30 settembre

Per il Cavaliere un'altra casa in Costa vicino a villa Certosa

Il premier Silvio Berlusconi ha acquistato la villa che fu di Laura Rusconi, una lontana parente degli editori. Ora l'Idra Immobiliare ha avviato le opere di demolizione della struttura. Nell'operazione sono finite anche due dependance della villa che prevede una volumetria di circa 300 metri quadri. Un bonus edificatorio del 27 per cento di cubatura compreso, così come previsto dal piano casa approvato dal governo Berlusconi e fatto proprio dalla Regione Sardegna

di Giampiero Cocco

PORTO ROTONDO. Il Cavaliere non lascia, anzi raddoppia. A smentire ogni ipotesi di disimpegno di Silvio Berlusconi dall'eremo portorotondino della Certosa è il cartello di inizio lavori che annuncia la demolizione e ricostruzione, utilizzando la recente normativa urbanistica che prevede un aumento di volumetrie del 30 per cento, affisso in via Cava del Tom.

La zona più alta e nobile del buen retiro per ricchi, famosi e riservatissimi vacanzieri inventato dal conte Luigi Donà dalle Rose. Il Cavaliere, per mezzo dell'Idra Immobiliare Spa - la società che possiede le dimore del premier - ha acquistato da un gruppo immobiliare toscano la villa che fu di Laura Rusconi, una lontana parente degli editori e che a Milano e Porto Rotondo gestiva punti di alta ristorazione destinata a deliziare i palati delle persone abbienti.

La donna, una decina di anni fa, cedette la villa al gruppo immobiliare toscano, che la trasformò in centrale di trasmissione per la telefonia mobile 3 e Vodafone. La villa dei telefonini, insomma, ridotta da dimora per le vacanze ad antro semidiroccato dove, da almeno una decina di anni, gli unici a poter entrare erano i tecnici incaricati di mantenere attivi gli apparati e gli animali selvatici che vi avevano ricavato la loro tana.

LIdra Immobiliare, attraverso lo studio tecnico del geometra Gianni Izzo (che segue da sempre i lavori che vengono eseguiti nel compendio della Certosa - ndr) ha redatto il progetto, approvato dal Comune di Olbia il 21 luglio del 2010 (permesso di costruire 241/10) e avviato le opere di demolizione della villa (dopo aver sfrattato i punti radio di 3 e Vodafone) sino alle fondamenta.

Nell'operazione tabula rasa sono finite anche due dependance della villa, che nel progetto presentato in Comune faranno parte integrante della nuova costruzione, che prevede una volumetria di circa 300 metri quadri. Bonus edificatorio del 27 per cento di cubatura compreso, così come previsto dal piano casa approvato dal governo Berlusconi e fatto proprio dalla Regione Sardegna.

Un fazzoletto di terra, oltre 6mila metri quadri, che vanno ad inglobarsi nel parco della Certosa che ora, dopo l'acquisizione dei 10 lotti ceduti dall'architetto milanese Maristella Cipriani e gli altri 5 lotti venduti all'Idra Immobiliare Spa dal gruppo torinese Normafer, raggiunge l'estensione di 80 ettari.
Ciliegina sulla torta l'intera collina che sovrasta Porto Rotondo. Il punto panoramico e isolato dove si appostava il paparazzo sardo che immortalava il premier e i suoi ospiti restandovi attendato intere settimane.

Il via libera ai lavori è stato dato dal premier nei mesi scorsi, ridando ossigeno alle imprese locali e che debbono ultimare le opere entro l'inizio della prossima estate. Sotto la direzione dei lavori del geometra Gianni Izzo e la supervisione dell'architetto del premier, Gianni Gamondi. I nuovi acquisti dell'Idra Immobiliare Spa potrebbero creare più di un problema ai ponti radio e ai ripetitori di telefonia mobile installati sul cocuzzolo della collina di Porto Rotondo.

Essendo l'intero compendio della Certosa sottoposto al vincolo governativo di alta protezione in quanto destinato a ricevere il premier, i suoi familiari e ospiti, anche la collinetta delle antenne è diventata off limits per tutti.

 

Usa, doppio schiaffo in Senato

Karen Dolan, politologa di Washington, spiega a PeaceReporter perchè la Camera Alta ha bocciato il "Dream act" e salvato il "don't ask, don't tell". Aumenta la tensione nella corsa verso le elezioni di medio termine di novembre.

La campagna politica per le elezioni dimedio termine del prossimo 2 novembre entra nella fase più accesa. Dopo le batoste del Tea Party ai Repubblicani durante le primarie, arrivano quelle dello stesso Gop ( Grand Old Partyndr) ai democratici. L' ostruzionismo repubblicano in Senato ha neutralizzato, ancora una volta, i disegni politici del presidente Barack Obama che ha visto bloccare il National Defence Authorization Act, la legge sul budget militare, dal mancato raggiungimento della fatidica "quota sessanta". Questa volta il disegno di legge era accompagnato da due emendamenti di particolare importanza. Il primo puntava all'abolizione del "don't ask, don't tell" la controversa politica che vieta ai gay di entrare a far parte dell'esercito Usa. Il secondo voleva introdurre l'ormai famoso Dream Act (acronimo di Development, Relief and Education for Alien Minors Actndr) un provvedimento che mira alla regolarizzazione residenziale negli Stati Uniti per quegli immigrati reclutati nelle forze armate, o immatricolati all'Università, da più di due anni. I democratici, che in Senato hanno solo 59 rappresentanti, avevano bisogno del voto di almeno un repubblicano. Invece è accaduto il contrario con i democratici Blanche Lincoln e Mark Pryor che si sono uniti al Gop e il capogruppo Harry Reid, l'uomo di Obama al Senato, che ha votato contro per ottenere, secondo quanto previsto dal regolamento della Camera Alta, la possibilità di ridiscutere in futuro il disegno di legge. A poco più di un mese dal giro di boa del mandato di Obama, i repubblicani votano due "no" pesanti per l'uomo del "change". Solo un caso o ferree logiche di campagna elettorale? PeaceReporter lo ha chiesto a Karen Dolan, ricercatrice presso l' Institute for Policy Studies di Washington e direttrice dei progetti sociali Cities for Peace e Cities for Progress.

Al di là dei numeri perché i due emendamenti del Defense Act non sono passati in Senato?

I repubblicani hanno anche bloccato il dibattito sull'intero disegno di legge. Essi non vogliono indisporre la loro base elettorale a poche settimane dalle elezioni di medio-termine permettendo che si discuta il Don't ask, don't tell.

Siamo a poco più di un mese dalle elezioni di medio-termine. L'ostruzionismo del Gop è stato dettato da logiche elettorali o solo da una opposta visione politica rispetto ai democratici?

Sono convinta che la politica elettorale sia la fonte del continuo ostruzionismo repubblicano. I parlamentari del Gop continuano a ostacolare le votazioni anche quando sono ideologicamente d'accordo. L'hanno sempre fatto come ad esempio nel caso di due provvedimenti dell' ex amministrazione Bush: l'estensione ai tagli fiscali alla classe media e il rifinanziamento delle campagne militari.

La bocciatura del provvedimento mantiene, di fatto, la politica "don't ask, don't tell" che vieta ai gay di arruolarsi nell'esercito. Gli Stati Uniti non sono ancora pronti a questo passo?

Sembra che in molti l'abbiano accettato all'interno del Comando dell'Esercito degli Stati Uniti, delle truppe e dell'opinione pubblica in generale. C'è stato un drastico spostamento negli ultimi anni verso l'accettazione dei gay nelle forze armate e il riconoscimento del fatto che questa è una questione di diritti civili che devono essere rispettati. Solamente nell'ala più radicale della base del Gop questo rimane ancora tema caldo e indiscutibile. Ma questa corrente è proprio quella di cui il partito avrà più bisogno per una grande vittoria a novembre.

Il capogruppo dei democratici Harry Reid ha votato contro solo per questioni di tattica o anche per conquistare i voti di quell'ampia fascia di popolazione immigrata che guarda ai conterranei irregolari?

Sono certa che quello del senatore Reid sia stato puramente un voto tattico procedurale, volto a riprendere in futuro la discussione tanto sul "dream act" quanto sul "don't ask, don't tell".

La vittoria del Tea Party alle primarie repubblicane è, forse, il segnale più forte della perdita di consensi da parte del presidente Obama. L'inquilino della Casa Bianca è davvero sulla via della sconfitta?

Ormai non è un mistero che le vittorie del Tea Party evidenzino molto di più le carenze del establishment repubblicano che non quelle di Obama. Sì, i membri del Tp manifestano una profonda insoddisfazione nei confronti del presidente, ma la sfida più diretta la lanciano ai vertici del partito repubblicano. È, comunque, ancora troppo presto per fare pronostici sulla tornata elettorale di novembre o addirittura prevedere se Obama sia destinato ad affrontare la sconfitta alle presidenziali del 2012.

Per i pronostici è presto ma i sondaggi di gradimento parlano chiaro: Il presidente sta dilapidando i suoi voti. Come potrà fare a recuperare il suo elettorato?

Obama ha bisogno di creare posti di lavoro pubblici diretti, e di farlo quanto più velocemente possibile. Deve attuare politiche efficaci per ridurre il tasso di disoccupazione e far sì che la gente si senta più sicura.

Antonio Marafioti

 

La fiducia avvelenata

di EZIO MAURO

DOPO due mesi di esibizione muscolare virtuale, cacciando i finiani, invocando le elezioni immediate, annunciando l'autosufficienza della maggioranza, alla resa dei conti Silvio Berlusconi ieri ha dovuto prendere atto che non ha i voti senza Fini, che la compravendita dei deputati non è bastata, che le elezioni lo spaventano. Ha chiesto i voti ai suoi nemici mortali, ha evitato ogni polemica, ha dribblato tutte le asperità, volando basso. Pur di galleggiare, tirando a campare come un doroteo, fingendo davanti a se stesso e al Paese che dopo la spaccatura del Pdl tutto sia come prima. E invece tutto è cambiato, tanto che il Premier rimane in sella ma in un paesaggio politico completamente diverso: con Fini che vara il suo nuovo partito e si allea con Lombardo, moltiplicando fino a quattro i gruppi di maggioranza, che volevano essere due - Pdl e Lega -, senza bisogno di spartire con altri. Così, potremmo dire che ieri è nato il Berlusconi-bis, perché a numeri intatti la forza elettorale si è trasformata due anni dopo in debolezza patente della leadership.

Il Presidente del Consiglio non è stato capace di accettare la sfida politica che lo tormenta, e invece di saltare l'asticella alzata davanti al suo cammino dai finiani ha preferito passarci sotto, scegliendo il basso profilo, la dissimulazione, la finzione.

Soprattutto, non ha voluto o non ha potuto portarsi all'altezza della cornice drammatica di una crisi conclamata e irreversibile nella sostanza politica, anche se rattoppata temporaneamente nei numeri. La frattura radicale della destra, di cui vediamo solo i primi effetti, manca ancora di una lettura ufficiale e di un interprete responsabile. Il Paese ne ha diritto. Si possono ingannare i telespettatori del tg1 e del tg5, com'è abitudine, ma non si può ingannare la politica, che da ieri assedia Berlusconi con una maggioranza posticcia e instabile, costruita com'è su alleati-rivali, impastata di ricatti, dossier, intimidazioni e paure.

È la strategia del dominio, la mitologia della sovranità assoluta che vanno in pezzi con la fiducia avvelenata di ieri. Berlusconi ha bisogno del salvacondotto, e dunque dei voti di un avversario che prova ad uccidere politicamente e mediaticamente ogni giorno, e che da parte sua lavora non più nel lungo termine, ma nel medio, per far saltare tutto l'equilibrio berlusconiano del comando, costruito per sedici anni. L'esito di questo conflitto sarà politicamente mortale. Con la fiducia, Fini salda un patto con gli elettori (non più col Premier e con il Pdl), e guadagna tempo per costruire il partito che ha annunciato ieri. Berlusconi può fingere di guardare ai numeri e non alla rottura irrimediabile del suo partito, alla crisi plateale dell'ipotesi di autosufficienza dell'asse tra il Premier e Bossi. Dove lo portano dunque quei numeri? Verso quale approdo politico? Per quale progetto? Con quali alleati?

La realtà è che non si è rotta soltanto la macchina politica del '94, ma anche la costruzione ideologica che ha interpretato l'Italia - salvo brevi parentesi - per sedici anni. La svolta è dunque enorme, e noi vediamo oggi solo il primo atto. La propaganda compilativa in cui si è rifugiato ieri il Premier non può nascondere la realtà. Diciamolo chiaramente: a luglio, con la cacciata di Fini, è finito il Pdl. Ieri, con questa fiducia malata, è finito addirittura il quadro politico di centrodestra così come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi: con un signore e padrone assoluto retrocesso a capo di un quadripartito ostile e minaccioso, come all'epoca del peggior Caf, nell'agonia della prima repubblica.

 

Una notte tra i roghi di Diossina Land

La guerra dei rifiuti soffoca la Campania

Sulla carta l'emergenza finisce oggi. "Vogliono ridurre il numero di vigili del fuoco". Sugli stradoni dell'hinterland bruciano vernici, copertoni e cumuli di immondizia. "E nessuno parla della nostra lenta agonia"

dal nostro inviato CONCHITA SANNINO

GIUGLIANO - All'alba, distingui solo le scie. Occorre far l'occhio, alle ombre di Diossina Land. Dalle carreggiate monche dell'Asse mediano, lo stradone che corre tra Napoli e Caserta sull'ammasso di troppe periferie cementate tra loro, le vedi poco a poco, mentre sporcano l'orizzonte. Strisce nere, sottili o più dense. Serpenti di fumo e fiamme, avvitati sul rito delle economie e delle vite clandestine. Sono i fuochi delle terre di nessuno. Incendi in lontananza di scarti industriali, copertoni d'auto o di camion, residui agricoli a rischio inquinamento, immondizia di serie C. Incendi di ogni dimensione, quasi sempre tossici. Che sprigionano diossina e altre sostanze pericolose. E sono tanti, ogni giorno. Senza fare rumore.

È paese reale, eutanasia dell'ambiente. Senza bisogno di aspettare una nuova crisi o un nuovo commissario all'emergenza, c'è chi appesta ogni giorno aria e salute pubblica. Quei fumi puntellano il cielo di mezza Campania sia quando l'immondizia balza nei titoli d'apertura, sia quando non è più notizia. Solo nell'ultima settimana, i vigili del fuoco hanno contato centocinque roghi in tutto, compresi quelli avvenuti in discarica. Il fenomeno si è moltiplicato negli ultimi anni; ne sa assai più il web che i tavoli istituzionali, ed è un social network ad averne fatto una battaglia a più voci, grazie al censimento che ogni giorno finisce nella bacheca de La terra dei fuochi (laterradeifuochi. it, o www. facebook. com/LaTerraDeiFuochi), e alla rabbia meticolosa di un laureato trentenne, Angelo Ferrillo, che dei veleni sparsi è diventato nemico ufficiale, archivista e quasi antropologo.

"Abbiamo registrato più di 200mila utenti unici, e abbiamo un centinaio di filmati up-loadati su La terra dei fuochi, ma fa cadere le braccia il fatto che questo materiale non serva a prevenire - racconta Angelo - . Lo abbiamo fornito alle forze dell'ordine, spesso con le nostre segnalazioni abbiamo anticipato quello che sarebbe accaduto. Ad esempio, un vasto rogo è stato appiccato il 31 agosto in via Casacelle a Giugliano, mentre avevamo avvertito del rischio ai primi di luglio. Ma quasi mai le nostre denunce sono servite a bloccare un avvelenatore per tempo". Quasi. Perché meno di 48 ore fa, c'era lui con una troupe di Striscia la Notizia a fermare un trasportatore di rifiuti di tessuti tra Giugliano e Caserta, proprio mentre filmavano una delle vie delle illecite fumarole. Non è escluso che lo sconosciuto, di nazionalità cinese, si preparasse a incendiare tutto. Sulla strada, una prostituta racconta che "quel signore viene spesso e scarica materiale. Mica è il solo".
I guardiani di Diossina Land si parlano per videodenuncia. Su quella piattaforma web scorre lenta, come dice lo strillo ad effetto, "la più grande catastrofe a partecipazione pubblica". Filmano, inviano, fanno girare. Scrivono: "Molti non immaginano l'entità del problema, i danni che stiamo subendo e le conseguenze per la salute. Informiamo tutti".

Scrivono da ogni provincia campana. Ma restano di più quelle immagini silenziose, dove spesso non c'è boato e non si vedono lingue di fuoco. Solo colonne di fumo che erodono ogni giorno uno spicchio d'orizzonte, guadagnano suolo, asfalto, strada sterrata, carreggiata, cortili e relitti di corpi di fabbrica, civile o industriale.
Fiamme che diventano fili neri e poi di nuovo piccoli roghi. I volontari di Legambiente, e gli animatori di Libera contro le mafie, hanno immaginato anche una casistica, come ricordano Geppino Fiorenza e don Tonino Palmese. "Qui va in fumo una montagna di pneumatici, lì si liquefa una partita cattiva di vernici, una volta è il fondo della merce scaduta, un'altra tocca ai sedili d'auto carbonizzati e altre gomme". Statisticamente, ricorda ancora Angelo Ferrillo, "a produrre le colonne di fumo sono spesso gli incendi del campo rom di Scampia, o qualche altro accampamento". Qualche litro di benzina e il problema è risolto. Mentre, per paradosso, i vigili del fuoco di Napoli rischiano, proprio al riacutizzarsi di una nuova emergenza, di perdere una ventina di uomini calati dagli altri comandi durante la cura Bertolaso. Chissà se servirà il grido d'allarme, firmato da Cgil, Cisl e Uil. Proprio oggi scatta l'ora X, per i pompieri il 30 settembre doveva finire - sulla carta - l'emergenza rifiuti. "Ma a Napoli siamo sotto organico da anni - puntualizza l'architetto Alfonso Giglio, vicedirigente del comando provinciale - esposti all'emergenza dei roghi ormai cronici, ed è impensabile spogliarci di 20 unità".

Puoi passarci il giorno a vederli nascere e morire, quei fumi all'orizzonte. Prima che sbiadiscano nelle gradazioni dei grigi, diventano contorsioni nocive, colonne e linee sempre più esili che si alzano, deviano, avvolgono i palazzi, fanno un giro intorno all'Asse mediano dei paesi che non sono paesi. E ritornano indietro: il giorno dopo, da un'altra parte, ridiventano incendio. "Fuochi che non sono in conto a nessun comune", spiegano alla rete Lilliput. "Camini" tossici che i sindaci, le Province e gli autocompattatori delle ditte di raccolta fingono di non vedere a dispetto di denunce, sos, forum sul web. Rifiuti scaricati nelle statali di mezzo, negli interstizi dei comuni, nello slargo sospeso delle arterie meno trafficate. E quindi dati alle fiamme con maggiore certezza di anonimato e impunità. Se si potessero mettere insieme i frammenti, formerebbero un panorama devastante, una piccola baraccopoli. Contesti che il comboniano Alex Zanotelli, già missionario a Korogocho (Kenya), e oggi spirito in lotta tra la gente di Napoli, ha il vizio di rovesciare. "In Campania la terra brucia o si inquina anche quando non vedi il fuoco. Questa regione è dentro una colossale truffa: si tratta la crisi rifiuti come nei paese sottosviluppati. Impongono discariche e ammassi di immondizia, mentre basterebbe la scelta di puntare tutto sulla differenziata, più investimento sull'educazione della popolazione. L'unica ricetta", predica Alex.
Esiste ormai la mappa in Gps dei roghi-serpenti, dei fuochi che avvelenano campi, quartieri, città. Sono i film attraverso i quali si compone il racconto di chi respira immondizia quando non c'è. Un dramma parallelo all'emergenza che va nei tg. Un sos così reiterato e concreto da diventare muto, invisibile.

Eppure esiste, tra le province dell'Asse mediano. E quelle tossine pesano drammaticamente in un territorio già segnato da picchi di mortalità e patologie cancerogene. Ricorda ancora Ferrillo: "Lo studio commissionato proprio dalla Protezione civile ad esperti delle relazioni tra rischio ambientale per i rifiuti e insorgenza di tumori, ha confermato che la mortalità prodotta dai tumori maligni, nel periodo preso in esame, è aumentata in provincia di Caserta del 29 per cento e in provincia di Napoli dell'8 per cento, come media complessiva, mentre in Italia diminuiva del 5 per cento".

È l'ulteriore miccia della Campania. Dove il più esteso comune costiero, Giugliano, è ormai costretto dalle consulenze geologiche della Procura antimafia a dichiarare contaminate le falde acquifere che corrono sotto la ex discarica Resit, e a vietare l'accesso ai vecchi pozzi agricoli. Mentre le 200mila sentinelle della rete anti-incendio non smettono di guardare, qui c'è chi chiama emergenza solo la caccia alla nuova discarica. Come se un grande buco fosse davvero la via di fuga da Diossina Land.

 

Bloccata la nave degli ebrei

L'assalto alla "Irene"

«Veniamo da Famagosta. A bordo ci sono cittadini britannici, americani, tedeschi e israeliani. Proseguiamo sulla nostra rotta». Con queste parole Glyn Secker, il comandante della nave ebraica «Irene», diretta a Gaza per portare solidarietà alla popolazione palestinese da anni isolata e sotto embargo, ha risposto ieri alle intimazioni a recarsi al porto di Ashdod o a quello egiziano di el Arish lanciate da una unità da guerra israeliana. Un gesto di fermezza che, di fatto, ha dato il via all'assalto della sua piccola imbarcazione a vela da parte della Marina israeliana.
E mentre nel mare davanti a Gaza pacifisti ebrei e israeliani vivevano ore di paura e tensione pur di affermare il rispetto del diritto internazionale e dei diritti dei palestinesi, un altro cittadino israeliano, il ministro degli esteri Avigdor Lieberman, illustrava all'Onu la sua proposta di «scambio di popolazioni» tra Israele e l'Anp di Abu Mazen nel quadro di un eventuale accordo definitivo tra le due parti. Un altro duro colpo inferto al milione e mezzo di cittadini israeliani di etnia palestinese (gli arabo israeliani). Il ministro degli esteri spinge per la deportazione della minoranza araba nei territori del futuro Stato di Palestina, in cambio dell'evacuazione di alcune colonie ebraiche in Cisgiordania.
Una proposta che, peraltro, non ha fondamento nel diritto internazionale poiché gli arabo israeliani vivono nella loro terra mentre i coloni israeliani si sono insediati nei Territori occupati palestinesi in violazione di risoluzioni e convenzioni internazionali. Il premier israeliano Netanyahu ha preso le distanze dal discorso di Lieberman.
L'abbordaggio del catamarano ebraico è avvenuto a 20-25 miglia dalla costa. Un paio di motoscafi militari veloci si sono affiancati alla «Irene», bloccandola. A bordo dell'imbarcazione pacifista sono saltati uomini delle forze speciali israeliane che poi hanno fatto rotta verso Ashdod. Passeggeri ed equipaggio non hanno tentato alcuna resistenza attiva, come avevano preannunciato. Ma sono ugualmente finiti tutti in manette, giovani e anziani. I soldati hanno colpito il refusenik Jonathan Shapira con una scarica di pistola «Taser» tramortendolo. L'ex militare non avrebbe riportato serie conseguenze. «Come sia andata in quei momenti potranno dircelo solo i passeggeri della «Irene» - precisa Miri Weingarten, portavoce della spedizione pacifista ebraica contro il blocco di Gaza -. Noi a terra non abbiamo più avuto notizie dopo l'abbordaggio, i telefoni cellulari e satellitari dei nostri compagni sono stati sequestrati e spenti».
Nel pomeriggio la professoressa Nurit Peled Elhanan, nota pacifista israeliana e moglie di uno dei passeggeri, Rami Elhanan (la coppia ha perduto una figlia nel 1997 in un attentato suicida palestinese), ha riferito che i passeggeri con cittadinanza israeliana sono stati incarcerati ad Ashdod e attendevano di essere liberati già ieri sera. Gli altri con cittadinanza straniera, portati in una prigione a Holon, verranno deportati al più presto.
Peggio andò lo scorso 31 maggio alle centinaia di attivisti e giornalisti a bordo delle sei navi della Freedom Flotilla dirette a Gaza. In quell'occasione commando israeliani uccisero nove passeggeri della nave turca «Mavi Marmara». Dopo qualche giorno venne bloccata, ma senza spargimento di sangue, la nave «Rachel Corrie» ugualmente diretta a Gaza. Un rapporto diffuso la settimana scorsa dalla commissione d'inchiesta istituita dal Consiglio dei Diritti Umani dell'Onu, condanna severamente Israele per quei raid compiuti in acque internazionali.
Partita domenica da Cipro del Nord, l'imbarcazione ebraica era attesa a Gaza city dall'Ong palestinese «Gaza Community Mental Health Programme». A bordo c'erano una decina di pacifisti ebrei e israeliani tra i quali, oltre a Rami Elhanan, anche un sopravvissuto all'Olocausto, Reuven Moshkovitz, di 82 anni, e Carole Angier, stimata biografa di Primo Levi. Prima della partenza i partecipanti avevano spiegato che uno degli obiettivi della loro missione era spiegare al mondo che non tutti gli ebrei e gli israeliani condividono le politiche contro i palestinesi.
Al ministero degli esteri israeliano che ha accusato i pacifisti di aver attuato una «provocazione» e «di versare benzina sul fuoco dell'odio verso Israele nel mondo», ha risposto Reuven Moskovitz. «Vero eroe è colui che cerca di trasformare un nemico in un amico».

 

27 settembre

 

Joseph Halevi

La crisi Usa e il fiasco di Obama


Dietro alle dimissioni a catena del personale economico del presidente Barack Obama c'è la crisi degli Stati uniti, che sta diventando ormai ingestibile. Il mese scorso si era dimessa Christina Romer, responsabile delle previsioni economiche e ieri se ne sono andati Herb Allison, fautore nel 2008 del piano di salvataggio delle banche, e Larry Summers, direttore del Consiglio economico nazionale, da poco attaccato dai repubblicani che ne hanno chiesto il licenziamento assieme a Timothy Geithner.
I repubblicani considerano i due principali esponenti della politica economica della Casa Bianca come responsabili della gravità della situazione. La colpa maggiore ascritta a Geithner e Summers è la grande espansione del deficit pubblico. Invece, già l'anno scorso Christina Romer, malgrado la sua reputazione conservatrice, ammoniva a non ripetere l' errore del 1937, cioè il drastico riequilibrio di bilancio attuato da Roosevelt che causò una seconda depressione economica, con una disoccupazione del 17%.
Sembra che le dimissioni, assieme alla volontà di abbandonare un governo in pessime acque, segnalino anche l'esigenza di Obama di cambiare direzione, puntando sul consolidamento fiscale e la riduzione del deficit pubblico. In tal senso a comprovare che il Presidente non è «anti business» si parla della nomina a consigliere di persone provenienti dal mondo dalle grandi società.
Geithner e Summers si sono visti accusati di essere degli spendaccioni quando, in realtà non hanno fatto che salvare le banche con tutte le loro cartacce tossiche, senza metterle in discussione, anzi escogitando un sistema di aste truccate al rialzo per rivalutarle. La loro politica era in stretta continuità con quella di Paulson sotto la presidenza Bush e Summers era per limitare quanto più possibile lo spesa per lo «stimolo».
La composizione della spesa pubblica dal 2007 in poi con la priorità data al rafforzamento delle banche è la ragione prima del fiasco economico di Obama. Il panorama economico statunitense è pessimo perché finora non è stato messo in funzione nessun meccanismo di rilancio. Ricordiamo che negli Usa vi sono due indicatori di disoccupazione: uno corrente, che si basa su un questionario che non include i lavoratori scoraggiati, e uno che li calcola. Il primo dà un tasso di disoccupazione del 9,6% ed il secondo produce una cifra da Grande Depressione, cioè di oltre il 17%. Solo pochi giorni fa è stato calcolato che ai ritmi attuali ci vorranno oltre dieci anni per recuperare i posti di lavoro persi dal 2008, senza considerare l'aumento della popolazione.
La stessa riforma della sanità varata dal Presidente non ha arrestato la crescita del numero delle persone prive di assicurazione medica, che è salito a 55 milioni. La crisi fiscale che colpisce i ¾ degli Stati dell'Unione è sicuramente uno degli aspetti più terrificanti del quadro economico e sociale. Il meccanismo di trasferimento da Washington alla periferia è molto labile, per cui, nei fatti, i tagli che gli stati sono obbligati ad effettuare si rimangiano gran parte di quel poco di stimolo reale, comunque concepito per estinguersi nel 2010.
Inoltre il crollo fiscale degli Stati si ripercuote ferocemente sulle città e fa emergere ampie aree di sottosviluppo classico. Queste, negli Usa, esistono da decenni, ma la crisi fiscale ne accentua la presenza e l'espansione. Il programma di sviluppo infrastrutturale (ferrovie, aeroporti) annunciato recentemente da Obama è velleitario. La crisi fa risaltare il danno sociale prodotto dalla dipendenza dal vecchio complesso militar-industriale, i cui effetti positivi sul resto dell'economia si vanno riducendo da anni, e dall'outsourcing prima in Messico e poi in Cina.
L'attuazione del programma di sviluppo infrastrutturale di Obama richiederebbe massicce importazioni di tecnologie che gi Usa non possono attuare senza creare un ulteriore grande squilibrio nei conti esteri.
 

Libro e moschetto, italiano perfetto

In Lombardia un protocollo tra il ministero della Difesa e quello dell’Istruzione riporta nelle scuole quello che era uscito dalle caserme

Disciplina, spirito di corpo, sana competizione: valori sportivi e militari. Sembra un filmino dell’Istituto Luce, direttamente dal ventennio, invece è il programma ‘Allenati per la vita’, realtà dal 2007, materia di studio nella scuola superiore lombarda.
Sono tre anni che il Pirellone e il Comando militare regionale siglano un protocollo d’intesa con l’Ufficio scolastico regionale che “si articola in due progetti”, spiega a PeaceReporter il colonnello Affini, Capo ufficio comunicazione del Comando regionale Lombardia dell’esercito Italiano.

Il progetto porta le firme del generale Camillo De Milato, Comandante reclutamento e forze di completamento della Regione Lombardia e di Giuseppe Colosio, direttore scolastico per la Lombardia.
Tuttavia l’interesse dei due ministeri competenti è palese, dal momento che la circolare diramata dal comando militare per la Lombardia parla di ‘connubio tra i due Dicasteri (Difesa e Istruzione) per la formazione ed educazione dei giovani’.

“I due progetti in cui si articola il protocollo” spiega il colonnello Affini “sono un ‘Concorso civico culturale’ e il programma ‘Allenati per la vita’. Il concorso civico prevede un bando diffuso tra tutte le scuole della regione su base provinciale, al quale gli studenti partecipano con un elaborato scritto, i primi dieci ricevono una borsa di studio. Nell’anno scolastico 2010 - 2011 il tema sarà il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, mentre lo scorso anno il tema era: ‘Lettera ad un amico impegnato in operazioni di pace’ ”

Ma il vero pezzo forte del protocollo è il programma ‘Allenati per la vita’ che prevede esercitazioni pratiche di tipo militare e dà anche crediti formativi agli studenti. “Il progetto comprende attività extracurriculari” specifica il capo Comunicazione per la Lombardia dell’esercito “da svolgersi fuori dai normali orari di lezione. Scopo del programma è avvicinare i ragazzi al mondo sportivo militare. Sono previste esercitazioni pratiche, esercizi ginnici ma anche aspetti teorici come un’educazione alla legalità e al diritto costituzionale, con lezioni in aula. Temi cari al ministro Gelmini”, ci tiene a specificare il colonnello.

Resta il fatto che tra le varie attività oggetto di studio e di pratica, come si può leggere già nel documento di realizzazione del 2009 emanato dalla regione Lombardia, c’è cultura militare, difesa nucleare, batteriologica e chimica, trasmissioni, armi e tiro, mezzi dell’esercito e sopravvivenza in ambienti ostili.

Il colonnello Affini replica affermando “che la realizzazione pratica del progetto era ed è affidata ad associazioni varie, che forniscono gli istruttori” tra le quali spicca l’Unuci, l’Unione nazionale ufficiali in congedo d’Italia, che ha fornito alcuni degli istruttori del programma, ex ufficiali dell’esercito.
“Le principali attività tendono a diffondere quei valori come la disciplina, lo spirito di corpo e la sana competizione che sono utili nella vita.
Non a caso alla fine il programma prevede una giornata di gare in cui i ragazzi sono divisi in squadre composte da quattro elementi, e si devono cimentare con una serie di prove pratiche”.

Il colonnello parla di squadre, ma nel documento del 2009 si trova il termine ‘pattuglie’: “pattuglie è un termine militare, ma in questo caso è più corretto dire squadre” precisa comunque Affini.

Fra questi propositi “encomiabili” spicca addirittura il tiro con armi ad aria compressa, in poligono.
“L’attività di tiro non è stata realizzata sempre, dipende dalla disponibilità economica dei distretti scolastici provinciali coinvolti. C’è una serie di linee guida che noi diamo, di carattere generale, all’interno delle quali i distretti scolastici che aderiscono possono scegliere le attività da realizzare. Il tiro si è svolto sempre in poligoni autorizzati e questi hanno un costo” continua Affini “non dobbiamo soffermarci sul tiro ma vedere cha al fianco di queste attività c’è per esempio l’educazione al primo soccorso. Tutto questo è un potente antidoto al bullismo, in quanto educa al rispetto delle regole e al rispetto degli altri”.

Nel corso dell’anno scolastico il rischio è quello di realizzare un vero e proprio addestramento militare, quasi un mini servizio militare spalmato nell’anno e con tanto di benestare del sistema pubblico di istruzione.
Il colonnello da parte sua nega il coinvolgimento del ministero della Difesa e del ministro La Russa, a livello di progettazione “il protocollo è esclusivamente regionale” precisa. “È chiaro che il ministero ne è a conoscenza, non potrebbe essere altrimenti, ma che io sappia non c’è nessuna intenzione di renderlo nazionale”. Eppure, negli stampati del 2009 il simbolo dei ministeri c’è.

Ultimo dubbio: è un modo di farsi pubblicità per l’esercito e per spargere un po’ di fertilizzante nelle scuole? Il colonello Affini smentisce: “L’esercito usa altri canali per il reclutamento, ci sono uffici appositi e materiale di propaganda che viene diffuso secondo altri canali, compresa la pubblicità. In realtà non sono militari gli istruttori che realizzano la fase pratica del progetto, ma membri competenti di associazioni varie”.
Associazioni varie che sono sempre, per lo più, di ex militari.

Alessandro Micci
 

Questa Rai è peggio di sempre

di Riccardo Bocca

Pressioni continue. Spot censurati. Un clima irrespirabile che continuava da settimane. E il consiglio di amministrazione della Rai che a pochi giorni dalla messa in onda blocca "Parla con me". Le accuse di Serena Dandini

E' a rischio "parla con Me", il programma di Serena Dandini che doveva riprendere la prossima settimana. Nella riunione che doveva decidere sulla trasmissione infatti il cda della Rai non ha raggiunto il numero legale, poiché non hanno partecipato alla riunione i consiglieri di maggioranza (Verro, Rositani, Gorla, Petroni, Bianchi Clerici). "Senza contratto non possiamo andare in onda", dicono dalla redazione di Parla con me e ora si attende un pronunciamento dell'azienda. "Parla con me" dovrebbe partire martedì prossimo e lunedì era prevista la conferenza stampa di presentazione del programma. "L'espresso" domani in edicola pubblica questa intervista con Dandini, realizzata prima che il cda Rai mettesse a rischio il programma

Come niente fosse successo. Come se durante la scorsa stagione televisiva il centrodestra non l'avesse martellata di critiche. Come se Silvio Berlusconi, in Consiglio dei ministri, non l'avesse accusata di abusare dei denari pubblici per realizzare un programma che "si diletta ad avere come unico bersaglio il governo". Come se, soprattutto, il direttore generale della Rai Mauro Masi non avesse ipotizzato di ridurre "Parla con me" a un sola serata settimanale. Attacchi superati, quasi per magia. Sorridente, appena gratificata dal Premio satira politica Forte dei Marmi, carica di sarcasmi tra una sigaretta e l'altra, Serena Dandini torna infatti dal 28 settembre nella seconda serata di RaiTre. Dal lunedì al venerdì: esattamente come l'anno passato. Sempre al fianco della zanzara comica Dario Vergassola. E allora viene da chiedere: è lei, Dandini, a essere molto protetta, o sono incapaci i suoi detrattori?
"Diciamo che in questa fase i miei avversari sono concentrati su altro, vedi Gianfranco Fini e dintorni. E diciamo anche che la Rai è un'azienda contraddittoria: da un lato la Sipra (la concessionaria di pubblicità, ndr.) mi ringrazia per lo share medio del 9 per cento conquistato da "Parla con me". Dall'altro, i vertici Rai mi trattano come Cenerentola. Se si aggiunge che il capo di RaiTre, Paolo Ruffini, e il direttore generale Masi si parlano giusto tramite i quotidiani, capite quant'è pesante lavorare qui dentro...".

"Il Giornale" ha scritto di lei: "Dandini vive sfruttando l'immagine di personaggio scomodo e osteggiato".
"Sarei grata al "Giornale" se potesse intercedere per evitare che venga osteggiata. Perché essere osteggiati è una mostruosa perdita di tempo: significa faticare per ottenere tutto, anche un paio di scarpe, una parrucca, un'autorizzazione... Sono tanti i modi, per logorarti i nervi".

Ad esempio? In Rai le hanno mai censurato una frase, una battuta, un concetto?
"Ci siamo andati molto vicino quando abbiamo annunciato in conferenza stampa la sitcom "Lost in wc", quella con le ragazze nei bagni di palazzo Grazioli. Giravano voci sgradevoli, in quei giorni...".

Un po' poco, per gridare al regime.
"Infatti: io non ho mai parlato di regime, nell'accezione tradizionale. Parlo di un clima asfittico che toglie la voglia di fare, di un'atmosfera intimidatoria che non giova alla creatività".

La celeberrima cappa sulla Rai.
"Che ora è peggio di sempre. Una volta la politica si accontentava di piazzare i suoi uomini di fiducia ai vertici, adesso il virus cancella la meritocrazia fino all'ultima figura".

A proposito: con il direttore generale Masi come va? Vi siete incontrati, chiariti?
"Sì. Mi ha detto che ha seguito alcune puntate di "Parla con me", e che gli sono piaciute".

Masi ha dichiarato tutt'altro, quest'estate: "Ero perplesso, ma Dandini mi ha convinto che farà un programma un po' diverso".
"Infatti... (ridacchia). Sarà un programma diverso. Nel senso che Andrea Rivera, per dire, invece di fare le sue famose interviste al citofono nella Capitale, andrà anche in altre città...".

Lei scherza. Ma perché, in tempi di cinismo totale, la satira fa ancora imbestialire la classe politica?
"Perché è viva, a dispetto di tutto e tutti. Resiste anche se i giovani autori preferiscono evitarla: sanno che faticherebbero troppo, a imporla in tv. Eppure ce ne sarebbero, di spunti irresistibili...".

Spari la battuta.
"Vogliamo parlare, come faremo in trasmissione, del nuovo Ulivo? Già a dirlo mi scappa da ridere: le parole "nuovo" e "Ulivo", messe una accanto all'altra, sono impronunciabili, non hanno senso. È come dire un "giovane vecchio"".

Sarà. Però sul suo divano televisivo passano, il più delle volte, ospiti di area centrosinistra...
"Quindi? Non invito Jovanotti perché è di sinistra? Oppure è colpa mia se, all'improvviso, un ospite insospettabile dice qualcosa in sintonia con l'opposizione?".

Insomma: per voi non esiste, il problema dell'equilibrio.
"Al contrario! L'altro giorno abbiamo discusso a lungo, in riunione, sull'opportunità di invitare due giornalisti di cosiddetti giornali di centrosinistra, e che hanno scritto libri interessanti. Ci siamo posti la questione dell'opportunità, della tempistica... È ridicolo, ma siamo arrivati a questo in onore della direzione generale".

Non è ridicolo. È la consapevolezza che il suo programma può influenzare le scelte dei telespettatori.
"Non in cabina elettorale. Al massimo a "Parla con me" offriamo divertimento, spunti di conversazione. Non è che i telespettatori guardano noi, o Michele Santoro, e cambiano idea su chi votare".

Però Berlusconi viene accusato, regolarmente, di condizionare gli italiani con le televisioni.
"È un condizionamento culturale, soprattutto".

A proposito: lei a che categoria appartiene? Critica il centrosinistra e comunque lo vota, o si rifugia nella scheda bianca?
"Sono tra coloro che pensano: "Per fortuna che, a breve, non ci sono elezioni..."".

Molto diplomatica. Lo sia un po' meno sull'esordio di Enrico Mentana al tg de La7: trionfo di bravura o concorrenza scarsa?
"Mentana è un fuoriclasse assoluto. Non soltanto perché dà le notizie, ma perché fa domande vere. E non è un dettaglio".

C'è anche Bianca Berlinguer, da un anno alla guida del Tg3.
"Di Bianca non mi piace la conduzione, in particolare a "Linea notte": troppo rigida, paludata. Preferisco allora la morbidezza di Maurizio Mannoni".

Cos'è? Una vendettina perché Berlinguer s'infuriò quando "Parla con me" ha scalzato dalla seconda serata "Primo Piano", spingendolo dopo la mezzanotte?
"Mannò.... Io non c'entro, con quella decisione. E comunque dovrebbero essere contenti, a "Primo piano": da quando li precediamo, fanno molto più ascolto...".

Ciò non toglie che per il consigliere della Rai Alessio Gorla, quota Pdl, lei e il suo programma costate troppo. Le hanno ridotto i 700 mila euro dell'anno scorso?
"Non lo so, sinceramente. Siamo alla vigilia del debutto e non ho ancora il contratto firmato. Per giunta in Rai mi pagano a puntata, come le corse di un taxi, il che vuol dire che possono cacciarmi in qualunque momento senza spendere un euro. Anche questo, a mio avviso, è esercitare pressione...".

Non ha pensato, vista l'atmosfera in viale Mazzini, di passare alla concorrenza? Lei stessa ha detto che Mediaset, dove ha lavorato nel 1999, coccola gli artisti, mentre la Rai li considera un fastidio...
"E lo confermo. Ma c'è un aspetto da ricordare: l'altra volta, quando sono passata a Mediaset, Berlusconi era all'opposizione. Dovesse riperdere...".


 

23 settembre

Fincantieri, acque agitate

La notizia che Fincantieri avrebbe intenzione di chiudere Castellammare di Stabia a Napoli e il cantiere di Riva Trigoso in Liguria e praticamente ridurre Sestri Ponente a un'officina meccanica licenziando almeno 2500 operai, come rivelato dall'anticipazione di una bozza di progetto industriale pubblicata nei giorni scorsi dalla Repubblica, ha lasciato esterrefatti i politici e per niente stupiti sindacalisti e lavoratori, tenuto conto che gli ultimi anni sono stati scanditi da denunce per manifestazioni sindacali, un braccio di ferro sui premi revocati al solo cantiere di Sestri, scioperi per la difesa del contratto piuttosto che denunce contro il ricorso massiccio ai lavoratori esterni, meno tutelati e più precari. Così ieri la protesta è esplosa ovunque.
A Palermo, che con Marghera e Monfalcone sarebbe tra i cantieri che si salvano dalla scure, poco dopo l'alba un gruppo di operai ha bloccato l'ingresso dell'azienda dove è in lavorazione una piattaforma della Saipem, la Scarabeo, peraltro l'unica commissione in corso. Qualche ora dopo la protesta era cresciuta con centinaia di persone davanti ai cancelli del cantiere: la maggioranza lavoratori dell'indotto, che sanno che senza il cantiere della Fincantieri anche loro restano a casa.
Intanto a Sestri Ponente, dove sono in lavorazione due navi crociere della Oceania e una nave militare indiana, c'è lavoro ancora per 4 mesi e poi si rischia la cassa integrazione: a inizio turno c'è stata un'assemblea che ha decretato due ore di sciopero, poi è subito scattata l'occupazione del cantiere e del centro direzionale con breve corteo in strada. Anche Riva Trigoso, specializzata in navi militari (rimorchiatori, pattuglie, fregate) con una dote di commesse fino al 2014 per la cifra di 4 miliardi di euro, rischia di sparire: i suoi macchinari verrebbero trasferiti a Sestri Ponente, per cui ha scioperato con ancora più rabbia e qualche momento di tensione. «È pazzesco venire a sapere dalla stampa una simile decisione - ha commentato Omar Di Tullio della Fim Cisl - Un'azienda sana con lavoro per otto o nove anni vara un piano industriale delirante. Questa volta l'amministratore delegato, il presidente e tutti i più alti in carica devono andarsene a casa».
Anche a Riva Trigoso è stata occupata la direzione aziendale, eppure l'azienda ha impedito l'ingresso in cantiere dell'assessore ligure alle infrastrutture, Ezio Chiesa, che fuori dai cancelli ha commentato: «Sono sbigottito e preoccupato, neanche ai tempi di Piaggio, negli anni Sessanta, non si consentiva a un esponente istituzionale di entrare». Intanto a Castellammare di Stabia c'è stato il blocco totale dello stabilimento e a Monfalcone un'ora di sciopero.
Mentre i dipendenti dell'azienda erano in ebollizione, la Fiom registrava via via il polso della situazione: «Dopo le notizie relative al piano di ristrutturazione in discussione tra Fincantieri e Fintecna, che comporterebbe drammatici tagli produttivi e occupazionali, i lavoratori sono in mobilitazione in tutto il gruppo - ha rilevato il coordinatore nazionale Fiom Cgil Giorgio Cremaschi - Fim, Fiom, Uilm si sono impegnate a chiedere un incontro urgente all'azienda per conoscere le sue reali intenzioni, mentre il 21 settembre (oggi per chi legge, ndr) a Roma è confermato l'incontro con tutti gli enti locali e l'1 ottobre ci sarà lo sciopero di tutta la cantieristica navale con manifestazione a Roma».
In Liguria tutti hanno capito che senza Fincantieri saltano 4 mila posti (2 mila diretti e altri 2 mila l'indotto), una bella botta nell'arco di 50 chilometri e per di più in una sola provincia. La Regione Liguria perciò sta tentando di costruire un fronte unico con le altre amministrazioni. «È innegabile che la cantieristica stia vivendo una forte crisi che non si può affrontare però con lo smantellamento dei cantieri navali - ha dichiarato l'assessore regionale allo sviluppo economico, Renzo Guccinelli - È necessaria una politica di investimento, di diversificazione industriale e di crescita e il governo non può continuare a tacere anche sulla richiesta di un incontro presentata dalla Conferenza delle Regioni».
Alla Fiom di Genova traducono così il politichese: «Domani (oggi per chi legge, ndr) andiamo a Roma con una sola richiesta: annullare la bozza del piano - dice Bruno Manganaro - L'occupazione di Sestri questa primavera l'avevamo fatta perché quando l'azienda ti dice che non sei più efficiente prima o poi cerca di buttarti fuori. E infatti ora si dice che Sestri non farà più navi, ma verrebbe trasferita qui l'officina di Riva Trigoso, praticamente tecnici, ingegneri e quant'altro si ridurrebbero a fare eliche e assi motori? Non ci crede nessuno. Se si ritira il piano possiamo parlarne, altrimenti parte l'occupazione».


Quando la guerra dava lavoro

Fincantieri vuole chiudere le officine di Riva Trigoso: navi militari e oltre un secolo di storia per un'intera comunità

Contraddizioni di guerra.
Riva Trigoso, Liguria di Levante, è un paese che da più di un secolo vive attorno a un cantiere navale che produce navi militari. Qui la guerra dà paradossalmente vita.
L'intera comunità si è plasmata su una cultura che non è quella dell'operaio massa alla catena di montaggio, ma di un quasi-artigiano al lavoro su soluzioni all'avanguardia: "Il militare è la Formula Uno del mare", ricorda Tiziano Roncone, segretario Fim-Cisl del Tigullio.
Nel 1897, quando cominciò questa lunga storia, vennero a Riva operai di Sestri Ponente e di Livorno, maestranze specializzate nella costruzione di scafi che poi erano armati a Muggiano, cioè La Spezia. E' ancora così, cinque generazioni dopo.

Ora Fincantieri vuole chiudere l'impianto di Riva, l'ha scritto nel piano industriale 2010-2014. Non perché i suoi dirigenti abbiano avuto un sussulto pacifista o perché la guerra non "tiri", ma perché "chiudere qui è politicamente più facile che chiudere altrove - aggiunge Roncone - qui nessuno ha santi in paradiso, se mai qualche diavolo".
A casa ci finirebbero mille operai più quattrocento esterni delle ditte subappaltatrici. Per portare la produzione altrove.
La solita guerra tra poveri? Niente affatto: "L'Italia è una penisola, di mare ne abbiamo parecchio, possibile che non ci sia spazio per tutti gli otto impianti di Fincantieri?"

A Riva si stanno costruendo le nuove fregate della classe Fremm, quelle finanziate da un progetto franco-italiano che ne prevede dieci per la nostra Marina e undici per quella francese. "Fremm" sta per Fregate Europee Multi-Missione e in parole povere vuol dire che queste navi possono svolgere diversi compiti di difesa e attacco. Solo che i soldi francesi sono arrivati tutti e subito, in Italia sono state finora finanziate sei navi e si attende il resto.

Meno soldi per la guerra.

Ci sarebbe da rallegrarsene, se non fosse che alla fine le navi si costruiranno, ma Riva Trigoso chiuderà comunque. Il militare non crea più neanche occupazione, almeno dalle nostre parti.
"Tagliano duemilacinquecento posti di lavoro e spostano la produzione negli Stati Uniti - rivela Sergio Ghio, segretario Fiom nel Golfo del Tigullio - non in un Paese in via di sviluppo. Laggiù, Fincantieri costruirà cinquantasette nuovi pattugliatori e ha già assunto novecento operai".

E allora, perché non riconvertire al civile tutto il know-how accumulato a Riva?
"L'abbiamo già fatto - dice Roncone - abbiamo costruito le navi non 'veloci', ma quelle 'superveloci', che ci mettevano sei ore per andare da Genova a Porto Torres e quattro da Civitavecchia a Olbia, navi tutt'ora in servizio anche nel nord Europa".
Il tasto è però estremamente delicato, fa esplodere a sinistra l'annosa contraddizione tra pacifismo e difesa del posto di lavoro: "Parliamoci chiaro, ho passato trent'anni in quel cantiere - taglia corto Ghio - se le navi da guerra non le facciamo noi, le fa qualcun altro. Quell'impianto è nato e cresciuto con le commesse militari, senza di quelle non si mangia".

Tolto il cantiere, il paesino (in realtà una frazione di Sestri Levante) aveva due risorse economiche: la pesca e il turismo. La prima è ormai quasi un ricordo del passato, quando i "gozzi" dei pescatori locali, carichi di pesce, venivano issati a mano sulla spiaggia anche d'estate, in mezzo ai turisti che si godevano lo spettacolo. Il secondo è ormai pompato al massimo nei mesi estivi, con tanto di chiassosi megaraduni di Harley-Davidson che si aggiungono alla locale festa del "Bagnùn" (la versione rivana della zuppa di pesce).
"Il turismo dura quattro mesi - chiude Roncone - e il resto dell'anno? Anche chi ha un bar o un negozio è preoccupato per la possibile chiusura del cantiere, perché alla fine chi beve un caffè o compra qualcosa sono gli operai che smontano dal turno".

Gabriele Battaglia


Una medicina dei diritti perché tutti hanno diritto a essere curati al passo con i progressi della scienza medica
Duecento milioni di euro è il costo di un giorno di guerra in Afghanistan, lo stesso della costruzione, equipaggiamento e funzionamento per i primi tre anni di dieci nuovi ospedali in Africa.
“Si prendessero un giorno libero” dice Gino Strada, il fondatore di Emergency, durante la conferenza su ‘Guerra medicina e diritti umani’ all’incontro nazionale di Firenze.
Dieci centri d’eccellenza che Emergency vorrebbe costruire nel continente africano realizzando il progetto Anme (African Network of Medical Excellence) lanciato con un appello congiunto firmato a Karthoum, in Sudan, da undici Paesi per una “Rete sanitaria d’eccellenza in Africa”.
Il progetto nasce per affermare il semplice diritto di tutti gli esseri umani ad essere curati al passo con i progressi della scienza medica.
“In Africa ci sono le risorse umane, scientifiche ed economiche per realizzare tutto questo” dice Strada “non mancano i cervelli e spesso persone preparate al meglio sono costrette ad operare in condizioni di privazione estrema. Questo progetto vuole favorire lo sviluppo della medicina in quel continente”.
Basta pensare alla mortalità infantile: se ogni anno nel mondo muoiono dieci milioni di bambini nei primi cinque anni di vita, la metà è in Africa.
“Due sono i fattori che hanno ridotto la mortalità infantile in Europa dall’ottocento ad oggi, uno è l’igiene e la formazione delle levatrici, l’altro è lo sviluppo della medicina” continua il fondatore di Emergency, “quello che in Africa è mancato è il secondo fattore”.

Un’altra prospettiva da cui osservare la questione è quella della guerra: dal 1946 ad oggi nel mondo si sono svolti 165 conflitti che hanno provocato 25 milioni di morti. È il periodo a cui generalmente ci si riferisce come “dopoguerra”, ma è facile capire che la guerra non ha mai fine, mette in moto una spirale di cui per la maggior parte sono vittime i civili. “La guerra non è lo strumento con cui risolvere i problemi. L’unico antidoto alla guerra è la costruzione di diritti”, afferma ancora Strada, “la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo sancisce la fondamentale uguaglianza in dignità e diritti di ogni essere umano, il concetto che adesso dobbiamo inoculare nella comunità scientifica e nella società civile è quello di una medicina dei diritti”.
Il Manifesto per una medicina basata sui diritti umani, elaborato a Venezia nel 2008 in un incontro promosso da Emergency, prevede che il diritto alle cure mediche è fondamentale e irrinunciabile e che i sistemi sanitari siano basati su tre principi fondamentali: uguaglianza, qualità e responsabilità sociale, il ché tradotto in pratica significa che i bisogni sanitari in tutto il mondo siano trattati con mezzi al passo con i progressi della scienza medica.
Secondo l’Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma nel 2000 nel mondo sono stati spesi 798 miliardi di dollari per la guerra, nel 2009 la cifra è salita a 1531 miliardi di dollari.
Tradotto in termini un po’ più vicini a noi vuol dire 4,2 miliardi di dollari al giorno, 50mila dollari al secondo.
Ecco perché un solo giorno di guerra, in Afghanistan, vale la costruzione di dieci ospedali in Africa.

Alessandro Micci

Crisi: Epifani, paese a rischio pericoloso degrado

In questo quadro la CGIL lancia le iniziative per l’autunno, a fine novembre prevista una grande giornata di mobilitazione a Roma


 

 
 
 
 

Il paese versa in una condizione di “pericoloso degrado”, che parte dai conflitti all'interno della maggioranza di governo, per passare alle ultime vicende, come quella del motopeschereccio italiano mitragliato da una vedetta libica, fino ad arrivare all'irrilevanza del nostro paese nel quadro internazionale, come dimostra l'affidamento degli incarichi per gli ambasciatori Ue. E' il quadro molto duro circa lo stato del paese - colpito da una crisi economica ancora molto dura - tracciato dal Segretario Generale della CGIL, Guglielmo Epifani, nel corso della relazione introduttiva al Comitato Direttivo Nazionale, dove ha affrontato tutte le questioni sul tappeto: dalla crisi alla necessità di recuperare un potere contrattuale dal tentativo di isolamento. Inoltre, secondo il leader sindacale, se il paese vive una condizione difficile spetta alla CGIL stare in campo, con le sue proposte e con le sue iniziative di mobilitazione, rafforzando il tratto confederale e con in programma una grande giornata di mobilitazione da tenere a Roma a fine novembre.
 

“Siamo di fronte ad un rischio di pericoloso degrado paese - ha spiegato Epifani alla platea del Direttivo - che emerge da molti segnali allarmanti. E’ un quadro, rispetto al quale, un sindacato come la CGIL non può rinunciare, per le responsabilità e il ruolo che le compete, a reagire e ad esprimere un’idea alternativa per il paese”. Secondo il numero uno di Corso d'Italia diversi sono i segnali negativi, tra questi “c’è il livello e la modalità di scontro nella maggioranza e nel governo: non è una novità assoluta ma oggi ha toccato punte gravi con il pericoloso coinvolgimento degli stessi assetti istituzionali”. Altro esempio è la 'compravendita' di parlamentari, ovvero il gruppo dei 20 pronti a sostenere il governo per 'responsabilità nazionale': “Anche questo – ha detto Epifani - non è un fatto nuovo ma ora assume caratteristiche gravi; basti considerare la mancata nomina del ministro allo Sviluppo economico, vacante ormai da mesi, perché quella casella è diventata moneta di scambio nella trattativa di maggioranza”. Fatti che per il leader sindacale segnano “una delle pagine più buie della vita paese”.

Ma ancora: “Non ci sono parole, poi, per descrivere quanto avvenuto ai danni del peschereccio italiano colpito dalla motononave donata dal governo italiano e altrettanto incredibile è la giustificazione della vicenda espressa dal ministro degli Interni, che ha pensato di chiudere così la questione”. Così come colpisce la vicenda della scuola 'leghista' di Adro: “Non si può tacere sullo svilimento sostanziale della scuola pubblica, - ha accusato Epifani - non solo con il dramma dei precari e con il taglio delle risorse, ma con una imposizione di simboli di parte che non ha eguali in nessun paese democratico, con uno svilimento della funzione e persino della ‘sacralità repubblicana’ della scuola pubblica”. Infine, riferendosi all'affidamento degli incarichi per gli ambasciatori Ue all’Italia, alla quale sono andate le sedi di Albania e Uganda. “Non a caso è alla Germania, il primo paese manifatturiero dì Europa che fa una robusta politica industriale, che è andata la sede cinese”.

Un quadro duro, da dove emerge un paese su di una pericolosa china e che ha bisogno di un forte impegno della CGIL, alla quale “spetta di rafforzare profilo di iniziative con tratti sempre più fortemente confederali” mentre anche il quadro economico e sociale conferma “gli aspetti di difficoltà malgrado la probabile lieve salita del Pil, cosa del resto naturale dopo il crollo degli ultimi anni. L’Italia comunque sarà il paese che cresce meno in Europa con centinaia di migliaia di lavoratori in cassa integrazione e precari licenziati”. Secondo il numero uno della CGIL saranno necessari “sette anni per tornare alle condizioni pre-crisi” mentre la minore crescita del paese “non dipende dalla relazioni industriali, ma dall’assenza di una politica industriale, dall’inesistenza di investimenti e progetti su infrastrutture, servizi, formazione, ambiente e welfare”. Tutti temi che, per Epifani, “riguardano la crescita e lo sviluppo oltre che la condizione dei cittadini”.

Si rende per questi motivi necessaria “una svolta”, ed è per questo che, a proposito del rischio di caduta del governo su cui tutti si sono cimentati in questi giorni, “siamo stati i soli - ha affermato - a dire che il problema non è voto sì, voto no ma l’inadeguatezza delle politiche del governo a cui si accompagnano gli attacchi ai diritti lavoratori dei settori pubblici e privati”. Attacchi infatti vengono inferti nel pubblico dove “di fatto si va verso il blocco della contrattazione nazionale e di secondo livello, e verso il tentativo di cancellazione della rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro”. Il rischio è “che dove scompare il sindacato torni la peggiore politica e le logiche di clientela”. Quanto ai settori privati, ha precisato, “prosegue l’attacco di Fiat e Federmeccanica sulla derogabilità del contratto nazionale. E’ un vera e propria messa in discussione dell’idea di scambio negoziale che si traduce in un attacco alla FIOM e alla CGIL, un’operazione avallata da Confindustria”. Non è però un caso isolato: “Si vanno moltiplicando intanto gli attacchi ai diritti, a cominciare dal diritto di sciopero, da Pomigliano alla Sevel, dalla Ferrari all’Università di Bologna”. Attacchi che non hanno alcuna giustificazione perché “è pretestuoso e falso dire che la CGIL non firma contratti: sono stati sottoscritti decine di accordi anche dalla FIOM e sono stati in generale buoni contratti”.

Ma adesso la questione da porre è come riconquistare il potere contrattuale. “Tutta la CGIL - ha detto - sosterrà la giornata di mobilitazione della FIOM (16 ottobre, ndr.) ma tutti insieme dobbiamo costruire una via di uscita da questa situazione. Di fronte ad un attacco di queste proporzioni è necessario stare in campo con più modalità: non sarà solo il conflitto a consentire la riconquista dei tavoli di confronto. Al conflitto bisogna unire una capacità di proposta : la difesa del contratto nazionale è essenziale ma passa per l’innovazione del contratto nazionale stesso”.

In questo quadro la CGIL lancia le iniziative per l’autunno. “Nei prossimi giorni - ha annunciato Epifani - presenteremo proposte sugli ammortizzatori sociali, sul tema della democrazia e della rappresentanza sindacale, sul Mezzogiorno e sul sistema previdenziale”. Nello specifico ci saranno due richieste prioriterie: il superamento del tetto di 10.000 unità per il pensionamento dei lavoratori in mobilità posto dalla maovra correttiva e l’estensione della cassa integrazoine in deroga per il 2011 e il 2012. Inoltre, ha fatto sapere il segretario generale, “il 29 settembre aderiremo alla giornata di mobilitazione promossa dal sindacato europeo”. La CGIL, infatti, non è isolata rispetto al sindacato europeo, tutt’altro: “Ovunque sono stati fatti o si preparano scioperi contro le politiche dei governi”. E ancora la CGIL sosterrà con una forte iniziativa in programma il 24 settembre i settori della pubblica amministrazione e della scuola affinchè sia possibile eleggere a novembre le Rsu.

Infine, per la fine di novembre, “proporremo una grande giornata di mobilitazione a Roma”. Quanto al rapporto con CISL e UIL e in merito alla manifestazione da queste due promossa sul tema del fisco, Epifani ha detto: “CISL e UIL hanno deciso di andare ad una manifestazione senza la CGIL su un tema, il fisco, rispetto al quale i punti di vista sono sostanzialmente comuni: decisione poco comprensibile, mentre sarebbe necessario chiedere insieme al governo un tavolo di confronto mentre la situazione si fa più pesante per pensionati e lavoratori dipendenti (sui quali è persino cresciuto il peso del prelievo in questo anno difficile) e avanzano ipotesi - ha concluso Epifani - inaccettabili come la possibilità che le regioni taglino aumentino il prelievo addizionale Irpef a fronte di un taglio dell’Irap”.

 

17 settembre

Stefano Liberti

La lunga mano del Colonnello sul tonno rosso

«Ci permetterà di salvare molte vite». Così l'allora ministro dell'interno Giuliano Amato annunciava il 29 dicembre 2007 la firma del protocollo per i «pattugliamenti congiunti» delle coste libiche. Un protocollo che sarebbe entrato in vigore solo a un anno e mezzo di distanza, dopo cioè la firma del «Trattato di amicizia, cooperazione e partenariato» nell'agosto 2008 e la sigla di un ulteriore protocollo di attuazione il 4 febbraio 2009 tra il ministro degli interni Roberto Maroni e il suo omologo libico. Nel protocollo - firmato da quello stesso centro-sinistra che ha votato in massa il Trattato di amicizia e che oggi ne chiede la revisione - si prevede la consegna alla Jamahiriya di sei unità navali da usare «per operazioni di controllo, ricerca e salvataggio nei luoghi di partenza e di transito delle imbarcazioni dedite al trasporto di immigrati clandestini».
Da allora, le sei motovedette sono state usate per riportare in Libia gli immigrati intercettati dalle navi militari italiane e rimandate indietro dal maggio 2009 nelle cosiddette operazioni di «respingimento». Ma non solo: vengono usate per i generali compiti di pattugliamento delle coste libiche, come ha dimostrato in modo eclatante l'episodio di domenica sera.
Un compito che appare tanto più sorprendente se si considera che l'estensione delle acque territoriali della Jamahiriya è oggetto di contenzioso internazionale. Tripoli ritiene dal 1975 che le acque del Golfo della Sirte siano parte integrante del proprio territorio e integra quindi nelle proprie acque territoriali l'area di 12 miglia a partire da una linea retta che unisce i due punti di entrata geografici del golfo. Dal 2005, poi, ha stabilito in modo unilaterale una zona di pesca protetta di 62 miglia, all'interno della quale nessuno può pescare senza una particolare licenza. Così, le acque territoriali libiche si estendono a 74 miglia per tutta l'estensione delle coste e raggiungono anche le 100 miglia in corrispondenza del golfo della Sirte. Quando il ministro degli esteri Franco Frattini sostiene che «l'Ariete pescava illegalmente», fa quindi propria una decisione dei libici che né la comunità internazionale né l'Italia hanno mai riconosciuto ufficialmente - tanto che persino il Trattato di amicizia rimanda a «future intese» per risolvere il contenzioso.
Ma perché la Libia ha esteso a dismisura le proprie acque territoriali? Se per alcuni dietro la decisione ci sono ragioni di «sicurezza nazionale» (le acque della Sirtica sono state teatro delle grandi manovre statunitensi negli anni '80 per rovesciare il Colonnello Gheddafi), per altri i motivi sarebbero ben più prosaici. La zona in questione è infatti ricca del pregiatissimo «tonno rosso», specie in via d'estinzione e sottoposta a quote di pesca nel Mediterraneo. A quanto ha denunciato il Wwf, riprendendo un rapporto della «Tuna ranching intelligence unit» (uno studio finanziato dai produttori di tonno rosso spagnoli), per pescare in Libia tonno rosso bisogna necessariamente passare per una società con sede a Tripoli, la Nour-Al Haiat Fishing Co. (Nafco), il cui capo è Alladin Wefati, intimo amico del secondogenito e successore designato del colonnello Seif el Islam Gheddafi. La Nafco stabilisce joint-venture con società spagnole, italiane, francesi asiatiche per pescare il tonno rosso, fornendo anche tutto l'apparato logistico. Secondo lo stesso rapporto, esisterebbero voci non confermate che molto tonno è pescato illegalmente e fuori dalle quote, per poi essere congelato in alto mare in pescherecci asiatici
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Guido Viale

Lo specchietto di Marchionne

«È curioso notare come Morgan Stanley, banca storicamente vicina a Marchionne, non consideri le proiezioni finanziarie sottostanti a Fabbrica Italia, il programma di 20 miliardi di investimenti in 5 anni presentato dalla Fiat al governo per raddoppiare la produzione di auto nel paese e ottenere via libera alla chiusura di Termini Imerese e alle ristrutturazioni prossime venture». Così Massimo Mucchetti sul Corsera del 13 settembre, analizzando la separazione del comparto auto e relative componenti da quello dei veicoli industriali e delle macchine per il movimento terra.
Si tratta di una operazione finalizzata a separare la «polpa», cioè le produzioni in attivo con una redditualità ancora sicura, che in questo modo resteranno saldamente nelle mani della famiglia Agnelli, dalle produzioni a rischio, cioè l'auto, che non promettono niente di buono - nonostante l'ottima performance del settore «lusso», Ferrari e Maserati - che forse riusciranno a salvarsi attraverso la fusione con Chrysler, se l'apparente ripresa di quest'ultima si rivelerà effettiva. Ma che potrebbero anche finire tra le fauci di qualche gruppo più forte, se le operazioni di ingegneria finanziaria per metterle al sicuro da una scalata ostile andranno in porto; e soprattutto se il mercato euroamericano dei veicoli di gamma bassa, in cui opera la Fiat, offrirà un respiro. Il che non pare probabile.
Nello stesso articolo il Corriere ci informa che «secondo la società di consulenza strategica americana A. T. Kerny, la domanda di automobili crescerà soprattutto in Asia, mentre in Europa e in Nord America - i paesi in cui Fiat-Chrysler dovrebbe piazzare la maggior parte dei 6 milioni di auto che Marchionne ritiene indispensabili per la sopravvivenza del gruppo - rimarrà ferma in cifra assoluta». Cosa talmente nota e ovvia che forse per saperlo non era indispensabile il ricorso a una società di «consulenza strategica».
In un contesto del genere il fatto che al momento di dividersi le spoglie del gruppo tra polpa e cartilagini, il piano Fabbrica Italia - 20 miliardi di euro e un milione e mezzo di vetture da produrre negli stabilimenti italiani, contro le 650mila attuali - non venga nemmeno menzionato non è «curioso», come sostiene l'articolo, ma altrettanto ovvio.
Fabbrica Italia - come Mucchetti si limita a insinuare: «La verità è che una cosa sono i piani, un'altra i discorsi e una terza sono le decisioni reali quando si fa cassa integrazione, e il debito finanziario... aumenta da 28 a 30 miliardi» - non è che uno specchietto per le allodole: per governo e sindacati collaborazionisti, più la foresta di intellettuali e politici che ha dato loro credito. Serve a giustificare non solo la chiusura di Termini Imerese, scontata ormai da almeno tre anni, nonostante che per non vederla i sindacati - tutti - abbiano continuato a nascondere la testa sotto la sabbia; ma serve anche, e soprattutto, a giustificare il ben più sostanziale attacco contro le condizioni di vita e di lavoro lanciato con l'accordo di Pomigliano, ma ormai in dirittura d'arrivo per la sua estensione a tutti gli stabilimenti del gruppo - e poi a tutte le aziende associate a Federmeccanica; e poi a tutto il resto dei lavoratori italiani - in nome della «competitività».
In cambio di che cosa? Di niente, se al momento di spartirsi le spoglie, e di mettere al sicuro il malloppo degli Agnelli, il gigantesco indebitamento a cui il settore auto del gruppo dovrebbe andare incontro per finanziare quel piano non viene nemmeno preso in considerazione e, anzi, i conti del primo semestre dell'anno indicano addirittura una netta riduzione degli investimenti. D'altronde, nemmeno Marchionne ha mai data per scontata la realizzazione del suo piano industriale; la ha sempre subordinata a una ripresa del mercato che nessuna delle valutazioni correnti consente di prevedere.
Quali siano i piani effettivi di Marchionne non solo per lo stabilimento di Pomigliano, ma anche per Mirafiori, Sevel e persino Melfi, forse non lo sa nemmeno lui: aspetta le occasioni: ieri erano la Chrysler (andata a «buon fine», per lo meno per ora) e la Opel (mancata); oggi sono la Serbia (peraltro non così rapida come prospettato); domani chissà? Potrebbe anche essere l'assorbimento da parte di un gruppo più grande: magari con uno spezzatino tra Fiat, Lancia e Alfaromeo. O financo tra i vari stabilimenti di produzione. Il cui valore - in borsa - dipenderà soprattutto da quanto operai e sindacati avranno piegato la testa di fronte ai suoi ricatti.
Che fare allora? Non solo la politica industriale, e nemmeno solo la politica tout court, ma la vita di decine di migliaia di lavoratori - della Fiat e dell'indotto - e l'economia dell'intero paese non possono continuare a restare alla mercé delle occasioni in cui si imbatterà Marchionne. La crisi ambientale del pianeta Terra mette all'ordine del giorno l'urgenza di coinvolgere le risorse e le forze produttive di ogni territorio in un grandioso progetto di riconversione. Gli stabilimenti della Fiat e dell'indotto hanno tutte le carte in regola per venire gradualmente impegnate in un percorso del genere.
Per la prima volta la questione ambientale si confronta non solo con le convenienze dell'impresa (un tema su cui si sono esercitati da alcuni decenni, e per lo più a vuoto, nonostante il profluvio dei testi prodotti, gli aedi del pensiero unico e delle virtù del mercato), ma con il problema dell'occupazione e della condizione di lavoro in fabbrica. Difendere l'una e l'altra non può essere fatto senza porre all'ordine del giorno, a livello nazionale e internazionale, ma soprattutto nei singoli territori, a partire dalle situazioni di crisi, il tema di una conversione produttiva: dalle produzioni ambientalmente nocive e senza prospettive di mercato a quelle con un sicuro avvenire in un pianeta in cui è sempre più urgente fare i conti con la sua sopravvivenza. Che è anche l'unica strada per evitare un irreversibile declino del paese.

 

Intifada kashmira

La fine della guerriglia separatista, e una legge che premia i soldati che uccidono di più, hanno provocato un'escalation dei crimini commessi dalle truppe indiane contro i civili


Nel Kashmir sotto controllo militare indiano è finita la rivolta armata, ma è esplosa la rivolta popolare. Oltre trenta manifestanti kashmiri sono stati uccisi dalla polizia indiana negli ultimi cinque giorni, più di cento negli ultimi tre mesi. Nonostante il coprifuoco ininterrotto imposto dalle autorità di Nuova Delhi, le proteste continuano a dilagare e farsi sempre più violente. Più la repressione si fa sanguinosa, più cresce la rabbia popolare.

Il popolo kashmiro continua a invocare giustizia per i crimini commessi dalle truppe indiane nei confronti dei civili, chiedendo al governo di Manmohan Singh la revoca della Legge sui poteri speciali delle forze armate - in vigore dal 1990 nello stato del Jammu-Kashmir - che garantisce l'impunità totale ai militari in servizio nella regione e premi in denaro - i cosiddetti 'gallantry awards', premi al valore - ai soldati che uccidono guerriglieri.

Con il progressivo scemare delle attività dei gruppi guerriglieri indipendentisti sostenuti dal Pakistan, le truppe indiane, per continuare a percepire questi premi, hanno iniziato a inscenare 'falsi combattimenti' con falsi nemici uccisi. I soldati, in particolare le RR (i Rashtriya Rifles, forze speciali antiterrorismo note per la loro brutalità), rapiscono civili dai villaggi di montagna, li giustiziano nei boschi e poi li spacciano per guerriglieri uccisi in combattimento.

Questo fenomeno, iniziato un paio di anni fa, in coincidenza, appunto, con il declino della violenza separatista, dalla scorsa primavera ha assunto una dimensione impressionante, con decine di civili trucidati dalle RR ogni settimana. Crimini che hanno scatenato crescenti proteste da parte della popolazione locale, sopratutto giovani, sfociate nelle grandi manifestazioni di giugno e luglio, riprese nei giorni scorsi dopo la fine del Ramadan.

Il premier indiano Singh ha dichiarato che nei prossimi giorni discuterà della situazione in Kashmir con tutte le forze politiche nazionali, di governo e opposizione, valutando l'eventualità di una parziale modifica alla contesta Legge sui poteri speciali delle forze armate.
Nel frattempo, in Kashmir, il coprifuoco rimane in vigore a tempo indeterminato, la regione è completamente isolata, e l'esercito presidia città e villaggi fantasma, con la gente costretta a chiudersi in casa.

Enrico Piovesana

 

Narcoguerra

Eroina afgana sui voli militari britannici di ritorno dal fronte. La notizia rafforza i sospetti sui reali interessi economici che si nascondono dietro la guerra in Afghanistan

La notizia, diffusa lunedì dalla Bbc, dei militari britannici e canadesi accusati di trasportare eroina in Europa sfruttando l'assenza di controllo sui voli militari di ritorno dal fronte, non fa che rafforzare i sospetti sui reali interessi economici che si nascondono dietro la guerra in Afghanistan.

Il traffico 'militare' di eroina scoperto tra le basi Nato nel sud dell'Afghanistan (Helmand e Kandahar) e l'aeroporto militare di Brize Norton, nell'Oxfordshire, verrà liquidato con la solita spiegazione delle 'mele marce', del caso isolato che riguarda solo alcuni individui.

Più probabilmente si tratta invece della punta dell'iceberg, o meglio delle briciole di un traffico ben più grande e strutturato che i suoi principali gestori - militari e servizi segreti Usa - lasciano ai loro alleati, evidentemente meno bravi di loro nel non farsi scoprire.

Solo pochi mesi fa sulla stampa tedesca era venuto fuori che una delle principali agenzie private di contractors addette alla logistica delle basi Nato in Afghanistan - la Ecolog, sospettata di legami con la mafia albanese - era coinvolta in traffici di eroina afgana verso il Kosovo e la Germania.

L'anno scorso fece molto scalpore la rivelazione, del New York Times, che Walid Karzai, fratello del presidente afgano e principale trafficante di droga della provincia di Kandahar, fosse da anni sul libro paga della Cia.

"I militari americani non contrastano la produzione di droga in Afghanistan perché questa frutta loro almeno 50 miliardi di dollari all'anno: sono loro a trasportare la droga all'estero con i loro aerei militari, non è un mistero", dichiarava nell'estate 2009 a Russia Today il generale russo Mahmut Gareev.

Già nel 2008 la stampa russa, sulla base di informazioni di intelligence non smentite dall'allora ambasciatore di Mosca a Kabul, Zamir Kabulov, rivelava che l'eroina viene portata fuori dall'Afghanistan a bordo dei cargo militari Usa diretti nelle basi di Ganci, in Kirghizistan, e di Inchirlik, in Turchia.

Nello stesso periodo, un articolo apparso sul quotidiano britannico Guardian riferiva delle crescenti voci riguardanti la pratica dei militari Usa in Afghanistan di nascondere la droga nelle bare dei caduti aviotrasportate all'estero, riempite di eroina al posto dei cadaveri dei soldati.

"Le esperienze passate in Indocina e Centroamerica - si leggeva, sempre nel 2008, sull'americano Huffington Post - suggeriscono che la Cia potrebbe essere coinvolta nel traffico di droga afgana in maniera più pesante di quello che già sappiamo. In entrambi quei casi gli aerei Cia trasportavano all'estero la droga per conto dei loro alleati locali: lo stesso potrebbe avvenire in Afghanistan. Quando la storia della guerra sarà stata scritta, il sordido coinvolgimento di Washington nel traffico di eroina afgana sarà uno dei capitoli più vergognosi".

Nel 2002 il giornalista ameriano Dave Gibson di Newsmax ha citava una fonte anonima dell'intelligence Usa secondo la quale "la Cia è sempre stata implicata nel traffico mondiale di droga e in Afghanistan sta semplicemente portando avanti quello che è il suo affare preferito, come aveva già fatto durante la guerra in Vietnam".

Secondo lo storico Usa Alfred McCoy, principale studioso del coinvolgimento della Cia nel narcotraffico in tutti i teatri di guerra americani degli ultimi cinquant'anni (fino alla resistenza antisovietica afgana degli anni '80), il principale obiettivo dell'occupazione americana dell'Afghanistan era il ripristino della produzione di oppio, inaspettatamente vietata l'anno prima dal Mullah Omar nella speranza di guadagnarsi il riconoscimento internazionale.

I fatti, e il buon senso, sembrano confermare la tesi di McCoy: dopo l'invasione del 2001, la produzione e lo smercio di oppio afgano (e dell'eroina) sono ripresi a livelli mai visti, polverizzando in pochi anni i record dell'epoca talebana, mentre le truppe Usa e Nato si sono sempre rifiutate di impegnarsi nella lotta al narcotraffico, continuando a sostenere i locali signori della droga.

Rimane una domanda di fondo: perché mai gli apparati militari e d'intelligence americani, in teoria dediti alla sicurezza nazionale e internazionale, mirano da decenni al controllo del narcotraffico? Per la venalità dei loro vertici corrotti? Per garantirsi fondi neri per operazioni coperte? O forse dietro c'è qualcosa di più strategico e sistemico che, alla fine, riguarda realmente il mantenimento della la sicurezza?

Il direttore generale dell'Ufficio Onu per la droga e la criminalità (Unodc), Antonio Maria Costa, ha implicitamente risposto a questa domanda, dichiarando che gli enormi capitali derivanti dal riciclaggio dei proventi del narcotraffico costituiscono la linfa vitale che garantisce la sopravvivenza del sistema economico americano e occidentale nei momenti di crisi.

''La maggior parte dei proventi del traffico di droga, un volume impressionante di denaro, viene immesso nell'economia legale con il riciclaggio'', affermava Maria Costa nel gennaio 2009. ''Ciò significa introdurre capitale da investimento, fondi che sono finiti anche nel settore finanziario, che si trova sotto ovvia pressione (a causa della crisi finanziaria globale, ndr)''.

''Il denaro proveniente dal narcotraffico attualmente è l'unico capitale liquido da investimento disponibile'', proseguiva il direttore dell'Unodc. ''Nel 2008 la liquidità era il problema principale per il sistema bancario e quindi tale capitale liquido è diventato un fattore importante. Sembra che i crediti interbancari siano stati finanziati da denaro che proviene dal traffico della droga e da altre attività illecite. E' ovviamente arduo dimostrarlo, ma ci sono indicazioni che un certo numero di banche sia stato salvato con questi mezzi''.

Enrico Piovesana

 

13 settembre

Sicurezza? Per il governo è un costo da tagliare

Una lunga e drammatica serie di incidenti durante lavori di manutenzione in luoghi come silos o cisterne. Capua l'ultimo, in precedenza era successo in Puglia a fine agosto e poi indietro il 12 gennaio in provincia di Alessandria, con due operai morti, investiti da un flusso di gas durante i lavori in un distributore in disuso. L'anno scorso era successo a giugno in Liguria, ancora due morti per la pulizia di una vasca di un depuratore e poi tre operai in Sardegna in una cisterna delle raffinerie Saras, altri casi nel 2008 in Sicilia, Puglia e Veneto. Una conta dei morti che colpisce i lavoratori edili, quelli a cui le aziende affidano i lavori di manutenzione al di fuori del loro core business. Il perché di un simile disastro lo spiega Walter Schiavella, segretario confederale della Fillea-Cgil.

Qual è il meccanismo che rende insicuro fino alla morte questo tipo di lavoro?
Il settore edile in Italia è composto al 95% da imprese piccole e piccolissime, che svolgono un lavoro non standardizzabile, come invece accade per un impianto produttivo. Si tratta di un fenomeno di polverizzazione che non ha uguali in Europa. In più gli appalti di manutenzione in questi ambienti sono una percentuale bassa del volume di affari, così gli operai non hanno un'esperienza specifica sufficiente. E poi c'è un altro fattore: per fare il manovale la legge prescrive un periodo di apprendistato ma quella stessa persona può andare alla camera di commercio e aprire un'attività senza alcun controllo degli standard di qualità.

E la formazione?
Come si fa a parlare di formazione quando le ditte devono competere in un mercato in crisi dove la norma è affidare il lavoro dopo gare al massimo ribasso, che sta arrivando oltre il 50%, in una filiera di subappalti sempre più lunga. E' ovvio che così i rischi connessi alla sicurezza si scaricano in basso, sul segmento più fragile. Gli ultimi decreti del governo in tema di sburocratizzazione del settore, come l'abolizione della Dia, la dichiarazione di inizio attività, sostituita dalla Cia, una semplice comunicazione, hanno come effetto immediato di rendere il mercato sempre più selvaggio e quindi insicuro, in un mercato a maggior evasione fiscale, iva e contributiva. L'Inail dice che sono diminuiti gli infortuni sul lavoro? A noi risulta altrimenti, con un incidente su tre non denunciato.

I ministri Sacconi e Tremonti sembrano poco preoccupati per il tema della sicurezza
Il primo ieri vantava l'approvazione del Testo unico ma la verità è che quella licenziata dal governo è una versione indebolita. Sul campo restano pochi ispettori a cui si chiede di non badare alle norme burocratiche ma la burocrazia serve a salvaguardare la sostanza. La verità è che l'esecutivo ha una strategia precisa: non ha messo una lira per la sicurezza del territorio e l'ammodernamento delle infrastrutture, come in altri paesi, per uscire dalla crisi economica, stanno invece spingendo le imprese a cercare guadagni attraverso la deregolamentazione del mercato del lavoro, liberato dalle regole. La sicurezza per loro è solo una voce di costo.

 

Afghanistan, soldati statunitensi uccidevano ''per gioco''

Tre i civili morti. I militari ''collezionavano le dita come trofei''

"Uccidevano a casaccio e collezionavano le dita dei morti come trofei". Cinque soldati statunitensi di stanza in Afghanistan sono finiti sotto corte marziale perché uccidevano civili afghani senza alcuna raigone se non il divertimento personale. La notizia, uscita sul Guardian, riprende un servizio del quotidiano dell'esercito Usa Army Times. Il sergente Calvin Gibbs, 25 anni e altri quattro complici avrebbero costituito il cosiddetto "kill team". Ora rischiano la pena di morte per aver ucciso tre uomini afghani per puro divertimento in distinte «esecuzioni a casaccio» nel corso di quest'anno.

La prima vittima è stata Gul Mudin. I soldati l'avrebbero ferito con una granata e poi finito a colpi di fucile in un campo di papaveri vicino al villaggio di La Mohammed Kalay. Marach Agha è invece stato ucciso in febbraio. Due mesi dopo toccò a Mullah Adahdad.

Oltre al "kill team" ci sarebbero altri sette soldati che avrebbero coperto gli omicidi e malmenato una recluta che voleva denunciare tutto. Secondo il Guardian le accuse di crimini di guerra contro Gibbs e i compagni sarebbero le più gravi dall'inizio del conflitto nel 2001. Secondo il giornale inglese Gibbs avrebbe iniziato a parlare degli omicidi a novembre e si sarebbe anche vantato di averla fatta franca in Iraq in una situazione simile. Gibbs e gli altri quattro soldati, Jeremy Morlock, Michael Wagon, Adam Winfield e Andrew Holmes, negano ogni accusa.

 

10 settembre

 

 

Articolo 21

"Povero Silvio non lo fanno lavorare, persino la Costituzione ce l'ha con lui..", sembra una gag del comico Cornacchione, invece sono parole di uno dei suoi fedelissimi, l'onorevole Giorgio Stracquadanio.

Forse pensandoci bene il fedelissimo non ha tutti i torti. Senza questa maledetta Costituzione forse Berlusconi avrebbe potuto nominare direttamente Fedele Confalonieri al ministero che si occupa delle tv, anzi forse senza questo maledetto pezzo di carta e magari anche senza leggi e persino senza i 10 comandamenti sarebbe stato possibile lasciare Scajola al suo posto, oppure richiamare Previti agli interni,oppure mettere Dell'Utri direttamente alla giustizia magari per occuparsi del processo breve o meglio del processo brevissimo.

Senza costituzione, senza giudici, senza poliziotti, forse, sarebbe stato possibile richiamare dall'al di là il mafioso Mangano e affidargli qualche autorità di garanzia, forse la medesima corte costituzionale.

Senza Costituzione sarebbe stato possibile imporre la legge bavaglio, liquidare le trasmissioni e i giornalisti sgraditi, sottoporre a perizia psichiatrica preventiva "quei pazzi dei giudici", oppure sbaraccare quella vergogna delle scuole pubbliche, della sanità per tutti e quella anticaglia dell'articolo 41 della costituzione che ancora si ostina a tutelare la dignità del lavoro e dei lavoratori, anche quelli di Melfi o di Arcore.

Si ha ragione Stracquadanio senza questa carta voluta dai padri e dalle madri costituenti, Berlusconi avrebbe avuto meno problemi a mettersi sotto i piedi la repubblica, la legalità repubblicana, il parlamento, ciò che ancora resta della divisione dei poteri, pilastro di ogni ordinamento che voglia definirsi democratico.

Proprio perché Stracquadanio ha ragione e ha ben interpretato gli umori reali del piccolo Cesare, sarà bene non perdere altro tempo e aderire tutti alla grande manifestazione per la Costituzione convocata a Roma per il prossimo 2 ottobre.

Non è tempo di distinguo, tanto meno di ripicche e di gelosie di sigla o di organizzazione, di fronte al disegno di fare a pezzi la nostra carta fondamentale, bisogna ritrovarsi tutti, compresa la destra di Fini, attorno alla bandiera nazionale per liberare l'Italia da un incubo durato troppo a lungo.

Per tornare a litigare il tempo non ci mancherà di certo, ma non è questo il momento.

Giuseppe Giulietti

 

Sfruttati dal nemico

Al nero, giorno a giorno, per venti euro e nessun diritto. Operai come tanti. Ma sono palestinesi e costruiscono insediamenti ebraici

Scritto da Francesca Borri

Si spara a vista lungo il Muro, alle quattro del mattino, presunzione di terrorismo contro qualsiasi ombra in movimento. Ma lì dove si dilegua l'ultima luce del checkpoint, una notte indistinta di luna avara e aghi di freddo torna a dilagare sull'altalena delle colline, e tutto si spiana di ogni retorica e maiuscola - e il Muro si asciuga a muro, cemento come ogni altro, tratti di inferriate tratti di filo spinato: e tratti di niente. Misura settanta centimetri, qui, la pace, la coesistenza, e non ha la forma solenne di un trattato, ma quella furtiva di un buco.

Il tempo ha cadenza ebraica, nelle campagne intorno a Hebron, la settimana ricomincia la domenica mattina. Palestinesi da un lato, e un furgoncino a recuperarli dall'altro. Perché è come Alice attraverso la siepe - si entra nemici, minaccia demografica cancro di Israele, si esce disinfettati in tuta blu. Operai. Operai, al nero, giorno a giorno, per venti euroe nessun diritto a costruire insediamenti - le strade che sarà proibito percorrere, le città che sarà proibito abitare, il Muro che sarà proibito oltrepassare: mattone a mattone, il proprioapartheid. Lavorano in Israele in sette su dieci, clandestini per oltre la metà. Perché lì dove non sono ancora arrivate le confische e le ruspe, a livellare via campi e case, le leggi, a sviare lontano ogni goccia d'acqua, il coprifuoco e i checkpoint, a convertire la vita in carcere, lì dove non sono arrivati i missili e le granate - lì è arrivato l'assedio della disoccupazione: della povertà e della fame. Il Muro si è trascinato via i nove decimi della terra coltivata, da queste parti, mozziconi di tronchi puntellano adesso le colline, sono lapidi di ulivo. Alle quattro di ogni domenica mattina, il futuro è largo settanta centimetri.

Sono in cinque, il sesto è Yousef, ma un flessibile gli ha segato via quattro dita. Con la mano che rimane, tenta richieste di autorizzazione per curarsi in Israele - più esattamente, a Gerusalemme Est, la metà in teoria palestinese. E a proprie spese, naturalmente, "mai avuto alcuna assicurazione. E non importa che hai costruito il loro ospedale, e che ti sei ferito per costruirlo. Hai bisogno di una diversa autorizzazione. Perché se anche sei regolare, con il tuo tesserino non entri in Israele. Entri solo in una fabbrica specifica, o in uno specifico insediamento".

Sono anni qui ormai che le Convenzioni di Ginevra rimbalzano contro la Corte Suprema. I territori palestinesi, sostiene, non sono occupati: sono semplicemente 'amministrati', perché questo era un deserto, solo una anonima res nullius, e come è possibile occupare qualcosa che non appartiene a nessuno? - l'eccezione è la legislazione sul lavoro. Perché se fossero territori amministrati, sarebbero anche qui in vigore le Leggi Fondamentali di Israele: incluso il principio della parità di trattamento per tutti i lavoratori, senza discriminazioni. Nei territori occupati, invece, il diritto internazionale vieta di modificare la legislazione esistente. E dunque Israele, che nei territori amministrati modifica ogni norma che le conviene modificare, ignora ogni convenzione che le conviene ignorare, in questi stessi territori, e però per l'occasione occupati, applica disciplinata la legislazione sul lavoro giordana, a Gaza quella egiziana, entrambi impolverati residui degli anni Sessanta - è larga settanta centimetri, certe volte, l'unica democrazia del Medio Oriente.

"E se anche l'avessi, l'assicurazione: ma chi ti rilascerebbe l'autorizzazione per entrare in Israele a fare causa?". Parla in bilico su un ottavo piano, Yasser, una laurea in biologia e né impalcatura né imbragatura. Sono duecento shekel, circa quaranta euro in un ufficio di Ramallah, per avere un tesserino magnetico, validità un anno. Infiniti moduli da compilare e infinite impronte da timbrare, ma non è ancora un permesso di lavoro: è solo il permesso di chiedere il permesso - è una schedatura generalizzata, in realtà, e infatti è competenza della polizia, contiene informazioni, spiegano vaghi, sulla 'sicurezza'. Attesta cioè che non si è pericolosi - "bisogna dimostrare la propria innocenza qui, si è terroristi fino a prova contraria. Prima di Oslo, era molto più semplice. Si poteva entrare liberamente in Israele: ed era la metà del reddito dei Territori. Oggi un'autorizzazione è una rarità. E al nero è come ovunque: ti pagano solo se e quando lavori, e certe volte non ti pagano affatto. E non hai la minima garanzia: ferie, infortunio - pensione: niente. Neppure la garanzia di lavorare anche domani. Alla fine rimani comunque sotto la soglia di povertà''.

''Ma non è questione di Israele. Perché sono stato tre anni a Dubai, e esattamente nelle stesse condizioni.Solo che il capo era arabo, e mi chiamava fratello. E non è vero che a Dubai, se non altro, non ero un traditore. I primi a libro paga, qui, sono i notabili dell'Autorità Palestinese. Abu Mazen ha cominciato a frenare sul Rapporto Goldstone quando gli è stato ricordato che la nuova società di telecomunicazioni a cui partecipano due suoi figli è ancora in attesa della concessione di frequenze. Concessione di competenza di Israele. E anche nei Territori: per un impiego statale, e cioè il solo possibile in un'economia ormai inesistente, è necessaria adesso una imprecisata 'approvazione di sicurezza'. Identica a quella necessaria per Israele. Perché la pubblica amministrazione non è che uno strumento clientelare per cementare lealtà e consenso. Fayyad ha licenziato oltre 40mila funzionari vicini a Hamas: a Gaza Haniyeh, in rappresaglia, ha sostituito tutti i funzionari legati a Fatah. Chi può dire, qui, di non essere un traditore? Anche perché, come sempre, i criteri in base a cui un'autorizzazione, e poi un permesso, sono rilasciati o negati, o anche improvvisamente ritirati, non sono noti. Nessuno ha diritto a una motivazione: solo una luce rossa che lampeggia al checkpoint, un giorno come un altro, e si è in stato di fermo. E comunque, un permesso è valido tre mesi: dopo tre mesi si ricomincia. Oppure si telefona a Mordechai - non di sabato, naturalmente. Mille shekel per un tesserino magnetico, cinquecento al mese per un permesso di lavoro. Ma chi può dire, qui, che l'altro è solo un nemico?".

Le donne cuciono intanto, in casa: kippah - si chiama globalizzazione, la Cina che sbarca in Medio Oriente. Uno shekel l'una, sessanta in vetrina a Gerusalemme. "Con il pretesto della modernizzazione, la nostra economia è stata integrata in quella di Israele. Ma più che integrata, incastrata: strutturalmente subordinata, per impedire un futuro stato autonomo e sovrano. Le tasse palestinesi sono riscosse da Israele, e spesso reinvestite in Israele, invece che nei Territori e nelle loro infrastrutture: insieme alla chiusura delle banche arabe, questo ha congelato lo sviluppo industriale. Mentre un sistema di licenze ha consentito a Israele di indirizzare l'agricoltura in funzione delle sue esigenze: di decidere cosa è possibile coltivare e commercializzare - con i suoi prodotti che dilagano, inevitabilmente più convenienti: perché Israele controlla ogni goccia d'acqua, e il suo prezzo. Così come controlla le frontiere''.

''Tutto quello che compri è fabbricato in Israele, qui, o importato attraverso Israele. Ogni nuova impresa non rafforza la nostra economia, ma la nostra dipendenza. Sono quarant'anni che negoziano: e ancora non si sono accorti che questa non è un'occupazione: è un'annessione. Collabora quanto me, chi vive nei Territori". Perché è la risacca della storia, ancora, ad abbattersi su infinite vite uguale a sempre - dominanti e dominati, indipendentemente da ogni nazionalità e frontiera. Perché è israeliano il mediatore, per le kippah, come è israeliano quel furgoncino, dall'altra parte del Muro. Ma è palestinese questo esercito di cemento che avanza e devasta, questa nuova fanteria di case a presidio di ogni collina - e non solo la manodopera: è palestinese il cemento del Muro. Arriva da un'azienda legata a Fatah - è larga settanta centimetri, certe volte, la Resistenza davanti al denaro.

" Har Homa non è un insediamento, in realtà: è una saracinesca. Recide definitivamente Gerusalemme dalla Cisgiordania. Non è progettata per vivere, ma per vincere. Non ha un centro né una piazza, solo questa strada che si infila dentro e si avvolge fino su. Poi non rimane che tornare giù. Sono solo case, e case e case e case, e tutte identiche e tutte perfette e tutte prive di qualsiasi sbavatura di vita. Finestre chiuse: e non un'auto, un negozio. Ma perché come ogni insediamento: in realtà non è che periferia. Incroci questi sguardi impolverati, la sera, di ritorno da giornate difficili: e immagini queste esistenze scartavetrate dai milioni di dollari destinati alle armi, invece che - invece che alla vita: queste esistenze tristi: e così simili alla tua. La maggioranza dei coloni è solo gente povera. Gente che accetta di finire in colline sperdute, prima ancora che rischiose, semplicemente perché costa meno. Gente che non ha alternative: gente come me''.

''Ma sono come i soldati: perché non è vero che i giovani israeliani sono tutti pronti all'esercito. I refusenik, i politicamente motivati, sono una minoranza: ma la maggioranza è comunque una maggioranza che si nasconde dietro un certificato medico. Israele è un paese fondamentalmente di indifferenti. Di indifferenti e di smarriti. In tre anni qui, l'unico con cui ho parlato è uno che si era perso. Si è avvicinato con paura: perché era immigrato da poco: dalla Tunisia. E con il suo ebraico stentato, temeva di essere scambiato per arabo e essere aggredito. Sarebbe infinitamente più semplice, qui, se davvero avessimo un Muro: se davvero sapessimo chi sta da una parte e chi dall'altra. Cosa aspettarci, da una parte e dall'altra. Poi Israele, certo, ha la sua minoranza di attivisti. I suoi trentasei giusti. Questa collina, per esempio: era un bosco. Gli ambientalisti si sono opposti fino all'ultimo. Come gli archeologi: i soli che davvero hanno contestato il Muro - in difesa dei marmi e delle tombe, non certo di noi vivi. Per il resto, la massima ambizione, per la comunità internazionale, è il congelamento degli insediamenti. Che però non esclude l'espansione necessaria alla cosiddetta crescita naturale: e il tasso di crescita, negli insediamenti, è quattro volte quello medio. Anche a Washington, in questi giorni: l'obiettivo, dicono, è prolungare il congelamento. Non so: io sono qui. E lavoro come sempre".

D'altra parte: anche per Har Homa, l'ordine di confisca è arrivato dopo Oslo. E l'Assemblea Generale ha impilato nei suoi archivi le due ennesime risoluzioni di condanna. 134 contro 3 la prima, poi si è dileguata anche la Micronesia, ed è finita 130 contro 2: i due, ovviamente, erano Stati Uniti e Israele - ma le Nazioni Unite, si giustificò Clinton, non sono il luogo adatto per discutere un processo di pace. E se poi proprio i palestinesi avevano qualcosa da contestare, aggiunse - Oslo impone il dialogo diretto con Israele: rivolgersi alle Nazioni Unite mina quella fiducia reciproca indispensabile alla pace.

Si stacca alle sei, alla preghiera del tramonto. In ginocchio verso la Mecca, decine di operai ascoltano un immaginario muezzin, le stuoie a mosaico tra i cavi, e i tubi e i mattoni. Dormono qui, negli interrati degli edifici in costruzione, il viaggio costa la paga di un giorno. Abitano in vecchie coperte su tavole di legno, cenano a pane e poco altro, nascosti fino all'alba successiva - è un anno di carcere, l'ingresso illegale in Israele. Materiale di scarto, pile di piastrelle ancora da montare la trincea davanti al freddo, una vecchia lamiera la cerniera dal mondo - è largo settanta centimetri stasera, il cielo stellato sopra Israele. La legge morale dentro Israele.

 

7 settembre

Gran Bretagna, i veterani traditi

Bilancio dissestato: la Difesa manda in congedo migliaia di militari feriti

Il tradimento degli 'eroi', come la stampa l'ha definito, è l'ultimo atto di una fallimentare gestione della guerra da parte del governo britannico. L'esercito ha deciso infatti di congedare almeno cinquemila soldati perché non sono più in grado di combattere. Tra questi, i feriti di Afghanistan e Iraq.

Alcuni di loro avranno un'indennità di servizio di sole 6mila sterline (8.500 euro), e potranno esclusivamente contare su associazioni di beneficenza e volontariato per ricevere le cure necessarie. La notizia è stata rivelata dal Sunday Times, che ha pubblicato un documento riservato nel quale si prevede che tale politica verrà sicuramente vista dall'opinione pubblica come un tradimento verso coloro che hanno rischiato la loro vita al fronte per la patria. Alcuni dei reduci sono già stati impiegati in mansioni di ufficio, ma il pesante prezzo che le guerre in Afghanistan e Iraq hanno imposto alla salute fisica e psicologica dei militari avrebbe spinto le gerarchie della Difesa ad agire con una decisione che non ha precedenti, e che avrà conseguenze devastanti sull'immagine e sul prestigio delle Forze armate britanniche.
Il documento in questione, dal titolo 'Gestione del personale non idoneo al combattimento', rivela che il cinque percento dei militari di Sua Maestà non può più combattere. Mille e cinquecento soldati verranno congedati subito, altri 750 l'anno successivo. La decisione prevede che i congedi forzati abbiano luogo prima che l'opinione pubblica si accorga dell'elevato numero di personale seriamente ferito'.

I contabili dell'esercito si sono accorti che con un tale numero di reduci feriti a carico del ministero della Difesa, non si potranno più reclutare nuovi soldati. Ci sono più di duecento mutilati provenienti dalle due zone di guerra, e 1.500 feriti in combattimento. Nonostante un portavoce del ministero della Difesa riferisca che "il numero dei soldati congedati per motivi sanitari sia stato e sarà deciso su base individuale e caso per caso" e che sia "inutile speculare su cifre future", il ministro della Difesa Liam Fox ha detto che occorrerà condurre una revisione della politica dei congedi del governo laburista, affinché "chi ha combattuto e si è sacrificato per il Paese venga trattato nel giusto modo e con onore".

A corollario delle critiche ricevute dalla stampa, oggi l'ex capo di Stato maggiore dell'Esercito, il generale Richard Dannatt, ha accusato nel suo libro di memorie 'Alla guida dal fronte' l'ex primo ministro Tony Blair di aver difettato del necessario 'coraggio morale' per opporsi a Gordon Brown sulla decisione di spesa nel settore della Difesa. Secondo Dannatt, tutta la politica militare dei Labour è stata 'fatalmente viziata' dalla incapacità di Blair di imporsi sulla volontà del suo Cancelliere, che ha deciso di non abbastanza fondi per l'esercito determinando una situazione post-bellica di 'totale fallimento.

Luca Galassi

 

Birmania, la farsa delle elezioni

Il regime si prepara al voto del 7 novembre senza lasciare nulla al caso, con un risultato scontato

Dopo oltre vent'anni, il 7 novembre la Birmania tornerà quindi al voto. Ma l'ultima tappa della "road map verso la democrazia", come il regime ha chiamato il suo programma pluriennale, non riscalda gli animi in patria e tra i vari gruppi della diaspora. Anzi: con tutte le restrizioni e gli ostacoli posti dalla giunta militare, sembrano ormai esserci pochi dubbi sul fatto che le elezioni saranno poco più di una farsa organizzata per dare l'illusione di un cambiamento, mentre in realtà le redini del Paese rimarranno in mano alla stessa struttura di potere.

Nonostante un intero sistema organizzato per garantire una vittoria - il 25 percento di seggi parlamentari garantiti ai militari, senza contare le enormi risorse economiche a disposizione del partito del regime - la giunta non ha lasciato niente al caso, nel fissare le regole del gioco. Aung San Suu Kyi sarà tenuta prigioniera durante tutto questo periodo: già esclusa dal voto per il suo essere vedova di uno straniero e poi condannata ad altri 18 mesi di arresti domiciliari per aver ospitato un intruso americano, dovrebbe tornare in libertà una settimana dopo il voto. Per presentare candidati, secondo le nuove norme elettorali, la sua Lega nazionale per la democrazia (Nld) avrebbe dovuto espellere il premio Nobel per la Pace: ha scelto di boicottare il voto, andando coscientemente incontro allo scioglimento forzato. I dissidenti del movimento hanno formato un nuovo partito, la Forza democratica nazionale (Ndf), il cui seguito è però tutto da verificare.

Annunciando la data del voto lo scorso 13 agosto, il regime ha anche fissato una finestra di due settimane - da subito - per la registrazione dei candidati. Se lo scopo era restringere la rosa delle candidature (ognuna delle quali costava 500 dollari, sette volte tanto lo stipendio mensile medio in Birmania), è stato raggiunto: un'opposizione frammentata e perennemente a corto di fondi, oltre a essere divisa lungo linee etniche, non riuscirà ad andare (cumulativamente) oltre i 500 candidati nelle liste dei 1.162 seggi in palio, tra le due camere del Parlamento e quelle regionali.

Il "Partito unione solidarieta' e sviluppo" (Usdp), nel quale sono confluiti vari ex generali e che raccoglie l'enorme base dell'associazione civica Usda, non ha avuto invece problemi nel candidare i suoi uomini in ogni singolo seggio. In molte circoscrizioni, quindi, il candidato del regime sarà vincitore senza neanche votare. "Per conoscere i risultati del voto, non servirà aspettare il 7 novembre", confida a PeaceReporter un ricercatore di un'associazione che dalla Thailandia monitora gli abusi dei diritti umani in Birmania. "Basterà vedere la lista finale dei candidati per seggio, e già si potrà capire la composizione del Parlamento".

Per i 42 partiti ammessi al voto, tra l'altro, gli ostacoli non finiscono qui. In campagna elettorale vige il divieto di scendere in piazza, cantare slogan e tenere qualsiasi discorso che ''infanghi l'immagine del Paese''. Qualsiasi tipo di uscita in pubblico va autorizzata con largo anticipo. La stampa, ovviamente, è controllata in modo ferreo, e oltre 2.000 prigionieri politici rimangono in carcere. Senza osservatori elettorali ammessi nel Paese, anche nel caso qualcosa dovesse andare storto, nessuno potrà controllare eventuali brogli per ritoccare i numeri.

La vittoria schiacciante del partito del regime, insomma, non è in discussione. Resta però da capire quale sarà l'assetto del potere nel dopo-elezioni. Un piccolo giallo si è aperto nei giorni scorsi, dopo che il sito Irrawaddy ha rivelato un rimpasto ai vertici della giunta, che avrebbe portato alle dimissioni di una decina di generali tra cui il "generalissimo" Than Shwe, 77 anni, numero uno del regime dal 1992. Senza riferirsi direttamente all'indiscrezione, qualche giorno dopo la stampa statale ha però chiamato Than Shwe con il nome per esteso della sua carica all'interno della giunta, suggerendo quindi che lo status quo non è cambiato.

Una progressiva uscita di scena della vecchia guardia è comunque inevitabile. Resta da capire se sarà per questioni di età o solo di forma: una scuola di pensiero crede che Than Shwe smetterà l'uniforme solo per poter così essere eletto presidente, mentre altri propendono per una pensione dorata, dopo essersi cautelato piazzando i suoi fedelissimi a sua protezione. "Non è ancora chiaro quali siano le sue reali intenzioni", spiega a PeaceReporter Benedict Rogers, autore di una biografia di Than Shwe, "ma credo che cercherà di mantenere parte del suo potere, da presidente o con un ruolo dietro le quinte come fecero Ne Win fece in Birmania, o Deng Xiaoping in Cina, nei loro ultimi giorni". Se le elezioni andranno come tutti prevedono, non sarà certo un nuovo governo a ostacolare la sua decisione.

Alessandro Ursic

 

Quel che so di Schifani

di Lirio Abbate

"Era il mio consulente, l'uomo che risolveva i casi più difficili". Parla Costa, imprenditore condannato per riciclaggio. Che i pm ascolteranno dopo Spatuzza

La verità sull'avvocato Renato Schifani dice di conoscerla bene l'imprenditore palermitano Giovanni Costa, con un patrimonio di centinaia di milioni di euro posto sotto sequestro e una condanna sulle spalle a nove anni per riciclaggio, accusa per la quale è in corso il processo d'appello. È una verità finora inedita e se fosse riscontrata dalla magistratura potrebbe portare ad attivare nuove indagini. Il nome di Costa, 56 anni, compare nell'elenco delle persone che la Procura di Palermo intende interrogare, insieme al dichiarante Gaspare Spatuzza: dall'imprenditore i pm pensano di ricavare notizie ancora riservate sull'ex avvocato.

In particolare gli inquirenti vogliono far luce su eventuali collegamenti che ci sarebbero stati nei primi anni Novanta tra Schifani ed esponenti di Cosa nostra, in particolare i fratelli Graviano autori delle stragi siciliane del 1992 e di quelle di Roma, Milano e Firenze del 1993.

Per il presidente del Senato questa ipotesi "è priva di ogni fondamento", ma ha assicurato "la massima disponibilità con l'autorità giudiziaria qualora decidesse di occuparsi della questione". Alle rivelazioni di Spatuzza si aggiungono ora i retroscena di cui è a conoscenza Costa, che racconta a "L'espresso" una storia che spetterà poi ai magistrati verificare.

Secondo il suo racconto, Costa è stato per anni uno dei clienti dell'amministrativista Schifani incaricato di fargli da consulente in alcuni affari sui quali hanno indagato gli investigatori antimafia.

"Lui era il mio consulente, la persona che mi consigliava, quello che riusciva a mettere le carte a posto controllando i documenti con i quali chiudere affari senza avere problemi".

Questa volta il dito contro il senatore eletto nel collegio di Corleone non lo punta un ex sicario come Gaspare Spatuzza, bensì un imprenditore che in passato avrebbe avuto contatti con la mafia palermitana e da anni si è trapiantato a Bologna dove ha portato avanti società immobiliari, assicurative e di costruzioni.
Il giro d'affari gestito da Costa fra gli anni Ottanta e i primi Novanta era enorme e su questo patrimonio i pm hanno puntato le indagini con le quali hanno accertato che si trattava, in parte, di riciclaggio. "Ho sempre fatto le mie mosse con la consulenza di Schifani, lavoro per il quale gli pagavo dal 1986 uno stipendio mensile di due milioni di lire per seguire i miei lavori a 360 gradi. Era il mio consigliere. Ma nel processo in cui sono stato condannato lui, chiamato a testimoniare, non ha detto la verità. Ha preso le distanze stravolgendo i fatti, sostenendo addirittura che lo avevo inserito nel consiglio di amministrazione di una società di Milano a sua insaputa. E invece era stato lui a chiedermelo perché voleva lasciare Palermo, per questo gli proposi l'incarico di presidente o di amministratore delegato. Poi decisi che non se ne faceva più nulla".

Costa in passato sarebbe stato collegato a un boss di Villabate, cittadina alle porte di Palermo, e secondo l'accusa avrebbe ripulito somme di denaro provenienti da attività degli affiliati a Cosa nostra e da una truffa finanziaria organizzata in Sicilia agli inizi degli anni Novanta da Giovanni Sucato, definito "il mago dei soldi", poi morto carbonizzato nel 1995. Ma l'imprenditore nega ogni contatto con la mafia. E ricorda che Schifani nell'anno in cui la mafia uccide prima Salvo Lima e poi Falcone e Borsellino "voleva andar via da Palermo perché aveva paura. Mi aveva chiesto di venire a Milano e di inserirlo nel consiglio di amministrazione dell'Alpi assicurazioni di Fabbretti. Non voleva stare più a Palermo, sospettavo che avesse paura". Nel racconto lo stesso Costa si chiede: "Ciò significava forse che era "impastato" (colluso con i mafiosi, ndr)?". E si risponde testualmente: "Se hai paura della propria città ci sarà un motivo". Ma alla domanda precisa se Schifani avesse contatti con la mafia, l'imprenditore risponde: "Non lo so. Però lo conoscevano tutti. Era un bravo civilista e lui forse queste persone le conosceva perché trovava le pratiche già allo studio... Lui comunque nel 1992 continuava a ripetermi che voleva andare a Milano, forse perché già era innamorato di Berlusconi...".

 

2 settembre

Libia, il Colonnello e il Cavaliere

Il secondo anniversario del trattato italo libico è un'occasione per nuovi, lucrosi, affari. Sulla pelle dei migranti e in barba alla Lega Nord

L'ultima trovata arriva al mattino, con caffè e giornali. una lezione di Islam a uso e consumo della squadra di hostess che il governo italiano gli ha fatto trovare a Roma. Questa offusca quella dei passaporti libici che verranno stampati in futuro avranno, tra le immagini olografiche, la stretta di mano tra Gheddafi e Silvio Berlusconi che il 30 agosto 2008 ha sancito (a Bengasi) la firma del Trattato di Amicizia Italia - Libia.

In occasione del secondo anniversario dell'accordo, il leader libico restituisce la visita ricevuta dal premier italiano l'anno scorso. Quest'anno, come un anno fa, i media saranno rapiti dal corollario di trovate che caratterizzano i viaggi del colonnello Gheddafi: tende beduine nel cuore di Roma, squadre di cavalieri arabi in abiti tradizionali e il corpo di guardia tutto al femminile del leader libico.
Una sorta di cortina di fumo che, alimentata dalle costanti dichiarazioni di amore eterno tra i due personaggi politici, nasconde tutta una serie di elementi ben più interessanti della nuova stagione di relazioni tra l'Italia e la Libia inaugurata due anni fa.

Per cominciare l'alta, anzi, altissima finanza. Berlusconi, in tempo di crisi politica, ha una nuova gatta da pelare. Il rapporto della Consob, l'organismo di controllo della Borsa italiana, ha rilasciato una nota il 4 agosto scorso nella quale rendeva noto che la Libia possiede il 6,7 percento di Unicredit. Per la precisione, il 4,6 con la Banca centrale di Tripoli e il 2,1 con la Libyan Investment Authority, società controllata dal governo libico. I gerarchi della Lega Nord non l'hanno digerita: l'incubo della scalata araba (e islamica) a uno dei principali istituti di credito italiano è un problema per un partito che della barriera anti islamica ha uno dei temi di fidelizzazione del suo elettorato. Come spiegarlo ai militanti, gli stessi aizzati al grido di ''bruceremo le loro palandrane'' (deputato Mario Borghezio, piazza Duomo a Milano)?

''Basta sospetti sui soldi arabi. La Libia non ha alcuna intenzione di scalare Unicredit. I soci arabi non vanno trattati diversamente dagli altri'', ha detto il finanziere franco-tunisino Tarek Ben Ammar, ritenuto da molti osservatori l'architetto della svolta di due anni fa nei rapporti italo-libici. Un Berlusconi in miniatura, questo Ammar. Produttore cinematografico, anche della contestata Passione di Cristo di Mel Gibson, proprietario di una delle più grandi aziende di comunicazione in Francia, ma anche ex manager di Michael Jackson e proprietario del canale tv Sportitalia. Cariche e affari che gli sono valsi un posto nel consiglio di amministrazione di Mediobanca, la centrale operativa della finanza italiana.

Per convincere la Lega a sorridere all'ospite scomodo servirà una delle trovate di Berlusconi. L'uomo giusto ha già un nome: Massimo Ponzellini. Presidente della Banca Popolare di Milano e di Impregilo, il colosso delle costruzioni, che guida la truppa di ventuno aziende italiane che hanno presentato la loro candidatura per la costruzione dell' autostrada costiera (1700 chilometri) in Libia. Un appalto enorme, sul quale si pronuncerà la commissione mista italo-libica il 30 ottobre prossimo. Il Trattato del 2008, infatti, prevede un risarcimento per i danni di guerra del periodo coloniale italiano in Libia di 5 miliardi di dollari. Una fetta di questa soldi, andrà all'azienda che costruirà l'arteria di comunicazione che congiungerà i due punti estremi della costa libica. Ponzellini è considerato molto vicino alla Lega e la banca che presiede sembra sempre più indicata come quella 'banca padana' che la Lega Nord cerca da anni.

La Lega, di Gheddafi, non si fida. L'ultima frizione è giunta il 25 luglio scorso, quando il leader libico ha ordinato la liberazione dei circa tremila migranti rinchiusi nelle carceri libiche. Almeno duecento di questi, sono stati vittime dei respingimenti in mare dell'Italia che, in violazione del diritto internazionale, ha applicato una delle clausole del Trattato che prevede l'intercettamento in acque internazionali dei migranti partiti dalla Libia e il riaccompagnamento coatto sulle coste di partenza, senza identificarli e senza verificare se a bordo ci siano persone che possono chiedere lo status di rifugiato politico. Ed ecco che etiopi, eritrei e somali sono stati sbattuti nelle fatiscenti carceri libiche, vittime di soprusi di ogni genere. Il colonnello Gheddafi, messo sotto pressione dai media e dalle organizzazioni non governative di tutto il mondo che si battono per il rispetto dei diritti umani, li ha scarcerati, abbandonandoli al loro destino nel deserto. La Lega, che ha sempre accusato Gheddafi di usare i migranti come elemento di pressione sull'Italia, non ha gradito.

Gli affari tra l'Italia e la Libia, però, sono un bel bottino. Solo l' Eni, il gigante energetico guidato da Paolo Scaroni, ha in cantiere nuovi investimenti per 25 miliardi di euro, come annunciato dallo stesso Scaroni nei giorni scorsi. Gli affari diretti tra Berlusconi e Gheddafi, poi, non sono da meno. Un articolo pubblicato dal quotidiano britannico The Guardian aveva un titolo chiaro: ''The Gaddafi-Berlusconi connection''. Secondo l'autore, una società libica chiamata Lafitrade ha acquisito il dieci per cento della Quinta Comunication, di Tarak Ben Ammar (ancora lui). La Lafitrade è controllata da Lafico, il braccio d'investimenti della famiglia Gheddafi. Un altro partner di Ben Ammar nella Quinta Comunication è, con circa il ventidue percento, una società registrata in Lussemburgo di proprietà della Fininvest, la finanziaria di Berlusconi. Non basta: Quinta Comunication e Mediaset possiedono ciascuna il venticinque percento di una nuova televisione via satellite araba, la Nessma Tv, che opera anche in Libia.

Troppa roba per lasciare che la Lega, per quanto sempre più influente nel governo Berlusconi, si metta di traverso. D'altronde l'ossessione migrante dei leghisti, sempre nelle clausole del Trattato, trova un'altra soddisfazione: l'accordo che Finmeccanica, colosso italiano della produzione di armi e tecnologia sofisticata, tramite la controllata Selex Sistemi Integrati, ha firmato con la Libia per un valore di trecento milioni di euro. La commessa prevede la costruzione di un grande sistema di protezione e sicurezza dei confini libici, in particolare quelli con Niger, Ciad e Sudan da dove arriva il grosso dei migranti dall'africa subsahariana. L'appalto, come da Trattato, sarà finanziato al 50 percento dai contribuenti italiani e al 50 percento dall'Unione europea.
A volte basta un po' di buona volontà (e di soldi) per trovare un accordo.

Christian Elia

 

Sprechigi

di Tommaso Cerno e Primo Di Nicola

Dalle radio della Guerra Fredda alla "Memoria del Futuro", dal Concordato alla biosicurezza: ecco i 90 comitati della presidenza del Consiglio. Uffici spesso inutili ma con migliaia di poltrone e consulenze

Palazzo Chigi

C'è un ufficio a Roma che teme ancora la Jugoslavia comunista. Un comitato, inventato nel 1956, con il compito di regolare le trasmissioni della neonata Rai nel territorio di Trieste. Divisa in zone dopo la seconda guerra mondiale. Bene, quell'ufficio esiste ancora. Poco importa se il muro di Berlino è crollato, i confini non ci sono più, la Slovenia fa parte dell'Unione europea e la Rai si vede bene pure da Lubiana. Ad aprile il governo Berlusconi l'ha rinnovato per l'ennesima volta con precisione svizzera. Un presidente e un drappello di consulenti scelti fra esperti ministeriali, direttori in pensione ed ex politicanti a caccia di un posto al sole. A Trieste nemmeno si ricordavano di doverli indicare: «Non lo dica a noi, stiamo aspettando i nomi dal Comune e dalla Provincia. In più c'è un membro del ministero delle Poste e un esperto nominato dal governo», ribattono alla presidenza del Consiglio. Pure se lo domandi ai triestini del Corecom, il comitato regionale di controllo sulle trasmissione radiotelevisive, cascano dalle nuvole: «Il comitato statale? Era stato abolito. Abbiamo assunto noi quelle competenze ».

Dopo un paio di giorni, però, qualcuno ci ripensa: «Forse ci siamo sbagliati, abbiamo le competenze di un altro comitato che adesso non c'è più. Quello potrebbe esistere ancora». Una svista? Macché. Ne sopravvivono a decine di uffici fantasma alla presidenza del Consiglio. Su Internet ne compaiono una trentina al massimo, quelli più attivi.

Ma un elenco completo esiste. "L'espresso" l'ha trovato: novanta strutture spesso doppioni di altre, passate incolumi lungo le due Repubbliche. Nulla ha potuto il rogo delle leggi obsolete appiccato dal ministro per la Semplificazione, Roberto Calderoli. Nulla il taglio degli enti inutili che ha cancellato 480 poltrone giudicate «spreco», lasciandone tuttavia in vita più di mille. Sotto l'ombrello del potente segretario generale Manlio Strano ce ne sono addirittura di più. Capaci di sfilarsi dalla Finanziaria di Giulio Tremonti, che ai ministri ha fatto versare lacrime e al premier ha lasciato le consulenze praticamente intatte.

Così, mentre gli ospedali tagliano letti per far quadrare i conti e la polizia prende il taxi perché non ha i soldi per la benzina, a Palazzo Chigi uno stipendio non si nega a nessuno. Alla faccia della devolution, è a Roma che si studia da decenni la toponomastica di Bolzano. Nomi di strade in tedesco ma conti all'italiana. C'è poi un comitato per la difesa non violenta, uno per l'infanzia e un altro con l'arduo compito di «rafforzare la classe dirigente del Paese». Ci sono gli esperti di sicurezza dei trasporti, quelli del credito agevolato. E c'è un commissario per ogni alluvione, smottamento o temporale si abbatta sull'Italia. Individuarli nel mare dei denari pubblici che annaffiano la Presidenza del consiglio non è impresa facile.

Nei bilanci, infatti, comitati, commissari e commissioni si mimetizzano fra i capitoli di spesa. Milioni di euro nascosti fra la paga dei dirigenti, il leasing per le nuove auto blu, il boom di missioni estere, arredi e manutenzioni. Eppure anche quest'anno i fondi previsti per foraggiare questi uffici fantasma sono oltre 12 milioni. Di cui circa 2,2 servono a elargire gettoni di presenza. Si passa da super-uffici come il comitato nazionale permanente per Mediocredito che nell'ultimo bilancio pesa per 1 milione 789 mila euro, agli 849 mila del Dipartimento innovazione, ai 424 mila per le politiche comunitarie, fino a 1 milione 105 mila euro per la struttura che avrebbe il compito di rilanciare l'immagine dell'Italia.

«Sono organismi a durata temporanea che si occupano di questioni urgenti», ribattono a Palazzo Chigi. Già. Come quello che ha il compito di attuare gli accordi fra Stato e Chiesa dopo il Concordato del ?€˜29, rivisto nel 1984. Gli uffici sono addirittura due: uno studia l'accordo, l'altro si occupa di interpretare eventuali incomprensioni. Perché, come si dice, due teste sono meglio di una. Soprattutto se a rimborso spese. Quando va bene si riuniscono tre volte l'anno, rivelano alla segreteria, e scavano negli accordi fra Italia e Santa Sede. Se si prova a chiamare Palazzo Chigi per chiedere a che punto siano i lavori e se ci sia qualche nodo irrisolto che ancora sfugge al Paese, la risposta è sempre la stessa: «Le inviamo la pubblicazione prodotta dal comitato. Lì potrete trovare tutte le risposte che vi interessano». Eccola: si intitola "Dall'accordo del 1984 al disegno di legge sulla libertà religiosa". Niente data. In copertina l'immagine di Giovanni Paolo II in preghiera ad Assisi coi capi delle altre religioni. Era il 27 ottobre 1986. L'introduzione è di Giuliano Amato, quand'era presidente del Consiglio. La prima volta era nel 1992. Se c'è in ballo un'emergenza, non si bada a spese. L'esempio della Protezione civile fa scuola. La struttura di missione messa in piedi per organizzare gli aiuti a L'Aquila ha fatto schizzare i conti di Palazzo Chigi da 4,2 miliardi a più di 5 miliardi. Un aumento forse indispensabile. Solo che lo stesso meccanismo va avanti da anni anche per la Torino- Lione, che emergenza non è. Nel 2002 fu nominato un comitato per supportare la delegazione italiana per la Tav, nominata già nel 1996 per velocizzare l'opera. A distanza di 14 anni, non soltanto la Torino-Lione ancora non c'è, ma gli organismi pubblici nel frattempo si sono moltiplicati: «Ora stiamo pagando una commissione che fa consulenza a un commissario.

Eppure quel commissario ha già alle sue dipendenze un'altra struttura identica, istituita anche stavolta dalla presidenza del Consiglio, che fa la stessa consulenza », riassumono i giudici contabili. Non bastasse, dal 2005 gli esperti sono cresciuti in numero e costi. Prima ce n'era uno soltanto, poi due, poi tre, fino ai sei attuali. Lo stesso trend della commissione per il recepimento delle direttive europee. Nel 2002, quando l'Italia era appena entrata nell'euro ed era tutto da fare, bastavano 12 esperti per sbrigare le pratiche. Oggi invece ne servono 29. Spesso incompetenti. Secondo la Corte dei conti, infatti, queste figure tecniche «non sempre presentano i requisiti peculiari dell'istituto e appaiono sovrapponibili a quelli dell'amministrazione ». Dubbi anche sui tempi del mandato: «La durata si protrae a tal punto da non poter essere più definita temporanea». Con questo meccanismo, a ogni urgenza corrisponde un nuovo ufficio. Poi l'emergenza finisce e l'ufficio rimane. Durante il governo Berlusconi le strutture di missione foraggiate sono diventate 24. Storie di sprechi una simile all'altra. A partire da quelle che dovrebbero servire, sulla carta, a ridurre la spesa pubblica.

Per tagliare enti e leggi, infatti, era nata la cosiddetta "Unità per la semplificazione". Tanto ha semplificato da essere passata da 12 a 16 componenti nel giugno 2008. Una squadra di tre dirigenti, pagati per coordinare quattro funzionari, con la possibilità di assumere altri 12 esperti.

Al solito. O come la struttura che dovrebbe valutare l'impatto finanziario delle leggi. Nel 2003 contava 15 esperti, oggi sono saliti a 20 con un impatto finanziario, appunto, che per ora pagano i cittadini. Quando il centrodestra l'ha prorogata nel maggio 2008 ci ha pure aggiunto un posto da dirigente generale con compiti di studio. Al punto da prendersi la censura della Corte che già nell'aprile 2009 parlava di «incarichi non giustificabili». Se anche i tagli sfiorano Palazzo Chigi i superstiti sono sempre parecchi. Basta guardare l'Ente italiano per la montagna. Ha cambiato un paio di nomi, ma è sempre al suo posto. Una sforbiciata di organismi l'ha subita, spiegano a Palazzo Chigi. Peccato che restino in carica un consiglio direttivo e un comitato scientifico, oltre agli immancabili revisori dei conti. Ogni premier sceglie un suo presidente. E così Silvio Berlusconi ha nominato Massimo Romagnoli, un ex deputato di Forza Italia, al posto del prodiano Luigi Olivieri. Nella Finanziaria dei tagli, poi, Tremonti ha lasciato 407 mila euro diretti all'Agenzia nazionale per i giovani. Una missione sponsorizzata da Bruxelles, spiegano al dipartimento di Palazzo Chigi. Ma sorvolano sulla composizione: 34 membri. Il presidente è un ex dirigente dei giovani di Alleanza nazionale, Paolo Giuseppe Di Caro, rimasto fuori dal Parlamento e ripescato su indicazione governativa all'Ang, che gli passa uno stipendio da 101 mila euro. Largo ai giovani, si dirà. Perché Di Caro non si sente di certo solo. A tenergli compagnia, fra dirigenti e collaboratori, c'è una squadra da altri 450 mila euro l'anno.

L'esercito di esperti è quasi sempre fatto di «ex qualcosa»: professore o burocrate, generale in pensione o politico trombato, dirigente o assessore ripescato dal sottobosco dei partiti. Sono loro che mandano avanti la baracca dei comitati. Ce n'è uno per il turismo, che costerà circa un milione. Un altro si occupa di politiche comunitarie e spende 424 mila euro. C'è la struttura permanente per il Mediocredito che chiude a 1,7 milioni e, ancora, il comitato per la minoranza slovena, quello per l'accesso ai documenti amministrativi, per la statistica e per l'innovazione tecnologica. Una commissione assegna invece i vitalizi agli sportivi, un'altra i premi alla cultura, un'altra ancora aggiorna il protocollo dei vip. Secondo la Corte dei conti, questi cosiddetti esperti, tanto esperti non sono. Spesso anzi il curriculum è la fotocopia di profili già presenti (e stipendiati) nella pubblica amministrazione. Quei fannulloni, per dirla con Brunetta, che nemmeno volendo potrebbero fare gli straordinari a piazza Colonna, visto che a sbrigare il lavoro ci pensano i sosia a gettone. E se l'etica nella scelta dei consulenti qualche dubbio lo solleva, in fatto di bioetica l'Italia sta in una botte di ferro. Di commissioni temporanee, diventate permanenti, ce ne sono addirittura due. E quella che si occupa di biosicurezza, tecnologie e scienza della vita conta un numero di dirigenti, esperti e consulenti che da soli fanno un consiglio regionale. Dal presidente Leonardo Santi dell'università di Genova, alla pattuglia ministeriale da 14 delegati fino all'immancabile corazzata di esperti: quindici professori in viaggio verso la capitale da Milano, Napoli o Pavia. L'ultimo nato di Palazzo Chigi ha un nome piuttosto evocativo: comitato per la memoria del Futuro. Dura in carica cinque anni, naturalmente rinnovabili. È datato 2009, dopo la conferenza di Barcellona che si propose di trasformare il Mediterraneo in una spazio comune. Nella pratica gli esperti dovranno «promuovere relazioni internazionali », magari svolazzando nei paesi interessati. Che sia roba grossa si capisce al volo. Il presidente è Gianni Letta. Per il resto è un elenco di ambasciatori, professori, archeologi e superdirigenti da Joaquin Navarro Vals, ex portavoce di Giovanni Paolo II, al presidente dell'Ice Umberto Vattani fino a Irene Pivetti. E se mai ce ne fosse bisogno, l'articolo 2 apre le porte ad altro personale.

Stavolta, però, a piazza Colonna mettono le mani avanti: «Non derivano oneri a carico di Palazzo Chigi», spiegano dalla segreteria. E chi paga le missioni? «Le amministrazioni di appartenenza del personale ». Cioè sempre lo Stato. L'obiettivo finale è nobile. Una rete di musei «in cui figurino, l'uno accanto all'altro, elementi costruttivi capaci di testimoniare visivamente l'unitarietà di fondo della cultura mediterranea». E forse prima o poi nascerà l'ennesimo comitato. Stavolta certamente utile, almeno a spiegare a un italiano medio che cosa significhi quella frase.

 

Colombia, la morte corre su Facebook

Una lista di vittime prescelte, tre omicidi: l'unica pista è il social network, che negli ultimi tempi è diventato un'appendice della cronaca nera

Tra la Rete con le sue autostrade invisibili e un marciapiede sporco di sangue, la distanza si accorcia con un niente. Il caso colombiano delle misteriose morti annunciate su Facebook dimostra quante e quanto insospettabili possano essere le connessioni tra virtuale e reale, e confermano quanto la criiminalità sappia sfruttarle.

Il mistero di Puerto Asis. Quei tre omicidi erano passati quasi inosservati, inghiottiti dalle impressionanti statistiche sulla violenza in Colombia. Diego Ferney Elbert e Alejandro Ruiz sono morti il 15 agosto. Avevano 16 e 17 anni; viaggiavano su un motorino tra Puerto Caceido e Puerto Asis, nel distretto di Putumayo, nella Colombia meridonale. Cinque giorni dopo i sicari hanno freddato Norbey Alexander Vargas, 19 anni e ferito un altro sedicenne, Juan Pablo Zamorano Anacona. Tra la prima e la seconda esecuzione, però, è successo qualcosa; alle 4 del mattino del 16 agosto è comparso su internet un messaggio contenente una lista di ragazzi, tutti identificati per nome e cognome, e una minaccia raggelante: andatevene o sarete uccisi. Da internet era arrivato l'annuncio e dalla rete è arrivato anche l'indizio decisivo, indicato da un utente di Twitter: le tre vittime erano tutte presenti nella lista postata su Facebook, cui, nei giorni successivi, se ne sono aggiunte altre due. L'ultima lunedì sera ,con i nomi di 31 ragazze con precedenti per prostituzione. E così, tracimando dal mondo virtuale, il panico ha preso forma nel mondo reale: in queste ore nei municipi di Puerto Asis, Puerto Caceido ma anche nel dipartimento di Narino, che confina con quello di Putumayo, è cominciato un esodo di probabili condannati a morte.

Il direttore della Policia Nacional, Oscar Naranjo, ha invitato alla calma e rassicurato la popolazione ma anche gli inquirenti hanno preso molto sul serio la minaccia, tanto che le indagini sono subito passate ai federali, che hanno messo in campo un'unità speciale, quella per i crimini informatici. Una squadra molto allenata perchè, a quanto pare, in Colombia la criminalità organizzata sta imparando a sfruttare le possibilità offerte da internet. Social network come Facebook e Twitter sono luoghi virtuali di aggregazione ma anche mezzi ideali per agganciare un target mirato. L'utenza ha una età media piuttosto bassa. Sono ragazzini e ragazzine influenzabili, facilmente recrutabili. Dei buoni hacker, inoltre, possono fornire ai cartelli o ai gruppi criminali tutte le informazioni sulle loro "prede", studiare il loro menù di navigazione, capire chi sono e cosa vogliono. Ma la rete è utile, come dimostra quest'ultimo caso, anche per lasciare e lanciare messaggi: è più semplice, e molto meno rischioso, scrivere un post o far girare un elenco che imbucare una lettera o fare una telefonata.
Indagando, si scopre che in Colombia la morte è stata annunciata su Facebook più di una volta e che a seguire il filo del social network si arriva lontano. Un'inchiesta pubblicata sul quotidiano El Tiempo de Bogotà ha rivelato che di recente altri episodi simili si sono verificati ad Arbelàez, nel dipartimento di Cundinamarca (Colombia centrale), e nella capitale del Narino, Pasto. Ma secondo utenti del posto che hanno urlato il loro sdegno su Twitter, nella sola Puerto Asis i morti annunciati su Facebook sarebbero già una ventina.

Sempre dal celebre social network, lo scorso dicembre, erano arrivate minacce di morte per il figlio del presidente della Colombia, Alberto Jeronimo Uribe, ma in quel caso si era mossa addirittura l'Fbi per identificare gli autori del messaggio. E sempre via Facebook è stato preannunciato l'omicidio del candidato alle presidenziali, Antanas Mockus, del Partito Verde. La rete, però, è stata anche un mezzo per avvicinare la vittima. Un caso ha scosso l'opinione pubblica del Paese, quello di Ana Maria Chavez, una ragazza di 19 anni assassinata a settembre nell'appartamento di Bogotà che divideva col fratello, in quel momento negli Stati Uniti per un master. Inspiegabile l'omicidio per i parenti ma anche per la polizia. Fino a quando non si è deciso di passare al setaccio i suoi duemila contatti su Facebook. La pista era buona: così è stato identificato un primo sospetto. Con Google, gli amici sono riusciti a procurarsi anche gli estremi della sua carta di identità. Catturato a Medellin, otto ore di treno dalla capitale, il ragazzo ha confessato di aver ucciso Ana Maria insieme ad un suo amico. L'avevano conosciuta due giorni prima sul social network. Lei aveva li aveva invitati a casa sua perché non poteva immaginare che i due l'avrebbero rapinata e uccisa. Sono stati condannati a 25 anni di carcere e a una multa di 130 milioni di pesos. Che la rete faccia perdere ogni traccia è un mito ma in Colombia qualcuno ci crede ancora.

Alberto Tundo

 

Le bugie di B. anche sull'iPhone

di Fabio Chiusi

Il libretto di Berlusconi sui risultati del governo si trasforma in un'applicazione per telefonini e iPad. Che però di interattivo ha ben poco. A conferma che la strategia del Pdl è sempre la stessa: i media come semplice megafono dei messaggi del premier

La campagna elettorale del Pdl è già iniziata. Con la mobilitazione degli iscritti e delle "squadre della libertà", coi gazebo e con "l'operazione memoria" sui risultati dei primi due anni di governo. Ma non solo: da oggi la propaganda berlusconiana si sposta anche su iPhone e iPad. L'applicazione, distribuita in realtà l'undici agosto ma pubblicizzata tramite i canali Web del partito solo ieri, è scaricabile gratuitamente e dovrebbe consentire agli elettori di "conoscere le principali realizzazioni del governo Berlusconi, partecipare ai sondaggi e focus group, approfondire i perché delle scelte del Governo". Oltre a "dire la tua opinione e dare i tuoi suggerimenti", naturalmente.

Questo nelle intenzioni dei realizzatori. Perché in realtà la 'app', oltre alla possibiltà di sfogliare una versione digitalizzata del volume che, c'è da giurarlo, verrà presto presentato in tutti i salotti televisivi - Uno Mattina e il Tg1 lo hanno già fatto, e senza sollevare alcun dubbio sulla bontà dei dati in esso contenuti - offre ben poco. Si potrà dunque scoprire alla fermata del tram o in coda al supermercato che l'emergenza rifiuti è stata "risolta" e "in soli 58 giorni" - se per caso avete visto immondizia ammonticchiata ovunque gli occhi di certo vi ingannano. Ma l'interattività è ridotta a un sondaggio. A domande come "Il Governo Berlusconi ha messo in atto numerosi interventi per superare la crisi economica. Qual è stato il più efficace?" seguono risposte in cui il dissenso non è contemplato. Si può solo scegliere tra cosa è stato fatto bene e cosa meglio: di fallimenti non si sente parlare.

Lo stile ricalca quello adottato per il network dei berlusconiani, Forzasilvio.it. A partire dalla scelta lessicale ("focus group", ad esempio) e dal tipo di domande e risposte contenute nei "sondaggi". Ancora una volta sembra che la strategia del Pdl per quanto riguarda la rete ricalchi quella televisiva: c'è un messaggio - deciso dal Premier - da comunicare, e i media ne sono il megafono.

Nessun reale ascolto della volontà degli elettori, anche di quelli avversi alle scelte del governo, come sarebbe lecito immaginare in una democrazia che può avvalersi di strumenti di dialogo come i social media. Non stupisce dunque che la pagina Facebook ufficiale di Silvio Berlusconi, per quanto annunciata "entro 30 giorni" a maggio dal responsabile Internet del partito Antonio Palmieri, non sia ancora stata realizzata, e anzi se ne siano perse del tutto le tracce. Eppure allora si parlava di un presidente del Consiglio intento a passare i sabato sera in compagnia dei collaboratori per imparare a sfruttare al meglio le potenzialità del mezzo.

Le lezioni non devono essere servite a molto, se è vero che fino a oggi l'unica presenza "ufficiale" sul social network che raccoglie oltre sedici milioni e mezzo di italiani - la maggior parte dei quali potenziali elettori, tra l'altro - è stata registrata tramite una telefonata alla redazione del Giornale, che alcuni "strateghi" della comunicazione hanno cercato di vendere come un "Silvio dialoga con tutti su Facebook".

 

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