I rapporti con il figlio di Ciancimino, le accuse per i disegni che
ostacolano la lotta alla mafia, la sua rete siciliana. Ecco chi è il ministro
Alfano, fedelissimo di Berlusconi, che deve sistemare la questione giustizia
Quando il Cavaliere sentì pronunciare per la prima volta il nome di Angelino
Alfano disse: "E chi è?". Era il 1999. Silvio Berlusconi all'epoca non conosceva
ancora le doti dell'enfant prodige della politica siciliana. E nove anni fa,
presentandosi a Villa San Martino, insieme al suo "padrino" Gianfranco Miccichè
per spiegare che in Regione volevano fare il ribaltone, portando Totò Cuffaro
nel centrodestra, Berlusconi incontrò i due siciliani tra la sala da pranzo e il
giardino. L'anno dopo, però, la scrivania di Alfano era nell'ufficio accanto a
quello del leader a Palazzo Grazioli. La stessa stanza in cui aveva lavorato a
lungo Gianni Letta. Angelino era diventato deputato, ma anche il capo della
segreteria politica di Berlusconi. Un fedelissimo. E per questo è un uomo di
governo che non può riservare sorprese al suo premier. L'uomo giusto - per
Berlusconi - alla guida del ministero della Giustizia. Il Cavaliere sembra aver
un debole per i siciliani. In uno degli incontri ad Arcore gli chiese, sorpreso:
"Ma davvero lei è siciliano? La sento parlare in italiano...".
Di Angelino dicono tante cose. Ma la democristianissima abilità nel tessere e
tranciare alleanze negli ultimi due anni ha spezzato il cuore a Miccichè e a
Stefania Prestigiacomo, per via del fatto che ormai il Guardasigilli è il vero
padrone del Pdl in Sicilia.
Strettissimo è invece il legame con Schifani, tanto che in via del Plebiscito li
chiamano "Angelino e Renatino". Alla vigilia dell'ultima campagna elettorale per
la presidenza della Regione, Raffaele Lombardo viene preferito ad Alfano. Lui
storce il naso e commissiona un sondaggio nel quale il 70 per cento dei
siciliani ha un sogno solo, andare a cena con Angelino Alfano. E di pranzi e
cene il futuro ministro ne ha fatte diversi con Massimo Ciancimino, il figlio
dell'ex sindaco mafioso di Palermo. I contatti tra l'enfant prodige e il
"dichiarante" chiave nelle indagini sulle trattative tra Stato e mafia sono agli
atti delle inchieste in cui Ciancimino è imputato. Contatti mediati dal
palermitano Vincenzo Lo Curto, ex amministratore delegato di Biosphera spa - uno
dei carrozzoni che gravano sui bilanci della Regione Sicilia - amico del
parlamentare Dore Misuraca (Pdl). E attraverso Lo Curto e Misuraca, Alfano ha
viaggiato pure sull'elicottero dell'Air Panarea, riconducibile per i pm sempre a
Ciancimino. Secondo il figlio dell'ex sindaco, Alfano si sarebbe imbarcato
sull'elicottero in due occasioni con la moglie, l'avvocato Tiziana Miceli, per
raggiungere Panarea fra giugno e luglio 2004, insieme a Dore Misuraca e alla
moglie. Viaggi che sarebbero stati pagati, secondo gli atti acquisiti dalla
procura, da una società del figlio dell'ex sindaco mafioso. Dettaglio di cui
però Alfano potrebbe non essere stato a conoscenza.
Ma Angelino, 39 anni, avrebbe cominciato a prendere il volo molto prima,
decollando dall'agrigentino. Brucia le tappe in politica: eletto a 25 anni
all'Assemblea regionale, poi parlamentare a Roma, nel 2005 diventa coordinatore
di Forza Italia in Sicilia. Nell'estate di quell'anno, davanti al Consiglio
nazionale del partito, Berlusconi presenta il suo trapianto di capelli come una
nuova manifestazione della sua energia indomabile, la prova regina delle sue
capacità quasi soprannaturali: "Ho vinto il cancro, ho vinto la calvizie. Questo
vuol dire che chi crede ci riesce ". Alfano lo ascolta strabuzzando gli occhi.
Sempre con ammirazione. Pensa alla sua pelata. Ai capelli folti che aveva al
liceo. Pensa a quanto il premier tenga all'immagine dei suoi uomini. Così arriva
l'idea di far anche lui un trapianto. E il consiglio su uno specialista al quale
rivolgersi lo chiede direttamente a Massimo Ciancimino. Lui aveva sperimentato
il trapianto qualche anno prima, e lo aveva confessato al deputato azzurro
durante uno dei loro incontri. Così tre anni fa il futuro ministro della
Giustizia viene indirizzato nello studio medico di un professore sulla Salaria a
Roma. E il trapianto, senza bandana, viene eseguito.
Il 2005 è l'anno dell'exploit. La prima uscita tv da coordinatore regionale di
Forza Italia la fa su Raidue. È una puntata su Cosa nostra che va in onda dal
quartiere Brancaccio di Palermo. Alfano scandisce con nitidezza: "La mafia mi fa
schifo". E aggiunge: "Io appartengo a una generazione di ragazzi che andava alle
elementari quando hanno ucciso Mattarella, alle medie quando hanno ammazzato
Dalla Chiesa, all'Università quando sono saltati in aria Falcone e Borsellino.
Noi abbiamo il marchio a fuoco dell'antimafia". La trasmissione viene seguita in
carcere anche da alcuni boss agrigentini. Lo racconta il "pentito" Ignazio
Gagliardo: "Abbiamo visto Angelino Alfano parlare in televisione e dire che la
mafia fa schifo". Poi aggiunge che il padre del ministro - un insegnante
conosciuto ad Agrigento come notabile della locale corrente fanfaniana - "aveva
chiesto ai boss voti per Angelino".
Di giustizia in senso stretto si è occupato ben poco Alfano prima di arrivare in
via Arenula. Laureatosi in legge alla Cattolica a Milano, non ha mai preso
l'abilitazione per fare l'avvocato, e dunque non ha mai affrontato la trincea
forense. La politica ha preso subito il sopravvento. Seppure abbia alle spalle
un dottorato in diritto dell'impresa e abbia collaborato con la cattedra
palermitana di Istituzioni di Diritto Privato, non ha mai indossato la toga. Sua
moglie, Tiziana Miceli, 37 anni, è invece un avvocato molto richiesto nel
civile. Ed è anche una professionista che riceve consulenze esterne da parte di
pubbliche amministrazioni gestite prima da Forza Italia, ora dal Pdl. Le nomine
sembrano coincidere con l'ascesa politica di suo marito. Stessa cosa vale per il
collega con il quale l'avvocato Miceli divide lo studio a Palermo. È Cirino
Gallo, 42 anni, sindaco nel messinese. Ha ricevuto consulenze dal Comune di
Agrigento nel settembre 2004, nello stesso periodo in cui Alfano era assessore.
Una vicenda per cui il legale è stato indagato e poi prosciolto dal gip.
Coincidenza vuole che nel 2004 il suocero dell'onorevole Misuraca - il suo
compagno di vacanze alle Eolie - il professore Ettore Cittadini allora assessore
regionale alla Sanità, avesse nominato Tiziana Miceli fra i tre componenti del
Consiglio di amministrazione della Fondazione Michele Gerbasi. Doveva gestire il
centro di eccellenza materno-infantile previsto a Palermo, per un costo di circa
58 milioni di euro. Quando entra a far parte del governo, però, Alfano non si
spende per il suo amico Misuraca, che punta a diventare coordinatore regionale.
E qui si spezza una lunga conoscenza: Misuraca, con la sua grande dote di voti
lo molla, e sceglie il braccio di Miccichè, che adesso è un nemico del ministro.
Lontano da Palermo, gli avversari diminuiscono. E ci sono altre questioni da
tenere a bada. Il primo giorno nel palazzone di via Arenula Alfano sostiene che
gli sono venuti i brividi quando è passato accanto alla targa che ricorda
Giovanni Falcone. Ad ogni buon siciliano viene la pelle d'oca quando pensa alle
vittime delle stragi del 1992. Ma la sua linea antimafia, professata in ogni
occasione pubblica, fin da quando era al liceo, sembra in rotta di collisione
con alcuni provvedimenti o disegni di legge.
Lo dicono gli stessi magistrati che conducono inchieste sulla criminalità
organizzata e i politici collusi. Lo sostiene il procuratore aggiunto di
Palermo, Antonio Ingroia: "La legge sulle intercettazioni (il ddl Alfano, ndr)
che si sta tentando di far approvare al Parlamento è frutto della ricerca di
impunità a tutti i costi di una classe politica incline a delinquere. E che ha
paura della condanna morale dei cittadini. Per questo si vuole imbavagliare la
stampa".
Alfano ha dedicato la sua nomina a Guardasigilli al giudice agrigentino Rosario
Livatino, ucciso dalla mafia all'età in cui Angelino è diventato ministro. È
biasimato dai magistrati non per i suoi discorsi, ma per i fatti. Nei suoi
interventi ricorda spesso che la sua generazione "ha una sorta di vaccino
culturale antimafia". I pubblici ministeri invece lo criticano. E il suo disegno
di legge è stato attaccato nelle sedi istituzionali: lo ha fatto Piero Grasso
davanti alla Commissione parlamentare antimafia. Il procuratore nazionale a
febbraio ha dichiarato: "Lo avremmo preso Provenzano, lo storico capo latitante
di Cosa nostra, se avessimo avuto in vigore norme come quelle previste
dall'attuale ddl sulle intercettazioni che appesantiscono moltissimo il ricorso
alle riprese video, a quei filmati che ci hanno consentito, con telecamere
piazzate in tutta Corleone, di arrivare al rifugio del boss?".
È una delle contestazioni più decise al disegno di legge: la volontà di
rivoluzionare le regole sulle intercettazioni ambientali e sulle telecamere
nascoste, strumenti fondamentali contro Cosa nostra. Il ministro replica e
sostiene che occorre "evitare alcuni abusi soprattutto in materia di privacy che
è un diritto costituzionale". Ma più che alla privacy dei comuni cittadini, sono
molti tra gli operatori della giustizia a ritenere che la nuova raffica di
riforme nate nel dicastero di Alfano possa servire a tutelarne solo alcuni.
Negli anni caldi dello scontro politicamagistratura, non sono mancate sue
dichiarazioni di solidarietà a Marcello Dell'Utri, dopo la condanna in primo
grado a nove anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. Il
futuro Guardasigilli sosteneva allora che "si sono costruiti teoremi per
condannare Dell'Utri, ma il risultato è che oggi abbiamo un'altra prova che la
giustizia è malata". Nel Transatlantico in tanti sostengono però che il vero
ministro è l'avvocato-deputato Niccolò Ghedini, il difensore del premier. Mentre
negli uffici del dicastero di via Arenula la persona che temono di più è Augusta
Iannini, il capo dell'ufficio legislativo, moglie di Bruno Vespa. Ghedini e
Iannini è la coppia da cui passano i provvedimenti più importanti che devono
essere varati dal ministero. Martedì scorso poi anche il suo amico Schifani si è
rimesso a dettare l'agenda per il Guardasigilli: "La nuova legge sulle
intercettazioni, il nuovo codice penale, le nuove regole di speditezza nella
celebrazione dei processi civili, la riforma dell'ordine forense per creare
avvocati che possano contribuire al funzionamento della giustizia sono le vere
priorità". E Alfano? Berlusconi dieci anni fa avrebbe detto: "E chi è?".
Kabul val bene un massacro
Tolto l'embargo allUzbekistan, diventato vitale per a prosecuzione della
guerra in Afghanistan, dove le truppe alleate continuano a perdere terreno
L'Unione
europea ha deciso di togliere l'embargo contro l'Uzbekistan, imposto quattro
anni fa dopo la strage di Andijan del 13 maggio 2005, quando centinaia, forse
migliaia di persone vennero trucidate dall'esercito del dittatore uzbeco, Islam
Karimov, che poi perseguitò, imprigionò e torturò tutti coloro che osarono
denunciare questo eccidio.
Perché questo perdono? Per i "passi avanti" compiti in questi anni dall'Uzbekistan
nel rispetto dei diritti umani, ha dichiarato l'Ue. "Balle!", ha ribattutoHumand
Rights Watch, spiegando che la situazione nel paese centrasiatico non è
migliorata di un millimetro.
Ma allora, perché?
Usa e Nato hanno bisogno dell'aiuto di Karimov. La vera ragione per cui
l'Europa ha deciso di riappacificarsi con il sanguinario regime di Karimov è che
l'Occidente si trova ad avere disperatamente bisogno dell'Uzbekistan per
proseguire la sua guerra d'occupazione in Afghanistan.
Dopo la chiusura delle linee di rifornimento pachistane, a causa dei continui
attacchi talebani ai convogli, le truppe alleate sono state costrette ad aprire
un canale alternativo a nord, attraverso il Tagikistan. Ma i talebani hanno
iniziato ad attaccare regolarmente anche questa nuova via, in particolare nella
provincia frontaliera di Kunduz.
Da qui la necessità, per Stati Uniti e Nato, di trovare una soluzione sicura e
definitiva. L'unica è la strada che entra dall'Uzbekistan e poi scende a sud
attraverso la tranquilla regione di Mazar-i-Sharif, regno del famigerato
criminale di guerra uzbeco Abdul Rashid Dostum, al momento alleato di Karzai e
degli Stati Uniti.
La rimozione dell'embargo da parte dell'Unione europea è quindi il primo
necessario passo per intavolare con Karimov una trattativa sul transito dei
convogli alleati in territorio uzbeco.
I talebani conquistano il Nuristan e minacciano Kabul. La rotta uzbeca
consentirà ai rifornimenti Usa e Nato di aggirare la zona talebana di Kunduz e
di raggiungere il valico di Salang sull'Hindu Kush, da dove poi la strada scende
verso l'altipiano di Shomali fino Kabul. Questa, oggi, è rimasta l'unica via
d'accesso alla capitale non controllata dai talebani.
Ma presto le cose potrebbero cambiare perché la guerriglia si sta notevolmente
rafforzando anche nelle regioni a nord-est di Kabul. Soprattutto ora che le
truppe statunitensi si sono completamente ritirate dalla provincia del Nuristan.
Dopo anni di dure battaglie combattute tra le montagne di questa impervia
regione, il comandante Stanley McChrystal ha ordinato la chiusura e l'abbandono
di tutte le basi avanzate nella regione per tutto il periodo invernale a causa
delle difficoltà di rifornirle: via terra non è possibile perché ci sono i
talebani, via elicottero nemmeno perché i talebani hanno imparato ad abbatterli
- come hanno ripetutamente dimostrato negli ultimi giorni.
Così il Nuristan è stato lasciato in mano alle milizie talebane di Qari Ziaur
Rahman. Qualche centinaio di marines è stato lasciato solo nel capoluogo
provinciale, Parun, a protezione del governatorato. Un obiettivo, questo, che ai
talebani non interessa: per loro il Nuristan - le sue vette, le sue foreste, le
sue gole - rappresenta una roccaforte ideale da dove lanciare operazioni in
direzione ovest, verso Laghman e Kapisa - già infiltrate dai talebani - e da lì
verso la strada che dal valico di Salang scende a Kabul.
Enrico Piovesana
Cinzia Gubbini
Tutti i dubbi sulla
morte di Stefano Cucchi
I medici non avrebbero mai saputo che i genitori di Stefano Cucchi erano fuori
dai cancelli del reparto carcerario per avere informazioni sul figlio. Che è
morto
dopo cinque giorni passati lì dentro, senza mai poter vedere un famigliare.
Questo è quanto filtra dallinterno dellospedale Sandro Pertini. Stefano era
stato fermato dai carabinieri la notte tra il 15 e il 16 ottobre. Lo denunciano
per
possesso e spaccio di sostanze stupefacenti. Dopo l'arresto viene trasferito
nel reparto carcerario del Sandro Pertini. I genitori si sono recati per tre
giorni davanti al reparto. Parlavano con la polizia penitenziaria: chiedevano di
entrare. O almeno di poter parlare con un dottore. Veniva risposto loro che
serviva un'autorizzazione del pm, che sarebbe arrivata presto. Nessuno ha mai
spiegato ai parenti che erano loro a doverla chiedere. Lo capiscono il martedì,
il giorno dopo vanno in Procura e ottengono il benedetto permesso. Ma ormai è
tardi: giovedì Stefano muore. Fanno in tempo solo a vedere il suo corpo e a
rendersi conto che è successo qualcosa: il viso tumefatto, un occhio rientrato
nell'orbita e dimagrito di cinque chili in pochi giorni. E vero che i medici non
sono mai stati informati della richiesta di colloqui? E una posizione della
direzione sanitaria per giustificare un comportamento irresponsabile e quanto
meno poco umano da parte dei sanitari, oppure dimostra che la polizia
penitenziaria ha fatto «muro», cercando di allontanare il momento in cui i
genitori si sarebbero trovati di fronte al volto del figlio pieno di ecchimosi?
E sulle cause delle tumefazioni e delle fratture ora spunta anche la versione
della caduta. La voce era già girata nei primi giorni. Da ieri è «ufficiale». Lo
ha riferito in parlamento il ministro della giustizia Angiolino Alfano
rispondendo
a un'interrogazione del deputato del Pd Roberto Giachetti. Alfano ha assicurato
approfondimenti immediati: «Seguirò con estrema attenzione gli sviluppi della
vicenda», ha detto, riportando in aula quanto fornito dal carcere di Regina
Coeli, dove Stefano è stato portato il venerdì. Era già malconcio. Tanto che
dopo un'ora nella sala matricole viene trasferito una prima volta al pronto
soccorso dell'Isola Tiberina. Ma il ragazzo era arrivato in carcere già con un
certificato medico: era stato visitato infatti anche in tribunale, su
disposizione
del giudice che si era accorto di qualcosa di strano. «Il medico
dell'ambulatorio della città giudiziaria - ha riferito Alfano - ha riscontrato
'lesioni ecchimotiche in
regione palpebrale inferiore bilateralmente ed ha avuto riferite dal Cucchi
medesimo lesioni alla regione sacrale ed agli arti inferiori, queste ultime non
verificate dal sanitario a causa del rifiuto di ispezione espresso dal
detenuto». Passa quindi nelle mani del medico di Regina Coeli: «il referto
redatto in istituto - continua Alfano - ha evidenziato la presenza di ecchimosi
sacrale coccigea, tumefazione del volto bilaterale orbitaria, algia della
deambulazione e arti inferiori».
Perché era ridotto così? Secondo quanto riferito dal medico del carcere Stefano
avrebbe detto di essere caduto dalle scale il giorno precedente. Cioè il
giovedì, quando è stato fermato dai carabinieri. Ma dove? Nella stazione di
polizia
di Capannelle dove è stato interrogato? Nella cella di sicurezza di Tor Sapienza
dove ha passato la notte? Ammesso che la caduta sia vera queste sono le uniche
due ipotesi plausibili, visto che dopo il fermo i genitori lo hanno visto a
casa, dove il ragazzo era stato portato dai carabinieri per la perquisizione
della sua camera. E stava bene. Il giorno dopo, in tribunale, invece il padre si
accorge subito del suo viso gonfio. Ma le fonti dell'Arma finora non hanno
parlato di alcuna caduta. Dicono che la notte in cella di sicurezza fu chiamata
un'ambulanza, ma perché lui stava male e diceva di soffrire di epilessia.
Epilessia, una caduta, oppure le botte, come sospettano i famigliari? Dove sta
la verità?
La relazione di Alfano prosegue puntualizzando quanto già si sa: al pronto
soccorso vengono fatte delle lastre ed emerge «frattura vertebrale L3 dell'emisoma
sinistra e la frattura della vertebra coccigea». Stefano rifiuta il ricovero
(eppure in tribunale aveva tentato in tutti i modi di evitare il carcere e di
essere destinato a una comunità) e torna in cella. Il giorno dopo, però, i
dolori sono talmente forti che viene di nuovo portato al pronto soccorso
e quindi ricoverato in ospedale. Dove muore il 22 per «morte naturale». I
risultati dell'autopsia parlano però di molto di più: sangue nella vescica,
nello stomaco e un polmone compresso. Chi lo ha visto nel reparto carcerario
racconta inoltre di un paziente cataterizzato, che non poteva neanche alzarsi
dal letto. Con che codice è entrato Stefano in quella palazzina? Quel reparto
non è pensato per le emergenze, non c'è la rianimazione, non c'è la Tac. I
detenuti in condizioni gravi vengono normalmente trasferiti nei reparti «civili»
delle palazzine A e B. Stefano non si è mai mosso dal reparto carcerario. Ieri
il pm titolare dell'indagine, Vincenzo Barba, ha acquisito la cartella clinica,
la trascrizione verbale dell'udienza e la sua registrazione. Ma soprattutto ha
disposto una consulenza medico legale per fare luce sulle cause della morte.
28 ottobre
I numeri dell'Istat dimostrano che la recessione
colpisce più i figli dei genitori
Ritratto di una 'generazione perduta' tra licenziamenti e prospettive negate
Crisi, pagano i più
giovani
uno su 4 ha perso il lavoro
L'Istat: "Quattrocentomila gli
under 24 espulsi dal mercato in difficoltà" di FEDERICO PACE
ROMA - La vita è sempre più agra per i giovani. Licenziamenti,
assunzioni con il contagocce, contratti di collaborazione non rinnovati
e tante prospettive in fumo. E dire che neppure negli anni scorsi se la
passavano bene. Ora però le cose, se possibile, vanno ancora peggio. La
crisi di fatto li sta colpendo in modo più acuto di quanto non stia
facendo con altre fasce d'età più tutelate.
Il 15 ottobre il presidente dell'Istat, Enrico Giovannini, parlando alle
commissioni Bilancio di Camera e Senato, ha spiegato che la riduzione
occupazionale, registrata nel secondo trimestre (556 mila), è dovuta
soprattutto ai "figli" e ha interessato 404 mila persone. A confronto
con loro, rischiano di sembrare pochi persino i 152 mila posti perduti
dai genitori.
La crisi dei giovanissimi. Quelli che stanno andando peggio sono
i più piccoli. Alla fine di giugno, dicono i dati trimestrali dell'Istat,
il tasso di disoccupazione per il segmento tra 15 e 24 anni è arrivato
al 24 per cento. Quasi quattro punti percentuali in più rispetto allo
stesso periodo dell'anno scorso. Un ragazzo su quattro, insomma, è alla
ricerca di un lavoro. Più del triplo della media nazionale che, nel
complesso, ha raggiunto il 7,4 per cento. Il peggioramento ha
interessato in particolare i ragazzi, il cui tasso disoccupazione è
cresciuto del 4,2 per cento mentre quello delle loro coetanee è salito
di poco più della metà (+2,5%).
La caduta del Centro. Tra le aree più aggredite dal fenomeno c'è
il Mezzogiorno (ed è una conferma) dove la quota dei "senza lavoro" ha
toccato i picchi: 35,3 per cento. Ma se si mette a confronto la media
nazionale con il segmento giovanile, ci si accorge (ed è una sorpresa)
che il peggioramento più significativo si è manifestato nelle regioni
del centro d'Italia. L'incremento da queste parti è stato di 5,5 punti
percentuali in un anno mentre quello medio è rimasto pressoché stabile.
In queste regioni, in un anno, il rapporto tra il tasso di
disoccupazione dei giovanissimi e quello nazionale è passato da poco
meno di due volte e mezzo a quasi tre volte e mezzo
(. E' probabile che a molti di questi ragazzi, relegati ai
confini del mercato del lavoro, la recente dichiarazione del ministero
dell'Economia Giulio Tremonti
a favore del "posto fisso" sia sembrata beffarda.
Quelli con il diploma. Non se la passano bene neppure i loro
fratelli maggiori. A giugno dell'anno scorso, tra quelli che hanno tra
25 e 34 anni, che in Italia sono ancora costretti ad essere "figli",
l'8,7 per cento non aveva un impiego. Oggi sono il 10,1 per cento. A
fare i conti con la perdita di un impiego sono soprattutto i diplomati.
Per loro nel giro di un anno le cose sono andate peggiorando in maniera
significativa. La disoccupazione degli under 35 con un diploma da 4-5
anni è salita, in un anno, dal 7,2 per cento al 9,2 per cento. Quella di
chi ha un diploma da 2-3 anni è cresciuta del 2,3 per cento. I laureati
hanno mostrato un incremento minore (+1,0 per cento). Altrettanto male è
andata a quei giovanissimi con la licenza media il cui tasso di
disoccupazione è passato dal 11,2 al 12 per cento.
Le speranze deluse. La maggioranza degli italiani, dice il
Rapporto Italia 2009 di Eurispes, è convinto che le misure legislative
adottate nell'ultimo decennio abbiano peggiorato le possibilità
occupazionali dei giovani. Ora le imprese hanno ridotto drasticamente le
nuove assunzioni indirizzate a loro. Hanno tagliato le collaborazioni e,
quando li assumono, li impiegano con mansioni e condizioni economiche
sempre meno gratificanti. Emarginati e relegati a ruoli eternamente
precari anche nella ricerca universitaria, non sorprende che i laureati
italiani - come confermano i recentissimi risultati dell'indagine
europea realizzata da un istituto di ricerca di Berlino - siano
purtroppo quelli che in tutta Europa credono meno alla possibilità di
realizzare se stessi nel mondo del lavoro.
Il pretesto è il massacro di
Bagua, ma dietro ci sono gli interessi di governo e multinazionali
di gas e petrolio, contro i quali gli indigeni amazzonici si sono
scatenati in defesa della madre terra
Il
Ministro della Giustizia vuole sterminare l'Associazione interetnica
per lo sviluppo della Selva peruviana (Aidesep), la principale
associazione indigena dell'Amazzonia peruviana. Lo affermano gli
stessi attivisti dell'Aidesep, che denunciano l'intenzione
governativa durante una riunione urgente di fronte a tutte le altre
organizzazione in difesa dei diritti indios del paese.
In un comunicato, l'Aidesep fa sapere
che è venuta a conoscenza dell'azione ministeriale "per sciogliere
l'organizzazione" attraverso una notifica dal fiscal provinciale,
che non specifica le ragioni. Fonti della Procuraduría del dicastero
della Giustizia hanno spiegato che il provvedimento risale all'11
giugno scorso, con la motivazione che l'Aidesep avrebbe attentato
all'ordine pubblico e al buon costume.
Ma cos'è che ha scatenato le ire del ministro Aurelio Pastor contro
questa federazione di 65 organizzazioni, nata nel 1980 e ora
rappresentativa di 1350 comunità indigene?
Tutto è iniziato nella primavera di
quest'anno, quando il braccio di ferro governo-indigeni è arrivato
all'estremo, fino a spingere il presidente di Aidesep, Alberto
Pizando, a dichiarare "l'insurrezione anti-governativa amazzonica".
Da quel momento, le popolazioni native decisero di appellarsi alle
loro leggi ancestrali disconoscendo l'ordinamento giuridico
nazionale vigente e bloccando l'ingresso di qualsiasi forza esterna
nel loro territorio. Il tutto in segno di protesta contro la nuova
Legge forestale sulla fauna silvestre e contro la Legge sulle
risorse idriche, entrambe deleterie per gli indiani e per la
salvaguardia dell'ambiente, in particolare per la selvaggia
estrazione del petrolio e del gas da parte delle multinazionali, le
sanguisughe della pachamama. Una linea dura, quella scelta dagli
indigeni, davanti alla quale però il governo di Alan Garcia non
chinò la testa. Anzi. Il 5 giugno a Bagua, la tregedia. Durante uno
dei blocchi stradali e fluviali organizzati dall'Adesep nel cuore
dell'Amazzonia, la polizia represse con violenza. Risultato: 45
morti e 93 feriti. Un massacro.
Che non è servito a far prendere al
governo una posizione ragionevole. Anzi, il ministro della Giustizia
non tardò a scaricare la responsabilità del bagno di sangue sugli
indigeni, che si precipitarono a rispedire le accuse al mittente. Fu
così che Pastor ha iniziato una vera e propria caccia al leader
indigeno. Prima contro Pizango, che è stato costretto a espatriare
rifugiandosi in Nicaragua, nonostante il mandato di cattura
internazionale che sta pendendo sulla sua testa e su quella di altri
quattro attivisti del direttivo di Aidesep. Una persecuzione che sta
martoriando tutti i capi della federazione. Sono 89 le persone
coinvolte in processi per quanto accadde a Bagua, dove per reazione
gli indigeni tennero sequestrati degli agenti di polizia. E tutto
questo nonostante la Aidesep partecipi a quattro tavole di lavoro
con funzionari governativi e rappresentanti della società civile
proprio per stabilire un nuovo giro di discussioni con le comunità
indios riguardo a Bagua.
A commentare a PeaceReporter quanto
sta accadendo è Mauro Morbello, responsabile di Terre des
Hommes-Italia in Perù. "Il malessere delle popolazioni indigene del
Perù, non solo di quelle della selva amazzonica, ma anche
dell'altopiano andino, non è nuovo ed è motivato da uno storico
abbandono in cui i vari governi peruviani hanno lasciato queste
popolazioni da secoli. Questo malessere si è però trasformato in
rabbia e la rabbia, alla fine in violenza anche cieca e
incontenibile, con la rivolta organizzata dalla Asociación
Interétnica de Desarrollo de la Selva Peruana (Aidesep) lo scorso
mese di giugno contro il pacchetto di leggi chiamate "Ley de la
selva", fortemente volute dal governo peruviano del presidente
Garcia per dare applicazione al Trattato di Libero Commercio con gli
Stati Uniti (TLC). Con queste norme, emanate senza consultare
opportunamente le popolazioni interessate, il governo ha fatto un
grosso favore agli investitori privati, in realtà soprattutto
multinazionali straniere, che possono ora acquistare enormi
appezzamenti di terreni nelle zone della foresta amazzonica dove da
sempre vivono comunità indigene. Si tratta di aree ricche di materie
prime, dal leganame al petrolio, a tantissimi altri prodotti
minerari. Grazie a questo pacchetto di norme, ora l`investitore può
comprare, cioè ottenere la proprietà delle terre e non più, come
prima, solo una concessione temporanea con l`autorizzazione delle
associazioni indigene della località. Ancora: l`acquirente può ora
effettuare l`acquisto non più dovendo ottenere il consenso dei 2/3
della popolazione residente, ma solo con il voto del 50 percento più
uno dei partecipanti all`incontro destinato alla presa della
decisione di vendita delle terre. Oltre alla riduzione del quorum,
già di per sè lesiva degli interessi collettivi delle popolazioni
indigene, questo meccanismo si presta evidentemente ad abusi, non
potendosi escludere ad esempio che siano convocati all`incontro solo
gruppi accondiscendenti con gli interessi degli investitori
interessati all`acquisto. Il pacchetto prevede infine un aumento
delle dimensioni delle terre prima previste solo in concessione ed
ora acquistabili, portato da 10.000 a 40.000 ettari".
Quindi Bagua: "Dopo di fatti di Bagua
- aggiunge Morbello - il governo ha cercato in tutti i modi prima di
screditare le organizzazioni indigene effettivamente rappresentative
degli interessi più profondi delle popolazioni locali, in primo
luogo Aidesep, promuovendo una campagna pubblicitaria terribile, sui
giornali e in televisione, mostrando poliziotti morti e tumefatti
dalle torture degli indigeni che li avevano fatti prigionieri negli
scontri di Bagua. A causa del rifiuto dell`opinione pubblica e delle
reazioni internazionali a una campagna di così basso stampo, è
cambiata la strategia. Da un lato hanno accusato i leaders di
AIDESEP e in primo luogo Pizango di insurrezione e quindi di
attentare contro la sicurezza dello Stato, dall`altro hanno cercato
di trovare accordi con i gruppi indigeni organizzati offrendo
promesse di soluzione delle controversie a medio termine,
irrealizzabili, ma che ottenevano il risultato di sbloccare
nell`immediato le situazioni.
Poi cercando di inserire nuove figure di rappresentanza indigena,
con personaggi sconosciuti ai più, che sminuissero di fronte
all`opinione pubblica il ruolo di Aidesep che parallelamente veniva
perseguita in termini istituzionali, non solo prevedendo azioni nei
confronti dei dirigenti, Pizango ed altri, ma iniziando ad aprire
verifiche giudiziali ed extra giudiziali, anche di tipo fiscale,
sull'uso delle risorse e criminalizzando anche i finanziatori,
soprattutto organismi della società civile europea, che a loro volta
venivano intimiditi in varie forme, compreso il rischio di non poter
più operare in Perù. Da qui l'intenzione di sciogliere Aidesep".
27 ottobre
Afghanistan, la piaga
dell'oppio
Esce il rapporto delle Nazioni
Unite sul narcotraffico: la droga fa più morti della guerra ai talebani
A causa dell'oppio, in Afghanistan muore ogni anno un numero di persone cinque
volte superiore a quello delle vittime di otto anni di guerra ai Talebani.
E'
uno dei dati statistici contenuti nell'allarmante rapporto dell'Unodc (United
Nation's Office on Drugs and Crime) pubblicato ieri. Rivelazioni che non
sorprendono chi conosce il Paese, i traffici illeciti che vi si svolgono e le
guerre che con l'oppio vengono finanziate. Un allarme lanciato in modo ciclico e
puntualmente ignorato, quello dell'italiano Antonio Maria Costa, da sette anni
alla guida dell'agenzia Onu per la lotta al narcotraffico: "La corruzione,
l'illegalità e le frontiere prive di qualsiasi controllo determinano una
situazione devastante, non solo per l'Afghanistan, ma per il mondo intero".
Quindici milioni di tossicodipendenti, centomila morti all'anno, 65 miliardi di
euro di profitto. I numeri parlano di un fenomeno globale quasi impossibile da
contrastare, in un Paese che produce il 92 percento dell'oppio mondiale. Un
grammo di eroina costa 3 dollari a Kabul, mentre nelle strade di Londra, Milano
o Mosca il suo valore sale a trenta volte tanto. In Russia, il Paese più colpito
dalla piaga del narcotraffico, muoiono 30 mila persone all'anno, più dei soldati
dell'Unione Sovietica morti durante la campagna afgana del decennio '79-'89.
"Per questo - spiega ancora Costa - sarebbe immensamente più efficace combattere
il traffico di oppio alla fonte".
La produzione di oppio afgano è esplosa negli ultimi dieci anni, e nel 2009 ha
raggiunto le 7 mila tonnellate. Nonostante l'eccesso di coltivazioni abbia fatto
diminuire la produzione negli ultimi due anni, le scorte accumulate, più di 12
mila tonnellate, sono sufficienti per soddisfare la domanda dei prossimi due
anni.
Ciò che preoccupa maggiormente Costa è l'impossibilità di contrastare tale
traffico. "Solo il 2 percento di oppio viene confiscato ogni anno, contro il 36
percento della Colombia, ad esempio". L'appello è alla comunità internazionale,
affinchè investa più risorse per arrestare un flusso di droga inarrestabile che
passa per le rotte balcaniche ed euroasiatiche per raggiungere il mercato
europeo, russo, indiano e cinese. "I Paesi amici dell'Afghanistan devono
riconoscere certe verita' che, pur se insospette e sconvenienti, sono
catastrofiche per tutti coloro che coltivano l'oppio, lo trafficano e
soprattutto lo consumano. Tali scomode verità sono spesso il risultato di
disattenzioni fatali".
La Russia ha accusato la Nato e le foze della coalizione in Afghanistan di non
fare quasi nulla per combattere quella che l'agenzia antidroga di Mosca ha
definito una 'minaccia alla sicurezza nazionale'. Un tema che è stato anche
portato all'attenzione del presidente Barack Obama e del Segretario di Stato
Hillary Clinton durante la loro recente visita a Mosca, senza che tuttavia
l'incontro servisse a stemperare le tensioni tra i due Paesi in merito alla
lotta contro il narcotraffico condotta dalle forze militari presenti in
Afghanistan. Il capo dell'agenzia antidroga russa, Viktor Ivanonv, ha detto che
esistono 180 cartelli della droga che controllano i traffici di eroina verso il
suo Paese. "La maggior parte di questi - ha dichiarato - operano in aree sotto
la responsabilità di Stati Uniti e Nato".
Barbarossa, flop a spese
nostre
Tra le tante voci di spesa, ci sono 400 costumi, 100 carri falcati, 200 armature
(perfette riproduzioni realizzate in India), 4.550 cavalli, 12 mila comparse,
più i cachet degli attori, incluso Raz Degan nei panni di Alberto da Giussano. E
tutto il resto, naturalmente. Spesa finale: 30 milioni di dollari, compresa la
postproduzione per le 800 scene trattate con effetti speciali digitali.
Chi ha pagato? Al 60 per cento imprenditori privati vicino alla Lega, al 40 per
cento la Rai: 12 milioni di euro di soldi dei contribuenti, quindi, a pesare sul
bilancio già drammaticamente in rosso della tivù pubblica.
Soldi che, ormai è certo, non torneranno mai indietro: nei cinema "Barbarossa" è
un flop e l'incasso dei botteghini - secondo le previsioni - non coprirà nemmeno
un terzo delle spese sostenute.
L'ultimo spreco di denaro pubblico ha un nome e cognome preciso: Umberto Bossi,
capo della Lega e grande sponsor politico del progetto, nonchè amico personale
del regista e pure presente in un cameo nella pellicola di Renzo Martinelli.
Berlusconi insomma ha usato la Rai (che imporrà il film in due puntate anche sul
piccolo schermo) per tenersi buono l'alleato di governo, a spese nostre.
Dev'essere questo il famoso "Roma ladrona", lo slogan con cui la Lega ha mosso i
suoi primi passi fino ad arrivare direttamente a usufruire del bottino.
23 ottobre
La riunione che non ti
aspetti
Israele rivela di aver
incontrato l'ambasciatore iraniano al Cairo per discutere di nucleare. Non
accadeva dal 1979
Se la metafora non fosse abusata si potrebbe davvero parlare di notizia bomba.
Mentre il mondo tira un sospiro di sollievo dopo la bozza di accordo siglata
ieri a Vienna tra l'Iran e l'Agenzia Internazionale dell'Energia Atomica (Aiea)
sul programma nucleare di Teheran, il quotidiano israeliano Ha'aretz stupisce
tutti: Israele e Iran si sono incontrati al Cairo e hanno parlato di nucleare.
Meirav
Zafary-Odiz, direttrice dell'ufficio sul controllo degli armamenti della
Commissione Israeliana per l'Energia Atomica, e Ali Ashgar Soltanieh,
ambasciatore iraniano all'Aiea, si sono incontrati all'hotel Four Season's del
Cairo, più di una volta, tra il 29 e il 30 settembre. Il vertice, tenutosi sotto
l'egida della Commissione Internazionale per la Non Proliferazione Nucleare e
per il Disarmo (Icnnd) creata dal primo ministro australiano Kevin Rudd, sarebbe
un evento storico. Israele e Iran, dai tempi della Rivoluzione Islamica del
1979, non intrattengono relazioni diplomatiche, per non parlare dei reciproci
strali che i governi dei due paesi non perdono occasione di scambiarsi. A
rendere noto il vertice è stato The Age, un quotidiano australiano, ripreso oggi
da Ha'aretz. Secondo la fonte australiana, al vertice a porte chiuse e che
impegnava i partecipanti al silenzio sarebbero stati presenti anche inviati di
Lega Araba, Giordania, Egitto, Tunisia, Turchia, Marocco, Emirati Arabi Uniti e
Arabia Saudita, oltre a funzionari Usa e dell'Unione Europea. Il quotidiano
australiano, nella sua ricostruzione, parla di tre sessioni di lavori: una per
un Medio Oriente senza armi nucleari, una per la prevenzione della
prolificazione atomica e l'ultima per implementare l'uso pacifico dell'energia
atomica.
La direttrice Zafary-Odiz ha confermato l'incontro, ma non ha voluto commentare,
limitandosi ad affermare che che Israele non ha nulla in contrario a un Medio
Oriente senza armi nucleari, nell'ambito di un accordo di pace complessivo.
Soltanieh, dal canto suo, non ha commentato, limitandosi a dire che l'Iran si
oppone al sionismo, non agli ebrei.
Una notizia davvero storica: Iran e Israele, pubblicamente, si lanciano accuse
pesanti. Tel Aviv è il più acerrimo nemico del nucleare iraniano, essendo il
premier Netanyahu convinto che non esista alcuno scopo pacifico. Il presidente
iraniano Ahmadinejad, dal canto suo, ha sempre ribadito che non esiste alcun
progetto di bomba atomica, ma ha anche sempre negato il diritto all'esistenza
d'Israele.
Le rivelazioni di The Age solleverebbero il velo della retorica bellicista di
entrambi i paesi, in nome della relapolitik. Ma è un caso che, proprio ieri,
mentre a Vienna si trattava furiosamente, siano trapelate queste informazioni
sul vertice del Cairo? Difficile crederlo, almeno nell'ottica che queste
rivelazioni non farebbero fare una gran bella figura ad Ahmadinejad, sempre
pronto in pubblico ad attaccare Israele, negare l'Olocausto e l'esistenza stessa
dello Stato ebraico. Israele, da sempre e con conseguenze disastrose. adotta il
vecchio adagio: ''Se vuoi la pace prepara la guerra''.
Le rivelazioni di ieri, a livello politico e agli occhi dell'opinione pubblica
iraniana, indeboliscono Ahmadinejad facendolo apparire per lo meno poco
coerente. Dopo la brutale repressione seguita alle elezioni presidenziali di
giugno, l'immagine di Ahmadinejad riceve un altro colpo molto duro.
Sempre nel solco del vecchio adagio, giusto per non perdere l'allenamento,
mentre tratta con l'Iran in gran segreto e segue le trattative di Vienna, il
governo israeliano decide di tenere la più grande esercitazione militare
congiunta con gli Usa.
Due settimane di manovre simulate, denominate Juniter Cobra, sono iniziate ieri
con gran spiegamento di mezzi e uomini. Unità di terra, aeree e navali Usa e
israeliane, per la decima volta, hanno iniziato le manovre congiunte che si
tengono ogni due anni. Mai come quest'anno, però.
Christian Elia
Iraq, dalla Russia con onore
Sempre più contractors delle repubbliche ex-sovietiche operano in Iraq.
"Fieri di non essere come la Blackwater"
I nuovi 'mercenari' in Iraq parlano russo. Con il disimpegno dei soldati
occidentali dal Paese mediorientale, l'abbandono dal quale verrà terminato
gradualmente entro il 2011, la sicurezza è stata lasciata ai militari e alla
polizia iracheni.
Ma
il vuoto lasciato dagli eserciti regolari, ancora presenti in zone-chiave come
Kirkuk e Tikrit, spesso è riempito dai contractors stranieri. Una delle
principali compagnie di sicurezza russe, la Oryol, ha recentemente chiesto al
proprio governo maggiori 'libertà' nelle attività di protezione degli interessi
russi nel Paese, ovvero un adeguato sostegno legislativo per le loro operazioni
all'estero. I contractor russi della Oryol vengono sottoposti a un duro
addestramento in patria, affinchè possano affrontare le insidie e le minacce
quotidiane, nel pericoloso 'mestiere' di difesa e protezione di ingegneri,
tecnici, imprenditori russi. Ma gli uomini della Oryol, a differenza della più
famosa e criticata controparte statunitense Blackwater, non sono considerati,
dal punto di vista legale, una 'forza di sicurezza privata', bensì semplici 'consulenti'.
"Non abbiamo uno status, né abbiamo diritti - spiega uno degli istruttori del
Centro, Oleg Pyrsin - e se qualcuno ci chiede perchè siamo armat, ciò che
possiamo rispondere è 'per autodifesa'. Se succede qualcosa, e dobbiamo sparare,
non voglio pensare a cosa, o di cosa, ci tocca rispondere dopo". Nonostante i
rapporti con ministero degli Esteri e ambasciata nel Paese siano eccellenti -
tra i membri della Oryol sono presenti anche ex- funzionari dei servizi segreti
russi - la necessità è di fornire un quadro giuridico che consenta di estendere
le restrizioni imposte all'uso delle armi. Ma, secondo la compagnia stessa, i
limiti entro i quali si è trovata costretta a operare la compagnia di sicurezza,
si sono paradossalmente rivelati un fattore positivo, nel rapporto con
l'ambiente nel quale si trovano a operare. L'organizzazione ha fatto più
affidamento sulla costruzione di relazioni che non sull'uso della forza. Secondo
i suoi dirigenti, al Oryol è vista sotto una luce molto migliore rispetto ai
colleghi della Blackwater e al loro eccessivo uso della forza, che spesso ha
avuto come conseguenza l'uccisione di civili. "Questo è il nostro punto
d'onore", ribadisce Pyrsin.
Ma adesso la Oryol chiede al Parlamento russo di sciogliere tali vincoli,
regolamentando la loro attività in modo da concedere agli uomini della sicurezza
privata più libertà di azione. La Duma, il Parlamento russo, potrebbe esaminare
nei prossimi mesi le richieste delle compagnie private, estendendo anche al di
fuori della Russia le condizioni che disciplinano le attività di sicurezza di
tali soggetti. I contractors russi non sono una presenza nuova in Iraq. Numerosi
contractors sono da anni nel 'circuito'. Nel 2005, numerosi ex soldati sovietici
lavoravano con la Eryn, compagnia di sicurezza privata britannica. Una vera e
propria multinazionale, come ormai ce ne sono tante: il team leader era
francese, il mamagement britannico e sud-africano. Gli autisti e gli uomini
armati, ovvero gli addetti al lavoro sporco, provenivano dalle ex repubbliche
sovietiche. Dove certamente non hanno fatto esperienza di diplomazia o
'costruzione di relazioni amichevoli'.
Luca Galassi
22 ottobre
Italia, addio pace
La riforma delle università rischia di
cancellare l'unico corso di studi in Scienze della Pace attivo in Italia
Per quest'anno i corsi si terranno regolarmente. Ma non per questo gli studenti
iscritti alla facoltà di Scienze della Pace, dell'Università di Pisa, possono
dormire sonni tranquilli. Le probabilità che la laurea triennale o quella
specialistica vengano cancellate a partire dall'anno prossimo sono alte. Colpa
dell'ultima riforma universitaria che impone di risparmiare e di tagliare buona
parte dell'offerta accademica nata negli ultimi anni. "In questo momento il
vincolo maggiore che ci viene imposto per mantenere in funzione il corso è
quello di avere almeno quattro docenti di ruolo per ogni di anno di corso,
indipendentemente dalla materia che insegnano" - ci spiega al telefono Giorgio
Gallo, presidente del corso di laurea.
La facoltà di Scienze della Pace, però, è nata solo nel 2001 per iniziativa di
un gruppo di professori sull'onda del dibattito suscitato dalla missione
italiana in Kosovo, e si avvale della collaborazione di molti docenti
dell'ateneo che hanno accettato di insegnarvi semplicemente aggiungendo le ore
ai corsi che già tenevano, alcuni addirittura a titolo gratuito, mentre gli
insegnamenti mancanti sono stati affidati a contratti esterni o a mutuazioni.
Così si arriva all'assurdo di una riforma che, nata per ordinare ed
economizzare, rischia di cancellare una realtà che dava grande prestigio
all'ateneo senza pesare sul budget universitario. Ammesso, sostiene
polemicamente il professor Gallo, che il vero intento della riforma fosse quello
di risparmiare e non di affossare l'università pubblica a vantaggio di quella
privata.
Salvare il corso di laurea in Scienze della Pace, un corso unico in Italia (ne
esiste uno simile a Firenze ma è maggiormente indirizzato verso la cooperazione
economica) richiede una forte volontà politica che al momento, al di là della
solidarietà espressa dal Comune e della Provincia di Pisa, non si vede. "Una
delle difficoltà maggiori che incontriamo - riprende il professor Gallo - è
quella di far capire a livello nazionale la serietà degli insegnamenti che
proponiamo, che hanno un fondamento scientifico forte negli studi per la pace
che si sono sviluppati negli Stati Uniti e nel Nord Europa dagli anni '50 in
poi. La pace non è l'assenza della guerra, ma l'assenza della violenza nella sua
accezione più ampia, fino a comprendere quella strutturale di un sistema
economico che crea povertà ed emarginazione. E costruire un percorso che porta
una comunità a trovare una soluzione partecipata ai propri problemi richiede un
approccio multidisciplinare: legale, ambientale, storico, economico,
sociologico, culturale, biologico... Ogni materia può apportare il proprio
contributo".
Intesa in questo senso, viene anche naturale scoprire che gli sbocchi di questa
facoltà non sono necessariamente solo i teatri post bellici posti alle estremità
del mondo, ma anche quelli dietro casa. "Alcuni ragazzi che si sono laureati con
noi sono andati a lavorare in Afghanistan, Thailandia, Marocco - conclude il
professor Gallo - Altri, invece, hanno trovato impiego in progetti regionali o
nelle amministrazioni locali. Ogni comunità dovrebbe avere un mediatore che
aiuti a risolvere i problemi e i conflitti sociali con delle soluzioni
partecipate. Purtroppo da noi questa figura è ancora poco delineata, ma qualcosa
si sta muovendo".
Tra mafia e Stato
di Lirio Abbate
Brusca rivela: Riina disse che il nostro referente nella trattativa era il
ministro Mancino. Ma dopo l'arresto del padrino, i boss puntarono su Forza
Italia e Silvio Berlusconi
E'
la vigilia di Natale del 1992, Totò Riina è euforico, eccitato, si sente come
fosse il padrone del mondo. In una casa alla periferia di Palermo ha radunato i
boss più fidati per gli auguri e per comunicare che lo Stato si è fatto avanti.
I picciotti sono impressionati per come il capo dei capi sia così felice. Tanto
che quando Giovanni Brusca entra in casa, Totò ù curtu, seduto davanti al tavolo
della stanza da pranzo, lo accoglie con un grande sorriso e restando sulla sedia
gli dice: "Eh! Finalmente si sono fatti sotto". Riina è tutto contento e tiene
stretta in mano una penna: "Ah, ci ho fatto un papello così..." e con le mani
indica un foglio di notevoli dimensioni. E aggiunge che in quel pezzo di carta
aveva messo, oltre alle richieste sulla legge Gozzini e altri temi di ordine
generale, la revisione del maxi processo a Cosa nostra e l'aggiustamento del
processo ad alcuni mafiosi fra cui quello a Pippo Calò per la strage del treno
904. Le parole con le quali Riina introduce questo discorso del "papello" Brusca
le ricorda così: "Si sono fatti sotto. Ho avuto un messaggio. Viene da Mancino".
L'uomo che uccise Giovanni Falcone - di cui "L'espresso" anticipa il contenuto
dei verbali inediti - sostiene che sarebbe Nicola Mancino, attuale vice
presidente del Csm che nel 1992 era ministro dell'Interno, il politico che
avrebbe "coperto" inizialmente la trattativa fra mafia e Stato. Il tramite
sarebbe stato l'ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, attraverso
l'allora colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno. L'ex
responsabile del Viminale ha sempre smentito: "Per quanto riguarda la mia
responsabilità di ministro dell'Interno confermo che nessuno mi parlò di
possibili trattative".
Il contatto politico Riina lo rivela a Natale. Mediata da Bernardo Provenzano
attraverso Ciancimino, arriva la risposta al "papello", le cui richieste
iniziali allo Stato erano apparse pretese impossibili anche allo zio Binu. Ora
le dichiarazioni inedite di Brusca formano come un capitolo iniziale che viene
chiuso dalle rivelazioni recenti del neo pentito Gaspare Spatuzza. Spatuzza
indica ai pm di Firenze e Palermo il collegamento fra alcuni boss e Marcello
dell'Utri (il senatore del Pdl, condannato in primo grado a nove anni per
concorso esterno in associazione mafiosa), che si sarebbe fatto carico di creare
una connessione con Forza Italia e con il suo amico Silvio Berlusconi. Ma nel
dicembre '92 nella casa alla periferia di Palermo, Riina è felice che la
trattativa, aperta dopo la morte di Falcone, si fosse mossa perché "Mancino
aveva preso questa posizione". E quella è la prima e l'ultima volta nella quale
Brusca ha sentito pronunziare il nome di Mancino da Riina. Altri non lo hanno
mai indicato, anche se Brusca è sicuro che ne fossero a conoscenza anche alcuni
boss, come Salvatore Biondino (detenuto dal giorno dell'arresto di Riina), il
latitante Matteo Messina Denaro, il mafioso trapanese Vincenzo Sinacori,
Giuseppe Graviano e Leoluca Bagarella.
Le risposte a quelle pretese tardavano però ad arrivare. Il pentito ricorda che
nei primi di gennaio 1993 il capo di Cosa nostra era preoccupato. Non temeva di
essere ucciso, ma di finire in carcere. Il nervosismo lo si notava in tutte le
riunioni, tanto da fargli deliberare altri omicidi "facili facili", come
l'uccisione di magistrati senza tutela. Un modo per riscaldare la trattativa. La
mattina del 15 gennaio 1993, mentre Riina e Biondino si stanno recando alla
riunione durante la quale Totò ù curtu avrebbe voluto informare i suoi
fedelissimi di ulteriori retroscena sui contatti con gli uomini delle
istituzioni, il capo dei capi viene arrestato dai carabinieri.
Brusca è convinto che in quell'incontro il padrino avrebbe messo a nudo i suoi
segreti, per condividerli con gli altri nell'eventualità che a lui fosse
accaduto qualcosa. Il nome dell'allora ministro era stato riferito a Riina
attraverso Ciancimino. E qui Brusca sottolinea che il problema da porsi - e che
lui stesso si era posto fin da quando aveva appreso la vicenda del "papello" - è
se a Riina fosse stata o meno riferita la verità: "Se le cose stanno così nessun
problema per Ciancimino; se invece Ciancimino ha fatto qualche millanteria,
ovvero ha "bluffato" con Riina e questi se ne è reso conto, l'ex sindaco allora
si è messo in una situazione di grave pericolo che può estendersi anche ai suoi
familiari e che può durare a tempo indeterminato". In quel periodo c'erano
strani movimenti e Brusca apprende che Mancino sta blindando la sua casa romana
con porte e finestre antiproiettile: "Ma perché mai si sta blindando, che motivo
ha?". "Non hai nulla da temere perché hai stabilito con noi un accordo",
commenta Brusca come in un dialogo a distanza con Mancino: "O se hai da temere
ti spaventi perché hai tradito, hai bluffato o hai fatto qualche altra cosa".
Brusca, però, non ha dubbi sul fatto che l'ex sindaco abbia riportato ciò che
gli era stato detto sul politico. Tanto che avrebbe avuto dei riscontri sul nome
di Mancino. In particolare uno. Nell'incontro di Natale '92 Biondino prese una
cartelletta di plastica che conteneva un verbale di interrogatorio di Gaspare
Mutolo, un mafioso pentito. E commentò quasi ironicamente le sue dichiarazioni:
"Ma guarda un po': quando un bugiardo dice la verità non gli credono". La frase
aveva questo significato: Mutolo aveva detto in passato delle sciocchezze ma
aveva anche parlato di Mancino, con particolare riferimento a un incontro di
quest'ultimo con Borsellino, in seguito al quale il magistrato aveva manifestato
uno stato di tensione, tanto da fumare contemporaneamente due sigarette. Per
Biondino sulla circostanza che riguardava Mancino, Mutolo non aveva detto il
falso. Ma l'ex ministro oggi dichiara di non ricordare l'incontro al Viminale
con Borsellino.
Questi retroscena Brusca li racconta per la prima volta al pm fiorentino
Gabriele Chelazzi che indagava sui mandanti occulti delle stragi. Adesso
riscontrerebbero le affermazioni di Massimo Ciancimino, figlio di don Vito, che
collabora con i magistrati di Palermo e Caltanissetta svelando retroscena sul
negoziato mafia- Stato. Un patto scellerato che avrebbe avuto inizio nel giugno
'92, dopo la strage di Capaci, aperto dagli incontri fra il capitano De Donno e
Ciancimino. E in questo mercanteggiare, secondo Brusca, Riina avrebbe ucciso
Borsellino "per un suo capriccio". Solo per riscaldare la trattativa.
Le rivelazioni del collaboratore di giustizia si spingono fino alle bombe di
Roma, Milano e Firenze. Iniziano con l'attentato a Maurizio Costanzo il 14
maggio '93 e hanno termine a distanza di 11 mesi con l'ordigno contro il pentito
Totuccio Contorno. Il tritolo di quegli anni sembra non aver portato nulla di
concreto per Cosa nostra. Brusca ricorda che dopo l'arresto di Riina parla con
il latitante Matteo Messina Denaro e con il boss Giuseppe Graviano. Chiede se ci
sono novità sullo stato della trattativa, ma entrambi dicono: "Siamo a mare",
per indicare che non hanno nulla. E da qui che Brusca, Graviano e Bagarella
iniziano a percorrere nuove strade per riattivare i contatti istituzionali.
I corleonesi volevano dare una lezione ai carabinieri sospettati (il colonnello
Mori e il capitano De Donno) di aver "fatto il bidone". E forse per questo
motivo che il 31 ottobre 1993 tentano di uccidere un plotone intero di
carabinieri che lasciava lo stadio Olimpico a bordo di un pullman. L'attentato
fallisce, come ha spiegato il neo pentito Gaspare Spatuzza, perché il
telecomando dei detonatori non funziona. Il piano di morte viene accantonato.
In questa fase si possono inserire le nuove confessioni fatte pochi mesi fa ai
pubblici ministeri di Firenze e Palermo dall'ex sicario palermitano Spatuzza. Il
neo pentito rivela un nuovo intreccio politico che alcuni boss avviano alla fine
del '93. Giuseppe Graviano, secondo Spatuzza, avrebbe allacciato contatti con
Marcello Dell'Utri. Ai magistrati Spatuzza dice che la stagione delle bombe non
ha portato a nulla di buono per Cosa nostra, tranne il fatto che "venne
agganciato ", nella metà degli anni Novanta "il nuovo referente politico: Forza
Italia e quindi Silvio Berlusconi".
Il tentativo di allacciare un contatto con il Cavaliere dopo le stragi era stato
fatto anche da Brusca e Bagarella. Rivela Brusca: "Parlando con Leoluca
Bagarella quando cercavamo di mandare segnali a Silvio Berlusconi che si
accingeva a diventare presidente del Consiglio nel '94, gli mandammo a dire
"Guardi che la sinistra o i servizi segreti sanno", non so se rendo l'idea...".
Spiega sempre il pentito: "Cioè sanno quanto era successo già nel '92-93, le
stragi di Borsellino e Falcone, il proiettile di artiglieria fatto trovare al
Giardino di Boboli a Firenze, e gli attentati del '93". I mafiosi intendevano
mandare un messaggio al "nuovo ceto politico ", facendo capire che "Cosa nostra
voleva continuare a trattare".
Perché era stata scelta Forza Italia? Perché "c'erano pezzi delle vecchie
"democrazie cristiane", del Partito socialista, erano tutti pezzi politici un
po' conservatori cioè sempre contro la sinistra per mentalità nostra. Quindi
volevamo dare un'arma ai nuovi "presunti alleati politici", per poi noi trarne
un vantaggio, un beneficio".
Le due procure stanno già valutando queste dichiarazioni per decidere se
riaprire o meno il procedimento contro Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri,
archiviato nel 1998. Adesso ci sono nuovi verbali che potrebbero rimettere tutto
in discussione e riscrivere la storia recente del nostro Paese.
21 ottobre
Il dossier della
vergogna
Riaperto oggi
il dibattito del Consiglio dei Diritti Umani dell'Onu sui
crimini di guerra a Gaza. Alla base dell'inchiesta c'è il
Rapporto Goldstone stilato su documenti ufficiali e
testimonianze reali.
di Antonio Marafioti
“Ciò
costituisce una ulteriore violazione del diritto internazionale
umanitario”. E’ questa la frase posta in calce in ognuna delle
575 pagine che compongono il rapporto delle Nazioni Unite
stilato da una Missione inquirente sul conflitto di Gaza.
Il dossier, noto come “rapporto
Goldstone”, - dal nome del presidente della Missione Richard
Goldstone ex giudice della Corte Costituzionale del Sud Africa e
ex procuratore dei tribunali penali internazionali per l'ex
Jugoslavia e il Ruanda - ha convinto il Consiglio per i Diritti
Umani dell’Onu a riaprire il dibattito sui crimini di guerra
commessi nella e dalla striscia di Gaza fra il 27 dicembre 2008
e il 18 gennaio del 2009 dall’esercito israeliano e dai
militanti palestinesi. Per riuscire a completare l’analisi, che
più di una volta viene dichiarata non esaustiva della
molteplicità dei fatti, i membri della Missione hanno lavorato
per tre mesi, dal maggio al luglio 2009, su diverso materiale
informativo. Dopo aver sostenuto e ribadito “la mancanza di
cooperazione da parte di Israele” gli esperti hanno specificato
di essersi avvalsi di varie fonti: la rilettura delle inchieste
giornalistiche e delle ONG, interviste con i familiari delle
vittime, con i testimoni e con altre persone in possesso di
informazioni rilevanti; la visita presso i siti degli incidenti
a Gaza; video satellitari, referti medici e udienze pubbliche a
Ginevra. Risultato: 188 interviste individuali, 300 fra
fascicoli e documentazioni varie per un totale di 10,000 pagine,
oltre 30 filmati e circa 1.200 fotografie. Le indagini hanno
accertato la morte di 13 israeliani, fra militari e civili, e
circa 1400 palestinesi, fra i quali numerosi bambini. Fra le
storie di questi spicca per crudeltà quella di Amal, Souad e
Samar tre sorelle cadute sotto i colpi delle Forze di Difesa
Israeliane durante un’incursione a Izbat Abd Rabbo, periferia
est di Jabaliyah.
“Nella tarda mattinata del 7 gennaio 2009 – si legge nel
report – i carri armati israeliani si spostarono in un piccolo
pezzo di terra agricola di fronte alla casa. Poco dopo le 12:30,
gli abitanti di quella parte di Izbat Abd Rabbo udirono dei
messaggi al megafono che invitavano tutti i residenti a lasciare
[le loro case ndr]
Verso le 12:50, Khalid Abd Rabbo, sua moglie Kawthar, le loro
tre figlie, Souad (9 anni), Samar (5 anni) e Amal (dai 3 anni),
e sua madre, Hajja Souad Abd Rabbo, uscirono fuori di casa,
tutti portando bandiere bianche. A meno 10 metri dalla porta
c’era un carro armato, si voltò verso la loro casa. Due soldati
erano seduti su di esso e stavano consumando uno spuntino (uno
stava mangiando patatine e l’altro del cioccolato, secondo uno
dei testimoni). La famiglia si fermò, in attesa degli ordini dei
soldati come avrebbe dovuto fare, ma nessuno lo diede. Senza
preavviso, un terzo soldato uscì dall'interno del carro armato e
iniziò a sparare sulle tre bambine e poi anche sulla loro nonna.
Diversi proiettili colpirono Souad al torace, Amal allo stomaco
e Samar nella nuca. Khalid e Kawthar Abd Rabbo trasportarono le
loro tre figlie e la madre all'interno del casa. Lì, loro ed i
membri della famiglia che erano rimasti dentro cercarono di
chiamare aiuto da un telefono cellulare.
Hanno anche chiesto aiuto a un vicino di casa, Sameeh Atwa
Rasheed al-Sheikh, che era un conducente di un'ambulanza e aveva
la sua ambulanza parcheggiata vicino alla sua casa e che decise
di venire in loro aiuto. Si mise i vestiti d’equipaggiamento per
l’ambulanza e chiese a suo figlio di indossare un giubbotto
fluorescente.
Guidarono per pochi metri dalla loro casa nelle immediate
vicinanze di Abd Rabbo, quando i soldati israeliani vicino alla
casa Abed Rabbo ordinarono loro di fermarsi e uscire dalla
veicolo. Al Sameeh-Sheikh protestò dicendo che stava aiutando la
famiglia Abd Rabbo e doveva portare i feriti in ospedale. I
soldati ordinarono a lui e suo figlio di spogliarsi e poi
rivestirsi. Poi ordinarono loro di abbandonare l'ambulanza e di
camminare verso Jabaliyah. Quando la famiglia tornò a Izbat Abd
Rabbo il 18 Gennaio, trovò che l'ambulanza era ancora nello
stesso posto, ma era stata schiacciata, probabilmente da un
carrormato.
All'interno della casa Abed Rabbo, Amal e Souad morirono per le
ferite. [...] Samar venne trasferita all'ospedale Al-Shifa e
poi, attraverso l'Egitto, in Belgio, dove è attualmente
ricoverata in ospedale. Secondo quanto detto dai suoi genitori,
Samar ha subito una lesione spinale e resterà paraplegica per il
resto della sua vita”.
Le violazioni al diritto
internazionale rilevate a carico del Governo di Gerusalemme
vanno dall’uso sproporzionato della forza militare – il
fascicolo Goldstone ricorda che l’esercito israeliano è uno dei
più potenti al mondo – all’impiego, accertato per mezzo di prove
e testimonianze, delle bombe al fosforo bianco vietate dalle
convenzioni internazionali. Nel rapporto sono inoltre contenuti
capitoli riguardanti la distruzione di case e ospedali e
l’utilizzo dei civili come scudi umani per fermare i lanci dei
razzi dei militanti palestinesi.
Agli
attacchi condotti da questi dentro il territorio israeliano è
dedicata la terza parte del rapporto che specifica “la Missione
è stata impossibilitata a condurre un’investigazione sul sito a
causa della decisione del Governo di Israele di non cooperare” .
Per questo motivo il pool ha potuto condurre solo interviste
telefoniche e pubblicare dati riguardanti l’attività
terroristica condotta dai tre principali gruppi armati
palestinesi: Izz al-Din al Qassam Brigades987, al Aqsa Martyrs’
Brigades e Islamic Jihad. A loro è ascritto il reato di aver
lanciato circa 8000 razzi dal confine di Gaza verso il
territorio israeliano dal 2001.
Per ciò che concerne il periodo preso in esame dalla Missione il
dossier riporta:
“Tra il 18 giugno 2008 e il 31 luglio 2009, ci sono stati
quattro morti in Israele come un conseguenza di razzi e colpi di
mortaio da Gaza, fra i quali tre vittime civili e un
militare.
Il 27 dicembre 2008, Beber Vaknin, 58 anni, di Netivot è stato
ucciso quando un razzo sparato da Gaza ha colpito un edificio
residenziale a Netivot. Il 29 dicembre 2008, Hani al-Mahdi, 27
anni, di Aroar, un insediamento beduino a Negev, è stato ucciso
quando un missile tipo Grad sparato da Gaza è esploso in un
cantiere
in Ashkelon. Lo stesso giorno, in un altro incidente, Irit
Sheetrit, 39 anni, è stato ucciso, e diversi sono stati i
feriti, quando un razzo Grad è esploso nel centro di Ashdod. Le
brigate al-Qassam hanno rivendicato la responsabilità per
l'attacco.
Il 29 dicembre 2008, un membro delle forze armate, Warrant
Officer Lutfi Nasraladin, 38 anni, del comune di drusi Daliat
el-Carmel, è stato ucciso da un attacco di mortaio su una base
militare vicino a Nahal Oz”.
Questi, fra gli altri, i reati
compiuti dalle due fazioni in guerra che, secondo quanto
rivelato nel rapporto avrebbero infranto la maggior parte delle
leggi interne e internazionali sui diritti umani dalla
Convenzione di Ginevra del 1949 alla Convenzione Internazionale
sui Diritti Civili e Politici.
La Missione che – si legge – “ha investigato un grande numero di
casi [...] ha rilevato che molti di questi hanno sostanza”.
Dopo il dibattito di oggi, precedentemente rinviato a marzo per
le proteste ufficiali di Israele e poi riaperto dopo le
pressioni di Amnesty International e dell’Europa, il Consiglio
di Sicurezza dell’Onu potrebbe richiedere a Israele e
all’Autorità palestinese di dimostrare l’avvio di un’indagine
imparziale sui crimini di guerra accertati nel dossier. Allo
scadere dei sei mesi dalla possibile istanza l’Onu dovrebbe
inviare i fascicoli al procuratore della Corte penale
internazionale dell’Aja.
18 ottobre
Loris
Campetti
Metalmeccanici, un finale sciagurato
Il contratto separato firmato oggi dai
sindacati metalmeccanici della Cisl e della Uil è il capitolo finale nella
cronaca di tre morti annunciate: la morte dell'istituto stesso del contratto
nazionale di lavoro, la morte dei diritti di un milione e mezzo di
lavoratori interessati, la morte della democrazia sindacale.
La Fiom, che rappresenta la maggioranza delle
tute blu, proponendo di rinviare il confronto su un rinnovo insensato
(tranne che per la parte salariale) e invece trovare un accordo sul blocco
dei licenziamenti e sull'estensione a tutti degli ammortizzatori sociali, ha
tentato fino all'ultimo di evitare questo esito sciagurato, foriero di
ulteriori e definitive rotture sindacali e di crescenti conflitti nei luoghi
di lavoro. Conflitti che saranno innanzitutto contro l'antagonista � il
padrone � ma inevitabilmente anche contro chi al padrone regge bordone
firmando un contratto-bidone.
Il contratto precedente, siglato unitariamente
da Fim, Fiom e Uilm e votato dalla stragrande maggioranza dei lavoratori, è
stato unilateralmente stracciato con due anni di anticipo da due
organizzazioni minoritarie. Senza deleghe da parte degli interessati, ai
quali ora, stando alle pretese di Fim e Uilm, si vorrebbe negare persino il
diritto di esprimersi con un referendum sull'ipotesi di accordo firmato ai
loro danni.
Siamo alla dittatura della minoranza attraverso
la cancellazione di ogni regola democratica, siamo al dominio di alcune
burocrazie sindacali che si ritengono legittimate dai padroni e dal governo
Berlusconi a decidere sul lavoro, i salari, i diritti di un milione di
uomini e donne in tuta blu.
Il merito viene addirittura dopo queste
considerazioni generali. E nel merito, l'accordo separato di oggi è un
bidone: prevede 112 euro di aumenti medi mensili scaglionati nell'arco di
tre anni. Ciò significa che un operaio di terzo livello, quello inchiodato
alla catena di montaggio, avrà un aumento salariale di meno di 20 euro al
mese. Si capisce che Fim e Uilm si rifiutino di far votare il loro contratto
dall'insieme degli avanti diritto.
Il contratto separato è la diretta conseguenza
del nuovo sistema contrattuale, imposto anch'esso con un accordo separato
siglato da Cisl e Uil con le organizzazioni imprenditoriali e la
sponsorizzazione del governo, con l'opposizione della Cgil e il silenzio
delle forze parlamentari d'opposizione. Un silenzio assordante, tornato in
occasione dello sciopero generale dei metalmeccanici di venerdì scorso
indetto dalla sola Fiom nel tentativo di fermare lo scempio della
democrazia: per la prima volta dal secondo dopoguerra uno sciopero della
Cgil o di una sua categoria non ha il sostegno della principale forza
d'opposizione.
Chi invece non ha intenzione di bere l'accordo
avvelenato è, insieme alla Fiom (che adirà a via legali e comunque non ne
riconoscerà la validità) la maggioranza dei lavoratori metalmeccanici: già
un'ora dopo che le agenzie e i telefonini avevano diffuso la notizia della
firma del contratto, sono partiti i primi scioperi nelle fabbriche torinesi
e in molti stabilimenti del nord. Altre proteste sono già state annunciate
per le prossime ore.
La Cgil, che per bocca del suo segretario
Guglielmo Epifani ha criticato l'accordo separato chiedendo un referendum in
tutti i posti di lavoro, è alla vigilia del congresso nazionale in cui si
confronteranno ipotesi strategiche diverse sul futuro del sindacato. O
prenderà atto della fine dell'unità sindacale, certo non voluta dalla Cgil,
e lavorerà alla costruzione, con i tempi necessari, di nuovi rapporti con
Cisl e Uil, oppure cercherà di rientrare nel gioco, a costo di adeguersi al
nuovo sistema di regole che non sono compatibili con le sue regole, la sua
storia, il comune sentire del suo popolo. Dal canto suo la Fiom ha una
grande colpa: aver deciso che nessun accordo, patto o contratto può essere
siglato senza il consenso dei lavoratori.
Stato-mafia, ecco il papello
di Lirio Abbate
Ecco il primo documento sulla trattativa tra le istituzioni e Cosa nostra
nell'estate delle stragi. Fogli consegnati ai magistrati dal figlio di Vito
Ciancimino
Sono 12 le richieste che i boss di Cosa nostra avanzarono agli uomini
delle istituzioni nell'estate del 1992, fra le stragi Falcone e
Borsellino. Una trattativa che i mafiosi corleonesi avanzarono con lo
Stato per fermare le bombe e la stagione stragista, e arrivare ad una
tregua. I 12 punti formano il 'papello', cioè l'elenco delle richieste
scritte su un foglio formato A4 che adesso Massimo Ciancimino ha
consegnato ai magistrati della procura della Repubblica di Palermo che
indagano sulla trattativa fra Stato e mafia. Ma accanto a questo elenco
spunta a sorpresa un altro 'papello' con le proposte e le modifiche ai
12 punti pretesi dai corleonesi che don Vito Ciancimino avrebbe scritto
di proprio pugno e consegnato all'allora colonnello del Ros, Mario Mori.
Il fatto, inedito, è documentato dal L'espresso con alcune foto dei
fogli in cui si leggono al primo punto i nomi di Mancino e Rognoni; poi
segue l'abolizione del 416 bis (il reato di associazione mafiosa);
"Strasburgo maxi processo" (l'idea di Ciancimino era quella di far
intervenire la corte dei diritti europei per dare diverso esito al più
grande procedimento contro i vertici di Cosa nostra); "Sud partito"; e
infine "riforma della giustizia all'americana, sistema elettivo...".
Su questo "papello" scritto da Vito Ciancimino era incollato un post-it
di colore giallo sul quale il vecchio ex sindaco mafioso di Palermo
aveva scritto: "consegnato al colonnello dei carabinieri Mori dei Ros".
Per gli inquirenti il messaggio è esplicito e confermerebbe il fatto che
ci sarebbe stato una trattativa fra i mafiosi e gli uomini delle
istituzioni.
Mostrare ai giudici l'esistenza del 'papello', rappresenta per i pm una
prova tangibile che la trattativa fra mafia e Stato non solo è esistita,
ma è anche iniziata nel periodo fra l'attentato di Capaci e quello di
via d'Amelio. Per gli inquirenti questo documento, consegnato dal
dichiarante Massimo Ciancimino, che collabora con diverse procure, può
dare il via a nuove indagini. Con l'obiettivo di scoprire fino a che
punto può essere arrivato il tentativo di trattativa rivelato dal figlio
dell'ex sindaco mafioso.
I 12 punti richiesti da Riina e Provenzano, che sono anche questi al
vaglio dei magistrati, si aprono, invece, con la revisione del maxi
processo a Cosa nostra. Gli altri spaziano dall'abolizione del carcere
duro previsto dal 41 bis agli arresti domiciliari per gli imputati di
mafia che hanno compiuto 70 anni. La lista si conclude domandando la
defiscalizzazione della benzina per gli abitanti della regione
siciliana.
La voce della resistenza anti
golpe, dove uomini e donne sfidano le armi pacificamente per
traformare il paese da pollaio degli Usa a democrazia. Alla faccia
della violenza
"In
Honduras c'è stato un colpo di stato il 28 giugno e da allora c'è un
popolo che sta resistendo contro una situazione che noi non abbiamo
voluto, ma nella quale ci hanno obbligato a vivere. La nostra è una
resistenza pacifica. È un popolo che conta arrestati, feriti, morti,
scomparsi. Le cifre ufficiali parlano di 18 morti, ma gli organismi
internazionali in difesa dei diritti umani ne indicano 4 e sono
coloro che hanno perso la vita durante le manifestazioni. Le altre
sono morti extragiudiziali, che necessitano di indagini accurate. I
feriti sono invece 300, da catene di metallo e pallottole. Abbiamo
3000 detenuti illegalmente e 39 persone in sciopero della fame per
protesatare contro la detenzione scattata per aver difeso
nell'Istituto agrario nazionale il proprio diritto alla titolazione
delle terre. Dodici indigene lenca, alcuni minori, hanno ottenuto
asilo politico nell'amabsciata guatemalteca. E c'è un popolo intero
perseguitato in maniera costante. Le accuse principali sbandierate
agli arrestati sono di non rispettare il coprifuoco o, per quelli
del Frente, sedizione".
Usa
parole semplici e ben scandite Betty Matamoros, 47 anni,
responsabile del settore internazionale del Frente contra el golpe
en Honduras. La incontriamo nella sede di Mani Tese, a Milano, e con
pacatezza ci accompagna nelle complesse pieghe delle politica, della
società e delle leggi honduregne, con l'intento di spiegarci dove
andrà il suo popolo, che affronta le pallottole armato di uova e
fantasie di un migliore Honduras possibile.
"Vorrei spiegare cos'è il coprifuoco.
In Honduras abbiamo garanzie individuali di protezione scritte nella
Costituzione e un decreto firmato dal presidente golpista, Roberto
Micheletti, ce le ha tolte. Questo significa che possiamo essere
presi per strada o in casa e violentati nei nostri diritti. Questa
sospensione non è solo per chi resiste, ma per tutto il popolo.
Un'offesa per tutti".
In Honduras, dunque, c'è una
resistenza del tutto pacifica, nonostante i golpisti siano armati
fino ai denti?
"In questo senso è necessario
ripercorrere la storia del Centroamerica, dove sono tre i paesi che
hanno subìto periodi di violenza armata che hanno lasciato sul
terreno innumerevoli morti. Noi honduregni abbiamo imparato da
queste esperienze dei paesi vicini che le armi non sono una
soluzione, bensì organizzarci in maniera pacifica e agire in nome
della non violenza. La resistenza di oggi è nata in trenta anni,
sono trenta anni che stiamo forgiando questo movimento per
affrontare i problemi della nostra regione. Per questo abbiamo
invitato tutti a resistere pacificamente per chiedere cambiamenti
reali e radicali. Abbiamo un paese pieno di diseguaglianze.
L'ottanta percento vivono in povertà e di questo, il 35 vive con
meno di un dollaro al giorno. Eppure il nostro paese è ricchissimo
di risorse naturali, che però vengono godute da pochi. Così come la
terra, la maggioranza è nelle mani di pochissimi e gli altri non
hanno un pezzetto di terra da coltivare per sopravvivere. E'
l'insegnamento della storia che ci ha portato a una forma di
resistenza pacifica e popolare che vuol dire al mondo che noi siamo
capaci di resistere. Se avessimo iniziato una guerra civile, non
staremmo, ora dopo tre mesi, ancora resistendo con un immenso
appoggio popolare. Avremmo già i militari Usa nel paese.
C he ruolo hanno avuto e
hanno, direttamente o indirettamente, gli Stati Uniti nel golpe?
Un vincolo molto forte. La oligarchia
economica Usa ha le mani in pasta in quanto è accaduto. Storicamente
siamo il pollaio degli Usa e se viviamo in questa misera condizione
è perché loro ci tengono in questa situazione. E adesso anche
l'Unione europea vuole adottare il medesimo comportamento con i
paesi centroamericani, negoziando un accordo di libero scambio
simile al Cafta, tanto dannoso per i nostri popoli. Anche se
raccontano che i due accordi commerciali sono distinti, la base che
usano resta il Cafta. Parlano di tre punti: il dialogo politico, ma
in occasione del golpe non hanno partecipato al dialogo politico; la
cooperazione internazionale; e l'aspetto commerciale, ma tutto in un
ottica di libero scambio.
E l'Alba, l'Alternativa
bolivariana per le Americhe promossa da Hugo Chavez, invece?
Dopo l'entrata in vigore del Cafta e la presa di coscienza dei primi
effetti negativi sul paese, i movimenti hanno fatto pressione sul
governo affinché ricercasse un'alternativa. E quale migliore
alternativa se non l'Alba? Quindi l'Honduras ha aderito. Noi
crediamo fermamente nelle riforme sociali che l'Alba promuove.
Certamente ha una parte commerciale, ma non è il libero commercio. E
per questo continuiamo a pensare che l'Alba sia l'unica opzione per
l'America latina. Ma per l'oligarchia economica questo ha voluto
dire tornare indietro rispetto ai vantaggi ottenuti con il Cafta.
L'Alba non permette che la gestione dei fondi sia data in mano ai
privati. Non prevede intermediari. La gente ne attinge direttamente.
E tutto ciò che nasce come idea di riforma del ruolo del popolo le
oligarchie lo definiscono socialismo e entrano nel panico. E per
questo hanno promosso una campagna che avverte che il comunismo sta
avanzando in Honduras, con tanto di slogan: i comunisti mangiano i
bambini! E come bloccare una tale campagna di disinformazione, se il
novanta percento dei mass media è in mano loro? Questo è uno dei più
grandi problemi che abbiamo nel paese, dato che gli unici due mezzi
d'informazione indipendenti che avevamo sono stati chiusi dopo il
golpe.
È appurato che il Movimento
non si può esaurire nella definizione pro Zelaya, inquanto viene da
molto più lontano e non si esaurisce nel sostenere un presidente.
L'obiettivo è infatti ottenere un'assemblea costituente e una nuova
magna charta che rifondi il paese ex novo.
L'idea di un'assemblea costituente in
Honduras non è un'idea nata da Zelaya, ma è una richiesta che i
movimenti sociali e popolari portano avanti dal 2005. Tutto è nato
quando il Cafta ha messo in secondo piano la Costituzione in vigore
violando i diritti del popolo. Quindi, lottiamo per un'assemblea che
possa ribaltare quanto è scritto nel trattato di libero commercio. E
c'è una legge secondaria, a cui ci appelliamo, e che venne
promulgata da Zelaya quando divenne presidente, che codifica la
partecipazione cittadina. L'art. 5 di questa legge dà la possibilità
al presidente di ricevere dal basso proposte di consultazione da
rimettere poi al popolo honduregno. E così che le 40mila firme per
sollecitare una consultazione sull'assemblea costituente hanno
raggiunto Zelaya. Che poi le ha fatte sue e ha iniziato a promuovere
la questione. Questo è stato il suo passo falso: da allora
l'oligarchia ha manipolato la vicenda, dicendo che Zelaya stava
puntando a cambiare la Costituzione per rimanere al potere. Ma è
assurdo.
Una tesi sposata dai
principali media italiani, anche, come Corriere e Repubblica.
In realtà il 28 giugno si sarebbe
chiesto al popolo se era d'accordo o meno a installare una quarta
urna nelle elezioni del 29 novembre. La quarta urna sarebbe servita
per raccogliere l'opinione popolare sul convocare o meno
un'assemblea costituente. Se fosse stato sì, il tutto sarebbe
passato nelle mani del Parlamento, quindi non era vincolante. Cosi,
giuridicamente, non c'era nessun modo per cui Zelaya poteva restare
in carica e lo aveva detto anche pubblicamente che non si sarebbe
ripresentato. C'è di più, durante una riunione dell'Oea a
Tegucigalpa Zelaya aveva addirittura firmato un documento in cui
affermava che mai si sarebbe ricandidato, per questo l'Onu aveva
inviato degli osservatori alla consultazione del 28 di giugno, che
mai ebbe luogo perché quel giorno il presidente della Repubblica
venne sequestrato. In alcuni seggi, in luoghi lontani dalla
capitale, si votò perché la notizia del golpe tardò ad arrivare, ma
dato che i golpistas dissero che tutti coloro che avrebbero
continuato a parlare della consultazione sulla quarta urna erano
penalmente perseguibili, non si è mai saputo il risultato di quelle
poche schede.
Al di là di tutto, voglio precisare che il Frente non è zelaystas,
rinunciamo volentieri a questo titolo, ma siamo convinti che almeno
Mel abbia voltato almeno un po' la testa verso il popolo. Per questo
l'indignazione al golpe è stata così forte. Zelaya viene da un
partito tradizionale, il partito liberale, ma ha teso almeno un dito
della mano verso la gente povera.
E il popolo lo rispetta...
E lo rivuole al posto che gli spetta
di diritto. La resistenza è grande, numerosa, oltre ogni
aspettativa. E questo anche perché anche il più piccolo popolo del
più piccolo paese del Centroamerica ormai ha internet e il
cellulare, e sono strumenti che ci sono serviti molto per
mobilitare, informare, bypassare la censura. In ogni più piccola
comunità honduregna c'è una forma di resistenza al golpe, sempre
pacifica. In alcuni dei più remoti villaggi l'unica maniera per
resistere è tirando le uova contro i politici. Il problema è che in
cambio ricevono le pallottole dalle loro guardie del corpo.
Ma non si arrendono, non ci arrendiamo fino al cambiamento. Ci sono
forme di resistenza tutte nuove, fantasiose come la bullaranga,
ossia la gente se ne va nei propri quartieri e sfida coprifuoco e
militari facendo chiasso e fracasso, e le forze dell'ordine non
hanno modo di azzittirli, perché resistiamo sotto l'egida
dell'articolo 3 della Costituzione, che dice che non dobbiamo
obbedienza agli usurpatori e che ci dà diritto a insorgere. E
abbiamo preso alla lettera questo articolo. E siamo coscienti di
aver danneggiato molto l'oligarchia economica.
Quindi il Fronte contro il
colpo di stato è un entità complessa e variegata?
È un insieme di entità unitesi dopo
il golpe. Comprende artisti, donne organizzate, intellettuali, il
partito politico di Zelaya, i socialdemocratici, il partito di
sinistra, indigeni, afrodiscendenti, e a livello nazionale abbiamo
la Coordinazione nazionale di resistenza popolare, nata nel 2003 con
l'obiettivo di dare un'agenda comune ai movimenti honduregni, e di
cui fa parte anche la Centrale operaia. Una costruzione di lotta che
viene da trent'anni di storia. Con il golpe, ci siamo visti
obbligati a organizzarci. Il popolo ha superato ogni speranza di
movimento popolare nella sua risposta alla resistenza. Ciò che
abbiamo dovuto fare è stato riunire la forza spontanea riversatasi
nelle strade non modo da coordinarla e non far sì che si disperdesse
sotto i colpi dei golpisti. Il nostro primo obiettivo: ordine
istituzionale e costituzionale. Secondo: l'assemblea costituente.
Terzo: rafforzare le organizzazione in difesa dei diritti umani per
punire chi ha violato i nostri diritti, per evitare che si
dimentichi, che cadano impunite queste colpe, in modo che questa
situazione non possa più ripetersi né in Honduras né in America
Latina. Il nostro slogan è "Hanno paura di noi, perché non abbiamo
paura". Ci siamo assunti questo ruolo che ci ha consegnato la
storia, per questo non abbiamo paura. Era importante uscire
dall'Honduras per rompere l'isolamento mediatico internazionale e
raccontare. Per questo sono qui. Per far si che i movimenti sociali
che sostengono la resistenza honduregna continui a denunciare quel
che accade e far pressione sui rispettivi governi, per evitare tutti
insieme che i golpisti non restino impuniti.
Stella Spinelli
16 ottobre
Afghanistan, mazzette del
Sismi ai Talebani
Capi talebani pagati perché non attaccassero i nostri soldati. Lo ha scoperto la
Cia. Lo denuncia oggi Times di Londra
I
servizi segreti italiani pagavano mazzette ai talebani per mantenere tranquille
le zone attorno a Kabul dove, fino al luglio 2008, operavano i soldati del
nostro contingente, per evitare che gli insorti attaccassero le nostre
pattuglie. Tale pratica non venne comunicata ai francesi quando questi
subentrarono nella zona al posto degli italiani: il risultato fu il tragico
attacco talebano del 18 agosto 2008, costato la vita a dieci soldati d'oltralpe.
Lo ha denunciato oggi il Times di Londra, specificando che i pagamenti italiani
ai talebani sono stati scoperti dalla Cia per mezzo di intercettazioni
telefoniche che provavano il ricorso a questo sistema anche nella zona di Herat.
Intercettazioni che nel giugno 2008 - scrive il Times - provocarono anche una
protesta dell'ambasciatore statunitense a Roma, Ronald Spogli.
Sspetti già nel 2007 dopo il rapimento di due agenti del Sismi. Proprio
nella provincia di Herat, come ricorda anche il quotidiano londinese, due agenti
del Sismi erano stati rapiti nel settembre 2007 mentre stavano trattando con dei
capi talebani.
Si trattava dei capi talebani della valle di Zirkoh, nel distretto di Shindand,
dove gli italiani sovrintendevano alla costruzione di un ponte.
Allora era al governo Romano Prodi, e Arturo Parisi era ministro della Difesa.
"Con il mio collega - rivelò poi uno dei due agenti segreti, liberati con un
blitz delle teste di cuoio britanniche - avevo preso contatti con tutti gli
esponenti della valle, compresi i talebani, per assicurare che durante la fase
dei lavori non ci fossero violenze nei confronti degli impiegati della società
costruttrice".
Uno dei due agenti, Lorenzo D'Auria, che era rimasto gravemente ferito durante
la liberazione, morì pochi giorni dopo.
Altro che conquista di cuori e menti'... Secondo una fonte Nato anonima
citata dal Times, "l'intelligence italiana pagava decine di migliaia di dollari
a singoli comandanti degli insorti per evitare vittime che avrebbero causato
problemi politici in patria". "Non ci si può formalizzare su queste cose - ha
commentato un ufficiale alleato a Kabul - perché è sensato comprarsi i gruppi
locali per mantenere bassi i livelli di violenza. Quello che è folle e non
informare di questo i propri alleati".
Altri due ufficiali Nato hanno raccontato al quotidiano britannico che
nell'estate dell'anno scorso le truppe francesi che subentrarono a quelle
italiane nel controllo del distretto di Surobi, a est di Kabul, non sapendo che
i talebani erano stati tenuti buoni dagli italiani a suon di dollari, "pensarono
di trovarsi ad operare in una zona tranquilla, dove gli italiani usavano portare
i giornalisti per mostrare il successo delle loro operazioni umanitarie volte a
conquistare il cuore e le menti degli afgani".
La smentita del governo. La Russa: "Spazzatura". "Ancora una volta il
giornale londinese raccoglie spazzatura", la secca smentita del ministro della
Difesa, Ignazio La Russa. "Il Governo Berlusconi - aggiunge una nota di Palazzo
Chigi - non ha mai autorizzato né consentito alcuna forma di pagamento di somme
di danaro in favore di membri dell'insorgenza di matrice talebana in
Afghanistan, né ha cognizione di simili iniziative attuate dal precedente
governo. A riprova di ciò, è sufficiente ricordare che soltanto nella prima metà
dell'anno 2008 i contingenti italiani schierati in Afghanistan hanno subito
numerosi attacchi e, specificamente nell'area del distretto di Surobi, il 13
febbraio 2008, nel corso di uno di questi è rimasto ucciso il Sottotenente
Francesco Pezzullo. Si esclude altresì - prosegue la nota - che l'ambasciatore
degli Stati Uniti a Roma abbia, all'inizio del mese di giugno 2008, inoltrato al
governo italiano un formale reclamo da parte del suo Paese in relazione ad
ipotetici pagamenti in favore dell'insorgenza talebana".
Enrico Piovesana
14 ottobre
Omofobia: tutta casa e Chiesa
di Ilaria Donatio
Quando il prete azzurro Giovanni Baget Bozzo, nel lontano duemila, rivelò di
aver provato “sentimenti omosessuali”, la Chiesa reagì con fermezza chiarendo,
con le parole dell’allora segretario di Stato vaticano, cardinale Angelo Sodano,
di “rispettare tutti, di amare tutti”, ma che “non le si poteva chiedere di
chiamare bene il male”. Don Baget Bozzo ridimensionò immediatamente la portata
del proprio “male”, semplicemente smentendolo.
La gerarchia vaticana ha tanto timore dell’omosessualità da non riuscire neppure
a distinguerla dall’omofobia, dunque, dalle forme di razzismo, violenza e
avversione nei confronti di gay, lesbiche, bisessuali e transessuali (glbt).
Alla manifestazione contro tutti i razzismi dello scorso 24 settembre, indetta
in seguito ai ripetuti episodi di omofobia degli ultimi mesi, il Vicariato
romano era rappresentato dal nuovo direttore della Caritas diocesana di Roma,
monsignor Enrico Feroci, ma quando MicroMega ha contattato il monsignore per
conoscere le ragioni di quella adesione e sollecitare una riflessione
sull’omofobia, il portavoce del Vicariato ha spiegato che la presenza alla
manifestazione era giustificata dal suo carattere di “genericità” (il no al
razzismo) e che sull’omofobia non poteva dire nulla in quanto la Chiesa non ha
“una posizione ufficiale” a riguardo. Vale a dire: va bene il no al
razzismo solo se è di principio, dunque inoffensivo, quanto ai gay possono
continuare a essere discriminati (ma in silenzio!).
L’omofobia và a messa
“È imbarazzante che il Vaticano dichiari di non avere una posizione ufficiale
sull'omofobia: sarebbe naturale che operasse almeno un distinguo tra omofobia e
omosessualità”. Parla Andrea Rubera, consigliere di Nuova Proposta, associazione
laica che opera nella capitale da quindici anni e che riunisce uomini e donne
omosessuali cristiani: “Ci sono moltissimi omosessuali credenti che si
nascondono, non rivelano la propria identità sessuale e continuano a frequentare
i normali ambiti parrocchiali o i movimenti cristiani”.
“Alcuni giorni fa”, racconta, “abbiamo inaugurato il nostro anno sociale con un
primo incontro. È venuta una coppia di ragazze lesbiche: una molto interessata,
l’altra che, visibilmente, mostrava enorme disagio a stare con un gruppo di
persone che si definivano cristiane. Alla fine, sono andate via perché la
seconda non tollerava di essere in un posto di persone che, definendosi
cristiane e con il dono della fede, secondo lei, appoggiavano la ‘Gerarchia
Vaticana’ anche nelle esternazioni omofobe”.
La contraddizione esiste, in effetti, almeno da uno sguardo esterno. Ma si
riesce a cogliere anche il dolore di chi deve gestirla: “Ci fa soffrire il non
poter essere visibili all’interno della comunità di credenti: pensiamo che la
spiritualità sia una questione con cui ogni essere umano debba fare i conti ed
essere ridotti a fantasmi da quella stessa Chiesa cui sentiamo di appartenere, è
mortificante. Ciò nonostante il messaggio di Cristo per noi non è rinunciabile,
perché l’omosessualità è dono di Dio”.
Ma l’omofobia, precisa Andrea, “non è solo violenza”: il ragazzo accoltellato
vicino al gay village romano o le bombe carta scagliate sulla folla della gay
street, sono certamente il sintomo di un “clima peggiorato” ma, chiede, è questo
il problema? “Noi crediamo di no”, si risponde subito, “e non per sottovalutare
gli ultimi fatti omofobi: purtroppo, ora se ne parla di più perché hanno fatto
più notizia e forse anche perché qualcuno ha esagerato, ha calcato troppo la
mano”. “La violenza è la causa, non il sintomo” e “se il sindaco di Roma, da una
parte solidarizza con la comunità gay e dall’altra afferma che ‘non tutti gli
amori devono essere riconosciuti’, beh, lui è omofobo”.
Il “tema”, dunque, è un altro: è pretendere “uguali diritti, riaffermare il no
ai ghetti, poter andare in ogni posto”, e non “accontentarsi di ottenere
maggiore sicurezza nella gay street”.
Il punto è “essere visibili” per Andrea che, in fondo, chiede solo di poter fare
“vita di parrocchia” e ne avrebbe il diritto, visto che è credente. Ma il prezzo
è sempre lo stesso: l’invisibilità, esserlo ma non dirlo. Nel frattempo, i gay
cristiani della capitale si danno appuntamento in una Chiesa valdese.
Un numero verde aiuta Gay Help Line è il contact center antiomofobia del Comune di Roma
sostenuto anche dalla Provincia e dalla Regione Lazio.
Secondo i dati raccolti, nei primi sei mesi del 2009, si è assistito a un
costante aumento, rispetto all’anno precedente, dei contatti ricevuti da Gay
Help Line: una media di oltre 2 mila contatti mensili, con picchi sino a
circa 4 mila, nei mesi di aprile e maggio.
“Le segnalazioni di discriminazioni e violenze omofobe”, spiega il presidente
Fabrizio Marrazzo, “sono raddoppiate (da mille a duemila al mese), intanto,
perché finalmente c’è uno strumento a cui rivolgersi e ottenere consulenza
(psicologica, legale, medica) gratuita”. Ma quello che è cambiato, secondo
Marrazzo, è il tipo di reati commessi ai danni di gay e lesbiche: “C’è una
maggiore aggressività negli ultimi tempi, forse perché, chi li commette, si
sente indirettamente legittimato dalla destra che continua a seminare
insicurezza nei confronti del diverso, chiunque sia”.
Ma è un altro il dato importante che emerge dall’analisi dei casi denunciati al
numero verde: come per le violenze sulle donne, anche la gran parte delle
aggressioni ai danni di ragazzi omosessuali, tutti giovanissimi, si consuma in
famiglia. Ben il 32 per cento di chi contatta il numero verde anti-omofobia ha
meno di 18 anni (il 46% è di sesso maschile, il 42% di sesso femminile, il 4% è
transessuale). Questo dato spiega il perché le violenze consumate in famiglia,
spesso, non emergano: “Raramente il figlio arriva a denunciare il genitore,
proprio per via del rapporto di amore-odio che continua a legarlo a lui,
nonostante le violenze”, spiega Marrazzo.
Quanto alla provenienza geografia, si nota la marcata predominanza delle regioni
centrali, con il 38 per cento di telefonate. Altro elemento di un certo
interesse è la “categoria di chiamate”, vale a dire, la ragione che spinge a
contattare il contact center. Aumentano i contatti per richiedere consulenza
legale (l’11 per cento del totale): lesbiche e gay sono tra i primi, infatti, ad
aver subito licenziamenti, a causa della crisi economica (vi è stato, ad
esempio, un incremento di casi di mobbing del 20 per cento e del 3 per cento di
discriminazioni sul lavoro). Quanto a chi chiama per “ragioni sociali”, circa il
40 per cento, sempre più giovani denunciano problemi a scuola o in famiglia e i
ragazzi che lamentano problemi psicologici (circa il 34 per cento delle
chiamate) sono aumentati, rispetto al 2008, del 3 per cento.
Familismo amorale
Potremmo andare avanti molto a lungo, fornendo dati e cifre molto accurati,
tutti di non difficile interpretazione: il vero nemico da riconoscere e
combattere nella lotta all’omofobia, è l’ignoranza. Famiglie apparentemente “per
bene”, dice Marrazzo, che prima di conoscere la reale problematica dei propri
ragazzi, a parole, si dichiarano molto tolleranti e politicamente corrette nei
confronti del mondo omosessuale, per poi arrivare a “punire” il figlio o la
figlia che fa outing: nel migliore dei casi, rimuovendo il “problema” e
facendo finta di nulla. Nel peggiore, con le botte, con i calci, i pugni e le
armi.
Colpisce la violenza, certo, ma soprattutto l’ignoranza di questi padri e queste
madri che, magari, santificano la domenica e si scambiano pure il segno della
pace. La stessa ignoranza che ha portato il padre di Massimo, giovane docente di
storia e filosofia, a intimargli di utilizzare asciugami diversi dal proprio.
Lui ora è in terapia da anni, per questa e altre violenze. Mai denunciate.
E “Ignora(n)ti” è il nome dell’iniziativa di cui si è fatto promotore il circolo
di cultura omosessuale Mario Mieli: quella di leggere, davanti alla Camera dei
deputati, alcune pagine di libri che nei secoli hanno raccontato “l’amore
omosessuale, saggi che raccontano la normalità del nostro amore e delle nostre
famiglie, che parlino di noi, delle nostre vite, dei nostri desideri e delle
nostre istanze”. “Il vero nemico delle persone glbt non è la violenza ma
l’ignoranza e per combatterla servono impegno e cultura”, spiegano.
Girotondi gay
“We have a dream”: prende in prestito le parole pronunciate da Martin Luther
King in occasione della storica marcia per il lavoro e la libertà dei neri
americani, il nuovo fenomeno dei “micropride” spontanei. “Persone che
spontaneamente si aggregano per proclamare il loro sogno di libertà: libertà
dalla violenza, dal razzismo, dell’omofobia e della transfobia”, racconta
Federico Boni, responsabile della redazione romana del sito d’informazione gay
più accreditato e famoso d’Italia nonché
blogger d’eccezione.
Un movimentismo diverso, spontaneo, alimentato dal desiderio di normalità, di
essere e farsi presenti. Ma anche di slegarsi da targhe e sigle. Federico è
molto severo con la comunità gay: “Le diverse sigle che dovrebbero
rappresentarla”, dice, “in realtà, non rappresentano più nessuno, impegnate come
sono a farsi la guerra tra loro”. E ritorna sulla questione della visibilità:
“Non vogliamo zone a traffico limitato per poi arrenderci a essere fantasmi,
relegati in un cono d’ombra, magari, pure protetto da due petardi lanciati da
qualche cretino, ma pur sempre una riserva indiana”. “Perché devo andare
all’estero per vedere riconosciuti i diritti che qui mi negano e per fare una
vita normale, senza aver nulla da temere?”. Già, perché?
Gay di destra
“Chi aggredisce una coppia omo-affettiva o un transessuale, è cretino oppure
ignorante”. Non c’è un “problema politico”, dunque, per Daniele Priori,
vicepresidente dell’associazione Gaylib, i gay “liberali di centro-destra”.
Daniele parla infatti di veri e propri “episodi di delinquenza”.
Si stima che il 40 per cento dei gay votino per il centro-destra: se il 5 per
cento della popolazione è gay (pari a 2 / 3 milioni di abitanti) e se si sottrae
da questa cifra chi non vota, possiamo stimare che circa un milione di gay
italiani vota per questa parte politica.
Ma che rapporto hanno, loro, con questa maggioranza di governo? E come fanno a
votarla, quando se va bene, questo centro-destra neppure li riconosce in quanto
“soggetti di diritto” e, quando va male (vale a dire molto spesso), li insulta:
“Un rapporto certamente dialettico: le persone comuni, di idee liberali, sono
molto più intelligenti e concrete dei nostri ‘nominati’, questo è certo!”.
“Un centro-destra rivoluzionario che finalmente si pone di pari passo alle
formazioni simili del resto d’Europa?”. Non ci crede troppo Oliari, presidente
di Gaylib, secondo cui una legge antiomofobia pare essere “la battaglia più
importante (e forse la sola rimasta) del movimento omosessuale italiano”:
l’unica che fino ad oggi abbia “trovato disponibilità presso la maggioranza di
centro-destra”. In realtà, per Oliari, si tratterebbe della “conquista meno
costosa in termini politici”.
“Davvero crediamo”, chiede, “che una legge contro l’omofobia sortirebbe
l’effetto di fermare la mano dell’omofobo violento”? E conclude: “Solo nelle
società in cui i gay sono percepiti come persone normali si ha un reale
decremento del tasso di omofobia e questo avviene dove gli omosessuali hanno i
diritti e i doveri di tutti, dove non è lo Stato per primo a ritenerli cittadini
di serie B o, peggio, peccatori immorali”.
Una leggina. Per iniziare
Paola Concia, la deputata del Pd che per prima, un anno fa, ha presentato una
proposta di legge per combattere l’omofobia, concorda: “È vero, prima ancora di
una legge che combatta le discriminazioni ai danni di persone omosessuali,
sarebbe necessario che lo Stato riconosca loro uguali diritti”. Ma nel
frattempo, “che si fa? Si sta ad aspettare che qualcosa avvenga o si lavora per
ottenerlo?”, chiede.
Intanto, qualcosa si muove.
Lo scorso 2 ottobre la commissione Giustizia della Camera ha concordato il testo
base della legge anti-omofobia, di cui è relatrice la Concia. Un iter
interminabile a quanto pare: “Si è cominciato a parlare, in Parlamento, di
omofobia nel 2002 e da oltre due anni le associazioni gay denunciano casi di
discriminazioni, aggressioni e violenze quotidiane”, sottolinea la Concia.
Il testo ha raccolto i voti di Pd, Pdl e Lega, mentre si sono espressi contro
Idv (che aveva presentato una proposta di legge autonoma) e Udc.
L’ipotesi originaria di estendere la legge Mancino del ’93 - “Misure urgenti in
materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa” - ai reati commessi in
ragione dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere, è naufragata. Ha
detto no il Popolo delle libertà, temendo che si potesse configurare un reato di
opinione e che la semplice manifestazione di pensiero potesse dare luogo al
reato d’opinione (con la Lega perseguita, una frase sì e una no, per istigazione
all’odio!). La soluzione adottata, dunque, è stata quella, alla francese,
dell’aggravante sessuale: un articolo che aggiunge la discriminazione sessuale
tra le aggravanti di reato previste nel codice penale.
Per l’Italia dei Valori il “compromesso” raggiunto da Pd e Pdl non darebbe “una
risposta adeguata ad un fenomeno di gravità enorme”. Ma è la cattolicissima
Unione di Centro che si distingue per le ragioni del no: “Chi subisce violenza a
causa del suo orientamento sessuale”, spiega durante il dibattito in Commissione
l’onorevole Roberto Rao, “riceverebbe una protezione privilegiata rispetto alla
vittima di violenza tout court, con conseguente violazione del principio di
uguaglianza”.
Nel frattempo, è saltata anche l’indicazione dell’identità di genere che serviva
a tutelare i transessuali, i più colpiti dalle discriminazioni e violenze.
“Anch’io avrei voluto un altro testo”, spiega la Concia, “ma questo è il massimo
che si poteva ottenere con questa maggioranza (non abbiamo né la Merkel né
Sarkozy in Italia!): quanto alla lotta alla transfobia, troveremo certamente una
soluzione con gli emendamenti”.
Paola Concia è andata fino a Casa Pound, famoso centro sociale neofascista, a
discutere di diritti civili: per questo è stata molto criticata dai compagni di
partito. “Non si capisce dalle mie parti il perché abbia accettato l’invito di
Casa Pound: forse perché loro sono destra fascista, estremista, sono degli
impresentabili, non da salotto buono? Perché non avrei dovuto accettare un
invito da un’associazione di destra che si vuole porre il problema della sua
cultura politica verso i diritti civili? Forse l’unica ragione per cui non sarei
dovuta andare a Casa Pound è che ho tanto lavoro ancora da fare in casa mia,
dove devo convincere la Binetti che non sono malata e tanti altri dirigenti che
le coppie di fatto non fanno male al matrimonio e, infine, che l’omosessualità
non è una scelta”.
La vedova Borsellino ai pm
"Ecco tutti i sospetti di Paolo"
di ATTILIO BOLZONI e FRANCESCO VIVIANO
Paolo Borsellino
con la moglie
HA PARLATO come non aveva
fatto mai, dopo diciassette anni. Per dire tutto. Il suo interrogatorio è
cominciato così: "Avevo paura, non tanto per me ma avevo paura per i miei
figli e poi per i miei nipoti. Adesso però so che è arrivato il momento di
riferire anche i particolari più piccoli o apparentemente insignificanti". È
la vedova che ricorda gli ultimi due giorni di vita di Paolo Borsellino. È
la signora Agnese che spiega ai magistrati di Caltanissetta cosa accadde
nelle 48 ore precedenti alla strage di via Mariano D'Amelio.
Il verbale di interrogatorio è di poco più di un mese fa, lei da una parte e
i procuratori di Caltanissetta Sergio Lari e Domenico Gozzo dall'altra. Lei
si è presentata spontaneamente per raccontare "quando Paolo tornò da Roma il
17 di luglio". Il 17 luglio 1992, due giorni prima dell'autobomba. Paolo
Borsellino è a Roma per interrogare il boss Gaspare Mutolo, un mafioso della
Piana dei Colli che aveva deciso di pentirsi dopo l'uccisione di Giovanni
Falcone. È venerdì pomeriggio, Borsellino lascia il boss e gli dà
appuntamento per il lunedì successivo.
Quando atterra a Palermo non passa dal Tribunale ma va subito da sua moglie.
"Mi chiese di stare soli, mi pregò di andare a fare una passeggiata sulla
spiaggia di Villagrazia di Carini", ricorda la signora Agnese. Per la prima
volta in tanti anni il procuratore Borsellino non si fa scortare e si
concede una lunga camminata abbracciando la moglie. Non parlava mai con lei
del suo lavoro, ma quella volta Paolo Borsellino "aveva voglia di sfogarsi".
Racconta ancora la signora Agnese: "Dopo qualche minuto di silenzio, Paolo
mi ha detto: 'Sai Agnese, ho appena visto la mafia in faccia...'". Un paio
d'ore prima aveva raccolto le confessioni di Gaspare Mutolo. Su magistrati
collusi, su superpoliziotti che erano spie, su avvocati e ingegneri e medici
e commercialisti che erano al servizio dei padrini di Corleone. Non dice
altro Paolo Borsellino. Informa soltanto la moglie che lunedì tornerà a
Roma, "per interrogare ancora Mutolo".
Il sabato passa tranquillamente, la domenica mattina - il 19 luglio, il
giorno della strage - il telefono di casa Borsellino squilla. È sempre
Agnese che ricorda: "Quel giorno, molto presto, mio marito ricevette una
telefonata dell'allora procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco. Mi
disse che lo "autorizzava" a proseguire gli interrogatori con il pentito
Mutolo che, per organizzazione interna all'ufficio, dovevano essere
gestiti invece dal procuratore aggiunto Vittorio Aliquò".
Lo sa bene Paolo Borsellino che sta per morire. E ai procuratori di
Caltanissetta Agnese l'ha ribadito un'altra volta: "Paolo aveva appreso
qualche giorno prima che Cosa Nostra voleva ucciderlo".
Un'informazione che arrivava da alcune intercettazioni ambientali "in un
carcere dov'erano rinchiusi dei mafiosi". Una minaccia per lui e per
altri due magistrati, Gioacchino Natoli e Francesco Lo Voi. Ricorda
sempre la vedova: "Così un giorno Paolo chiamò i suoi due colleghi e
disse loro di andare via da Palermo, di concedersi una vacanza. Li
consigliò anche di andare in giro armati, con una pistola". Gioacchino
Natoli e Lo Voi gli danno ascolto, ma lui - Borsellino - rimane a
Palermo. Sa che è condannato a morte. E ormai sa anche della
"trattativa" che alcuni apparati dello Stato portano avanti con Riina e
i suoi Corleonesi. Ufficiali dei carabinieri, quelli dei Ros, il
colonnello Mario Mori - "l'anima" dei reparti speciali - e il fidato
capitano Giuseppe De Donno. Probabilmente, questa è l'ipotesi dei
procuratori di Caltanissetta e di Palermo, Paolo Borsellino muore
proprio perché contrario a quella "trattativa".
Nella nuova inchiesta sulle stragi siciliane e sui patti e i ricatti con
i Corleonesi, ogni giorno scivolano nuovi nomi. L'ultimo è quello del
generale Antonino Subranni, al tempo comandante dei Ros e superiore
diretto di Mori. Un testimone ha rivelato ai procuratori di
Caltanissetta una battuta di Borsellino: "L'ha fatta a me personalmente
qualche giorno prima di essere ammazzato. Mi ha detto: 'Il generale
Subranni è punciutu" (cioè uomo di Cosa nostra ndr)...'".
Un'affermazione forte ma detta nello stile di Paolo Borsellino, come
battuta appunto. Cosa avesse voluto veramente dire il procuratore, lo
scopriranno i magistrati di Caltanissetta. La frase è stata comunque
messa a verbale. E il verbale è stato secretato.
Il nome del generale Subranni è affiorato anche nelle
ultime rivelazioni di Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito. Nella
sua intervista a Sandro Ruotolo per Annozero (però questa parte non è
andata in onda ma è stata acquisita dalla procura di Caltanissetta),
Massimo Ciancimino sosteneva: "Mio padre per la sua natura corleonese
non si è mai fidato dei carabinieri. E quando il colonello Mori e il
capitano De Donno cercano di instaurare questo tipo di trattativa, è
chiaro che a mio padre viene il dubbio: ma come fanno questi due
soggetti che di fatto non sono riusciti nemmeno a fare il mio di
processo (quello sugli appalti ndr) a offrire garanzie concrete?...". E
conclude Ciancimino: "In un primo momento gli viene detto che c'è il
loro referente capo, il generale Subranni...". È un'altra indagine
nell'indagine sui misteri delle stragi siciliane.
Dopo il Lodo, la piazza
di Edmondo Berselli
È stata una sentenza
durissima. E adesso Silvio Berlusconi è pronto a scatenare i suoi. Per
continuare con ogni mezzo la sfida alle istituzioni
La puntata di 'Porta a Porta' del 7 ottobre
È stata una sentenza durissima, praticamente spietata. La nettissima
bocciatura a cui la Corte costituzionale ha sottoposto il Lodo
Alfano è la prima vera e grande sconfitta politica di Silvio
Berlusconi. Al confronto, sbiadisce persino la caduta del suo
governo nel 1994, dopo solo sette mesi. La sentenza della Consulta è
stata motivata nitidamente in punto di diritto, e non è possibile
attribuirle una intenzione strumentale o politica. Indica un
riferimento all'articolo 3, cioè al principio di uguaglianza dei
cittadini, oltreché una sciatta violazione dell'articolo 138 della
Carta costituzionale, nel senso che una legge di quella portata
implicava un iter di modificazione costituzionale, e non una legge
ordinaria.
Bocciatura senza appello, dunque. Tuttavia, anche se la politica è
rimasta fuori dal palazzo della Consulta, gli effetti del verdetto
sul Lodo configurano una situazione potenzialmente distruttiva per
il premier e per l'alleanza di destra, e quindi colpi di coda a non
finire. Verrebbe anzi da dire: chi è causa del suo mal pianga se
stesso, oppure: chi semina vento raccoglie tempesta, dato che i
vertici del centrodestra e lo staff di avvocati del Cavaliere hanno
contribuito in modo addirittura stravagante a drammatizzare la
decisione sulla legge Alfano. Per dire, ancora nel pomeriggio della
sentenza, Umberto Bossi aveva minacciato di "trascinare il popolo"
nelle piazze in caso di bocciatura del Lodo, esercitando una
pressione inaudita sulla Corte. A sua volta la pancia del Pdl si
scatenava nei blog e nei siti del centrodestra sostenendo più o meno
che "quindici parrucconi non fermeranno il popolo". Ma l'aspetto più
inquietante sul piano istituzionale era stata l'offensiva messa in
campo dagli avvocati che sostenevano la causa di Berlusconi e
dell'immunità per il premier e le principali cariche pubbliche:
lasciamo pur perdere la posizione dell'avvocatura dello Stato, che
aveva offerto motivazioni di puro realismo politico, preferendo
nelle proprie argomentazioni le opportunità della politica
spicciola, e favorevole al capo del governo, al rigore giuridico
(anche questa è una sconfitta nella sconfitta, e una sostanziale
scalfittura nella credibilità per quell'alto ufficio).
Ciò che invece è risultata sorprendente, fino ai limiti
dell'incredibile, è stata la strategia di Niccolò Ghedini e Gaetano
Pecorella, i due super professionisti che assistevano Berlusconi
nell'affaire del Lodo. Ghedini e Pecorella hanno sostenuto che la
Costituzione materiale aveva modificato, praticamente fino a
travolgerla, la Costituzione formale. Ghedini si è spinto fino ad
argomentare il sofisma secondo cui la legge è effettivamente uguale
per tutti, ma può essere diseguale la sua applicazione, a seconda
del soggetto che ne è coinvolto. Più "ad personam" di così si muore.
Con maggiore sofisticazione giuridica, ma con esiti virtualmente
travolgenti per l'assetto istituzionale, Pecorella ha sostenuto che,
in seguito alla legge elettorale universalmente conosciuta come ?Porcellum?,
il premier viene "eletto " dal popolo, senza mediazioni
parlamentari, e quindi la sua diventa una funzione apicale,
superiore a quella degli altri ministri: il primo ministro diventa,
secondo Pecorella, non più un "primus inter pares", bensì un "primus
super pares", meritevole quindi di un trattamento particolare
nell'ordinamento generale. La tesi era insostenibile, proprio in
quanto investiva la natura e la fisionomia stesse della Repubblica,
che resta di tipo parlamentare, in cui il premier deve ricevere
l'incarico dal Quirinale, e raccogliere la fiducia in Parlamento. Ma
il "lodo Pecorella", se possiamo chiamarlo così, rivelava l'intento
di forzare i limiti e i confini dell'apparato costituzionale,
"sfondando" in modo plebiscitario l'impianto della Carta. Può essere
proprio questa tesi a far inclinare il giudizio della Corte verso la
bocciatura. E dovrebbe essere evidente che questa strategia
preparava lo sfondo per il conflitto prossimo venturo.
Perché è chiaro che Berlusconi e le sue truppe si stanno preparando
alla guerra, e che la guerra comincerà immediatamente. Il Cavaliere
è sotto attacco da parte della magistratura milanese, per il
processo Mills (corruzione in atti giudiziari) e per i fondi neri
nella compravendita di diritti cinematografici e tv; a Roma per il
tentativo di acquisire il voto di alcuni senatori per far cadere il
governo Prodi. Per la prima volta il premier rischia, soprattutto
nel caso Mills, una condanna penale che potrebbe risultare
devastante per la sua immagine, sul piano interno e sul piano
internazionale. Che cosa farà quindi Berlusconi? A quanto si
capisce, dopo avere dichiarato che nella Corte costituzionale
"undici giudici sono di sinistra", è pronto ad andare "à la guerre
comme à la guerre" e a "sbugiardare " i suoi nemici. "Vado avanti":
aveva già cominciato ad agitare i sondaggi di Euromedia, che gli
assicurano un consenso mai visto, garantito dalla sua cappa
mediatica.
E quindi il suo piano bellico è facilmente descrivibile. Un uomo
solo, ricco, amato e odiato, ma unto dalla "doccia di schede
elettorali" si sente in grado di sfidare istituzioni e convenzioni
della Repubblica. È un progetto iper-populista, con modalità ed
esiti virtualmente peronisti. Berlusconi è come sempre pronto a
sfidare l'universo mondo, la sinistra, i comunisti, i magistrati
rossi, la stampa di sinistra, la televisione che fa opposizione,
senza curarsi minimamente dei danni pubblici che la sua azione può
provocare. Va da sé, allora, che lo scenario che si presenta davanti
ai cittadini è un panorama di rovine, potenzialmente catastrofico.
Ridiventano fin troppo evocative le immagini finali del "Caimano" di
Nanni Moretti, con i fuochi appiccati dai supporter del
protagonista.
Certo non c'è da confondere la finzione con la realtà; ma per
evitare sovrapposizioni disastrose fra i due livelli occorre una
eccezionale saldezza degli apparati istituzionali e
dell'establishment nazionale. Mentre sulla tenuta delle istituzioni
si può nutrire una certa fiducia, visto che la stessa sentenza della
Consulta testimonia positivamente in questo senso, e che comunque
sull'ultimo Colle la presenza e la coerenza di Giorgio Napolitano
offrono garanzie, il problema principale riguarda l'atteggiamento
delle élite. In una condizione di paese normale, il premier si
dimetterebbe e affronterebbe i processi che lo attendono. Sarebbe
legittimo da parte sua cercare di mobilitare i suoi fan e tuffarsi
nel grande gioco delle elezioni anticipate. Ma ci sono troppi
vincoli, istituzionali e comportamentali, che coinvolgono il ruolo
dei presidenti delle Camere e la funzione attiva del capo dello
Stato. Tuttavia tocca soprattutto ai circuiti formali e informali
del potere, a tutti i livelli, cercare di stabilizzare una
situazione fortemente critica. Se l'establishment italiano
accettasse di schierarsi secondo il modulo berlusconiano,
dividendosi in modo cruento e sposando la causa dello scontro
totale, si potrebbe anche chiudere bottega, in attesa della fine
della bufera.
Conviene augurarsi che per una volta la vischiosità del potere in
Italia rappresenti un freno alla guerra civile ideologica che Silvio
Berlusconi ha già dichiarato. Sembrerà stravagante appellarsi
all'anima andreottiana o dorotea della nostra società; ma quando la
situazione si colora di drammaticità è naturale aggrapparsi a tutto,
anche alla prudenza e alle cautele che in passato hanno impedito un
cambiamento fruttuoso. Qui e ora, probabilmente, c'è soltanto da
provare a salvare un paese.
Cheese Connection
Si apre a Cremona il
processo che riguarda uno degli scandali alimentari più gravi degli
ultimi anni. A giudizio Domenico Russo, il titolare di un'azienda di
lavorazione di prodotti caseari, la Tradel, che utilizzava merce scaduta
per un 'semilavorato' che poi finiva di nuovo sulle tavole degli
italiani sotto forma di formaggi filanti.
Ecco i video, le immagini e i verbali delle fiamme gialle che
documentano cosa avveniva. Altroconsumo è parte offesa nel processo
Tonnellate di chili di formaggio e mozzarella, scaduti da tempo,
coperti di muffe e persino pullulanti di vermi, custoditi tra i
topi. Merce da buttare via, trasformata invece in nuovo
formaggio per le tavole degli italiani. Un'operazione
sistematica, condotta per danni da una rete di aziende sparse su
tutto il territorio nazionali, disposte a violare le regole fiscali
e sanitarie per aumentare il guadagno ai danni dei consumatori: vi
hanno preso parte colossi nazionali e ditte familiari, dalla Sicilia
alla Germania, con la centrale della truffa nel cuore del distretto
caseario della pianura padana.
E oggi a Cremona prende il via il processo per questo scandalo.
Dieci le persone rinviate a giudizio, tra imprenditori e funzionari
pubblici della Asl. Contestati i reati di adulterazione di sostanze
alimentari, abuso d'ufficio e falso in atto pubblico. Al di fuori
delle responsabilità penali, i video, le foto, le
intercettazioni e i documenti che potrete leggere ed ascoltare
dimostrano come la produzione sia proseguita in condizioni
vergognose. E sia stata portata avanti per anni, almeno dal
2004 al 2007.
Scarti di prodotti lattiero-casearia, destinati alla discarica o a
essere trasformati in mangimi per animali, sono invece stati
mescolati ad altri formaggi e fatti ritornare nella catena
distributiva: li lavoravano senza nemmeno toglierli dalle buste. E
quanto un prodotto era scaduto, si cambiava l'etichetta. Perché ?
come dice una segretaria nelle intercettazioni che potrete ascoltare
? "tutta la merce che vi mandiamo è scaduta".
L'attività sotto accusa, documentata dal 2004 al 2007, aveva
risvolti nauseabondi: scarti di prodotti lattiero-caseari, destinati
allo smaltimento o all'alimentazione animale, trattati e mescolati a
formaggi destinati al consumo umano e reimmessi nella catena
distributiva. La Guardia di finanza, che per prima ha fatto luce sul
mercato degli scarti, ha potuto documentare
l'utilizzo di prodotti avariati e l'amalgama con muffe,
inchiostri, residui di plastica, vermi, escrementi di roditori.
Secondo l'accusa, gli amministratori e i responsabili delle due
società accusate dell'attività di adulterazione, la Tradel srl e la
Megal spa, hanno potuto agire indisturbati grazie alla connivenza di
cinque funzionari pubblici del dipartimento di prevenzione
veterinaria dell'Asl di Cremona. Controllato e controllore come topi
nel formaggio, dati i guadagni che provenivano dal riciclaggio degli
scarti. L'associazione Altroconsumo è parte offesa nel
processo ed è presente in aula. Commenta il presidente Paolo
Martinello: "In questa vicenda sono stati ridotti in poltiglia la
tutela della salute dei consumatori, le regole nell'agire di imprese
produttive e distributive, il ruolo di garante e controllore
super-partes dell'azienda sanitaria pubblica".
Nelle prigioni britanniche quasi il 10 percento dei detenuti
è un reduce di guerra
In Gran Bretagna, l'8,5 percento della popolazione carceraria è
composta da ex veterani dell'esercito. La preoccupante statistica è
emersa da uno rapporto pubblicato dalla Napo (National Association
of Probation Officers), organizzazione che monitora le condizioni
dei carcerati britannici. Tra coloro che hanno prestato servizio
nelle Forze Armate di Sua Maestà, 8.500 sono in prigione, mentre
12.000 sono il libertà vigilata. Il rapporto conferma un analogo
studio realizzato dal ministero della Difesa britannico, che
individua tra il 6 e il 16 percento gli ex soldati detenuti.
Le
informazioni sono state raccolte nel corso dell'estate, in 62 uffici
della Napo in Inghilterra e Galles. I soggetti presi in esame sono
un centinaio di ex militari, la maggioranza dei quali ha preso parte
a missioni che vanno dalla guerra nelle Falklands/Malvinas al
recente conflitto afgano. La quasi totalità degli ex-soldati ha
storie di alcol, droga, ed è finita in carcere per crimini legati a
comportamenti violenti in relazione diretta con l'uso - o l'abuso -
di tali sostanze. Così come quasi tutti hanno sofferto a un certo
punto di disturbi da stress post traumatico (Ptsd) o depressione, e
che pochi hanno ricevuto consulenza o assistenza dopo il congedo. La
Napo punta anche il dito contro la giustizia, indicando, tra le
maglie rotte di un sistema che vede più militari in prigione (o in
libertà vigilata) che in missione all'estero, l'incapacità di
riconoscere le condizioni di grave stress psicologico o l'urgenza di
un trattamento sanitario. Purtroppo, l'incarcerazione degli
ex-militari rappresenta solo l'ultima tappa di un processo che
inizia dal momento in cui, per un motivo o l'altro, lasciano
l'esercito. Non esiste un Ispettorato delle Forze Armate che
intervenga quando il militare viene congedato. "Se i servizi di
supporto psicologico fossero stati attivati per valutare le
condizioni dei soggetti - spiega Harry Fletcher, assistente al
Segretario della Napo - la detenzione si sarebbe evitata nella
grande maggioranza dei casi".
Emblematica, tra le tante storie raccolte dal Napo, è quella di
un ex-soldato di appena 23 anni, del Reggimento paracadutisti. Dopo
aver svolto due missioni in zone di guerra, ha lasciato l'esercito
nel 2005. Dopo il congedo, è stato condannato sette volte, cinque
delle quali al carcere. Ha raccontato al Napo di non essere stato in
grado di riadattarsi alla vita da civile nel Regno Unito, perchè -
nelle sue parole - "era impossibile dimenticare la devastazione,
l'orrore e lo stress della guerra, e poter conciliare questi ricordi
con una vita normale". L'ex parà ha fatto domanda per un incontro
con uno psichiatra, ma non si è presentato al primo appuntamento,
dopo il quale è stato lasciato a se stesso. Nel giugno 2008 riferiva
di non essere capace di condurre nuovamente una vita normale, e per
questo motivo voleva arruolarsi nuovamente, "se non mi prendono i
parà andrò nella legione straniera", raccontava agli intervistatori.
Il suo proposito è stato vanificato dal ricorso a massicce dosi di
alcool per un lungo periodo, durante il quale l'uomo ha sviluppato
una forte aggressività verso chiunque, soprattutto i propri
congiunti. Attualmente sta scontando quattro mesi di reclusione.
Quando verrà rilasciato non avrà nessuna assistenza a causa della
brevità della pena.
"Lo studio mette in luce la necessità - sostiene Fletcher - di
fare tutti gli sforzi possibili non solo per ridurre il numero del
personale militare nel sistema penitenziario britannico, ma
soprattutto per offrire loro programmi di sostegno mirati. La
preponderanza di Ptsd, depressione e uso massiccio di alcool, e i
conseguenti casi di violenza domestica che questi soggetti
scatenano, dimostrano l'urgenza di fornire un un'assistenza adeguata
sia all'interno dell'esercito, sia all'interno del contesto sociale
in cui vivono". I soldati inclusi nell'indagine hanno prestato
servizio in Irlanda del Nord, nelle Falklands/Malvinas, in Iraq,
Afghanistan e nei Balcani. In molti casi, i sintomi del Ptsd non si
sono rivelati per anni, fino a esplodere in continui flash-back,
incubi, incapacità di concetrazione e paranoie.
Luca Galassi
8 ottobre
Tutti i "lodi" di cui non si
parla
di Valerio Evangelisti
L'assoluzione di Gianni De Gennaro, ex capo della polizia e oggi dirigente del
Dis (Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza), e dell'ex dirigente
della Digos genovese Spartaco Mortola, è una notizia consolante. Opportunamente,
rappresentanti sia della maggioranza che della cosiddetta opposizione se ne sono
rallegrati.
Un entusiasmo più che giustificato. Dimostra infatti quanto fossero insensate le
critiche piovute sul Lodo Alfano, mentre scrivo ancora al vaglio della Corte
costituzionale. La giustizia è uguale per tutti salvo che per quattro! gridavano
sguaiatamente i protestatari, alludendo alle quattro massime cariche dello
Stato. Ora sappiamo che non è così. Di lodi ne esistono un sacco, di intoccabili
ce n'è una folla. Un lodo mai scritto eppure operante è quello che definirei il
Lodo Guida, dal cognome del questore in servizio a Milano allorché l'anarchico
Giuseppe Pinelli precipitò dalla finestra, nel 1969. Esso prevede, giustamente,
l'impunità quasi totale degli esponenti delle forze dell'ordine nell'esercizio
delle loro funzioni. Per meglio dire, totale per gli alti funzionari, parziale
per i marmittoni ai loro ordini. L'importante è che nessuno di essi finisca mai
in galera, per reati secondari come l'induzione alla falsa testimonianza (era
l'accusa gravante su De Gennaro), il depistaggio, la sottrazione di prove, la
creazione di prove fasulle, l'omicidio più o meno colposo e altre robette.
Giustamente, dicevo. Le forze dell'ordine, e specialmente gli alti gradi, sono
impegnate in compiti delicati, da cui dipende la sicurezza di noi tutti. Sarebbe
assurdo distrarre questi uomini dal loro lavoro per costringerli a recarsi in
tribunale a perdere tempo, o addirittura recluderli quando le strade d'Italia
sono affollate da criminali, fanatici sinistroidi e terroristi. Ecco perché, da
decenni a questa parte, si contano sulle dita i quadri della polizia o dei
carabinieri condannati per qualche reato commesso su sfondo politico, a parte
alcuni straccetti puniti con un trasferimento o con un ritardo nella carriera.
Le condanne recenti - peraltro senza grandi conseguenze pratiche - degli agenti
che uccisero Federico Aldrovandi o Riccardo Rasman, vanno attribuite
all'ignoranza dei giudici, non ancora al corrente del Lodo Guida.
Nel caso specifico, poi, le prove mancavano assolutamente. Guardiamo i fatti.
L'ex questore di Genova Colucci chiama in causa De Gennaro per l'irruzione alla
scuola Diaz, nel 2001: costui sarebbe stato al corrente di ciò che là avveniva,
tanto da mandare sul posto un addetto stampa della polizia, per fornire una
versione edulcorata. Successivamente Colucci si smentisce in aula: De Gennaro
non sapeva nulla. I pm mettono in relazione il cambiamento di versione con una
telefonata di Colucci a Spartaco Mortola: Ho parlato con il capo
(presuntivamente De Gennaro). Devo fare marcia indietro (cito da La Repubblica).
Ora è evidente, anche alla luce del Lodo Guida, che la frase non significa
nulla. Può benissimo darsi che Colucci stesse marciando in senso letterale, e De
Gennaro, se era lui, gli abbia ordinato di cambiare direzione. Ricordiamoci che
la smilitarizzazione della polizia non è mai stata condotta fino in fondo.
Oppure può essere che l'espressione si riferisse a qualsiasi altra cosa: un
acquisto, una relazione sentimentale, un'operazione bancaria. Chi di noi non ha
mai fatto marcia indietro, nella vita?
Sta di fatto che il Lodo Guida, sacrosanto e carissimo ai fascis? pardon, al
centrodestra, meriterebbe più ampia applicazione. A ben vedere, chi ci dice che
Carlo Giuliani non si sia suicidato? Oppure che non sia morto per un malore
attivo?
Sotto la soglia di povertà alimentare tre
milioni di italiani
Colpa della disoccupazione, ma anche dei problemi di salute
Gli operai non vanno
in paradiso e sono 'clienti' del Banco Alimentare
Nel carrello degli indigenti scarseggiano soprattutto pesce, dolci, bevande
Se avessero 1000 euro al mese, li userebbero per cure mediche e cibo di qualità
di ROSARIA AMATO
Una mensa per i poveri a Bologna
ROMA
- Tre milioni di persone sono sotto la soglia di povertà alimentare in Italia.
Secondo una ricerca presentata oggi dal Banco Alimentare e dalla Fondazione per
la Sussidiarietà una famiglia di due persone viene considerata 'alimentarmente'
povera se ha una spesa media mensile in cibi e bevande inferiore a 222,29 euro:
una condizione nella quale si trovano 1.050.000 famiglie. C'è di più: la
stragrande maggioranza dei poveri (oltre l'80%) è composta da operai, per lo più
disoccupati. La differenza tra famiglie povere e benestanti è in media di 370
euro: le prime spendono per mangiare 155 euro al mese, contro i 525 delle
seconde. Le differenze si notano soprattutto per le bevande, gli oli e gli altri
grassi, il pesce, i gelati e i dolciumi.
"I nostri dati - spiega uno dei due curatori dell'indagine, Giancarlo Rovati,
docente di Sociologia all'università Cattolica di Milano - dimostrano che la
povertà alimentare in Italia non è un'invenzione dei media, è anzi un fenomeno
imponente, un'amara realtà della quale fanno esperienza migliaia di famiglie.
Due milioni e 300 mila persone nel nostro Paese ricevono una qualche forma di
aiuto alimentare soprattutto da parte di enti privati, ma questo non risolve il
problema. Dovrebbe essere piuttosto un punto di partenza per coordinare le
politiche pubbliche con quelle private e delle industrie alimentari, che
potrebbero distribuire in misura maggiore e più coordinata le eccedenze".
La disoccupazione prima causa di povertà. La maggiore causa di povertà, e
quindi anche di povertà alimentare, come emerge dalla ricerca - condotta su un
campione dal milione e mezzo di assistiti dalla Fondazione Banco Alimentare - è
la disoccupazione, che incide per il 59%. Ma si diventa poveri anche per
problemi di salute/disabilità (30%), morte di un familiare o separazione dal
coniuge (15%). Le famiglie più povere sono infatti quelle 'monogenitore'
(20,8%).
Meno istruiti, più poveri. Anche il livello d'istruzione fa la sua parte:
il 33,8% degli italiani che fa parte del campione ha la licenza media inferiore,
il 23,9% la licenza elementare, solo l'1,4% la laurea. Che però salva meno gli
stranieri dalla povertà: infatti è laureato il 6,7% degli stranieri poveri.
I poveri sono operai... L'81,6%o degli assistiti dal Banco Alimentare è
costituito da operai; solo il 6,9% da impiegati, l'8% da lavoratori autonomi, il
3,4% da altre tipologie. "Si tratta soprattutto di occupati in modo stabile o
occasionale, con bassa retribuzione, i cosiddetti working poor", spiega Rovati.
Solo il 31,7% ha una casa in proprietà, e il 57,4% vive in affitto. Ma c'è anche
un 7,9% che vive nei dormitori e un 3% che dorme dove capita.
I sogni? Andare dal dentista! Le famiglie con la spesa ridotta all'osso
per il cibo hanno difficoltà soprattutto a pagare le bollette (25,7%), e le
spese condominiali (20,8%). E hanno dei sogni nel cassetto che alle famiglie
abbienti potrebbero apparire modesti: il 40,6%, se avesse 1000 euro al mese in
più rispetto alle normali entrate, li impiegherebbe per l'acquisto "di
alimentari di qualità", e una percentuale equivalente "per cure
mediche-dentistiche". Soltanto un modesto 19,8% li spenderebbe per un viaggio,
un 6,9% per cure termali e un 4% in beni di lusso (orologio, gioielli,
arredamento).
"Vorrei un abito nuovo". C'è poi un 58,4% che ha scelto la voce 'altro':
"All'interno di questa categoria - dice Rovati - ci sono soprattutto il
pagamento dei debiti contratti per un matrimonio o per dei funerali, ma anche
risposte tipo 'per comprare più libri a mia figlia'. E qualcuno vorrebbe dei
vestiti 'nuovi', visto che di solito li ha di seconda mano, per via delle
donazioni. Infatti non è difficile trovare qualcosa per vestirsi, anche per i
più poveri. Il problema, soprattutto per chi ha dei figli che vanno a scuola, è
l'esigenza di renderli presentabili senza perdere completamente la faccia con
vicini o conoscenti. I minori che vivono in famiglie povere subiscono più di
un'umiliazione, oltre a quella materiale anche quella simbolica: non riuscire ad
essere simile agli altri".
In casa non mancano frigo e cellulare. Quando si guarda però ai beni
durevoli posseduti dalle famiglie povere, il frigorifero (90,1%) è quasi
raggiunto dal telefono cellulare (83,2%), mentre scarseggiano elettrodomestici
quasi 'voluttuari' come lo stereo (33,7%), il videoregistratore (20,8%), la
macchina per caffé espresso (11,9%) e la tv digitale o il decoder della tv
digitale (7,9%). "Certo anche le famiglie più povere non mancano di beni
tecnologici. Molti, risulta dai nostri colloqui, si sono indebitati, oppure li
hanno presi al discount o li hanno avuto in dono dalla parrocchia o dal centro
di assistenza", dice il professor Rovati.
Mai ristorante, dolci e pizza. Cosa mangiano e cosa non mangiano le
famiglie povere in Italia? I grandi assenti dalla loro tavola sono dolci e
pizza, anche perché non si va a mangiare fuori. Le famiglie "alimentarmente
povere" spendono in media 6,53 euro al mese per pasti fuori casa, contro gli 80
delle famiglie "non alimentarmente povere" (rielaborazione dei ricercatori da
dati Istat, ndr). Decisive le differenze nella spesa per gelati e dolciumi
(11,93 euro contro 44,89), carni e salumi (35 contro 100 euro), frutta (14,44
contro 41,44), pesce (10,26 contro 39,76). Ma anche sul pane e i cereali le
famiglie benestanti spendono oltre il doppio di quelle povere (62,86 contro
28,85).
07 ottobre
Il cavaliere illegalista
di FRANCO CORDERO
Due secoli fa il malato d'Europa era l'Impero ottomano, guarito attraverso
radicali terapie laiche. La prognosi è severa nel caso clinico Italia 2009:
malattia organica, ormai conta trent'anni, da quando governi corrotti aprono
l'etere al pirata venuto dalla P2, covo d'una pericolosa criminalità eversiva in
colletto bianco.
E s'insedia, monopolista d'una televisione con cui disgrega i neuroni
collettivi; tre volte occupa Palazzo Chigi adoperando i mangiatori dell'erba
televisiva quale massa elettorale. Mentre istupidiva l'audience rastrellando
pubblicità, allungava i tentacoli negli affari: editoria, banca, finanza,
commercio, cinematografo, assicurazioni e via seguitando; ogni atto del governo
in materia economica tocca interessi suoi (in quale misura gli riesce comodo lo
scudo fiscale?); nessuno lo vede eroico asceta. Chiamarlo illegalista è
eufemismo: edifica l'impero mediante corruzione, frode, plagio; vince le cause
comprando chi giudica. Le guerre da corsa implicano dei rischi. Sinora li ha
elusi, aiutato da oppositori imbelli o quasi complici: saliti due volte al
governo, chiudono gli occhi sul conflitto d'interessi che trasforma l'Italia in
una signoria privata indefinibile secondo le categorie politiche; ha tante
pendenze e se ne disfa mutando le norme penali (vedi falso in bilancio) o
attraverso partite defatigatorie, finché il tempo estingua i delitti;
diabolicamente fortunato, esce indenne dal caso monstre perché, a causa d'una
svista legislativa poi corretta, la pena inasprita non gli risulta applicabile e
la meno grave, graziosamente addolcita dalle attenuanti cosiddette generiche,
sta nei limiti in cui opera la prescrizione del reato.
Salvo per il rotto della cuffia, ma Dio sa quanta materia pericolosa nasconda un
sottosuolo blindato da scatole cinesi e paradisi fiscali. Gli serviva
un'immunità: gliela votano, invalida, ma nel dichiararla tale (gennaio 2003), la
Corte scioglie questioni collaterali; risalito al governo, la pretende,
minacciando misure devastanti quale sarebbe la sospensione dei processi (almeno
due su tre), incluso il suo, dove l'accusa, congeniale ai precedenti, è d'avere
corrotto l'avvocato inglese testimone (il lupo non perde i vizi); in lingua
anglosassone, bill of indemnity, così nei cinque anni seguenti nessun pubblico
ministero gli viene tra i piedi; poi scalerà il Quirinale, padrone d'una
Repubblica ridisegnata sulle sue molto anomale misure. Vengono utili le metafore
inglesi: affollate da asini che dicono sì muovendo la testa (nodding ass), le
Camere votano; il Capo dello Stato non obietta; l'indecoroso bill diventa legge
ma obiettano i giudici chiamati ad applicarla e gli atti finiscono alla
Consulta.
Cominciamo dalla prospettiva: questioni simili sono definibili in vacuo, fuori
d'ogni riferimento all'attuale realtà italiana, come fossimo sulla luna tra
spiriti disincarnati? No, il controllo delle leggi cade in spazi storicamente
determinati: la Corte le vaglia, caso mai fossero passibili d'uso perverso,
contro i fini dell'ordinamento definiti dalla Carta; e sappiamo lo sfondo.
Eccolo, l'Italia invasa dal plutocrate populista, pifferaio, re delle lanterne:
non sa un acca dell'ars gubernandi occidentale, coltiva gl'interessi suoi,
converte il pubblico in privato, odia i poteri separati e non vede l'ora
d'abolirli in una regressione al dominio prepolitico; perciò l'Europa trattiene
il fiato davanti allo scempio italiano.
Non sto chiedendo scelte in odio al tiranno: sarebbe decisione politica; idem se
santificasse il fatto (monopolista dei poteri esecutivo, legislativo, mediatico,
economico, s'impadronirà anche del giudiziario); e sottintendeva logiche d'un
quietismo padronale l'argomento addotto dall'Avvocatura dello Stato (una
sentenza ostile al famigerato lodo indebolirebbe il governo, ergo lasciamo le
cose come stanno). La politica non c'entra. Va stabilito se nell'Italia 2009 le
norme fondamentali tollerino un capo del governo immune: i tre contitolari hanno
la funzione delle finestre dipinte, salvano la simmetria; l'interessato è lui; e
notiamo en passant come sia l'unico, mancando ogni termine analogo (Europa, Usa,
ogni Stato evoluto).
Nel merito la questione è presto risolta. Gli avvocati della corona d'Arcore
ventilano un'immunità compatibile con l'art. 3 (i cittadini eguali davanti alla
legge): l'art. 24 Cost., c. 2, garantisce la difesa, diritto inviolabile; e come
può difendersi l'augusta persona, dedita alla res publica? Fossi in loro, non
insisterei: Sua Maestà esercita una napoleonica capacità d'attenzione sincrona
dividendosi tra gli affari suoi e le cose pubbliche, talvolta mischiandoli; e le
cronache dicono quanto tempo gli resti da spendere nel rituale serotino. Suona
futile anche il sèguito, che la gestione della res publica esiga uno scenario
psichico quieto: sapersi imputato glielo disturba, con danni ai sudditi. La
versatilità dell'homo in fabula scongiura ogni pericolo. Anche quest'argomento,
poi, riesce pericoloso dove tira in ballo i pregi del lavoro tra palazzo e
ville: non merita tutela l'interesse dei cittadini ad avere governanti seri?; lo
sarebbe un barattiere cronico?
Da notare come il bill of indemnity sia assoluto: copre ogni delitto comune,
fosse anche enorme (prassi mafiosa, narcotraffico planetario, Spectre); chiunque
abbia la testa sul collo ammetterà che sia un privilegio eccessivo. Importa poco
che le Camere obbedienti non l'abbiano votato come legge costituzionale (mancava
il tempo, incombendo la decisione nella maledetta causa milanese): nascerebbe
altrettanto invalido sotto tale forma, perché vigono delle priorità tra
gl'interessi tutelati dalle norme fondamentali; e qui è in gioco niente meno che
la divisione dei poteri. Concedergli l'immunità significa ungerlo monarca
assoluto, in figure reminiscenti della scalata hitleriana 1933-34. Mancano solo
la legge dei pieni poteri e il cumulo cancellierato-presidenza della Repubblica,
fusi nel nome mistico "Führer".
C'è poco da stare allegri, anzi cade l'umore: una volta nascevano dei giuristi;
che salto da Bartolo, Baldo, Alciato ad Angiolino Alfano, ma siamo equanimi. Chi
l'aveva preceduto nell'ultimo governo soi-disant centrosinistro? Clemente
Mastella, attuale europarlamentare berlusconiano.
Giampilieri, la gente racconta: "Qui tutti hanno palazzine tirate su senza
licenze" Colline sbancate, case sul greto dei torrenti. Ma per i Comuni è tutto
regolare
Permessi facili e abusi condonati così si costruisce nelle strade della morte
Cantieri appena aperti a ridosso di montagne ingabbiate dalle reti di
protezione dal nostro inviato FRANCESCO VIVIANO
GIAMPILIERI
(MESSINA) - L'ultimo scempio edilizio è una licenza di costruzione per una
palazzina di tre piani. Per costruirla hanno sbancato una collina le cui pareti
sono protette da una rete metallica per bloccare la caduta di massi e di
detriti. L'autorizzazione porta la data del 3 marzo 2009. È stata rilasciata dal
sindaco di Scaletta Zanclea, Mario Briguglio che sta permettendo alla signora
Laura Davì, proprietaria di quel pezzo di collina che confina con la statale che
da Messina porta a Catania, di costruire una palazzina proprio accanto al
cartello "Benvenuti a Scaletta Zanclea", uno dei paesi devastati dal fango e
dall'acqua, dove molte case sono crollate o sono state alluvionate, soprattutto
quelle costruite a ridosso di colline sabbiose o sul greto dei torrenti.
Comincia da qui, proprio da questa concessione edilizia il nostro viaggio nelle
strade della morte di Scaletta Zanclea e Giampilieri dove si continua ancora a
scavare nel tentativo di ritrovare gli altri 39 dispersi di questa immensa
tragedia. Una tragedia annunciata, hanno detto molti esperti, figlia di una
sorta di "abusivismo politico". Quasi tutti i proprietari delle case costruite
in zone pericolose, alla fine sono "regolari" perché qualcuno, come nel caso
della palazzina che dovrà realizzare la signora Laura Davì, ha permesso loro di
costruire dove perfino un bambino non realizzerebbe neanche una capanna.
Così, quando quella palazzina sarà finita, sarà anch'essa "regolare" e non
abusiva, perché ci sono le licenze e tutte le altre autorizzazioni per
costruire. è più o meno quello che è successo in via Puntali ed in via Placida,
a Giampilieri superiore, le strade che hanno contato il maggior numero di
cadaveri. Sono palazzine, ormai evacuate perché inagibili, che sembrano abusive
ma non lo sono: "Ma quale abusi, quali illegalità, qui tutti abbiamo costruito
regolarmente anche perché allora non c'era bisogno delle licenze edilizie", dice
un cugino di Costantino Pantò, uno dei tanti sfollati che adesso dorme in un
albergo di Ganzirri. "Al massimo abbiamo realizzato qualche modifica, qualche
ampliamento (costruire altre stanze orizzontalmente) o qualche allungamento (uno
o più piani sul tetto della prima casa)".
Anche l'altra palazzina realizzata in via Placida che domina il centro di
Giampilieri, le cui pareti hanno come confine la collina che ha invaso il paese,
è "regolare". La storia è sempre la stessa: "Qui tutti - dice uno degli abitanti
di quella palazzina che non vuole essere citato - hanno costruito senza licenze
perché a quei tempi non era necessaria, poi quando negli anni '90 abbiamo
realizzato alcune modifiche che ci sono state contestate dalle amministrazioni
comunali, abbiamo sanato, abbiamo pagato e tutto è a posto: ma quale abuso
edilizio?".
A valle, quasi al centro del paese, ai bordi del torrente e del ponte che
collega due strade di Giampilieri c'è la casa di Vittorio Filetto, 50 anni,
dipendente pubblico che vi abita con moglie, figli ed altri parenti che hanno
costruito nella stessa palazzina. Un condominio che poggia proprio sopra il
torrente. "Ma questa costruzione non è abusiva - protesta lui - È stata
realizzata subito dopo la guerra, poi l'abbiamo un po' aggiustata, allungata ed
alzata un po'. Prima si viveva in tanti in case piccole, adesso per fortuna le
case sono diventate più grandi".
Ma non ha paura del fiume che l'altra sera ha investito anche la sua casa?
"L'acqua non ci ha fatto mai paura, quello che mi spaventa è la collina che è
appoggiata proprio sulla nostra palazzina, quella sì che potrebbe fare danno". E
le sembra normale costruire in una posizione così terribile, tra il torrente e
la collina che si appoggia alla sua casa? "Certo che è normale, io ho sanato
tutto, prima pagavo una percentuale più bassa dell'Ici ma con le sanatorie ed i
condoni ho regolarizzato tutto anche se adesso pago una quota di Ici un po' più
alta".
5 ottobre
L'ONU insabbia la frode
elettorale afgana
Rimosso il numero due dell'Unama che aveva
denunciato i brogli. Usa e Nato hanno deciso di riconoscere la vittoria di
Karzai, anche se fraudolenta
Le Nazioni Unite, con il placet del presidente Usa Barack Obama, hanno rimosso
dal suo incarico lo statunitense Peter Galbraith, il numero due della missione
delle Nazioni Unite in Afghanistan (Unama) entrato in aperta polemica con il suo
capo, il norvegese Kai Eide, sulla gestione dello scandalo delle frodi nelle
elezioni presidenziali del 20 agosto.
"Così l'Onu dà un segnale terribile". "E' sorprendente che le Nazioni
Unite rimuovano un ufficiale perché questo era preoccupato per le frodi emerse
in elezioni finanziate e supportate dalle Nazioni Unite", ha commentato
Galbraith. "Così si manda un segnale terribile. Io non ero pronto a rendermi
complice di un insabbiamento o di uno sforzo per minimizzare queste frodi".
"Ho avuto un duro disaccordo con il mio superiore, Hai Eide, su come affrontare
la questione: quando ho chiesto di presentarle le ampie prove dei brogli alla
Commissione per i reclami elettorali (Ecc) perché svolgesse ulteriori indagini,
lui disse che non era il caso di diffondere queste notizie. Su pressione del
presidente Karzai, Eide ha deciso di supportare il candidato beneficiario dei
voti manipolati. Eide ha cercato di archiviare le frodi. Non voleva che il
personale Onu ne parlasse. Non voleva, per esempio, che con gli ambasciatori a
Kabul si discutesse dell'affluenza alle urne, che sapevamo essere stato
bassissimo nelle province meridionali da dove invece era arrivato un numero
enorme di voti".
Usa
e Nato hanno già deciso: Karzai non si tocca. Nel comunicato dell'Onu che
annuncia la sua rimozione, il segretario generale Ban ki-moon ha scritto che la
decisione è stata presa "nell'interesse della missione" in seguito alle
"inconciliabili divergenze" emerse tra Galbraith ed Eide, al quale viene
"ribadito il pieno appoggio".
Cinque membri dello staff dell'Onu a Kabul hanno rassegnato le dimissioni in
sostegno a Galbraith.
Secondo Abdullah Abdullah, lo sfidante di Karzai che sperava nel ballottaggio,
"il licenziamento di uno come Galbraith è il segno che la frode ha avuto la
meglio sulla legge".
Il secondo turno, che fino a pochi giorni fa era dato per scontato dopo l'avvio
del riconteggio dei voti contestati (avviato proprio in seguito alle insistenze
di Galbraith), pare ormai escluso. Sembra infatti certo che giovedì scorso, a
margine dell'Assemblea Generale dell'Onu a New York, il leader di Stati Uniti e
dei loro alleati Nato abbiano deciso che se anche il riconteggio dovesse privare
Karzai della maggioranza, la sua vittoria verrà comunque accettata per evitare
un secondo turno elettorale.
Enrico Piovesana
Sua libertà di stampa
di Denise Pardo Attacchi ai giornali.
Querele. Persino un reato come l'evasione del canone. Così Berlusconi vuole
dominare sulla informazione.
Colloquio con Eugenio Scalfari
Eugenio Scalfari
Come
se non bastasse, siamo arrivati al reato: ai giornali del premier e a quelli
vicino al premier che incitano all'evasione, all'illegalità...
Secondo Eugenio Scalfari la campagna contro il pagamento del canone Rai
scatenata dal "Giornale" diretto da Vittorio Feltri e da "Libero" firmato da
Maurizio Belpietro, meriterebbe l'intervento della magistratura. All'ennesimo
attacco berlusconiano contro stampa e tv pubblica, dopo denunce, minacce di
denunce, intimidazioni, il fondatore del gruppo Espresso e di "Repubblica"
analizza il tentativo di scacco ai media da parte del presidente del Consiglio,
la posizione dei grandi giornali, l'intervento del governo per monitorare i
contenuti Rai. E la maniera di far sentire in modo più forte la voce della parte
critica del paese.
Ci sono state varie stagioni nel rapporto tra Silvio Berlusconi e i media.
Questa è la fase estrema, quella finale?
"Ora c'è il desiderio di dominare completamente l'informazione. Di smobilitare,
di smantellare tutte le trasmissioni e i giornali che non si comportano come il
presidente del Consiglio desidera. Ho appena sfogliato "L'Osservatore romano".
Essendo del Vaticano, il quotidiano si occupa del papa. Adesso Benedetto XVI si
è recato in visita nella repubblica ceca. Lì ha fatto una quantità di discorsi,
di conferenze stampa, di omelie e come sempre "L'Osservatore romano" ha
riportato tutto fedelmente. E si capisce: quello è il papa. Bene. Questo è il
modello e il metro che vorrebbe il premier".
In pratica, il trattamento riverente, mai critico, verso un pontefice
magno...
"Certo. Ora è successa un'altra cosa incredibile, l'ennesima tra le cose
incredibili a cui ci ha fatto assistere il presidente del Consiglio. Succede che
"il Giornale" diretto da Vittorio Feltri, quotidiano della famiglia Berlusconi,
e "Libero" di proprietà degli Angelucci, imprenditori di cliniche mediche che
hanno accettato di nominare come direttore Maurizio Belpietro, emissario del
Cavaliere, una specie di commissario politico, hanno dato il via ad una campagna
per incitare gli italiani, in particolare i loro lettori, a evadere il canone
Rai. Senza tener conto, tra l'altro, che il canone in quanto tale non esiste
più: ora c'è una imposta che finisce in un fondo dal quale il governo poi
attinge per pagare il canone. Si tratta dunque di un'imposta. Se non viene
pagata, è soggetta alle sanzioni di chi evade le tasse. Siamo arrivati al punto
che i giornali del presidente del Consiglio incitano i cittadini a compiere un
reato e il presidente del Consiglio consente ai suoi giornali di incitare i
cittadini a compiere un reato non pagando un' imposta il cui ricavo in gran
parte diventa canone del servizio pubblico".
Come dire, si sconfina nell'illegalità?
"Dirò di più. Non so come mai la Procura della Repubblica di Milano, città dove
si stampano questi giornali, non proceda d'ufficio visto che ci troviamo di
fronte a un reato contro la pubblica amministrazione. Ma c'è dell'altro. Ecco
che il governo nelle persone del ministro Claudio Scajola e del suo vice
ministro Paolo Romani, affiancati dalla signora Mariastella Gelmini, che non
c'entra niente perché è ministro dell'Istruzione, fanno sapere di voler mettere
su una specie di giudizio per ispezionare e monitorare le trasmissioni Rai o
almeno alcune trasmissioni, con l'obiettivo di appurare se si attengono alle
loro regole. E di punirle se non si attengono, probabilmente facendo saltare chi
le guida o intervenendo d'ufficio per modificarle. Di bene in meglio. Siamo di
fronte al totale scavalcamento della direzione generale della Rai, del suo
consiglio d'amministrazione, del suo presidente, della commissione parlamentare
di Vigilanza. In pratica, un commissariamento della tv pubblica che segue le
denunce a "Repubblica" e a "l'Unità", i giornali che non si attengono alle
norme".
E il resto della stampa che atteggiamento ha?
"Ha scelto questa tesi: parliamo di cose serie e quindi di politica economica o
di politica estera. Peccato che la libertà di stampa sia la premessa per la
democrazia e per le cose serie. Naturalmente questi grandi giornali lo sanno
benissimo. E a proposito di politica economica bisognerebbe fare almeno altre
dieci domande anche a Giulio Tremonti. Il fatto è che se le domande sono scomode
il ministro non risponde. Da mesi gli pongo degli interrogativi. Ma il ministro
è silente. Preferisce parlare di filosofia, di Hegel, di san Tommaso...".
Il giorno del suo compleanno, durante la trasmissione "Uno mattina", i
conduttori hanno cinguettato a Berlusconi che "la Rai è casa sua".
"La Rai è casa sua, certo, ma solo nei casi in cui può controllarla. Così quando
a "Parla con me", il programma di Serena Dandini, era previsto un breve pezzo
ironico su chi nei palazzi riceve visite di un certo genere, qualcuno dall'alto
si è rivolto a mani giunte a Paolo Ruffini, il direttore di RaiTre. "Ti prego"
gli ha detto quello dei piani alti. "Ti invoco. Togli questa parentesi satirica
perché se no chi lo regge a quello lì?". E dire non veniva nemmeno nominato
palazzo Grazioli...".
Una parte dell'opinione pubblica sembra incassare tutto. Che segnale
rappresenta invece la manifestazione del 3 ottobre sulla libertà di stampa?
"È un modo di far sentire la propria voce. Che si rafforza creando le occasioni
di partecipazione. Proponendo luoghi di aggregazione. Per esempio, la grande
manifestazione in difesa della libertà di stampa. Per esempio, le primarie del
Pd. Sarebbe molto, molto importante un'affluenza record, anche di quelli che non
sono iscritti, perfino di gente che vada lì e voti scheda bianca. Sarebbe un
modo per far passare il messaggio che il popolo sovrano riprende la sua
sovranità e si manifesta, si fa vedere. Oggi la forza della protesta è
nell'unità, nello stare insieme dando corpo e voce a quella consistente parte
del paese contro questo andazzo, contro l'attacco senza precedenti sferrato alla
libertà di stampa".
Il potere che vuole controllare i media, però, è una vecchia storia...
"È vero, c'è da sempre. Ma un conto è la voglia. Un conto è riuscire a farlo
effettivamente. In realtà, il rapporto dovrebbe essere inverso: il mestiere dei
media è il controllo del potere - quello politico, economico, religioso - in
nome dell'opinione pubblica. Essi devono dare le notizie e esercitare un
controllo che si affianca agli altri organi di garanzia: al controllo della
Corte costituzionale, del Parlamento, della magistratura, del capo dello Stato.
I media sono un contropotere, questo sono, non altro. Che Berlusconi voglia o
no".
1 ottobre
Il
genitivo siculo
di Agostino Spataro
Il nepotismo corrode la democrazia
In questa fase difficile per
la democrazia la politica arranca. Soprattutto in Sicilia dove i partiti,
invece di avviare un processo di rigenerazione politica e morale, continuano a
dividersi al loro interno e ad esercitarsi in un nepotismo davvero inaudito che
li sta trasformando in involucri vuoti dominati da clan familiari e d’altra
natura.
La misura cambia secondo il
grado di moralità e il potere dei partiti e/o dei singoli esponenti. Le forze di
governo sembrano più scatenate. Se non altro perché hanno più opportunità.
Tuttavia, il problema è
generale e bipartizan, con un’accentuazione nelle aree più marginali.
Ma è presente anche in
talune zone del lombardo - veneto dove persino i moralizzatori leghisti non
disdegnano di favorire figli e nipoti.
Insomma, il nepotismo sta
divenendo un costume, anzi un malcostume, nazionale.
Se ci soffermiamo sulla
Sicilia è perché più c’interessa ed anche perché qui, storicamente, la tendenza
è più diffusa, giacché trova alimento in una distorta concezione della famiglia
i cui confini, in molti casi, coincidono con quelli dello Stato o dell’idea che
dello Stato si ha.
Oltre la famiglia c’è la
terra di nessuno, il deserto dei tartari.
Illuminanti, a tal proposito,
le parole che Leonardo Sciascia (in “Il giorno della civetta”)
mette in bocca al capitano Bellodi: “La famiglia è lo Stato del siciliano…Dentro
la famiglia, il siciliano valica il confine della propria naturale e tragica
solitudine e si adatta, in una sofisticata contrattualità di rapporti, alla
convivenza”.
Grosso modo, siamo fermi lì.
Senza dimenticare che in questi aspri luoghi fiorisce un’altra specie di
“famiglia”, più tetra e spietata. Perciò, il progresso e il diritto stentano
ad affermarsi mentre i doveri diventano opzioni o variabili indipendenti
d'illesa impunità.
Ovviamente, è la politica a
risentire maggiormente di questo (mal) costume, anzi in molti casi lo induce.
Perciò, è poco credibile e sta perdendo il suo primato nel governo della
società.
Un (mal)costume diffuso in tutti i
settori sociali
La politica riflette
orientamenti e vizi già esistenti che invece di combattere adotta.
Tuttavia, la tendenza è
forte anche in altri campi: dall’economia alle professioni, dall’informazione
all’amministrazione, dalle università alla sanità, ecc.
Il modello è la promozione
del congiunto. Il titolo richiesto è il grado di parentela: figlio, moglie,
fratello, nipote, zio, cognato di... Altro che concorsi, come vuole la
Costituzione!
Per aprire le porte del
potere basta questa specie di genitivo siculo, calabro o anche brianzolo
che, come nella sintassi,
connota il nome cui si riferisce come soggetto di specificazione e pertanto
evidenzia il limite del beneficiato che senza quel “di” non potrebbe avere
accesso al beneficio.
Insomma, si è creata una
grave devianza che la politica deve correggere se vuole riacquistare il ruolo
primario che le compete e recuperare la fiducia dei cittadini che, in questa
fase, ha toccato il minimo storico.
Si ripropone, cioè, un antico
dilemma: o il sistema politico è capace di auto-riformarsi oppure è destinato ad
essere travolto.
Il nepotismo, infatti, al
pari della corruzione e dell’inefficienza, è una delle principali cause del
degrado, del malgoverno e dell’infiacchimento della democrazia.
Il Parlamento nominato dall’alto e
non più eletto dai cittadini
I nomi, gli esempi (talvolta
disastrosi) sono sotto gli occhi di tutti. Basta cercarli. Li troverete anche
nei posti, pardon nelle famiglie, più rispettabili. Molti nella pagine gialle e
nelle varie liste di candidati. Ovviamente, non tutti i promossi sono figli
di...
Tuttavia, la lista di
figli, mogli, fratelli, zii e di parenti, anche acquisiti, di questo o di quell’altro
esponente si allunga sempre di più. Specie dopo l’approvazione della legge
elettorale nazionale (“porcata” l’ha definita il ministro leghista proponente)
che, di fatto, consente ai vertici dei partiti di nominare i membri di Camera e
Senato.
Da qui la gran parte degli
abusi, l’infiltrazione delle più alte Assisi di parenti, amanti e concubine, di
amici e di amici degli amici. Mancano solo i nonni. Ma di questo passo, chissà!
Tutto per colpa di quel
genitivo che, oltre a creare un grave problema morale, intacca la qualità delle
istituzioni e della stessa democrazia e quindi l’efficienza e l’equità
dell’amministrazione.
Ripeto la tendenza non
riguarda soltanto la politica, ma l’intero panorama delle attività pubbliche, e
perfino private, dove se non sei figlio di qualcuno non hai diritto d’accesso.
Verso una società dell’esclusione
Il fenomeno è, dunque,
ampio e mette in discussione il principio costituzionale dell’eguaglianza dei
cittadini. Quali possibilità ha uno che non è figlio o parente di un esponente
politico, di un barone universitario, di un ricco professionista?
Quasi nessuna. Egli è un
escluso, un paria.
Figlio di un dio minore, è
destinato all’emigrazione o ai lavori più umili e precari. O alla disoccupazione
a vita.
A causa del nepotismo
diffuso, si sta creando una società di caste (non solo politica, caro signor
Stella) che esclude, invece che includere. O se preferite, include soltanto gli
appartenenti alle caste, i super raccomandati, i lottizzati.
Le cronache si occupano
degli inclusi, quasi mai degli esclusi, del destino che attende una massa
enorme di persone, soprattutto giovani, vittime della prevaricazione.
Che fine fanno, dunque,
gli esclusi?
La gran parte di loro
subiscono e, rassegnati, aspettano il loro turno. Chissà? Prima o poi arriverà
la chiamata. La restante parte s’indigna, ma si ritrova sola e impotente contro
questo muro di gomma.
E così decide di fuggire
da questa terra ingrata che premia i peggiori ed espelle i suoi figli migliori.
Si, perché, in genere, gli esclusi sono i migliori, i più volenterosi, i più
intelligenti. Senza offesa per gli inclusi.
Ovviamente la “terra” non
c’entra nulla. Anzi, la Sicilia è bellissima, magnanima, purtroppo anche con
i furbi e i prepotenti.
Sono gli uomini, avidi di
potere e di denaro, che l’hanno resa ingiusta, inospitale per i giusti e per gli
onesti.
Dove vanno gli esclusi?
Soprattutto, al centro-nord,
in aree per altro segnate da fobie separatiste e razziste.
La Sicilia e il
Mezzogiorno perdono così le loro braccia migliori e le energie intellettuali
vitali, a favore delle regioni del nord che, gratuitamente, si appropriano di un
patrimonio inestimabile costato sacrifici e risorse finanziarie alle comunità
meridionali.
Chi ripaga le famiglie, le
regioni meridionali di questa perdita?
Una volta si sperava nella
solidarietà nazionale. Oggi va di moda il federalismo egoistico che accentuerà
le differenze fra nord e sud e metterà a dura prova l’unità del Paese.
A parte tutto ciò, questi
trasferimenti riproducono la vecchia, fallimentare (per il sud) bipartizione del
modello di sviluppo italiano che assegna al Nord il ruolo trainante di area di
produzione e di concentrazione del capitale finanziario mentre al Sud quello di
area di consumo e di rifornimento di manodopera. Insomma, a 150 anni
dall’Unità d’Italia e il meccanismo è rimasto sostanzialmente immutato: da
Cavour a Berlusconi.
Chi fugge contribuisce, senza
volerlo, a perpetuare questo meccanismo e lascia le mani libere
alle forze dominanti
meridionali che avranno un potenziale oppositore in meno e potranno continuare
ad escludere altri che verranno. Così, il cerchio si chiude, perfettamente,
strangolando questo nostro Mezzogiorno senza lavoro e senza libertà.
Abolire il genitivo, almeno in
politica
Tutto ciò è inaccettabile.
Bisogna invertire la tendenza generale dello sviluppo e liquidare il perverso
meccanismo del nepotismo, della raccomandazione, della discriminazione
arbitraria. Non ci sono alibi, per nessuno. I partiti devono dare l’esempio,
spezzando per primi questa catena. Se c’è la volontà politica, si può fare.
Cominciando con una
modifica della legge elettorale per introdurre almeno una preferenza, approvando
un regime più restrittivo d’ineleggibilità e d’incompatibilità e codici di
comportamento interni che vietino la promozione e/o la candidatura di persone
aventi rapporti di parentela con politici e esponenti di governi, anche locali.
Pena la revoca del finanziamento pubblico.
Si obietterà che non si può
essere penalizzati perché parenti di esponenti politici.
A parte che si tratterebbe di
scelte volontarie, di opportunità, dico che, vista la situazione, il politico
deve fare qualche rinuncia, qualche passo indietro. Cominciando col tenere i
congiunti lontani dai posti di responsabilità e dalle aree di privilegio.
Certo, è giusto che le
colpe dei padri non debbano ricadere sui figli, ma nemmeno i meriti e
soprattutto i lasciti elettorali. Per evitare tali ricadute, sarebbe il caso di
abolire il genitivo. Almeno in politica.