30 settembre
 


 

Conclusa l'inchiesta della Procura di Paola, in provincia di Cosenza, sulla Marlane
Il lavoro dei magistrati è durato anni. Il primo fascicolo nel '99, un altro nel 2006
 
Morti quaranta operai nella fabbrica tessile
La nube tossica dei coloranti covava il cancro

di CARLO CIAVONI e ANNA MARIA DE LUCA

La Marlane di Praia

PAOLA - Ne sono morti quaranta di cancro. Altri sessanta hanno lo stesso male e sono ancora vivi. Erano tutti operai, colleghi, per anni fianco a fianco nell'azienda tessile Marlane, in provincia di Cosenza, a Praia a Mare. La Procura di Paola ha concluso le indagini, durate anni, e ha ipotizzato i reati di omicidio colposo dei dipendenti, la cui morte è stata attribuita alle condizioni di lavoro, e inquinamento ambientale.

Sono stati anni difficili per i parenti delle vittime, difficili per gli ex operai che dopo anni di lavoro in fabbrica combattono contro tumori che hanno colpito la vescica, o i polmoni, l'utero o la mammella. Le fasi delle indagini sono, per il momento, concluse, si attende ora la decisione di rinvio a giudizio di una decina di indagati.

Ci sono voluti anni e anni di indagini, prima lungo un doppio percorso, poi riportate in un unico fascicolo, per dimostrare la connessione tra i decessi e l'uso di alcune sostanze usate nella fabbrica di coloranti azoici, che contengono "ammine aromatiche", indicate da una ampia letteratura scientifica come responsabili delle insorgenze tumorali.

Tre procedimenti - il primo iscritto nel '99, il secondo nel 2006 (con sette indagati) e il terzo nel 2007 (con quattro indagati) - che il Procuratore Capo Bruno Giordano ha fatto confluire in un unico fascicolo. Più di mille operai hanno lavorato nell'azienda fondata negli anni '50 dal conte Rivetti. Si producevano tessuti di vario tipo, per lo più divise militari. Fino alla metà degli anni Sessanta, nella Marlane esistevano dei muri divisori tra i reparti.

Poi l'azienda passò dal Lanificio Maratea, nel 1969, all'Eni - Lanerossi. In quell'anno i muri che dividevano i reparti furono abbattuti e così la fabbrica diventò un unico ambiente di lavoro: la tessitura e l'orditura, trasferite dal lanificio del vicino comune di Maratea, vennero inserite tra la filatura e la tintoria, senza alcuna divisione fisica. E così i fumi saturi di sostanze chimiche di coloritura, provenienti dalla tintoria si espandevano ovunque. Una nube permanente e densa sugli operai.

A chi lavorava su certe macchine, alla fine della giornata veniva donata una busta di latte per disintossicarsi. Era l'unica contromisura proposta, che evidentemente non poteva bastare. I coloranti - quelli che generalmente vengono contenuti nei bidoni con il simbolo del teschio - venivano buttati a mano dagli operai in vasche aperte, dove ribollivano riempiendo di fumi l'ambiente e le narici dei lavoratori.

Senza aspiratori funzionanti. Gli operai tossivano e i loro fazzoletti diventavano neri. E poi c'era l'amianto. L'azienda dice di non averlo usato, ma chi ha lavorato nello stabilimento sa bene che i telai avevano freni con le pastiglie d'amianto, che si consumavano spesso e dalle quali usciva polvere respirata da tutti.

Nel corso del 1987 il gruppo tessile Lanerossi - già appartenente al gruppo ENI, di cui faceva parte la Marlane di Praia a Mare - venne ceduto alla Marzotto di Valdagno, che ne detiene ancora la proprietà. Negli anni '90 la svolta: arrivarono le vasche a chiusura, dove i coloranti potevano ribollire senza riempire l'aria di vapori. Ma per molti operai fu troppo tardi, dopo decenni di inalazioni tossiche. Nel 96 la tintoria è stata chiusa. Oggi l'azienda è vuota. Dismessa.

"Le indagini sono praticamente chiuse - ha dichiarato il Procuratore Capo di Paola, Bruno Giordano - recentemente abbiamo richiesto un ultimo sequestro preventivo che il gip ha emesso relativo all'area circostante lo stabilimento e credo che sia stato l'ultimo passo istruttorio da parte nostra.

Ora aspettiamo solo di chiudere formalmente le indagini". La Procura di Paola ha infatti sequestrato il terreno circostante l'azienda: sotto, tonnellate di rifiuti industriali. Sostanze che erano nocive ancora prima di diventar rifiuti e che per questo avrebbero dovuto seguire l'iter di smaltimento secondo legge. Ma evidentemente qualcuno ha preferito seppellirli lì. Per questo, all'indagine iniziale sulle morti bianche se ne è aggiunta una seconda: non si indaga solo sulle modalità del ciclo di produzione ma anche sull'interramento dei rifiuti. Così oggi la fabbrica, chiusa da cinque anni, non è sotto sequestro ma i terreni circostanti sì.

Secondo la Procura, gli operai deceduti potrebbero essere più di ottanta: non tutte le famiglie dei deceduti infatti hanno sporto denuncia. Per questo il dottor Giordano ha costituito un gruppo di lavoro per individuare tutte le eventuali parti offese. Per molti operai, tuttavia, sarà dificilissimo avere giustizia: tanti sono i casi caduti in prescrizione. Con la legge Cirielli, infatti, solo i decessi a partire dagli anni '90 possono rientrare nella vicenda giudiziaria in corso.

Le prime morti risalgono agli inizi degli anni '70. Tra i primi, nel '73, due trentenni che lavoravano con gli acidi. E così via. Qualcuno sostiene che i morti siano un centinaio, ma secondo l'azienda sarebbero "solo" una cinquantina. Dato, questo, che rivelerebbe un rischio pari a un caso su un totale di 1058 operai, nell'arco di 40 anni. Motivo per cui l'azienda non vuole riconoscere il nesso di causalità tra le morti e le sostanze lavorate in fabbrica per decenni.

Non è dello stesso avviso il prete del paese, che ha celebrato più di ottanta funerali di operai. E non lo sono neanche le vedove, gli orfani di padri morti dopo una vita trascorsa in fabbrica. E poi c'è la storia di un operaio ammalato di cancro, Luigi Pacchiano, che ha trovato il coraggio di far causa alla Marlene - e che ha denunciato di aver ricevuto minacce per la sua azione legale - ma a cui poi l'Inail ha riconosciuto la malattia professionale ed ha ottenuto dal tribunale di Paola un risarcimento di 220 mila euro.

Ma le questioni sulla Marlene non finiscono qui. Ci si interroga sui finanziamenti dall'Unione europea e dalla Regione, sulle storie di precariato e cassa integrazione, sui sindacati e sui partiti e persino, come si può leggere nei rapporti del Ministero della Sanità, sul mare non balneabile di fronte alla fabbrica, nonostante ci fosse un depuratore

 

Il massacro silenzioso

Guinea, la comunità internazionale resta immobile di fronte ai 157 morti nel piccolo stato dell'Africa occidentale. Usa e Francia si limitano ad ammonire il comportamento del regime di Muassa Dadis Camarà

Scritto da Antonio Marafioti

C'è solo una cosa peggiore di un'esecuzione di massa. Un'esecuzione di massa che passa sotto silenzio. Senza alcuna condanna da parte della comunità internazionale. Senza sanzioni. Senza embarghi. Senza quel genere di attenzione politica che dovrebbe essere garantita alla protezione di ogni essere umano in quanto depositario di diritti civili inalienabili. Uno di questi è consacrato solennemente dall'articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo del 10 dicembre 1948. " Ogni individuo - riporta l'articolo - ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere".

In Guinea da lunedì il popolo non solo non ha visto riconosciuto il diritto alla libertà d'opinione senza essere molestato ma è stato addirittura sterminato dalla polizia del capitano Moussa Dadis Camarà, salito al potere in seguito ad un golpe lo scorso 23 dicembre. Motivo? I guineiani non vogliono che il dittatore si presenti alle elezioni presidenziali del prossimo gennaio. Lo hanno detto chiaramente prima di scendere in piazza e, dopo il diktat del governo che aveva minacciato provvedimenti in caso di manifestazione, lo hanno ribadito riunendosi in 25mila di fronte allo stadio della capitale. Un grido di protesta unanime contro la legalizzazione elettorale di una dittatura al quale il governo ha risposto con l'esercito. Manganelli e lacrimogeni sulla folla che ha resistito pacificamente nella sua protesta. Fino al fuoco. "Sparate ad altezza d'uomo" questo sembra essere stata la direttiva dei colonnelli di Dadis agli uomini in pantaloni mimetici, berretti verdi e maglietta nera. L'ultimo bollettino, in perenne stato d'aggiornamento, parla di 157 vittime, migliaia di feriti e decine di arrestati. Tra questi i due principali leader dell'opposizione Cellou Dalein Diallo, capo dell'Unione delle forze democratiche della Guinea e candidato alle presidenziali, e Sidya Tourè, capo dell'Unione delle forze repubblicane.

Nella prima mattina di oggi è arrivata la testimonianza che attribuisce al massacro risvolti, se possibile, ancora più abominevoli. E' la dichiarazione di un medico del pronto soccorso del Centro ospedaliero di Donka, il più grande nosocomio di Conacry. "E' una macelleria, un massacro, ci sono decine di cadaveri". L'immagine è quella di un medico che lotta contro il tempo per salvare vite umane. Un uomo che, forse inconsapevolmente, offre la chiave di ciò che accade in Guinea in una scarna e frettolosa dichiarazione ai media. Alla comprensione dei fatti basterrebbe la sua prima parola: "macello". Si potrebbe pensare al Rwanda o alla Somalia. Il fatto è che in quei posti, seppure con alterne fortune, la comunità internazionale si era mobilitata.
Qui, oggi, a testimoniare e condannare un vero e proprio massacro contro un popolo che protesta pacificamente ci sono solo le foto e gli articoli in rete.
La comunità internazionale, ad esclusione di Usa e Francia, resta immobile a guardare e, forse, ignorare ciò che accade in un paese dove chi protesta va al "macello".
E se l'Eliseo ha condannato "con la più decisa fermezza la violenta repressione" messa in atto dall'esercito della Guinea, da Washington il governo Usa, che in Afghanistan schiera quasi 30 mila uomini, si è limitato a dirsi "profondamente preoccupato" per le violenze e esortando la giunta militare al potere a dare prove di moderazione.
Prove di moderazione che si sarebbero potute chiedere anche a Saddam Hussein a questo punto. Solo che la Guinea non ha le stesse risorse dell'Iraq e, quindi, lo stesso peso nella definizione degli equilibri internazionali. Per questo nessuno parla di fronte a 157 morti. Fino ad ora.
 

Bollettino migranti

Un video mostra i pestaggi all'interno del Cie di Gradisca d'Isonzo

Finalmente cattivi. Qualcuno deve aver preso sul serio le parole del ministro Maroni. E le ha applicate alla lettera. Almeno a giudicare dal numero di ematomi che si possono contare sui corpi degli immigrati detenuti nel centro di identificazione e espulsione (Cie) di Gradisca d'Isonzo.

Siamo in provincia di Gorizia, a due passi dalla frontiera slovena. I fatti risalgono a lunedì scorso, 21 settembre. Ma le prove sono arrivate soltanto ieri. Si tratta di un video girato di nascosto all'interno del Cie e diffuso su Youtube. È un montaggio di riprese fatte con un videofonino. Inizia con un primo piano sul volto tumefatto di un detenuto tunisino. "Guarda il polizia" - ripete indicando l'ematoma sull'occhio. I pantaloni sono ancora imbrattati di sangue. E le gambe segnate dagli ematomi delle manganellate e in parte bendate. Il video prosegue mostrando le gabbie dove gli immigrati sono rinchiusi in attesa di essere espulsi, da ormai più di tre mesi. Ma il pezzo forte arriva alla fine. Si vede un uomo sdraiato a terra, esanime, tiene una mano sull'inguine, ha il volto sanguinante, il sangue ha macchiato anche il pavimento. Nel cortile una squadra di poliziotti e militari in tenuta antisommossa prepara un'altra carica. Dalle camerate si alzano cori di protesta. Ma quando i militari entrano, i detenuti non sanno come difendersi e scappano gridando "No, no!" Ma cosa è successo davvero quel giorno?

È un montaggio di riprese fatte con un videofonino. Inizia con un primo piano sul volto tumefatto di un detenuto tunisino. "Guarda il polizia" - ripete indicando l'ematoma sull'occhio. I pantaloni sono ancora imbrattati di sangue. E le gambe segnate dagli ematomi delle manganellate e in parte bendate. Il video prosegue mostrando le gabbie dove gli immigrati sono rinchiusi in attesa di essere espulsi, da ormai più di tre mesi. Ma il pezzo forte arriva alla fine. Si vede un uomo sdraiato a terra, esanime, tiene una mano sull'inguine, ha il volto sanguinante, il sangue ha macchiato anche il pavimento. Nel cortile una squadra di poliziotti e militari in tenuta antisommossa prepara un'altra carica. Dalle camerate si alzano cori di protesta. Ma quando i militari entrano, i detenuti non sanno come difendersi e scappano gridando "No, no!" Ma cosa è successo davvero quel giorno?

Lo abbiamo chiesto alla Prefettura di Gorizia. "Al Cie di Gradisca non c'è stato nessun pestaggio - dice il capo di Gabinetto Massimo Mauro -, anzi l'unico a essere stato ricoverato è stato un operatore di polizia che si è preso un calcio in una gamba". Ma allora qualche tafferuglio c'è stato! La versione della Prefettura parla di un tentativo di fuga di una trentina dei reclusi, la notte del 20 settembre, sventato dal personale di vigilanza senza particolari momenti di tensione. I problemi - continua Mauro - sarebbero arrivati intorno alle 13.00, quando un gruppo di trattenuti avrebbe rifiutato di rientrare nella camerata dopo il turno della mensa, "inscenando una protesta e lanciando bottiglie di plastica vuote contro il personale di polizia" che avrebbe quindi provveduto a farli rientrare con la forza. Le immagini diffuse su Youtube, Mauro non le ritiene attendibili. Chi dice che sono state a Gradisca? E chi dice che non sia materiale vecchio riciclato a uso e consumo di qualche associazione antirazzista?

Abbiamo fatto le stesse domane a un detenuto di Gradisca. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente. Per motivi di sicurezza non sveleremo la sua identità. Questa persona, non soltanto ci ha confermato che il video era stato girato in quei giorni. Ma ci ha anche descritto nel dettaglio il tipo di ferite che si vedono nelle riprese. La sua versione dei fatti coincide con quella della Prefettura per quanto riguarda il fallito tentativo di evasione la notte e il rientro pacifico nelle camerate all'alba. Il resto però è tutta un'altra storia. Alle 13.00 sarebbe iniziata una irrispettosa perquisizione. "Hanno rotto i carica batterie dei telefoni, a alcuni hanno tagliato i vestiti, e in una camerata hanno strappato un Corano". Un gesto quest'ultimo che avrebbe provocato l'ira dei detenuti, che hanno cominciato a inveire contro la polizia. "In una camerata hanno rotto le finestre e cominciato a lanciare cose". Finché polizia e militari hanno deciso la carica. Nelle camerate numero tre, due e sei. Alla fine della rivolta, secondo il nostro testimone, 12 persone sarebbero finite in ospedale. E in ospedale tornerà il detenuto tunisino con l'occhio tumefatto. Lunedì ha un appuntamento per un'operazione, all'ospedale di Udine. Chi ha ragione? La Prefettura? I detenuti? È presto per dirlo. Anche perché i detenuti vittime delle violenze si sono detti pronti a sporgere denuncia. E in quel caso sarebbe un giudice ad avere l'ultima parola.
Intanto però le proteste si sono diffuse a macchia d'olio nei Cie di tutta Italia. Quella del 2009 è stata un'estate di rivolte, incendi, tentate fughe, scioperi della fame e in alcuni casi pestaggi e arresti. Tutto ha avuto inizio l'otto agosto. Il giorno in cui è entrato in vigore il cosiddetto "pacchetto sicurezza", la legge 94/09, che ha portato da due a sei mesi il limite del trattenimento nei Cie ed è stata applicata in modo retroattivo anche a chi era già trattenuto nei centri.

Il giorno stesso in due sezioni del centro di identificazione e espulsione di via Corelli a Milano inizia uno sciopero della fame e della sete. Il giorno dopo a Gorizia metà degli oltre 200 trattenuti riescono a salire sui tetti del Cie inscenando una protesta contro il prolungamento della loro detenzione e provocando ingenti danni alle suppellettili e alla struttura. Una decina di persone tentano la fuga ma sono bloccati dalla polizia. Dal giorno dopo le sezioni del centro rimangono chiuse per isolare i trattenuti. Trenta rivoltosi sono trasferiti a Milano. Il 13 agosto è la volta di Torino, dove per due giorni consecutivi due sezioni del cie rifiutano il cibo e protestano, fino a arrivare a uno scontro con gli agenti di polizia il 14 agosto. Lo stesso giorno a Milano si verificano degli scontri tra la polizia e i trattenuti che appiccano il fuoco in una sezione del centro. Alla fine vengono arrestate 14 persone (9 uomini e 5 donne nigeriane) e rinviate a giudizio per direttissima con l'accusa di resistenza a pubblico ufficiale e danneggiamenti.

Gabriele Del Grande


 

29 settembre

 

Scudo missilistico, il retroscena di una scelta

La decisione di Obama dettata non tanto dalla necessità di 'distensione' con la Russia, quanto dalle necessità dall'industria bellica Usa

Per giustificare la decisione di Obama di smantellare lo scudo missilistico progettato in Polonia e Repubblica Ceca dal suo predecessore George W. Bush si è fatto ricorso a una giustificazione di fondo: inaugurare una linea distensiva nei confronti della Russia attenuandone preoccupazioni e paranoie. Dietro il nuovo programma di Obama si nasconde invece un preciso piano di investimenti militari legati alla prima industria produttrice di missili del mondo: la Raytheon. Americana, ovviamente.

Inaugurando un nuovo 'codice' di condotta etica per l'amministrazione presidenziale, due mesi dopo la sua elezione Obama aveva detto: "I lobbisti verranno sottoposti a vincoli più rigidi rispetto a tutte le amministrazioni che mi hanno preceduto. Coloro che entreranno nella mia amministrazione non potranno occuparsi di materie sulle quali hanno già fatto lobbying, o lavorare in agenzie sulle quali hanno fatto lobbying nei due anni precedenti". La presunta buona volontà del presidente Usa nel presentare la sua piccola rivoluzione morale è stata oscurata dall'ipocrisia. La nomina del nuovo vicesegretario alla Difesa è infatti è avvenuta infatti in totale contraddizione con le nuove regole stabilite da Obama. Si chiama William J. Lynn il 'sottoposto' di Robert Gates, Segretario alla Difesa. Avendo fatto lobbying per il gigante della difesa Raytheon in qualità di Svp (Senior Vice President) della compagnia, Lynn è l'esatto opposto di ciò che Obama avrebbe dovuto insediare in quella posizione. Chiamato a rispondere della violazione dei nuovi principi etici, Obama ha risposto che Lynn 'costituisce un'eccezione'.

La Raytheon ha svolto attività di lobbying per 14,5 milioni di dollari, durante i sei anni in cui Lynn ci ha lavorato: per la Camera dei rappresentanti, il Senato, il Dipartimento della Difesa, quello dell'Energia e del Tesoro. Lobbying per la vendita di armi, ovviamente, dai razzi teleguidati a lungo raggio ai sistemi di difesa basati sulle navi ad armamenti vari, tra cui un'arma laser fotonica in grado di distruggere missili a corto e medio raggio. L'ex manager, una volta nominato ai vertici della Difesa Usa, ha promesso di alienare sue azioni. Anche se l'avesse fatto, sarebbe stato un gesto totalmente inutile. Lynn ha svolto talmente bene il suo lavoro che si potrebbe avanzare l'ipotesi di una scelta adottata non per (o non solo per) 'rassicurare' la Russia sulle buone intenzioni della sua 'nuova' America, quanto perchè la Raytheon da tempo sta aspettando il committente giusto per le sue nuove armi.

Sia Obama che Robert Gates, nelle due conferenze stampa successive all'annuncio dell'annullamento del programma di Bush, hanno circostanziato la decisione con una serie di osservazioni che combaciano in maniera impressionante con quanto, esattamente un mese prima, venne esposto dalla Raytheon in occasione della presentazione di un 'nuovo sistema anti-missile' concepito in primo luogo per gli israeliani.

Obama e Gates, il 16 settembre scorso: "L'Iran non è così vicino alla bomba nucleare come si pensava, e la minaccia si limita a missili a corto e medio raggio. Il piano anti-missile di Bush non è smantellato, ma modificato, reso più flessibile, e nuovi sistemi di sensori e intercettori, ad esempio il SM-3, potranno essere installati in Europa già dal 2018".

La Raytheon, un mese prima: "Il sistema di intercettori che stiamo sviluppando, SM-3, già esistente su piattaforme marine o navi, verrà sviluppato su terra, e potrebbe servire a Israele per difendersi contro eventuali missili a corto e medio raggio lanciati dall'Iran. Potrebbe essere pronto già dal 2013.

Obama e Gates: "Il nuovo sistema sarà ad alta tecnologia ed economico.

Raytheon: i costi di sviluppo sono molto bassi, la tecnologia elevata. I profitti potrebbero raggiungere il miliardo di dollari, se il sistema è sviluppato globalmente in cooperazione con gli alleati internazionali.

La risposta dell'inviato russo alla Nato, Dmitriy Rogozin è stata di cancellare la decisione di installare missili Iskander a Kaliningrad, con la seguente raccomandazione: "La cooperazione con la Russia non è fatto di scelte. E' un fatto di necessità".

Il vice-segretario alla Difesa è il responsabile della scelta degli armamenti necessari agli Stati Uniti. E' lui che indica quali armi il Pentagono dovrà comprare. Con William Lynn in tale ruolo, la decisione di Obama di 'smantellare' il sistema missilistico concepito da Bush si arricchisce di dettagli che offrono una diversa lettura della sbandierata 'distensione' con la Russia, garantendo invece enormi profitti e commesse milionarie per la Raytheon. Sia in casa propria che all'estero.

Luca Galassi

 

Che business quel televoto

di Tommaso Cerno e Gianluca Schinaia

Telefonate e sms per scegliere un concorrente o partecipare a un quiz. Un rito tv sempre più diffuso. E un giro d'affari da 15 milioni che arricchisce emittenti e operatori telefonici

Gerry Scotti sfodera un bel sorriso e sul teleschermo appare la domanda per il pubblico a casa: i re di Roma erano cento o sette? Per partecipare al difficile quiz di 'Chi vuol essere milionario' è sufficiente inviare un sms al numero in sovrimpressione. Il costo è di un euro, in palio ce ne sono mille. E poco importa se non indovini, perché al programma cult di Canale 5 puoi vincere lo stesso. È la democrazia del televoto, ultima frontiera dei format che fanno audience e su cui scommettono sempre di più Rai e Mediaset per questa stagione autunnale. Dilaga fra teenager e massaie, ma anche fra i professionisti, perché dalla poltrona di casa (o dall'ufficio grazie alla web tv) ormai puoi fare di tutto: partecipare a un concorso mentre fai zapping, votare la reginetta del reality preferito, scrivere il copione del 'Grande Fratello' e cacciare il rompiscatole dalla Casa, oppure far piangere in diretta il cantante di 'X-Factor' frantumando con un messaggino i suoi sogni di gloria. Il tutto rigorosamente a pagamento.

C'è una domanda, però, che sugli schermi della tv non è mai apparsa. Quanto sfila dalle tasche degli italiani il televoto e dove finiscono i soldi? Se provi ad alzare la cornetta, stavolta per chiedere i conti a gestori di telefonia o reti televisive, la risposta è sempre la stessa. Tim, Vodafone, Wind e Tre, così come le società di produzione dei programmi più votati, non si sbottonano: "Sono dati riservati, non intendiamo diffonderli", ripetono da Roma a Milano. Uno studio esiste, distribuito soltanto fra gli operatori del settore. Si tratta dell'Osservatorio Mobile Content & Internet, elaborato al Politecnico di Milano e che 'L'espresso' ha potuto visionare. Fa una radiografia dettagliata del fenomeno, con un dato che emerge su tutti: il numero di televotanti in Italia è raddoppiato fra il 2007 e il 2008, erodendo nei mesi introiti al mercato oceanico della telefonia. E passando da 7,4 milioni di euro di fatturato, ai 15 milioni medi attuali. Possono sembrare cifre ridotte, se paragonate al bilancio globale dei contenuti a pagamento acquistati via cellulare, che ha sfiorato i 745 milioni di euro, ma non è così. Quel 2 per cento della torta ha stupito gli esperti e fa sempre più gola ai network, "che ormai inseriscono nei budget una voce specifica di entrata, al fianco della normale pubblicità", confermano sia in Rai che a Mediaset. E questo perché il boom di utenti si è registrato in un periodo in cui il resto del business è stagnante. "Significa che crescerà ancora", prevedono i direttori di rete.

Già adesso sono decine di migliaia gli italiani che, ogni giorno, si attaccano al cellulare per televotare il proprio idolo o vincere un'auto di lusso. Con punte record di quasi due milioni in una sola sera, come nella finale di 'Amici di Maria De Filippi'. La regina dei programmi interattivi è Endemol, la società olandese che ha esportato in Italia il 'Grande Fratello'. Ma a scommettere sempre più sul fenomeno c'è anche Magnolia, che firma 'L'eredità' e 'L'isola dei famosi', la Fascino di Maurizio Costanzo, così come Bibi Ballandi, che produce 'Ballando con le stelle'. Tutte trasmissioni dove la votazione da casa è il piatto forte."Il giro d'affari è in continuo aumento: ci sono quiz facilissimi che spingono i telespettatori a mandare sms, senza capire che, proprio come in un casinò, alla fine vince sempre il banco, cioè la trasmissione", avverte Antonio Bosco dell'Adiconsum."I giovani sono il target che sembra essere percentualmente più interessato". L'identikit del televoto-dipendente è confermato dalle statistiche che girano sui tavoli dei responsabili di palinsesto. Nel 2008 gli utenti unici sono stati un milione, con punte di 15 mila al minuto nelle serate chiave dei reality show. Il fruitore medio ha meno di 40 anni, età che sale fino a 65 quando si tratta di fare una telefonata, anziché inviare un sms. "A digitare sul cellulare sono più le donne (52 per cento) degli uomini, dalla casalinga alla laureata", puntualizzano gli esperti.

A spartirsi gli incassi ci sono, invece, gli operatori telefonici, le reti televisive, i titolari dei format e i produttori dei programmi, oltre alle società private che gestiscono il software per la raccolta dei voti. I network appaltano a ditte specializzate la gestione del sistema, e i messaggini vengono smistati su un computer. In genere all'utente il giochetto costa un euro, anche se in realtà si paga di più. L'addebito, infatti, avviene quando dal cervellone giunge l'sms di conferma del televoto, ma a carico del telespettatore c'è già da conteggiare l'sms di invio, che di solito costa attorno ai 12 centesimi. Di tutto il giro di affari, circa il 40 per cento finisce nelle tasche dell'operatore di telefonia mobile da cui è partito il messaggino, con guadagni proporzionali al market share, ovvero alla quota di mercato della compagnia. "Guida la classifica Tim, che occupa circa il 38 per cento, poi c'è Vodafone che si attesta attorno al 30 per cento", spiegano al ministero delle Comunicazioni. Il resto se lo dividono Wind e Tre.

Sulla trasparenza del sistema alcuni dubbi sono stati sollevati. È vero che le operazioni avvengono sotto il controllo di un notaio, ma da Emanuele Filiberto 'reuccio-ballerino' in coppia con Natalia Titova a 'Ballando con le stelle', fino alle polemiche per Marco Carta trionfatore ad 'Amici' e poi vittorioso a Sanremo, passando per le rivelazioni di Lele Mora sul podio di Walter Nudo sull''Isola', i fan dei reality e dei talent show denunciano "brogli e stranezze". Da una parte le trasmissioni col televoto si moltiplicano e diventano dei veri e propri cult. Dall'isola dei naufraghi, alla scuola di cucina, ai talent show per aspiranti cantanti e ballerini, fino a quelli sportivi. I numeri in sovrimpressioni invitano chi è a casa a votare, votare e votare ancora. Scegli tu chi sarà il vincitore. E così si formano club di fan, tifo organizzato, gruppi sul web, il passaparola gira nelle scuole e in discoteca. Gli idoli sono lì, a portata di messaggino. Nessuno bada più a un fatto: tutto questo si paga. E quando non c'è un concorrente da nominare o un danzatore da giudicare, arriva il concorso a premi. Una domanda da nulla, saprebbe rispondere anche un bambino. Il prezzo non sembra un granché, di solito è un euro, per l'estrazione che premia il fortunato. In palio soldi, ma anche televisioni al plasma, viaggi da sogno, cellulari da cui mandare altri sms. Intanto, nelle casse della trasmissione entrano centinaia di migliaia di euro. Ogni giorno.

È a questo punto che qualcuno se ne accorge. Dopo avere ricevuto una superbolletta, da centinaia di euro, tutti accumulati mandando messaggini al solito numero, quello del Gf piuttosto che dell'Isola. Così le prime 'vittime' del televoto passano al contrattacco e si rivolgono alle associazioni dei consumatori. "Ma noi non possiamo fare altro che chiedere al governo norme più severe e paletti certi per uscire dal Far West", dice Carlo Pileri dell'Adoc, mentre il Codacons aveva addirittura lanciato lo sciopero delle televotazioni per ottenere da Rai e Mediaset i tabulati ufficiali. In Italia manca, infatti, una legge che regoli il settore e fissi il numero massimo di chiamate dalla stessa utenza, come avviene in Inghilterra dove il televoto è gratis. Una lacuna che porta anche a un secondo fenomeno, che sta prendendo piede, il "tele-doping", l'utilizzo cioè di call center per spingere il proprio idolo nel reality, così da incassare maggiori introiti dai contratti di pubblicità. Un giro d'affari, secondo i consumatori, che porterebbe ad accordi sotterranei fra gli agenti di artisti e vip in gara, produttori e operatori telefonici, con pacchetti di voti acquistati in blocco e scaricati sui sistemi informatici a ritmi di 200 al minuto. "Nell'ambiente televisivo è stato denunciato più volte, anche all'ultima edizione di Sanremo", spiega Pileri.

Gestori e reti televisive respingono entrambe le accuse. "Non c'è nessuna pubblicità subliminale, né particolari campagne che rendano il telespettatore un fanatico", ribattono. È il gioco che è vincente, piace l'idea di poter decidere le sorti dei propri idoli, è un po' come entrare dentro la tv. Per fare luce su eventuali storture, comunque, lo scorso aprile l'Adoc ha presentato un esposto alla Polizia postale proprio sul televoto record dell'ultima edizione di 'Amici', "dopo avere ricevuto decine di proteste in cui i telespettatori segnalavano di non essere riusciti a inviare la preferenza durante la finale e nelle puntate precedenti". Nessuna truffa nemmeno stavolta, si difendono i gestori di telefonia mobile e le trasmissioni sotto accusa, che tirano in ballo l'effetto Capodanno, quando il cellulare va in tilt e i messaggi di auguri arrivano il giorno dopo. "Nei contratti c'è scritto che questa possibilità esiste. La cosa certa è che, se l'sms non viene conteggiato, non c'è alcun addebito". E mentre lo dicono, una nuova trasmissione con televoto conquista il palinsesto. Altro numero di telefono, altri paladini, altri incassi.

I televotanti delusi hanno formato gruppi su Facebook e discutono sui blog. C'è anche chi rivuole indietro i soldi spesi senza garanzia di effetti pratici sul destino del proprio paladino. A leggere bene i regolamenti delle trasmissioni più seguite, in effetti, una falla nel sistema c'è. Corrisponde al trasferimento dei dati dai gestori telefonici alla società informatica che effettua il conteggio finale, cioè quando si decide chi resta e chi viene eliminato. Un passaggio al quale le associazioni di consumatori "non hanno mai potuto partecipare, pur avendolo richiesto", denunciano in coro. Il tutto in assenza di un ente di controllo, visto che né il ministero né il Garante verificano la conta dei voti. "Il potere dell'Agcom in materia è piuttosto ridotto", dicono all'Authority. Vigilare sulla trasparenza delle votazioni a pagamento significa soltanto controllare che i costi massimi di chiamata restino sotto i limiti di legge e che le tariffe del servizio vengano indicate, quando il numero va in onda. Nessuna competenza, invece, sul computo finale, quello che determina la vittoria o la sconfitta del concorrente in gara. E che è costato ai televotanti milioni di euro fra sms e telefonate.

 

24 settembre

 

De Villepin e De Minzolin

di Marco Travaglio

Quando avranno liquidato anche gli ultimi farabutti dalla stampa e dalla Rai, Silvio Berlusconi e la fairy band scopriranno la portata eversiva delle cronache dall’estero. E aboliranno anche quelle.

L’altro giorno, per esempio, Massimo Nava raccontava a pagina 18 del Corriere della Sera, cioè a debita distanza dalle cronache italiane, il processo che si è aperto a Parigi contro l’ex premier Dominique de Villepin e uno stuolo di personaggi eccellenti che rischiano il carcere per falso, calunnia e abuso d’ufficio. Questa specie di Watergate alla francese riguarda un presunto complotto ordito da Villepin, forse d’intesa con l’allora presidente Jacques Chirac, per screditare a suon di dossier taroccati l’eterno rivale Nicolas Sarkozy. E’ l’ ”affaire Clairstream”, la finanziaria lussemburghese sospettata di custodire – scrive Nava – “conti cifrati per grandi affari e commesse militari. Un cd-rom con una lista di nomi comincia a circolare negli ambienti della politica e dei servizi segreti e innesca le indagini della magistratura. Le liste sono state manipolate con nomi inseriti da un esperto informatico legato ai servizi. E il nome-bomba è quello di Sarkozy”. Risultato: Sarkozy denuncia l’arcinemico Villepin e stronca la carriera a chi voleva – sempre secondo l’accusa – stroncarla a lui. Infatti, prosegue il Corriere, appena indagato Villepin viene “isolato dalla sua parte politica”, si ritira dalla corsa all’Eliseo e oggi scrive saggi molto dotti su Napoleone in esilio. Bene hanno fatto i giornali italiani a distanziare le cronache sul processo Clairstream da quelle (eventuali) sulle vicende giudiziarie dei politici italiani, soprattutto uno, il solito. Altrimenti sarebbe subito emerso, anche agli occhi più distratti, il confronto. In Francia c’è un presidente che non ha conti all’estero, tant’è che qualcuno ha dovuto inventarglieli. In Italia non c’è bisogno di inventare nulla: al premier sono state scoperte decine di conti esteri su 64 società offshore. E non è successo niente. O meglio si sono aperti un paio di processi, subito chiusi con la depenalizzazione del reato da parte dell’imputato; e ora arriva il prossimo, quello di Mediatrade, che riposerà in pace grazie al lodo Alfano. E l’opposizione zitta: guai a separare la criminalità dalla politica.

Al momento non sappiamo se Villepin abbia commesso reati. Ma sappiamo che ha commesso un errore madornale: ha sbagliato paese. Fosse nato in Italia, o almeno avesse preso esempio da Papi, i dossier li avrebbe delegati a
Pio Pompa e al fido Betulla, o direttamente a Feltri, per non lasciare impronte sul lavoro sporco e poi dissociarsene. Una volta indagato, poi, non avrebbe mai lasciato la politica per darsi alla letteratura, anche perché nessuno (tantomeno la cosiddetta opposizione) gliel’avrebbe chiesto: anzi, si sarebbe ricandidato proprio per questo, per essere rieletto, abolire i suoi reati e poi direttamente i suoi processi con un bel lodo Villepin. Avrebbe potuto impossessarsi di tv e giornali per far ripetere a reti ed edicole unificate che il suo processo è politico e lui un perseguitato da toghe ostili (le celebri “robes rouges”) che tentano di sostituirsi al Popolo. Infilare sua figlia nella proprietà di uno dei pochi quotidiani non suoi, così da ottenere sapidi editoriali di Painblanc, Ostellin e Coques de la Loge contro il moralismo, il giustizialismo e l’i nv a s i o n e di campo delle procure. Infine sistemare un apposito ciambellano alla direzione del TgUnico per occultare lo scandalo e liquidarlo come “go s s i p ”. Uno ancor più servile di Bruno Guêpe. Tipo, ecco, Auguste de Minzolin.

 

Calais, il naufragio del diritto

Sgomberati con la forza gli afgani che chiedevano in Francia lo status di rifugiati politici

Gli afgani in carne e ossa, quelli che non sono solo un concetto astratto da utilizzare nei dibatti televisivi pro o contro la guerra, vengono sgomberati come animali selvatici. E' accaduto a Patrasso, è accaduto a Calais.

Rasi al suolo. Ieri le ruspe, come annunciato da tempo, hanno raso al suolo il campo di rifugiati (quasi tutti afgani) alle porte della cittadina francese che guarda le bianche scogliere di Dover. La Jungle di Calais, lo chiamano i media, come fosse abitato da bestie feroci. Invece sono solo migliaia di persone in fuga dalla guerra dei liberatori, quella che doveva portare la democrazia e che ha portato morte e distruzione quanto e più del regime dei talebani e che ha regalato le elezioni più fasulle della storia contemporanea.
Un lungo viaggio portava queste persone, molte delle quali minorenni, ad abbandonare l'Afghanistan squassato dagli attentati dei talebani e dai bombardamenti della Nato. Attraverso l'Iran e la Turchia, a costo della vita e nella mani di trafficanti di esseri umani senza scrupoli, per raggiungere la Grecia e poi l'Italia, la Francia, verso l'Inghilterra.

Calais era una delle ultime tappe di questo calvario. Dalle sette di mattina di ieri non c'è più nulla. Un inferno a cielo aperto, sia chiaro. Baracche senza nessuna decenza, ma che avevano un tetto. In attesa, come a Patrasso, di un tir pronto a imbarcare per la Gran Bretagna. Un autotreno che poteva rappresentare la vita o la morte. Nascosti nel cassone, a volte attaccati per tutto il viaggio al semiasse del camion. Tanti hanno perso la vita così, ancora di più sono stati arrestati prima del grande viaggio. Ma alcuni ce la facevano. Ieri il loro sogno è finito: 278 migranti, 132 dei quali minorenni, sono stati arrestati brutalmente dalla polizia. Malmenati come gli attivisti che hanno tentato di difendere quell'isoletta mai felice, ma almeno sicura. Quanto può essere sicuro un posto malsano, dove però dopo migliaia di chilometri di viaggio, dall'Afghanistan alla Francia, trovi una faccia amica, che parla la tua lingua e che ti offre un tè caldo.

Diritti negati. La Jungle era nato poco dopo il 2002, quando l'allora ministro degli Interni francese Nicholas Sarkozy, profeta della tolleranza zero contro i sans-papier, ordinò lo sgombero del centro di Sangatte, gestito dalla Croce Rossa Internazionale. I migranti, che non venivano certo trattati bene, si ritrovarono a inventarsi una bidonville per sopravvivere al freddo. La stessa, identica, storia del campo di Patrasso, sgomberato mesi fa.
In Grecia come in Francia, quasi tutti i residenti nei campi erano afgani. Ai quali non viene riconosciuto lo status di rifugiato politico. Chi ne avrebbe più bisogno e più diritto di loro? Il problema, senza ipocrisie, è politico. Non si può dire al mondo che l'Afghanistan è un posto insicuro, perché cadrebbe come un castello di carte tutta la retorica della guerra giusta e che ha portato la libertà agli afgani.

Christian Elia

 

22 settembre

Quante volte Silvio?

di Tommaso Cerno ed Emiliano Fittipaldi

Una festa ogni tre giorni. Ecco l'agenda del premier nei cinque mesi chiave della crisi. Quasi 40 serate in compagnia di belle ragazze. Saltando poi gli impegni di Governo

Sono come Superman. Lavoro 20 ore al giorno. Presiedo il governo del 'fare', dormo tre ore a notte. In sintesi, "sono il migliore in 150 anni di storia d'Italia". Silvio Berlusconi, è cosa nota, non brilla per modestia. Gli auto-elogi sono un refrain costante della sua auto-rappresentazione. Ma l'immagine di un lavoratore indefesso che cura dall'alba a notte fonda gli interessi del Paese sbiadisce di fronte allo sfoglio della sua agenda personale. Se l'imprenditore Giampaolo Tarantini ha raccontato di aver organizzato nelle case del presidente del Consiglio 18 incontri a cui hanno partecipato una trentina tra ragazze ed escort professioniste, i bagordi occupano in realtà una parte ancor più rilevante del calendario di Silvio. Incrociando le testimonianze di molte avventrici, le cronache mondane raccontate dalla stampa, le giornate fotografate da Antonello Zappadu e filmini registrati di nascosto da alcuni ospiti, 'L'espresso' ha ricostruito cinque mesi di vita del premier. Un periodo affastellato di feste e discoteche, viaggi di piacere in beauty farm e serate al Bagaglino. Da agosto 2008 a metà gennaio 2009, le settimane drammatiche della crisi economica mondiale, il presidente del Consiglio ha organizzato una quarantina di serate. In media, quasi una ogni tre giorni. Non esattamente il ruolino di marcia di uno statista stakanovista: ci sono intere settimane in cui Berlusconi sparisce, letteralmente, dalla scena. Lasciando un vuoto istituzionale spaventoso.

Un'estate al mare Partiamo da agosto dello scorso anno. Il premier è in carica da soli tre mesi. L'obiettivo di Zappadu è puntato su Villa Certosa da settimane. Il 17 maggio ha già immortalato il presidente che passeggia con sei-sette ragazze nei i vialetti del parco, il 31 il primo ministro ceco Topolanek senza costume. Il 22 giugno le ragazze ospiti a Villa Certosa sono almeno cinque: le immagini di tre che fanno una doccia saffica finiscono sul 'Pais'. È solo l'antipasto. Il 3 agosto il premier fa arrivare un gruppetto di ragazze in elicottero, Zappadu le ritrae in topless e tanga. Il weekend successivo il Cavaliere inizia le sue vacanze. "Diciotto giorni dedicati al relax e alla famiglia", recita l'Ansa. Daniela Santanchè rafforza la versione ufficiale: "Berlusconi ha capito che il mood è cambiato. La stagione delle feste da 400 persone sugli yacht è ormai alle nostre spalle. Per questo Silvio ha scelto di stare in famiglia. Per primo ha capito che spendere 40 mila euro a sera è roba da cafonal". Forse l'amica non sa che l'11 agosto, mentre infuria la crisi tra Russia e Georgia, il premier ha organizzato un karaoke, ospiti Simon Le Bon dei Duran Duran, Simona Ventura, Giampaolo Tarantini, Sabina Began e amici vari. Il video della serata, con Berlusconi in giacca bianca che canta 'L'ultimo amore' con Apicella, finisce sul sito del nostro giornale. L'estate di Papi va avanti. Il 14, vigilia di Ferragosto, sul motoscafo Magnum 70 vengono fotografate altre bellezze in procinto di sbarcare sul molo della Certosa: ci sono Siria, famosa come la lesbica del 'Grande Fratello' ("Ero lì per esibirmi come mangiafuoco", dirà), la futura eurodeputata Licia Ronzulli, la valletta Susanna Petrone e altre quattro ragazze non meglio identificate. Probabile che la compagnia sia rimasta anche il giorno dopo, quando il Cavaliere riceve il miliardario Abramovich, mentre Roberto Maroni, insieme a Gianni Letta e Guido Bertolaso, erano al lavoro per la riunione del Comitato nazionale per l'ordine e la sicurezza.

Milan ed escort Il 17 agosto Berlusconi decide finalmente di tornare sul continente. Ma invece che a Roma per lavorare, vola a San Siro per Milan-Juventus. La sera stessa è di ritorno. Già: il 18, mentre le truppe russe puntano missili nucleari su Tbilisi, lui aspetta altre ospiti. 'L'espresso' ha potuto visionare nuove foto di Zappaddu: quella sera il parco della Certosa è invaso da bionde e brune, che arrivano su un elicottero della Fininvest. Il giorno dopo Sandro Bondi, forse ignaro del via vai nelle case del capo, annuncia il suo nuovo libro. Il titolo è impegnativo: "Berlusconi erede di Adriano Olivetti".

A inizio settembre, rientrato a Palazzo Grazioli, Berlusconi dovrebbe riprendere gli incontri internazionali. Un dispaccio dell'Ansa ipotizza che venerdì 5 il premier "dovrebbe incontrare il segretario di Stato Condoleezza Rice", mentre a metà mese è atteso a New York per l'assemblea generale dell'Onu. Il condizionale è d'obbligo, Silvio in agenda ha ben altri progetti. Il 5 settembre, secondo le dichiarazioni di Tarantini ai pm di Bari, al posto della Rice si materializza Vanessa Di Meglio, che resta a dormire a Palazzo Grazioli. "Tendenzialmente la stessa non è una professionista del sesso", spiega Giampi ai magistrati, "ma all'occorrenza non disdegna di essere retribuita per prestazioni sessuali". A settembre Berlusconi ha in agenda un altro incontro, quello con Terry De Nicolò, la escort che è andata a letto con l'assessore pugliese Sandro Frisullo.

Onu? No grazie Il 23 settembre iniziano i lavori delle Nazioni Unite. Sono presenti tutti i leader del mondo. Durante la prima giornata parlano l'americano Bush, il francese Sarkozy, il presidente iraniano Ahmadinejad. Contemporaneamente Gianfranco Fini sta facendo visita al Bundestag, in Germania. A Roma il premier e l'amico Giampi hanno invece organizzato un party con Carolina Marconi, ex del 'GF', Francesca Garasi, Geraldine Semeghini, al tempo responsabile del privè del Billionaire e, di nuovo, la De Nicolò. L'allegra brigata fa le quattro di mattina. Il giorno dopo è un martedì. Berlusconi decide di non partire più per il Palazzo di Vetro. La scelta sarebbe legata alla crisi di Alitalia: il Cavaliere vorrebbe seguirla da vicino. Così vicino che si mette in viaggio in gran segreto per l'Umbria, destinazione Méssegué, il centro benessere dei vip, riaperto apposta per lui. Berlusconi di fatto scompare dai radar per cinque giorni. Frattini e Letizia Moratti sono costretti a presentare da soli l'Expo 2015 di Milano, mentre Gianni Letta, coadiuvato da Walter Veltroni, fa i salti mortali per far firmare la pace tra la Cai e i sindacati e salvare l'Alitalia. La settimana di Silvio finisce alla grande. Sabato 28 un elicottero della Protezione civile lo accompagna dal Méssegué a Ciampino, dove prosegue per Milano, destinazione San Siro. C'è il derby, e sugli spalti lo aspetta Tarantini. Ha portato con sé una nuova ragazza, l'Angelina Jolie di Bari. Si chiama Graziana Capone, che racconta a 'Repubblica' il post-partita: passeggiata in auto, arrivo ad Arcore, cena e festino con una decina di ragazze. Il Milan ha vinto uno a zero, il premier è euforico. "Abbiamo tirato fino a tardi, le quattro forse, qualcuna si è addormentata sul divano". Il fastidio alla schiena, di sicuro, è scomparso. Così, dopo poche ore di sonno, Berlusconi può rifesteggiare sul lago Maggiore il suo 72esimo compleanno, mettendo in scena una giornata tutta familiare. "Ora resto a lavorare", dice ai giornalisti, ignari dei bagordi ad Arcore: "Nessuna festa serale, perché abbiamo già festeggiato oggi".

Giampi o Barack? A ottobre le 'serate' di Berlusconi sono (almeno) sette. Il 4 l'agenda ufficiale prevede un vertice del G4 in Francia sulla crisi. L'incontro dura poco, così il Cavaliere può partire in fretta da Parigi per materializzarsi al Lotus, locale trendy di Milano. Esce alle 6 e un quarto di mattina, attorniato da ragazze conosciute sulla pista. È inarrestabile. Dopo tre giorni entra prima al Bagaglino (titolo dello spettacolo: 'Partiti di testa'), poi continua la soirée a palazzo Grazioli con la Di Meglio, Barbara Guerra e la prostituta Ioana Visan, detta Ana. Solo il giorno prima, intervistato da Lilli Gruber, aveva definito la prostituzione un "fenomeno doppiamente grave: perché mortifica la donna e spesso si traduce in una vera e propria schiavitù". Appunto. Il 9, secondo Tarantini, la Visan è di nuovo a Palazzo Grazioli, insieme a Carolina Marconi e Barbara Guerra. Giovedì 16 Silvio torna dal Belgio e va a fare shopping. "Sono un po' stanco, perché sono reduce da aver difeso i nostri interessi a Bruxelles". Nonostante la fatica, organizza una festa dove incontra per la prima volta Patrizia D'Addario, accompagnata da Giampi e la solita compagnia di giro. La stanchezza non lo ferma nemmeno il 18 ottobre, quando torna a Villa Certosa, dove Zappadu lo fotografa insieme a due ragazze misteriose.

Il 21 ottobre Draghi lancia l'allarme recessione. Il Cavaliere da Napoli scandisce la sua ricetta: "I problemi si risolvono solo lavorando a tutte le ore, tutti i giorni, tutte le settimane". Peccato che a Palazzo Grazioli si continui a festeggiare in gran relax. Cena con Tarantini e tre amiche, Mary De Brito, Stella Schan e Donatella Marazza. Sempre in ottobre sono sue ospiti anche Sonia Carpendone, detta Monia, e Roberta Nigro. Sono giornate furibonde. L'Onda occupa gli atenei, la crisi dei mutui imperversa, tutti guardano alle elezioni americane. Mentre l'Italia si prepara alla notte bianca del 4 novembre per seguire la sfida Obama-McCain, Silvio organizza l'ennesima notte in bianco. È la notte chiave per il mondo, e anche per l'inchiesta di Bari. Quella in cui Giampi conferma di avere portato dal premier la D'Addario per la seconda volta, con Barbara Montereale e Lucia Rossini. Patrizia si rivedrà solo alle 8 del mattino successivo, quando racconterà a Giampi tutti i dettagli, mentre il premier lascia Palazzo Grazioli diretto a una fiera nel milanese. Obama? "Posso dargli consigli, sono più anziano", dice ai giornalisti.

Settimana da sballo ll 26 novembre è il giorno degli attentati a Mumbai, 80 morti (il bilancio salirà), italiani in ostaggio. A Roma il presidente del Consiglio riceve i vertici Alitalia per tentare l'accordo su Malpensa e, in serata, lascia palazzo Grazioli. È atteso a piazza Colonna, dove Fabrizio Cicchitto festeggia 'l'addio alle stampelle'. Ma a Ciampino pare che un jet stia azionando le turbine per portarlo ad Arcore. È lo stesso Tarantini a descrivere il viaggio con Berlusconi e due ragazze, Maria Esther Garcia Polanco, detta Maristel, e la modella Michaela Pribisova. Il 27 nella capitale scoppia il giallo. Nessuno sa dove sia il Cavaliere. Il mattino dopo Tremonti presiede un vertice a Palazzo Chigi, al quale era atteso anche lui. I cronisti chiedono spiegazioni, circolano diverse ipotesi, dalla clinica Méssegué, alla trasferta a Portsmouth per vedere il Milan in coppa, fino al check-up al San Raffaele per le analisi di rito. Berlusconi riappare alle 20.30 a palazzo Grazioli: "Giallo? No, ero a Milano a lavorare". Chi aveva puntato sul bis alla beauty farm, però, non era andato lontano. Venerdì 28 Giampi e Silvio si rincontrano infatti al Méssegué. Ci sono anche Maristel e, stando alle intercettazioni, Barbara Guerra, che nel 2009 parteciperà al reality 'La Fattoria', e un'attrice di 'Vivere', Licia Nunez. Il premier resta in Umbria fino al 30.

Noemi e le altre Il 2 dicembre a Montecitorio il clima è rovente. Il governo ha chiesto l'ennesima fiducia. Fini è infuriato, la Cisl annuncia 900 mila nuovi disoccupati. Il premier vola a Tirana, poi torna a Roma e attacca i giornali. Per la serata, invece, ha un bel programmino. Cena con Manuela Arcuri, che ai fedelissimi ripete essere "la donna più bella d'Italia". Ospiti anche Stella Maria Novarino, Luciana Francioli e Francesca Lana, quella cui Tarantini dice di avere ceduto coca in Costa Smeralda. Lo scontro sulla giustizia sta conquistando intanto le prime pagine. È una escalation, che culmina il 10 dicembre, con un Berlusconi piuttosto battagliero: "Cambieremo la costituzione da soli", proclama. Pure alla moglie Veronica, che ironizza sulla sua assenza alla Scala, risponde sarcastico: "Ero tornato a casa per accoglierla al suo ritorno". Sarà. Ma dal premier quella sera arrivano, stando all'interrogatorio di Giampi, Niang Kardiatou, detta Hawa, e tal Karen. Tarantini ha "pagato mille euro ciascuna". È un dicembre sfavillante, Silvio sembra tornato ragazzino. Il 15 alla festa del Milan lo scenario è proprio quello della Milano di 40 anni fa: in sala 600 invitati, due su tutti cari al premier. Una è Noemi, l'eterea biondina ancora minorenne che lo chiama "papi". Che non sia lì per caso lo dimostra il suo compagno di tavolo: è nientemeno che Fedele Confalonieri. A fare 'atto di presenza' c'è, poco più in là, ancora Karen.

Povera schiena Due giorni dopo il premier salta un altro appuntamento ufficiale. Atteso al Quirinale per la cerimonia del Coni, non arriverà mai, così come nel pomeriggio diserterà gli auguri di Natale con Napolitano. La giustificazione è il solito "leggero mal di schiena". I programmi serali di quel 17 dicembre invece non vengono annullati. Nonostante le amarezze che arrivano dal Tribunale di Milano (i pm chiedono 4 anni e 8 mesi per l'avvocato Mills considerato "a libro paga di Berlusconi"), il capo del governo non rinuncia alla visita di Linda Santaguida, 'schedina' e poi riserva all''Isola dei Famosi', e della velina Camille Cordeiro Charao, "la sola che si fermò dal presidente", precisa Giampi. Coincidenza vuole sia anche l'ex compagna di Gianluca Galliani, il figlio di Adriano. Il 23 dicembre il premier fa recapitare al papa un messaggio di auguri: "Il Natale è un momento di riflessione sul messaggio cristiano di speranza, la famiglia è il nucleo centrale della società". La sera, però, fa ancora festa, stavolta con Carolina Marconi e Graziana Capone, prima di raggiungere Veronica e i figli per le Sante feste.

Il 28 Berlusconi lascia Roma per la Sardegna. Villa Certosa è già animata da ore. L'obiettivo di Zappadu ritrae un viavai di belle ragazze nei bungalow e a spasso per il parco. Vestite da giorno, o pronte per la notte. Il Capodanno è organizzato in grande stile. A mezzanotte i fuochi d'artificio per un centinaio di ospiti, fra cui di nuovo Noemi accompagnata dall'amica Roberta. In agenda c'è una telefonata al collega israeliano Olmert e, soprattutto, il party della Befana. Quando in villa ricompare Giampi assieme a Barbara Montereale, Chiara Guicciardi, ex meteorina di Fede, e Clarissa Campironi. Il calendario di Silvio prevede un'altra serata a Roma, il 14, con la Guicciardi e Letizia Filippi. Ma Barbara Montereale racconta in un'intervista anche di un incontro alla Certosa a metà del mese, dietro compenso, a differenza del 6 gennaio, accolta dalla Ronzulli, con la Petrone e una ventina di belle fanciulle. Il premier torna in Sardegna il 17, alla vigilia del vertice di Sharm el Sheikh sulla crisi di Gaza. Fa tappa ad Abbasanta e Nuoro per sostenere il futuro governatore Cappellacci. Con un gruppo di giovani sostenitori si lascia andare. "Lasciate che i pargoli vengano a me", dice felice. "E adesso diranno che mi paragono a Gesù".

 

E' caduta una Mariastella

di Roberto Di Caro e Denise Pardo

Un curriculum scolastico anonimo. Una laurea in legge senza lode. Una trasferta a Reggio Calabria per il praticantato legale. Poi la folgorante carriera politica. La vita da mediocre della ministra che voleva fare la ballerina e che ora infiamma la scuola

Finora le fabbriche sono state silenziose. Perfino i magistrati sono spaccati. Lei, Mariastella Gelmini, ha portato in piazza tutti: professori, genitori, precari, studenti. La sua riforma è la vera sconfitta del terzo governo Berlusconi.

È signorina. Ma di quelle Signorsì. Tremonti vuole tagli a scuola e università e il via alla privatizzazione strisciante: lei esegue, e lancia l'idea di trasformare istituti e atenei in Fondazioni in concorrenza fra loro. Il Vaticano vuole l'ora di religione cattolica come materia piena di insegnamento: per lei è subito una "posizione condivisibile". La tattica è elementare, se vuoi far carriera, non ti puoi fare troppi nemici. Se ne hai (le è capitato quando nel 2000 i suoi di Forza Italia la fecero fuori con una mozione di sfiducia dalla carica di presidente del consiglio comunale di Desenzano del Garda, e poi nel 2005 quando Berlusconi la nominò coordinatrice regionale tra i malumori della nomenklatura), meglio star buona, aspettare, prima o poi non mancherà l'occasione di farseli di nuovo amici. Lei, Mariastella Gelmini, in questo è bravissima. L'ha anche spiegato: "Non è mica un delitto andare d'accordo con tutti".

Gelmini, ovvero la temibile leggerezza dello stare nel mezzo (secondo le anime buone) o della mediocrità (secondo quelle malvage). Non male per una che ogni due per tre sillaba, enuncia, predica la meritocrazia. Tattica o carattere? Sarà che ha frequentato le elementari dai preti, 1.700 anime nella Bassa bresciana. Dove suo padre Italo, agricoltore e allevatore, era stato sindaco Dc e, divorziato senza scandalo dalla moglie Carmelina, aveva sposato Wanda, la mamma di Mariastella. Tuttora ci vivono Giuseppe e Cinzia, figli della prima moglie, ma legatissimi alla sorella, modello famiglia allargata. Il primo, che ha un magazzino di prodotti per l'allevamento, è dall'aprile 2008 vicesindaco Pdl; la seconda, insegnante elementare, è rappresentante sindacale Cgil. Scoppiò un mezzo putiferio quando, il 30 ottobre 2008, Cinzia non aderì allo sciopero generale degli insegnanti e si mise in aspettativa non retribuita.

Gelmini voleva fare la ballerina. Le è andata male: è diventata ministro. Alle medie, Luigi Sturzo della vicina Gottolengo, dove fino ai 15 anni vivrà in una cascina, Mariastella è la passione della sua professoressa, Maria Nunziata Terzo: studia danza, conduce la battaglia contro l'intercalare dialettale "pota", aiuta il compagno down. Al liceo classico le cose si fanno più complicate. Ne cambia tre: il Manin di Cremona dove frequenta i due anni di ginnasio, poi lo statale Bagatta di Desenzano dove comincia la prima liceo per lasciarlo a dicembre e spostarsi a Brescia, liceo privato diocesano Cesare Arici, lo stesso dove aveva studiato Giovanni Battista Montini, papa Paolo VI: "Sì, abbiamo fama di severità, ma senza particolari asprezze", racconta Gian Enrico Manzoni, che della liceale Mariastella fu l'insegnante di greco e latino. Quanto al carattere, Manzoni la descrive "riservata, né un'isolata né una leader, nessuna bega con i compagni, non che io ricordi almeno": già allora tendeva ad andare d'accordo con tutti. "Non ero la prima della classe, ma non ho mai avuto problemi", ha sintetizzato quel periodo l'interessata. È vero. In pagella prese 5 in latino scritto al primo quadrimestre, "ma era un'alunna diligente, anche se non mi viene in mente nessun particolare amore per questo o quell'autore, e a fine anno conquistò il 7", ricorda Manzoni. In greco, italiano, matematica oscilla sempre fra il 6 e il 7. Scienze 7, arte e storia 8. Alla maturità, siamo nel luglio 1992, uscì con 50/60.

Proprio del provvedimento sul voto di condotta, e dell'altro che richiede il 6 in tutte le materie per essere ammessi all'esame di maturità, parlano Manzoni e Gelmini ormai ministro quando, a fine 2008, si reincontrano. Il suo liceo la invita a una rimpatriata, ma in tutta Italia scoppia la protesta degli studenti e lei sparisce dalla circolazione: figuriamoci se rischia una contestazione proprio davanti alla sua vecchia scuola, sai che chicca per i giornali. Invita però Manzoni al ministero. "Fu molto gentile. Cercai di convincerla che, sotto l'apparenza del rigore e del merito, quei suoi due atti avrebbero sortito effetti opposti".

Che poi qualche comprensione per la voglia di molti studenti a fine corso di chiudere i conti con la scuola e passare ad altro la dovrebbe avere, Mariastella Gelmini. Perché capitò anche a lei. Non alla maturità, ma nella tesi di laurea, Università di Brescia, facoltà di Giurisprudenza, appello del 12 luglio 1999. "Era venuta da me spiegandomi che, fuori corso di tre anni, voleva concludere in fretta gli studi, accennando di sfuggita a qualche suo impegno politico a Desenzano", racconta Antonio D'Andrea, ordinario di Diritto costituzionale: che dell'impacciatissima laureanda fu relatore. "Concordammo dunque una tesi non impegnativa: sull'iniziativa referendaria delle Regioni, tema allora d'attualità perché alcune amministrazioni di centrodestra, Lombardia in testa, si apprestavano a usare tale strumento per contrastare il governo Prodi". Si incontrano cinque o sei volte, l'ultima lui le chiede di rafforzare un po' l'apparato teorico e di completare il compitino almeno con un piccolo apparato di note e una bibliografia accettabile: ma capisce subito "che non è il caso di insistere. Certo non ci si innamora di uno studente come lei, media, diligente, non particolarmente motivata; ma in fondo il suo lavoro era passabile, c'era il minimo indispensabile. Il punto di caduta, inaspettato, fu la discussione della tesi". D'Andrea le rivoge una domanda di ordine generale: lei "rimane sconcertata, imbarazzata, è in difficoltà, mostra di non avere padronanza dell'argomento. In situazioni del genere non si infierisce: le chiedo qualcosa sull'argomento della tesi e in meno di dieci minuti, con un po' di disappunto, la licenziamo con 100/110". Significa che, arrivata con un punteggio d'esami di 99,28 pari a una buona media del 27, la tesi le fu valutata meno di un punto sugli 11 possibili. Dei cinque laureati quel giorno con D'Andrea, due con lode, lei fu la più scarsa. Che ha pensato il professore a vederla oggi ministro alfiere del rigore e del merito? "Non ricordo se mi è venuto da sorridere o se ho alzato gli occhi al cielo. Ma che vuole, la politica ha i suoi criteri. E i suoi peculiari talenti".

E questi a lei non mancano di certo. È il '94, Berlusconi scende in campo, Mariastella ha ventun anni. Fin da subito gioca sui due terreni chiave di un politico: sul territorio, dove costruirà la sua fortuna elettorale, e al centro, nel cuore del potere. A Desenzano, dove ormai vive con la madre separata aiutandola a volte nel negozio di estetica a Sirmione, fonda con Emanuele Giustacchini ed Enrico Frosi, e presiede il primo club locale di Forza Italia: "Varie sere la settimana", racconta Giustacchini, oggi assessore a Desenzano, "ci trovavamo in una decina di persone a casa sua: manifesti, banchetti di propaganda". Intanto però, due o tre volte la settimana, parte in treno da Desenzano per fare volontariato di partito a Milano: sulla costituzione dei club, in stretto rapporto con Mario Mantovani, oggi sottosegretario alle Infrastrutture, e con Giancarlo Abelli, allora consulente per la Sanità della Regione oggi deputato. Poco dopo comincia anche la storia d'amore di Mariastella con Giuleader bresciano dell'ala ex democristiana di Forza Italia: durerà fino al 2004. Lui continua a dire di lei che è una "una donna tenace, capace, gran tessitrice, la Letta lombarda, uno dei pontieri tra Berlusconi e Formigoni".

Alle politiche del '96, "con la carica di partito di delegato di collegio, la Gelmini riesce a far eleggere deputato Adriano Paroli, ciellino formigoniano di ferro, paracadutato dall'alto e ignoto al territorio", aggiunge Giustacchini. Poi, nel '98, con 300 preferenze, è la prima eletta al consiglio comunale, di cui diventa presidente. La scalata è cominciata. Ma nel 2000 arriva la tegola: tre su sei dei consiglieri Forza Italia la destituiscono con una mozione votata dagli alleati civici e dall'opposizione. Diatribe interne, raccontano: l'ala "laica" di Franco Nicoli Cristiani, allora come oggi assessore regionale, contro i cattolici di Romele.

Ma la ragazza è un muro di gomma, incassa come un pugile esperto. Non deve aspettare molto. Nel 2002, passato a Reggio Calabria l'esame di Stato per diventare avvocato (vedi box a pag. 37), c'è un rimpasto in giunta alla Provincia di Brescia: "Romele pretese un posto per lei, io raggiunsi con lui un accordo, Gelmini divenne assessore al Territorio", racconta Nicoli Cristiani. Dopo le provinciali del 2004 la Lega esige il Territorio, Gelmini e Romele s'inalberano: "Ma siete matti? Prendete l'Agricoltura, vale da solo 10 mila voti: i contadini chiedono sempre, ma non dimenticano mai", le dice Nicoli. Gelmini prende l'Agricoltura. Ma ha un feeling più intenso con i cacciatori, che nel bresciano sono una lobby potentissima per tradizione e per business: la voteranno in massa quando, nell'aprile 2005, diventa consigliere regionale, prima eletta di Forza Italia, a Brescia con 17.500 preferenze. Li ricambierà, racconta Nicoli, battendosi in consiglio regionale per l'approvazione della caccia in deroga, cioè perché possano liberamente sparare a peppole, stornelli e fringuelli.

Non che abbia tempo di fare molto altro, nell'anno esatto in cui resta consigliere regionale. Berlusconi la vuole subito a Roma, nella segreteria di Palazzo Grazioli. Un mese dopo la nomina coordinatrice regionale di Forza Italia. Nel 2006 è eletta deputato. Poi, domenica 18 novembre 2007, in un'ora e mezzo organizza una folla in piazza San Babila per l'annuncio che Silvio ha deciso di fare, bruciando i tempi: la nascita del Popolo delle libertà. Da quel predellino il capo lancia anche lei, Mariastella, nel firmamento delle star del centrodestra.

Peccato che un anno e mezzo su una poltrona da sempre tra le più puntute in qualsiasi governo la facciano oggi sembrare più che altro una stella cadente. Rieletta nel 2008, Maria Star, come la chiama Luciana Littizzetto, è una delle quattro donne al governo. Per il Cavaliere è il pezzo più pregiato. Una volta al consiglio dei ministri sedette nella sedia del premier. " Ecco vedete ha già preso il mio posto", commentò Berlusconi ridendo. Se all'esterno ogni suo gesto sfocia in un corteo, con la burocrazia del ministero si muove in punta di piedi bene attenta a non pestare i calli a nesssuno. E si circonda di personaggi che, in un modo o nell'altro, le tornano utili. Tra i consulenti Alberto Albertini, reperto democristiano della sua Brescia, già al Cnr, personaggio passato attraverso molte grane giudiziarie. Come portavoce sceglie Massimo Zennaro, inizi con Marcello Dell'Utri poi con Tiziana Maiolo al Comune di Milano; qualche mese e lo promuove direttore generale della Direzione generale per lo studente del ministero. Un vero atto da Casta. Al suo fianco Giuseppe Pizza, sottosegretario, uno che conosce tutti gli ingranaggi e i pozzi avvelenati della politica romana, proprietario legale dello scudocrociato Dc. A darle un sostegno tecnico, i due forzisti presidenti delle commissioni parlamentari di riferimento, Valentina Aprea alla Camera e Guido Possa al Senato. A Roma le gira spesso intorno adorante Renato Farina, per il Sismi "l'agente Betulla", espulso dall'Ordine dei giornalisti, nel 2008 eletto deputato per il Pdl, Collegio Lombardia 2. Tra quelli che non inviterebbero Mariastella al ballo della scuola Giulio Tremonti (anche se quando lui taglia i fondi, lei sbatte i tacchi e decurta i docenti) e Denis Verdini (lui scherzoso le dice davanti a tutti che è sexy, lei, che non trova la cosa appropriata al suo rango, si sforza di sorridere, Verdini è potente e lei lo sa bene).

Roma le ha cambiato il taglio di capelli, dal parrucchiere delle dive Roberto D'Antonio accanto a Montecitorio, ma non l'approccio circospetto, il talento di evitare rogne. Se Renato Brunetta si tuffa appena intravede una polemica, Gelmini fugge borbottando che "non si fa così": a giugno alla contestata presentazione di un libro di Mario Giordano alla Mondadori di piazza Duomo, a luglio quando in una sua conferenza stampa irruppe il senatore Idv Stefano Pedica. Non si nega invece, il ministro Gelmini, dove sa che il parterre è tutto per lei: al campus biomedico di Trigoria presso Roma, Opera apostolica della Prelatura dell'Opus Dei, come al Meeting di Rimini di Cl, dove per tre giorni interi è stata la gemella siamese di Formigoni.

Dovevano scambiarsi le poltrone, i due: lei alla presidenza della Regione, lui al ministero dell'Istruzione: ma è stata proprio lei, un giorno prima di Berlusconi, a dichiarare che Formigoni è e resta l'unico candidato, certo e indiscutibile, alla Regione. In fondo si somigliano, lei e l'ex vergine del Pirellone: in entrambi amabilmente coesistono l'anima crociata e quella mondana, nel senso di uso di mondo, lui con quelle sue giacche arancione, lei con quel bikini con il quale cui a Positano l'ha immortalata "Chi", settimanale della real casa d'Arcore, titolo "In piscina zero in condotta" arpionata con un bacio hard al nuovo fidanzato Giorgio Patelli: 51 anni, geologo, dieci anni fa all'assessorato all'Ambiente della Lombardia, poi immobiliarista, oggi anche imprenditore edile, un bellone ben diverso dal tipo Hulk alla Romele.

Prudente sì, ingrata no, Mariastella. A giugno, provinciali di Brescia, si batté invano fino allo spasimo perché alla Presidenza fosse candidato il suddetto Romele e sembrava profilarsi uno scontro con Viviana Beccalossi di An. "Diciamo la verità, tu vuoi piazzare il tuo ex fidanzato", la azzannò Ignazio La Russa. Lei, piccata, replicò: "Almeno, di me si sa".

 

L'egemonia del becero e il cervello di Brunetta

di Pierfranco Pellizzetti, da Il Secolo XIX

Ricevo una mail da amici americani: «speriamo passi la riforma sanitaria di Obama, almeno quelli potranno farsi curare il cervello». Il quelli si riferisce alla massa dei manifestanti scesi in piazza negli Stati Uniti contro un progetto che dovrebbe assicurare assistenze minime ai milioni di loro concittadini attualmente privi di tutele. Situazione scandalosa, quanto a esclusivo vantaggio delle compagnie assicurative private (che cercano in tutti i modi di non pagare neppure le prestazioni dovute agli assicurati, per fare finanza e così ungere le ruote politiche che garantiscano allinfinito i loro privilegi).
Qualcosa di incomprensibile per noi europei; ma il cui contrario viene agitato dallaltra sponda dellAtlantico come comunismo. Ad aizzare la piccola gente e fargli strillare gli slogan più incredibili: da «Stalin riprenditi i nostri politici» a «la sanità di Obama ci renderà malati».
Lapoteosi del pensiero becero, che rimbomba anche dalle nostre parti. Per cui sono presunti italiani brava gente che minacciano sfracelli se qualcuno osa criticare i respingimenti di poveri cristi in balia del Mediterraneo, ammassati da settimane in precari barconi (su cui non di rado ci muoiono pure). Magari quegli stessi che organizzano o frequentano riti bislacchi di ampolle versate alle foci del Po in onore di una misteriosa entità tribale chiamata Eridano.
Ossia, il dato evidente che pure qui sono saltati tutti gli argini preposti a fungere da diga alle pulsioni più rozze e primitive. Peggio: si è permesso loro di occupare la scena politica scalzando antiche pudicizie; forse anche un po ipocrite, di certo opportune per non sprofondare nellimbarbarimento. Visto che come è stato detto - «lipocrisia è lomaggio che il vizio rende alla virtù».
Intanto per le stesse ragioni la vita pubblica si è trasformata in una sequenza ininterrotta di colpi bassi e porcate. Vera goduria da avvinazzati valligiani. Nel caso del ministro Brunetta, lopportunità di dare sfogo ad antiche frustrazioni da mezza tacca craxiana (con laggravante parafrasando Spoon River e De André di un cervello troppo vicino al buco del culo?).
Se al tempo dello scandalo Montesi mezzo secolo fa i mandanti si premurarono di restare nellombra, ora ci si vanta ostentatamente perfino dei dossier tarocchi usati a mo di clava per spaccare la testa e fare a pezzi la reputazione a chi non riga dritto e fa la fronda contro il Capo.
Una trasformazione al peggio, che coincide con le strategie sempre più aggressive di una Neodestra in campo da almeno trentanni. A seguito della rivoluzione conservatrice che ha trionfato prima in America, poi pure in casa nostra coniugando cinismo e fanatismo; praticando la diffamazione e la menzogna come armi mortali: dal caso del veterano eroe di guerra John Kerry infamato come imboscato (a vantaggio dellimboscato vero, George Bush Jr.) a quanto sta aleggiando minacciosamente sul capo del presidente della Camera Gianfranco Fini.
Pratiche che si rivolgevano e rivolgono alle fobie di fasce sociali un tempo sottoposte a rigorosa tutela; quanto facilmente manipolabili toccando i tasti sensibili del becero andante: dallo sciovinismo xenofobo ai risentimenti vari. Diffondendo paura e rabbia attraverso un martellamento mediatico che si mette sulla stessa lunghezza donda dei loro preconcetti ottusi. Accreditandoli.
Azione di involgarimento irresponsabile della vita pubblica che mentre sovverte le agende delle priorità, azzerando ragionevolezza e senso di responsabilità va immettendo nella politica un personale di base selezionato proprio nei nuovi bacini del consenso. Sicché, al posto di competenza e capacità decisionali, ora valgono polmoni possenti per strillare truculenze da cerebrolesi; in cui possono identificarsi moltitudini plebee, prive di qualsivoglia educazione alle regole e ai principi della democrazia.
Il pensiero becero che diventa classe dirigente.

 

Ottanta giorni di resistenza

Il resoconto dal Centro America di Giorgio Trucchi

Il 15 settembre è stata una giornata storica per l'Honduras. Centinaia di migliaia di honduregni sono scesi in strada in tutto il paese per commemorare l'anniversario dell'indipendenza del Centroamerica, riaffermare lo spirito unionista dell'eroe centroamericano Francisco Morazán e per celebrare l'ottantesimo giorno di resistenza contro il colpo di Stato perpetrato dalle forze reazionarie nazionali ed internazionali.
Alla fine della gigantesca marcia che ha attraversato la capitale Tegucigalpa, membri della direzione congiunta del Fronte Nazionale Contro il Colpo di Stato hanno letto un proclama nel quale affermano che l'Honduras "sta vivendo un'insurrezione non violenta contro il regime usurpatore che lo scorso 28 giugno ha assaltato le istituzioni dello Stato con le armi. Per questo motivo nessuna commemorazione indipendentista può essere presa in considerazione se celebrata sotto questa dittatura infame e golpista.
Oggi stiamo vivendo la stessa oppressione che 300 anni fa, con la croce e con la spada, aveva imposto l'impero spagnolo alle eroiche popolazioni che sono sopravvissute alle barbarie.

Il popolo dell'Honduras - segnala il proclama - continua la sua lotta. Oggi celebriamo ottanta giorni di instancabile resistenza in tutto il paese per la restaurazione della democrazia, il ritorno del presidente costituzionale Manuel Zelaya Rosales e la convocazione di una Assemblea Costituente".
Facendo appello all'articolo 3 della Costituzione, il Fronte Nazionale Contro il Colpo di Stato ha anche rivendicato il diritto del popolo honduregno all'esercizio della disubbidienza civile contro un regime dispotico nato grazie alla forza delle armi.
Ha proclamato l'urgenza di una nuova Costituzione "per creare le basi della nostra vera indipendenza economica e sociale, garantendo in questo modo che l'oligarchia, insieme alla cupola politico-militare, non possano mai più rompere l'ordine costituzionale senza ricevere un giusto castigo", ha nuovamente attaccato e respinto l'ipotesi di un processo elettorale militarizzato "con il quale pretendono legittimare le barbarie commesse a partire dallo scorso 28 giugno", ed ha ringraziato profondamente tutti i popoli del mondo che hanno dimostrato " la loro solidarietà con la nostra causa.
Mentre la nostra lotta diventa sempre più grande, gli usurpatori stanno crollando, accerchiati ed isolatidall'intera umanità", conclude il proclama.

Una marcia impressionante. Secondo Porfirio Ponce, vicepresidente dello storico Sindacato dei Lavoratori dell'Industria delle Bevande e Simili ( STIBYS ), affiliato alla UITA , e membro del Fronte Nazionale Contro il Colpo di Stato, "abbiamo commemorato l'indipendenza dell'Honduras e del Centroamerica mentre viviamo sotto un regime de facto golpista, che se da una parte ha tolto la pace al nostro paese, dall'altra ha provocato l'unità ed il rafforzamento del movimento popolare honduregno.

In questo ottantesimo giorno di resistenza abbiamo assistito ad una mobilitazione mai vista prima nel paese. La gente è uscita per le strade in tutto l'Honduras - ha continuato Ponce - ed a Tegucigalpa la partecipazione è stata impressionante, con molta più gente di quella dello scorso 5 luglio quando circa 300 mila persone si erano radunate all'aeroporto internazionale di Toncontín per aspettare il ritorno del presidente Manuel Zelaya. Centinaia di migliaia di persone si sono ora riunite nel Boulevard Morazán ed hanno marciato verso il centro della città, fino ad arrivare al Parco Centrale, formando una colonna di vari chilometri".
Il vicepresidente dello STIBYS ha inoltre spiegato alla Lista Informativa "Nicaragua y más" che l'attività si è sviluppata senza problemi e che l'esercito e la polizia non hanno avuto il coraggio di reprimere la manifestazione per l'enorme quantità di gente presente in tutto il paese.
"Questo è un popolo che si è svegliato e oggi più che mai, siamo sicuri che nessuno potrà fernare il processo che ci porterà alla creazione di un'Assemblea Costituente. Questo popolo è sicuro di potere recuperare ciò che gli appartiene, attraverso la creazione di una nuova Costituzione che si basi sui bisogni ed i diritti della gente comune e non, come ora, sugli interessi dell'oligarchia locale", ha concluso.

Zelaya e Ortega celebrano l'Indipendenza. In occasione della settimana di commemorazione dell'Indipendenza Centroamericana, i presidenti del Nicaragua e dell'Honduras, Daniel Ortega Saavedra e Manuel Zelaya Rosales, hanno ricevuto la "Fiaccola della Libertà" dalle mani degli studenti nicaraguensi all'interno della storica hacienda San Jacinto, luogo in cui nel 1856 l 'esercito del Nicaragua sconfisse i filibustieri dell'avventuriero statunitense William Walker.
"In questo luogo si è svolta una delle battaglie che sono il simbolo della lotta in difesa della nostra libertà - ha detto Manuel Zelaya -.
Continuiamo a lavorare e lottare per la Patria, perché i nostri avversari e nemici continuano ad essere gli stessi. Oggi come ieri dobbiamo quindi duplicare i nostri sforzi per sconfiggerli e per difendere la democrazia.

In Honduras è stata soppressa la libertà e i gruppi oligarchici continuano a volere mantenere il paese in schiavitù - ha continuato il presidente honduregno -. Il popolo nicaraguense si è unito a quello hondureño in difesa della democrazia in Centroamerica e per questo lo ringraziamo infinitamente.
Non avremo pace e non daremo tregua al regime golpista che usurpa il potere fino a che nel nostro paese non ritorni la democrazia", ha concluso.

Sotto una pioggia battente e dopo un lungo discorso in cui ha ricordato il colpo di Stato in Cile, orchestrato dai militari di questo paese e dal governo nordamericano, il presidente Daniel Ortega ha spiegato alle migliaia di studenti e studentesse giunte fino a qui per accompagnare il lungo percorso della "Fiaccola della Libertà Centroamericana", che non si può continuare a parlare di democrazia in America Latina mentre in Honduras il governo golpista continua a mantenersi nel potere, reprimendo ed assassinando la popolazione.
"La comunità internazionale ha l'obbligo morale ed etico di accompagnare il popolo honduregno in questa battaglia, obbligando i golpisti ad abbandonare il potere", ha concluso.
Nei prossimi giorni il presidente Manuel Zelaya parlerà davanti al plenario dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

 

18 settembre

 

Afghanistan, una guerra costosa e rischiosa

I costi umani ed economici di questa guerra, la ricostruzione che non c'è, il crescente coinvolgimento delle truppe italiane

La guerra in Afghanistan, quella iniziata il 7 ottobre 2001, ha provocato la morte di 21 soldati italiani, 1.400 soldati alleati, 6 mila soldati e poliziotti afgani, circa 25 mila guerriglieri talebani e quasi 11 mila civili afgani (di cui oltre 3 mila vittima degli attacchi talebani e almeno 7 mila uccisi dalle truppe alleate - più di 3 mila civili morirono nei soli bombardamenti aerei del 2001-2002). In totale, quindi, almeno 43 mila vite umane sono state stroncate in otto anni di guerra.
La spedizione militare in Afghanistan è costata finora ai contribuenti italiani oltre due miliardi e mezzo di euro. All'inizio la missione aveva un costo annuo medio di circa 300 milioni di euro, ma oggi - con il progressivo invio di più uomini e mezzi - supera ampiamente il mezzo miliardo (il che significa quasi un milione e mezzo di euro al giorno).
Per la tanto propagandata ricostruzione dell'Afghanistan, l'Italia ha speso finora circa 40 milioni di euro.

Distruggere o ricostruire? Queste cifre, che su scala maggiore sono le stesse per gli Stati Uniti e gli altri alleati, sono il frutto della strategia adottata dalla Nato in Afghanistan, soprattutto negli ultimi anni. Nel dicembre 2007 il capo del Pentagono, Robert Gates, dichiarò che in Afghanistan la Nato deve spostare la sua attenzione dallobiettivo primario della ricostruzione a quello di condurre una classica controinsurrezione. E così è stato. Si è deciso che prima bisognava vincere la guerra e sconfiggere i talebani, e solo poi ricostruire il paese. Come nella seconda guerra mondiale spiegava recentemente nel dibattito di Firenze lanalista militare Gianandrea Gaiani prima si sconfissero i nazisti, poi si ricostruì lEuropa con il piano Marshall.
Io non condivido questa sequenza, prima la sicurezza e poi ricostruzione, gli aveva ribattuto il generale Fabio Mini, ex comandante delle truppe Nato in Kosovo. Oggi la sicurezza in Afghanistan non è assicurata da nessuno, tanto meno dalle forze militari straniere. Controllare il territorio significa avere il consenso della gente. Noi non potremo mai avere sicurezza fino a quando non sarà garantita la sopravvivenza agli afgani. Cè bisogno di ricostruire lAfghanistan, anzi, di lasciarlo costruire a chi ha le forze: ai civili. Lasciamo perdere i militari.

I rischi per i soldati. Fino a tre anni fa le truppe italiane schierate in Afghanistan erano concentrate a Kabul, dove la situazione era ancora molto tranquilla, e non svolgevano azioni di combattimento - se si escludono le forze speciali della Task Force 45 impegnate nell'operazione segreta Sarissa'.
Dall'estate del 2006, con spostamento del contingente stato nelle regioni più calde' dell'ovest, sono iniziati i primi scontri con i guerriglieri talebani, ufficialmente solo difensivi'. Dal gennaio 2009 le truppe italiane, mutate nella loro composizione (non più alpini e bersaglieri ma solo parà della Folgore), cresciute di numero (quasi 3 mila) e dotate di mezzi più aggressivi (carri armati ed elicotteri da combattimenti), hanno ufficialmente iniziato le azioni offensive' penetrando in zone controllate dai talebani (Farah e Badghis). Da allora i soldati italiani sono quotidianamente impegnati in azioni di combattimento e in vere e proprie battaglie nelle quali hanno ucciso centinaia di guerriglieri.
Anche le truppe rimaste a presidiare Kabul, ormai accerchiata e infiltrata dai talebani, si sono trovate esposte a imboscate e attacchi, sia fuori che dentro la capitale.

Enrico Piovesana

 

Complotto sotto il mare

di Riccardo Bocca

Rifiuti tossici inabissati in mare. Con coperture eccellenti. In un giro di auto diplomatiche e soldi in Svizzera. Le nuove rivelazioni del pentito della 'ndrangheta che ha fatto trovare il primo relitto. Colloquio con Francesco Fonti

L'ex boss della 'ndrangheta Francesco Fonti è soddisfatto e amareggiato allo stesso tempo. "Per anni nessuno ha voluto ascoltare quello che dicevo ai magistrati. Ho sempre ammesso di essermi occupato dell'affondamento di navi cariche di rifiuti tossici e radioattivi. Ho indicato dove cercare: al largo di Cetraro, nel punto in cui il 12 settembre la Regione Calabria e la Procura di Paola hanno trovato a 480 metri di profondità un mercantile con bidoni nella stiva. Eppure, anche oggi che tutti mi riconoscono attendibile, devo affrontare una situazione assurda: vivo nascosto, senza protezione, con il pericolo che mi cerchino sia la cosca a cui appartenevo, sia i pezzi di Stato che usavano me e altri 'ndranghetisti come manovalanza". L'altra sera, aggiunge Fonti, "mi ha telefonato Vincenzo Macrì, il consigliere della Direzione nazionale antimafia. Ha detto: "Speriamo che ora non ci ammazzino tutti?". Ecco di cosa stiamo parlando. Di vicende che puntano dritte al cuore della malavita internazionale e delle istituzioni". Nonostante questo, Fonti, trafficante di droga condannato a 50 anni di carcere, poi diventato collaboratore di giustizia, si sente sereno: "La mia è stata una scelta di vita: mi sono pentito perché ho avuto ribrezzo di quanto fatto da malavitoso, dopodiché succeda quel che deve succedere". Ecco perché non intende restare in silenzio. "Sono tanti i retroscena da chiarire", assicura. Tantopiù dopo sabato, quando è stato annunciato il ritrovamento lungo la costa cosentina della nave con i bidoni lunga circa 120 metri e larga una ventina: "In questo clima apparentemente più disposto alla ricerca della verità, voglio fornire un mio ulteriore contributo. In totale trasparenza. Senza chiedere niente in cambio, tranne il rispetto e la tutela della mia persona". Con tale premessa, Fonti squaderna storie di gravità eccezionale e con particolari che, ovviamente, dovranno essere vagliati dagli investigatori.

Il suo racconto parte dal 1992, quando l'ex boss spiega di avere affondato le navi Cunski, Yvonne A e Voriais Sporadais dietro indicazione dell'armatore Ignazio Messina. "Nel dossier che ho depositato alla Direzione nazionale antimafia (pubblicato nel 2005 dal nostro settimanale), ho scritto che in quell'occasione abbiamo inviato uomini del clan Muto al largo di Cetraro per far calare a picco la Cunski, mentre ho precisato che la Yvonne A era stata affondata a Maratea", dice Fonti: "Quanto alla Voriais Sporadais, indicai che a bordo aveva 75 bidoni di sostanze tossiche, ma non segnalai il punto esatto dell'affondamento. Oggi voglio precisare che la portammo al largo di Melito Porto Salvo, in provincia di Reggio Calabria, sulla costa jonica, e che a occuparsi materialmente dell'operazione fu il boss della zona Natale Iamonte ". Di più: "Lo stesso Iamonte", prosegue Fonti, "si è dedicato spesso allo smaltimento in mare di scorie tossiche. Specialmente quelle che provenivano da ditte chimiche della Lombardia". Nel caso della Voriais Sporadais, precisa, accadde tutto in una notte autunnale del 1992: "Io e il figlio di Natale Iamonte, di cui non ricordo il nome, salimmo sul motoscafo con un terzo 'ndranghetista che guidava e aveva una cassetta di candelotti di dinamite. Arrivammo al limite delle acque territoriali, montammo sopra la nave, facemmo portare a riva il capitano e l'equipaggio, dopodiché piazzammo i candelotti a prua e sparimmo indisturbati".

Fonti non ha problemi ad ammetterlo: "Era una procedura facile e abituale. Ho detto e ribadisco in totale tranquillità che sui fondali della Calabria ci sono circa 30 navi". E non parla per sentito dire: "Io ne ho affondate tre, ma ogni anno al santuario di Polsi (provincia di Reggio Calabria) si svolgeva la riunione plenaria della 'ndrangheta, dove i capi bastone riassumevano le attività svolte nei territori di loro competenza. Proprio in queste occasioni, ho sentito descrivere l'affondamento di almeno tre navi nell'area tra Scilla e Cariddi, di altre presso Tropea, di altre ancora vicino a Crotone. E non mi spingo oltre per non essere impreciso". Ciò che invece Fonti riferisce con certezza, è il sistema che regolava la sparizione delle navi in fondo al Mediterraneo. "Il mio filtro con il mondo della politica è stato, fin dal 1978, un agente del Sismi che si presentava con il nome Pino. Un trentenne atletico, alto circa un metro e ottanta con i capelli castani ben pettinati all'indietro, presentatomi nella Capitale da Guido Giannettini, che alla fine degli anni Sessanta aveva cercato di blandirmi per strapparmi informazioni sulla gerarchia della 'ndrangheta. Funzionava così: l'agente Pino contattava a Reggio Calabria la cosca De Stefano, la quale informava il mio capo Romeo, che a sua volta mi faceva andare all'hotel Palace di Roma, in via Nazionale. Da lì telefonavo alla segreteria del Sismi dicendo: ?Sono Ciccio e devo parlare con Pino?. Poi venivo chiamato al numero dell'albergo, e avveniva l'incontro" Il contenuto degli appuntamenti, era sempre simile. "L'agente Pino mi indicava la quantità di scorie che dovevamo far sparire ", spiega Fonti, "e mi chiedeva se avessimo la possibilità immediata di agire". La maggior parte delle volte, la risposta era positiva. Ed era un ottimo affare: "Si partiva da 4 miliardi di vecchie lire per un carico, e si arrivava fino a un massimo di 30". Soldi che venivano puntualmente versati a Lugano, presso il conto Whisky all'agenzia Aeroporto della banca Ubs, o in alcune banche di Cipro, Malta, Vaduz e Singapore. Tutte operazioni che svolgevamo grazie alla consulenza segreta del banchiere Valentino Foti, con cui avevamo un cinico rapporto di reciproca convenienza ". Quanto ai politici che stavano alle spalle dell'agente Pino, secondo Fonti, sarebbero nomi noti della cronaca italiana. "Mi incontrai più volte per gestire il traffico e la sparizione delle scorie pericolose con Riccardo Misasi, l'uomo forte calabrese della Democrazia cristiana", dice, "il quale ci indicava se i carichi dovessero essere affondati o seppelliti in territorio italiano o straniero. La 'ndrangheta, infatti, ha fatto colare a picco carrette del mare davanti al Kenya, alla Somalia e allo Zaire (ex Congo belga), usando capitani di nazionalità italiana o comunque europea, ed equipaggi misti con tunisini, marocchini e albanesi". Rimane l'incontrovertibile fatto, aggiunge Fonti, "che la maggior parte delle navi è stata fatta sparire sui fondali dei nostri mari ". Non soltanto attorno alla Calabria, "ma anche nel tratto davanti a La Spezia e al largo di Livorno, dove Natale Iamonte mi disse che aveva ?sistemato? un carico di scorie tossiche di un'industria farmaceutica del Nord".

E non è finita. Secondo Fonti, un altro politico di primo piano avrebbe avuto un ruolo nel grande affare dei rifiuti pericolosi. "Si tratta dell'ex segretario della Dc Ciriaco De Mita, indicatomi a metà Ottanta da Misasi per trattare in prima persona il prezzo degli smaltimenti richiesti dallo Stato". Stando al pentito, lui e De Mita si sono visti "tre o quattro volte" nell'appartamento del politico a Roma, dove il boss fu accolto "con una fredda gentilezza". Nella prima occasione, ricorda, "mi fece sedere in salotto e disse: ?Sono soltanto affari??; frase che mi ha ripetuto negli incontri successivi, come a sottolineare un profondo distacco tra il suo ruolo e il mio". Fatto sta, continua Fonti, che "concordammo i compensi per più smaltimenti ". Poi, quando l'affondamento o l'interramento delle scorie veniva concluso, "l'agente Pino ci segnalava la banca dove potevamo andare a riscuotere i soldi "?. Denari accreditati "su conti del signor Michele Sità, un nome di fantasia riportato sui miei documenti falsi. Andavo, recuperavo i contanti e li consegnavo alla famiglia Romeo di San Luca, dove ricevevo la mia parte: circa il 20 per cento del totale".

Da parte sua, l'ex segretario della Dc Ciriaco De Mita nega qualunque rapporto con Fonti: "Smentisco nella maniera più netta", commenta, "le affermazioni di una persona che non credo di conoscere. Porterò questo individuo innanzi al tribunale per rispondere penalmente e civilmente delle sue calunniose dichiarazioni". Vero è, specifica De Mita, "che Misasi era mio amico, e che abitava sotto di me, ma tutto il resto non ha assolutamente senso". Una replica alla quale seguono altri racconti dell'ex boss, che dopo il ritrovamento del mercantile sui fondali di Cetraro, non si limita a occuparsi dei retroscena di casa nostra, ma apre una pagina internazionale finora ignota sulla Somalia: "Avevo rapporti personali", dice, "con Ibno Hartomo, alto funzionario dei servizi segreti indonesiani, il quale contattava me e la 'ndrangheta per smaltire le tonnellate di rifiuti tossici a base di alluminio prodotte dall'industriale russo Oleg Kovalyov, vicino all'allora agente del Kgb Vladimir Putin". Un lavoro impegnativo per le dimensioni, spiega Fonti, gestito in due fasi: "Nella prima caricavamo le navi in Ucraina, a Kiev, le facevamo passare per Gibuti e le dirigevamo a Mogadiscio oppure a Bosaso. Nella seconda fase, invece, le scorie venivano affondate a poche miglia dalla costa somala o scaricate e seppellite nell'entroterra". Facile immaginare le conseguenze che tutto ciò potrebbe avere avuto sulla salute della popolazione. E altrettanto facile, secondo Fonti, è spiegare come le navi potessero superare senza problemi la sorveglianza dei militari italiani, che presidiavano il porto di Bosaso: "Semplicemente si giravano dall'altra parte", racconta il pentito. "Anche perché il ministro socialista Gianni De Michelis, che come ho già raccontato all'Antimafia gestiva assieme a noi le operazioni, era solito riferirci questa frase di Bettino Craxi: ?La spazzatura dev'essere buttata in Somalia, soltanto in Somalia?. Naturale che i militari, in quel clima, obbedissero senza fiatare". Allucinante? Incredibile? Fonti allarga le braccia: "Racconto esclusivamente episodi dei quali sono stato protagonista, e aspetto che qualcuno si esponga a dimostrare il contrario". Magari, aggiunge, "anche su un altro fronte imbarazzante: quello delle auto sulle quali viaggiavo per recuperare, nelle banche straniere, i soldi avuti per gli affondamenti clandestini dei rifiuti radioattivi". Gliele forniva "direttamente il Sismi", dice, "con la mediazione dell'agente Pino. Per salvarmi la vita, in caso di minacce o aggressioni, mi sono segnato il tipo di macchine e le matricole diplomatiche che c'erano sui documenti ". In un caso, "ho usato una Fiat Croma blindata con matricola VL 7214 A, CD-11-01; in un altro ho guidato un'Audi con matricola BG 146-791; e in un altro ancora, ho viaggiato su una Mercedes con matricola BG 454-602. Va da sé, che ci venivano assegnate auto diplomatiche perché non subivano controlli alle frontiere". Ora, dopo queste dichiarazioni, "i magistrati avranno nuovi elementi sui quali lavorare ", conclude Fonti. "Troppo facile e troppo riduttivo", sostiene, "sarebbe credere che tutto si esaurisca con il ritrovamento nel mare calabrese di un mercantile affondato ". Questa, aggiunge, non è la fine della storia: "È l'inizio di un'avventura tra i segreti inconfessabili della nostra nazione. Un salto nel buio dalle conseguenze imprevedibili".

 

17 settembre

Come ti nego i diritti di cittadinanza

di Domenico Gallo

Unicuique suum: a ciascuno il suo. E questo il motto che potrebbe essere applicato al c.d. pacchetto sicurezza, approvato con la legge n. 94/2009 , entrata in vigore l8 agosto.

Questa legge è un coacervo di misure discriminatorie e persecutorie nei confronti dei gruppi sociali più deboli. Se hanno suscitato qualche protesta le misure persecutorie più assurde nei confronti degli immigrati irregolari (come il reato di clandestinità, il divieto di matrimonio ed il divieto per le madri di riconoscere i propri figli), poca attenzione è stata rivolta alle norme discriminatorie riservate ad altri gruppi sociali. In realtà, per quanto possano apparire disomogenee le materie trattate, cè un filo conduttore che organizza le disposizioni in materia di sicurezza pubblica. C'è una logica in questa follia: tutto gravita intorno al principio delle discriminazione dei soggetti deboli. Se gli immigrati (regolari o irregolari) sono particolarmente vessati, non per questo il legislatore leghista si è dimenticato dei Rom, dei senza casa, e dei poveri in genere, ed ha dato a ciascuno il suo.

Per quanto riguarda il popolo Rom, a parte le misure penali di aggravamento dei reati connessi alla povertà, nel pacchetto sicurezza vi è una specifica disposizione discriminatoria, passata quasi inosservata. Si tratta della norma relativa alle iscrizioni anagrafiche (art. 1, comma 18).

Questa norma, nella sua versione originaria, in pratica, impediva ai poveri di ottenere l'iscrizione nei registri dell'anagrafe, subordinando l'iscrizione e la richiesta di variazione anagrafica alla verifica, da parte dei competenti uffici comunali delle condizioni igienico-sanitarie dell'immobile in cui il richiedente intendeva fissare la propria residenza. In questo modo decine di migliaia di famiglie povere avrebbero perso automaticamente - il diritto alla residenza. Si pensi, per es. alle migliaia di famiglie che ancora vivono nei bassi in una città come Napoli.

Ciò avrebbe comportato qualche problema con l'opinione pubblica, specie in quelle fasce sociali, più umili, che vivono ancora nel mito del berlusconismo.

Per questo la norma è stata cambiata alla Camera, con l'emendamento sul quale il Governo ha posto la fiducia.

Nella nuova versione i comuni non devono più accertare la sussistenza del requisito igienico sanitario dell'immobile, tuttavia l'iscrizione e la richiesta di variazione anagrafica possono dar luogo alla verifica da parte dei competenti uffici comunali delle condizioni igienico sanitarie dell'immobile.

Insomma ogni comune è libero a sua discrezione di non iscrivere nei registri anagrafici quelle persone che abitano in alloggi inadeguati. Quindi ogni comune è libero di scegliere quali poveri tenersi e quali buttare via.

In questo modo si è realizzata la quadratura del cerchio. Il requisito igienico sanitario dell'alloggio diventerà un ottimo strumento politico per selezionare le minoranze indesiderabili ed escluderle dal circuito della cittadinanza, senza mettere a rischio il consenso politico di cui gode l'attuale maggioranza.

Ci vuol poco a capire che questa minoranze indesiderabili per i cittadini del Bel Paese sono soprattutto, se non esclusivamente, i Rom. Chi vive in un campo nomadi è difficile che disponga di un alloggio dotato dei requisiti igienico-sanitari richiesti dalla norme vigenti. Conseguentemente costoro a discrezione dei sindaci possono perdere il diritto ad essere iscritti nell'anagrafe delle persone residenti.

Se non ché l'iscrizione nell'anagrafe delle persone residenti è presupposto indispensabile per l'esercizio dei diritti di cittadinanza. A partire dall'esercizio del diritto di voto, per finire all'iscrizione al Servizio Sanitario nazionale, alla scelta del medico di base ed all'iscrizione dei propri figli alla scuola dell'obbligo.

In conclusione, invece di rimuoverli, come impone lart. 3 della Costituzione, la legge utilizza gli ostacoli di ordine economico e sociale come pretesto per limitare - di diritto - la libertà e l'eguaglianza delle persone ed escludere dalla cittadinanza quelle minoranze destinate ad essere discriminate.

 

Schiavitù tra Cambogia e Malesia

Una tratta di di esseri umani destinata ad aumentare per colpa della crisi economica

scritto daMarcello Brecciaroli

Dalla Cambogia e dalla Thailandia partono ogni anno migliaia di uomini e donne attratti da un posto di lavoro in Malesia. Per compiere questo viaggio pagano cifre che vanno dai 5mila ai 13mila dollari a chi propone loro un impiego all'estero. La promessa di un lavoro domestico o in qualche fabbrica però si rivela presto una menzogna: a molti, non appena arrivati, viene confiscato il passaporto: da quel momento diventano fuorilegge e possono essere ridotti in schiavitù o avviati alla prostituzione.
La legge malese non fa differenza tra vittime del traffico di esseri umani e immigrati clandestini: fuggire dai propri aguzzini diventa dunque impossibile , perché il rischio è di finire nei campi di prigionia e magari essere nuovamente venduti ai trafficanti. Sul mercato degli esseri umani malese, infatti, un bambino vale circa 300 dollari, mentre un adulto quasi il doppio. Nel 2007 sono stati varati dei provvedimenti in alcune province che vietano ai lavoratori immigrati di lasciare il luogo di lavoro anche durante l'orario di riposo, proibiscono l'uso di cellulari e la guida di automezzi. Nello stesso anno è stata emanata anche una legge che punisce i trafficanti, ma gli osservatori internazionali sostengono che non serva a molto, visto che anche chi dovrebbe vigilare è coinvolto nella tratta. Nel luglio 2008 il Direttore generale per l'immigrazione malese e il suo vice sono stati arrestati per aver accettato tangenti dai trafficanti. Secondo fonti Onu la pratica sarebbe diffusa a tutti i livelli dell'amministrazione malese.
I migranti vengono adescati tra le popolazioni più povere dei sobborghi urbani di Phnom Phen e di altre città cambogiane, un bacino che, secondo l'Organizzazione Mondiale del Lavoro, è destinato ad aumentare di 200mila unità nel prossimo anno come effetto della crisi economica.
Questo trend è confermato anche dai dati forniti dal Ministero del Lavoro cambogiano che parla di un incremento del 150% degli espatri nei primi sei mesi del 2009.
L' agenzia dell'Onu per la tratta di esseri umani (Uniap) rivela in uno studio che le donne cambogiane si ritrovano spesso in schiavitù a causa dei debiti contratti. Nel Paese è presente una fitta rete di strozzinaggio, camuffata da micro-credito, gestita dagli stessi trafficanti di schiavi.
Tutti questi fattori sono catalizzati dalla crisi economica: in particolare il settore tessile ha risentito del calo delle esportazioni, causando dall'inizio dell'anno la perdita di oltre 40mila posti di lavoro.
In Malesia si trovano comunità di lavoratori immigrati provenienti da molte nazioni perché l'economia del Paese ha retto bene alla crisi. Nella maggioranza dei casi hanno un regolare permesso di lavoro, ma anche in questo caso le condizioni non migliorano poiché il visto viene sequestrato all'arrivo assieme al passaporto. Questa pratica è permessa dal governo Malese e nel rapporto Trafficking in Persons (Dipartimento di Stato Usa, giugno 2009), si rilevano numerosi legami tra l'amministrazione pubblica e la tratta di esseri umani.
Numerose testimonianze narrano di torture, stupri, somministrazione di droga, privazione del cibo e orari massacranti di lavoro che raggiungono le 18 ore giornaliere. I lavoratori vengono sfruttati fino allo sfinimento, come nel caso di Ganesh, un ragazzo birmano morto in ospedale il 27 di aprile, le cui foto hanno scioccato la popolazione malese.

 

I

 

Il miracolo dell'Aquila

E' un vero miracolo di efficienza quello dell'Aquila? Non sono possibili paragoni al mondo? Si sono abbattuti i costi e i tempi di reinsediamento? E' stata messa a frutto tutta l'esperienza accumulata in Italia nella gestione della fase della prima e della seconda emergenza? Sono domande utili a farsi. I dati storici e le comparazioni con gli altri eventi ci aiuteranno a stabilire la misura e la qualità della fatica realizzata.

Un avvertimento è d'obbligo: la comparazione è naturalmente limitata alla fase attuale dell'emergenza abruzzese. In Abruzzo la ricostruzione in cemento armato non è ancora iniziata; in Irpinia e in Molise non è invece mai finita producendo uno scandaloso spreco che Repubblica negli anni, non ha mai smesso di denunciare. Quindi ci fermiamo ad oggi. E puntiamo i fari unicamente sull'emergenza.

L'emergenza ha due fasi. Una prima, nelle ore immediatamente successive al sisma, e una seconda. Nella prima sono generalmente da considerarsi gli alloggiamenti in tende. Nella seconda la predisposizione di sistemi abitativi provvisori. I cosiddetti moduli. Essi possono avere due caratteristiche: essere del tipo "leggero" (containers e roulottes) e "pesanti" (casette in legno o in prefabbricato composto). I tempi di realizzazione di questi secondi, nella media nazionale stilata secondo i dati storici (terremoti del Friuli, di Campania e Basilicata, Umbria e Marche e infine Molise), sono di 211 giorni. Una media appunto: dalle prime consegne (in 62 giorni a San Giuliano di Puglia, alle ultime, con il completamento di tutto il piano di reinsediamento abitativo (360 giorni in Irpinia). Nel mezzo la progressiva e graduale sistemazione.

Se dunque volessivo davvero stilare una classifica delle prime case assegnate (m.a.p., moduli abitativi provvisori) con caratteristiche e in numero simili a quelli celebrati ad Onna, dovremmo segnalare questo ordine d'arrivo:

1) Molise (San Giuliano di Puglia), 30 moduli a 82 giorni dal sisma
2) Umbria, 30 moduli a 98 giorni dal sisma
3) Irpinia, 30 moduli a 105 giorni dal sisma
4) Abruzzo, 30 moduli a 116 giorni dal sisma

In effetti le prime case consegnate a L'Aquila datano 2 luglio, realizzate dalla provincia di Trento a Coppito e destinate al personale della Guardia di Finanza. I primi senzatetto ad essere ospitati abitano invece a San Demetrio e le hanno ricevute ("a tempo di record", ha scritto il Giornale) il 21 agosto. In estate infatti sono stati consegnati trenta moduli (21 a San Demetrio e 9 in località Stiffe).

Ritorniamo per un momento alla prima emergenza. Quel che segue è un raffronto tra il punto più alto dell'efficienza organizzativa (l'Abruzzo) e il punto più basso (l'Irpinia).

A L'Aquila sono state assistite circa 73mila persone nella settimana successiva al terremoto tra alberghi e tendopoli allestite. In quelle ore i temporaneamente sfollati (che hanno ricevuto solo cibo e cure) ammontano a più di centomila.

29 anni fa in Irpinia (l'area, ad esclusione del Friuli, più lontana da Roma, 340 chilometri dall'epicentro contro i 119 dell'Aquila) ma molto più grave per entità del danno e ampiezza geografica furono assistite 300mila persone circa. Duecentomila persone in tendopoli, ottantamila persone in roulotte, 20.900 persone in 451 alberghi. I temporaneamente sfollati (assistiti con cibo e cure sanitarie) ammontavano a circa 500mila. (Pubblicazione 18 marzo 1981, depositata alla Camera dei deputati).

I tempi di allestimento. 90 mila persone hanno trovato riparo in tendopoli entro sette giorni dal sisma (30 novembre-1 dicembre 1980). Altre 50mila entro 15 giorni dal sisma (5-8 dicembre 1980). Il resto della popolazione entro il 15 dicembre 1980.

I costi di reinsediamento. A L'Aquila si è deciso di saltare un passaggio che, nei precedenti storici, era ritenuto essenziale: la costituzione nella prima emergenza di roulottopoli e moduli abitativi in containers. La scelta ha avuto perciò un costo umano (la vita in tenda è durissima) ed economico.

L'assistenza completa per le persone ospitate soltanto in tendopoli è costata in sei mesi 114 milioni di euro. A ciò si devono aggiungere i costi in alberghi e in private abitazioni per il resto della popolazione. Proprio in questi giorni la Protezione civile sta rinegoziando con gli albergatori il prezzo del soggiorno (all inclusive) pro-capite: 50 euro a persona. Se questa cifra è esatta, per una famiglia di quattro persone si spendono circa 6mila euro al mese.

Il governo ha accettato questi costi e ha impegnato tutte le risorse disponibili (circa 700 milioni di euro) per la realizzazione delle C.a.s.e., abitazioni tecnologicamente avanzate ed ecocompatibili. Il loro completamento, previsto per fine dicembre 2009, permetterà di accogliere circa 4500 famiglie. Il costo a metro quadrato dell'abitazione (sono inclusi i costi di urbanizzazione primaria e secondaria) è di 2400 euro. Si deve ritenere che l'abitazione, sebbene durevole, sia comunque provvisoria perché gli assegnatari sono titolari di un distinto contributo per la ricostruzione in cemento della propria casa distrutta.

Sono circa tredicimila le famiglie ad oggi senzatetto. E molte di esse dunque devono essere ancora per molto tempo assistite altrove.

In Irpinia, quindi nel luogo dove più bassa è stata la capacità organizzativa e realizzativa, il piano di reinsediamento aggiornato al 30 giugno 1981 - in tempi dunque analoghi a quelli previsti per L'Aquila - prevedeva la installazione di 13.500 prefabbricati pesanti (simili a quelli consegnati a Onna e che oggi vengono chiamate case) nei 36 comuni del cratere e altri 10mila nei 76 comuni dell'area extraepicentrale. Il costo al metro quadro attualizzato (al netto però delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria che incidono per il 20-30 per cento) è di mille euro.

Al 15 novembre 1981, circa un anno dopo il sisma, il piano di reinsediamento, in ritardo sul cronoprogramma di circa 45 giorni, sono stati completati e consegnati, su 25586 prefabbricati, 18462 alloggi monoblocco con finanziamenti pubblici. A cui si aggiungono 2248 prefabbricati donati da enti vari e già consegnati.


 

16 settembre


Riforma sanitaria, il caso degli immigrati irregolari

Si infuoca il dibattito negli Usa. Niente cure per i sans papier. Ma alcuni ospedali californiani li curano da anni

La riforma sanitaria promessa dal presidente Usa Barack Obama ha acceso nel Paese un dibattito infuocato. Migliaia di persone sono scese in piazza la scorsa settimana contro quella che molti statunitensi vedono come una riforma che demolirà il pilastro dell'Health Care americana, ovvero il suo carattere di sanità a pagamento. Un'ulteriore allarme è scaturito dopo che, nonostante le rassicurazioni del presidente al Senato, un membro del Partito Republicano, Joe Wilson della South Carolina, ha urlato "Bugiardo!" dopo che Obama ha assicurato che i residenti irregolari non verranno coperti in nessun modo dal nuovo sistema sanitario. E' la prima volta che un senatore rompe con il bon ton istituzionale in una Camera statunitense, e il "You lie" è risuonato come il grido di rivolta di un intero settore della società che, se è pronto a dare battaglia perchè una sanità pubblica non passi, è ancora più bellicosa se questa potrebbe includere anche la minima forma di assistenza all'illegal alien, il residente illegale.

Questo perchè sempre più cittadini e immigrati regolari stanno perdendo la loro copertura sanitaria. La logica è ferrea, almeno in apparenza: sono entrati illegalmente, non si adeguano alle leggi degli Stati Uniti, non possono profittare dei benefici di un sistema sostenuto dai dollari dei contribuenti.

Secondo una lunga tradizione di politica sanitaria federale, chi è illegale negli Stati Uniti non può fare domande per i programmi federali. La riforma segue questo caposaldo. Con limitate eccezioni (il Medicaid offre una'assistenza di emergenza a donne incinte e bambini, e alcuni ospedali hanno fondi privati, quindi politiche autonome), i dollari federali non finanziano cure sanitarie per chi è illegale. La riforma di Obama esclude esplicitamente 'stranieri senza documenti' dai benefici e dai programmi finanziati dal sistema sanitario federale. Ma per alcuni, sarebbe necessario includere nel pacchetto di riforma dei meccanismi ad hoc per monitorare i sans papier e verificare che non possano in nessun modo rientrare, o intrufolarsi, nella copertura.

Vi è tuttavia chi si oppone allo screening, con la motivazione che tali controlli aggiungerebbero un ulteriore agravio di costi e burocrazia e potrebbero persino lasciar fuori cittadini americani regolari che per un motivo o l'altro non hanno la necessaria documentazione. Inoltre, negare a un segmento della popolazione la copertura sanitaria fedeale potrebbe incrementare i costi della medicina d'urgenza e aumentare i rischi di malattie contagiose tra la popolazione. "Che qualcuno debba o non debba essere in questo Paese è un argomento che non c'entra nulla. Non ci possono essere sottogruppi delle popolazione che non hanno accesso alla sanità, perchè questo è un danno per il benessere di tutta la comunità", spiega Patrick Duterte, direttore del dipartimento della salute e dei servizi sociali nella contea di Solano, California.

Duterte ha una certa farmilarità con il dibattito sulla sanità per gli irregolari perchè in una clinica di Vallejo, nella contea, sta succedendo qualcosa di molto particolare. Un giudice ha raccomandato alla contea di smettere di usare i soldi pubblici per pagare l'assistenza agli immigrati irregolari nelle cliniche di urgenza, nello specifico la numero 26, in una rete di quaranta strutture appartenenti al network La Clinica de la Raza, che da 40 anni opera nello Stato al confine con il Messico. I fondi della contea finanziano la clinica, che cura, tra gli altri, anche gli irregolari. Questo perchè i funzionari sanitari non chiedono al paziente la cittadinanza. La clinica 26 ha aperto in novembre per alleggerire il peso delle sale di terapia d'urgenza degli ospedali gemelli, il Kaiser Permanente e il Sutter Solano. Entrambi pagano 100 mila dollari in tre anni per finanziare la clinica numero 26. Ma sono i quattrini della contea, 250 mila dollari di start-up più 256 mila in tre anni, che hanno fatto storcere il naso al giudice. La commissione sanitaria della contea di Solano esaminerà il caso la prossima settimana.

Con un accesso limitato alla copertura sanitaria, chi non è assicurato è costretto a rivolgersi all'opzione più costosa: il pronto soccorso degli ospedali. Ma ci sono ospedali di alcune contee che forniscono cure d'urgenza a chiunque, senza tener conto della cittadinanza del paziente o della sua disponibilità a pagare. Alcuni fondi federali sono accantonati per strutture che forniscono assistenza a un numero sproporzionato di pazienti.

Questo accade perche i vincoli statali e locali (delle contee) non sono così rigidi come quelli federali. Mentre gli immigrati illegali sono esclusi dal programma Medicaid (per accedervi occorre rientrare in particolari categorie di reddito, età, situazione familiare o avere elevate spese mediche), salvo che per situazioni di stretta emergenza, a Stati e contee è consentito allargare l'offerta sanitaria sia ai poveri che agli irregolari. Con fondi sia statali che locali. Alcune contee estendono tale copertura agli immigrati regolari (che tuttavia non possono beneficiare di Medicaid per i primi 5 anni nel Paese). Altre contee, come quella di Solano fanno di più. Tuttavia, con la crisi di bilancio, altre contee californiane come quella di Costa, Yolo e Sacramento, ha tagliato i fondi per gli immigrati irregolari. "L'immigrazione è un problema? - si chiede Jane Garcia, direttrice della Clinica de la Raza - Ma è un problema che non si risolve con una riforma sanitaria".

Gli immigrati irregolari della California, 2,7 milioni, non hanno beneficiato di copertura sanitaria lo scorso anno. Più del doppio degli immigrati regolari. Quattro volte tanto i residenti di nazionalità americana.

Luca Galassi

 

Regime a reti unificate

Vespa e papi fanno flop!

di Alessandro Robecchi

Non solo in politica ci sono i farabutti. Non solo nella stampa ci sono i farabutti. Non solo in tivù ci sono i farabutti. Silvio Berlusconi e il fido servitore Bruno Vespa si sono accorti ieri sera che moltissimi italiani sono farabutti e non hanno più intenzione di farsi fregare. Un misto di minacce, intimidazioni, insulti e menzogne, questo è stato lo spettacolo indegno di ieri sera a Porta a Porta, dove il capo del governo è corso a prendersi i meriti di altri, a inaugurare casette per terremotati pagate da altri e costruite da altri. E naturalmente, secondo il suo stile, a insultare gli avversari e a mentire. Dopo aver preteso e ottenuto lo spostamento di una trasmissione concorrente (Ballarò) e dopo aver ordinato lo slittamento di una trasmissione sua (Matrix), la coppia diabolica Bruno-Silvio ha fatto una solenne figura di merda: 13,47 per cento in prima serata su Raiuno. Appena 3.219.000 spettatori, molti dei quali orripilati da quello spettacolo indegno. Uno share con cui qualunque altro programma sarebbe chiuso e cacciato a calci nel culo (la media di Porta a Porta in prima serata è del 18,30 per cento). Un vero disastro. La gente ha preferito guardare Garko su Canale Cinque (5.750.000 spettatori, 22,61 di share), che almeno non è asfaltato in testa, mente un po di meno, è alto e non insulta la gente.
Ora due semplici domande:
1) Possiamo permetterci di avere un premier che va in giro a dire di avere un gradimento del 70 per cento e poi in prima serata senza concorrenza (perché viene chiusa) fa solo io 13? Dove è finito il 57 per cento di italiani che manca allappello?
2) Possiamo permetterci (con i nostri soldi) di pagare 1.187.000 (un-milione-cento-ottasette-mila) euro allanno un conduttore che non sa fare le domande e che fa ascolti tanto mediocri che chiunque li facesse a Raiuno in prima serata sarebbe cacciato?

Nella foto, Bruno Vespa in atteggiamento di professionale distacco accanto al capo del governo, che è anche leditore dei suoi libri, che è anche il suo editore a Panorama, che è anche il padrone delle tivù concorrenti, che è anche quello che nomina i vertici di Raiuno, che è anche quello che dice che in Italia cè molta libertà di stampa.

 

 

 

Supermarket super flop

di Stefano Livadiotti

L'inflazione è a quota zero. E gli scenari sono due: o i prezzi impazziranno o i consumi crolleranno. Le previsioni della Coop per i prossimi cinque anni

Il pacchetto di sigarette, il canone di affitto e il conto del ristorante continuano a rincarare. Gli effetti negativi sull'inflazione sono però bilanciati dal crollo dei listini dei cellulari, dei biglietti aerei e dei carburanti. Così, l'inflazione, per la prima volta nella storia dell'Italia moderna, è finita a quota zero (dopo l'impennata al 3,3 per cento del 2008: massimo del decennio). E da questa soglia non si discosterà di molto nei prossimi cinque anni, nel corso dei quali dovrebbe far registrare una crescita compresa tra l'uno e il due per cento ogni dodici mesi. È lo scenario sui cui scommette il rapporto 2009 della Coop, l'Associazione nazionale delle cooperative di consumo della Lega, presentato giovedì 10 a Milano.

Lo studio, 228 pagine ricche di grafici e tabelle messe a punto con la collaborazione del Ref (Ricerche per l'economia e la finanza), non lascia molto spazio all'ottimismo. Finora, è la tesi di fondo, il costo della crisi s'è scaricato quasi per intero sul bilancio dello Stato e su quelli delle imprese, che hanno pagato il conto accettando una forte riduzione dei margini di guadagno e scongiurando il ricorso a licenziamenti di massa. In questo modo, le famiglie, invece, sono state investite solo di striscio e, se i salari di fatto (addirittura negativi nel privato) sono risultati nettamente inferiori a quelli contrattuali, il raffreddamento dei prezzi ha comunque salvaguardato il loro potere d'acquisto (il reddito reale disponibile è sceso dello 0,4 per cento). Lo schema, però, non può reggere a lungo. E, a seconda di come verrà ridisegnato, potrebbero presentarsi due scenari alternativi: quello di una forte ripresa dell'inflazione (una sorta di tassazione occulta a favore del bilancio pubblico e di quelli delle aziende) o, viceversa, quello di una deflazione, con un'aspettativa di continui ribassi dei listini che spinge a rinviare gli acquisti e decapita i consumi.

La parte centrale del rapporto fa il punto sulla dinamica dei prezzi. "La prima metà del 2009 ha visto una discesa assai repentina dell'inflazione, che si è dapprima portata verso l'uno per cento nei mesi primaverili, per poi piombare fino a zero in quelli estivi. A spiegare l'ulteriore ripiego è ancora la discesa dei costi dell'energia (meno 8 per cento nel primo semestre del 2009), con un passaggio di testimone dai prodotti energetici, carburanti e combustibili, alle tariffe dell'energia elettrica e del gas".

Ma il contributo al raffreddamento dei listini non è venuto solo dal barile. Anche il carrello del supermercato (più 5 per cento nel 2008) ha fatto la sua parte: "L'inflazione alimentare si è dimezzata nell'arco di sei mesi, da valori prossimi al 4 per cento di inizio anno fin sotto al 2 per cento in primavera, per poi marciare verso l'uno per cento nei mesi estivi" (più 2 per cento il saldo semestrale). Ma la vera novità è un'altra: la discesa ai minimi storici dell'inflazione nei servizi (dai costi per le attività di ricreazione a quelli per la casa, dai trasporti alla sanità, dal settore finanziario e assicurativo a quello alberghiero e della ristorazione). Conseguenza dell'innovazione tecnologica che ha accresciuto la concorrenza, dice il rapporto citando l'esempio delle opportunità di confronto offerte da Internet a chi deve prenotare una stanza d'albergo o un biglietto aereo. Risultato: "valori sotto al 2 per cento dell'inflazione nei servizi rappresentano già un'esperienza nuova per il nostro paese. I servizi, insieme ai beni industriali non alimentari, costituiscono infatti da sempre il nodo strutturale della maggior inflazione italiana rispetto ai partner comunitari".

Una sola la voce che viaggia in controtendenza rispetto alla generale moderazione dei prezzi al consumo: le tariffe pubbliche. "Dai pedaggi autostradali ai trasporti ferroviari e marittimi, fino alle forniture idriche e alla raccolta e smaltimento dei rifiuti, i corrispettivi dei servizi pubblici mostrano un diffuso fermento. Un'evidenza che in taluni casi è l'esito del taglio dei trasferimenti agli enti locali e in altri della necessità di finanziare gli investimenti necessari a migliorare la qualità del servizio". Per le tariffe a controllo locale il primo semestre dell'anno si è chiuso a quota più 2,7 per cento. Dal momento che i servizi di pubblica utilità rientrano nel capitolo della spesa incomprimibile, avverta il rapporto Coop, l'aumento del loro costo si traduce per le famiglie in una perdita secca di potere d'acquisto.

 

 

Piegati dalla siccità

"E' una tragedia di dimensioni storiche", ha dichiarato il presidente

Un'intensa siccità nella regione chiamata Corredor Seco mette in ginocchio il Guatemala. Gli alimenti base diventano insufficienti e Álvaro Colom dichiara lo stato di calamità naturale e punta il dito contro i governi precedenti: è colpa di chi lo ha preceduto - questo è il suo parere - se adesso il governo non ha le risorse per affrontare questa crisi è colpa delle precedenti politiche miopi, non improntate sul garantire la sicurezza alimentare.

"Ho deciso di far uso della legge di ordine pubblico e dichiarare lo stato di calamità pubblica in tutto il territorio nazionale, perché le conseguenze dell'insufficienza alimentare e nutrizionale colpirà l'intero territorio". Queste le parole di Colom nel messaggio a reti unificate rilasciato nella notte tra martedì e mercoledì. Centinaia di comunità sono in piena emergenza, specialmente nei sette dipartimenti che compongono, appunto, il Corredor Seco, nella regione orientale: Jalapa, El Progreso, Zacapa, Chiquimula, Jutiapa, Santa Rosa e Baja Verapaz.

Secondo il capo di stato guatemalteco, l'insufficienza alimentare e nutrizionale, comsì come la denutrizione, sono, appunto, un problema strutturale nel paese, prodotto delle inefficienti politiche precedenti, che non hanno che impoverito la società. "Grazie a questa mia dichiarazione - ha specificato Colom - potremo avere sia accesso alle risorse che la cooperazione internazionale offre in questo tipo di situazioni, sia metter mano ai fondi del budget nazionale con maggiore agilità".
"Mi appello a tutti i settori della società affinché tutti contribuiamo a far fronte a questo grave problema", ha specificato.

Al di là delle parole, istituzionali e non, è la morte di 462 persone in sei mesi a parlare chiaro e forte. Di questi 54 sono bambini. E tutti risiedevano nelle zone più desolate del Guatemala. A essere minacciate sono adesso 54mila famiglie, ma entro la fine dell'anno si potrà raggiungere la drammatica cifra di 450mila famiglie sotto la soglia di povertà. E questo secondo le stime del ministero della Sanità.

Qualche ora prima dell'annuncio presidenziale, il Programa Mundial de Alimentos (PMA) ha iniziato a distribuire venti tonnellate di gallette in 164 comunità colpite. "E' una tragedia di dimensioni storiche", precisa Colom.

Stella Spinelli

 

 

Anche nel cuore delle città c'è un paesaggio da difendere

La nuova campagna di Italia Nostra: il simbolo è l'Aquila degrado e abusi, decine di città coinvolte

di VINCENZO FOTI

La chiesa delle anime sante all'Aquila
ROMA - Consumo del suolo, alterazioni del tessuto urbano e sociale, disordine edilizio, degrado, traffico, inquinamento dell'aria, caos acustico e visivo, emergenza rifiuti. Sono queste le principali minacce per il futuro delle nostre città, piccole e grandi.
Se ne occupa Italia Nostra, che domani a Roma presenterà la Giornata Nazionale dei Paesaggi Sensibili.

I paesaggi sensibili sono quella parte di patrimonio naturale, culturale e artistico che nel nostro Paese rischia di scomparire perché messo in pericolo dall'incuria, dalla speculazione edilizia e dai progetti non sostenibili o falsamente sostenibili (come quello di abbattere oltre 500 querce secolari in Sila, in una zona protetta dall'Ue, per trarre energia dalle biomasse, in merito al quale Italia Nostra sta già protestando).

L'anno scorso la mappa dei paesaggi sensibili ha interessato oltre cinquanta località di pregio, dallo Stretto di Messina all'Appia Antica, dalle Cinque Terre alla Murgia materana, dal Delta del Po alla Necropoli di Tuvixeddu, vicino a Cagliari.

Nel 2009 Italia Nostra dedica la sua campagna nazionale alle città considerate nel loro complesso, dal nucleo originario fino alle periferie che oggi si ingrandiscono sempre di più ma che stentano a diventare autonome dal centro. La Carta di Gubbio, i cui principi furono fissati nel 1960 da un gruppo di architetti, urbanisti, giuristi e amministratori pubblici, considera il centro storico come un monumento che va restaurato e conservato: ecco perché, a partire da sabato 19 settembre, meta delle visite di Italia Nostra saranno proprio i centri urbani.


L'associazione propone, in oltre 40 località italiane, decine di eventi volti a promuovere la conoscenza del territorio e a valorizzare la difesa del paesaggio e del patrimonio culturale. Da Palermo a Cosenza, da Brindisi a Matera, da Roma a Siena, da Lucca a Bologna, da Ferrara a Padova, da Brescia a Torino, da Grosseto a Perugia, da Treviso a Trieste, Italia Nostra denuncerà le situazioni di degrado, le alterazioni del tessuto urbano e del profilo volumetrico, l'espulsione dal centro delle funzioni abitative nonché delle attività artigianali e industriali tradizionali. Per non parlare della congestione da traffico e dalla permanenza di attività improprie e invasive, dell'inquinamento visivo e acustico, della situazione degli spazi pubblici, della mancanza di decoro urbano.

Particolarmente interessata L'Aquila, eletta città-simbolo della campagna nazionale: Italia Nostra ha infatti dichiarato il suo centro storico, distrutto dal sisma del 6 aprile, 'monumento di cultura urbana su cui intervenire con un piano completo di restauro e recupero integrale.

Le altre località interessate dal progetto sono Alessandria, Cagliari, Caltanissetta, Campobasso, Cascina (Pisa), Colfiorito (Perugia), Crotone, Faenza, Firenze, Giulianova, La Spezia, Oristano, Sassari, Siena, Siracusa, il Tigullio, Trento, Verbania, i comuni del lago Maggiore, Edolo, Bergamo, Brisighella, Savona, Sarzana.

Il catalogo dei paesaggi più minacciati e il calendario degli appuntamenti saranno illustrati domani mattina, nella sede romana dell'associazione (viale Liegi 33) dal presidente Giovanni Losavio e dal segretario generale Antonello Alici.

 

 

11 settembre

 

Dopo il caso Gabanelli, contratto in ritardo per Fazio. Rinvii e direzione sotto scacco. Il direttore della rete: "Puntano su una tv McDonald, tutta uguale. Ed è un grave errore"

La destra all'assedio finale del fortino rosso di Raitre

L'ironia della Littizzetto: "Non capisco dove Silvio veda da noi tutto 'sto comunismo"

di GOFFREDO DE MARCHIS

Fazio e Littizzetto a "Che tempo fa"
ROMA - Un editto soft, una goccia cinese che scava la roccia fino all'obiettivo finale: addomesticare la Gabanelli, Fazio, la Littizzetto, Bertolino, "Parla con me", ridimensionare, cancellare forse. Silvio Berlusconi l'ha anche detto: quei programmi di Raitre non mi piacciono.
Senza i toni concitati di Sofia, ma l'ha detto. E da tempo il direttore generale Mauro Masi lavora per trovare un sostituto di chi Raitre la dirige con quei volti, con quegli artisti. Gioca di sponda, propone nomi su nomi, cerca professionisti dal curriculum impeccabile. Non spiega esattamente per quale motivo, ma va sostituito Paolo Ruffini, che gestisce la baracca da sette anni. Il resto, la normalizzazione dei programmi sgraditi, verrà da sé. "Dove lo vede Silvio tutto questo comunismo a Raitre, cosa c'è di anormale? Se il problema è che Fazio è un uomo e io una donna, ci operiamo. Così rientriamo nei loro canoni di normalità", scherza Luciana Littizzetto, appuntamento fisso del week-end di Che tempo che fa, pubblico trasversale, risate a sinistra e a destra. Magari questo dà fastidio.

La Rai della nuova era Berlusconi non vuole mandare nessuno a Casablanca, ma qualcuno a casa sì. Il pressing sul Partito democratico per avvicendare i vertici di Tg3 e Raitre e incrinare un'identità non è solo un'indiscrezione. Comunque ci sono anche gli indizi, i dati di fatto: l'intenzione resa esplicita da Masi di togliere la tutela legale a un programma di inchiesta che giocoforza si porta dietro grane su grane come "Report". E un giallo finora rimasto sottotraccia su "Che tempo che fa". Il contratto tra Rai e Endemol, la produzione del programma, non è ancora stato firmato. Un ritardo che appare poco tecnico e molto politico a sole tre settimane dalla messa in onda (3 ottobre).

Il senso di Raitre secondo Fazio è "mettere in luce la vera funzione del servizio pubblico: che è somma di voci, non sottrazione. È scambio di idee, pluralità, polifonia in una grande azienda culturale". L'idea di chiudere qualche bocca (e qualche programma) "mi sembra ancora prima che sbagliata anti-moderna. La televisione di tutti deve far parlare tutti anziché limitarsi a non dire niente".

Semmai la critica rivolta a Fazio è quella di essere troppo moderato, poco cattivo, accomodante. "Ma capisco l'imbarazzo di alcuni. Da noi si respira un'aria di libertà, per altri invece è scontato che i programmi si costruiscano sentendo le segreterie dei partiti".

Il paradosso dello scontro campale giocato sulla pelle di Raitre è che tutti i programmi sono ormai in rampa di lancio. "Parla con me" scatta il 29 settembre, "Report" cascasse il mondo, anche senza copertura legale, l'11 ottobre, Fazio la settimana prima. Ruffini gira come una trottola per le conferenze stampa della nuova stagione. Poi torna in trincea, nell'ufficio al primo piano di Viale Mazzini. Non pronuncia mai la parola censura, ma difende il carattere della rete che fu del maestro Guglielmi, il suo essere portabandiera del servizio pubblico. "Un'offerta multipla arricchisce la Rai, non la penalizza.

Il pluralismo è patrimonio collettivo", dice Ruffini. E se la direzione generale la pensa diversamente, commette un errore. "Perché fare delle tre reti un indistinto omogeneizzato? Avremmo l'effetto McDonald, che ha gli stessi panini in tutte le parti del mondo".

Dicono le malelingue che un ottimo uomo Rai come Giovanni Minoli sarebbe disposto a ridimensionare i volti noti e di successo della rete, sbarcando al posto di Ruffini. Dicono che non si preoccupi dell'opposizione dei consiglieri del Pd, pronto a incassare soltanto i voti della maggioranza. Ma dagli artisti, ai dirigenti e ai 100 lavoratori della terza rete, Ruffini continua a ottenere in queste ore sostegno e riconoscimenti che superano persino la prova del settimo anno di vita in comune.

Il direttore di Raitre sarà in piazza il 19 per la libertà di stampa. Anche Milena Gabanelli parteciperà. Con l'occhio sempre attento allo sviluppo della trattativa con la Rai per la tutela legale. "Report" punta allo scudo di Viale Mazzini perché se si crede in un prodotto lo si difende, altrimenti lo si cancella. E la filosofia della stakanovista Gabanelli è che delle due l'una: o si lavora pancia a terra a caccia di scoop o si perde la giornata a parlare con gli avvocati. "Ruffini - racconta Fazio - ha sempre garantito a me e alla mia squadra condivisione del progetto e assoluta autonomia. Sono elementi essenziali di qualsiasi lavoro, compreso il nostro".

Eppoi gli ascolti di Raitre vanno bene, dunque la "prima domanda non è chi al posto di chi, ma perché. Perché bisogna cambiare?". Per creare un coro monocorde al servizio del pensiero unico berlusconiano? "Nel servizio pubblico devono esserci tante verità - dice Ruffini - . Questa è la sua missione, nel rispetto degli spettatori, dell'editore, delle persone. Si vuole invece una verità di Stato? Allora siamo in Unione sovietica".

La Littizzetto, con la sua leggerezza, spiega bene cosa non va nell'assedio al fortino di Raitre. Per la comica c'entra la politica sì, ma anche "una grande confusione del Paese in cui nessuno si fida di nessuno e proliferano i più realisti del re". Gli ospiti di "Che tempo che fa" davvero importanti, davvero graditi dal pubblico non sono i Prodi, i Veltroni, gli esponenti della sinistra che secondo i falchi del Pdl occupano le poltrona bianca di fronte a Fazio senza contraddittorio e senza un bilanciamento di ospiti a destra. "Il nostro merito è di mettere in onda volti nuovi, assolutamente spiazzanti. Ceronetti non ha niente di televisivo, è un personaggio inconsueto, fuori dal coro e dal circuito. Eppure la sua presenza dà i brividi". L'"alto" dello scrittore torinese, il "basso" delle battute fulminanti della Littizzetto pochi minuti dopo. Anche questa è Raitre. "A Ruffini darei il Telegatto", esclama Luciana. Ma i vertici della Rai appoggeranno la candidatura?

 

Le dotazioni non rispondono ai criteri di legge, è giallo Il Viminale ne ritira 4000, perdita di 4 milioni di euro

Fucili e revolver sono fuori norma la polizia disarma i corpi speciali

di ROMINA MARCECA

PALERMO - Mille fucili a pompa Benelli, tremila revolver Ruger e centinaia di carabine Winchester in dotazione ai reparti speciali del Viminale devono essere ritirati perché non sono regolamentari e dunque non possono essere impiegati nelle operazioni di polizia. È una decisione senza precedenti, che ha creato un certo imbarazzo al Viminale, costretto da una precisa norma di legge a togliere le armi a poliziotti specializzati in operazioni antimafia o a tiratori scelti, ma anche agli agenti del reparto volanti. Il provvedimento è ormai ufficiale: una circolare della Direzione centrale dei servizi tecnico-logistici del ministero dell'Interno diramata a fine agosto alle 105 questure d'Italia precisa che le armi non rispondono alle direttive del Dpr 359 del 1991 che regolamenta "i criteri dell'armamento del personale della polizia di Stato" e ne dispone l'immediata restituzione all'Ufficio tecnico logistico di ciascuna questura.

Le armi da dismettere sono state consegnate alle questure tra il 2000 e il 2001. La circolare che ne ordina il ritiro ammette, però, che "le armi potranno essere impiegate in particolari circostanze stabilite dal ministro dell'Interno". Pistole e fucili non saranno sostituiti, almeno per il momento. In termini economici la dismissione si traduce in una perdita di oltre 4 milioni di euro (1,3 milioni per i fucili e 2,1 milioni per i revolver). Tutto questo dopo che la Finanziaria 2009 ha previsto un maxi taglio per il capitolo "armamento e munizionamento" di 6 milioni e 200 mila euro. Una cifra che equivale all'84,72 per cento in meno rispetto ai fondi destinati l'anno precedente.

Le armi già ritirate in diverse questure sono i revolver Ruger 321 XL e i fucili a pompa Benelli M3TC calibro 12. Nella lista diramata dal Viminale rientrano anche le carabine Winchester mod. 1 calibro 30. Ma cosa ha costretto il Viminale a ritirare queste armi? Il revolver Ruger, ad esempio, manca di cane esterno, a differenza di quanto dispone il Dpr del 1991, e dunque la sicura non può essere attivata usando questo meccanismo. I fucili Benelli, invece, sono ad anima liscia e possono funzionare sia a pompa sia in modo semiautomatico. Il Dpr invece prevede solo una delle due funzioni.

Rimane il giallo sul perché otto anni fa, quando il Dpr era già stato emanato dieci anni prima, si sia dato comunque il via alla fornitura. Il provvedimento ministeriale riporta però che i revolver e i fucili Benelli "possono rimanere in dotazione per le esercitazioni di tiro per il mantenimento dell'abilitazione del personale". Anche in questo caso la circolare ammette un'eccezione in caso di mancato utilizzo: "Le armi devono essere riconsegnate insieme con le munizioni con sollecitudine". Una vicenda sulla quale già nel 2007 i poliziotti si interrogavano sui siti online. La domanda è perché il Viminale si sia deciso solo ora a ritirare l'armamento. E soprattutto come entreranno in azione i poliziotti, ad esempio quelli a caccia di latitanti. "Un ulteriore provvedimento negativo nella lotta alla mafia, soprattutto nella realtà di Palermo", dice Vittorio Costantini, segretario generale Siulp Sicilia. Nel capoluogo siciliano, una tra le sedi che annovera il maggior numero di blitz antimafia, i revolver ritirati sono 80, i fucili 20. A questi investigatori, per il momento, rimane solo la pistola d'ordinanza.

 

Lo strano caso di Artic Sea

Secondo la stampa israeliana Netanhyau è volato in segreto a Mosca per chiedere alla Russia di non vendere armi all'Iran

Gli ingredienti per la sceneggiatura di un film o per un libro noir ci sono tutti. L'ultimo episodio della saga dell' Arctic Sea, il cargo battente bandiera maltese scomparso alla fine di luglio nel Canale della Manica e ritrovato a Capo Verde a metà agosto, riguarda la scomparsa del premier israeliano Benjamin Netanhyau, introvabile per dieci ore.
Andiamo con ordine. Il quotidiano israeliano Jerusalem Post, nell'edizione di ieri, scrive che il premier di Tel Aviv si è allontanato dal Paese senza che nessuno al di fuori dei suoi più stretti collaboratori sappesse dove si trovava. Oggi un altra testata d'Israele, lo Yedioth Ahronoth, citando fonti anonime e ben informate, sostiene che Netanhyau si sia recato a Mosca lunedì, per una visita lampo al governo russo. Stesse conferme sarebbero giunte al terzo grande quotidiano israeliano, Ha'aretz, in merito alla scomparsa del primo ministro d'Israele. Con Netanhyau sarebbero partiti Uzi Arad, responsabile della sicurezza nazionale dello Stato ebraico e il generale Meir Kalifi, segretario dell'esecutivo per gli affari militari. Motivo del viaggio? Il carico dell' Arctic Sea. Secondo il giornale israeliano il cargo trasportava un carico di batterie anti missile S-300, di fabbricazione russa, destinate alla vendita all'Iran. Il governo di Teheran, secondo le fonti del quotidiano, ha il bisogno di acquistare quel tipo di sistema difensivo per mettere in sicurezza i siti nucleari e porre il loro programma di sviluppo di energia atomica al riparo da un colpo di mano dei caccia bombardieri israeliani che, in barba ai negoziati internazionali, potrebbero decidere di risolvere a modo loro il dossier nucleare degli ayatollah. Netanhyau sarebbe andato di persona a tentare di convincere i russi a non provarci di nuovo e chiedendo un chiarimento più generale sulla fornitura di armi e tecnologia bellica da parte dei russi a Siria, Iran ed Hezbollah in Libano. Dal governo d'Israele nessuno conferma, nessuno smentisce.

A Mosca, invece, sempre ieri, il ministro degli Esteri Sergei Lavrov ha definito ''prive di ogni fondamento'' le ricostruzioni circolate in questi giorni rispetto alla scomparsa dell' Arctic Sea, che secondo la versione ufficiale sarebbe stata vittima di un'aggressione dei pirati (novità assoluta nella Manica dai tempi di Sir Francis Drake nella seconda metà del Cinquecento). L'equipaggio del cargo, quindici marinai russi, sarebbe stato sequestrati da otto uomini, estoni, russi e lituani. Obiettivo dei pirati ricattare l'armatore per ottenere un riscatto e il recupero del carico di legname del valore di 1,8 milioni di dollari, partito dal porto russo di Kalinigrad e diretto al porto algerino di Bedjaia, dopo aver caricato la merce in Finlandia.
Lavrov ha ribadito che la versione ufficiale è l'unica attendibile, ma ha anche promesso un'inchiesta accurata. Non ha risposto, invece, alla domanda più importante. Se l' Arctic Sea trasportava solo legname, per quale motivo il governo russo ha inviato una mini flotta di quattro navi da guerra alla ricerca del natante? Per salvare i quindici marinai? Difficile crederlo. Anche perché i russi hanno impedito a chiunque di avvicinare la nave alla fonda a Capo Verde e i marinai liberati.

Non ci ha creduto neanche per un istante Mikhail Voitenko, direttore del quotidiano online Sovfracht, specializzato nel mondo della marina mercantile, che è stato il primo a scrivere che quel cargo non trasportava legname ma armi e che i dirottatori non erano criminali, ma agenti segreti israeliani impegnati a bloccarne il carico. Voitenko, che citava fonti del ministero della Difesa russo e aveva riceuto e pubblicato alcune lettere dei familiari dei marinai sequestrati, ha abbandonato la Russia in tutta fretta e ha detto di non voler rivelare la sua attuale posizione. Il giornalista, secondo quanto raccontato dal suo editore alla Bbc, è terrorizzato dalle telefonate minatorie ricevute nei giorni successivi alla pubblicazione del suo articolo sula ricostruzione della vicenda dell' Arctic Sea. Secondo Voitenko, dall'altra parte del telefono c'erano agenti del temuto Fsb, il servizio d'intelligence russo, che facendogli capire con chi aveva a che fare lo hanno 'invitato' a farsi gli affari suoi.

Cosa che non ha fatto l'ammiraglio Tarmo Kouts, ex capo delle forze armate estoni e relatore per l'Unione Europea per la pirateria internazionale, che in un'intervista al periodico Usa Time ha dichiarato come solo la presenza di missili a bordo della nave è in grado di spiegare lo strano comportamento russo nella faccenda. ''Ognuno può dire quello che gli pare, ma la ricostruzione ufficiale non è credibile. Che otto uomini assaltino un cargo in acqua europee e si dileguino nel nulla dopo aver raggiunto Capo Verde è irrealistico'', ha dichiarato Kouts. Un mistero fitto, insomma, ma che non dovrebbe stupire più di tanto. Il Mossad, il servizio d'intelligence israeliano, non è nuovo a questo genere di operazioni. Ad aprile scorso, secondo quanto riportato dal giorale egiziano El-Aosboa, un'unità speciale israeliana ha intercettato un cargo diretto alla Striscia di Gaza e partito dal Sudan, carico di armi proveniente dall'Iran. Stessa sorte, questa volta a Dubai, secondo il Financial Times, per un cargo carico di armi provenienti dalla Corea del Nord e diretto in Iran. La Guerra Fredda è finita, i metodi con i quali la si combatteva non sono passati di moda.

Christian Elia

 

10 settembre

 

Brunetta bluff

di Gianni Del Vecchio e Stefano Pitrelli

Ha vantato risultati clamorosi contro gli assenteisti. Ma ora si scopre che purtroppo non sono diminuiti. E che le statistiche riportavano soltanto i dati ottimistici. Mentre il ministro ha penalizzato soprattutto le donne

Il ministro Renato Brunetta
I benefici effetti prodigiosi della 'cura Brunetta' per i fannulloni della nostra pubblica amministrazione sono il fiore all'occhiello di questo governo. Della sua terapia miracolosa, il ministro figlio di un venditore ambulante veneziano è riuscito a convincere tutti, dagli statistici agli stessi politici d'opposizione. Per la gente comune, grazie a lui l'impiegato lavativo è stato rimesso in riga. D'altronde come interpretare altrimenti il mirabolante meno 40 per cento di assenze per malattia propagandato a più riprese dal suo ministero? La realtà, però, è diversa dai fuochi d'artificio alla festa del Redentore. E poche coraggiose voci fuori dal coro fra gli statistici del nostro Paese sgonfiano quei numeri, ridimensionando l'ormai celebre effetto-Brunetta. Che si fonda su tre pilastri di cartapesta.

Il primo: l'analisi si limita agli enti che ci tengono a farsi belli della propria virtuosità (mentre gli asini se la battono). Il secondo: nei suoi conti mancano all'appello grossi pezzi dell'apparato statale - come l'istruzione e le forze di polizia - nonché ministeri o comuni importanti. Il terzo: le sue statistiche tagliate con l'accetta spesso finiscono col premiare chi non se lo merita e punire chi non ha colpa. Senza dimenticare che gli stessi dati del ministero iniziano a riconoscere che 'l'onda' si sta ritirando.

Riflusso napoletano Che il travet non abbia più così paura degli strali di Brunetta, infatti, è proprio il suo ministero a raccontarcelo. La riduzione delle assenze per malattia registrata a settembre dello scorso anno, quando si era raggiunto il meno 44,6 per cento, è stato il picco dal quale poi non si è fatto altro che scendere. In modo graduale, ma inesorabile: meno 41 a novembre, meno 33 ad aprile, meno 27 a giugno, per finire con il meno 17 di luglio. Mai come in quest'ultimo mese ci sono state tante amministrazioni che hanno invertito la tendenza, col meno che si è andato trasformando in più. Al Comune di Napoli le assenze si sono impennate del 30 per cento, nonostante il fatto che a palazzo San Giacomo i dipendenti siano diminuiti. Anche l'altra grande città del Regno delle due Sicilie, Palermo, si distingue per la propria indifferenza al ministro-castigatore. Con una particolarità: fra gli uffici che hanno lavorato meno, negli ultimi quattro mesi dell'anno scorso, ci sono quelli addetti a raccogliere soldi per il Comune (servizio Tributi e Tarsu). Alla faccia della lotta all'evasione. Sempre stando ai numeri ministeriali, non è che a Nord se la passino meglio. A Parma, per esempio, chi lavora in Comune a luglio se l'è squagliata: più 32 per cento, rispetto allo zero di giugno e al meno 21 per cento di maggio. E il malcostume non cambia se ci spingiamo ancora in su, per fare tappa in un paesino brianzolo piuttosto noto: ad Arcore, dove il premier ha casa, le assenze sono salite del 27 per cento rispetto all'anno scorso. In barba al suo illustre e industrioso cittadino.

A scoppio ritardato L'afflosciarsi dell'effetto Brunetta è però solo una parte di quello che il ministro non dice. Se oggi il fannullone italiano inizia a essere una specie protetta, non è solo merito suo (anche se lui se lo arroga tutto). Come dimostrano i dati della Ragioneria generale dello Stato, è già da fine 2004 che si verifica nella popolazione dei dipendenti pubblici una concreta diminuzione di chi si dà malato. Ovverosia già molto prima dell'era post Brunetta del pubblico impiego . Alla Provincia a Pisa lo sanno bene: dall'inizio del 2005 l'ente toscano è riuscito nell'impresa di abbassare del 20-30 per cento il tasso d'assenteismo. "Tutto quello che potevamo recuperare l'abbiamo recuperato, motivo per cui ora le assenze oscillano di mese in mese, seguendo cause fisiologiche come il tempo o i cicli influenzali", dice il direttore generale Giuliano Palagi, non curandosi del più 17,5 per cento fatto segnare a luglio.

Al di là di questa 'appropriazione indebita', cosa più grave nel bluff mediatico del ministro-economista è la mancanza di attendibilità dei dati che diffonde ogni mese. "Le sue cifre aprono una finestra solo su una parte del panorama della nostra pubblica amministrazione: quella migliore", fa notare Giulio Zanella, ricercatore all'Università di Siena e firma del sito di economisti noisefromamerika.org. Appellandosi alla collaborazione delle singole amministrazioni, il ministero infatti non pubblica tutti i numeri degli enti - né potrebbe - ma solo quelli inviati di loro spontanea volontà. Per capirci, è come se a scuola venissero interrogati solo i ragazzi che si offrono volontari: ai somari per cavarsela basta stare zitti. "Però in questo modo il campione non è rappresentativo, e i risultati tanto strombazzati non hanno alcun valore scientifico, perché inevitabilmente sovrastimano la realtà", aggiunge Zanella. E non ha aiutato nemmeno "l'operazione di 'pulitura' dei dati fatta dall'Istat", perché si è trattato, per l'appunto, solo di una pulitura. "Mi aspetto che i prossimi dati ufficiali della Ragioneria generale dello Stato, che rappresenteranno la prova del nove, ridimensionino quel 40 per cento di Brunetta", conclude il ricercatore senese. Facendo piazza pulita della retorica politica.

Il paradosso di Sondrio Che i numeri del ministero siano tutt'altro che uno specchio fedele della realtà lo si capisce anche da altre falle, più o meno grandi. Prima di tutto c'è quella postilla con cui si avvertono i lettori che nell'analisi mensile non rientrano scuola, università, regioni e pubblica sicurezza. Cioè un bel pezzo d'apparato statale. Inoltre, gli stessi enti i cui dati trovi un mese, magari latitano il mese prima. Tanto che spiccano frequenti assenze di lusso: a luglio mancavano i dati del ministero degli Interni e di quello dei Trasporti, della Provincia e del Comune di Milano, dei Comuni di Torino, Bari e Venezia. Quasi tutti, ad eccezione del Viminale e del capoluogo pugliese, erano invece presenti nella rilevazione del mese precedente. Infine, a scapito delle verità di Brunetta va la scarsa collaborazione delle amministrazioni nel loro insieme: meno della metà delle 10 mila burocrazie italiane compila i moduli on line. Certo oggi va meglio che agli inizi, quando già nei primi cinque mesi dall'approvazione della legge 133 Brunetta aveva sbandierato il suo famoso 40 per cento: all'epoca solo il 15 per cento di quella che è l'intera burocrazia italiana aveva risposto alle sollecitazioni ministeriali.

C'è poi un ultimo errore da prendere in considerazione, del quale già avvertono a scuola quando ti insegnano a fare la media fra due numeri: se io mangio due polli e tu non mangi niente, se non stai attento finisci col sostenere che abbiamo mangiato un pollo a testa. È il malinteso in cui si incappa prendendo alla lettera i dati di Brunetta. Se scorri i numeri più aggiornati fra quelli forniti dal ministero, al secondo posto nella top ten trovi il Comune di Sondrio, con un aumento delle ore di assenza per malattia di oltre il 90 per cento rispetto allo stesso mese dello scorso anno. Che sia Sondrio, proprio la terra natìa di Giulio Tremonti, la capitale dei fannulloni d'Italia? Non esattamente. A un'analisi appena meno superficiale, infatti, ti accorgi di come stiano le cose in realtà. "Quella del ministero è una statistica piuttosto rozza", contesta Alcide Molteni, sindaco del comune lombardo: "Ora, io ho circa 150 dipendenti. Tre di questi hanno malattie croniche che li obbligano a casa tutto l'anno, chi per l'infarto, chi per seri problemi polmonari, e loro da soli coprono gran parte delle assenze. Ad agosto, per esempio, su 87 giorni di malattia, in tre ne hanno fatti 62, e tutti gli altri ne hanno fatti 25". Per converso è facile capire che, come a Sondrio si punisce chi non ha colpe, la media 'del pollo' può tranquillamente finire col premiare chi invece non lo meriterebbe.

Le donne nel mirino Sotto la scure di Brunetta, però, non ci finiscono solo i malati gravi. I primi risultati di uno studio ancora in corso all'Istat - sul numero di persone che fanno orario ridotto a causa di malattia in una settimana tipo - smorzano gli entusiasmi dei brunettiani convinti, concentrandosi sui primi sei mesi dall'entrata in vigore della legge. Ebbene, il primissimo (e forse l'unico) colpo inferto dalla sua crociata antifannulloni si è abbattuto nell'estate 2008 su una ben precisa fetta dei dipendenti pubblici: le donne del Centro Italia. E basta. Che cosa avranno mai fatto le donne di Roma per meritarsi questo? Una possibile spiegazione ce la suggerisce Riccardo Gatto, ricercatore Istat, e autore dello studio insieme ad Andrea Spizzichino: "D'estate, una volta chiuse le scuole, si hanno più problemi a trovare qualcuno a cui affidare un bimbo, e quindi è possibile che ci si assenti solo per gestirli meglio. Infatti, la differenza significativa rispetto agli uomini sul lavoro è che sono ancora le donne a farsi tipicamente carico delle mansioni familiari".

E sempre le donne, secondo un calcolo fatto da Zanella, fanno mediamente due giorni di assenza l'anno in più degli uomini, per evidenti ragioni familiari e biologiche. Fra l'autunno e l'inverno, invece, ci si ammala per davvero. E proprio negli ultimi tre mesi del 2008, sempre secondo lo studio di Gatto, l'effetto Brunetta semplicemente "non emerge più dall'analisi dei dati". "Già nei tre mesi estivi il fenomeno non è particolarmente rilevante", osserva, "perché passa dall'1,8 dell'anno prima all'1,3 per cento. Ma nel quarto trimestre la legge sembra aver esaurito il suo effetto". Conclusioni pesanti e fuori dal coro, quelle di Gatto, pronunciate durante un seminario a 'casa' del ministro. E passate sotto silenzio.

Un mini-risultato Insomma, malati cronici, donne con figli, ma di fannulloni puniti, per ora, neanche l'ombra. Fatta la tara, che cosa resta concretamente di questa 'cura Brunetta'? Secondo Zanella, in ultima analisi, si potrebbe parlare di un 10 per cento in meno di assenze. Ma qui finisce. "Il fatto che quest'anno i numeri del ministro si siano ridotti è normale, perché le assenze non possono continuare a calare all'infinito". Un effetto, quindi, c'è stato, ma è "un puro effetto di prezzo, dovuto alla decurtazione dallo stipendio dei giorni di assenza. Se oggi le arance costano un euro, e domani due, ne comprerai di meno. Qui è la stessa cosa. Ognuno fa i propri conti: prima potevo ammalarmi quanto volevo, adesso non più, quindi cercherò di fare meno assenze. Allora si raggiunge un nuovo equilibrio, in cui le assenze tornano a essere costanti".

Certo è che però non basta tenere la gente in ufficio (magari con 38 di febbre) per farla essere produttiva. "La soluzione non è costringere la gente ad andare al lavoro in qualsiasi condizione di salute, visto che si può arrivare a perdere fino a 50 euro al giorno in caso di malattia", contesta Michele Gentile della Cgil: "Quel che servirebbe, in realtà, sarebbero più controlli da parte dei dirigenti, cosa che nel privato avviene molto più che nel pubblico", suggerisce Gianni Baratta della Cisl. Insomma, conclude Gentile, "la diagnosi è giusta, ma la terapia è sbagliata".

 

Trenta ragazze per me

Palazzo Chigi non reagisce ai verbali di Tarantini sulle escort. Ma le rivelazioni dell'imprenditore pugliese sono destinate a esplodere anche a livello politico. Perché confermano le parole di Veronica Lario sulla "malattia" del premier

Clarissa Campironi
E' arrivata da Bari la nuova bomba della vicenda escort e politici: con la pubblicazione sul Corriere della sera dei verbali di Giampaolo Tarantini, l'imprenditore pugliese che, come dice lui stesso, «usava le ragazze e la cocaina per avere successo in società». Il racconto di Tarantini è impressionante, riguarda anche il centrosinistra (in particolare l'ex vicepresidente della Puglia Sandro Frisullo, pd) ma si incentra soprattutto sulle ragazze del Cavaliere: una trentina quelle portate a Palazzo Grazioli, di cui diverse si sono poi fermate a intrattenere il padrone di casa, come la valletta del programma di Raidue "Scorie", la brasiliana Camilla Cordeiro Charao, o Terry De Nicolò, escort barese di 37 anni.

Il quadro che emerge è quello di un'attività incessante di Tarantini nel rifornire di ragazze sempre diverse il premier per tutto l'autunno e l'inverno del 2008, con la residenza del presidente del consiglio trasformata in una sorta di ufficio casting, dove il premier riceveva le ragazze decideva quindi quali far rimanere e quali rispedire a casa.

A tutte le ragazze Tarantini pagava il viaggio fino a Roma, ma solo quelle che restavano con il premier prendevano poi i mille euro per la prestazione. Tarantini tuttavia sostiene anche che il pagamento avveniva all'insaputa di Berlusconi, il quale quindi si confermerebbe nel ruolo di mero "utilizzatore finale" delle prostitute così come indicato dal suo avvocato Niccolò Ghedini. Tarantini aggiunge anche che c'era una sorta di tacito accordo con la sicurezza del premier per cui lui entrava a Palazzo Grazioli direttamente con la sua automobile, nascondendo le ragazze sui sedili posteriori dove non potevano essere viste, perché la vettura aveva i vetri oscurati. Le dichiarazioni di Tarantini sono destinate ad aprire un nuovo capitolo nella vicenda nata come "Noemigate" e poi estesa al caso di Patrizia D'Addario: dai verbali infatti emerge che la frequenza quasi ossessiva con cui il premier si faceva portare escort e showgirl dà un nuovo significato alle parole della moglie, Veronica Lario, quando spiegava che suo marito «è un uomo malato».

Impressiona anche il fatto che il premier abbia talvolta rinunciato a presenziare a incontri pubblici connessi con il suo ruolo (come lo scambio di auguri di Natale con il presidente Napolitano, il 17 dicembre scorso) per rimanere a Palazzo Grazioli a ricevere le ragazze portategli da Tarantini.

Finora Palazzo Chigi non ha voluto in alcun modo commentare le notizie arrivate da Bari. Proprio ieri il premier, parlando all'inaugurazione del Salone del tessile a Milano, aveva detto «a Bari c'è un inchiesta interessante», non aspettandosi evidentemente che nel giro di poche ore avrebbe interessato soprattutto lui.

 

Carissimi assaggiatori

Se è vero che la dieta mediterranea è garanzia di salute alla Regione Campania vogliono far le cose perbene. Ecco perché fra i consulenti dell'ente guidato da Antonio Bassolino ci sono anche un esperto di olio di oliva e un assaggiatore di formaggi e miele.

Non manca, inoltre, un esperto di difesa personale, uno di cucito e più componenti di una commissione sulla danza. L'ammontare complessivo delle consulenze è di 30 milioni, riferiti alle diverse articolazioni degli assessorati, i beneficiari sono circa 700. Le cifre e i nomi sono in possesso del ministero della Funzione Pubblica, sono relativi al 2008 e si riferiscono a varie tipologie di attività, soprattutto legali, docenti e ingegneri. In tutta Italia le consulenze ammontano a 1 miliardo e mezzo di euro. Il consulente campano più remunerato ottiene 270 mila euro, quello più povero deve accontentarsi di 93. Costa 15 mila euro "l'individuazione di metodiche per test di algoritmi di controllo integrato con sistemi informativi", 4 mila euro, invece, la schedatura di vocabolari tedeschi. Mentre tra le attività richieste c'è anche, con viva sorpresa di chi legge, un "supporto agli organi di direzione politica". Troppe? Necessarie? Costose? Utili? Alla Regione Campania giurano sulle virtù ineliminabili di assaggiatori, pedagogisti e cucitori.

G. S.

 

9 settembre

 

di Alberto D'Argenzio - BRUXELLES

Ironie e reprimende, l'Europa scarica il Cav

«A chi devo chiedere il permesso», la frecciata di Almunia

«A quale Presidente devo chiedere il permesso di parlare?». Joaquin Almunia, di professione commissario europeo all'economia, usa la sottile arma dell'ironia per irridere le pretese berlusconiane di zittire i membri del gabinetto Barroso ed i loro portavoce. Quella del socialista spagnolo è tra l'altro solo una, la più semplice, arguta e divertente, tra le reazioni comunitarie alle minacce del premier italiano. Formalmente il caso sarebbe chiuso, dicevano già martedì sera da Palazzo Chigi e ripetevano ieri i servizi della Commissione, ma non è così: a Bruxelles si fa una fatica tremenda a digerire l'ultima sparata anti-europea del premier italiano, anche perché è stata lanciata dritta al cuore delle istituzioni comunitarie con l'arma velenosa della minaccia.
Anche Jacques Barrot, commissario alla giustizia ed interni con delega all'immigrazione, ci tiene a precisare, indirettamente, che il dono della parola non ha assolutamente intenzione di perderlo, men che meno in pubblico. «Noi svolgiamo il nostro ruolo, non sono qui per distribuire critiche - ha detto presentando il progetto per il reinsediamento dei richiedenti asilo - ma per chiedere informazioni sui problemi che colpiscono uno stato membro, cosa che abbiamo fatto all'inizio dell'estate (il 15 luglio sui respingimenti, ndr) e per cui stiamo ancora aspettando delle spiegazioni». Spiegazioni che dovrebbero arrivare nei prossimi giorni. E da Barrot arriva anche un'altra precisazione, questa volta diretta al suo predecessore Franco Frattini che aveva accusato l'Europa di «parlare molto e di fare poco». «La Commissione - la replica di Barrot - non può essere accusata di inedia, a livello di iniziative legislative e di visite sul campo penso di aver fatto molto, tutti i giorni ci siamo attivati quindi non ci devono essere fraintendimenti, la Ce non è in causa, ci sono timidezze da parte di Stati membri».
Johannes Laitenberger, portavoce di Barroso, usa parole meno dure ma comunque, pur tra mille equilibrismi diplomatici, ci tiene a precisare che i portavoce «sono i microfoni che diffondono la voce del livello politico» della Commissione. Laitenberger ha anche ricordato che Barroso (peraltro alla ricerca di una riconferma e per ora prudentemente assente nella polemica) è «un sostenitore intransigente» delle prerogative delle istituzioni europee, tra queste quella di informare in maniera «trasparente e aperta».
Anche la Presidenza svedese scende in campo, in difesa di Bruxelles. «Auspichiamo che la Commissione europea continui a rispondere alle domande in modo aperto e trasparente, anche in italiano», ha detto il ministro delle Finanze Anders Borg.
Chi invece si è ormai scordato delle diplomazia è Louis Michel, ex ministro degli esteri belga, fino all'altro ieri commissario Ue allo sviluppo ed ora eurodeputato: «Le parole e le minacce di Berlusconi sono assolutamente inadeguate. Berlusconi non può prendere in ostaggio la Commissione imponendo una visione della politica migratoria ed in particolare del diritto di non-respingimento che non è assolutamente quella prevista dall'ordinamento comunitario. I modi usati da Berlusconi, le sue minacce e le sue interpretazioni non sono in linea con l'Europa, ma questo è lo stile di Berlusconi...».
A spezzare questo coro di critiche, si leva la voce di Joseph Daul, capogruppo popolare al Parlamento europeo. «Berlusconi - dice Daul - ha ragione a battere i pugni sul tavolo» perché il problema dell'immigrazione «non è stato risolto» e «Italia, Malta e Grecia si sentono abbandonate». Una difesa d'ufficio, tra popolari, che evidenzia invece di cancellare l'isolamento in cui sta finendo il governo italiano.

 

di Iaia Vantaggiato - ROMA

Black bloc

La guerra santa

Per il direttore del Giornale la velina su Dino Boffo da lui pubblicata verrebbe dalla «gendarmeria vaticana». La santa sede smentisce: «Sono accuse false, vuole portare il caos». Il papa cerca il sipario e invita tutti a un «radicale cambiamento di vita»
Non solo esisterebbe ma arriverebbe direttamente dalla gendarmeria vaticana - e non dai servizi segreti - la velina inviata nei mesi scorsi ai vescovi italiani e apparsa, lo scorso 28 agosto, sul Giornale. Ad affermarlo ieri mattina, nel corso della trasmissione «Radio anch'io», è stato lo stesso Vittorio Feltri. Immediata la reazione delle gerarchie vaticane: «Smentisco in modo categorico questa affermazione: viene il sospetto - sono le parole del portavoce della santa sede, padre Federico Lombardi - che vi sia l'intenzione di fomentare confusione diffondendo false accuse».
Tetragono, Feltri non si scompone ma contrattacca e difende il documento pubblicato, sempre ieri, sulla prima pagina del «suo» Giornale: un decreto penale di condanna emesso dal tribunale di Terni nei confronti di Dino Boffo nel quale, dice, «si accenna a molestie anche a sfondo sessuale». Ora tocca a Boffo, precisa Feltri, svelare quei particolari cui può avere accesso - secondo quanto stabilito dal gip di Terni Pier Luigi Panariello - solo chi come lui è stato parte in causa.
In realtà, l'articolo 660 del codice penale cui il decreto si riferisce - e sulla cui base il direttore di Avvenire venne condannato al pagamento di un'ammenda di 516 euro - parla assai più genericamente di «molestia e disturbo alle persone». Insomma il decreto c'è ma l'accusa a Boffo si limita alle molestie telefoniche (attribuite peraltro dal direttore di Avvenire a un suo collaboratore tossicodipendente, nel frattempo deceduto). «Aggiungere a quel documento una velina - ha polemizzato Antonio Polito sempre dai microfoni di 'Radio anch'io' - e dire che Boffo è omosessuale, cosa che non risulta in nessun atto, non è corretto». L'utilizzazione della velina, secondo il direttore del Riformista, svelerebbe un intento vendicativo nei confronti di tutti coloro che «si sono permessi di criticare il presidente del consiglio». Eppure è proprio a un articolo del Riformista che Feltri avrebbe fatto riferimento parlando della velina e dei servizi segreti vaticani, un'entità questa perlatro inesistente stando alle affermazioni di padre Lombardi. «Oramai - chiosa Feltri - qualunque cosa si dica su questo argomento pare che l'abbia detta solo io. Domani comunque il Giornale cambierà il tema in prima pagina dedicando l'apertura al testo delle denunce fatte dal premier Silvio Berlusconi alla Repubblica e all'Unità». Non quelle d'Italia, si spera.
«Lapidato e accusato di voler fare un vendetta», Feltri ribadisce di essersi occupato del caso perché in presenza di un atto pubblico e perché la vita privata di Boffo non è quella di «un cittadino qualsiasi» ma del direttore del giornale della Cei, «ovvero il portavoce del Vaticano». Stesse argomentazioni di chi sostiene che la vita privata di Berlusconi non sia quella di un cittadino qualsiasi ma del presidente del consiglio e che il giornalista che più degli altri lo difende non sia un giornalista qualsiasi ma il direttore di un quotidiano di sua proprietà.
Intanto Dino Boffo, l'uomo che Ruini chiamò quindici anni fa a dirigere il giornale della Cei e che solo due giorni fa ha ricevuto una sia pure indiretta attestazione di stima da parte del pontefice e per il tramite del cardinal Bagnasco, rimane al suo posto così smentendo l'ipotesi di eventuali dimissioni ventilata ieri dal Corriere della sera. «Non c'è niente, di niente, di niente», ha affermato in tarda serata rassicurando i suoi redattori, ma resta il mistero sul perché sia stata diffusa una simile notizia.
Forse che a una parte della Cei, quella non vicinissima a Ruini, farebbe comodo sostituire alla guida del giornale dei vescovi quest'uomo legato a doppio filo con l'ex presidente della Conferenza episcopale? Che esista già qualche candidato forse più prossimo alla nuova presidenza del cardinal Bagnasco?
Per ora, comunque, di smentite ufficiali non se ne parla: «Non c'è ne bisogno - si è limitato a sottolineare un alto prelato - non dobbiamo rispondere ad ogni articolo di giornale e in questo momento forse è meglio il silenzio». Tace la Cei e tace anche monsignor Fisichella, a Frascati per la «Summer school» del Pdl: «Conoscete la mia propensione a parlare con i giornalisti - dice - ma quando non posso, non posso».
Parla invece, e a lungo, Benedetto XVI durante l'udienza generale tenutasi ieri in Vaticano di fronte a 8mila persone. E il tema scelto è sembrato essere di indubbia attualità: «La misericordia divina - ha detto il papa - è sempre disponibile perché Dio persegue le colpe ma protegge i peccatori». Di fronte alla vastità dei vizi diffusi nella società, ha sottolineato, il rimedio da proporre con decisione è quello di «un radicale cambiamento di vita, fondato sull'umiltà, l'austerità, il distacco dalle cose effimere e l'adesione a quelle eterne».
Lo stesso cambiamento di vita cui il direttore di Avvenire aveva più volte invitato Berlusconi. Lo stesso cambiamento di vita che, forse, parte del mondo cattolico e non solo si aspetterebbe dal direttore del giornale dei vescovi.
Credere che il pontefice abbia preso spunto delle avvelenate vicende degli ultimi giorni sarebbe, tuttavia, quanto meno blasfemo. Ad ispirarlo, piuttosto, è stata la figura di Oddone, l'abate di Cluny (finalmente un semplice abate e non un porporato) tra le cui virtù spiccavano appunto l'umiltà, l'austerità e il distacco dalle cose terrene. Dal medioevo, un piccolo suggerimento a Berlusconi.

 

Da sterminare

Dall'inizio dell'anno 28 Awà sono stati ammazzati. Si suppone un piano per estinguerli e occuparne le preziose terre

"Nell'omicidio dei miei compagni il 26 agosto è coinvolto anche l'esercito": La denuncia arriva da Eder Burgos, il portavoce degli indigeni Awá, che non si stanca di ricordare, con la morte nel cuore, il massacro di dodici persone tra cui sette minorenni. Tra questi un bambino di appena un anno. "Ci sono oscuri interessi che cercano di insabbiare i veri autori della strage", spiega, un fatto che ha commosso l'opinione pubblica non solo colombiana.

Tutto è accaduto nelle prime ore del mattino di mercoledì scorso, in una casa del resguardo indigeno di Gran Rosario, nel Tumaco, dipartimento al confine con il Nariño, nel sud-est del paese. Uomini incappucciati e in mimetica hanno sterminato questo gruppo di persone in una casa di El Divisio. Non è ancora ufficiale a che gruppo appartenesse lo squadrone che ha sterminato il gruppo di Awà, ma è noto che si tratti di un'area a vasta presenta paramilitare. E da sempre i paracos vanno a braccetto con l'esercito.

Eppure, per questa strage c'è già un capro espiatorio che le autorità si sono affrettate a consegnare alla giustizia. Si tratta di Jairo Miguel Paí, anch'egli indio, da tempo espulso dalla comunità per i suoi legami con i paramilitari. Ma Burgos non ci sta. Paí, secondo gli Awà, merita di restare dietro le sbarre, certo, ma perché ha tentato di estorcere denaro a molta gente, non certo perché mandante o responsabile di un crimine tanto efferato. "Adesso, quello che vogliono (le autorità di polizia) è che le indagini portino a dei colpevoli, siano quelli che siano", ha spiegato, precisando, appunto, che la sua comunità non condivide la tesi che Paí sia l'autore della strage.

E i fatti sembrano dar loro ragione. Non solo la zona è ad alta presenza paramilitare, e quindi sotto il loro diretto, quanto violento e illegale controllo, ma l'esecuzione dei dodici indigeni è avvenuta proprio nella casa di Sixta Tulia García, la donna 35enne che aveva osato denunciare la morte del marito, Gonzalo Rodríguez, puntando il dito contro l'esercito. Coincidenza o chiaro segnale di avvertimento in puro stilo mafioso?

I nativi non hanno dubbi. Siamo di fronte all'ennesimo crimine di Stato, insabbiato e deviato grazie a un caprio espiatorio. E per questo difficile da dimostrare.
A indagare è la Fiscalia e l'unica cosa certa è che l'esecuzione è stata fatta usando pallottole calibro nove millimetri. Certo, c'è anche la testimonianza di chi descrive uomini in mimetica, ma in Colombia la mimetica la indossano tutti, indistintamente: esercito, paramilitari e persino guerriglieri. L'unico elemento distintivo, dato che sicuramente fasce e simboli sono scrupolosamente rimossi prima di ogni retata in cui l'anonimato è fondamentale, possono essere le calzature. È cosa nota che i guerriglieri di Forze armate rivoluzionarie colombiane o Esercito di liberazione nazionale siano soliti indossare stivali in plastica nera, in puro stile contadino. A differenza di militari e paracos che invece camminano con anfibi rinforzati e pieni di stringhe. Un piccolo particolare che però la gente calata in simili realtà è solita notare.

Intanto, a rincarare la dose sull'esistenza di un piano criminale teso a sterminare gli Awà è il presidente dell'Unità indigena di tale popolo (Unica), Gabriel Bisbicus, che parla di "forze oscure, con la complicità di organismi di sicurezza statale". E ricorda come da mesi gli Awà siano pedinati, minacciati, perseguitati, sia nel loro territorio che a Pasto, la capitale dello stato di Nariño. Da gennaio, sono 28 i morti ammazzati tra i 27mila cinquecento Awà, sparsi nei 21 resguardos tra Nariño e Putumayo, in un territorio di 322mila ettari. Tanto che le associazioni in difesa delle popolazioni indigene lo definiscono il popolo che corre il maggior rischio di estinzione in Colombia.

Gli Awà, che in Awapit significa 'gente', hanno già subito molto dal conflitto armato che da 45 anni logora la Colombia. Intanto, nati cacciatori, hanno dovuto diventare agricoltori e allevatori di animali domestici, perché impossibilitati a muoversi dietro animali e branchi. Coloni, guerre civili, cercatori di oro e di legno, cocaleros, mine antiuomo, conflitti a fuoco, retate e blitz orchestrati da quelle forze che agognano le loro terre ricche e fertili, li hanno costretti a cambiare drasticamente stile di vita, limitandoli e castrando una cultura millenaria. E, come se non bastasse, restano nell'occhio del mirino.

E le altre popolazioni native non se la passano certo meglio in Colombia. Il relatore speciale dell'Ufficio Onu sui diritti umani dei popoli indigeni, James Anaya, in luglio ha dichiarato che la situazione di queste etnie nel paese andino "è grave, critica e profondamente preoccupante".

Stella Spinelli

 

Serbia, l'autunno caldo dei lavoratori

Scioperi e proteste a catena, il governo di Belgrado negozia ma i sindacati prospettano il peggio

scritto da Giulia Cerino

''Mi domando se queste proteste non abbiano un che di positivo. Protestare significa che la società civile c'è e che i cittadini serbi stanno uscendo dalla 'depressione' in cui erano caduti dieci anni fa con la guerra, che hanno ricominciato a combattere, a partecipare alle proteste sindacali, a far sentire la loro voce e soprattutto a rivendicare i propri diritti di lavoratori e cittadini. Questo è un segno di ripresa. Forse un primo passo verso il soddisfacimento di quei criteri necessari in vista dell'ingresso nell'Unione Europea?''.

Goran Sadzákov, membro del consiglio municipale e della commissione per gli Affari Comunali e la Protezione dell'Ambiente di Becej, la quarta località più povera della Vojvodina, regione autonoma al nord della Serbia, commenta così la notizia delle proteste dei lavoratori serbi che, ormai da sei mesi, presidiano l'Agenzia delle Privatizzazioni di Belgrado. Oltre 300 operai della Zastava Elektro, una fabbrica di materiali elettronici nella città di Rača, municipalità del distretto di Šumadija, Serbia centrale, sono scesi in piazza chiedendo che il piano di privatizzazione venga annullato. A scatenare l'ira dei dipendenti hanno contribuito molti fattori. Primo fra tutti, da febbraio scorso, proprio in vista della privatizzazione prevista per il mese di agosto, la compagnia ha smesso di pagare i salari dei dipendenti stanziali, i rimborsi dei lavoratori in missione all'estero e le assicurazioni sugli incidenti sul lavoro. A questa situazione di malcontento se ne sono aggiunte altre. Da Niš, una delle città più antiche della Serbia, arrivano infatti le notizie della Niteks tessili e la Građevinar costruzioni. I dipendenti hanno bloccato le strade chiedendo di ricevere i mancati stipendi. Anche la fabbrica di dolciumi di Čuprija Ravanica e i lavoratori della 1.Maj (primo maggio) di Lapov chiedono il blocco della privatizzazione delle loro aziende.

Insomma, per le strade serbe che collegano le città con la capitale, si respira ovunque la stessa aria di protesta. Si contano circa 32mila operai in sciopero in circa 50 fabbriche e 180mila lavoratori che ancora non sono stati pagati. Questa volta i manifestanti non sembrano voler demordere. Anzi. I sindacati, prevedono il divampare di una lunga serie di proteste dei lavoratori in difficoltà, in considerazione del fatto che solo il 24 percento delle privatizzazioni in Serbia ha avuto esito positivo, mentre negli altri casi, gli impegni assunti nei confronti del personale sono stati palesemente violati. Per dirla con le parole della giornalista del settimanale Nin, Ruža Ćirkovićm, questi scioperi rappresentano ''un evento straordinario, perché non si erano mai visti scioperi così massicci per motivi sociali. In Serbia i grandi movimenti sono sempre avvenuti per motivi politici: contro o a favore l'indipendenza del Kosovo, per la cattura di Karadžić o per esautorare Milošević, ma mai per la difesa del posto di lavoro''.

A Ranko Dejanović, il nuovo padrone dell'azienda Zastava Elektro, nonchè marito della presidente del Parlamento di Belgrado Slavica Dukić-Dejanović (Partito Socialista di Serbia) ed ex rappresentante a Rača dello Jul (Sinistra Jugoslava), il partito di Mira Marković vedova di Milošević, viene imputata la grave situazione attuale. Pochi investimenti e la responsabilità della rottura del fortunato accordo, che faceva lavorare l'impresa, con la multinazionale polacca Delfi. ''Vogliamo che venga rescisso il contratto con Dejanović - dice dal presidio il rappresentante sindacale Slobodan Gaijć - siamo in grado di provare che la documentazione fornita dal management non è valida». Anche il governo serbo si è accorto della pericolosità dell'evento. E per questo negozia. Il governo di Boris Tadić ha fatto sapere che sarà adottata una legge che consenta il versamento dei contributi per la pensione di invalidità ai lavoratori dipendenti, e il raggiungimento di un accordo di partenariato sociale tra il governo, i rappresentanti dei sindacati e le associazioni dei datori di lavoro.

Il pacchetto di misure d'emergenza prevede la garanzia dell'assicurazione sanitaria, la prevenzione di abusi e di varie forme di criminalità economica dei singoli proprietari delle imprese privatizzate. Una serie di misure atte a prevenire il cosiddetto 'autunno caldo del sindacato'. Per ora però, si tratta solo promesse che comunque non risolvono il problema. «A questo punto è lo stesso processo di privatizzazione ad essere messo in discussione, poiché generalmente sono le imprese privatizzate che non rispettano i contratti di acquisto, portano l'azienda al fallimento o non pagano gli stipendi». A dirlo è Ljubisav Orbović, segretario del sindacato Autonomo (Samostalni Sindikat). Secondo lui, infatti, la radice del problema risiede nella composizione e gestione dell'Agenzia delle privatizzazioni. «Nonostante le polemiche sulla poca trasparenza, resta un luogo di potere strategico. Tant'è che lo stesso premier serbo, Mirko Cvetković, ne fu direttore tra il 2003 e il 2004». Si pensi poi che, l'attuale capo del Cda della Zastava Elektro, presentato da Dejanović (l'attuale proprietario della Zastava Elektro), è l'ex direttore regionale dell'Agenzia, quella che doveva fare i controlli.

 

Afghanistan, meno oppio, più droga

Intervista al direttore del programma antidroga dell'Onu a Kabul, Jean-Luc Lemahieu

Il rapporto annuale delle Nazioni Unite sulla produzione di oppio in Afghanistan, appena pubblicato dall'Unodc, conferma le previsioni di un ulteriore calo dell'estensione delle piantagioni di papavero da oppio e del tariàk, l'oppio grezzo in lingua locale. I campi di papavero, che nel 2008 coprivano 157 mila ettari, quest'anno sono diminuiti del 22 percento, passando a 120 mila ettari.
Il nuemero delle province produttrici di oppio è sceso da 20 a 18: Kapisa e Baghlan sono diventate 'poppy free'.
Più modesto il declino del raccolto 2009 a causa della maggior produttività delle piante: dalle 7.700 tonnellate dell'anno scorso alle 6.900 di quest'anno, ovvero 10 percento in meno.
Notevole il calo di coltivazione nella provincia di Helmand, la 'capitale' dell'oppio, dove le piantagioni di papavero sono diminuite di un terzo grazie al progetto delle 'Food Zone' (sementi alternative e sostegno per la vendita ai contadini che abbandonano l'oppio) sperimentato dal governatore provinciale, Gulab Mangal.
Prosegue anche il calo del prezzo dell'oppio, sceso mediamente di un terzo rispetto all'anno scorso. Questa è la vera causa del calo di produzione a cui si assiste negli ultimi anni.
Jean-Luc Lemahieu, direttore in Afghanistan dell'Unodc, ci ha spiegato che la diminuzione che si registra dopo il record di due anni fa non è il risultato della campagna antidroga, ma l'effetto delle leggi di mercato: dal 2004, infatti, l'Afghanistan produce molto più oppio di quello che il mercato mondiale può assorbire, quindi i prezzi sono crollati rendendo necessario un rallentamento della produzione per riequilibrare domanda e offerta.

"Stiamo assistendo e continueremo ad assistere a un calo di produzione perché si sta producendo più di quello che il mercato mondiale richiede. E' logico che il mercato si corregga. La riduzione continuerà fino a quando si ristabilirà l'equilibrio tra domanda e offerta. Non c'è dubbio", ci dice Lemahieu. "Questa riduzione è prodotta da una correzione di mercato. Le nostre statistiche lo dimostrano chiaramente. Per un contadino, 5 anni fa, coltivare oppio rendeva 27 volte tanto che coltivare grano. Oggi gli rende solo il doppio. Per questo molti contadini sono passati ad altre colture".

Il direttore dell'Unodc in Afghanistan, mostrandoci i grafici elaborati dalla sua organizzazione, spiega come la sovrapproduzione afgana di oppio rispetto alla domanda mondiale, verificatasi a partire dal 2004, abbia provocato il crollo dei prezzi e quindi l'erosione dei margini di profitto di coltivatori e trafficanti, generando una frenata della produzione di oppio, ma anche un deleterio effetto collaterale. Se molti contadini, infatti, hanno giudicato più conveniente e meno rischioso smettere di coltivare oppio, molti narcotrafficanti, in attesa che il calo di offerta faccia risalire i prezzi, hanno deciso di sfruttare la congiuntura, iniziando a svendere la droga in eccesso sul mercato interno afgano.

"Un nuovo fenomeno è il consumo di droga in Afghanistan. La droga a basso costo ha invaso il mercato locale, con la conseguente esplosione del problema della tossicodipendenza. Basta pensare all'emergenza umanitaria creatasi all'ex centro culturale russo di Kabul. La situazione era drammatica. Tra quelle macerie si concentravano 1600 tossicodipendenti, di cui 650 che ci vivevano in pianta stabile e gli altri che ci andavano per drogarsi. Ogni notte ne morivano in media 2 o 3, per overdose, malnutrizione e altre malattie. Quando abbiamo scoperto questa situazione siamo intervenuti, prima portando assistenza sul posto, e in primavera sgomberando l'area, sistemando la maggior parte dei tossicodipendenti in centri di disintossicazione gestiti dal Ministero della Salute afgano. Ovviamente, nulla di paragonabile con gli standard europei, ne siamo ben lontani, soprattutto perché non ci sono fondi adeguati per affrontare questa emergenza".

La tossicodipendenza in Afghanistan, secondo le ultime stime, riguarda circa due milioni di afgani, un decimo della popolazione adulta del Paese: un numero enorme se si considera che fino a pochi anni fa questo fenomeno non esisteva. Lemahieu sottolinea l'urgenza di intervenire prima che sia troppo tardi e la situazione sfugga di mano.

"La rapida diffusione del consumo di droghe pesnati in Afghanistan è un'emergenza pressante, perché se non interveniamo subito per arginare la tossicodipendenza, presto ci troveremo a fare i conti con la diffusione di malattie come l'Hiv. Questo paese ha già abbastanza piaghe: l'ultima che gli auguro è quella dell'Aids. Dobbiamo impedirlo. Oggi siamo ancora in tempo per farlo, domani sarà troppo tardi".

Enrico Piovesana

 

7 settembre

 

Afghanistan, strage Nato a Kunduz

L'aviazione colpisce un'autobotte di gasolio rubata dai talebani: uccise decine di civili

"Tutto quello che sappiamo al momento è che un gran numero di insorti è stato ucciso nel bombardamento aereo condotto la notte scorsa da velivoli Isaf a Kunduz. Abbiamo ricevuto informazioni su possibili vittime civili sulle quali ora stiamo investigando assieme alle autorità afgane".

C'è chi parla di 200 morti. Al telefono con PeaceReporter, la soldatessa statunitense dell'ufficio stampa della Nato a Kabul non si sbilancia nemmeno sulla nazionalità degli aerei che la notte scorsa hanno bombardato due autocisterne di gasolio sequestrate dai talebani uccidendo 95 persone, di cui solo 45 guerriglieri secondo il governatore provinciale, 65 secondo il capo della polizia locale. Gli altri erano tutti civili, residenti nel villaggio di Haji Aman, nel distretto di Chahar Dara, che al momento del raid aereo si trovavano con taniche e secchi attorno a uno dei due camion rubati che si era impantanato nel greto di un fiume. Hadschi Amanullah e altri abitanti del villaggio hanno raccontato che i talebani avevano chiesto loro di aiutarli a svuotare il prezioso carico, consentendo loro di tenersene una parte. Verso le due e mezza di notte, il comando militare tedesco di Kunduz, dopo aver saputo del sequestro delle due cisterne di gasolio destinato ai Tornado della Luftwaffe, ha chiesto l'intervento dell'aviazione, che ha subito individuato e colpito gli obiettivi indicati. E' probabile che il raid sia stato condotto da cacciabombardieri dell'aviazione Usa.
Secondo fonti anonime della sicurezza afgana, i morti sarebbero addirittura 200, e altrettanti i feriti.

7.500 civili uccisi finora da Usa e Nato. Se confermata, questa ennesima strage di innocenti infliggerebbe un durissimo colpo alla credibilità della tanto pubblicizzata nuova strategia degli Stati Uniti volta a minimizzare i danni collaterali, ovvero le perdite civili causate delle operazioni militari contro gli insorti, limitando il ricorso allaviazione e allartiglieria pesante.
Dallinizio dellanno, secondo i dati ufficiali dellOnu, sono tra 300 e 400 i civili afgani uccisi dalle forze doccupazione occidentali (seicento quelli vittime di attacchi talebani). Ma si tratta di cifre ampiamente sottostimate, poiché la maggior parte dei civili uccisi dalla Nato rimangono classificati ufficialmente come insorti. Quelli singolarmente conteggiati nel database del professor Marc Herold, dellUniversità del New Hampshire sono almeno 600.
Nel 2008 erano stati 800 per lOnu, quasi mille per il professor Herold, ancora di più secondo lorganizzazione non governativa Afghanistan Rights Monitor (Arm).
Nel 2007 la cifra ufficiale era 600 secondo le Nazioni Unite, il doppio secondo laccademico statunitense.
Dallinvasione dellAfghanistan nel 2001 a oggi, secondo le stime più attendibili, le vittime civili delle azioni militari straniere sono state oltre 7.500.

 

Il diavolo in corpo

di Marco Damilano

Lo scontro con la Chiesa. Gli attacchi all'Europa. Il tentativo di bavaglio all'informazione. Il premier lancia la sua campagna di settembre. Ecco i suoi obiettivi

Berlusconi con Benedetto XVI durante una visita nel giugno 2008
Mi raccomando, scrivetelo che io queste cose le dico sempre con il sorriso... Certo, Cavaliere, si figuri, come no. Con un bel sorriso, la sera del primo settembre, data anniversario dell'invasione nazista della Polonia e dell'inizio della Seconda guerra mondiale, Silvio Berlusconi in visita a Danzica, la città polacca da cui partì tutto, prova ad affossare alcune istituzioni uscite dalla vittoria delle democrazie nel conflitto più sanguinoso della storia.

L'Unione europea, per esempio. "Bloccheremo con il veto il funzionamento della Commissione Ue", minaccia il premier scatenando le reazioni di Bruxelles, alla vigilia del rinnovo del mandato da presidente del portoghese Josè Manuel Barroso. Berlusconi è infuriato per le dichiarazioni del portavoce Ue Johannes Leitenberger sulla libertà di espressione come "garanzia fondamentale dell'Europa". Dovrebbe essere la scoperta dell'acqua calda, e invece nel reame di Berlusconia isolato dal resto della comunità internazionale no, non si può dire, è una verità scomoda. Anche perché, sempre con il sorriso, nella stessa esternazione, l'uomo che guida il governo italiano attacca sul piano personale Carlo De Benedetti ("Un editore svizzero"), il direttore di "Repubblica" Ezio Mauro ("Evasore fiscale") e l'intera stampa internazionale, presa in blocco, come un unico soggetto ostile. Finito? Macché, sempre con il sorriso, il Cavaliere lancia l'avvertimento finale alle gerarchie ecclesiastiche, già stressate da una settimana difficile.

La legge sul testamento biologico, quella per cui Berlusconi appena sette mesi fa sfidò il Quirinale, provocò una crisi istituzionale e mobilitò il gruppo del Pdl al Senato chiamato a votare in poche ore il decreto salva-Eluana, poi approvata a Palazzo Madama, potrebbe tornare in discussione: "Ne parleremo alla Camera, io garantirò la libertà di coscienza dei deputati Pdl". Sciogliete le righe, altro sorriso berlusconiano, anche la Chiesa è servita. La dichiarazione di guerra di Danzica è conclusa. È la nuova strategia del premier, partorita nelle settimane estive con l'inner circle, dove sale sempre di più la stella di Niccolò Ghedini e tramonta malinconicamente l'influenza di Gianni Letta, l'ambasciatore dei tempi di pace esautorato in questa stagione di guerra sporca, senza quartiere. La strategia della tensione inaugurata al rientro delle vacanze venerdì 28 agosto. Quel giorno da Palazzo Chigi partono le querele contro il gruppo Espresso e i giornali internazionali che hanno ripreso le dieci domande sulle frequentazioni pericolose del premier, famose ormai in mezza Europa, ma mai riprese da un tg nazionale.

E sulla prima pagina del "Giornale", di nuovo affidato alle sottili cure di Vittorio Feltri, campeggia il titolo: "Il supermoralista condannato per molestie". Sottotitolo: "Dino Boffo, alla guida del giornale dei vescovi italiani e impegnato nell'accesa campagna contro i peccati del premier, intimidiva la moglie dell'uomo con cui aveva una relazione". Il caso Boffo serve a spiegare meglio di ogni altra cosa l'escalation del neo-berlusconismo, al cui confronto il "non faremo prigionieri" di Cesare Previti era un mazzo di rose. Chi è Dino Boffo, infatti? Molto più di un semplice direttore di "Avvenire". Da 15 anni è uno dei personaggi più influenti e potenti della Chiesa e, dunque, della nomenclatura italiana. L'uomo di fiducia del cardinale Camillo Ruini. La guida di un impero multimediale che raccoglie il quotidiano dei vescovi, la televisione satellitare Sat2000, il circuito radiofonico più i grandi eventi comunicativi, tutto centralizzato nella persona di Boffo. Il front runner delle grandi campagne della Cei ruiniana, dall'astensione sui referendum sulla fecondazione assistita nel 2005 al Family Day contro la legge sulle coppie di fatto proposta dal governo Prodi e dalla cattolicissima Rosy Bindi. Cosa pensi Boffo del Cavaliere, dell'anomalia berlusconiana e del conflitto di interessi, il direttore di "Avvenire" lo chiarisce una volta per tutte il 18 aprile 2006 parlando ex cathedra dal suo pulpito preferito, il forum con i lettori nella pagina delle lettere. "Sarà dura rimediare ai guasti che il gruppo di potere di Berlusconi ha recato alle istituzioni: la vergogna delle leggi ad personam, lo stravolgimento dei principi costituzionali", scrive il lettore Ranieri Marchi. "Mi preoccupa anche la corsa farisaica a dichiararsi figli devoti della Chiesa". Boffo, però, non ci sta. E replica in malo modo: "Il suo è un anti-berlusconismo istintivo, totale, fazioso". Quanto al rapporto con la Chiesa, Boffo non ha dubbi: "Il fenomeno della secolarizzazione in Italia era partito assai prima che Berlusconi invadesse l'etere con le sue tv. Abbiamo dimenticato la vicenda del divorzio e dell'aborto? Si ricorda quel ragionamento sibillino e falsamente democratico che dilagò anche in casa nostra, nel mondo cattolico, secondo cui si diceva: "Io non divorzierò mai, ma perché devo togliere questa possibilità ad altri?". Provi a pensare, amico caro, se l'inizio della crisi non fu piuttosto quello. Poi, certo, altro venne e fu la combustione generale".

Insomma, per Boffo in Italia c'è stata una sola, vera anomalia: il dialogo tra i cattolici e la sinistra. Un rapporto contro-natura, questo sì. In coerenza con questo dogma, per anni il fedelissimo di Ruini conduce "Avvenire" contro i cattolici democratici alla Prodi o alla Scoppola, l'Ulivo, i governi del centro-sinistra. E lancia nuove carriere politiche: nel centrodestra, in Forza Italia. Alla vigilia delle elezioni politiche 2006 dove sono in competizione Berlusconi e Prodi, per esempio, affida l'editoriale di orientamento al voto per i lettori alla laica Eugenia Roccella: "Il nostro problema, oggi, è non far scomparire la famiglia, la sacralità della vita, la dignità della persona. Ma per fare questo dobbiamo schierarci". Inutile dire da che parte: la Roccella, infatti, sarà scelta dalla Cei come portavoce del Family Day nel 2007 e da lì prenderà il volo. Oggi è deputata del Pdl e sottosegretaria al Welfare nel governo Berlusconi. Grazie a Boffo.

Un bel testacoda, dunque, che a finire nel mirino del "Giornale" sia finito proprio il nemico dei cattolici adulti, e per colpa di due interventi in quella rubrica dove per anni il direttore ha impartito vibranti lezioni agli anti-berlusconiani. Sono bastate due risposte ai lettori in rivolta per i silenzi della Chiesa sugli scandali sessuali di Berlusconi, il 24 e il 28 luglio, parole misurate e prudenti come sempre ("Uno scenario di potenziale desolazione"), ma per una volta esplicite, in difesa dei vescovi che nei giorni precedenti avevano condannato il premier. Pioveva, piovevano soprattutto nella redazione di "Avvenire" le lettere di parroci indignati per i comportamenti del premier e i silenzi della Chiesa, Boffo si è limitato ad aprire l'ombrello, ma per i falchi berlusconiani avrebbe dovuto giurare che c'era il sole, in molti d'altra parte in questo tempo sono disposti a farlo. Tanto è bastato nell'era del Berlusconi furioso per inserire Boffo nella lista dei cattivi. Il moralista, il cattocomunista da dileggiare sulla gazzetta della famiglia Berlusconi, da sbattere in prima pagina come omosessuale "attenzionato dalla Polizia" e"bugiardo". Una strategia della tensione e dell'intimidazione che non risparmia neppure gli ex amici. E che, in questo caso, è arrivata a sfiorare il soglio più alto, la figura del papa trascinata nella polemica per via di una telefonata al presidente della Cei cardinale Angelo Bagnasco. Per la Chiesa, nelle sue varie anime in contrasto tra loro, gli ultimi giorni rappresentano la fine di un'illusione a lungo coltivata negli ambienti ruiniani. "Per anni abbiamo pensato che la sinistra fosse ideologica, inaccessibile ai nostri messaggi. E che invece il centrodestra, la creatura berlusconiana, fosse una parete bianca, vuota, in cui ognuno poteva scrivere quello che voleva", spiega un monsignore. La speranza che nel vuoto di idee del Pdl fosse più facile per i vertici della Chiesa infilare progetti, risorse, classe dirigente. L'ultima settimana rappresenta un brusco risveglio. In pochi giorni la Lega ha invitato il Vaticano a prendersi gli immigrati in casa, il presidente della Camera Gianfranco Fini ha intimato ai vescovi a restare fuori dal dibattito sul testamento biologico. E Berlusconi, il nuovo uomo della Provvidenza benedetto dalla cordata Ruini, minaccia di rimettere in discussione il pacco di doni legislativi promesso alla segreteria di Stato vaticana.

Un assedio che costringe gli uomini del cardinale Tarcisio Bertone, numero due del Vaticano, filo-governativi, e l'ala dura della Cei, incarnata dai siciliani Mariano Crociata e Domenico Mogavero, a mettere da parte le rivalità esplose fragorosamente sui giornali e a fare quadrato. Per un'istituzione come la Chiesa, abituata a ragionare in millenni e non in anni, il dopo-Berlusconi è già un tema di attualità. Né è possibile farsi mettere sotto ricatto dal Cavaliere che consente la pubblicazione di informative per seminare la zizzania tra i pastori di Cristo, i pescatori di uomini chiamati ora a muoversi nel porto limaccioso dei dossier, e agita sondaggi sfavorevoli al Vaticano e favorevoli a lui. A dimostrazione che per il Berlusconi furioso non esistono contropoteri. Non lo possono essere i vescovi. Non può esserlo l'Europa, bollata come l'istituzione dei portavoce, un fantasma inesistente. Deve essere impedito che lo diventi la stampa che non è direttamente o indirettamente controllata. E tantomeno può sperare di arginare la strategia chi nell'entourage berlusconiano ha sempre consigliato cautela e rispetto per le istituzioni: Gianni Letta mai come ora in difficoltà. Berlusconi va alla guerra totale, contro il Vaticano, contro l'Europa, contro tutti. Sarà ricordata a lungo la dichiarazione di Danzica. E chissà se, alla fine, al Cavaliere resterà incollato il bel sorriso di quel giorno, il primo settembre.

 

4 settembre

IL COMMENTO

Il delitto è compiuto

di GIUSEPPE D'AVANZO

DINO BOFFO, direttore dell'Avvenire, si è dimesso e non tiene conto discutere del sicario. È stato pagato per fare il suo sporco lavoro, se l'è sbrigata in fretta. Ora se ne vanta e si stropiccia le mani, lo sciagurato. Appare oggi più rilevante ricordare come è stato compiuto il delitto; chi lo ha commissionato e perché; quali sono le conseguenze per noi tutti: per noi che viviamo in questa democrazia; per voi che leggete i giornali; per noi che li facciamo.

Dino Boffo è stato ucciso sulla pubblica piazza con una menzogna che non ha nulla a che fare - né di diritto né di rovescio - con il giornalismo, ma con una tecnica sovietica di disinformazione che altera il giornalismo in calunnia. Il mondo anglosassone ha un'espressione per definire quel che è accaduto al direttore dell'Avvenire, character assassination, assassinio mediatico. Il potere che ci governa ha messo in mano a chi dirige il Giornale del capo del governo - una sorta di autoalimentazione dell'alambicco venefico a uso politico - un foglio anonimo, redatto nel retrobottega di qualche burocrazia della sicurezza da un infedele servitore dello Stato. C'era scritto di Boffo come di "un noto omosessuale attenzionato dalla Polizia di Stato". L'assassino presenta quella diceria poliziesca come un fatto, addirittura come un documento giudiziario.

È un imbroglio, è un inganno. Non c'è alcuna "nota informativa". È soltanto una ciancia utile al rito di degradazione. L'assassino la usa come un bastone chiodato e, nel silenzio degli osservatori, spacca la testa all'errante. L'errore di Boffo? Ha criticato, con i toni prudentissimi che gli sono propri e propri della Chiesa, lo stile di vita di Silvio Berlusconi. Ha lasciato che comparissero sulle pagine del quotidiano della Conferenza episcopale l'amarezza delle parrocchie e dei parroci, il disagio dei credenti e del mondo cattolico più popolare dinanzi all'esempio di vita di Quello-Che-Comanda-Tutto.

Ora che c'è un morto, viene il freddo alle ossa pensare che anche una prudente critica, una sorvegliata disapprovazione può valere, nell'infelice Paese di Berlusconi, il prezzo più alto: la distruzione morale e professionale. Ma soltanto le prefiche e gli ipocriti se ne possono meravigliare. Da mesi, il presidente del Consiglio ha rinunciato ad affermare la legittimità del suo governo per mostrare, senza alcuna finzione ideologica, come la natura più nascosta del suo potere sia la violenza pura. Con l'assassinio di Dino Boffo, prima vittima della "campagna d'autunno" pianificata con lucidità da Berlusconi (ha lavorato a questo programma in agosto dimenticando la promessa di andare all'Aquila a controllare i cantieri della ricostruzione), questa tecnica di dominio politico si libera di ogni impaccio, di ogni decenza o scrupolo democratico.

Berlusconi decide di muovere contro i suoi avversari, autentici e presunti, tutte intere le articolazioni del multiforme potere che si è assicurato con un maestoso conflitto d'interesse. Stila una lista di nemici. Vuole demolirli. Licenzia quelli tra i suoi che gli appaiono pirla, fessi, cacaminuzzoli. Vuole sicari pronti a sporcarsi le mani. È il padrone di quell'industria di notizie di carta e di immagini. Muove come vuole. È anche il presidente del Consiglio e governa le burocrazie della sicurezza (già abbiamo visto in un'altra stagione i suoi servizi segreti pianificare la demolizione dei "nemici in toga").

Il potere che ci governa chiede e raccoglie nelle sue mani le informazioni - vere, false, mezze vere, mezze false, sudicie, fresche o ammuffite - che possano tornare utili per il programma di vendetta e punizione che ha preparato. Quelle informazioni, opportunamente manipolate, sono rilanciate dai giornali del premier nel silenzio dei telegiornali del servizio pubblico che controlla, nell'acquiescenza di gruppi editoriali docili o intimiditi. È questo il palcoscenico che ha visto il sacrificio di Dino Boffo ordinato da Quello-Che-Comanda-Tutto.

È la scena dove ora salmodiano il coro soi-disant neutrale, le anime fioche e prudenti in cerca di un alibi per la loro arrendevolezza, gli ipocriti in malafede che, riscoprendo fuori tempo e oltre ogni logica la teoria degli "opposti estremismi" mediatici, accomunano senza pudore le domande di Repubblica alle calunnie del Giornale; un'inchiesta giornalistica a un rito di degradazione sovietico; la vita privata di un libero cittadino alla vita di un capo di governo che liberamente ha deciso di rendere pubblica la sua; la ricerca della verità all'uso deliberato della menzogna.

È questa la scena che dentro le istituzioni e nel Paese dovrebbe preoccupare chiunque. Per punirlo delle sue opinioni, un uomo è stato disseccato, nella sua stessa identità, da una mano micidiale che ha raccolto contro di lui il potere della politica, dello Stato, dell'informazione, dei giornali di proprietà del premier usati come arma politica impropria. Nei cromosomi della democrazia c'è la libertà di stampa e, come si legge nell'articolo 21 della Costituzione, "il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero". È questa libertà che è stata umiliata e schiacciata con l'assassinio di Dino Boffo. Lo si vede a occhio nudo, anche da lontano. "Un giornalista è l'ultima vittima di Berlusconi", scrive il New York Times. Chi, in Italia, non lo vuole vedere e preferisce chiudere gli occhi è un complice degli uccisori e di chi ha commissionato quel character assassination.

 

2 settembre

I senza lavoro

di Fabrizio Gatti

La provincia di Treviso era la locomotiva del Nord Est. Ma la crisi qui ha già colpito più di seimila lavoratori. Ecco il racconto della loro vita quotidiana senza stipendio

Stasera la cena di Luigi Marcuzzo, 46 anni, è senza carne. Non ne mangia da settimane. Sposato, separato, una figlia di 11 anni a carico. Luigi faceva l'operaio a millecento euro. Da novembre 2008 è senza stipendio e la bistecca è ormai un lusso. Piatti poveri anche a casa del collega Gino Daros, 45 anni. Soltanto pasta, pane, insalata e acqua del rubinetto. Di più lui e suo fratello non si possono permettere. Paola Marcon, 44 anni, compra solo prodotti in offerta. Sia Paola, sia il marito hanno perso il lavoro. Hanno due ragazzi di 13 e 17 anni da far studiare. E da nove mesi vivono consumando i risparmi di anni.

La crisi sta entrando nelle case. Feroce e spietata. Anche qui, nel Nord Est, Treviso e provincia, locomotiva del modello italiano, del successo faidate e del durismo leghista che proprio in questa terra, tra parlamentari e ministri, ha fatto il pieno di voti. Già da mesi esplodono drammi che l'ottimismo governativo nasconde. E settembre è arrivato con il pericolo, tutto da scoprire, di nuove chiusure a catena. Questa è la vera paura. Altro che sicurezza, ronde, dialetto, bandiera regionale. Bastano i numeri: da gennaio 6.231 lavoratori di questi paesi, uomini e donne, italiani e stranieri, hanno perso il posto o hanno subito una riduzione dello stipendio per cassa integrazione o mobilità. Tagliano dipendenti i colossi degli elettrodomestici come Electrolux di Susegana e Zoppas di Vittorio Veneto. Sforbiciate al personale nelle industrie dell'abbigliamento e dello sport come Stefanel a Ponte di Piave, Diadora a Caerano San Marco, Tecnica a Giavera del Montello. Chiude e manda a casa 117 persone lo storico lanificio Cerruti Policarpo di Vittorio Veneto. Vanno poi aggiunti il mancato rinnovo dei contratti a termine, le liquidazioni, i fallimenti che colpiscono a macchia di leopardo nella costellazione di aziende comprese tra i due e i settecento dipendenti. Famiglie costrette a fare la spesa con meno di dieci euro a settimana. E all'improvviso non c'è più differenza tra italiani e immigrati.

Agli sportelli Caritas di don Ferruccio Sant, veneti e albanesi sono in testa nelle richieste del sussidio di solidarietà. Ogni acquisto, ogni bolletta, senza più entrate, è una ulteriore discesa nel baratro della povertà. La strada che da Conegliano, 35 mila abitanti, porta verso le colline brilla di vetrine e showroom costruiti nell'ultimo decennio di economia galoppante. Il centro commerciale, l'ultimo dopo la rotonda a destra, ha grandi cartelli con la scritta saldi. Non si tratta di abbigliamento, ma di beni di prima necessità: alimentari, sapone e maxi pacchi di carta igienica di marca offerti a due euro. Devono svendere pure quelli, altrimenti nessuno compra. Si prosegue oltre il confine comunale, lungo la provinciale che sale a Refrontolo, tra vigneti di prosecco e sacrari della Prima guerra mondiale.

Da dicembre novanta tra operai e impiegati combattono per un posto di lavoro che non esiste più. Il gigantesco capannone, subito prima dello stabilimento di cucine Ariston-Indesit, ha ancora l'insegna. "Ape - Advanced project engineering ", c'è scritto. È chiuso da nove mesi. Durante le ultime vacanze di Natale la proprietà ha portato via i macchinari. La Ape era subentrata due anni fa alla liquidazione della "Zara marmitte", un marchio che riforniva le concessionarie di auto e camion. I dipendenti erano in ferie dal 19 dicembre 2008. Ma nessuno di loro sospettava il tracollo. Quando sono tornati al lavoro a inizio gennaio, hanno trovato i cancelli chiusi. Per sempre. Un colpo a tradimento. Senza preavviso. Senza cassa integrazione o il paracadute della mobilità. Senza nemmeno una lettera. Un caso Innse di provincia. Solo che qui, a differenza dei riflettori di Milano dove l'azienda è stata salvata, è finita male. Per questi manager la famiglia di un operaio vale meno del costo di una telefonata.

"Ci hanno scaricati senza preavviso. Non immaginavo arrivassero a tanto", dice Luigi Marcuzzo, operaio saldatore di Colfosco di Susegana, licenza di terza media, due anni di anzianità in Ape e quindici per Zara marmitte: "Avevo ristrutturato la casa. Un mutuo di 310 euro al mese per quindici anni. La banca mi ha sospeso le rate per un anno. Ma nessuno sa se tra un anno lavoreremo. Era la casa che mio padre si era sudato con i risparmi da muratore. Prima della ristrutturazione era un fienile. Adesso la venderò. Mia figlia va in prima media e non so come pagare i libri. La devo vendere".

Il governo si inventa la sanatoria per salvare l'assistenza agli anziani dalle manette del decreto sicurezza. Ma nel Veneto spazzato dalla crisi le badanti curano anche gli scolari. "Quando otto anni fa mi sono separato, la bimba è rimasta con me", racconta Luigi Marcuzzo, "e adesso mi aiuta il Comune di Susegana dove abitiamo. Mi paga la baby-sitter che bada alla piccola quando sono fuori di casa. Io non ce la faccio a pagare. Ho un arretrato di due mesi di tutte le bollette. Ho tolto il telefono fisso, sì ho tenuto il telefonino ma non chiamo più, lascio che chiamino gli altri. In ottobre avevo comprato un computer portatile per mia figlia a 350 euro. Un mese fa ho dovuto rivenderlo. Mi hanno dato 150 euro. È niente ma mi servivano "sghei", soldi per fare la spesa. C'era anche l'abbonamento a Sky, 36 euro al mese. Il mio conto è vuoto. La banca non paga le bollette e da qualche settimana non ricevo più i canali. Via anche Sky". Si può fare a meno di Rupert Murdoch. Ma la mancanza di lavoro minaccia addirittura la sicurezza alimentare.

In Veneto è un salto indietro di cinquant'anni: "Per la spesa compro pasta e poco altro", rivela Luigi: "Mangiamo pasta. Costa poco e riempie. Niente vino, niente birra, niente carne, niente spese inutili. Non devo superare i dieci euro a settimana. Magari un po' di carne me la passa mia sorella. È in pensione, se può mi dà cinquanta euro. Io ho finito i risparmi. Grariconosciuta la cassa integrazione. Ma da novembre non abbiamo ancora visto un soldo. Il Comune di Susegana tre mesi fa ha anticipato 1.800 euro. Diviso nove mesi, fanno 200 euro al mese. Con questo sto vivendo". Come passa la giornata? "Accompagno mia figlia dalla baby-sitter. Torno a casa, prendo la bici e vado in giro. Mentre pedalo, penso alla rabbia. Il lavoro c'era, il padrone ci aveva garantiti. Invece ci hanno buttati fuori".

Gino Daros, operaio attrezzista alla Ape, licenza media inferiore, abita a Conegliano con il fratello, 48 anni, emigrante in Germania fino a due anni fa quando, perso il lavoro da gelataio, non ha trovato più nulla. Un po' per l'età, un po' per la crisi che stava arrivando. È dovuto tornare indietro. Così come in questi mesi sono tornati in patria tre colleghi marocchini di Gino ai quali il comune di residenza, Crocetta del Montello, aveva negato l'anticipo della cassa integrazione. "Nei miei nove mesi senza lavoro ", racconta Gino Daros, "sono entrati 2.400 euro in quattro rate che il Comune di Conegliano mi ha anticipato. Le bollette siamo riusciti a pagarle. Ma ho sei mesi di arretrati d'affitto, 400 euro al mese. Devi scegliere, o paghi o mangi. Ho tagliato quasi tutto. Prima correvo in bicicletta. Ho venduto la Atala da corsa. Ho una Seat Ibiza. Non la uso più per non spendere in benzina. Mi muovo in bici. Ho tagliato anche sugli alimentari, sul primo e sul secondo. Non possiamo permettercelo. Mangiamo un solo piatto. Sempre pasta".

Questo è periodo di vendemmia, in Veneto. Ma accettare un altro contratto, anche stagionale, significa perdere i diritti maturati. Come ha scoperto Giuseppe Piccin, 61 anni, operaio da quando ne aveva dodici, ora senza stipendio, 500 euro al mese tra mutuo e fidi bancari da restituire, tre rate e due mesi di telefono arretrati, un figlio di 25 anni con lavori occasionali. Piccin aveva trovato un contratto di tre mesi: "Non sono potuto andare. Oltre alla cassa integrazione, mi hanno detto che avrei perso l'aggancio alla pensione. La notte però mi vengono gli incubi. Sogno di non farcela e mi sveglio".

"Il problema grosso è la piccola impresa che non avrà futuro", spiega Loris Scarpa, sindacalista della segreteria Fiom-Cgil di Treviso: "O si ripensa alla produzione in grosse dimensioni o sarà molto complicato uscirne. Si considerano i lavoratori come oggetti. E chi è precario è lontano da tutte le possibilità di assistenza sociale".

Nemmeno in questa casa anni Cinquanta, alla periferia di Conegliano, entrano stipendi. Tanto per cominciare sono 400 euro al mese di affitto per cucina, un piccolo salotto, bagno, due camere, ripostiglio, un po' di orto. Paola Marcon, operaia part-time e delegata Cgil alla Ape, è senza paga da novembre. Suo marito, Zuhair Al Kaisy, 55 anni, architetto, cittadino italiano nato in Iraq, ha invece perso il lavoro nell'aprile 2008. Era operaio a tempo determinato alla Electrolux, nonostante la laurea e le specializzazioni ottenute in Italia: "Non ho avuto un lavoro come laureato perché qui in Veneto", dice Al Kaisy, "se uno non è italiano, che tu faccia il pizzaiolo o l'architetto, credono che tu non ci sappia fare. Alla Electrolux lavoravo da tre anni con contratti da tre a sei mesi. Più di operaio non ho trovato". Ma come tutti i precari, senza diritto alla cassa integrazione né alla mobilità, anche Al Kaisy da un giorno all'altro l'hanno lasciato a casa. L'unica entrata è l'anticipo del Comune: quattro rate da 600 euro. E un sussidio regionale di 220 euro in tre rate. "Avevo mille euro di spese arretrate, per questo ho fatto domanda alla Regione", racconta Paola Marcon: "Nella lettera che annunciava il contributo c'era scritto: le auguro che l'intervento le sia di aiuto. Ma come possono pensare di aiutare una famiglia con 220 euro? Stiamo consumando i risparmi messi via negli anni. Risparmiamo sul riscaldamento con una stufa a legna. Cerchiamo di tagliare. E ovviamente niente vacanze. Siamo una famiglia di operai. Non è che prima si navigasse nell'oro". I contributi sono comunque briciole rispetto alle spese del 2009: oltre ai 400 euro mensili di affitto, 80 euro di luce a bimestre, 82 di acqua, 400 all'anno di tasse sui rifiuti, 400 al mese di spesa alimentare, 500 per un intervento dal dentista, 1500 l'anno di gasolio per la caldaia, 500 l'anno per la legna, 300 al mese per muoversi a cercare lavoro con una Mondeo e una Polo vecchie di dieci anni.

È una crisi silenziosa. Per ora quasi invisibile. Niente presìdi, niente striscioni nelle fabbriche. "Perché in Veneto eravamo abituati ad avere un tenore di vita buono", spiega Paola Marcon: "Perdere il lavoro qui è ancora considerato una sorta di vergogna. È una questione di facciata, di apparenza. Con i miei colleghi ce lo sentiamo addosso. Ti indicano come fallito. Io ho 44 anni. La paura non è avere perso il lavoro. È non sapere cosa viene dopo".

 

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