correnti ("Tralasciando di specificare che non si tratta di uno
stanziamento aggiuntivo, ma del tentativo di sanare i buchi pregressi, più le
somme per pagare gli aumenti contrattuali decisi dal governo Prodi", contestano
i sindacalisti). "Si può anche continuare ad appoggiarsi sulla nostra voglia di
sacrificio", provocano gli agenti, "sorvolando sugli stipendi che ci vengono
pagati in ritardo". Ma certo colpisce sapere che nella capitale il commissariato
Tuscolano ha solo una volante per un'area affollata da 500 mila abitanti.
Dispiace sentire che, in occasione dell'ultimo G8, decine di poliziotti sono
stati per ore sull'autostrada Roma-L'Aquila, senza ricevere un bicchiere d'acqua
o un panino. E ancora più pesante, per il morale degli agenti di polizia, è
stato quanto accaduto durante le vacanze pasquali a Napoli del presidente della
Repubblica Giorgio Napolitano. "Una volta arrivati", riferisce chi c'era, "il
seguito dei carabinieri ha dormito al Grand hotel Oriente, quattro stelle nel
cuore della città". Per i poliziotti, invece, il budget non prevedeva l'albergo:
né ad alto né a basso costo. "Li hanno portati in convento".
E qui si torna al punto di partenza: alla dedizione degli agenti, che nel 2009
"ha consentito di ridurre la delittuosità dell'11,4 per cento rispetto al 2008",
usando le parole del capo della polizia Antonio Manganelli, ma anche alla
penuria di finanziamenti e personale diffusa sul territorio italiano.
Allarmante, per dire, è la segnalazione del Silp (Sindacato italiano lavoratori
polizia) riguardo al porto di Genova, dove "a fronte di un organico di 305 unità
previsto nel 1989, operano attualmente 178 agenti": il che significa che quattro
poliziotti, in un giorno, hanno dovuto controllare 1.600 passeggeri. Altrettanto
condivisibili sono le preoccupazioni della polizia stradale per il comprensorio
Forlì-Cesena, dove gli agenti hanno denunciato al Dipartimento di pubblica
sicurezza lo "scarso livello di sicurezza" e le "sporadiche pattuglie presenti".
Per non parlare di Perugia, con i poliziotti mortificati dalla "carenza di
scarpe, divise e automezzi". O dell'ufficio immigrazione di Modena, dotato di 31
agenti per "gestire quasi 80 mila stranieri". O ancora, dei poliziotti in
servizio nella nuovissima sede di Fiumicino, costretti a pietire il toner delle
stampanti al gestore dell'aeroporto.
"Piccole cose, certo, ma enormi se accumulate una sull'altra", commenta Vittorio
Costantini, segretario provinciale Siulp a Palermo. Una frase che ripete spesso,
mostrando di persona le emergenze della sua città, dalle scorte in poi. C'è il
commissariato di Brancaccio, zona ad altissima densità criminale, dove la mafia
si combatte con un'unica volante e una sede che cade a pezzi: talmente
vulnerabile da avere subìto l'assedio di familiari dei malavitosi arrestati. C'è
il reparto a cavallo nel parco della Favorita, cruciale per i servizi antidroga
e antistupri, che su otto animali ne ha due troppo anziani e due non montabili
per tare caratteriali (dettagli sconcertanti quanto gli spogliatoi a ridosso
della fogna, o i container sfondati che dovevano sostituire i vecchi uffici). E
c'è, ancora una volta, il delirio dell'ufficio immigrazione, con 6 mila domande
di permesso di soggiorno arretrate, un ex magazzino accanto (in uso alla
questura) infarcito di topi e un cortile sommerso dalla spazzatura.
Ma la tappa più avvilente, e importante, è quella successiva: lo sfogo di due
agenti della squadra mobile al tavolino di un bar. Poliziotti pieni di rabbia
non per le 90 mila ore di arretrati non pagate, ma per l'impossibilità di
battersi ad armi pari contro Cosa nostra. "Dopo i tagli ai finanziamenti",
spiegano, "ci hanno chiesto di indagare soltanto all'interno della città. Mai
fuori, senza eccezioni. Anche se tutti sanno che le famiglie dei boss si
annidano nelle province".
Una beffa ai danni degli italiani, la definiscono. Un colpo basso per quei
poliziotti che si dedicano giorno e notte all'antimafia. "In altre parole: il
più bel regalo che lo Stato potesse fare agli eredi di Riina e Provenzano".
Afghanistan, in vigore legge
che calpesta i diritti delle donne
Il provvedimento che consente lo stupro in
famiglia è per Karzai la merce di scambio per il patto elettorale con gli sciiti
A sorpresa la legge che consente lo stupro delle
donne in famiglia è apparsa sulla gazzetta ufficiale afgana. I prossimi giorni,
dunque, potrebbero portare guai e nuove polemiche contro il presidente afgano
Karzai.
La sua promessa di rivedere la legge che che obbligava le donne a restare chiuse
in casa e ad uscire solo con il permesso del consorte (oltre a vietare loro di
cercare lavoro) è caduta nel nulla.
La legge è comparsa sulla gazzetta ufficiale del 27 luglio scorso e di
conseguenza è in vigore. Sdegno e rabbia sono stati espressi dal responsabile di
Human Rights Watch Asia, Brad Adams, che sostiene che Karzai abbia "svenduto le
donne afgane" pur di riuscire a raggiungere un accordo elettorale con i gruppi
sciiti afgani per le elezioni del 20 agosto prossimo. Con questa legge - secondo
Hrw - i diritti fondamentali delle donne afgane, sanciti dalla Costituzione,
vengono stracciati e chiusi in un cassetto.
Il testo della legge sancisce, ad esempio, il diritto del marito di rifiutare
qualsiasi forma di mantenimento, incluso il cibo, alla moglie che si rifiuti di
obbedire alle sue pretese sessuali; garantisce l'affidamento dei figli
esclusivamente al marito e al nonno; impone alle donne di ottenere il permesso
del marito per poter cercare un lavoro. "I diritti delle donne - dice Adams -
vengono violati da potenti uomini che le usano come pedine di una scacchiera per
le loro sporche manovre messe in scena per conquistare potere. Queste sono leggi
che esistevano nel passato e che sarebbero dovute essere cancellate con il
rovesciamento del regime talebano nel 2001 ma Karzai ha messo il timbro di
approvazione" conclude l'alto dirigente di Hrw.
Già nel marzo scorso quando la legge fece la sua comparsa nella vita politica
nazionale si levarono molte proteste. Addirittura un nutrito gruppo di donne ha
manifestato davanti alla moschee di uno degli imam più radicali nell'appoggiare
la legge.
La legge in questione è stata criticata a livello internazionale e le proteste
delle donne afgane sono state sostenute dal presidente Usa barack Obama, dal
leader canadese e Harper, dal premier britannico Gordon Brown e dal segretario
della Nato Jaap de Hoop Scheffer e da moltissimi altri capi di Stato. Hrw
sostiene, però, che la legge apparsa sulla gazzetta ufficiale contrasta
fortemente con i diritti previsti dalla Costituzione afgana che vieta
discriminazioni e distinzioni fra i cittadini del Paese.
L'organizzazione statunitense per la difesa dei diritti umani ha definito
'impensabile' porre tale merce di scambio alla base del patto elettorale con gli
intransigenti sciiti, che da tempo pressavano per una legge speciale che
abbracciasse questioni familiari e coniugali. Ma proprio tale legge oscurantista
sembra essere la dote più preziosa che Karzai ha per l'appoggio dei
fondamentalisti alle prossime elezioni.
18 agosto
Zero in governo
di Marco Damilano
Tanti proclami, pochi risultati. E conti in
rosso, leggi incostituzionali, gaffe, scontri interni... Ecco le pagelle della
squadra di Berlusconi: tra primi della classe, assenti, bocciati e auto-promossi
Il
Capoclasse, da tempo, non frequenta più la scuola. Troppo attratto dai
palcoscenici internazionali. Troppo impegnato a difendersi da mogli, amiche e
perfino dalla figlia Barbara che con una frase ha smontato la linea difensiva
costruita in tre mesi: "Un uomo politico non può permettersi la distinzione tra
vita pubblica e vita privata". Se n'è accorto Antonio Bassolino, che con Silvio
Berlusconi è in ottimi rapporti, quando lo ha chiamato per il commissariamento
della sanità in Campania. "Non me ne occupo io, parlane con Gianni Letta", ha
risposto il Cavaliere, spompato. In sua assenza, la classe di governo si divide:
tra Nord e Sud, con il premier costretto a bloccare il nascente partito di
Gianfranco Miccichè e Raffaele Lombardo con 4 miliardi destinati alla Sicilia,
tra Roberto Maroni e Claudio Scajola che litigano sui lavoratori immigrati.
Tutti contro tutti e tutti contro Giulio Tremonti. Intanto, l'Istat avverte che
i poveri sono aumentati: oltre otto milioni, il 13,6 per cento della
popolazione. Il Pil crolla al meno 5,2 per cento, il debito pubblico tocca il
record di 1.752 miliardi di euro, le entrate fiscali sono calate di 4,5
miliardi, i disoccupati potrebbero arrivare al 10 per cento. Numeri che spingono
a rimandare a settembre il governo Berlusconi in blocco. Ecco le pagelle dei
ministri, prima della pausa estiva. Promossi, bocciati, rimandati, assenti.
Primi della classe
Occhiali spessi da nerd, piglio annoiato da studente modello costretto ad
ascoltare professori che ne sanno meno di lui, Giulio Tremonti è l'uomo
chiave del governo: ha in mano il boccino delle misure anticrisi, le risorse per
le emergenze, la rediviva Cassa per il Mezzogiorno. Attaccato all'auricolare per
ascoltare le lamentele dei ministri, le richieste dei peones, i richiami del
Quirinale. Qualcuno sussurra che sia vittima delle sue macchinazioni: avrebbe
lasciato che le tensioni nel governo si sviluppassero a briglia sciolta per
sottolineare il suo ruolo e ora "sente che il bosco lo sta accerchiando",
sogghigna un berlusconiano. È stato più volte indicato come nuovo premier in
caso di dimissioni traumatiche dell'attuale inquilino di palazzo Chigi. Ma lui
nega di pensarci. Lo ha spiegato a un gruppo di prelati dopo una sua conferenza
sull'enciclica sociale del papa: "Voi non conoscete la forza di reazione della
Bestia", inteso come Berlusconi. Parole che in una sede ecclesiastica sono
risuonate in modo particolare: la Bestia, nel libro dell'Apocalisse, è il nome
dell'Anticristo, il Diavolo.
A fare da anti-Tremonti nel governo c'è l'ambizioso Claudio Scajola,
ministro dello Sviluppo economico che gestisce 5 miliardi l'anno di contributi a
fondo perduto per le imprese private, in corsa anche per sostituire l'incapace
trio Bondi-La Russa-Verdini che guida il Pdl. Intanto mostra i muscoli in
Consiglio dei ministri. Con Maroni sulla regolarizzazione dei lavoratori
immigrati (replica del leghista: "La sua proposta è la stessa di Epifani:
respinta") e con Stefania Prestigiacomo sulla gestione del nucleare, la grande
torta dei prossimi anni.
Autopromossi
Il ministro dell'Interno Roberto Maroni sventola i dati sicurezza del
2008: reati in calo dell'8 per cento, meno borseggi, meno scippi, meno furti in
casa, meno omicidi. In più, ci sono i respingimenti che hanno ridotto gli
sbarchi di immigrati al minimo. Anche se l'Osservatorio Nord-Est segnala che nel
Veneto è aumentata la paura della criminalità. E l'agenzia Onu per i rifugiati
denuncia che i centri detenzione in Libia stanno scoppiando. Ma Maroni si
autopromuove, insieme agli altri ministri padani: il titolare dell'Agricoltura
Luca Zaia e soprattutto l'uomo delle Riforme Umberto Bossi,
l'icona della Lega, il partito che aumenta i voti e dà la linea al governo. Il
partito del nuovo potere, come resoconta ogni giorno 'La Padania'. Ecco Bossi
impettito come un ex generale sudamericano in grisaglia ministeriale che taglia
il nastro dell'autostrada Brebemi. Ecco il viceministro Roberto Castelli
che posa la prima pietra della terza corsia tra Lainate e Como-Grandate. Ecco il
ministro Zaia a bordo di un trattore al Brennero che arringa gli allevatori
della Coldiretti, oppure fotografato a tutta pagina cheek to cheek con un
cavallo mentre proclama: "Salverò l'ippica". I ras democristiani, i Gaspari, i
Bisaglia, i Prandini, non avrebbero saputo fare di meglio. E sono durati
decenni.
Sette in condotta
La sua uscita sui salari più bassi al Sud ha fatto imbestialire mezzo governo.
Eppure, incredibile, Roberto Calderoli, ministro della orwelliana
Semplificazione normativa, non è il più irrequieto della squadra. Il Pierino in
servizio permanente è Renato Brunetta. "Il vaffa è un atto di libertà. Fa
bene a chi lo manda e a chi lo riceve", ha teorizzato l'altro giorno dopo aver
vaffeggiato in un anno dipendenti fannulloni, impiegate che fanno la spesa in
orario di lavoro, poliziotti panzoni, Internet e Facebook, l'abbigliamento
casual in ufficio, Daria Bignardi e, naturalmente, i suoi colleghi, Tremonti in
testa, con cui la rivalità è a stento nascosta.
Non basta l'impegno
La fascinosa Prestigiacomo, ministro dell'Ambiente, ha sparato decine di
interviste, per le realizzazioni ci sarà tempo. "Basta con i parchi trasformati
in poltronificio", ha tuonato. Prima di nominare commissario dell'Ente parco del
Gran Sasso il giornalista 'de destra' Arturo Diaconale, di cui non si sospettava
la passione per orsi e camosci. E coccola con dedizione il suo collegio
elettorale, ricambiata: per il G8 dell'Ambiente a Siracusa, città natale, i
ristoratori grati le hanno dedicato una pizza, manco fosse la regina Margherita.
Anche il ministro della Gioventù, l'ex An Giorgia Meloni, finora ha
prodotto il topolino dei villaggi per i giovani niente alcol e niente spinelli,
dopo aver lanciato i campi estivi per studenti nelle caserme dei vigili del
fuoco. Per forgiare la meglio gioventù. La meglio giovinezza, anzi.
Bocciati
Il ministro della Giustizia Angelino Alfano prometteva sfracelli. Riforma
del processo civile e penale, riforma del Csm, separazione delle carriere, legge
sulle intercettazione. Per ora il bottino è magro: la riforma del Csm, solo
annunciata, è stata bollata come incostituzionale dall'organo di autogoverno dei
magistrati. Il ddl sulle intercettazioni è stato bloccato da un intervento del
Quirinale e rispedito al dibattito in Senato per le modifiche. Come se non
bastasse, il brillante ministro è stato commissariato dal suo partito con la
nascita della Consulta della giustizia del Pdl guidata da Niccolò Ghedini,
l'avvocato di Berlusconi: un governo-ombra. Nella sua Sicilia è sfidato da
Miccichè e Lombardo che mirano a ridimensionarne il potere. E c'è l'emergenza
carceri pronta a scoppiare: i detenuti sono 63 mila, a fine anno saranno 70 mila
secondo l'associazione Antigone. L'unica realizzazione di Alfano resta il lodo
che salva Berlusconi dai processi e che porta il suo nome: sempre che sopravviva
alla sentenza della Corte costituzionale, prevista per ottobre.
La Consulta, intanto, ha bocciato il ministro dell'Istruzione Mariastella
Gelmini sulla chiusura delle miniscuole e sull'accorpamento degli istituti.
Un brutto colpo per la ministra, già riuscita nell'impresa di risvegliare contro
la sua riforma studenti, insegnanti, genitori, sindacati e perfino l'esangue Pd.
Un capolavoro.
Sotto la sufficienza anche i due ministri che rappresentano quel che resta di An.
Su Ignazio La Russa alla Difesa piovono le critiche delle Forze armate:
nessuna riforma avviata, tranne il progetto Difesa Spa, la società che dovrebbe
gestire il patrimonio immobiliare dei militari, vissuto come una razzia, e
pesanti tagli di bilancio, 485 milioni in meno nel 2009, 456 nel 2010, 813 nel
2011. Cifre da bancarotta proprio mentre la missione in Afghanistan si fa più
rischiosa e il contingente in Libano, costosissimo, si ritrova abbandonato a se
stesso. Per risolvere il problema del logoramento dei mezzi sul teatro afgano si
ricorre sempre più spesso alla cannibalizzazione: togliere pezzi dall'Italia e
trasportarli in Afghanistan. Incrociando le dita.
Per l'altro ministro di An, l'uomo delle Infrastrutture Altero Matteoli,
è stato un pessimo inizio d'agosto: ingorgo al passante di Mestre, con il
governatore veneto Giancarlo Galan inferocito con l'Anas al punto di invocarne
l'abolizione, la Salerno-Reggio Calabria chiusa al primo weekend di esodo, caos
negli aeroporti con la nuova Alitalia che per ammissione del presidente Roberto
Colaninno subisce pesanti ritardi in due voli su dieci.
Fuori tema, e dunque da bocciare, Maurizio Sacconi, il ministro del
Welfare che accorpa lavoro e salute. Quando parla di ammortizzatori sociali e di
misure strutturali a sostegno di precari e licenziati, il trevigiano Sacconi
biascica un rosario di vedremo, stiamo valutando, si vedrà. Ma sulla pillola
Ru486 o sul testamento biologico si trasforma in un mullah. A colpi di libri
bianchi e verdi, predica che "la crisi è di valori", invocando la benedizione
dalle gerarchie ecclesiastiche. Con la sacra missione, nientemeno, di fermare"le
deriva nichilista cominciata negli anni Settanta", si infiamma Sacconi, "come
diceva Gianni De Michelis", magari all'uscita di una discoteca. E anche, già che
ci siamo, di bloccare l'ascesa del rivale vice-ministro Ferruccio Fazio. "Ha
molto operato per l'obiettivo", sussurrano in Vaticano.
Mara Carfagna, prima delle vacanze, ha prodotto uno strepitoso book
fotografico con i momenti più importanti della sua attività di governo: Mara in
tuta mimetica, Mara tra i bambini, Mara con il grembiule che fa la cameriera per
la Birmania. E dichiara di pensare molto alla sua futura maternità. Nell'attesa
del pupo carfagnano aspetta anche il progetto per la conciliazione tra i tempi
di cura e di lavoro, sempre annunciato e mai concretizzato.
Meno male che a divertire la scolaresca del governo ci pensa Michela Vittoria
Brambilla. Tanto lavoro per conquistare la poltrona ministeriale per poi
ammettere di fronte alle first ladies del G8 che "fare il ministro del Turismo è
duro, ma non difficile". E già, potrebbe farlo chiunque. Lei ne è la prova
vivente.
Assenti
"138 incontri in Italia, 185 incontri all'estero, 105 visite alll'estero.
357.599 chilometri percorsi. 527 ore e 43 minuti di volo...". Il ministro degli
Esteri Franco Frattini ha messo on line le sue missioni all'estero, "28
volte i giri della Terra". Sarebbe ora di rifiatare e chiedersi come mai il peso
internazionale dell'Italia si sia così ridotto.
Il ministro della Cultura Sandro Bondi, lui si è già fermato. La riforma
del ministero si è impantanata in commissione alla Camera. I 60 milioni per lo
spettacolo sono stati recuperati dal fondo emergenze dopo le proteste di tutto
il settore. E ora il più fedele al Capo rischia di essere fatto fuori anche dal
triumvirato di testa del Pdl. Silvio core 'ngrato.
Assente il napoletano Elio Vito, ministro dei rapporti con il Parlamento:
inesistenti. Per 24 volte alla Camera e otto al Senato si è presentato a
chiedere al Parlamento la fiducia ammazza-dibattito. Un record negativo che
cancella i 17 voti di fiducia chiesti nello stesso periodo dal governo Prodi.
Non classificabili
Il pugliese Raffaele Fitto (Affari regionali) si è assunto il compito di
fare il portabandiera del Sud nel governo: basta questo per dire quanto contino
i meridionali in Consiglio dei ministri. Andrea Ronchi (Politiche
comunitarie), sinceramente, chi l'ha visto? Al contrario di Gianfranco
Rotondi (Attuazione del programma) che coltiva la regola aurea dei maestri
dc: esserci, senza darlo a vedere.
La Danza della Pioggia
Nessun argine
per le violenze in Sud-Sudan. Aspettando lumi da Washington si spera nella
stagione delle piogge
I rappresentati
delle agenzie Onu presenti nel Paese sperano nell'arrivo della stagione delle
piogge: le inondazioni potrebbero cancellare i sentieri isolando molti villaggi,
rendendoli irraggiungibili, e placare così l'ondata di violenze inter-etniche
che ha ripreso vigore negli ultimi tempi. Sembra sia la sola flebile speranza
nel Sud-Sudan per fermare una guerra che dura da due decenni, finita sulla carta
nel 2005 con la firma del Comprehensive Pace Agreement. Politica e diplomazia
hanno, a differenza dei guerriglieri, le cartucciere vuote.
Geurre di tribù. Gli scontri verificatisi nei primi giorni del mese tra
le tribù Murle e Lou Nuer hanno provocato 185 vittime. La voce più pesante nel
bilancio, nella conta dei morti, è costituita da donne e bambini: secondo quanto
riferito da Goi Jooyul Yol, il commissario governativo di Akobo, sarebbero più
di cento. Decine di corpi sono stati ritrovati tra i cespugli, dove molti
pensavano di trovare un sicuro rifugio dai fucili dei Murle. Settecento persone
sono morte dall'inizio dell'anno a causa di una guerra tribale fatta di attacchi
e contrattacchi, da villaggio a villaggio.
Il World Food Programme (Wfp), l'agenzia Onu per l'alimentazione mondiale, ha
chiesto l'intervento delle autorità di Khartoum per porre fine alle lotte
tribali che rendono estremamente difficili e pericolose le operazioni umanitarie
nel Sud Sudan. Dal giugno scorso, quando le milizie sferrarono un attacco sul
fiume Sobat col chiaro intento di interrompere il flusso di rifornimenti
alimentari ai profughi dall'altro lato del fiume, il Wfp ha dovuto ricorrere
all'impiego di piccoli aerei per trasportare il cibo. Il cielo è rimasta
l'ultima via percorribile a causa anche della pericolosità delle strade rese
impraticabili, oltre che dal cattivo stato in cui versano, dal costante pericolo
di agguati.
Cacciatori di bambini. Come se non bastasse, ai problemi interni e alla
guerra civile che in vent'anni ha provocato la morte di due milioni di persone e
quasi cinque milioni di profughi, si è aggiunta la follia del visionario Joseph
Koni, il leader ugandese della Lord's Resistence Army (Lra): i ribelli ugandesi
sconfinano con una certa facilità nel Sud Sudan per far razzia di bambini da
arruolare nel loro esercito. I locali chiamano gli uomini di Koni i "ton-tong",
che nella loro lingua significa machete, l'arma con cui massacrano decine di
persone che oppongono resistenza alle loro depredazioni di bambini, bambine e
cibo. Nella sola provincia Equatoriale Occidentale si sono registrati almeno 250
rapimenti, ma nessun può fornire dei dati precisi su quanti ne siano realmente
scomparsi in un'area così vasta. Le incursioni dei guerriglieri dell'Lra hanno
costretto finora 55mila persone a lasciare le proprie terre per allontanarsi dal
loro raggio d'azione. Altri villaggi si svuotano, altri campi profughi vengono
allestiti.
La politica di Washington. Entro la fine del mese, Washington dovrebbe
esprimersi sulla nuova linea politica che il presidente Barack Obama intenderà
seguire. Le aspettative sono molto alte. L'inviato speciale di Obama in Sudan,
il generale Scott Gration, ritiene che la mediazione e il dialogo tra il governo
di Khartoum e i ribelli sono assolutamente imprescindibili. Gration mira a unire
le varie fazioni di ribelli così da poter avere un unico interlocutore, un
portavoce che possa rappresentare gli interessi comuni. Lo stesso vale per la
diaspora in Darfur e per il pulviscolo delle comunità di rifugiati, così che
tutti possano avere un ruolo attivo nei colloqui di pace di Doha. Washington
sembra molto determinata nell'assicurare la piena applicazione del Comprehensive
Pace Agreement così da porre fine anche a quella che lui definisce "una guerra
per procura" che vede in campo Sudan e Ciad. Ma in questo potpurri che ha come
ingredienti diverse etnie, religioni e interessi sovranazionali ed economici
assumono un ruolo rilevante anche i Janjaweed, le milizie arabe spalleggiate da
Khartoum e Hassan al-Bashir della cui incriminazione al tribunale internazionale
dell'Aja, Scott Gration è stato un forte sostenitore.
Nicola Sessa
Può un cargo scomparire nel nulla?
La vicenda di
un mercantile nel Golfo di Biscaglia è avvolta da più di un mistero
Scritto
da Cecilia Pierami
Una nave
mercantile scomparsa, uomini armati e un carico misterioso: se gli ingredienti
portano a latitudini che vanno dal leggendario triangolo delle Bermuda alle più
attuali acque del Corno d'Africa infestate da pirati, la realtà ci sposta invece
nel Mar Baltico.
Bandiera maltese, equipaggio russo e direzione Algeri: questa l' Arctic Sea,
nave di proprietà della Solchart Management. Ultimo rilevamento, Golfo di
Biscaglia, tra Francia e Portogallo. Era il 28 luglio. Poi l' Arctic Sea
scompare. Nessun contatto, nessuna richiesta d'aiuto, nessuna rivendicazione di
un fantomatico sequestro.
Le ricerche non danno risultati e da domani quattro unità della Flotta russa del
Mar Nero scandaglieranno le acque del nord per trovare tracce dell' Arctic Sea.
A infittire il mistero del cargo scomparso, però, un primo e strano incidente.
E' il 24 luglio quando l'equipaggio denuncia alle autorità svedesi uno strano
assalto: sconosciuti si presentano come funzionari di polizia e bloccano la nave
mentre si trova nel Mar Baltico. Legano l'equipaggio e lo tengono in ostaggio
per dodici ore. Poi, così come erano arrivati, scompaiono su un motoscafo, senza
prendere nulla.
"Hanno fatto prima salire il capitano sul ponte e lo hanno fatto stendere a
terra, poi hanno legato il resto dell'equipaggio" ha raccontato Natalya Gracheva,
giornalista russa, ultima persona ad avere avuto un colloquio con l'equipaggio
"Gli aggressori avevano metodi piuttosto sbrigativi e hanno più volte colpito il
capitano con il calcio del fucile: erano ben armati e sembravano piuttosto
pratici della tecnologia presente sulla nave".
Di nuovo: pirati? sequestratori? chi o cosa cercavano sull'Arctic Sea?
"Il cargo trasportava legname per un valore di 1,8 milioni di dollari per conto
della Stora Enso Oy, leader europeo nella produzione di carta" ha spiegato
Mikhail Voitenko, direttore del sito di news per la navigazione Sovfrakht. Un
carico questo che non sembrerebbe essere però appetibile per pirati e predoni
del mare. "A bordo poteva esserci un carico anche di altre società" aggiunge,
rendendo ancora più intricata la matassa, un portavoce della Stora Enso Oyj.
La nave riprende la navigazione in direzione Algeri. Nei quattro giorni seguenti
arriva nell'Oceano Atlantico, Golfo di Biscaglia. Poi scompare dai radar.
L'assenza di segnali e richieste di aiuto non sembra particolarmente
strana: Voitenko spiega che l'equipaggio potrebbe essere stato preso alla
sprovvista e il Sistema di Identificazione Automatico (AIS) essere stato
disattivato, cosa piuttosto semplice per uno specialista. Difficile credere
invece a un naufragio: un segnale d'allarme sarebbe stato inviato e il carico di
legname starebbe ancora galleggiando fra le coste di Francia, Spagna e
Portogallo.
Un segreto dietro il carico dell'Artic Sea? Una spedizione contraffatta?
Possibile che sia solo una casualità il precedente attacco del 24 luglio? Se lo
chiede Voitenko, i familiari dei quindici membri dell'equipaggio e le autorità:
"Perchè la notizia dell'attacco in acque svedesi è uscita solo dopo una
settimana? Cosa cercavano i falsi agenti sulla nave? Chi erano? Ma soprattutto,
dov'è ora il cargo?"
Omicidio Politkovskaya, un
processo per impuniti
La Russia è
il terzo Paese al mondo per omicidi di giornalisti
Un nuovo
processo senza nuove indagini. Si è aperto lo scorso mercoledì il processo
per l'omicidio della giornalista russa Anna Politkovskaya. Il procedimento
riparte dopo la sentenza della Corte Suprema russa che ha annullato la pronuncia
di di assoluzione degli unici tre imputati per l'omicidio della giornalista:
Serghei Khadzhikurbanov, ex funzionario di polizia, accusato di aver contribuito
all'organizzazione dell'omicidio su commissione, e i fratelli Dzhabrail e
Ibragim Makhmudov che avrebbero seguito la vittima studiando i suoi movimenti
nei giorni precedenti l'omicidio.
Prosciolto, in un processo a parte, anche il quarto imputato, Pavel Ryaguzov,
agente dell'Fsb (il servizio segreto russo erede del Kgb) accusato di aver
fornito al killer l'indirizzo della Politkovskaya. Khadzhikurbanov, il
funzionario di polizia, sarebbe implicato anche in questo caso. Secondo il
quotidiano russo " Moskovskiy Komsomolets", l'unica speranza che emergano nuovi
elementi dal processo è incentrata sui rapporti tra un testimone del primo
processo, detto Pavlyuchenko, che lavorerebbe per i servizi segreti, e
Khadzhikurbanov. Pavlyuchenko aveva dichiarato che, poco prima dell'omicidio
della Politkovskaya, Khadzhikurbanov gli avrebbe detto di "essere alle prese col
mondo della stampa". Khadzhikurbanov smentisce che ci fosse qualsiasi
riferimento ad Anna Politkovskaya, ma potrebbe essere importante chiarire il
legame tra queste dichiarazioni ed i fatti del separato processo dell'agente
dell'Fsb, Pavel Ryaguzov.
Un nuovo processo che scontenta tutti. Non ci sarà una effettiva
riapertura del caso, non ci saranno nuove indagini, non verranno raccolte nuove
prove. Gli unici imputati saranno nuovamente gli stessi già assolti nel primo
processo, cioè i presunti complici dell'assassinio. A quasi tre anni dal brutale
omicidio di Anna Politkovskaya, uccisa a Mosca il 7 ottobre 2006 a colpi di
pistola nell'ascensore di casa sua, ancora non sono stati scoperti ne' il
mandante, ne' il movente dell'omicidio, né l'esecutore materiale, che potrebbe
essere il terzo fratello Makhkudov. Ecco perché, già durante il primo processo,
alcuni giornali scrivevano chiaramente che dal momento in cui è stato evidente
che fosse implicati l'Fsb le reali indagini sull'omicidio di Anna si sono
interrotte ed è sceso un velo di omertà.
La Cpj , Commitee to Protect Jounalists, alla notizia della richiesta di nuove
indagini sull'omicidio della Politkovskaya ha dichiarato: "Sosteniamo l'appello
della famiglia della Politkovskaya perché ci sia una rinnovata ed approfondita
fase di indagine. E' necessario che la procura fortifichi l'impianto probatorio
prima che vengano nuovamente processati gli imputati. Le autorità devono
concentrare le proprie risorse nell'identificare, arrestare e condannare tutti
gli assassini di Anna - compreso l'esecutore materiale, l'intermediario ed i
mandanti del suo omicidio".
Anna Politkovskaya era corrispondente della Novaya Gazeta, quotidiano
dell'opposizione.
I suoi articoli sulla seconda guerra in Cecenia, le torture, esecuzioni di
massa, rapimenti ed abusi dei militari russi sui civili ceceni l'avevano resa
una delle figure di maggior rilievo nella denuncia delle violazione dei diritti
umani nel Paese, tanto che nel 2002 fu la stessa Politkovskaya a trattare la
liberazione di alcuni ostaggi con i terroristi ceceni che avevano preso
d'assalto il teatro della Dubrovka, a Mosca. La giornalista era stata più volte
minacciata di morte ed aveva subito un tentativo di avvelenamento nel 2004. Nel
novembre 2006 moriva a Londra Alexander Litvinenko, ex colonnello del Kgb ed
oppositore di Putin, rifugiatosi in Gran Bretagna e avvelenato mentre indagava
sull'omicidio di Anna Politkovskaya.
In Russia gli omicidi dei giornalisti restano impuniti. I dati della Cpj
mostrano che la Russia è al terzo posto per le morti di giornalisti legate al
loro lavoro, preceduta solo dall'Iraq e dall'Algeria. L'ultimo omicidio risale a
meno di un mese fa, il 15 luglio, con l'assassinio di Natalya Estemirova che,
come la Politskovskaya, aveva denunciato i crimini russi compiuti contro i
civili in Cecenia. Solo qualche mese prima, il 19 gennaio, veniva uccisa a colpi
di pistola Anastasiya Baburova, 25 anni, corrispondente freelance della Novaya
Gazeta, mentre camminava per le strade di Mosca con l'avvocato per i diritti
umani Stanislav Markelov, assassinato anch'egli in quel momento. La Baburova è
la quarta giornalista della Novaya Gazeta uccisa dal 2000.
Segnali in controtendenza? Nonostante i recenti omicidi rendano evidente
la condizione della libertà di stampa in Russia, dal mondo politico arrivano
segnali che appaiono in controtendenza. In aprile Dmitry Medvedev è stato il
primo Capo di Stato russo a rilasciare un'intervista alla Novaya Gazeta, ne ha
visitato gli uffici ed ha promesso una riforma del sistema giuridico che tuteli
i giornalisti. All'interno di un più ampio piano legislativo contro la
corruzione, le nuove norme dovrebbero garantire ai giornalisti che indagano su
fatti di corruzione di ottenere la protezione speciale che viene accordata ai
testimoni in pericolo durante i processi.
Interessi politici e libertà. In occasione della morte di Anna
Politkovskaya, Joan Smith, giornalista dell'Independent, scriveva che "l'impegno
di Putin nella cosiddetta guerra al terrorismo e la dipendenza dei paesi
occidentali dalle risorse energetiche russe frenano i governi occidentali da una
netta condanna del governo russo". Erano gli anni dell'amministrazione Bush. Il
mese scorso in un'intervista alla Novaya Gazeta, il nuovo Presidente
statunitense Barack Obama aveva risposto con estrema cautela alla domanda di un
giornalista su quale sarà l'attenzione della nuova amministrazione degli Stati
Uniti sul rispetto dei diritti umani in Russia, sottolineando gli interessi
comuni dei due Paesi nella lotta agli estremisti in Afghanistan e Pakistan e il
comune interesse nel rispetto dello stato di diritto. La linea politica sulla
libertà d'espressione in Russia non pare mutata.
Chiara Avesani
5 agosto
I guerrieri verdi
di Federica Bianchi. Foto di Giulio di Sturco
Passano la vita sul mare. Per cercare di
salvare i pesci dallo sterminio dei cacciatori di frodo. Tra assalti audaci e la
routine della vita a bordo. Arrivano da tutto il mondo. Alla scoperta
dell'equipaggio della Rainbow Warrior, la storica nave di Greepeace
Le senti. Clanc, clanchete, clanc. E pensi a un
fantasma marino. Una specie di Nettuno trasparente che avanza nella volta scura
del cielo senza luna, la barba bianca che sfiora la cresta delle onde, i piedi
intrappolati da lunghe catene arrugginite. Le senti di nuovo. Clan, clanchete,
clanc. E ti svegli nella cuccetta in fondo alla stiva. Sono le tre di mattina.
Le massicce catene nere della gru della Rainbow Warrior, il vascello storico
della flotta di Greenpeace, stanno sollevando il gommone per appoggiarlo in
mare. Clan, clanchete, clan.
Il radar del comandate Peter, barba bianca sì, ma su un fisico scattante, ha
segnalato la presenza di imbarcazioni sospette. Sono a un paio di miglia. Mehdi,
il meccanico di bordo, un tunisino con due occhi scuri illuminati da un sorriso
da pirata buono, si prepara a scendere in acqua. John, il responsabile americano
della campagna oceani per gli Stati Uniti, e François, l'attivista di Marsiglia
che si occupa del Mediterraneo, hanno già indossato i giubbetti di salvataggio
arancioni. I teleobiettivi di Giulio, Claudio e Chris sono pronti all'azione. In
una manciata di minuti illuminati dal faro del ponte di comando, il gruppetto di
attivisti e giornalisti è tra le onde del Mediterraneo, un mare che la pesca
industrializzata rischia di rendere disabitato. Stelle e lumicini punteggiano la
distesa nera. Il gommone, strumento e simbolo di una filosofia di vita, si
avvicina a Ayoub, un peschereccio tunisino che, con manovra lesta, schizza via.
È rincorsa.
Fino a quando Mehdi riesce a spiegare che cercano solamente reti, spadare per la
precisione, quelle responsabili della morte dei pesci spada e anche di delfini,
tartarughe e balene. Messe da anni al bando dall'Unione europea in cambio di
massicci sussidi per la riconversione delle imbarcazioni, sono ancora usate da
pescatori italiani, spagnoli e tunisini alla conquista di una fauna ittica sulla
via del tramonto. Nessun materiale dubbio a bordo. Si passa al peschereccio
vicino, sospetto per qualche luce di troppo, spesso indice della presenza di
reti derivanti. Ma anche Jessica, e poi Mohammed e El Amed sono barche al di
sopra di ogni ragionevole prova. Si torna indietro. Visto da lontano, il profilo
del Guerriero dell'Arcobaleno ricorda i vascelli di secoli passati, condomini
galleggianti di cuori avventurosi e combattivi. Una specie di Robin Hood del
mare dipinto di verde, che incarna la profezia della tribù indiana Hopi: "Quando
la Terra sarà vicina alla fine, a causa della distruzione e della violenza dei
suoi figli, uomini di ogni colore e di ogni razza si uniranno per costruire la
pace".
A differenza degli attivisti degli anni settanta, i guerrieri di oggi sono meno
idealisti e più preparati. A guardare Marta sfregare via la ruggine delle
ringhiere di prua, infilata in una vecchia tuta da lavoro blu, i capelli
protetti dal sole estivo sotto una bandana rossa, si direbbe che le sue mani non
hanno fatto altro per tutta la vita. Ma lei, 37 anni festeggiati in navigazione
con un vestito fru-fru e un gelato alla vaniglia e cioccolato, era un'assistente
universitaria all'Università di Madrid. Specializzazione: lingue. "Poi mi sono
chiesta: una vita davanti al computer o qui sopra, dove quando ti giri sei
avvolta dal mare?". Fernando, 38 anni, spagnolo, una formazione da marinaio fin
da giovane e un passato su navi commerciali e da crociera, è il secondo
ufficiale. Come Marta, anche lui non rinuncerebbe mai al suo lavoro sulla
Rainbow Warrior. "Dicono che la vita sia difficile, ma su una nave è molto più
facile", racconta:"Lavoriamo per tre mesi e siamo in vacanza per tre mesi, così
abbiamo anche il tempo di viaggiare. E non dobbiamo pensare a fare la spesa o a
pagare le bollette". Lui su quel peschereccio riconvertito ha persino trovato
l'anima gemella: l'inglese Liz, 28 anni, occhi da cerbiatta e una laurea in
Scienze ambientali. Per ora è una volontaria (prima di diventare membro pagato
dello staff, ogni marinaio deve servire nove mesi come volontario), ma ha le
idee chiare sul futuro: "Vorrei prendere un master in Scienze marine per
diventare uno degli organizzatori delle campagne di Greenpeace".
Sono in molti coloro che trovano nella lotta per la conservazione del nostro
ecosistema, non soltanto un'occasione per contribuire in prima persona a un
mondo migliore, ma anche una direzione alla propria vita. "Voglio occuparmi
dell'ambiente, ma anche garantirmi un lavoro", riassume il responsabile
logistico, Dave, 58 anni, gallese, con moglie e figli nella campagna francese:
"Le mie capacità sono molto pratiche. E non c'è nessun altro posto dove io possa
utilizzarle. Quello con Greenpeace è un matrimonio di convenienza". Che non
tiene conto di quelle barriere sociali e anagrafiche che condizionano la vita
sulla terraferma. "A una certa età diventi invisibile," spiega Lesley,
australiana, a 62 anni la marinaia più anziana dell'intera flotta di Greenpeace:
"A bordo la differenza di età è meno percepibile". Infermiera per una vita,
madre di una ragazza ormai adulta, a Leslie l'idea di invecchiare sorseggiando
tè e chiacchierando con le ex colleghe proprio non andava giù. Su suggerimento
di un'amica si è imbarcata. In nave la sua presenza è necessaria: "Leslie lavora
ancora di più degli altri", spiega Fernando. È lei l'infermiera di bordo ma è
anche uno dei marinai, e, come tale, molla gli ormeggi, incatrama le sartie,
vernicia i pontili, aiuta con la preparazione del materiale per le campagne,
pulisce i bagni e fa i turni di osservazione notturna sul ponte di comando.
Le azioni tutte motoscafo, risse, insulti e boutade pubblicitarie sono il nucleo
dell'identità di Greenpeace. Ma occupano una parte ridotta della vita di bordo,
che è fatta per lo più di gesti ripetitivi, lunghe attese, e uan buona dose di
disciplina.
Sulla nave la giornata inizia alle sette di mattina, la colazione è alle sette e
mezza, e dalle otto alle nove si lavano le stanze comuni. L'orario di lavoro
vero e proprio (quando i marinai fanno i marinai e gli organizzatori delle
campagne studiano la strategia di azione e di comunicazione) è dalle nove alle
cinque, con il pranzo alle 12:30 e un paio di pause caffè. La cena è alle sei. I
pasti sono per lo più vegetariani, con qualche timida eccezione per alcune fette
di insaccato e un po' di macinato un paio di volte alla settimana. Il pesce è
rigorosamente vietato, così come i superalcolici. Sono consentiti, invece, birra
e vino, ma solo tra le cinque del pomeriggio e mezzanotte. Spopolano le
sigarette, soprattutto quelle che bisogna arrotolare da sé, con il loro
innegabile pregio di aiutare a ingannare il tempo e a imbastire una
conversazione tra persone che da ogni angolo del globo si ritrovano a
condividere i 44 metri di lunghezza dell'ex peschereccio per tre mesi di fila.
Fanno presto a fare amicizia spagnoli, italiani, libanesi e tunisini che in
comune hanno la geografia e una visione godereccia della vita. Nel fine
settimana, quando il lavoro fa una sosta, un'amaca appare sul ponte, e la birra
scorre abbondante (al riparo dagli occhi indiscreti delle telecamere, sia mai
che la stampa capisca male) anche Vlad, a soli 32 anni direttore di macchina, un
passato da militare russo che gli si legge ancora in faccia, emerge dal
sottosuolo e si unisce alla conversazione. "I russi pensano di sapere tutto
loro", dice: "Ma non è così". Un sorso di birra. Un'occhiata alle onde. E poi si
volta: "Adesso sono felice".
Sebastopoli, orgoglio russo
Reportage dalla città ucraina, dove il 70
percento della popolazione è di origine russa
Scritto da Alessio Bini
Sebastopol
è una città in stile occidentale situata in Crimea. Si affaccia sul Mar Nero e
fu edificata nel 1783 per volontà del generale Potemkin. Oggi Sebastopol, come
del resto l'intera Crimea, fa parte dell'Ucraina, a seguito della decisione
delle autorita' sovietiche che nel 1954 decretarono il trasferimento della
Penisola dalla RSS Russa a quella Ucraina.
La Russia nella pancia dell'Ucraina. Così la Crimea (abitata nel 1991 da
una maggioranza russa che sfiorava il 67 percento) cominciò la sua nuova e
travagliata vita all'interno dello Stato ucraino, che fin dal principio tendette
a marcare le differenze tra sé ed il grande fratello russo. Sotto il profilo
identitario, la Crimea rappresenta un luogo molto importante per i russi ed il
primo luogo a cui la loro mente corre quando pensano alla penisola è Sebastopol.
La città è abitata da circa 379.200 persone, il 71 percento delle quali di
etnicamente russe e profondamente fiere di essere tale. Ma l'identità russa non
contraddistingue solo coloro che sono etnicamente russi, essa riguarda anche
molti degli ucraini ampiamente russificati. E' qui che ovviamente sta' il
problema più grande per Sebastopol: essere una città russa all'interno di uno
Stato, l'Ucraina, che tra mille contraddizioni e stop and go, porta avanti un
proprio progetto di National Building.
La città della gloria. Sebastopol è entrata nella carne e nello spirito
del popolo russo attraverso vari modi: miti, canti, leggende, immagini e
soprattutto eventi storici. Tutto questo ha trasformato Sebastopol nella ‘città
della gloria russa'. Sebastopol è un vero e proprio museo a cielo aperto. Tutti
i monumenti, dal più insignificante al più maestoso, trasudano identità russa e
ricordano a tutti la drammaticità e l'eroismo di tutti quei cittadini che
resistettero ai due gradi assedi patiti dalla città: quello del 1854 e quello
del 1941 - '42. Assedi da cui la città usci martoriata ma più orgogliosamente
russa di prima. Qui l'appartenenza russa si esprime in mille modi differenti:
bandiere russe alle finestre, sui bus, grandi magazzini colorati di rosso,
bianco e blu, canali radio e televisivi russi. L'unica ambito in cui, per legge,
a prevalere è l'ucraino sono i manifesti pubblicitari. Per il resto l'Ucraina
appare un'idea lontana e sfocata, limitata a qualche sporadica bandiera che
sventola qui e là. Per toccare con mano quanto il processo di 'national
building' ucraino non abbia ancora attecchito a Sebastopol, è sufficiente
trovarsi in città il giorno in cui si celebra la vittoria sul nazifascismo, il 9
maggio.
Guardare al Cremlino. La città celebra tale evento con parate militari,
concerti e fuochi d'artificio. Le uniche bandiere ucraine erano quelle dei
battaglioni ucraini in parata, per il resto era un tripudio di bandiere russe
(ed anche sovietiche). Quel giorno per le strade le persone inneggiavano alla
Russia e discutevano amabilmente di quanto interessante fosse stato il discorso
tenuto dal Presidente. Ottimo discorso concordavano tutti, tuttavia non era
paragonabile a quello del suo predecessore. Sia chiaro che non parlavano di
Yushenko e Kuchma, bensì di Medvedev e Putin. Genericamente parlando, i
cittadini di Sebastopol non odiano l'Ucraina, semplicemente la ignorano e
preferiscono guardare verso il Cremlino.
La Flotta leva le ancore? Uno dei simboli più importanti per i russi di
Sebastopol è la Flotta russa del Mar Nero. Mito storico e realtà odierna allo
stesso tempo. La Flotta sovietica del Mar Nero fu al centro di un lungo ed
estenuante negoziato che si concluse con un accordo sottoscritto nel maggio
1997. La Russia ottenne la maggior parte dei vascelli e il noleggio di parte
delle infrastrutture portuali cittadine per 20 anni. Se nulla muterà la Flotta
Russa dovrà levare l'ancora nel 2017. Personalmente faccio fatica ad immaginare
il momento in cui la Flotta russa se ne andrà per sempre. I cittadini di
Sebastopol amano la Flotta e ne vanno veramente orgogliosi. La sua partenza sarà
un trauma collettivo e sono sicuro che cercheranno, nei limiti del possibile, di
fare tutto quanto è possibile per evitare tale evento catastrofico anche se
potrebbe non essere sufficiente visto e considerato che il futuro della Flotta
dipenderà solo ed esclusivamente dall'evoluzione dei rapporti di forza tra
Russia ed Ucraina.
4 agosto
Vite in fuga
Migliaia di somali tentano di fuggire in Yemen
mentre il loro Paese è in fiamme
L'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i
Rifugiati (Unhcr) ha lanciato l'allarme: migliaia di civili in fuga dai
combattimenti in Somalia si sono riversati nella città costiera di Bosaso, in
attesa che i trafficanti di esseri umani possano portarli in Yemen.
Somalia
in fiamme. La situazione a Mogadiscio e dintorni è disperata. Le milizie
integraliste degli al-Shabaab e degli Hisb-ul-Islam combattono contro il governo
provvisorio riconosciuto dall'Onu casa per casa. I civili, come sempre, sono al
centro del fuoco incrociato. In passato, con l'intervento dell'esercito etiope,
era stata ristabilita una parvenza di legalità in Somalia, ma le cosiddette
Corti Islamiche si sono riorganizzate e, con l'appoggio dell'Eritrea, hanno
lanciato una pesante controffensiva riuscendo a giungere di nuovo nella capitale
Mogadiscio, dove il 28 luglio scorso i ribelli hanno proclamato
un'amministrazione parallela. L'Unione europea attende, gli Usa si dicono vigili
rispetto alla situazione, l'Unione africana manda truppe di pace ma è divisa al
suo interno. Nel mentre la Somalia è un inferno, dal quale migliaia di civili
tentano la fuga attraverso il golfo di Aden. Le sue acque sono infestati dai
pirati, ma sono questi ultimi che gestiscono il racket dei viaggi dei disperati
verso la penisola arabica e non li fermeranno certo loro.
Un mare di disperati. Secondi le stime dell'Unhcr, sono almeno 12mila i
civili ammassati sulla spiaggia in attesa degli scafisti, ma nella città di
Bosaso potrebbero arrivare più di 200mila persone in fuga da Mogadiscio.
L'agenzia dell'Onu ha diffuso una nota nella quale avverte che la situazione
umanitaria nella cittadina somala sta diventando sempre più difficile, anche
perché la maggior parte degli sfollati potrebbe restare in città fino a
settembre, quando le condizioni del mare potranno essere meno pericolose. Per
capire l'entità del rischio della traversata basta sapere che sono mille le
persone che hanno perso la vita nel 2008 e i dispersi sono stati almeno 225. Nel
2007 i morti ed i dispersi sono stati rispettivamente 267 e 118. Dall'inizio del
2009 sono già 300 le vittime delle correnti e degli scafisti senza scrupoli. Una
strage che rischia, considerando quante persone tenteranno la traversata, di
diventare un eccidio.
Yemen in difficoltà. Se la situazione a Bosaso non precipita prima e se i
migranti riuscissero a raggiungere le coste dello Yemen, il governo di Sa'ana si
troverebbe a gestire una vera e propria emergenza umanitaria. La legge yemenita
riconosce ai cittadini somali lo status di rifugiati politici, che vengono
accolti, curati, rifocillati e condotti nel campo di Kharaz (governatorato di
Lahj), dove ricevono protezione legale, fisica e sanitaria. Solo che a Kharaz ci
sono già 13mila persone, senza contare le migliaia di rifugiati e migranti che
vivono nei sobborghi delle città più grandi in Yemen.
Una situazione difficile da gestire, anche con l'aiuto dell'Onu e delle sue
agenzie. Alcuni dati rendono l'idea dell'enorme pressione migratoria alla quale
è sottoposto un Paese non ricco come lo Yemen: nel 2008 sono giunte sulle coste
yemenite almeno 50mila persone. Un incremento, rispetto all'anno precedente, del
70 percento. Solo nei primi mesi del 2009 sono state 30mila gli sbarchi.
Le autorità dello Yemen, con il supporto dell'Onu, stanno tentando di creare un
database per registrare i somali e per distinguerli dai migranti economici del
resto dell'Africa, ma non è facile.
I problemi di Sa'ana. Oltre ai problemi economici, lo Yemen attraversa
una fase di grave instabilità politica. Nel governatorato di Sa'ada, nello Yemen
settentrionale, è in corso da anni una vera a propria guerra civile tra i
militari yemeniti e i ribelli seguaci di al-Houti, un predicatore sciita da
sempre in conflitto con il potere centrale gestito dai sunniti. Lo Yemen ha
spesso accusato l'Iran di fomentare la rivolta, ma al di là delle responsabilità
politiche internazionali, resta un problema enorme di sfollati interni. Secondo
i dati dell'Internal Displacement Monitoring Centre (Idmc), un'organizzazione
non governativa che si occupa dei sfollati interni, sono almeno 100mila le
persone in fuga dai combattimenti che hanno causato la morte di centinaia di
civili. Ad aprile, inoltre, dopo anni sono riapparse le bandiere e i militanti
del Pdry, la sigla del governo socialista del sud che dichiarò la secessione.
Nel 1994 alcuni ufficiali e politici di ispirazione marxista proclamarono la
secessione della regione meridionale dello Yemen che assunse il nome di
Repubblica Democratica dello Yemen con capitale Aden. Non riconosciuto
internazionalmente, questo tentativo di secessione venne stroncato in due
settimane di combattimenti dalle forze governative. La protesta era guidata
dagli ex militari e funzionari pubblici che, in cambio della resa, avevano
ottenuto la promessa di un reinserimento nella vita del Paese. Scontri, arresti
e disordini.
Strategia della tensione. Il primo ministro yemenita, Ali Mujawir, in
un'intervista concessa al quotidiano al-Sharq al-Awsat il 30 luglio scorso, ha
dichiarato: ''Abbiamo scoperto la presenza di un legame tra i terroristi di
al-Qaeda, i ribelli sciiti del nord e i secessionisti del sud. Quello che sta
accadendo in questi mesi in Yemen ha una regia straniera. Questi tre gruppi
satanici hanno contatti pregressi. Il nostro lavoro è quello di non consentire
che lo Yemen diventi un rifugio sicuro per i terroristi''. Parole pesanti e un
po' forzate. E' difficile immaginare un'alleanza tra ex marxisti golpsti,
integralisti sunniti (al-Qaeda) e sciiti. La sensazione è che il governo dello
Yemen si trovi in gravi difficoltà e che prepari un clima di tensione per
giustificare l'uso massiccio della forza. I somali disperati in fuga dalla
guerra rischiano, una volta passato il Golfo di Aden, di precipitare in un altro
inferno.
Christian Elia
La mappa dei popoli
Intervista al cartografo d'inchiesta Philippe
Rekacewicz, che racconta i problemi del mondo con un schizzo
Scritto da Linda Chiaramonte
Raccontare
i rifugiati, i migranti, i richiedenti asilo attraverso le mappe geografiche, è
quello che fa Philippe Rekacewicz, cartografo d'inchiesta, geografo e
giornalista fra gli ideatori e realizzatori del nuovo Atlante Un mondo capovolto
di Le Monde Diplomatique/Manifesto uscito da poche settimane in Italia. "La
carta trasmette un messaggio politico", dice Rekacewicz, "è un mezzo di
propaganda non un oggetto fedele alla realtà, ma soggettivo, che dipende dalle
scelte del cartografo". Le carte dell'Atlante, oltre trecento, sembrano schizzi
fatti a mano. "Una dimensione umana che semplifica, ma non semplicista, che
cattura l'attenzione per diffondere ad un pubblico più ampio un oggetto
scientifico che fornisce dati e trasmette emozioni, imprecisioni. Non è la
precisione che importa quanto la rappresentazione simbolica per capire meglio il
reale. L'uso dell'immaginazione e dell'arte serve per fare arrivare meglio il
messaggio. La manipolazione dell'uso delle carte serve come propaganda, ad
esempio attraverso la misura, la scala utilizzata. Ingrandire le proiezioni
aumentando le dimensioni mostra quanto un paese sia importante, grande e
minaccioso. Anche la cartografia che appare più neutra nasconde alcuni elementi.
La carta è un affare di stato, non un oggetto neutro". Abbiamo incontrato
Philippe Rekacewicz a Bologna, ospite dei seminari di Le Monde Diplomatique
organizzati nelle scorse settimane dal Dipartimento di discipline storiche
dell'Università e dal mensile francese. Gli abbiamo rivolto alcune domande.
Quali sono limiti e meriti dei confini geografici?
La frontiera è un elemento della geografia molto ambivalente, rappresenta un
ostacolo, un oggetto per respingere e al tempo stesso raggruppa e protegge la
gente. Per rifugiati, migranti, viaggiatori, è un ostacolo, a volte facile da
superare, a volte meno, che provoca morti e feriti. È una frammentazione
tangibile artificiale del pianeta, strettamente legata a decisioni politiche di
regolazione del territorio. Sul pianeta ci sono già paesi ricchi dominanti dove
tutto è più facile, e poveri dominati, in cui la popolazione ha difficoltà a
vivere, curarsi, istruirsi, accedere ai diritti fondamentali e alla democrazia.
Nelle democrazie, dove questi diritti sono assicurati e nei cui spazi ci si può
muovere facilmente, le frontiere esistono, sono barriere doganali, segnano il
limite di sovranità di uno stato, ma gli uomini le possono attraversare quasi
senza vederle. Come nell'area Schengen. Elementi tangibili che diventano
virtuali, esistono, ma di cui quasi non ci si accorge. Quando si proviene da un
paese ricco è tutto più facile, ma la frontiera è un elemento discriminante e
pericoloso per i quattro quinti del pianeta. Gente che ha bisogno del visto per
attraversarla, che non si può muovere liberamente, a cui è vietato l'accesso a
intere regioni e continenti. È un diritto fondamentale negato per una grande
fetta del pianeta che spesso lascia paesi autoritari dove i diritti sono
violati. È una discriminazione scandalosa perchè lascia vivere nella povertà
estrema e impedisce alle persone di muoversi per accedere ai diritti
fondamentali. È un oggetto paradossale e molto perverso che permette al tempo
stesso di definire i limiti di una sovranità, di raggruppare i popoli in seno
alla loro nazione sulla base di un senso di appartenenza legata ad un territorio
definito da una frontiera che fa sentire protetti come in un guscio, ma
pericolosa per tutti quelli che sono all'esterno che avrebbero legittimamente il
diritto di entrare nel guscio e a cui è impedito farlo. Un elemento che
respinge, rigetta, discrimina, e impedisce di circolare liberamente nel pianeta.
Talvolta divide, separa, popoli uguali o che si assomigliano, popoli amici. È
stato straziante nella guerra nell'ex Jugoslavia federale, fatta da una
mescolanza di serbi, croati e bosniaci. Dove far passare la frontiera nel caso
di famiglie con padre croato e madre serba, al centro del letto? La frontiera
che separa è inconcepibile, anche se serve per dividere popoli differenti, ma su
quale criterio si decide che un popolo è diverso dall'altro e che bisogna
separarli? Dove tracciarla? Su quale criterio si ammette la rivendicazione
territoriale di un popolo su un determinato territorio? Storico, archeologico,
sociale, nazionale? La maggior parte di questi criteri sono inammissibili,
illegittimi. Sono per un mondo aperto con unità territoriali gestibili a misura
d'uomo. Non so quale sia l'unità più adatta, la regione, il dipartimento, la
città. La frontiera è strumento di pace formidabile per definire i limiti in cui
vivere, ma mi ha molto emozionato il giorno in cui con Schengen sono state
abbattute le frontiere e cancellati i controlli.
Quali sono gli elementi positivi delle frontiere?
La regolamentazione delle tariffe doganali, utile per proteggere da
speculazioni, conquiste territoriali e commerciali. Alla fine degli anni '80,
quando l'URSS e il comunismo si sciolsero, sarebbe stato necessario proteggere
questi paesi proiettati verso un capitalismo selvaggio, quello della Russia di
Eltsin, che oggi pagano un prezzo molto elevato per la crisi finanziaria e per
essere stati precipitati in un sistema di mercato brutale che ha provocato
povertà e discriminazione. Rinforzare la frontiera, regolare i flussi finanziari
ed economici, li avrebbe senza dubbio preservati dal ciclone economico, dalla
bolla speculativa enorme e dannosa che li ha investiti. La frontiera è positiva
quando serve a regolare e proteggere un'economia. È necessario avere territori,
frontiere, stati di diritto, che legiferino per ristabilire una forma di
uguaglianza fra le persone. Purtroppo accade raramente, inoltre oggi c'è la
grande frontiera di Schengen, la più mortale e pericolosa al mondo, che uccide
migliaia di persone, molto più di altre frontiere di paesi in conflitto definite
pericolose. Una delle più sanguinanti di questa Europa che si sente a rischio e
si protegge contro la terribile minaccia degli stranieri. Il ruolo della
frontiera, aperta verso l'esterno e in cui c'è libera circolazione di persone e
beni, da dentro sembra positivo, ma siamo ciechi davanti alla macelleria che
provoca fuori per tutte le popolazioni che cercano disperatamente di entrare in
Europa.
C'è una grande contraddizione: un mondo sempre più globalizzato, ma che
costruisce sempre nuovi muri e barriere. Come si spiega?
È vero, c'è una grande contraddizione. È difficile cartografare un mondo che si
globalizza, in cui i flussi finanziari sono sempre più rapidi, miliardi di
dollari fanno il giro del pianeta in meno di un minuto, le frontiere non
esistono. Un mondo virtuale, in cui si ha accesso a quasi tutti i media in tempo
reale, l'accesso all'informazione è talmente enorme da produrre l'effetto
contrario, come se non ci fosse. Avere milioni d'informazioni equivale a non
averne, cosa che i sovietici avevano capito benissimo nel disegnare le carte,
producendole talmente grandi e ricche di dati da non vedere più nulla e
risultare inutili. C'è un paradosso, le merci circolano quasi in maniera libera
intorno al globo, passano dalle dogane, i prodotti coltivati in Senegal arrivano
tutte le mattine sui banchi dei mercati di Parigi, il commercio internazionale è
ben organizzato, ma alcuni accordi che servirebbero a proteggere i paesi più
vulnerabili restano fermi. La finanza funziona, ma le frontiere sono chiuse per
poveri e malati fatto che crea spesso rigurgiti di nazionalismo, sentimenti di
appartenenza, come dalla caduta dell'URSS, la frammentazione di territori e
l'insorgere di velleità di indipendenza. La divisione della Jugoslavia in molte
unità territoriali sempre più piccole ha sviluppato sentimenti ultranazionalisti
di difficile gestione. La costruzione di nuove frontiere provoca separazioni di
famiglie e popolazioni, è fonte potenziale di conflitti fra i paesi per l'acqua
o l'approvvigionamento del gas, gli esempi sono numerosi. Dietro l'idea che la
frontiera protegga esiste la minaccia di una migrazione che vuole invadere il
territorio, come accade in Italia. Un'impressione virtuale che non corrisponde
assolutamente alla realtà delle cifre sulla quantità delle persone che arrivano.
Ci sarebbe una reale capacità dell'Europa di assorbire questa popolazione,
basterebbe smettere di piegare i paesi poveri e organizzare un vero aiuto per
sviluppare attività nei loro paesi. La gente parte perché le condizioni di vita
sono impossibili. Oggi ovunque si costruiscono muri che separano le frontiere e
le rendono ancora più pericolose. Prima dei muri si poteva passare in modo più o
meno sicuro, ora dove c'è un muro ci sono pattuglie armate, morti. Le frontiere
nazionali sono intese come qualcosa che protegge, ma c'è un'altra frontiera del
tutto eccezionale: il muro palestinese, una frattura odiosa e orribile che
dilania il paesaggio, con la particolarità di seguire la linea verde che non è
veramente una frontiera, ma un limite internazionale, il solo riconosciuto. La
linea del '49, fa da ufficio di frontiera, è una linea invisibile che si può
attraversare senza rendersene conto come a Gerusalemme, al punto che, poiché gli
israeliani occupano la Cisgiordania e i territori palestinesi, hanno giudaizzato,
israelizzato gli edifici pubblici, l'arredo urbano, creando una tale confusione
da non capire che si è passati altrove e questa frontiera, legalmente
riconosciuta da un'istituzione internazionale, l'ONU, sparisce, non esiste nel
paesaggio. È pura virtualità. Al contrario il muro strazia il paesaggio si
allontana di parecchi chilometri dalla linea verde e solca il territorio
palestinese, è il caso in cui non esiste una frontiera, ma un muro di sicurezza
per proteggersi dai barbari, i selvaggi. Il muro ha di fatto la funzione di
ufficio di frontiera ed è totalmente illegale, riconosciuto come tale dalla
corte internazionale di giustizia, dalle Nazioni Unite, dalla comunità
internazionale, ma è tangibile. C'è una frontiera legalmente riconosciuta,
invisibile, che si può attraversare in ogni direzione e un'altra rappresentata
da un muro orrendo che separa la popolazione palestinese che frammenta e sta
uccidendo la società. Il muro è totalmente illegale, non ha alcuno status, è
unilaterale. Ci sono altri muri interiori costruiti per proteggersi dall'altro.
In molte città in Messico, Brasile, Argentina, il muro serve per non vedere le
bidonville che stanno dietro, per negare e nascondere ciò che crea problemi. Lo
stesso nell'Irlanda del nord per separare cattolici e protestanti. Da una parte
c'è una moltiplicazione di scambi che permette di andare dappertutto velocemente
circolando intorno al pianeta in aereo, dall'altra popoli che si irrigidiscono
sulle loro identità nazionali, costruendo muri che dividono ulteriormente i
territori. È la logica delle gated communities in cui si rinchiude una
popolazione in uno spazio perché c'è una grave minaccia esterna. Il muro, il
limite, impedisce alla gente di andare in alcuni luoghi, è la strategia adottata
anche nei supermercati o nei negozi degli aeroporti dove ci sono barriere
artificiali a guidare il flusso della gente e invogliarla a spendere, il
percorso non è libero, ma guidato. È una scienza.
Ci sono molti clichè sulle rotte percorse dai migranti, sono credibili?
È difficile dire da dove passano i flussi migratori. Niente di meno conosciuto,
molti movimenti ci sfuggono. Forse si sanno le direzioni, ma non le rotte. Ci
sono flussi che dall'Africa vanno in Europa con direzioni molto generali. Questo
vale solo per una piccola parte di migranti, su un centinaio di migliaia di
persone solo qualche decina utilizza le frontiere terrestri, molti prendono
l'aereo. Molta migrazione "clandestina" è entrata in modo legale attraverso gli
aeroporti. Non tutti sono sorvegliati come quelli americani, si può eludere la
vigilanza uscendo senza troppi problemi. Alcuni aeroporti sono molto grandi e
sono luoghi di passaggio per chi ha un passaporto falso. La polizia non ha la
capacità di verificare i documenti di ogni viaggiatore, diverse migliaia al
giorno. Oggi ci sono quantificazioni molto approssimative, non si conosce nel
dettaglio la portata dei flussi, si lavora con dati anacronistici, dello scorso
anno o più vecchi, non si fa monitoraggio sulla sorveglianza delle frontiere, le
conoscenze sulle migrazioni sono frammentate. Non solo i flussi non sono
conosciuti, ma data la tendenza dei governi a chiudere i centri di accoglienza,
c'è molto meno controllo. Esistono milioni di senza patria, gente senza
identità, una popolazione sconosciuta, non identificata. Il Nepal ha capito che
era meglio regolarizzarla dando a milioni di senza patria un'identità e una
nazionalità, un certificato di nascita, cosa mai successa nella storia. È
rimarchevole che il governo di un paese povero si sia lanciato in un'operazione
simile, anche Thailandia e Cambogia stanno seguendo questa linea. I governi
capiscono che per la sicurezza nazionale è più importante dare referenze alle
persone, potendo esercitare più controllo su di esse. Non lo fanno per
filantropia, ma per averne un'idea più precisa, quantificarli, dar loro uno
stato civile, cosa che ne rende più facile la gestione.
Cosa pensa dei recenti casi di navi di migranti mandate indietro dall'Italia?
È scandaloso, ma è una pratica diffusa. Quando le guardie costiere recuperano
barche di migranti nel mediterraneo, se possono li riaccompagnano indietro.
Sanno che se li portano sulla terra ferma per curarli, per legge sarebbero
obbligati ad accettare le richieste di asilo dei più vulnerabili e in pericolo.
È più pratico mandarli indietro grazie agli accordi fra paesi, la cosiddetta
esternalizzazione, delegando la gestione dei flussi alla polizia e allo stato
libico, che lo fanno secondo le proprie leggi e i propri sistemi. Uno
scivolamento a sud delle frontiere dell'Europa. C'è l'Europa con le frontiere di
Schengen, ma quelle vere vanno più lontano. I migranti che provengono dai paesi
poveri rappresentano reddito, c'è bisogno di loro per sopravvivere. È una
situazione di legalità immorale, un comportamento avallato dalla legge, visti
gli accordi bilaterali, ma immorale. Si specula sulla pelle dei poveri, si è
nella legalità della UE, ma anche nell'immoralità di valori umani calpestati
come il diritto alla libera circolazione dei popoli che vivono in situazioni di
conflitto, spesso provocate dalla nostra eredità coloniale. Oggi invece di
affrontare queste responsabilità si spendono miliardi per mettere in sicurezza
le frontiere, trascurando i più elementari diritti umani. L'Australia, ad
esempio, ha deterritorializzato un'isola per evitare che i richiedenti asilo
esercitassero questo diritto nel paese. Li sistema fuori dal territorio
nazionale per impedire loro di rivendicare lo status di rifugiato.
Lei ha sottolineato come ormai un uomo sia considerato tale solo in virtù di
un passaporto. È davvero così?
Un essere umano è tale con o senza passaporto. Chi proviene dal cosiddetto mondo
referenziato, con passaporto UE, è avvantaggiato, ma quanto vale un passaporto
nord coreano, turkmeno o senegalese? Il valore umano si attribuisce in rapporto
all'identità e alla nazionalità scritte sul passaporto. Dietro a queste
statistiche ci sono esseri umani che portano drammi terribili, ma anche una
ricchezza per la comunità. Chi non ha passaporto né identità non è protetto da
nessuno stato e ha legittimamente il diritto di ritrovarne una per diventare
qualcuno. È necessario guardare ai migranti con occhi nuovi, non come una
minaccia. Oltre al concetto di frontiera in senso occidentale, come
frammentazione dello spazio lineare, esiste un'accezione più orientale di spazio
di transizione, territorio di passaggio come per i nomadi delle steppe dell'Asia
centrale, dove la frontiera è il territorio stesso. C'è una totale fusione e
confusione fra la frontiera e il territorio, in questo spazio transitorio c'è
vita, come attorno al lago di Tiberiade dove non ci sono frontiere, ma accordi
per l'uso dell'acqua e della terra. Lì drusi, ebrei, arabi, utilizzavano le
sorgenti d'acqua sullo stesso territorio e s'incrociavano. Esistono molti
territori interstiziali dove ci sono integrazioni, incroci di genti, senza
conflitti per rivendicare un territorio. Oltre alle frontiere intese come limiti
geografici, che separano la gente, la raggruppano attorno ad un'idea nazionale,
la frontiera corrisponde anche alla speranza di spazi comunitari che
appartengano e siano gestiti da tutti, e non per questo siano il caos.