Unmilionequattrocentounmilaquattrocentotrentadue (1.401.432) persone
costituiscono una rappresentanza diretta ed autentica del popolo sovrano. Questi
rappresentanti, firmatari dei tre referendum per l'acqua bene comune, chiedono
alla Corte Costituzionale che il popolo possa finalmente pronunciarsi, tramite
referendum abrogativo, su un tema politico di importanza fondamentale: chi ed in
nome di quali interessi deve gestire il nostro patrimonio pubblico e curare i
nostri "beni comuni"?
Da oltre vent'anni, un'altra rappresentanza del popolo, quella indiretta e
cooptata che siede in Parlamento, utilizza un "male comune", il debito pubblico,
per giustificare il trasferimento ad interessi privati di risorse ingentissime
accumulate con anni di sacrifici del popolo sovrano. Questi trasferimenti,
avvengono, a prezzo vile, sotto forma di privatizzazione di monopoli pubblici
travestiti da liberalizzazioni del mercato (Autostrade, Ferrovie, Alitalia,
Telecom...). Esse favoriscono i soliti noti e non hanno portato alcun
apprezzabile sollievo ai conti pubblici. Progressivamente il patrimonio di noi
tutti è stato affidato ai Consigli di Amministrazione di società di diritto
privato che non devono rispondere a nessuno salvo che ai loro azionisti. Sono
aumentati così gli stipendi dei manager pubblici e i budget per la pubblicità
(che creano potere mediatico) mentre gli investimenti a lungo termine sono
crollati ed il debito pubblico non si è ridotto.
Per anni la "rappresentanza cooptata" ha fatto di tale cessione della sovranità
economica ai Consigli di Amministrazione, un vessillo trionfale, da sventolare
nella grande crociata ideologica contro il settore pubblico, le sue inefficienze
ed i suoi sprechi. Per anni i cantori della privatizzazione hanno imperversato
sui principali giornali ripetendo che questa politica ci avrebbe consentito di
competere sul mercato globale, di restare in Europa, di trovare i soldi per fare
le riforme, di crescere.
Poi c'è stata la crisi e sebbene molti continuino con quelle sciocchezze, la
forza retorica ed il prestigio di privatizzazioni e C.d.A. è drammaticamente
crollata. Perfino Tremonti ha cominciato a polemizzare con il mercatismo e con
le banche.
Il ministro Ronchi ora privatizza acqua e servizi pubblici ma nega di volerlo
fare. Incredibile cambiamento culturale in pochi mesi : il pensiero unico ha
perso l'egemonia.
Il popolo sovrano a differenza dei suoi rappresentanti cooptati non ha
conosciuto i benefici dell' amicizia con gli interessi finanziari forti, ma solo
la miseria economica e culturale generata dalla collusione fra potere politico e
capitale. Ha visto abbastanza: con l'acqua vuole lavare l'onta.
1.401.432 rappresentanti autentici del popolo sovrano chiedono di invertire la
rotta. Queste persone vogliono ricostruire, partecipando direttamente e senza
più deleghe, un settore pubblico in cui prevalga l'interesse comune: oltre il
liberismo e oltre lo statalismo. Una sfida per la sinistra. Il manifesto si sta
attrezzando per raccoglierla.
Pensioni, i ladri entrano
dalle finestre
La manovra sulla previdenza è ingente, e tutta dettata da esclusive
motivazioni di cassa. Ecco come, attraverso modifiche tecniche alle "finestre"
di pensionamento e al sistema di calcolo coefficienti, si consuma il furto ai
danni dei futuri pensionati
Per un governo che per bocca del suo ministro del Tesoro aveva affermato solo
qualche mese fa che mai avrebbe messo mano alle pensioni il decreto legge 78 in
corso di approvazione rappresenta una solenne smentita. Gli interventi sul
sistema pensionistico sono pesanti e alcuni hanno il carattere di un vero e
proprio furto a danno dei lavoratori.
L’intervento iniziale del governo si limitava ad una modifica delle cosiddette
finestre di uscita, ossia del periodo intercorrente tra la maturazione del
diritto a pensione e la decorrenza (il pagamento) della pensione stessa.
Le finestre sono state introdotte con la legge 335/95 e hanno rappresentato un
espediente per risparmiare sulla spesa pensionistica, Il diritto si matura ad
una certa età, ma la pensione si percepisce alcuni mesi dopo con un risparmio
per lo stato. Inizialmente erano previste solo per le pensioni di anzianità ed
erano 4 all’anno con un intervallo massimo, quindi, di 3 mesi tra acquisizione
del diritto e decorrenza della pensione. Le finestre sono state poi ridotte a 2
ed estese alla vecchiaia e alla pensione con 40 anni di contribuzione (legge
247/2007). Si è esteso quindi l’intervallo tra diritto e decorrenza a 3/6 mesi
per la vecchiaia e i 40 anni e a 6/9 mesi per l’anzianità. Nel caso dei 40 anni
questo produceva un evidente danno ai lavoratori che avendo raggiunto il massimo
per il calcolo della pensione non potevano avere in contropartita della
ulteriore permanenza al lavoro un miglioramento della pensione stessa.
Con il decreto il governo porta tutte le finestre ad una misura unica di 12
mesi. Dopo il raggiungimento dei requisiti pensionistici di vecchiaia, di
anzianità o dei 40 anni la decorrenza della pensione avverrà dopo 12 mesi.
In pratica la pensione di vecchiaia non sarà più a 65/60 anni, ma a 66/61, i 40
anni di contribuzione diventano 41 e i requisiti di età/contribuzione e le quote
per le pensioni di anzianità si innalzano di 12 mesi. Certo l’aumento rispetto
ad oggi non è di 12 mesi, dato che le finestre erano già presenti, ma
l’innalzamento dell’età effettiva di pensionamento è di circa 6 mesi e produce
un sensibile risparmio che la Relazione Tecnica quantifica in 0, 36 miliardi di
euro nel 2011, 2,6 miliardi nel 2012 e 3,5 miliardi nel 2013.
Per l’ennesima volte l’intervento sulle pensioni serve a fare cassa con buona
pace di tutti coloro che hanno sempre giustificato o richiesto un intervento
sulle pensioni al fine di riequilibrare la spesa sociale.
L’estensione della finestra per i 40 anni aggrava il problema prima indicato. I
lavoratori che al momento della maturazione del diritto hanno raggiunto nel
sistema retributivo il massimo della contribuzione lavoreranno senza che i mesi
aggiuntivi servano a migliorare la pensione.
Il problema si pone anche nel sistema contributivo e nel misto. Chi va in
pensione con questi sistemi a 65 anni si vede applicato un coefficiente di
trasformazione calcolato in base alla speranza di vita a 65 anni. La sua
pensione però inizierà a decorrere 12 mesi dopo a 66 anni. Subisce quindi una
decurtazione del montante pensionistico pari ad un anno rispetto a quello a cui
avrebbe diritto.
Questa “sottrazione” di montante pensionistico è poi accentuata dall’emendamento
approvato in commissione bilancio del senato.
L’emendamento traduce in norma operativa, con qualche cambiamento, quanto già
deciso lo scorso anno con la legge 102/2009 in merito all’adeguamento dell’età
di pensionamento in base alla speranza di vita. La cadenza di modifica dell’età
di pensionamento non è più quinquennale ma triennale e si specifica, fatto
positivo, che la speranza di vita da prendere in considerazione è quella a 65
anni. Dal 2015 l’età di pensionamento di vecchiaia e di anzianità sarà elevata
in base alla speranza di vita a 65 anni rilevata dall’Istat nel triennio
precedente. E’ rientrata invece l’applicazione di questa norma ai 40 anni di età
come inizialmente previsto. Non si trattava di un refuso, tantomeno di un refuso
della Rgs, dato che la norma, per quel che si dice, è stata partorita dal
presidente dell’Inps e da uno stretto collaboratore del ministro del lavoro.
L’emendamento affronta il problema dei coefficienti nel contributivo. Aumentando
l’età di pensionamento sopra i 65 anni, infatti, si pone il problema dei
coefficienti per età superiori ai 65 oggi non calcolati. L’emendamento prevede
che quando gli incrementi dell’età pensionabile di vecchiaia superano di almeno
una unità (12 mesi) i 65 anni debba essere calcolato il coefficiente
corrispondente ai 66 anni e così via.
Tenendo conto delle finestre e del ritardo nel calcolo del nuovo coefficiente ci
avranno dei lavoratori che percepiranno la pensione con più di 66 anni di età
(fino a 66 anni e 11 mesi) con un coefficiente di trasformazione calcolato con
la speranza di vita a 65 anni. Viene meno per questi lavoratori la
corrispondenza tra montante contributivo e montante pensionistico con la
sottrazione di più di 1 anno di ratei pensionistici.
Oggi per evitare questo i coefficienti non sono calcolati solo per gli anni
interi, ma anche per i 12 mesi di ogni anno. Chi va in pensione a 64 anni e 11
mesi non ha il coefficiente di 64 anni, ma quello di 64 e 11 mesi. Per coloro
che da oggi avranno la decorrenza della pensione a 66 anni e x mesi il
coefficiente sarà invece quello di 65 anni.
Considerando la revisione dei coefficienti e l’innalzamento dell’età di
pensionamento di vecchiaia la perdita sull’importo della rata di pensione
derivante dalla mancanza dei coefficienti sopra i 65 anni varierà tra il 2015 e
il 2020 tra il 3% e il 6% a seconda del ritardo nella decorrenza.
Gli interventi sull’età si possono accettare od hanno comunque una loro logica.
Il mancato aggiornamento dei coefficienti è invece un intervento sull’importo di
pensione e produce quello che possiamo qualificare come un furto a danno dei
lavoratori.
L’emendamento è intervenuto anche sulla possibilità di ricongiunzione all’Inps
delle posizioni pensionistiche. Oggi tutti i lavoratori dipendenti che hanno
posizioni in Inpdap o nei fondi speciali possono ricongiungere o portare la loro
posizione pensionistica in Inps (nel Fondo pensioni lavoratori dipendenti) senza
costi. L’emendamento elimina la gratuità dell’operazione imponendo pesanti oneri
a carico degli interessati ossia di tutti quei lavoratori che si trovano ad
avere periodi di contribuzione parte in Inps e parte in Inpdad o nei fondi
speciali. Oggi questi lavoratori possono ricongiungere tutto nel Fpld senza
oneri, in futuro saranno costretti a subire un pesante onere o a optare per la
totalizzazione che, tuttavia, comporta il passaggio al calcolo contributivo con
penalizzazione sull’importo.
Gaza, guerra al futuro
Ancora bambini tra le vittime dell'ultima
incursione israeliana, con uso di armi proibite
scritto da Vittorio Arrigoni
"E' improvvisamente corsa dentro casa e si inginocchiata al centro del stanza
dove stavamo tutti. Non avevamo capito fosse ferita, fino a quando non ha
iniziato a vomitare fiotti di sangue dal naso e dalla bocca. I suoi fratelli
erano immobili dinnanzi a lei, terrorizzati".
Dopo il massacro della famiglia Abu Said, che settimana scorsa ha portato
all'uccisione di una madre di cinque figli e il ferimento di altri tre civili,
l'esercito israeliano ha esercitato ancora una volta l'uso di armi proibite
contro la popolazione della Striscia di Gaza.
Secondo
la ricostruzione basata sulle dichiarazioni dei testimoni, mercoledì 21 luglio,
verso le ore 16, a Beit Hanun, guerriglieri della resistenza palestinese hanno
cercato di respingere un'incursione di mezzi militari israeliani che avevano
varcato di circa duecento metri il confine. Il fuoco israeliano ha
immediatamente ucciso uno dei miliziani: Mohammed Hatem al-Kafarna, 23 anni,
mentre un altro resistente, Qassem Mohammed Kamal al-Shanbari, di anni 20, è
deceduto in ospedale per le ferite riportate.
Non paghi di questo, un carro armato dell'Israel Defense Forces (Idf) ha sparato
tre proiettili carichi di freccette in varie aeree di Beit Hanun danneggiando
delle abitazioni e ferendo otto civili, fra i quali una donna e cinque bambini .
Le freccette, il cui utilizzo in aeree densamente abitate è dichiarato illegale
da Amnesty International e dalle maggiori organizzazioni per i diritti umani,
sono piccoli dardi metallici dalla punta acuminata, lunghi 4 centimetri e
provvisti di 4 alette nella parte posteriore, con cui vengono caricati i
proiettili da 120 millimetri dei carri armati. Quando il proiettile esplode in
aria, a 30 metri dal suolo, disperde uno sciame di 5mila-8mila freccette in un
raggio conico, investendo un'area larga 300 metri e lunga 100.
Appena ricevuta la notizia con i miei compagni dell'International Solidarity
Movement ci siamo precipitati all'ospedale al-Shifa in visita ai feriti più
gravi. Tutt'ora ricoverati in pessime condizioni due bambini: Samah 'Eid
al-Masri di 9 anni, ferita gravemente al petto, e Haitham Tha'er Qassem, di 4
anni, ferito gravemente al volto. Entrambi i bambini sono stati colpite dalle
freccette.
''Quando è arrivata in ospedale era in fin di vita." ci spiega il dottore che ha
presa in cura Samah. "E' molto complicato e tremendamente doloroso e traumatico
inserire un tubo di drenaggio nel torace di un bambino. La bambina ha perso
molto sangue".
Le condizioni di Samah si sono ulteriormente aggravate per via della sua
malattia. Come ci ha spiegato la madre, Samah e altri tre dei suoi figli
soffrono di talassemia, affezione difficilmente curabile in una Gaza sotto
assedio: secondo un recente rapporto del Palestinian Center of Human Rights,
Israele previene l'entrata all'interno della Striscia del Exjade , farmaco
specifico nella cura dei malati talassemici.
Una famiglia da sempre vittima dell'esercito israeliano quella degli Eid Al
Masri. Durante l'operazione militare Piombo Fuso, una bomba ha centrato la loro
casa uccidendo un conoscente della famiglia e ferendo alla testa Ryad, un altro
fratello di Samah, che per le ferite riportate ha perso la vista.
Mercoledì pomeriggio Samah stava giocando da sola in strada, ben distante dal
confine e dal terreno degli scontri come ci ha tenuto a sottolineare la madre,
fino quando non si sono uditi una serie di colpi nell'aria e successivamente
l'urlo straziato della bimba colpita.
A pochi letti di distanza da Samah, un'altra minuscola vittima è ricoverata, il
viso celato dai bendaggi. E' Haitham Thaer Qassem,di soli 4 anni. Avevano
mandato fuori Haitham per una commissione in un negozio lì vicino, ci ha
raccontato la madre, quando una bomba è caduta a 200 metri di distanza e ha
scatenato lo sciame di freccette che lo hanno colpito ferendolo alla schiena,
alla gamba destra e gravemente al viso. Alcune di queste frecce di acciaio sono
ancora all'interno dell'esile corpo del bambino, e sarà necessaria una
complicata operazione per rimuoverle.
Mentre ci allontanavamo dal reparto ospedaliero, via da Haitham che riprendeva
conoscenza in preda a delle violente convulsioni, e via da Samah che soffocava
sforzandosi di tenere in bocca il respiratore, con la madre impegnata a farle
aria sventolandole addosso l'immagine radiografica delle sue ferite, mi è
arrivato un messaggio telefonico. Un amico m'informava delle dichiarazioni del
portavoce dell'esercito israeliano in relazione all'accaduto: "Tutti i colpiti
sono combattenti".
Durante Piombo Fuso il governo israeliano dichiarava al mondo di stare
chirurgicamente colpendo solo i terroristi di Hamas e le loro basi mentre campi
profughi, scuole dell'Onu e ospedali veniva dati alla fiamme col fosforo bianco.
320 minori vennero uccisi allora. La guerra israeliana contro i bambini non
conosce tregua.
Restiamo Umani.
I Servizi delle cricca
Gli 007 colombiani usati per tutelare interessi privati a discapito
dell'incolumità di cittadini innocenti, colombiani e stranieri. La copia dei
documenti originali con cui il Das predisponeva operazioni illegali e gravissime
Il
procuratore Misael Rodríguez lo va dicendo da mesi: il palazzo del governo di
Bogotà è stato il quartier generale da cui partivano gli ordini per ogni
missione illegale condotta da molti anni a questa parte in Colombia e fuori dai
servisi segreti del Das. Nel mirino, colombiani e stranieri, giudici e operatori
umanitari, avversari politici e difensori dei diritti umani. L'obiettivo, unico,
conservare il potere, con ogni mezzo. "Una vera e propria impresa criminale"
l'ha definita il giudice. Peacereporter segue questo ennesimo scandalo
colombiano legato al governo Uribe dal primo momento, ma oggi è entrato in
possesso della copia dei documenti originali in cui compaiono i nomi delle
Operaciones top secret e ha deciso di pubblicarla e di commentarla. Poche righe
scabre ed essenziali per ogni singola missione segreta, ma sufficienti a far
capire come gli 007 venissero mossi non certo in nome della sicurezza nazionale,
di ogni cittadino e istituzione colombiani, bensì in nome dell'interesse
elitario della cupola di potere corrotto e inquinato legata al capo dello Stato.
Un'associazione a delinquere che ha coinvolto personaggi del governo i quali in
riunioni tenute nel Ministero dell'Industria, nella Casa de Nariño e nella sede
dei servizi organizzavano pedinamenti illegali, intercettazioni, invasioni via
web con il fine di inquinare prove e identità nel nome dell'interesse privato.
Una mano longa che è arrivata fino in Europa, dove sono stati presi di mira
europarlamentari colpevoli di essere lontani dalle posizioni della cricca
uribista. Il tutto sotto il rigido controllo del presidente ora uscente Alvaro
Uribe.
Vari i documenti in mano alla Procura che riportano la dicitura "da dare al
Presidente", "informare il Presidente". Fra queste prove c'è appunto il
documento in Pdf di cui siamo entrati in possesso che elenca il titolo di ogni
singola operazione, l'obiettivo generale e le strategie per raggiungerlo. E si
va dalla creazione di pagine internet fasulle alla distribuzione di volantini
per screditare gli oppositori, fino al sabotaggio e al terrorismo. E nessun nome
scelto per battezzare la missione è stato preso a caso. Lo ha dimostrato il sito
informativo indipendente colombiano La silla vacia. Anche se ogni nome può a
prima vista sembrare di fantasia, le coincidenze la dicono lunga. Troppo.
Operación Transmilenio. Si trattava della missione che doveva "neutralizzare le
azioni delle Ong in Colombia e nel mondo". La prima organizzazione presa di miro
con intercettazioni e pedinamenti è stato il Collettivo di avvocati José Alvear
(Ccajar), un'organizzazione che dà assistenza giuridica a prigionieri politici e
vittime di crimini di Stato, e che il presidente Uribe ha pubblicamente
criticato più volte. Il Collettivo è stato il principale autore del libro "El
Embrujo Autoritario" pubblicato da varie organizzazioni non governative in
difesa dei diritti umani nel 2004 e chiaramente antiuribista. Pochi mesi dopo
l'uscita del volume sono iniziate le intercettazioni. Negli ultimi anni, il
Collettivo è comunque riuscito a vincere casi giuridici complessi legati ai
massacri paramilitari di Mapiripán e La Rochela, portati davanti alla Corte
interamericana dei diritti umani. Risultato: lo Stato è stato condannato a
elargire indennizzi milionari alle vittime. L'ipotesi della Silla Vacia è che
l'operazione venne battezzata così in nome del Collettivo perché Transmilenio è
il nome del trasporto pubblico di Bogotà ed evoca il concetto di collettivo.
Operación Arauca. Questa operazione ordinava di "stabilire vincoli fra Ccajar e
Eln". Il modus operandi era simulare uno "scambio di messaggi con la cupola
dell'Esercito di liberazione nazionale, da ritrovarsi durante una
perquisizione". Questo quanto accadde. Nel 2005, in una pagina web oramai
oscurata, venne pubblicato un comunicato dove si diceva che l'avvocato del
Collettivo Eduardo Carreño si trovava con l'Eln in Arauca, issando una bandiera
venezuelana assieme ad altri due difensori dei diritti umani. Questo episodio
venne completamente inventato, ma dette l'idea per titolare l'operazione, che
mirava appunto a screditare gli avvocati inventandone vincoli con la guerriglia.
Operación Halloween. Questa mirava a "far prendere coscienza alla popolazione
della verità sull'ideologia comunista", screditandola. Pare che il titolo si
ispirasse a un discorso di Uribe del 2006 pronunciato durante la commemorazione
dell'anniversario della Scuola superiore di Guerra all'Universidad Militar Nueva
Granada. Dieci volte Uribe parlò di comunismo mascherato.
Operación Risaralda. "Generare divisione fra gli alti funzionari di Redepaz" era
l'obiettivo. L'azione: "Raccogliere le prove delle attività illecite dei membri
della Rete della pace, ossia ricevere mazzette, prebende, in cambio di permessi
di asilo politico". La direttrice di questa Ong, Ana Teresa Bernal non sapeva di
essere vittima delle persecuzioni del Das già dal 2005. Lo ha saputo l'aprile
scorso e ha ricollegato il tutto. In quell'anno un dipendente di Redepaz in
Spagna le disse che uno dei suoi collaboratori stava aiutando dei colombiani a
entrare illegalmente in Spagna e lei decise di licenziare il giovane. Si
chiamava Carlos Mario Orozco ed era di Risaralda. Era evidentemente un
infiltrato.
Operación Extranjero. L'operazione Stranieri ordinava di "neutralizzare l'azione
dei cittadini stranieri che attentano alla sicurezza dello Stato". Tradotto: gli
stranieri che denunciano le violazioni dei diritti umani e i crimini perpetrati
dallo Stato. Le linee guida erano: "Deportazione, comunicati e denuncie". Due
testimoni consultati dalla Silla Vacia credono che l'operazione si sarebbe
diretta contro Peace Brigades, gli accompagnatori stranieri che fanno da scudo
umano agli attivisti dei diritti umani perseguitati. Si tratta di operatori che,
senza l'uso di armi, seguono in ogni dove il perseguito convinti che la loro
presenza serva da deterrente ai sicari che mai vorrebbero uccidere un
internazionale e attirare i riflettori dell'opinione pubblica mondiale sui guai
colombiani. Le Brigate hanno protetto in particolare la Comunità di pace San
Josè di Apartadò, vittima di esecuzioni extragiudiziali da parte dell'esercito.
Quando la denuncia di questi crimini arrivò al presidente della repubblica
questi minacciò di incarcerarli e deportarli se non si fossero chetati e
sottomessi ai dettami della Procura e delle forze militari. Non per nulla,
l'azione definita per questa Operazione Stranieri dice: "Deportazione,
comunicati e denuncie.
E arriviamo alla famigerata Operación Europa, che doveva "neutralizzare
l'influenza [degli anti-uribisti ndr.] nel Sistema giuridico europeo, nella
Commissione dei diritti umani del Parlamento europeo, nell'Ufficio dell'alto
commissariato dei diritti umani Onu e nei governi nazionali". Il Collettivo
degli avvocati è una delle organizzazioni che ha più contatti con giudici e
tribunali europei, e anche questa operazione era diretta contro di loro. Fu
delineata nel 2005 ed arrivata a perseguire anche molti europei, collegati in
qualche modo alle denuncie dei difensori dei diritti umani. Da deputati a
semplici cittadini, giornalisti, cooperanti.
Operación Internet, dal titolo chiaro, mirava a creare discredito intorno alle
tanto odiate Ong. In particolare il documento parla di due pagine web:
Corporación verdad y justicia e Servicio Colombiano de Información y Estadística
para la prevención del Conflicto. Si tratta di Ong fantasma create ad hoc per
gettare fango sulle associazioni scomode, inventandone improbabili legami con la
guerriglia.
Operación Imprenta. "Impedire l'edizione di libri quale E.A.", che molto
probabilmente sta per Embrujo Autoritario, era l'obiettivo di questa operazione.
Uno degli autori del libro ha spiegato che in effetti quando stavano stampando
il libro che era al centro di aspre polemiche e duri attacchi da parte di Uribe,
l'Editorial Antropos ebbe difficoltà a racimolare il numero delle stampe voluto.
Nonostante la casa editrice sia riuscita a pubblicare quattro edizioni del
libro, negli archivi del Das si trovano circa 93 pagine di appunti sui controlli
effettuati alle attività di stampa. Al Cinep, altro coautore del libro, rubarono
oltre cento esemplari da un camion di trasporti. E, coincidenza, una dei metodi
descritti nel documento è "il sabotaggio dei camion di distribuzione".
L'Operación Puerto Asís era invece indirizzata contro il giornalista colombiano
di Contravia Hollman Morris. Missione principale: iniziare una campagna di
discredito tramite comunicati. Da includere anche un video delle Farc. Anche
questo nome prende spunto da un discorso del deus ex machina Uribe, che nel
giugno 2005 inveì pubblicamente contro il giornalista investigativo
pluripremiato, dicendo che si era "alleato con il terrorismo per registrarne gli
attentati". Puerto Asís era il luogo in cui Morris si presentò accompagnato da
una equipe della Bbc, nello stato di Putumayo, dopo che le Farc avevano teso
un'imboscata e assassinato un gruppo di militari. Il presidente accusò Hollman
di essere stato contattato dalla guerriglia per coprire mediaticamente
l'attacco, dicendo che era arrivato sul posto tre giorni prima. Quando invece il
giornalista era giunto lì lo stesso giorno di Uribe. Ma non finisce qui. Poco
tempo dopo venne diffuso un video in cui Morris era presentato quale membro del
Blocco internazionale delle Farc. Una montatura, l'ennesima, come da copione.
Morris la scovò e la denunciò a chi di dovere, ma mai venne aperta nessun
indagine.
Stella Spinelli
Disastro a catena
Brasile, stato del Parà. Una centrale idroelettrica nel cuore dell'Amazzonia
minaccia uno dei bacini più ricchi e preziosi del mondo. Ma dietro c'è il
governo Lula e niente e nessuno potrà fermarlo
Tierra
del Medio, Amazzonia orientale, stato del Pará, Brasile. Qui, nel bacino del
fiume Xingú, un secolo fa giunsero alcune famiglie dal povero e desertificato
Nordest. L'intento era rifarsi una vita grazie alla ricchezza naturale prodotta
da quell'immenso mercato no profit a cielo aperto che è la foresta. E ci
riuscirono. In poco tempo divennero esperti siringueros, estrattori del latte
che l'albero del cauchù produce senza fine dalla sua corteccia. In poco tempo
entrarono così nella grande catena di produzione della gomma, e la loro vita
cambiò. In meglio. Ma oggi qualcosa minaccia quel tradizionale rapporto proficuo
e rispettoso con la foresta. Un manipolo di aziende, affamate e senza scrupoli,
spalleggiate dal governo, ha inteso trasformare quel fazzoletto di terra in una
fonte energetica, sfruttando la potenza dei fiumi. E' nato, infatti, il progetto
della centrale idroelettrica dello Xingú, la quale sfrutterà il dislivello di 85
metri che il fiume forma all'altezza di una grande curva chiamata Volta Grande.
Un'occasione ghiotta a cui nessuno degli interessati pare voler rinunciare.
Governo Lula in testa. Il quale, ancora una volta, si distingue per la sua
rinomata politica del 'cerchiobottismo'.
Nel 2004, infatti, l'area ora minacciata dalla centrale, era stata dichiarata
Riserva estrattiva (Resex) Riozinho do Anfrísio proprio tramite decreto
presidenziale. Un gesto eclatante fatto per garantire il tradizionale lavoro di
quelle famiglie e per proteggere la ricchezza del luogo dalla minaccia della
deforestazione selvaggia in nome del profitto. Non solo. Per dimostrare da che
parte stava, Lula aveva anche inviato sul posto una decina di militari per
proteggere gli abitanti dalle continue minacce di pistoleiros mandati da aziende
che li vorrebero fuori dai piedi. Poi, il voltafaccia.
"Sono obbligato a vivere nascosto nella mia terra, senza aver discusso con
nessuno né rubato nulla", ha raccontato a Tierramérica Herculano Porto de
Oliveira, 66 anni, siringueiro. "Lula ci dette coraggio creando la riserva, ma
ora ci scoraggia con Belo Monte", il nome della centrale idroelettrica in via di
costruzione. Il Riozinho do Anfrísio, infatti, cuore della riserva, è un
affluente del fiume Iriri che sbocca nello Xingú, e quindi subirà sicure
conseguenze dalla nascita della centrale. Non solo. Uno dei due laghi
artificiali previsti dal progetto andrà a inondare le zone basse di Altamira,
inclusa la casetta che Oliveira comprò due anni fa per accogliere la gente della
Resex che aveva bisogno di assistenza medica o di altri servizi. La zona,
infatti, è distante da tutto e tutti. I pochi viaggi in barca verso la città
durano "tre giorni per andare e quattro per tornare", che diventano otto o dieci
nei periodi di siccità, a causa delle pietre nascoste sotto le rapide o nei
pressi delle cascate, precisa Oliveira.
Lo Studio di Impatto ambientale del progetto Belo Monte riconosce che le acque
inonderanno gli alloggi di 16.420 abitanti di Altamira e di 2.822 persone della
zona rurale. Gli sfollati saranno cinquantamila, trentamila solo in Altamira. Ad
assicurarlo è Antonia Melo, coordinatrice del Movimento Xingú Vivo, che riunisce
più di cento organizzazioni in netta opposizione alle centrali idroelettriche
della conca del fiume, area eccezionale per la sua diversità biologica e
sociale. Oltre a contenere molte specie animali e vegetali, esistenti soltanto
qui, questa zona ospita da sempre trenta terre indigene abitate da più di
tredicimila persone di 24 popoli, e dodici aree di conservazione, fra le quali
quattro riserve estrattive e altre totalmente protette. Le zone protette stanno
infatti da tempo facendo da barriera alla deforestazione selvaggia che dietro le
spoglie di allevatori di bestiame, agricoltori e predatori del legno preme da
est e da sud. E adesso anche da nord, visto che la centrale spalleggiata dal
governo porterà non solo inondazioni e distruzione dell'ecosistema, ma anche
l'asfalto della Transamazzonica.
Belo Monte è "l'inizio di un nuovo ciclo di estinzione - ha commentato André
Villas-Bôas, il sociologo che coordina il programma Xingú per la Ong Isa -. Ora
si tratta di mangiarsi il fiume, poi toccherà ai boschi". E secondo lui, oramai
la idroelettrica è "un fatto compiuto", nonostante le azioni giudiziarie che
cercano di fermarne la costruzione. L'ultima risale allo scorso aprile, quando
il giudice Antonio Almeida Campel accolse una richiesta avanzata da sei pubblici
ministeri del paese.
Sarà un gigante da 11.233 megawatt di potenza, che però andrà a rendere solo per
un 40 percento del suo potenziale, visto che il flusso idrico del fiume
nell'estate amazzonica - secondo semestre dell'anno - arriva a toccare appena
mille metri cubi al secondo, contro i ventimila del periodo delle pioggie. Da
qui la necessità di costruire grandi dighe a monte, con il fine di rendere più
regolare il flusso e aumentare l'energia prodotta.
I giochi sono fatti e migliaia di persone sono ora inconsolabili. A nulla è
valsa la promessa di Brasilia di limitarsi a questa unica centrale. L'effetto
devastante che avrà basta e avanza. E lo testimoniano gli studi di 40
specialisti riunitisi in una tavola rotonda apposita, i quali hanno pesantemente
criticato le approssimazioni e gli errori dello Studio di impatto ambientale
scritto ad hoc per fare approvare il progetto. Le due dighe previste e la
deviazione del corso delle acque non solo ridurranno drasticamente il flusso in
un tratto di cento chilometri all'altezza della Volta Grande, con la conseguente
e probabile estinzione o diminuzione di molte specie di pesci, ma cambierà
l'ecosistema di tutto lo Xingú. Parola di Hermes Medeiros, professore di
ecologia alla Universidad Federal de Pará, Altamira.
La Volta Grande è lunga cento chilometri e fatta di rapide e cascate. È dunque
una barriera naturale alla migrazione della fauna acquatica, e divide il fiume
in due parti ecologicamente molto differenti. Subendo la deviazione, questa
preziosa funzione andrà perduta. Le due dighe verranno infatti costruite dove
finisce la parte più accidentata del rio, e proprio qui sorgerà la centrale. E
anche tutti coloro che da sempre vivono di pesca, di raccolta di castagne e di
altre erbe officinali tipiche della Amazzonia, molto richieste dalle industrie
di cosmetici che ne ricavano preziosi oli essenziali, resteranno a bocca
asciutta. Un disastro a catena, dunque, che sembra nessuno avrà il potere di
scongiurare.
Stella Spinelli
15 luglio
I lavori di casa Scajola al
Colosseo pagati con i soldi dell'appalto Sisde
Il rapporto della Gdf ai magistrati umbri. Un
altro favore del costruttore Anemone all'ex ministro. Perugia, i pm riascoltano
400mila telefonate
PERUGIA -I lavori di ristrutturazione, come anche
di "piccola manutenzione ordinaria", dell'appartamento di Claudio Scajola
vennero pagati con i soldi dello Stato. I 200 mila euro per rimettere a nuovo il
"mezzanino" vista Colosseo di via del Fagutale e le poche migliaia necessarie a
cambiare qualche plafoniera, rubinetto o interruttore difettoso, non uscirono
dalle tasche dell'ex ministro, ma furono caricati dal costruttore Diego Anemone
(che dell'appartamento, come svelato da "Repubblica", aveva curato la
ristrutturazione), sui costi dell'appalto che il suo gruppo aveva ottenuto per
la sistemazione, tra il 2004 e il 2005, dell'ex "caserma Zignani", destinata a
nuova sede di uno dei reparti dell'allora Sisde, la nostra intelligence interna.
La certezza che Anemone, dopo aver comprato per 900 mila euro i due terzi della
casa all'"inconsapevole" Scajola e avergliela "a sua insaputa" ristrutturata (i
lavori furono effettuati dalla ditta del gruppo "Amp"), presentò il conto ai
contribuenti è documentata dall'ultima informativa del Nucleo di polizia
tributaria della Guardia di Finanza di Roma ai pm Sergio Sottani e Alessia
Tavarnesi. Dai riscontri documentali e testimoniali che la sostengono. A
cominciare dai "ricordi" dei piccoli imprenditori che lavorarono in subappalto
per il gruppo Anemone nel cantiere della "Zignani" e che oggi confermano come
sui costi della sede del Sisde vennero caricate le fatture di via del Fagutale.
Sono carte quelle della Finanza che confermano il "metodo" di Diego Anemone,
lesto ad accollare al committente "pubblico" i costi della corruzione (già
l'inchiesta di Firenze aveva accertato che il prezzo delle tende per la villa di
campagna di Montepulciano di Angelo Balducci era stato fatturato da una delle
imprese di Anemone alla Protezione Civile come spesa sostenuta per i lavori del
G8 alla Maddalena). Ma, soprattutto, sono carte che, per la prima volta,
stabiliscono un nesso diretto tra la "fortuna immobiliare" dell'ex ministro e
l'appalto per la sede del Sisde. Che avvicinano il giorno in cui il suo nome
verrà iscritto al registro degli indagati (la posizione processuale di Scajola,
ad oggi, resta quella di "persona informata dei fatti"). Che confermano oggi,
come documentato da "Repubblica" il 17 giugno scorso, che a tenere insieme
l'acquisto e la ristrutturazione di via del Fagutale con la lievitazione dei
costi dell'appalto per la caserma Zignani (da 3 a 12 milioni di euro) non è una
semplice coincidenza temporale. Non fosse altro per un secondo, cruciale
dettaglio, documentato, anche questo, nell'informativa della Finanza.
Sull'appalto "Zignani", Anemone caricò, con quelli di Scajola, anche i costi
sostenuti per soddisfare le urgenze immobiliari del generale e dirigente del
Sisde Francesco Pittorru, di sua moglie e della figlia (nell'aprile del 2004, il
costruttore acquista al generale un appartamento in via Merulana 71 per 285 mila
euro. A giugno del 2006, una seconda casa in via Angelo Poliziano per 520 mila).
E non a caso, perché proprio il 10 ottobre di quel 2004, Pittorru assunse al
Sisde la guida della Direzione tecnico-logistica del Servizio. Quella che
avrebbe dato semaforo verde alla lievitazione dei costi della "Zignani"
liberandosi di chi, in via Lanza, aveva inutilmente provato a eccepire.
Ma da Perugia le pessime notizie per Scajola e il governo di cui ha fatto parte
fino a due mesi fa, non finiscono qui. I pm Sottani e Tavarnesi hanno deciso di
procedere, autonomamente, con i propri ufficiali di polizia giudiziaria, al
"riesame" e "riascolto" delle 400 mila telefonate registrate dal Ros dei
carabinieri nei due anni di indagini condotte dalla Procura di Firenze. Convinti
che le conversazioni che in quella fase furono ritenute "irrilevanti" dagli
investigatori, e dunque non vennero trascritte, potrebbero diventare al
contrario "cruciali" alla luce di quanto l'indagine ha acquisito dal 10 febbraio
scorso in avanti. A convincere la Procura, qualche settimana fa, la circostanza
che una recente delega al Ros di individuare conversazioni non trascritte tra
Balducci e Lunardi ha fatto emergere almeno una decina di conversazioni "di
sicuro interesse investigativo" nella vicenda del palazzo di via dei Prefetti e
della ristrutturazione della sede di piazza di Spagna di Propaganda Fide.
Insomma, se i pm hanno ragione, di qui a settembre, un nuovo ascolto "con il
senno di poi" di tutte le conversazioni dei principali indagati - Balducci,
Anemone, Bertolaso - potrebbe nuovamente portare l'inchiesta nel cuore di
palazzo Chigi e in quello dei ministeri al centro di questa vicenda: le
Infrastrutture e il Turismo, che aveva delega sulla Ferratella.
Carlo Bonini
L'uomo che sapeva
troppo sugli Usa
L'ambasciatore statunitense a Tegucigalpa
sapeva del colpo di Stato contro Manuel Zelaya del 28 giugno 2009, già da
settimane. Parola di un ex ministro morto ammazzato poco dopo queste scottanti
rivelazioni
L'ambasciatore Usa a Tegucigalpa, Hugo Llorens,
sapeva del colpo di Stato contro Manuel Zelaya del 28 giugno 2009, già da
settimane. Lo ha dichiarato Roland Valenzuela, ministro del governo legittimo
spodestato un anno fa, in una intervista rilasciata a una radio locale di San
Pedro Sula il primo di maggio. Informazioni bomba, rimaste però circoscritte fra
i pochi ascoltatori dell'emittente fino a che Valenzuela non è stato
assassinato. Una morte annunciata, di cui aveva parlato proprio durante quella
conversazione radiofonica, ammettendo di temere per la sua incolumità a causa
delle notizie che aveva deciso di rendere pubbliche. Un tentativo di tappargli
la bocca che è servito invece a diffondere via internet tutta la sua denuncia.
Quindici giorni dopo la sua morte, per mano dell'imprenditore Carlos Yacamán
Meza, qualcuno ha ripreso quella registrazione e l'ha caricata sul web, dove sta
facendo il giro del mondo.
Valenzuela racconta con dovizia di dettagli come l'ambasciatore statunitense
abbia partecipato attivamente al colpo di stato e come il 10 giugno l'allora
presidente del Congresso nazionale, Roberto Micheletti, abbia inviato a Llorens
la bozza del decreto che avrebbe poi destituito Zelaya affinché ne prendesse
visione e vi apportasse eventuali modifiche. Un documento, questo, che già
risultava datato 28 giugno 2009 e che era accompagnato dal seguente messaggio:
"Ambasciatore Llorens, questo è il decreto che mi ha consegnato Micheletti, gli
mancano alcune opinioni, ma è urgente avere la sua". A scriverlo, quasi
certamente Jacqueline Foglia Sandoval, ex militare formatasi alla West Point di
New York, prima dipendente dell'ambasciata honduregna a Washington e poi membro
del Consiglio honduregno delle imprese private.
Il tutto con tanto di firme già apposte in calce al decreto: quella dei deputati
Ricardo Rodríguez, liberale e attuale Sotto procuratore della Repubblica, quella
di Toribio Aguilera Coello, pinuista e attuale parlamentare, quella di Rolando
Dubón Buezo, nazionalista e attuale deputato, quella di Rigoberto Chan Castillo,
nazionalista e ora segretario del Congresso, e quella di Gabo Alfredo Jalil
Mejía, ministro della Difesa durante il regime di Micheletti.
"Che pensava di fare l'ambasciatore Llorens, infilato fino al collo negli affari
interni dell'Honduras, chiamato a esprimere un giudizio sulla bozza di un
decreto che avrebbe destituito il presidente?", si andava retoricamente
chiedendo l'ex ministro nell'intervista a Radio Internacional, riferendosi al
fatto che l'uomo della Casa bianca abbia sempre negato ogni coinvolgimento nel
golpe.
Questi i retroscena di un teatrino diplomatico che sembrava promettere tutt'altro.
Nella sua prima visita del destituito Zelaya a Washington, il Segretario di
Stato Hillary Clinton gli aveva "giurato che lo avrebbe rimesso al suo posto, e
intanto tramavano per legittimare la dittatura". Quindi aggiunge "gli Stati
Uniti ci hanno traditi, ci hanno sempre traditi... hanno messo in scena un
copione in cui mentre a noi dicevano che ci avrebbero aiutato, rassicuravano
Micheletti che mai lo avrebbero tolto da lì". E infatti Zelaya non è mai stato
rimesso al suo posto.
Sul finale dell'intervista, quindi, Valenzuela spiega anche come l'idea del
colpo di stato sia nata a molti chilometri dal Centroamerica da sei imprenditori
seduti al bar di un lussuoso hotel di Dubai. "Dobbiamo rovesciare Zelaya, non se
ne può più", avrebbero detto i sei menager in trasferta per una fiera
internazionale nella capitale degli Emirati arabi uniti. E questo avveniva
immediatamente dopo che il governo aveva annunciato l'idea della quarta urna,
ossia il primo passo verso il referendum per una nuova Costituzione. Evitando di
fare nomi e cognomi, l'ex ministro morto ammazzato spiega come i potenti uomini
d'affari decisero allora di ingaggiare uno specialista chiamato Smith affinché
iniziasse a lavorare per screditare il governo legittimo. Lavoro pagato con 4
milioni di dollari. Nella medesima sede venne anche deciso di affidare a
Jacqueline Foglia il coordinamento e la logistica del colpo di stato.
Fu poi all'interno del parlamento che venne pianificato nei dettagli il golpe, e
in una delle tante riunioni della cospirazione si incaricò l'attuale deputata
Marcia Villeda di ottenere i documenti per accusare Zelaya, la quale non si
fermò davanti a niente arrivando persino a falsificarne la firma.
Questo il clou della lunga e scottante intervista, che gli è valsa una condanna
a morte. Valenzuela infatti non potrà deporre di persona davanti alla
Commissione della Verità ideata dall'attuale governo Lobo, di diretta
derivazione golpista, ma le sue parole restano registrate a futura memoria e
costituiranno un tassello indelebile per ricostruire la storia dell'Honduras
nell'era Obama.
Stella Spinelli
Grecia, il nodo da
sciogliere
Prima o poi la verità sulla morte di Alexandros
Grigopoulos verrà a galla
Ucciso
da una delle sfere sparate dall'agente di polizia Epaminondas Korkoneas,
Alexandros Grigopoulos aveva quindici anni e pare che la sera della sua morte,
il 6 dicembre 2008, avesse con sé un ciondolo a forma di cuore da regalare alla
sua ragazza. Alexandros scriveva, nell'ultimo tema della sua vita, circa
l'ineluttabilità di determinate fasi esistenziali: ‘'Sono stadi che nessuno può
evitare, l'infanzia, l'adolescenza, il diventare adulti, la carriera, i figli
... e alla fine diventi un anziano''. E un'anziana è stata ad attirare
l'attenzione all'udienza di venerdì 9 luglio: la nonna del giovane era presente
in aula, per la prima volta dall'inizio del processo, nel giorno in cui
Korkoneas ha iniziato a rendere la propria testimonianza, che continuerà oggi,
12 luglio, circa gli eventi che portarono alla morte del ragazzo. Una
testimonianza ricca di contraddizioni, puntualmente fatte rilevare dalla
Presidente della Corte, Angelita Papavasileiou. Korkoneas ha sostenuto che: ‘'Le
vittime siamo io e lui, il ragazzo ed io, che muoio ogni giorno, ogni istante.
Le nostre famiglie sicuramente soffrono'', per scoppiare in lacrime ed affermare
la propria pena per quello che è successo.
Circa quella sera, Korkoneas ha ribadito che mentre lui e Vasilis Saraliotis,
accusato di concorso in omicidio, si trovavano nella loro volante, avevano
subito l'attacco, con pietre e bottiglie, di circa una decina di persone.
Lasciarono la volante e a piedi, si diressero verso via Tzavela, a pochi metri
di distanza dall'auto, dove furono soggetti ad un nuovo attacco da parte di
20-30 persone. Stando a Korkoneas, Saraliotis fece uso di un paio di scariche
frastornanti e vollero tornare sui loro passi. Fu solo allora, stando al
racconto di Korkoneas, che quest'ultimo si rese conto che, nella via adiacente,
un gruppo di persone assisteva insultando gli agenti e gettando loro oggetti.
‘'Mi sono sentito intrappolato, ho estratto la pistola e ho sparato due volte -
credo. Non ricordo molte cose, ho ancora in testa i rumori forti delle cose che
venivano rotte e le grida. I miei sentimenti in quei momenti erano troppi.
Scosso, mi resi conto di aver usato la rivoltella; dissi al mio collega di
andare via. Ricordo che ci guardavamo senza parlare''. E aggiunge di essere
rimasto incredulo quando alla centrale lo informarono circa la morte di un
ragazzo colpito al petto da una pallottola. Sparata per aria.
Angelita Papavasileiou è implacabile, sono decine le domande che pone ad
Epaminondas Korkoneas che, in fase istruttoria, aveva deposto circa un attacco
subito con bombe molotov, non con pietre e bottiglie d'acqua, che non convince
circa la spiegazione del perché i due agenti lasciarono la volante e si
avviarono a piedi (racconta dell'intento di procedere a fermi), che riporta
tempi che non coincidono con quelli registrati dalla Centrale di polizia, né con
le testimonianze rese dai testimoni oculari. La Presidente insiste nel chiedere
perché l'accusato tardò così tanto, dopo l'accaduto, a comunicare con la
Centrale. ‘'Ero confuso, avevo usato l'arma. Non sono avvezzo alla violenza e so
che quando spari per aria, la pallottola può colpire qualcuno''. La risposta di
Angelita Papavasileiou è stata che questa frase sarà tenuta ben presente dalla
Corte. È così che entra nella sua fase finale un processo atteso, travagliato
come pochi in questi ultimi anni, mentre la violenza assume connotati endemici
in un paese sofferente.
Margherita Dean
La ricostruzione parte dal
verde
Mentre impazza la polemica fra gli Aquilani e
le istituzioni, a Pescomaggiore un comitato apolitico sta promuovendo, e
realizzando, costruzioni a zero impatto ambientale
Lontano dall'occhio delle telecamere di Porta a
Porta L'Aquila è un paese in ginocchio. Distrutto. Non molto diverso da quella
città fantasma finita sugli schermi dei televisori di tutto il mondo
all'indomani del 6 aprile 2009. Allora l'Italia intera si strinse intorno
all'Abruzzo: dai volontari della protezione civile fino al presidente del
Consiglio Silvio Berlusconi che, dopo aver pianto sulle bare di 205 delle 308
vittime accertate, ha promesso “l'impegno assoluto del governo nella
ricostruzione”. Ricostruzione avviata e conclusa, in parte, nel giro di pochi
mesi e raccontato, in diretta, dal talk show politico di Bruno Vespa. Tutti
contenti, tutti sorridenti e tutti di nuovo dentro una casa. Sbagliato. Oltre
quelle famiglie che una casa nuova l'hanno ottenuta l'Aquila è, ancora oggi,
l'espressione di un disagio sociale diffuso fra migliaia di cittadini stanchi e
arrabbiati. C'è chi ancora quattro mura non ce l'ha ed è costretto a occupare
casa di qualche parente o ad accontentarsi di moduli abitativi temporanei che, a
prescindere dalla definizione che al tempo ne diede il presidente della Cei
Angelo Bagnasco “rifiniti e accoglienti”, rimangono pur sempre sistemazioni
precarie.
A Roma. Sulla provvisorietà del capoluogo abruzzese si è soffermato il sindaco
Massimo Cialente che ai cronisti presenti mercoledì di fronte Palazzo Madama,
sede del Senato, ha raccontato: “Lì è stata costruita una città temporanea: case
temporanee, chiese temporanee, uffici e negozi temporanei. Dobbiamo pagare 350
milioni per l'emergenza ed è tutta da avviare la ricostruzione”. E dire che
qualche tempo fa, il 28 febbraio scorso, i cittadini dell'Aquila una protesta
pacifica l'avevano pure tentata scendendo in piazza con le carriole per
evidenziare che a distanza di due anni le macerie di chiese, case e palazzi
istituzionali erano ancora in mezzo alle strade. Dopo mesi di silenzio e di
immobilità da parte delle istituzioni gli Aquilani hanno raggiunto la capitale e
dalla capitale sono stati rimandati a casa a furia di manganellate. Il bilancio
è stato di due feriti e migliaia di speranze spezzate da una illogica fermezza
di un governo che continua a lasciare fuori dalla porta gli amministratori
locali e i rappresentanti dei comitati. Oltre il breve colloquio fra Cialente e
il presidente del Senato Renato Schifani l'establishment romano si è mosso solo
in tarda serata annunciando, per bocca del sottosegretario alla Presidenza del
Consiglio, Gianni Letta, il contentino della dilazione per la raccolta delle
tasse che, chi è ancora senza casa, potrà pagare in 120 rate anziché in 60.
Nient'altro.
Il progetto Eva. Chi invece sembra muoversi con più entusiasmo e determinazione
sono i responsabili del progetto dell'Eco Villaggio Autocostruito (EVA) ideato
per ridare una casa agli abitanti di Pescomaggiore, piccolo borgo di origini
altomedioevali alle porte del Parco Nazionale del Gran Sasso. La piattaforma
proposta dal Comitato per la Rinascita di Pescomaggiore parte dalla necessità di
bypassare le lungaggini burocratiche e permettere una ricostruzione all'insegna
del rispetto ambientale. Le abitazioni low-cost avranno, infatti, una struttura
in legno portante e una tamponatura in balle di paglia. “Una concezione tecnica
ignota solo in Italia” ha raccontato a Peacereporter Paolo Robazza, uno dei
progettisti, che ha aggiunto “sul progetto totale che prevede sei case siamo
riusciti a completarne già due, mentre la prossima sarà pronta durante l'estate.
Dopo di che ci concentreremo sulle altre che speriamo di finire prima della fine
dell'anno”. Secondo Robazza il maggiore pregio dell'Eva non sta tanto nella
concezione ambientale, da tempo sviluppata in altri Paesi, quanto nel fatto che
“da una gestione dell'emergenza con progettazione partecipata, auto-costruzione
e autofinanziamento, che di solito prevede tempi lunghi, si è passati ad un
modello applicabile a tutto il piano di rinascita di Pescomaggiore”.
Finanziamenti. Sarà per la realizzazione a impatto zero sull'ambiente o per la
volontà di rimanere intatti da logiche partitiche, fatto sta che il progetto Eva
ha riscontrato numerosi apprezzamenti da parte dei potenziali finanziatori, la
società civile, che continuano a finanziare l'opera. Il costo di ogni singola
abitazione ammonta a circa 500 euro al metro quadro - un quinto di quello degli
appartamenti del progetto C.A.S.E. avallato dal governo – e sarà suddiviso in
modo equo tra i donatori e i futuri proprietari che riusciranno finalmente a
riprendersi la loro vita. E ciò grazie al lavoro duro sganciato da possibili
infiltrazioni mafiose nella gestione degli appalti, scandali politici e facili
sorrisi di circostanza a favor di telecamere.
Antonio Marafioti
Uganda, strage di civili
nella capitale
Almeno 64 persone hanno perso la vita in un
doppio attentato avvenuto ieri a Kampala, la capitale dell’Uganda
L'attacco
sarebbe avvenuto in due luoghi della città, il primo, alle 22:30 in un Rugby
Club dove si stava proiettando la finale della coppa del mondo Olanda-Spagna,
mentre il secondo in un ristorante etiopico nei pressi di Kabalagala, un
sobborgo situato nella parte meridionale della città. Secondo fonti stampa, tra
i morti ci sarebbe anche un cittadino americano. Tuttavia è ancora presto per
fare dei bilanci, e il numero delle vittime potrebbe ulteriormente aumentare
nelle prossime ore.
Secondo Judith Nabakooba, portavoce delle forze dell'ordine ugandesi, non ci
sarebbero dubbi: gli attentati avrebbero l'inconfondibile marchio di al-Qaida, e
potrebbero essere stati eseguiti da alcuni martiri vicini al movimento radicale
somalo degli Shabaab, che dal 2007 combatte le truppe dell'Unione Africana
dislocate nella capitale somala per proteggere il fragile Governo Federale di
Transizione. Anche se per ora nessuna esplicita rivendicazione è stata avanzata
dal movimento radicale somalo, ci sarebbero almeno tre elementi importanti per
sospettare un loro coinvolgimento negli attentati di Kampala.
Il primo è certamente la dinamica. L'attentato ricorda infatti alcune azioni
analoghe organizzate da al-Shabaab in Somalia, usando proprio la tecnica del
martirio per colpire obiettivi militari o avversari politici. Per citare solo
due degli attentati riconducibili certamente agli Shabaab possiamo ricordare
quello che il 29 ottobre 2008 aveva colpito l'ufficio della Presidenza e il
compound UNDP di Hargeisa, in Somaliland e il grave attentato del primo maggio
scorso nella moschea di Abdalla Shideye, situata all'interno del mercato di
Bakara di Mogadiscio. Il secondo elemento che farebbe convergere i sospetti su
al-Shabaab è certamente il luogo dell'attentato. Kampala, capitale dell'Uganda,
un Paese che oggi offre il maggior numero di soldati per la missione AMISOM. I
caschi verdi ugandesi presenti in Somalia sarebbero circa 5mila, mentre altri
2mila dovrebbero essere dispiegati nei prossimi mesi. L'Uganda aveva già
ricevuto delle minacce dirette da parte degli alti comandanti Shabaab. L'ultimo
la scorsa settimana, quando l'ex portavoce del movimento, Sheikh Muktar Robow,
si era espresso contro la presenza dei militari ugandesi nel Paese durante le
preghiere del venerdì. Secondo l'agenzia di stampa Associated Press, anche
Sheikh Yusuf Sheikh Issa, un altro comandante dei giovani Muja'eddin, avrebbe
mostrato soddisfazione per i terribili attacchi di Kampala, anche se non
rivendicandoli direttamente.
Il terzo e ultimo fattore che potrebbe far sospettare di al-Shabaab è invece la
tempistica degli attentati. La gravità della situazione in Somalia aveva spinto
l'IGAD (Inter-Governmental Authority on Development) ad indire all'inizio di
questo mese un meeting straordinario ad Addis Abeba. Durante l'incontro i
rappresentanti dell'organizzazione regionale avevano dichiarato la necessità di
riformulare i termini della missione AMISOM, invitando non solo le Nazioni Unite
ad avviare quel processo di re-hatting richiesto a gran voce dalla stessa Unione
Africana, ma anche decidendo un aumento consistente del numero dei caschi verdi,
che dovrebbe crescere di almeno duemila unità. La finale della coppa del mondo
così poteva offrire un'opportunità importante per al-Shabaab di poter colpire
l'Uganda direttamente al cuore, approfittando delle proiezioni della partita di
calcio organizzate nella capitale.
Nonostante si sappia ancora troppo poco sulla dinamica degli attacchi di Kampala
sarebbero comunque tanti gli elementi a far propendere i sospetti sul gruppo
degli Shabaab. Se le accuse al movimento somalo dovessero rivelarsi fondate si
tratterebbe del primo attentato organizzato dai giovani Muja'eddin fuori dal
territorio somalo. Al-Shabaab confermerebbe così la sua nuova strategia, oltre
che l'allineamento operativo, prima che ideologico, ad al-Qaida. In questo caso
la crisi somala potrebbe estendersi a macchia d'olio in tutti i Paesi della
regione, allargando nuovamente il fronte ad altri paesi finora poco coinvolti e
relativamente al sicuro.
Matteo Guglielmo
Birmania, compagnie
petrolifere straniere a sostegno del regime
Il nuovo rapporto della Ong
americano-thailandese EarthRights International: Total, Chevron e la thailandese
PTTEP implicate nelle politiche repressive
Total, Chevron e la thailandese Pttep. Sono queste
le compagnie energetiche che sostengono le politiche repressive della giunta
birmana.
Lo afferma un rapporto della Ong americano-thailandese EarthRights International
(Eri), secondo cui le tre multinazionali sarebbero indirettamente responsabili
di violazione dei diritti umani, reati finanziari e proliferazione nucleare a
Myanmar.
Nel mirino c'è Yadana, un giacimento offshore di gas naturale dove le tre
compagnie operano con la birmana Myanma Oil and Gas Enterprise (MOGE),
controllata dai militari al potere.
Dal 1998 - stima il rapporto - il progetto ha generato profitti per nove
miliardi di dollari. Di questi, più della metà (circa cinque miliardi) sono
finiti nelle tasche della giunta.
Queste revenues avrebbero consentito al regime di "mantenere il potere e
lanciare un costoso e illegale programma di riarmo nucleare mentre partecipava
all'illecito mercato delle armi in collaborazione con la Corea del Nord,
minacciando la sicurezza interna e nell'area regionale".
Non solo. I profitti sarebbero depositati in conti bancari offshore. Già nel
2009, l'Eri aveva indicato in due banche di Singapore i "forzieri" della giunta
birmana: la Overseas Chinese Banking Corporation (OCBC) e il DBS Group. Entrambi
gli istituti hanno negato le accuse.
Il rapporto collega al progetto Yadana anche violazioni dei diritti umani. A
febbraio sono stati per esempio assassinati due membri dell'etnia mon nel
villaggio di Ahlersakan nell'area del gasdotto.
Secondo Eri si tratta di "esecuzioni mirate", comandate "dall'ufficiale Balay
(detto) Nyi Nyi Soe del battaglione 282, che ha lo specifico incarico di
garantire la sicurezza del personale delle compagnie petrolifere e del
gasdotto".
Nella Divisione del Tenasserim - dove si trovano il giacimento e il gasdotto -
sarebbero dislocati almeno quattordici battaglioni dell'esercito birmano, a cui
Chevron e Total hanno delegato la propria sicurezza. Nell'area vivono circa
cinquantamila persone che - secondo l'Eri - sarebbero sottoposte alla
coscrizione obbligatoria non retribuita. Anzi, dovrebbero pagare di tasca
propria i costi delle operazioni.
Si tratterebbe quindi di vero e proprio lavoro forzato che si traduce nel
prelievo degli abitanti dei villaggi da parte dei soldati per "svolgere lavori
pesanti, fare da guide nella giungla, scavare delle trincee nei villaggi di
Zinba, Kaleingaung, Michaunglaung, etc."
Gabriele Battaglia
7 luglio
Africa,
sos agricoltura
Investimenti insufficienti e poca
competitività, così il continente africano rischia di perdere la sfida più
importante
La speranza di eliminare o ridurre in
maniera consistente la malnutrizione e la denutrizione, che in Africa sono
ancora piaghe molto dolorose, passa attraverso i campi. Quegli stessi campi
che da diversi anni danno sempre meno frutti. I leader africani avevano
identificato nell'agricoltura il settore strategico, l'unico in grado di
mettere in moto un meccanismo di crescita economico e sociale ma devono
essersene dimenticati, perché recenti studi indicano che l'Africa questa
sfida la sta perdendo.
L'agricoltura
in Africa sta vivendo un declino preoccupante, un declino che gli analisti
misurano in termini di produttività e quote di mercato e che ha alla base
una contrazione delle risorse economiche investite dai governi in questo
settore. Non si tratta di un fenomeno nuovo. Negli ultimi anni, l'allarme è
risuonato più volte. Il
Forum for Agricultural Research in Africa
(Fara) ma anche la Fao hanno già segnalato questo trend. Pochi giorni fa
l'autorevole International Policy Research Institute (Ifpri), think tank di
Washington, ha pubblicato un rapporto intitolato Halving
the Hunger,
dimezzare la fame, un titolo che fa esplicito riferimento a uno degli
obiettivi che le Nazioni Unite si erano date nel piano d'azione intitolato
Millennium Development Goal.
L'impegno era di dimezzare il numero delle persone che soffrono la fame nel
mondo entro il 2015. E l'Africa, dove questo dramma assume proporzioni
inquietanti (ne soffre il 29 per cento della popolazione), è in grave
ritardo, l'Ifpri si spinge addirittura a parlare di "deragliamento". Le
cifre raccontano molto bene questo declino. Si prenda la quota di mercato
dell'agricoltura africana, passata dal sei al due per cento nel giro di
trent'anni. Un autogol incomprensibile, se si pensa che in Africa
l'agricoltura assorbe qualcosa come il 70 per cento dell'intera forza
lavoro. E' un settore centrale ma resta marginale nelle agende dei policy
maker locali. Una prova viene dal fatto che gran parte degli stati del
continente è clamorosamente indietro anche rispetto ad un altro obiettivo
particolarmente importante, che i Paesi africani si erano dati a Maputo nel
2003, firmando una dichiarazione con la quale si impegnavano a portare al 10
per cento la quota del Pil stanziata per l'agricoltura. Nella capitale del
Mozambico era stato adottato quello che gli addetti ai lavori conoscono come
Comprehensive Africa Agricolture Development Programme (Caadp), in buona
parte rimasto lettera morta. A distanza di sette anni, solo uno sparuto
gruppo di stati sembra aver implementato la parte relativa all'entità degli
stanziamenti:Etiopia, Burkina Faso, Mali, Ghana, Senegal, Niger, NIgeria e
Malawi. Nel complesso, però, l'Africa sta facendo poco, molto meno di quello
che fanno Asia e America Latina. Alcuni dati, contenuti in un altro rapporto
dell'Ifpri risalente all'aprile dell'anno scorso (Public Spenditure for
Agricolture in Africa: Trends and Composition) aiutano a farsi un'idea della
realtà: nel 2005 gli stanziamenti per l'agricoltura ammontavano, nell'intero
continente, a meno di 300 miliardi di dollari. Nello stesso anno, i Paesi
asiatici avevano stanziato qualcosa come 3100 miliardi e poco meno di mille
l'America Latina. Il risultato è che per ogni ettaro coltivato, in Africa si
ricavano due tonnellate di grano; sulla stessa superficie in India le
tonnellate raccolte diventano quattro e addirittura otto in Cina. Sono cifre
allarmanti, se lette avendo accanto le proiezioni sui prossimi cambiamenti
demografici. Nel 2050, la popolazione mondiale raggiungerà i nove miliardi e
il continente nel quale si registrerà la crescita più consistente (910
milioni di persone) è proprio quello africano, dove parallelamente si sta
registrando un processo di urbanizzazione che aumenterà le bocche da sfamare
rispetto alle braccia impiegate nei campi. Un cortocircuito notevole, che si
accompagna ad altri gravi problemi strutturali e congiunturali, come lo
stato pietoso delle infrastrutture (che taglia molti contadini fuori dal
circuito commerciale), l'arretratezza dei sistemi produttivi, il consistente
calo delle donazioni da parte dei Paesi più sviluppati, alle prese essi
stessi con una crisi economica paralizzante. Nel 1980 costituivano il 15 per
cento delle somme destinate all'agricoltura, nel 2006 solo il quattro per
cento, questo in parte per la crescita dei fondi governativi ma anche per
una riduzione degli aiuti internazionali. Resta il fatto che i governi
locali hanno fatto poco. Basta dare un'occhiata all'Africa orientale: in
Paesi come Kenya, Uganda, Tanzania, Burundi e Rwanda si è ritagliato per
l'agricoltura una somma pari al cinque per cento dei rispettivi Pil. A
rendere più complesso il quadro ci sono le condizioni
climatico-meteorologiche, l'alternarsi di prolungati periodi di siccità e di
piogge torrenziali, come quelle che negli ultimi mesi hanno causato
centinaia di vittime in Kenya e Rwanda. E proprio questo fattore spiega
perché due dei Paesi virtuosi in termini di impegno economico a favore
dell'agricoltura, e cioè Ghana e Niger, si collochino agli estremi opposti
della retta che misura il successo delle politiche agricole.
Negli
Stati Uniti "possedere e girare con un'arma" è un diritto costituzionalmente
garantito. Questa la sentenza di 45 pagine con cui la Corte Suprema ha
accolto l'istanza della National Rifle Association (NRA), la potente lobby
delle armi, contro la città di Chicago che da 28 anni conduce una politica
di limitazione del possesso di fucili e pistole.
Lunga battaglia.
A spostare l'ago della bilancia della giustizia verso l'NRA è stato il voto
del giudice Anthony Kennedy confluito nello schieramento conservatore che ha
fatto guadagnare la maggioranza, 5 voti contro 4, alla frangia dei
favorevoli. Ogni cittadino statunitense da oggi potrà dunque andare in giro
armato in virtù del secondo emendamento alla Costituzione. Modifica, questa,
che risale precisamente al 1791 e che, per di più, garantisce tale diritto
solo a "milizie organizzate" e non anche ai comuni cittadini. Poco ha
contato per i 5 togati che negli Stati Uniti oggi, a differenza di 220 anni
fa, circolino circa 250 milioni d'armi da fuoco fra 90 milioni di persone.
Per niente deve avere influito il dato, altrettanto allarmante, che sui
circa 80 statunitensi che muoiono ogni giorno nel Paese, circa 34 vengono
uccisi. La legge è legge. Se poi è quella fondamentale a stabilirlo poco
importa no le date. Il diritto ad avere un'arma è sacrosanto. Così stabilì
nel 2008 il tribunale dei tribunali nel caso Columbia contro Heller, così ha
ripetuto oggi nel pronunciamento iniziato come McDonald contro Chicago. E
proprio Otis McDonald, l'anziano 76enne di Oak Park periferia di Chicago,
dopo la lettura del verdetto ha ringraziato "Gesù Cristo e le persone
meravigliose di tutta l'America che hanno appoggiato il secondo emendamento
ed il nostro diritto all'autodifesa".
L'iter.
Dopo aver stabilito che dovranno essere garantite "ragionevoli misure di
controllo" alla futura esecuzione della legge, i giudici della Corte hanno
rimandato la questione al tribunale dell'Illinois per un'ulteriore esame. Ma
la parola della Corte Suprema, si sa, è quasi sacra e a poco varranno le
pressioni politiche del singolo Stato per bloccare l'applicazione della
normativa. Su ogni futura causa che verrà intentata da un singolo cittadino
contro i suoi governanti statali da oggi in poi penderà il precedente della
Corte Suprema. L'unica possibilità per i vari sindaci e governatori sarà
quella di armonizzare le proprie misure di sicurezza con il "diritto alle
armi". Al plauso della NRA ha risposto Kristen Rand, direttrice del Violence
Policy Center (VPC) secondo la quale a causa "morirà altra gente per colpa
di questa decisione. Quella di oggi rappresenta una vittoria per le ricche
lobby delle armi".
Lobby che, per natura, continuano ad anteporre gli interessi dei propri
rappresentati ai pericoli reali come quelli legati a possibili scenari delle
periferie di Chicago o New York che saranno ancora più armate di quanto già
non lo siano. La guerra fra bande metropolitane, le sparatorie
indiscriminate commesse da squilibrati nelle scuole e nelle Università, le
violenze in campo domestico rappresentano solo una piccola parte di quella
enorme metastasi che affligge quotidianamente il cuore degli Stati Uniti.
"Le pistole sono le armi con cui si commettono il maggior numero di omicidi
in questo Paese e in questa città in particolare», ha denunciato la
consigliera comunale di Chicago Mara Georges, che ha poi aggiunto "a Chicago
solo nel 2008 su 412 omicidi 408 sono stati compiuti con armi da fuoco".
Per le lobby sono dati da dimenticare in virtù del profitto che arriverà dai
proventi delle ricche commesse. Per la giustizia sono solo circostanze che
non possono scalfire una legge vecchia più di due secoli.