Conclusa l'inchiesta della
Procura di Paola, in provincia di Cosenza, sulla Marlane
Il lavoro dei magistrati è durato anni. Il primo fascicolo nel '99, un altro nel
2006 Morti quaranta
operai nella fabbrica tessile
La nube tossica dei coloranti covava il cancro di CARLO CIAVONI e ANNA MARIA DE
LUCA
La Marlane di Praia PAOLA
- Ne sono morti quaranta di cancro. Altri
sessanta hanno lo stesso male e sono ancora vivi. Erano tutti operai, colleghi,
per anni fianco a fianco nell'azienda tessile Marlane, in provincia di Cosenza,
a Praia a Mare. La Procura di Paola ha concluso le indagini, durate anni, e ha
ipotizzato i reati di omicidio colposo dei dipendenti, la cui morte è stata
attribuita alle condizioni di lavoro, e inquinamento ambientale.
Sono stati anni difficili per i parenti delle vittime, difficili per gli ex
operai che dopo anni di lavoro in fabbrica combattono contro tumori che hanno
colpito la vescica, o i polmoni, l'utero o la mammella. Le fasi delle indagini
sono, per il momento, concluse, si attende ora la decisione di rinvio a giudizio
di una decina di indagati.
Ci sono voluti anni e anni di indagini, prima lungo un doppio percorso, poi
riportate in un unico fascicolo, per dimostrare la connessione tra i decessi e
l'uso di alcune sostanze usate nella fabbrica di coloranti azoici, che
contengono "ammine aromatiche", indicate da una ampia letteratura scientifica
come responsabili delle insorgenze tumorali.
Tre procedimenti - il primo iscritto nel '99, il secondo nel 2006 (con sette
indagati) e il terzo nel 2007 (con quattro indagati) - che il Procuratore Capo
Bruno Giordano ha fatto confluire in un unico fascicolo. Più di mille operai
hanno lavorato nell'azienda fondata negli anni '50 dal conte Rivetti. Si
producevano tessuti di vario tipo, per lo più divise militari. Fino alla metà
degli anni Sessanta, nella Marlane esistevano dei muri divisori tra i reparti.
Poi l'azienda passò dal Lanificio Maratea, nel 1969, all'Eni - Lanerossi. In
quell'anno i muri che dividevano i reparti furono abbattuti e così la fabbrica
diventò un unico ambiente di lavoro: la tessitura e l'orditura, trasferite dal
lanificio del vicino comune di Maratea, vennero inserite tra la filatura e la
tintoria, senza alcuna divisione fisica. E così i fumi saturi di sostanze
chimiche di coloritura, provenienti dalla tintoria si espandevano ovunque. Una
nube permanente e densa sugli operai.
A chi lavorava su certe macchine, alla fine della giornata veniva donata una
busta di latte per disintossicarsi. Era l'unica contromisura proposta, che
evidentemente non poteva bastare. I coloranti - quelli che generalmente vengono
contenuti nei bidoni con il simbolo del teschio - venivano buttati a mano dagli
operai in vasche aperte, dove ribollivano riempiendo di fumi l'ambiente e le
narici dei lavoratori.
Senza aspiratori funzionanti. Gli operai tossivano e i loro fazzoletti
diventavano neri. E poi c'era l'amianto. L'azienda dice di non averlo usato, ma
chi ha lavorato nello stabilimento sa bene che i telai avevano freni con le
pastiglie d'amianto, che si consumavano spesso e dalle quali usciva polvere
respirata da tutti.
Nel corso del 1987 il gruppo tessile Lanerossi - già appartenente al gruppo ENI,
di cui faceva parte la Marlane di Praia a Mare - venne ceduto alla Marzotto di
Valdagno, che ne detiene ancora la proprietà. Negli anni '90 la svolta:
arrivarono le vasche a chiusura, dove i coloranti potevano ribollire senza
riempire l'aria di vapori. Ma per molti operai fu troppo tardi, dopo decenni di
inalazioni tossiche. Nel 96 la tintoria è stata chiusa. Oggi l'azienda è vuota.
Dismessa.
"Le indagini sono praticamente chiuse - ha dichiarato il Procuratore Capo di
Paola, Bruno Giordano - recentemente abbiamo richiesto un ultimo sequestro
preventivo che il gip ha emesso relativo all'area circostante lo stabilimento e
credo che sia stato l'ultimo passo istruttorio da parte nostra.
Ora aspettiamo solo di chiudere formalmente le indagini". La Procura di Paola ha
infatti sequestrato il terreno circostante l'azienda: sotto, tonnellate di
rifiuti industriali. Sostanze che erano nocive ancora prima di diventar rifiuti
e che per questo avrebbero dovuto seguire l'iter di smaltimento secondo legge.
Ma evidentemente qualcuno ha preferito seppellirli lì. Per questo, all'indagine
iniziale sulle morti bianche se ne è aggiunta una seconda: non si indaga solo
sulle modalità del ciclo di produzione ma anche sull'interramento dei rifiuti.
Così oggi la fabbrica, chiusa da cinque anni, non è sotto sequestro ma i terreni
circostanti sì.
Secondo la Procura, gli operai deceduti potrebbero essere più di ottanta: non
tutte le famiglie dei deceduti infatti hanno sporto denuncia. Per questo il
dottor Giordano ha costituito un gruppo di lavoro per individuare tutte le
eventuali parti offese. Per molti operai, tuttavia, sarà dificilissimo avere
giustizia: tanti sono i casi caduti in prescrizione. Con la legge Cirielli,
infatti, solo i decessi a partire dagli anni '90 possono rientrare nella vicenda
giudiziaria in corso.
Le prime morti risalgono agli inizi degli anni '70. Tra i primi, nel '73, due
trentenni che lavoravano con gli acidi. E così via. Qualcuno sostiene che i
morti siano un centinaio, ma secondo l'azienda sarebbero "solo" una cinquantina.
Dato, questo, che rivelerebbe un rischio pari a un caso su un totale di 1058
operai, nell'arco di 40 anni. Motivo per cui l'azienda non vuole riconoscere il
nesso di causalità tra le morti e le sostanze lavorate in fabbrica per decenni.
Non è dello stesso avviso il prete del paese, che ha celebrato più di ottanta
funerali di operai. E non lo sono neanche le vedove, gli orfani di padri morti
dopo una vita trascorsa in fabbrica. E poi c'è la storia di un operaio ammalato
di cancro, Luigi Pacchiano, che ha trovato il coraggio di far causa alla Marlene
- e che ha denunciato di aver ricevuto minacce per la sua azione legale - ma a
cui poi l'Inail ha riconosciuto la malattia professionale ed ha ottenuto dal
tribunale di Paola un risarcimento di 220 mila euro.
Ma le questioni sulla Marlene non finiscono qui. Ci si interroga sui
finanziamenti dall'Unione europea e dalla Regione, sulle storie di precariato e
cassa integrazione, sui sindacati e sui partiti e persino, come si può leggere
nei rapporti del Ministero della Sanità, sul mare non balneabile di fronte alla
fabbrica, nonostante ci fosse un depuratore
Il
massacro silenzioso Guinea, la comunità internazionale resta immobile di fronte ai 157 morti
nel piccolo stato dell'Africa occidentale. Usa e Francia si limitano ad ammonire
il comportamento del regime di Muassa Dadis Camarà
Scritto da Antonio Marafioti
C'è
solo una cosa peggiore di un'esecuzione di massa. Un'esecuzione di massa che
passa sotto silenzio. Senza alcuna condanna da parte della comunità
internazionale. Senza sanzioni. Senza embarghi. Senza quel genere di attenzione
politica che dovrebbe essere garantita alla protezione di ogni essere umano in
quanto depositario di diritti civili inalienabili. Uno di questi è consacrato
solennemente dall'articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti
dell'Uomo del 10 dicembre 1948. " Ogni individuo - riporta l'articolo - ha il
diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non
essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e
diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a
frontiere".
In Guinea da lunedì il popolo non solo non ha visto riconosciuto il diritto alla
libertà d'opinione senza essere molestato ma è stato addirittura sterminato
dalla polizia del capitano Moussa Dadis Camarà, salito al potere in seguito ad
un golpe lo scorso 23 dicembre. Motivo? I guineiani non vogliono che il
dittatore si presenti alle elezioni presidenziali del prossimo gennaio. Lo hanno
detto chiaramente prima di scendere in piazza e, dopo il diktat del governo che
aveva minacciato provvedimenti in caso di manifestazione, lo hanno ribadito
riunendosi in 25mila di fronte allo stadio della capitale. Un grido di protesta
unanime contro la legalizzazione elettorale di una dittatura al quale il governo
ha risposto con l'esercito. Manganelli e lacrimogeni sulla folla che ha
resistito pacificamente nella sua protesta. Fino al fuoco. "Sparate ad altezza
d'uomo" questo sembra essere stata la direttiva dei colonnelli di Dadis agli
uomini in pantaloni mimetici, berretti verdi e maglietta nera. L'ultimo
bollettino, in perenne stato d'aggiornamento, parla di 157 vittime, migliaia di
feriti e decine di arrestati. Tra questi i due principali leader
dell'opposizione Cellou Dalein Diallo, capo dell'Unione delle forze democratiche
della Guinea e candidato alle presidenziali, e Sidya Tourè, capo dell'Unione
delle forze repubblicane.
Nella prima mattina di oggi è arrivata la testimonianza che attribuisce al
massacro risvolti, se possibile, ancora più abominevoli. E' la dichiarazione di
un medico del pronto soccorso del Centro ospedaliero di Donka, il più grande
nosocomio di Conacry. "E' una macelleria, un massacro, ci sono decine di
cadaveri". L'immagine è quella di un medico che lotta contro il tempo per
salvare vite umane. Un uomo che, forse inconsapevolmente, offre la chiave di ciò
che accade in Guinea in una scarna e frettolosa dichiarazione ai media. Alla
comprensione dei fatti basterrebbe la sua prima parola: "macello". Si potrebbe
pensare al Rwanda o alla Somalia. Il fatto è che in quei posti, seppure con
alterne fortune, la comunità internazionale si era mobilitata.
Qui, oggi, a testimoniare e condannare un vero e proprio massacro contro un
popolo che protesta pacificamente ci sono solo le foto e gli articoli in rete.
La comunità internazionale, ad esclusione di Usa e Francia, resta immobile a
guardare e, forse, ignorare ciò che accade in un paese dove chi protesta va al
"macello".
E se l'Eliseo ha condannato "con la più decisa fermezza la violenta repressione"
messa in atto dall'esercito della Guinea, da Washington il governo Usa, che in
Afghanistan schiera quasi 30 mila uomini, si è limitato a dirsi "profondamente
preoccupato" per le violenze e esortando la giunta militare al potere a dare
prove di moderazione.
Prove di moderazione che si sarebbero potute chiedere anche a Saddam Hussein a
questo punto. Solo che la Guinea non ha le stesse risorse dell'Iraq e, quindi,
lo stesso peso nella definizione degli equilibri internazionali. Per questo
nessuno parla di fronte a 157 morti. Fino ad ora.
Bollettino migranti Un video mostra i pestaggi all'interno del Cie di Gradisca d'Isonzo
Finalmente cattivi. Qualcuno deve aver preso sul serio le parole del ministro
Maroni. E le ha applicate alla lettera. Almeno a giudicare dal numero di ematomi
che si possono contare sui corpi degli immigrati detenuti nel centro di
identificazione e espulsione (Cie) di Gradisca d'Isonzo.
Siamo
in provincia di Gorizia, a due passi dalla frontiera slovena. I fatti risalgono
a lunedì scorso, 21 settembre. Ma le prove sono arrivate soltanto ieri. Si
tratta di un video girato di nascosto all'interno del Cie e diffuso su Youtube.
È un montaggio di riprese fatte con un videofonino. Inizia con un primo piano
sul volto tumefatto di un detenuto tunisino. "Guarda il polizia" - ripete
indicando l'ematoma sull'occhio. I pantaloni sono ancora imbrattati di sangue. E
le gambe segnate dagli ematomi delle manganellate e in parte bendate. Il video
prosegue mostrando le gabbie dove gli immigrati sono rinchiusi in attesa di
essere espulsi, da ormai più di tre mesi. Ma il pezzo forte arriva alla fine. Si
vede un uomo sdraiato a terra, esanime, tiene una mano sull'inguine, ha il volto
sanguinante, il sangue ha macchiato anche il pavimento. Nel cortile una squadra
di poliziotti e militari in tenuta antisommossa prepara un'altra carica. Dalle
camerate si alzano cori di protesta. Ma quando i militari entrano, i detenuti
non sanno come difendersi e scappano gridando "No, no!" Ma cosa è successo
davvero quel giorno?
È un montaggio di riprese fatte con un videofonino. Inizia con un primo piano
sul volto tumefatto di un detenuto tunisino. "Guarda il polizia" - ripete
indicando l'ematoma sull'occhio. I pantaloni sono ancora imbrattati di sangue. E
le gambe segnate dagli ematomi delle manganellate e in parte bendate. Il video
prosegue mostrando le gabbie dove gli immigrati sono rinchiusi in attesa di
essere espulsi, da ormai più di tre mesi. Ma il pezzo forte arriva alla fine. Si
vede un uomo sdraiato a terra, esanime, tiene una mano sull'inguine, ha il volto
sanguinante, il sangue ha macchiato anche il pavimento. Nel cortile una squadra
di poliziotti e militari in tenuta antisommossa prepara un'altra carica. Dalle
camerate si alzano cori di protesta. Ma quando i militari entrano, i detenuti
non sanno come difendersi e scappano gridando "No, no!" Ma cosa è successo
davvero quel giorno?
Lo abbiamo chiesto alla Prefettura di Gorizia. "Al Cie di Gradisca non c'è stato
nessun pestaggio - dice il capo di Gabinetto Massimo Mauro -, anzi l'unico a
essere stato ricoverato è stato un operatore di polizia che si è preso un calcio
in una gamba". Ma allora qualche tafferuglio c'è stato! La versione della
Prefettura parla di un tentativo di fuga di una trentina dei reclusi, la notte
del 20 settembre, sventato dal personale di vigilanza senza particolari momenti
di tensione. I problemi - continua Mauro - sarebbero arrivati intorno alle
13.00, quando un gruppo di trattenuti avrebbe rifiutato di rientrare nella
camerata dopo il turno della mensa, "inscenando una protesta e lanciando
bottiglie di plastica vuote contro il personale di polizia" che avrebbe quindi
provveduto a farli rientrare con la forza. Le immagini diffuse su Youtube, Mauro
non le ritiene attendibili. Chi dice che sono state a Gradisca? E chi dice che
non sia materiale vecchio riciclato a uso e consumo di qualche associazione
antirazzista?
Abbiamo fatto le stesse domane a un detenuto di Gradisca. Lo abbiamo raggiunto
telefonicamente. Per motivi di sicurezza non sveleremo la sua identità. Questa
persona, non soltanto ci ha confermato che il video era stato girato in quei
giorni. Ma ci ha anche descritto nel dettaglio il tipo di ferite che si vedono
nelle riprese. La sua versione dei fatti coincide con quella della Prefettura
per quanto riguarda il fallito tentativo di evasione la notte e il rientro
pacifico nelle camerate all'alba. Il resto però è tutta un'altra storia. Alle
13.00 sarebbe iniziata una irrispettosa perquisizione. "Hanno rotto i carica
batterie dei telefoni, a alcuni hanno tagliato i vestiti, e in una camerata
hanno strappato un Corano". Un gesto quest'ultimo che avrebbe provocato l'ira
dei detenuti, che hanno cominciato a inveire contro la polizia. "In una camerata
hanno rotto le finestre e cominciato a lanciare cose". Finché polizia e militari
hanno deciso la carica. Nelle camerate numero tre, due e sei. Alla fine della
rivolta, secondo il nostro testimone, 12 persone sarebbero finite in ospedale. E
in ospedale tornerà il detenuto tunisino con l'occhio tumefatto. Lunedì ha un
appuntamento per un'operazione, all'ospedale di Udine. Chi ha ragione? La
Prefettura? I detenuti? È presto per dirlo. Anche perché i detenuti vittime
delle violenze si sono detti pronti a sporgere denuncia. E in quel caso sarebbe
un giudice ad avere l'ultima parola.
Intanto però le proteste si sono diffuse a macchia d'olio nei Cie di tutta
Italia. Quella del 2009 è stata un'estate di rivolte, incendi, tentate fughe,
scioperi della fame e in alcuni casi pestaggi e arresti. Tutto ha avuto inizio
l'otto agosto. Il giorno in cui è entrato in vigore il cosiddetto "pacchetto
sicurezza", la legge 94/09, che ha portato da due a sei mesi il limite del
trattenimento nei Cie ed è stata applicata in modo retroattivo anche a chi era
già trattenuto nei centri.
Il giorno stesso in due sezioni del centro di identificazione e espulsione di
via Corelli a Milano inizia uno sciopero della fame e della sete. Il giorno dopo
a Gorizia metà degli oltre 200 trattenuti riescono a salire sui tetti del Cie
inscenando una protesta contro il prolungamento della loro detenzione e
provocando ingenti danni alle suppellettili e alla struttura. Una decina di
persone tentano la fuga ma sono bloccati dalla polizia. Dal giorno dopo le
sezioni del centro rimangono chiuse per isolare i trattenuti. Trenta rivoltosi
sono trasferiti a Milano. Il 13 agosto è la volta di Torino, dove per due giorni
consecutivi due sezioni del cie rifiutano il cibo e protestano, fino a arrivare
a uno scontro con gli agenti di polizia il 14 agosto. Lo stesso giorno a Milano
si verificano degli scontri tra la polizia e i trattenuti che appiccano il fuoco
in una sezione del centro. Alla fine vengono arrestate 14 persone (9 uomini e 5
donne nigeriane) e rinviate a giudizio per direttissima con l'accusa di
resistenza a pubblico ufficiale e danneggiamenti.
Gabriele Del Grande
29 settembre
Scudo
missilistico, il retroscena di una scelta
La decisione di Obama
dettata non tanto dalla necessità di 'distensione' con la Russia, quanto dalle
necessità dall'industria bellica Usa
Per
giustificare la decisione di Obama di smantellare lo scudo missilistico
progettato in Polonia e Repubblica Ceca dal suo predecessore George W. Bush si è
fatto ricorso a una giustificazione di fondo: inaugurare una linea distensiva
nei confronti della Russia attenuandone preoccupazioni e paranoie. Dietro il
nuovo programma di Obama si nasconde invece un preciso piano di investimenti
militari legati alla prima industria produttrice di missili del mondo: la
Raytheon. Americana, ovviamente.
Inaugurando un nuovo 'codice' di condotta etica per l'amministrazione
presidenziale, due mesi dopo la sua elezione Obama aveva detto: "I lobbisti
verranno sottoposti a vincoli più rigidi rispetto a tutte le amministrazioni che
mi hanno preceduto. Coloro che entreranno nella mia amministrazione non potranno
occuparsi di materie sulle quali hanno già fatto lobbying, o lavorare in agenzie
sulle quali hanno fatto lobbying nei due anni precedenti". La presunta buona
volontà del presidente Usa nel presentare la sua piccola rivoluzione morale è
stata oscurata dall'ipocrisia. La nomina del nuovo vicesegretario alla Difesa è
infatti è avvenuta infatti in totale contraddizione con le nuove regole
stabilite da Obama. Si chiama William J. Lynn il 'sottoposto' di Robert Gates,
Segretario alla Difesa. Avendo fatto lobbying per il gigante della difesa
Raytheon in qualità di Svp (Senior Vice President) della compagnia, Lynn è
l'esatto opposto di ciò che Obama avrebbe dovuto insediare in quella posizione.
Chiamato a rispondere della violazione dei nuovi principi etici, Obama ha
risposto che Lynn 'costituisce un'eccezione'.
La Raytheon ha svolto attività di lobbying per 14,5 milioni di dollari, durante
i sei anni in cui Lynn ci ha lavorato: per la Camera dei rappresentanti, il
Senato, il Dipartimento della Difesa, quello dell'Energia e del Tesoro. Lobbying
per la vendita di armi, ovviamente, dai razzi teleguidati a lungo raggio ai
sistemi di difesa basati sulle navi ad armamenti vari, tra cui un'arma laser
fotonica in grado di distruggere missili a corto e medio raggio. L'ex manager,
una volta nominato ai vertici della Difesa Usa, ha promesso di alienare sue
azioni. Anche se l'avesse fatto, sarebbe stato un gesto totalmente inutile. Lynn
ha svolto talmente bene il suo lavoro che si potrebbe avanzare l'ipotesi di una
scelta adottata non per (o non solo per) 'rassicurare' la Russia sulle buone
intenzioni della sua 'nuova' America, quanto perchè la Raytheon da tempo sta
aspettando il committente giusto per le sue nuove armi.
Sia Obama che Robert Gates, nelle due conferenze stampa successive all'annuncio
dell'annullamento del programma di Bush, hanno circostanziato la decisione con
una serie di osservazioni che combaciano in maniera impressionante con quanto,
esattamente un mese prima, venne esposto dalla Raytheon in occasione della
presentazione di un 'nuovo sistema anti-missile' concepito in primo luogo per
gli israeliani.
Obama e Gates, il 16 settembre scorso: "L'Iran non è così vicino alla bomba
nucleare come si pensava, e la minaccia si limita a missili a corto e medio
raggio. Il piano anti-missile di Bush non è smantellato, ma modificato, reso più
flessibile, e nuovi sistemi di sensori e intercettori, ad esempio il SM-3,
potranno essere installati in Europa già dal 2018".
La Raytheon, un mese prima: "Il sistema di intercettori che stiamo sviluppando,
SM-3, già esistente su piattaforme marine o navi, verrà sviluppato su terra, e
potrebbe servire a Israele per difendersi contro eventuali missili a corto e
medio raggio lanciati dall'Iran. Potrebbe essere pronto già dal 2013.
Obama e Gates: "Il nuovo sistema sarà ad alta tecnologia ed economico.
Raytheon: i costi di sviluppo sono molto bassi, la tecnologia elevata. I
profitti potrebbero raggiungere il miliardo di dollari, se il sistema è
sviluppato globalmente in cooperazione con gli alleati internazionali.
La risposta dell'inviato russo alla Nato, Dmitriy Rogozin è stata di cancellare
la decisione di installare missili Iskander a Kaliningrad, con la seguente
raccomandazione: "La cooperazione con la Russia non è fatto di scelte. E' un
fatto di necessità".
Il vice-segretario alla Difesa è il responsabile della scelta degli armamenti
necessari agli Stati Uniti. E' lui che indica quali armi il Pentagono dovrà
comprare. Con William Lynn in tale ruolo, la decisione di Obama di 'smantellare'
il sistema missilistico concepito da Bush si arricchisce di dettagli che offrono
una diversa lettura della sbandierata 'distensione' con la Russia, garantendo
invece enormi profitti e commesse milionarie per la Raytheon. Sia in casa
propria che all'estero.
Luca Galassi
Che
business quel televoto
di Tommaso Cerno e Gianluca Schinaia
Telefonate e sms per
scegliere un concorrente o partecipare a un quiz. Un rito tv sempre più diffuso.
E un giro d'affari da 15 milioni che arricchisce emittenti e operatori
telefonici
Gerry Scotti sfodera un bel sorriso e sul
teleschermo appare la domanda per il pubblico a casa: i re di Roma erano cento o
sette? Per partecipare al difficile quiz di 'Chi vuol essere milionario' è
sufficiente inviare un sms al numero in sovrimpressione. Il costo è di un euro,
in palio ce ne sono mille. E poco importa se non indovini, perché al programma
cult di Canale 5 puoi vincere lo stesso. È la democrazia del televoto, ultima
frontiera dei format che fanno audience e su cui scommettono sempre di più Rai e
Mediaset per questa stagione autunnale. Dilaga fra teenager e massaie, ma anche
fra i professionisti, perché dalla poltrona di casa (o dall'ufficio grazie alla
web tv) ormai puoi fare di tutto: partecipare a un concorso mentre fai zapping,
votare la reginetta del reality preferito, scrivere il copione del 'Grande
Fratello' e cacciare il rompiscatole dalla Casa, oppure far piangere in diretta
il cantante di 'X-Factor' frantumando con un messaggino i suoi sogni di gloria.
Il tutto rigorosamente a pagamento.
C'è una domanda, però, che sugli schermi della tv non è mai apparsa. Quanto
sfila dalle tasche degli italiani il televoto e dove finiscono i soldi? Se provi
ad alzare la cornetta, stavolta per chiedere i conti a gestori di telefonia o
reti televisive, la risposta è sempre la stessa. Tim, Vodafone, Wind e Tre, così
come le società di produzione dei programmi più votati, non si sbottonano: "Sono
dati riservati, non intendiamo diffonderli", ripetono da Roma a Milano. Uno
studio esiste, distribuito soltanto fra gli operatori del settore. Si tratta
dell'Osservatorio Mobile Content & Internet, elaborato al Politecnico di Milano
e che 'L'espresso' ha potuto visionare. Fa una radiografia dettagliata del
fenomeno, con un dato che emerge su tutti: il numero di televotanti in Italia è
raddoppiato fra il 2007 e il 2008, erodendo nei mesi introiti al mercato
oceanico della telefonia. E passando da 7,4 milioni di euro di fatturato, ai 15
milioni medi attuali. Possono sembrare cifre ridotte, se paragonate al bilancio
globale dei contenuti a pagamento acquistati via cellulare, che ha sfiorato i
745 milioni di euro, ma non è così. Quel 2 per cento della torta ha stupito gli
esperti e fa sempre più gola ai network, "che ormai inseriscono nei budget una
voce specifica di entrata, al fianco della normale pubblicità", confermano sia
in Rai che a Mediaset. E questo perché il boom di utenti si è registrato in un
periodo in cui il resto del business è stagnante. "Significa che crescerà
ancora", prevedono i direttori di rete.
Già adesso sono decine di migliaia gli italiani che, ogni giorno, si attaccano
al cellulare per televotare il proprio idolo o vincere un'auto di lusso. Con
punte record di quasi due milioni in una sola sera, come nella finale di 'Amici
di Maria De Filippi'. La regina dei programmi interattivi è Endemol, la società
olandese che ha esportato in Italia il 'Grande Fratello'. Ma a scommettere
sempre più sul fenomeno c'è anche Magnolia, che firma 'L'eredità' e 'L'isola dei
famosi', la Fascino di Maurizio Costanzo, così come Bibi Ballandi, che produce
'Ballando con le stelle'. Tutte trasmissioni dove la votazione da casa è il
piatto forte."Il giro d'affari è in continuo aumento: ci sono quiz facilissimi
che spingono i telespettatori a mandare sms, senza capire che, proprio come in
un casinò, alla fine vince sempre il banco, cioè la trasmissione", avverte
Antonio Bosco dell'Adiconsum."I giovani sono il target che sembra essere
percentualmente più interessato". L'identikit del televoto-dipendente è
confermato dalle statistiche che girano sui tavoli dei responsabili di
palinsesto. Nel 2008 gli utenti unici sono stati un milione, con punte di 15
mila al minuto nelle serate chiave dei reality show. Il fruitore medio ha meno
di 40 anni, età che sale fino a 65 quando si tratta di fare una telefonata,
anziché inviare un sms. "A digitare sul cellulare sono più le donne (52 per
cento) degli uomini, dalla casalinga alla laureata", puntualizzano gli esperti.
A spartirsi gli incassi ci sono, invece, gli operatori telefonici, le reti
televisive, i titolari dei format e i produttori dei programmi, oltre alle
società private che gestiscono il software per la raccolta dei voti. I network
appaltano a ditte specializzate la gestione del sistema, e i messaggini vengono
smistati su un computer. In genere all'utente il giochetto costa un euro, anche
se in realtà si paga di più. L'addebito, infatti, avviene quando dal cervellone
giunge l'sms di conferma del televoto, ma a carico del telespettatore c'è già da
conteggiare l'sms di invio, che di solito costa attorno ai 12 centesimi. Di
tutto il giro di affari, circa il 40 per cento finisce nelle tasche
dell'operatore di telefonia mobile da cui è partito il messaggino, con guadagni
proporzionali al market share, ovvero alla quota di mercato della compagnia.
"Guida la classifica Tim, che occupa circa il 38 per cento, poi c'è Vodafone che
si attesta attorno al 30 per cento", spiegano al ministero delle Comunicazioni.
Il resto se lo dividono Wind e Tre.
Sulla trasparenza del sistema alcuni dubbi sono stati sollevati. È vero che le
operazioni avvengono sotto il controllo di un notaio, ma da Emanuele Filiberto 'reuccio-ballerino'
in coppia con Natalia Titova a 'Ballando con le stelle', fino alle polemiche per
Marco Carta trionfatore ad 'Amici' e poi vittorioso a Sanremo, passando per le
rivelazioni di Lele Mora sul podio di Walter Nudo sull''Isola', i fan dei
reality e dei talent show denunciano "brogli e stranezze". Da una parte le
trasmissioni col televoto si moltiplicano e diventano dei veri e propri cult.
Dall'isola dei naufraghi, alla scuola di cucina, ai talent show per aspiranti
cantanti e ballerini, fino a quelli sportivi. I numeri in sovrimpressioni
invitano chi è a casa a votare, votare e votare ancora. Scegli tu chi sarà il
vincitore. E così si formano club di fan, tifo organizzato, gruppi sul web, il
passaparola gira nelle scuole e in discoteca. Gli idoli sono lì, a portata di
messaggino. Nessuno bada più a un fatto: tutto questo si paga. E quando non c'è
un concorrente da nominare o un danzatore da giudicare, arriva il concorso a
premi. Una domanda da nulla, saprebbe rispondere anche un bambino. Il prezzo non
sembra un granché, di solito è un euro, per l'estrazione che premia il
fortunato. In palio soldi, ma anche televisioni al plasma, viaggi da sogno,
cellulari da cui mandare altri sms. Intanto, nelle casse della trasmissione
entrano centinaia di migliaia di euro. Ogni giorno.
È a questo punto che qualcuno se ne accorge. Dopo avere ricevuto una
superbolletta, da centinaia di euro, tutti accumulati mandando messaggini al
solito numero, quello del Gf piuttosto che dell'Isola. Così le prime 'vittime'
del televoto passano al contrattacco e si rivolgono alle associazioni dei
consumatori. "Ma noi non possiamo fare altro che chiedere al governo norme più
severe e paletti certi per uscire dal Far West", dice Carlo Pileri dell'Adoc,
mentre il Codacons aveva addirittura lanciato lo sciopero delle televotazioni
per ottenere da Rai e Mediaset i tabulati ufficiali. In Italia manca, infatti,
una legge che regoli il settore e fissi il numero massimo di chiamate dalla
stessa utenza, come avviene in Inghilterra dove il televoto è gratis. Una lacuna
che porta anche a un secondo fenomeno, che sta prendendo piede, il
"tele-doping", l'utilizzo cioè di call center per spingere il proprio idolo nel
reality, così da incassare maggiori introiti dai contratti di pubblicità. Un
giro d'affari, secondo i consumatori, che porterebbe ad accordi sotterranei fra
gli agenti di artisti e vip in gara, produttori e operatori telefonici, con
pacchetti di voti acquistati in blocco e scaricati sui sistemi informatici a
ritmi di 200 al minuto. "Nell'ambiente televisivo è stato denunciato più volte,
anche all'ultima edizione di Sanremo", spiega Pileri.
Gestori e reti televisive respingono entrambe le accuse. "Non c'è nessuna
pubblicità subliminale, né particolari campagne che rendano il telespettatore un
fanatico", ribattono. È il gioco che è vincente, piace l'idea di poter decidere
le sorti dei propri idoli, è un po' come entrare dentro la tv. Per fare luce su
eventuali storture, comunque, lo scorso aprile l'Adoc ha presentato un esposto
alla Polizia postale proprio sul televoto record dell'ultima edizione di 'Amici',
"dopo avere ricevuto decine di proteste in cui i telespettatori segnalavano di
non essere riusciti a inviare la preferenza durante la finale e nelle puntate
precedenti". Nessuna truffa nemmeno stavolta, si difendono i gestori di
telefonia mobile e le trasmissioni sotto accusa, che tirano in ballo l'effetto
Capodanno, quando il cellulare va in tilt e i messaggi di auguri arrivano il
giorno dopo. "Nei contratti c'è scritto che questa possibilità esiste. La cosa
certa è che, se l'sms non viene conteggiato, non c'è alcun addebito". E mentre
lo dicono, una nuova trasmissione con televoto conquista il palinsesto. Altro
numero di telefono, altri paladini, altri incassi.
I televotanti delusi hanno formato gruppi su Facebook e discutono sui blog. C'è
anche chi rivuole indietro i soldi spesi senza garanzia di effetti pratici sul
destino del proprio paladino. A leggere bene i regolamenti delle trasmissioni
più seguite, in effetti, una falla nel sistema c'è. Corrisponde al trasferimento
dei dati dai gestori telefonici alla società informatica che effettua il
conteggio finale, cioè quando si decide chi resta e chi viene eliminato. Un
passaggio al quale le associazioni di consumatori "non hanno mai potuto
partecipare, pur avendolo richiesto", denunciano in coro. Il tutto in assenza di
un ente di controllo, visto che né il ministero né il Garante verificano la
conta dei voti. "Il potere dell'Agcom in materia è piuttosto ridotto", dicono
all'Authority. Vigilare sulla trasparenza delle votazioni a pagamento significa
soltanto controllare che i costi massimi di chiamata restino sotto i limiti di
legge e che le tariffe del servizio vengano indicate, quando il numero va in
onda. Nessuna competenza, invece, sul computo finale, quello che determina la
vittoria o la sconfitta del concorrente in gara. E che è costato ai televotanti
milioni di euro fra sms e telefonate.
24 settembre
De
Villepin e De Minzolin
di Marco Travaglio
Quando avranno liquidato
anche gli ultimi farabutti dalla stampa e dalla Rai, Silvio Berlusconi e la
fairy band scopriranno la portata eversiva delle cronache dall’estero. E
aboliranno anche quelle.
L’altro giorno, per esempio, Massimo Nava
raccontava a pagina 18 del Corriere della Sera, cioè a debita distanza dalle
cronache italiane, il processo che si è aperto a Parigi contro l’ex premier
Dominique de Villepin e uno stuolo di
personaggi eccellenti che rischiano il carcere per falso, calunnia e abuso
d’ufficio. Questa specie di Watergate alla francese riguarda un presunto
complotto ordito da Villepin, forse d’intesa con l’allora presidente
Jacques Chirac, per screditare a suon di dossier
taroccati l’eterno rivale Nicolas Sarkozy.
E’ l’ ”affaire Clairstream”, la finanziaria lussemburghese sospettata di
custodire – scrive Nava – “conti cifrati per grandi affari e commesse militari.
Un cd-rom con una lista di nomi comincia a circolare negli ambienti della
politica e dei servizi segreti e innesca le indagini della magistratura. Le
liste sono state manipolate con nomi inseriti da un esperto informatico legato
ai servizi. E il nome-bomba è quello di Sarkozy”. Risultato: Sarkozy denuncia
l’arcinemico Villepin e stronca la carriera a chi voleva – sempre secondo
l’accusa – stroncarla a lui. Infatti, prosegue il Corriere, appena indagato
Villepin viene “isolato dalla sua parte politica”, si ritira dalla corsa all’Eliseo
e oggi scrive saggi molto dotti su Napoleone in esilio. Bene hanno fatto i
giornali italiani a distanziare le cronache sul processo Clairstream da quelle
(eventuali) sulle vicende giudiziarie dei politici italiani, soprattutto uno, il
solito. Altrimenti sarebbe subito emerso, anche agli occhi più distratti, il
confronto. In Francia c’è un presidente che non ha conti all’estero, tant’è che
qualcuno ha dovuto inventarglieli. In Italia non c’è bisogno di inventare nulla:
al premier sono state scoperte decine di conti esteri su 64 società offshore. E
non è successo niente. O meglio si sono aperti un paio di processi, subito
chiusi con la depenalizzazione del reato da parte dell’imputato; e ora arriva il
prossimo, quello di Mediatrade, che riposerà in pace grazie al lodo
Alfano. E l’opposizione zitta: guai a separare la
criminalità dalla politica.
Al momento non sappiamo se Villepin abbia commesso reati. Ma sappiamo che ha
commesso un errore madornale: ha sbagliato paese. Fosse nato in Italia, o almeno
avesse preso esempio da Papi, i dossier li avrebbe delegati a Pio Pompa
e al fido Betulla, o direttamente a
Feltri, per non lasciare impronte sul lavoro
sporco e poi dissociarsene. Una volta indagato, poi, non avrebbe mai lasciato la
politica per darsi alla letteratura, anche perché nessuno (tantomeno la
cosiddetta opposizione) gliel’avrebbe chiesto: anzi, si sarebbe ricandidato
proprio per questo, per essere rieletto, abolire i suoi reati e poi direttamente
i suoi processi con un bel lodo Villepin. Avrebbe potuto impossessarsi di tv e
giornali per far ripetere a reti ed edicole unificate che il suo processo è
politico e lui un perseguitato da toghe ostili (le celebri “robes rouges”) che
tentano di sostituirsi al Popolo. Infilare sua figlia nella proprietà di uno dei
pochi quotidiani non suoi, così da ottenere sapidi editoriali di
Painblanc, Ostellin
e Coques de la Loge contro il moralismo,
il giustizialismo e l’i nv a s i o n e di campo delle procure. Infine sistemare
un apposito ciambellano alla direzione del TgUnico per occultare lo scandalo e
liquidarlo come “go s s i p ”. Uno ancor più servile di Bruno Guêpe.
Tipo, ecco, Auguste de Minzolin.
Calais,
il naufragio del diritto
Sgomberati con la forza gli
afgani che chiedevano in Francia lo status di rifugiati politici
Gli
afgani in carne e ossa, quelli che non sono solo un concetto astratto da
utilizzare nei dibatti televisivi pro o contro la guerra, vengono sgomberati
come animali selvatici. E' accaduto a Patrasso, è accaduto a Calais.
Rasi al suolo. Ieri le ruspe, come
annunciato da tempo, hanno raso al suolo il campo di rifugiati (quasi tutti
afgani) alle porte della cittadina francese che guarda le bianche scogliere di
Dover. La Jungle di Calais, lo chiamano i media, come fosse abitato da bestie
feroci. Invece sono solo migliaia di persone in fuga dalla guerra dei
liberatori, quella che doveva portare la democrazia e che ha portato morte e
distruzione quanto e più del regime dei talebani e che ha regalato le elezioni
più fasulle della storia contemporanea.
Un lungo viaggio portava queste persone, molte delle quali minorenni, ad
abbandonare l'Afghanistan squassato dagli attentati dei talebani e dai
bombardamenti della Nato. Attraverso l'Iran e la Turchia, a costo della vita e
nella mani di trafficanti di esseri umani senza scrupoli, per raggiungere la
Grecia e poi l'Italia, la Francia, verso l'Inghilterra.
Calais era una delle ultime tappe di questo calvario.
Dalle sette di mattina di ieri non c'è più nulla. Un inferno a cielo aperto, sia
chiaro. Baracche senza nessuna decenza, ma che avevano un tetto. In attesa, come
a Patrasso, di un tir pronto a imbarcare per la Gran Bretagna. Un autotreno che
poteva rappresentare la vita o la morte. Nascosti nel cassone, a volte attaccati
per tutto il viaggio al semiasse del camion. Tanti hanno perso la vita così,
ancora di più sono stati arrestati prima del grande viaggio. Ma alcuni ce la
facevano. Ieri il loro sogno è finito: 278 migranti, 132 dei quali minorenni,
sono stati arrestati brutalmente dalla polizia. Malmenati come gli attivisti che
hanno tentato di difendere quell'isoletta mai felice, ma almeno sicura. Quanto
può essere sicuro un posto malsano, dove però dopo migliaia di chilometri di
viaggio, dall'Afghanistan alla Francia, trovi una faccia amica, che parla la tua
lingua e che ti offre un tè caldo.
Diritti negati. La Jungle era nato poco
dopo il 2002, quando l'allora ministro degli Interni francese Nicholas Sarkozy,
profeta della tolleranza zero contro i sans-papier, ordinò lo sgombero del
centro di Sangatte, gestito dalla Croce Rossa Internazionale. I migranti, che
non venivano certo trattati bene, si ritrovarono a inventarsi una bidonville per
sopravvivere al freddo. La stessa, identica, storia del campo di Patrasso,
sgomberato mesi fa.
In Grecia come in Francia, quasi tutti i residenti nei campi erano afgani. Ai
quali non viene riconosciuto lo status di rifugiato politico. Chi ne avrebbe più
bisogno e più diritto di loro? Il problema, senza ipocrisie, è politico. Non si
può dire al mondo che l'Afghanistan è un posto insicuro, perché cadrebbe come un
castello di carte tutta la retorica della guerra giusta e che ha portato la
libertà agli afgani.
Christian Elia
22 settembre
Quante
volte Silvio?
di Tommaso Cerno ed Emiliano Fittipaldi
Una festa ogni tre giorni.
Ecco l'agenda del premier nei cinque mesi chiave della crisi. Quasi 40 serate in
compagnia di belle ragazze. Saltando poi gli impegni di Governo
Sono come Superman. Lavoro 20 ore al giorno.
Presiedo il governo del 'fare', dormo tre ore a notte. In sintesi, "sono il
migliore in 150 anni di storia d'Italia". Silvio Berlusconi, è cosa nota, non
brilla per modestia. Gli auto-elogi sono un refrain costante della sua
auto-rappresentazione. Ma l'immagine di un lavoratore indefesso che cura
dall'alba a notte fonda gli interessi del Paese sbiadisce di fronte allo sfoglio
della sua agenda personale. Se l'imprenditore Giampaolo Tarantini ha raccontato
di aver organizzato nelle case del presidente del Consiglio 18 incontri a cui
hanno partecipato una trentina tra ragazze ed escort professioniste, i bagordi
occupano in realtà una parte ancor più rilevante del calendario di Silvio.
Incrociando le testimonianze di molte avventrici, le cronache mondane raccontate
dalla stampa, le giornate fotografate da Antonello Zappadu e filmini registrati
di nascosto da alcuni ospiti, 'L'espresso' ha ricostruito cinque mesi di vita
del premier. Un periodo affastellato di feste e discoteche, viaggi di piacere in
beauty farm e serate al Bagaglino. Da agosto 2008 a metà gennaio 2009, le
settimane drammatiche della crisi economica mondiale, il presidente del
Consiglio ha organizzato una quarantina di serate. In media, quasi una ogni tre
giorni. Non esattamente il ruolino di marcia di uno statista stakanovista: ci
sono intere settimane in cui Berlusconi sparisce, letteralmente, dalla scena.
Lasciando un vuoto istituzionale spaventoso.
Un'estate al mare Partiamo da agosto dello scorso anno. Il premier è in carica
da soli tre mesi. L'obiettivo di Zappadu è puntato su Villa Certosa da
settimane. Il 17 maggio ha già immortalato il presidente che passeggia con
sei-sette ragazze nei i vialetti del parco, il 31 il primo ministro ceco
Topolanek senza costume. Il 22 giugno le ragazze ospiti a Villa Certosa sono
almeno cinque: le immagini di tre che fanno una doccia saffica finiscono sul 'Pais'.
È solo l'antipasto. Il 3 agosto il premier fa arrivare un gruppetto di ragazze
in elicottero, Zappadu le ritrae in topless e tanga. Il weekend successivo il
Cavaliere inizia le sue vacanze. "Diciotto giorni dedicati al relax e alla
famiglia", recita l'Ansa. Daniela Santanchè rafforza la versione ufficiale: "Berlusconi
ha capito che il mood è cambiato. La stagione delle feste da 400 persone sugli
yacht è ormai alle nostre spalle. Per questo Silvio ha scelto di stare in
famiglia. Per primo ha capito che spendere 40 mila euro a sera è roba da cafonal".
Forse l'amica non sa che l'11 agosto, mentre infuria la crisi tra Russia e
Georgia, il premier ha organizzato un karaoke, ospiti Simon Le Bon dei Duran
Duran, Simona Ventura, Giampaolo Tarantini, Sabina Began e amici vari. Il video
della serata, con Berlusconi in giacca bianca che canta 'L'ultimo amore' con
Apicella, finisce sul sito del nostro giornale. L'estate di Papi va avanti. Il
14, vigilia di Ferragosto, sul motoscafo Magnum 70 vengono fotografate altre
bellezze in procinto di sbarcare sul molo della Certosa: ci sono Siria, famosa
come la lesbica del 'Grande Fratello' ("Ero lì per esibirmi come mangiafuoco",
dirà), la futura eurodeputata Licia Ronzulli, la valletta Susanna Petrone e
altre quattro ragazze non meglio identificate. Probabile che la compagnia sia
rimasta anche il giorno dopo, quando il Cavaliere riceve il miliardario
Abramovich, mentre Roberto Maroni, insieme a Gianni Letta e Guido Bertolaso,
erano al lavoro per la riunione del Comitato nazionale per l'ordine e la
sicurezza.
Milan ed escort Il 17 agosto Berlusconi decide finalmente di tornare sul
continente. Ma invece che a Roma per lavorare, vola a San Siro per
Milan-Juventus. La sera stessa è di ritorno. Già: il 18, mentre le truppe russe
puntano missili nucleari su Tbilisi, lui aspetta altre ospiti. 'L'espresso' ha
potuto visionare nuove foto di Zappaddu: quella sera il parco della Certosa è
invaso da bionde e brune, che arrivano su un elicottero della Fininvest. Il
giorno dopo Sandro Bondi, forse ignaro del via vai nelle case del capo, annuncia
il suo nuovo libro. Il titolo è impegnativo: "Berlusconi erede di Adriano
Olivetti".
A inizio settembre, rientrato a Palazzo Grazioli, Berlusconi dovrebbe riprendere
gli incontri internazionali. Un dispaccio dell'Ansa ipotizza che venerdì 5 il
premier "dovrebbe incontrare il segretario di Stato Condoleezza Rice", mentre a
metà mese è atteso a New York per l'assemblea generale dell'Onu. Il condizionale
è d'obbligo, Silvio in agenda ha ben altri progetti. Il 5 settembre, secondo le
dichiarazioni di Tarantini ai pm di Bari, al posto della Rice si materializza
Vanessa Di Meglio, che resta a dormire a Palazzo Grazioli. "Tendenzialmente la
stessa non è una professionista del sesso", spiega Giampi ai magistrati, "ma
all'occorrenza non disdegna di essere retribuita per prestazioni sessuali". A
settembre Berlusconi ha in agenda un altro incontro, quello con Terry De Nicolò,
la escort che è andata a letto con l'assessore pugliese Sandro Frisullo.
Onu? No grazie Il 23 settembre iniziano i lavori delle Nazioni Unite. Sono
presenti tutti i leader del mondo. Durante la prima giornata parlano l'americano
Bush, il francese Sarkozy, il presidente iraniano Ahmadinejad.
Contemporaneamente Gianfranco Fini sta facendo visita al Bundestag, in Germania.
A Roma il premier e l'amico Giampi hanno invece organizzato un party con
Carolina Marconi, ex del 'GF', Francesca Garasi, Geraldine Semeghini, al tempo
responsabile del privè del Billionaire e, di nuovo, la De Nicolò. L'allegra
brigata fa le quattro di mattina. Il giorno dopo è un martedì. Berlusconi decide
di non partire più per il Palazzo di Vetro. La scelta sarebbe legata alla crisi
di Alitalia: il Cavaliere vorrebbe seguirla da vicino. Così vicino che si mette
in viaggio in gran segreto per l'Umbria, destinazione Méssegué, il centro
benessere dei vip, riaperto apposta per lui. Berlusconi di fatto scompare dai
radar per cinque giorni. Frattini e Letizia Moratti sono costretti a presentare
da soli l'Expo 2015 di Milano, mentre Gianni Letta, coadiuvato da Walter
Veltroni, fa i salti mortali per far firmare la pace tra la Cai e i sindacati e
salvare l'Alitalia. La settimana di Silvio finisce alla grande. Sabato 28 un
elicottero della Protezione civile lo accompagna dal Méssegué a Ciampino, dove
prosegue per Milano, destinazione San Siro. C'è il derby, e sugli spalti lo
aspetta Tarantini. Ha portato con sé una nuova ragazza, l'Angelina Jolie di
Bari. Si chiama Graziana Capone, che racconta a 'Repubblica' il post-partita:
passeggiata in auto, arrivo ad Arcore, cena e festino con una decina di ragazze.
Il Milan ha vinto uno a zero, il premier è euforico. "Abbiamo tirato fino a
tardi, le quattro forse, qualcuna si è addormentata sul divano". Il fastidio
alla schiena, di sicuro, è scomparso. Così, dopo poche ore di sonno, Berlusconi
può rifesteggiare sul lago Maggiore il suo 72esimo compleanno, mettendo in scena
una giornata tutta familiare. "Ora resto a lavorare", dice ai giornalisti,
ignari dei bagordi ad Arcore: "Nessuna festa serale, perché abbiamo già
festeggiato oggi".
Giampi o Barack? A ottobre le 'serate' di Berlusconi sono (almeno) sette. Il 4
l'agenda ufficiale prevede un vertice del G4 in Francia sulla crisi. L'incontro
dura poco, così il Cavaliere può partire in fretta da Parigi per materializzarsi
al Lotus, locale trendy di Milano. Esce alle 6 e un quarto di mattina,
attorniato da ragazze conosciute sulla pista. È inarrestabile. Dopo tre giorni
entra prima al Bagaglino (titolo dello spettacolo: 'Partiti di testa'), poi
continua la soirée a palazzo Grazioli con la Di Meglio, Barbara Guerra e la
prostituta Ioana Visan, detta Ana. Solo il giorno prima, intervistato da Lilli
Gruber, aveva definito la prostituzione un "fenomeno doppiamente grave: perché
mortifica la donna e spesso si traduce in una vera e propria schiavitù".
Appunto. Il 9, secondo Tarantini, la Visan è di nuovo a Palazzo Grazioli,
insieme a Carolina Marconi e Barbara Guerra. Giovedì 16 Silvio torna dal Belgio
e va a fare shopping. "Sono un po' stanco, perché sono reduce da aver difeso i
nostri interessi a Bruxelles". Nonostante la fatica, organizza una festa dove
incontra per la prima volta Patrizia D'Addario, accompagnata da Giampi e la
solita compagnia di giro. La stanchezza non lo ferma nemmeno il 18 ottobre,
quando torna a Villa Certosa, dove Zappadu lo fotografa insieme a due ragazze
misteriose.
Il 21 ottobre Draghi lancia l'allarme recessione. Il Cavaliere da Napoli
scandisce la sua ricetta: "I problemi si risolvono solo lavorando a tutte le
ore, tutti i giorni, tutte le settimane". Peccato che a Palazzo Grazioli si
continui a festeggiare in gran relax. Cena con Tarantini e tre amiche, Mary De
Brito, Stella Schan e Donatella Marazza. Sempre in ottobre sono sue ospiti anche
Sonia Carpendone, detta Monia, e Roberta Nigro. Sono giornate furibonde. L'Onda
occupa gli atenei, la crisi dei mutui imperversa, tutti guardano alle elezioni
americane. Mentre l'Italia si prepara alla notte bianca del 4 novembre per
seguire la sfida Obama-McCain, Silvio organizza l'ennesima notte in bianco. È la
notte chiave per il mondo, e anche per l'inchiesta di Bari. Quella in cui Giampi
conferma di avere portato dal premier la D'Addario per la seconda volta, con
Barbara Montereale e Lucia Rossini. Patrizia si rivedrà solo alle 8 del mattino
successivo, quando racconterà a Giampi tutti i dettagli, mentre il premier
lascia Palazzo Grazioli diretto a una fiera nel milanese. Obama? "Posso dargli
consigli, sono più anziano", dice ai giornalisti.
Settimana da sballo ll 26 novembre è il giorno degli attentati a Mumbai, 80
morti (il bilancio salirà), italiani in ostaggio. A Roma il presidente del
Consiglio riceve i vertici Alitalia per tentare l'accordo su Malpensa e, in
serata, lascia palazzo Grazioli. È atteso a piazza Colonna, dove Fabrizio
Cicchitto festeggia 'l'addio alle stampelle'. Ma a Ciampino pare che un jet stia
azionando le turbine per portarlo ad Arcore. È lo stesso Tarantini a descrivere
il viaggio con Berlusconi e due ragazze, Maria Esther Garcia Polanco, detta
Maristel, e la modella Michaela Pribisova. Il 27 nella capitale scoppia il
giallo. Nessuno sa dove sia il Cavaliere. Il mattino dopo Tremonti presiede un
vertice a Palazzo Chigi, al quale era atteso anche lui. I cronisti chiedono
spiegazioni, circolano diverse ipotesi, dalla clinica Méssegué, alla trasferta a
Portsmouth per vedere il Milan in coppa, fino al check-up al San Raffaele per le
analisi di rito. Berlusconi riappare alle 20.30 a palazzo Grazioli: "Giallo? No,
ero a Milano a lavorare". Chi aveva puntato sul bis alla beauty farm, però, non
era andato lontano. Venerdì 28 Giampi e Silvio si rincontrano infatti al
Méssegué. Ci sono anche Maristel e, stando alle intercettazioni, Barbara Guerra,
che nel 2009 parteciperà al reality 'La Fattoria', e un'attrice di 'Vivere',
Licia Nunez. Il premier resta in Umbria fino al 30.
Noemi e le altre Il 2 dicembre a Montecitorio il clima è rovente. Il governo ha
chiesto l'ennesima fiducia. Fini è infuriato, la Cisl annuncia 900 mila nuovi
disoccupati. Il premier vola a Tirana, poi torna a Roma e attacca i giornali.
Per la serata, invece, ha un bel programmino. Cena con Manuela Arcuri, che ai
fedelissimi ripete essere "la donna più bella d'Italia". Ospiti anche Stella
Maria Novarino, Luciana Francioli e Francesca Lana, quella cui Tarantini dice di
avere ceduto coca in Costa Smeralda. Lo scontro sulla giustizia sta conquistando
intanto le prime pagine. È una escalation, che culmina il 10 dicembre, con un
Berlusconi piuttosto battagliero: "Cambieremo la costituzione da soli",
proclama. Pure alla moglie Veronica, che ironizza sulla sua assenza alla Scala,
risponde sarcastico: "Ero tornato a casa per accoglierla al suo ritorno". Sarà.
Ma dal premier quella sera arrivano, stando all'interrogatorio di Giampi, Niang
Kardiatou, detta Hawa, e tal Karen. Tarantini ha "pagato mille euro ciascuna". È
un dicembre sfavillante, Silvio sembra tornato ragazzino. Il 15 alla festa del
Milan lo scenario è proprio quello della Milano di 40 anni fa: in sala 600
invitati, due su tutti cari al premier. Una è Noemi, l'eterea biondina ancora
minorenne che lo chiama "papi". Che non sia lì per caso lo dimostra il suo
compagno di tavolo: è nientemeno che Fedele Confalonieri. A fare 'atto di
presenza' c'è, poco più in là, ancora Karen.
Povera schiena Due giorni dopo il premier salta un altro appuntamento ufficiale.
Atteso al Quirinale per la cerimonia del Coni, non arriverà mai, così come nel
pomeriggio diserterà gli auguri di Natale con Napolitano. La giustificazione è
il solito "leggero mal di schiena". I programmi serali di quel 17 dicembre
invece non vengono annullati. Nonostante le amarezze che arrivano dal Tribunale
di Milano (i pm chiedono 4 anni e 8 mesi per l'avvocato Mills considerato "a
libro paga di Berlusconi"), il capo del governo non rinuncia alla visita di
Linda Santaguida, 'schedina' e poi riserva all''Isola dei Famosi', e della
velina Camille Cordeiro Charao, "la sola che si fermò dal presidente", precisa
Giampi. Coincidenza vuole sia anche l'ex compagna di Gianluca Galliani, il
figlio di Adriano. Il 23 dicembre il premier fa recapitare al papa un messaggio
di auguri: "Il Natale è un momento di riflessione sul messaggio cristiano di
speranza, la famiglia è il nucleo centrale della società". La sera, però, fa
ancora festa, stavolta con Carolina Marconi e Graziana Capone, prima di
raggiungere Veronica e i figli per le Sante feste.
Il 28 Berlusconi lascia Roma per la Sardegna. Villa Certosa è già animata da
ore. L'obiettivo di Zappadu ritrae un viavai di belle ragazze nei bungalow e a
spasso per il parco. Vestite da giorno, o pronte per la notte. Il Capodanno è
organizzato in grande stile. A mezzanotte i fuochi d'artificio per un centinaio
di ospiti, fra cui di nuovo Noemi accompagnata dall'amica Roberta. In agenda c'è
una telefonata al collega israeliano Olmert e, soprattutto, il party della
Befana. Quando in villa ricompare Giampi assieme a Barbara Montereale, Chiara
Guicciardi, ex meteorina di Fede, e Clarissa Campironi. Il calendario di Silvio
prevede un'altra serata a Roma, il 14, con la Guicciardi e Letizia Filippi. Ma
Barbara Montereale racconta in un'intervista anche di un incontro alla Certosa a
metà del mese, dietro compenso, a differenza del 6 gennaio, accolta dalla
Ronzulli, con la Petrone e una ventina di belle fanciulle. Il premier torna in
Sardegna il 17, alla vigilia del vertice di Sharm el Sheikh sulla crisi di Gaza.
Fa tappa ad Abbasanta e Nuoro per sostenere il futuro governatore Cappellacci.
Con un gruppo di giovani sostenitori si lascia andare. "Lasciate che i pargoli
vengano a me", dice felice. "E adesso diranno che mi paragono a Gesù".
E' caduta
una Mariastella
di Roberto Di Caro e Denise Pardo
Un curriculum scolastico
anonimo. Una laurea in legge senza lode. Una trasferta a Reggio Calabria per il
praticantato legale. Poi la folgorante carriera politica. La vita da mediocre
della ministra che voleva fare la ballerina e che ora infiamma la scuola
Finora
le fabbriche sono state silenziose. Perfino i magistrati sono spaccati. Lei,
Mariastella Gelmini, ha portato in piazza tutti: professori, genitori, precari,
studenti. La sua riforma è la vera sconfitta del terzo governo Berlusconi.
È signorina. Ma di quelle Signorsì. Tremonti vuole tagli a scuola e università e
il via alla privatizzazione strisciante: lei esegue, e lancia l'idea di
trasformare istituti e atenei in Fondazioni in concorrenza fra loro. Il Vaticano
vuole l'ora di religione cattolica come materia piena di insegnamento: per lei è
subito una "posizione condivisibile". La tattica è elementare, se vuoi far
carriera, non ti puoi fare troppi nemici. Se ne hai (le è capitato quando nel
2000 i suoi di Forza Italia la fecero fuori con una mozione di sfiducia dalla
carica di presidente del consiglio comunale di Desenzano del Garda, e poi nel
2005 quando Berlusconi la nominò coordinatrice regionale tra i malumori della
nomenklatura), meglio star buona, aspettare, prima o poi non mancherà
l'occasione di farseli di nuovo amici. Lei, Mariastella Gelmini, in questo è
bravissima. L'ha anche spiegato: "Non è mica un delitto andare d'accordo con
tutti".
Gelmini, ovvero la temibile leggerezza dello stare nel mezzo (secondo le anime
buone) o della mediocrità (secondo quelle malvage). Non male per una che ogni
due per tre sillaba, enuncia, predica la meritocrazia. Tattica o carattere? Sarà
che ha frequentato le elementari dai preti, 1.700 anime nella Bassa bresciana.
Dove suo padre Italo, agricoltore e allevatore, era stato sindaco Dc e,
divorziato senza scandalo dalla moglie Carmelina, aveva sposato Wanda, la mamma
di Mariastella. Tuttora ci vivono Giuseppe e Cinzia, figli della prima moglie,
ma legatissimi alla sorella, modello famiglia allargata. Il primo, che ha un
magazzino di prodotti per l'allevamento, è dall'aprile 2008 vicesindaco Pdl; la
seconda, insegnante elementare, è rappresentante sindacale Cgil. Scoppiò un
mezzo putiferio quando, il 30 ottobre 2008, Cinzia non aderì allo sciopero
generale degli insegnanti e si mise in aspettativa non retribuita.
Gelmini voleva fare la ballerina. Le è andata male: è diventata ministro. Alle
medie, Luigi Sturzo della vicina Gottolengo, dove fino ai 15 anni vivrà in una
cascina, Mariastella è la passione della sua professoressa, Maria Nunziata
Terzo: studia danza, conduce la battaglia contro l'intercalare dialettale
"pota", aiuta il compagno down. Al liceo classico le cose si fanno più
complicate. Ne cambia tre: il Manin di Cremona dove frequenta i due anni di
ginnasio, poi lo statale Bagatta di Desenzano dove comincia la prima liceo per
lasciarlo a dicembre e spostarsi a Brescia, liceo privato diocesano Cesare Arici,
lo stesso dove aveva studiato Giovanni Battista Montini, papa Paolo VI: "Sì,
abbiamo fama di severità, ma senza particolari asprezze", racconta Gian Enrico
Manzoni, che della liceale Mariastella fu l'insegnante di greco e latino. Quanto
al carattere, Manzoni la descrive "riservata, né un'isolata né una leader,
nessuna bega con i compagni, non che io ricordi almeno": già allora tendeva ad
andare d'accordo con tutti. "Non ero la prima della classe, ma non ho mai avuto
problemi", ha sintetizzato quel periodo l'interessata. È vero. In pagella prese
5 in latino scritto al primo quadrimestre, "ma era un'alunna diligente, anche se
non mi viene in mente nessun particolare amore per questo o quell'autore, e a
fine anno conquistò il 7", ricorda Manzoni. In greco, italiano, matematica
oscilla sempre fra il 6 e il 7. Scienze 7, arte e storia 8. Alla maturità, siamo
nel luglio 1992, uscì con 50/60.
Proprio del provvedimento sul voto di condotta, e dell'altro che richiede il 6
in tutte le materie per essere ammessi all'esame di maturità, parlano Manzoni e
Gelmini ormai ministro quando, a fine 2008, si reincontrano. Il suo liceo la
invita a una rimpatriata, ma in tutta Italia scoppia la protesta degli studenti
e lei sparisce dalla circolazione: figuriamoci se rischia una contestazione
proprio davanti alla sua vecchia scuola, sai che chicca per i giornali. Invita
però Manzoni al ministero. "Fu molto gentile. Cercai di convincerla che, sotto
l'apparenza del rigore e del merito, quei suoi due atti avrebbero sortito
effetti opposti".
Che poi qualche comprensione per la voglia di molti studenti a fine corso di
chiudere i conti con la scuola e passare ad altro la dovrebbe avere, Mariastella
Gelmini. Perché capitò anche a lei. Non alla maturità, ma nella tesi di laurea,
Università di Brescia, facoltà di Giurisprudenza, appello del 12 luglio 1999.
"Era venuta da me spiegandomi che, fuori corso di tre anni, voleva concludere in
fretta gli studi, accennando di sfuggita a qualche suo impegno politico a
Desenzano", racconta Antonio D'Andrea, ordinario di Diritto costituzionale: che
dell'impacciatissima laureanda fu relatore. "Concordammo dunque una tesi non
impegnativa: sull'iniziativa referendaria delle Regioni, tema allora d'attualità
perché alcune amministrazioni di centrodestra, Lombardia in testa, si
apprestavano a usare tale strumento per contrastare il governo Prodi". Si
incontrano cinque o sei volte, l'ultima lui le chiede di rafforzare un po'
l'apparato teorico e di completare il compitino almeno con un piccolo apparato
di note e una bibliografia accettabile: ma capisce subito "che non è il caso di
insistere. Certo non ci si innamora di uno studente come lei, media, diligente,
non particolarmente motivata; ma in fondo il suo lavoro era passabile, c'era il
minimo indispensabile. Il punto di caduta, inaspettato, fu la discussione della
tesi". D'Andrea le rivoge una domanda di ordine generale: lei "rimane
sconcertata, imbarazzata, è in difficoltà, mostra di non avere padronanza
dell'argomento. In situazioni del genere non si infierisce: le chiedo qualcosa
sull'argomento della tesi e in meno di dieci minuti, con un po' di disappunto,
la licenziamo con 100/110". Significa che, arrivata con un punteggio d'esami di
99,28 pari a una buona media del 27, la tesi le fu valutata meno di un punto
sugli 11 possibili. Dei cinque laureati quel giorno con D'Andrea, due con lode,
lei fu la più scarsa. Che ha pensato il professore a vederla oggi ministro
alfiere del rigore e del merito? "Non ricordo se mi è venuto da sorridere o se
ho alzato gli occhi al cielo. Ma che vuole, la politica ha i suoi criteri. E i
suoi peculiari talenti".
E questi a lei non mancano di certo. È il '94, Berlusconi scende in campo,
Mariastella ha ventun anni. Fin da subito gioca sui due terreni chiave di un
politico: sul territorio, dove costruirà la sua fortuna elettorale, e al centro,
nel cuore del potere. A Desenzano, dove ormai vive con la madre separata
aiutandola a volte nel negozio di estetica a Sirmione, fonda con Emanuele
Giustacchini ed Enrico Frosi, e presiede il primo club locale di Forza Italia:
"Varie sere la settimana", racconta Giustacchini, oggi assessore a Desenzano,
"ci trovavamo in una decina di persone a casa sua: manifesti, banchetti di
propaganda". Intanto però, due o tre volte la settimana, parte in treno da
Desenzano per fare volontariato di partito a Milano: sulla costituzione dei
club, in stretto rapporto con Mario Mantovani, oggi sottosegretario alle
Infrastrutture, e con Giancarlo Abelli, allora consulente per la Sanità della
Regione oggi deputato. Poco dopo comincia anche la storia d'amore di Mariastella
con Giuleader bresciano dell'ala ex democristiana di Forza Italia: durerà fino
al 2004. Lui continua a dire di lei che è una "una donna tenace, capace, gran
tessitrice, la Letta lombarda, uno dei pontieri tra Berlusconi e Formigoni".
Alle politiche del '96, "con la carica di partito di delegato di collegio, la
Gelmini riesce a far eleggere deputato Adriano Paroli, ciellino formigoniano di
ferro, paracadutato dall'alto e ignoto al territorio", aggiunge Giustacchini.
Poi, nel '98, con 300 preferenze, è la prima eletta al consiglio comunale, di
cui diventa presidente. La scalata è cominciata. Ma nel 2000 arriva la tegola:
tre su sei dei consiglieri Forza Italia la destituiscono con una mozione votata
dagli alleati civici e dall'opposizione. Diatribe interne, raccontano: l'ala
"laica" di Franco Nicoli Cristiani, allora come oggi assessore regionale, contro
i cattolici di Romele.
Ma la ragazza è un muro di gomma, incassa come un pugile esperto. Non deve
aspettare molto. Nel 2002, passato a Reggio Calabria l'esame di Stato per
diventare avvocato (vedi box a pag. 37), c'è un rimpasto in giunta alla
Provincia di Brescia: "Romele pretese un posto per lei, io raggiunsi con lui un
accordo, Gelmini divenne assessore al Territorio", racconta Nicoli Cristiani.
Dopo le provinciali del 2004 la Lega esige il Territorio, Gelmini e Romele
s'inalberano: "Ma siete matti? Prendete l'Agricoltura, vale da solo 10 mila
voti: i contadini chiedono sempre, ma non dimenticano mai", le dice Nicoli.
Gelmini prende l'Agricoltura. Ma ha un feeling più intenso con i cacciatori, che
nel bresciano sono una lobby potentissima per tradizione e per business: la
voteranno in massa quando, nell'aprile 2005, diventa consigliere regionale,
prima eletta di Forza Italia, a Brescia con 17.500 preferenze. Li ricambierà,
racconta Nicoli, battendosi in consiglio regionale per l'approvazione della
caccia in deroga, cioè perché possano liberamente sparare a peppole, stornelli e
fringuelli.
Non che abbia tempo di fare molto altro, nell'anno esatto in cui resta
consigliere regionale. Berlusconi la vuole subito a Roma, nella segreteria di
Palazzo Grazioli. Un mese dopo la nomina coordinatrice regionale di Forza
Italia. Nel 2006 è eletta deputato. Poi, domenica 18 novembre 2007, in un'ora e
mezzo organizza una folla in piazza San Babila per l'annuncio che Silvio ha
deciso di fare, bruciando i tempi: la nascita del Popolo delle libertà. Da quel
predellino il capo lancia anche lei, Mariastella, nel firmamento delle star del
centrodestra.
Peccato che un anno e mezzo su una poltrona da sempre tra le più puntute in
qualsiasi governo la facciano oggi sembrare più che altro una stella cadente.
Rieletta nel 2008, Maria Star, come la chiama Luciana Littizzetto, è una delle
quattro donne al governo. Per il Cavaliere è il pezzo più pregiato. Una volta al
consiglio dei ministri sedette nella sedia del premier. " Ecco vedete ha già
preso il mio posto", commentò Berlusconi ridendo. Se all'esterno ogni suo gesto
sfocia in un corteo, con la burocrazia del ministero si muove in punta di piedi
bene attenta a non pestare i calli a nesssuno. E si circonda di personaggi che,
in un modo o nell'altro, le tornano utili. Tra i consulenti Alberto Albertini,
reperto democristiano della sua Brescia, già al Cnr, personaggio passato
attraverso molte grane giudiziarie. Come portavoce sceglie Massimo Zennaro,
inizi con Marcello Dell'Utri poi con Tiziana Maiolo al Comune di Milano; qualche
mese e lo promuove direttore generale della Direzione generale per lo studente
del ministero. Un vero atto da Casta. Al suo fianco Giuseppe Pizza,
sottosegretario, uno che conosce tutti gli ingranaggi e i pozzi avvelenati della
politica romana, proprietario legale dello scudocrociato Dc. A darle un sostegno
tecnico, i due forzisti presidenti delle commissioni parlamentari di
riferimento, Valentina Aprea alla Camera e Guido Possa al Senato. A Roma le gira
spesso intorno adorante Renato Farina, per il Sismi "l'agente Betulla", espulso
dall'Ordine dei giornalisti, nel 2008 eletto deputato per il Pdl, Collegio
Lombardia 2. Tra quelli che non inviterebbero Mariastella al ballo della scuola
Giulio Tremonti (anche se quando lui taglia i fondi, lei sbatte i tacchi e
decurta i docenti) e Denis Verdini (lui scherzoso le dice davanti a tutti che è
sexy, lei, che non trova la cosa appropriata al suo rango, si sforza di
sorridere, Verdini è potente e lei lo sa bene).
Roma le ha cambiato il taglio di capelli, dal parrucchiere delle dive Roberto
D'Antonio accanto a Montecitorio, ma non l'approccio circospetto, il talento di
evitare rogne. Se Renato Brunetta si tuffa appena intravede una polemica,
Gelmini fugge borbottando che "non si fa così": a giugno alla contestata
presentazione di un libro di Mario Giordano alla Mondadori di piazza Duomo, a
luglio quando in una sua conferenza stampa irruppe il senatore Idv Stefano
Pedica. Non si nega invece, il ministro Gelmini, dove sa che il parterre è tutto
per lei: al campus biomedico di Trigoria presso Roma, Opera apostolica della
Prelatura dell'Opus Dei, come al Meeting di Rimini di Cl, dove per tre giorni
interi è stata la gemella siamese di Formigoni.
Dovevano scambiarsi le poltrone, i due: lei alla presidenza della Regione, lui
al ministero dell'Istruzione: ma è stata proprio lei, un giorno prima di
Berlusconi, a dichiarare che Formigoni è e resta l'unico candidato, certo e
indiscutibile, alla Regione. In fondo si somigliano, lei e l'ex vergine del
Pirellone: in entrambi amabilmente coesistono l'anima crociata e quella mondana,
nel senso di uso di mondo, lui con quelle sue giacche arancione, lei con quel
bikini con il quale cui a Positano l'ha immortalata "Chi", settimanale della
real casa d'Arcore, titolo "In piscina zero in condotta" arpionata con un bacio
hard al nuovo fidanzato Giorgio Patelli: 51 anni, geologo, dieci anni fa
all'assessorato all'Ambiente della Lombardia, poi immobiliarista, oggi anche
imprenditore edile, un bellone ben diverso dal tipo Hulk alla Romele.
Prudente sì, ingrata no, Mariastella. A giugno, provinciali di Brescia, si batté
invano fino allo spasimo perché alla Presidenza fosse candidato il suddetto
Romele e sembrava profilarsi uno scontro con Viviana Beccalossi di An. "Diciamo
la verità, tu vuoi piazzare il tuo ex fidanzato", la azzannò Ignazio La Russa.
Lei, piccata, replicò: "Almeno, di me si sa".
L'egemonia del becero e il cervello di Brunetta
di Pierfranco Pellizzetti, da Il Secolo XIX
Ricevo una mail da amici americani: «speriamo
passi la riforma sanitaria di Obama, almeno quelli potranno farsi curare il
cervello». Il quelli si riferisce alla massa dei manifestanti scesi in piazza
negli Stati Uniti contro un progetto che dovrebbe assicurare assistenze minime
ai milioni di loro concittadini attualmente privi di tutele. Situazione
scandalosa, quanto a esclusivo vantaggio delle compagnie assicurative private
(che cercano in tutti i modi di non pagare neppure le prestazioni dovute agli
assicurati, per fare finanza e così ungere le ruote politiche che garantiscano
allinfinito i loro privilegi).
Qualcosa di incomprensibile per noi europei; ma il cui contrario viene agitato
dallaltra sponda dellAtlantico come comunismo. Ad aizzare la piccola gente e
fargli strillare gli slogan più incredibili: da «Stalin riprenditi i nostri
politici» a «la sanità di Obama ci renderà malati».
Lapoteosi del pensiero becero, che rimbomba anche dalle nostre parti. Per cui
sono presunti italiani brava gente che minacciano sfracelli se qualcuno osa
criticare i respingimenti di poveri cristi in balia del Mediterraneo, ammassati
da settimane in precari barconi (su cui non di rado ci muoiono pure). Magari
quegli stessi che organizzano o frequentano riti bislacchi di ampolle versate
alle foci del Po in onore di una misteriosa entità tribale chiamata Eridano.
Ossia, il dato evidente che pure qui sono saltati tutti gli argini preposti a
fungere da diga alle pulsioni più rozze e primitive. Peggio: si è permesso loro
di occupare la scena politica scalzando antiche pudicizie; forse anche un po
ipocrite, di certo opportune per non sprofondare nellimbarbarimento. Visto che
come è stato detto - «lipocrisia è lomaggio che il vizio rende alla virtù».
Intanto per le stesse ragioni la vita pubblica si è trasformata in una sequenza
ininterrotta di colpi bassi e porcate. Vera goduria da avvinazzati valligiani.
Nel caso del ministro Brunetta, lopportunità di dare sfogo ad antiche
frustrazioni da mezza tacca craxiana (con laggravante parafrasando Spoon River e
De André di un cervello troppo vicino al buco del culo?).
Se al tempo dello scandalo Montesi mezzo secolo fa i mandanti si premurarono di
restare nellombra, ora ci si vanta ostentatamente perfino dei dossier tarocchi
usati a mo di clava per spaccare la testa e fare a pezzi la reputazione a chi
non riga dritto e fa la fronda contro il Capo.
Una trasformazione al peggio, che coincide con le strategie sempre più
aggressive di una Neodestra in campo da almeno trentanni. A seguito della
rivoluzione conservatrice che ha trionfato prima in America, poi pure in casa
nostra coniugando cinismo e fanatismo; praticando la diffamazione e la menzogna
come armi mortali: dal caso del veterano eroe di guerra John Kerry infamato come
imboscato (a vantaggio dellimboscato vero, George Bush Jr.) a quanto sta
aleggiando minacciosamente sul capo del presidente della Camera Gianfranco Fini.
Pratiche che si rivolgevano e rivolgono alle fobie di fasce sociali un tempo
sottoposte a rigorosa tutela; quanto facilmente manipolabili toccando i tasti
sensibili del becero andante: dallo sciovinismo xenofobo ai risentimenti vari.
Diffondendo paura e rabbia attraverso un martellamento mediatico che si mette
sulla stessa lunghezza donda dei loro preconcetti ottusi. Accreditandoli.
Azione di involgarimento irresponsabile della vita pubblica che mentre sovverte
le agende delle priorità, azzerando ragionevolezza e senso di responsabilità va
immettendo nella politica un personale di base selezionato proprio nei nuovi
bacini del consenso. Sicché, al posto di competenza e capacità decisionali, ora
valgono polmoni possenti per strillare truculenze da cerebrolesi; in cui possono
identificarsi moltitudini plebee, prive di qualsivoglia educazione alle regole e
ai principi della democrazia.
Il pensiero becero che diventa classe dirigente.
Ottanta
giorni di resistenza
Il resoconto dal Centro
America di Giorgio Trucchi
Il
15 settembre è stata una giornata storica per l'Honduras. Centinaia di migliaia
di honduregni sono scesi in strada in tutto il paese per commemorare
l'anniversario dell'indipendenza del Centroamerica, riaffermare lo spirito
unionista dell'eroe centroamericano Francisco Morazán e per celebrare
l'ottantesimo giorno di resistenza contro il colpo di Stato perpetrato dalle
forze reazionarie nazionali ed internazionali.
Alla fine della gigantesca marcia che ha attraversato la capitale Tegucigalpa,
membri della direzione congiunta del Fronte Nazionale Contro il Colpo di Stato
hanno letto un proclama nel quale affermano che l'Honduras "sta vivendo
un'insurrezione non violenta contro il regime usurpatore che lo scorso 28 giugno
ha assaltato le istituzioni dello Stato con le armi. Per questo motivo nessuna
commemorazione indipendentista può essere presa in considerazione se celebrata
sotto questa dittatura infame e golpista.
Oggi stiamo vivendo la stessa oppressione che 300 anni fa, con la croce e con la
spada, aveva imposto l'impero spagnolo alle eroiche popolazioni che sono
sopravvissute alle barbarie.
Il popolo dell'Honduras - segnala il proclama - continua la sua lotta. Oggi
celebriamo ottanta giorni di instancabile resistenza in tutto il paese per la
restaurazione della democrazia, il ritorno del presidente costituzionale Manuel
Zelaya Rosales e la convocazione di una Assemblea Costituente".
Facendo appello all'articolo 3 della Costituzione, il Fronte Nazionale Contro il
Colpo di Stato ha anche rivendicato il diritto del popolo honduregno
all'esercizio della disubbidienza civile contro un regime dispotico nato grazie
alla forza delle armi.
Ha proclamato l'urgenza di una nuova Costituzione "per creare le basi della
nostra vera indipendenza economica e sociale, garantendo in questo modo che
l'oligarchia, insieme alla cupola politico-militare, non possano mai più rompere
l'ordine costituzionale senza ricevere un giusto castigo", ha nuovamente
attaccato e respinto l'ipotesi di un processo elettorale militarizzato "con il
quale pretendono legittimare le barbarie commesse a partire dallo scorso 28
giugno", ed ha ringraziato profondamente tutti i popoli del mondo che hanno
dimostrato " la loro solidarietà con la nostra causa.
Mentre la nostra lotta diventa sempre più grande, gli usurpatori stanno
crollando, accerchiati ed isolatidall'intera umanità", conclude il proclama.
Una marcia impressionante. Secondo Porfirio Ponce, vicepresidente dello storico
Sindacato dei Lavoratori dell'Industria delle Bevande e Simili ( STIBYS ),
affiliato alla UITA , e membro del Fronte Nazionale Contro il Colpo di Stato,
"abbiamo commemorato l'indipendenza dell'Honduras e del Centroamerica mentre
viviamo sotto un regime de facto golpista, che se da una parte ha tolto la pace
al nostro paese, dall'altra ha provocato l'unità ed il rafforzamento del
movimento popolare honduregno.
In questo ottantesimo giorno di resistenza abbiamo assistito ad una
mobilitazione mai vista prima nel paese. La gente è uscita per le strade in
tutto l'Honduras - ha continuato Ponce - ed a Tegucigalpa la partecipazione è
stata impressionante, con molta più gente di quella dello scorso 5 luglio quando
circa 300 mila persone si erano radunate all'aeroporto internazionale di
Toncontín per aspettare il ritorno del presidente Manuel Zelaya. Centinaia di
migliaia di persone si sono ora riunite nel Boulevard Morazán ed hanno marciato
verso il centro della città, fino ad arrivare al Parco Centrale, formando una
colonna di vari chilometri".
Il vicepresidente dello STIBYS ha inoltre spiegato alla Lista Informativa
"Nicaragua y más" che l'attività si è sviluppata senza problemi e che l'esercito
e la polizia non hanno avuto il coraggio di reprimere la manifestazione per
l'enorme quantità di gente presente in tutto il paese.
"Questo è un popolo che si è svegliato e oggi più che mai, siamo sicuri che
nessuno potrà fernare il processo che ci porterà alla creazione di un'Assemblea
Costituente. Questo popolo è sicuro di potere recuperare ciò che gli appartiene,
attraverso la creazione di una nuova Costituzione che si basi sui bisogni ed i
diritti della gente comune e non, come ora, sugli interessi dell'oligarchia
locale", ha concluso.
Zelaya e Ortega celebrano l'Indipendenza. In occasione della settimana di
commemorazione dell'Indipendenza Centroamericana, i presidenti del Nicaragua e
dell'Honduras, Daniel Ortega Saavedra e Manuel Zelaya Rosales, hanno ricevuto la
"Fiaccola della Libertà" dalle mani degli studenti nicaraguensi all'interno
della storica hacienda San Jacinto, luogo in cui nel 1856 l 'esercito del
Nicaragua sconfisse i filibustieri dell'avventuriero statunitense William Walker.
"In questo luogo si è svolta una delle battaglie che sono il simbolo della lotta
in difesa della nostra libertà - ha detto Manuel Zelaya -.
Continuiamo a lavorare e lottare per la Patria, perché i nostri avversari e
nemici continuano ad essere gli stessi. Oggi come ieri dobbiamo quindi duplicare
i nostri sforzi per sconfiggerli e per difendere la democrazia.
In Honduras è stata soppressa la libertà e i gruppi oligarchici continuano a
volere mantenere il paese in schiavitù - ha continuato il presidente honduregno
-. Il popolo nicaraguense si è unito a quello hondureño in difesa della
democrazia in Centroamerica e per questo lo ringraziamo infinitamente.
Non avremo pace e non daremo tregua al regime golpista che usurpa il potere fino
a che nel nostro paese non ritorni la democrazia", ha concluso.
Sotto una pioggia battente e dopo un lungo discorso in cui ha ricordato il colpo
di Stato in Cile, orchestrato dai militari di questo paese e dal governo
nordamericano, il presidente Daniel Ortega ha spiegato alle migliaia di studenti
e studentesse giunte fino a qui per accompagnare il lungo percorso della
"Fiaccola della Libertà Centroamericana", che non si può continuare a parlare di
democrazia in America Latina mentre in Honduras il governo golpista continua a
mantenersi nel potere, reprimendo ed assassinando la popolazione.
"La comunità internazionale ha l'obbligo morale ed etico di accompagnare il
popolo honduregno in questa battaglia, obbligando i golpisti ad abbandonare il
potere", ha concluso.
Nei prossimi giorni il presidente Manuel Zelaya parlerà davanti al plenario
dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
18 settembre
Afghanistan, una guerra costosa e rischiosa
I costi umani ed economici di questa guerra, la ricostruzione che non c'è, il
crescente coinvolgimento delle truppe italiane
La
guerra in Afghanistan, quella iniziata il 7 ottobre 2001, ha provocato la morte
di 21 soldati italiani, 1.400 soldati alleati, 6 mila soldati e poliziotti
afgani, circa 25 mila guerriglieri talebani e quasi 11 mila civili afgani (di
cui oltre 3 mila vittima degli attacchi talebani e almeno 7 mila uccisi dalle
truppe alleate - più di 3 mila civili morirono nei soli bombardamenti aerei del
2001-2002). In totale, quindi, almeno 43 mila vite umane sono state stroncate in
otto anni di guerra.
La spedizione militare in Afghanistan è costata finora ai contribuenti italiani
oltre due miliardi e mezzo di euro. All'inizio la missione aveva un costo annuo
medio di circa 300 milioni di euro, ma oggi - con il progressivo invio di più
uomini e mezzi - supera ampiamente il mezzo miliardo (il che significa quasi un
milione e mezzo di euro al giorno).
Per la tanto propagandata ricostruzione dell'Afghanistan, l'Italia ha speso
finora circa 40 milioni di euro.
Distruggere o ricostruire? Queste cifre,
che su scala maggiore sono le stesse per gli Stati Uniti e gli altri alleati,
sono il frutto della strategia adottata dalla Nato in Afghanistan, soprattutto
negli ultimi anni. Nel dicembre 2007 il capo del Pentagono, Robert Gates,
dichiarò che in Afghanistan la Nato deve spostare la sua attenzione
dallobiettivo primario della ricostruzione a quello di condurre una classica
controinsurrezione. E così è stato. Si è deciso che prima bisognava vincere la
guerra e sconfiggere i talebani, e solo poi ricostruire il paese. Come nella
seconda guerra mondiale spiegava recentemente nel dibattito di Firenze lanalista
militare Gianandrea Gaiani prima si sconfissero i nazisti, poi si ricostruì
lEuropa con il piano Marshall.
Io non condivido questa sequenza, prima la sicurezza e poi ricostruzione, gli
aveva ribattuto il generale Fabio Mini, ex comandante delle truppe Nato in
Kosovo. Oggi la sicurezza in Afghanistan non è assicurata da nessuno, tanto meno
dalle forze militari straniere. Controllare il territorio significa avere il
consenso della gente. Noi non potremo mai avere sicurezza fino a quando non sarà
garantita la sopravvivenza agli afgani. Cè bisogno di ricostruire lAfghanistan,
anzi, di lasciarlo costruire a chi ha le forze: ai civili. Lasciamo perdere i
militari.
I rischi per i soldati. Fino a tre anni fa
le truppe italiane schierate in Afghanistan erano concentrate a Kabul, dove la
situazione era ancora molto tranquilla, e non svolgevano azioni di combattimento
- se si escludono le forze speciali della Task Force 45 impegnate
nell'operazione segreta Sarissa'.
Dall'estate del 2006, con spostamento del contingente stato nelle regioni più
calde' dell'ovest, sono iniziati i primi scontri con i guerriglieri talebani,
ufficialmente solo difensivi'. Dal gennaio 2009 le truppe italiane, mutate nella
loro composizione (non più alpini e bersaglieri ma solo parà della Folgore),
cresciute di numero (quasi 3 mila) e dotate di mezzi più aggressivi (carri
armati ed elicotteri da combattimenti), hanno ufficialmente iniziato le azioni
offensive' penetrando in zone controllate dai talebani (Farah e Badghis). Da
allora i soldati italiani sono quotidianamente impegnati in azioni di
combattimento e in vere e proprie battaglie nelle quali hanno ucciso centinaia
di guerriglieri.
Anche le truppe rimaste a presidiare Kabul, ormai accerchiata e infiltrata dai
talebani, si sono trovate esposte a imboscate e attacchi, sia fuori che dentro
la capitale.
Enrico Piovesana
Complotto
sotto il mare
di Riccardo Bocca
Rifiuti tossici inabissati in mare. Con coperture eccellenti. In un giro
di auto diplomatiche e soldi in Svizzera. Le nuove rivelazioni del pentito della
'ndrangheta che ha fatto trovare il primo relitto. Colloquio con Francesco Fonti
L'ex
boss della 'ndrangheta Francesco Fonti è soddisfatto e amareggiato allo stesso
tempo. "Per anni nessuno ha voluto ascoltare quello che dicevo ai magistrati. Ho
sempre ammesso di essermi occupato dell'affondamento di navi cariche di rifiuti
tossici e radioattivi. Ho indicato dove cercare: al largo di Cetraro, nel punto
in cui il 12 settembre la Regione Calabria e la Procura di Paola hanno trovato a
480 metri di profondità un mercantile con bidoni nella stiva. Eppure, anche oggi
che tutti mi riconoscono attendibile, devo affrontare una situazione assurda:
vivo nascosto, senza protezione, con il pericolo che mi cerchino sia la cosca a
cui appartenevo, sia i pezzi di Stato che usavano me e altri 'ndranghetisti come
manovalanza". L'altra sera, aggiunge Fonti, "mi ha telefonato Vincenzo Macrì, il
consigliere della Direzione nazionale antimafia. Ha detto: "Speriamo che ora non
ci ammazzino tutti?". Ecco di cosa stiamo parlando. Di vicende che puntano
dritte al cuore della malavita internazionale e delle istituzioni". Nonostante
questo, Fonti, trafficante di droga condannato a 50 anni di carcere, poi
diventato collaboratore di giustizia, si sente sereno: "La mia è stata una
scelta di vita: mi sono pentito perché ho avuto ribrezzo di quanto fatto da
malavitoso, dopodiché succeda quel che deve succedere". Ecco perché non intende
restare in silenzio. "Sono tanti i retroscena da chiarire", assicura. Tantopiù
dopo sabato, quando è stato annunciato il ritrovamento lungo la costa cosentina
della nave con i bidoni lunga circa 120 metri e larga una ventina: "In questo
clima apparentemente più disposto alla ricerca della verità, voglio fornire un
mio ulteriore contributo. In totale trasparenza. Senza chiedere niente in
cambio, tranne il rispetto e la tutela della mia persona". Con tale premessa,
Fonti squaderna storie di gravità eccezionale e con particolari che, ovviamente,
dovranno essere vagliati dagli investigatori.
Il suo racconto parte dal 1992, quando l'ex boss spiega di avere affondato le
navi Cunski, Yvonne A e Voriais Sporadais dietro indicazione dell'armatore
Ignazio Messina. "Nel dossier che ho depositato alla Direzione nazionale
antimafia (pubblicato nel 2005 dal nostro settimanale), ho scritto che in quell'occasione
abbiamo inviato uomini del clan Muto al largo di Cetraro per far calare a picco
la Cunski, mentre ho precisato che la Yvonne A era stata affondata a Maratea",
dice Fonti: "Quanto alla Voriais Sporadais, indicai che a bordo aveva 75 bidoni
di sostanze tossiche, ma non segnalai il punto esatto dell'affondamento. Oggi
voglio precisare che la portammo al largo di Melito Porto Salvo, in provincia di
Reggio Calabria, sulla costa jonica, e che a occuparsi materialmente
dell'operazione fu il boss della zona Natale Iamonte ". Di più: "Lo stesso
Iamonte", prosegue Fonti, "si è dedicato spesso allo smaltimento in mare di
scorie tossiche. Specialmente quelle che provenivano da ditte chimiche della
Lombardia". Nel caso della Voriais Sporadais, precisa, accadde tutto in una
notte autunnale del 1992: "Io e il figlio di Natale Iamonte, di cui non ricordo
il nome, salimmo sul motoscafo con un terzo 'ndranghetista che guidava e aveva
una cassetta di candelotti di dinamite. Arrivammo al limite delle acque
territoriali, montammo sopra la nave, facemmo portare a riva il capitano e
l'equipaggio, dopodiché piazzammo i candelotti a prua e sparimmo indisturbati".
Fonti non ha problemi ad ammetterlo: "Era una procedura facile e abituale. Ho
detto e ribadisco in totale tranquillità che sui fondali della Calabria ci sono
circa 30 navi". E non parla per sentito dire: "Io ne ho affondate tre, ma ogni
anno al santuario di Polsi (provincia di Reggio Calabria) si svolgeva la
riunione plenaria della 'ndrangheta, dove i capi bastone riassumevano le
attività svolte nei territori di loro competenza. Proprio in queste occasioni,
ho sentito descrivere l'affondamento di almeno tre navi nell'area tra Scilla e
Cariddi, di altre presso Tropea, di altre ancora vicino a Crotone. E non mi
spingo oltre per non essere impreciso". Ciò che invece Fonti riferisce con
certezza, è il sistema che regolava la sparizione delle navi in fondo al
Mediterraneo. "Il mio filtro con il mondo della politica è stato, fin dal 1978,
un agente del Sismi che si presentava con il nome Pino. Un trentenne atletico,
alto circa un metro e ottanta con i capelli castani ben pettinati all'indietro,
presentatomi nella Capitale da Guido Giannettini, che alla fine degli anni
Sessanta aveva cercato di blandirmi per strapparmi informazioni sulla gerarchia
della 'ndrangheta. Funzionava così: l'agente Pino contattava a Reggio Calabria
la cosca De Stefano, la quale informava il mio capo Romeo, che a sua volta mi
faceva andare all'hotel Palace di Roma, in via Nazionale. Da lì telefonavo alla
segreteria del Sismi dicendo: ?Sono Ciccio e devo parlare con Pino?. Poi venivo
chiamato al numero dell'albergo, e avveniva l'incontro" Il contenuto degli
appuntamenti, era sempre simile. "L'agente Pino mi indicava la quantità di
scorie che dovevamo far sparire ", spiega Fonti, "e mi chiedeva se avessimo la
possibilità immediata di agire". La maggior parte delle volte, la risposta era
positiva. Ed era un ottimo affare: "Si partiva da 4 miliardi di vecchie lire per
un carico, e si arrivava fino a un massimo di 30". Soldi che venivano
puntualmente versati a Lugano, presso il conto Whisky all'agenzia Aeroporto
della banca Ubs, o in alcune banche di Cipro, Malta, Vaduz e Singapore. Tutte
operazioni che svolgevamo grazie alla consulenza segreta del banchiere Valentino
Foti, con cui avevamo un cinico rapporto di reciproca convenienza ". Quanto ai
politici che stavano alle spalle dell'agente Pino, secondo Fonti, sarebbero nomi
noti della cronaca italiana. "Mi incontrai più volte per gestire il traffico e
la sparizione delle scorie pericolose con Riccardo Misasi, l'uomo forte
calabrese della Democrazia cristiana", dice, "il quale ci indicava se i carichi
dovessero essere affondati o seppelliti in territorio italiano o straniero. La
'ndrangheta, infatti, ha fatto colare a picco carrette del mare davanti al
Kenya, alla Somalia e allo Zaire (ex Congo belga), usando capitani di
nazionalità italiana o comunque europea, ed equipaggi misti con tunisini,
marocchini e albanesi". Rimane l'incontrovertibile fatto, aggiunge Fonti, "che
la maggior parte delle navi è stata fatta sparire sui fondali dei nostri mari ".
Non soltanto attorno alla Calabria, "ma anche nel tratto davanti a La Spezia e
al largo di Livorno, dove Natale Iamonte mi disse che aveva ?sistemato? un
carico di scorie tossiche di un'industria farmaceutica del Nord".
E non è finita. Secondo Fonti, un altro politico di primo piano avrebbe avuto un
ruolo nel grande affare dei rifiuti pericolosi. "Si tratta dell'ex segretario
della Dc Ciriaco De Mita, indicatomi a metà Ottanta da Misasi per trattare in
prima persona il prezzo degli smaltimenti richiesti dallo Stato". Stando al
pentito, lui e De Mita si sono visti "tre o quattro volte" nell'appartamento del
politico a Roma, dove il boss fu accolto "con una fredda gentilezza". Nella
prima occasione, ricorda, "mi fece sedere in salotto e disse: ?Sono soltanto
affari??; frase che mi ha ripetuto negli incontri successivi, come a
sottolineare un profondo distacco tra il suo ruolo e il mio". Fatto sta,
continua Fonti, che "concordammo i compensi per più smaltimenti ". Poi, quando
l'affondamento o l'interramento delle scorie veniva concluso, "l'agente Pino ci
segnalava la banca dove potevamo andare a riscuotere i soldi "?. Denari
accreditati "su conti del signor Michele Sità, un nome di fantasia riportato sui
miei documenti falsi. Andavo, recuperavo i contanti e li consegnavo alla
famiglia Romeo di San Luca, dove ricevevo la mia parte: circa il 20 per cento
del totale".
Da parte sua, l'ex segretario della Dc Ciriaco De Mita nega qualunque rapporto
con Fonti: "Smentisco nella maniera più netta", commenta, "le affermazioni di
una persona che non credo di conoscere. Porterò questo individuo innanzi al
tribunale per rispondere penalmente e civilmente delle sue calunniose
dichiarazioni". Vero è, specifica De Mita, "che Misasi era mio amico, e che
abitava sotto di me, ma tutto il resto non ha assolutamente senso". Una replica
alla quale seguono altri racconti dell'ex boss, che dopo il ritrovamento del
mercantile sui fondali di Cetraro, non si limita a occuparsi dei retroscena di
casa nostra, ma apre una pagina internazionale finora ignota sulla Somalia:
"Avevo rapporti personali", dice, "con Ibno Hartomo, alto funzionario dei
servizi segreti indonesiani, il quale contattava me e la 'ndrangheta per
smaltire le tonnellate di rifiuti tossici a base di alluminio prodotte
dall'industriale russo Oleg Kovalyov, vicino all'allora agente del Kgb Vladimir
Putin". Un lavoro impegnativo per le dimensioni, spiega Fonti, gestito in due
fasi: "Nella prima caricavamo le navi in Ucraina, a Kiev, le facevamo passare
per Gibuti e le dirigevamo a Mogadiscio oppure a Bosaso. Nella seconda fase,
invece, le scorie venivano affondate a poche miglia dalla costa somala o
scaricate e seppellite nell'entroterra". Facile immaginare le conseguenze che
tutto ciò potrebbe avere avuto sulla salute della popolazione. E altrettanto
facile, secondo Fonti, è spiegare come le navi potessero superare senza problemi
la sorveglianza dei militari italiani, che presidiavano il porto di Bosaso:
"Semplicemente si giravano dall'altra parte", racconta il pentito. "Anche perché
il ministro socialista Gianni De Michelis, che come ho già raccontato
all'Antimafia gestiva assieme a noi le operazioni, era solito riferirci questa
frase di Bettino Craxi: ?La spazzatura dev'essere buttata in Somalia, soltanto
in Somalia?. Naturale che i militari, in quel clima, obbedissero senza fiatare".
Allucinante? Incredibile? Fonti allarga le braccia: "Racconto esclusivamente
episodi dei quali sono stato protagonista, e aspetto che qualcuno si esponga a
dimostrare il contrario". Magari, aggiunge, "anche su un altro fronte
imbarazzante: quello delle auto sulle quali viaggiavo per recuperare, nelle
banche straniere, i soldi avuti per gli affondamenti clandestini dei rifiuti
radioattivi". Gliele forniva "direttamente il Sismi", dice, "con la mediazione
dell'agente Pino. Per salvarmi la vita, in caso di minacce o aggressioni, mi
sono segnato il tipo di macchine e le matricole diplomatiche che c'erano sui
documenti ". In un caso, "ho usato una Fiat Croma blindata con matricola VL 7214
A, CD-11-01; in un altro ho guidato un'Audi con matricola BG 146-791; e in un
altro ancora, ho viaggiato su una Mercedes con matricola BG 454-602. Va da sé,
che ci venivano assegnate auto diplomatiche perché non subivano controlli alle
frontiere". Ora, dopo queste dichiarazioni, "i magistrati avranno nuovi elementi
sui quali lavorare ", conclude Fonti. "Troppo facile e troppo riduttivo",
sostiene, "sarebbe credere che tutto si esaurisca con il ritrovamento nel mare
calabrese di un mercantile affondato ". Questa, aggiunge, non è la fine della
storia: "È l'inizio di un'avventura tra i segreti inconfessabili della nostra
nazione. Un salto nel buio dalle conseguenze imprevedibili".
17 settembre
Come ti
nego i diritti di cittadinanza
di Domenico Gallo
Unicuique suum: a ciascuno il suo. E questo il motto che potrebbe essere
applicato al c.d. pacchetto sicurezza, approvato con la legge n. 94/2009 ,
entrata in vigore l8 agosto.
Questa legge è un coacervo di misure discriminatorie e persecutorie nei
confronti dei gruppi sociali più deboli. Se hanno suscitato qualche protesta le
misure persecutorie più assurde nei confronti degli immigrati irregolari (come
il reato di clandestinità, il divieto di matrimonio ed il divieto per le madri
di riconoscere i propri figli), poca attenzione è stata rivolta alle norme
discriminatorie riservate ad altri gruppi sociali. In realtà, per quanto possano
apparire disomogenee le materie trattate, cè un filo conduttore che organizza le
disposizioni in materia di sicurezza pubblica. C'è una logica in questa follia:
tutto gravita intorno al principio delle discriminazione dei soggetti deboli. Se
gli immigrati (regolari o irregolari) sono particolarmente vessati, non per
questo il legislatore leghista si è dimenticato dei Rom, dei senza casa, e dei
poveri in genere, ed ha dato a ciascuno il suo.
Per quanto riguarda il popolo Rom, a parte le misure penali di aggravamento dei
reati connessi alla povertà, nel pacchetto sicurezza vi è una specifica
disposizione discriminatoria, passata quasi inosservata. Si tratta della norma
relativa alle iscrizioni anagrafiche (art. 1, comma 18).
Questa norma, nella sua versione originaria, in pratica, impediva ai poveri di
ottenere l'iscrizione nei registri dell'anagrafe, subordinando l'iscrizione e la
richiesta di variazione anagrafica alla verifica, da parte dei competenti uffici
comunali delle condizioni igienico-sanitarie dell'immobile in cui il richiedente
intendeva fissare la propria residenza. In questo modo decine di migliaia di
famiglie povere avrebbero perso automaticamente - il diritto alla residenza. Si
pensi, per es. alle migliaia di famiglie che ancora vivono nei bassi in una
città come Napoli.
Ciò avrebbe comportato qualche problema con l'opinione pubblica, specie in
quelle fasce sociali, più umili, che vivono ancora nel mito del berlusconismo.
Per questo la norma è stata cambiata alla Camera, con l'emendamento sul quale il
Governo ha posto la fiducia.
Nella nuova versione i comuni non devono più accertare la sussistenza del
requisito igienico sanitario dell'immobile, tuttavia l'iscrizione e la richiesta
di variazione anagrafica possono dar luogo alla verifica da parte dei competenti
uffici comunali delle condizioni igienico sanitarie dell'immobile.
Insomma ogni comune è libero a sua discrezione di non iscrivere nei registri
anagrafici quelle persone che abitano in alloggi inadeguati. Quindi ogni comune
è libero di scegliere quali poveri tenersi e quali buttare via.
In questo modo si è realizzata la quadratura del cerchio. Il requisito igienico
sanitario dell'alloggio diventerà un ottimo strumento politico per selezionare
le minoranze indesiderabili ed escluderle dal circuito della cittadinanza, senza
mettere a rischio il consenso politico di cui gode l'attuale maggioranza.
Ci vuol poco a capire che questa minoranze indesiderabili per i cittadini del
Bel Paese sono soprattutto, se non esclusivamente, i Rom. Chi vive in un campo
nomadi è difficile che disponga di un alloggio dotato dei requisiti
igienico-sanitari richiesti dalla norme vigenti. Conseguentemente costoro a
discrezione dei sindaci possono perdere il diritto ad essere iscritti
nell'anagrafe delle persone residenti.
Se non ché l'iscrizione nell'anagrafe delle persone residenti è presupposto
indispensabile per l'esercizio dei diritti di cittadinanza. A partire
dall'esercizio del diritto di voto, per finire all'iscrizione al Servizio
Sanitario nazionale, alla scelta del medico di base ed all'iscrizione dei propri
figli alla scuola dell'obbligo.
In conclusione, invece di rimuoverli, come impone lart. 3 della Costituzione, la
legge utilizza gli ostacoli di ordine economico e sociale come pretesto per
limitare - di diritto - la libertà e l'eguaglianza delle persone ed escludere
dalla cittadinanza quelle minoranze destinate ad essere discriminate.
Schiavitù
tra Cambogia e Malesia
Una tratta di di esseri
umani destinata ad aumentare per colpa della crisi economica
scritto daMarcello Brecciaroli
Dalla Cambogia e dalla Thailandia partono ogni anno migliaia di uomini e donne
attratti da un posto di lavoro in Malesia. Per compiere questo viaggio pagano
cifre che vanno dai 5mila ai 13mila dollari a chi propone loro un impiego
all'estero. La promessa di un lavoro domestico o in qualche fabbrica però si
rivela presto una menzogna: a molti, non appena arrivati, viene confiscato il
passaporto: da quel momento diventano fuorilegge e possono essere ridotti in
schiavitù o avviati alla prostituzione. La
legge malese non fa differenza tra vittime del traffico di esseri umani e
immigrati clandestini: fuggire dai propri aguzzini diventa dunque impossibile ,
perché il rischio è di finire nei campi di prigionia e magari essere nuovamente
venduti ai trafficanti. Sul mercato degli esseri umani malese, infatti, un
bambino vale circa 300 dollari, mentre un adulto quasi il doppio. Nel 2007 sono
stati varati dei provvedimenti in alcune province che vietano ai lavoratori
immigrati di lasciare il luogo di lavoro anche durante l'orario di riposo,
proibiscono l'uso di cellulari e la guida di automezzi. Nello stesso anno è
stata emanata anche una legge che punisce i trafficanti, ma gli osservatori
internazionali sostengono che non serva a molto, visto che anche chi dovrebbe
vigilare è coinvolto nella tratta. Nel luglio 2008 il Direttore generale per
l'immigrazione malese e il suo vice sono stati arrestati per aver accettato
tangenti dai trafficanti. Secondo fonti Onu la pratica sarebbe diffusa a tutti i
livelli dell'amministrazione malese.
I migranti vengono adescati tra le popolazioni più povere dei sobborghi urbani
di Phnom Phen e di altre città cambogiane, un bacino che, secondo
l'Organizzazione Mondiale del Lavoro, è destinato ad aumentare di 200mila unità
nel prossimo anno come effetto della crisi economica.
Questo trend è confermato anche dai dati forniti dal Ministero del Lavoro
cambogiano che parla di un incremento del 150% degli espatri nei primi sei mesi
del 2009.
L' agenzia dell'Onu per la tratta di esseri umani (Uniap) rivela in uno studio
che le donne cambogiane si ritrovano spesso in schiavitù a causa dei debiti
contratti. Nel Paese è presente una fitta rete di strozzinaggio, camuffata da
micro-credito, gestita dagli stessi trafficanti di schiavi.
Tutti questi fattori sono catalizzati dalla crisi economica: in particolare il
settore tessile ha risentito del calo delle esportazioni, causando dall'inizio
dell'anno la perdita di oltre 40mila posti di lavoro.
In Malesia si trovano comunità di lavoratori immigrati provenienti da molte
nazioni perché l'economia del Paese ha retto bene alla crisi. Nella maggioranza
dei casi hanno un regolare permesso di lavoro, ma anche in questo caso le
condizioni non migliorano poiché il visto viene sequestrato all'arrivo assieme
al passaporto. Questa pratica è permessa dal governo Malese e nel rapporto
Trafficking in Persons (Dipartimento di Stato Usa, giugno 2009), si rilevano
numerosi legami tra l'amministrazione pubblica e la tratta di esseri umani.
Numerose testimonianze narrano di torture, stupri, somministrazione di droga,
privazione del cibo e orari massacranti di lavoro che raggiungono le 18 ore
giornaliere. I lavoratori vengono sfruttati fino allo sfinimento, come nel caso
di Ganesh, un ragazzo birmano morto in ospedale il 27 di aprile, le cui foto
hanno scioccato la popolazione malese.
I
Il
miracolo dell'Aquila
E' un vero miracolo di efficienza quello dell'Aquila? Non sono possibili
paragoni al mondo? Si sono abbattuti i costi e i tempi di reinsediamento? E'
stata messa a frutto tutta l'esperienza accumulata in Italia nella gestione
della fase della prima e della seconda emergenza? Sono domande utili a farsi. I
dati storici e le comparazioni con gli altri eventi ci aiuteranno a stabilire la
misura e la qualità della fatica realizzata.
Un avvertimento è d'obbligo: la comparazione è naturalmente limitata alla fase
attuale dell'emergenza abruzzese. In Abruzzo la ricostruzione in cemento armato
non è ancora iniziata; in Irpinia e in Molise non è invece mai finita producendo
uno scandaloso spreco che Repubblica negli anni, non ha mai smesso di
denunciare. Quindi ci fermiamo ad oggi. E puntiamo i fari unicamente
sull'emergenza.
L'emergenza ha due fasi. Una prima, nelle ore immediatamente successive al
sisma, e una seconda. Nella prima sono generalmente da considerarsi gli
alloggiamenti in tende. Nella seconda la predisposizione di sistemi abitativi
provvisori. I cosiddetti moduli. Essi possono avere due caratteristiche: essere
del tipo "leggero" (containers e roulottes) e "pesanti" (casette in legno o in
prefabbricato composto). I tempi di realizzazione di questi secondi, nella media
nazionale stilata secondo i dati storici (terremoti del Friuli, di Campania e
Basilicata, Umbria e Marche e infine Molise), sono di 211 giorni. Una media
appunto: dalle prime consegne (in 62 giorni a San Giuliano di Puglia, alle
ultime, con il completamento di tutto il piano di reinsediamento abitativo (360
giorni in Irpinia). Nel mezzo la progressiva e graduale sistemazione.
Se dunque volessivo davvero stilare una classifica delle prime case assegnate (m.a.p.,
moduli abitativi provvisori) con caratteristiche e in numero simili a quelli
celebrati ad Onna, dovremmo segnalare questo ordine d'arrivo:
1) Molise (San Giuliano di Puglia), 30 moduli a 82 giorni dal sisma
2) Umbria, 30 moduli a 98 giorni dal sisma
3) Irpinia, 30 moduli a 105 giorni dal sisma
4) Abruzzo, 30 moduli a 116 giorni dal sisma
In effetti le prime case consegnate a L'Aquila datano 2 luglio, realizzate dalla
provincia di Trento a Coppito e destinate al personale della Guardia di Finanza.
I primi senzatetto ad essere ospitati abitano invece a San Demetrio e le hanno
ricevute ("a tempo di record", ha scritto il Giornale) il 21 agosto. In estate
infatti sono stati consegnati trenta moduli (21 a San Demetrio e 9 in località
Stiffe).
Ritorniamo per un momento alla prima emergenza. Quel che segue è un raffronto
tra il punto più alto dell'efficienza organizzativa (l'Abruzzo) e il punto più
basso (l'Irpinia).
A L'Aquila sono state assistite circa 73mila persone nella settimana successiva
al terremoto tra alberghi e tendopoli allestite. In quelle ore i temporaneamente
sfollati (che hanno ricevuto solo cibo e cure) ammontano a più di centomila.
29 anni fa in Irpinia (l'area, ad esclusione del Friuli, più lontana da Roma,
340 chilometri dall'epicentro contro i 119 dell'Aquila) ma molto più grave per
entità del danno e ampiezza geografica furono assistite 300mila persone circa.
Duecentomila persone in tendopoli, ottantamila persone in roulotte, 20.900
persone in 451 alberghi. I temporaneamente sfollati (assistiti con cibo e cure
sanitarie) ammontavano a circa 500mila. (Pubblicazione 18 marzo 1981, depositata
alla Camera dei deputati).
I tempi di allestimento. 90 mila persone hanno trovato riparo in tendopoli entro
sette giorni dal sisma (30 novembre-1 dicembre 1980). Altre 50mila entro 15
giorni dal sisma (5-8 dicembre 1980). Il resto della popolazione entro il 15
dicembre 1980.
I costi di reinsediamento. A L'Aquila si è deciso di saltare un passaggio che,
nei precedenti storici, era ritenuto essenziale: la costituzione nella prima
emergenza di roulottopoli e moduli abitativi in containers. La scelta ha avuto
perciò un costo umano (la vita in tenda è durissima) ed economico.
L'assistenza completa per le persone ospitate soltanto in tendopoli è costata in
sei mesi 114 milioni di euro. A ciò si devono aggiungere i costi in alberghi e
in private abitazioni per il resto della popolazione. Proprio in questi giorni
la Protezione civile sta rinegoziando con gli albergatori il prezzo del
soggiorno (all inclusive) pro-capite: 50 euro a persona. Se questa cifra è
esatta, per una famiglia di quattro persone si spendono circa 6mila euro al
mese.
Il governo ha accettato questi costi e ha impegnato tutte le risorse disponibili
(circa 700 milioni di euro) per la realizzazione delle C.a.s.e., abitazioni
tecnologicamente avanzate ed ecocompatibili. Il loro completamento, previsto per
fine dicembre 2009, permetterà di accogliere circa 4500 famiglie. Il costo a
metro quadrato dell'abitazione (sono inclusi i costi di urbanizzazione primaria
e secondaria) è di 2400 euro. Si deve ritenere che l'abitazione, sebbene
durevole, sia comunque provvisoria perché gli assegnatari sono titolari di un
distinto contributo per la ricostruzione in cemento della propria casa
distrutta.
Sono circa tredicimila le famiglie ad oggi senzatetto. E molte di esse dunque
devono essere ancora per molto tempo assistite altrove.
In Irpinia, quindi nel luogo dove più bassa è stata la capacità organizzativa e
realizzativa, il piano di reinsediamento aggiornato al 30 giugno 1981 - in tempi
dunque analoghi a quelli previsti per L'Aquila - prevedeva la installazione di
13.500 prefabbricati pesanti (simili a quelli consegnati a Onna e che oggi
vengono chiamate case) nei 36 comuni del cratere e altri 10mila nei 76 comuni
dell'area extraepicentrale. Il costo al metro quadro attualizzato (al netto però
delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria che incidono per il 20-30
per cento) è di mille euro.
Al 15 novembre 1981, circa un anno dopo il sisma, il piano di reinsediamento, in
ritardo sul cronoprogramma di circa 45 giorni, sono stati completati e
consegnati, su 25586 prefabbricati, 18462 alloggi monoblocco con finanziamenti
pubblici. A cui si aggiungono 2248 prefabbricati donati da enti vari e già
consegnati.
16 settembre
Riforma
sanitaria, il caso degli immigrati irregolari
Si infuoca il dibattito
negli Usa. Niente cure per i sans papier. Ma alcuni ospedali californiani li
curano da anni La
riforma sanitaria promessa dal presidente Usa Barack Obama ha acceso nel Paese
un dibattito infuocato. Migliaia di persone sono scese in piazza la scorsa
settimana contro quella che molti statunitensi vedono come una riforma che
demolirà il pilastro dell'Health Care americana, ovvero il suo carattere di
sanità a pagamento. Un'ulteriore allarme è scaturito dopo che, nonostante le
rassicurazioni del presidente al Senato, un membro del Partito Republicano, Joe
Wilson della South Carolina, ha urlato "Bugiardo!" dopo che Obama ha assicurato
che i residenti irregolari non verranno coperti in nessun modo dal nuovo sistema
sanitario. E' la prima volta che un senatore rompe con il bon ton istituzionale
in una Camera statunitense, e il "You lie" è risuonato come il grido di rivolta
di un intero settore della società che, se è pronto a dare battaglia perchè una
sanità pubblica non passi, è ancora più bellicosa se questa potrebbe includere
anche la minima forma di assistenza all'illegal alien, il residente illegale.
Questo perchè sempre più cittadini e immigrati regolari stanno perdendo la loro
copertura sanitaria. La logica è ferrea, almeno in apparenza: sono entrati
illegalmente, non si adeguano alle leggi degli Stati Uniti, non possono
profittare dei benefici di un sistema sostenuto dai dollari dei contribuenti.
Secondo una lunga tradizione di politica sanitaria federale, chi è illegale
negli Stati Uniti non può fare domande per i programmi federali. La riforma
segue questo caposaldo. Con limitate eccezioni (il Medicaid offre una'assistenza
di emergenza a donne incinte e bambini, e alcuni ospedali hanno fondi privati,
quindi politiche autonome), i dollari federali non finanziano cure sanitarie per
chi è illegale. La riforma di Obama esclude esplicitamente 'stranieri senza
documenti' dai benefici e dai programmi finanziati dal sistema sanitario
federale. Ma per alcuni, sarebbe necessario includere nel pacchetto di riforma
dei meccanismi ad hoc per monitorare i sans papier e verificare che non possano
in nessun modo rientrare, o intrufolarsi, nella copertura.
Vi è tuttavia chi si oppone allo screening, con la motivazione che tali
controlli aggiungerebbero un ulteriore agravio di costi e burocrazia e
potrebbero persino lasciar fuori cittadini americani regolari che per un motivo
o l'altro non hanno la necessaria documentazione. Inoltre, negare a un segmento
della popolazione la copertura sanitaria fedeale potrebbe incrementare i costi
della medicina d'urgenza e aumentare i rischi di malattie contagiose tra la
popolazione. "Che qualcuno debba o non debba essere in questo Paese è un
argomento che non c'entra nulla. Non ci possono essere sottogruppi delle
popolazione che non hanno accesso alla sanità, perchè questo è un danno per il
benessere di tutta la comunità", spiega Patrick Duterte, direttore del
dipartimento della salute e dei servizi sociali nella contea di Solano,
California.
Duterte ha una certa farmilarità con il dibattito sulla sanità per gli
irregolari perchè in una clinica di Vallejo, nella contea, sta succedendo
qualcosa di molto particolare. Un giudice ha raccomandato alla contea di
smettere di usare i soldi pubblici per pagare l'assistenza agli immigrati
irregolari nelle cliniche di urgenza, nello specifico la numero 26, in una rete
di quaranta strutture appartenenti al network La Clinica de la Raza, che da 40
anni opera nello Stato al confine con il Messico. I fondi della contea
finanziano la clinica, che cura, tra gli altri, anche gli irregolari. Questo
perchè i funzionari sanitari non chiedono al paziente la cittadinanza. La
clinica 26 ha aperto in novembre per alleggerire il peso delle sale di terapia
d'urgenza degli ospedali gemelli, il Kaiser Permanente e il Sutter Solano.
Entrambi pagano 100 mila dollari in tre anni per finanziare la clinica numero
26. Ma sono i quattrini della contea, 250 mila dollari di start-up più 256 mila
in tre anni, che hanno fatto storcere il naso al giudice. La commissione
sanitaria della contea di Solano esaminerà il caso la prossima settimana.
Con un accesso limitato alla copertura sanitaria, chi non è assicurato è
costretto a rivolgersi all'opzione più costosa: il pronto soccorso degli
ospedali. Ma ci sono ospedali di alcune contee che forniscono cure d'urgenza a
chiunque, senza tener conto della cittadinanza del paziente o della sua
disponibilità a pagare. Alcuni fondi federali sono accantonati per strutture che
forniscono assistenza a un numero sproporzionato di pazienti.
Questo accade perche i vincoli statali e locali (delle contee) non sono così
rigidi come quelli federali. Mentre gli immigrati illegali sono esclusi dal
programma Medicaid (per accedervi occorre rientrare in particolari categorie di
reddito, età, situazione familiare o avere elevate spese mediche), salvo che per
situazioni di stretta emergenza, a Stati e contee è consentito allargare
l'offerta sanitaria sia ai poveri che agli irregolari. Con fondi sia statali che
locali. Alcune contee estendono tale copertura agli immigrati regolari (che
tuttavia non possono beneficiare di Medicaid per i primi 5 anni nel Paese).
Altre contee, come quella di Solano fanno di più. Tuttavia, con la crisi di
bilancio, altre contee californiane come quella di Costa, Yolo e Sacramento, ha
tagliato i fondi per gli immigrati irregolari. "L'immigrazione è un problema? -
si chiede Jane Garcia, direttrice della Clinica de la Raza - Ma è un problema
che non si risolve con una riforma sanitaria".
Gli immigrati irregolari della California, 2,7 milioni, non hanno beneficiato di
copertura sanitaria lo scorso anno. Più del doppio degli immigrati regolari.
Quattro volte tanto i residenti di nazionalità americana.
Luca Galassi
Regime a reti unificate
Vespa e
papi fanno flop! di Alessandro Robecchi
Non solo in politica ci sono i farabutti. Non solo nella stampa ci sono i
farabutti. Non solo in tivù ci sono i farabutti. Silvio Berlusconi e il fido
servitore Bruno Vespa si sono accorti ieri sera che moltissimi italiani sono
farabutti e non hanno più intenzione di farsi fregare. Un misto di minacce,
intimidazioni, insulti e menzogne, questo è stato lo spettacolo indegno di ieri
sera a Porta a Porta, dove il capo del governo è corso a prendersi i meriti di
altri, a inaugurare casette per terremotati pagate da altri e costruite da
altri. E naturalmente, secondo il suo stile, a insultare gli avversari e a
mentire. Dopo aver preteso e ottenuto lo spostamento di una trasmissione
concorrente (Ballarò) e dopo aver ordinato lo slittamento di una trasmissione
sua (Matrix), la coppia diabolica Bruno-Silvio ha fatto una solenne figura di
merda: 13,47 per cento in prima serata su Raiuno. Appena 3.219.000 spettatori,
molti dei quali orripilati da quello spettacolo indegno. Uno share con cui
qualunque altro programma sarebbe chiuso e cacciato a calci nel culo (la media
di Porta a Porta in prima serata è del 18,30 per cento). Un vero disastro. La
gente ha preferito guardare Garko su Canale Cinque (5.750.000 spettatori, 22,61
di share), che almeno non è asfaltato in testa, mente un po di meno, è alto e
non insulta la gente.
Ora due semplici domande:
1) Possiamo permetterci di avere un premier che va in giro a dire di avere un
gradimento del 70 per cento e poi in prima serata senza concorrenza (perché
viene chiusa) fa solo io 13? Dove è finito il 57 per cento di italiani che manca
allappello?
2) Possiamo permetterci (con i nostri soldi) di pagare 1.187.000 (un-milione-cento-ottasette-mila)
euro allanno un conduttore che non sa fare le domande e che fa ascolti tanto
mediocri che chiunque li facesse a Raiuno in prima serata sarebbe cacciato?
Nella foto, Bruno Vespa in atteggiamento di professionale distacco accanto al
capo del governo, che è anche leditore dei suoi libri, che è anche il suo
editore a Panorama, che è anche il padrone delle tivù concorrenti, che è anche
quello che nomina i vertici di Raiuno, che è anche quello che dice che in Italia
cè molta libertà di stampa.
Supermarket super flop
di Stefano Livadiotti
L'inflazione è a quota zero.
E gli scenari sono due: o i prezzi impazziranno o i consumi crolleranno. Le
previsioni della Coop per i prossimi cinque anni
Il
pacchetto di sigarette, il canone di affitto e il conto del ristorante
continuano a rincarare. Gli effetti negativi sull'inflazione sono però
bilanciati dal crollo dei listini dei cellulari, dei biglietti aerei e dei
carburanti. Così, l'inflazione, per la prima volta nella storia dell'Italia
moderna, è finita a quota zero (dopo l'impennata al 3,3 per cento del 2008:
massimo del decennio). E da questa soglia non si discosterà di molto nei
prossimi cinque anni, nel corso dei quali dovrebbe far registrare una crescita
compresa tra l'uno e il due per cento ogni dodici mesi. È lo scenario sui cui
scommette il rapporto 2009 della Coop, l'Associazione nazionale delle
cooperative di consumo della Lega, presentato giovedì 10 a Milano.
Lo studio, 228 pagine ricche di grafici e tabelle messe a punto con la
collaborazione del Ref (Ricerche per l'economia e la finanza), non lascia molto
spazio all'ottimismo. Finora, è la tesi di fondo, il costo della crisi s'è
scaricato quasi per intero sul bilancio dello Stato e su quelli delle imprese,
che hanno pagato il conto accettando una forte riduzione dei margini di guadagno
e scongiurando il ricorso a licenziamenti di massa. In questo modo, le famiglie,
invece, sono state investite solo di striscio e, se i salari di fatto
(addirittura negativi nel privato) sono risultati nettamente inferiori a quelli
contrattuali, il raffreddamento dei prezzi ha comunque salvaguardato il loro
potere d'acquisto (il reddito reale disponibile è sceso dello 0,4 per cento). Lo
schema, però, non può reggere a lungo. E, a seconda di come verrà ridisegnato,
potrebbero presentarsi due scenari alternativi: quello di una forte ripresa
dell'inflazione (una sorta di tassazione occulta a favore del bilancio pubblico
e di quelli delle aziende) o, viceversa, quello di una deflazione, con
un'aspettativa di continui ribassi dei listini che spinge a rinviare gli
acquisti e decapita i consumi.
La parte centrale del rapporto fa il punto sulla dinamica dei prezzi. "La prima
metà del 2009 ha visto una discesa assai repentina dell'inflazione, che si è
dapprima portata verso l'uno per cento nei mesi primaverili, per poi piombare
fino a zero in quelli estivi. A spiegare l'ulteriore ripiego è ancora la discesa
dei costi dell'energia (meno 8 per cento nel primo semestre del 2009), con un
passaggio di testimone dai prodotti energetici, carburanti e combustibili, alle
tariffe dell'energia elettrica e del gas".
Ma il contributo al raffreddamento dei listini non è venuto solo dal barile.
Anche il carrello del supermercato (più 5 per cento nel 2008) ha fatto la sua
parte: "L'inflazione alimentare si è dimezzata nell'arco di sei mesi, da valori
prossimi al 4 per cento di inizio anno fin sotto al 2 per cento in primavera,
per poi marciare verso l'uno per cento nei mesi estivi" (più 2 per cento il
saldo semestrale). Ma la vera novità è un'altra: la discesa ai minimi storici
dell'inflazione nei servizi (dai costi per le attività di ricreazione a quelli
per la casa, dai trasporti alla sanità, dal settore finanziario e assicurativo a
quello alberghiero e della ristorazione). Conseguenza dell'innovazione
tecnologica che ha accresciuto la concorrenza, dice il rapporto citando
l'esempio delle opportunità di confronto offerte da Internet a chi deve
prenotare una stanza d'albergo o un biglietto aereo. Risultato: "valori sotto al
2 per cento dell'inflazione nei servizi rappresentano già un'esperienza nuova
per il nostro paese. I servizi, insieme ai beni industriali non alimentari,
costituiscono infatti da sempre il nodo strutturale della maggior inflazione
italiana rispetto ai partner comunitari".
Una sola la voce che viaggia in controtendenza rispetto alla generale
moderazione dei prezzi al consumo: le tariffe pubbliche. "Dai pedaggi
autostradali ai trasporti ferroviari e marittimi, fino alle forniture idriche e
alla raccolta e smaltimento dei rifiuti, i corrispettivi dei servizi pubblici
mostrano un diffuso fermento. Un'evidenza che in taluni casi è l'esito del
taglio dei trasferimenti agli enti locali e in altri della necessità di
finanziare gli investimenti necessari a migliorare la qualità del servizio". Per
le tariffe a controllo locale il primo semestre dell'anno si è chiuso a quota
più 2,7 per cento. Dal momento che i servizi di pubblica utilità rientrano nel
capitolo della spesa incomprimibile, avverta il rapporto Coop, l'aumento del
loro costo si traduce per le famiglie in una perdita secca di potere d'acquisto.
Piegati
dalla siccità
"E' una tragedia di
dimensioni storiche", ha dichiarato il presidente
Un'intensa
siccità nella regione chiamata Corredor Seco mette in ginocchio il Guatemala.
Gli alimenti base diventano insufficienti e Álvaro Colom dichiara lo stato di
calamità naturale e punta il dito contro i governi precedenti: è colpa di chi lo
ha preceduto - questo è il suo parere - se adesso il governo non ha le risorse
per affrontare questa crisi è colpa delle precedenti politiche miopi, non
improntate sul garantire la sicurezza alimentare.
"Ho deciso di far uso della legge di ordine pubblico e dichiarare lo stato di
calamità pubblica in tutto il territorio nazionale, perché le conseguenze
dell'insufficienza alimentare e nutrizionale colpirà l'intero territorio".
Queste le parole di Colom nel messaggio a reti unificate rilasciato nella notte
tra martedì e mercoledì. Centinaia di comunità sono in piena emergenza,
specialmente nei sette dipartimenti che compongono, appunto, il Corredor Seco,
nella regione orientale: Jalapa, El Progreso, Zacapa, Chiquimula, Jutiapa, Santa
Rosa e Baja Verapaz.
Secondo il capo di stato guatemalteco, l'insufficienza alimentare e
nutrizionale, comsì come la denutrizione, sono, appunto, un problema strutturale
nel paese, prodotto delle inefficienti politiche precedenti, che non hanno che
impoverito la società. "Grazie a questa mia dichiarazione - ha specificato Colom
- potremo avere sia accesso alle risorse che la cooperazione internazionale
offre in questo tipo di situazioni, sia metter mano ai fondi del budget
nazionale con maggiore agilità".
"Mi appello a tutti i settori della società affinché tutti contribuiamo a far
fronte a questo grave problema", ha specificato.
Al di là delle parole, istituzionali e non, è la morte di 462 persone in sei
mesi a parlare chiaro e forte. Di questi 54 sono bambini. E tutti risiedevano
nelle zone più desolate del Guatemala. A essere minacciate sono adesso 54mila
famiglie, ma entro la fine dell'anno si potrà raggiungere la drammatica cifra di
450mila famiglie sotto la soglia di povertà. E questo secondo le stime del
ministero della Sanità.
Qualche ora prima dell'annuncio presidenziale, il Programa Mundial de Alimentos
(PMA) ha iniziato a distribuire venti tonnellate di gallette in 164 comunità
colpite. "E' una tragedia di dimensioni storiche", precisa Colom.
Stella Spinelli
Anche nel cuore delle città
c'è un paesaggio da difendere
La nuova campagna
di Italia Nostra: il simbolo è l'Aquila degrado e abusi, decine di città
coinvolte
di VINCENZO FOTI
La chiesa delle anime sante all'Aquila
ROMA
- Consumo del suolo, alterazioni del tessuto urbano e sociale, disordine
edilizio, degrado, traffico, inquinamento dell'aria, caos acustico e visivo,
emergenza rifiuti. Sono queste le principali minacce per il futuro delle nostre
città, piccole e grandi.
Se ne occupa Italia Nostra, che domani a Roma presenterà la Giornata Nazionale
dei Paesaggi Sensibili.
I paesaggi sensibili sono quella parte di patrimonio naturale, culturale e
artistico che nel nostro Paese rischia di scomparire perché messo in pericolo
dall'incuria, dalla speculazione edilizia e dai progetti non sostenibili o
falsamente sostenibili (come quello di abbattere oltre 500 querce secolari in
Sila, in una zona protetta dall'Ue, per trarre energia dalle biomasse, in merito
al quale Italia Nostra sta già protestando).
L'anno scorso la mappa dei paesaggi sensibili ha interessato oltre cinquanta
località di pregio, dallo Stretto di Messina all'Appia Antica, dalle Cinque
Terre alla Murgia materana, dal Delta del Po alla Necropoli di Tuvixeddu, vicino
a Cagliari.
Nel 2009 Italia Nostra dedica la sua campagna nazionale alle città considerate
nel loro complesso, dal nucleo originario fino alle periferie che oggi si
ingrandiscono sempre di più ma che stentano a diventare autonome dal centro. La
Carta di Gubbio, i cui principi furono fissati nel 1960 da un gruppo di
architetti, urbanisti, giuristi e amministratori pubblici, considera il centro
storico come un monumento che va restaurato e conservato: ecco perché, a partire
da sabato 19 settembre, meta delle visite di Italia Nostra saranno proprio i
centri urbani.
L'associazione propone, in oltre 40 località italiane, decine di eventi volti a
promuovere la conoscenza del territorio e a valorizzare la difesa del paesaggio
e del patrimonio culturale. Da Palermo a Cosenza, da Brindisi a Matera, da Roma
a Siena, da Lucca a Bologna, da Ferrara a Padova, da Brescia a Torino, da
Grosseto a Perugia, da Treviso a Trieste, Italia Nostra denuncerà le situazioni
di degrado, le alterazioni del tessuto urbano e del profilo volumetrico,
l'espulsione dal centro delle funzioni abitative nonché delle attività
artigianali e industriali tradizionali. Per non parlare della congestione da
traffico e dalla permanenza di attività improprie e invasive, dell'inquinamento
visivo e acustico, della situazione degli spazi pubblici, della mancanza di
decoro urbano.
Particolarmente interessata L'Aquila, eletta città-simbolo della campagna
nazionale: Italia Nostra ha infatti dichiarato il suo centro storico, distrutto
dal sisma del 6 aprile, 'monumento di cultura urbana su cui intervenire con un
piano completo di restauro e recupero integrale.
Le altre località interessate dal progetto sono Alessandria, Cagliari,
Caltanissetta, Campobasso, Cascina (Pisa), Colfiorito (Perugia), Crotone,
Faenza, Firenze, Giulianova, La Spezia, Oristano, Sassari, Siena, Siracusa, il
Tigullio, Trento, Verbania, i comuni del lago Maggiore, Edolo, Bergamo,
Brisighella, Savona, Sarzana.
Il catalogo dei paesaggi più minacciati e il calendario degli appuntamenti
saranno illustrati domani mattina, nella sede romana dell'associazione (viale
Liegi 33) dal presidente Giovanni Losavio e dal segretario generale Antonello
Alici.
11 settembre
Dopo il caso
Gabanelli, contratto in ritardo per Fazio. Rinvii e direzione sotto scacco.
Il direttore della rete: "Puntano su una tv McDonald, tutta uguale. Ed è un
grave errore"
La destra
all'assedio finale del fortino rosso di Raitre
L'ironia della Littizzetto: "Non capisco dove Silvio veda da noi tutto
'sto comunismo"
di GOFFREDO DE MARCHIS
Fazio e
Littizzetto a "Che tempo fa" ROMA
- Un editto soft, una goccia cinese che scava la
roccia fino all'obiettivo finale: addomesticare la Gabanelli, Fazio, la
Littizzetto, Bertolino, "Parla con me", ridimensionare, cancellare forse. Silvio
Berlusconi l'ha anche detto: quei programmi di Raitre non mi piacciono.
Senza i toni concitati di Sofia, ma l'ha detto. E da tempo il direttore generale
Mauro Masi lavora per trovare un sostituto di chi Raitre la dirige con quei
volti, con quegli artisti. Gioca di sponda, propone nomi su nomi, cerca
professionisti dal curriculum impeccabile. Non spiega esattamente per quale
motivo, ma va sostituito Paolo Ruffini, che gestisce la baracca da sette anni.
Il resto, la normalizzazione dei programmi sgraditi, verrà da sé. "Dove lo vede
Silvio tutto questo comunismo a Raitre, cosa c'è di anormale? Se il problema è
che Fazio è un uomo e io una donna, ci operiamo. Così rientriamo nei loro canoni
di normalità", scherza Luciana Littizzetto, appuntamento fisso del week-end di
Che tempo che fa, pubblico trasversale, risate a sinistra e a destra. Magari
questo dà fastidio.
La Rai della nuova era Berlusconi non vuole mandare nessuno a Casablanca, ma
qualcuno a casa sì. Il pressing sul Partito democratico per avvicendare i
vertici di Tg3 e Raitre e incrinare un'identità non è solo un'indiscrezione.
Comunque ci sono anche gli indizi, i dati di fatto: l'intenzione resa esplicita
da Masi di togliere la tutela legale a un programma di inchiesta che giocoforza
si porta dietro grane su grane come "Report". E un giallo finora rimasto
sottotraccia su "Che tempo che fa". Il contratto tra Rai e Endemol, la
produzione del programma, non è ancora stato firmato. Un ritardo che appare poco
tecnico e molto politico a sole tre settimane dalla messa in onda (3 ottobre).
Il senso di Raitre secondo Fazio è "mettere in luce la vera funzione del
servizio pubblico: che è somma di voci, non sottrazione. È scambio di idee,
pluralità, polifonia in una grande azienda culturale". L'idea di chiudere
qualche bocca (e qualche programma) "mi sembra ancora prima che sbagliata
anti-moderna. La televisione di tutti deve far parlare tutti anziché limitarsi a
non dire niente".
Semmai la critica rivolta a Fazio è quella di essere troppo moderato, poco
cattivo, accomodante. "Ma capisco l'imbarazzo di alcuni. Da noi si respira
un'aria di libertà, per altri invece è scontato che i programmi si costruiscano
sentendo le segreterie dei partiti".
Il paradosso dello scontro campale giocato sulla pelle di Raitre è che tutti i
programmi sono ormai in rampa di lancio. "Parla con me" scatta il 29 settembre,
"Report" cascasse il mondo, anche senza copertura legale, l'11 ottobre, Fazio la
settimana prima. Ruffini gira come una trottola per le conferenze stampa della
nuova stagione. Poi torna in trincea, nell'ufficio al primo piano di Viale
Mazzini. Non pronuncia mai la parola censura, ma difende il carattere della rete
che fu del maestro Guglielmi, il suo essere portabandiera del servizio pubblico.
"Un'offerta multipla arricchisce la Rai, non la penalizza.
Il pluralismo è patrimonio collettivo", dice Ruffini. E se la direzione generale
la pensa diversamente, commette un errore. "Perché fare delle tre reti un
indistinto omogeneizzato? Avremmo l'effetto McDonald, che ha gli stessi panini
in tutte le parti del mondo".
Dicono le malelingue che un ottimo uomo Rai come Giovanni Minoli sarebbe
disposto a ridimensionare i volti noti e di successo della rete, sbarcando al
posto di Ruffini. Dicono che non si preoccupi dell'opposizione dei consiglieri
del Pd, pronto a incassare soltanto i voti della maggioranza. Ma dagli artisti,
ai dirigenti e ai 100 lavoratori della terza rete, Ruffini continua a ottenere
in queste ore sostegno e riconoscimenti che superano persino la prova del
settimo anno di vita in comune.
Il direttore di Raitre sarà in piazza il 19 per la libertà di stampa. Anche
Milena Gabanelli parteciperà. Con l'occhio sempre attento allo sviluppo della
trattativa con la Rai per la tutela legale. "Report" punta allo scudo di Viale
Mazzini perché se si crede in un prodotto lo si difende, altrimenti lo si
cancella. E la filosofia della stakanovista Gabanelli è che delle due l'una: o
si lavora pancia a terra a caccia di scoop o si perde la giornata a parlare con
gli avvocati. "Ruffini - racconta Fazio - ha sempre garantito a me e alla mia
squadra condivisione del progetto e assoluta autonomia. Sono elementi essenziali
di qualsiasi lavoro, compreso il nostro".
Eppoi gli ascolti di Raitre vanno bene, dunque la "prima domanda non è chi al
posto di chi, ma perché. Perché bisogna cambiare?". Per creare un coro monocorde
al servizio del pensiero unico berlusconiano? "Nel servizio pubblico devono
esserci tante verità - dice Ruffini - . Questa è la sua missione, nel rispetto
degli spettatori, dell'editore, delle persone. Si vuole invece una verità di
Stato? Allora siamo in Unione sovietica".
La Littizzetto, con la sua leggerezza, spiega bene cosa non va nell'assedio al
fortino di Raitre. Per la comica c'entra la politica sì, ma anche "una grande
confusione del Paese in cui nessuno si fida di nessuno e proliferano i più
realisti del re". Gli ospiti di "Che tempo che fa" davvero importanti, davvero
graditi dal pubblico non sono i Prodi, i Veltroni, gli esponenti della sinistra
che secondo i falchi del Pdl occupano le poltrona bianca di fronte a Fazio senza
contraddittorio e senza un bilanciamento di ospiti a destra. "Il nostro merito è
di mettere in onda volti nuovi, assolutamente spiazzanti. Ceronetti non ha
niente di televisivo, è un personaggio inconsueto, fuori dal coro e dal
circuito. Eppure la sua presenza dà i brividi". L'"alto" dello scrittore
torinese, il "basso" delle battute fulminanti della Littizzetto pochi minuti
dopo. Anche questa è Raitre. "A Ruffini darei il Telegatto", esclama Luciana. Ma
i vertici della Rai appoggeranno la candidatura?
Le dotazioni non rispondono
ai criteri di legge, è giallo Il Viminale ne ritira 4000, perdita di 4 milioni
di euro
Fucili e revolver
sono fuori norma la polizia disarma i corpi speciali
di ROMINA MARCECA
PALERMO
- Mille fucili a pompa Benelli, tremila revolver
Ruger e centinaia di carabine Winchester in dotazione ai reparti speciali del
Viminale devono essere ritirati perché non sono regolamentari e dunque non
possono essere impiegati nelle operazioni di polizia. È una decisione senza
precedenti, che ha creato un certo imbarazzo al Viminale, costretto da una
precisa norma di legge a togliere le armi a poliziotti specializzati in
operazioni antimafia o a tiratori scelti, ma anche agli agenti del reparto
volanti. Il provvedimento è ormai ufficiale: una circolare della Direzione
centrale dei servizi tecnico-logistici del ministero dell'Interno diramata a
fine agosto alle 105 questure d'Italia precisa che le armi non rispondono alle
direttive del Dpr 359 del 1991 che regolamenta "i criteri dell'armamento del
personale della polizia di Stato" e ne dispone l'immediata restituzione
all'Ufficio tecnico logistico di ciascuna questura.
Le armi da dismettere sono state consegnate alle questure tra il 2000 e il 2001.
La circolare che ne ordina il ritiro ammette, però, che "le armi potranno essere
impiegate in particolari circostanze stabilite dal ministro dell'Interno".
Pistole e fucili non saranno sostituiti, almeno per il momento. In termini
economici la dismissione si traduce in una perdita di oltre 4 milioni di euro
(1,3 milioni per i fucili e 2,1 milioni per i revolver). Tutto questo dopo che
la Finanziaria 2009 ha previsto un maxi taglio per il capitolo "armamento e
munizionamento" di 6 milioni e 200 mila euro. Una cifra che equivale all'84,72
per cento in meno rispetto ai fondi destinati l'anno precedente.
Le armi già ritirate in diverse questure sono i revolver Ruger 321 XL e i fucili
a pompa Benelli M3TC calibro 12. Nella lista diramata dal Viminale rientrano
anche le carabine Winchester mod. 1 calibro 30. Ma cosa ha costretto il Viminale
a ritirare queste armi? Il revolver Ruger, ad esempio, manca di cane esterno, a
differenza di quanto dispone il Dpr del 1991, e dunque la sicura non può essere
attivata usando questo meccanismo. I fucili Benelli, invece, sono ad anima
liscia e possono funzionare sia a pompa sia in modo semiautomatico. Il Dpr
invece prevede solo una delle due funzioni.
Rimane il giallo sul perché otto anni fa, quando il Dpr era già stato emanato
dieci anni prima, si sia dato comunque il via alla fornitura. Il provvedimento
ministeriale riporta però che i revolver e i fucili Benelli "possono rimanere in
dotazione per le esercitazioni di tiro per il mantenimento dell'abilitazione del
personale". Anche in questo caso la circolare ammette un'eccezione in caso di
mancato utilizzo: "Le armi devono essere riconsegnate insieme con le munizioni
con sollecitudine". Una vicenda sulla quale già nel 2007 i poliziotti si
interrogavano sui siti online. La domanda è perché il Viminale si sia deciso
solo ora a ritirare l'armamento. E soprattutto come entreranno in azione i
poliziotti, ad esempio quelli a caccia di latitanti. "Un ulteriore provvedimento
negativo nella lotta alla mafia, soprattutto nella realtà di Palermo", dice
Vittorio Costantini, segretario generale Siulp Sicilia. Nel capoluogo siciliano,
una tra le sedi che annovera il maggior numero di blitz antimafia, i revolver
ritirati sono 80, i fucili 20. A questi investigatori, per il momento, rimane
solo la pistola d'ordinanza.
Lo strano
caso di Artic Sea
Secondo la
stampa israeliana Netanhyau è volato in segreto a Mosca per chiedere alla Russia
di non vendere armi all'Iran
Gli ingredienti per la sceneggiatura di un film o per un libro noir ci sono
tutti. L'ultimo episodio della saga dell' Arctic Sea, il cargo battente bandiera
maltese scomparso alla fine di luglio nel Canale della Manica e ritrovato a Capo
Verde a metà agosto, riguarda la scomparsa del premier israeliano Benjamin
Netanhyau, introvabile per dieci ore. Andiamo
con ordine. Il quotidiano israeliano Jerusalem Post, nell'edizione di ieri,
scrive che il premier di Tel Aviv si è allontanato dal Paese senza che nessuno
al di fuori dei suoi più stretti collaboratori sappesse dove si trovava. Oggi un
altra testata d'Israele, lo Yedioth Ahronoth, citando fonti anonime e ben
informate, sostiene che Netanhyau si sia recato a Mosca lunedì, per una visita
lampo al governo russo. Stesse conferme sarebbero giunte al terzo grande
quotidiano israeliano, Ha'aretz, in merito alla scomparsa del primo ministro
d'Israele. Con Netanhyau sarebbero partiti Uzi Arad, responsabile della
sicurezza nazionale dello Stato ebraico e il generale Meir Kalifi, segretario
dell'esecutivo per gli affari militari. Motivo del viaggio? Il carico dell'
Arctic Sea. Secondo il giornale israeliano il cargo trasportava un carico di
batterie anti missile S-300, di fabbricazione russa, destinate alla vendita
all'Iran. Il governo di Teheran, secondo le fonti del quotidiano, ha il bisogno
di acquistare quel tipo di sistema difensivo per mettere in sicurezza i siti
nucleari e porre il loro programma di sviluppo di energia atomica al riparo da
un colpo di mano dei caccia bombardieri israeliani che, in barba ai negoziati
internazionali, potrebbero decidere di risolvere a modo loro il dossier nucleare
degli ayatollah. Netanhyau sarebbe andato di persona a tentare di convincere i
russi a non provarci di nuovo e chiedendo un chiarimento più generale sulla
fornitura di armi e tecnologia bellica da parte dei russi a Siria, Iran ed
Hezbollah in Libano. Dal governo d'Israele nessuno conferma, nessuno smentisce.
A Mosca, invece, sempre ieri, il ministro degli Esteri Sergei Lavrov ha definito
''prive di ogni fondamento'' le ricostruzioni circolate in questi giorni
rispetto alla scomparsa dell' Arctic Sea, che secondo la versione ufficiale
sarebbe stata vittima di un'aggressione dei pirati (novità assoluta nella Manica
dai tempi di Sir Francis Drake nella seconda metà del Cinquecento). L'equipaggio
del cargo, quindici marinai russi, sarebbe stato sequestrati da otto uomini,
estoni, russi e lituani. Obiettivo dei pirati ricattare l'armatore per ottenere
un riscatto e il recupero del carico di legname del valore di 1,8 milioni di
dollari, partito dal porto russo di Kalinigrad e diretto al porto algerino di
Bedjaia, dopo aver caricato la merce in Finlandia.
Lavrov ha ribadito che la versione ufficiale è l'unica attendibile, ma ha anche
promesso un'inchiesta accurata. Non ha risposto, invece, alla domanda più
importante. Se l' Arctic Sea trasportava solo legname, per quale motivo il
governo russo ha inviato una mini flotta di quattro navi da guerra alla ricerca
del natante? Per salvare i quindici marinai? Difficile crederlo. Anche perché i
russi hanno impedito a chiunque di avvicinare la nave alla fonda a Capo Verde e
i marinai liberati.
Non ci ha creduto neanche per un istante Mikhail Voitenko, direttore del
quotidiano online Sovfracht, specializzato nel mondo della marina mercantile,
che è stato il primo a scrivere che quel cargo non trasportava legname ma armi e
che i dirottatori non erano criminali, ma agenti segreti israeliani impegnati a
bloccarne il carico. Voitenko, che citava fonti del ministero della Difesa russo
e aveva riceuto e pubblicato alcune lettere dei familiari dei marinai
sequestrati, ha abbandonato la Russia in tutta fretta e ha detto di non voler
rivelare la sua attuale posizione. Il giornalista, secondo quanto raccontato dal
suo editore alla Bbc, è terrorizzato dalle telefonate minatorie ricevute nei
giorni successivi alla pubblicazione del suo articolo sula ricostruzione della
vicenda dell' Arctic Sea. Secondo Voitenko, dall'altra parte del telefono
c'erano agenti del temuto Fsb, il servizio d'intelligence russo, che facendogli
capire con chi aveva a che fare lo hanno 'invitato' a farsi gli affari suoi.
Cosa che non ha fatto l'ammiraglio Tarmo Kouts, ex capo delle forze armate
estoni e relatore per l'Unione Europea per la pirateria internazionale, che in
un'intervista al periodico Usa Time ha dichiarato come solo la presenza di
missili a bordo della nave è in grado di spiegare lo strano comportamento russo
nella faccenda. ''Ognuno può dire quello che gli pare, ma la ricostruzione
ufficiale non è credibile. Che otto uomini assaltino un cargo in acqua europee e
si dileguino nel nulla dopo aver raggiunto Capo Verde è irrealistico'', ha
dichiarato Kouts. Un mistero fitto, insomma, ma che non dovrebbe stupire più di
tanto. Il Mossad, il servizio d'intelligence israeliano, non è nuovo a questo
genere di operazioni. Ad aprile scorso, secondo quanto riportato dal giorale
egiziano El-Aosboa, un'unità speciale israeliana ha intercettato un cargo
diretto alla Striscia di Gaza e partito dal Sudan, carico di armi proveniente
dall'Iran. Stessa sorte, questa volta a Dubai, secondo il Financial Times, per
un cargo carico di armi provenienti dalla Corea del Nord e diretto in Iran. La
Guerra Fredda è finita, i metodi con i quali la si combatteva non sono passati
di moda.
Christian Elia
10
settembre
Brunetta
bluff
di Gianni Del Vecchio e Stefano Pitrelli
Ha vantato risultati clamorosi contro gli assenteisti. Ma ora si scopre
che purtroppo non sono diminuiti. E che le statistiche riportavano soltanto i
dati ottimistici. Mentre il ministro ha penalizzato soprattutto le donne
Il ministro Renato Brunetta
I benefici effetti prodigiosi della 'cura
Brunetta' per i fannulloni della nostra pubblica amministrazione sono il fiore
all'occhiello di questo governo. Della sua terapia miracolosa, il ministro
figlio di un venditore ambulante veneziano è riuscito a convincere tutti, dagli
statistici agli stessi politici d'opposizione. Per la gente comune, grazie a lui
l'impiegato lavativo è stato rimesso in riga. D'altronde come interpretare
altrimenti il mirabolante meno 40 per cento di assenze per malattia propagandato
a più riprese dal suo ministero? La realtà, però, è diversa dai fuochi
d'artificio alla festa del Redentore. E poche coraggiose voci fuori dal coro fra
gli statistici del nostro Paese sgonfiano quei numeri, ridimensionando l'ormai
celebre effetto-Brunetta. Che si fonda su tre pilastri di cartapesta.
Il primo: l'analisi si limita agli enti che ci tengono a farsi belli della
propria virtuosità (mentre gli asini se la battono). Il secondo: nei suoi conti
mancano all'appello grossi pezzi dell'apparato statale - come l'istruzione e le
forze di polizia - nonché ministeri o comuni importanti. Il terzo: le sue
statistiche tagliate con l'accetta spesso finiscono col premiare chi non se lo
merita e punire chi non ha colpa. Senza dimenticare che gli stessi dati del
ministero iniziano a riconoscere che 'l'onda' si sta ritirando.
Riflusso napoletano Che il travet non abbia più così paura degli strali di
Brunetta, infatti, è proprio il suo ministero a raccontarcelo. La riduzione
delle assenze per malattia registrata a settembre dello scorso anno, quando si
era raggiunto il meno 44,6 per cento, è stato il picco dal quale poi non si è
fatto altro che scendere. In modo graduale, ma inesorabile: meno 41 a novembre,
meno 33 ad aprile, meno 27 a giugno, per finire con il meno 17 di luglio. Mai
come in quest'ultimo mese ci sono state tante amministrazioni che hanno
invertito la tendenza, col meno che si è andato trasformando in più. Al Comune
di Napoli le assenze si sono impennate del 30 per cento, nonostante il fatto che
a palazzo San Giacomo i dipendenti siano diminuiti. Anche l'altra grande città
del Regno delle due Sicilie, Palermo, si distingue per la propria indifferenza
al ministro-castigatore. Con una particolarità: fra gli uffici che hanno
lavorato meno, negli ultimi quattro mesi dell'anno scorso, ci sono quelli
addetti a raccogliere soldi per il Comune (servizio Tributi e Tarsu). Alla
faccia della lotta all'evasione. Sempre stando ai numeri ministeriali, non è che
a Nord se la passino meglio. A Parma, per esempio, chi lavora in Comune a luglio
se l'è squagliata: più 32 per cento, rispetto allo zero di giugno e al meno 21
per cento di maggio. E il malcostume non cambia se ci spingiamo ancora in su,
per fare tappa in un paesino brianzolo piuttosto noto: ad Arcore, dove il
premier ha casa, le assenze sono salite del 27 per cento rispetto all'anno
scorso. In barba al suo illustre e industrioso cittadino.
A scoppio ritardato L'afflosciarsi dell'effetto Brunetta è però solo una parte
di quello che il ministro non dice. Se oggi il fannullone italiano inizia a
essere una specie protetta, non è solo merito suo (anche se lui se lo arroga
tutto). Come dimostrano i dati della Ragioneria generale dello Stato, è già da
fine 2004 che si verifica nella popolazione dei dipendenti pubblici una concreta
diminuzione di chi si dà malato. Ovverosia già molto prima dell'era post
Brunetta del pubblico impiego . Alla Provincia a Pisa lo sanno bene: dall'inizio
del 2005 l'ente toscano è riuscito nell'impresa di abbassare del 20-30 per cento
il tasso d'assenteismo. "Tutto quello che potevamo recuperare l'abbiamo
recuperato, motivo per cui ora le assenze oscillano di mese in mese, seguendo
cause fisiologiche come il tempo o i cicli influenzali", dice il direttore
generale Giuliano Palagi, non curandosi del più 17,5 per cento fatto segnare a
luglio.
Al di là di questa 'appropriazione indebita', cosa più grave nel bluff mediatico
del ministro-economista è la mancanza di attendibilità dei dati che diffonde
ogni mese. "Le sue cifre aprono una finestra solo su una parte del panorama
della nostra pubblica amministrazione: quella migliore", fa notare Giulio
Zanella, ricercatore all'Università di Siena e firma del sito di economisti
noisefromamerika.org. Appellandosi alla collaborazione delle singole
amministrazioni, il ministero infatti non pubblica tutti i numeri degli enti -
né potrebbe - ma solo quelli inviati di loro spontanea volontà. Per capirci, è
come se a scuola venissero interrogati solo i ragazzi che si offrono volontari:
ai somari per cavarsela basta stare zitti. "Però in questo modo il campione non
è rappresentativo, e i risultati tanto strombazzati non hanno alcun valore
scientifico, perché inevitabilmente sovrastimano la realtà", aggiunge Zanella. E
non ha aiutato nemmeno "l'operazione di 'pulitura' dei dati fatta dall'Istat",
perché si è trattato, per l'appunto, solo di una pulitura. "Mi aspetto che i
prossimi dati ufficiali della Ragioneria generale dello Stato, che
rappresenteranno la prova del nove, ridimensionino quel 40 per cento di
Brunetta", conclude il ricercatore senese. Facendo piazza pulita della retorica
politica.
Il paradosso di Sondrio Che i numeri del ministero siano tutt'altro che uno
specchio fedele della realtà lo si capisce anche da altre falle, più o meno
grandi. Prima di tutto c'è quella postilla con cui si avvertono i lettori che
nell'analisi mensile non rientrano scuola, università, regioni e pubblica
sicurezza. Cioè un bel pezzo d'apparato statale. Inoltre, gli stessi enti i cui
dati trovi un mese, magari latitano il mese prima. Tanto che spiccano frequenti
assenze di lusso: a luglio mancavano i dati del ministero degli Interni e di
quello dei Trasporti, della Provincia e del Comune di Milano, dei Comuni di
Torino, Bari e Venezia. Quasi tutti, ad eccezione del Viminale e del capoluogo
pugliese, erano invece presenti nella rilevazione del mese precedente. Infine, a
scapito delle verità di Brunetta va la scarsa collaborazione delle
amministrazioni nel loro insieme: meno della metà delle 10 mila burocrazie
italiane compila i moduli on line. Certo oggi va meglio che agli inizi, quando
già nei primi cinque mesi dall'approvazione della legge 133 Brunetta aveva
sbandierato il suo famoso 40 per cento: all'epoca solo il 15 per cento di quella
che è l'intera burocrazia italiana aveva risposto alle sollecitazioni
ministeriali.
C'è poi un ultimo errore da prendere in considerazione, del quale già avvertono
a scuola quando ti insegnano a fare la media fra due numeri: se io mangio due
polli e tu non mangi niente, se non stai attento finisci col sostenere che
abbiamo mangiato un pollo a testa. È il malinteso in cui si incappa prendendo
alla lettera i dati di Brunetta. Se scorri i numeri più aggiornati fra quelli
forniti dal ministero, al secondo posto nella top ten trovi il Comune di
Sondrio, con un aumento delle ore di assenza per malattia di oltre il 90 per
cento rispetto allo stesso mese dello scorso anno. Che sia Sondrio, proprio la
terra natìa di Giulio Tremonti, la capitale dei fannulloni d'Italia? Non
esattamente. A un'analisi appena meno superficiale, infatti, ti accorgi di come
stiano le cose in realtà. "Quella del ministero è una statistica piuttosto
rozza", contesta Alcide Molteni, sindaco del comune lombardo: "Ora, io ho circa
150 dipendenti. Tre di questi hanno malattie croniche che li obbligano a casa
tutto l'anno, chi per l'infarto, chi per seri problemi polmonari, e loro da soli
coprono gran parte delle assenze. Ad agosto, per esempio, su 87 giorni di
malattia, in tre ne hanno fatti 62, e tutti gli altri ne hanno fatti 25". Per
converso è facile capire che, come a Sondrio si punisce chi non ha colpe, la
media 'del pollo' può tranquillamente finire col premiare chi invece non lo
meriterebbe.
Le donne nel mirino Sotto la scure di Brunetta, però, non ci finiscono solo i
malati gravi. I primi risultati di uno studio ancora in corso all'Istat - sul
numero di persone che fanno orario ridotto a causa di malattia in una settimana
tipo - smorzano gli entusiasmi dei brunettiani convinti, concentrandosi sui
primi sei mesi dall'entrata in vigore della legge. Ebbene, il primissimo (e
forse l'unico) colpo inferto dalla sua crociata antifannulloni si è abbattuto
nell'estate 2008 su una ben precisa fetta dei dipendenti pubblici: le donne del
Centro Italia. E basta. Che cosa avranno mai fatto le donne di Roma per
meritarsi questo? Una possibile spiegazione ce la suggerisce Riccardo Gatto,
ricercatore Istat, e autore dello studio insieme ad Andrea Spizzichino:
"D'estate, una volta chiuse le scuole, si hanno più problemi a trovare qualcuno
a cui affidare un bimbo, e quindi è possibile che ci si assenti solo per
gestirli meglio. Infatti, la differenza significativa rispetto agli uomini sul
lavoro è che sono ancora le donne a farsi tipicamente carico delle mansioni
familiari".
E sempre le donne, secondo un calcolo fatto da Zanella, fanno mediamente due
giorni di assenza l'anno in più degli uomini, per evidenti ragioni familiari e
biologiche. Fra l'autunno e l'inverno, invece, ci si ammala per davvero. E
proprio negli ultimi tre mesi del 2008, sempre secondo lo studio di Gatto,
l'effetto Brunetta semplicemente "non emerge più dall'analisi dei dati". "Già
nei tre mesi estivi il fenomeno non è particolarmente rilevante", osserva,
"perché passa dall'1,8 dell'anno prima all'1,3 per cento. Ma nel quarto
trimestre la legge sembra aver esaurito il suo effetto". Conclusioni pesanti e
fuori dal coro, quelle di Gatto, pronunciate durante un seminario a 'casa' del
ministro. E passate sotto silenzio.
Un mini-risultato Insomma, malati cronici, donne con figli, ma di fannulloni
puniti, per ora, neanche l'ombra. Fatta la tara, che cosa resta concretamente di
questa 'cura Brunetta'? Secondo Zanella, in ultima analisi, si potrebbe parlare
di un 10 per cento in meno di assenze. Ma qui finisce. "Il fatto che quest'anno
i numeri del ministro si siano ridotti è normale, perché le assenze non possono
continuare a calare all'infinito". Un effetto, quindi, c'è stato, ma è "un puro
effetto di prezzo, dovuto alla decurtazione dallo stipendio dei giorni di
assenza. Se oggi le arance costano un euro, e domani due, ne comprerai di meno.
Qui è la stessa cosa. Ognuno fa i propri conti: prima potevo ammalarmi quanto
volevo, adesso non più, quindi cercherò di fare meno assenze. Allora si
raggiunge un nuovo equilibrio, in cui le assenze tornano a essere costanti".
Certo è che però non basta tenere la gente in ufficio (magari con 38 di febbre)
per farla essere produttiva. "La soluzione non è costringere la gente ad andare
al lavoro in qualsiasi condizione di salute, visto che si può arrivare a perdere
fino a 50 euro al giorno in caso di malattia", contesta Michele Gentile della
Cgil: "Quel che servirebbe, in realtà, sarebbero più controlli da parte dei
dirigenti, cosa che nel privato avviene molto più che nel pubblico", suggerisce
Gianni Baratta della Cisl. Insomma, conclude Gentile, "la diagnosi è giusta, ma
la terapia è sbagliata".
Trenta
ragazze per me
Palazzo Chigi non reagisce ai verbali di Tarantini sulle escort. Ma le
rivelazioni dell'imprenditore pugliese sono destinate a esplodere anche a
livello politico. Perché confermano le parole di Veronica Lario sulla "malattia"
del premier
Clarissa
Campironi E'
arrivata da Bari la nuova bomba della vicenda escort e politici: con la
pubblicazione sul Corriere della sera dei verbali di Giampaolo Tarantini,
l'imprenditore pugliese che, come dice lui stesso, «usava le ragazze e la
cocaina per avere successo in società». Il racconto di Tarantini è
impressionante, riguarda anche il centrosinistra (in particolare l'ex
vicepresidente della Puglia Sandro Frisullo, pd) ma si incentra soprattutto
sulle ragazze del Cavaliere: una trentina quelle portate a Palazzo Grazioli, di
cui diverse si sono poi fermate a intrattenere il padrone di casa, come la
valletta del programma di Raidue "Scorie", la brasiliana Camilla Cordeiro Charao,
o Terry De Nicolò, escort barese di 37 anni.
Il quadro che emerge è quello di un'attività incessante di Tarantini nel
rifornire di ragazze sempre diverse il premier per tutto l'autunno e l'inverno
del 2008, con la residenza del presidente del consiglio trasformata in una sorta
di ufficio casting, dove il premier riceveva le ragazze decideva quindi quali
far rimanere e quali rispedire a casa.
A tutte le ragazze Tarantini pagava il viaggio fino a Roma, ma solo quelle che
restavano con il premier prendevano poi i mille euro per la prestazione.
Tarantini tuttavia sostiene anche che il pagamento avveniva all'insaputa di
Berlusconi, il quale quindi si confermerebbe nel ruolo di mero "utilizzatore
finale" delle prostitute così come indicato dal suo avvocato Niccolò Ghedini.
Tarantini aggiunge anche che c'era una sorta di tacito accordo con la sicurezza
del premier per cui lui entrava a Palazzo Grazioli direttamente con la sua
automobile, nascondendo le ragazze sui sedili posteriori dove non potevano
essere viste, perché la vettura aveva i vetri oscurati. Le dichiarazioni di
Tarantini sono destinate ad aprire un nuovo capitolo nella vicenda nata come "Noemigate"
e poi estesa al caso di Patrizia D'Addario: dai verbali infatti emerge che la
frequenza quasi ossessiva con cui il premier si faceva portare escort e showgirl
dà un nuovo significato alle parole della moglie, Veronica Lario, quando
spiegava che suo marito «è un uomo malato».
Impressiona anche il fatto che il premier abbia talvolta rinunciato a
presenziare a incontri pubblici connessi con il suo ruolo (come lo scambio di
auguri di Natale con il presidente Napolitano, il 17 dicembre scorso) per
rimanere a Palazzo Grazioli a ricevere le ragazze portategli da Tarantini.
Finora Palazzo Chigi non ha voluto in alcun modo commentare le notizie arrivate
da Bari. Proprio ieri il premier, parlando all'inaugurazione del Salone del
tessile a Milano, aveva detto «a Bari c'è un inchiesta interessante», non
aspettandosi evidentemente che nel giro di poche ore avrebbe interessato
soprattutto lui.
Carissimi
assaggiatori
Se è vero che la dieta mediterranea è garanzia di salute alla Regione Campania
vogliono far le cose perbene. Ecco perché fra i consulenti dell'ente guidato da
Antonio Bassolino ci sono anche un esperto di olio di oliva e un assaggiatore di
formaggi e miele.
Non manca, inoltre, un esperto di difesa personale, uno di cucito e più
componenti di una commissione sulla danza. L'ammontare complessivo delle
consulenze è di 30 milioni, riferiti alle diverse articolazioni degli
assessorati, i beneficiari sono circa 700. Le cifre e i nomi sono in possesso
del ministero della Funzione Pubblica, sono relativi al 2008 e si riferiscono a
varie tipologie di attività, soprattutto legali, docenti e ingegneri. In tutta
Italia le consulenze ammontano a 1 miliardo e mezzo di euro. Il consulente
campano più remunerato ottiene 270 mila euro, quello più povero deve
accontentarsi di 93. Costa 15 mila euro "l'individuazione di metodiche per test
di algoritmi di controllo integrato con sistemi informativi", 4 mila euro,
invece, la schedatura di vocabolari tedeschi. Mentre tra le attività richieste
c'è anche, con viva sorpresa di chi legge, un "supporto agli organi di direzione
politica". Troppe? Necessarie? Costose? Utili? Alla Regione Campania giurano
sulle virtù ineliminabili di assaggiatori, pedagogisti e cucitori.
G. S.
9 settembre
di Alberto D'Argenzio - BRUXELLES
Ironie e
reprimende, l'Europa scarica il Cav
«A chi devo chiedere il
permesso», la frecciata di Almunia
«A quale Presidente devo chiedere il permesso di
parlare?». Joaquin Almunia, di professione commissario europeo all'economia, usa
la sottile arma dell'ironia per irridere le pretese berlusconiane di zittire i
membri del gabinetto Barroso ed i loro portavoce. Quella del socialista spagnolo
è tra l'altro solo una, la più semplice, arguta e divertente, tra le reazioni
comunitarie alle minacce del premier italiano. Formalmente il caso sarebbe
chiuso, dicevano già martedì sera da Palazzo Chigi e ripetevano ieri i servizi
della Commissione, ma non è così: a Bruxelles si fa una fatica tremenda a
digerire l'ultima sparata anti-europea del premier italiano, anche perché è
stata lanciata dritta al cuore delle istituzioni comunitarie con l'arma velenosa
della minaccia.
Anche Jacques Barrot, commissario alla giustizia ed interni con delega
all'immigrazione, ci tiene a precisare, indirettamente, che il dono della parola
non ha assolutamente intenzione di perderlo, men che meno in pubblico. «Noi
svolgiamo il nostro ruolo, non sono qui per distribuire critiche - ha detto
presentando il progetto per il reinsediamento dei richiedenti asilo - ma per
chiedere informazioni sui problemi che colpiscono uno stato membro, cosa che
abbiamo fatto all'inizio dell'estate (il 15 luglio sui respingimenti, ndr) e per
cui stiamo ancora aspettando delle spiegazioni». Spiegazioni che dovrebbero
arrivare nei prossimi giorni. E da Barrot arriva anche un'altra precisazione,
questa volta diretta al suo predecessore Franco Frattini che aveva accusato
l'Europa di «parlare molto e di fare poco». «La Commissione - la replica di
Barrot - non può essere accusata di inedia, a livello di iniziative legislative
e di visite sul campo penso di aver fatto molto, tutti i giorni ci siamo
attivati quindi non ci devono essere fraintendimenti, la Ce non è in causa, ci
sono timidezze da parte di Stati membri».
Johannes Laitenberger, portavoce di Barroso, usa parole meno dure ma comunque,
pur tra mille equilibrismi diplomatici, ci tiene a precisare che i portavoce
«sono i microfoni che diffondono la voce del livello politico» della
Commissione. Laitenberger ha anche ricordato che Barroso (peraltro alla ricerca
di una riconferma e per ora prudentemente assente nella polemica) è «un
sostenitore intransigente» delle prerogative delle istituzioni europee, tra
queste quella di informare in maniera «trasparente e aperta».
Anche la Presidenza svedese scende in campo, in difesa di Bruxelles.
«Auspichiamo che la Commissione europea continui a rispondere alle domande in
modo aperto e trasparente, anche in italiano», ha detto il ministro delle
Finanze Anders Borg.
Chi invece si è ormai scordato delle diplomazia è Louis Michel, ex ministro
degli esteri belga, fino all'altro ieri commissario Ue allo sviluppo ed ora
eurodeputato: «Le parole e le minacce di Berlusconi sono assolutamente
inadeguate. Berlusconi non può prendere in ostaggio la Commissione imponendo una
visione della politica migratoria ed in particolare del diritto di
non-respingimento che non è assolutamente quella prevista dall'ordinamento
comunitario. I modi usati da Berlusconi, le sue minacce e le sue interpretazioni
non sono in linea con l'Europa, ma questo è lo stile di Berlusconi...».
A spezzare questo coro di critiche, si leva la voce di Joseph Daul, capogruppo
popolare al Parlamento europeo. «Berlusconi - dice Daul - ha ragione a battere i
pugni sul tavolo» perché il problema dell'immigrazione «non è stato risolto» e
«Italia, Malta e Grecia si sentono abbandonate». Una difesa d'ufficio, tra
popolari, che evidenzia invece di cancellare l'isolamento in cui sta finendo il
governo italiano.
di Iaia Vantaggiato - ROMA
Black
bloc
La guerra santa
Per il direttore del Giornale la velina su Dino
Boffo da lui pubblicata verrebbe dalla «gendarmeria vaticana». La santa sede
smentisce: «Sono accuse false, vuole portare il caos». Il papa cerca il sipario
e invita tutti a un «radicale cambiamento di vita»
Non solo esisterebbe ma arriverebbe direttamente dalla gendarmeria vaticana - e
non dai servizi segreti - la velina inviata nei mesi scorsi ai vescovi italiani
e apparsa, lo scorso 28 agosto, sul Giornale. Ad affermarlo ieri mattina, nel
corso della trasmissione «Radio anch'io», è stato lo stesso Vittorio Feltri.
Immediata la reazione delle gerarchie vaticane: «Smentisco in modo categorico
questa affermazione: viene il sospetto - sono le parole del portavoce della
santa sede, padre Federico Lombardi - che vi sia l'intenzione di fomentare
confusione diffondendo false accuse».
Tetragono, Feltri non si scompone ma contrattacca e difende il documento
pubblicato, sempre ieri, sulla prima pagina del «suo» Giornale: un decreto
penale di condanna emesso dal tribunale di Terni nei confronti di Dino Boffo nel
quale, dice, «si accenna a molestie anche a sfondo sessuale». Ora tocca a Boffo,
precisa Feltri, svelare quei particolari cui può avere accesso - secondo quanto
stabilito dal gip di Terni Pier Luigi Panariello - solo chi come lui è stato
parte in causa.
In realtà, l'articolo 660 del codice penale cui il decreto si riferisce - e
sulla cui base il direttore di Avvenire venne condannato al pagamento di
un'ammenda di 516 euro - parla assai più genericamente di «molestia e disturbo
alle persone». Insomma il decreto c'è ma l'accusa a Boffo si limita alle
molestie telefoniche (attribuite peraltro dal direttore di Avvenire a un suo
collaboratore tossicodipendente, nel frattempo deceduto). «Aggiungere a quel
documento una velina - ha polemizzato Antonio Polito sempre dai microfoni di
'Radio anch'io' - e dire che Boffo è omosessuale, cosa che non risulta in nessun
atto, non è corretto». L'utilizzazione della velina, secondo il direttore del
Riformista, svelerebbe un intento vendicativo nei confronti di tutti coloro che
«si sono permessi di criticare il presidente del consiglio». Eppure è proprio a
un articolo del Riformista che Feltri avrebbe fatto riferimento parlando della
velina e dei servizi segreti vaticani, un'entità questa perlatro inesistente
stando alle affermazioni di padre Lombardi. «Oramai - chiosa Feltri - qualunque
cosa si dica su questo argomento pare che l'abbia detta solo io. Domani comunque
il Giornale cambierà il tema in prima pagina dedicando l'apertura al testo delle
denunce fatte dal premier Silvio Berlusconi alla Repubblica e all'Unità». Non
quelle d'Italia, si spera.
«Lapidato e accusato di voler fare un vendetta», Feltri ribadisce di essersi
occupato del caso perché in presenza di un atto pubblico e perché la vita
privata di Boffo non è quella di «un cittadino qualsiasi» ma del direttore del
giornale della Cei, «ovvero il portavoce del Vaticano». Stesse argomentazioni di
chi sostiene che la vita privata di Berlusconi non sia quella di un cittadino
qualsiasi ma del presidente del consiglio e che il giornalista che più degli
altri lo difende non sia un giornalista qualsiasi ma il direttore di un
quotidiano di sua proprietà.
Intanto Dino Boffo, l'uomo che Ruini chiamò quindici anni fa a dirigere il
giornale della Cei e che solo due giorni fa ha ricevuto una sia pure indiretta
attestazione di stima da parte del pontefice e per il tramite del cardinal
Bagnasco, rimane al suo posto così smentendo l'ipotesi di eventuali dimissioni
ventilata ieri dal Corriere della sera. «Non c'è niente, di niente, di niente»,
ha affermato in tarda serata rassicurando i suoi redattori, ma resta il mistero
sul perché sia stata diffusa una simile notizia.
Forse che a una parte della Cei, quella non vicinissima a Ruini, farebbe comodo
sostituire alla guida del giornale dei vescovi quest'uomo legato a doppio filo
con l'ex presidente della Conferenza episcopale? Che esista già qualche
candidato forse più prossimo alla nuova presidenza del cardinal Bagnasco?
Per ora, comunque, di smentite ufficiali non se ne parla: «Non c'è ne bisogno -
si è limitato a sottolineare un alto prelato - non dobbiamo rispondere ad ogni
articolo di giornale e in questo momento forse è meglio il silenzio». Tace la
Cei e tace anche monsignor Fisichella, a Frascati per la «Summer school» del Pdl:
«Conoscete la mia propensione a parlare con i giornalisti - dice - ma quando non
posso, non posso».
Parla invece, e a lungo, Benedetto XVI durante l'udienza generale tenutasi ieri
in Vaticano di fronte a 8mila persone. E il tema scelto è sembrato essere di
indubbia attualità: «La misericordia divina - ha detto il papa - è sempre
disponibile perché Dio persegue le colpe ma protegge i peccatori». Di fronte
alla vastità dei vizi diffusi nella società, ha sottolineato, il rimedio da
proporre con decisione è quello di «un radicale cambiamento di vita, fondato
sull'umiltà, l'austerità, il distacco dalle cose effimere e l'adesione a quelle
eterne».
Lo stesso cambiamento di vita cui il direttore di Avvenire aveva più volte
invitato Berlusconi. Lo stesso cambiamento di vita che, forse, parte del mondo
cattolico e non solo si aspetterebbe dal direttore del giornale dei vescovi.
Credere che il pontefice abbia preso spunto delle avvelenate vicende degli
ultimi giorni sarebbe, tuttavia, quanto meno blasfemo. Ad ispirarlo, piuttosto,
è stata la figura di Oddone, l'abate di Cluny (finalmente un semplice abate e
non un porporato) tra le cui virtù spiccavano appunto l'umiltà, l'austerità e il
distacco dalle cose terrene. Dal medioevo, un piccolo suggerimento a Berlusconi.
Da
sterminare
Dall'inizio dell'anno 28 Awà
sono stati ammazzati. Si suppone un piano per estinguerli e occuparne le
preziose terre
"Nell'omicidio
dei miei compagni il 26 agosto è coinvolto anche l'esercito": La denuncia arriva
da Eder Burgos, il portavoce degli indigeni Awá, che non si stanca di ricordare,
con la morte nel cuore, il massacro di dodici persone tra cui sette minorenni.
Tra questi un bambino di appena un anno. "Ci sono oscuri interessi che cercano
di insabbiare i veri autori della strage", spiega, un fatto che ha commosso
l'opinione pubblica non solo colombiana.
Tutto è accaduto nelle prime ore del mattino di mercoledì scorso, in una casa
del resguardo indigeno di Gran Rosario, nel Tumaco, dipartimento al confine con
il Nariño, nel sud-est del paese. Uomini incappucciati e in mimetica hanno
sterminato questo gruppo di persone in una casa di El Divisio. Non è ancora
ufficiale a che gruppo appartenesse lo squadrone che ha sterminato il gruppo di
Awà, ma è noto che si tratti di un'area a vasta presenta paramilitare. E da
sempre i paracos vanno a braccetto con l'esercito.
Eppure, per questa strage c'è già un capro espiatorio che le autorità si sono
affrettate a consegnare alla giustizia. Si tratta di Jairo Miguel Paí, anch'egli
indio, da tempo espulso dalla comunità per i suoi legami con i paramilitari. Ma
Burgos non ci sta. Paí, secondo gli Awà, merita di restare dietro le sbarre,
certo, ma perché ha tentato di estorcere denaro a molta gente, non certo perché
mandante o responsabile di un crimine tanto efferato. "Adesso, quello che
vogliono (le autorità di polizia) è che le indagini portino a dei colpevoli,
siano quelli che siano", ha spiegato, precisando, appunto, che la sua comunità
non condivide la tesi che Paí sia l'autore della strage.
E i fatti sembrano dar loro ragione. Non solo la zona è ad alta presenza
paramilitare, e quindi sotto il loro diretto, quanto violento e illegale
controllo, ma l'esecuzione dei dodici indigeni è avvenuta proprio nella casa di
Sixta Tulia García, la donna 35enne che aveva osato denunciare la morte del
marito, Gonzalo Rodríguez, puntando il dito contro l'esercito. Coincidenza o
chiaro segnale di avvertimento in puro stilo mafioso?
I nativi non hanno dubbi. Siamo di fronte all'ennesimo crimine di Stato,
insabbiato e deviato grazie a un caprio espiatorio. E per questo difficile da
dimostrare.
A indagare è la Fiscalia e l'unica cosa certa è che l'esecuzione è stata fatta
usando pallottole calibro nove millimetri. Certo, c'è anche la testimonianza di
chi descrive uomini in mimetica, ma in Colombia la mimetica la indossano tutti,
indistintamente: esercito, paramilitari e persino guerriglieri. L'unico elemento
distintivo, dato che sicuramente fasce e simboli sono scrupolosamente rimossi
prima di ogni retata in cui l'anonimato è fondamentale, possono essere le
calzature. È cosa nota che i guerriglieri di Forze armate rivoluzionarie
colombiane o Esercito di liberazione nazionale siano soliti indossare stivali in
plastica nera, in puro stile contadino. A differenza di militari e paracos che
invece camminano con anfibi rinforzati e pieni di stringhe. Un piccolo
particolare che però la gente calata in simili realtà è solita notare.
Intanto, a rincarare la dose sull'esistenza di un piano criminale teso a
sterminare gli Awà è il presidente dell'Unità indigena di tale popolo (Unica),
Gabriel Bisbicus, che parla di "forze oscure, con la complicità di organismi di
sicurezza statale". E ricorda come da mesi gli Awà siano pedinati, minacciati,
perseguitati, sia nel loro territorio che a Pasto, la capitale dello stato di
Nariño. Da gennaio, sono 28 i morti ammazzati tra i 27mila cinquecento Awà,
sparsi nei 21 resguardos tra Nariño e Putumayo, in un territorio di 322mila
ettari. Tanto che le associazioni in difesa delle popolazioni indigene lo
definiscono il popolo che corre il maggior rischio di estinzione in Colombia.
Gli Awà, che in Awapit significa 'gente', hanno già subito molto dal conflitto
armato che da 45 anni logora la Colombia. Intanto, nati cacciatori, hanno dovuto
diventare agricoltori e allevatori di animali domestici, perché impossibilitati
a muoversi dietro animali e branchi. Coloni, guerre civili, cercatori di oro e
di legno, cocaleros, mine antiuomo, conflitti a fuoco, retate e blitz
orchestrati da quelle forze che agognano le loro terre ricche e fertili, li
hanno costretti a cambiare drasticamente stile di vita, limitandoli e castrando
una cultura millenaria. E, come se non bastasse, restano nell'occhio del mirino.
E le altre popolazioni native non se la passano certo meglio in Colombia. Il
relatore speciale dell'Ufficio Onu sui diritti umani dei popoli indigeni, James
Anaya, in luglio ha dichiarato che la situazione di queste etnie nel paese
andino "è grave, critica e profondamente preoccupante".
Stella Spinelli
Serbia,
l'autunno caldo dei lavoratori
Scioperi e proteste a
catena, il governo di Belgrado negozia ma i sindacati prospettano il peggio
scritto da Giulia Cerino
''Mi domando se queste proteste non abbiano un
che di positivo. Protestare significa che la società civile c'è e che i
cittadini serbi stanno uscendo dalla 'depressione' in cui erano caduti dieci
anni fa con la guerra, che hanno ricominciato a combattere, a partecipare alle
proteste sindacali, a far sentire la loro voce e soprattutto a rivendicare i
propri diritti di lavoratori e cittadini. Questo è un segno di ripresa. Forse un
primo passo verso il soddisfacimento di quei criteri necessari in vista
dell'ingresso nell'Unione Europea?''.
Goran Sadzákov, membro del consiglio municipale e della commissione per gli
Affari Comunali e la Protezione dell'Ambiente di Becej, la quarta località più
povera della Vojvodina, regione autonoma al nord della Serbia, commenta così la
notizia delle proteste dei lavoratori serbi che, ormai da sei mesi, presidiano
l'Agenzia delle Privatizzazioni di Belgrado. Oltre 300 operai della Zastava
Elektro, una fabbrica di materiali elettronici nella città di Rača, municipalità
del distretto di Šumadija, Serbia centrale, sono scesi in piazza chiedendo che
il piano di privatizzazione venga annullato. A scatenare l'ira dei dipendenti
hanno contribuito molti fattori. Primo fra tutti, da febbraio scorso, proprio in
vista della privatizzazione prevista per il mese di agosto, la compagnia ha
smesso di pagare i salari dei dipendenti stanziali, i rimborsi dei lavoratori in
missione all'estero e le assicurazioni sugli incidenti sul lavoro. A questa
situazione di malcontento se ne sono aggiunte altre. Da Niš, una delle città più
antiche della Serbia, arrivano infatti le notizie della Niteks tessili e la
Građevinar costruzioni. I dipendenti hanno bloccato le strade chiedendo di
ricevere i mancati stipendi. Anche la fabbrica di dolciumi di Čuprija Ravanica e
i lavoratori della 1.Maj (primo maggio) di Lapov chiedono il blocco della
privatizzazione delle loro aziende.
Insomma, per le strade serbe che collegano le città con la capitale, si respira
ovunque la stessa aria di protesta. Si contano circa 32mila operai in sciopero
in circa 50 fabbriche e 180mila lavoratori che ancora non sono stati pagati.
Questa volta i manifestanti non sembrano voler demordere. Anzi. I sindacati,
prevedono il divampare di una lunga serie di proteste dei lavoratori in
difficoltà, in considerazione del fatto che solo il 24 percento delle
privatizzazioni in Serbia ha avuto esito positivo, mentre negli altri casi, gli
impegni assunti nei confronti del personale sono stati palesemente violati. Per
dirla con le parole della giornalista del settimanale Nin, Ruža Ćirkovićm,
questi scioperi rappresentano ''un evento straordinario, perché non si erano mai
visti scioperi così massicci per motivi sociali. In Serbia i grandi movimenti
sono sempre avvenuti per motivi politici: contro o a favore l'indipendenza del
Kosovo, per la cattura di Karadžić o per esautorare Milošević, ma mai per la
difesa del posto di lavoro''.
A Ranko Dejanović, il nuovo padrone dell'azienda Zastava Elektro, nonchè marito
della presidente del Parlamento di Belgrado Slavica Dukić-Dejanović (Partito
Socialista di Serbia) ed ex rappresentante a Rača dello Jul (Sinistra
Jugoslava), il partito di Mira Marković vedova di Milošević, viene imputata la
grave situazione attuale. Pochi investimenti e la responsabilità della rottura
del fortunato accordo, che faceva lavorare l'impresa, con la multinazionale
polacca Delfi. ''Vogliamo che venga rescisso il contratto con Dejanović - dice
dal presidio il rappresentante sindacale Slobodan Gaijć - siamo in grado di
provare che la documentazione fornita dal management non è valida». Anche il
governo serbo si è accorto della pericolosità dell'evento. E per questo negozia.
Il governo di Boris Tadić ha fatto sapere che sarà adottata una legge che
consenta il versamento dei contributi per la pensione di invalidità ai
lavoratori dipendenti, e il raggiungimento di un accordo di partenariato sociale
tra il governo, i rappresentanti dei sindacati e le associazioni dei datori di
lavoro.
Il pacchetto di misure d'emergenza prevede la garanzia dell'assicurazione
sanitaria, la prevenzione di abusi e di varie forme di criminalità economica dei
singoli proprietari delle imprese privatizzate. Una serie di misure atte a
prevenire il cosiddetto 'autunno caldo del sindacato'. Per ora però, si tratta
solo promesse che comunque non risolvono il problema. «A questo punto è lo
stesso processo di privatizzazione ad essere messo in discussione, poiché
generalmente sono le imprese privatizzate che non rispettano i contratti di
acquisto, portano l'azienda al fallimento o non pagano gli stipendi». A dirlo è
Ljubisav Orbović, segretario del sindacato Autonomo (Samostalni Sindikat).
Secondo lui, infatti, la radice del problema risiede nella composizione e
gestione dell'Agenzia delle privatizzazioni. «Nonostante le polemiche sulla poca
trasparenza, resta un luogo di potere strategico. Tant'è che lo stesso premier
serbo, Mirko Cvetković, ne fu direttore tra il 2003 e il 2004». Si pensi poi
che, l'attuale capo del Cda della Zastava Elektro, presentato da Dejanović
(l'attuale proprietario della Zastava Elektro), è l'ex direttore regionale
dell'Agenzia, quella che doveva fare i controlli.
Afghanistan, meno oppio, più droga
Intervista al direttore del
programma antidroga dell'Onu a Kabul, Jean-Luc Lemahieu
Il rapporto annuale delle Nazioni Unite sulla
produzione di oppio in Afghanistan, appena pubblicato dall'Unodc, conferma le
previsioni di un ulteriore calo dell'estensione delle piantagioni di papavero da
oppio e del tariàk, l'oppio grezzo in lingua locale. I campi di papavero, che
nel 2008 coprivano 157 mila ettari, quest'anno sono diminuiti del 22 percento,
passando a 120 mila ettari.
Il nuemero delle province produttrici di oppio è sceso da 20 a 18: Kapisa e
Baghlan sono diventate 'poppy free'.
Più modesto il declino del raccolto 2009 a causa della maggior produttività
delle piante: dalle 7.700 tonnellate dell'anno scorso alle 6.900 di quest'anno,
ovvero 10 percento in meno.
Notevole il calo di coltivazione nella provincia di Helmand, la 'capitale'
dell'oppio, dove le piantagioni di papavero sono diminuite di un terzo grazie al
progetto delle 'Food Zone' (sementi alternative e sostegno per la vendita ai
contadini che abbandonano l'oppio) sperimentato dal governatore provinciale,
Gulab Mangal.
Prosegue anche il calo del prezzo dell'oppio, sceso mediamente di un terzo
rispetto all'anno scorso. Questa è la vera causa del calo di produzione a cui si
assiste negli ultimi anni.
Jean-Luc Lemahieu, direttore in Afghanistan dell'Unodc, ci ha spiegato che la
diminuzione che si registra dopo il record di due anni fa non è il risultato
della campagna antidroga, ma l'effetto delle leggi di mercato: dal 2004,
infatti, l'Afghanistan produce molto più oppio di quello che il mercato mondiale
può assorbire, quindi i prezzi sono crollati rendendo necessario un
rallentamento della produzione per riequilibrare domanda e offerta.
"Stiamo
assistendo e continueremo ad assistere a un calo di produzione perché si sta
producendo più di quello che il mercato mondiale richiede. E' logico che il
mercato si corregga. La riduzione continuerà fino a quando si ristabilirà
l'equilibrio tra domanda e offerta. Non c'è dubbio", ci dice Lemahieu. "Questa
riduzione è prodotta da una correzione di mercato. Le nostre statistiche lo
dimostrano chiaramente. Per un contadino, 5 anni fa, coltivare oppio rendeva 27
volte tanto che coltivare grano. Oggi gli rende solo il doppio. Per questo molti
contadini sono passati ad altre colture".
Il direttore dell'Unodc in Afghanistan, mostrandoci i grafici elaborati dalla
sua organizzazione, spiega come la sovrapproduzione afgana di oppio rispetto
alla domanda mondiale, verificatasi a partire dal 2004, abbia provocato il
crollo dei prezzi e quindi l'erosione dei margini di profitto di coltivatori e
trafficanti, generando una frenata della produzione di oppio, ma anche un
deleterio effetto collaterale. Se molti contadini, infatti, hanno giudicato più
conveniente e meno rischioso smettere di coltivare oppio, molti narcotrafficanti,
in attesa che il calo di offerta faccia risalire i prezzi, hanno deciso di
sfruttare la congiuntura, iniziando a svendere la droga in eccesso sul mercato
interno afgano.
"Un nuovo fenomeno è il consumo di droga in Afghanistan. La droga a basso costo
ha invaso il mercato locale, con la conseguente esplosione del problema della
tossicodipendenza. Basta pensare all'emergenza umanitaria creatasi all'ex centro
culturale russo di Kabul. La situazione era drammatica. Tra quelle macerie si
concentravano 1600 tossicodipendenti, di cui 650 che ci vivevano in pianta
stabile e gli altri che ci andavano per drogarsi. Ogni notte ne morivano in
media 2 o 3, per overdose, malnutrizione e altre malattie. Quando abbiamo
scoperto questa situazione siamo intervenuti, prima portando assistenza sul
posto, e in primavera sgomberando l'area, sistemando la maggior parte dei
tossicodipendenti in centri di disintossicazione gestiti dal Ministero della
Salute afgano. Ovviamente, nulla di paragonabile con gli standard europei, ne
siamo ben lontani, soprattutto perché non ci sono fondi adeguati per affrontare
questa emergenza".
La tossicodipendenza in Afghanistan, secondo le ultime stime, riguarda circa due
milioni di afgani, un decimo della popolazione adulta del Paese: un numero
enorme se si considera che fino a pochi anni fa questo fenomeno non esisteva.
Lemahieu sottolinea l'urgenza di intervenire prima che sia troppo tardi e la
situazione sfugga di mano.
"La rapida diffusione del consumo di droghe pesnati in Afghanistan è
un'emergenza pressante, perché se non interveniamo subito per arginare la
tossicodipendenza, presto ci troveremo a fare i conti con la diffusione di
malattie come l'Hiv. Questo paese ha già abbastanza piaghe: l'ultima che gli
auguro è quella dell'Aids. Dobbiamo impedirlo. Oggi siamo ancora in tempo per
farlo, domani sarà troppo tardi".
Enrico Piovesana
7 settembre
Afghanistan, strage Nato a Kunduz
L'aviazione colpisce
un'autobotte di gasolio rubata dai talebani: uccise decine di civili
"Tutto quello che sappiamo al momento è che un gran numero di insorti è stato
ucciso nel bombardamento aereo condotto la notte scorsa da velivoli Isaf a
Kunduz. Abbiamo ricevuto informazioni su possibili vittime civili sulle quali
ora stiamo investigando assieme alle autorità afgane".
C'è chi parla di 200 morti. Al telefono
con PeaceReporter, la soldatessa statunitense dell'ufficio stampa della Nato a
Kabul non si sbilancia nemmeno sulla nazionalità degli aerei che la notte scorsa
hanno bombardato due autocisterne di gasolio sequestrate dai talebani uccidendo
95 persone, di cui solo 45 guerriglieri secondo il governatore provinciale, 65
secondo il capo della polizia locale. Gli altri erano tutti civili, residenti
nel villaggio di Haji Aman, nel distretto di Chahar Dara, che al momento del
raid aereo si trovavano con taniche e secchi attorno a uno dei due camion rubati
che si era impantanato nel greto di un fiume. Hadschi Amanullah e altri abitanti
del villaggio hanno raccontato che i talebani avevano chiesto loro di aiutarli a
svuotare il prezioso carico, consentendo loro di tenersene una parte. Verso le
due e mezza di notte, il comando militare tedesco di Kunduz, dopo aver saputo
del sequestro delle due cisterne di gasolio destinato ai Tornado della Luftwaffe,
ha chiesto l'intervento dell'aviazione, che ha subito individuato e colpito gli
obiettivi indicati. E' probabile che il raid sia stato condotto da
cacciabombardieri dell'aviazione Usa.
Secondo fonti anonime della sicurezza afgana, i morti sarebbero addirittura 200,
e altrettanti i feriti.
7.500 civili uccisi finora da Usa e Nato.
Se confermata, questa ennesima strage di innocenti infliggerebbe un durissimo
colpo alla credibilità della tanto pubblicizzata nuova strategia degli Stati
Uniti volta a minimizzare i danni collaterali, ovvero le perdite civili causate
delle operazioni militari contro gli insorti, limitando il ricorso allaviazione
e allartiglieria pesante.
Dallinizio dellanno, secondo i dati ufficiali dellOnu, sono tra 300 e 400 i
civili afgani uccisi dalle forze doccupazione occidentali (seicento quelli
vittime di attacchi talebani). Ma si tratta di cifre ampiamente sottostimate,
poiché la maggior parte dei civili uccisi dalla Nato rimangono classificati
ufficialmente come insorti. Quelli singolarmente conteggiati nel database del
professor Marc Herold, dellUniversità del New Hampshire sono almeno 600.
Nel 2008 erano stati 800 per lOnu, quasi mille per il professor Herold, ancora
di più secondo lorganizzazione non governativa Afghanistan Rights Monitor (Arm).
Nel 2007 la cifra ufficiale era 600 secondo le Nazioni Unite, il doppio secondo
laccademico statunitense.
Dallinvasione dellAfghanistan nel 2001 a oggi, secondo le stime più attendibili,
le vittime civili delle azioni militari straniere sono state oltre 7.500.
Il
diavolo in corpo
di Marco Damilano
Lo scontro con la Chiesa. Gli attacchi all'Europa. Il tentativo di
bavaglio all'informazione. Il premier lancia la sua campagna di settembre. Ecco
i suoi obiettivi
Berlusconi con Benedetto XVI durante una visita nel giugno 2008 Mi
raccomando, scrivetelo che io queste cose le dico sempre con il sorriso...
Certo, Cavaliere, si figuri, come no. Con un bel sorriso, la sera del primo
settembre, data anniversario dell'invasione nazista della Polonia e dell'inizio
della Seconda guerra mondiale, Silvio Berlusconi in visita a Danzica, la città
polacca da cui partì tutto, prova ad affossare alcune istituzioni uscite dalla
vittoria delle democrazie nel conflitto più sanguinoso della storia.
L'Unione europea, per esempio. "Bloccheremo con il veto il funzionamento della
Commissione Ue", minaccia il premier scatenando le reazioni di Bruxelles, alla
vigilia del rinnovo del mandato da presidente del portoghese Josè Manuel Barroso.
Berlusconi è infuriato per le dichiarazioni del portavoce Ue Johannes
Leitenberger sulla libertà di espressione come "garanzia fondamentale
dell'Europa". Dovrebbe essere la scoperta dell'acqua calda, e invece nel reame
di Berlusconia isolato dal resto della comunità internazionale no, non si può
dire, è una verità scomoda. Anche perché, sempre con il sorriso, nella stessa
esternazione, l'uomo che guida il governo italiano attacca sul piano personale
Carlo De Benedetti ("Un editore svizzero"), il direttore di "Repubblica" Ezio
Mauro ("Evasore fiscale") e l'intera stampa internazionale, presa in blocco,
come un unico soggetto ostile. Finito? Macché, sempre con il sorriso, il
Cavaliere lancia l'avvertimento finale alle gerarchie ecclesiastiche, già
stressate da una settimana difficile.
La legge sul testamento biologico, quella per cui Berlusconi appena sette mesi
fa sfidò il Quirinale, provocò una crisi istituzionale e mobilitò il gruppo del
Pdl al Senato chiamato a votare in poche ore il decreto salva-Eluana, poi
approvata a Palazzo Madama, potrebbe tornare in discussione: "Ne parleremo alla
Camera, io garantirò la libertà di coscienza dei deputati Pdl". Sciogliete le
righe, altro sorriso berlusconiano, anche la Chiesa è servita. La dichiarazione
di guerra di Danzica è conclusa. È la nuova strategia del premier, partorita
nelle settimane estive con l'inner circle, dove sale sempre di più la stella di
Niccolò Ghedini e tramonta malinconicamente l'influenza di Gianni Letta,
l'ambasciatore dei tempi di pace esautorato in questa stagione di guerra sporca,
senza quartiere. La strategia della tensione inaugurata al rientro delle vacanze
venerdì 28 agosto. Quel giorno da Palazzo Chigi partono le querele contro il
gruppo Espresso e i giornali internazionali che hanno ripreso le dieci domande
sulle frequentazioni pericolose del premier, famose ormai in mezza Europa, ma
mai riprese da un tg nazionale.
E sulla prima pagina del "Giornale", di nuovo affidato alle sottili cure di
Vittorio Feltri, campeggia il titolo: "Il supermoralista condannato per
molestie". Sottotitolo: "Dino Boffo, alla guida del giornale dei vescovi
italiani e impegnato nell'accesa campagna contro i peccati del premier,
intimidiva la moglie dell'uomo con cui aveva una relazione". Il caso Boffo serve
a spiegare meglio di ogni altra cosa l'escalation del neo-berlusconismo, al cui
confronto il "non faremo prigionieri" di Cesare Previti era un mazzo di rose.
Chi è Dino Boffo, infatti? Molto più di un semplice direttore di "Avvenire". Da
15 anni è uno dei personaggi più influenti e potenti della Chiesa e, dunque,
della nomenclatura italiana. L'uomo di fiducia del cardinale Camillo Ruini. La
guida di un impero multimediale che raccoglie il quotidiano dei vescovi, la
televisione satellitare Sat2000, il circuito radiofonico più i grandi eventi
comunicativi, tutto centralizzato nella persona di Boffo. Il front runner delle
grandi campagne della Cei ruiniana, dall'astensione sui referendum sulla
fecondazione assistita nel 2005 al Family Day contro la legge sulle coppie di
fatto proposta dal governo Prodi e dalla cattolicissima Rosy Bindi. Cosa pensi
Boffo del Cavaliere, dell'anomalia berlusconiana e del conflitto di interessi,
il direttore di "Avvenire" lo chiarisce una volta per tutte il 18 aprile 2006
parlando ex cathedra dal suo pulpito preferito, il forum con i lettori nella
pagina delle lettere. "Sarà dura rimediare ai guasti che il gruppo di potere di
Berlusconi ha recato alle istituzioni: la vergogna delle leggi ad personam, lo
stravolgimento dei principi costituzionali", scrive il lettore Ranieri Marchi.
"Mi preoccupa anche la corsa farisaica a dichiararsi figli devoti della Chiesa".
Boffo, però, non ci sta. E replica in malo modo: "Il suo è un anti-berlusconismo
istintivo, totale, fazioso". Quanto al rapporto con la Chiesa, Boffo non ha
dubbi: "Il fenomeno della secolarizzazione in Italia era partito assai prima che
Berlusconi invadesse l'etere con le sue tv. Abbiamo dimenticato la vicenda del
divorzio e dell'aborto? Si ricorda quel ragionamento sibillino e falsamente
democratico che dilagò anche in casa nostra, nel mondo cattolico, secondo cui si
diceva: "Io non divorzierò mai, ma perché devo togliere questa possibilità ad
altri?". Provi a pensare, amico caro, se l'inizio della crisi non fu piuttosto
quello. Poi, certo, altro venne e fu la combustione generale".
Insomma, per Boffo in Italia c'è stata una sola, vera anomalia: il dialogo tra i
cattolici e la sinistra. Un rapporto contro-natura, questo sì. In coerenza con
questo dogma, per anni il fedelissimo di Ruini conduce "Avvenire" contro i
cattolici democratici alla Prodi o alla Scoppola, l'Ulivo, i governi del
centro-sinistra. E lancia nuove carriere politiche: nel centrodestra, in Forza
Italia. Alla vigilia delle elezioni politiche 2006 dove sono in competizione
Berlusconi e Prodi, per esempio, affida l'editoriale di orientamento al voto per
i lettori alla laica Eugenia Roccella: "Il nostro problema, oggi, è non far
scomparire la famiglia, la sacralità della vita, la dignità della persona. Ma
per fare questo dobbiamo schierarci". Inutile dire da che parte: la Roccella,
infatti, sarà scelta dalla Cei come portavoce del Family Day nel 2007 e da lì
prenderà il volo. Oggi è deputata del Pdl e sottosegretaria al Welfare nel
governo Berlusconi. Grazie a Boffo.
Un bel testacoda, dunque, che a finire nel mirino del "Giornale" sia finito
proprio il nemico dei cattolici adulti, e per colpa di due interventi in quella
rubrica dove per anni il direttore ha impartito vibranti lezioni agli
anti-berlusconiani. Sono bastate due risposte ai lettori in rivolta per i
silenzi della Chiesa sugli scandali sessuali di Berlusconi, il 24 e il 28
luglio, parole misurate e prudenti come sempre ("Uno scenario di potenziale
desolazione"), ma per una volta esplicite, in difesa dei vescovi che nei giorni
precedenti avevano condannato il premier. Pioveva, piovevano soprattutto nella
redazione di "Avvenire" le lettere di parroci indignati per i comportamenti del
premier e i silenzi della Chiesa, Boffo si è limitato ad aprire l'ombrello, ma
per i falchi berlusconiani avrebbe dovuto giurare che c'era il sole, in molti
d'altra parte in questo tempo sono disposti a farlo. Tanto è bastato nell'era
del Berlusconi furioso per inserire Boffo nella lista dei cattivi. Il moralista,
il cattocomunista da dileggiare sulla gazzetta della famiglia Berlusconi, da
sbattere in prima pagina come omosessuale "attenzionato dalla Polizia"
e"bugiardo". Una strategia della tensione e dell'intimidazione che non risparmia
neppure gli ex amici. E che, in questo caso, è arrivata a sfiorare il soglio più
alto, la figura del papa trascinata nella polemica per via di una telefonata al
presidente della Cei cardinale Angelo Bagnasco. Per la Chiesa, nelle sue varie
anime in contrasto tra loro, gli ultimi giorni rappresentano la fine di
un'illusione a lungo coltivata negli ambienti ruiniani. "Per anni abbiamo
pensato che la sinistra fosse ideologica, inaccessibile ai nostri messaggi. E
che invece il centrodestra, la creatura berlusconiana, fosse una parete bianca,
vuota, in cui ognuno poteva scrivere quello che voleva", spiega un monsignore.
La speranza che nel vuoto di idee del Pdl fosse più facile per i vertici della
Chiesa infilare progetti, risorse, classe dirigente. L'ultima settimana
rappresenta un brusco risveglio. In pochi giorni la Lega ha invitato il Vaticano
a prendersi gli immigrati in casa, il presidente della Camera Gianfranco Fini ha
intimato ai vescovi a restare fuori dal dibattito sul testamento biologico. E
Berlusconi, il nuovo uomo della Provvidenza benedetto dalla cordata Ruini,
minaccia di rimettere in discussione il pacco di doni legislativi promesso alla
segreteria di Stato vaticana.
Un assedio che costringe gli uomini del cardinale Tarcisio Bertone, numero due
del Vaticano, filo-governativi, e l'ala dura della Cei, incarnata dai siciliani
Mariano Crociata e Domenico Mogavero, a mettere da parte le rivalità esplose
fragorosamente sui giornali e a fare quadrato. Per un'istituzione come la
Chiesa, abituata a ragionare in millenni e non in anni, il dopo-Berlusconi è già
un tema di attualità. Né è possibile farsi mettere sotto ricatto dal Cavaliere
che consente la pubblicazione di informative per seminare la zizzania tra i
pastori di Cristo, i pescatori di uomini chiamati ora a muoversi nel porto
limaccioso dei dossier, e agita sondaggi sfavorevoli al Vaticano e favorevoli a
lui. A dimostrazione che per il Berlusconi furioso non esistono contropoteri.
Non lo possono essere i vescovi. Non può esserlo l'Europa, bollata come
l'istituzione dei portavoce, un fantasma inesistente. Deve essere impedito che
lo diventi la stampa che non è direttamente o indirettamente controllata. E
tantomeno può sperare di arginare la strategia chi nell'entourage berlusconiano
ha sempre consigliato cautela e rispetto per le istituzioni: Gianni Letta mai
come ora in difficoltà. Berlusconi va alla guerra totale, contro il Vaticano,
contro l'Europa, contro tutti. Sarà ricordata a lungo la dichiarazione di
Danzica. E chissà se, alla fine, al Cavaliere resterà incollato il bel sorriso
di quel giorno, il primo settembre.
4 settembre
IL COMMENTO
Il delitto è
compiuto
di GIUSEPPE D'AVANZO
DINO BOFFO, direttore dell'Avvenire, si è dimesso e non tiene conto discutere
del sicario. È stato pagato per fare il suo sporco lavoro, se l'è sbrigata in
fretta. Ora se ne vanta e si stropiccia le mani, lo sciagurato. Appare oggi più
rilevante ricordare come è stato compiuto il delitto; chi lo ha commissionato e
perché; quali sono le conseguenze per noi tutti: per noi che viviamo in questa
democrazia; per voi che leggete i giornali; per noi che li facciamo.
Dino Boffo è stato ucciso sulla pubblica piazza con una menzogna che non ha
nulla a che fare - né di diritto né di rovescio - con il giornalismo, ma con una
tecnica sovietica di disinformazione che altera il giornalismo in calunnia. Il
mondo anglosassone ha un'espressione per definire quel che è accaduto al
direttore dell'Avvenire, character assassination, assassinio mediatico. Il
potere che ci governa ha messo in mano a chi dirige il Giornale del capo del
governo - una sorta di autoalimentazione dell'alambicco venefico a uso politico
- un foglio anonimo, redatto nel retrobottega di qualche burocrazia della
sicurezza da un infedele servitore dello Stato. C'era scritto di Boffo come di
"un noto omosessuale attenzionato dalla Polizia di Stato". L'assassino presenta
quella diceria poliziesca come un fatto, addirittura come un documento
giudiziario.
È un imbroglio, è un inganno. Non c'è alcuna "nota informativa". È soltanto una
ciancia utile al rito di degradazione. L'assassino la usa come un bastone
chiodato e, nel silenzio degli osservatori, spacca la testa all'errante.
L'errore di Boffo? Ha criticato, con i toni prudentissimi che gli sono propri e
propri della Chiesa, lo stile di vita di Silvio Berlusconi. Ha lasciato che
comparissero sulle pagine del quotidiano della Conferenza episcopale l'amarezza
delle parrocchie e dei parroci, il disagio dei credenti e del mondo cattolico
più popolare dinanzi all'esempio di vita di Quello-Che-Comanda-Tutto.
Ora che c'è un morto, viene il freddo alle ossa pensare che anche una prudente
critica, una sorvegliata disapprovazione può valere, nell'infelice Paese di
Berlusconi, il prezzo più alto: la distruzione morale e professionale. Ma
soltanto le prefiche e gli ipocriti se ne possono meravigliare. Da mesi, il
presidente del Consiglio ha rinunciato ad affermare la legittimità del suo
governo per mostrare, senza alcuna finzione ideologica, come la natura più
nascosta del suo potere sia la violenza pura. Con l'assassinio di Dino Boffo,
prima vittima della "campagna d'autunno" pianificata con lucidità da Berlusconi
(ha lavorato a questo programma in agosto dimenticando la promessa di andare
all'Aquila a controllare i cantieri della ricostruzione), questa tecnica di
dominio politico si libera di ogni impaccio, di ogni decenza o scrupolo
democratico.
Berlusconi decide di muovere contro i suoi avversari, autentici e presunti,
tutte intere le articolazioni del multiforme potere che si è assicurato con un
maestoso conflitto d'interesse. Stila una lista di nemici. Vuole demolirli.
Licenzia quelli tra i suoi che gli appaiono pirla, fessi, cacaminuzzoli. Vuole
sicari pronti a sporcarsi le mani. È il padrone di quell'industria di notizie di
carta e di immagini. Muove come vuole. È anche il presidente del Consiglio e
governa le burocrazie della sicurezza (già abbiamo visto in un'altra stagione i
suoi servizi segreti pianificare la demolizione dei "nemici in toga").
Il potere che ci governa chiede e raccoglie nelle sue mani le informazioni -
vere, false, mezze vere, mezze false, sudicie, fresche o ammuffite - che possano
tornare utili per il programma di vendetta e punizione che ha preparato. Quelle
informazioni, opportunamente manipolate, sono rilanciate dai giornali del
premier nel silenzio dei telegiornali del servizio pubblico che controlla,
nell'acquiescenza di gruppi editoriali docili o intimiditi. È questo il
palcoscenico che ha visto il sacrificio di Dino Boffo ordinato da
Quello-Che-Comanda-Tutto.
È la scena dove ora salmodiano il coro soi-disant neutrale, le anime fioche e
prudenti in cerca di un alibi per la loro arrendevolezza, gli ipocriti in
malafede che, riscoprendo fuori tempo e oltre ogni logica la teoria degli
"opposti estremismi" mediatici, accomunano senza pudore le domande di Repubblica
alle calunnie del Giornale; un'inchiesta giornalistica a un rito di degradazione
sovietico; la vita privata di un libero cittadino alla vita di un capo di
governo che liberamente ha deciso di rendere pubblica la sua; la ricerca della
verità all'uso deliberato della menzogna.
È questa la scena che dentro le istituzioni e nel Paese dovrebbe preoccupare
chiunque. Per punirlo delle sue opinioni, un uomo è stato disseccato, nella sua
stessa identità, da una mano micidiale che ha raccolto contro di lui il potere
della politica, dello Stato, dell'informazione, dei giornali di proprietà del
premier usati come arma politica impropria. Nei cromosomi della democrazia c'è
la libertà di stampa e, come si legge nell'articolo 21 della Costituzione, "il
diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero". È questa libertà che è
stata umiliata e schiacciata con l'assassinio di Dino Boffo. Lo si vede a occhio
nudo, anche da lontano. "Un giornalista è l'ultima vittima di Berlusconi",
scrive il New York Times. Chi, in Italia, non lo vuole vedere e preferisce
chiudere gli occhi è un complice degli uccisori e di chi ha commissionato quel
character assassination.
2 settembre
I senza lavoro
di Fabrizio Gatti
La provincia di Treviso era la locomotiva del Nord Est. Ma la crisi qui
ha già colpito più di seimila lavoratori. Ecco il racconto della loro vita
quotidiana senza stipendio
Stasera la cena di Luigi Marcuzzo, 46 anni, è senza carne. Non ne mangia da
settimane. Sposato, separato, una figlia di 11 anni a carico. Luigi faceva
l'operaio a millecento euro. Da novembre 2008 è senza stipendio e la bistecca è
ormai un lusso. Piatti poveri anche a casa del collega Gino Daros, 45 anni.
Soltanto pasta, pane, insalata e acqua del rubinetto. Di più lui e suo fratello
non si possono permettere. Paola Marcon, 44 anni, compra solo prodotti in
offerta. Sia Paola, sia il marito hanno perso il lavoro. Hanno due ragazzi di 13
e 17 anni da far studiare. E da nove mesi vivono consumando i risparmi di anni.
La crisi sta entrando nelle case. Feroce e spietata. Anche qui, nel Nord Est,
Treviso e provincia, locomotiva del modello italiano, del successo faidate e del
durismo leghista che proprio in questa terra, tra parlamentari e ministri, ha
fatto il pieno di voti. Già da mesi esplodono drammi che l'ottimismo governativo
nasconde. E settembre è arrivato con il pericolo, tutto da scoprire, di nuove
chiusure a catena. Questa è la vera paura. Altro che sicurezza, ronde, dialetto,
bandiera regionale. Bastano i numeri: da gennaio 6.231 lavoratori di questi
paesi, uomini e donne, italiani e stranieri, hanno perso il posto o hanno subito
una riduzione dello stipendio per cassa integrazione o mobilità. Tagliano
dipendenti i colossi degli elettrodomestici come Electrolux di Susegana e Zoppas
di Vittorio Veneto. Sforbiciate al personale nelle industrie dell'abbigliamento
e dello sport come Stefanel a Ponte di Piave, Diadora a Caerano San Marco,
Tecnica a Giavera del Montello. Chiude e manda a casa 117 persone lo storico
lanificio Cerruti Policarpo di Vittorio Veneto. Vanno poi aggiunti il mancato
rinnovo dei contratti a termine, le liquidazioni, i fallimenti che colpiscono a
macchia di leopardo nella costellazione di aziende comprese tra i due e i
settecento dipendenti. Famiglie costrette a fare la spesa con meno di dieci euro
a settimana. E all'improvviso non c'è più differenza tra italiani e immigrati.
Agli sportelli Caritas di don Ferruccio Sant, veneti e albanesi sono in testa
nelle richieste del sussidio di solidarietà. Ogni acquisto, ogni bolletta, senza
più entrate, è una ulteriore discesa nel baratro della povertà. La strada che da
Conegliano, 35 mila abitanti, porta verso le colline brilla di vetrine e
showroom costruiti nell'ultimo decennio di economia galoppante. Il centro
commerciale, l'ultimo dopo la rotonda a destra, ha grandi cartelli con la
scritta saldi. Non si tratta di abbigliamento, ma di beni di prima necessità:
alimentari, sapone e maxi pacchi di carta igienica di marca offerti a due euro.
Devono svendere pure quelli, altrimenti nessuno compra. Si prosegue oltre il
confine comunale, lungo la provinciale che sale a Refrontolo, tra vigneti di
prosecco e sacrari della Prima guerra mondiale.
Da dicembre novanta tra operai e impiegati combattono per un posto di lavoro che
non esiste più. Il gigantesco capannone, subito prima dello stabilimento di
cucine Ariston-Indesit, ha ancora l'insegna. "Ape - Advanced project engineering
", c'è scritto. È chiuso da nove mesi. Durante le ultime vacanze di Natale la
proprietà ha portato via i macchinari. La Ape era subentrata due anni fa alla
liquidazione della "Zara marmitte", un marchio che riforniva le concessionarie
di auto e camion. I dipendenti erano in ferie dal 19 dicembre 2008. Ma nessuno
di loro sospettava il tracollo. Quando sono tornati al lavoro a inizio gennaio,
hanno trovato i cancelli chiusi. Per sempre. Un colpo a tradimento. Senza
preavviso. Senza cassa integrazione o il paracadute della mobilità. Senza
nemmeno una lettera. Un caso Innse di provincia. Solo che qui, a differenza dei
riflettori di Milano dove l'azienda è stata salvata, è finita male. Per questi
manager la famiglia di un operaio vale meno del costo di una telefonata.
"Ci hanno scaricati senza preavviso. Non immaginavo arrivassero a tanto", dice
Luigi Marcuzzo, operaio saldatore di Colfosco di Susegana, licenza di terza
media, due anni di anzianità in Ape e quindici per Zara marmitte: "Avevo
ristrutturato la casa. Un mutuo di 310 euro al mese per quindici anni. La banca
mi ha sospeso le rate per un anno. Ma nessuno sa se tra un anno lavoreremo. Era
la casa che mio padre si era sudato con i risparmi da muratore. Prima della
ristrutturazione era un fienile. Adesso la venderò. Mia figlia va in prima media
e non so come pagare i libri. La devo vendere".
Il governo si inventa la sanatoria per salvare l'assistenza agli anziani dalle
manette del decreto sicurezza. Ma nel Veneto spazzato dalla crisi le badanti
curano anche gli scolari. "Quando otto anni fa mi sono separato, la bimba è
rimasta con me", racconta Luigi Marcuzzo, "e adesso mi aiuta il Comune di
Susegana dove abitiamo. Mi paga la baby-sitter che bada alla piccola quando sono
fuori di casa. Io non ce la faccio a pagare. Ho un arretrato di due mesi di
tutte le bollette. Ho tolto il telefono fisso, sì ho tenuto il telefonino ma non
chiamo più, lascio che chiamino gli altri. In ottobre avevo comprato un computer
portatile per mia figlia a 350 euro. Un mese fa ho dovuto rivenderlo. Mi hanno
dato 150 euro. È niente ma mi servivano "sghei", soldi per fare la spesa. C'era
anche l'abbonamento a Sky, 36 euro al mese. Il mio conto è vuoto. La banca non
paga le bollette e da qualche settimana non ricevo più i canali. Via anche Sky".
Si può fare a meno di Rupert Murdoch. Ma la mancanza di lavoro minaccia
addirittura la sicurezza alimentare.
In
Veneto è un salto indietro di cinquant'anni: "Per la spesa compro pasta e poco
altro", rivela Luigi: "Mangiamo pasta. Costa poco e riempie. Niente vino, niente
birra, niente carne, niente spese inutili. Non devo superare i dieci euro a
settimana. Magari un po' di carne me la passa mia sorella. È in pensione, se può
mi dà cinquanta euro. Io ho finito i risparmi. Grariconosciuta la cassa
integrazione. Ma da novembre non abbiamo ancora visto un soldo. Il Comune di
Susegana tre mesi fa ha anticipato 1.800 euro. Diviso nove mesi, fanno 200 euro
al mese. Con questo sto vivendo". Come passa la giornata? "Accompagno mia figlia
dalla baby-sitter. Torno a casa, prendo la bici e vado in giro. Mentre pedalo,
penso alla rabbia. Il lavoro c'era, il padrone ci aveva garantiti. Invece ci
hanno buttati fuori".
Gino Daros, operaio attrezzista alla Ape, licenza media inferiore, abita a
Conegliano con il fratello, 48 anni, emigrante in Germania fino a due anni fa
quando, perso il lavoro da gelataio, non ha trovato più nulla. Un po' per l'età,
un po' per la crisi che stava arrivando. È dovuto tornare indietro. Così come in
questi mesi sono tornati in patria tre colleghi marocchini di Gino ai quali il
comune di residenza, Crocetta del Montello, aveva negato l'anticipo della cassa
integrazione. "Nei miei nove mesi senza lavoro ", racconta Gino Daros, "sono
entrati 2.400 euro in quattro rate che il Comune di Conegliano mi ha anticipato.
Le bollette siamo riusciti a pagarle. Ma ho sei mesi di arretrati d'affitto, 400
euro al mese. Devi scegliere, o paghi o mangi. Ho tagliato quasi tutto. Prima
correvo in bicicletta. Ho venduto la Atala da corsa. Ho una Seat Ibiza. Non la
uso più per non spendere in benzina. Mi muovo in bici. Ho tagliato anche sugli
alimentari, sul primo e sul secondo. Non possiamo permettercelo. Mangiamo un
solo piatto. Sempre pasta".
Questo è periodo di vendemmia, in Veneto. Ma accettare un altro contratto, anche
stagionale, significa perdere i diritti maturati. Come ha scoperto Giuseppe
Piccin, 61 anni, operaio da quando ne aveva dodici, ora senza stipendio, 500
euro al mese tra mutuo e fidi bancari da restituire, tre rate e due mesi di
telefono arretrati, un figlio di 25 anni con lavori occasionali. Piccin aveva
trovato un contratto di tre mesi: "Non sono potuto andare. Oltre alla cassa
integrazione, mi hanno detto che avrei perso l'aggancio alla pensione. La notte
però mi vengono gli incubi. Sogno di non farcela e mi sveglio".
"Il problema grosso è la piccola impresa che non avrà futuro", spiega Loris
Scarpa, sindacalista della segreteria Fiom-Cgil di Treviso: "O si ripensa alla
produzione in grosse dimensioni o sarà molto complicato uscirne. Si considerano
i lavoratori come oggetti. E chi è precario è lontano da tutte le possibilità di
assistenza sociale".
Nemmeno in questa casa anni Cinquanta, alla periferia di Conegliano, entrano
stipendi. Tanto per cominciare sono 400 euro al mese di affitto per cucina, un
piccolo salotto, bagno, due camere, ripostiglio, un po' di orto. Paola Marcon,
operaia part-time e delegata Cgil alla Ape, è senza paga da novembre. Suo
marito, Zuhair Al Kaisy, 55 anni, architetto, cittadino italiano nato in Iraq,
ha invece perso il lavoro nell'aprile 2008. Era operaio a tempo determinato alla
Electrolux, nonostante la laurea e le specializzazioni ottenute in Italia: "Non
ho avuto un lavoro come laureato perché qui in Veneto", dice Al Kaisy, "se uno
non è italiano, che tu faccia il pizzaiolo o l'architetto, credono che tu non ci
sappia fare. Alla Electrolux lavoravo da tre anni con contratti da tre a sei
mesi. Più di operaio non ho trovato". Ma come tutti i precari, senza diritto
alla cassa integrazione né alla mobilità, anche Al Kaisy da un giorno all'altro
l'hanno lasciato a casa. L'unica entrata è l'anticipo del Comune: quattro rate
da 600 euro. E un sussidio regionale di 220 euro in tre rate. "Avevo mille euro
di spese arretrate, per questo ho fatto domanda alla Regione", racconta Paola
Marcon: "Nella lettera che annunciava il contributo c'era scritto: le auguro che
l'intervento le sia di aiuto. Ma come possono pensare di aiutare una famiglia
con 220 euro? Stiamo consumando i risparmi messi via negli anni. Risparmiamo sul
riscaldamento con una stufa a legna. Cerchiamo di tagliare. E ovviamente niente
vacanze. Siamo una famiglia di operai. Non è che prima si navigasse nell'oro". I
contributi sono comunque briciole rispetto alle spese del 2009: oltre ai 400
euro mensili di affitto, 80 euro di luce a bimestre, 82 di acqua, 400 all'anno
di tasse sui rifiuti, 400 al mese di spesa alimentare, 500 per un intervento dal
dentista, 1500 l'anno di gasolio per la caldaia, 500 l'anno per la legna, 300 al
mese per muoversi a cercare lavoro con una Mondeo e una Polo vecchie di dieci
anni.
È una crisi silenziosa. Per ora quasi invisibile. Niente presìdi, niente
striscioni nelle fabbriche. "Perché in Veneto eravamo abituati ad avere un
tenore di vita buono", spiega Paola Marcon: "Perdere il lavoro qui è ancora
considerato una sorta di vergogna. È una questione di facciata, di apparenza.
Con i miei colleghi ce lo sentiamo addosso. Ti indicano come fallito. Io ho 44
anni. La paura non è avere perso il lavoro. È non sapere cosa viene dopo".