29 gennaio

Attenti alla Borsa, il guardiano è distratto

di Adriano Bonafede, da Repubblica Affari & Finanza, 25 gennaio 2010

Il rito più importante di ogni mattina, alla Consob, non è il cappuccino e il cornetto ma la lettura dei giornali. Con un misto di curiosità e di paura. Curiosità per sapere quali società quotate cominciano ad avere dei problemi. Paura perché bisogna in fretta e furia iniziare un’istruttoria su queste società prima che lo faccia la Procura e prima che i giornali tirino fuori altre magagne senza che la Consob lo sappia. Basta cominciare da qui per tracciare il magro bilancio degli anni in cui Lamberto Cardia è stato presidente. Il suo incarico, prorogato da 5 a 7 anni, scadrà a giugno. E, salvo che non tiri fuori dal cilindro qualche altro coniglio, (proprio adesso è uscita fuori la storia che sarebbe in gestazione un’altra leggina ad hoc per prorogare la sua presidenza) quella è la data in cui libererà il posto alla Commissione nazionale per le società e la Borsa.

Ma perché la Consob, che nella sua relazione annuale dà molti numeri sull’attività ispettiva ma poi, sul campo, non arriva mai prima sul luogo del delitto, ma soltanto dopo che sono già presenti i fotografi, la stampa e i magistrati? È accaduto con tutti i casi più gravi ed eclatanti, a cominciare da Parlamat: una società che per anni e anni ha falsificato i bilanci senza che alla Consob ne sapessero nulla. Per finire al caso più recente, quello di Mariella Burani, su cui ha aperto un’indagine la magistratura.

Non è strano, tutto ciò. È vero che Cardia ha messo in luce, nell’ultima Relazione annuale, il rafforzamento che c’è stato negli ultimi anni nel numero dei dipendenti, passati dai 382 del 2004 ai 506 del 2008. Quel che però il presidente non dice è che questo aumento non è andato a rafforzare con decisione l’attività operativa, l’unica in grado di scovare le frodi. E infatti, oltre il 50 per cento degli addetti continua a essere impiegato nell’attività burocratica di supporto, solo il 49,3 in quella operativa. Alla Sec, tanto per fare un raffronto, all’attività operativa è dedicato il 77 per cento dei dipendenti.

Ma non basta. Cardia non dice che alla Consob ci sono pochi analisti di bilancio, quelli cioè che sarebbero in grado spulciare fra i conti delle società quotate per vedere cosa c’è che non quadra. E ancora: questa pur debole struttura non ha finora individuato un solo caso eclatante di frode (come Parmalat, per intendersi) anche perché sembra che l’orientamento del management interno sia quello di indirizzare questi analisti più verso l’avvistamento di possibili crisi aziendali che non verso la scoperta delle frodi. Ma non è detto, naturalmente, che dietro una crisi ci sia per forza una frode, mentre è possibile che dietro bilanci floridi si nasconda qualche magagna.

Nell’ultima Relazione Cardia ha dedicato pagine e pagine alla crisi dei mercati finanziari. Secondo gli osservatori, ciò indica che Cardia sembra interessato più alla stabilità del sistema come fa la Banca d’Italia, che però ha proprio questo come scopo istituzionale – che non alla trasparenza, alla correttezza dei comportanti sociali e alla tutela del risparmio (che significa soprattutto tutela dei piccoli risparmiatori e degli azionisti di minoranza). Saremmo di fronte, secondo alcuni, di un errore metodologico che, a cascata, permea ogni altro comportamento dell’autorità. La quale, ricordiamolo, ha come obiettivo di legge "la tutela degli investitori e l'efficienza, la trasparenza e lo sviluppo del mercato mobiliare". Non la stabilità del sistema.

La filosofia di Cardia è bene esposta nella lettera che lo stesso presidente Consob inviò aRepubblicain risposta al direttore diAffari & Finanza, Massimo Giannini. «Nell’attuale contesto di crisi dei mercati finanziari ritengo che sia opportuno rafforzare gli strumenti di difesa delle società quotate, in particolare quelle di valenza strategica». La lettera si riferiva alle misure che erano state prese dal governo e che lui stesso aveva caldeggiato: in particolare l’emendamento che introduce la possibilità, per le società quotate, di riacquistare fino al 20% delle proprie azioni (buy back), esentando anche dall’Opa chi, esercitando il controllo con il 30 per cento, decida di salire al 35. Il combinato disposto di queste due norme consente all’azionista di controllo di salire fino al 43,75 per cento (anche se come si ricorderà le azioni proprie non votano) senza dover estendere l’offerta a tutti gli azionisti.

Una filosofia che ha fatto inorridire molti osservatori distaccati. L’economista Alessandro Penati nota che «per Cardia è importante difendere gli interessi del governo, della nazione, degli azionisti di controllo, della proprietà delle banche. Ma la Consob dovrebbe invece difendere la trasparenza e gli interessi di chi non è tutelato, ovvero gli azionisti di minoranza e i risparmiatori».

L’altro tassello della filosofia di Cardia è quello di stabilire un buon rapporto con i politici, a cui non si è mai opposto. Ma questa sua benevolenza è andata a volte in contrasto con la sua mission. Prendiamo il caso Alitalia: nell’ultima Relazione Cardia sostiene di aver "rafforzato la vigilanza sulla regolarità nel funzionamento del mercato" a proposito della compagnia di bandiera. Ma verso la fine del governo Prodi, in concomitanza con l’offerta Air FranceKlm, si sono susseguite dichiarazioni pubbliche da parte di Berlusconi e di altri esponenti del centro destra in grado di avere considerevoli effetti sul titolo. Cardia, però, è rimasto incredibilmente muto. Successivamente, il decreto Alitalia del governo Berlusconi, sospendeva – in contrasto con la legge comunitaria – gli obblighi d’informazione al mercato durante l’offerta coordinata da Intesa Sanpaolo.

La sospensione di quegli obblighi è passata senza che Cardia proferisse una sola parola, mentre si ricorda qualche dichiarazione contraria del presidente dell’Antitrust, Antonio Catricalà. Nell’ultima relazione annuale, il passaggio che riguarda questo decreto non riporta alcuna considerazione in merito, come se se lo avesse accettato naturaliter.

La politica di Cardia è guardinga anche nei confronti delle Procure della Repubblica, a cui del resto sono arrivate soltanto "2 segnalazioni 2" per abuso di informazioni privilegiate nel 2008, come riportato nella Relazione. La preoccupazione è solo quella di mantenere buoni rapporti. La verità sostengono gli addetti ai lavori è che le due istituzioni dovrebbero collaborare per comprendere come le frodi avvengono ed evitare casi futuri. Invece pare che le Procure si fidino poco della Consob, e facciano indagini per conto loro.

Se un giorno si dovrà fare un bilancio degli anni di Cardia alla Consob, bisognerà comunque mettere in primo piano come in tutti questi anni l’attività sia andata a rilento. L’elenco delle cose non fatte è molto lungo (vedi articolo a destra), ma se c’è una cosa che davvero esprime la cifra di questa presidenza è il mancato regolamento sulle "operazioni su parti correlate" (ovvero quelle operazioni che coinvolgono una società quotata e i suoi amministratori o gli azionisti di rilievo o gli organi di controllo). Nella sua ultima Relazione annuale, Cardia scrive con orgoglio che "le scelte regolamentari che saranno a breve sottoposte a una nuova ultima fase di consultazione, intendono salvaguardare la flessibilità e l’autonomia delle società».

Sembra una cosa quasi fatta, ma è dal gennaio 2005 che questo regolamento avrebbe dovuto essere emanato. Invece, dopo due tentativi andati a vuoto, resta appeso al palo. «La Consob – ha scritto l’ex commissario Salvatore Bragantini – sta mancando al suo dovere. Lo strapotere dei soci di controllo è la grande anomalia del nostro mercato finanziario, che espone gli azionisti non rappresentati nella stanza dei bottoni ad ogni sorta di angherie».

L’elenco delle operazioni dubbie sulle parti correlate è lungo. Uno dei più recenti riguarda Telecom Italia, che ha venduto la tedesca Hansanet a Telefonica tra le proteste del socio di minoranza Fossati, che riteneva fosse stata svenduta. «Ma la verità – dice sconsolato un osservatore – è che Cardia non si è mai voluto mettere contro Mediobanca, che vive di operazioni su parti correlate». Mettersi "contro" non è proprio nello stile di Cardia. Che adesso, per tutti i "servigi" resi un po’ qua e un po’ là cerca, alla venerabile età di 76 anni, un premio sotto forma di un rinnovo dell’attuale incarico. In subordine, è ben accetto anche un altro posto.

 

I furbetti dell'aumentino

Alla faccia della crisi. Con un cavillo nella Finanziaria regionale, i consiglieri del Friuli Venezia Giulia si sono concessi un regalino. Si sono aumentati i rimborsi per le spese di auto e vitto, con un incremento che va da 175 a 580 euro in più al mese. In pratica, un omaggio anche di 8700 euro l'anno per migliorare il loro tenore di vita. Si stima che alla fine per i 59 consiglieri regionali l'esborso supplettivo sarà sicuramente superiore ai 120 mila di euro, forse vicino ai 200 mila. E - nonostante non siano in cima alle classifiche della casta local - i parlamentari del Fvg hanno già stipendi significativi: in busta paga finiscono circa 8000 euro netti di stipendio, più altre indennità variabili. Per il rimborso auto finora c'erano contributi variabili a seconda della distanza dalla sede del Consiglio: 443 euro mensili per i triestini, 2704 per chi viene da Pordenone. Ma nel 2010 dovranno lavorare anche di venerdì, ed ecco l'aumentino per compensare il giorno in più di riunione.

Di fronte alle critiche, maggioranza di centrodestra e Pd hanno fatto quadrato e hanno difeso la decisione di potenziare il benefit. Solo il governatore Renzo Tondo si è dissociato chiedendo un taglio dei costi della politica. E si è beccato bordate feroci dai suoi alleati leghisti guidati da Federico Razzini: "Il governatore dia il buon esempio e passi ai fatti, visto che dispone di auto blu con due autisti, stuoli i personale e portaborse, ricchi fondi spese di rappresenza". Insomma, chi è senza peccato scenda dall'auto blu.

 

Più Falcon per tutti

Ma quali tagli, con Papi si vola sempre di più! C'è una voce della Finanziaria che non solo aumenta ma addirittura decolla: uno stanziamento che cresce di ben sei volte. Si tratta dei fondi per i voli di Stato, le trasferte alate del premier Berlusconi, dei ministri, delle alte cariche istituzionali e dei loro ospiti a piacere. Nel 2009 era stata prevista una spesa frugale, sulla scia delle ferree regole introdotte da Romano Prodi: solo sei milioni di euro. Quello che in pratica, nell'era berlusconiana, è stato bruciato in poco più di un mese dalle gite a bordo di Airbus e Falcon, partiti dalla pista di Ciampino con il loro carico di autorità, ballerine e musicanti al seguito. Adesso si punta più in alto: i milioni stanziati per il 2010 sono 37. Molti pensano che l'impennata dei fondi non basterà per soddisfare la sete di passaggi tra le nuvole, che aumenta nonostante l'austerity invocata per tutta la pubblica amministrazione. Se verrà mantenuto il ritmo frenetico dello scorso anno, i 37 milioni copriranno solo il carburante del 31 stormo, lasciando fuori la flotta dei Piaggio 180 - le Ferrari dei cieli - assegnate in genere a sottosegretari e ministri di rango inferiore.

 

L'emendamento riaprirebbe i termini per abusi commessi entro il 31 marzo 2003.

L'appello del sindacato: "E' insulto ai cittadini onesti e aggressione all'ambiente".

"Nel Milleproroghe un nuovo condono".

Insorgono Pd, Cgil. E anche il Pdl si divide.

ROMA - Dalla Cgil a Legambiente, passando per il Pd e l'Idv, è bufera contro il progetto di un nuovo condono edilizio proposto da un emendamento del Popolo della Libertà al decreto "milleproroghe", in questi giorni in discussione alla Commissione Affari Costituzionali del Senato. L'emendamento, firmato dai senatori Carlo Sarro e Vincenzo Nespoli (Pdl), consentirebbe la riapertura fino al 31 dicembre 2010 dell'ultimo condono per abusi edilizi commessi entro il 31 marzo del 2003. "Una cementificazione selvaggia", insorgono i senatori del Partito Democratico Della Seta e Ferrante; "un emendamento criminale", taglia corto Legambiente. Sulla stessa linea Bellisario dell'Italia dei Valori: "Non consentiremo neussun condono".

Anche dal Pdl c'è chi, come i senatori Granata e Versace, ha alzato la voce contro la proposta di un nuovo condone, definendola "una suggestione pericolosa". La Cgil, dal canto suo, ha chiesto al Parlamento di respingere immediatamente la proposta, definendola "un insulto ai cittadini onesti e un'aggressione all'ambiente". Tutto questo nei giorno in cui, a Napoli e Ischia, è iniziata la demolizione di due edifici abusivi, contrastata dalla popolazione con lancio di sassi, barricate e tafferugli vari.

Cgil: "Insulto ai cittadini onesti e aggressione all'ambiente". La Cgil ha lanciato un appello al Parlamento affinché respinga la proposta. Per il sindacato, infatti, si tratta di "un vero e proprio insulto ai cittadini onesti, oltre che di un'aggressione all'ambiente". Queste le motivazioni contenute nell'appello: "Mentre il nostro Paese necessita di essere messo in sicurezza dai tanti dissesti idrogeologici e dal permanente rischio sismico; mentre il parco edilizio ha bisogno di verifiche profonde e di interventi di messa in sicurezza; mentre bambini, donne e uomini muoiono sotto le macerie di edifici fatiscenti o mal costruiti; mentre troppe famiglie subiscono sfratto o pignoramento perché la crisi non permette loro di pagare l'affitto o la rata di mutuo; mentre il vero Piano per l'edilizia sociale è praticamente fermo e il Fondo sociale per l'Affitto viene decurtato ogni anno, in Parlamento qualcuno della maggioranza propone un altro, l'ennesimo, condono edilizio".

 

Sentenza già scritta

Eseguite in Iran le prime due condanne a morte. Mohammad Reza Ali-Zamani e Arash Rahamapour, presunti dissidenti del regime, sono stati impiccati dopo un processo considerato dagli osservatori poco trasparente.

Dopo aver risposto con la forza ai moti dello scorso giugno, durante i quali morirono più di 70 persone e ne rimasero ferite 200, la Repubblica Islamica dell'Iran ha dato avvio all'epurazione dei dissidenti nelle aule di tribunale. Questa mattina sono stati impiccati, dopo un processo considerato da molti osservatori come non trasparente, Mohammad Reza Ali-Zamani di 37 anni e Arash Rahamapour di appena 19 anni. Le accuse avanzate dalla Corte Rivoluzionaria Islamica di Teheran, e confermate in sede d'appello, sono quelle di turbativa dell'ordine pubblico e Moharebeh (guerra contro dio). Secondo il pubblico ministero i due avrebbero commesso tali reati durante gli scontri post-elettorali scoppiati prima della scorsa estate nello Stato del sud-ovest asiatico.

Parola alla difesa. Inascoltata per gran parte del processo, la difesa ha cercato in tutti i modi di denunciare il fatto che entrambi gli imputati sono stati obbligati con la forza a rilasciare una dichiarazione di colpevolezza. In questo senso la posizione di Ali-Zamani è sempre stata compromessa dalla sua appertenenza alla "Kingdom Assembly of Iran" (KAI) (nota col nome di Anjoman-e Padeshahi-e Iran). Questo è un gruppo monarchico molto noto in Iran ma messo fuori legge dal governo. Gli oppositori al regime hanno sostenuto, fin dall'ottobre scorso, che la collaborazione con i monarchici era costata ad Ali-Zamani una sentenza di colpevolezza già scritta e impugnabile perfino di fronte alla corte d'appello. Per l'uomo, catturato prima dello scoppio delle proteste a Teheran, il primo procedimento giudiziario era iniziato lo scorso agosto. Su di lui pendeva un capo d'accusa granitico che poco lasciava sperare per una pronuncia di non colpevolezza o per una riduzione della pena: "aiutare la causa della distruzione durante e dopo le elezioni" . Un complotto questo che, per la pubblica accusa, sarebbe stato ordito dopo il ritorno dalla guerra dell'Iraq dove Ali-Zamani avrebbe collaborato con gli ufficiali militari di stanza a Baghdad per pianificare diversi omicidi politici. Chiamati in giudizio in qualità di testimoni i membri del Kai hanno confermato la relazione con Ali-Zamani ma sempre negato la sussistenza dei capi d'accusa a suo carico. Stando a quanto affermato dai monarchici, infatti, l'uomo non avrebbe avuto alcun ruolo attivo durante le proteste di giugno. Il suo compito sarebbe stato solo quello di trasmettere le notizie sui disordini dalla propria emittente radiofonica. Ma la polizia del presidente Mahamud Ahmadinejad lo catturò ugualmente per portarlo, con altri 11 sospetti, in una prigione dove a furia di pestaggi sarebbe stato costretto a confessare un crimine mai commesso.

Aveva paura per la propria famiglia. È quanto sostenuto da Nasrin Sotoudeh, legale del più giovane dei condannati, Arash Rahmanipour. "È stato arrestato durante Farvardin (il mese iraniano che corrisponde ai mesi di Marzo e Aprile), dunque prima delle elezioni e accusato di cooperazione con la Kia", ha sostenuto Sotoudeh. L'avvocato ha anche ricordato che il suo assistito aveva appena 19 anni al momento dell'arresto e che molte delle imputazioni ascrittegli si riferivano a presunti reati compiuti quand'era ancora minorenne.
"Ha confessato crimini che non ha commesso - ha svelato il legale - spinto dalle ripetute minacce contro la sua famiglia che non è mai stata messa a conoscenza che il processo d'appello era stato perso".
Mohammad Reza Ali-Zamani e Arash Rahamanipour erano solo due degli undici prigionieri politici attualmente in mano del regime iraniano. Per gli altri nove il giorno dell'esecuzione è sempre più vicino. E pare proprio che a nulla servirà il ricorso in appello.

Antonio Marafioti

 

26 gennaio

Giustizia, Stato e ordine pubblico

Si tratta di una casualità. Eppure, nel giro di poche ore, tre notizie hanno fatto capolino sui quotidiani italiani: hanno come protagonista le forze di polizia e per oggetto la repressione, le botte la degradazione dei manifestanti, fino all'omicidio.

La prima notizia: piazza del Municipio, 17 marzo 2001, Napoli. Quel giorno andò in scena la granmde prova generale dell'ignobile spettacolo fornito dalle forze di polizia a Genova pochi mesi più tardin nel cuore del G8. Le violenze, in una piazza scientificamente chiusa, senza via di uscita, passaggi interrotti financo alle autoambulanze che accorrevano numerose, ebbe il suo epilogo disgustoso nella caserma Raniero. Le testimonianze raccolte con un grande lavoro nel Libro bianco sui fatti di Napoli raccontano di perquisizioni corporali su uomini e donne al limite della tortura, estenuanti esercizi fisici, cori e insulti che risentiremo uguali nei corridoi di Bolzaneto, quattro mesi più tardi. In mezzo ci fu il cambio di governo, perché - è bene ricordarlo - il ministro responsabile di allora era il signor Enzo Bianco, oggi senatore del Pd, allora titolare del Viminale.

La seconda notizia: La Corte dei Conti ha convocato un centinaio di poliziotti per contestare loro il danno di immagine allo Stato per come hanno represso le manifestazioni dei No Tav.

La terza notizia è l'apertura del processo Aldrovandi-bis, quello relativo al depistaggio che è avvenuto dopo l'uccisione del giovane di Ferrara massacrato di botte mentre tornava a casa all'alba, dopo una notte passata con gli amici. Era il 25 settembre del 2005. Il processo in primo grado è terminato con la condanna per tre anni e sei mesi per quattro poliziotti. Ora la famiglia è stata accettata fra i banchi delle parti civili nell'inchiesta che riguarda il depistaggio delle indagini. La notizia data in pasto all'opinione pubblica dalla questura fu quella di uno squilibrato tossicodipendente che aveva attaccato gli agenti.

Le tre notizie, nel medesimo giorno, sono quasi una sorpresa, quando, in fondo, riguardano comportamenti che l'autorità giudiziaria valuta secondo prove e indizi rispetto a un 'lavoro' molto sensibile, quale quello degli operatori di pubblica sicurezza e i gestori dell'ordine pubblico. Ma la sorpresa è divenuta quasi una 'buona notizia, travalicando quel confine di normalità che in uno Stato di diritto dovrebbe avere, perché sono poche le occasioni in cui si è assistito, nella nostra storia italiana, a condanne o inchieste oneste rispetto a comportamenti devianti di alcuni soggetti, o di intere branche, del mondo delle forze di polizia. L'abitudine, insomma, è più quella che abbiamo imparato a inghiottire: poliziotti non identificabili, senza numeri sui caschi, senza identificativo sulle tute antisommossa, equipaggiati con materiali al limite delle convenzioni internazionali (ricordiamo il gas Cs, vietato addirittura in teatri di guerra perchè capace di modificazioni genetiche), morti ammazzati senza colpevoli, archiviazioni, fantasiose ricostruzioni balistiche (Carlo Giuliani e un sasso che devia un colpo di pistola fin sotto uno zigomo!), impunità e anzi onorificenze della classe politica governante e dirigente per chi stava a capo della catena di comando dei fatti di Genova, se non per i responsabili ultimi delle decisioni adottate, con crudezza tangibile, nella "piazza".

Vengono quasi i brividi a riscoprirsi più fiduciosi verso una giustizia eguale per tutti - anche per chi porta la divisa - quando si leggono tre notizie in fila come quelle raccontate. E nello stesso tempo avere una reazione spontanea che affiora alle labbra e fa dire che forse è stato solo un caso.
Lo stupore richiama la distanza ancora da colmare per poter affermare davvero, compiutamente, di vivere in uno Stato in cui l'ordine pubblico è cosa che si svolge a favore e non contro i propri cittadini.

Angelo Miotto

 

Yemen, il metodo Petraeus

Milizie tribali contro al-Qaeda: la visita del generale Usa da i suoi frutt"Un gruppo di nostri giovani ha dato vita a una milizia antiterrorismo, che avrà il compito di tenere lontani dalle nostre terre tutti i terroristi, i contrabbandieri e le spie". A parlare, ripreso dall'agenzia locale Mareb Press, è un portavoce della tribù degli al-Damashqa, uno dei clan più influenti della zona di Mareb, nello Yemen settentrionale.

Un generale influente. "Prenderemo provvedimenti risolutivi contro chiunque troveremo nelle nostre terre, compresi i miliziani del clan degli al-Obeida o di altre tribù. Invitiamo gli altri clan a fare come noi".
L'iniziativa dei leader locali segue l'attacco mirato dell'aviazione yemenita nella regione di Mareb, con il bombardamento mirato di una fattoria, dove l'intelligence di Sana'a riteneva si rifugiasse Ayer al-Shabwani, ritenuto uno dei comandanti di al-Qaeda nel Paese. Al-Shabwani è rimasto ferito, ma è ancora vivo. I bombardamenti nella regione, però, rendono la vita della popolazione locale molto pericolosa e il numero di vittime civili diventa sempre meno collaterale.
Una dichiarazione importante, ma non imprevista. Almeno per coloro che conoscono il 'metodo Petraeus'. Il generale David H. Petraeus, da ottobre 2008, è il Comandante dell' U.S. Central Command, il direttorio militare dal quale dipendono le scelte strategiche di tutto il teatro medio-orientale, compresa la conduzione delle operazioni militari in Iraq e Afghanistan. Proprio in Iraq, dove è stato comandante in capo delle truppe Usa, ha elaborato una teoria che ha messo in pratica quando ha assunto il comando dell' U.S. Army Combined Arms Center di Fort Leavenworth (Kansas), il centro strategico militare statunitense. Qui lavora al nuovo manuale di attività controinsurrezionali delle Forze Armate Statunitensi ( FM 3-24). Il metodo, che gli è valso la stima e l'apprezzamento di ambienti statunitensi notoriamente avversi ai militari, anche grazie alla sua cultura personale, consiste in una teoria semplice: gli interessi della popolazione locale prima di tutto. Se gli iracheni o gli afgani non avranno da lamentarsi, ci aiuteranno. Ancor di più: perché non coinvolgerli direttamente nella lotta agli estremisti?

Lavoro sporco in appalto.
In Iraq, dopo l'invasione del 2003, erano arrivati guerriglieri da tutto il mondo islamico. Un fenomeno di proporzioni mai viste, forse paragonabile solo all'Afghanistan invaso dall'Armata Rossa sovietica negli anni Ottanta. Elementi pericolosi per le truppe Usa, ma anche non ben visti dalle popolazioni locali. Le operazioni militari Usa finivano spesso per colpire civili innocenti, mentre gli integralisti imponevano alla popolazione locale usi e costumi sentiti come estranei e con la forza. Questo generava una tensione crescente verso le truppe di occupazione, che Petraeus ha deciso di volgere a favore degli Usa. Come? Spingendo, dietro lauti incentivi economici, i clan locali a badare da soli all'ordine nelle strade. Che se la vedessero loro con i 'barbuti'. Questa strategia ha una serie di vantaggi. Nelle operazioni non muoiono soldati Usa, elemento sempre sgradevole da spiegare alla stampa. I locali conoscono molto meglio il territorio, agendo a colpo sicuro di fronte a elementi estranei e non macchiandosi di stragi di civili come accade agli statunitensi. Inoltre la popolazione, senza rastrellamenti e perquisizioni casa per casa, senza check-point, si sente più rispettata ed è meno ostile agli Usa. Una strategia vincente che, in Iraq, ha rovesciato gli esiti di un conflitto che vedeva gli Usa sempre più in difficoltà.

Come in Iraq. Dopo le dichiarazioni odierne del clan al-Damashqa, non ci sono più dubbi sulle motivazioni della visita ufficiale del generale Petraeus in Yemen, il 3 gennaio scorso. Il governo centrale yemenita è sempre più in difficoltà, dovendo fronteggiare i ribelli sciiti al nord, i secessionisti al sud e le infiltrazioni di al-Qaeda nel Paese. Petraeus ha indicato la via, il modello. In Iraq li chiamano Consigli del Risveglio, al-Shawa. Hanno funzionato davvero. Solo che adesso cominciano a rappresentare un problema. Migliaia di uomini, armati e addestrati dagli Usa, dopo aver svolto il lavoro sporco, vogliono un futuro. Il governo iracheno, però, fa orecchie da mercante, anche perché sono quasi tutte milizie sunnite, non troppo amate dal governo di Baghdad. Il 10 novembre 2009, in Iraq, è stato arrestato Mustafa Kamal Shibib, uno dei leader di al-Shawa. L'accusa è di omicidio, ma tutti sapevano cosa facesse Shibib per sconfiggere al-Qaeda. Solo che, quando ha deciso di candidarsi alle prossime elezioni irachene, non andava più bene. La sensazione, adesso, è che lo Yemen abbia un bisogno assoluto di correre ai ripari, senza star troppo a guardare per il sottile. Il metodo Petraeus ha funzionato in Iraq, si proverà a farlo funzionare in Yemen. Per gli eventuali scenari futuri si vedrà, Petraeus non può pensare a tutto.

Christian Elia

 

25 gennaio

 

La crisi di regime e l’assalto alla Costituzione

di Stefano Rodotà

È bene chiamare le cose con il loro nome: stiamo vivendo una crisi di regime. Dalla quale si esce con una rifondazione della Repubblica secondo una lettura dinamica dei principi della Costituzione o, al contrario, abbandonando quei principi, con una rottura che porta, appunto, a un mutamento di regime. Negli ultimi tempi, infatti, si sono moltiplicate le dichiarazioni di chi esplicitamente sostiene la necessità di mutare i fondamenti della Costituzione, a cominciare dal suo articolo 1. Non bisogna sottovalutare questi atteggiamenti, considerandoli esuberanze personali: si commetterebbe lo stesso errore fatto quando si è derubricato il linguaggio razzista di molti politici a folklore.

Ma vi sono anche prese di posizioni apparentemente più moderate, che prospettano aggiramenti dei principi costituzionali che possono rivelarsi ancor più insidiosi degli attacchi diretti. Molti continuano a dire che la prima parte della Costituzione non si tocca, che principi e diritti fondamentali non sono in discussione. Ma la Costituzione affida la garanzia dei diritti alla libera valutazione del Parlamento e al controllo di una magistratura indipendente. Nel momento in cui la voce del Parlamento viene spenta (lo abbiamo visto con il processo breve) e si prospettano radicali riforme costituzionali della magistratura, ecco che l'apparenza è quella di un rispetto della prima parte della Costituzione, la sostanza è quella di una sua erosione. La riforma costituzionale è già in atto, nel modo più inquietante.

Parlando di modifiche costituzionali, bisogna partire da alcuni punti fermi. Il primo dei quali riguarda il fatto che la Costituzione non è tutta "disponibile" per qualsiasi scorreria di interessati riformatori. Nel 1988 la Corte costituzionale lo ha detto esplicitamente: «La Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali», perché «appartengono all'essenza dei valori sui quali si fonda la Costituzione». Siamo di fronte all'indecidibile, a un limite che non può essere superato «neanche dalla maggioranza e neanche dall'unanimità dei consociati». Una considerazione, questa, da tenere ben presente in un tempo in cui l'appello alla maggioranza viene continuamente adoperato per legittimare qualsiasi iniziativa. E si deve aggiungere che tutto questo trova il suo fondamento profondo nell'articolo 139 della Costituzione, dove si stabilisce che «la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale». Questo non vuol solo dire, banalmente, che non si ammette il ritorno ad un regime monarchico. Poiché la forma repubblicana del nostro Stato risulta dall´insieme dei principi contenuti nella Costituzione, tutto quel che altera questo quadro porta con sé una violazione radicale della Costituzione, e un conseguente passaggio da regime politico ad un altro.

Intraprendendo un cammino di riforma in un clima culturale e politico degradato com'è quello attuale, bisogna anzitutto individuare gli ambiti legittimi di una eventuale revisione. Gli studiosi sottolineano proprio questa necessità, ricordando ad esempio che la riforma del Parlamento non può trasformare la nostra Repubblica da parlamentare in presidenziale o negare l'effettiva rappresentatività della democrazia italiana (lo ha fatto Gianni Ferrara). Allo stesso modo, e più radicalmente, non si può mettere in discussione «il valore del lavoro come base della Repubblica democratica» (sono parole del Presidente della Repubblica), perché questa non è una affermazione a sé stante, ma individua un principio sul quale s'innesta una tutela forte della persona, per quanto riguarda la sua «esistenza libera e dignitosa» (articolo 36) e l'inviolabilità della sicurezza, della libertà e della dignità umana. Queste sono parole dell'articolo 41, che in questi fondamentali principi individua un limite all'iniziativa economica privata, limite da tempo ritenuto inaccettabile da una critica che vuole sovvertire la gerarchia costituzionale, mettendo mercato e concorrenza al posto del lavoro. Ma proprio le drammatiche vicende di Rosarno dovrebbero dimostrare la straordinaria attualità della linea indicata da quell'articolo. Infatti siamo di fronte a una impressionante storia di sfruttamento e di negazione dell'umano, che conferma la necessità di mantenere, e eventualmente di rafforzare, il principio che fa prevalere sulle ragioni del mercato il rispetto della persona del lavoratore, della sua libertà, dignità, sicurezza.

Continue, poi, sono le prese di posizione che, alterando la gerarchia costituzionale, negano il fondamentale principio di eguaglianza. Di nuovo la questione degli immigrati è un buon terreno di verifica. Molti giudici hanno sollevato la questione di legittimità delle nuove norme sull'immigrazione clandestina. Reagendo a questa iniziativa, si è sostenuto che, qualora la Corte le dichiarasse incostituzionali, si avrebbe una sorte di estinzione della Repubblica italiana come Stato, poiché essa perderebbe una prerogativa fondante della statualità, cioè il diritto di regolare quel che avviene sul proprio territorio. Questo atteggiamento è rappresentativo della revisione "strisciante" della Costituzione. Ricordiamo, allora, che il Presidente della Repubblica, in una lettera a Maroni e Alfano nello stesso giorno in cui emanava la legge sulla sicurezza, esprimeva «perplessità e preoccupazione» per alcune norme di «dubbia coerenza con i principi dell'ordinamento», riferendosi specificamente anche alle norme sull'immigrazione clandestina. Le eccezioni di costituzionalità avanzate dai magistrati riguardano la ragionevolezza di quelle norme e il loro rispetto del principio di eguaglianza. La cittadinanza, infatti, è ormai vista come l'insieme dei diritti che accompagnano la persona quale che sia il luogo del mondo in cui si trova, superando proprio le angustie del criterio della territorialità. Non si può ammettere quindi, che una repubblica democratica neghi il principio di eguaglianza e il rispetto dei diritti fondamentali in relazione al modo in cui si è entrati sul suo territorio.

Esplicite o striscianti, dunque, sono molte le mosse che incitano a revisioni costituzionali che incidono sui principi, fornendo così la testimonianza di un cambiamento di regime che si vuole imporre, o almeno secondare. Quanto, poi, al presunto invecchiamento d´una Costituzione votata sessant'anni fa, vorrei ricordare una recentissima sentenza del Conseil Constitutionnel francese, che ha dichiarato incostituzionale una legge per la sua scarsa comprensibilità (quante leggi italiane reggerebbero a un simile controllo?) richiamando gli articoli 4, 5, 6 e 16 della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789.

L'´obbligo di una esplicita riflessione culturale e politica sugli intoccabili fondamenti costituzionali è oggi ancor più ineludibile perché siamo di fronte a quello che si può definire un vero "risveglio costituzionale". Molti cittadini cercano e realizzano forme di organizzazione e di azione partendo appunto dalla Costituzione. Questo riconoscimento ci parla di vitalità della Costituzione, quella che ha nel sentire dei cittadini il suo più solido fondamento. Qui può radicarsi una vera opposizione al mutamento di regime. Vogliamo tenerne conto?

 

Renata Polverini: Tutta case e Chiesa

Gli affari immobiliari di Renata Polverini e quell’appartamento comprato dallo Ior.

La prima scena consegnata ai biografi immortala la piccola Polverini nella sua modesta casa romana. Renata si è appena diplomata all’istituto di ragioneria della Magliana. La sua materia preferita è l’educazione fisica e vorrebbe iscriversi all’Isef. Mamma Giovanna, umile sindacalista della vecchia Cisnal (il sindacato di destra che oggi si chiama Ugl) deve dirle di no. Rimasta vedova quando Renata aveva due anni, è stanca di tirare la carretta da sola. Guarda la figlia con gli occhi rossi e per la prima volta la tratta da donna: “Renata, non ce lo possiamo permettere”. In quell’istante, racconterà poi lady Ugl a Vittorio Zincone sul Magazine, “realizzai che le cene di mamma a base di pane e tè non erano solo una tecnica per restare leggeri”. La scena finale è ritratta da Giovanna Vitale su Repubblica: “47 anni, da 4 alla guida dell’Ugl, il piccolo sindacato di destra che lei ha portato al tavolo dei grandi, corteggiatissima dai talk show e frequentatrice della Roma bene che ama ricevere nel suo salotto sull’Aventino”.

Il passaggio dalla Magliana al salotto dell’Aventino sembra la declinazione immobiliare del “sogno italiano”. Il catasto parla chiaro: Renata Polverini possiede due appartamenti (con quattro ingressi) per complessivi 16,5 vani catastali più tre box e due cantine in un palazzo non lussuoso ma incastonato nel verde della collina di San Saba, tra Aventino e Testaccio. Come ha fatto ad accumulare un patrimonio che vale oggi circa 1,5 milioni di euro? La leader sindacale nel 2002 ha acquistato una delle sue case a prezzo stracciato dallo Ior, la banca del Vaticano. Mentre la seconda è arrivata (a prezzo più alto) da una società vicina allo Ior, la Marine Sud Investimenti, intestata per il 99 per cento a una società anonima.

Non solo: la leader sindacale ha comprato con lo sconto un appartamento all’Eur dell’Inpdap, l’ente nel quale l’Ugl è rappresentato o sovrarappresentato. Non c’è nulla di illecito ma è bene chiarire tutto. Renata Polverini è sostenuta dalla Chiesa contro l’abortista Emma Bonino. Ma, per risanare la sanità laziale dovrà intervenire anche sulle cliniche del Vaticano.

E poi c’è la questione dei soldi. Ogni volta la sindacalista ha acceso un mutuo per comprare ma le rate sono state onorate grazie a uno stipendio rilevante per una sindacalista. Al Magazine, disse di guadagnare “solo” 3 mila euro al mese. Ma nella classifica delle dichiarazioni dei redditi pubblicate nel 2008 risultava davanti agli altri leader sindacali con 140 mila euro lordi annui. Evidentemente i numeri (degli iscritti e dei redditi) non sono il suo forte. Per fortuna va meglio con gli affari. Il 28 marzo del 2002 compra dall’Inpdap vicino all’Eur, al Torrino, un secondo piano di sette vani catastali più box e cantina. Sono i palazzi abitati anche da sindacalisti e politici raccomandati, quelli descritti dal Giornale di Vittorio Feltri nel 1995.

Evidentemente Affittopoli non riguardava solo i sindacati di centrosinistra. Dopo quella campagna, alla fine degli anni novanta, l’allora rampante sindacalista ottiene un appartamento appena costruito in affitto. Poco dopo lo compra, grazie allo sconto riservato a tutti gli inquilini e pari al 40 per cento, al prezzo stracciato di 148 mila e 583 euro. La casa sarà poi venduta il 4 aprile del 2007 per un prezzo dichiarato di 234 mila euro, 150 mila in contanti e il resto come accollo del mutuo. Il prezzo non è giusto nemmeno stavolta. Basti dire che il settimo piano dello stesso palazzo, molto più piccolo (4 vani contro sette) e senza box viene comprato all’asta negli stessi giorni a 256 mila euro. Il fatto è che Polverini vende al segretario confederale dell’Ugl (suo amico e sostenitore) Rolando Vicari.
Ancora più interessante è la storia dell’abitazione di San Saba. Polverini compra dallo Ior, la banca del Vaticano coinvolta in tanti scandali, il 17 dicembre del 2002 un primo piano con doppi ingressi, 5 camere, cameretta più tre bagni, cucina e tre balconi, più due box e cantina, al prezzo di 272 mila euro, un vero affare. Il prezzo di mercato è il doppio. “Non c’è stato nessuno sconto dello Ior”, dice oggi Renata Polverini, “ho seguito la stessa trafila degli altri acquirenti di appartamenti nel palazzo . Ho comprato tramite un’agenzia”. Meno di due anni dopo, nel 2004, il leader Ugl compra un secondo appartamento gemello al piano terreno dalla Marine Sud Investimenti amministrata da Michele D’Adamo. Il piano terra costa 666 mila euro, più del doppio, e ha solo un box. Le ipotesi sono due: lo Ior ha fatto un prezzo basso alla Polverini oppure ha dichiarato meno del pagamento reale. Comunque la sindacalista non si ferma. E subito dopo vende una delle stanze per poter pagare il mutuo. La vicina sgancia 50 mila euro. Per un solo vano.



In alto l’appartamento comprato dall’Inpdap. Sopra, Renata Polverini

 

'A Milano la mafia non c'è'

di Paolo Biondani

Polemiche in commissione antimafia, l'opposizione attacca il prefetto Lombardi che minimizza il peso delle cosche. E le inchieste lo smentiscono: a Milano almeno sei omicidi di mafia negli ultimi diciotto mesi. Boss padroni dell'edilizia e dei grandi lavori pubblici

«A Milano la mafia non esiste». Vent'anni fa, documentano le cronache cittadine, era stato l'allora sindaco Paolo Pillitteri a sbilanciarsi per cercare di minimizzare il potere acquisito dalle organizzazioni mafiose nell'ex capitale morale. Erano i tempi dell'inchiesta Duomo Connection e il sindaco cognato di Craxi era preoccupato di perdere il potere per colpa di quella indagine-battistrada, che stava comprovando i favoritismi concessi dal suo assessore socialista all'urbanistica (poi condannato per questo abuso d'ufficio) a una speculazione edilizia del clan Carollo, cioè targata Cosa Nostra. Quella smentita politica fu clamorosamente contraddetta dai fatti. A partire dal '92 un'ondata di pentiti, impensabile prima delle stragi che uccisero i giudici Falcone e Borsellino, consentì ai magistrati di Milano di arrestare e condannare più di duemila accusati di associazione mafiosa.

Ora, a usare le stesse parole assolutorie, è il prefetto di Milano, Gian Valerio Lombardi, che dovrebbe essere il massimo rappresentante in Lombardia del governo Berlusconi proprio sul fronte degli interventi antimafia. Il suo intervento non era improvvisato: il prefetto era stato convocato per una formale audizione davanti alla commissione parlamentare antimafia, dove giovedì ha letto una relazione scritta di 47 pagine, con la dicitura «riservato». Un dossier che si apre proprio con questo interrogativo: «A Milano la mafia esiste?». Fattasi la domanda, lo stesso prefetto si risponde: «No». Nelle 24 ore successive, i parlamentari dell'opposizione gridano allo scandalo, sottolineando che perfino il suo ministro Roberto Maroni e il capo della polizia avevano appena lanciato l'allarme 'ndrangheta a Milano. Giuseppe Lumia del Pd è il primo a chiedere la rimozione di Lombardi, sfidando il governo a «valutare l'adeguatezza del prefetto». A difenderlo pensano, in blocco, i parlamentari della maggioranza. Mentre il presidente della commissione, l'ex ministro dell'interno Giuseppe Pisanu, ipotizza un equivoco: «Un errore di espressione, un'espressione non felicissima che è stata fraintesa. La sua relazione descrive puntualmente la penetrazione delle mafie nel tessuto economico. In realtà il prefetto voleva dire solo che il modus operandì della mafia a Milano e in Lombardia è del tutto diverso da quello delle Regioni di origine. Per il non ricorso alla violenza. E perché la società lombarda non é disposta a subire intimidazioni di stampo mafioso».

Insomma, a Milano i mafiosi investono sicuramente fiumi di soldi, ma non si azzarderebbero a controllare il territorio a mano armata. Il problema è che proprio in questi mesi i magistrati della direzione antimafia di Milano, guidata dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini, hanno registrato un impressionante salto di qualità criminale della cosiddetta mafia economica. Decine di arresti (già seguiti dalle prime condanne) documentano che anche a Milano, come ormai in quasi tutte le province della Lombardia, i clan mafiosi stanno usando il metodo delle minacce, degli attentati incendiari, sparatorie e agguati per imporre il loro dominio, che è insieme economico e criminale.

Il giudice Giuseppe Gennari, che ha ordinato l'ultima retata contro i clan calabresi Barbaro-Papalia, trapiantati da decenni alle porte di Milano, scrive che decine di imprenditori lombardi, di fronte alla 'ndrangheta, risultano divisi in tre categorie: quelli che scappano, che vanno a lavorare a 50 chilometri di distanza, perché spaventati dalle intimidazioni; quelli che subiscono attentati e pagano in silenzio le estorsioni e l'usura, ma non denunciano i boss, al punto da negare perfino di aver pronunciato le frasi compromettenti documentate dalle intercettazioni; e quelli che diventano addirittura complici delle cosche, perché le armi dei boss sono un ottimo strumento per liberarsi dei concorrenti. Mentre nell'inchiesta sul clan Paparo, che ha confermato anche un traffico di bazooka partiti da Cologno Monzese per armare una guerra di mafia in Calabria, il giudice Caterina Interlandi chiarisce che ormai anche in Lombardia funziona una sorta di cupola mafiosa: ogni cosca controlla un pezzo di territorio. Ed è questa spartizione degli affari criminali, dalla droga al racket, a spiegare perché i clan possono spartirsi geograficamente anche i subappalti in nero per la Tav o per la quarta corsia dell'autostrada Milano-Bergamo.

Oggi la Lombardia è la quinta regione italiana per quantità di beni confiscati alla mafia e Milano nell'ultimo decennio è diventata la capitale del traffico internazionale di cocaina. La stessa prefettura, che ha un ufficio antimafia per i controlli nei cantieri, continua a scoprire che i più importanti lavori pubblici e privati (edilizia e movimento terra) vengono illegalmente subappaltati a imprese mafiose. Le ultime 17 ispezioni prefettizie hanno portato a escludere ben 24 aziende infiltrate o controllate dai boss. Come dire che in ogni cantiere controllato c'era almeno una impresa mafiosa: anzi, quando la prefettura ne scopre solo una, significa che siamo sotto la media.

E' proprio la potenza economica dei clan mafiosi in Lombardia a spiegare anche molti delitti. Negli ultimi 18 mesi solo in provincia di Milano si sono contati almeno sei omicidi di chiara matrice mafiosa. Due mesi fa, davanti allo stadio di San Siro, è stato ammazzato per strada, in pieno giorno, Giovanni Di Muro, 41 anni: imputato minore in un processo di mafia, aveva finito per collaborare con i magistrati, confessando in aula un'estorsione a un imprenditore bergamasco in bilico tra Cosa Nostra e 'ndrangheta. E nell'ultima udienza dello stesso processo «Metallica» (il nome dell'inchiesta) si è scoperto che l'imprenditore assassinato era diventato anche un informatore del Sismi, fornendo notizie su un boss di Cosa Nostra attivo a Milano fin dagli anni '70 e catturato in città dopo una lunga latitanza. Forse Lombardi non si era accorto di questo delitto né di altri omicidi sicuramente decisi dalla cupola lombarda della 'ndrangheta per punire almeno tre boss che stavano conquistando troppo potere. O forse il prefetto pensa che San Siro non sia un quartiere di Milano, ma della Calabria.

 

L'Eni sbarca in Uganda

L'Italia in Uganda usa l'addestramento delle forze locali dell'Amisom per influenzare il giudizio del governo di Kampala sui diritti dell'Eni sul lago Albert. Cooperazione allo sviluppo o do ut des?

22 Gennaio - Ora è ufficiale: l'Uganda ha reso noto ufficialmente, per bocca del proprio ministro dell'Energia, Hillary Onek, di avallare l'offerta di Eni per l'acquisto dei pozzi di Heritage Oil sul lago Albert. L'affare sulla vendita dei lotti 1 e 3A alla società di San Donato milanese era stato messo a repentaglio dal gruppo irlandese Tullow Oil che aveva cercato di impedire la manovra subito dopo un acquisto preliminare costato agli italiani 1,5 miliardi di euro. L'ipotesi che l'investimento potesse naufragare si era fatta sempre più probabile dopo che Tullow aveva avanzato i diritti di prelazione sull'area. L'ultima parola spettava al governo di Kampala all'interno del quale c'erano parecchie correnti contrarie a lasciare alla Tullow - che già possiede il 50 percento dei pozzi - il monopolio sul petrolio nazionale. Dopo il viaggio del ministro degli Affari Esteri italiano, Franco Frattini, sono aumentate le possibilità sulla vittoria finale di Eni nell'intero processo di acquisizione. Il capo della Farnesina aveva infatti giudicato positive le offerte della società col cane a sei zampe e proposto all'establishment ugandese una cooperazione militare che prevedesse l'addestramento dei militari in forza alla Amisom (le truppe dell'Unione Africana in Somalia) da parte di reparti scelti dei carabinieri. Oggi la conferma che la Spa di piazzale Mattei ha ottenuto il tanto atteso veto governativo sul diritto di prelazione di Tullow.

Perchè l'Italia, per mezzo del ministro degli Affari Esteri Franco Frattini, avrebbe offerto le migliori unità dei carabinieri per addestrare le milizie ugandesi in forza all'Amisom (la missione dell'Unione Africana in Somalia)? La motivazione ufficiale addotta dalla Farnesina è quella del rafforzamento dei rapporti bilaterali fra i due Stati volto a contrastare il terrorismo internazionale. L'ipotesi sarebbe plausibile se non ci si accorgesse che la tappa ugandese, come tutto il tour africano, del capo della nostra diplomazia ha riportato a galla le speranze dell'Eni - l'ente idrocarburi a partecipazione statale - sulla possibilità di entrare ad operare nello Stato africano. Da Piazzale Mattei solo qualche settimana fa i vertici del colosso energetico si erano detti incerti sulla possibilità di poter acquistare i diritti per lo sfruttamento del 50 percento dei pozzi petroliferi nella Regione. "La partita è molto aperta" avevano sostenuto fonti vicine alla Farnesina prima del viaggio del capo della diplomazia italiana il quale, dopo l'incontro con il presidente Yoveri Kaguta Museveni, e con il ministro degli Esteri Sam Kutesa, ha sciolto ogni riserva confermando che "L'Eni ha un'offerta estremamente importante. Propone un investimento in Uganda che sfiora i 13 miliardi di dollari e che include la costruzione di una raffineria petrolifera e di una centrale elettrica". Per convincere l'establishment di Kampala a dare il via libera sull'affare, Frattini ha messo sul piatto una collaborazione militare che, se accettata, prevederà una cooperazione fra i nuclei scelti dei carabinieri e i 2500 militari ugandesi in forza all'Amisom. "Know how" in cambio di diritti sul petrolio oltre ai 21 milioni di euro deliberati nel biennio 2008-2009 per interventi dono nel Paese e l'annullamento totale - datato 17 aprile 2002 - dei 116 milioni di dollari di debito vantato dal nostro paese nei confronti del governo di Kampala.Aiutare l'Amisom nella lotta per la risoluzione della crisi in Somalia conferiscono buon senso ai propositi della politica estera italiana. Il problema è che questa logica del do ut des - tu mi concedi i diritti e io ti insegno a contrastare il terrorismo alla occidentale - sembra ridurre l'azione della nostra diplomazia ad un mercanteggiare degno dei migliori souk di Marrakech.Alla base del contenzioso c'è una manovra della società di San Donato Milanese che lo scorso dicembre aveva sottoscritto un contratto di prevendita da 1,5 miliardi di euro con la Heritage Oil per l'acquisto dei diritti sui blocchi 1 e 3A nei pressi del lago Albert. Sul buon esito della maxioperazione si è messa di traverso l'irlandese Tullow Oil, già padrona del 50 percento dei due blocchi, che ha vantato i propri diritti di prelazione sul lotto e bloccato, di fatto, la penetrazione commerciale dell'ente italiano nel Paese africano. L'unica possibilità per l'Eni di vincere la sfida è appesa alla posizione di diversi membri del gabinetto ugandese che hanno preannunciato il proprio "no" nei riguardi della possibilità che la Tullow detenga il 100 percento delle azioni sul petrolio locale.
Dalla sua la Tullow ha assicurato che l'operazione d'acquisto sarà seguita da una successiva vendita a una o due major (gli analisti ipotizzano Total e Exxonmobil) per favorire il miglioramento delle infrastrutture nella Regione. Ciò potrebbe convincere i detrattori della Tullow all'interno dell'esecutivo a dare il via libera agli irlandesi e mettere in scacco l'Eni. Da parte sua il presidente Museveni ha fatto sapere, per bocca del suo portavoce Tamale Mirundi, di non avere "alcuna preferenza per l'una o l'altra societa e che la commissione petrolifera presso il Ministero dell'Energia sta vagliando tutte le questioni".
L'ultima parola sulla possibilità di Eni di operare in Uganda spetta, a questo punto, al governo nazionale che proprio oggi, ha comunicato che si riunirà il 20 gennaio per decidere chi fra le due aziende vincerà la partita.

 

20 gennaio

 

IN AZIONE CONTRO LE BUFALE NUCLEARI DI ENEL

Era ancora buio quando questa mattina i nostri climber sono saliti sul “Colosseo Quadrato” di Roma. Alle 8.30 hanno srotolato il banner di 300 metri quadri con la scritta “Stop alla follia nucleare, Stop Nuclear Madness". È un messaggio indirizzato alle imprese italiane riunite proprio di fronte nel palazzo di Confindustria, dove Enel ha presentato il nucleare come un ottimo investimento.

Il nucleare è un affare francese. Non certo per la nostra economia! Enel cerca di imbonire le imprese italiane promettendo che il 70% degli investimenti per la costruzione di quattro reattori nucleari EPR sarà nella parte non nucleare (dunque non coperta da brevetti francesi) per un controvalore di circa 12 miliardi di euro.

Secondo l’azienda elettrica francese EDF - alleata di Enel nel riportare il nucleare in Italia - risulta, invece, che gli investimenti nelle parti non convenzionali degli impianti EPR, ovvero le uniche che potrebbero riguardare le imprese italiane, non superano il 40% degli investimenti totali.

Per fortuna quello che Enel non dice, lo dicono altri: EDF, STUK, Citigroup, AREVA. Nella nostra analisi “Bufale nucleari” abbiamo analizzato dichiarazioni e cifre degli operatori più competenti nel settore che fanno uscire allo scoperto tutte le bugie di Enel.

Sicuramente Enel continuerà la sua propaganda nucleare, ma l'esperienza degli unici due EPR in costruzione, in Finlandia e in Francia, ha già ampiamente dimostrato che per questo tipo di impianti ritardi, problemi nella sicurezza e costi fuori controllo non sono un rischio ma una regola. È quello che oggi abbiamo ricordato alle imprese italiane. Continueremo a farlo.


Andrea Lepore

 

13 gennaio

 

Italia, Malta e Frontex sotto accusa

Indaga la Procura di Agrigento

Non sempre ci si pensa. Ma per ogni persona che attraversa il mare, c'è dietro una famiglia. E stavolta le famiglie chiedono giustizia. Vivono sparse in mezzo mondo. In Europa, ma anche in Africa, in Australia, negli Stati Uniti e in Canada. Sono i parenti e gli amici dei 77 eritrei morti nell'agosto 2009 al largo di Lampedusa, scomparsi uno dopo l'altro dopo tre settimane alla deriva senza ricevere soccorso. Hanno trasformato il loro lutto in indignazione e si sono organizzati per scrivere una lettera aperta al Commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa, Thomas Hammarberg, inviata per conoscenza anche all'Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite, all'Organizzazione internazionale per le migrazioni e ai Ministeri dell'Interno maltese e italiano. Accusano l'Italia, Malta, Frontex e le navi civili che negarono il soccorso ai propri cari, e chiedono che venga aperta un'inchiesta a livello europeo. I familiari delle vittime hanno raccolto informazioni utili parlando sia con i cinque superstiti in Sicilia, sia con gli eritrei della diaspora in Libia e a Malta. Informazioni già depositate presso la Procura di Agrigento che indaga sui fatti e che potrebbero riaprire il caso.

Le famiglie erano al corrente della partenza del gommone con i suoi 82 passeggeri, in gran parte eritrei, ma anche nigeriani e etiopi, il 28 luglio 2009 dalla Libia. La sorella di uno dei passeggeri, allertò subito alcune Ong tedesche per avere notizie. La prima e-mail risale al 31 luglio 2009, è diretta al Consiglio dei rifugiati di Bonn, in Germania, dove la signora eritrea vive da vent'anni. Suo fratello Abel era partito dalla Libia soltanto tre giorni prima, eppure lei già presagiva che quel viaggio avrebbe potuto trasformarsi in tragedia. Da Tripoli le avevano detto tutti di non preoccuparsi, perché dal gommone avevano telefonato col satellitare il 29 luglio, verso le sette di sera, dicendo che vedevano già Malta all'orizzonte. Tuttavia su internet non c'erano notizie di sbarchi. E nemmeno di respingimenti. Lei glielo aveva sempre detto di non partire. Perché 16 anni sono troppo pochi per sfidare la morte attraversando il Mediterraneo. Gli aveva consigliato di chiedere asilo politico in Libia, ma lui si era scoraggiato. Le Nazioni Unite gli avevano dato appuntamento per il 10 gennaio del 2010, ma con le continue retate della polizia, un futuro in Libia era inimmaginabile. Ed era partito senza dirle niente.

A Bonn non sapevano niente, così sempre più preoccupata, iniziò a contattare chiunque potesse darle informazioni sulla sorte del fratello. Nel giro di due settimane arrivò fino al ministero dell'Interno maltese, ma senza risultati. La conferma l'ebbe soltanto il 21 agosto, con lo sbarco a Lampedusa dei cinque superstiti. Dopo vari tentativi, riuscì a parlare al telefono con uno dei cinque superstiti al centro d'accoglienza di Lampedusa, che suo fratello lo conosceva e come. Prima di partire, a Tripoli, vivevano nella stessa casa. C'era anche lui sul gommone. L'hanno visto spegnersi lentamente, e poi l'hanno abbandonato in mare come tutti gli altri. Il dolore per il lutto, aggravato dal senso dell'ingiustizia, l'ha spinta a consegnarmi una copia del fitto scambio di email che ha avuto nelle prime due settimane di agosto con varie associazioni e autorità a Malta e in Germania, che dimostrano come la notizia della presenza di questa imbarcazione alla deriva fosse filtrata attraverso vari canali fin dalla fine di luglio.

I primi contatti furono con gli eritrei a Malta. Sì perché a Malta correva voce che il tre agosto un eritreo avesse ricevuto una richiesta d'aiuto da un parente che viaggiava a bordo del gommone dei 78. Lo aveva chiamato col satellitare prima che le batterie del telefono si scaricassero definitivamente. A far perdere le tracce di questa pista fu il respingimento del 12 agosto. Un gommone con un'ottantina di persone a bordo era stato respinto in Libia dalla Marina italiana. Una donna somala che aveva partorito in mare era però stata trasferita in elicottero all'ospedale Mater Dei di Malta. Il numero di passeggeri, la posizione, la data, tutto faceva presupporre che fosse quello il gommone dove si trovava il fratello della signora eritrea in Germania. E infatti il 14 agosto la signora inviò un'email proprio all'ospedale Mater Dei, con tanto di foto in allegato del fratello. Chiedeva di mostrarla alla donna ricoverata per chiederle se lo riconosceva. La risposta fu negativa. Il Consiglio dei rifugiati di Colonia allora scrisse direttamente al ministro dell'Interno maltese. Rispose un funzionario dell'ufficio richiedenti asilo, che il 20 agosto alle 6:40 scrisse "Come le ho detto al telefono non abbiamo avuto sbarchi tra il 25 luglio e il 12 agosto, pertanto sono sicuro che suo fratello non sia arrivato a Malta". Il consiglio fu di rivolgersi alla Croce rossa tedesca. Ma la signora lo aveva già fatto, il 12 agosto. E l'ufficio per la ricerca delle persone scomparse di Monaco le aveva detto che avevano girato la segnalazione a Malta e a Lampedusa senza risultati. Ma ormai era troppo tardi. Il giorno dopo, sui quotidiani tedeschi campeggiavano i titoli della strage degli eritrei a Lampedusa.

Prima di riagganciare il telefono, la signora mi chiede notizie sulla sorte delle salme dei naufraghi ripescate nel Canale di Sicilia. Difficilmente si ripescherà il corpo del fratello e difficilmente sarà identificabile. La famiglia tuttavia confida in una busta di plastica chiusa ermeticamente. Dentro c'è un biglietto di carta con su scritto il suo nome. Se lo era messo in tasca prima di partire, dicono gli amici rimasti a Tripoli. Un giorno i pescatori ritroveranno quella busta in mezza al pescato. E scuoteranno la testa pensando a quando il mare non assomigliava tanto alla morte.

 

Evasori e mafie ringraziano

di Gianfrancesco Turano

Sono rientrati in Italia 95 miliardi di euro. Ma lo scudo fiscale è di fatto un condono-lavatrice per chi ha evaso e per la criminalità organizzata: ecco come e perché

I numeri della tombola arrivano a 90. Nella versione di Giulio Tremonti è previsto anche il 95, come i miliardi rimpatriati con lo scudo fiscale. La patria può quindi contare su un mare di soldi in più. Sostiene il governo che è come se il Pil languente di questi anni fosse all'improvviso cresciuto del 6 per cento in soli tre mesi, senza contare altri 30 miliardi che arriveranno dalla proroga dello scudo a fine aprile 2010. Un totale di 125 miliardi per rilanciare l'economia con nuovi investimenti. Mai più paradisi fiscali. Mai più spalloni con mazzette da 500 euro nascoste nella tappezzeria dell'automobile. Lasciate ogni speranza o voi che entrate (oppure uscite) con intento di evasione e riciclaggio. Il terzo scudo della storia berlusconiana dopo quelli del 2001 e del 2003 è talmente efficace che i controlli transfrontalieri della Guardia di Finanza hanno portato a sequestri di valuta per 396 milioni di euro dall'inizio del 2009 fino al 15 settembre, data di inaugurazione dello scudo, e di appena 500 mila euro dal 16 settembre al 30 novembre. Grazie alle Fiamme Gialle e ai loro fiscovelox puntati sulle macchine che passavano le frontiere, abbiamo spezzato le reni ai furbetti dello scontrino e ai loro tesorieri esteri.

 

Scudo fiscale tre, il tesoretto degli italiani all'estero

La mappa dei rientri dall'evasione e dei sequestri delle Fiamme Gialle

La Svizzera da sola ha perso, secondo le stime di Franco Citterio dell'Associazione Bancaria Ticinese, 40 miliardi di euro di depositi. A Lugano continuano a chiudere filiali di banche private come Fortis, Ihag, Anker e si stima un 10 per cento in meno di posti di lavoro nel 2010. Montecarlo e Liechtenstein sono in grave difficoltà. San Marino, con oltre 1 miliardo di euro scudati su una raccolta totale di 13, è rasa al suolo e fatica a soddisfare le richieste di rientro dei clienti. Il bollettino di guerra annuncia vittoria su tutta la linea. Ma è noto che il rispetto della realtà non è il primo obiettivo di un bollettino di guerra. Dietro il trionfalismo c'è una realtà in chiaroscuro, dove molti conti non tornano e la manovra Scudo 3 assomiglia piuttosto a un condono-lavatrice che non rilancerà l'economia. E neppure fermerà fondi neri, evasione, import-export di denaro criminale. Semmai li incoraggia. Le testimonianze raccolte da "

L'espresso" lo confermano. Il sindaco di un comune valtellinese vicino al confine dei Grigioni ha una sua idea molto semplice sullo scudo. «Mai visti tanti spalloni uscire verso la Svizzera come in queste settimane. Portano i soldi fuori dall'Italia apposta per scudarli ». In teoria, non si può fare. E le banche svizzere dovrebbero segnalare il deposito cash alle autorità italiane. Inutile dire che, nel vecchio gentleman agreement e in barba al mitico segreto bancario, ogni tanto da Chiasso o da Lugano partiva la telefonata al posto di frontiera italiano con il numero di targa di qualche cliente appena uscito dalla filiale.

Se ne colpiva uno per lasciarne tranquilli cento. Ma ogni accordo è caduto dopo quello che gli svizzeri considerano il tradimento dei tre lombardi (Berlusconi- Bossi-Tremonti). Le banche rossocrociate prendono quello che viene, lo caricano di commissioni e puntellano i loro budget disastrosi. I clienti accorrono per non perdersi la doppia proroga, ultimativa come tutte le precedenti, lanciata con scadenza febbraio (6 per cento di sanzione) e aprile (7 per cento di sanzione) per consentire l'adesione ai capitali impantanati in operazioni difficili da smobilizzare. Nonostante i controlli della Finanza siano quasi triplicati, da 2.062 interventi del 2008 a 5.840 dell'anno scorso, le possibilità di portare fuori soldi sono aumentate. Dal 31 dicembre 2008 la Svizzera è nello spazio di Schengen. I posti di frontiera sono stati gradualmente smantellati con gli eventuali controlli spostati sul territorio. Dal 15 ottobre 2009 anche i piccoli varchi, come il Valico dei Mulini fra Pedrinate e Drezzo, sono aperti alla libera circolazione 24 ore su 24.

In treno, per esempio sulla ferrovia del Bernina che parte da Tirano e arriva a Sankt-Moritz, i doganieri sono spariti e gli spalloni hanno a disposi disposizione i buchi di una rete sempre più larga. In risposta, il 16 ottobre 2009 sono arrivati i fiscovelox aPonte Chiasso, poi sono stati tolti, poi rimessi a novembre, poi piazzati a San Marino, con qualche dubbio sull'efficacia di un sistema che si limita a fotografare una targa e cancella ogni dato dopo 15 giorni. Per rincarare la dose il 27 ottobre i finanzieri hanno perquisito 76 filiali di banche elvetiche in Italia. Ma sono schermaglie. Il vero spauracchio degli evasori è la vendetta trasversale come quella del bancario della Lgt del Liechtenstein che, dopo il licenziamento, ha venduto i segreti dei conti cifrati al governo tedesco. Oppure la caccia globale ai paradisi fiscali lanciata da Barack Obama, che in cambio di sostegno finanziario si è fatto consegnare l'elenco dei clienti americani dell'Unione banche svizzere (Ubs). E, perché no, il timore che il tesoretto estero sia finito in bocca a qualche squalo come Bernie Madoff .


Quanto al denaro sporco, è vero che lo scudo obbliga gli intermediari autorizzati (istituti di credito, fiduciarie, sim, sgr, agenti di cambio e uffici postali) a segnalare il possibile denaro di provenienza criminale, ma la legge lascia una prateria alla discrezionalità personale. L'ultima circolare del Ministero (12 ottobre) afferma che gli intermediari «sono tenuti all'obbligo di segnalazione di operazioni sospette nei casi in cui sanno, sospettano o hanno motivi ragionevoli per sospettare che le attività siano frutto di reati diversi da quelli per cui si determina la causa di non punibilità». In pratica, bisogna presentarsi allo sportello con coppola e lupara per rischiare una segnalazione. «Al momento», dice Ernesto Savona, direttore di Transcrime e docente di Criminologia alla Cattolica di Milano, «per la criminalità non c'è affare migliore dello scudo e non c'è modo di distinguere il denaro riciclato. Il costo, a tassi del 5-7 per cento, è bassissimo e il rischio è zero. Inoltre, c'è una sorta di garanzia sul futuro. Visto che l'ammontare della dichiarazione non va verificato, alcuni scudano il triplo o il quadruplo prevedendo le provviste successive. Così pagano una specie di custodia anticipata sul deposito».

La sopravvalutazione è possibile anche con i gli immobili anche se ville e palazzi sono i più difficili da scudare per una serie di intoppi messi in gioco soprattutto dalla burocrazia svizzera per frenare l'uscita di capitali. «Di sicuro le grandi famiglie mafiose hanno tecniche proprie di riciclaggio», dice Gianfranco Donadio, sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia e membro del comitato esperti per la lotta al riciclaggio e ai paradisi fiscali collegato all'Uif (Unità di informazione finanziaria) di Bankitalia. «Queste tecniche vanno dagli autoprestiti al circuito delle garanzie bancarie dai paesi dell'Europa orientale. Ma c'è una distinzione importante da fare. Il circuito finanziario è consentito solo alle grandi famiglie, per esempio a una grande holding come quella dei fratelli Graviano di Brancaccio.

Poi però ci sono anche gli Spatuzza o i livelli base dei clan calabresi che investono in pizzerie. In altre parole, esiste una grande borghesia mafiosa diversa da un proletariato mafioso che più facilmente potrebbe essere interessato da rientri di capitali esteri in misura modesta e sotto forma di liquidi o di immobili». Anche la ragion di Stato che giustifica lo scudo con la spinta a un'economia stagnante è piuttosto fragile. Sui 95 miliardi legalizzati l'Agenzia delle Entrate ne ha incassati quasi 5 di sanzioni, questo è certo. Come è certo che la Finanziaria se li è già mangiati quasi tutti. E il bicchiere non è pieno neppure per metà. «Abbiamo recuperato 5 miliardi ma ne abbiamo persi 25», dice Claudio Sici-liotti, presidente del consiglio nazionale dei commercialisti. «Lo scudo è stata una picconata alla legalità in un paese dove la tassazione è la più alta del mondo. Siamo al 50,6 per cento, e non al 42,8 per cento del dato ufficiale, perché nella ricchezza prodotta sono inclusi 238 miliardi di sommerso, dove occupiamo il secondo posto nella classifica mondiale dopo la Grecia.

Lavorare onestamente non conviene ma speravamo che il governo usasse i miliardi della sanzione per rilanciare le imprese. Non mi pare che stia accadendo». In quanto ai famosi 95 miliardi pari al 6 per cento del Pil si può solo sperare che gli scudisti li investano. Ma i segnali non sono incoraggianti. «Ho visto imprenditori », aggiunge Siciliotti, «affidati dalla banca A che scudano con la banca B per non dare notizie sulla loro consistenza patrimoniale». Peraltro il governo non ha comunicato quanti dei 95 miliardi di euro rientrati siano tornati in Italia con il rimpatrio materiale e quanti siano rimasti nel calderone del rimpatrio giuridico, che consente di tenere i soldi scudati all'estero. Il punto definitivo lo fa un private banker milanese. Niente nomi, si capisce. In banca non usa. Nello scudo fiscale men che meno. «Abbiamo incominciato subito forte», racconta: «I primi scudi li abbiamo fatti per pezzature dai 20 ai 40 milioni di euro.

Questi sono i grandi patrimoni liquidi e non rientrano. Rimangono all'estero dentro le fiduciarie. Dopo questa fase sono arrivati i tagli medio-piccoli, diciamo 200-500 mila euro. Molto dalla Svizzera. Meno da Montecarlo o Lussemburgo. Tanti soldi vengono da Singapore o da Dubai, via Europa. Se poi mi chiede perché i clienti portano i soldi in Svizzera, le dico: perché fa figo. O meglio. Faceva figo. Ne ho un paio che si sono trovati circa 4 milioni a testa nei fondi di Bernard Madoff. A uno hanno detto che lo rimborsano entro febbraio. Gli ho fatto tanti cari auguri, non vedrà un soldo. A un altro hanno proposto di restituire l'80 per cento in tre anni ma c'era una postilla per cui, se scudava, si sarebbero tenuti i soldi. Così è stato. Un altro ancora aveva dato in gestione 350 mila euro. Dopo tre mesi erano 500 mila e io, con il mio 5 per cento all'anno, passavo per lo scemo del villaggio. Alla fine, ne ha recuperati 40 mila. Del resto, il mandato svizzero consente al gestore di fare praticamente quello che vuole coi soldi del cliente. Hanno investito infondi chiusi in Texas evitati anche dalle fiduciarie che ti facevano aprire immobiliari in Ungheria. Finché la finanza mondiale tirava, la gente non si accorgeva neppure di pagare 2 mila euro di spese per un bonifico estero oppure che le commissioni di uscita da una polizza o da un fondo hedge sono enormi». Domanda conclusiva al private banker: che cosa succederà alla fine di questo scudo? «Che cosa vuole che succeda? Se il segreto bancario resta, torneranno a portare i soldi fuori. In quanto ai benefici sull'economia, un mio cliente ha scudato 3 milioni e li ha subito girati all'azienda. Unico e solo»

 

11 gennaio

 

Se questi sono uomini

di Barbara Spinelli, da "La Stampa", 10 gennaio

Il futuro in cui siamo già immersi comincia nella piana di Gioia Tauro: a Rosarno in provincia di Reggio Calabria (un’autentica guerriglia urbana è ancora in corso), come a Castel Volturno e a Reggio stessa, dove la ’ndrangheta ha voluto intimidire i magistrati con un attentato alla procura generale. Il futuro comincia a Rosarno perché i principali problemi della nostra civiltà si addensano qui: le fughe di intere popolazioni dalla povertà e dalle guerre (guerre spesso scatenate dagli occidentali, generatrici non di ordine ma di caos); le vaste paure che s’insediano come nebbie, intossicando la vita degli immigrati e dei locali; le cruente cacce al diverso; il dilagare di una mafia esperta in controllo mondializzato.

A ciò si aggiunga l’impossibilità di arrestare migrazioni divenute inarrestabili, perché da tempo non si trovano italiani e cittadini di Paesi ricchi disposti a fare, allo stesso salario, i lavori fatti da africani. Si aggiunga l’ipocrisia di chi crede che la risposta consista in un’identità monoculturale da ritrovare.

E la menzogna di chi non sopporta lo sguardo inquieto e assicura: abbiamo già praticamente vinto le mafie, Gomorra appartiene al passato, è «un vecchio film in bianco e nero», come dice Maroni. Non per ultimo, si aggiunga lo Stato che perde il controllo del territorio e il monopolio della violenza: i neri a Rosarno combattono contro ronde private di locali, infiltrate da ’ndrangheta e armate di fucili. Il pensiero della Lega è egemonico e le rivolte vengono associate, dal ministro Maroni, non alle mafie ma all’immigrazione clandestina che si promette di azzerare sanando ogni male. È inganno anche questo. Quando in Francia s’infiammarono le banlieue, nel novembre 2005, Romano Prodi disse che il fenomeno, mondiale, non avrebbe risparmiato l’Italia. Fu deriso e non creduto.

Non era menzogna invece. È vero che l’Italia ha da anni una reputazione cupa, e impaura a tal punto immigrati e fuggitivi da suscitare, nei loro animi, il senso di schifo di cui parla Balotelli. Gran parte dell’Europa ha una cupa reputazione, ma questo non scusa i nostri misfatti e silenzi: il silenzio del sindacato soprattutto, abituato a proteggere pensionati e operai delle grandi industrie (ormai dei privilegiati) e del tutto afasico sull’intreccio mafia, immigrati, sfruttamento. Il massimo della spudoratezza è raggiunto quando i nostri ministri citano Zapatero o Sarkozy, quasi che gli errori altrui nobilitassero i nostri. Quasi che non esistesse, in Italia, quel sovrappiù che è il potere malavitoso. Le rivolte di questi giorni discendono dal fallimento dello Stato e lo rivelano. È la conclusione cui giunge il prezioso libro di Antonello Mangano, scritto sui ventennali disastri di Rosarno e Castel Volturno. Il titolo è: Gli africani salveranno Rosarno - E, probabilmente, anche l’Italia (Terrelibere.org 2009).

Le rivolte odierne hanno infatti una storia alle spalle, occultata dai politici e da molti giornali. Coloro che a Rosarno hanno reagito con ira distruttiva a un’ennesima aggressione contro i lavoratori neri (due feriti a colpi di carabina, giovedì) sono gli stessi che nel dicembre 2008 si ribellarono alla ’ndrangheta. Erano stati feriti quattro immigrati, e gli africani fecero qualcosa che da anni gli italiani non fanno più. Scesero in piazza, chiedendo più Stato, più giustizia, più legalità. Contribuirono alle indagini dei magistrati con coraggio, rompendo l’omertà e rischiando molto.

Denunciarono gli aggressori a volto scoperto, pur non essendo protetti da permessi di soggiorno. È vero dunque: gli africani salveranno Rosarno e forse l’Italia, come scrive anche Roberto Saviano. Poco prima della rivolta a Rosarno si erano ribellati gli africani a Castel Volturno, il 19 settembre 2008, rispondendo a una sparatoria di camorristi che aveva ammazzato sei immigrati.

Quel che è accaduto dopo è una sciagura prevedibile, e per rendersene conto basta vedere come vivono, gli africani dell’antimafia. Sono eloquenti più di altri i video di Medici senza Frontiere, che parlano di crisi umanitaria nella piana di Gioia Tauro. Il rapporto che Msf ha redatto nel 2008 ha un titolo ominoso: «Una stagione all’inferno», come il poema di Rimbaud. Difficile descrivere altrimenti gli africani che vivono in stabilimenti industriali abbandonati, come la cartiera «La Rognetta» a Rosarno, o l’oleificio dismesso presso Gioia Tauro. Dentro l’oblò del silos per l’olio: giacigli di stracci. Tutt’intorno, fuochi e soprattutto rifiuti, montagne di rifiuti tra cui vagano, tristi ombre, esseri umani che si costruiscono alloggi di cartone o tende senza sanitari. Vedere simili paesaggi ricorda Gaza, gli slum pachistani: non è vita primitiva ma l’osceno connubio tra architetture industriali moderne, indigenza estrema e apartheid. Un africano dice sorridendo a Medici senza Frontiere: «Tra l’una e le quattro di notte inutile provare a dormire. Troppo freddo».

Ci nutriamo volontariamente di menzogne, come il protagonista nel poema di Rimbaud, quando diciamo che quest’oscenità nasce dall’eccessiva tolleranza verso i clandestini. Abbiamo chiamato noi gli africani a raccogliere aranci, consci che nessuno lo farà a quel prezzo e per tante ore (25 euro per un giorno di 16-18 ore; 5 euro vanno a caporali mafiosi e autisti di pullman). E la tolleranza denunciata da Maroni non è verso i clandestini ma verso le condizioni in cui vivono clandestini o regolari.

Dopo aver tollerato tutto questo, e versato nella regione milioni di euro finiti in tasche sbagliate, ogni stupore è fuori luogo. I tumulti odierni non sorprendono: se questi africani non son uomini, come s’intuisce nei video, impossibile che non sboccino, prima o poi, i Frutti dell’Ira di John Steinbeck. Scritto nel ’39 durante la Grande depressione, il libro Furore poteva sperare, almeno, nel New Deal di Roosevelt che noi non abbiamo.

Ne abbiamo tuttavia bisogno, di un New Deal, che metta fine all’apartheid e non si limiti a spostare immigrati come mandrie da un posto all’altro. Perfino i poliziotti, spiega Antonello Mangano, dicono che la risposta non può essere solo punitiva, che gli africani sono una comunità mite, che le migrazioni continueranno. Con l’estendersi delle catastrofi climatiche saranno enormi, gli esodi. Non è vero che la questione della cittadinanza viene per ultima. Le grandi crisi si affrontano con grandi scommesse iniziali, fondatrici di nuove solidarietà. Non è vero neppure che i liberal e la Chiesa sono retrogradi, come scrive Angelo Panebianco sul Corriere. Pensare in grande l’integrazione è preparare oggi il futuro.

Dicono che l’identità stiamo smarrendola, a forza di rinunciare alle nostre radici e di convivere con diversi che ci condannano al meticciato.

Anche questa è menzogna. In realtà siamo già cambiati: non perché incomba il meticciato tuttavia, ma perché la nostra identità non è più quella ¬ curiosa, accogliente, porosa ¬ che fu nostra quando emigravamo in massa e incontravamo violenza. È un ottimo viatico l’ultimo libro di Gian Antonio Stella (Negri Froci Giudei - L’eterna guerra contro l’altro, Rizzoli 2009): si scoprirà che la mutazione già è avvenuta, nel linguaggio della Lega e nella disinvoltura con cui si accettano segregazioni che trasformano l’uomo in non uomo.

L’identità che abbiamo perduto, la recuperiamo solo se non tradiamo quella vera inventandone una falsa. Solo se sblocchiamo le memorie e ricordiamo che le sommosse antimafia dei neri prolungano le rivolte italiane condotte, sempre in Calabria, da uomini come Peppe Valarioti e Giannino Losardo, i dirigenti comunisti uccisi dalle ’ndrine nel 1980. Solo se scopriremo che il nostro problema irrisolto non è l’identità italiana, ma l’identità umana. Le scuole non hanno bisogno delle quote del ministro Gelmini (non più di tre alunni su dieci per classe in tutta Italia, come se Gesù avesse imposto quote di accesso alla stalla di Betlemme: non più di tre Magi). Hanno bisogno di insegnare il mondo che muta. Altrimenti sì, è l’inferno di Rimbaud: «L’Inferno antico: quello di cui il Figlio dell’Uomo aperse le porte».

 

Fisco, una controriforma ottocentesca

Con la proposta di introdurre due sole aliquote Irpef Berlusconi vuole abolire un principio cardine del nostro ordinamento costituzionale: la progressività del prelievo fiscale. Un balzo in pieno ‘800 verniciato di “modernità”.

di Emilio Carnevali

Se c’è un merito che al nostro Presidente del Consiglio possiamo riconoscere – fra i tanti demeriti che certamente i lettori di MicroMega non avranno problemi a richiamare alla memoria – è quello di riuscire spesso a divincolarsi nella confusione e nell’autoreferenzialità del dibattito politico con proposte di spiazzante semplicità e grandissimo impatto popolare

L’idea di una riforma fiscale basata sull’introduzione di due sole aliquote Irpef sgombra il campo dalle tante chiacchiere di ministri che disquisiscono su “mercatismo” ed encicliche papali, riportando la politica alla dura semplicità di una partita che contrappone i ricchi ai poveri, “chi sta sopra contro chi sta sotto e chi verrà dopo”. Qui torniamo davvero ai “tempi in cui si cominciava la guerra santa dei pezzenti”, per dirla con le parole di Francesco Guccini. Purtroppo stavolta è il “treno pieno di signori” a caricare contro il macchinista.
Berlusconi vuole sostanzialmente introdurre nel nostro Paese una flat tax al 23%, un’unica imposta sul reddito delle persone fisiche, dato che la seconda aliquota al 33% riguarderebbe solo i redditi sopra i 100.000 euro corrispondenti a circa lo 0,5% dei contribuenti.

La progressività del prelievo fiscale è stata introdotta nei Paesi europei tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, nell’ambito di una serie di riforme sociali recepite sotto la spinta del movimento operaio e sindacale e variamente ispirate alla legislazione adottata nella Germania bismarckiana degli anni ’80 dell’’800. La nostra Costituzione, all’art. 53, recita: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. La riforma fiscale varata nel 1973 prevedeva 32 (32!) scaglioni di reddito: l’intento era quello di avvicinarsi quanto più possibile alla progressività continua (scaglioni della dimensione di una unità monetaria) come modello ideale di equità. L’aliquota più alta era all’82% (82%!), poi portata al 72% nel 1975 (ricordiamo che si parla di “aliquote marginali”, da applicare dunque solo alle corrispondenti porzioni di reddito, così che l’aliquota media viene ad essere assai inferiore).

Mentre Gordon Brown innalza l'aliquota sui redditi oltre i 167 mila euro dal 40 al 50%, mentre la Merkel e Sarkozy studiano metodi per la maggiore tassazione dei bonus milionari, il governo Berlusconi promuove riforme fiscali che hanno lo stesso grado di “civiltà tributaria” dell’imposta sul macinato del 1868, quella dei primi tumulti per la farina dell’Italia unitaria. Fra l’altro non deve ingannare la patina reaganian-populista del “meno tasse per tutti” con cui si cerca di verniciare questo attacco alle ultime vestigia di equità fiscale nel nostro Paese: con un deficit oltre il 5% del Pil e un debito pubblico che veleggia verso il 120%, i 20 miliardi di euro necessari per questa riforma si inseriranno necessariamente in un piano complessivo di riassetto del sistema fiscale che renderà il nostro Paese ancora più ingiusto e diseguale (aumentando ad esempio il peso delle imposte indirette). Già prima della crisi e di queste eventuali “riforme” l’Italia aveva un indice Gini (il coefficiente di concentrazione dei redditi che indica sinteticamente il “grado di disuguaglianza” di un Paese) superiore alla media dei 24 paesi dell’Ocse e molto più vicino a quello degli Usa che a quello di nazioni di “modello europeo” come Germania e Francia.

A Pierluigi Bersani viene attribuita una battuta: “Se votassero solo i ricchi, vinceremmo sempre noi. Ci ha fregati il suffragio universale”. Di fronte a una destra che si incunea senza scrupoli nelle guerre fra ultimi e penultimi per lucrare consenso politico (vedi, da ultimo, i recenti fatti di Rosarno), il vigoroso contrasto di questo disegno di “riforma fiscale” di impronta smaccatamente regressiva potrebbe essere la prima grande iniziativa di una opposizione sociale della quale il Paese ha disperatamente bisogno. Sarebbe ora di riuscire a recuperare un po’ di quei voti popolari migrati negli ultimi anni fra Arcore e Pontida.
 

Nigeria, questione d'onore e di religione

Il fallito attentato di Natale ha portato la Nigeria sotto i riflettori e i cristiani non ci stanno a essere accomunati con i musulmani

Il fallito attentato di Natale sul volo Delta Amsterdam-Detroit, ha spostato l'attenzione dei media e dell'intelligence sullo Yemen, ma anche sulla Nigeria. Se nella penisola arabica, il governo di Sana'a ha dei buoni motivi di sentirsi addosso lo sguardo d'occidente per sconfiggere i nemici comuni, lo stesso non avviene nel paese africano dove non è stata accettata di buon grado la decisione della Us Transportation Security di inserire anche la Nigeria nella lista dei 14 Stati i cui cittadini saranno sottoposti a controlli particolari in caso di visita negli Usa.
La 'Mutallabizzazione'. In Nigeria, come in nessun'altra parte del mondo, lo scontro religioso tra musulmani e cristiani è sempre pronto a esplodere. Con una popolazione di 150 milioni di abitanti, 400 etnie e lingue differenti, la nazione sub sahariana è spaccata a metà: a nord, i dodici stati federali in cui vige la Sharia, a sud la maggioranza cristiana che nulla vuole avere a che fare con i "fratelli" musulmani. Subito dopo il fallito attentato, i cristiani hanno preso immediatamente le distanze e si oppongono fermamente alla "Mutallabizazione" della Nigeria da parte dell'Occidente. "Noi non c'entriamo nulla con gli Hausa Fulani (ndr l'etnia di cui farebbe parte l'attentatore Farouk Abdul Mutallab): sono una razza bastarda mischiata con quella araba. Terrorizzano il mondo, ritengono l'educazione peccaminosa e odiano la civilizzazione. Mi meraviglio che facciano ancora parte della razza umana", scrive un blogger sul suo diario in internet.
Scontro di religioni. L'odio tra cristiani e musulmani non si è mai sopito e in una guerra intermittente e sotterranea le vittime hanno superato la decina di migliaia. Non esiste un fronte in cui ci si combatte, ma gli episodi di violenza si sono registrati, in passato, in ogni dove: i cristiani si sono dimostrati brutali carnefici in diversi episodi di uccisioni di musulmani nella capitale Lagos per poi trasformarsi in vittime a Kano, nel nord musulmano. La percentuale più alta di incidenti si riscontra però nella cosiddetta Middle Belt, la striscia di terra compresa tra l'ottavo e il dodicesimo parallelo Nord. Secondo il settimanale tedesco Spiegel, Jos la capitale dello stato Palteau, a maggioranza cristiana, sarebbe nel mirino dei musulmani sempre pronti a un'espansione verso sud. Già in passato, la popolosa città è stata scenario di cruenti azioni compiute da entrambe le fazioni religiose: interi quartieri sono stati dati alle fiamme e nel 2001 i musulmani incendiarono il grande mercato coperto di Katako, nel centro della città, dove trovavano posto oltre 5 mila banchi. Nelle settimane a seguire si contarono più di mille morti, rimasti uccisi in una "guerriglia" di religione.
Il Paese deve rimanere unito. I musulmani moderati che cercano di sfuggire a situazioni radicali instauratesi nel nord del paese non hanno molte chance. La legge nigeriana, infatti, marca pesantemente la differenza tra i residenti originari di una città e i "nuovi arrivati" che difficilmente riescono a inserirsi nella vita pubblica di uno stato governato dai cristiani. Il risultato è che i cristiani si sentono costantemente minacciati, mentre i musulmani sempre più emarginati. E l'isolamento, si sa, facilmente si traduce in terreno fertile per gli estremismi e la radicalizzazione. Un esempio pratico è rappresentato dalle azioni della setta Boko Haram, letteralmente "l'istruzione è peccato" nel nord est del paese e nella città di Maiduguri dove, in diverse occasioni, l'esercito si è trovato a dover fronteggiare le milizie islamiche.
Fin quando in Nigeria c'era il comando della dittatura militare, qualsiasi tentativo di prevaricazione di una parte sull'altra, veniva represso violentemente dal regime che aveva interesse a mantenere unita la nazione più popolosa dell'Africa. Successivamente, la nuova Costituzione democratica è stata riempita di escamotage per garantire una stabilità e un equilibrio tra musulmani e cristiani, come l'alternanza ogni due mandati presidenziali. Ma ciò non è bastato e non basterà mantenere in carica Umaru Yar'Adua, malato da tempo, per evitare una guerra di successione.
Segnali di guerra. Padre James Wuye, una volta leader delle feroci milizie cristiane nell'aerea di Kaduna e adesso pacifista convinto, ritiene che lo scontro sia inevitabile: "Stanno giocando al gatto e al topo", dice Wuye allo Spiegel. Lo scorso novembre a Jos sono morte 700 persone. Il 28 dicembre a Baluchi, città dalla quale gli abitanti di Jos temono la "calata" dei musulmani, negli scontri tra milizie islamiche e forze di sicurezza i morti sono stati 38. E se il conflitto religioso dovesse espandersi su larga scala, l'onta di essere stati inseriti nella lista dei 14 sarebbe solo un problema marginale.

Nicola Sessa
 

7 gennaio

 

"Abbiamo vinto"

Gli operai dello stabilimento della Yamaha di Gerno, in provincia di Monza e Brianza, erano saliti sul tetto mercoledì scorso per chiedere che i loro diritti venissero rispettati

Alla fine sono scesi. Emanuele Colombo, Paolo Mapelli, Jarno Colosio e Martino Sanvito, i quattro dipendenti della Yamaha che mercoledì sedici dicembre erano saliti sul tetto dello stabilimento di Gerno di Lesmo, vicino a Monza, per chiedere il rispetto dei loro diritti, ce l'hanno fatta. Nella notte i vertici della multinazionale giapponese hanno ceduto. "Chiudiamo vittoriosi - esclama Gianluigi Redaelli, segratario generale della Fim Cisl della Brianza -. Non si tratta ancora di un vero e proprio accordo, ma l'azienda ha finalmente garantito di impegnarsi seriamente per la concessione della cassa integrazione. Il 29 dicembre andremo a Roma per ratificare l'accordo col ministro Sacconi. Il presidio, seppur in maniera ridotta, continuerà fino a quella data. Yamaha non andrà via a costo zero, troppi i disagi che hanno procurato ai lavoratori". Per due anni i dipendenti dello stabilimento di Gerno potranno fare affidamento sulla cassa integrazione, in modo da avere più tempo per ricollocarsi professionalmente.

Nei giorni scorsi Peacereporter aveva intervistato Emanuele Colombo, uno dei quattro operai che erano saliti sul tetto per costringere i vertici Yamaha a dialogare. “Stiamo bene – aveva detto Emanuele -. Questa notte è stata dura, la temperatura è scesa sotto i dieci gradi, ma ci siamo ben attrezzati con sacchi a pelo e tende. Siamo gente abituata ad andare in montagna e il freddo non ci spaventa. Abbiamo portato su una stufa e rimarremo sul tetto fino a quando non verremo ascoltati”. In sciopero da oltre un mese, i dipendenti della Yamaha hanno scoperto da un giorno all'altro che lo stabilimento di Lesmo avrebbe chiuso i battenti. Sono 66 i lavoratori che perderanno il posto e rimarranno a casa, qualora la situazione non si sbloccasse positivamente. Per protestare contro la decisione aziendale, da oltre un mese i dipendenti si sono messi in sciopero per chiedere l'adozione della cassa integrazione straordinaria. “Non è facile nemmeno per noi resistere qui fuori – continua Emanuele Colombo –. E' brutto dover arrivare a simili forme di protesta, ma le abbiamo provate tutte. Riusciamo a resistere anche per il supporto di tutti i nostri colleghi che ci sostengono con i viveri, le coperte e non ci fanno mancare nulla. Anche loro scioperano e prendono freddo. Davanti ai cancelli è stato organizzato un presidio continuo e la produzione è stata bloccata. E' una vittoria che dobbiamo conquistare tutti insieme. Vorremmo fare il Natale a casa con le nostre famiglie, ma non scenderemo fino a quando non vedremo un accordo scritto. Possiamo resistere anche un mese. Le promesse volano e, visto il comportamento di questa azienda, siamo certi che appena lasciamo il tetto, ritirerebbero tutto. Ormai li conosciamo”.

Ad incontrare delle difficoltà nel trattare e dialogare con i vertici della Yamaha di Gerno non sono stati solo i dipendenti, ma anche i sindacati e il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi. Lo scorso venerdì era stato proprio Sacconi, su invito di Dario Allevi, presidente della Provincia di Monza e Brianza, a convocare un incontro con i dirigenti Yamaha e i sindacati per tentare una mediazione e scongiurare i licenziamenti. “Nell'ultimo periodo la situazione si era drammatizzata ulteriormente – ha affermato il sindacalista Redaelli - . L'azienda questa volta ha agito proprio in maniera sbagliata. I dirigenti hanno annunciato la chiusura dello stabilimento e aperto la procedura di mobilità collettiva il giorno dopo la vittoria di quattro titoli mondiali. Un fulmine a ciel sereno. Noi abbiamo chiesto di sospendere tale procedura per trattare, ma abbiamo trovato davanti un muro. Nel 2009 i lavoratori Yamaha hanno usato la cassa ordinaria solo per 11 settimane, per legge ne hanno disposizione altre 41. L'adozione di questa misura per la quale ci siamo battuti, consentirà ai dipendenti di avere più tempo per trovare una nuova collocazione lavorativa, senza rimanere su una strada”.

Gli scioperi e la mobilitazione ministeriale hanno costretto la multinazionale giapponese a mollare il colpo. L'incontro di venerdì scorso non aveva sortito alcun accordo concreto e il ministro Sacconi ieri aveva forzato nuovamente la situazione, convocando a Roma i vertici aziendali e i sindacati. Incontro che, però, è saltato, visto che l'obiettivo è stato raggiunto. “Abbiamo a che fare con una dirigenza incompetente - aveva detto Colombo - che ci ha preso in giro. Perfino Valentino Rossi, dopo che lo avevamo atteso sotto la pioggia a Monza per cinque ore, non si era degnato di farci un saluto o un minimo gesto di solidarietà. Siamo stufi della politica di questa multinazionale che utilizza la manodopera come una merce usa e getta. Con i loro inganni e con le promesse non mantenute, ci hanno costretto a salire sul tetto e solo per chiedere la cassa integrazione, nemmeno l'assunzione”.

Benedetta Guerriero

 

Afghanistan, una guerra privata

In questo conflitto il Pentagono impiega più contractors (104mila) che militari in divisa (68mila)

I 33mila nuovi soldati Usa che verranno inviati in Afghanistan rappresentano solo una parte del 'surge' ordinato dal presidente Obama. Secondo il Congressional Research Service, il centro studi del parlamento degli Stati Uniti, il Pentagono ha ricevuto ordine di inviare al fronte almeno altrettanti mercenari, o contractors, in un numero compreso tra i 26mila e i 56mila uomini.

'Soldati' più convenienti. I contractors sono 'soldati' anche loro, nel senso stretto del termine, in quanto al soldo del Dipartimento della Difesa, esattamente come i militari di Esercito, Marina e Aviazione. Ma più convenienti dal punto di vista economico, poiché contrattualizzati a termine, e soprattutto da quello politico, dato che il loro impiego non ha un impatto sull'opinione pubblica (nonostante siano comunque a carico dei contribuenti). Almeno fino a quando questi mercenari non combinano qualche guaio, come torturare prigionieri o sparare alla cieca sui civili.

Più i mercenari che i militari. Se i rinforzi pubblicamente annunciati dal presidente Barack Obama porteranno il contingente dei militari Usa in Afghanistan a oltre 100mila uomini, i contractors alle dipendenze del Joint Contracting Command del Pentagono in quel paese, che già oggi sono 104mila, saliranno a 130-160mila. Insomma: in questa guerra ci sono più mercenari che militari.
In Afghanistan, scrive Congressional Research Service, "si registrano le percentuali di contractors utilizzati dal dipartimento della Difesa più alte che in ogni altro conflitto della storia degli Stati Uniti".

Guerra in appalto. Ma chi sono questi mercenari che vanno in guerra per contro del governo di Washington? E cosa fanno? Dei 104mila contractors attualmente operativi in Afghanistan, quasi 10mila sono statunitensi, circa 16mila sono stranieri e il resto sono locali. Le loro mansioni abbracciano l'intero spettro operativo di una missione militare di guerra: dalla costruzione delle basi e degli alloggiamenti alla loro sorveglianza, dal trasporto del carburante per carri armati ed aerei alla loro manutenzione, dagli interrogatori dei prigionieri di guerra alle scorte dei convogli, dall'attività d'intelligence alle operazioni militari segrete. Insomma: tutte cose che in passato facevano i soldati in divisa.

Soldati senza regole. Gli effetti del loro impiego è spesso drammatico e controproducente, come osserva lo stesso Congressional Research Service ricordando le stragi di civili e gli abusi sui prigionieri commessi dai mercenari Usa in Iraq. "I locali possono non distinguere tra contractors e militari Usa, quindi gli abusi commessi dai contractors rischiano di rafforzare gli insorti antiamericani, come è risultato evidente dalle proteste seguite a questi incidenti". Questo accade perché, sottolinea il centro studi parlamentare, il Pentagono assume questi mercenari ma non è in grado di imporre loro il rispetto delle linee di condotta che invece i militari sono tenuti a seguire (almeno in teoria, aggiungiamo noi).

La privatizzazione della guerra. L'Afghanistan oggi, come l'Iraq ieri, sono la dimostrazione che le guerre moderne sono sempre di più appaltate dagli Stati ai privati. Dopo la privatizzazione delle poste, delle ferrovie e dei servizi pubblici, l'Occidente a guida Usa ha intrapreso anche la privatizzazione della guerra, con l'inevitabile corollario della 'deregulation'. La guerra come business senza regole, in cui a guadagnare sono aziende private legate ai governi, e a pagare sono i cittadini, con le loro tasse, e gli abitanti dei paesi occupati, con la loro vita.

Enrico Piovesana

 

5 gennaio

 

Il “partito dell’amore” tra Orwell e Ceaucescu

di Paolo Flores d’Arcais, da "Il Fatto Quotidiano", 2 gennaio

Quella del “Partito dell’amore” è una trovatina che farebbe acqua perfino nella più insulsa comicità da oratorio o nel più triviale umorismo da Bagaglino. Da scompisciarsi per la vergogna, insomma. Se i media la prendono per buona è solo in virtù (cioè in vizio) di un controllo ormai orwelliano – alla lettera – esercitato dal regime sui canali televisivi. Al punto che Berlusconi, vittima del dissennato lancio di souvenir da parte di uno psicolabile, pretende oramai alla santificazione, nemmeno avesse ricevuto le stigmate. A quando il moltiplicarsi delle reliquie, le boccette di terra di Arcore, le spine di cactus di Villa Certosa, i preservativi di Palazzo Grazioli? La vendita delle indulgenze è invece fiorente da tempo.

Siamo alla pretesa di un culto della personalità rivoltante, in perfetto stile Ceausescu. Del resto, la definizione di Berlusconi come un “Ceausescu buono” è del suo fedelissimo Confalonieri, che lo conosce da una vita e sa quel che dice. E che per correggere l’incresciosa definizione ha spiegato che voleva intendere uno “tipo il Re Sole”! Se questo è Berlusconi, uno che si crede il Re Sole, perché nella prossima riforma istituzionale bipartisan, non si stabilisce che l’inquilino di Palazzo Chigi venga sorteggiato fra quanti, scolapasta in testa o meno, credono di essere Napoleone? C’è poco da scherzare, infatti. Siamo al delirio quotidiano, reso possibile da una menzogna mediatica talmente onnipervasiva che ha trasformato in realtà l’incubo orwelliano della neolingua, nella quale le parole “significavano quasi esattamente l’opposto di quel che parevano in un primo momento” – il mafioso diventa eroe, l’odio amore, la latitanza esilio – ma il cui fine “non era soltanto fornire un mezzo di espressione alla concezione del mondo del Regime, ma soprattutto rendere impossibile ogni altra forma di pensiero”.

Ci siamo già dentro, se i Galli della Loggia, Panebianco e altri Ostellino insistono dal pulpito sempre più teocon del Corriere della Sera a farfugliare la leggenda nera delle colpe della sinistra, ostaggio dei “cattivi” (Travaglio, Di Pietro, Santoro. E i magistrati che non guardano in faccia a nessuno, naturalmente) perché non ancora sufficientemente conquistata all’amoroso arrembaggio bipartisan contro la Costituzione repubblicana. Proviamo perciò ad uscire dall’incantesimo totalitario della neolingua (“altre parole erano ambivalenti e avevano significato positivo se applicate al Partito e ai suoi membri e negativo se applicate ai loro nemici”). In buon italiano le cose stanno così: lasciati definitivamente alle spalle gli anni di piombo – Brigate rosse e stragi di Stato – nella politica del nostro Paese l’odio era per fortuna e da tempo solo un ricordo. I politici godevano di un crescente disprezzo, a dire il vero meritatissimo, ma nulla di più.

È stato Berlusconi, solo ed esclusivamente Berlusconi, con i suoi alleati e signorsì mediatici, a reintrodurre nella vita pubblica questo sentimento. E nel momento di più autentica pacificazione, gli esordi di Mani Pulite, quando ogni sondaggio raccontava l’afflato quasi unanime del Paese intorno ai magistrati del pool di Borrelli, che applicavano senza sconti la stella polare di ogni liberaldemocrazia, la legge eguale per tutti. In quel corale anelito del Paese per fare pulizia di corruzione e altra criminalità politica, se vi fu qualche voce stonata, inclinante all’odio, non fu certo il tintinnar di monetine di fronte all’hotel Raphael, innocua manifestazione di disprezzo per il partitocrate Craxi, ma il cappio sventolato in parlamento da quelli che col tempo sono diventati alleati “perinde ac cadaver” del berlusconiano “Partito dell’amore”, attraverso una sequenza di amorevolezze in dolce stilnovo, pulirsi il culo col tricolore e far pisciare maiali su terreni destinati a luogo di culto religioso.

È Berlusconi e solo Berlusconi, con i suoi alleati e signorsì mediatici, ad aver di nuovo trasformato in nemici gli avversari politici.

E, prima ancora, i più onesti servitori dello Stato, i magistrati integerrimi che non si facevano piegare né da minacce né da lusinghe (e magari scoprivano e dunque incriminavano i loro colleghi corrotti proprio dalle aziende di Berlusconi). È questo mondo che ha inveito al grido di “killer”, dai pollici catodici del santificando di Arcore, contro magistrati che nella lotta alla mafia rischiavano ogni giorno la vita. Mentre ad Arcore, non ancora Unto del Signore, il signore della menzogna televisiva aveva già tenuto come commensale uno stalliere poco aduso ai cavalli, Attilio Mangano, che finirà i suoi giorni all’ergastolo per mafia. A meno che i “cavalli” di Mangano non fossero le partite di droga, come sostenuto da Borsellino nella sua ultima intervista, in cui fa anche i nomi di Dell’Utri e Berlusconi.

È Berlusconi che ha radunato la piazza intorno a una gigantesca bara che auspicava la morte di un imbelle Prodi. Inutile continuare: grazie a Travaglio e Gomez i lettori di questo giornale hanno trovato un elenco assai ampio – e tuttavia niente affatto esaustivo – delle sistematiche manifestazioni di odio con cui Berlusconi ha imbarbarito lo scontro politico. Nulla di tutto ciò sanno invece quanti traggono l’informazione esclusivamente dai telegiornali, circa nove italiani su dieci. Ed è allucinante che nel maggiore (speriamo ancora per poco) partito di “opposizione” si continuino a considerare democratiche delle competizioni elettorali che si svolgono dentro questo incubo orwelliano, trasformato in realtà anche per la loro acquiescenza. Del resto, è il mondo berlusconiano che ha cancellato dalla scena pubblica (che oggi quasi coincide con quella televisiva) ogni residuo di argomentazione razionale, addestrando allo squadrismo dell’interruzione e del “man-darla in vacca” manipoli di cloni della menzogna über alles (“al membro del partito” si richiede la capacità di “esprimere opinioni corrette in modo automatico, come un fucile mitragliatore una scarica di pallottole… Si sperava, da ultimo, di far articolare il discorso nella stessa laringe, senza che si dovessero chiamare in causa i centri del cervello”).

Questo odio si è fatto programma, reso esplicito di fronte ai parlamentari europei del Partito popolare (l’internazionale Dc, per capirsi): violentare la Costituzione repubblicana fino a sfigurarla, col vetriolo che costringa la “balance des pouvoirs” di magistrati e giornalismo al bacio della pantofola verso un governo “legibus solutus”. Il totalitarismo mediatico della menzogna onnipervasiva per tornare indietro di oltre tre secoli, prima di Jefferson e Montesquieu, in una parodia degradante e vomitevole della corte di Versailles.

L’odio berlusconiano contro la Costituzione – fondamento della nostra convivenza civile, che nasce dalla Resistenza, “questo patto/giurato fra uomini liberi/che volontari si adunarono/per dignità e non per odio” immortalato da Piero Calamandrei – è talmente attivo che ha costretto un cautissimo Presidente della Repubblica a denunciare il “violento attacco contro le fondamentali istituzioni di garanzia” perpetrato da Berlusconi, e un ondivago Fini a intimare “chiarimenti” (ma prendersi in risposta lo sputo di un “basta ipocrisie”, e rientrare nei ranghi).

È dunque da quella solenne – e colpevolmente rimossa – denuncia di Napolitano che l’Italia non ancora mitridatizzata nel gorgo orwelliano del totalitarismo televisivo deve ripartire (e il suo Presidente per primo): fermare l’odio significa infatti fermare questa violenza contro la Costituzione, le leggi ad personam e altri “vulnera”, non firmarle, e prima ancora non votarle.

 

Somalia, la battaglia di Dhuusa Marreeb

Incertezze sull'ultima battaglia tra al-Shabaab e Ahlu Sunna.

Dhuusa Marreeb, città di 40 mila abitanti a nord di Mogadiscio, ricopre un ruolo di primaria importanza nella strategia per il dominio del nord del paese.
Prima sotto il controllo dei guerriglieri di al-Shabaab, poi nelle mani delle milizie moderate Ahlu-Sunnah e da domenica ancora una volta i kalashnikov della "Gioventù islamica", al-Shabaab, sarebbero tornati a dettare legge. "Sarebbero", perché le voci si rincorrono senza sosta e tutt'ora, al 4 di gennaio, non è chiaro chi sia a controllare effettivamente la città situata 560 chilometri a nord della capitale. Secondo alcune agenzie, la città sarebbe caduta nelle mani di al-Shabaab, mentre secondo la Irin, ripresa dalla Reuters, la situazione sarebbe sotto controllo e come riferito da un giornalista presente nella capitale regionale del Galgadud, le milizie radicali sarebbero poco fuori da Dhuusa Marreeb. La battaglia che si è consumata tra sabato e domenica è stata tra le più cruente degli ultimi mesi. Il bilancio attuale parla di una cinquantina di vittime e almeno un centinaio di feriti. Ma, come sostengono alcune fonti locali, il bilancio sarebbe molto più pesante. Stavolta il tributo maggiore è stato pagato proprio dai guerriglieri legati ad al-Qaeda. Le due fazioni sono in lotta da molto tempo, da quando i sufiti di Ahlu-Sunna, alleati del Governo Federale di Transizione, nel dicembre del 2008 hanno deciso di opporsi all'avanzata degli islamisti radicali.

Sempre in fuga. Quello che è certo, invece, è il grande numero di rifugiati che sono scappati dalla città verso i villaggi che la circondano. Si parla di circa 7 mila famiglie, cioè circa 30 mila persone. E bisogna ricordare che l'80 per cento della popolazione è costituita da rifugiati (in maggioranza provenienti da Mogadiscio), costretti ancora una volta a cercare riparo altrove dalla furia della armi. Le condizioni di queste persone sono disperate. Sheikh Abdirahman Gedoqorow, un influente leader della città punta il dito contro le organizzazioni umanitarie: "Nessuno aiuta i profughi", martoriati dalla guerra e dalla siccità. C'è bisogno di acqua, di cibo e di rifugi idonei. Gedoqorow ritiene che le agenzie internazionali non si facciano vive perché temono per l'incolumità dei loro operatori, "ma - dice - nonostante le voci, la situazione è sotto controllo e la città è sicura". La paura, tuttavia, che gli uomini di al-Shabaab possano fare ritorno è sempre presente.

I problemi di Amisom. Gli attacchi degli integralisti, dei propugnatori della Sharia, sono aumentati in maniera esponenziale da quando l'esercito etiope, sostenitore del Governo di Transizione, si è ritirato dal paese. La Amison, (African Union Mission in Somalia), che avrebbe dovuto farsi carico della sicurezza del paese e spingere al-Shabaab fuori da Mogadiscio, sta fallendo i suoi obiettivi. Attualmente i ribelli controllano 16 distretti della capitale, mentre l'Amison si limita a presidiare l'area del porto e i due distretti della Medina, della città vecchia. Ma, lamentano i vertici, le truppe sono poche. Era previsto, sin dal marzo 2007, che la missione fosse composta da 8 mila uomini, ma ancora adesso il comandante Nathan Mugisha può contare su soli 4 mila uomini. Gli sforzi di Uganda e Burundi che hanno più volte offerto di aumentare il numero degli effettivi vengono visti, nell'ottica dei complicati equilibri politici del continente africano, come un tentativo di trasformare la missione Amisom in un affare privato tra i due paesi. Altra questione è quella dell'allargamento del mandato della missione che il Consiglio di Sicurezza Onu dovrebbe concedere alle truppe dell'Unione Africana per una maggiore operatività sul campo. Gli ultimi eventi, l'escalation di Usa e Gb contro al-Qaeda in Yemen e le voci secondo cui i ribelli della penisola araba fornirebbero armi ai "fratelli" di al-Shabaab potrebbero costituire una spinta in favore delle richieste del generale Mugisha.

Nicola Sessa

 

Niente di nuovo sul fronte afgano

La guerra continua nella sua escalation di violenza. I talebani non si lasciano intimorire dalla New strategy di Obama e il governo Karzai è sempre più debole
In Afghanistan, il nuovo anno si apre come si è chiuso il vecchio. Nessuna buona nuova, nessuna bella speranza. La guerra azzera tutto, e tutto distrugge. Morti, tanti tra i civili, qualcuno tra i militari; feriti, innumerevoli; e rapiti. Gli ultimi della serie sono "due giornalisti francesi della Tv pubblica France 3, sequestrati mercoledì 30 dicembre assieme al loro autista da elementi anti-governativi", per usare le parole dello scarno comunicato con cui le autorità afgane hanno dato la notizia. Una collega dei due giornalisti che hanno trascorso alcune settimane fra le truppe francesi per fare un reportage, ha spiegato che il rapimento è avvenuto sulla strada fra i villaggi di Tagab e Nijrab, nell'instabile provincia di Kapisa, dove si trova la base del contingente francese. La piccola provincia, a nord-ovest di Kabul, è contesa fra le milizie dell'ex signore della guerra ricercato dagli Usa Gulbuddin Hekmatyar e i talebani, di cui Hekmatyar è stato occasionale alleato.

Gli ultimi a morire, invece, sono stati quattro marines Usa, saltati questa mattina (lunedì 4 gennaio) su una mina artigianale mentre viaggiavano sul loro mezzo blindato, e un soldato britannico, morto invece ieri nella provincia meridionale di Helmand. Cinque caduti che fanno salire a 1569 le perdite della Coalizione internazionale dall'inizio dell'invasione, nel novembre 2001. Di questi, 949 sono statunitensi e 246 britannici. Questi i primi giorni del 2010. E sempre tragicamente si era chiuso il 2009, che verrà ricordato come l'anno con il più alto numero di morti fra le truppe straniere dall'inizio della guerra. Il 30 dicembre, quattro soldati e una giornalista, tutti canadesi, sono morti quando il veicolo su cui viaggiavano è saltato in aria nella provincia sud-est di Kandahar. La donna, Michelle Lang, 34 anni, del Calgary Herald, era appena arrivata per il suo primo servizio dall'Afghanistan. I suoi connazionali le stavano mostrando, a bordo di un mezzo, i progetti di ricostruzione a cui sopraintendevano, quando il veicolo su cui viaggiavano è saltato in aria, mettendo a segno il peggiore incidente mortale degli ultimi due anni in cui vengano coinvolti dei canadesi. Ma non solo. Il 30 dicembre, otto agenti della Cia e un afgano sono rimasti uccisi in un attentato suicida orchestrato dai talebani nella base militare Chapman, nella provincia orientale di Khost, roccaforte talebana. Il bilancio dell'esplosione, nei pressi dei locali adibiti a palestra della base militare, è il più grave subito dagli 007 Usa da quando sono in Afghanistan. A farsi esplodere, un kamikaze che indossava una divisa dell'esercito afgano. Ancora da chiarire, dunque, se si trattasse di un militare in servizio passato dalla parte dei talebani, anche se le tv americane lo hanno ribadito, dicendo che si è trattato proprio di un invitato dai talebani nella installazione militare fortificata come un possibile informatore. E che, nonostante le feree regole, non era stato perquisito, ma solo scortato fino alla palestra, dove ha azionato il corpetto esplosivo che indossava.

Ma il bilancio non si esaurisce qui, perché il medesimo giorno è avvenuto l'episodio più grave, che ha coinvolto esclusivamente dei civili. Un bombardamento Nato ha sterminato un gruppo di contadini che stava lavorando nei campi di Babaji, nei pressi di Lashkar-gah, in uno dei tanti villaggi della maledetta provincia di Helmand. Otto i morti ufficiali, ossia quelli ammessi dagli Alleati, restii da sempre ad ammettere le "scomode" stragi di civili, che altro non sono se non gli "effetti collaterali" di una "guerra giusta". Ma i numeri lasciano il tempo che trovano, l'unica certezza è che non erano talebani, non erano insorti, non erano signori della guerra. Erano semplici lavoratori rurali intenti a irrigare la terra.

E se a questo triste bollettino di guerra, si aggiungono misteriosi episodi che vedono sofisticatissimi droni made in Usa, inviati per spiare e catturare importanti informazioni sul nemico, precipitare in zone delicatissime, il quadro è presto fatto. La guerra in Afghanistan sta vivendo una veloce escalation, la più grave dal 2001, dove i talebani stanno mettendo a segno una serie di successi che fanno traballare le forze alleate, nonostante la nuova strategia Obama. Nel nono anno di una guerra iniziata con duemila uomini Usa, la Casa Bianca ha deciso di coinvolgere altri 30mila soldati che dovranno unirsi ai 7 mila uomini Nato. Ma l'intento di Washington pare andare oltre, dato che il dispiegamento dei soldati Usa potrebbe persino arrivare a centomila uomini nel tentativo di riprendere il controllo del paese.

Un fine che sembra sempre più complicato, anche per i loschi intrecci e giochi di potere interni all'amministrazione afgana. Il presidente Hamid Karzai ha infatti appena dovuto sostituire con un decreto il sindaco di Kabul, Mir Abdul Ahad Sahibi, condannato in primo grado a quattro anni di carcere per malversazione di fondi. Al suo posto è stato insediato Mohammed Yunus Noandesc, ex vice ministro dell'Acqua e dell'Energia. Ma Karzai ha ormai sempre meno forza. Il Parlamento ha appena bocciato la lista dei ministri presentata dal presidente, sentenziando per il capo di stato afgano una sono una sconfitta politica. "Ciò prolunga una situazione nella quale non c'è un governo in grado di funzionare, una situazione che va avanti dalla scorsa estate. E ciò è particolarmente preoccupante in un Paese in guerra - ha commentato il rappresentante speciale delle Nazioni Unite in Afghanistan, Kai Eide - dove ci sono moltissime sfide da affrontare e urgenti riforme da effettuare. In un momento in cui l'Afghanistan ha bisogno di un governo forte, ritengo che la maggior parte dei ministri bocciati non siano stati ritenuti in grado di rappresentare lo Stato con la necessaria decisione". La situazione politica in Afghanistan è diventata sempre più precaria dal 20 agosto scorso, quando si votò per le elezioni presidenziali, vinte dal capo di stato uscente Hamid Karzai in un contesto di brogli conclamati. Tant'è che la sua vittoria fu ufficialmente proclamata solo all'inizio di novembre.

Un terreno, questo, sul quale i talebani non fanno che prosperare. "Più soldati Usa verranno, più ne moriranno", ha dichiarato un talebano non meglio identificato all'autorevole Bbc. Niente di nuovo, dunque, sul fronte afgano. La guerra continua e la fine non fa nemmeno capolino.

Stella Spinelli

 

Degrado Roma

di Emiliano Fittipaldi

Traffico, smog, pulizia, sicurezza. La metropoli viene bocciata dai cittadini. Peggiorano economia e turismo. Viaggio in una capitale allo sfascio nel secondo anno del sindaco Alemanno

Il cartello messo da qualche fan del comune annuncia urbi et orbi: 'Dal 19 febbraio potati 5.500 alberi!'. Tra cui, si sottolinea, '416 lecci'. Sotto la pubblicità un secondo cartello, appiccicato dai fascisti di Casa Pound. Lapidario. 'E 'sti cazzi! I cittadini di via Mastrigni vivono ancora sopra una discarica abusiva!'. Ecco qua. La diatriba un po' scurrile tra destra al potere e contestatori che più neri non si può, sintetizza alla perfezione lo scontento che serpeggia tra le strade e i vicoli della città eterna.

Traffico, smog, spazzatura, trasporti e buchi nelle strade, "la Capitale più che a Milano sembra avvicinarsi sempre più a Napoli". Lo si sente dire sempre più spesso tra gli stranieri in visita al Colosseo, dai settentrionali costretti a scendere per lavoro sotto il Po e pure dai romani 'de' Roma', cittadini della capitale più degradata dell'Europa occidentale. Una vox populi che monta, passa di bocca in bocca, diventa quasi un luogo comune, praticamente certezza quando si parla di sporcizia, mobilità da manicomio e sicurezza urbana.

Non sono solo chiacchiere, ma insofferenze che trovano conforto nell'esperienza quotidiana dei forzati dell'Urbe e, soprattutto, negli indicatori formulati da studi di ricerca e istituti specializzati super partes. Al di là delle classifiche di fine anno sulla qualità della vita (in quella del 'Sole 24-Ore' Roma migliora di quattro posizioni, 'Italia Oggi' parla invece di "allarme" e la fa sprofonda dal 29esimo all'83esimo posto) i dati disegnano una città che sembra aver messo la retromarcia. O che, quando va bene, resta inchiodata sul posto. Partiamo dal settore 'igiene e decoro'. L'Agenzia per il controllo e la qualità dei servizi pubblici locali del Comune qualche settimana fa ha snocciolato le tabelle del rapporto annuale, dicendo, fuor di metafora, che le strade sono sporche da far schifo. L'aveva anticipato Silvio Berlusconi lo scorso maggio: "Roma sembra una città africana". Lo ripetono a novembre i cittadini intervistati dall'Agenzia: il loro indice di soddisfazione si ferma a un misero 4,4 su 10. I marciapiedi sono un letamaio perfino in centro, i cassonetti debordanti, mentre la raccolta differenziata è immobile, ancora sotto il 20 per cento. È una delle percentuali più basse registrate in Italia, nonostante i romani paghino tariffe del 35 per cento più alte rispetto alla media delle grandi città.

Viva l'automobile
Venerdì 4 dicembre. Causa mal tempo, la presenza di due cortei e di un qualsiasi piano anti-traffico, Roma si è bloccata. Accartocciata su se stessa in un delirio di macchine, scooter e taxi paralizzati nel peggior ingorgo degli ultimi anni. 'Il giorno del giudizio', recitano i titoli dei giornali locali. Un delirio che si ripete in scala ridotta altre volte nelle settimane successive, a ogni stormir di sciopero dei mezzi pubblici o per colpa di qualche goccia di pioggia. I vigili, nonostante siano stati muniti di pistola, non possono domare il Mostro, e si dichiarano sconfitti. Anche sul versante della mobilità, la Roma di fine 2009 resta anni luce da Berlino, Parigi, Londra o Madrid. Il giudizio dei residenti sulla metro è migliorato, ma la rete - che resta ridicola in termini chilometrici - per l'Agenzia non assicura "l'efficacia effettiva rispetto alle esigenze dei cittadini". In attesa che il governo metta in piedi l'utopica colletta da 12 miliardi di euro, cifra necessaria secondo i tecnici del ministero dei Trasporti a liberare per sempre la Capitale dal traffico, quasi tutti sono costretti a ficcarsi sull'autobus e l'auto.
Tram e affini (che pesano sul 70 per cento del trasporto pubblico) godono però "di scarso apprezzamento". Troppo pochi e affollati, troppo lunghi i tempi di percorrenza, troppo rare le corsie a loro riservate. Spesso congestionate di Suv e utilitarie, che complice l'apertura spesso indiscriminata dei varchi Ztl, sono le vere dominatrici dell'asfalto romano. Asfalto pieno di buche, come tradizione: archiviato mesi fa il maxi-appalto dell'imprenditore Romeo, non sono stati ancora assegnati gli otto lotti per i lavori di manutenzione ordinaria del manto stradale. Si viaggia a vista, sull'emergenza.

Risultato del combinato disposto: il pandemonio totale. E lo smog finito sopra ogni livello di guardia: secondo uno studio dell'Asl di fine 2008 mai pubblicizzato, i decessi da inquinamento 'evitabili' sarebbero migliaia. Ogni anno. Le polveri sono colpevoli di "una quota piccola ma rilevante di mortalità", e uccidono soprattutto anziani, donne e cardiopatici. L'analisi degli scienziati si conclude mestamente: "A Roma l'inquinamento ambientale costituisce un problema di sanità pubblica ancora molto rilevante". Alternative all'orizzonte non se ne vedono: secondo l'Agenzia l'urbe è "fanalino di coda nello sviluppo del car sharing", i parcheggi di scambio sono ai minimi. Anche la nuova organizzazione tariffaria delle strisce blu è disastrosa: se nel 2009 i furbi che non pagano la sosta sono rimasti stabili (circa il 12 per cento), sulle nuove strisce bianche a disco orario sono saliti al 22 per cento.

foto di Emiliano Mancuro per L'espresso
Trionfo dell'insicurezza
Anche sul tema caldissimo della sicurezza non sono rose e fiori. I campi rom non sono stati ancora trasferiti fuori dal Grande Raccordo (il piano era della giunta Veltroni, Alemanno aveva promesso in campagna elettorale di rimpatriarli tutti) e i recenti episodi di violenza non hanno aiutato a rasserenare il clima. Gli effetti dell'ordinanza antiprostitute sono durati poco: le lucciole sono tornate presto sulla Salaria, sulla Colombo e sulla Tiburtina; gli eventi di via Gradoli e di Marrazzo hanno svelato la penosa situazione 'indoor' del fenomeno. Gli ultimi indicatori sono quelli dei carabinieri: nel 2009 segnalano per la provincia un calo del 12 per cento dei reati rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. Molti hanno gridato al miracolo, ma secondo il sociologo Marzio Barbagli, "per capire davvero il trend, è necessario sempre e comunque analizzare serie storiche più lunghe". Miglioramenti e peggioramenti possono essere repentini e contingenti: il 2003, per esempio, è di gran lunga il periodo migliore dell'ultimo lustro, e per molti delitti il 2008 è stato peggiore del 2007.

Di certo, quest'anno è enormemente cresciuto il senso d'insicurezza dei cittadini: secondo il Rapporto Eures-Upi pubblicato a novembre, la metà esatta dei romani si sente meno protetta rispetto a 12 mesi fa. Solo un misero 4,1 per cento dichiara di sentirsi 'più sicuro'. Colpa, probabilmente, delle gesta omofobe di Svastichella e dei suoi epigoni, delle tragiche vicende degli stupri su minorenni e delle risse che caratterizzano le notti romane. Niente di strano, visto che le 'ronde' non si sono messe in moto, le periferie restano in stato di abbandono, la polizia non ha mezzi per presidiare a dovere il territorio. Intanto la criminalità organizzata si sta insediando dappertutto, da via Veneto ai ristoranti di Fiumicino: un analisi riservata della Direzione centrale della polizia criminale descrive le infiltrazione di Cosa Nostra, in particolare la famiglia Stassi e la 'ndrina calabrese dei Parrello, mentre la camorra resta campione del "traffico di droga, dell'usura, del riciclaggio, del gioco d'azzardo".

Il futuro è nero
In tempo di crisi, l'angoscia principale, dice l'Eures, resta il lavoro. Le parole d'ordine sono 'sviluppo' e 'occupazione', che dovrebbero essere priorità assoluta dell'azione politica. Dal 2005 al 2008 Roma ha tenuto meglio di altre, perché strutturata da sempre sul pubblico impiego e il lavoro dipendente. Ma secondo Confindustria le prospettive per il futuro sono negative: il 5 dicembre gli economisti dell'associazione, valutando vari indicatori (dai posti di lavoro ai depositi bancari, dalla grande distribuzione alla 'consistenza' delle imprese, fino alle spese per spettacoli e alle esportazioni), hanno tolto la Capitale dalla top ten. Ora è 13 , lontana da Milano, Aosta e Bologna.

Anche il turismo, settore chiave dove lavorano decine di migliaia di romani, soffre da cani. I tourist angels, 16 ragazzi dotati di monopattini elettrici, maglietta rosa e logo Spqr spediti a Fiumicino e Termini a dare informazione agli stranieri, non hanno potuto da soli far molto. Nemmeno il promo-video firmato da Franco Zeffirelli, costato centinaia di migliaia di euro, ha cambiato il trend. Sarà la crisi economica e il dollaro debole, un Festival del cinema senza lustrini, l'Estate romana ridimensionata, la Notte bianca cancellata, fatto sta che il numero di presenze in albergo nel 2008 è crollato del 7 per cento, mentre nei primi sei mesi del 2009 (dati dell'ente bilaterale del turismo) le presenze totali sono scese di altri 5 punti. Calma piatta pure a Natale, dove ci si aspetta circa 200 mila arrivi in meno rispetto al 2007, con un fatturato per gli hotel in picchiata, ha detto il presidente di Federalberghi Giuseppe Roscioli, "del 20-30 per cento". Se le botticelle anacronistiche (Michela Brambilla dixit), ristoranti e taxi piangono, il settore commerciale, a causa della recessione e di affitti alle stelle, non ride: più di un migliaio di negozi sono stati chiusi nel 2009, altrettanti abbasseranno le saracinesche nel 2010.

Tante promesse
Alemanno è sindaco da quasi due anni. Un tempo in cui è riuscito a farsi un po' di nemici, e una schiera sterminata di delusi. Retromanno, Lupomanno, Alè-danno, re Tentenna, sono alcuni dei nomignoli con cui viene sbeffeggiato dai critici di ogni colore. "Un uomo solo al potere, circondato da una schiera di incompetenti. Un sindaco che più che a un secondo mandato lavora per diventare futuro leader del Pdl", sospettano nel Pd e congiurati del centro-destra, tendenza Forza Italia. Alemanno è accusato da più parti di governare non con atti concreti, ma con promesse e parole. Sfogliando le pagine del libro dei sogni, in effetti, c'è di tutto: un "accordo preliminare" con Bernie Ecclestone per portare la F1 all'Eur, la candidatura per le Olimpiadi del 2020, il centro città da pedonalizzare "entro 5 anni", il raddoppio dell'aeroporto di Fiumicino, il waterfront del litorale di Ostia, i parchi tematici, i campi da golf, la costruzione di case popolari, il polo turistico sulle campagne dell'agro-romano. Annunci sfornati anche dai tanti componenti della celebre Commissione Marzano (per il restauro della sede di via Baccelli si prevedeva una spesa di 271 mila euro, più altri 30mila per gli arredi), ma mai diventati operativi. Alcune delle loro idee sono state rilanciate qualche giorno fa attraverso il Progetto Millennium, sorta di Stati generali che a maggio dovrebbero realizzare un nuovo piano strategico per la città.

Secondo le opposizioni si tratta di "fuffa pura", progetti destinati a rimanere sulla carta. Nel mondo reale, il gradimento sugli asili e l'assistenza agli anziani scende, i fondi della legge Roma Capitale non sono stati ancora ri-finanziati (gli ultimi denari li ha messi Prodi), i miliardi del Cipe per le opere pubbliche sono finiti quasi tutti al Nord. Le casse comunali piangono, e molte delle 20 società del Campidoglio sono in profondo rosso. Non solo per il 'buco' lasciato da Veltroni, ma anche per le performance mediocri delle municipalizzate, Acea su tutti. Senza l'Ici tolta dal governo, è poi mancata una fonte di gettito essenziale. Tanto che il bilancio per la prima volta da lustri non verrà approvato a Natale: si vocifera che sia in cantiere l'aumento della Tarsu, delle rette degli asili e del biglietto della metro.

Qualche euro è stato ovviamente speso, e i pochi appalti assegnati disegnano parte della nuova mappa del potere. I costruttori dell'Acer, attraverso Patrizio Furio Monaco, hanno per ora incassato la commessa da 140 milioni per la tramvia che collegherà l'Eur con Tor de' Cenci, mentre Franco Gaetano Caltagirone ha all'attivo gli accordi su Acea (oggi l'uomo forte nella ricca azienda elettrica è un suo fedelissimo, Marco Staderini). Un subappalto da circa 20 milioni per alcuni servizi dentro gli asili comunali è stato invece assegnato alla Team Service, co-proprietaria di Obiettivo Lavoro, la società collegata alla Compagnia delle Opere dentro cui è confluita anni fa la Lavoro Temporaneo, un tempo diretta dall'amico del sindaco Franco Panzironi, attuale amministratore di Ama. Emilio Innocenzi, ex presidente di Team Service, non ha però potuto festeggiare: è stato arrestato lo scorso giugno in un'inchiesta su tangenti e appalti nella sanità. Alemanno sembra voler emulare il governatore lombardo Formigoni: a un'altro consorzio vicino alla Cdo ha concesso qualche milione per il servizio di apertura, "anche forzosa", degli alloggi degli sfrattati. Si tratta di Labor, ovviamente partner anche lui di Obiettivo Lavoro.

Offresi poltrona
Qualche mese fa il Comune aveva contestato 'L'espresso' perché aveva svelato come, in meno di un anno, sindaco e assessori avessero assunto 182 collaboratori esterni, per una spesa tra stipendi e oneri previdenziali di 18 milioni e mezzo (LEGGI). Ebbene, quei numeri erano esatti, presi pari pari dalle delibere di giunta. Non solo: Alemanno non ha smesso di assumere. Quasi un vizietto, un tic che ha contagiato anche gli amministratori messi dal primo cittadino a capo delle municipalizzate. Sommando contratti a termine e a tempo indeterminato, tra Comune, Ama, Trambus, Metro e altre società in house, in meno di due anni sono stati assunti ad personam circa 500 tra ex precari, professionisti ed esperti veri e presunti, amici, amici degli amici e famigli. Molti, ça va sans dire, con il cuore che batte a destra.

Ormai l'ufficio stampa del Campidoglio è composto da ben 64 unità, di cui 23 esterni. Una cosa mai vista prima. Segreteria e uffici di gabinetto costano come non mai. Con la scusa del risparmio i vecchi dipendenti lamentano di non poter fare più straordinari, ma di recente i magnifici 182 sono stati raggiunti da altri 25 fortunati. Il Gastone è Antonino Turicchi, nuovo 'direttore esecutivo' che pesa sul bilancio per 349 mila euro l'anno, figura che secondo Alemanno "avrà il compito di assicurare la coerenza, l'efficacia e l'economicità dell'attività di gestione". Un doppione, dicono invece i critici, del potente segretario generale Antonio Lucarelli e del (già pagatissimo) capo di gabinetto Sergio Gallo. Il 4 novembre sono stati assunti il professore appassionato di poesie Fabrizio Giulimondi (110 mila euro l'anno), Giovanni Formica, l'ex vicepresidente della Cdo di Roma Paolo Gramiccia (136 mila) e Marco Cochi (fratello del consigliere delegato allo Sport).

Non si bada a spese nemmeno all'Ama, la municipalizzata che raccoglie spazzatura, dove Panzironi ha assunto oltre 60 persone. Nonostante un rosso record che nel 2008 ha toccato i 256 milioni, un buco che ha costretto il comune ha regalare all'ente il Centro carni, mega complesso immobiliare ancora da costruire. Ebbene, all'Ama sono entrati gli amici di Alemanno come Luca Panariello, l'ex naziskin Stefano Andrini, il genero di Panzironi Armando Appetito (2.904 euro lorde al mese), Carmela Gallo (una sua omonima ha lavorato con il sindaco quando era ministro), Fabio Massimo Fumelli (licenziato dai veltroniani nel 2007 è stato riassunto con uno stipendio da 6.431 euro al mese), e decine di altri contratti a tempo indeterminato. In tutto, i nuovi stipendi viaggiano intorno al milione e mezzo l'anno. Stessa linea anche alla Me.tro spa, dove si segnalano tra le decine di assunzioni quella di un consigliere municipale di An (Giuseppe Sorrenti), di un ex candidato di Forza Italia alle comunali 2006 (Emanuele Pesciaroli) e di Giuliano Falcioni, ora autista dell'amministratore delegato, ieri taxista e sindacalista vicino all'Msi. "Quando è troppo, è troppo" sostiene qualcuno, senza sapere che il medico personale e gran consigliere di Alemanno, Adolfo Panfili, è stato designato delegato alla Salute, mentre la di lui consorte Valeria Mangani è diventata vice-presidente della società AltaRoma. Le indiscrezioni parlano di consulenze al giornalista Enrico Cisnetto (chiamato dalla Fiera di Roma, per 'Italia Oggi' incasserebbe 280 mila euro) e all'intramontabile Maurizio Costanzo. L'anchor-man è consigliere personale per la 'comunicazione sociale', ma ha precisato che svolgerà la mansione a titolo gratuito. Speriamo: nelle casse del Campidoglio non c'è davvero più un euro.

 

Paraguay, il Condor vola ancora

Il famigerato Plan Condor sarebbe ancora in corso. Parola di Martin Almada premio Nobel alternativo per la Pace

È vero: ad Asuncion, capitale del Paraguay, non ci sono molte cose da vedere. Pochi monumenti, pochi palazzi degni di nota, poco di tutto. Ma in Calle Cile 1066, a poche cuadras dal centro della città, c'è il posto meno conosciuto e più importante del Paese: il Museo della Memoria.

All'apparenza sembra un posto come tanti altri. Una strada tranquilla, una palazzina pulita e ordinata, piante e fiori regalano colore a una facciata piuttosto anonima. In realtà la storia di Calle Cile 1066 fa accapponare la pelle. In questo luogo secondo alcune stime (non distanti dalla realtà e che forse si avvicinano più al difetto che all'eccesso) sono passati almeno tremila prigionieri politici, detenuti e torturati durante il periodo della dittatura di Alfredo Ströessner, sanguinario militare di origini tedesche, sostenitore del nazismo, che ha comandato il paese con il pugno di ferro per più di 35 anni. Da buona "colonia statunitense", come la definisce il professor Martin Almada, "il Paraguay si è sottomesso alla politica di Washington, che in tempo di Guerra Fredda puntava per prima cosa sull'anticomunismo. In Ströessner ha trovato un alleato fedele. Il Paraguay è uno dei tanti prodotti della Guerra Fredda".
"In queste sale sono passati civili innocenti provenienti dall'Argentina, dal Cile, dall'Uruguay e dal Paraguay, che la dittatura considerava sovversivi, comunisti o in qualche modo nemici" racconta Martin Almada, una delle figure più importanti del Paese, scopritore dell'Archivio del Terrore, ideatore del Museo della Memoria e, grazie ai documenti da lui scoperti, uomo chiave per la detenzione londinese del Generale Augusto Pinochet.
"In queste stanze si è praticata la tortura sistematica di tutte quelle persone, uomini e donne, che non si sono piegate a dire sempre sì" racconta ancora con le lacrime agli occhi Almada. La sua storia è un susseguirsi di arresti, fermi, torture e umiliazioni. "Mi consideravano un sovversivo. Ero solo un maestro che voleva riformare la scuola. Chiedevo migliori condizioni di vita per i maestri. Per la dittatura ero un comunista. Ma io comunista non lo sono mai stato. E nemmeno anticomunista. Io sono e resto un riformista".

Strana storia quella di Calle Cile 1066. Nonostante il caldo atroce della città negli ultimi scampoli d'estate, non appena si varca la porta di ingresso del Museo un brivido freddo corre lungo la schiena. Manifesti appesi alle pareti riportano i volti di donne, uomini, ragazze e ragazzi desaparecidos. Scomparsi e mai tornati a casa. I manifesti sono come specchi che riflettono l'immagine di chi li guarda per ricordare che tutti possono soccombere davanti a una pazzesca dittatura. Le stanze del Museo sono piccole e ognuna di loro ha un pavimento di colore differente. "Io le ho riconosciute subito proprio dai differenti tipi di colore: qui sono stato imprigionato e torturato per diverso tempo. Non solo. Nella stanza dove ci troviamo - venti metri quadrati con il pavimento di color verde- si violentavano e poi torturavano le donne". E se i muri potessero parlare chissà cosa avrebbero da raccontare. In questa palazzina è passato il non plus ultra della violenza fascista della dittatura stroessneriana. E anche i militari più sanguinari degli eserciti e delle polizie di quasi tutti i paesi del Sudamerica. Racconta ancora Almada: "Gli ufficiali che hanno compiuto queste azioni indecenti erano stati prima alla Escuela de las Americas, a Panama, e sono stati istruiti sui differenti tipi di tortura dagli ufficiali della Cia statunitense. Anche in queste stanze sono giunti più volte militari nordamericani per umiliare, torturare e uccidere tutte le persone che il governo paraguayano considerava pericolose, scomode, sovversive".
"Anche mio padre è stato torturato in questo luogo", sussurra davanti alla porta del Museo Epifania Arias, figlia quarantenne di un insegnante, detenuto nei primi anni Settanta della dittatura. "Ci sono cose che non si possono dimenticare. Grazie al lavoro di Almada abbiamo saputo che in questa palazzina sono avvenute efferatezze che ancora oggi stentiamo a credere siano potute accadere. Gli inquilini degli edifici circostanti, sono stati in molti casi costretti a trasferirsi in altri quartieri della città, perché non potevano più sopportare le grida di dolore di quei poveri ragazzi causate dalle torture degli assassini di Ströessner.

E tutto con il beneplacito della Cia. Oggi sappiamo chi ha istruito i militari del Paese. Ecco, queste sono storie che vale la pena raccontare". Occhi lucidi e sguardo fiero, Epifania si accende una sigaretta dietro l'altra e cerca di capire i perché di tanta violenza.
"È stato uno dei periodi più bui della storia dell'umanità" dice Marela Oviedo, anche lei erede di uno dei tanti uomini torturati dalla brutalità dei militari paraguayani, mentre passeggia quasi in punta di piedi fra teche contenenti strumenti di tortura, fotografie, liste di nomi di quelli che non ci sono più. È arrivata fino al Museo da sola e non è la prima volta. "Mio padre in questo posto maledetto dal Signore ha passato un po' di tempo. Era l'uomo più buono del mondo. Aveva le mani grandi e un bel sorriso. Quelle bestie lo consideravano un sovversivo. Per questo l'hanno imprigionato, umiliato e torturato senza pietà. Era semplicemente un insegnante di scuola primaria. È vero aveva una certa cultura e aveva la passione della lettura. Leggeva tutto, proprio di tutto, quando riusciva a comprare qualche libro. Forse per questo motivo è stato considerato un sovversivo. Essere colti per il potere è pericoloso. Avere la possibilità di insegnare lo è ancora di più. Ancora oggi non riesco a capire il perché di tanta ferocia. Mio padre grazie a Dio è riuscito a tornare a casa. Ma era stato per troppo tempo in condizioni disumane. In celle di due metri per uno e mezzo, con quaranta, cinquanta altri detenuti, mangiando le proprie feci e bevendo urina. Gli applicavano gli elettrodi ai testicoli per torturarlo. Quattro giorni dopo la sua liberazione, avvenuta per chissà quale motivazione, morì fra le peggiori sofferenze. Di storie come questa ne potrei raccontare a decine. Se penso che mi trovo nello stesso inferno in cui lui sapeva che avrebbe detto addio alla sua vita mi sento male", continua Marela. Quando parla i suoi occhi diventano lucidi per la commozione. Le mani iniziano a tremare, poco ma tremano. La voce ogni tanto si spezza. Anche i capelli, corvini e lisci, sembrano vibrare sulle sue piccole ma larghe spalle. Marela è visibilmente emozionata. È difficile per lei capire. È altrettanto difficile cercare di spiegare quello che è stato il Paraguay della dittatura. Un governo militare supportato, aiutato e istruito dalla Cia, che nel piccolo Paese sudamericano ha fatto il bello e il cattivo tempo per anni.

Per i propri interessi, per la sua lotta personale al nemico russo. "Un giorno nelle campagne intorno alla città di Coronel Oviedo - dice Mariela, che ci tiene a raccontare un'altra storia - dove sono nata e dove vivevo con la mia famiglia, i militari cileni insieme a quelli paraguayani fermarono un campesino. Lo picchiarono quasi a sangue accusandolo di fare propaganda marxista. Lui non sapeva né leggere né scrivere. Lo conoscevo bene. Dopo averlo quasi ammazzato lo spogliarono e lo legarono a un albero. Gli cosparsero il corpo con miele e succo d'arancia. Lo lasciarono lì, legato per giorni e morì mangiato vivo da formiche, api, topi e chissà cos'altro. Questo lavoro facevano i militari del famigerato Plan Condor".
"Tutti i sabati venivano i torturatori - racconta Almada dalla stanza delle conferenze del Museo - venivano a distrarsi dalla settimana lavorativa. Come se fosse un gioco ci torturavano per farci confessare cose che non sapevamo. Ero detenuto in quello che avremmo chiamato il sepolcro dei vivi: chi entrava in questo commissariato non ne usciva con le sue gambe. Noi detenuti avevamo stampato nella mente come un tatuaggio i volti dei militari che ci torturavano, ma non conoscevamo i loro nomi. Usavano pseudonimi. Però un giorno le cose cambiarono. Venne arrestato un commissario di polizia il cui figlio, studente universitario in Argentina, era considerato un sovversivo a causa della sua adesione alla confederazione degli studenti universitari. Lo arrestarono perché lui non aveva fatto sapere agli alti comandi militari delle azioni del figlio. Lo spedirono in cella con noi, come un nemico della patria. Da quel momento non godeva più dei privilegi e dei diritti dei militari. Da quel momento era uno di noi. Lui conosceva tutti i soldati torturatori. Sapeva i loro nomi, quelli veri. A lui un giorno chiesi due cose: come morì la mia sposa, visto che a me avevano detto che si era suicidata. E poi volli sapere che cosa stava succedendo nel mio Paese. Chiesi perché in Paraguay mi torturavano militari stranieri. La sua risposta fu allo stesso tempo atroce e illuminante: siamo fra gli artigli del Condor. Era l'aprile o il maggio del 1975. Iniziavo a scoprire che cosa fosse il plan Condor".

Il plan Condor, però, iniziò a operare a pieno regime nel novembre 1975, alcuni mesi dopo le domande di Almada. "Ho scoperto il Condor prima che iniziasse a operare, a volare. Sono stato nel suo ventre e l'ho conosciuto da dentro".
Il plan Condor: un'impressionante operazione di polizia creata dalla Cia, tendente a destabilizzare tramite colpi di Stato militare, i governi dei paesi centro e sudamericani che tendevano a "sinistra" o potessero in qualche modo essere influenzati dall'Unione Sovietica. Le polizie di Uruguay, Paraguay, Cile, Argentina, Bolivia, Perù e Brasile cooperavano e avevano libertà di movimento e licenza di uccidere. Uno dei suoi più grandi sostenitori fu il repubblicano statunitense Henry Kissinger, "il più grande terrorista della storia" dice Almada. Ma il plan Condor ebbe un respiro molto più ampio, sono in molti a sostenerlo. Tracce delle piume del Condor si possono ritrovare anche in diversi paesi europei. Anche in Italia dove la loggia massonica Propaganda 2 (P2), invischiata in molti processi penali per le sue attività illegali, fu una fervida sostenitrice del piano. E c'è chi sostiene che gli aderenti al Condor, perfettamente organizzati, siano stati in grado di dare supporto logistico ai più smaliziati killer, faccendieri, narcotrafficanti, di diverse nazionalità e anche alcuni esponenti di spicco degli anni bui del terrorismo italiano. Molte informazioni su quegli anni adesso si possono reperire, grazie al lavoro di Almada, all'interno dei faldoni dell'archivio del terrore venuto alla luce nel 1992 grazie alla perseveranza del gruppo di lavoro di Almada e conservati nelle stanze del Palazzo di Giustizia di Asuncion. Migliaia di rapporti militari pieni di informazioni sulla "Guerra Fredda" in piena attività in quel periodo, e tutti i documenti della repressione in Paraguay dal 1929 al 1989. E nei rapporti si trova proprio tutto dice Almada: "In particolare la repressione contro gli anarchici italiani, spagnoli e francesi presenti nel Paese. Poi quella nei confronti dei comunisti. Poi il turno dei socialisti. E infine quella contro le persone come me, considerate sovversive. Ma la cosa che più ci ha più stupito è stato scoprire i documenti che riguardavano la presenza in Paraguay di Menghele, il dottor morte della Germania nazista di Hitler, e le connessioni con il nazismo. È l'enorme documentazione del Plan Condor. Secondo gli accordi, ogni Paese che ha aderito deve avere un archivio "Condor". Proprio per questo, quando i militari brasiliani, cileni, argentini e uruguayani, dicono che non hanno un archivio di questo tipo stanno mentendo. Lo devono avere sicuramente. Forse migliore del nostro".
Tutto il lavoro di ricerca è iniziato con una mobilitazione di Amnesty International che ha permesso la liberazione di Almada da parte del regime e un rocambolesco ingresso nella mal controllata ambasciata panamense a Asuncion. "Ho approfittato del fatto che i militari paraguayani che circondavano la sede diplomatica di Panama erano ubriachi e io sono riuscito a entrare, ottenere l'asilo politico e in seguito un lavoro a Parigi alle Nazioni Unite. Ma mi ero ripromesso di indagare sul Condor e di seguire il consiglio che mi aveva dato il commissario detenuto con me nel sepolcro dei vivi: leggere la rivista della polizia del Paraguay. Lì avrei trovato molte delle informazioni sul plan. Scoprire cosa era successo e i nomi di quelli che mi avevano fatto del male". Fino alla definitiva scoperta anche dei luoghi di detenzione illegali presenti nel Paese, alcuni con storie impressionanti. "Una nonnina, una volta rientrato in Paraguay, mi ha detto che in un terreno vicino a quello in cui lei viveva, usato dai soldati come luogo di detenzione illegale, di notte si sentivano le grida delle anime in pena dei ragazzi torturati. E si potevano riconoscere anche le cadenze e capire se fossero argentini, cileni, paraguayani. Uno di loro, quello che più soffriva, secondo la nonnina era cileno".

All'inizio gli investigatori paraguayani della squadra di Almada credevano che il Condor avesse in America Latina come unico referente Pinochet. Ma si sbagliavano: "Oltre a Pinochet che voleva ripulire dai comunisti la politica, l'esercito e la società civile, in Bolivia c'era Banzer che aveva ideato un piano per sterminare i "comunisti" presenti all'interno della chiesa cattolica. Suore, sacerdoti, vescovi e arcivescovi considerati o legati alla Teologia della Liberazione venivano sterminati secondo un piano ben preciso. Talmente perfetto che venne esportato in tutto il Sudamerica. Io sono convinto- conclude Almada- che il sistematico accanimento e gli omicidi degli appartenenti alla chiesa cattolica avvenuti in Sudamerica facciano parte di un unico piano: quello di Banzer". E si rammarica del fatto che la Chiesa abbia concesso i funerali cristiani al famigerato generale boliviano "regalandogli a tutti gli effetti un passaporto per il paradiso".
Martin Almada oltre a essere un punto di riferimento per i giovani del Paese che fanno a gara per intervistarlo e creano lunghe code lungo i corridoi del Museo, è un convinto sostenitore del fatto che il Plan Condor esista ancora oggi. "Ci sono documenti in mano ai giudici in cui un colonnello dell'esercito del Paraguay racconta dell'incontro fra Pinochet e Menen avvenuto nel novembre 1995 a Bariloche in Argentina, dove si scambiarono la lista dei 'sovversivi dei rispettivi paesi'. Lo stesso colonnello dice che la testa del Condor sarebbe la Conferencia del ejercito americano, un apparato militare creato dalla Cia e dal Pentagono, soprattutto per contrastare la rivoluzione cubana. Il Condor vola ancora, e sono convinto che non sia finito con la morte di Pinochet. Si è globalizzato con il lavoro di George W. Bush. La riprova sono i centri di detenzione segreti presenti nel mondo, e anche in Europa. Non mi invento nulla. Usano anche le stesse tecniche di tortura, gli stessi mezzi, le stesse modalità. Come il waterboarding - la tremenda tecnica di simulazione di annegamento che Almada e molti altri hanno subito nel sepolcro dei vivi- che appunto oggi è globale. Lo ripeto: il Condor continua a volare e bisogna in tutti i modi tagliargli le ali".
La dittatura in questo Paese incastonato fra Brasile, Argentina e Bolivia, ha lasciato segni indelebili come marchi a fuoco sulle cosce dei cavalli. Dolorosi e impossibili da cancellare.

Alessandro Grandi

 

Il fronte settentrionale

Suleimanya è un incubo. Un carosello impazzito di auto, clacson e smog, si avviluppa senza posa, dall'alba al tramonto, per le strade della città dell'Iraq settentrionale. Anche se sarebbe più corretto dire città curda, meglio ancora cantiere. E' tutto un costruire, ristrutturare, decorare in un trionfo di Made in China.
Il palazzo del governatore di Suleimanya è uguale agli altri: ex palazzo dei tempi del regime, è stato occupato dai nuovi padroni, l'alleanza tra Unione Patriottica del Kurdistan (Puk) e Partito Democratico del Kurdistan (Pdk), guidati rispettivamente da Jalal Talabani e Massoud Barzani. Dopo il 1991 hanno combattuto tra loro, per prendere il potere. Poi hanno capito che il potere è meglio spartirselo. Il governatore Dana Ahmed Majed riceve in uno studio lungo e largo. Faccia da duro, è uno che ha combattuto ai tempi della guerra tra Pdk e Puk. Adesso si gusta il potere, vestito con cura, mentre sul computer alle sue spalle passa una presentazione della Suleimanya che verrà, trionfo di tecnologia e ordine. Molto lontana dalla realtà, fatta di corruzione e familismo. L'unico problema, al momento, sembra questo Partito Curdo dei Lavoratori (Pkk) che non ne vuol sapere di deporre le armi. Mentre, da un anno, l'aviazione turca bombarda i Monti Qandil, nei pressi del confine tra Iraq, Turchia e Iran. ''Se io arrivo in Danimarca, tanto per fare un esempio, armato fino ai denti, secondo lei cosa mi fanno? Mi arrestano! Ecco cosa mi fanno...le democrazie moderne fanno così. Questa gente non può rimanere qui e continuare la lotta armata. E' semplice'', dice Majed. Per la grande maggioranza della popolazione del Kurdistan iracheno, però, i guerriglieri curdi sono degli eroi. ''E' diverso, le situazioni cambiano'', risponde con un sorriso tagliente sotto i baffi curati, ''noi non andavamo all'estero a combattere la nostra battaglia. Lo facevamo in Iraq, senza coinvolgere altri. Adesso poi, dopo quello che noi curdi abbiamo ottenuto in Iraq, è assurdo non capire che l'unica strada per la libertà è la democrazia. Non dico che li cacceremo via, ma se non la smettono dovremo intervenire per disarmarli''. Non la pensano tutti così. Mola Bakhtyar è un mito per i curdi iracheni. Ha guidato i suoi uomini all'inseguimento delle truppe di Saddam in fuga verso Baghdad nel 2003. Adesso, anche lui in giacca e cravatta, si occupa dell'ufficio politico del Puk. ''Abbiamo fatto tanto per avere delle leggi che ci tutelassero...adesso dobbiamo rispettarle'', ammonisce Bakhtyar. ''Abbiamo già troppe macerie per continuare a distruggere. E' il momento di costruire, in primo luogo con i Paesi vicini. La Turchia e l'Iran, certo. Anche loro. Il Pkk deve capire che va lasciata strada alla diplomazia internazionale, anche se la Turchia non deve più passare in armi il confine come ha fatto l'estate scorsa'', dice l'ex guerrigliero. ''La strada è nota: la democrazia. Ma vale per tutti. Se non andasse così, beh...non esiterei un attimo a riprendere il fucile e a tornare in montagna. Quello che bisogna evitare è un conflitto intestino al mondo curdo. Il nostro popolo non capirebbe''.
Lasciando la città, direzione nord, si cominciano a intravedere le prime alture. L'anima del Kurdistan, dove la gente è legata a doppio filo alle sagome dei suoi monti, spesso rivelatisi un rifugio sicuro dalle repressioni del passato e del presente. La strada verso i monti Qandil si colora di verde, mentre il profilo del monte Titano segna uno spartiacque tra l'anima urbana e quella rurale della società curda. ''Sembra una donna stesa, vedi? Il naso, la bocca, il seno'', sottolinea Kawa, il giornalista curdo che ci accompagna. La strada si complica: sempre meno asfalto, sempre meno case. A Rania si cambia auto. Un vecchia jeep arriva scricchiolando. Scendono due uomini: saranno loro a portarci sui monti Qandil, per incontrare i guerriglieri. Non solo quelli del Pkk, ma anche quelli del Partito per una Vita Libera in Kurdistan (Pjak), il gruppo di curdi iraniani nato nel 2004. Uno tarchiato, l'altro smilzo e secco. Sorrisi e strette di mano. Senza il kalashnikov, uno si sentirebbe a casa. Dopo i primi chilometri di silenzio é la musica a rompere il ghiaccio. ''E' un canto della guerriglia'', risponde il guidatore. L'aspetto più ironico della vicenda è che entrambi gli accompagnatori sono del Puk, ma il Pkk non lo vedono affatto come un nemico. ''Non potremmo mai prendere le armi contro i nostri fratelli''. In lontananza un check-point dei governativi. Ci fanno scendere. L'autista passa al posto di controllo, mentre l'altro fa da guida lungo un fiumiciattolo che passa alle spalle del posto di blocco. Il governo del Kurdistan iracheno non vede di buon occhio chi si reca sui monti Qandil per incontrare la guerriglia. Dopo il passo la strada diventa sempre più impervia. Gli unici abitanti sono pastori. In prossimità di una roccia che si alza verso il cielo come un dito inquisitore, l'autista annuncia: ''Questa pietra segna il confine tra la zona sotto controllo dei partiti curdi iracheni e il Pkk''. Un punto che passerebbe inosservato assume, per i curdi, un significato profondo. Quello di un confine che esiste, se non nelle scelte politiche che ormai allontanano la leadership curdo-irachena dal Pkk. Ma che non esiste nella mente dei curdi, che abbatterebbero con ogni mezzo i confini che li sparpagliano in quattro stati da cento anni.

In lontananza spunta all'improvviso il volto di Abdullah Ocalan. Apo, per tutti i curdi. Un ritratto enorme, adagiato sul fianco di una montagna. ''I turchi l'hanno bombardato qualche giorno fa'', racconta divertita la guida, ''dopo qualche giorno era di nuovo al suo posto. Li provochiamo!''. Dopo ore di sassi, sterrati e strade impervie, spunta un altro check-point. Questa volta con la bandiera del Pkk.
''Ci dovete consegnare i cellulari. Vi verranno restituiti al ritorno'', annuncia il capo posto, un omone grande e grosso con due baffi enormi. Le divise stazzonate, le radio tenute in vita da pile legate con del nastro adesivo, la guardiola fatta di mattoni raffazzonati, ma il check-point rende un'idea di efficacia. Un guerrigliero più giovane ci consegna, in cambio dei telefoni, una ricevuta spiegazzata.
Arriva un camioncino. Si parte a velocità sostenuta, ci sono quattro miliziani. Due di loro sono donne. Ridono e scherzano. Poco dopo ecco una fattoria, dove tutta la famiglia viene fuori per salutare gli ospiti. ''Siete ospiti nostri e della famiglia di Ibrahim. Tra un po' torneremo per fare quattro chiacchiere''. Comincia il rito del tè e degli sguardi incuriositi dei bimbi di casa, mentre solo un miliziano resta di guardia. Tutt'intorno recinti dove sono ricoverati gli animali, muretti a secco e prati verdi. Le montagne come una corona. ''Viviamo bene qui, non ci manca niente'', racconta Ibrhaim, ''ho un piccolo spaccio e le bestie ci danno quello che ci serve. Ma da quando sono iniziati i bombardamenti, a dicembre dello scorso anno, non viviamo più. Tante famiglie sono scappate, centinaia. E adesso vivono da profughi a Rania. Nessuno fa nulla per loro, il governo se ne frega. Fanno fare alla Turchia tutto quello che vuole, fregandosene dei curdi in Turchia, solo il Pkk ci difende!''. Una famiglia di guerriglieri? ''Macché, siamo poveri contadini''. Poco dopo arriva un altro mezzo, con gli stessi uomini a bordo. Solo che questa volta con loro c'è un miliziano più anziano.
''Awal Denis'', si presenta stingendo la mano con presa d'acciaio. Awal è la parola curda che indica il singolo miliziano. ''Essere awal è più importante anche dell'essere fratello e sorella'', spiega Denis. ''Significa compagno, essere awal significa mettere l'uno la vita nelle mani dell'altro. Non ci sono cognomi qui, siamo tutti awal''. Anche per tenere al sicuro le famiglie dei guerriglieri in Turchia, in Iran, in Siria o in Iraq. Comincia un garbato e serrato interrogatorio. Awal Denis vuol sapere tutto dei suoi interlocutori. ''D'accordo, aspettate qui e vi verremo a trovare noi. Venire voi con noi? Non è possibile, tra un bombardamento e l'altro siamo sempre in movimento. La situazione è pericolosa, non permetteremmo mai che vi accadesse qualcosa. Darebbero subito la colpa a noi!'', conclude con un sorriso gelido.
La televisione è sintonizzata su uno dei tanti canali satellitari curdi. L'argomento del giorno è uno solo: le manifestazioni in tutta Europa delle comunità curde per la denuncia degli avvocati di Ocalan. Il leader sarebbe stato torturato nell'isola-fortezza di Imrali, in Turchia, dove si trova rinchiuso dal 1999. Nessuno fiata. Ormai è scesa la notte, ma all'improvviso spuntano i fari di un paio di pick-up. Ibrahim salta fuori, per ricevere come si deve gli ospiti importanti. Sono awal Bryar e awal Agri, rispettivamente delegato politico e delegato militare del comitato centrale del Pjak. ''Il Pjak è nato nel 2004. Il suo congresso ha eletto sette delegati al comitato centrale, che coordina tutte le attività dal movimento. Politiche, militari e sociali'', spiega awal Bryar, occhialetti da intellettuale e baffoni neri, seduto per terra con le gambe incrociate. ''Vi chiedete perché proprio il 2004? Secondo molti - spiega il dirigente del Pjak - la nascita del nostro gruppo è legata all'invasione dell'Iraq. Gli Usa si servirebbero di noi per destabilizzare il regime iraniano. Non è così! Non siamo mai stati finanziati da Washington e non lo accetteremmo mai. Gli Usa, insieme a Israele, forniscono i droni (aerei senza pilota) che individuano i movimenti dei guerriglieri del Pkk e del Pjak sulle montagne. Passano i dati alla Turchia che bombarda la nostra gente. Potremmo mai allearci con loro? Questa è la versione del governo di Teheran, che ha tutto l'interesse a mostrarci come agenti al soldo di una potenza nemica'', dice awal Bryar, aggiustandosi gli occhialetti e non alzando mai la voce.
''Il 2004 ha segnato solo il compimento di un lungo processo di presa di coscienza del popolo curdo in Iran. Noi subiamo, come tutte le altre minoranze iraniane, la repressione del centralismo persiano da decenni. Ahmadinejad non è che l'ultimo passaggio'', spiega il guerrigliero. ''Solo che, dopo l'invasione dell'Iraq e la sostanziale indipendenza del Kurdistan iracheno, gli stati confinanti hanno avuto paura di un effetto domino tra i curdi dei loro Paesi. E hanno incrementato la repressione. L'autodifesa è stata un passaggio necessario. Molti di noi avevano combattuto per anni nelle file del Pkk e l'arresto di Ocalan ha spinto tanti giovani verso la lotta armata. La repressione in Iran ha fatto il resto'', conclude Bryar, spegnendo la centesima sigaretta e sorseggiando l'ennesimo tè. Agri, il delegato militare, annuisce per tutto il tempo. La postura a gambe incrociate è una sofferenza per il suo fisico massiccio, a stento contenuto dalla divisa. Interviene all'improvviso: ''La strategia della Turchia e dell'Iran è chiara: vogliono militarizzare la zona al confine, spingendo la popolazione civile ad abbandonare la regione. Per toglierci il nostro supporto vitale, il rapporto con la nostra gente. Per questo motivo bombardano i monti Qandil e costruiscono il muro al posto di frontiera di Haji Omran, al confine tra Iran e Iraq. Queste operazioni non hanno alcun risultato pratico nel confronto militare: rendono solo un inferno la vita della gente che vive qui. Per costringerla ad andar via''.
La mattina dopo, di buon ora, le montagne Qandil sono avvolte da una fitta foschia. Il muro, con un clima così, risalta nel grigiore generale con i suoi paletti rossi. Una barriera di cemento per un tratto, una rete metallica per la parte ancora in costruzione. Non più di cinque chilometri, per il momento. Ma gru e betoniere dimostrano che non sono finiti i lavori. ''Dovete fare in fretta, abbiamo pochi minuti'', dice Sidwar, la guida. ''Vedete quella base militare? Ci sono gli americani, là dentro. A poche centinaia di metri dal confine con l'Iran...si possono guardare negli occhi''.
Una strada sterrata e contorta conduce a Lawji, minuscolo villaggio devastato dai bombardamenti. ''Ecco gli obiettivi militari dei turchi!'', esclama awal Roj, che si aggira tra le macerie, scalciando pezzi di un letto e il telaio di una finestra. La scena è desolante: un asino si aggira solitario tra quel che resta di case abitate da persone come tante. Un cd, una mappa, un libro di scuola. Tutto quello che resta di abitazioni innocue. Un cratere segnala il punto dove è caduta una bomba. Schegge, taglienti come lame, di un razzo sono ancora ben visibili. Porte e finestre sono tutte contorte, spinte in una posa innaturale verso l'interno. Come se un vento cattivo si fosse accanito, senza pietà, su quelle costruzioni. Tra le macerie awal Roj lascia un mazzetto di fiori. Con un bigliettino. ''Lo lasciamo in ogni casa distrutta. C'è scritto un vecchio proverbio curdo che dice 'il lupo è lupo quando ha il coraggio di combattere con un lupo, non quando combatte un agnello'. Questo è quello che pensiamo dei turchi''.
Dal villaggio bombardato si torna indietro. Verso le linee sicure per i guerriglieri del Pjak e del Pkk. Una piccola radura, un circolo di pick-up dei guerriglieri con kalashikov d'ordinanza.

Al centro del cerchio awal Bozan. Basta uno sguardo dei suoi occhi azzurro ghiaccio perché i miliziani attorno a lui si muovano all'istante. Alto e robusto, capelli sale e pepe. Sorriso aperto, ma non caldo. ''Non amo parlare di me e del mio passato'', dice secco, ''vi dico solo che sono nel Pkk da diciotto anni e sono il vice comandante del Kck. Il Kck è un sistema al quale fanno riferimento tutte le organizzazioni curde: militari, politiche, sociali, economiche. Ha un compito di coordinamento, ma ciascun gruppo è libero di decidere. Questo è importante, perché rispetta il principio del nostro leader Ocalan: l'emancipazione dei singoli per il bene collettivo''. Quindi il Pjak ha aperto un secondo fronte sulle montagne Qandil, riuscendo a mettere d'accordo Iran e Turchia nel combattervi, di testa sua? ''Certo, nessuno può impedire alla gente di difendersi. Se il loro processo di emancipazione ha portato alla lotta armata, è giusto così. Per i curdi, dopo il 2003, la pressione si è fatta enorme. Tutti gli stati hanno temuto che il Kurdistan iracheno diventasse la base per una rivolta in Turchia, Iran e Siria. Quei governi hanno reagito di conseguenza. E noi ci siamo dovuti difendere''. Solo un'autodifesa, dunque. Questo significa che sulla vostra aspirazione all'indipendenza si sbagliano. ''Certo che si sbagliano. La nostra strada è chiara, come l'ha indicata Ocalan. Noi puntiamo a una confederazione, che segni la fine degli stati nazionali e del nazionalismo. Se si risolve così il problema curdo si risolve il focolaio del Medio Oriente. E se si risolve il focolaio del Medio Oriente si risolvono i problemi di questo tempo''. Per portare avanti la vostra proposta, però, usate le armi. E per alcuni anche gli attentati contro i civili. ''Non è mai stato vero - risponde battendosi il pugno destro nel palmo della mano sinistra - lo sanno tutti che il Pkk colpisce solo obiettivi militari. Per difendere la sua gente dagli attacchi turchi. Gli attentati contro obiettivi civili in Turchia non sono opera nostra. Possono essere i servizi segreti turchi, oppure elementi curdi fuori controllo. Ma noi no. La stampa ci addossa queste responsabilità per screditarci e nessuno riporta anche il nostro parere''. Rispetto ai media turchi, più o meno, questo atteggiamento potrebbe essere comprensibile. Ma perché i media internazionali dovrebbero avercela con voi? La figura di Ocalan, per anni, è stata considerata quella di un leader importante. Poi è diventato un terrorista. ''Sul carisma di Ocalan non hanno alcun effetto le cose che vengono dette e scritte. Basta pensare alle folle che, spontaneamente, sono scese in piazza per difenderlo dalle torture che subisce. Arafat, per esempio. Prima terrorista, poi Nobel per la pace, poi terrorista. La stampa fa gli interessi del potere e il potere, in questo periodo storico, ha bisogno di fare di Ocalan un terrorista'', risponde awal Bozan. ''Il capitalismo mostra il suo volto peggiore, perché attraversa una crisi molto grave. Il Pkk, in questa regione, è l'unica reale forza di popolo, che si pone tra gli interessi degli Usa e dell'Ue e le potenze regionali, Iran e Arabia Saudita su tutte. Siamo un problema, perché fino a quando esisteremo noi - dice sorridendo il dirigente curdo - il progetto del Grande Medio Oriente degli Usa non si potrà realizzare. Noi non siamo in vendita. Non abbiamo bisogno di molto per vivere. Quel poco che ci serve ci arriva dai curdi della diaspora, che da tutto il mondo sostengono la nostra lotta. E dalla gente comune, che divide con noi quel poco che ha. In tanti ci davano per finiti quando hanno catturato illegalmente Ocalan...adesso può tornare a casa e dire a tutti che il Pkk è ancora qui. E non smetterà di lottare fino a quando i curdi saranno oppressi''. Il tempo è finito, awal Bozan saluta con un cenno del capo, mentre i suoi uomini si stringono attorno a lui. I pick-up vanno via in fila indiana, tra queste montagne che appartengono al silenzio.