Sette anni per Marcello Dell'Utri. Ma per i giudici in appello per le stragi del
93 le accuse decadono. Un libro coraggioso ripercorre diciotto anni di
depistaggi e trattative. L'intervista.
Sette
anni. La sentenza di secondo grado per Marcello Dell'Utri è 'contraddittoria',
come hanno sottolineato molti analisti ed esperti del caso. Perché il senatore
di Forza Italia, sodale di Silvio Berlusconi e inventore della struttura del
partito di plastica, viene sostanzialmente condannato per fatti che arrivano
fino al 1992. Prima, cioè, che debuttasse formalmente Forza Italia. E perché
nella sentenza non trovano spazio le tesi esposte dal collaboratore di giustizia
Gaspare Spatuzza, lo stesso che si è visto negare, solo pochi giorni fa, il
programma di protezione da parte del Viminale. Poprio dopo aver raccontato, in
questo processo, del ruolo di Dell'Utri e di Berlusconi nel complicato gioco di
trattativa fra Stato e mafia e nella stagione delle bombe del 1993.
Non è soddisfatta la pubblica accusa. Proprio perché quel pezzo del
castello accusatorio rimane tagliato fuori (fra novanta giorni si avranno le
motivazioni della sentenza). Lo è molto di più, nonostante i sette anni - in
primo grado erano nove - lo stesso imputato e la sua difesa.
Marcello Dell'utri ha chiamato i giornalisti a raccolta, pochi istanti dopo la
lettura del dispositivo della sentenza. Le sue affermazioni, ma soprattutto
linguaggio e sintassi, sono state clamorose. Il passaggio sul famoso stalliere
di Arcore, Vittorio Mangano: "Per me resta un eroe, perché non ha
parlato". Frase che sta scatenando un botta e risposta assai acceso fra i
giovani del Pdl Sicilia, che consigliavano al senatore condannato per mafia di
citare Borsellino, come eroe, e i giovani del Pdl nazionale, che se la pigliano
con i loro giovani colleghi tacciati di non garantismo (nonostante, appunto, due
sentenze di condanna). Il linguaggio si fa tagliente anche per la pubblica
accusa. Dice Dell'Utri: "Cercherò il procuratore Gatto e gli farò le
condoglianze". Per le agenzie il tono era scherzoso: lo scherzo di un condannato
per mafia che esulta - come sta facendo tutto il Pdl - perché dalle accuse
dimostrate rimane fuori il periodo delle stragi del 1993.
Ora resta la Cassazione. E il rischio, elevatissimo, della prescrizione. Reso
ancora più evidente dal fatto che le ipotesi di reato post 1992 non sono state
accolte dai giudici, quindi il tempo di prescrizione si riferirà per reati
consumati fino a quella data e non oltre.
Su quegli anni, quelli della trattativa fra Stato e mafia due giornalisti
esperti di mafia hanno scritto un saggio importantissimo: L'Agenda nera della
seconda repubblica, di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, per i tipi di
Chiarelettere. Il libro ripercorre dal 1992 fino ai nostri giorni il passaggio
dalla prima alla seconda repubblica, nato sul sangue delle stragi e degli
omicidi dei servitori dello stato. E racconta, con precisi accostamenti e ricca
documentazione, la trattativa fra Stato e mafia, il ruolo che diversi
collaboratori di giustizia hanno imputato a Marcello dell'Utri e Silvio
Berlusconi con la sua nascente Forza Italia. É il tema che è rimasto tagliato
fuori dal processo di appello contro il senatore di Forza Italia: non ha trovato
spazio, nel giudizio del Tribunale, proprio la parte relativa alle stragi del
1993 e al ruolo che avrebbero avuto quei personaggi del uovo soggetto politico
in grado di garantire una prosecuzione della trattativa fra Cosa nostra e lo
Stato.
Oggi la destra berlusconiana festeggia, nonostante la condanna sia stata
confermata in secondo grado. Nonostante venga riconosciuto per la seconda volta
che Marcello Dell'utri, organizzatore del partito di plastica, era connesso ai
mafiosi. Il grande accusatore, Gaspare Spatuzza, non è stato ritenuto
attendibile. In questa intervista con Giuseppe Lo Bianco partiamo proprio
da Spatuzza.
L'Agenda nera si chiudeva con la richiesta di ammetterlo al programma
protezione per collaboratori di giustizia. Il Viminale ha rifiutato, adducendo
motivi tecnici, ma dal sapore fortemente politico. Un messaggio chiaro, secondo
molti analisti.
Il diniego sulla richiesta per Spatuzza si può riassumere su due piani, uno
tecnico e uno politico. Quello tecnico: la commissione del Viminale ha ritenuto
che abbia reso dichiarazioni a rate fuori dai 180 giorni previsti dalla legge.
Di parere opposto sono molti giursti, che sostengono che le dichiarazioni non
sarebbero avvenute a rate, ma entro i 180 giorni perché le cose cui Spatuzza ha
partecipato, come l'incontro del bar Doney a Roma con il boss Giuseppe Graviano,
lo ha vissuto personalmente e ha riferito in tempo. Invece, il contenuto di
quello che gli avrebbe detto Graviano, cioè il ruolo di Berlusconi e Dell'Utri
nella stagione stragista, è un de relato e non ha nulla a che vedere con i 180
giorni. Poi c'è un piano politico: molti osservatori lo interpretano come un
messaggio del governo a tutti i collaboratori che sanno della trattativa fra
mafia e Stato, per scoraggiarli.
Il disegno di legge sulle intercettazione: abbiamo visto che molti magistrati
antimafia sono insorti sulla restrizione per le intercettazioni ambientali. Come
inquadra questo provvedimento alla luce della trattativa di cui parlate nel
vostro libro?
La legge sulle intercettazioni resta l'ultimo orecchio, sia per le telefoniche
sia soprattutto per le ambientali. L'orecchio interno ai misteri e ai segreti di
un Paese che ha rinunciato a guardare dentro sé stesso. Lo ha fatto rinunciando
prima ai collaboratori di giustizia e adesso sta rinunciando allo strumento
tecnico, le intercettazioni. Come se un paese decidesse di togliere un bisturi
ai chirurghi che devono operare. Una scelta autolesionista. Speriamo che la
legge venga cancellata.
Ma questo provvediemtno rientra nella trattativa fra Stato e mafia?
Questa norma sulle intercettazioni, secondo me, sì.
Nel libro tornate anche sull'omicidio dell'avvocato e parlamentare Enzo
Fragalà.
Lo abbiamo sottolineato perché il nome di Fragalà era finito in una informativa
dei servizi segreti come nome a rischio per attentati mafiosi. Perché un aspetto
di questa trattativa infinita comprendeva i penalisti diventati parlamentari e
probabilmente i mafiosi si aspettavano qualche cosa da parte loro. Tutti
ricordano l'appello di Bagarella a Trapani in cui citava espressamente i
penalisti parlamentari.
Nella trattativa un ruolo fondamentale, secondo quanto afferma il figlio di
Vito Ciancimino, spetta al misterioso Signor Franco, uomo dei servizi. Gli 007,
ora, collaboreranno?
Io sono fiducioso che le indagini della magistratura, grazie anche a una parte
dei servizi di questo Paese, riusciranno a raccogliere elementi che ci faranno
fare qualche passo avanti rispetto alla verità. Ma non sono ottimista. La storia
d'Italia non mi fa essere ottimista su questo.
Abbiamo letto nel libro delle ultime ore di Borsellino. Un magistrato
sconvolto, probabilmente, perché viene messo a conoscenza, o scopre, la
trattativa. Dal punto di vista politico si parla spesso oggi di un passaggio non
indolore dalla seconda alla terza repubblica.
Io non mi occupo di politica. Io sono un osservatore esterno che guarda
l'evolversi dei fatti e a un certo punto abbaimo avuto l'esigenza di guardare
questi fatti in una sorta di scansione temporale in cui mettere vicini fatti
politici e fatti criminali. Per dare una visione complessiva.
Da cittadino ti posso dire che vedo una seconda repubblica mai decollata, nata
sopra il sangue dei servitori dello Stato e delle stragi e arrivata a fine
pista. E una terza repubblica che ci aspetta: e se le premesse sono quelle
dell'abbattimento della Costituzione che il presidente Berlusconi continua a
ripetere, allora non sono per nulla buone.
Leggendo il libro ci si rende conto che non è una storia del passato. Ma
viene anche la sensazione di avvertire un argomento già rimosso dalla società.
Tutto quello che riguarda cosa nostra, gli orrori e le brutture e il modo in cui
è stata raccontata in quindici-diciassette anni di black-out informativo ha
indotto i cittadini, l'opinione pubblica a ritenere questi fatti 'altro da noi'.
C'era un brutto sporco e cattivo su cui scaricare il tutto. Veniva poi difficile
immaginare e rendere palusibile che gli stessi che avevano messo un Fiorino
carico di tritolo a Firenze uccidendo una famiglia e una neonata, fossero gli
stessi che andavano a promuovere dal senatore Dell'Utri il giocatore di calcio
Gaetano D'Agostino. È stato raccontato il volto orribile delle stragi e non
quello delle relazioni pericolose. Tutto questo black-out informativo ha
prodotto anche la sensazione che siano fatti relegati a diciotto anni fa, dei
quali chissà se mai riusciremo a sapere la verità. Ma sono fatti che sono
continuati ad accadere, giorno dopo giorno, con dinamiche che anche a noi
addetti al lavoro a volte sfuggono.
Chi farà saltare il banco: la politica o la mafia?
In un Paese come questo nessuno farà saltare il banco. Questo è un Paese incline
al compromesso e un compromesso in cui anche il rumore di sciabiole rimane solo
un rumore. Questo banco non salterà. Vedo delle involuzioni democratiche: a
farne le spese saranno pezzi della Costituzione.
Avete avuto dei problemi, dopo aver pubblicato il libro?
Finora dei segnali che abbiamo ricevuto, io e Sandra abbiamo deciso di non
parlarne e di non raccontarli, perché non apparteniamo alla schiera di coloro i
quali sbandierano pressione, minacce e segnali. Ma qualche segnale c'è stato.
Continuiamo a fare il nostro mestiere, come lo sappiamo fare. Cerchiamo di
mettere insieme i fatti, vogliamo dare una visione corale, la storia di questo
paese è un grande romanzo nero. Noi cerchiamo di illuminare quante più zone
possibile, fornendo un filo logico, dall'inizio alla fine.
Angelo Miotto
Lettera da una città che
muore
L'Aquila, dove il terremoto non e' ancora finito
Ieri mi ha telefonato l'impiegata di una società di recupero crediti, per conto
di Sky.
Mi dice che risulto morosa dal mese di settembre del 2009. Mi chiede come mai.
0Le
dico che dal 4 aprile dello scorso anno ho lasciato la mia casa e non vi ho più
fatto ritorno. Causa terremoto. Il decoder sky giace schiacciato sotto il peso
di una parete crollata. Ammutolisce. Quindi si scusa e mi dice che farà presente
quanto le ho detto a chi di dovere. Poi, premurosa, mi chiede se ora, dopo un
anno, è tutto a posto. Mi dice di amare la mia città, ha avuto la fortuna di
visitarla un paio di anni fa. Ne è rimasta affascinata. Ricorda in particolare
una scalinata in selci che scendeva dal Duomo verso la basilica di Collemaggio.
E mi sale il groppo alla gola. Le dico che abitavo proprio lì.
Lei ammutolisce di nuovo. Poi mi invita a raccontarle cosa è la mia città oggi.
Ed io lo faccio.
Le racconto del centro militarizzato. Le racconto che non posso andare a casa
mia quando voglio.
Le racconto che, però, i ladri ci vanno indisturbati. Le racconto dei palazzi
lasciati lì a morire.
Le racconto dei soldi che non ci sono, per ricostruire. E che non ci sono
neanche per aiutare noi a sopravvivere.
Le racconto che, dal primo luglio, torneremo a pagare le tasse ed i contributi,
anche se non lavoriamo.
Le racconto che pagheremo l'Ici ed i mutui sulle case distrutte. E ripartiranno
regolarmente i pagamenti dei prestiti.
Anche per chi non ha più nulla.
Che, a luglio, un terremotato con uno stipendio lordo di 2mila euro vedrà in
busta paga 734 euro di retribuzione netta.
Che non solo torneremo a pagare le tasse, ma restituiremo subito tutte quelle
non pagate dal 6 aprile.
Che lo stato non versa ai cittadini senza casa,che si gestiscono da soli, ben
ventisettemila,
neanche quel piccolo contributo di 200 euro mensili che dovrebbe aiutarli a
pagare un affitto.
Che i prezzi degli affitti sono triplicati. Senza nessun controllo.Che io pago
,in un paesino di cinquecento anime,
quanto Bertolaso pagava per un'appartamento in via Giulia, a Roma. La sento
respirare pesantemente.
Le parlo dei nuovi quartieri costruiti a prezzi di residenze di lusso. Le
racconto la vita delle persone che abitano lì.
Come in alveari senz'anima. Senza neanche un giornalaio. O un bar.
Le racconto degli anziani che sono stati sradicati dalla loro terra. Lontani
chilometri e chilometri.
Le racconto dei professionisti che sono andati via. Delle iscrizioni alle scuole
superiori in netto calo.
Le racconto di una città che muore. E lei mi risponde, con la voce che le trema.
"Non è possibile che non si sappia niente di tutto questo. Non potete restare
così. Chiamate i giornalisti televisivi.
Gianfranco Helbling
Dove i migranti sono i
padani
Quello
dei frontalieri che sarebbero troppi è un dibattito ricorrente in Ticino da
oltre quarant'anni. Negli anni '60 il boom economico in Svizzera, le nuove
ambizioni professionali dei ticinesi sempre più attratti dal terziario e
l'afflusso di manodopera dal meridione alle province del Nord Italia
determinarono un primo flusso di lavoratori dalle regioni di confine. Da allora
il numero dei frontalieri in Ticino ha oscillato fra i 30 e i 50 mila. Oggi sono
circa 45 mila, su un totale di 175 mila impiegati in Ticino: un lavoratore
ticinese su quattro vive in Lombardia o Piemonte e ogni giorno attraversa il
confine per la pagnotta.
Il contributo dato dai frontalieri al benessere economico dei ticinesi dovrebbe
essere chiaro. Eppure, a cadenze regolari, riesplode la polemica: i frontalieri
sarebbero troppi e, ovviamente, porterebbero via il lavoro ai ticinesi. Fino
alla fine degli anni '90 bastava una rapida occhiata alle statistiche per
dimostrare che l'assunto non è vero: i primi a pagare una crisi economica erano
sempre i frontalieri, che a lungo hanno funzionato da ammortizzatori
congiunturali - il loro numero diminuiva col rallentare dell'economia. Questa
crisi presenta invece un aspetto nuovo: in Ticino sono diminuiti i posti di
lavoro, ma non stanno diminuendo i frontalieri. Questo si spiega anche con
l'entrata in vigore fra Svizzera e Ue della libera circolazione delle persone:
mentre in passato i frontalieri dovevano avere un'autorizzazione per lavorare in
Svizzera, ora possono farlo come in qualsiasi altro paese dell'Ue.
Sull'ambiguità della situazione ha buon gioco la polemica della Lega dei
ticinesi. Tanto che nel dibattito è dovuta intervenire al parlamento federale la
ministra dell'economia e presidente della Confederazione Doris Leuthard. Secondo
Leuthard, il fatto che nel 2009 in Ticino sia aumentato il numero di frontalieri
mentre cresceva la disoccupazione non significa che gli italiani rubino il
lavoro ai locali. Anche se, «laddove vi sono molti lavoratori stranieri la
ricerca di un nuovo impiego dura di più». «I frontalieri sono un elemento di
stimolo per l'economia - prosegue Leuthard - e durante questa crisi nelle
regioni di frontiera la disoccupazione non è cresciuta più velocemente rispetto
ad altre regioni».
Nessun fenomeno di sostituzione. Semplicemente i frontalieri eseguono quei
lavori che i ticinesi non sono disposti a svolgere, o perché considerati poco
prestigiosi, oppure perché con quel che ci si guadagna in Svizzera non si vive.
In un certo senso il Ticino è sempre stato, per la Svizzera, il primo avamposto
della delocalizzazione. Negli anni '70 c'era una fiorente industria
dell'abbigliamento tenuta in piedi da manodopera frontaliera. Ora che la Cina è
maledettamente vicina, in Ticino non si cuce più un bottone. Resta, sul fronte
industriale, una forte presenza dell'orologeria, legata al patrio suolo dalla
necessità di presentarsi col marchio «Made in Switzerland». Ma a montare i
movimenti sono mani lombarde o piemontesi quasi sempre femminili per 2500
franchi lordi (circa 1700 euro), un salario con il quale qui non si campa. Altri
settori con forte presenza di frontalieri sono edilizia, artigianato, turismo,
ristorazione, vendita, logistica, call center e sanità: negli ospedali pubblici
un terzo degli infermieri è costituito da frontalieri.
* direttore del quindicinale Area
22 giugno
Cara bambina di Pomigliano
d'Arco
di Andrea Ermano
Cara bambina di Pomigliano, che mi poni le tue
ingenue domande circa questa nostra Repubblica fondata sulla "Futura Panda", non
è facile trovare le risposte giuste, ma, insomma, vediamo.
Anzitutto, piccola mia, devi sapere che in un mondo nel quale tutti gli
indicatori hanno iniziato a oscillare paurosamente, l’establishment italiano (e
non solo italiano) tenta di correre ai ripari.
Così, la Fiat abbandona la Polonia e riapproda a Pomigliano d'Arco che aveva
abbondonato molti mesi or sono. E tu chiedi perché? Già, perché la Fiat, adesso,
trova utile posizionarsi nella la tua città?
Probabilmente perché vuol muovere alla conquista di quella che si preannuncia la
nuova grande area emergente nell’economia mondiale globalizzata, l’area del
“Mediterraneo allargato”. Si dice che verosimilmente per questa ragione la Fiat
abbia firmato l’accordo, nonostante il “no” della Fiom.
L’area campana rappresenta il luogo più adatto a
proiettarsi nella nuova sfida dell’export automobilistico. La Fiat vuole
ricollocarsi nell’area campana in quanto questa riunisce almeno quattro vantaggi
e non da poco: a) i salari più bassi dell’Europa occidentale, b) il know-how
automobilistico italiano, c) la grande infrastruttura portuale napoletana, d)
l’estrema prossimità con il “Mediterraneo allargato”.
Parafrasando Hans Ruh, potremmo chiederci perché Berlusconi e Marchionne non
propongano ai governanti maghrebini di celebrare presso i loro popoli qualche
referendum tramite il quale sapere se i predetti popoli desiderino davvero
andare a vivere anche loro in un futuro fatto di sviluppo fondato sulla Panda.
Referendum inutili e paradossali, ovviamente, perché la Panda è un destino.
Non si sfugge al destino, mia cara. Così il destino della mia generazione è
stato lo smog, mentre alle generazioni più giovani si è riservata la monnezza. E
chissà che cosa ti aspetta quando sarai grande tu, cara bambina di Pomigliano.
Pomigliano val bene una messa... Una “messa in
quel posto agli operai”, si sarebbe detto un tempo, ma l’espressione suonerebbe
oggi troppo greve e volgare, e quindi non la si usa non più. Io ne ho fatto
menzione per ragioni puramente storico-documentarie.
In cambio della “messa” di Pomigliano, la Fiat ha chiesto un bel po’ di
contropartite, sapendo perfettamente che andranno poi ricontrattate in corso
d’opera. Almeno sul piano salariale. O almeno lo speriamo. Ma intanto hanno
trovato le parole per confessare l'inconfessabile.
Ma tu non stupirti, cara bambina, e impara ad accettare la realtà finché sei
piccola. Era assolutamente necessario che gli imprenditori padani chiedessero,
chiedessero e chiedessero.
Questo "chiedere per non dare" era necessario
affinché a voi meridionali non vengano in mente strane idee circa il vantaggio
di posizione che vi attende proprio lì, dietro a questo "Tornante della Storia",
come il nostro Ministro dell’Economia e della Retorica ama definire il rischio
di bancarotta cui l'Occidente è esposto dopo un ventennio di liberismo
selvaggio.
La destra padana porta a casa un evidente vantaggio perché l’asse del dibattito
si sposta “a destra della Costituzione”, che viene contrapposta (non senza
ricatto) alle desiderio di lavoro degli operai di Pomigliano. La Cgil subisce
una frattura non trascurabile.
Un alto esponente della destra ha dichiarato che anche gli operai trarranno un
grande vantaggio morale dall’accordo, datosi che ricominceranno finalmente a
guadagnarsi il salario con il sudore della fronte dopo avere approfittato per
anni della Cassa integrazione mentre lavoravano in nero, magari per
organizzazioni camorristiche o giù di lì. Così ha parlato un alto esponente
della destra.
Ma tu non offenderti, cara bambina, e impara ad accettare il torto
dell’oppressore, la contumelia dell’uomo superbo.
Immagino che tu ti sia domandata, nella tua
testolina, che cosa significa “Mediterraneo allargato”. No, non occorrerà
allargalo per far spazio al Ponte sullo Stretto di Messina. No, non mi devi
andare a pensare che il Piano Grani Eventi e Grandi Opere preveda lo spostamento
a est del Bosforo o a ovest delle Colonne d’Ercole.
Quando parlano di “Mediterraneo allargato” loro si riferiscono in sostanza
all’antico territorio dell’impero romano che si estendeva per tutta l’Africa
settentrionale e per il Medioriente, fino all’Iraq. È soprattutto lì che la
globalizzazione produrrà, sembra, nuove efflorescenze d’urbanesimo ed è lì che
le masse di inurbati avranno “bisogno”, sembra, delle nostre automobili.
Lo so, tu che sei piccina, dirai ora che tuo nonno ha bofonchiato qualcosa
sull'imperialismo straccione. Be', in fin dei conti il plot fondamentale della
cultura politica italiana è quella lì. E sempre lì si torna, almeno finché il
nostro Paese non rifletterà seriamente sul proprio passato.
Nell’auto-interpretazione nazionale, come imparate
a scuola, il Novecento si compone del Piave che mormorava al passaggio degli
Alpini il 24 maggio. Poi è arrivato il "duce" un omone che non era poi così
cattivo. Dopo un po' è arrivato Bruno Vespa e – oplà – ecco sbarcare gli
Americani. All’epoca dello Sbarco loro, a forza di navigare in su e giù per
l'Atlantico, sono finiti dentro al Mediterraneo, detto Mar Nostrum, e quindi
inevitabilmente dalle nostre parti.
Infine, i soldati di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo
risalirono disordinatamente le valli che altri avevano disceso con orgogliosa
sicurezza, e salendo sempre più su distribuendo stecche di sigarette, cioccolate
e preservativi sono arrivati in Europa.
È perciò che anche noi guardavamo all'Europa. Lì c'erano gli Americani. Stavano
in Europa per tenere d'occhio l'Atlantico, dove avevano un Patto. Adesso invece
gli Americani guardano più al Pacifico che all’Atlantico.
E quindi anche noi guardiamo più al Mar Nostrum che all’Europa.
Grazie al Mar Nostrum, abbiamo già risolto il problema degli sbarchi a
Lampedusa.
Migliaia di individui indesiderati in procinto di delinquere in quanto aspiranti
immigrati clandestini. Pare che costoro, grazie al governo di Tripoli, vengano
trattenuti in appositi campi di trattenimento, in attesa di ricevere il
sacramento del battesimo cattolico dalle mani del card. Biffi e una 850 coupé da
quelle del dott. Marchionne.
Ignori i nostri programmi umanitari? Questa materia non è ancora in programma a
scuola? Vedrai che la Gelmini ce la mette, magari affidandola agli insegnanti di
religione.
Vuoi sapere quel che penso io di tutto questo? Io,
cara la mia bambina di Pomigliano, penso che alti guai attendano la nostra
povera Italia, se ora si tuffa nel “Mediterraneo allargato”, fuori da una seria
concertazione europea, in eventuale dissidio con la politica estera occidentale
e magari fidando sul sostegno degli amici Putin e Gheddafi.
Diceva una volta un vecchio: “Occorre aggrapparsi all’Europa”. Aggiungo io: in
Europa occorrerebbe aggrapparsi a un serio dibattito sull’uso che i popoli
potrebbero fare dell’Unione a favore di una Governance politica globale.
Non capisci la parola “Governance”? Uhm, vediamo. “Governance” significa che
ciascuno contribuisce a evitare il caos, il panico e le guerre. Come? Facendo
ciascuno la propria parte per favorire un ragionevole contenimento dell’anarchia
capitalistica, delle guerre di religione e dei disastri ambientali.
Su questo “uso dell’Europa” occorrerebbe, bambina mia, sollecitare una grande
discussione collettiva in ogni sezione di partito.
Peccato che non ci siano più né le sezioni né i partiti.
Di tutta la “vecchia politica” finita sotto i cingoli del "nuovo che avanza" una
cosa hanno salvato. Una sola. Porta anch'essa un nome in odore di "coniche". Ma
non erano le "sezioni".
Gianpiero D'Alia e il
tentativo di oscurare internet
Con il
pacchetto sicurezza, potrebbero finire fuori dalla rete apologia di reato e
istigazione a delinquere. Gli ISP potrebbero diventare l'ascia dell'inibizione.
E Facebook potrebbe rischiare l'esilio dalla rete italiana
Roma - La
sicurezza pubblica passa dalla rete: in caso di apologia di reato, in caso di
istigazione a delinquere, i provider potrebbero trovarsi costretti a innescare
misure per filtrare le pagine sotto indagine. Dietro l'angolo, in caso di
inottemperanza, c'è la minaccia della corresponsabilità. Nelle mani dei provider
ci potrebbe essere l'onere di percorrere il crinale che divide la libertà di
espressione e il reato di opinione.
La disposizione che potrebbe costringere i provider a filtrare le sortite dei
cittadini della rete è contenuta nel pacchetto sicurezza, il noto disegno di
legge 733: sotto forma di un emendamento incastonato nel testo dal senatore
Gianpiero D'Alia (UDC), si introduce nel DDL l'articolo 50-bis, "Repressione
di attività di apologia o istigazione a delinquere compiuta a mezzo internet".
Il Senato ha approvato ieri il testo definitivo, testo che ora rimbalzerà alla
Camera.
Al comma 1 si recita:
Quando si procede per delitti di istigazione a delinquere o a disobbedire alle
leggi, ovvero per delitti di apologia di reato, previsti dal codice penale o da
altre disposizioni penali, e sussistono concreti elementi che consentano di
ritenere che alcuno compia detta attività di apologia o di istigazione in via
telematica sulla rete internet, il Ministro dell'interno, in seguito a
comunicazione dell'autorità giudiziaria, può disporre con proprio decreto
l'interruzione della attività indicata, ordinando ai fornitori di connettività
alla rete internet di utilizzare gli appositi strumenti di filtraggio necessari
a tal fine.
Se le parole di un cittadino della rete dovessero finire sotto indagine per
essersi pronunciato riguardo a certi delitti, se il cittadino della rete dovesse
essere sospettato di aver incoraggiato a commettere un reato, l'autorità
giudiziaria potrebbe comunicare al Ministro dell'Interno la necessità di
intervenire. "Ci sono i presupposti perché il ministro agisca in modo
discrezionale" spiega l'avvocato Daniele Minotti, contattato da Punto
Informatico: la formulazione del testo non sembra obbligare il Ministro a
disporre il decreto per mettere in moto i provider.Ma una volta emesso il
decreto la palla passerà agli ISP: dovranno innescare "appositi strumenti di
filtraggio", dei quali tracceranno i contorni tecnici e tecnologici il Ministro
dell'interno, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico e con quello
della pubblica amministrazione e innovazione. Avranno 24 ore per isolare dalla
rete la pagina indicata dal decreto del Ministro: a pendere sul capo del
provider potrebbero esserci sanzioni che oscillano dai 50mila ai 250mila euro.
Ma soprattutto, sottolinea l'avvocato Minotti, l'ombra dell'accusa di essere
corresponsabili di "apologia o di istigazione in via telematica sulla rete
internet". "Rischiano di essere accusati di concorso - spiega Minotti - si
tratta di un meccanismo perverso: avere l'obbligo giuridico di impedire un
evento e sfuggire a quest'obbligo equivale a lasciare che altri continuino a
compiere il reato e si finisce per dover rispondere di reato omissivo improprio.
Pagando per la stessa imputazione". Un'imputazione che, delineata dagli artt.
414 e 414 c.p., è punita con il carcere: da 1 a 5 anni per l'istigazione a
delinquere e per l'apologia di reato, da 6 mesi a 5 anni per l'istigazione alla
disobbedienza delle leggi di ordine pubblico o all'odio fra le classi sociali.
L'articolo 50-bis del DDL prevede in sostanza che, in caso di indagini relative
a delitti di apologia di reato e di istigazione a delinquere o a disobbedire
alle leggi, in caso di decreto emesso dal Ministro i provider operino così come
disposto per quanto riguarda pedopornografia e gambling. Fatta eccezione per
ordinanze della magistratura come quella emessa nel caso delle sigarette vendute
online o nel caso di The Pirate Bay, solo per gli abusi sui minori riversati
online e solo per il gambling non autorizzato mediato dalla rete è possibile
ordinare ai provider di operare il filtraggio. Le sanzioni che rischiano i
provider che non procedono a rendere irraggiungibile la pagina sono le stesse di
quelle previste dal decreto Gentiloni in materia di pedopornografia online: in
entrambi i casi incombe sugli ISP un'ammenda da 50mila a 250mila euro, in
entrambi i casi i provider potrebbero rischiare la corresponsabilità.
Le poche parole contenute nell'articolo 50-bis potrebbero aprire uno squarcio
su uno scenario inquietante: l'avvocato Minotti sottolinea che i reati
d'opinione sono reati che non sono inquadrati dalla legge in maniera definita,
che potrebbero sovrapporsi con la manifestazione del pensiero dell'individuo, un
diritto tutelato dall'articolo 21 della Costituzione. I provider, concordano
i consumatori, potrebbero trovarsi ad agire come setacci della libera
espressione: il filtraggio può essere ordinato qualora "sussistono concreti
elementi che consentano di ritenere" che sia stato commesso un reato.
Sono numerosi gli interrogativi che si configurerebbero, qualora il DDL dovesse
convertirsi in legge senza che l'art.50-bis venga stralciato. L'attenzione
dell'autorità giudiziaria potrebbe concentrarsi ad esempio su un video postato
su una piattaforma di sharing. Nell'ipotesi che la piattaforma non rimuova il
contenuto su segnalazione, dovrebbero intervenire i provider. Che potrebbero non
avere i mezzi per agire in maniera chirurgica, e potrebbero trovarsi costretti a
inibire l'accesso all'intero dominio. "L'applicazione del DDL appena approvato -
conferma a Punto Informatico l'avvocato Guido Scorza - porta come automatica
conseguenza il ritorno del paese ad un film liberticida già visto 10 anni fa:
quello in cui per impedire la circolazione di un contenuto ritenuto illecito si
sequestrava un intero server".
Gli ISP, in attesa del testo consolidato del DDL, manifestano apprensioni e
denunce. Assoprovider, che poche settimane fa si era espressa in materia, è
netta: "Lo schema ormai collaudato - spiega a Punto Informatico il presidente
Dino Bortolotto - è che se qualche reato viene commesso per mezzo di Internet
allora è indispensabile un intervento legislativo speciale che contenga
necessariamente un coinvolgimento dei provider (ovviamente italiani) nell'azione
di repressione e dove le sanzioni per i provider che non ottemperano in tempi
richiesti ovviamente non tengono in nessun conto né delle capacita operative ed
economiche dei provider". "Come dire - affonda Bortolotto - che con la scusa di
perseguire un fine nobile (perseguire un reato) si determinino delle misure che
ledono significativamente la libertà d'impresa di chi non ha commesso alcun
reato". Il presidente di Assoprovider scaglia una provocazione: "ad esempio per
catturare tutti i latitanti perché non obbligare tutti gli esercizi pubblici ad
effettuare l'identificazione dei frequentatori e ovviamente, in caso di mancata
identificazione di un latitante, erogare una multa da 50mila a 250mila euro"?
"Se fosse vero - paventa invece il presidente di AIIP Paolo Nuti - ci troveremmo
di fronte ad un provvedimento che sovverte, e non sarebbe la prima volta, il
concetto di sequestro". "Anziché concentrare l'attenzione su chi utilizza
Internet per compiere reati e rimuovere i contenuti illecitamente diffusi -
spiega Nuti a Punto Informatico - ci si limiterebbe a nasconderne l'esistenza ad
un'opinione pubblica giustamente allarmata, ma sostanzialmente inconsapevole
della differenza che corre tra pull e push, tra internet e la televisione, tra
censura e sequestro". "Se fosse vero - denuncia Nuti - il prossimo passo
potrebbe essere il ripristino della censura, espressamente esclusa dall'articolo
15 della Costituzione, delle comunicazioni interpersonali".
Ma il senatore D'Alia, che pure in passato si è fatto promotore di altre misure
di controllo della rete, si mostra soddisfatto dell'integrazione
dell'emendamento. Un emendamento che fa seguito alle invettive scagliate contro
coloro che su Facebook inneggino a capi mafiosi, a gruppi terroristici, alla
violenza. D'Alia nei giorni scorsi aveva definito Facebook "un social network
che si sta rendendo complice di ogni genere di nefandezza, cavalcando per puri
motivi pubblicitari i più beceri istinti emulativi". Il senatore aveva promesso
"la regolamentazione di un settore che somiglia sempre più a una giungla dove
tutto è tollerato". Il primo passo verso la regolamentazione è stato compiuto:
"In questo modo - ha commentato D'Alia nelle scorse ore - diamo concretezza alle
nostre iniziative per ripulire la rete, e in particolare il social network
Facebook, dagli emuli di Riina, Provenzano, delle BR, degli stupratori di
Guidonia e di tutti gli altri cattivi esempi cui finora si è dato
irresponsabilmente spazio".
"L'ICT - denuncia l'esperto Stefano Quintarelli sulle pagine di Punto
Informatico - è un tema specialistico non così ampiamente noto ai parlamentari.
Esiste la Fondazione Bordoni che è un thinktank in materia di TLC, che ha sempre
lavorato per il ministero delle Comunicazioni." "È stata consultata? - si chiede
Quintarelli - Non credo proprio che avrebbero espresso parere favorevole a un
provvedimento come questo. E se non è stata consultata, sarebbe cosa buona e
giusta farlo, per il futuro". "Internet è uno strumento di comunicazione -
ammonisce Quintarelli - non un'arma di diffusione di massa".
Gaia Bottà
Alessandro Robecchi
Il vecchio che avanza
Come
ogni anno allo scoccare dell'estate aspetto con ansia tre cose: le granite, i
bagni al mare, e l'assemblea dei giovani di Confindustria. Specialmente questo
evento mi mette di buonumore: i giovani imprenditori sono i figli dei vecchi
imprenditori, il ripetersi dei cognomi è confortante: sentendo recitare dai
figli le trite favolette padronali uno pensa: «Ma 'sta cazzata non l'aveva già
detta il padre?», e si rassicura sulla tenuta della famiglia come istituzione.
L'altro giorno è toccato a Federica Guidi, figlia di Guidalberto Guidi (Ducati
energia), che si fregia del titolo di giovane nonostante i quarant'anni suonati.
Ha subito mandato un caro pensiero ai giovani, quelli veri, dicendo che hanno
paura del futuro. E questo, naturalmente, perché «viviamo al di sopra delle
nostre possibilità». Insomma: ci rammolliamo nel lusso con welfare e pensioni.
Poi è passata allo sport nazionale: picconare la Costituzione. L'articolo 41,
ovviamente, che con la libertà d'impresa non c'entra niente, ma la cui
abolizione consentirebbe una più spensierata introduzione della schiavitù. E poi
l'articolo 75, quello che vieta i referendum abrogativi in materia fiscale. Lei
invece vorrebbe usare proprio i referendum contro le tasse. Lo dice in modo
arguto: «Consentire al popolo di decidere in che misura tassarsi». È chiaro che
non pensa al popolo (aliquota 23 per cento), ma ai suoi amici figli di
imprenditori lì davanti (aliquota 43 per cento), che infatti si spellano le mani
applaudendo. I giovani imprenditori sì che sono coraggiosi: dicono cose che i
vecchi imprenditori pensano da sempre ma si vergognano di dire in pubblico.
Telegiornali, potere politico, gazzette e commentatori gioiscono. Che grinta!
Che coraggio! Mancavano solo le trombette stile Sudafrica. Chissà, forse tutti
sperano di leggere un giorno su una scheda elettorale: «Vuoi abolire l'Irpef?».
Niente male per una giovane di mezza età, ma tranquilli: può ancora peggiorare.
Crisi lavorativa, massacro
sindacale
Il bollettino annuale della International Trade
Union Confederation (ITUC)- rappresentante di 170 milioni di lavoratori in 157
Paesi - dice: nel 2009, 101 persone sono state uccise mentre difendevano i
diritti dei lavoratori
Scritto da Sandro Bozzolo
Tempi duri per i lavoratori, e peggiori per i
sindacalisti. Questo almeno è ciò che emerge dal bollettino annuale della
International Trade Union Confederation (ITUC)- la più grande organizzazione nel
contesto sindacale nel mondo, rappresentante di 170 milioni di lavoratori in 157
Paesi: nel 2009, 101 persone sono state uccise mentre difendevano i diritti dei
lavoratori, con un preoccupante incremento del 30 percento rispetto ai dati
dell'anno precedente.
Ancora una volta, in testa alla macabra classifica si trova la Colombia, che
negli ultimi decenni - dal momento dell'ingresso del paramilitarismo nella scena
del conflitto nazionale, avvenuta negli anni Settanta- ha visto scomparire, per
morte violenta, più di 2.000 sindacalisti. Con una drammatica media di una
vittima ogni tre giorni, falciediate soprattutto nei settori agricoli ed
educativi. Quarantotto sono i caduti nell'ultimo anno, ai quali vanno aggiunti
gli almeno 400 casi di minacce alla vita, alla libertà ed all'integrità fisica
sofferte dai lavoratori sindacalizzati. Cifre che rispettano il trend registrato
negli anni precedenti, e confermano una violenza che non opera discriminazione
sessuale né cavalleria, quando si tratta di massacrare chi sta dalla parte dei
deboli. Quasi la metà degli omicidi avvenuti nel 2009, ventidue, sono infatti
donne.
Oltre al martoriato caso colombiano, si registrano 16 omicidi in Guatemala, 12
in Honduras, 6 in Messico e Bangladesh (questi ultimi, compiuti dalla stessa
polizia, che ha soppresso con le armi una richiesta di aumento salariale), 4 in
Brasile, 3 nella Repubblica Dominicana e nelle Filippine, una in India, in Iraq
e in Nigeria. Preoccupa soprattutto l'incremento delle violenze nell'Honduras
post-golpista, mentre il Guatemala conferma una tendenza di repressione contro i
lavoratori che si è riaccesa negli ultimi anni.
Eppure, non sono solamente i numerosi omicidi a preoccupare i sindacalisti, in
quest'epoca di crisi costante. Il bollettino Ituc analizza la costante
irregolarità che caratterizza il mercato del lavoro, definendo "vulnerabili" le
condizioni contrattuali del 50 percento della manodopera attiva, a livello
gloable. In particolare, sono vittime della precarietà i lavoratori delle zone
franche industriali, soprattutto nel Sudest asiatico e in America Centrale, gli
impiegati nel servizio domestico, i migranti ed i lavoratori agricoli. Ancora
una volta, sono le donne - la maggioranza, all'interno di questi settori - a
soffrire la mancanza di tutela.
Rimane da risolvere, infine, la contraddizione che separa la tutela legislativa
dalla associabilità effettiva di molti lavoratori. Spesso, infatti, nonostante i
diritti sindacali siano protetti dalle varie Costituzioni, in un gran numero di
Paesi gli scioperi continuano a essere severamente proibiti. Un problema che non
è stato risolto neppure nel Sessantesimo Anniversario dell'Accordo 98, celebrato
dall'Organizzazione Internazionale del Lavoro nel 2009. Paesi quali Canada,
Stati Uniti, Cina, India, Iran, Corea del Sud, Messico, Tailandia e Vietnam
continuano a rifiutarsi di firmare un trattato che rafforza la tutela sindacale,
con conseguenze piuttosto evidenti: circa la metà della popolazione economica
attiva del mondo continua a essere privata di un diritto ormai ritenuto,
solamente a parole, universale.
Le Infoladies del Bangladesh
Una piccola rivoluzione rosa sta prendendo
piede in Bangladesh
Le
"Infoladies" sono un gruppo di giovani donne bengalesi coraggiose, che in barba
alle convenzioni che le vorrebbero confinate sul più basso gradino della scala
sociale, hanno la presunzione di poter cambiare il mondo. La loro missione, come
suggerisce il nome che le identifica, è quella di portare conoscenza ai villaggi
più poveri del Bangladesh rurale, paralizzati ai margini del progresso
tecnologico. Armate di computer portatili, cellulari, web cam e apparecchiature
mediche di base - tutte abbastanza leggere da poter essere trasportate a
tracolla - le signore dell'informazione macinano ogni giorno chilometri e
chilometri in sella a una bici per raggiungere gli angoli più sperduti delle
campagne del distretto di Gaibandha, nel nord del Paese, e garantire alla
popolazione l'accesso a nozioni essenziali alla sopravvivenza.
Sempre più popolari, il loro arrivo è atteso con ansia dai contadini bengalesi
pieni di dubbi e curiosità inespressi: come si eliminano i parassiti che
rovinano il raccolto? Qual è il rimedio per curare le malattie della pelle? Come
difendersi da un marito violento? O, ancora, cosa fare per smettere di avere
figli?
Le risposte a queste domande sono contenute nei netbook delle Infoladies e
tradotte in Bangla con un linguaggio semplice, arricchito di immagini e
contenuti multimediali per poter essere comprese da tutti, indipendentemente dal
livello di istruzione (in Bangladesh, il tasso di alfabetizzazione totale della
popolazione è del 56percento).
Se nella maggior parte dei casi le giovani donne sono in grado di trovare la
soluzione giusta rovistando nei giganteschi database contenuti nei loro
computer, qualche volta le richieste sono troppo specifiche per una risposta
standard. Quando succede, i quesiti vengono trasmessi via web a un call center
situato a Dhaka e gestito dai volontari di una Ong.
Sì, perché dietro il progetto umanitario, oggi ancora in fase di test, c'è D.Net
(l'acronimo sta per Research Develpment Network), un'organizzazione no profit
nata nel 2001 con lo scopo di supportare lo sviluppo socio-economico della
nazione attraverso gli strumenti dell'information technology. Costituita da una
squadra di brillanti attivisti, il network si occupa di fare ricerca su issue
quali educazione, diritti umani, salute, agricoltura e calamità naturali e di
trovare idee innovative - ma soprattutto semplici - in grado di accrescere il
benessere del popolo locale, eliminando le disuguaglianze sociali e estirpando
le sacche di povertà.
Funzionante in buona parte grazie al contributo di volontari, D.Net è sempre in
cerca di nuove risorse da inserire nella sua rete per portare avanti i numerosi
progetti che sostiene. Come per esempio tenere in vita Gunijan il giornale on
line delle personalità eminenti del Bangladesh, attraverso la redazione di
articoli, la realizzazione di interviste e la traduzione di contenuti in
inglese; oppure promuovere il portale BORN - Bangladesh Online Research Network
- dedicato alla condivisione della cultura nazionale o, infine, offrire servizi
di consulenza telefonica agli abitanti in difficoltà lavorando nei call center.
Per proporre la propria candidatura basta scrivere una mail a: volunteer@dnet.org.bd
o compilare un form on line.
Camilla Mastellari
15 giugno
Assalto israeliano, c'è un
precedente
dell’on.
Agostino Spataro
Credo che il
tragico, inammissibile assalto di questa notte, in acque internazionali, delle
forze speciali israeliane contro la nave della solidarietà che portava viveri e
medicine alla popolazione assediata di Gaza, sia un altro punto all’attivo
dell’attuale governo di Netanyahu per giungere… al completo isolamento
d’Israele in M.O. e nel mondo.
Tuttavia, non è
un commento che qui vorrei fare, piuttosto ricordare una precedente, analoga
iniziativa organizzata, ai primi di febbraio del 1988, dall’Olp di Yasser Arafat
e sostenuta da un vastissimo schieramento internazionale di forze politiche,
culturali, sindacali e associazioni pacifiste: “la nave dei ritorno” dei
palestinesi esiliati che doveva partire dal Pireo con destinazione il porto
israeliano di Haifa.
Per una serie di
oscure e drammatiche circostanze, quella nave, alla fine, non partì né dal Pireo
né dal porto di Limassol (Cipro) e così fu evitata una tragedia forse più grave
di quella attuale.
Ma andiamo con
ordine, sulla base degli appunti presi in quelle concitate giornate.
Ad Atene erano
convenute circa 1500 persone, la gran parte vecchi rifugiati palestinesi e
famiglie cacciati dalle loro case dopo la prima guerra arabo-israeliana del 1948
e dispersi nei campi profughi di Giordania, Siria, Libano ed Egitto.
Ad accompagnarli
in questa pericolosa missione, che il governo di Shamir considerava “una
compagnia di assassini” da bloccare con ogni mezzo, c’erano centinaia di
rappresentanti di partiti, sindacati, giornalisti, di associazioni umanitarie e
pacifiste di molti paesi in gran parte europei e occidentali.
Sapevamo che
oltre alla solidarietà la nostra funzione su quella nave sarebbe stata anche
quella di scudo umano per scoraggiare la reazione violenta degli israeliani.
La
delegazione italiana era composta: dal sottoscritto (per il PCI), da Raniero La
Valle (per Sin. Indipendente), La Chiara (per PSI), Nordio (Acli), Ferrucci
(Ass. giuristi democratici).
V’i erano
anche diversi giornalisti fra i quali ricordo: F. Isman, (Messaggero) L. Tersini
(Tg3), I. Gagliano (Tg2), G. Berenson (Repubblica) e un giornalista dell’Ansa.
Con noi viaggiò
anche mons. Hilarion Cappucci, da lungo tempo esiliato a Roma per imposizione
del governo d’Israele al Vaticano, che- come altri profughi palestinesi-
desiderava ritornare nella sua terra.
Ci era stato
assicurato che la nave (noleggiata dall’armatore Vassiliké) era pronta a salpare
l’indomani (il 10 febbraio). Giunti in hotel, non disfacemmo le valigie per
tenerci pronti per l’imbarco. Invece, nessuno ci convocò per la partenza.
L’attesa cresceva e si propagava, tramite i media, nell’opinione pubblica
internazionale.
L’Olp si stava
giocando una carta, certo, rischiosa, ma che poteva avere un impatto favorevole
davvero eclatante. Nessuno, nel mondo, avrebbe potuto negare a questa gente il
diritto al ritorno.
Tranne, gli
israeliani che forse non volevano cedere il copyright acquisito con la loro
“nave del ritorno”.
Alla prima
conferenza-stampa (affollatissima di giornalisti e operatori tv), Bitar,
rappresentante Olp ad Atene, si diffonde sul significato dell’iniziativa, ma
nulla dice sulla mancata partenza della nave. S’intuisce che c’erano difficoltà.
Ma quali? Andiamo alla ricerca d’informazioni, di dettagli.
I capi
palestinesi appaiono imbarazzati e nervosi e soprattutto muti. Dopo alcun giorni
d’inutile attesa, riusciamo a capire qualcosa: le pressioni congiunte
israeliane e Usa avevano fatto breccia sul governo greco del socialista
Papandreu (papà dell’attuale premier) per bloccare l’iniziativa.
Con gli
armatori gli israeliani furono chiari: se avessero noleggiato la nave,
rischiavano di vederla affondare.
Fra le
delegazioni straniere si diffuse una certa sfiducia. La pressione israeliana si
fece sentire anche all’interno del nostro hotel. Soprattutto, nei confronti dei
giornalisti stranieri ai quali fu imbucato, sotto la porta della camera, un
ciclostilato anonimo ma fortemente dissuasivo.
Le agenzie
fecero sapere che i Lloyd di Londra non intendevano assicurare la nave
eventualmente noleggiata.
Il pomeriggio
del 13, lo sceicco Sayed, presidente del Consiglio nazionale dell’Olp, annunciò
alle delegazioni e alla stampa che “lunedì la nave partirà...da Cipro”
La notizia fu
accolta con un fragoroso applauso. A me vennero alla mente le note della celebre
canzone di Endrigo.
I capi
palestinesi altro non dissero “per evidenti motivi di sicurezza”. Assicurarono
che la nave sarebbe partita da Cipro e che avrebbe impiegato 4 – 5 giorni per la
traversata. Insomma, la missione era salva.
Ricominciano le
discussioni sui rischi. Si valutano attentamente le parole contenute nella
dichiarazione della “colomba” Peres, ministro degli esteri, il quale aveva
avvertito che la nave del ritorno dei palestinesi era “un atto di ostilità
contro lo Stato d’Israele” ossia un atto di guerra che li autorizzava a
difendersi. Per il “falco” Shamir (primo ministro) la nave non avrebbe avuto
scampo.
L’indomani
(14/2), i dirigenti dell’Olp ci informano che a Larnaka era stata fatta saltare
col plastico un’auto con dentro cinque uomini dei servizi palestinesi di “Forza
17”.
Era il
biglietto da visita degli israeliani.
Ci dicono che,
nonostante tutto ciò, presto saremmo partiti per Cipro a bordo di due aerei
presi a nolo. Insomma, la minaccia israeliana cominciava a prendere corpo,
tragicamente.
Sale la tensione
anche nella delegazione italiana che decide d’inviare, tramite il nostro
ambasciatore ad Atene, Marco Pisa, un telegramma al Presidente della Repubblica,
al presidente del Consiglio Goria e al ministro degli esteri Andreotti per
chiedere passi adeguati nei confronti di Shultz, segretario di stato Usa, che
l’indomani avrebbero incontrato a Roma.
Nella notte
telefono a Giorgio Napolitano, responsabile esteri del Pci, per informarlo della
situazione e chiedere consiglio. Si mostra preoccupato e vuol sapere delle
presenze dei rappresentanti d'altri partiti progressisti europei. Rispondo che
non erano tante e che qualcuno era già rientrato. Sul che fare non sa dirmi,
avrebbe voluto consultare altri dirigenti del partito.
Ci saremmo
risentiti domani, ma- come vedremo - non sarà necessario.
L’indomani,
infatti, intorno alle 11,00, scendemmo con le valigie nella hall pronti a
partire, in aereo, alla volta di Larnaka. Già un nutrito gruppo di rifugiati
palestinesi ci aveva preceduto.
L’attesa si
fa snervante, i bus non arrivano. Temiamo nuovi rinvii. I dirigenti dell’Olp
c’invitano a partecipare a un’improvvisata conferenza stampa.
Abu Sharif,
il portavoce dell’Olp, annuncia che la “nave del ritorno”, ancorata nel porto di
Limassol, era stata fatta saltare in aria dagli israeliani qualche ora prima.
La nave non era
stata noleggiata, ma addirittura acquistata dall’Olp con l’aiuto dei sauditi.
Fu a questo
punto che ci convincemmo che la missione era decorosamente fallita e decidemmo
di prendere il primo aereo per Roma.
9 giugno
Bhopal, la strage impunita
Guglielmo Ragozzino
Lo stabilimento chimico dell'Ucil - Union Carbide India Ltd - a Bhopal rilasciò,
nella notte tra il 2 e il 3 dicembre 1984, 40 tonnellate di gas tossici,
soprattutto isocianato di metile. Nei primi giorni morirono 6.000 persone. Molti
ebbero gravi conseguenze, persero la vista, si ammalarono di cancro, di malattie
respiratorie e neurologiche. Le conseguenze colpirono i figli delle madri
incinte e i figli dei figli. Dopo un quarto di secolo, ieri, la prima sentenza
di un tribunale indiano. Sette amministratori dell'Ucil di allora, tutti
indiani, sono stati condannati a due anni di carcere e al pagamento di 100.000
rupie, duemila euro o poco più. Anche Ucil è stata condannata a pagare 500.000
rupie. I condannati potranno appellarsi e la nuova fase processuale potrebbe
durare anni. Qualche centinaio di attivisti ha manifestato il proprio scandalo
per una sentenza tanto mite.
Uno dei condannati è Keshub Mahindra. Questi è il presidente dell'industria di
autoveicoli e macchine movimento terra Mahindra&Mahindra, tra le prime dieci
imprese dell'India con un fatturato di oltre 6 miliardi di dollari. Mahindra si
è laureato alla Wharton University della Pennsylvania, ed è notoriamente «un
filantropo che indirizza con efficacia fondi al settore sociale....Oggi egli è
un'icona, un entusiasmante leader negli affari.....». Questo almeno si può
leggere nel sito aziendale di Mahindra. Potrà mai un uomo siffatto finire in
carcere? Non potrà. L'intero sistema capitalistico indiano si sentirebbe
manomesso.
Il disastro di Bhopal era previsto, era inevitabile. Qualche mese prima, il 21
giugno 1984, la direzione aziendale aveva interrotto il raffreddamento
dell'impianto che produceva il gas velenoso, che poi serviva da base per qualche
concime. Il risparmio ottenuto era di ben 39 dollari al giorno. Quello stesso
giorno il sindacato, cui i padroni dell'Ucil aveva detto in molti modi di non
fare tante storie, dichiarò che «Bhopal giaceva alla bocca di un vulcano». Oggi,
passati 25 anni, il vulcano continua a eruttare veleni, a uccidere. Nessuno,
neppure il filantropo Mahindra, ha cercato di risanare l'area dell'Ucil che
contamina acqua, aria, terra, là dove sopravvivono - dire vivono è troppo -
migliaia di persone, le più povere e disperate della città.
Anni dopo quel disastro, nel 1989, Union Carbide ha pagato 470 milioni al
governo indiano. Alla gente di Bhopal sono arrivati pochi spiccioli. Union
Carbide non si è più ripresa e nel giro di altri 10 anni è finita in mano al
concorrente, Dow Chemical. Quest'ultimo ha avuto buon gioco nel dire che del
disastro non sapeva niente e quindi non era in grado di liberare Bhopal dai
liquami velenosi. Comunque, ha ripetuto, non era affar suo.
Storie di ieri, storie indiane, storie del quarto mondo, delle colonie, del
capitalismo. Oggi l'attualità parla di Bp, un'altra multinazionale e della sua
macchia nera nel Golfo del Messico. Qui, nel mondo dei ricchi, il 20 aprile di
quest'anno, la perdita di petrolio è cominciata perché la piattaforma
galleggiante presa in affitto costava mezzo milione di dollari al giorno e non
si poteva aspettareun altro giorno, il tempo necessario per le misure di
sicurezza, già minori di quelle obbligatorie in altri mari, sempre per la fretta
di guadagno e la smania di sfuggire, da veri petrolieri da film, ai controlli
pubblici. I morti nell'incendio sono stati undici, non undicimila, ma il
principio del profitto e del disprezzo per le vite degli altri è uguale. Bhopal
non ha insegnato niente.
Italia, uno
steccato contro i vu' cumpra'
"Il dettaglio progettuale - spiega Simone Villa, assessore alla Polizia locale e
Sicurezza- manca ancora, ma a bilancio 2010 è stato inserito un emendamento per
garantire un finanziamento pari a centomila euro per recintare il parcheggio"
Una recinzione contro i vu' cumpra'. Questa la proposta lanciata dalla giunta
leghista del comune di Monza per far fronte al problema dell'abusivismo. "Il
dettaglio progettuale - spiega Simone Villa, assessore alla Polizia locale e
Sicurezza- manca ancora, ma a bilancio 2010 è stato inserito un emendamento per
garantire un finanziamento pari a centomila euro per recintare l'area del
parcheggio davanti all'ospedale nuovo". La scelta, di per sé, non è una novità.
Muri e steccati sono ormai diventati la soluzione più gettonata per risolvere
problemi di vicinato o di convivenza difficili. La recinzione che circonderà il
perimetro del parcheggio a pagamento ostacolerà l'ingresso dei vu' cumpra',
garantendo a quanti si recano in ospedale di non essere disturbati dalle
richieste e dalle pressioni dei venditori, spesso molto insistenti.
"L'area antistante il San Gerardo - continua Simone Villa - ha sempre conosciuto
una grande presenza di venditori abusivi, ma negli ultimi anni, in coincidenza
con gli sgomberi nel centro storico, la situazione sta diventando insostenibile
e ci sono arrivate moltissime lamentele da parte di quanti vengono assaliti dai
venditori nel parcheggio". A quanti sollevano l'obiezione che sgomberando e
spostando, i problemi non si risolvono, l'assessore risponde facendo riferimento
al pragmatismo della Lega che punta alla soluzione immediata delle questioni per
dare risposte concrete ai cittadini. Basta, quindi, coi sofismi e con l'analisi
delle conseguenze future dei provvedimenti e largo all'azione.
Sull'efficienza leghista esprime qualche perplessità Giuseppe Civati,
consigliere della regione Lombardia nella circoscrizione di Monza per il Pd, che
accusa la giunta di ingigantire le questioni relative all'immigrazione a uso e
consumo politico. La recinzione, secondo l'esponente del Pd, sarebbe "una
modalità di risoluzione scontata e banale per chi è a corto di idee". "Qualche
anno fa - aggiunge Civati - c'è stata la stagione delle ronde, poi gli sgomberi
e ora arrivano le recinzioni. Nessuno lo dice, ma tutti questi espedienti sono
falliti e non hanno mai raggiunto gli obiettivi sperati. Non solo a Monza, ma
anche a livello nazionale, da quando c'è la Lega al governo, gli immigrati sono
aumentati. La giunta monzese, tra l'altro, ha una certa passione per le
recinzioni. Qualche tempo fa, quando c'era in progetto di costruire un centro di
accoglienza per gli immigrati, che poi è diventata una residenza per anziani, la
Lega voleva circondare l'area col filo spinato".
Desta qualche perplessità anche il costo della recinzione, che comporterebbe una
spesa di centomila euro. Una somma onerosa da sostenere, visti i tempi di crisi.
"Se un problema c'è - conclude Civati - allora va risolto. Non esistono buoni e
cattivi, ma iniziative stupide e intelligenti. Prima di spendere centomila euro,
conviene capire se non esistano altre soluzioni meno costose e più efficienti".
Benedetta Guerriero
1 giugno
Fragole nucleari
Sono 6.480 persone e sono i sottoscrittori della petizione "No scorie nucleari"
che l'attore Ulderico Pesce ha lanciato dal suo sito www.uldericopesce.it. «I
depositi nucleari -ha spiegato l'artista- utilizzano l'acqua per raffreddare il
materiale radioattivo incandescente che cercano di conservare. E l'acqua, a
contatto con la radioattività lo diventa a sua volta. Una buona parte viene
contaminata e riversata nel Mar Tirreno, nel Mar Jonio e nel torrente Arrone,
nei pressi del Deposito nucleare della Casaccia, a 25 chilometri da Roma. E
questo è insopportabile. Bisognerebbe rendere inerte questo liquido, portandolo
allo stato solido: vetro o ceramica, come si fa in altre parti del mondo e
invece da noi viene rilasciata nei torrenti. Nel Po addirittura». Ulderico Pesce
racconta che gran parte delle sue scoperte le ha fatte durante la preparazione
del suo spettacolo "Storie di scorie". Non fa nomi durante la perfomance, ma non
ce n'è bisogno. Prima di esibirsi ha raccontato tutto.
Il docente Angelo Chimienti, che ora è morto, nel 2001 gli ha segnalato la
presenza a Rotondella, in provincia di Matera, di una condotta lunga 5 km che
scarica nel mar Jonio liquido radioattivo proveniente dal deposito nucleare
Enea. «Questo tubo s'era bucato nel marzo del 1993. Il liquido radioattivo aveva
contaminato il terreno e vari prodotti agricoli. Il giudice Nicola Maria Pace,
allora Procuratore della Repubblica di Matera, lo aveva fatto sequestrare e
aveva obbligato l'Enea a sostituirlo. Ma nonostante questo provvedimento, la
tubatura non era ancora stata messa in sicurezza. Allora ho raccolto 6.500 firme
sul mio sito e con grande piacere ho visto che il tubo è stato messo finalmente
in sicurezza a settembre del 2007». Le scoperte che l'attore lucano racconta
però sono inquietanti. «Riesco ad ottenere il capitolato d'appalto per i lavori
di messa in sicurezza. Per prassi la tubatura doveva essere disseppellita dalla
campagna agricola, sezionata in pezzi di 5 metri, isolati e portati
immediatamente nel deposito nucleare. Inoltre gli operai dovevano lavorare con
cartellini identificativi e attrezzature protettive. Ma io ho filmato i
lavoratori privi di questi strumenti di sicurezza e 300 metri di condotta rotta
e abbandonata a 10 metri da un campo di fragole». Il governo Berlusconi, spiega
Ulderico, ha stanziato 780 mila euro per mettere in sicurezza la condotta. Vince
la gara d'appalto una società che si chiama Icos. Il campo di fragole in
questione è di proprietà della ditta Agrifela, uno dei più grandi distributori
al mondo di fragole. Agrifela fa capo al titolare dell'Icos.
«Come fa lo Stato ad assegnare i lavori di messa in sicurezza di una condotta di
scarico di liquidi radioattivi che passa su un campo di fragole a un
imprenditore che è proprietario sia della ditta che rimuove il tubo che del
campo di fragole? Lo Stato non lo vede proprio il conflitto di interesse?»
L'appello che Ulderico Pesce rivolge al Presidente del Consiglio, al Ministro
dell'Ambiente, al Presidente della Regione Basilicata e a quello della Sogin è
chiaro: «Chiediamo è che vengano bloccate tutte le condotte di scarico di
effluvi radioattivi, nel torrente Arrone, nel Po (la centrale atomica di Caorso
scarica nelle sue acque), nella Dora Baltea (impianto di Trino Vercellese), nel
mar Tirreno (centrale di Latina) e nel mar Jonio (deposito di Rotondella).
Chiediamo anche la dismissione di tutti i reattori nucleari presenti in Italia.
E infine vogliamo che venga sospesa qualsiasi tipo di attività nucleare in
Italia e la solidificazione delle 20 tonnellate di rifiuti liquidi radioattivi
giacenti presso il Centro Eurex di Saluggia e la sostituzione delle cisterne che
li contengono perché scadute».
Il grattacielo di Roma, lusso
"verde" per pochi
La veduta dal trentesimo piano della torre Eurosky sarà di certo mozzafiato. Ma
per ora a togliere il fiato a migliaia di cittadini senza casa ci pensano i
costi da capogiro degli appartamenti. Per un bilocale servono 700mila euro, il
prezzo a metro quadro va dai 10 ai 15mila euro. Quant'è un metro quadro? Lo
spazio di un ascensore, oppure venticinque mattonelle formato standard. L'Eurosky,
il grattacielo residenziale di acciaio, vetro e travertino, avrà tra 115 e 120
appartamenti; è già in fase di costruzione nel quartiere Eur di Roma tra viale
dell'Oceano Pacifico e Via Avignone e nel 2011 ne verrà innalzato un altro, un
po' più basso, ad uso ufficio: i costruttori hanno confermato che la provincia
di Roma è interessata all'immobile.
D'ora in poi le parole d'ordine nel quartiere Castellaccio, definito anche "Eur
2", "Business Park", "Europarco", o più forzatamente "quartiere Parsitalia",
sono lusso, comfort, servizi. Un fortino, appunto, per la ditta di costruzioni
Parsitalia, diretta dalla famiglia Parnasi, che nella stessa striscia di terra
ha costruito la sede del nuovo ministero della salute e il centro commerciale
tra i più grandi d'Europa, Euroma 2, con una società a lei collegata, la Imef
(240 negozi e 40 punti di ristorazione). I due colossi edilizi, insieme ai
futuri grattacieli, segneranno per sempre l'urbanistica della zona a sud del
laghetto dell'Eur, visibili tutti e quattro con un solo colpo d'occhio.
Per le fondamenta e i parcheggi interrati Parsitalia ha annunciato di aver già
investito i suoi primi 100 milioni di euro. Gli operai impegnati negli scavi
dagli attuali novanta diventeranno duecento a lavori inoltrati. Fra diciotto
mesi, termine fissato per la fine dei lavori, chi andrà ad abitare nell'edificio
più alto della capitale dopo la cupola di San Pietro (128 metri contro 130
metri) non si accontenterà solo di un tetto sulla testa. Per quindicimila euro a
metro quadro si porterà via (o si accollerà, tutto dipende dalla liquidità
finanziaria e dal mutuo in banca) un appartamento che sarà pure all'avanguardia
ma anche uno schiaffo alla miseria.
Per un grande progetto ci vogliono grandi imprese e così gli appartamenti, che
saranno realizzati con il contributo del Fondo Bnp Paribas Real estate, saranno
dotati di impianto di cogenerazione a combustione di origine vegetale. Questo
significa che gli impianti idrico, sanitario, di riscaldamento e di
climatizzazione estiva saranno alimentati da una centrale a produzione combinata
di caldo, freddo, energia elettrica. La realizzazione della centrale è stata
affidata al partner privato Ecogena Spa, società collegata alla più nota Acea
(Azienda comunale energia e ambiente) che ha come azionista di maggioranza il
comune di Roma. L'Acea si occupa di energia ma soprattutto di acqua. Un business
che la mette ai primi posti fra gli operatori idrici del paese, serve il 12%
della popolazione, con appalti in Toscana, Lazio e Campania. Le abitazioni dell'Eurosky
saranno di classe "A", il top del risparmio energetico. L'edificio sarà dotato
anche di un sistema di pannelli fotovoltaici capaci di produrre un'energia di
circa 180 chilowatt che garantirà, anche attraverso tariffe incentivanti, una
riduzione delle spese di manutenzione e gestione.
Ma questo è solo l'inizio perché sull'Eurosky ci si potrà anche atterrare, sul
tetto è stato predisposto lo spazio per un piccolo eliporto. Inoltre è previsto
un sistema di isolamento acustico, di recupero dell'acqua piovana, di raccolta
differenziata. Ogni pianerottolo avrà dei punti di raccolta dei rifiuti
costituiti da tre tubi in acciaio verticali che sverseranno i sacchetti in un
luogo protetto, ai piani interrati dell'edificio, la spazzatura sarà così pronta
per essere prelevata dall'azienda municipale incaricata. Da non dimenticare i
giardini artificiali interni, le serre sui balconi, la palestra panoramica, la
lavanderia e la sala riunioni agli ultimi piani del grattacielo. Insomma, un
edificio all'altezza del contesto che vede il suo destino già segnato nei prezzi
alle stelle del mercato immobiliare.
Non sarà comunque il più alto d'Italia: il record lo detiene Palazzo Lombardia
con i suoi 161,3 metri. Dall'ufficio vendite non lasciano trapelare il numero di
moduli abitativi già venduti, né se il progetto prevede il sostegno di fondi
pubblici; ciò che è certo è che per Parsitalia e per Franco Purini, l'architetto
che l'ha disegnata, Roma e i romani dovranno abituarsi ad edifici come questo
perché ne verranno costruiti altri, tant'è che il giorno della conferenza stampa
di presentazione Purini ha definito l'Eurosky "Media building", esempio di
architettura comunicante, "l'ideale per uscire dall'anonimato
dell'orizzontalità". Il binomio potere-denaro va avanti e il suo obiettivo non è
il "low-cost", il suo slogan non è "una casa per tutti", la sua filosofia non è
l'"autocostruzione".
Pakistan, la guerra censurata
I bombardamenti sulle Aree Tribali causano decine di vittime ogni giorno. Ma per
Obama non è abbastanza e minaccia di un intervento armato diretto.
Khwakh Ba De Sham in lingua urdu significa 'Ci vediamo'. E' il nome in codice
dell'ennesima operazione militare che l'esercito pachistano, su ordine di
Washington, sta conducendo contro le roccaforti talebane nelle Aree Tribali
confinanti con l'Afghanistan. L'obiettivo di questa offensiva, avviata in
sordina nella seconda metà di marzo ed entrata ora nella sua fase più acuta,
sono le roccaforti talebane della regione di Orakzai, dove i ribelli di
Hakimullah Mehsud si sono rifugiati dopo essere stati scacciati dal Sud
Waziristan in seguito all'operazione Rah-e-Nijat ('Via della Salvezza')
terminata lo scorso dicembre.
Contrariamente alle precedenti offensive, questa volta il capo di stato maggiore
delle forze armate pachistane, generale Ashfaq Parvez Kayani, ha autorizzato in
Orakzai un ampio ricorso ai bombardamenti aerei. I cacciabombardieri F-16 e
Mirage della Paf (Pakistan Air Force) martellano da settimane la regione, con
raid sempre più pesanti, estesi e frequenti. Il risultato è un crescente numero
di vittime, anche civili. Secondo i bollettini diramati quotidianamente dalla
Difesa pachistana, finora sono stati uccisi circa 1.400 guerriglieri talebani,
la metà dei quali nel solo mese di maggio, più di 300 solo nell'ultima
settimana. Ufficialmente le vittime civili sono finora 60, ma gli sfollati in
fuga dai bombardamenti (oltre 10 mila fino ad oggi) sostengono che gran parte
delle vittime dei raid aerei sono civili, non talebani.
Questa ennesima offensiva militare pachistana, completamente oscurata dai media
occidentali, non è giudicata sufficiente dal premio Nobel per la pace Obama, che
dai generali di Islamabad pretende un'azione decisiva e definitiva contro il
vero bastione dei talebani pachistani: il Nord Waziristan. Finora la Casa Bianca
si era limitata a ordinare un'escalation dei bombardamenti missilistici condotti
su questa regione con i droni telecomandati della Cia. Ma dopo il fallito
attentato a Times Square, attribuito alla rete talebana di Hakimullah Mehsud,
gli Stati Uniti si dicono pronti a sferrare un attacco militare diretto con
l'impiego di aviazione e forze speciali americane. La notizia è stata fatta
trapelare sabato scorso sul Washington Post in un articolo intitolato 'Allo
studio opzioni per un possibile attacco al Pakistan'.
Fonti anonime del Pentagono citate dal quotidiano Usa spiegano che ''un nuovo
catastrofico attacco terroristico'' di matrice pachistana negli Stati Uniti
''che convincesse il presidente Obama dell'insufficienza dell'attuale campagna
di attacchi condotta dai droni Cia'' farebbe scattare ''un attacco unilaterale
di rappresaglia''.
Secondo il ben informato quotidiano pachistano Dawn, i piani di attacco sono già
pronti e testati con simulazioni al computer. Una fonte diplomatica pachistana a
Washington ha riferito al giornale che questi preparativi, comunicati a
Islamabad, servono a ''convincere il Pakistan a impegnarsi realmente per
sradicare il terrorismo per evitare nuovi attacchi contro gli Stati Uniti che, a
loro volta, potrebbero scatenare una rappresaglia americana in territorio
pachistano''. In particolare, il messaggio sarebbe diretto ''a quegli elementi
dell'establishment di Islamabad che ancora simpatizzano con elementi jihadisti''.
Enrico Piovesana
Lunardi
connection
di Fabrizio Gatti
Fedelissimi al posto di tecnici d'esperienza. Gare d'appalto controllate da
Balducci e dal suo pupillo. Il sistema di potere dell'ex ministro alle
Infrastrutture
Chi ha protetto la cricca degli appalti aveva un compito preciso: costruire una
rete di altissimi dirigenti di governo in grado di sopravvivere ai cambi di
coalizione. Questo emerge dalle indagini. Dopo Mani pulite, che negli anni
Novanta aveva spazzato via boiardi e faccendieri, qualcuno ha voluto
ricostituire la squadra. E soprattutto riconquistare il controllo su soldi
pubblici, contratti e imprese. Così è successo. Una struttura parallela dentro e
fuori i ministeri. E, se necessario, dentro e fuori la legge.
Qualcosa che puzza di massoneria o almeno di accordi stretti al di sopra dello
Stato. Un'entità in grado di determinare i costi e gli indirizzi della politica.
Un'ombra che ha indotto perfino il presidente della Repubblica, Carlo Azeglio
Ciampi, a firmare inconsapevolmente atti contrari alle norme.
I soldi di Diego Anemone serviti a comprare appartamenti di lusso ai familiari
dei grand commis Ercole Incalza e Angelo Balducci e al ministro dimissionario
Claudio Scajola: quei soldi potrebbero essere soltanto i rivoli di un fiume
carsico di denaro e potere. "L'espresso" ha provato a ripercorrerlo
controcorrente. Ed è risalito a un anno chiave: il 2001. In quel periodo
l'allora ministro alle Infrastrutture, Pietro Lunardi, sostituisce tre
capidipartimento dei Trasporti con tre funzionari dei Lavori pubblici,
nonostante la differente specializzazione.
E un collega nel governo, Franco Frattini, in quegli anni ministro per la
Funzione pubblica e per il Coordinamento dei servizi di intelligence, prova a
fermarlo. Ma il suo tentativo viene spazzato via. L'imprenditore dei grandi
appalti prestato alla politica, Lunardi, vince sull'esponente di Forza Italia. E
in una lettera del 10 ottobre 2002, scoperta da "L'espresso", Frattini esprime
"serio disappunto".
Da allora nessuno ha più fermato la cricca. Nemmeno il successivo governo di
centrosinistra. Con i ministri Antonio Di Pietro e Francesco Rutelli: già nel
2007 il leader dell'Idv rimuove Balducci dal posto di presidente del Consiglio
superiore dei lavori pubblici e in due settimane Rutelli gli inventa un incarico
al ministero dei Beni culturali e del Turismo, in via della Ferratella a Roma,
che presto diventerà quartier generale del partito del malaffare. Perché nessuno
avverte Rutelli? Il Consiglio dei ministri doveva essere già bene informato
sull'esistenza della banda. Nel gennaio 2007 il ministro Di Pietro riceve
infatti l'ennesima denuncia di alcuni imprenditori su presunte irregolarità nel
pagamento di un appalto, per opere affidate come commissario al capo della
Protezione civile, Guido Bertolaso: per quei lavori l'alter ego di Balducci,
Claudio Rinaldi, e altri funzionari avrebbero proposto compensi con assegni
privati.
"Anche per questo ho spostato Balducci e Rinaldi", dice Di Pietro a
"L'espresso". Nonostante l'esposto e la rimozione, però, Balducci rinasce subito
grazie a Rutelli. E nel marzo 2008, un anno dopo, il premier Romano Prodi
concede per decreto a Bertolaso la possibilità di mettere proprio Balducci a
capo dei super appalti per il G8 sull'isola della Maddalena. Ed è quello che
avviene. Bertolaso sceglie da solo? La riconversione dell'Arsenale è il fiore
all'occhiello dell'operazione. Ma si trasformerà in uno scempio di denaro
pubblico. Spese folli e nomine sospette che, come hanno scoperto le procure di
Firenze e Perugia, proseguiranno sotto il successivo governo di Silvio
Berlusconi e il controllo di Gianni Letta.
La lettera di Frattini, attuale ministro degli Esteri, è indirizzata a uno dei
capidipartimento sostituiti da Lunardi nel 2001. "Egregio ingegnere", scrive
Franco Frattini in poche righe su carta del ministero, "comprendo bene il suo
fondato rammarico. Lei sa bene che sono intervenuto personalmente, senza
risultato positivo, e ciò evidentemente ha determinato un serio disappunto".
"L'espresso" ha rintracciato l'ingegnere: Bruno Salvi, ora in pensione. Salvi ha
fatto parte della commissione tecnica ministeriale sull'incidente di Linate
dell'8 ottobre 2001 ed era capo del dipartimento per l'Aviazione civile. Prima
di andarsene dall'amministrazione, il dirigente generale ha vinto la causa
contro il decreto di revoca del suo incarico. Revoca firmata dall'allora
presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, e controfirmata da Berlusconi
e Lunardi, in quegli anni assistito dal capo di gabinetto Claudio Gelati. Il
presidente della Repubblica non ha competenza diretta. Ma qualcuno al Quirinale
gli ha presentato il fascicolo per farglielo siglare. Atto che poi il Tribunale
del lavoro ha giudicato irregolare tanto da stabilire il reintegro e il
risarcimento di Salvi.
C'è un altro provvedimento di Lunardi che incrementa il potere di Balducci e il
guadagno dei suoi affiliati. È il 17 febbraio 2006 e il ministro con una firma
ordina un nuovo ribaltamento delle regole del ministero. Da quel giorno le gare
di appalto che riguardano caserme, uffici e infrastrutture della Guardia di
finanza non verranno più sottoposte al controllo dei provveditorati regionali.
Verranno tutte gestite dal provveditorato di Lazio, Abruzzo e Sardegna. Cioè
dall'ufficio del pupillo di Balducci, Claudio Rinaldi. Sempre Lunardi, cambiando
le norme in vigore, dispone che anche le opere di importo inferiore ai 25
milioni siano sottoposte al parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici.
Cioè Balducci.
Sarà un caso ma proprio quei contratti per le caserme della Guardia di finanza
faranno incrementare di decine di milioni in pochi anni i bilanci delle imprese
di Diego Anemone, che ormai si muovono e incassano in simbiosi con Balducci.
Lunardi firma il provvedimento due giorni dopo la riunione di coordinamento con
il presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici, il direttore Valeria
Olivieri che dovrebbe controllare l'ufficio di Rinaldi e, sentite un po',
l'allora sottocapo di Stato maggiore della guardia di finanza, il generale Paolo
Poletti, attuale vicedirettore dell'Aisi. È il servizio segreto interno, nel
quale lavora l'altro generale della finanza, Francesco Pittorru, destinatario
con la figlia Claudia di assegni del giro Anemone. Le coincidenze sono sempre
più interessanti. Perché negli stessi anni Lunardi compra dal Vaticano una
palazzina in centro a Roma, in via dei Prefetti, di proprietà di Propaganda Fide
di cui Balducci è "consultore", cioè amministratore immobiliare. E affida ad
Anemone i lavori di ristrutturazione di cui, sostiene l'ex ministro, ha le
fatture. Per essere completamente trasparente Lunardi potrebbe ora mostrare
pubblicamente gli estratti conto da cui risultano i pagamenti.
Nell'enigmatico elenco dei lavori personali eseguiti da Anemone, risulta invece
un "Poletti-via Ofanto". Se fosse il generale amico di Balducci, potrebbe
comunque essere un appalto istituzionale visto che si tratta della casa del
numero due del servizio segreto. Tra le tante coincidenze, "L'espresso" ha
invece chiesto a Di Pietro come mai non abbia avvertito Rutelli e Prodi dei suoi
sospetti su Balducci. E su Rinaldi, poi nominato commissario delegato per i
Mondiali di nuoto 2009: un piano di finanziamenti e deroghe di cui ha
beneficiato il Salaria sport village, il circolo di proprietà Anemone e Balducci,
frequentato da Bertolaso e vip della politica. Di Pietro sostiene che il suo
ruolo di testimone nell'inchiesta gli impedisce di rispondere.
Ricorda invece bene quei giorni del 2001 Bruno Salvi. "Avvenne una rivoluzione e
una espropriazione", racconta Salvi: "La rivoluzione determinò l'eliminazione
dei tre capi dipartimento del settore Trasporti. Due diedero le dimissioni per
conservare le competenze accessorie per la pensione. Io chiesi un consiglio
all'allora ministro per la Funzione pubblica, che era Frattini e che tuttora
ringrazio con rinnovata stima. Il ministro mi suggerì di non andare via perché,
cito le sue parole, nessuno si sarebbe potuto privare della mia esperienza in
materia di trasporto aereo. Risposi: obbedisco". Frattini, però, non riesce a
fermare Lunardi. "Tutti i capidipartimento furono rimossi per assegnare le
funzioni a dirigenti, alcuni promossi nell'occasione, dell'ex ministero dei
Lavori pubblici", continua Salvi: "L'epurazione proseguì con la rimozione del
direttore del personale. Ma fu anche politica. Il viceministro Mario Tassone fu
collocato all'Eur, lontano dalla sede del ministero. L'operazione si estese alla
costituzione del gabinetto del ministro che registrò l'assenza di personale
qualificato dei Trasporti civili. Ne fecero parte il generale dell'aeronautica
Andrea Fornasiero, il dottor Vito Riggio poi nominato presidente dell'Enac e
l'ingegner Ercole Incalza". Fornasiero, estraneo alle indagini in corso, è
conosciuto per la sua stretta amicizia con il costruttore Salvatore Ligresti. I
contatti di Riggio con la cricca emergono dalle telefonate tra il coordinatore
del Pdl Denis Verdini e l'imprenditore Riccardo Fusi. Di Ercole Incalza,
l'attuale ministro alle Infrastrutture Altero Matteoli ha da poco respinto le
dimissioni: l'alto funzionario, già indagato durante Mani pulite, le aveva
presentate dopo la scoperta che il marito della figlia avrebbe comprato un
appartamento con l'aggiunta di 520 mila euro girati dall'architetto di Anemone,
Angelo Zampolini.
Gli appalti aeronautici sono un altro settore di grande interesse. Negli anni
'90, durante l'ampliamento di Fiumicino, Salvi paga il suo rifiuto a gonfiare le
spese con il carcere, grazie a un'accusa di concussione smentita durante il
processo e completamente inventata da un imprenditore che voleva toglierselo di
mezzo. Altre gravi irregolarità emergono durante l'inchiesta sull'incidente di
Linate e il mancato funzionamento del radar di terra. E anche qui sono in gioco
appalti segretati, come quelli gestiti dalla coppia Bertolaso-Balducci per il
G8. "La segretazione non serve per nascondere l'appalto, ma chi lo fornisce",
dice Salvi: "In quei giorni si indagava sull'Enav, l'ente di assistenza al volo.
Il pm di Milano mi aveva chiesto una relazione sull'effetto della segretazione
sui costi. La differenza tra i prezzi di mercato degli stessi apparati rispetto
a quelli sostenuti dall'Enav, riferita a 41 impianti, superava i 130 miliardi di
vecchie lire". Proprio in questi giorni sull'Enav ha aperto un'inchiesta la
Procura di Roma. Riguarderebbe l'allontanamento di un manager addetto al
controllo dei conti e l'assunzione in ruoli chiave dei soliti amici degli amici.
Tra i nomi, Luca Iafolla. Chi è? Il papà si chiama Claudio. È il capo di
gabinetto del ministro Matteoli. Sempre la solita coincidenza all'ombra della
cricca.