24 febbraio

Ritorno al 1994

di GIUSEPPE D'AVANZO

 

Una delle più colossali frodi poste in essere nella storia nazionale". Se soltanto si prende in considerazione come, con quali parole e intensità, i pubblici ministeri di Roma definiscono l'affaire che travolge oggi Fastweb e Telecom, si può comprendere a che punto siamo. Per provare a dirlo, occorre mettere in fila quel che accade. Gli arresti in flagranza di amministratori con la "bustarella" in tasca. Lo scandalo che ha svelato la corruzione e il malcostume nascosto dal potere d'eccezione concesso alla Protezione civile di Guido Bertolaso in nome del "fare" e del miracolismo mediatico. I fondi neri e il riciclaggio per migliaia di milioni di euro prodotti dal business illegale delle due società telefoniche. I brogli elettorali e, addirittura, l'ingresso in Parlamento di un uomo selezionato da un clan mafioso. La cronaca racconta, a chi vuole sentire, che corruzione e malaffare segnano come una malattia la nostra vita pubblica. È vero (e meno male), che non la definisce nella sua interezza, ma appunto è una patologia grave e diffusa che minaccia l'esistenza e lo sviluppo del Paese.

Dovremmo finalmente prenderne atto senza ipocrisia. La buona politica ne dovrebbe prendere atto. La buona società dovrebbe imporre l'urgenza di affrontarla. Si dovrebbe finalmente mettere in un canto la filastrocca, recitata dal presidente del Consiglio, ripetuta come una litania dai suoi corifei, rilanciata dai media dominati o docili. Quella fiaba interpreta e altera il degrado della vita italiana come artificio politico, come espediente narrativo per disturbare il manovratore. Come il metodo cinico per danneggiare gli interessi e la credibilità internazionale del Paese (anche questo è stato avventurosamente detto).

 

Riciclaggio, le frodi Carosello
ecco come funzionavano

 Riciclaggio, le frodi Carosello ecco come funzionavano

ROMA - La parola-chiave è "frode carosello". Secondo il gip di Roma è in questo modo che l' "organizzazione criminale" sgominata da Ros e Gdf ha potuto "realizzare attività economiche fittizie del valore di alcuni miliardi di euro al fine di ottenere crediti di imposta con profitti per centinaia di milioni di euro in favore di Fastweb e Telecom Italia Sparkle". La frode carosello veniva realizzata in quattro mosse, che consentivano di creare "ingenti fittizi crediti Iva".

1) In primo luogo venivano realizzate o individuate, scrive il gip, una serie di società 'A', tutte con sede all'estero nell'ambito dell'Ue e di fatto create ad hoc per le operazioni delittuose, nonchè una serie di società 'B', con sede in Italia e anch'esse di fatto create ad hoc".

2)  'A' cedeva fittiziamente a 'B' un valore pari a '100' di servizi, di solito traffico telefonico ma non solo, senza pagare l'Iva poiché si trattava di cessione all'interno di Stati appartenenti all'Ue (la cosiddetta cessione 'intra')

3) 'B' cedeva fittiziamente alle società 'C' - vale a dire Fastweb e Telecom Italia Sparkle - i medesimi servizi per un valore di '100' sul quale veniva pagata da 'C' l'Iva per il 20%, poiché si trattava di una compravendita di servizi in Italia, con un esborso finale apparente per 'C' di '120'.

4) 'C', infine, rivendeva ad 'A' i medesimi servizi con il sistema 'intra' (come detto applicabile negli acquisti tra Stati Ue) al prezzo di '100' senza il pagamento dell'Iva.

In questo modo, afferma il gip, "alla fine di un'operazione sostanzialmente neutra a fini economici perché ogni soggetto paga ed incassa '100', 'C' (vale a dire Fastweb e Telecom Italia Sparkle) ha apparentemente pagato '20' di Iva a 'B', che quest'ultima in ogni caso non versa all'erario, non avendo mai incassato la relativa somma".


La banda del fare quel che ci pare

di Fabrizio Gatti

Così Berlusconi, Letta e Bertolaso hanno affidato le opere più importanti a un gruppo di costruttori senza scrupoli. Con una cascata di leggi su misura per eliminare ogni ostacolo e ogni controllo



LEGGI, SFOGLIA E GUARDA
LO SPECIALE: Tutte le inchieste, gli interattivi, gli approfondimenti, i video e le foto negli approfondimenti de L'espresso


Un casinò da aprire sul dolore dell'Abruzzo. Una sala da gioco autorizzata da una postilla, infilata dentro uno dei decreti per la ricostruzione. Questo stavano progettando gli amici di Guido Bertolaso, 60 anni, capo della Protezione civile e uomo immagine del governo. È l'ultima trovata della banda della maglietta: una volta c'era la banda della Magliana, adesso nella capitale dominano gli uomini con la t-shirt delle emergenze.

Diego Anemone, 39 anni, il costruttore tuttofare arrestato il 10 febbraio, voleva trasformare il Salaria sport village di Roma in una piccola Las Vegas. Poker e slot machine di ultima generazione. Quelle in cui infili i numeri della carta di credito o del bancomat e vai avanti a giocare fino a quando il conto è prosciugato. Erano sistemi vietati. Poi Silvio Berlusconi ha firmato il decreto, convertito il 24 giugno 2009 nella legge 77. E via, con la scusa di finanziare la rinascita a L'Aquila grazie a una tassa una tantum di 15 mila euro a macchinetta, ecco inventata una nuova fonte di guadagno. C'è sempre un provvedimento d'urgenza, un'ordinanza pronta quando qualcuno della banda si fa prendere la mano dalle deroghe o dagli abusi.

È davvero straordinario il sottosegretario Bertolaso, come i suoi poteri che la Procura di Firenze ha ora messo sotto inchiesta. Sembra che in Italia non ci siano più alternative al suo modo spaccone di gestire gli appalti, i cittadini, il codice civile e quello penale. Se ne sta lì in mezzo al sistema solare della Tangentopoli 2. Praticamente intoccabile. Protetto dall'affetto di Gianni Letta e Francesco Rutelli. Amato nel Pdl, nel Pd e in Vaticano. Cercato, riverito da questa drammatica corte di imprenditori, massoni, paramafiosi, progettisti e puttanieri che stanno spolpando le casse dello Stato. Come hanno fatto in Sardegna, a forza di prezzi gonfiati e ritocchi in corso d'opera: quanto sarebbero utili i soldi sprecati alla Maddalena, oggi che da Porto Torres a Cagliari aumentano i disoccupati e nessuno sa come riaccendere l'economia.

 

Dalla scuola dei sottufficiali dei carabinieri a Firenze ai laboratori con i virus letali dell'Istituto Spallanzani a Roma, finiti in una interrogazione in Senato: «Sono state rispettate le norme antisismiche?», chiede pochi mesi fa Domenico Gramazio (Pdl). Perché se crolla, scappano i virus. E lui, il Guido nazionale, può beatamente dire che va tutto bene, che non si è accorto di nulla. Può perfino permettersi, senza perdere il posto, di negare la partecipazione della Protezione civile a una esercitazione internazionale, finanziata dall'Unione Europea: l'unica organizzata in Calabria negli ultimi anni, in una delle regioni sismiche più pericolose al mondo. Quando la Commissione europea viene a sapere che i soccorritori di Bertolaso non ci saranno, annulla l'esercitazione. Una figura pazzesca per l'Italia. A tutt'oggi nessuno ha mai più valutato se le prefetture, i Comuni, gli ospedali calabresi siano in grado di gestire l'emergenza dopo una catastrofe. Niente male per l'uomo che pochi giorni fa è volato ad Haiti e dalla capitale rasa al suolo dal terremoto ha accusato di incapacità il governo degli Stati Uniti.

Il viaggio nel mondo infallibile di Guido Bertolaso, fresco di riconferma, può cominciare proprio da qui: via Miraglia 10, prefettura di Reggio Calabria. Nel 2008 si celebra l'anniversario del terremoto del 28 dicembre 1908: 80mila vittime a Messina e provincia, 15mila a Reggio. Da duecento anni la terra sullo Stretto trema dopo un secolo di silenzio sismico. Il dipartimento di Bertolaso dovrebbe per legge verificare la preparazione di Comuni, Regioni e prefetture, coordinare le esercitazioni, aiutare gli enti locali a predisporre i piani, correggere le lacune. Il 27 luglio 2007 il professor Mauro Dolce, direttore per la Protezione civile dell'Ufficio prevenzione e mitigazione del rischio sismico, spedisce in Calabria lo 'scenario di danno', nel caso si ripetesse oggi una catastrofe come quella del 1908. I dati vengono ricavati dal Sistema informativo per la gestione dell'emergenza, un archivio che tiene conto della qualità degli edifici. Il bilancio è terrificante: 325.247 persone coinvolte dai crolli, 335.699 senzatetto. Un altro calcolo, tenuto nei cassetti degli uffici di Bertolaso, prevede 112.312 morti.

L'anno successivo è il momento delle commemorazioni storiche. Ed è anche l'occasione per verificare il sistema dei soccorsi: viene messa in agenda l'esercitazione Ermes 2008. La Commissione europea sceglie il progetto di Reggio per collaudare su vasta scala l'integrazione internazionale tra i diversi corpi di protezione civile. Si fanno riunioni a Bruxelles, si firmano accordi. Il prefetto, Antonio Musolino, però deve insistere con Bertolaso. E lui il 6 agosto 2008 gli risponde con una lettera di ghiaccio: «Nel comunicarti che questo Dipartimento non prenderà parte alle successive attività organizzative ed operative, non mi resta che augurarti un proficuo avanzamento dei lavori... previsti dal progetto, che mi auguro possa avere la giusta rilevanza in ambito locale», scrive Bertolaso. Ambito locale? E la Commissione europea? Il capo dipartimento se la prende con il prefetto Musolino «per il quadro economico progettato dalla tua struttura, che non risulta modificabile». Questione di soldi. Il capo della Protezione civile nazionale vuole essere al centro dell'organizzazione.

Il 3 settembre Hervé Martin, capo unità della Commissione europea, prende atto che senza gli uomini di Bertolaso l'esercitazione non sarebbe più realistica: «La Commissione comprende la perdita di tempo risultata dalle negoziazioni senza successo con il dipartimento di Protezione civile...», scrive Martin. Bruxelles cancella la partecipazione dei Paesi della Ue. E pure i finanziamenti. La prova viene rinviata dall'estate a dicembre. Ma resta limitata alla catena di comando locale. Niente mobilitazione sul campo dei soccorritori italiani e stranieri. Niente coinvolgimento dei cittadini, delle scuole, degli ospedali. Nessun piano di emergenza condiviso.

Nel 2008 Bertolaso lascia scadere anche il protocollo di prevenzione tra il suo dipartimento e la Regione Abruzzo. E, mentre nei mesi successivi la terra trema, nessuno ricorda che uno studio ha inserito la prefettura a L'Aquila tra gli edifici a rischio sismico. Infatti il 6 aprile 2009 la prefettura crolla, paralizzando per ore la catena dei soccorsi. Sempre nel 2008 il commissario delegato per il G8, una delle tante cariche che Romano Prodi e Silvio Berlusconi affidano a Bertolaso, deve soprattutto predisporre i cantieri sull'isola della Maddalena. È la grande abbuffata di soldi pubblici che il 10 febbraio porta in cella con l'accusa di corruzione quattro uomini della 'banda della maglietta'.

Oltre all'amico Diego Anemone, gli altri sono: Angelo Balducci, 62 anni, nel 2008 coordinatore delle strutture di missione e poi presidente del Consiglio superiore dei Lavori pubblici, Fabio De Santis, 47 anni, prima soggetto attuatore per il G8 e poi provveditore ai Lavori pubblici a Firenze, e Mauro Della Giovampaola, 44 anni, ingegnere cresciuto tra le imprese di Diego Anemone, diventato poi controllore degli appalti di Diego Anemone alla Maddalena e, forse proprio per l'efficacia dei suoi controlli, nel 2009 confermato alla presidenza del Consiglio e nominato responsabile delle opere per i 150 anni dell'Unità d'Italia. Balducci e De Santis vengono nominati negli appalti della Protezione civile su proposta di Bertolaso. Quella di Mauro Della Giovampaola è invece una carriera tutta di corsa. Quando sull'isola della Maddalena 'L'espresso' gli chiede al telefono come possa conciliare il suo passato di sociodella famiglia Anemone con il presente di controllore dei lavori e delle spese degli Anemone, l'ingegner Della Giovampaola si appella all'etica professionale. Poi chiama Angelo Balducci e lo aggiorna della telefonata. I carabinieri del Ros li registrano.

Nel dicembre 2008 'L'espresso' con uno stratagemma entra nei cantieri del G8 coperti dal segreto di Stato. È la prima inchiesta giornalistica sulla rete Bertolaso- Balducci-Anemone. A Roma piove da giorni. Il Tevere è in piena. La sera di venerdì 12 il capo della Protezione civile si fa intervistare dalle tv. Sullo sfondo le luci della capitale si riflettono nel gonfiore del fiume. Alcuni ponti sono chiusi da ore dopo che i barconi-ristorante si sono incastrati sotto le arcate. «La grande criticità», dice Bertolaso, «non è rappresentata dalla piena del Tevere, che passerà nel corso della notte in maniera controllata, ma da alcuni imbecilli che non hanno ancorato bene i barconi sul fiume». Il capo della Protezione civile sa bene che il Tevere, come tutti i fiumi, ha bisogno di zone di espansione. Servono a rallentare le piene, a evitare che l'acqua allaghi le città. Una di queste aree di protezione è all'ingresso di Roma, quartiere Settebagni. Anzi era. Perché quello è il terreno vincolato a uso agricolo su cui Diego Anemone ha costruito i nuovi impianti del Salaria sport village, sfruttando le ordinanze proposte a Berlusconi dall'amico Bertolaso per i mondiali di nuoto 2009. La palazzina, la piscina olimpionica coperta e la sala del futuro casinò sono ora sotto sequestro. Ma nel dicembre 2008 i muratori lavorano ancora giorno e notte. Tranne nei giorni della piena: il cantiere finisce sott'acqua. Bertolaso è socio del Salaria sport village. È lì quasi ogni settimana a farsi massaggiare la schiena. È perfino un pubblico ufficiale con obbligo di denuncia. Il suo amico Diego Anemone sta violando tutte le norme urbanistiche e paesaggistiche. Italia nostra e il circolo locale del Pd denunciano da mesi gli abusi.

Il vicepresidente del quarto municipio di Roma, Riccardo Corbucci, 31 anni, tra i più impegnati e informati nella battaglia di quartiere, qualche mese dopo verrà addirittura pedinato e filmato da due persone in scooter. Un modo per provare a spaventarlo e fermare i ricorsi al Tar, che invece vanno avanti. Eppure l'attento Guido nazionale non vede nulla di irregolare tra gli affari dei suoi amici. Anzi il 30 giugno 2009, sei giorni dopo la conversione in legge del decreto per l'Abruzzo e per le nuove slot machine, Bertolaso propone e Berlusconi firma l'ordinanza 3787 della presidenza del Consiglio. Gli amici sono salvi: gli impianti privati vanno equiparati a quelli pubblici e gli abusi, se approvati dal Comune di Roma, diventano legali. Molte strutture, compresa quella di Anemone, restano sotto sequestro dopo le prime perquisizioni chieste mesi fa dalla Procura di Roma. Ma almeno le piscine possono essere usate per gli allenamenti durante i mondiali. Ci sono gli affitti e i compensi della federazione da incassare.

Passata la piena del Tevere di fine 2008, il 23 dicembre Bertolaso sale a Parma per una scossa di terremoto. Il 24 torna a Roma e incontra Balducci per decidere come rispondere all'inchiesta giornalistica de 'L'espresso' uscita il giorno prima. «Il dottor Guido Bertolaso», fa scrivere qualche ora dopo il capo all'ufficio stampa della Protezione civile, «ha ricevuto dall'ingegner Balducci una relazione che ribadisce la regolarità delle procedure seguite ed esclude qualsiasi legame familiare con imprese impegnate nella realizzazione delle opere». Bertolaso ovviamente non dice di avere concordato con Balducci una menzogna. È quello che scoprono poco dopo i carabinieri del Ros quando sentono Balducci spiegare la soluzione a Diego Anemone e a Fabio De Santis: «Nel corso dell'incontro tra il Balducci e il Bertolaso è stato concordato di far predisporre al commercialista Gazzani» una falsa dichiarazione: dovrebbe scrivere una nota da cui risulti inattiva la Erreti film, la società che lega negli affari le mogli di Balducci e di Anemone. Stefano Gazzani, 48 anni, è il commercialista delle due famiglie. Forse proprio in cambio di questo favore Gazzani viene inserito nella commissione di collaudo delle opere alla Maddalena. Un commercialista messo a verificare lavori di ingegneria?

La notizia circola da tempo nei cantieri. Quando per verificarla 'L'espresso' chiede alla Protezione civile l'elenco dei collaudatori, c'è una sorpresa: il commercialista di Balducci non compare. La presenza di Gazzani nella commissione di collaudo emerge soltanto adesso dalle intercettazioni di Mauro Della Giovampaola. Anche i compensi per i collaudi sono un affare. E in quell'elenco, tra i tanti nomi, c'è un'altra storia da raccontare. Quella di Roberto Grappelli. È segretario generale dell'Autorità di bacino del Tevere quando il 31 marzo 2008 firma il parere positivo al progetto di Diego Anemone per l'ampliamento dello Sport Village sul terreno di espansione del fiume. Così, mentre Claudio Rinaldi, altro amico di Balducci e commissario delegato per i mondiali di nuoto, dà il via libera ai lavori nel Salaria sport village, Grappelli cambia vita: collaudatore per il G8 e presidente della metropolitana di Roma.

Il casinò è l'ultima frontiera della banda della maglietta. Sport, massaggi, ristorante, gioco. E tanti ospiti famosi. Come l'amico Guido Bertolaso. Qualche settimana fa la pratica finisce sul tavolo di un concessionario di Lottomatica. L'idea è di installare le Vlt, le macchine mangiasoldi collegate online. «È come connettersi a Internet, si può vincere fino a mezzo milione », spiega uno dei rappresentanti contattati da 'L'espresso': «Abbiamo fatto un sopralluogo con il dottor Travasi, un concessionario di Lottomatica. Il problema è che in uno spazio sotto sequestro non si può aprire un casinò. Nemmeno un minicasinò. La legge non lo consente ». Questo no, almeno per ora.

  Grecia, i volti della crisi

Un reportage racconta l'ansia dell'incertezza economica nel Paese ellenico

scritto da
Margherita Dean

Non sapere e vivere col fiato sospeso: così vive la Grecia di questi ultimi mesi, mentre almeno tre decenni di storia, a partire dagli anni Ottanta, sono messi in discussione, nel loro insieme, da amici e nemici, da chi ha faticato come da chi ha usufruito di tante, troppe, scorciatoie.

Così vive Artemis, due bellissimi occhi blu e grandi su un ovale perfetto, una giornalista disoccupata, che ti dice di chiamarla quando vuoi, tanto è a casa, non ha molto da fare. Oggi è un po' tesa, dietro la sua dolcezza si cela l'ansia di una giovane donna senza lavoro, nonostante le sue lauree e un master. È anche adirata per il trattamento riservato, dalla stampa di mezzo mondo, alla Grecia: "Non è una questione di sciovinismo, neanche un complesso d'inferiorità'', afferma, "è che trovo spaventose le semplificazioni e le ipocrisie. In fondo è l'esportazione europea quella che più è aiutata da un euro debole e la Grecia è, in questo momento, il capro espiatorio perfetto''.
Mi guarda in silenzio, aspetta una reazione; sarà il mio sorriso ma Artemis parla del suo conto corrente come del salvadanaio di un bambino: "Il porcellino si sta svuotando e io mi trovo a fare pensieri che mi spaventano, come quello di dover cambiare mestiere o di andare all'estero a cercar fortuna''. Conclude con uno sconsolato: "non so''.

Stratos, a differenza di Artemis, è un tipo imponente, uno che dei suoi capelli brizzolati, non proprio corti, è fiero, si nota mentre indossa il casco per correre a casa, dai suoi due figli, dopo il lavoro. Impiegato dell'Opera di Atene, del Megaron Moussikìs, non è meno preoccupato di Artemis. Nonostante il suo sia un contratto di lavoro a tempo indeterminato, vive quasi quotidianamente, da due anni a questa parte, il progressivo sfacelo dell'economia greca, accelerato dalla crisi economica internazionale. Una crisi che vuole che anche la musica si inginocchi ubbidiente agli ordini dei mercati.
All'inizio, l'Opera di Atene volle risparmiare sull'elettricità, per esempio. Mentre Stratos me lo racconta, già immagino gli impiegati chini sulle loro carte al lume di una candela tramortita dalla vicinanza della fine. Come in ogni Dickens che si rispetti, però, ormai è diminuito anche il numero di dipendenti stagionali del Megaron: un addetto alla sicurezza è responsabile di molti più metri quadri di quanto non lo fosse prima. Il Ministero della Cultura ha tagliato i fondi a favore del Megaron, infatti, mentre l'aumento dello stipendio di Stratos sarà del 2,5 percento, contro il 5 percento degli anni precedenti. Questo, sulla base dei contratti nazionali firmati da sindacati ed aziende. "Ne parliamo tutti i giorni tra colleghi, aspettiamo, non so esattamente cosa, ma stiamo col fiato sospeso. Mia moglie ed io abbiamo fatto i primi tagli sul bilancio familiare e, infatti, la sera non usciamo più. Abbiamo il mutuo e le carte di credito da pagare, le spese dei ragazzi, le lezioni private''.

Nicoletta è una signora che, novant'anni portati con estrema eleganza, ha fatto solo una concessione al tempo: un bastone da passeggio un poco amato e un poco odiato. Vive da sola, sperando di riuscire a salvare la sua indipendenza fino alla fine, mentre desolata ripete spesso quanto sia brutto invecchiare. È una pensionata statale, con qualche migliaio di euro in banca, "quelli che a un vecchio servono per farlo stare tranquillo di non dover mai diventare un peso per gli altri'', mi dice, per aggiungere di essere molto preoccupata. Nonostante la pensione di Nicoletta, un'ottima pensione per altro, sia salva dagli attacchi del piano di tagli del governo, la melanconia nei suoi occhi tradisce l'inquietudine per un futuro difficile per chi lo vivrà. Nicoletta ha due nipoti e due bisnipoti: "è di voi ragazzi che io mi preoccupo, dei bambini, non so come finirà tutto questo, cosa ne sarà del paese, quale sarà il vostro e loro futuro. Non abbiamo più certezze, quelle che erano delle certezze ora si chiamano privilegi e, come tali, li stanno smantellando uno ad uno''.

Questa sera arriva Peggy, la bella francese per qualche giorno ad Atene, sconvolta da una visita al supermercato sotto casa mia: "Spiegami come fanno i greci a vivere'', e il suo tono cela una rabbia che lì per lì non mi spiego. I greci sono i lavoratori fra i meno pagati d'Europa che, ciononostante, devono affrontare gli stessi costi, a volte anche superiori, per i medesimi prodotti di uso quotidiano. ‘'Non so, Peggy'', neanche io so.
La vita a credito, il benessere a prestito, il voler indossare taglie più grandi, il voler essere cicale invece che formiche, il non avere coscienza dei diritti dei consumatori. Forse tutto questo, ma anche qualcosa di più infido ancora, la voglia di non essere gli ultimi, di riscattarsi dall'etichetta del 'parente povero' per cui poco importa che lo stato sia davvero indigente, basta aver parcheggiata, fuori dalla catapecchia, una Mercedes nuova fiammante e ruggente di evasione fiscale, di mazzette al medico, all'impiegato del comune o della regione, all'agente del servizio pubblico in ogni caso.

Ora che la Grecia deve mettersi a nudo agli occhi della Banca Centrale Europea, della Commissione e del Fondo Monetario Internazionale, l'occasione per rimettere in discussione le strutture economiche e politiche della Grecia e dell'Europa ci sarebbe. Ma questa, come tante altre, sarà un'altra occasione sprecata. Così, le voci di Artemis, di Stratos, di Nicoletta e di Peggy, si uniscono nella comune incertezza, in un ''non so'' a chiusura di ogni dialogo, dove la parola 'sviluppo' è oramai un chimerico residuo, sia per il governo del paese, che per i cittadini stessi.

 

 

Sospesi tra baracche, fango e fame di diritti

L'occupazione Josué de Castro è l'emblema della lotta di chi è ridotto a vivere ai margini del sistema e vuole vedersi riconosciuto almeno il diritto alla casa. La storia di Maria

L'occupazione Josué de Castro - dal nome dell'intellettuale brasiliano che denunciò la fame quale flagello costruito dagli uomini contro gli uomini - è l'emblema della lotta di chi è ridotto a vivere ai margini del sistema e vuole vedersi riconosciuto almeno il diritto alla casa. Eppure, la repressione dei lavoratori senza casa e senza terra è talmente grande che sono pochi quelli che riescono a ottenere un tetto e a mantenerlo.

Josué de Castro è un'area dismessa della Michelin, abbandonata da tempo. Sorge nella zona sud di Recife e si estende per 7.200 metri quadri. Il 20 settembre 2008 una novantina di famiglie senza tetto la occupò. Da allora la nuova comunità si è organizzata, aggrappata anima e cuore a questa area e parla per mezzo di un coordinamento, che si riunisce periodicamente per decidere strategie e soluzioni comuni.
Ma la Michelin non ci sta. E attraverso la società prestanome, Nossa Senhora do Carmo Ltda intestataria del terreno, ha presentato una denuncia al tribunale contro gli occupanti. Che si sono fatti aiutare dall'avvocato José Maria do Amaral, il quale si è appellato a vari vizi di forma portando avanti la pratica e infine ha trovato la carta vincente. Il terreno è pignorato dal governo federale e, come recita una legge emessa dal presidente Lula nel 2007, tutte le terre pignorate dall'União serviranno per fini di riforma agraria o urbana. Tradotto: per dare terra a chi non ne ha. E così è. Ma la Michelin non si arrende e la diatriba è bel lontana dall'essere sanata. A discapito di tutti gli abitanti che restano appesi a un filo con la paura che da un giorno all'altro arrivi qualcuno a portar via casa, beni, affetti.

"Mi chiamo Ceça. Sono residente e coordinatrice del terreno occupato Josué de Castro e voglio che tutti sappiano della nostra esistenza". A parlare è Maria da Conceição una delle rappresentanti dell'area ex Michelin. "La mattina del 20 agosto 2008, con più di ottanta famiglie, invademmo e occupammo questa zona. Con noi portavamo molto poco e il terreno era fango ed erbacce. Ma questo non ci impedì di costruirci le nostre baracche. La prima settimana la passammo estirpando, pulendo e raccogliendo spazzatura e resti di animali morti. Resistemmo, nonostante la polizia e altra gente insistesse spesso per farci abbandonare la terra. Quindi arrivò la pioggia, il sole battente, il freddo, il caldo torrido. Ma noi siamo rimasti. E oggi, ogni famiglia alla sua decente abitazione, in conformità alle proprie possibilità. E ci siamo organizzati. Ognuno cura il pezzetto di terreno che ha di fronte a casa che pian piano è migliorato. Oggi, anche in inverno, non c'è una zona impraticabile. Tutto è ben battuto e regge all'acqua. E abbiamo l'energia elettrica".


"A darci una mano - prosegue Maria - ci sono vari settori della società di Recife. Furono loro a contattarci dopo la prima protesta che organizzammo in occasione del primo ordine di sgombero che ricevemmo. Alcuni studenti universitari hanno deciso di abbracciare la nostra causa e con loro abbiamo organizzato un altra manifestazione di protesta, che non è riuscita molto bene ma ci è servita per crescere, come collettività e come persone.
Da quel momento abbiamo iniziato incontri e riunioni con le varie comunità, e con questi nostri nuovi amici abbiamo iniziato a organizzare dibattiti, seminari, conferenze per divulgare la nostra storia. E sempre più gente sta unendosi a noi e alla nostra causa. Ci hanno appena notificato il quarto ordine di sfratto, ma non ci arrendiamo e continuiamo a bussare alla porta delle varie istituzioni competenti. Per questo racconto questa storia, per ingrossare le fila di chi ci sostiene in questa lotta per il diritto alla casa, ma non solo: noi lottiamo per una vita più degna. E abbiamo bisogno di tutti, perché questa lotta è anche la vostra".
L'intento di Maria da Conceiçao è uno solo, far pressione sul presidente Lula affinché, prima di togliere il disturbo, inizi a mettere sulla via della risoluzione la questione agraria dei senza terra e quella urbana dei senza tetto, come promesso e sbandierato in ogni occasione. O per lo meno che faccia rispettare le leggi che già ci sono ma che giacciono lettera morta, inapplicate e inutili.

Stella Spinelli

 

18 febbraio

 

Articolo da Il Fatto Quotidiano del 30 gennaio 2009

Il caso di Renata Polverini fa scandalo sul web nel silenzio della politica

Il caso di Renata Polverini conferma la teoria di Beppe Grillo : internet è spietato. Puoi mentire persino al notaio, come ha fatto la leader del sindacato Ugl per evadere le tasse, ma non puoi mentire alla rete. È impressionante la lettura del sito www.renatapolverini.it . Sono tantissimi i commenti al blog ( ne riportiamo tre, ma sono almeno dieci volte di più ) di persone comuni che scrivono per chiedere conto al candidato delle notizie pubblicate dal Fatto Quotidiano . Il caso dovrebbe essere studiato nelle scuole di comunicazione. L’apertura al web doveva essere la carta vincente della campagna obamiana della sindacalista di destra prestata alla politica.

Purtroppo, alla vigilia dell’inaugurazione del sito, è uscita l’inchiesta del nostro giornale: Renata Polverini ha comprato a prezzo stracciato dallo Ior nel dicembre del 2002 (272 mila euro per sei stanze tre bagni e due box vicino all’Aventino) e non soddisfatta dell’affarone ha anche mentito al notaio per avere l’agevolazione prima casa e pagareil 3 per cento di tasse invece del 10. La sindacalista, infatti, aveva già comprato 9 mesi prima un’altra casa dall’ Inpdap , a un prezzo ancora più basso: 148mila euro per sette vani catastali e un box al Torrino, vicino all’ Eur.

Oggi siamo in grado di aggiungere un dato: anche sull’acquisto di quella prima casa dall’ Inpdap c’è qualcosa che non va. Almeno dal punto di vista etico-politico. Renata Polverini compra con lo sconto in qualità di inquilina dell’ Inpdap ma è costretta a fare una donazione alla mamma di un’altra casa che aveva già comprato nel 2001, perché altrimenti non avrebbe avuto diritto a comprare con lo sconto. Anzi non avrebbe avuto diritto proprio a quella casa che sarebbe così rimasta nel patrimonio dell’ente che ne avrebbe tratto molti più soldi mettendola all’asta.

La storia della casa dell’ Inpdap è poco chiara dall’inizio. Dopo lo scandalo Affittopoli , il ministro Tiziano Treu nel 1997 aveva emanato una circolare vincolante. Le case in affitto dovevano andare prima a poveri, handicappati, sfrattati, militari e giovani coppie. Non è chiaro come abbia fatto Renata Polverini ad avere quella casa. Lo abbiamo chiesto al presidente dell’ente, Paolo Crescimbeni , ex consigliere regionale umbro di An (stessa area della candidata). Ovviamente non ci ha risposto, seguendo l’esempio di Renata Polverini, alla quale abbiamo chiesto ripetutamente un’intervista. Inutilmente.

Eppure sono molte le cose da spiegare: dall’evasione fiscale all’affitto dall’Inpdap. Il silenzio è aiutato dall’atteggiamento della stampa. Tutti tacciono. Compreso Il Giornale di Vittorio Feltri e Libero di Maurizio Belpietro . Erano stati i protagonisti di Affittopoli quando bisognava stanare dai loro appartamenti Massimo D’Alema e Franco Marini . Ora scoprono una politica-sindacalista furbissima che ha dribblato tutti ottenendo una casa con lo sconto e poi ne ha presa una seconda dichiarando il falso per non pagare le tasse. E loro muti. Ma tra i lettori ci sono molte persone che hanno lavorato una vita per comprare la casa e pagare le tasse. Per fortuna ci sono i blog.

 

15 febbraio

L'Aquila aspetta il miracolo

di Primo Di Nicola

Sfollati a quota 40 mila. Macerie ancora da rimuovere. Rischi inquinamento. È lungo l'elenco dei problemi irrisolti. A dieci mesi dal sisma

La nomina a ministro annunciata dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, una commossa lettera di addio agli abruzzesi su una pagina del 'Centro'. Così Guido Bertolaso, capo della Protezione civile, alla fine di gennaio ha passato le consegne al nuovo commissario per la ricostruzione, il presidente della Regione Gianni Chiodi e al suo vice, il sindaco dell'Aquila Massimo Cialente. Se ne è andato con la riconoscenza dei terremotati per il modo in cui la Protezione civile ha offerto i suoi generosi aiuti e l'orgoglio per quanto realizzato per avviare il rientro alla normalità, a cominciare dal Progetto Case (Complessi antisismici ecocompatibili ecocostenibili), oltre 180 edifici, per non parlare di qualche migliaio di Map, le casette in legno. In tutto, Bertolaso ha speso oltre 1 miliardo e mezzo di euro per assistere la popolazione e completare opere in grado di dare un tetto sicuro a oltre 20 mila persone. Un successo, insomma, anche se non sono solo rose. Nell'eredità che lascia a Chiodi ci sono anche problemi: il numero degli sfollati ancora in alberghi e case private; una situazione incandescente nei comuni fuori dal cratere del sisma; una città intasata di macerie; i guasti ambientali provocati dal Progetto Case.

La carica dei 40 mila Il problema più grande è senza dubbio quello degli sfollati aquilani. A oltre dieci mesi dal terremoto e nonostante le promesse del premier che aveva assicurato una casa per tutti entro il 31 dicembre, sono oltre 40 mila gli aquilani che continuano a vivere in hotel (6 mila), caserme (1.100), appartamenti lungo la costa (2.400) e soprattutto in autonoma sistemazione in case in affitto o altro (più di 31 mila). Come mai così tanta gente non è riuscita ad avere un nuovo alloggio o a rientrare nelle proprie abitazioni? La questione non è di poco conto visto che, a parte tutto il resto, assistere questa massa di sfollati costa tantissimo: un giorno in albergo vale fino 70 euro a persona, gli affitti arrivano a un massimo di 800 euro. Morale: dallo scorso aprile sono già stati spesi oltre 220 milioni per dare ospitalità agli aquilani. Certo, i terremotati da sistemare sono risultati tanti, oltre 70 mila, ma le ragioni per le quali ancora oggi circolano tutti questi sfollati, secondo Giustino Masciocco, assessore alle Politiche abitative del comune, "vanno fatte risalire alle stime sbagliate della Protezione civile sul fabbisogno delle abitazioni da costruire per coloro che avevano visto la propria distrutta dal sisma e nei ritardi con i quali si stanno riparando le case poco danneggiate". Una tesi confermata da Cialente che definisce tutto ciò "la nostra Waterloo". Cominciamo dall'errore di calcolo.

Conti in rosso Le cifre dicono chiaramente che rispetto ai 7.181 aventi diritto a uno degli alloggi del Progetto Case in quanto proprietari di abitazioni classificate E ed F (quelle distrutte e le altre inutilizzabili perché vicine ad altre pericolanti) la Protezione civile ne ha costruite solo 5.565, ben 1.616 in meno del necessario. Con il risultato che altrettanti nuclei familiari composti da single giovani e anziani o da coppie sono rimaste senza l'alloggio. Questo errore, a sentire il Comune, è stato determinato dal fatto che il primo censimento dei danni avviato da Bertolaso venne fatto trascurando la 'zona rossa' del centro storico quasi completamente distrutta e lavorando sulla fascia della cinta urbana meno danneggiata. Questa circostanza, unita al fatto che spesso i fabbricati compresi nelle fredde statistiche non erano case monofamiliari ma condomini anche con più di 20 appartamenti, hanno favorito l'errore di stima che ha spinto Bertolaso a fine maggio a fare costruire soli 3.775 alloggi. A dire al verità, anche il Comune aveva avviato un suo screening basato sui dati dell'anagrafe che indicò in circa 12 mila i nuclei che potevano avere bisogno di nuove abitazioni. Ma Cialente, che pure racconta di avere portato queste stime a Bertolaso, non venne ascoltato. Così si è andati avanti nell'errore. Fino a metà agosto, quando alla Protezione civile sono arrivati i risultati di un altro censimento che fissava il numero delle famiglie con abitazione E ed F crollate o inutilizzabili in circa 13 mila. E di questi appunto 7.181 chiedevano l'alloggio del Progetto Case. Solo davanti all'evidenza di questi numeri Bertolaso si decide a rimediare ordinando la costruzione di altri 675 appartamenti, mentre Cialente chiede 1.600 Moduli abitativi provvisori (Map), le famose casette di legno, ottenendone però solo 1.115. Ma nemmeno questa accelerazione è sufficiente: all'appello continuano a mancare ancora 1.616 appartamenti per un totale di circa 2 mila persone che continuano ad alimentare l'esercito degli sfollati.

Avanti piano Ma la fetta più grossa dei 40 mila è senza dubbio quella costituita dagli abitanti meno danneggiati e le cui abitazioni sono state classificate B e C (le A sono quelle agibili), circa 15 mila case riguardanti 30 mila persone. Vista la lieve entità dei danni, riparabili in poche settimane, proprio la veloce sistemazione di queste abitazioni avrebbe dovuto favorire il rientro degli sfollati. Invece, gli interventi più leggeri si stanno rivelando una via Crucis visto che ancora all'inizio di febbraio pochissimi lavori sono partiti. Colpa del caos normativo provocato dai decreti del governo in materia di ricostruzione che ha spinto la gran parte dei terremotati a temporeggiare; della mancanza del prezzario della Regione Abruzzo varato solo a metà settembre; dei lenti controlli sulla regolarità delle pratiche; dell'allungamento dei termini per la presentazione delle richieste di contributo prorogati fino al 31gennaio. Un circolo vizioso che dovrebbe spezzarsi ora che Cialente dice di voler usare il pugno di ferro con l'obbligo di inizi lavori entro sette giorni dalla concessione del contributo pena la perdita dello stesso e di qualsiasi forma di assistenza. Un giro di vite che dovrebbe consentire al massimo entro il mese di agosto il rientro nelle case dei 40 mila sfollati aquilani.

Terremotati invisibili Sono quelli dei comuni fuori dal cosiddetto 'cratere' del sisma dimenticati persino dalle statistiche della Protezione civile (nel suo sito non compaiono). Quanti siano esattamente nessuno lo sa. E già questo la dice lunga sulla delicatezza della questione. Una stima fatta dal consigliere regionale Giuseppe Di Pangrazio, fa ammontare a quasi 10 mila il loro numero. Si tratta di persone di paesi che ricadono dentro le province dell'Aquila, Teramo e Pescara. Solo a Sulmona ce ne sono quasi mille e vivono in albergo o ospiti in abitazioni di amici e parenti. Da questi sfollati 'invisibili' si levano proteste per il diverso trattamento rispetto all'Aquila. Nel loro caso non è stata la Protezione civile a farsi carico dell'assistenza. A queste incombenze hanno dovuto pensare i comuni che, come Pratola, dallo Stato hanno avuto solo 250 mila euro, 100 mila dei quali per fronteggiare l'emergenza e i restanti per finanziare la ricostruzione dei fabbricati. Una miseria considerando che, a Pratola, le richieste di contributo sono state 150 con importi che quasi sempre superano i 40 mila euro. E non basta: avere il contributo non è semplice, occorre dimostrare la relazione tra il danno subito e il terremoto. Il che è facile solo a dirsi, vista la macchinosità dei controlli. La presidente della provincia Stefania Pezzopane chiede per questo "la cessazione della disparità di trattamento". Anche per evitare il ripetersi di quello che è successo a Natale quando nello stesso albergo la Protezione civile ha consegnato pacchi dono ai terremotati dell'Aquila lasciando a mani vuote gli 'invisibili'del cratere.

Un muro di macerie Tra quelli aperti lasciati in eredità dalla Protezione civile, secondo l'assessore alle politiche ambientali dell'Aquila Alfredo Moroni, quello delle macerie "è il problema dei problemi". Nonostante un'intesa raggiunta con il comune nei mesi scorsi per risolvere lui la questione, Bertolaso ha passato le consegne lasciando per le vie del centro storico ancora chiuso circa 4 milioni di tonnellate di materiale frutto di crolli e demolizioni. E ora questa enorme massa impedisce la circolazione dei mezzi necessari ad avviare anche la minima riparazione degli immobili danneggiati, come a piazza S. Maria Paganica oppure nella storica via Cascina. La questione non è trascurabile: "Se non liberiamo le strade", spiega Moroni, "non è possibile nemmeno avviare la ricostruzione". Per questo Cialente aveva scritto a Bertolaso sollecitandolo ad allestire i siti necessari allo smaltimento dei rifiuti. Il sindaco aveva addirittura invocato l'impiego del Genio militare. Ma senza successo. Così oggi per la drammatica emergenza aquilana è in funzione un solo sito per lo smaltimento delle macerie, mentre altri due potrebbero essere allestiti a breve. Ad appesantire la situazione c'è poi la circostanza che la normativa in materia è particolarmente spinosa. E gli amministratori preferiscono procedere con i piedi di piombo per evitare guai giudiziari. Se comunque anche gli altri due impianti verranno aperti, con una spesa di 30 milioni di euro nel 2010 verranno rimosse 1 milione di tonnellate di detriti, quasi un terzo del totale. Ma occorre fare di più: con questo ritmo ci vorranno infatti tre anni per aprire le vie del centro storico ai mezzi necessari alla ricostruzione. Troppi.

Chi inquina di più L'emergenza del terremoto in Abruzzo si è aggiunta a un'altra, quella ambientale del fiume Aterno. A questo fiume il cui bacino è da sempre assediato dagli scarichi fuori norma di molti paesi e persino della facoltà di ingegneria ambientale dell'università dell'Aquila, la Protezione civile ha assestato un altro colpo con le fogne non depurate di alcuni insediamenti del Progetto Case: quelli di Assergi, Camarda e Paganica che vanno a inquinare l'affluente Vera; ma soprattutto quello di Bazzano, per il quale l'associazione Libera si appresta a scendere sul sentiero di guerra, completato in fretta e furia per consentire a Berlusconi di consegnarlo ai terremotati il 29 settembre, giorno del suo compleanno.

Il caso di Bazzano è singolare perché proprio al di sotto delle nuove case che ospitano circa 2 mila terremotati è in costruzione un depuratore voluto da Adriano Goio, commissario governativo per l'emergenza ambientale del fiume Aterno, per pulire gli scarichi dell'abitato preesistente. A causa dei ritardi dell'Enel, il depuratore non è però funzionante per mancanza di energia. Ciononostante, il consorzio Forcase incaricato da Bertolaso di realizzare le abitazioni dei terremotati ha iniziato a scaricare senza preavviso nella condotta del depuratore. Morale: Goio ha chiuso con dei palloni l'accesso all'impianto e solo per carità di patria, per non creare altri dispiaceri ai terremotati bisognosi di quegli alloggi, ha autorizzato il consorzio a scaricare la fogna direttamente nel fiume. Solo negli ultimi giorni Goio ha autorizzato la reimmissione della fogna nel depuratore, che però continua a non funzionare.

 

Se gli Stati Uniti si ritirano dalla lotta all'Aids

La crisi economica costringe Obama a tagliare i fondi per la lotta al virus in Africa

Ci sono luoghi del mondo in cui l'ex presidente degli Stati Uniti George W. Bush è venerato come una divinità, mentre quello attuale, Barack Obama, è considerato un criminale. E questo non per una guerra che il nuovo inquilino della Casa Bianca ha scelto di combattere ma per una da cui si starebbe ritirando. Suscita forti preoccupazioni, infatti, la decisione del governo americano di congelare gli stanziamenti per la lotta all'Aids in Africa, finora raccolti nel programma denominato President's Emergency Plan for Aids Relief (Pepfar), varato da Bush nel 2003, con un budget di 15 miliardi di dollari da spendere in cinque anni, rinominato e ampliato nel 2008 (48 miliardi di budget).

Una decisione politica con una ricaduta decisamente concreta, soprattutto nell'Africa Sub-sahariana, dove alla fine del 2008 si registravano 22,5 milioni di malati (e due milioni di morti) sui circa 35 milioni di persone contagiate nel mondo. In Uganda, ad esempio, un Paese con un tasso di infezione del 6,4 per cento (sono 31 milioni gli abitanti), il Pepfar ha stanziato 930 milioni di dollari tra il 2003 e il 2008, garantendo trattamenti antiretrovirali a oltre 150 mila persone. Qui, i nuovi malati non avranno accesso ai trattamenti specialistici e non è chiaro cosa succederà ai pazienti già in cura. La portavoce del progetto Pepfar per l'Uganda, Lynne Mc Dermott, assicura che il fondo continuerà a garantire i due terzi degli stanziamenti e che ai pazienti già in cura le terapie proseguiranno. Ma non è questa la storia raccontata all'Agence France Press da Douglas Mugabi, un contadino affetto da Aids, come la moglie, assistita gratuitamente dal 2006: "Quando mi sono presentato in ospedale e ho scoperto che la terapia non era più gratuita mi è venuto freddo. Mia moglie è preoccupata perché i farmaci sono costosi e noi non possiamo permetterceli".

Il ripensamento americano, però, non è arrivato all'improvviso. Lo scorso luglio, nel corso dell'Hiv/Aids Implementors' Meeting, svoltosi a Windhoek, in Namibia, Micelle Maloney-Kitts, l'assistente del coordinatore del programma americano anti-Aids, aveva annunciato che gli Stati Uniti avrebbero ripensato la strategia assistenziale: "Nel prossimo futuro ci sarà un livellamento dei fondi, cosa che creerà delle prevedibili tensioni".
Gli Stati Uniti, insomma, optano per un disimpegno strategico, pressati soprattutto dalla crisi economica e passano la palla ai governi locali. Il problema è che altri Paesi donatori hanno fatto un passo indietro. Come gli Usa, anche il Global Fund ha chiesto ai governi locali di farsi carico degli interventi, senza che questi siano in grado di farlo.

Una maggiore efficienza nella gestione degli stanziamenti, però, appare necessaria. La pioggia di aiuti indiscriminati, infatti, ha portato negli anni ad un proliferare della corruzione dei burocrati africani e alla nascita di un'industria che ruota attorno alle ong. Secondo recenti studi, in Uganda sono 350 mila le persone che avrebbero bisogno di terapie antiretrovirali ma i farmaci arrivano soltanto a 150 mila malati, nonostante l'Uganda produca quei medicinali e benefici di generose donazioni. Il Global Fund ha chiesto allo Zambia di restituire 7,2 milioni di dollari, che sarebbero stati spesi dal governo per altri scopi e un contenzioso simile è in corso in Kenya.
Inoltre, mentre la lotta all'Aids assorbiva la quasi totalità delle risorse, ci si dimenticava di altre malattie che in Africa sono ancora altamente mortali. Secondo i dati dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, la diarrea uccide ogni anno un milione e mezzo di bambini sotto i cinque anni nel mondo (750 mila solo in Africa) ma assorbe solo il 5 per cento dei fondi destinati alle cure e alle ricerche. La malaria miete circa 400 mila vittime ogni anno, e altre 350 mila persone muoiono per complicazioni durante il parto.
Ma forse sarebbe meglio ripensare la strategia senza interrompere l'assistenza, perché i costi potrebbero essere superiori ai guadagni. Per rendersene conto, basta leggere il rapporto di Doctors without Borders dello scorso novembre, intitolato - non a caso - "Punishing Success in Tackling Aids", sugli effetti che un disimpegno dei Paesi più sviluppati potrebbe avere in Africa.

Alberto Tundo

 

India, la fabbrica dei veleni

Nell'Orissa una raffineria di prodotti chimici minaccia la sopravvivenza della tribu' Dongria Kondh

E' allarme inquinamento a Lanjigarh, nello stato dell'Orissa, India orientale. Secondo un rapporto pubblicato oggi da Amnesty International, l'attività di un impianto di raffinazione di un composto chimico ricavato dall'alluminio metterebbe in grave pericolo la salute degli abitanti della zona.

Terreni contaminati, acqua avvelenata. Nel mirino dell'organizzazione impegnata nella protezione dei diritti umani c'è la Vedanta Resources, società mineraria con sede a Londra e guidata dal magnate Anil Agarwal. Secondo Amnesty, la raffineria di Lanjirgarh, sua sussidiaria, sarebbe la responsabile del forte (e crescente) inquinamento dell'area. In particolare, sono le condizioni del Vamsadhara, uno dei principali corsi d'acqua della regione, a preoccupare di più. E' lì che finiscono le acque reflue durante il processo produttivo. E adesso gli abitanti non osano più berla, né farci il bagno. Si diffonde il panico anche per quanto riguarda il cibo. I fumi e le polveri emesse dalle ciminiere si posano sugli alberi, sulle piante, sui terreni coltivati, vengono inalate e mangiate da uomini e animali. Entrano nelle case, si depositano su mobili e vestiti. E, probabilmente, sono le responsabili delle difficoltà respiratorie e dei fastidi accusati dagli abitanti del distretto.

Ma la Vedanta Resources, stando al rapporto di Amnesty International, guarda oltre, pensa in grande e progetta di estendere il raggio delle sue operazioni, aprendo una miniera di bauxite nei dintorni, a Niyamgiri Hills. Senza aver cercato un accordo con la tribù dei Dongria Kondh, che da secoli occupa quel territorio e il cui sostentamento dipende dal fiume e dai raccolti. E qui si apre il secondo capitolo delle accuse mosse da Amnesty, secondo cui la Vedanta non avrebbe coinvolto la tribù locale in alcun processo di informazione e consultazione, prima della costruzione della miniera.

"Le persone hanno diritto all'acqua e ad un ambiente sano ma la Vedanta non ha rispettato questi diritti", ha detto Kate Allen, direttrice di Amnesty per il Regno Unito. "Ai contadini sono state date informazioni incomplete e fuorvianti a proposito dell'impatto della raffineria e della nuova miniera. Oggi gli abitanti vivono all'ombra di un impianto di raffinazione imponente, respirano aria inquinata e hanno paura di bere o fare il bagno in un fiume che è una delle principali fonti d'acqua della regione", ha continuato la Allen.

Effetti inquinanti conosciuti da tempo. I vertici della compagnia rigettano le accuse e sostengono che siano stati i fertilizzanti impiegati dai coltivatori della zona ad aver causato l'inquinamento dei corsi d'acqua. Ma resta da spiegare l'inquinamento atmosferico.E le autorità indiane? Al momento sembrano glissare. La Vedanta sostiene che il piano preliminare di ampliamento abbia avuto il via libera della Corte Suprema. Insomma, si starebbe muovendo con il pieno appoggio del governo indiano e del potere giudiziario. Eppure, le autorità locali avrebbero potuto intervenire. Stando al rapporto, infatti, l'organismo responsabile del controllo dell'inquinamento per lo stato dell'Orissa aveva documentato, già a partire dal 2006, una forte crescita dell'alcalinità del Vamsadhara e della polluzione più in generale, prodotti dall'impianto di Lanjigarh. Gli stessi analisti avevano accertato che la Vedanta Resources stesse gestendo la raffineria senza aver adottato sistemi antinquinanti e filtri a tutela dell'ambiente e della popolazione. Queste informazioni, tuttavia, non sono mai state diffuse.

Se, al momento, da Nuova Delhi non sono arrivati provvedimenti, qualcosa sembrerebbe muoversi in Gran Bretagna, dove la Chiesa d'Inghilterra ha annunciato di essersi liberata di azioni della compagnia mineraria per un valore di 2,5 milioni di sterline (2,8 milioni di euro). Gli stessi Dongria Kondh, ridotti ormai a poche migliaia di unità, stanno cercando di sensibilizzare l'opinione pubblica internazionale, guadagnandola alla loro causa. Ieri hanno chiesto al regista di Avatar, James Cameron, di aiutarli ad impedire che Vedanta apra una miniera in quella che è la loro terra sacra.
Lo stesso appello rivolto da Amnesty International alle autorità indiane, perché fermino un'operazione che rischia di fare scempio dell'ecosistema dell'area e portare all'estinzione di una intera tribù.

Alberto Tundo

 

8 febbraio

 
 

L'acqua pubblica nell'urna

di Andrea Palladino

Cento anni ha compiuto ieri Acea. Era l'epoca del sindaco Nathan, ebreo di origine inglese, laico e antipapalino. Fu lui a volere una grande azienda pubblica per la gestione dell'acqua e dell'elettricità nella capitale d'Italia. Ieri, a dieci anni dalla creazione della Spa quotata in borsa, Ratzinger ha ricevuto in udienza i dirigenti di Acea, pronti a fare il grande salto definitivo verso la completa privatizzazione. La via era stata aperta dalla coppia Rutelli-Lanzillotta nel 1999, ed oggi viene completata da Alemanno e dal decreto Ronchi sulla privatizzazione dell'acqua, approvato dal governo Berlusconi alla fine dello scorso anno. Il sindaco di Roma ha dato il suo placet politico, annunciando la cessione di buona parte di quel 51% ancora pubblico.
Benedetto XVI ha evitato accuratamente di parlare di acqua pubblica, mantenendosi molto vago su cosa significhi la gestione privata dei beni comuni. Altri tempi rispetto alla Roma di Nathan. E ben altra chiesa rispetto a quella fuori dalle mura vaticane, che con la voce di padre Alex Zanotelli gridava «maledetti voi» verso chi ha votato per la cessione ai privati delle risorse idriche.
Parodossalmente è lo stesso silenzio del papa a far capire che la partita sulla privatizzazione dell'acqua è però tutt'altro che chiusa. Il Forum italiano dei movimenti per l'acqua sta avviando due iniziative nazionali, raccogliendo l'adesione ampia di interi pezzi della società civile, dal mondo cattolico legato al sociale, fino alle principali associazioni ambientaliste e a parti importanti del sindacato. Un fronte largo, senza i partiti, che entreranno solo con adesioni, per sottolineare l'assoluta trasversalità dei beni comuni.
La prima tappa sarà la manifestazione nazionale del 20 marzo a Roma, una settimana prima del voto, proprio per ricordare come necessariamente la politica debba confrontarsi con i movimenti per l'acqua pubblica. Un mese dopo, in aprile, partirà la raccolta delle firme per il referendum, che non si limiterà all'abrogazione di quella parte del decreto Ronchi che impone la cessione ai privati della gestione delle risorse idriche. Sarà una vera e propria consultazione popolare su un tema chiaro e decisivo: gestione pubblica per tutti i servizi idrici o mantenimento dell'attuale legislazione, con l'apertura al capitale speculativo degli acquedotti. Un si alla ripubblicizzazione, unica strada divenuta oramai percorribile.
Sarà sul referendum che si convoglierà, nei prossimi mesi, il dibattito che va avanti da almeno quattro anni in Italia sul sistema idrico, sui fallimenti delle gestioni private e miste pubblico-private, sugli investimenti che i privati non hanno fatto e che mai faranno, sulla qualità dell'acqua che è peggiorata, con punte allarmanti.
Di certo la questione non è finita con l'approvazione del decreto Ronchi. Il tema della gestione dell'acqua sta entrando prepotentemente nelle prossime elezioni regionali. Prima la Puglia di Vendola, che con coraggio ha approvato una legge d'indirizzo, con l'obiettivo di chiudere la gestione della Spa degli acquedotti pugliesi per arrivare ad un vero sistema pubblico, blindato rispetto ai tanti appetiti speculativi. Poi la regione Lazio, dove in almeno tre province - Roma, Latina e Frosinone - la gestione è di fatto già privatizzata. E in questo caso il nodo centrale è Acea, primo gestore idrico italiano. Ieri Renata Polverini ha chiarito la sua posizione, spiegando che «si tratta di privatizzare il servizio» va tutto bene. Che è poi il contenuto della legge approvata dal centrodestra. Ha così rassicurato il suo scudiero in terra pontina Claudio Fazzone - presidente di Acqualatina - e il suo alleato Udc, molto vicino, come è noto, agli interessi di Caltagirone, principale socio privato italiano di Acea.

 

'Gli Ogm? Il colpo di grazia per la nostra agricoltura'

Dietro ci sono soltanto enormi interessi economici e probabili conseguenze sulla nostra salute, quindi prima di credere a quella o a quell'altra parte, domandiamoci sempre: cosa e chi ha da guadagnarci?

Ogm sì, Ogm no. L'eterna lotta fra opposti schieramenti che si scontrano intorno a questi famosi sconosciuti organismi geneticamente modificati non ha colore politico, né partiti. "Dietro ci sono soltanto enormi interessi economici e probabili conseguenze sulla nostra salute, quindi prima di credere a quella o a quell'altra parte e prendere posizione, domandiamoci sempre: cosa e chi ha da guadagnarci?". È così che Marina Mariani, agronoma, specializzata in Ogm, docente di legislazione e sicurezza alimentare al Politecnico del Commercio di Milano, ci spiega la complessa questione del transgenico, tornato alla ribalta delle cronache proprio in questi giorni grazie alla decisione del Consiglio di Stato di sollecitare risposte concrete alle richieste di quegli agricoltori che intendono coltivare mais Ogm. "E si tratta del tipo più pericoloso, il mais Mon 810, attenzione", precisa la studiosa.

Ma andiamo per gradi. Gli organismi geneticamente modificati più coltivati nel mondo sono prevalentemente sei: soia, mais, colza, cotone, riso e frumento. Dediti alla loro produzione, 125milioni di ettari sparsi in 23 paesi. Una quantità enorme, diffusa principalmente negli Stati Uniti, quindi in Argentina, Brasile, Canada, Cina e India. Eppure, a tirare le fila dell'immane mercato che ne consegue e a goderne i golosi proventi sono davvero in pochi, molto pochi. Cinque per l'esattezza, cinque grandi multinazionali: Monsanto, Du Pont, Syngenta, Bayer Crop Science e Dow, che gestiscono attualmente il 35 percento del mercato mondiale delle sementi, alimenti base per il cinquanta percento della popolazione mondiale. Un business da capogiro.

"Gli Ogm - ci spiega Marina Mariani - sono organismi definiti "sostanzialmente equivalenti" a quelli prodotti in natura, ma, attenzione, è proprio in quell'avverbio che si nasconde un mondo di pericolosi non detti, supportati da scarse ricerche scientifiche, che quando producono risultati scomodi vengono secretate o insabbiate. La cosa che inquieta è che sono le medesime multinazionali produttrici Ogm a garantire sulla salute dei consumatori, gestendo direttamente analisi e controanalisi. Che mai e poi mai sono state ufficialmente affidate a centri di ricerca indipendenti. Eppure, tanti scienziati e dei più svariati paesi al mondo ne hanno dimostrato la pericolosità. Come si spiega il fatto che l'Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) basi il suo giudizio finale esclusivamente sugli studi dell'industria che li vende?".

E se gli Ogm sono stati presentati come l'invenzione che avrebbe sconfitto la fame nel mondo, i numeri e le ricerche smentiscono questa affermazione, additandola come l'ennesima bufala ai danni dei consumatori e a tutto vantaggio dei produttori, che controllando il mercato delle sementi "controlleranno il mondo". "I semi Ogm non sono più produttivi di quelli naturali - spiega l'agronoma - né tanto meno scongiurano l'uso di pesticidi. Anzi. Diciamo è provato che gli Ogm stimolano la selezione naturale di piante e insetti, sempre più resistenti ai vari pesticidi, che quindi dovranno continuare a essere usati sempre in maggiori dosi e sempre diversi. E guarda caso, chi è che produce i pesticidi perfetti per queste sementi? Multinazionali quali la Monsanto naturalmente. Una maniera per stringere ancor più il legame con i compratori, che così facendo diventerà perenne. È ormai risaputo, infatti, che sta per essere introdotto in ogni singolo seme modificato il gene terminator, un'invenzione diabolica che provocherà l'aborto dei semi di seconda generazione, in modo che gli agricoltori Ogm siano costretti ad ogni stagione a ricomprare nuove sementi, diventando schiavi del produttore". La diffusione Ogm rende l'agricoltura definitivamente dipendente dalle industrie sementifere e se si aggiunge il fatto che la diffusione Ogm è irreversibile i conti son presto fatti. "Sì - ci spiega l'esperta - una volta piantato un alimento Ogm nel terreno non si torna indietro, perché la diffusione di questi prodotti è incredibilmente alta e una volta piantato si spargerà, contaminando i terreni nei dintorni, i cui effetti dureranno anni". Per questo nei paesi ad alta coltivazione Ogm sono state imposte ferree distanze di sicurezza tra Ogm e prodotti biologici. Distanze impossibili da rispettare in Italia, dove i campi sono troppo piccoli per permettersi ettari ed ettari da destinare a fungere da aree di sicurezza anti Ogm. Quindi, più agricoltori italiani pianteranno Ogm, più alimenti biologici ne verranno contaminati accidentalmente e le conseguenze sulla salute saranno imprevedibili. "Premettendo che mai nessuno ha eseguito test Ogm su persone per più di un giorno, da quanto emerge dagli studi sui topi, il consumo di prodotti geneticamente modificati porta allergie e forme tumorali molto gravi. Da uno studio statunitense emerge che in Usa dal 1996 sono aumentati i disturbi gastrointestinali, le allergie, le infezioni, i tumori del sistema linfatico, della prostata, del pancreas e del seno, e il fatto che quella data corrisponda al lancio degli Ogm non può essere una mera coincidenza".

Eppure, c'è chi difende gli Ogm a spada tratta, appellandosi però non al fatto che fanno bene, bensì al fatto che nessuno ha mai provato che una malattia sia stata provocata direttamente dal consumo di Ogm. Fra questi Federico Vecchioni, presidente di Confagricolutra: "Al mondo c'è chi coltiva così 111 milioni di ettari. Non credo per annientare la specie umana, ma perché ritiene di essere al servizio della scienza", ha spiegato lanciando la polenta transgenica alla Fieragricola di Verona. Questa l'approssimazione di chi vede dietro ai geneticamente modificati solo una montagna di soldi. "Che poi è tutto da dimostrare se i contadini che ne faranno uso avranno dei guadagni - precisa l'agronoma - non vorrei mai che si ritrovassero come i coltivatori di cotone Ogm indiani, molti dei quali, strozzati dai debiti, non hanno visto altra scelta che il suicidio. Mi sento anzi di dire che l'intrusione degli Ogm in Italia sarà il colpo di grazie per la nostra agricoltura".

E le leggi? Sia quelle italiane che le europee si basano sul principio espresso dal presidente della Commissione Agricoltura del Parlamento europeo, Paolo De Castro: "E' giusto e sacrosanto il diritto dei consumatori di sapere se un prodotto contiene o no Ogm, ma è altrettanto sacrosanto il diritto degli agricoltori di scegliere se coltivare o no produzione Ogm in Europa". Quindi un appello alla libertà, che nella pratica non viene rispettato. "Impossibile sapere cosa si mangia veramente - spiega l'agronoma - perché le norme stabiliscono che se un Ogm è presente entro lo 0.9 percento non deve essere segnalato. Percentuale che l'Ue tollera persino nei prodotti marcati Bio. Quindi dove sta la libertà?".

L'unica via d'uscita dunque per quel 74 percento di italiani contrari ai geneticamente modificati e per quelle 172 regioni e 4500 enti "Ogm free" è "non abbassare mai la guardia, controllare attentamente le etichette di quel che si acquista, preferire i Bio nonostante i rischi accidentali e non smettere di lottare". Con un avvertenza, gli unici paesi espressamente ani-Ogm sono Austria, Cipro, Francia, Grecia, Ungheria, Lituania, Lussemburgo, Polonia, Slovenia, Romania.

Stella Spinelli

 

Una scuola elitaria

La riforma del ministro Gelmini introduce una riduzione degli indirizzi di studio e delle ore scolastiche

“Una riforma epocale”. Così il ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini ha definito la riforma delle scuole superiori. Anche il premier Silvio Berlusconi è intervenuto per lodare l'operato del ministro che avrebbe finalmente messo a punto la riforma giusta per creare “una scuola per le imprese”. Ridotti gli indirizzi e le ore di lezione. La Gelmini ha parlato di snellimento del sistema scolastico. Sindacati e addetti ai lavori di tagli. Il nostro Paese sembra destinato a non trovare un accordo sulla scuola. Ogni volta che qualcuno prova a mettere ordine, lo schieramento politico opposto grida e contesta. Risultato l'immobilismo.

“Non è una riforma
– ha detto Domenico Pantaleo, delegato nazionale della Federazione lavoratori della conoscenza (Flc) della Cgil -. Piuttosto un'applicazione rigorosa dei tagli decisi dal ministro Tremonti che porteranno a un ulteriore indebolimento delle superiori”. Il responsabile della Cgil non contesta la riduzione degli indirizzi, fondamentale per mettere un po' d'ordine nel ginepraio delle possibilità e delle sfumature di studio tra cui i ragazzi potevano scegliere, né il potenziamento di alcune discipline, quali le lingue. Peccato, però, che il potenziamento sia fatto a discapito di alcune materie. Non ultima la geografia che pure permette di orientarsi e conoscere il mondo in cui viviamo.

“Ci sono molti aspetti della riforma – prosegue Pantaleo – che non ci convincono. In primis la soppressione del biennio unitario. Un ragazzo di tredici anni si trova così a dover effettuare una scelta irrevocabile, senza poter tornare indietro. Non siamo nemmeno d'accordo sulla diminuzione dell'orario scolastico. All'incirca salteranno 17mila cattedre. Altri posti di lavoro che vanno in fumo. La Gelmini ha citato il modello della Finlandia. Benissimo. Ma noi non andiamo in quella direzione. In Finlandia hanno meno ore frontali, ma molti laboratori pratici”. Nel corso della conferenza stampa congiunta Gelmini-Berlusconi i riferimenti al modello europeo di istruzione sono stati continui. Lì si vuole arrivare. O almeno è quello che si vuole far credere, perché è difficile che, continuando a sottrarre risorse all'istruzione, si vada migliorando il servizio.

Ma l'aspetto della riforma che preoccupa maggiormente Pantaleo è il progressivo avvicinamento a un'idea classista di scuola. “Avremo i licei per i ragazzi che possono permettersi il lusso di studiare – afferma Pantaleo – mentre agli istituti tecnici e ai professionali andranno quelli con meno possibilità. Se a questo si aggiunge il fatto che gli studenti ora possono scegliere di frequentare l'ultimo anno, facendo apprendistato, ritorniamo all'avviamento lavorativo. Altro che scuola europea, torniamo a un modello ottocentesco”. Classismo, che per la Flc non riguarderebbe solo gli alunni con meno possibilità economiche, ma anche quelli con difficoltà di apprendimento. Anche loro rientrerebbero, infatti, nella categoria di coloro con meno chances.

Benedetta Guerriero

 

India, il coraggio di Sobi

Scampata all'ennesima strage di contadini commessa dai paramilitari antimaoisti, prova a denunciare quanto accaduto ma finisce agli arresti

Sodi Shambo è una ragazza adivàsi (tribale) di 28 anni che viveva nel villaggio di Gompand, nelle foreste dello stato indiano di Chhattisgarh: principale roccaforte della guerriglia contadina maoista 'naxalita'. La mattina dello scorso primo ottobre, mentre suo marito era a lavorare nei campi, sono arrivati i paramilitari del 'Salwa Judum', la famigerata milizia regionale creata dal governo nel 2005 per dare la caccia ai sovversivi 'rossi' e ai loro sostenitori. I miliziani hanno aperto il fuoco all'impazzata, colpendo a morte nove persone, anziani, donne e bambini. Una pallottola ha colpito Sodi alle gambe, ferendola gravemente.

Il Ghandi del Chhattisgarh.
Assieme ad altri civili feriti nel raid dei paramilitari, Sodi è stata curata e assistita per settimane nell'ashram Vanvasi Chetna di Dantewada, gestito dal popolare attivista ghandiano Himanshu Kumar, l'unico difensore dei diritti degli adivàsi rimasto in Chhattisgarh nonostante le persecuzioni delle autorità. Dopo aver passato quindici anni a girare per i villaggi della foresta portando assistenza medica e insegnando ai tribali i loro diritti civili, dal 2005, dopo l'inizio della campagna governativa contro i naxaliti, il 'Ghandi del Chhattisgarh' ha iniziato a raccogliere dalle comunità locali e a presentare alle autorità statali e federali le denunce di abusi, torture, stupri, rapimenti e omicidi commessi dalla polizia e dai paramilitari.

Dalla denuncia alla lotta. Nel corso del 2009, con l'intensificarsi della campagna anti-maoista, la situazione in Chhattisgarh si è fatta sempre più drammatica e il lavoro di Kumar è diventato sempre più rischioso. Lo scorso maggio il suo ashram è stato distrutto da un incendio doloso e poi sono iniziate le intimidazioni delle autorità. Ma lui non si è lasciato intimorire. Anzi, a metà dicembre ha deciso di organizzare un'assemblea pubblica con gli adivàsi per denunciare la situazione e una marcia di protesta nonviolenta. Ma le autorità glielo hanno impedito: centinaia di miliziani del 'Salwa Judum' hanno circondando il nuovo ashram, la polizia ha arrestando i principali collaboratori di Kumar e lui è stato minacciato e invitato a lasciare lo stato.

Repressione e censura. Chiuso in casa, con una jeep della polizia parcheggiata notte e giorno fuori dalla porta, Kumar ha iniziato uno sciopero della fame. Nei giorni successivi, intorno al 20 dicembre, le autorità statali hanno convocato nel capoluogo Raipur una conferenza stampa nel corso della quale i giornalisti locali sono stati messi in guardia sulle conseguenze legali dello scrivere articoli antigovernativi. I giornalisti di Dantewada sono poi stati convocati dal capo della polizia che li ha avvertiti di stare attenti, perché li stavano "tenendo d'occhio". Il 29 dicembre, una delegazione di professori dell'Università di Nuova Delhi è arrivata a Dantewada per capire cosa stava succedendo, ma la polizia li ha gentilmente invitati a tornate a casa loro, con il pretesto dei rischi per la loro sicurezza. Lo stesso è accaduto a giornalisti venuti da altri stati indiani.

Il coraggio di Sobi. Nel frattempo Sobi, terminata la convalescenza nell'ashram, ha deciso di andare a Raipur e a Nuova Delhi per denunciare l'eccidio di contadini cui era stata testimone nel suo villaggio. Così il 3 gennaio lei e Kurram sono partiti in auto alla volta del capoluogo, ma la polizia li ha fermati e arrestati. Lui è stato rilasciato con la minaccia di un'assurda accusa di sequestro di persona riguardante Sobi. Lei è stata trasferita all'ospedale governativo di Jagdalpur, dove è di fatto reclusa sotto sorveglianza e con il divieto di ricevere visite. Amnesty International ha chiesto il suo rilascio immediato alle autorità statali del Chhattisgarh, finora senza risultati.

E ora sarà guerra vera. Per le popolazioni tribali del Chhattisgarh, e degli altri stati indiani in cui è attiva la guerriglia maoista, la situazione è destinata a peggiorare ulteriormente d'ora in avanti. Nei giorni scorsi il ministro dell'Interno, P. Chidambaram, ha annunciato l'avvio della tanto propagandata operazione 'Green Hunt' , per la quale quarantadue battaglioni della polizia federale sono stati dislocati nelle ultime settimane in Chhattisgarh, West Bengal, Jharkhand, Orissa, Bihar e Maharashtra.

Enrico Piovesana
 

4 febbraio

220 milioni di euro in fumo

E' crollato dopo due settimane dall'inaugurazione, avvenuta alla presenza del ministro degli Esteri italiano che suggellava l'ingente impegno italiano in questo mega progetto. E' il Gilgel Gibe II, impianto idroelettrico nel cuore dell'Etiopia

E' crollato dopo due settimane esatte dall'inaugurazione del 13 gennaio scorso, avvenuta alla presenza del ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, che suggellava con la sua presenza l'ingente impegno italiano in questo mega progetto. Si tratta del Gilgel Gibe II, il tunnel di 26 chilometri costruito per generare energia sfruttando la differenza di altitudine fra il bacino della Gilgel Gibe I e il fiume Gibe. Siamo nel cuore dell'Etiopia, nella valle del fiume Omo, un paradiso che sta per sparire, ingoiato dalla rapacità di governi e grandi interessi, che nelle acque cristalline dell'importante fiume ci vedono solo energia e tanti soldi. Dietro a questo misero flop, infatti, c'è un intreccio di interessi e business a nove cifre, che occorre analizzare passo passo, per arrivarne a capo.

Il bacino dell'Omo e i suoi affluenti, da 15 anni, sono oggetto di una morbosa attenzione non solo delle istituzioni etiopi, ma anche italiane e quindi europee, con i fondi delle quali sono già nati non solo l'impianto idroelettrico dai piedi d'argilla, ma anche una diga a cui il tunnel si collegava. E in ponte ce n'è una terza, ossia il più grande progetto idroelettrico mai realizzato nel paese africano, che è già in via di costruzione.

A aprire i battenti del business energetico nel paese africano è stata, dunque, la costruzione della Gilgel Gibe I, la diga medio-grande che prende il nome dal fiume che confluendo nel Gibe dà vita con il Gojeb all'Omo, il quale per seicento chilometri irriga una regione dalla biodiversità eccezionale (l'Unesco ha dichiarato la bassa valle dell'Omo Patrimonio dell'Umanità). A ruota è stato quindi messo su il Gilgel Gibe II e infine sta svilppandosi la Gilgel Gibe III, mega diga in via di costruzione dal 2006, che prevede un salto di 240 metri per una potenza di 1870 Mw. Costo: 1,4 miliardi di euro.

E, se per la prima costruzione, a farne le spese sono state diecimila persone, sfollate a forza da quello che adesso è il bacino idroelettrico della Gilgel Gibe I, per il progetto da mille e una notte a rimetterci saranno in duecentomila. Con conseguenze facilmente prevedibili, viste le condizioni di vita che già stanno sopportando i primi sfollati. A raccontarcele sono i responsabili della Campagna per la riforma della Banca Mondiale, costola di Mani Tese, che da tempo seguono la vicenda, con escursioni sul luogo e rigorosi studi di impatto ambientale. Perché la Crbm è coinvolta? Perché ognuno di questi progetti ha visto il coinvolgimento diretto o indiretto della Banca Mondiale, della Banca europea per gli investimenti e dei finanziamenti della cooperazione internazionale. Anche italiana.

"Le comunità coinvolte hanno subito un graduale impoverimento - raccontano - Le famiglie sono state insediate in una zona semi-paludosa poco fertile e con appezzamenti di terra inferiori a quelli che prima possedevano. L'aumento della densità di popolazione ha creato un conflitto con le comunità residenti per la gestione dei pascoli, dato che per la loro scarsità, numerose famiglie hanno perso fino all'80 percento del bestiame. Il tutto nella totale mancanza di servizi di base. Nonostante le abitazioni siano sovrastate dai cavi dell'alta tensione, non hanno luce né acqua corrente. Gli accordi parlavano di nuove scuole, che invece non ci sono. Si sono limitati a ristrutturare le vecchie, che ora devono gestire fino a 1.100 studenti. E molti vivono a due ore di cammino. Inoltre il bacino ha inondato la strada asfaltata che collegava la città di Jimma alla capitale, isolando i villaggi e costringendo i mezzi di trasporto ad aggirare il bacino su un percorso sterrato di quasi 40 Km".

Incombenti le malattie. "La creazione del bacino ha incrementato l'incidenza della malaria e di altre malattie trasmissibili, come l'Hiv. La presenza di migliaia di lavoratori provenienti da tutto il Paese ha aumentato la prostituzione e, dato che la popolazione non è stata sottoposta ai controlli sanitari periodici previsti nelle misure di mitigazione, il virus si è diffuso a dismisura".

Ingenti i danni ambientali. "La diga non rilascia il flusso minimo previsto per garantire la sopravvivenza dell'ecosistema. Si passa dall'assenza di ogni rilascio durante la stagione secca, al riempimento fino al limite eseguito durante la stagione delle piogge per sfruttarne al massimo la potenza, per poi procedere con rilasci di emergenza a protezione dell'infrastruttura. Si tratta di una gestione irresponsabile che provoca scompensi, molto pericolosi. Nell'estate del 2006, nei distretti di Dashenech e Nyangatom, lungo il fiume Omo, un'alluvione ha provocato la morte di 364 persone, la distruzione di 15 villaggi e 15.000 profughi".

A rendere tutto ancora più grave c'è la discutibilità dei metodi usati per ottenere i permessi necessari, che in alcuni casi non sono nemmeno arrivati in tempo. Come il permesso ambientale per la Gilgel Gibe III, emesso nel 2008, nonostante i lavori fossero già in stato di avanzamento. Ad opera di chi? Della italianissima Salini Costruttori Spa, l'unica e la sola che da sempre lavora ai progetti nella Valle, grazie a gare d'appalto mai avvenute. Ma il Bel Paese è implicato nel business idroelettrico etiope anche per i 220 milioni di euro che il Comitato direzionale della Direzione generale cooperazione allo sviluppo (Dgcs) del ministero degli Affari Esteri (Mae) ha versato per la realizzazione dell'impianto appena franato Gilgel Gibe II, unito a 505 mila euro donati per l'invio di un esperto italiano che monitorasse il progetto. "Che di per sé - precisa Caterina Amicucci, della Crbm - sarebbe pure un progetto valido, se non fosse per le dubbie commistioni che ci stanno dietro e per l'assenza di studi adeguati che hanno comportato un ritardo di due anni nella consegna, un rilevante aumento dei costi" e un risultato a dir poco scadente visto il crollo.
Si è trattato infatti del più grande credito d'aiuto mai erogato nella storia del fondo rotativo, ed è stato deciso basandosi su valutazioni fortemente negative dei ministeri e degli organi competenti, fra cui il Nucleo tecnico di valutazione della Dgcs. Che viene quasi del tutto sbaragliato subito dopo l'approvazione del credito. La quale avviene, comunque, a contratto già firmato tra la Salini e il governo etiope, "contravvenendo a tutti gli standard nazionali e internazionali sulla trasparenza e la concorrenza". Era l'ottobre 2004. E il governo italiano stava giusto discutendo la cancellazione dei 332,35 milioni di euro di debito dell'Etiopia, che venne poi ratificata nel gennaio 2005. Ossia, tre mesi dopo averla reindebitata di una cifra di poco inferiore: quei 220 milioni stanziati per Gilgel Gibe II.
Anche per la numero III, l'Etiopia si è rivolta all'Italia. Era il luglio 2007. Richiesta: 250milioni di euro. Per ora nessuna risposta. "La richiesta ufficiale delle autorità etiopi - precisa Amicucci - è accompagnata da una costante e capillare azione di lobby della Salini sui funzionari e i diplomatici del ministero. Dopo il cambio di governo a metà 2008 si resta in attesa degli eventi". E non dimentichiamo che dal marzo 2006 al gennaio 2007 questo prestito è stato indagato anche dalla magistratura, che poi ha archiviato il caso.

A finanziare la Gilgel Gibe II è accorsa anche la Banca europea per gli Investimenti, che ha sborsato 50 milioni di euro. Eppure, ben sapeva che non era avvenuta una gara d'appalto per l'intero lavoro. La Salini ha infatti preso il lavoro senza gare, e poi ha fatto dei bandi per i lavori scaturiti dall'indotto. Ed è qui che è intervenuta la Bei, finanziando quindi una componente del progetto che è andata in gara e aggirando, comunque, le direttive europee sul procurement. Si è dunque disinteressata "degli standard internazionali su trasparenza e concorrenza", che invece hanno convinto la Banca mondiale a non entrare nell'operazione.

E ora, stesso copione e medesimi attori per la Gilgel Gibe III?

Stella Spinelli

 

3 febbraio

Un prete cattolico contro il Dio di Giuliano Ferrara

di Paolo Farinella, prete

Sul “Foglio” (30 gennaio 2010) a firma di Pietrangelo Buttafuoco è apparso un articolo dal titolo “Amano Dio e votano Emma”. Il riferimento è alle prossime elezioni regionali laziali, ma lo sguardo si allarga all’orizzonte dell’Italia e del mondo. Un nuovo «padrino della Chiesa» è sorto alla fine di gennaio dalla cattedra patriarcale del «Foglio» dei dintorni berlusconiani e come da programma, incluso nel cognome, butta nel fuoco delle Gehènna tutto e tutti, salvando solo il piccolo «dio» personalizzato, fatto a propria immagine e somiglianza. Un «dio» tascabile, utile in ogni circostanza. A luogo e fuori luogo.

Se fosse stato un tema da scuola media, l’insegnante l’avrebbe cassato tutto con la motivazione: fuori tema, da cima a fondo. L’impressione alla prima lettura è di depressione spinta perché sembra che da un momento all’altro l’autore si voglia suicidare perché incompreso in un mondo di atei, di senza Dio, in una chiesa traditrice dei bei tempi andati; in una parola di coloro che dicono di credere in Dio. La confusione è totale e non basta riordinare le idee, ma è necessario oltre ad un supporto psicologico, una rifondazione della teologia, specialmente tradizionale, perché l’autore deve avere studiato solo su un bignamino da bancarella.

In poche righe riscrive la storia del mondo e del pensiero filosofico-teologico: da Platone a Virgilio, dai sacerdoti ebrei al Vaticano; da Papini a Mel Gibson; dalla Russia comunista a Franco, non Ciccio, ma il generalissimo, quello che garrotava i detenuti politici, mentre quatto quatto se ne stava con il rappresentante papale in adorazione al Santissimo Sacramento: così per restare in tema di rispetto della vita.

Il dato più evidente è che il “Foglio” di Ferrara, come il cardinale Ruini, non digerisce la candidatura di Emma Bonino alla presidenza della Regione Lazio e non avendo argomenti di analisi logica, propina una frittata di temi religiosi o pseudo-tali per incitare alla rivolta contro il sistema «chiesa» italiana che non corrisponde più ai canoni del direttore del "Foglio".

Giuliano Ferrara è reduce da una sconfitta cogente sul tema dell’aborto e gli brucia che non abbia raccolto nemmeno l’1%, lui che pensava di avere dietro le armate vaticane e i plotoni delle parrocchie. Povero Ferrara! Povero Buttafuoco! Credono ancora di vivere in regime di «Christianitas» e infatti la foto che correda l’articolo lo vale tutto: una foto anni 50, processione con stuolo di preti inamidati in cotta, crocifisso avanti come alabarda e folla-folklore attorno e dietro. Una saga da paese. Ecco la fede dell’articolista. E’ meglio che si metta l’anima e il fegato in pace: quei tempi non torneranno più. Non gli va bene nemmeno la chiesuola di Ratzinger che è tutto dire. Cosa vuole una chiesa presocratica?

Non è sufficiente che papa Ratzinger stia tentando di ritornare indietro a marce forzate, reclutando lefebvriani e anglicani, seppur sposati, ma tutti con la testa rivolta al trapassato remoto; non basta che la Cei risusciti il già ex Ruini per riabilitare Berlusconi con un lauto pranzo di candidature e voti di scambio; non è sufficiente ancora che Berlusconi governi come satrapo persiano; no, ora il “Foglio” e le propaggini sue vogliono nominare il papa, i vescovi, i preti per riformare la Chiesa a modo loro, quella Chiesa di cui non hanno mai conosciuto l’indirizzo perché essi ne sono sempre stati fuori, salvo usarla come una puttana per buttarla via quando non serve.

Il pistolotto sul Concilio poi è sorpassato dopo che tutti a cominciare dal papa stesso, da buona parte della Cei, da tutta la curia romana, sparano ad alzo-zero su di esso, facendo un distinguo di lana caprina per dire in modo ecclesiastico che non c’è discontinuità tra il Vaticano II e il magistero precedente, Concili compresi. Un modo meschino per dire: al Concilio ci pensiamo noi, lo eliminiamo lasciandolo in piedi. Anzi, lo citeremo sempre di più, ma lo svuoteremo della sua anima e della sua carne. Stia tranquillo, il Pietrangelo: su questo versante il concilio, causa di tutti i mali, compresi il fuoco di Sant’Antonio, i reumatismi e il disgelo del popolo nord, non esiste più.

Le lamentazioni di Buttafuoco sono, infine, provvidenziali perché devono fare riflettere la gerarchia cattolica che è pericoloso giocare a fare gli apprendisti stregoni. Ecco i frutti della denigrazione del Concilio: poiché non si condivide la politica e qualche ciambella non viene col buco sperato, si dà fuoco a tutto, a Dio col quale è bene vedersela da soli, alla Chiesa (non si sa di cosa parli il Buttafuoco) che dovrebbe essere una combriccola di estrema destra, perché la gerarchia cattolica che è dichiaratamente di destra non basta più: deve andare oltre se stessa ed essere eversiva, a supporto all’attuale governo.

Non credo che Giuliano Ferrara, mandante armato di questo ballon d’essai, sia un ingenuo; al contrario, penso che abbia dichiarato guerra alla gerarchia cattolica perché se non rientra nei ranghi e non molla il centro casiniano per privilegiare il berlusconismo, avrà vita dura e una campagna denigratoria sullo stile delle mitragliatrici di famiglia: il Giornale e Libero. Boffo docet! Che altro potrebbe essere questo articoletto senza capo né coda, senza pensiero, scritto da uno sotto effetti allucinogeni, se non un ricatto?

Emma Bonino, è arma ignara, usata come fantasma per fare paura ad una gerarchia disorientata, che ha perso il polso del paese e annaspa nelle sabbie mobili dell’incertezza. La vicenda di Vendola ha fatto tremare più di una sedia al potere: i partiti ordinano, ma la gente li sfotte e quando può votare, vota contro. Emma Bonino sarà eletta nel Lazio se non altro perché la gente voterà contro le indicazioni dei caporioni e della gerarchia cattolica. Non fa paura la Emma, ma la possibilità che possa mettere le mani sulla sanità privata e tagliare le mani avide che mangiano ai quattro palmenti attraverso il sistema immorale delle cliniche private. Hanno paura che metta mano al sistema delle scuole e favorisca quella pubblica a scapito della privata.

Non temono la Bonino radicale, abortista, libertaria e donna, temono che una volta al potere la fantasia possa fare il resto. Da qui a maciullare lo stato di diritto il passo è cortissimo: ormai siamo in uno Stato di sopruso che ha scippato la democrazia del diritto di voto che deve essere libero; mentre «lorsignori» vogliono un sistema di guarentigie che garantisca privilegi e posti ad uomini pii e devoti obbedienti. Il Vaticano e la Cei sono avvertiti anche dal “Foglio”: la guerra è cominciata e non si guarderà in faccia ad alcuno. Anche Dio diventa un proiettile all’uranio arricchito perché questa volta, come diceva l’ex avvocato Cesare Previti: “questa volta non faremo prigionieri”.

 

2 febbraio

Non avrai giustizia

di Lirio Abbate e Paolo Biondani

Il processo breve è una legge pensata per evitare a Berlusconi il tribunale. Ma cancellerà migliaia di cause. Ecco alcune storie di cittadini che non vedranno riconosciuti i loro diritti

Nell'aula di Montecitorio deserta la sottosegretaria alla Giustizia Elisabetta Alberta Casellati si stringe nel tailleur rosso e rivela qual è l'obiettivo del governo Berlusconi in materia di giustizia: rasserenare. Sì, il "ripristino della serenità", perché, non si era capito? "Riportare la serenità in un contesto istituzionale che ha superato ampiamente la soglia di sopportazione", spiega la vice-Alfano davanti ai banchi vuoti introducendo il dibattito sul legittimo impedimento.

Peccato che intanto l'Associazione nazionale magistrati si mobiliti in vista dell'apertura dell'anno giudiziario. E che in Parlamento si affollino i provvedimenti sfornati dal premiato studio Ghedini: un intasamento senza precedenti. Alla Camera va in votazione il legittimo impedimento, in attesa del lodo Alfano 2 (la vendetta?), da inserire in Costituzione, a prova di bocciatura della Consulta, e del ripristino dell'immunità per tutti i parlamentari. Al Senato è già passato in tempo record il processo breve. La "legge Erode", la definisce Giancarlo Caselli: fa strage degli innocenti, i processi per mafia, criminalità organizzata, o i reati societari, che finiranno nella tagliola della prescrizione. E salva soltanto lui, l'Unto del Signore, senza neppure la seccatura di una fuga in Egitto, o almeno ad Hammamet.

Il ddl resterà in stand by alla Camera in commissione Giustizia. Garantisce la presidente Giulia Bongiorno, alle spalle di Gianfranco Fini ma di pura scuola andreottiana: tergiversare, sminuzzare. Fare melina fino al 25 febbraio, quando arriverà in Cassazione il caso Mills e si capirà la sorte del processo gemello di Milano a carico del premier.

L'attesa coincide con le leggi della politica. Tra Berlusconi e Fini è tregua, ci sono le regionali, basta guerreggiare, almeno fino al prossimo scontro. Magari su Mediatrade, dove con il Cavaliere sono coinvolti Pier Silvio e Fedele Confalonieri.

La politica prende tempo ma l'allarme è massimo. Magistrati, giuristi e avvocati non berlusconiani spiegano infatti che il sedicente processo breve in realtà è una legge ammazza-processi. Perché non interviene sulle cause della lentezza delle procedure che penalizzano gli innocenti, ma al contrario consente ai colpevoli di beneficiare dei ritardi, grazie all'effetto automatico della "estinzione processuale" che non è previsto in nessun paese del mondo. Per evitare anche la più meritata delle condanne, insomma, basterà che il delinquente di turno abbia la forza (e i soldi) per rallentare a sufficienza il suo giudizio penale, anziché velocizzarlo. Ma non basta. Di solito una nuova legge vale solo per il futuro, invece questa cambia le regole anche per i processi già iniziati che così rischiano di finire al macero. Giustizia negata, insomma, per decine di migliaia di processi. Come nei casi che, a titolo esemplificativo, raccontiamo qui di seguito.

Marco Damilano

UN CASO DI MALASANITA'

Da Palermo a Reggio Calabria, da Torino a Venezia, sono decine di migliaia i processi 'moribondi per legge'. Per misurare i costi della riforma per le innumerevoli vittime dei reati di ogni girono, basta andare nel tribunale a Milano e assistere alle udienze di un caso di malasanità che, di eccezionale, ha solo la professione delle parti: la vittima era un medico, come i tre imputati di omicidio colposo; e tra i suoi familiari, che reclamano giustizia come parti civili, c'è una figlia che fa l'avvocato a Bergamo e quindi comprende benissimo l'effetto-killer della legge berlusconiana. Nell'ottobre 2005 un padre di famiglia, il dottor D., viene ricoverato in un grande ospedale milanese per un sospetto tumore alle tonsille. L'ecocardiogramma evidenzia una grave malformazione: il cuore è addirittura fuori posto. Il cardiologo lancia l'allarme rosso: quel paziente non si può operare. L'intervento viene eseguito ugualmente da due chirurghi con un anestesista. E il malato muore in sala operatoria. Proprio per la crisi cardiaca inutilmente prevista. L'autopsia poi aggiunge che l'intervento sarebbe stato inutile: era meglio curarlo con la chemioterapia. A quel punto la vedova e i due figli denunciano l'ospedale. Parte l'inchiesta, con le consuete difficoltà: perizie e controperizie, affidate ad altri medici.
Nel settembre 2007 la procura chiede il rinvio a giudizio dei tre imputati. Tutti assicurati anche per la colpa medica. A coprire le spese legali è l'ospedale, mentre i familiari della vittima devono pagarle di tasca loro. L'udienza preliminare è combattutissima: il giudice Guido Salvini ordina un nuovo giro di perizie, prima di rinviare tutti a giudizio. Al dibattimento, la legge (italiana) impone di riascoltare tutti i testimoni e riesaminare da zero i documenti e i consulenti tecnici. Ora il processo è quasi finito: la sentenza di primo grado è attesa tra febbraio e marzo. "Ma se la nuova legge non verrà modificata dalla Camera, questo è il classico caso in cui il giudice dovrà dichiarare immediatamente l'estinzione del processo", spiega il pm milanese che ha sostenuto l'accusa. E i familiari della vittima che rimedi avranno? "Dovranno ripartire da zero con una causa civile, senza più l'appoggio della procura: oltre alle spese legali, dovranno pagarsi pure i periti".

L'avvocato di parte civile, Mario Fortunato, spiega che "ai magistrati in questo caso non possiamo attribuire alcun ritardo: l'udienza preliminare è stata lunga e approfondita, ma io per primo condivido la linea che non si possono mandare a processo dei medici se non si è certi che hanno commesso errori. Nei processi futuri i magistrati potranno cercare di accelerare tempi e procedure, per rispettare il nuovo limite di andare a sentenza entro tre anni. Ma in casi come questo il termine di due anni è già scaduto. Per cui non c'è niente da fare: il processo verrà dichiarato 'estinto' già dal novembre 2009, quando nessuno poteva immaginare che sarebbe finita così". E la figlia avvocato come giudica la grande riforma? "È indignata e delusa, proprio perché è in grado di valutarne gli effetti di impunità". Ma almeno l'assicurazione dell'ospedale vi ha rimborsato qualcosa? L'avvocato dei familiari della vittima quasi si vergogna a rispondere: "Nonostante il formale invito del giudice Anna Conforti a cercare una transazione, non ci è mai arrivata neppure un'offerta di un euro".

TREMILA CASE-TRUFFA

Nell'aprile 2004, a Roma, migliaia di cittadini scoprono che i titolari di un maxi-consorzio di oltre 20 cooperative edilizie, che avevano già incassato i loro soldi promettendo appartamenti popolari, in realtà avevano rubato tutto. Il bottino finale, secondo l'accusa, supera abbondantemente i 150 milioni di euro: caparre, cambiali e mutui, regolarmente versati dalle famiglie dei truffati, sono finiti in una rete di 49 società-paravento, che li dirottavano in Italia e all'estero, senza versarli alle imprese costruttrici né alle banche finanziatrici. Una truffa gigantesca: le famiglie danneggiate sono circa 3.500, di cui oltre 2.500 hanno chiesto giustizia costituendosi nel processo penale.

Armando Iannilli, il nuovo presidente del consorzio Coop Case Lazio, che raggruppa 14 cooperative di truffati, ricorda con rabbia la "disperazione della gente": "Rappresento 1.500 famiglie che in media hanno perso 80 mila euro ciascuna. Quando è saltato l'intero castello di società, le vittime hanno dovuto sborsare per la seconda volta il prezzo già versato, pagare le cambiali girate ai costruttori, offrire nuove garanzie e aprire un altro mutuo con le banche, che intanto pignoravano e mettevano all'asta i loro appartamenti. Tra i truffati c'è tantissima povera gente: disoccupati, cassintegrati, operai mono-reddito, pensionati al minimo, militari, agenti di custodia, giovani coppie che avevano investito l'eredità dei genitori, modesti impiegati che si erano indebitati con amici e parenti... Dopo cinque anni siamo riusciti a consegnare circa 500 case ai legittimi proprietari e stiamo costruendone altre 200. Ma centinaia di persone hanno solo un prato o neppure un'area assegnata".

Tra il 2004 e il 2005 scattano gli arresti, i sequestri giudiziari di quel che resta (oltre 11 milioni di euro nascosti all'estero) e le prime condanne: per corruzione di un funzionario del ministero dell'Economia che faceva sparire le ispezioni. Il principale imputato, Emilio Francesco Falco, torna libero dopo 12 mesi. Secondo l'accusa, la sua associazione per delinquere, mentre truffava gli acquirenti, era riuscita a ottenere 28 milioni di euro di finanziamenti pubblici per l'emergenza casa, generosamente concessi dalla giunta Storace, che Falco sosteneva apertamente, prima di far sparire anche i soldi della Regione Lazio. Condannato solo per le tangenti, ha beneficiato dell'indulto e ora attende il maxi-processo principale, da cui dipende la sorte di centinaia di sotto-cause civili che continuano a opporre famiglie truffate, banche e costruttori onesti mai pagati. Ma per i 27 imputati ora è pronto il salvagente del processo breve.

L'avvocato Fabio Belloni, che assiste oltre 400 soci delle cooperative Cinzia e Palocco 84, non si fa illusioni: "La richiesta di rinvio a giudizio è del 23 febbraio 2009. L'udienza preliminare si è chiusa rapidamente, per gli standard italiani, il 15 dicembre. L'apertura del processo di primo grado è fissata per il 16 marzo 2010. Quindi abbiamo già perso più di metà del tempo massimo previsto dalla nuova legge e il dibattimento deve ancora cominciare. Definire tutte le posizioni e arrivare a sentenza entro 11 mesi, in un caso così complesso, è un'utopia".

L'avvocato Luca Petrucci, che tutela altre 1.200 famiglie danneggiate, ricorda casi drammatici di "coppie ancora senza tetto" e di "sfrattati che per mesi hanno dovuto dormire per strada, in macchina". Anche il legale romano è molto pessimista sul 'processo breve': "Tutti i reati di truffa, falso, appropriazione indebita, favoreggiamento e la stessa associazione per delinquere sono destinati a estinguersi. Forse resisterà qualche accusa di bancarotta fraudolenta. Ma i truffati rischiano di non vedersi restituire nemmeno i soldi già sequestrati dalla magistratura". E così i cittadini derubati, dopo aver pagato due volte l'alloggio-truffa ed essersi visti citare a giudizio per altri 8 milioni di cambiali ancora in giro, dovranno trovare altri soldi per rifare tutto il processo in sede civile: altri tre gradi di giudizio, altri anni senza giustizia. Per Iannilli "con questa legge disastrosa i politici tradiscono il popolo": "È una vergogna che, per soddisfare le esigenze di uno solo, debba rimetterci tanta povera gente. Farsi truffare da un delinquente fa meno male che sentirsi truffare dallo Stato".

Un caso-limite? Il pm romano Giuseppe Cascini, che ha indagato su questa maxi-truffa e su molti altri scandali economici, conferma che il processo breve non minaccia solo quelle 3 mila famiglie romane, ma tutte le vittime dei predoni del risparmio e degli affari: "Le nuove norme mettono a rischio la quasi totalità dei processi per i reati economici e bancari. E i colpevoli rimasti impuniti potranno ridipingersi come incensurati, o perseguitati, e continuare a fare vittime".

IN MANO AGLI USURAI

A commercianti e imprenditori in difficoltà economiche offriva somme di denaro con tassi che arrivavano anche al 360 per cento l'anno. E quando le sue vittime non riuscivano a pagare lui si portava via tutto: macchine, mobili, tappeti, perfino cavalli. Fino a quando un commerciante non ce l'ha fatta più: pressato dai debiti con l'usuraio si era rivolto ad altri strozzini per tappare quella voragine e alla fine, travolto dai debiti e da quel giro vorticoso ha deciso di ribellarsi e ha denunciato tutti facendoli arrestare. Accadeva a Messina otto anni fa e oggi il processo agli usurai che hanno messo in ginocchio decine di commercianti è ancora nelle prime fasi del dibattimento. Tempi lunghi per quattordici imputati il cui dibattimento potrebbe essere azzerato dal processo breve. Contro gli usurai si sono costituiti parte civile l'Asam (associazione antiracket Messina) e uno dei commercianti piegati dall'usura che dal marzo 2003, da quando ha preso il via l'inchiesta, attende giustizia.

Uno degli imputati parlando al telefono, intercettato dagli investigatori, pretendeva da una sua vittima oltre a sette milioni di euro di interessi, anche un cavallo, una gru e una jeep. E quando è arrivato nell'abitazione del commerciante vessato, con toni pesanti, ha portato via pure il tappeto persiano che l'uomo aveva nel salone di casa e che era di grande valore. Tutto questo perché, secondo quanto diceva al telefono l'imputato, erano maturati circa 25 milioni di interessi in un anno e pertanto il tappeto costituiva solamente un acconto. Agli atti del processo ci sono i verbali in cui le vittime indicate nel libro mastro sequestrato ad uno degli usurai, ammettono le richieste di denaro e i pagamenti con tassi elevatissimi. Storie che hanno ridotto sul lastrico intere famiglie alle quali non è rimasto altro che chiedere giustizia. E attendere fiduciosi la fine del dibattimento. Ora a rischio.

UNA CATENA DI MORTI

Nei bacini di carenaggio stavano chini sui pezzi d'acciaio per riparare o realizzare navi e piattaforme galleggianti. E assieme ai pezzi di metallo gli operai della Fincantieri di Palermo installavano grosse quantità di amianto utilizzato come isolante termico. Lo maneggiavano come se fosse un prodotto qualsiasi e invece le polveri micidiali si annidavano nei polmoni degli operai. E così nell'arco di una decina di anni ne sono morti un centinaio per tumore ai polmoni, mentre altri duecento soffrono degli effetti da asbestosi e mesotelioma pleurico, le forme tumorali tipiche dell'inalazione delle fibre di amianto. Le inchieste avviate dalla magistratura di Palermo raccontano storie terribili, dalle quali emerge sofferenza e morte. Non solo degli operai che lavoravano con l'amianto ma anche familiari, come la moglie di uno di loro contaminata dopo aver lavato per anni la tuta del marito, sporca dei residui di lavorazione. Per questa triste storia che ha generato morte e sofferenza è aperto a Palermo un processo che vede imputati tre legali rappresentanti della Fincantieri accusati di lesioni e omicidio colposo plurimo. Gli inquirenti sostengono che l'azienda, pur conoscendo i rischi della lavorazione dell'amianto, dichiarato inutilizzabile per legge nel 1996, avrebbe continuato ad adoperarlo fino al 1999. Indipendentemente dal divieto di utilizzo. Dei quattro filoni d'inchiesta coordinati dai pm Emanuele Ravaglioli, Carlo Marzella e Christine von Borries, solo uno è già a dibattimento. E nonostante si trovi alle battute finali, il processo avviato nel 2004 potrebbe essere spazzato via dall'entrata in vigore della nuova norma "breve" varata al Senato. Uomini uccisi dall'amianto dopo anni di lavoro in cui sono stati messi a contatto con le polveri killer. Sono centinaia le parti civili che si sono costituite anche nei filoni aperti successivamente in cui sono indagate sempre le stesse persone. Nuove istruttorie rese necessarie per la comunicazione da parte della Ausl e dell'Inail di nuovi decessi. I familiari delle vittime chiedono da anni giustizia. I periti dell'accusa hanno sottolineato la pericolosità dell'amianto già nota nel 1955 ma "a fronte di queste certezze universalmente conosciute, nessuna misura di prevenzione ambientale, personale, nessuna misura di sorveglianza sanitaria è stata mai intrapresa nei cantieri navali di Palermo nei confronti del rischio amianto". Le storie di queste morti vengono raccontate in tribunale dove mogli e figli delle vittime attendono giustizia.

 

Srebrenica, fu crimine o genocidio?

Il Parlamento serbo pronto a condannare i crimini commessi a Srebrenica. L'opposizione innalza un muro

A Srebrenica fu crimine o genocidio? È di questo che il mondo politico serbo sta discutendo a Belgrado. E soprattutto se i fatti di Srebrenica, il riconoscimento di quanto accaduto a partire dal 15 luglio del 1995, meritino una risoluzione ad hoc, una “Risoluzione Srebrenica”, oppure la condanna possa avvenire in un più generico documento che biasimi tutti i crimini commessi ai danni di innocenti durante il conflitto che ha sancito lo smembramento della Jugoslavia.

Dichiarazione univoca. Il dibattito parlamentare, previsto originariamente per il 2 febbraio, è stato spostato proprio perché i diversi gruppi dovranno dirimere questioni terminologiche e sostanziali che mantengono in disaccordo, con sfumature diverse, l’intero panorama politico. Si tratta di fare i conti con la storia: è per questo motivo che serve, se non l’unanimità che non potrebbe arrivare mai, quanto meno un largo consenso. Una risoluzione che incasserebbe 126 voti a favore e 124 contrari non avrebbe un valore assoluto e non sarebbe espressione di una Serbia unita nel riconoscere la drammaticità e la inumanità di quei giorni in cui quasi ottomila uomini musulmani vennero sterminati.

Il muro dell'opposizione. Se il Partito Democratico (Ds) del presidente Boris Tadic è deciso a risolvere una volta per tutte la questione tirando diritto su una risoluzione ad hoc che condanni i crimini di Srebenica, gli altri attori della scena politica non manifestano la stessa determinazione. Anche lo speaker (il presidente) del Parlamento, Slavica Dukic-Dejanovic, ha dichiarato alla tv serba di ritenere riduttivo includere Srebrenica in una risoluzione generica, che, come sostenuto anche dal Ds, i crimini commessi in quella città vadano sottolineati con maggiore enfasi. Ma di crimini si parla e non di genocidio. Difatti lo speaker del Parlamento, rappresentate del Partito Socialista (Sps), ritiene che gli eventi di Srebrenica vadano condannati come crimine. Cosa farebbero i membri del suo partito se venisse proposto il termine ‘genocidio’? “Bisognerà parlarne in aula”, dice la Dukic-Dejanovic in un’intervista al quotidiano Vcernje Novosti. Il Partito Democratico di Serbia di Kostunica, Serbia Unita di Dragan Markovic e soprattutto il Parito Radicale (Srs) il cui leader Vojislav Seselj è attualmente sotto processo al tribunale dell’Aja proprio per quei crimini, hanno innalzato un muro compatto: nessuna risoluzione, nessuna dichiarazione su Srebrenica sarà mai accettata. Non mancano ovviamente neanche i colpi di teatro: Aleksander Vucic che siede tra le fila dell’Sns di Tomislav Nikolic ha dichiarato che il partito, prima di esprimersi su una “Risoluzione Srebrenica”, dovrà prima leggerne la bozza. Nulla di strano, si dirà. Se non fosse che, anni fa, Vucic avrebbe voluto dedicare una strada di Belgrado al generale Ratko Mladic, ancora in fuga e ricercato proprio per il genocidio di Srebrenica.

'Jasanovac, piuttosto'. La bozza della risoluzione, secondo fonti del quotidiano Blic, verrà discussa comunque entro il 15 febbraio. Il dibattito in atto ha inevitabilmente attraversato la vicina frontiera bosniaca provocando reazioni di diverso segno. Per il ministro degli Esteri della Bosnia Erzegovina, Sven Alkalaj, quello che sta per compiere la Serbia è un passo importante e grandioso che spiegherà i suoi effetti benefici per la stabilità dell’intera regione balcanica. Di segno opposto, ovviamente, le dichiarazioni provenienti da Banja Luka, la capitale della Republika Srpska (Rs). Milorad Dodik, Primo ministro, ha definito ‘inaccettabile’ prendere in considerazione una risoluzione su Srebrenica attribuendo solo ai crimini commessi in quella cittadina un significato di importanza storica. Sulla stessa linea il presidente dell’Assemblea Nazionale della Rs, Igor Radojicic secondo cui bisognerebbe condannare i crimini commessi durante la Seconda Guerra Mondiale dagli ustascia croati nel campo di concentramento di Jasanovac e non quelli Srebrenica. Questioni di priorità temporali, per Radojicic, nel conto presentato dalla storia e non ancora saldato.

Nicola Sessa

 

1 febbraio

L'unico da cacciare, di nero, è il lavoro

"I neri stanno già tornando nelle campagne della Piana, e l'anno prossimo saranno di nuovo tanti - dice Calogero della Cgil - l'unica è provare a combattere il fenomeno del ‘nero', inteso come lavoro".

Scritto da Gian Luca Ursini

"Più immigrati, più crimini". Dopo i gravi fatti di gennaio a Rosarno, il governo di Roma è sbarcato in Calabria. Annuncia grandi misure, per ora sulla carta, contro la ‘Ndrangheta (la parte difficile del problema) ma soprattutto - e subito - "pugno duro all'‘immigrazione incontrollata troppo a lungo tollerata" come detto dal ministro leghista Maroni, nel commentare a caldo la cacciata dei migranti dal paesone calabrese. Il premier italiano ha perso l'ennesima buona occasione per stare zitto. Forse nell' infelice allocuzione per ‘immigrati' intendeva i clandestini, dimenticando che la clandestinità come reato è una invenzione- del 2009 - dei suoi alleati della Lega-xenofoba-Nord. Ma afferma per di più dati smentiti dalle statistiche; per il sociologo MaurizioBarbagli "dalla creazione del reato di clandestinità, che secondo i leghisti avrebbe cancellato il sottobosco di microdelitti legati all'immigrazione sans papier, il più grave di essi, lo spaccio, è cresciuto in incidenza su tutti i reati dal 32 al 34 per cento del totale". Che dire del territorio che d'ora in poi sarà 'l'Alabama italiana', la Piana di Gioja Tauro? "Negli ultimi 15 anni, con una massiccia presenza di immigrati, alcuni senza documenti - spiega il pm del tribunale di Palmi Giuseppe Creazzo, competente per territorio - non si sono mai, nemmeno una volta, registrate denunce a carico di migranti per i reati di furto con scasso, violenza sessuale, tentata violenza sulle donne, prostituzione e furto semplice, ossia i banali scippi". Questo in un territorio dove l'incidenza degli stranieri sulla popolazione secondo la Cgil è del 18 per cento, ossia la quarta zona a maggiore densità di migranti in Italia dopo Prato Brescia Sassuolo e prima di grandi città come Genova Milano.

Non solo; le incaute parole dei governanti italiani hanno causato sdegno in ambienti di solito vicini alla Destra italiana: in Vaticano. La conferenza episcopale ha subito esposto propri dati in base ai quali, per i vescovi "non c'è nessuna correlazione tra l'incidenza dei crimini e la presenza di migranti, regolari o irregolari". "Non esiste differenza tra il tasso di criminalità dei migranti e quello degli italiani" ribadisce monsignor Crociata a capo della Cei: 1,2 per cento dei regolari contro un tasso di delinquenza dello 0,75 per cento per gli italiani, ma che nelle persone sotto i 40 diventa inferiore per i migranti rispetto agli italiani. Evidentemente a furia di stare qui, gli immigrati imparano la lezione e cominciano a delinquere... E questo discorso come si applica a Rosarno? Gli italiani hanno reagito a presunti abusi dei migranti per razzismo, o per mentalità criminosa, atteso che i Migranti in quella zona delinquono sensibilmente meno dei calabresi? E soprattutto "sono gli unici a ribellarsi alla Mafia", ricorda Antonello Mangano, autore di ‘Gli africani salveranno la Calabria, (forse l'Italia intera)', titolo sottoscritto da uno studioso dell'illegalità meridionale, come Roberto Saviano.
"Nella Piana di Gioja - spiega Antonio Calogero, Cgil locale - la subcultura ‘ndranghetista è dominante, e il problema con la rivolta dei migranti è stato di ordine pubblico, che i mafiosi non potevano vedersi sfuggire di mano. In Calabria è scontato dire che lo Stato assente, va ribadito che solo la ‘ndrangheta fa politica; fare politica vuol dire cercare il consenso della popolazione; per cercare consenso i mafiosi non possono stare indietro rispetto alle mutate percezioni del popolo, e mandare messaggi rassicuranti. Con la cacciata dei migranti hanno voluto dire "Tranquilli qui comandiamo noi", e soprattutto recepire un malessere diffuso verso i migranti, in gran parte disoccupati". " E non solo riaffermazione del dominio - interviene Gigi Genco, segretario Cgil Calabria - la ‘Ndrina funziona anche da regolatore del mercato del lavoro: in città troppi immigrati, grazie alla Bossi-Fini e al reato di clandestinità, non venivano più assunti dai contadini. Tutto in nero. In più sono arrivati a centinaia dal Nord, dove l'industria in crisi caccia per primi i migranti. Troppi e troppo poveri, pronti a esplodere. I calabresi percepivano un disagio foriero di tempesta. La ‘ndrangheta si propone come mediatore sociale per interpretare un bisogno dei rosarnesi: ha detto con le intimidazioni dei fucili e poi con la caccia al Nero: "Andatevene via, non ci servite più nei campi, questa non è casa vostra".

"I neri stanno già tornando nelle campagne della Piana, e l'anno prossimo saranno di nuovo tanti - conclude Calogero - l'unica è provare a combattere il fenomeno del ‘nero', inteso come lavoro: finché si lavorerà in maniera irregolare, verranno più braccianti del necessario, a vivere in condizioni di degrado; bisogna rendere più appetibili i ricavi ai contadini, con la filiera corta: basta intermediari, dal produttore al consumatore, (come nei farmer market, quindi un modo per combattere le Mafie, ndr). Finché il prezzo pagato per chilo di arance, come detto e ridetto, è di 4 centesimi/chilo, ai coltivatori non conviene raccogliere e i migranti rimangono a ciondolare. E il ministro del lavoro deve disporre controlli a tappeto, per essere sicuri che ogni migrante abbia un regolare contratto stagionale e venga pagato il giusto: 60 euro al giorno, non 25, di cui 5 da versare al caporale".

 

Condono edilizio, cartoline dal fronte

di Antonio di Gennaro

Almeno su un punto il vecchio La Malfa aveva ragione, quando ammoniva che «l'Italia sarà quel che sarà il suo Mezzogiorno». Perché in tempi di piano casa e di condoni incostituzionali, è l'inferno urbanistico della Campania che le destre additano al resto del paese come paradigma, come modello di riferimento per il governo del territorio.
Una regione saldamente in testa nelle classifiche dell'abusivismo, nella quale secondo Legambiente si costruiscono 16 case abusive al giorno e dove, stando a quanto scrive il giornale di Confindustria, per ogni 100 euro prodotti legalmente, l'economia criminale ne macina altri 40 con il ciclo cave-cemento-edilizia-rifiuti.
Questo modello ha prodotto negli ultimi cinque decenni l'area metropolitana più invivibile d'Europa. Una colata edilizia ininterrotta, tra il Volturno e il Sele, che ha fagocitato più di 130 comuni, nella quale vive come può l'80% degli abitanti della regione, rinserrato sul 15% appena del territorio. Una sterminata periferia che ingloba due tra i più pericolosi vulcani del mondo, circondata da montagne fragili, pronte con la pioggia a vomitare colate micidiali di fango.
L'ingiustizia sociale che è dietro questo modello l'ha svelata Antonio Cederna sin dai tempi de «I vandali in casa», osservando come la superproduzione edilizia non risolva, anzi aggravi l'atavico disagio abitativo, generando per di più un deficit drammatico di verde e servizi. Una profezia che si è avverata: nell'area metropolitana di Napoli mancano all'appello, secondo il piano territoriale della Regione, più di 4.000 ettari (l'equivalente di 6.000 campi di calcio) di aree verdi, spazi pubblici, impianti per lo sport e il tempo libero, in pratica tutto ciò che serve a rendere un po' più decente la nostra sopravvivenza urbana.
Un aspetto interessante della questione riguarda l'operato del centrosinistra, che pure queste terre ha governato nell'ultimo quindicennio. Perché il rilancio della buona urbanistica, nel segno della preminenza dell'interesse pubblico, era stato il cavallo di battaglia del bassolinismo nella sua fase ascendente, ed è grazie ad esso che il consenso intorno al nuovo corso politico si è esteso e consolidato. Poi, salvo la positiva parentesi del piano territoriale regionale, la direzione è drasticamente cambiata, e la Campania è passata con disinvoltura dal piano regolatore al piano casa, producendo a riguardo una legge regionale ritenuta tra le peggiori in Italia.
Una legge che non tutela i grandi paesaggi storici, dalla Penisola sorrentina alle isole del Golfo, passando per il Vesuvio e i Campi Flegrei, che mette lo zampino nei parchi nazionali e regionali, e che concedendo la possibilità di incremento anche agli edifici abusivi non ancora sanati, si prefigura come un condono di fatto, rubando addirittura il tempo all'iniziativa delle destre.
La questione è politica al massimo grado: lo spaesato elettore ha bisogno a questo punto di sapere se e in qual misura il centrosinistra sia disposto a contrastare una strategia eversiva che mira a deformare le regole basilari della convivenza, per adattarle ad una realtà sociale e territoriale malata. Perché qui non è più solo questione di suolo, acqua, boschi e monumenti. Il territorio è il nostro modo di vivere insieme. Il territorio siamo noi.

* docente incaricato di Elementi di pianificazione territoriale e ambientale, Università di Salerno