Una delle più colossali frodi poste in essere
nella storia nazionale". Se soltanto si prende in considerazione come, con
quali parole e intensità, i pubblici ministeri di Roma definiscono l'affaire
che travolge oggi Fastweb e Telecom, si può comprendere a che punto siamo.
Per provare a dirlo, occorre mettere in fila quel che accade. Gli arresti in
flagranza di amministratori con la "bustarella" in tasca. Lo scandalo che ha
svelato la corruzione e il malcostume nascosto dal potere d'eccezione
concesso alla Protezione civile di Guido Bertolaso in nome del "fare" e del
miracolismo mediatico. I fondi neri e il riciclaggio per migliaia di milioni
di euro prodotti dal business illegale delle due società telefoniche. I
brogli elettorali e, addirittura, l'ingresso in Parlamento di un uomo
selezionato da un clan mafioso. La cronaca racconta, a chi vuole sentire,
che corruzione e malaffare segnano come una malattia la nostra vita
pubblica. È vero (e meno male), che non la definisce nella sua interezza, ma
appunto è una patologia grave e diffusa che minaccia l'esistenza e lo
sviluppo del Paese.
Dovremmo finalmente prenderne atto senza ipocrisia. La buona politica ne
dovrebbe prendere atto. La buona società dovrebbe imporre l'urgenza di
affrontarla. Si dovrebbe finalmente mettere in un canto la filastrocca,
recitata dal presidente del Consiglio, ripetuta come una litania dai suoi
corifei, rilanciata dai media dominati o docili. Quella fiaba interpreta e
altera il degrado della vita italiana come artificio politico, come
espediente narrativo per disturbare il manovratore. Come il metodo cinico
per danneggiare gli interessi e la credibilità internazionale del Paese
(anche questo è stato avventurosamente detto).
Riciclaggio, le frodi Carosello
ecco come funzionavano
ROMA - La parola-chiave è "frode carosello". Secondo il gip di
Roma è in questo modo che l' "organizzazione criminale" sgominata da Ros e
Gdf ha potuto "realizzare attività economiche fittizie del valore di alcuni
miliardi di euro al fine di ottenere crediti di imposta con profitti per
centinaia di milioni di euro in favore di Fastweb e Telecom Italia Sparkle".
La frode carosello veniva realizzata in quattro mosse, che consentivano di
creare "ingenti fittizi crediti Iva".
1) In primo luogo venivano realizzate o individuate, scrive il gip, una
serie di società 'A', tutte con sede all'estero nell'ambito dell'Ue e di
fatto create ad hoc per le operazioni delittuose, nonchè una serie di
società 'B', con sede in Italia e anch'esse di fatto create ad hoc".
2) 'A' cedeva fittiziamente a 'B' un valore pari a '100' di servizi, di
solito traffico telefonico ma non solo, senza pagare l'Iva poiché si
trattava di cessione all'interno di Stati appartenenti all'Ue (la cosiddetta
cessione 'intra')
3) 'B' cedeva fittiziamente alle società 'C' - vale a dire Fastweb e Telecom
Italia Sparkle - i medesimi servizi per un valore di '100' sul quale veniva
pagata da 'C' l'Iva per il 20%, poiché si trattava di una compravendita di
servizi in Italia, con un esborso finale apparente per 'C' di '120'.
4) 'C', infine, rivendeva ad 'A' i medesimi servizi con il sistema 'intra'
(come detto applicabile negli acquisti tra Stati Ue) al prezzo di '100'
senza il pagamento dell'Iva.
In questo modo, afferma il gip, "alla fine di un'operazione sostanzialmente
neutra a fini economici perché ogni soggetto paga ed incassa '100', 'C'
(vale a dire Fastweb e Telecom Italia Sparkle) ha apparentemente pagato '20'
di Iva a 'B', che quest'ultima in ogni caso non versa all'erario, non avendo
mai incassato la relativa somma".
La
banda del fare quel che ci pare
di Fabrizio Gatti
Così Berlusconi, Letta e Bertolaso hanno affidato le opere più importanti a
un gruppo di costruttori senza scrupoli. Con una cascata di leggi su misura
per eliminare ogni ostacolo e ogni controllo
LEGGI, SFOGLIA E GUARDALO
SPECIALE: Tutte le inchieste, gli interattivi, gli
approfondimenti, i video e le foto negli approfondimenti de L'espresso
Un casinò da aprire sul dolore dell'Abruzzo. Una sala da gioco autorizzata
da una postilla, infilata dentro uno dei decreti per la ricostruzione.
Questo stavano progettando gli amici di Guido Bertolaso, 60 anni, capo della
Protezione civile e uomo immagine del governo. È l'ultima trovata della
banda della maglietta:
una volta c'era la banda della Magliana, adesso nella capitale dominano gli
uomini con la t-shirt delle emergenze.
Diego Anemone,
39 anni, il costruttore tuttofare arrestato il 10 febbraio, voleva
trasformare il Salaria sport village di Roma in una piccola Las Vegas. Poker
e slot machine di ultima generazione. Quelle in cui infili i numeri della
carta di credito o del bancomat e vai avanti a giocare fino a quando il
conto è prosciugato. Erano sistemi vietati. Poi Silvio Berlusconi ha firmato
il decreto, convertito il 24 giugno 2009 nella legge 77. E via, con la scusa
di finanziare la rinascita a L'Aquila grazie a una tassa una tantum di 15
mila euro a macchinetta, ecco inventata una nuova fonte di guadagno. C'è
sempre un provvedimento d'urgenza, un'ordinanza pronta quando qualcuno della
banda si fa prendere la mano dalle deroghe o dagli abusi.
È davvero straordinario il sottosegretario Bertolaso,
come i suoi poteri che la Procura di Firenze ha ora messo sotto inchiesta.
Sembra che in Italia non ci siano più alternative al suo modo spaccone di
gestire gli appalti, i cittadini, il codice civile e quello penale. Se ne
sta lì in mezzo al sistema solare della Tangentopoli 2. Praticamente
intoccabile. Protetto dall'affetto di Gianni Letta e Francesco Rutelli.
Amato nel Pdl, nel Pd e in Vaticano. Cercato, riverito da questa drammatica
corte di imprenditori, massoni, paramafiosi, progettisti e puttanieri che
stanno spolpando le casse dello Stato. Come hanno fatto in Sardegna, a forza
di prezzi gonfiati e ritocchi in corso d'opera: quanto sarebbero utili i
soldi sprecati alla Maddalena, oggi che da Porto Torres a Cagliari aumentano
i disoccupati e nessuno sa come riaccendere l'economia.
Dalla scuola dei sottufficiali dei carabinieri a Firenze ai laboratori con i
virus letali dell'Istituto Spallanzani a Roma, finiti in una interrogazione
in Senato: «Sono state rispettate le norme antisismiche?», chiede pochi mesi
fa Domenico Gramazio (Pdl). Perché se crolla, scappano i virus. E lui, il
Guido nazionale, può beatamente dire che va tutto bene, che non si è accorto
di nulla. Può perfino permettersi, senza perdere il posto, di negare la
partecipazione della Protezione civile a una esercitazione internazionale,
finanziata dall'Unione Europea: l'unica organizzata in Calabria negli ultimi
anni, in una delle regioni sismiche più pericolose al mondo. Quando la
Commissione europea viene a sapere che i soccorritori di Bertolaso non ci
saranno, annulla l'esercitazione. Una figura pazzesca per l'Italia. A tutt'oggi
nessuno ha mai più valutato se le prefetture, i Comuni, gli ospedali
calabresi siano in grado di gestire l'emergenza dopo una catastrofe. Niente
male per l'uomo che pochi giorni fa è volato ad Haiti e dalla capitale rasa
al suolo dal terremoto ha accusato di incapacità il governo degli Stati
Uniti.
Il viaggio nel mondo infallibile
di Guido Bertolaso, fresco di riconferma, può cominciare proprio da qui:
via Miraglia 10, prefettura di Reggio Calabria. Nel 2008 si celebra
l'anniversario del terremoto del 28 dicembre 1908: 80mila vittime a Messina
e provincia, 15mila a Reggio. Da duecento anni la terra sullo Stretto trema
dopo un secolo di silenzio sismico. Il dipartimento di Bertolaso dovrebbe
per legge verificare la preparazione di Comuni, Regioni e prefetture,
coordinare le esercitazioni, aiutare gli enti locali a predisporre i piani,
correggere le lacune. Il 27 luglio 2007 il professor Mauro Dolce, direttore
per la Protezione civile dell'Ufficio prevenzione e mitigazione del rischio
sismico, spedisce in Calabria lo 'scenario di danno', nel caso si ripetesse
oggi una catastrofe come quella del 1908. I dati vengono ricavati dal
Sistema informativo per la gestione dell'emergenza, un archivio che tiene
conto della qualità degli edifici. Il bilancio è terrificante: 325.247
persone coinvolte dai crolli, 335.699 senzatetto. Un altro calcolo, tenuto
nei cassetti degli uffici di Bertolaso, prevede 112.312 morti.
L'anno successivo è il momento delle commemorazioni storiche. Ed è anche
l'occasione per verificare il sistema dei soccorsi: viene messa in agenda
l'esercitazione Ermes 2008. La Commissione europea sceglie il progetto di
Reggio per collaudare su vasta scala l'integrazione internazionale tra i
diversi corpi di protezione civile. Si fanno riunioni a Bruxelles, si
firmano accordi. Il prefetto, Antonio Musolino, però deve insistere con
Bertolaso. E lui il 6 agosto 2008 gli risponde con una lettera di ghiaccio:
«Nel comunicarti che questo Dipartimento non prenderà parte alle successive
attività organizzative ed operative, non mi resta che augurarti un proficuo
avanzamento dei lavori... previsti dal progetto, che mi auguro possa avere
la giusta rilevanza in ambito locale», scrive Bertolaso. Ambito locale? E la
Commissione europea? Il capo dipartimento se la prende con il prefetto
Musolino «per il quadro economico progettato dalla tua struttura, che non
risulta modificabile». Questione di soldi. Il capo della Protezione civile
nazionale vuole essere al centro dell'organizzazione.
Il 3 settembre Hervé Martin, capo unità della Commissione europea, prende
atto che senza gli uomini di Bertolaso l'esercitazione non sarebbe più
realistica: «La Commissione comprende la perdita di tempo risultata dalle
negoziazioni senza successo con il dipartimento di Protezione civile...»,
scrive Martin. Bruxelles cancella la partecipazione dei Paesi della Ue. E
pure i finanziamenti. La prova viene rinviata dall'estate a dicembre. Ma
resta limitata alla catena di comando locale. Niente mobilitazione sul campo
dei soccorritori italiani e stranieri. Niente coinvolgimento dei cittadini,
delle scuole, degli ospedali. Nessun piano di emergenza condiviso.
Nel 2008 Bertolaso lascia scadere anche il protocollo di prevenzione tra il
suo dipartimento e la Regione Abruzzo. E, mentre nei mesi successivi la
terra trema, nessuno ricorda che uno studio ha inserito la prefettura a
L'Aquila tra gli edifici a rischio sismico. Infatti il 6 aprile 2009 la
prefettura crolla, paralizzando per ore la catena dei soccorsi. Sempre nel
2008 il commissario delegato per il G8, una delle tante cariche che Romano
Prodi e Silvio Berlusconi affidano a Bertolaso, deve soprattutto predisporre
i cantieri sull'isola della Maddalena. È la grande abbuffata di soldi
pubblici che il 10 febbraio porta in cella con l'accusa di corruzione
quattro uomini della 'banda della maglietta'.
Oltre all'amico Diego Anemone, gli altri sono: Angelo
Balducci, 62 anni, nel 2008 coordinatore delle
strutture di missione e poi presidente del Consiglio superiore dei Lavori
pubblici, Fabio De Santis,
47 anni, prima soggetto attuatore per il G8 e poi provveditore ai Lavori
pubblici a Firenze, e Mauro Della Giovampaola,
44 anni, ingegnere cresciuto tra le imprese di Diego Anemone, diventato poi
controllore degli appalti di Diego Anemone alla Maddalena e, forse proprio
per l'efficacia dei suoi controlli, nel 2009 confermato alla presidenza del
Consiglio e nominato responsabile delle opere per i 150 anni dell'Unità
d'Italia. Balducci e De Santis vengono nominati negli appalti della
Protezione civile su proposta di Bertolaso. Quella di Mauro Della
Giovampaola è invece una carriera tutta di corsa. Quando sull'isola della
Maddalena 'L'espresso' gli chiede al telefono come possa conciliare il suo
passato di sociodella famiglia Anemone con il presente di controllore dei
lavori e delle spese degli Anemone, l'ingegner Della Giovampaola si appella
all'etica professionale. Poi chiama Angelo Balducci e lo aggiorna della
telefonata. I carabinieri del Ros li registrano.
Nel dicembre 2008 'L'espresso' con uno stratagemma entra nei cantieri del G8
coperti dal segreto di Stato. È la prima inchiesta giornalistica sulla rete
Bertolaso- Balducci-Anemone. A Roma piove da giorni. Il Tevere è in piena.
La sera di venerdì 12 il capo della Protezione civile si fa intervistare
dalle tv. Sullo sfondo le luci della capitale si riflettono nel gonfiore del
fiume. Alcuni ponti sono chiusi da ore dopo che i barconi-ristorante si sono
incastrati sotto le arcate. «La grande criticità», dice Bertolaso, «non è
rappresentata dalla piena del Tevere, che passerà nel corso della notte in
maniera controllata, ma da alcuni imbecilli che non hanno ancorato bene i
barconi sul fiume». Il capo della Protezione civile sa bene che il Tevere,
come tutti i fiumi, ha bisogno di zone di espansione. Servono a rallentare
le piene, a evitare che l'acqua allaghi le città. Una di queste aree di
protezione è all'ingresso di Roma, quartiere Settebagni. Anzi era. Perché
quello è il terreno vincolato a uso agricolo su cui Diego Anemone ha
costruito i nuovi impianti del Salaria sport village, sfruttando le
ordinanze proposte a Berlusconi dall'amico Bertolaso per i mondiali di nuoto
2009. La palazzina, la piscina olimpionica coperta e la sala del futuro
casinò sono ora sotto sequestro. Ma nel dicembre 2008 i muratori lavorano
ancora giorno e notte. Tranne nei giorni della piena: il cantiere finisce
sott'acqua. Bertolaso è socio del Salaria sport village. È lì quasi ogni
settimana a farsi massaggiare la schiena. È perfino un pubblico ufficiale
con obbligo di denuncia. Il suo amico Diego Anemone sta violando tutte le
norme urbanistiche e paesaggistiche. Italia nostra e il circolo locale del
Pd denunciano da mesi gli abusi.
Il vicepresidente del quarto municipio di Roma, Riccardo Corbucci, 31 anni,
tra i più impegnati e informati nella battaglia di quartiere, qualche mese
dopo verrà addirittura pedinato e filmato da due persone in scooter. Un modo
per provare a spaventarlo e fermare i ricorsi al Tar, che invece vanno
avanti. Eppure l'attento Guido nazionale non vede nulla di irregolare tra
gli affari dei suoi amici. Anzi il 30 giugno 2009, sei giorni dopo la
conversione in legge del decreto per l'Abruzzo e per le nuove slot machine,
Bertolaso propone e Berlusconi firma l'ordinanza 3787 della presidenza del
Consiglio. Gli amici sono salvi: gli impianti privati vanno equiparati a
quelli pubblici e gli abusi, se approvati dal Comune di Roma, diventano
legali. Molte strutture, compresa quella di Anemone, restano sotto sequestro
dopo le prime perquisizioni chieste mesi fa dalla Procura di Roma. Ma almeno
le piscine possono essere usate per gli allenamenti durante i mondiali. Ci
sono gli affitti e i compensi della federazione da incassare.
Passata la piena del Tevere di fine 2008, il 23 dicembre Bertolaso sale a
Parma per una scossa di terremoto. Il 24 torna a Roma e incontra Balducci
per decidere come rispondere all'inchiesta giornalistica de 'L'espresso'
uscita il giorno prima. «Il dottor Guido Bertolaso», fa scrivere qualche ora
dopo il capo all'ufficio stampa della Protezione civile, «ha ricevuto
dall'ingegner Balducci una relazione che ribadisce la regolarità delle
procedure seguite ed esclude qualsiasi legame familiare con imprese
impegnate nella realizzazione delle opere». Bertolaso ovviamente non dice di
avere concordato con Balducci una menzogna. È quello che scoprono poco dopo
i carabinieri del Ros quando sentono Balducci spiegare la soluzione a Diego
Anemone e a Fabio De Santis: «Nel corso dell'incontro tra il Balducci e il
Bertolaso è stato concordato di far predisporre al commercialista Gazzani»
una falsa dichiarazione: dovrebbe scrivere una nota da cui risulti inattiva
la Erreti film, la società che lega negli affari le mogli di Balducci e di
Anemone. Stefano Gazzani, 48 anni, è il commercialista delle due famiglie.
Forse proprio in cambio di questo favore Gazzani viene inserito nella
commissione di collaudo delle opere alla Maddalena. Un commercialista messo
a verificare lavori di ingegneria?
La notizia circola da tempo nei cantieri. Quando per verificarla 'L'espresso'
chiede alla Protezione civile l'elenco dei collaudatori, c'è una sorpresa:
il commercialista di Balducci non compare. La presenza di Gazzani nella
commissione di collaudo emerge soltanto adesso dalle intercettazioni di
Mauro Della Giovampaola. Anche i compensi per i collaudi sono un affare. E
in quell'elenco, tra i tanti nomi, c'è un'altra storia da raccontare. Quella
di Roberto Grappelli.
È segretario generale dell'Autorità di bacino del Tevere quando il 31 marzo
2008 firma il parere positivo al progetto di Diego Anemone per l'ampliamento
dello Sport Village sul terreno di espansione del fiume. Così, mentre
Claudio Rinaldi,
altro amico di Balducci e commissario delegato per i mondiali di nuoto, dà
il via libera ai lavori nel Salaria sport village, Grappelli cambia vita:
collaudatore per il G8 e presidente della metropolitana di Roma.
Il casinò è l'ultima frontiera della banda della maglietta. Sport, massaggi,
ristorante, gioco. E tanti ospiti famosi. Come l'amico Guido Bertolaso.
Qualche settimana fa la pratica finisce sul tavolo di un concessionario di
Lottomatica. L'idea è di installare le Vlt, le macchine mangiasoldi
collegate online. «È come connettersi a Internet, si può vincere fino a
mezzo milione », spiega uno dei rappresentanti contattati da 'L'espresso':
«Abbiamo fatto un sopralluogo con il dottor Travasi, un concessionario di
Lottomatica. Il problema è che in uno spazio sotto sequestro non si può
aprire un casinò. Nemmeno un minicasinò. La legge non lo consente ». Questo
no, almeno per ora.
Un reportage racconta
l'ansia dell'incertezza economica nel Paese ellenico
scritto da Margherita Dean
Non sapere e vivere col fiato sospeso: così vive la Grecia di questi
ultimi mesi, mentre almeno tre decenni di storia, a partire dagli anni
Ottanta, sono messi in discussione, nel loro insieme, da amici e nemici, da
chi ha faticato come da chi ha usufruito di tante, troppe, scorciatoie.
Così vive Artemis, due bellissimi occhi blu e grandi su un ovale
perfetto, una giornalista disoccupata, che ti dice di chiamarla quando vuoi,
tanto è a casa, non ha molto da fare. Oggi è un po' tesa, dietro la sua
dolcezza si cela l'ansia di una giovane donna senza lavoro, nonostante le
sue lauree e un master. È anche adirata per il trattamento riservato, dalla
stampa di mezzo mondo, alla Grecia: "Non è una questione di sciovinismo,
neanche un complesso d'inferiorità'', afferma, "è che trovo spaventose le
semplificazioni e le ipocrisie. In fondo è l'esportazione europea quella che
più è aiutata da un euro debole e la Grecia è, in questo momento, il capro
espiatorio perfetto''.
Mi guarda in silenzio, aspetta una reazione; sarà il mio sorriso ma Artemis
parla del suo conto corrente come del salvadanaio di un bambino: "Il
porcellino si sta svuotando e io mi trovo a fare pensieri che mi spaventano,
come quello di dover cambiare mestiere o di andare all'estero a cercar
fortuna''. Conclude con uno sconsolato: "non so''.
Stratos, a differenza di Artemis, è un tipo imponente, uno che dei suoi
capelli brizzolati, non proprio corti, è fiero, si nota mentre indossa il
casco per correre a casa, dai suoi due figli, dopo il lavoro. Impiegato
dell'Opera di Atene, del Megaron Moussikìs, non è meno preoccupato di
Artemis. Nonostante il suo sia un contratto di lavoro a tempo indeterminato,
vive quasi quotidianamente, da due anni a questa parte, il progressivo
sfacelo dell'economia greca, accelerato dalla crisi economica
internazionale. Una crisi che vuole che anche la musica si inginocchi
ubbidiente agli ordini dei mercati.
All'inizio, l'Opera di Atene volle risparmiare sull'elettricità, per
esempio. Mentre Stratos me lo racconta, già immagino gli impiegati chini
sulle loro carte al lume di una candela tramortita dalla vicinanza della
fine. Come in ogni Dickens che si rispetti, però, ormai è diminuito anche il
numero di dipendenti stagionali del Megaron: un addetto alla sicurezza è
responsabile di molti più metri quadri di quanto non lo fosse prima. Il
Ministero della Cultura ha tagliato i fondi a favore del Megaron, infatti,
mentre l'aumento dello stipendio di Stratos sarà del 2,5 percento, contro il
5 percento degli anni precedenti. Questo, sulla base dei contratti nazionali
firmati da sindacati ed aziende. "Ne parliamo tutti i giorni tra colleghi,
aspettiamo, non so esattamente cosa, ma stiamo col fiato sospeso. Mia moglie
ed io abbiamo fatto i primi tagli sul bilancio familiare e, infatti, la sera
non usciamo più. Abbiamo il mutuo e le carte di credito da pagare, le spese
dei ragazzi, le lezioni private''.
Nicoletta è una signora che, novant'anni portati con estrema eleganza, ha
fatto solo una concessione al tempo: un bastone da passeggio un poco amato e
un poco odiato. Vive da sola, sperando di riuscire a salvare la sua
indipendenza fino alla fine, mentre desolata ripete spesso quanto sia brutto
invecchiare. È una pensionata statale, con qualche migliaio di euro in
banca, "quelli che a un vecchio servono per farlo stare tranquillo di non
dover mai diventare un peso per gli altri'', mi dice, per aggiungere di
essere molto preoccupata. Nonostante la pensione di Nicoletta, un'ottima
pensione per altro, sia salva dagli attacchi del piano di tagli del governo,
la melanconia nei suoi occhi tradisce l'inquietudine per un futuro difficile
per chi lo vivrà. Nicoletta ha due nipoti e due bisnipoti: "è di voi ragazzi
che io mi preoccupo, dei bambini, non so come finirà tutto questo, cosa ne
sarà del paese, quale sarà il vostro e loro futuro. Non abbiamo più
certezze, quelle che erano delle certezze ora si chiamano privilegi e, come
tali, li stanno smantellando uno ad uno''.
Questa sera arriva Peggy, la bella francese per qualche giorno ad Atene,
sconvolta da una visita al supermercato sotto casa mia: "Spiegami come fanno
i greci a vivere'', e il suo tono cela una rabbia che lì per lì non mi
spiego. I greci sono i lavoratori fra i meno pagati d'Europa che,
ciononostante, devono affrontare gli stessi costi, a volte anche superiori,
per i medesimi prodotti di uso quotidiano. ‘'Non so, Peggy'', neanche io so.
La vita a credito, il benessere a prestito, il voler indossare taglie più
grandi, il voler essere cicale invece che formiche, il non avere coscienza
dei diritti dei consumatori. Forse tutto questo, ma anche qualcosa di più
infido ancora, la voglia di non essere gli ultimi, di riscattarsi
dall'etichetta del 'parente povero' per cui poco importa che lo stato sia
davvero indigente, basta aver parcheggiata, fuori dalla catapecchia, una
Mercedes nuova fiammante e ruggente di evasione fiscale, di mazzette al
medico, all'impiegato del comune o della regione, all'agente del servizio
pubblico in ogni caso.
Ora che la Grecia deve mettersi a nudo agli occhi della Banca Centrale
Europea, della Commissione e del Fondo Monetario Internazionale, l'occasione
per rimettere in discussione le strutture economiche e politiche della
Grecia e dell'Europa ci sarebbe. Ma questa, come tante altre, sarà un'altra
occasione sprecata. Così, le voci di Artemis, di Stratos, di Nicoletta e di
Peggy, si uniscono nella comune incertezza, in un ''non so'' a chiusura di
ogni dialogo, dove la parola 'sviluppo' è oramai un chimerico residuo, sia
per il governo del paese, che per i cittadini stessi.
L'occupazione
Josué de Castro è l'emblema della lotta di chi è ridotto a vivere ai margini
del sistema e vuole vedersi riconosciuto almeno il diritto alla casa. La
storia di Maria
L'occupazione
Josué de Castro - dal nome dell'intellettuale brasiliano che denunciò la
fame quale flagello costruito dagli uomini contro gli uomini - è l'emblema
della lotta di chi è ridotto a vivere ai margini del sistema e vuole vedersi
riconosciuto almeno il diritto alla casa. Eppure, la repressione dei
lavoratori senza casa e senza terra è talmente grande che sono pochi quelli
che riescono a ottenere un tetto e a mantenerlo.
Josué de Castro è un'area dismessa della Michelin, abbandonata da tempo.
Sorge nella zona sud di Recife e si estende per 7.200 metri quadri. Il 20
settembre 2008 una novantina di famiglie senza tetto la occupò. Da allora la
nuova comunità si è organizzata, aggrappata anima e cuore a questa area e
parla per mezzo di un coordinamento, che si riunisce periodicamente per
decidere strategie e soluzioni comuni.
Ma la Michelin non ci sta. E attraverso la società prestanome, Nossa Senhora
do Carmo Ltda intestataria del terreno, ha presentato una denuncia al
tribunale contro gli occupanti. Che si sono fatti aiutare dall'avvocato José
Maria do Amaral, il quale si è appellato a vari vizi di forma portando
avanti la pratica e infine ha trovato la carta vincente. Il terreno è
pignorato dal governo federale e, come recita una legge emessa dal
presidente Lula nel 2007, tutte le terre pignorate dall'União serviranno per
fini di riforma agraria o urbana. Tradotto: per dare terra a chi non ne ha.
E così è. Ma la Michelin non si arrende e la diatriba è bel lontana
dall'essere sanata. A discapito di tutti gli abitanti che restano appesi a
un filo con la paura che da un giorno all'altro arrivi qualcuno a portar via
casa, beni, affetti.
"Mi chiamo Ceça. Sono residente e coordinatrice del terreno occupato
Josué de Castro e voglio che tutti sappiano della nostra esistenza". A
parlare è Maria da Conceição una delle rappresentanti dell'area ex Michelin.
"La mattina del 20 agosto 2008, con più di ottanta famiglie, invademmo e
occupammo questa zona. Con noi portavamo molto poco e il terreno era fango
ed erbacce. Ma questo non ci impedì di costruirci le nostre baracche. La
prima settimana la passammo estirpando, pulendo e raccogliendo spazzatura e
resti di animali morti. Resistemmo, nonostante la polizia e altra gente
insistesse spesso per farci abbandonare la terra. Quindi arrivò la pioggia,
il sole battente, il freddo, il caldo torrido. Ma noi siamo rimasti. E oggi,
ogni famiglia alla sua decente abitazione, in conformità alle proprie
possibilità. E ci siamo organizzati. Ognuno cura il pezzetto di terreno che
ha di fronte a casa che pian piano è migliorato. Oggi, anche in inverno, non
c'è una zona impraticabile. Tutto è ben battuto e regge all'acqua. E abbiamo
l'energia elettrica".
"A
darci una mano - prosegue Maria - ci sono vari settori della società di
Recife. Furono loro a contattarci dopo la prima protesta che organizzammo in
occasione del primo ordine di sgombero che ricevemmo. Alcuni studenti
universitari hanno deciso di abbracciare la nostra causa e con loro abbiamo
organizzato un altra manifestazione di protesta, che non è riuscita molto
bene ma ci è servita per crescere, come collettività e come persone.
Da quel momento abbiamo iniziato incontri e riunioni con le varie comunità,
e con questi nostri nuovi amici abbiamo iniziato a organizzare dibattiti,
seminari, conferenze per divulgare la nostra storia. E sempre più gente sta
unendosi a noi e alla nostra causa. Ci hanno appena notificato il quarto
ordine di sfratto, ma non ci arrendiamo e continuiamo a bussare alla porta
delle varie istituzioni competenti. Per questo racconto questa storia, per
ingrossare le fila di chi ci sostiene in questa lotta per il diritto alla
casa, ma non solo: noi lottiamo per una vita più degna. E abbiamo bisogno di
tutti, perché questa lotta è anche la vostra".
L'intento di Maria da Conceiçao è uno solo, far pressione sul presidente
Lula affinché, prima di togliere il disturbo, inizi a mettere sulla via
della risoluzione la questione agraria dei senza terra e quella urbana dei
senza tetto, come promesso e sbandierato in ogni occasione. O per lo meno
che faccia rispettare le leggi che già ci sono ma che giacciono lettera
morta, inapplicate e inutili.
Stella
Spinelli
18 febbraio
Articolo da Il Fatto Quotidiano del 30 gennaio
2009
Il
caso di Renata Polverini conferma la teoria di Beppe Grillo : internet è
spietato. Puoi mentire persino al notaio, come ha fatto la leader del sindacato
Ugl per evadere le tasse, ma non puoi mentire alla rete. È impressionante la
lettura del sito www.renatapolverini.it
. Sono tantissimi i commenti al blog (
ne riportiamo tre, ma sono almeno dieci volte di più ) di persone comuni che
scrivono per chiedere conto al candidato delle notizie pubblicate dal Fatto
Quotidiano . Il caso dovrebbe essere studiato nelle scuole di comunicazione.
L’apertura al web doveva essere la carta vincente della campagna obamiana della
sindacalista di destra prestata alla politica.
Purtroppo, alla vigilia dell’inaugurazione del sito, è uscita l’inchiesta del
nostro giornale: Renata Polverini ha comprato a prezzo stracciato dallo Ior nel
dicembre del 2002 (272 mila euro per sei stanze tre bagni e due box vicino
all’Aventino) e non soddisfatta dell’affarone ha anche mentito al notaio per
avere l’agevolazione prima casa e pagareil 3 per cento di tasse invece del 10.
La sindacalista, infatti, aveva già comprato 9 mesi prima un’altra casa dall’
Inpdap , a un prezzo ancora più basso: 148mila euro per sette vani catastali e
un box al Torrino, vicino all’ Eur.
Oggi siamo in grado di aggiungere un dato: anche sull’acquisto di quella prima
casa dall’ Inpdap c’è qualcosa che non va. Almeno dal punto di vista
etico-politico. Renata Polverini compra con lo sconto in qualità di inquilina
dell’ Inpdap ma è costretta a fare una donazione alla mamma di un’altra casa che
aveva già comprato nel 2001, perché altrimenti non avrebbe avuto diritto a
comprare con lo sconto. Anzi non avrebbe avuto diritto proprio a quella casa che
sarebbe così rimasta nel patrimonio dell’ente che ne avrebbe tratto molti più
soldi mettendola all’asta.
La storia della casa dell’ Inpdap è poco chiara dall’inizio. Dopo lo scandalo
Affittopoli , il ministro Tiziano Treu nel 1997 aveva emanato una circolare
vincolante. Le case in affitto dovevano andare prima a poveri, handicappati,
sfrattati, militari e giovani coppie. Non è chiaro come abbia fatto Renata
Polverini ad avere quella casa. Lo abbiamo chiesto al presidente dell’ente,
Paolo Crescimbeni , ex consigliere regionale umbro di An (stessa area della
candidata). Ovviamente non ci ha risposto, seguendo l’esempio di Renata
Polverini, alla quale abbiamo chiesto ripetutamente un’intervista. Inutilmente.
Eppure sono molte le cose da spiegare: dall’evasione fiscale all’affitto dall’Inpdap.
Il silenzio è aiutato dall’atteggiamento della stampa. Tutti tacciono. Compreso
Il Giornale di Vittorio Feltri e Libero di Maurizio Belpietro . Erano stati i
protagonisti di Affittopoli quando bisognava stanare dai loro appartamenti
Massimo D’Alema e Franco Marini . Ora scoprono una politica-sindacalista
furbissima che ha dribblato tutti ottenendo una casa con lo sconto e poi ne ha
presa una seconda dichiarando il falso per non pagare le tasse. E loro muti. Ma
tra i lettori ci sono molte persone che hanno lavorato una vita per comprare la
casa e pagare le tasse. Per fortuna ci sono i blog.
Sfollati a quota 40 mila. Macerie ancora da
rimuovere. Rischi inquinamento. È lungo l'elenco dei problemi irrisolti. A dieci
mesi dal sisma
La nomina a ministro annunciata dal presidente del
Consiglio Silvio Berlusconi, una commossa lettera di addio agli abruzzesi su una
pagina del 'Centro'. Così Guido Bertolaso, capo della Protezione civile, alla
fine di gennaio ha passato le consegne al nuovo commissario per la
ricostruzione, il presidente della Regione Gianni Chiodi e al suo vice, il
sindaco dell'Aquila Massimo Cialente. Se ne è andato con la riconoscenza dei
terremotati per il modo in cui la Protezione civile ha offerto i suoi generosi
aiuti e l'orgoglio per quanto realizzato per avviare il rientro alla normalità,
a cominciare dal Progetto Case (Complessi antisismici ecocompatibili
ecocostenibili), oltre 180 edifici, per non parlare di qualche migliaio di Map,
le casette in legno. In tutto, Bertolaso ha speso oltre 1 miliardo e mezzo di
euro per assistere la popolazione e completare opere in grado di dare un tetto
sicuro a oltre 20 mila persone. Un successo, insomma, anche se non sono solo
rose. Nell'eredità che lascia a Chiodi ci sono anche problemi: il numero degli
sfollati ancora in alberghi e case private; una situazione incandescente nei
comuni fuori dal cratere del sisma; una città intasata di macerie; i guasti
ambientali provocati dal Progetto Case.
La carica dei 40 mila Il problema più grande è senza dubbio quello degli
sfollati aquilani. A oltre dieci mesi dal terremoto e nonostante le promesse del
premier che aveva assicurato una casa per tutti entro il 31 dicembre, sono oltre
40 mila gli aquilani che continuano a vivere in hotel (6 mila), caserme (1.100),
appartamenti lungo la costa (2.400) e soprattutto in autonoma sistemazione in
case in affitto o altro (più di 31 mila). Come mai così tanta gente non è
riuscita ad avere un nuovo alloggio o a rientrare nelle proprie abitazioni? La
questione non è di poco conto visto che, a parte tutto il resto, assistere
questa massa di sfollati costa tantissimo: un giorno in albergo vale fino 70
euro a persona, gli affitti arrivano a un massimo di 800 euro. Morale: dallo
scorso aprile sono già stati spesi oltre 220 milioni per dare ospitalità agli
aquilani. Certo, i terremotati da sistemare sono risultati tanti, oltre 70 mila,
ma le ragioni per le quali ancora oggi circolano tutti questi sfollati, secondo
Giustino Masciocco, assessore alle Politiche abitative del comune, "vanno fatte
risalire alle stime sbagliate della Protezione civile sul fabbisogno delle
abitazioni da costruire per coloro che avevano visto la propria distrutta dal
sisma e nei ritardi con i quali si stanno riparando le case poco danneggiate".
Una tesi confermata da Cialente che definisce tutto ciò "la nostra Waterloo".
Cominciamo dall'errore di calcolo.
Conti in rosso Le cifre dicono chiaramente che rispetto ai 7.181 aventi diritto
a uno degli alloggi del Progetto Case in quanto proprietari di abitazioni
classificate E ed F (quelle distrutte e le altre inutilizzabili perché vicine ad
altre pericolanti) la Protezione civile ne ha costruite solo 5.565, ben 1.616 in
meno del necessario. Con il risultato che altrettanti nuclei familiari composti
da single giovani e anziani o da coppie sono rimaste senza l'alloggio. Questo
errore, a sentire il Comune, è stato determinato dal fatto che il primo
censimento dei danni avviato da Bertolaso venne fatto trascurando la 'zona
rossa' del centro storico quasi completamente distrutta e lavorando sulla fascia
della cinta urbana meno danneggiata. Questa circostanza, unita al fatto che
spesso i fabbricati compresi nelle fredde statistiche non erano case
monofamiliari ma condomini anche con più di 20 appartamenti, hanno favorito
l'errore di stima che ha spinto Bertolaso a fine maggio a fare costruire soli
3.775 alloggi. A dire al verità, anche il Comune aveva avviato un suo screening
basato sui dati dell'anagrafe che indicò in circa 12 mila i nuclei che potevano
avere bisogno di nuove abitazioni. Ma Cialente, che pure racconta di avere
portato queste stime a Bertolaso, non venne ascoltato. Così si è andati avanti
nell'errore. Fino a metà agosto, quando alla Protezione civile sono arrivati i
risultati di un altro censimento che fissava il numero delle famiglie con
abitazione E ed F crollate o inutilizzabili in circa 13 mila. E di questi
appunto 7.181 chiedevano l'alloggio del Progetto Case. Solo davanti all'evidenza
di questi numeri Bertolaso si decide a rimediare ordinando la costruzione di
altri 675 appartamenti, mentre Cialente chiede 1.600 Moduli abitativi provvisori
(Map), le famose casette di legno, ottenendone però solo 1.115. Ma nemmeno
questa accelerazione è sufficiente: all'appello continuano a mancare ancora
1.616 appartamenti per un totale di circa 2 mila persone che continuano ad
alimentare l'esercito degli sfollati.
Avanti piano Ma la fetta più grossa dei 40 mila è senza dubbio quella costituita
dagli abitanti meno danneggiati e le cui abitazioni sono state classificate B e
C (le A sono quelle agibili), circa 15 mila case riguardanti 30 mila persone.
Vista la lieve entità dei danni, riparabili in poche settimane, proprio la
veloce sistemazione di queste abitazioni avrebbe dovuto favorire il rientro
degli sfollati. Invece, gli interventi più leggeri si stanno rivelando una via
Crucis visto che ancora all'inizio di febbraio pochissimi lavori sono partiti.
Colpa del caos normativo provocato dai decreti del governo in materia di
ricostruzione che ha spinto la gran parte dei terremotati a temporeggiare; della
mancanza del prezzario della Regione Abruzzo varato solo a metà settembre; dei
lenti controlli sulla regolarità delle pratiche; dell'allungamento dei termini
per la presentazione delle richieste di contributo prorogati fino al 31gennaio.
Un circolo vizioso che dovrebbe spezzarsi ora che Cialente dice di voler usare
il pugno di ferro con l'obbligo di inizi lavori entro sette giorni dalla
concessione del contributo pena la perdita dello stesso e di qualsiasi forma di
assistenza. Un giro di vite che dovrebbe consentire al massimo entro il mese di
agosto il rientro nelle case dei 40 mila sfollati aquilani.
Terremotati invisibili Sono quelli dei comuni fuori dal cosiddetto 'cratere' del
sisma dimenticati persino dalle statistiche della Protezione civile (nel suo
sito non compaiono). Quanti siano esattamente nessuno lo sa. E già questo la
dice lunga sulla delicatezza della questione. Una stima fatta dal consigliere
regionale Giuseppe Di Pangrazio, fa ammontare a quasi 10 mila il loro numero. Si
tratta di persone di paesi che ricadono dentro le province dell'Aquila, Teramo e
Pescara. Solo a Sulmona ce ne sono quasi mille e vivono in albergo o ospiti in
abitazioni di amici e parenti. Da questi sfollati 'invisibili' si levano
proteste per il diverso trattamento rispetto all'Aquila. Nel loro caso non è
stata la Protezione civile a farsi carico dell'assistenza. A queste incombenze
hanno dovuto pensare i comuni che, come Pratola, dallo Stato hanno avuto solo
250 mila euro, 100 mila dei quali per fronteggiare l'emergenza e i restanti per
finanziare la ricostruzione dei fabbricati. Una miseria considerando che, a
Pratola, le richieste di contributo sono state 150 con importi che quasi sempre
superano i 40 mila euro. E non basta: avere il contributo non è semplice,
occorre dimostrare la relazione tra il danno subito e il terremoto. Il che è
facile solo a dirsi, vista la macchinosità dei controlli. La presidente della
provincia Stefania Pezzopane chiede per questo "la cessazione della disparità di
trattamento". Anche per evitare il ripetersi di quello che è successo a Natale
quando nello stesso albergo la Protezione civile ha consegnato pacchi dono ai
terremotati dell'Aquila lasciando a mani vuote gli 'invisibili'del cratere.
Un muro di macerie Tra quelli aperti lasciati in eredità dalla Protezione
civile, secondo l'assessore alle politiche ambientali dell'Aquila Alfredo Moroni,
quello delle macerie "è il problema dei problemi". Nonostante un'intesa
raggiunta con il comune nei mesi scorsi per risolvere lui la questione,
Bertolaso ha passato le consegne lasciando per le vie del centro storico ancora
chiuso circa 4 milioni di tonnellate di materiale frutto di crolli e
demolizioni. E ora questa enorme massa impedisce la circolazione dei mezzi
necessari ad avviare anche la minima riparazione degli immobili danneggiati,
come a piazza S. Maria Paganica oppure nella storica via Cascina. La questione
non è trascurabile: "Se non liberiamo le strade", spiega Moroni, "non è
possibile nemmeno avviare la ricostruzione". Per questo Cialente aveva scritto a
Bertolaso sollecitandolo ad allestire i siti necessari allo smaltimento dei
rifiuti. Il sindaco aveva addirittura invocato l'impiego del Genio militare. Ma
senza successo. Così oggi per la drammatica emergenza aquilana è in funzione un
solo sito per lo smaltimento delle macerie, mentre altri due potrebbero essere
allestiti a breve. Ad appesantire la situazione c'è poi la circostanza che la
normativa in materia è particolarmente spinosa. E gli amministratori
preferiscono procedere con i piedi di piombo per evitare guai giudiziari. Se
comunque anche gli altri due impianti verranno aperti, con una spesa di 30
milioni di euro nel 2010 verranno rimosse 1 milione di tonnellate di detriti,
quasi un terzo del totale. Ma occorre fare di più: con questo ritmo ci vorranno
infatti tre anni per aprire le vie del centro storico ai mezzi necessari alla
ricostruzione. Troppi.
Chi inquina di più L'emergenza del terremoto in Abruzzo si è aggiunta a
un'altra, quella ambientale del fiume Aterno. A questo fiume il cui bacino è da
sempre assediato dagli scarichi fuori norma di molti paesi e persino della
facoltà di ingegneria ambientale dell'università dell'Aquila, la Protezione
civile ha assestato un altro colpo con le fogne non depurate di alcuni
insediamenti del Progetto Case: quelli di Assergi, Camarda e Paganica che vanno
a inquinare l'affluente Vera; ma soprattutto quello di Bazzano, per il quale
l'associazione Libera si appresta a scendere sul sentiero di guerra, completato
in fretta e furia per consentire a Berlusconi di consegnarlo ai terremotati il
29 settembre, giorno del suo compleanno.
Il caso di Bazzano è singolare perché proprio al di sotto delle nuove case che
ospitano circa 2 mila terremotati è in costruzione un depuratore voluto da
Adriano Goio, commissario governativo per l'emergenza ambientale del fiume
Aterno, per pulire gli scarichi dell'abitato preesistente. A causa dei ritardi
dell'Enel, il depuratore non è però funzionante per mancanza di energia.
Ciononostante, il consorzio Forcase incaricato da Bertolaso di realizzare le
abitazioni dei terremotati ha iniziato a scaricare senza preavviso nella
condotta del depuratore. Morale: Goio ha chiuso con dei palloni l'accesso
all'impianto e solo per carità di patria, per non creare altri dispiaceri ai
terremotati bisognosi di quegli alloggi, ha autorizzato il consorzio a scaricare
la fogna direttamente nel fiume. Solo negli ultimi giorni Goio ha autorizzato la
reimmissione della fogna nel depuratore, che però continua a non funzionare.
La crisi economica costringe Obama a tagliare i
fondi per la lotta al virus in Africa
Ci
sono luoghi del mondo in cui l'ex presidente degli Stati Uniti George W. Bush è
venerato come una divinità, mentre quello attuale, Barack Obama, è considerato
un criminale. E questo non per una guerra che il nuovo inquilino della Casa
Bianca ha scelto di combattere ma per una da cui si starebbe ritirando. Suscita
forti preoccupazioni, infatti, la decisione del governo americano di congelare
gli stanziamenti per la lotta all'Aids in Africa, finora raccolti nel programma
denominato President's Emergency Plan for Aids Relief (Pepfar), varato da Bush
nel 2003, con un budget di 15 miliardi di dollari da spendere in cinque anni,
rinominato e ampliato nel 2008 (48 miliardi di budget).
Una decisione politica con una ricaduta decisamente concreta, soprattutto
nell'Africa Sub-sahariana, dove alla fine del 2008 si registravano 22,5 milioni
di malati (e due milioni di morti) sui circa 35 milioni di persone contagiate
nel mondo. In Uganda, ad esempio, un Paese con un tasso di infezione del 6,4 per
cento (sono 31 milioni gli abitanti), il Pepfar ha stanziato 930 milioni di
dollari tra il 2003 e il 2008, garantendo trattamenti antiretrovirali a oltre
150 mila persone. Qui, i nuovi malati non avranno accesso ai trattamenti
specialistici e non è chiaro cosa succederà ai pazienti già in cura. La
portavoce del progetto Pepfar per l'Uganda, Lynne Mc Dermott, assicura che il
fondo continuerà a garantire i due terzi degli stanziamenti e che ai pazienti
già in cura le terapie proseguiranno. Ma non è questa la storia raccontata all'Agence
France Press da Douglas Mugabi, un contadino affetto da Aids, come la moglie,
assistita gratuitamente dal 2006: "Quando mi sono presentato in ospedale e ho
scoperto che la terapia non era più gratuita mi è venuto freddo. Mia moglie è
preoccupata perché i farmaci sono costosi e noi non possiamo permetterceli".
Il ripensamento americano, però, non è arrivato all'improvviso. Lo scorso
luglio, nel corso dell'Hiv/Aids Implementors' Meeting, svoltosi a Windhoek, in
Namibia, Micelle Maloney-Kitts, l'assistente del coordinatore del programma
americano anti-Aids, aveva annunciato che gli Stati Uniti avrebbero ripensato la
strategia assistenziale: "Nel prossimo futuro ci sarà un livellamento dei fondi,
cosa che creerà delle prevedibili tensioni".
Gli Stati Uniti, insomma, optano per un disimpegno strategico, pressati
soprattutto dalla crisi economica e passano la palla ai governi locali. Il
problema è che altri Paesi donatori hanno fatto un passo indietro. Come gli Usa,
anche il Global Fund ha chiesto ai governi locali di farsi carico degli
interventi, senza che questi siano in grado di farlo.
Una maggiore efficienza nella gestione degli stanziamenti, però, appare
necessaria. La pioggia di aiuti indiscriminati, infatti, ha portato negli anni
ad un proliferare della corruzione dei burocrati africani e alla nascita di
un'industria che ruota attorno alle ong. Secondo recenti studi, in Uganda sono
350 mila le persone che avrebbero bisogno di terapie antiretrovirali ma i
farmaci arrivano soltanto a 150 mila malati, nonostante l'Uganda produca quei
medicinali e benefici di generose donazioni. Il Global Fund ha chiesto allo
Zambia di restituire 7,2 milioni di dollari, che sarebbero stati spesi dal
governo per altri scopi e un contenzioso simile è in corso in Kenya.
Inoltre, mentre la lotta all'Aids assorbiva la quasi totalità delle risorse, ci
si dimenticava di altre malattie che in Africa sono ancora altamente mortali.
Secondo i dati dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, la diarrea uccide ogni
anno un milione e mezzo di bambini sotto i cinque anni nel mondo (750 mila solo
in Africa) ma assorbe solo il 5 per cento dei fondi destinati alle cure e alle
ricerche. La malaria miete circa 400 mila vittime ogni anno, e altre 350 mila
persone muoiono per complicazioni durante il parto.
Ma forse sarebbe meglio ripensare la strategia senza interrompere l'assistenza,
perché i costi potrebbero essere superiori ai guadagni. Per rendersene conto,
basta leggere il rapporto di Doctors without Borders dello scorso novembre,
intitolato - non a caso - "Punishing Success in Tackling Aids", sugli effetti
che un disimpegno dei Paesi più sviluppati potrebbe avere in Africa.
Nell'Orissa una raffineria di prodotti chimici
minaccia la sopravvivenza della tribu' Dongria Kondh
E' allarme inquinamento a Lanjigarh, nello stato
dell'Orissa, India orientale. Secondo un rapporto pubblicato oggi da Amnesty
International, l'attività di un impianto di raffinazione di un composto chimico
ricavato dall'alluminio metterebbe in grave pericolo la salute degli abitanti
della zona.
Terreni contaminati, acqua avvelenata. Nel mirino dell'organizzazione impegnata
nella protezione dei diritti umani c'è la Vedanta Resources, società mineraria
con sede a Londra e guidata dal magnate Anil Agarwal. Secondo Amnesty, la
raffineria di Lanjirgarh, sua sussidiaria, sarebbe la responsabile del forte (e
crescente) inquinamento dell'area. In particolare, sono le condizioni del
Vamsadhara, uno dei principali corsi d'acqua della regione, a preoccupare di
più. E' lì che finiscono le acque reflue durante il processo produttivo. E
adesso gli abitanti non osano più berla, né farci il bagno. Si diffonde il
panico anche per quanto riguarda il cibo. I fumi e le polveri emesse dalle
ciminiere si posano sugli alberi, sulle piante, sui terreni coltivati, vengono
inalate e mangiate da uomini e animali. Entrano nelle case, si depositano su
mobili e vestiti. E, probabilmente, sono le responsabili delle difficoltà
respiratorie e dei fastidi accusati dagli abitanti del distretto.
Ma la Vedanta Resources, stando al rapporto di Amnesty International, guarda
oltre, pensa in grande e progetta di estendere il raggio delle sue operazioni,
aprendo una miniera di bauxite nei dintorni, a Niyamgiri Hills. Senza aver
cercato un accordo con la tribù dei Dongria Kondh, che da secoli occupa quel
territorio e il cui sostentamento dipende dal fiume e dai raccolti. E qui si
apre il secondo capitolo delle accuse mosse da Amnesty, secondo cui la Vedanta
non avrebbe coinvolto la tribù locale in alcun processo di informazione e
consultazione, prima della costruzione della miniera.
"Le persone hanno diritto all'acqua e ad un ambiente sano ma la Vedanta non ha
rispettato questi diritti", ha detto Kate Allen, direttrice di Amnesty per il
Regno Unito. "Ai contadini sono state date informazioni incomplete e fuorvianti
a proposito dell'impatto della raffineria e della nuova miniera. Oggi gli
abitanti vivono all'ombra di un impianto di raffinazione imponente, respirano
aria inquinata e hanno paura di bere o fare il bagno in un fiume che è una delle
principali fonti d'acqua della regione", ha continuato la Allen.
Effetti inquinanti conosciuti da tempo. I vertici della compagnia rigettano le
accuse e sostengono che siano stati i fertilizzanti impiegati dai coltivatori
della zona ad aver causato l'inquinamento dei corsi d'acqua. Ma resta da
spiegare l'inquinamento atmosferico.E le autorità indiane? Al momento sembrano
glissare. La Vedanta sostiene che il piano preliminare di ampliamento abbia
avuto il via libera della Corte Suprema. Insomma, si starebbe muovendo con il
pieno appoggio del governo indiano e del potere giudiziario. Eppure, le autorità
locali avrebbero potuto intervenire. Stando al rapporto, infatti, l'organismo
responsabile del controllo dell'inquinamento per lo stato dell'Orissa aveva
documentato, già a partire dal 2006, una forte crescita dell'alcalinità del
Vamsadhara e della polluzione più in generale, prodotti dall'impianto di
Lanjigarh. Gli stessi analisti avevano accertato che la Vedanta Resources stesse
gestendo la raffineria senza aver adottato sistemi antinquinanti e filtri a
tutela dell'ambiente e della popolazione. Queste informazioni, tuttavia, non
sono mai state diffuse.
Se, al momento, da Nuova Delhi non sono arrivati provvedimenti, qualcosa
sembrerebbe muoversi in Gran Bretagna, dove la Chiesa d'Inghilterra ha
annunciato di essersi liberata di azioni della compagnia mineraria per un valore
di 2,5 milioni di sterline (2,8 milioni di euro). Gli stessi Dongria Kondh,
ridotti ormai a poche migliaia di unità, stanno cercando di sensibilizzare
l'opinione pubblica internazionale, guadagnandola alla loro causa. Ieri hanno
chiesto al regista di Avatar, James Cameron, di aiutarli ad impedire che Vedanta
apra una miniera in quella che è la loro terra sacra.
Lo stesso appello rivolto da Amnesty International alle autorità indiane, perché
fermino un'operazione che rischia di fare scempio dell'ecosistema dell'area e
portare all'estinzione di una intera tribù.
Cento
anni ha compiuto ieri Acea. Era l'epoca del sindaco Nathan, ebreo di origine
inglese, laico e antipapalino. Fu lui a volere una grande azienda pubblica per
la gestione dell'acqua e dell'elettricità nella capitale d'Italia. Ieri, a dieci
anni dalla creazione della Spa quotata in borsa, Ratzinger ha ricevuto in
udienza i dirigenti di Acea, pronti a fare il grande salto definitivo verso la
completa privatizzazione. La via era stata aperta dalla coppia
Rutelli-Lanzillotta nel 1999, ed oggi viene completata da Alemanno e dal decreto
Ronchi sulla privatizzazione dell'acqua, approvato dal governo Berlusconi alla
fine dello scorso anno. Il sindaco di Roma ha dato il suo placet politico,
annunciando la cessione di buona parte di quel 51% ancora pubblico.
Benedetto XVI ha evitato accuratamente di parlare di acqua pubblica,
mantenendosi molto vago su cosa significhi la gestione privata dei beni comuni.
Altri tempi rispetto alla Roma di Nathan. E ben altra chiesa rispetto a quella
fuori dalle mura vaticane, che con la voce di padre Alex Zanotelli gridava
«maledetti voi» verso chi ha votato per la cessione ai privati delle risorse
idriche.
Parodossalmente è lo stesso silenzio del papa a far capire che la partita sulla
privatizzazione dell'acqua è però tutt'altro che chiusa. Il Forum italiano dei
movimenti per l'acqua sta avviando due iniziative nazionali, raccogliendo
l'adesione ampia di interi pezzi della società civile, dal mondo cattolico
legato al sociale, fino alle principali associazioni ambientaliste e a parti
importanti del sindacato. Un fronte largo, senza i partiti, che entreranno solo
con adesioni, per sottolineare l'assoluta trasversalità dei beni comuni.
La prima tappa sarà la manifestazione nazionale del 20 marzo a Roma, una
settimana prima del voto, proprio per ricordare come necessariamente la politica
debba confrontarsi con i movimenti per l'acqua pubblica. Un mese dopo, in
aprile, partirà la raccolta delle firme per il referendum, che non si limiterà
all'abrogazione di quella parte del decreto Ronchi che impone la cessione ai
privati della gestione delle risorse idriche. Sarà una vera e propria
consultazione popolare su un tema chiaro e decisivo: gestione pubblica per tutti
i servizi idrici o mantenimento dell'attuale legislazione, con l'apertura al
capitale speculativo degli acquedotti. Un si alla ripubblicizzazione, unica
strada divenuta oramai percorribile.
Sarà sul referendum che si convoglierà, nei prossimi mesi, il dibattito che va
avanti da almeno quattro anni in Italia sul sistema idrico, sui fallimenti delle
gestioni private e miste pubblico-private, sugli investimenti che i privati non
hanno fatto e che mai faranno, sulla qualità dell'acqua che è peggiorata, con
punte allarmanti.
Di certo la questione non è finita con l'approvazione del decreto Ronchi. Il
tema della gestione dell'acqua sta entrando prepotentemente nelle prossime
elezioni regionali. Prima la Puglia di Vendola, che con coraggio ha approvato
una legge d'indirizzo, con l'obiettivo di chiudere la gestione della Spa degli
acquedotti pugliesi per arrivare ad un vero sistema pubblico, blindato rispetto
ai tanti appetiti speculativi. Poi la regione Lazio, dove in almeno tre province
- Roma, Latina e Frosinone - la gestione è di fatto già privatizzata. E in
questo caso il nodo centrale è Acea, primo gestore idrico italiano. Ieri Renata
Polverini ha chiarito la sua posizione, spiegando che «si tratta di privatizzare
il servizio» va tutto bene. Che è poi il contenuto della legge approvata dal
centrodestra. Ha così rassicurato il suo scudiero in terra pontina Claudio
Fazzone - presidente di Acqualatina - e il suo alleato Udc, molto vicino, come è
noto, agli interessi di Caltagirone, principale socio privato italiano di Acea.
Dietro ci sono soltanto enormi interessi economici e probabili conseguenze
sulla nostra salute, quindi prima di credere a quella o a quell'altra parte,
domandiamoci sempre: cosa e chi ha da guadagnarci?
Ogm
sì, Ogm no. L'eterna lotta fra opposti schieramenti che si scontrano intorno a
questi famosi sconosciuti organismi geneticamente modificati non ha colore
politico, né partiti. "Dietro ci sono soltanto enormi interessi economici e
probabili conseguenze sulla nostra salute, quindi prima di credere a quella o a
quell'altra parte e prendere posizione, domandiamoci sempre: cosa e chi ha da
guadagnarci?". È così che Marina Mariani, agronoma, specializzata in Ogm,
docente di legislazione e sicurezza alimentare al Politecnico del Commercio di
Milano, ci spiega la complessa questione del transgenico, tornato alla ribalta
delle cronache proprio in questi giorni grazie alla decisione del Consiglio di
Stato di sollecitare risposte concrete alle richieste di quegli agricoltori che
intendono coltivare mais Ogm. "E si tratta del tipo più pericoloso, il mais Mon
810, attenzione", precisa la studiosa.
Ma andiamo per gradi. Gli organismi geneticamente modificati più coltivati nel
mondo sono prevalentemente sei: soia, mais, colza, cotone, riso e frumento.
Dediti alla loro produzione, 125milioni di ettari sparsi in 23 paesi. Una
quantità enorme, diffusa principalmente negli Stati Uniti, quindi in Argentina,
Brasile, Canada, Cina e India. Eppure, a tirare le fila dell'immane mercato che
ne consegue e a goderne i golosi proventi sono davvero in pochi, molto pochi.
Cinque per l'esattezza, cinque grandi multinazionali: Monsanto, Du Pont,
Syngenta, Bayer Crop Science e Dow, che gestiscono attualmente il 35 percento
del mercato mondiale delle sementi, alimenti base per il cinquanta percento
della popolazione mondiale. Un business da capogiro.
"Gli Ogm - ci spiega Marina Mariani - sono organismi definiti "sostanzialmente
equivalenti" a quelli prodotti in natura, ma, attenzione, è proprio in quell'avverbio
che si nasconde un mondo di pericolosi non detti, supportati da scarse ricerche
scientifiche, che quando producono risultati scomodi vengono secretate o
insabbiate. La cosa che inquieta è che sono le medesime multinazionali
produttrici Ogm a garantire sulla salute dei consumatori, gestendo direttamente
analisi e controanalisi. Che mai e poi mai sono state ufficialmente affidate a
centri di ricerca indipendenti. Eppure, tanti scienziati e dei più svariati
paesi al mondo ne hanno dimostrato la pericolosità. Come si spiega il fatto che
l'Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) basi il suo giudizio
finale esclusivamente sugli studi dell'industria che li vende?".
E se gli Ogm sono stati presentati come l'invenzione che avrebbe sconfitto la
fame nel mondo, i numeri e le ricerche smentiscono questa affermazione,
additandola come l'ennesima bufala ai danni dei consumatori e a tutto vantaggio
dei produttori, che controllando il mercato delle sementi "controlleranno il
mondo". "I semi Ogm non sono più produttivi di quelli naturali - spiega
l'agronoma - né tanto meno scongiurano l'uso di pesticidi. Anzi. Diciamo è
provato che gli Ogm stimolano la selezione naturale di piante e insetti, sempre
più resistenti ai vari pesticidi, che quindi dovranno continuare a essere usati
sempre in maggiori dosi e sempre diversi. E guarda caso, chi è che produce i
pesticidi perfetti per queste sementi? Multinazionali quali la Monsanto
naturalmente. Una maniera per stringere ancor più il legame con i compratori,
che così facendo diventerà perenne. È ormai risaputo, infatti, che sta per
essere introdotto in ogni singolo seme modificato il gene terminator,
un'invenzione diabolica che provocherà l'aborto dei semi di seconda generazione,
in modo che gli agricoltori Ogm siano costretti ad ogni stagione a ricomprare
nuove sementi, diventando schiavi del produttore". La diffusione Ogm rende
l'agricoltura definitivamente dipendente dalle industrie sementifere e se si
aggiunge il fatto che la diffusione Ogm è irreversibile i conti son presto
fatti. "Sì - ci spiega l'esperta - una volta piantato un alimento Ogm nel
terreno non si torna indietro, perché la diffusione di questi prodotti è
incredibilmente alta e una volta piantato si spargerà, contaminando i terreni
nei dintorni, i cui effetti dureranno anni". Per questo nei paesi ad alta
coltivazione Ogm sono state imposte ferree distanze di sicurezza tra Ogm e
prodotti biologici. Distanze impossibili da rispettare in Italia, dove i campi
sono troppo piccoli per permettersi ettari ed ettari da destinare a fungere da
aree di sicurezza anti Ogm. Quindi, più agricoltori italiani pianteranno Ogm,
più alimenti biologici ne verranno contaminati accidentalmente e le conseguenze
sulla salute saranno imprevedibili. "Premettendo che mai nessuno ha eseguito
test Ogm su persone per più di un giorno, da quanto emerge dagli studi sui topi,
il consumo di prodotti geneticamente modificati porta allergie e forme tumorali
molto gravi. Da uno studio statunitense emerge che in Usa dal 1996 sono
aumentati i disturbi gastrointestinali, le allergie, le infezioni, i tumori del
sistema linfatico, della prostata, del pancreas e del seno, e il fatto che
quella data corrisponda al lancio degli Ogm non può essere una mera
coincidenza".
Eppure, c'è chi difende gli Ogm a spada tratta, appellandosi però non al fatto
che fanno bene, bensì al fatto che nessuno ha mai provato che una malattia sia
stata provocata direttamente dal consumo di Ogm. Fra questi Federico Vecchioni,
presidente di Confagricolutra: "Al mondo c'è chi coltiva così 111 milioni di
ettari. Non credo per annientare la specie umana, ma perché ritiene di essere al
servizio della scienza", ha spiegato lanciando la polenta transgenica alla
Fieragricola di Verona. Questa l'approssimazione di chi vede dietro ai
geneticamente modificati solo una montagna di soldi. "Che poi è tutto da
dimostrare se i contadini che ne faranno uso avranno dei guadagni - precisa
l'agronoma - non vorrei mai che si ritrovassero come i coltivatori di cotone Ogm
indiani, molti dei quali, strozzati dai debiti, non hanno visto altra scelta che
il suicidio. Mi sento anzi di dire che l'intrusione degli Ogm in Italia sarà il
colpo di grazie per la nostra agricoltura".
E le leggi? Sia quelle italiane che le europee si basano sul principio espresso
dal presidente della Commissione Agricoltura del Parlamento europeo, Paolo De
Castro: "E' giusto e sacrosanto il diritto dei consumatori di sapere se un
prodotto contiene o no Ogm, ma è altrettanto sacrosanto il diritto degli
agricoltori di scegliere se coltivare o no produzione Ogm in Europa". Quindi un
appello alla libertà, che nella pratica non viene rispettato. "Impossibile
sapere cosa si mangia veramente - spiega l'agronoma - perché le norme
stabiliscono che se un Ogm è presente entro lo 0.9 percento non deve essere
segnalato. Percentuale che l'Ue tollera persino nei prodotti marcati Bio. Quindi
dove sta la libertà?".
L'unica via d'uscita dunque per quel 74 percento di italiani contrari ai
geneticamente modificati e per quelle 172 regioni e 4500 enti "Ogm free" è "non
abbassare mai la guardia, controllare attentamente le etichette di quel che si
acquista, preferire i Bio nonostante i rischi accidentali e non smettere di
lottare". Con un avvertenza, gli unici paesi espressamente ani-Ogm sono Austria,
Cipro, Francia, Grecia, Ungheria, Lituania, Lussemburgo, Polonia, Slovenia,
Romania.
La riforma del ministro Gelmini introduce una
riduzione degli indirizzi di studio e delle ore scolastiche
“Una
riforma epocale”. Così il ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini ha
definito la riforma delle scuole superiori. Anche il premier Silvio Berlusconi è
intervenuto per lodare l'operato del ministro che avrebbe finalmente messo a
punto la riforma giusta per creare “una scuola per le imprese”. Ridotti gli
indirizzi e le ore di lezione. La Gelmini ha parlato di snellimento del sistema
scolastico. Sindacati e addetti ai lavori di tagli. Il nostro Paese sembra
destinato a non trovare un accordo sulla scuola. Ogni volta che qualcuno prova a
mettere ordine, lo schieramento politico opposto grida e contesta. Risultato
l'immobilismo.
“Non è una riforma – ha detto Domenico Pantaleo, delegato nazionale della
Federazione lavoratori della conoscenza (Flc) della Cgil -. Piuttosto
un'applicazione rigorosa dei tagli decisi dal ministro Tremonti che porteranno a
un ulteriore indebolimento delle superiori”. Il responsabile della Cgil non
contesta la riduzione degli indirizzi, fondamentale per mettere un po' d'ordine
nel ginepraio delle possibilità e delle sfumature di studio tra cui i ragazzi
potevano scegliere, né il potenziamento di alcune discipline, quali le lingue.
Peccato, però, che il potenziamento sia fatto a discapito di alcune materie. Non
ultima la geografia che pure permette di orientarsi e conoscere il mondo in cui
viviamo.
“Ci sono molti aspetti della riforma – prosegue Pantaleo – che non ci
convincono. In primis la soppressione del biennio unitario. Un ragazzo di
tredici anni si trova così a dover effettuare una scelta irrevocabile, senza
poter tornare indietro. Non siamo nemmeno d'accordo sulla diminuzione
dell'orario scolastico. All'incirca salteranno 17mila cattedre. Altri posti di
lavoro che vanno in fumo. La Gelmini ha citato il modello della Finlandia.
Benissimo. Ma noi non andiamo in quella direzione. In Finlandia hanno meno ore
frontali, ma molti laboratori pratici”. Nel corso della conferenza stampa
congiunta Gelmini-Berlusconi i riferimenti al modello europeo di istruzione sono
stati continui. Lì si vuole arrivare. O almeno è quello che si vuole far
credere, perché è difficile che, continuando a sottrarre risorse all'istruzione,
si vada migliorando il servizio.
Ma l'aspetto della riforma che preoccupa maggiormente Pantaleo è il
progressivo avvicinamento a un'idea classista di scuola. “Avremo i licei per i
ragazzi che possono permettersi il lusso di studiare – afferma Pantaleo – mentre
agli istituti tecnici e ai professionali andranno quelli con meno possibilità.
Se a questo si aggiunge il fatto che gli studenti ora possono scegliere di
frequentare l'ultimo anno, facendo apprendistato, ritorniamo all'avviamento
lavorativo. Altro che scuola europea, torniamo a un modello ottocentesco”.
Classismo, che per la Flc non riguarderebbe solo gli alunni con meno possibilità
economiche, ma anche quelli con difficoltà di apprendimento. Anche loro
rientrerebbero, infatti, nella categoria di coloro con meno chances.
Scampata all'ennesima strage di contadini
commessa dai paramilitari antimaoisti, prova a denunciare quanto accaduto ma
finisce agli arresti
Sodi
Shambo è una ragazza adivàsi (tribale) di 28 anni che viveva nel villaggio di
Gompand, nelle foreste dello stato indiano di Chhattisgarh: principale
roccaforte della guerriglia contadina maoista 'naxalita'. La mattina dello
scorso primo ottobre, mentre suo marito era a lavorare nei campi, sono arrivati
i paramilitari del 'Salwa Judum', la famigerata milizia regionale creata dal
governo nel 2005 per dare la caccia ai sovversivi 'rossi' e ai loro sostenitori.
I miliziani hanno aperto il fuoco all'impazzata, colpendo a morte nove persone,
anziani, donne e bambini. Una pallottola ha colpito Sodi alle gambe, ferendola
gravemente.
Il Ghandi del Chhattisgarh. Assieme ad altri civili feriti nel raid dei
paramilitari, Sodi è stata curata e assistita per settimane nell'ashram Vanvasi
Chetna di Dantewada, gestito dal popolare attivista ghandiano Himanshu Kumar,
l'unico difensore dei diritti degli adivàsi rimasto in Chhattisgarh nonostante
le persecuzioni delle autorità. Dopo aver passato quindici anni a girare per i
villaggi della foresta portando assistenza medica e insegnando ai tribali i loro
diritti civili, dal 2005, dopo l'inizio della campagna governativa contro i
naxaliti, il 'Ghandi del Chhattisgarh' ha iniziato a raccogliere dalle comunità
locali e a presentare alle autorità statali e federali le denunce di abusi,
torture, stupri, rapimenti e omicidi commessi dalla polizia e dai paramilitari.
Dalla denuncia alla lotta. Nel corso del 2009, con l'intensificarsi della
campagna anti-maoista, la situazione in Chhattisgarh si è fatta sempre più
drammatica e il lavoro di Kumar è diventato sempre più rischioso. Lo scorso
maggio il suo ashram è stato distrutto da un incendio doloso e poi sono iniziate
le intimidazioni delle autorità. Ma lui non si è lasciato intimorire. Anzi, a
metà dicembre ha deciso di organizzare un'assemblea pubblica con gli adivàsi per
denunciare la situazione e una marcia di protesta nonviolenta. Ma le autorità
glielo hanno impedito: centinaia di miliziani del 'Salwa Judum' hanno
circondando il nuovo ashram, la polizia ha arrestando i principali collaboratori
di Kumar e lui è stato minacciato e invitato a lasciare lo stato.
Repressione e censura. Chiuso in casa, con una jeep della polizia
parcheggiata notte e giorno fuori dalla porta, Kumar ha iniziato uno sciopero
della fame. Nei giorni successivi, intorno al 20 dicembre, le autorità statali
hanno convocato nel capoluogo Raipur una conferenza stampa nel corso della quale
i giornalisti locali sono stati messi in guardia sulle conseguenze legali dello
scrivere articoli antigovernativi. I giornalisti di Dantewada sono poi stati
convocati dal capo della polizia che li ha avvertiti di stare attenti, perché li
stavano "tenendo d'occhio". Il 29 dicembre, una delegazione di professori
dell'Università di Nuova Delhi è arrivata a Dantewada per capire cosa stava
succedendo, ma la polizia li ha gentilmente invitati a tornate a casa loro, con
il pretesto dei rischi per la loro sicurezza. Lo stesso è accaduto a giornalisti
venuti da altri stati indiani.
Il coraggio di Sobi. Nel frattempo Sobi, terminata la convalescenza nell'ashram,
ha deciso di andare a Raipur e a Nuova Delhi per denunciare l'eccidio di
contadini cui era stata testimone nel suo villaggio. Così il 3 gennaio lei e
Kurram sono partiti in auto alla volta del capoluogo, ma la polizia li ha
fermati e arrestati. Lui è stato rilasciato con la minaccia di un'assurda accusa
di sequestro di persona riguardante Sobi. Lei è stata trasferita all'ospedale
governativo di Jagdalpur, dove è di fatto reclusa sotto sorveglianza e con il
divieto di ricevere visite. Amnesty International ha chiesto il suo rilascio
immediato alle autorità statali del Chhattisgarh, finora senza risultati.
E ora sarà guerra vera. Per le popolazioni tribali del Chhattisgarh, e
degli altri stati indiani in cui è attiva la guerriglia maoista, la situazione è
destinata a peggiorare ulteriormente d'ora in avanti. Nei giorni scorsi il
ministro dell'Interno, P. Chidambaram, ha annunciato l'avvio della tanto
propagandata operazione 'Green Hunt' , per la quale quarantadue battaglioni
della polizia federale sono stati dislocati nelle ultime settimane in
Chhattisgarh, West Bengal, Jharkhand, Orissa, Bihar e Maharashtra.
E' crollato dopo due settimane
dall'inaugurazione, avvenuta alla presenza del ministro degli Esteri italiano
che suggellava l'ingente impegno italiano in questo mega progetto. E' il Gilgel
Gibe II, impianto idroelettrico nel cuore dell'Etiopia
E' crollato dopo due settimane esatte
dall'inaugurazione del 13 gennaio scorso, avvenuta alla presenza del ministro
degli Esteri italiano, Franco Frattini, che suggellava con la sua presenza
l'ingente impegno italiano in questo mega progetto. Si tratta del Gilgel Gibe II,
il tunnel di 26 chilometri costruito per generare energia sfruttando la
differenza di altitudine fra il bacino della Gilgel Gibe I e il fiume Gibe.
Siamo nel cuore dell'Etiopia, nella valle del fiume Omo, un paradiso che sta per
sparire, ingoiato dalla rapacità di governi e grandi interessi, che nelle acque
cristalline dell'importante fiume ci vedono solo energia e tanti soldi. Dietro a
questo misero flop, infatti, c'è un intreccio di interessi e business a nove
cifre, che occorre analizzare passo passo, per arrivarne a capo.
Il bacino dell'Omo e i suoi affluenti, da 15 anni, sono oggetto di una morbosa
attenzione non solo delle istituzioni etiopi, ma anche italiane e quindi
europee, con i fondi delle quali sono già nati non solo l'impianto idroelettrico
dai piedi d'argilla, ma anche una diga a cui il tunnel si collegava. E in ponte
ce n'è una terza, ossia il più grande progetto idroelettrico mai realizzato nel
paese africano, che è già in via di costruzione.
A aprire i battenti del business energetico nel paese africano è stata, dunque,
la costruzione della Gilgel Gibe I, la diga medio-grande che prende il nome dal
fiume che confluendo nel Gibe dà vita con il Gojeb all'Omo, il quale per
seicento chilometri irriga una regione dalla biodiversità eccezionale (l'Unesco
ha dichiarato la bassa valle dell'Omo Patrimonio dell'Umanità). A ruota è stato
quindi messo su il Gilgel Gibe II e infine sta svilppandosi la Gilgel Gibe III,
mega diga in via di costruzione dal 2006, che prevede un salto di 240 metri per
una potenza di 1870 Mw. Costo: 1,4 miliardi di euro.
E, se per la prima costruzione, a farne le spese sono state diecimila persone,
sfollate a forza da quello che adesso è il bacino idroelettrico della Gilgel
Gibe I, per il progetto da mille e una notte a rimetterci saranno in
duecentomila. Con conseguenze facilmente prevedibili, viste le condizioni di
vita che già stanno sopportando i primi sfollati. A raccontarcele sono i
responsabili della Campagna per la riforma della Banca Mondiale, costola di Mani
Tese, che da tempo seguono la vicenda, con escursioni sul luogo e rigorosi studi
di impatto ambientale. Perché la Crbm è coinvolta? Perché ognuno di questi
progetti ha visto il coinvolgimento diretto o indiretto della Banca Mondiale,
della Banca europea per gli investimenti e dei finanziamenti della cooperazione
internazionale. Anche italiana.
"Le comunità coinvolte hanno subito un graduale impoverimento - raccontano - Le
famiglie sono state insediate in una zona semi-paludosa poco fertile e con
appezzamenti di terra inferiori a quelli che prima possedevano. L'aumento della
densità di popolazione ha creato un conflitto con le comunità residenti per la
gestione dei pascoli, dato che per la loro scarsità, numerose famiglie hanno
perso fino all'80 percento del bestiame. Il tutto nella totale mancanza di
servizi di base. Nonostante le abitazioni siano sovrastate dai cavi dell'alta
tensione, non hanno luce né acqua corrente. Gli accordi parlavano di nuove
scuole, che invece non ci sono. Si sono limitati a ristrutturare le vecchie, che
ora devono gestire fino a 1.100 studenti. E molti vivono a due ore di cammino.
Inoltre il bacino ha inondato la strada asfaltata che collegava la città di
Jimma alla capitale, isolando i villaggi e costringendo i mezzi di trasporto ad
aggirare il bacino su un percorso sterrato di quasi 40 Km".
Incombenti le malattie. "La creazione del bacino ha incrementato l'incidenza
della malaria e di altre malattie trasmissibili, come l'Hiv. La presenza di
migliaia di lavoratori provenienti da tutto il Paese ha aumentato la
prostituzione e, dato che la popolazione non è stata sottoposta ai controlli
sanitari periodici previsti nelle misure di mitigazione, il virus si è diffuso a
dismisura".
Ingenti i danni ambientali. "La diga non rilascia il flusso minimo previsto per
garantire la sopravvivenza dell'ecosistema. Si passa dall'assenza di ogni
rilascio durante la stagione secca, al riempimento fino al limite eseguito
durante la stagione delle piogge per sfruttarne al massimo la potenza, per poi
procedere con rilasci di emergenza a protezione dell'infrastruttura. Si tratta
di una gestione irresponsabile che provoca scompensi, molto pericolosi.
Nell'estate del 2006, nei distretti di Dashenech e Nyangatom, lungo il fiume
Omo, un'alluvione ha provocato la morte di 364 persone, la distruzione di 15
villaggi e 15.000 profughi".
A rendere tutto ancora più grave c'è la discutibilità dei metodi usati per
ottenere i permessi necessari, che in alcuni casi non sono nemmeno arrivati in
tempo. Come il permesso ambientale per la Gilgel Gibe III, emesso nel 2008,
nonostante i lavori fossero già in stato di avanzamento. Ad opera di chi? Della
italianissima Salini Costruttori Spa, l'unica e la sola che da sempre lavora ai
progetti nella Valle, grazie a gare d'appalto mai avvenute. Ma il Bel Paese è
implicato nel business idroelettrico etiope anche per i 220 milioni di euro che
il Comitato direzionale della Direzione generale cooperazione allo sviluppo (Dgcs)
del ministero degli Affari Esteri (Mae) ha versato per la realizzazione
dell'impianto appena franato Gilgel Gibe II, unito a 505 mila euro donati per
l'invio di un esperto italiano che monitorasse il progetto. "Che di per sé -
precisa Caterina Amicucci, della Crbm - sarebbe pure un progetto valido, se non
fosse per le dubbie commistioni che ci stanno dietro e per l'assenza di studi
adeguati che hanno comportato un ritardo di due anni nella consegna, un
rilevante aumento dei costi" e un risultato a dir poco scadente visto il crollo.
Si è trattato infatti del più grande credito d'aiuto mai erogato nella storia
del fondo rotativo, ed è stato deciso basandosi su valutazioni fortemente
negative dei ministeri e degli organi competenti, fra cui il Nucleo tecnico di
valutazione della Dgcs. Che viene quasi del tutto sbaragliato subito dopo
l'approvazione del credito. La quale avviene, comunque, a contratto già firmato
tra la Salini e il governo etiope, "contravvenendo a tutti gli standard
nazionali e internazionali sulla trasparenza e la concorrenza". Era l'ottobre
2004. E il governo italiano stava giusto discutendo la cancellazione dei 332,35
milioni di euro di debito dell'Etiopia, che venne poi ratificata nel gennaio
2005. Ossia, tre mesi dopo averla reindebitata di una cifra di poco inferiore:
quei 220 milioni stanziati per Gilgel Gibe II.
Anche per la numero III, l'Etiopia si è rivolta all'Italia. Era il luglio 2007.
Richiesta: 250milioni di euro. Per ora nessuna risposta. "La richiesta ufficiale
delle autorità etiopi - precisa Amicucci - è accompagnata da una costante e
capillare azione di lobby della Salini sui funzionari e i diplomatici del
ministero. Dopo il cambio di governo a metà 2008 si resta in attesa degli
eventi". E non dimentichiamo che dal marzo 2006 al gennaio 2007 questo prestito
è stato indagato anche dalla magistratura, che poi ha archiviato il caso.
A finanziare la Gilgel Gibe II è accorsa anche la Banca europea per gli
Investimenti, che ha sborsato 50 milioni di euro. Eppure, ben sapeva che non era
avvenuta una gara d'appalto per l'intero lavoro. La Salini ha infatti preso il
lavoro senza gare, e poi ha fatto dei bandi per i lavori scaturiti dall'indotto.
Ed è qui che è intervenuta la Bei, finanziando quindi una componente del
progetto che è andata in gara e aggirando, comunque, le direttive europee sul
procurement. Si è dunque disinteressata "degli standard internazionali su
trasparenza e concorrenza", che invece hanno convinto la Banca mondiale a non
entrare nell'operazione.
E ora, stesso copione e medesimi attori per la Gilgel Gibe III?
Sul “Foglio” (30 gennaio 2010) a firma di Pietrangelo Buttafuoco è apparso un
articolo dal titolo “Amano Dio e votano Emma”. Il riferimento è alle prossime
elezioni regionali laziali, ma lo sguardo si allarga all’orizzonte dell’Italia e
del mondo. Un nuovo «padrino della Chiesa» è sorto alla fine di gennaio dalla
cattedra patriarcale del «Foglio» dei dintorni berlusconiani e come da
programma, incluso nel cognome, butta nel fuoco delle Gehènna tutto e tutti,
salvando solo il piccolo «dio» personalizzato, fatto a propria immagine e
somiglianza. Un «dio» tascabile, utile in ogni circostanza. A luogo e fuori
luogo.
Se fosse stato un tema da scuola media, l’insegnante l’avrebbe cassato tutto con
la motivazione: fuori tema, da cima a fondo. L’impressione alla prima lettura è
di depressione spinta perché sembra che da un momento all’altro l’autore si
voglia suicidare perché incompreso in un mondo di atei, di senza Dio, in una
chiesa traditrice dei bei tempi andati; in una parola di coloro che dicono di
credere in Dio. La confusione è totale e non basta riordinare le idee, ma è
necessario oltre ad un supporto psicologico, una rifondazione della teologia,
specialmente tradizionale, perché l’autore deve avere studiato solo su un
bignamino da bancarella.
In poche righe riscrive la storia del mondo e del pensiero filosofico-teologico:
da Platone a Virgilio, dai sacerdoti ebrei al Vaticano; da Papini a Mel Gibson;
dalla Russia comunista a Franco, non Ciccio, ma il generalissimo, quello che
garrotava i detenuti politici, mentre quatto quatto se ne stava con il
rappresentante papale in adorazione al Santissimo Sacramento: così per restare
in tema di rispetto della vita.
Il dato più evidente è che il “Foglio” di Ferrara, come il cardinale Ruini, non
digerisce la candidatura di Emma Bonino alla presidenza della Regione Lazio e
non avendo argomenti di analisi logica, propina una frittata di temi religiosi o
pseudo-tali per incitare alla rivolta contro il sistema «chiesa» italiana che
non corrisponde più ai canoni del direttore del "Foglio".
Giuliano Ferrara è reduce da una sconfitta cogente sul tema dell’aborto e gli
brucia che non abbia raccolto nemmeno l’1%, lui che pensava di avere dietro le
armate vaticane e i plotoni delle parrocchie. Povero Ferrara! Povero Buttafuoco!
Credono ancora di vivere in regime di «Christianitas» e infatti la foto che
correda l’articolo lo vale tutto: una foto anni 50, processione con stuolo di
preti inamidati in cotta, crocifisso avanti come alabarda e folla-folklore
attorno e dietro. Una saga da paese. Ecco la fede dell’articolista. E’ meglio
che si metta l’anima e il fegato in pace: quei tempi non torneranno più. Non gli
va bene nemmeno la chiesuola di Ratzinger che è tutto dire. Cosa vuole una
chiesa presocratica?
Non è sufficiente che papa Ratzinger stia tentando di ritornare indietro a marce
forzate, reclutando lefebvriani e anglicani, seppur sposati, ma tutti con la
testa rivolta al trapassato remoto; non basta che la Cei risusciti il già ex
Ruini per riabilitare Berlusconi con un lauto pranzo di candidature e voti di
scambio; non è sufficiente ancora che Berlusconi governi come satrapo persiano;
no, ora il “Foglio” e le propaggini sue vogliono nominare il papa, i vescovi, i
preti per riformare la Chiesa a modo loro, quella Chiesa di cui non hanno mai
conosciuto l’indirizzo perché essi ne sono sempre stati fuori, salvo usarla come
una puttana per buttarla via quando non serve.
Il pistolotto sul Concilio poi è sorpassato dopo che tutti a cominciare dal papa
stesso, da buona parte della Cei, da tutta la curia romana, sparano ad alzo-zero
su di esso, facendo un distinguo di lana caprina per dire in modo ecclesiastico
che non c’è discontinuità tra il Vaticano II e il magistero precedente, Concili
compresi. Un modo meschino per dire: al Concilio ci pensiamo noi, lo eliminiamo
lasciandolo in piedi. Anzi, lo citeremo sempre di più, ma lo svuoteremo della
sua anima e della sua carne. Stia tranquillo, il Pietrangelo: su questo versante
il concilio, causa di tutti i mali, compresi il fuoco di Sant’Antonio, i
reumatismi e il disgelo del popolo nord, non esiste più.
Le lamentazioni di Buttafuoco sono, infine, provvidenziali perché devono fare
riflettere la gerarchia cattolica che è pericoloso giocare a fare gli
apprendisti stregoni. Ecco i frutti della denigrazione del Concilio: poiché non
si condivide la politica e qualche ciambella non viene col buco sperato, si dà
fuoco a tutto, a Dio col quale è bene vedersela da soli, alla Chiesa (non si sa
di cosa parli il Buttafuoco) che dovrebbe essere una combriccola di estrema
destra, perché la gerarchia cattolica che è dichiaratamente di destra non basta
più: deve andare oltre se stessa ed essere eversiva, a supporto all’attuale
governo.
Non credo che Giuliano Ferrara, mandante armato di questo ballon d’essai, sia un
ingenuo; al contrario, penso che abbia dichiarato guerra alla gerarchia
cattolica perché se non rientra nei ranghi e non molla il centro casiniano per
privilegiare il berlusconismo, avrà vita dura e una campagna denigratoria sullo
stile delle mitragliatrici di famiglia: il Giornale e Libero. Boffo docet! Che
altro potrebbe essere questo articoletto senza capo né coda, senza pensiero,
scritto da uno sotto effetti allucinogeni, se non un ricatto?
Emma Bonino, è arma ignara, usata come fantasma per fare paura ad una gerarchia
disorientata, che ha perso il polso del paese e annaspa nelle sabbie mobili
dell’incertezza. La vicenda di Vendola ha fatto tremare più di una sedia al
potere: i partiti ordinano, ma la gente li sfotte e quando può votare, vota
contro. Emma Bonino sarà eletta nel Lazio se non altro perché la gente voterà
contro le indicazioni dei caporioni e della gerarchia cattolica. Non fa paura la
Emma, ma la possibilità che possa mettere le mani sulla sanità privata e
tagliare le mani avide che mangiano ai quattro palmenti attraverso il sistema
immorale delle cliniche private. Hanno paura che metta mano al sistema delle
scuole e favorisca quella pubblica a scapito della privata.
Non temono la Bonino radicale, abortista, libertaria e donna, temono che una
volta al potere la fantasia possa fare il resto. Da qui a maciullare lo stato di
diritto il passo è cortissimo: ormai siamo in uno Stato di sopruso che ha
scippato la democrazia del diritto di voto che deve essere libero; mentre «lorsignori»
vogliono un sistema di guarentigie che garantisca privilegi e posti ad uomini
pii e devoti obbedienti. Il Vaticano e la Cei sono avvertiti anche dal “Foglio”:
la guerra è cominciata e non si guarderà in faccia ad alcuno. Anche Dio diventa
un proiettile all’uranio arricchito perché questa volta, come diceva l’ex
avvocato Cesare Previti: “questa volta non faremo prigionieri”.
Il processo breve è una legge pensata per
evitare a Berlusconi il tribunale. Ma cancellerà migliaia di cause. Ecco alcune
storie di cittadini che non vedranno riconosciuti i loro diritti
Nell'aula di Montecitorio deserta la
sottosegretaria alla Giustizia Elisabetta Alberta Casellati si stringe nel
tailleur rosso e rivela qual è l'obiettivo del governo Berlusconi in materia di
giustizia: rasserenare. Sì, il "ripristino della serenità", perché, non si era
capito? "Riportare la serenità in un contesto istituzionale che ha superato
ampiamente la soglia di sopportazione", spiega la vice-Alfano davanti ai banchi
vuoti introducendo il dibattito sul legittimo impedimento.
Peccato che intanto l'Associazione nazionale magistrati si mobiliti in vista
dell'apertura dell'anno giudiziario. E che in Parlamento si affollino i
provvedimenti sfornati dal premiato studio Ghedini: un intasamento senza
precedenti. Alla Camera va in votazione il legittimo impedimento, in attesa del
lodo Alfano 2 (la vendetta?), da inserire in Costituzione, a prova di bocciatura
della Consulta, e del ripristino dell'immunità per tutti i parlamentari. Al
Senato è già passato in tempo record il processo breve. La "legge Erode", la
definisce Giancarlo Caselli: fa strage degli innocenti, i processi per mafia,
criminalità organizzata, o i reati societari, che finiranno nella tagliola della
prescrizione. E salva soltanto lui, l'Unto del Signore, senza neppure la
seccatura di una fuga in Egitto, o almeno ad Hammamet.
Il ddl resterà in stand by alla Camera in commissione Giustizia. Garantisce la
presidente Giulia Bongiorno, alle spalle di Gianfranco Fini ma di pura scuola
andreottiana: tergiversare, sminuzzare. Fare melina fino al 25 febbraio, quando
arriverà in Cassazione il caso Mills e si capirà la sorte del processo gemello
di Milano a carico del premier.
L'attesa coincide con le leggi della politica. Tra Berlusconi e Fini è tregua,
ci sono le regionali, basta guerreggiare, almeno fino al prossimo scontro.
Magari su Mediatrade, dove con il Cavaliere sono coinvolti Pier Silvio e Fedele
Confalonieri.
La politica prende tempo ma l'allarme è massimo.
Magistrati, giuristi e avvocati non berlusconiani spiegano infatti che il
sedicente processo breve in realtà è una legge ammazza-processi. Perché non
interviene sulle cause della lentezza delle procedure che penalizzano gli
innocenti, ma al contrario consente ai colpevoli di beneficiare dei ritardi,
grazie all'effetto automatico della "estinzione processuale" che non è previsto
in nessun paese del mondo. Per evitare anche la più meritata delle condanne,
insomma, basterà che il delinquente di turno abbia la forza (e i soldi) per
rallentare a sufficienza il suo giudizio penale, anziché velocizzarlo. Ma non
basta. Di solito una nuova legge vale solo per il futuro, invece questa cambia
le regole anche per i processi già iniziati che così rischiano di finire al
macero. Giustizia negata, insomma, per decine di migliaia di processi. Come nei
casi che, a titolo esemplificativo, raccontiamo qui di seguito.
Marco Damilano
UN CASO DI MALASANITA'
Da Palermo a Reggio Calabria, da Torino a Venezia,
sono decine di migliaia i processi 'moribondi per legge'. Per misurare i costi
della riforma per le innumerevoli vittime dei reati di ogni girono, basta andare
nel tribunale a Milano e assistere alle udienze di un caso di malasanità che, di
eccezionale, ha solo la professione delle parti: la vittima era un medico, come
i tre imputati di omicidio colposo; e tra i suoi familiari, che reclamano
giustizia come parti civili, c'è una figlia che fa l'avvocato a Bergamo e quindi
comprende benissimo l'effetto-killer della legge berlusconiana. Nell'ottobre
2005 un padre di famiglia, il dottor D., viene ricoverato in un grande ospedale
milanese per un sospetto tumore alle tonsille. L'ecocardiogramma evidenzia una
grave malformazione: il cuore è addirittura fuori posto. Il cardiologo lancia
l'allarme rosso: quel paziente non si può operare. L'intervento viene eseguito
ugualmente da due chirurghi con un anestesista. E il malato muore in sala
operatoria. Proprio per la crisi cardiaca inutilmente prevista. L'autopsia poi
aggiunge che l'intervento sarebbe stato inutile: era meglio curarlo con la
chemioterapia. A quel punto la vedova e i due figli denunciano l'ospedale. Parte
l'inchiesta, con le consuete difficoltà: perizie e controperizie, affidate ad
altri medici.
Nel settembre 2007 la procura chiede il rinvio a giudizio dei tre imputati.
Tutti assicurati anche per la colpa medica. A coprire le spese legali è
l'ospedale, mentre i familiari della vittima devono pagarle di tasca loro.
L'udienza preliminare è combattutissima: il giudice Guido Salvini ordina un
nuovo giro di perizie, prima di rinviare tutti a giudizio. Al dibattimento, la
legge (italiana) impone di riascoltare tutti i testimoni e riesaminare da zero i
documenti e i consulenti tecnici. Ora il processo è quasi finito: la sentenza di
primo grado è attesa tra febbraio e marzo. "Ma se la nuova legge non verrà
modificata dalla Camera, questo è il classico caso in cui il giudice dovrà
dichiarare immediatamente l'estinzione del processo", spiega il pm milanese che
ha sostenuto l'accusa. E i familiari della vittima che rimedi avranno? "Dovranno
ripartire da zero con una causa civile, senza più l'appoggio della procura:
oltre alle spese legali, dovranno pagarsi pure i periti".
L'avvocato di parte civile, Mario Fortunato, spiega che "ai magistrati in questo
caso non possiamo attribuire alcun ritardo: l'udienza preliminare è stata lunga
e approfondita, ma io per primo condivido la linea che non si possono mandare a
processo dei medici se non si è certi che hanno commesso errori. Nei processi
futuri i magistrati potranno cercare di accelerare tempi e procedure, per
rispettare il nuovo limite di andare a sentenza entro tre anni. Ma in casi come
questo il termine di due anni è già scaduto. Per cui non c'è niente da fare: il
processo verrà dichiarato 'estinto' già dal novembre 2009, quando nessuno poteva
immaginare che sarebbe finita così". E la figlia avvocato come giudica la grande
riforma? "È indignata e delusa, proprio perché è in grado di valutarne gli
effetti di impunità". Ma almeno l'assicurazione dell'ospedale vi ha rimborsato
qualcosa? L'avvocato dei familiari della vittima quasi si vergogna a rispondere:
"Nonostante il formale invito del giudice Anna Conforti a cercare una
transazione, non ci è mai arrivata neppure un'offerta di un euro".
TREMILA CASE-TRUFFA
Nell'aprile 2004, a Roma, migliaia di cittadini
scoprono che i titolari di un maxi-consorzio di oltre 20 cooperative edilizie,
che avevano già incassato i loro soldi promettendo appartamenti popolari, in
realtà avevano rubato tutto. Il bottino finale, secondo l'accusa, supera
abbondantemente i 150 milioni di euro: caparre, cambiali e mutui, regolarmente
versati dalle famiglie dei truffati, sono finiti in una rete di 49
società-paravento, che li dirottavano in Italia e all'estero, senza versarli
alle imprese costruttrici né alle banche finanziatrici. Una truffa gigantesca:
le famiglie danneggiate sono circa 3.500, di cui oltre 2.500 hanno chiesto
giustizia costituendosi nel processo penale.
Armando Iannilli, il nuovo presidente del consorzio Coop Case Lazio, che
raggruppa 14 cooperative di truffati, ricorda con rabbia la "disperazione della
gente": "Rappresento 1.500 famiglie che in media hanno perso 80 mila euro
ciascuna. Quando è saltato l'intero castello di società, le vittime hanno dovuto
sborsare per la seconda volta il prezzo già versato, pagare le cambiali girate
ai costruttori, offrire nuove garanzie e aprire un altro mutuo con le banche,
che intanto pignoravano e mettevano all'asta i loro appartamenti. Tra i truffati
c'è tantissima povera gente: disoccupati, cassintegrati, operai mono-reddito,
pensionati al minimo, militari, agenti di custodia, giovani coppie che avevano
investito l'eredità dei genitori, modesti impiegati che si erano indebitati con
amici e parenti... Dopo cinque anni siamo riusciti a consegnare circa 500 case
ai legittimi proprietari e stiamo costruendone altre 200. Ma centinaia di
persone hanno solo un prato o neppure un'area assegnata".
Tra il 2004 e il 2005 scattano gli arresti, i sequestri giudiziari di quel che
resta (oltre 11 milioni di euro nascosti all'estero) e le prime condanne: per
corruzione di un funzionario del ministero dell'Economia che faceva sparire le
ispezioni. Il principale imputato, Emilio Francesco Falco, torna libero dopo 12
mesi. Secondo l'accusa, la sua associazione per delinquere, mentre truffava gli
acquirenti, era riuscita a ottenere 28 milioni di euro di finanziamenti pubblici
per l'emergenza casa, generosamente concessi dalla giunta Storace, che Falco
sosteneva apertamente, prima di far sparire anche i soldi della Regione Lazio.
Condannato solo per le tangenti, ha beneficiato dell'indulto e ora attende il
maxi-processo principale, da cui dipende la sorte di centinaia di sotto-cause
civili che continuano a opporre famiglie truffate, banche e costruttori onesti
mai pagati. Ma per i 27 imputati ora è pronto il salvagente del processo breve.
L'avvocato Fabio Belloni, che assiste oltre 400 soci delle cooperative Cinzia e
Palocco 84, non si fa illusioni: "La richiesta di rinvio a giudizio è del 23
febbraio 2009. L'udienza preliminare si è chiusa rapidamente, per gli standard
italiani, il 15 dicembre. L'apertura del processo di primo grado è fissata per
il 16 marzo 2010. Quindi abbiamo già perso più di metà del tempo massimo
previsto dalla nuova legge e il dibattimento deve ancora cominciare. Definire
tutte le posizioni e arrivare a sentenza entro 11 mesi, in un caso così
complesso, è un'utopia".
L'avvocato Luca Petrucci, che tutela altre 1.200 famiglie danneggiate, ricorda
casi drammatici di "coppie ancora senza tetto" e di "sfrattati che per mesi
hanno dovuto dormire per strada, in macchina". Anche il legale romano è molto
pessimista sul 'processo breve': "Tutti i reati di truffa, falso, appropriazione
indebita, favoreggiamento e la stessa associazione per delinquere sono destinati
a estinguersi. Forse resisterà qualche accusa di bancarotta fraudolenta. Ma i
truffati rischiano di non vedersi restituire nemmeno i soldi già sequestrati
dalla magistratura". E così i cittadini derubati, dopo aver pagato due volte
l'alloggio-truffa ed essersi visti citare a giudizio per altri 8 milioni di
cambiali ancora in giro, dovranno trovare altri soldi per rifare tutto il
processo in sede civile: altri tre gradi di giudizio, altri anni senza
giustizia. Per Iannilli "con questa legge disastrosa i politici tradiscono il
popolo": "È una vergogna che, per soddisfare le esigenze di uno solo, debba
rimetterci tanta povera gente. Farsi truffare da un delinquente fa meno male che
sentirsi truffare dallo Stato".
Un caso-limite? Il pm romano Giuseppe Cascini, che ha indagato su questa
maxi-truffa e su molti altri scandali economici, conferma che il processo breve
non minaccia solo quelle 3 mila famiglie romane, ma tutte le vittime dei predoni
del risparmio e degli affari: "Le nuove norme mettono a rischio la quasi
totalità dei processi per i reati economici e bancari. E i colpevoli rimasti
impuniti potranno ridipingersi come incensurati, o perseguitati, e continuare a
fare vittime".
IN MANO AGLI USURAI
A commercianti e imprenditori in difficoltà
economiche offriva somme di denaro con tassi che arrivavano anche al 360 per
cento l'anno. E quando le sue vittime non riuscivano a pagare lui si portava via
tutto: macchine, mobili, tappeti, perfino cavalli. Fino a quando un commerciante
non ce l'ha fatta più: pressato dai debiti con l'usuraio si era rivolto ad altri
strozzini per tappare quella voragine e alla fine, travolto dai debiti e da quel
giro vorticoso ha deciso di ribellarsi e ha denunciato tutti facendoli
arrestare. Accadeva a Messina otto anni fa e oggi il processo agli usurai che
hanno messo in ginocchio decine di commercianti è ancora nelle prime fasi del
dibattimento. Tempi lunghi per quattordici imputati il cui dibattimento potrebbe
essere azzerato dal processo breve. Contro gli usurai si sono costituiti parte
civile l'Asam (associazione antiracket Messina) e uno dei commercianti piegati
dall'usura che dal marzo 2003, da quando ha preso il via l'inchiesta, attende
giustizia.
Uno degli imputati parlando al telefono, intercettato dagli investigatori,
pretendeva da una sua vittima oltre a sette milioni di euro di interessi, anche
un cavallo, una gru e una jeep. E quando è arrivato nell'abitazione del
commerciante vessato, con toni pesanti, ha portato via pure il tappeto persiano
che l'uomo aveva nel salone di casa e che era di grande valore. Tutto questo
perché, secondo quanto diceva al telefono l'imputato, erano maturati circa 25
milioni di interessi in un anno e pertanto il tappeto costituiva solamente un
acconto. Agli atti del processo ci sono i verbali in cui le vittime indicate nel
libro mastro sequestrato ad uno degli usurai, ammettono le richieste di denaro e
i pagamenti con tassi elevatissimi. Storie che hanno ridotto sul lastrico intere
famiglie alle quali non è rimasto altro che chiedere giustizia. E attendere
fiduciosi la fine del dibattimento. Ora a rischio.
UNA CATENA DI MORTI
Nei bacini di carenaggio stavano chini sui pezzi
d'acciaio per riparare o realizzare navi e piattaforme galleggianti. E assieme
ai pezzi di metallo gli operai della Fincantieri di Palermo installavano grosse
quantità di amianto utilizzato come isolante termico. Lo maneggiavano come se
fosse un prodotto qualsiasi e invece le polveri micidiali si annidavano nei
polmoni degli operai. E così nell'arco di una decina di anni ne sono morti un
centinaio per tumore ai polmoni, mentre altri duecento soffrono degli effetti da
asbestosi e mesotelioma pleurico, le forme tumorali tipiche dell'inalazione
delle fibre di amianto. Le inchieste avviate dalla magistratura di Palermo
raccontano storie terribili, dalle quali emerge sofferenza e morte. Non solo
degli operai che lavoravano con l'amianto ma anche familiari, come la moglie di
uno di loro contaminata dopo aver lavato per anni la tuta del marito, sporca dei
residui di lavorazione. Per questa triste storia che ha generato morte e
sofferenza è aperto a Palermo un processo che vede imputati tre legali
rappresentanti della Fincantieri accusati di lesioni e omicidio colposo plurimo.
Gli inquirenti sostengono che l'azienda, pur conoscendo i rischi della
lavorazione dell'amianto, dichiarato inutilizzabile per legge nel 1996, avrebbe
continuato ad adoperarlo fino al 1999. Indipendentemente dal divieto di
utilizzo. Dei quattro filoni d'inchiesta coordinati dai pm Emanuele Ravaglioli,
Carlo Marzella e Christine von Borries, solo uno è già a dibattimento. E
nonostante si trovi alle battute finali, il processo avviato nel 2004 potrebbe
essere spazzato via dall'entrata in vigore della nuova norma "breve" varata al
Senato. Uomini uccisi dall'amianto dopo anni di lavoro in cui sono stati messi a
contatto con le polveri killer. Sono centinaia le parti civili che si sono
costituite anche nei filoni aperti successivamente in cui sono indagate sempre
le stesse persone. Nuove istruttorie rese necessarie per la comunicazione da
parte della Ausl e dell'Inail di nuovi decessi. I familiari delle vittime
chiedono da anni giustizia. I periti dell'accusa hanno sottolineato la
pericolosità dell'amianto già nota nel 1955 ma "a fronte di queste certezze
universalmente conosciute, nessuna misura di prevenzione ambientale, personale,
nessuna misura di sorveglianza sanitaria è stata mai intrapresa nei cantieri
navali di Palermo nei confronti del rischio amianto". Le storie di queste morti
vengono raccontate in tribunale dove mogli e figli delle vittime attendono
giustizia.
Il Parlamento serbo pronto a condannare i
crimini commessi a Srebrenica. L'opposizione innalza un muro
A
Srebrenica fu crimine o genocidio? È di questo che il mondo politico serbo sta
discutendo a Belgrado. E soprattutto se i fatti di Srebrenica, il riconoscimento
di quanto accaduto a partire dal 15 luglio del 1995, meritino una risoluzione ad
hoc, una “Risoluzione Srebrenica”, oppure la condanna possa avvenire in un più
generico documento che biasimi tutti i crimini commessi ai danni di innocenti
durante il conflitto che ha sancito lo smembramento della Jugoslavia.
Dichiarazione univoca. Il dibattito parlamentare, previsto
originariamente per il 2 febbraio, è stato spostato proprio perché i diversi
gruppi dovranno dirimere questioni terminologiche e sostanziali che mantengono
in disaccordo, con sfumature diverse, l’intero panorama politico. Si tratta di
fare i conti con la storia: è per questo motivo che serve, se non l’unanimità
che non potrebbe arrivare mai, quanto meno un largo consenso. Una risoluzione
che incasserebbe 126 voti a favore e 124 contrari non avrebbe un valore assoluto
e non sarebbe espressione di una Serbia unita nel riconoscere la drammaticità e
la inumanità di quei giorni in cui quasi ottomila uomini musulmani vennero
sterminati.
Il muro dell'opposizione. Se il Partito Democratico (Ds) del presidente
Boris Tadic è deciso a risolvere una volta per tutte la questione tirando
diritto su una risoluzione ad hoc che condanni i crimini di Srebenica, gli altri
attori della scena politica non manifestano la stessa determinazione. Anche lo
speaker (il presidente) del Parlamento, Slavica Dukic-Dejanovic, ha dichiarato
alla tv serba di ritenere riduttivo includere Srebrenica in una risoluzione
generica, che, come sostenuto anche dal Ds, i crimini commessi in quella città
vadano sottolineati con maggiore enfasi. Ma di crimini si parla e non di
genocidio. Difatti lo speaker del Parlamento, rappresentate del Partito
Socialista (Sps), ritiene che gli eventi di Srebrenica vadano condannati come
crimine. Cosa farebbero i membri del suo partito se venisse proposto il termine
‘genocidio’? “Bisognerà parlarne in aula”, dice la Dukic-Dejanovic in
un’intervista al quotidiano Vcernje Novosti. Il Partito Democratico di Serbia di
Kostunica, Serbia Unita di Dragan Markovic e soprattutto il Parito Radicale (Srs)
il cui leader Vojislav Seselj è attualmente sotto processo al tribunale dell’Aja
proprio per quei crimini, hanno innalzato un muro compatto: nessuna risoluzione,
nessuna dichiarazione su Srebrenica sarà mai accettata. Non mancano ovviamente
neanche i colpi di teatro: Aleksander Vucic che siede tra le fila dell’Sns di
Tomislav Nikolic ha dichiarato che il partito, prima di esprimersi su una
“Risoluzione Srebrenica”, dovrà prima leggerne la bozza. Nulla di strano, si
dirà. Se non fosse che, anni fa, Vucic avrebbe voluto dedicare una strada di
Belgrado al generale Ratko Mladic, ancora in fuga e ricercato proprio per il
genocidio di Srebrenica.
'Jasanovac, piuttosto'. La bozza della risoluzione, secondo fonti del
quotidiano Blic, verrà discussa comunque entro il 15 febbraio. Il dibattito in
atto ha inevitabilmente attraversato la vicina frontiera bosniaca provocando
reazioni di diverso segno. Per il ministro degli Esteri della Bosnia Erzegovina,
Sven Alkalaj, quello che sta per compiere la Serbia è un passo importante e
grandioso che spiegherà i suoi effetti benefici per la stabilità dell’intera
regione balcanica. Di segno opposto, ovviamente, le dichiarazioni provenienti da
Banja Luka, la capitale della Republika Srpska (Rs). Milorad Dodik, Primo
ministro, ha definito ‘inaccettabile’ prendere in considerazione una risoluzione
su Srebrenica attribuendo solo ai crimini commessi in quella cittadina un
significato di importanza storica. Sulla stessa linea il presidente
dell’Assemblea Nazionale della Rs, Igor Radojicic secondo cui bisognerebbe
condannare i crimini commessi durante la Seconda Guerra Mondiale dagli ustascia
croati nel campo di concentramento di Jasanovac e non quelli Srebrenica.
Questioni di priorità temporali, per Radojicic, nel conto presentato dalla
storia e non ancora saldato.
"I neri stanno già tornando nelle campagne
della Piana, e l'anno prossimo saranno di nuovo tanti - dice Calogero della Cgil
- l'unica è provare a combattere il fenomeno del ‘nero', inteso come lavoro".
Scritto da Gian Luca Ursini
"Più
immigrati, più crimini". Dopo i gravi fatti di gennaio a Rosarno, il governo di
Roma è sbarcato in Calabria. Annuncia grandi misure, per ora sulla carta, contro
la ‘Ndrangheta (la parte difficile del problema) ma soprattutto - e subito -
"pugno duro all'‘immigrazione incontrollata troppo a lungo tollerata" come detto
dal ministro leghista Maroni, nel commentare a caldo la cacciata dei migranti
dal paesone calabrese. Il premier italiano ha perso l'ennesima buona occasione
per stare zitto. Forse nell' infelice allocuzione per ‘immigrati' intendeva i
clandestini, dimenticando che la clandestinità come reato è una invenzione- del
2009 - dei suoi alleati della Lega-xenofoba-Nord. Ma afferma per di più dati
smentiti dalle statistiche; per il sociologo MaurizioBarbagli "dalla creazione
del reato di clandestinità, che secondo i leghisti avrebbe cancellato il
sottobosco di microdelitti legati all'immigrazione sans papier, il più grave di
essi, lo spaccio, è cresciuto in incidenza su tutti i reati dal 32 al 34 per
cento del totale". Che dire del territorio che d'ora in poi sarà 'l'Alabama
italiana', la Piana di Gioja Tauro? "Negli ultimi 15 anni, con una massiccia
presenza di immigrati, alcuni senza documenti - spiega il pm del tribunale di
Palmi Giuseppe Creazzo, competente per territorio - non si sono mai, nemmeno una
volta, registrate denunce a carico di migranti per i reati di furto con scasso,
violenza sessuale, tentata violenza sulle donne, prostituzione e furto semplice,
ossia i banali scippi". Questo in un territorio dove l'incidenza degli stranieri
sulla popolazione secondo la Cgil è del 18 per cento, ossia la quarta zona a
maggiore densità di migranti in Italia dopo Prato Brescia Sassuolo e prima di
grandi città come Genova Milano.
Non solo; le incaute parole dei governanti italiani hanno causato sdegno in
ambienti di solito vicini alla Destra italiana: in Vaticano. La conferenza
episcopale ha subito esposto propri dati in base ai quali, per i vescovi "non
c'è nessuna correlazione tra l'incidenza dei crimini e la presenza di migranti,
regolari o irregolari". "Non esiste differenza tra il tasso di criminalità dei
migranti e quello degli italiani" ribadisce monsignor Crociata a capo della Cei:
1,2 per cento dei regolari contro un tasso di delinquenza dello 0,75 per cento
per gli italiani, ma che nelle persone sotto i 40 diventa inferiore per i
migranti rispetto agli italiani. Evidentemente a furia di stare qui, gli
immigrati imparano la lezione e cominciano a delinquere... E questo discorso
come si applica a Rosarno? Gli italiani hanno reagito a presunti abusi dei
migranti per razzismo, o per mentalità criminosa, atteso che i Migranti in
quella zona delinquono sensibilmente meno dei calabresi? E soprattutto "sono gli
unici a ribellarsi alla Mafia", ricorda Antonello Mangano, autore di ‘Gli
africani salveranno la Calabria, (forse l'Italia intera)', titolo sottoscritto
da uno studioso dell'illegalità meridionale, come Roberto Saviano.
"Nella Piana di Gioja - spiega Antonio Calogero, Cgil locale - la subcultura
‘ndranghetista è dominante, e il problema con la rivolta dei migranti è stato di
ordine pubblico, che i mafiosi non potevano vedersi sfuggire di mano. In
Calabria è scontato dire che lo Stato assente, va ribadito che solo la
‘ndrangheta fa politica; fare politica vuol dire cercare il consenso della
popolazione; per cercare consenso i mafiosi non possono stare indietro rispetto
alle mutate percezioni del popolo, e mandare messaggi rassicuranti. Con la
cacciata dei migranti hanno voluto dire "Tranquilli qui comandiamo noi", e
soprattutto recepire un malessere diffuso verso i migranti, in gran parte
disoccupati". " E non solo riaffermazione del dominio - interviene Gigi Genco,
segretario Cgil Calabria - la ‘Ndrina funziona anche da regolatore del mercato
del lavoro: in città troppi immigrati, grazie alla Bossi-Fini e al reato di
clandestinità, non venivano più assunti dai contadini. Tutto in nero. In più
sono arrivati a centinaia dal Nord, dove l'industria in crisi caccia per primi i
migranti. Troppi e troppo poveri, pronti a esplodere. I calabresi percepivano un
disagio foriero di tempesta. La ‘ndrangheta si propone come mediatore sociale
per interpretare un bisogno dei rosarnesi: ha detto con le intimidazioni dei
fucili e poi con la caccia al Nero: "Andatevene via, non ci servite più nei
campi, questa non è casa vostra".
"I neri stanno già tornando nelle campagne della Piana, e l'anno prossimo
saranno di nuovo tanti - conclude Calogero - l'unica è provare a combattere il
fenomeno del ‘nero', inteso come lavoro: finché si lavorerà in maniera
irregolare, verranno più braccianti del necessario, a vivere in condizioni di
degrado; bisogna rendere più appetibili i ricavi ai contadini, con la filiera
corta: basta intermediari, dal produttore al consumatore, (come nei farmer
market, quindi un modo per combattere le Mafie, ndr). Finché il prezzo pagato
per chilo di arance, come detto e ridetto, è di 4 centesimi/chilo, ai
coltivatori non conviene raccogliere e i migranti rimangono a ciondolare. E il
ministro del lavoro deve disporre controlli a tappeto, per essere sicuri che
ogni migrante abbia un regolare contratto stagionale e venga pagato il giusto:
60 euro al giorno, non 25, di cui 5 da versare al caporale".
Almeno
su un punto il vecchio La Malfa aveva ragione, quando ammoniva che «l'Italia
sarà quel che sarà il suo Mezzogiorno». Perché in tempi di piano casa e di
condoni incostituzionali, è l'inferno urbanistico della Campania che le destre
additano al resto del paese come paradigma, come modello di riferimento per il
governo del territorio.
Una regione saldamente in testa nelle classifiche dell'abusivismo, nella quale
secondo Legambiente si costruiscono 16 case abusive al giorno e dove, stando a
quanto scrive il giornale di Confindustria, per ogni 100 euro prodotti
legalmente, l'economia criminale ne macina altri 40 con il ciclo
cave-cemento-edilizia-rifiuti.
Questo modello ha prodotto negli ultimi cinque decenni l'area metropolitana più
invivibile d'Europa. Una colata edilizia ininterrotta, tra il Volturno e il Sele,
che ha fagocitato più di 130 comuni, nella quale vive come può l'80% degli
abitanti della regione, rinserrato sul 15% appena del territorio. Una sterminata
periferia che ingloba due tra i più pericolosi vulcani del mondo, circondata da
montagne fragili, pronte con la pioggia a vomitare colate micidiali di fango.
L'ingiustizia sociale che è dietro questo modello l'ha svelata Antonio Cederna
sin dai tempi de «I vandali in casa», osservando come la superproduzione
edilizia non risolva, anzi aggravi l'atavico disagio abitativo, generando per di
più un deficit drammatico di verde e servizi. Una profezia che si è avverata:
nell'area metropolitana di Napoli mancano all'appello, secondo il piano
territoriale della Regione, più di 4.000 ettari (l'equivalente di 6.000 campi di
calcio) di aree verdi, spazi pubblici, impianti per lo sport e il tempo libero,
in pratica tutto ciò che serve a rendere un po' più decente la nostra
sopravvivenza urbana.
Un aspetto interessante della questione riguarda l'operato del centrosinistra,
che pure queste terre ha governato nell'ultimo quindicennio. Perché il rilancio
della buona urbanistica, nel segno della preminenza dell'interesse pubblico, era
stato il cavallo di battaglia del bassolinismo nella sua fase ascendente, ed è
grazie ad esso che il consenso intorno al nuovo corso politico si è esteso e
consolidato. Poi, salvo la positiva parentesi del piano territoriale regionale,
la direzione è drasticamente cambiata, e la Campania è passata con disinvoltura
dal piano regolatore al piano casa, producendo a riguardo una legge regionale
ritenuta tra le peggiori in Italia.
Una legge che non tutela i grandi paesaggi storici, dalla Penisola sorrentina
alle isole del Golfo, passando per il Vesuvio e i Campi Flegrei, che mette lo
zampino nei parchi nazionali e regionali, e che concedendo la possibilità di
incremento anche agli edifici abusivi non ancora sanati, si prefigura come un
condono di fatto, rubando addirittura il tempo all'iniziativa delle destre.
La questione è politica al massimo grado: lo spaesato elettore ha bisogno a
questo punto di sapere se e in qual misura il centrosinistra sia disposto a
contrastare una strategia eversiva che mira a deformare le regole basilari della
convivenza, per adattarle ad una realtà sociale e territoriale malata. Perché
qui non è più solo questione di suolo, acqua, boschi e monumenti. Il territorio
è il nostro modo di vivere insieme. Il territorio siamo noi.
* docente incaricato di Elementi di pianificazione
territoriale e ambientale, Università di Salerno