A gennaio il ministro della Giustizia ha
dichiarato lo stato d'emergenza per far fronte alla drammatica situazione
carceraria, ma da allora la politica sembra avere altre priorità
Era il mese di gennaio quando il ministro della
Giustizia, Angelino Alfano, presentava il Piano carceri per far fronte alla
drammatica situazione dei penitenziari italiani. All'epoca il ministro aveva
parlato di quattro pilastri che consistevano nella dichiarazione dello stato
d'emergenza, nello stanziamento di 600 milioni di euro per l'edilizia
carceraria, nell'assunzione di nuovi agenti penitenziari e nella presentazione
di un disegno di legge contenente due norme. Ed è proprio quest'ultimo,
l'aspetto più innovativo del Piano carceri che ha destato l'interesse degli
addetti ai lavori, in quanto prevede la concessione dei domiciliari a quanti
devono scontare un anno di pena residua e la possibilità della messa alla prova
di quei detenuti che hanno compiuto reati punibili fino a tre anni di
detenzione. Nonostante il tentativo di apertura a misure cautelari, alternative
alla detenzione, visto l'eccessivo sovraffollamento, sono tante le aporie da
chiarire e sulle quali intervenire per dare concretezza al disegno di legge.
PeaceReporter ha intervistato l'onorevole Rita Bernardini dei Radicali Italiani,
che da anni visita le carceri italiane e si impegna per migliorarne le
condizioni.
Che cosa pensa delle due norme contenute nel disegno di legge, presentato dal
ministro della Giustizia?
Sicuramente è apprezzabile il tentativo di non andare solo in direzione della
carcerizzazione, ma il provvedimento va tarato bene per consentire di far
scontare la detenzione ai domiciliari. Qualora il disegno di legge non venisse
modificato, saranno pochissimi i detenuti a poter abbandonare il carcere. Non
potranno accedervi tutti i carcerati con alle spalle un precedente d'evasione e
quelli che godono già di alcuni benefici. Così facendo, si crea una disparità di
trattamento. Esiste, inoltre, una norma che prevede già la possibilità di avere
accesso ai domiciliari per quanti commettono reati, punibili con pene inferiori
ai due anni. Mi chiedo se non convenga modificare quella norma, piuttosto che
crearne una nuova. I tempi si sarebbero accorciati.
E' stato proclamato lo stato d'emergenza, ma i tempi sembrano essere molto
lunghi e il carcere è scomparso dalle priorità dell'agenda politica...
Sì, purtroppo. I tempi rischiano di prolungarsi all'infinito. Da più di dieci
giorni sono in sciopero della fame per ricordare ai parlamentari che, se non si
interviene, i detenuti entro l'estate potrebbero raggiungere le 70mila unità. Le
carceri italiane vivono una situazione di illegalità e di privazione, tale per
cui potrebbe succedere di tutto. Come già accade d'altronde. Un numero tanto
elevato di suicidi non è che un segnale di questa emergenza irrisolta.
Sono più di vent'anni che visita le carceri del nostro Paese. Quale il suo
commento?
La situazione è andata peggiorando notevolmente. Un miglioramento si è
registrato subito dopo l'indulto del 2006, quando le prigioni si sono svuotate.
E' una delle poche persone a valutare positivamente l'indulto...
Certamente il mio giudizio è positivo. Sarebbe stato ancora più incisivo
accompagnare l'indulto con un provvedimento di amnistia che avrebbe consentito
di ridurre il carico di lavoro dei magistrati, evitando che moltissimi reati
cadessero in proscrizione. Sarebbe stato anche opportuno preparare le
istituzioni del territorio e i comuni a gestire l'indulto, ma tutto questo non
toglie che il provvedimento sia servito a alleggerire le carceri e che sul
provvedimento sia stata fatta una pessima informazione. Si è fatta passare
l'idea che tutti coloro che hanno beneficiato dell'indulto sono rientrati in
galera. Così non è. La recidiva dei detenuti che hanno usufruito dell'indulto è
pari al 30 per cento, mentre quella di quanti escono dai penitenziari
normalmente si aggira sul 70 per cento.
Ha visitato molti istituti penitenziari... Quali sono quelli più
problematici?
Difficile stilare una classifica. Penso che i peggiori siano quelli di
Poggioreale, Teramo, piazza Lanza a Catania. Anche se il primato negativo spetta
al penitenziario di Sulmona, un lager. In questi istituti i detenuti passano in
cella ventidue ore senza fare nulla. L'unico diversivo è rappresentato dalla
televisione, in qualche raro caso dalle carte.
Cosa può fare la società civile per migliorare l'emergenza carceri?
Conoscere. E' fondamentale tenere un dialogo, un rapporto con i penitenziari, in
modo da spezzare il loro isolamento. Invito che rivolgo in particolar modo ai
politici.
Benedetta Guerriero
Anat Kamm, chi era costei?
La storia di cui in Israele tutti parlano. Ma
di cui è proibito parlare
scritto da Francesca Borri
"Se
avesse denunciato un caso di corruzione al ministero dell'Agricoltura, l'avremmo
tutti applaudita", ha scritto Gideon Levy. Sfortunatamente, Anat Kamm ha
denunciato i crimini compiuti dall'esercito israeliano nei Territori. Ed è
finita agli arresti domiciliari. Rischia l'ergastolo per possesso e trasmissione
di documenti suscettibili di minare la sicurezza nazionale. Di Uri Blau invece,
il giornalista di Ha'aretz che da quei documenti ha sgomitolato le sue
inchieste, si sa solo che è nascosto a Londra, atteso a Tel Aviv da un
interrogatorio che lo Shin Bet ha promesso di condurre "senza guanti".
Un bavaglio al bavaglio. A scoprire la storia è stato un blogger di
Seattle, Richard Silverstein, che a metà dicembre ha riportato la notizia
dell'arresto di una giovane giornalista di Walla!, un portale israeliano di
società e cultura, con l'accusa di avere illecitamente raccolto e divulgato
informazioni potenzialmente pericolose per la sicurezza nazionale. Durante i due
anni del suo servizio di leva, trascorsi nell'ufficio del Comando Centrale della
Cisgiordania, Anat Kamm, oggi 23enne studentessa di filosofia, avrebbe copiato
su un cd centinaia di documenti classificati come riservati. Per poi consegnarli
a Uri Blau. Ad attirare l'attenzione dello Shin Bet, infatti, è stato un
articolo di Ha'aretz a sua firma, nel novembre del 2008, in cui si racconta
dell'assassinio di un militante del Jihad Islamico eseguito vicino Jenin su
ordine del generale Yair Naveh, comandante in capo dell'esercito nella
Cisgiordania. L'articolo ricostruisce nei dettagli la pianificazione
dell'assassinio, in contrasto con una recente pronuncia della Corte Suprema,
secondo cui l'esecuzione di un ricercato è illegale quando è possibile il suo
arresto. Anat Kamm, all'epoca, era la segretaria di Yair Naveh. Pubblicata a
metà marzo, da internet la notizia è rapidamente rimbalzata sui media
internazionali. Non sui media israeliani, però. In contemporanea all'arresto,
infatti, il tribunale ha emesso un gag order, vietando ai giornalisti di
occuparsi del caso: una specie di bavaglio alla stampa sul bavaglio a Kamm, la
cui violazione è punibile anche con il carcere. "Ma che paese è, un paese in cui
un giornalista, semplicemente, scompare, e gli altri giornalisti non possono
parlarne?", si è chiesto Richard Silverstein. "La Cina? Cuba? O forse l'Iran".
Reazioni e deviazioni. "Quando ho copiato quei documenti", ha spiegato
Anat Kamm, "ho pensato solo che il tribunale della storia assolve chi denuncia
crimini di guerra". Tuttavia, in questi giorni non solo il conservatore
Jerusalem Post, ma anche Yediot Ahronot, il più diffuso quotidiano di Israele,
trabocca di editoriali e lettere che bollano Anat Kamm come una traditrice - o
più semplicemente, una ragazza con problemi psichici a cui non avrebbe mai
dovuto essere assegnato un ruolo così delicato. Per altri, al contrario, Anat
Kamm è un'israeliana esemplare. "Con l'Intifada", sostiene Akiva Eldar, "abbiamo
capito che non esiste una cosa chiamata 'occupazione illuminata'. Non è
possibile dominare un altro popolo per quarantatrè anni senza crudeltà e
ferocia. Per gestire un'occupazione, bisogna allevare soldati e funzionari
obbedienti - collaboratori. In questo preciso istante, centinaia di segretarie
siedono alle loro scrivanie senza avere il coraggio di telefonare a un
giornalista, e denunciare ministri e comandanti che minano il nostro futuro".
Spesso, infatti, l'etichetta 'confidenziale' indica documenti la cui diffusione
è ritenuta inopportuna, ma non necessariamente capace di compromettere la
sicurezza nazionale - e "la differenza tra il giornalista che lavora su
documenti riservati e quello che si guadagna lo stipendio pubblicando i
comunicati stampa del governo è la differenza tra uno stato democratico e un
regime autoritario", conclude Akiva Eldar. Anche se alla fine, l'ampio dibattito
in corso su Anat Kamm e Uri Blau, e i diritti e i doveri del buon giornalista e
del buon soldato e del buon cittadino, è in fondo un successo per lo Shin Bet,
che ha così deviato l'attenzione dalla vera notizia: i crimini compiuti contro i
palestinesi. "Mirate a Yair Naveh, non ad Anat Kamm", ha titolato Gideon Levy.
"Non si cerca di proteggere segreti di stato, qui, ma di insabbiare reati. Il
Comando Centrale, nel cui ufficio sono stati pianificati degli assassinii,
dovrebbe essere sul banco degli imputati. E invece fa da pubblico ministero".
Per questo, quando Uri Blau ha definito la sua battaglia "una battaglia per
l'immagine di Israele, non per la mia libertà", è arrivata a stretto giro la
precisazione di Jonathan Cook: "La preoccupazione per l'immagine lasciamola ai
Netanyahu e allo Shin Bet. Questa è una battaglia per l'anima di Israele".
Un bersaglio non proprio casuale. In realtà, in Israele non è certo raro
che ufficiali dell'esercito, agenti segreti e uomini politici passino documenti
riservati a giornalisti. Incluso Uri Blau. Ma l'ultima volta la sanzione, per il
soldato, si era limitata a trenta giorni di consegna in caserma. Il problema,
nota Yuval Elbashan, è che Uri Blau non è uno qualsiasi. Sono infatti sue le
inchieste che un anno fa, sulla base di archivi segreti del governo, hanno
rivelato che due terzi degli insediamenti sono stati costruiti non su terra
statale, ma su proprietà palestinese - in violazione cioè non solo del diritto
internazionale, ma anche della legge israeliana. Sue, ancora, le inchieste sulla
società di consulenza di Ehud Barak, oggi intestata alle figlie per evitare
conflitti di interessi, e che ha ricevuto circa due milioni di dollari da una
imprecisata fonte estera mentre risultava inattiva. E sue, infine, le
anticipazioni su un imminente attacco a Gaza - una settimana prima
dell'Operazione Piombo Fuso: una notizia che Ha'aretz ha scelto di non
pubblicare. Un giornalista, dunque, nelle parole di Yuval Elbashan, "molto
diverso dagli altri, che si auto-nominano portavoce dell'establishment, come se
ancora fossero in servizio di leva. Non è mai stato tra quelli che leggono i
comunicati dell'esercito. E invece larga parte dei suoi colleghi riceve un
messaggio, telefona a un paio di ufficiali, generalmente gli stessi che hanno
inviato il messaggio, per verificarne l'accuratezza, e corre a dettare il pezzo.
La loro routine di corrispondenti militari, inoltre, include visite organizzare
alle nostre truppe, con tanto di giubbotti dell'esercito. Da quello che
descrivono come 'il campo', rendono noto a pappagallo quello che l'establishment
desidera rendere noto. In questo senso, la storia di Anat Kamm è un segnale di
allarme. Ma non per quello che Uri Blau ha scritto. Per quello che gli altri
giornalisti non hanno scritto".
Tempi difficili. Ha'aretz ha difeso il suo giornalista ricordando che
l'Ufficio della Censura Militare aveva approvato l'articolo. In Israele,
infatti, in virtù di una norma che risale al Mandato Britannico, ogni notizia
viene preventivamente controllata, per accertare che non contenga informazioni
riservate o pericolose per la sicurezza nazionale. I cronisti israeliani, in
realtà, minimizzano il ruolo della censura. La stessa Amira Hass, che è da
Ramallah tra i più autorevoli e puntuali critici dell'occupazione, e definisce
la sua professione come "il costante monitoraggio dei centri di potere", giudica
irrilevanti le restrizioni imposte al suo lavoro. Ma una simile pratica non può
non lasciare perplessi gli osservatori internazionali. Recentemente, per
esempio, i media israeliani sono stati autorizzati a riportare la notizia
dell'assassinio a Dubai di Mahmoud al-Mabhouh, di Hamas, ma non il
coinvolgimento del Mossad nell'operazione. Anche se secondo Judith Miller,
premio Pulitzer statunitense che ha pagato con il carcere la sua inchiesta
sull'inesistenza delle armi irachene di distruzione di massa, il vero problema
israeliano è l'auto-censura: generata di istinto da un sistema scolastico e
universitario impregnato dei valori sionisti, a volte ai limiti
dell'indottrinamento, e effetto inevitabile della completa continuità e osmosi
tra esercito e società. Quale che sia l'effettiva solidità della libertà di
stampa in Israele, al momento il dato certo è che nell'ultimo rapporto di
Reporters Sans Frontieres, l'unica democrazia del Medio Oriente è precipitata
dalla 47ma alla 93ma posizione - dietro Kuwait, Libano, ed Emirati Arabi. Senza
dubbio, nella valutazione negativa ha inciso la scelta, senza precedenti, di
sigillare Gaza ai giornalisti, israeliani e internazionali, costretti a
raccontare la guerra con il binocolo dalle colline al confine. Ma la misteriosa
incursione notturna nell'appartamento di Uri Blau, con carte e computer spariti,
probabilmente non aiuterà Israele a migliorare la classifica.
La crisi greca e le colpe
dei mercati
Ci sono nel mondo alcune società che campano dando
i voti (rating, il termine tecnico) a imprese, banche e perfino stati sovrani.
Krugman, premio Nobel per l'economia, alcuni giorni fa ha ricordato che il 93%
delle obbligazioni alle quali era stato assegnato il massimo dei voti, oggi sono
diventate junk, cioè spazzatura: non valgono niente. In altre parole le società
di rating non si erano accorte che dietro quelle obbligazioni c'era il nulla. O
meglio, c'erano i mutui subprime che hanno trascinato il sistema globale nella
più grave crisi finanziaria dal grande crollo del 1929.
Solo con gli stati le società di rating sono da sempre spietate e la prova si è
avuta ieri: le obbligazioni della Grecia sono state dichiarate spazzatura da
Standard&Poor's. Ma non è solo la Grecia nel mirino delle società di rating:
anche al Portogallo sono stati ridotti i «voti». E questo significa che Lisbona
dovrà dovrà pagare maggiori interessi sul debito pubblico, aggravando una
situazione già difficile. Duque, il Portogallo è a rischio, mentre la Grecia è
già sull'orlo dell'abisso: non riesce a finanziarsi sui mercati.
Oltre all'annuncio della S&P è stata una dichiarazione di George
Papaconstantinou a scatenare il terremoto. Il ministro delle finanze ha fatto un
appello disperato: la Grecia ha bisogno dei prestiti dell'Unione europea e del
Fmi entro il 19 maggio perché «non è in grado» di finanziarsi sui mercati. E poi
ha aggiunto che la «mancanza di chiarezza» sulla posizione dell'Europa «non è di
aiuto» al Paese. Non ha torto: l'Europa appare profondamente divisa e, Germania
in testa, molti paesi premono perché alla Grecia nulla sia «regalato». E anche
se Trichet, il presidente della Bce, ha cercato di tranquillizzare, sostenendo
che è «fuori questione un default Atene o dell'eurozona», le reazioni dei
mercati sono state violentemente al ribasso. Anche perché lo stesso Trichet non
ha fornito spiegazioni né voluto commentare l'andamento dei negoziati tra il
governo di Atene e Bruxelles sull'attivazione del pacchetto di prestiti.
La borsa di Atene ieri ha ceduto quasi il 7% (milano è andata giù di oltre il
3%) e l'intera Ue ha bruciato in borda oltre 160 miliardi: l'impressione è che
la crisi si stia propagando a altri paesi «periferici». I forti allargamenti
accusati sia dagli spread (rispetto al titolo di riferimento tedesco) sia dai
Cds, ovvero il costo assicurativo contro il rischio default, testimoniano i
crescenti timori vissuti dai mercati in questo senso. Nelle ultime battute i
differenziali hanno accentuato il trend. Per quanto riguarda gli spread del
segmento del decennale, quello greco si è portato a 718 punti base (come dire il
7,18%% in più rispetto al rendimento di quelli di Berlino). Si tratta del nuovo
massimo dal febbraio 1998. Lo spread del Portogallo è salito a 263 punti base;
quello della Spagna a 102,7, quello dell'Irlanda a 198,2 e quello dell'Italia a
101. Per quanto riguarda i Cds a cinque anni, il greco ha toccato un nuovo
record di 814 punti base (8,14%), il portoghese a 355, lo spagnolo a 200,
l'irlandese a 240 e l'italiano a 160. Una situazione già precaria che è
ulteriormente peggiorata nella parte finale della seduta: l'annuncio da parte di
Standard and Poor's prima del dowgrade del Portogallo e poi del taglio del
rating della Grecia a livello di junk hanno rappresentato un'ulteriore tegola
sui mercati del debito.
L'origine della crisi è la Grecia, sulla cui capacità di onorare i propri
impegni (scadenze e interessi) in vista delle scadenze di metà maggio pochi
ormai sono pronti a scommettere. Mentre nelle scorse settimane a vendere titoli
del debito greco erano soprattutto i fondi ellenici, ora a cedere il debito sono
anche le banche greche in forte difficoltà perché chi può ritira i soldi e li
spedisce all'estero. Di più: in queste ultime giornate ad abbandonare sono
soprattutto i possessori stranieri di debito greco che, secondo alcuni, è, o
meglio era, distribuito soprattutto in Francia, Germania Austria. Non di meno,
hanno osservato nelle sale operative, ad alleggerire le posizioni ci hanno
pensato anche le banche greche e gli istituzionali locali nel timore di non
riuscire più a dare alla Bce in garanzia i propri titoli per partecipare alle
aste di rifinanziamento. A questo punto i mercati non sono più tanto interessati
a quello che succederà alla Grecia, ma sembrano temere sempre di più l'ipotesi
di contagio. E alcuni operatori, pur sottolineando che altrove il bilancio della
seduta è stato ben peggiore, hanno fanno l'esempio di come sia andato ieri il
mercato del debito italiano. Il Tesoro ieri mattina ha effettuato un'asta di Cts,
Certificati del Tesoro, titoli indicizzati a due anni e nel pomeriggio questo
titolo veniva trattato sul mercato secondario già 20 centesimi sotto il prezzo
di aggiudicazione. Un brutto segnale che prelude a un rialzo dei tassi anche in
Italia. «Sono segnali - ha commenta un analista - che negli ultimi giorni non
avevamo mai visto: segnali di contagio».
28 aprile
In riva al mare
I genitori di un gruppo di ragazzi
di Annabah, in Algeria, non si danno per vinti e continuano a
cercare i figli scomparsi nel Mediterraneo
"La peggiore cosa è questo senso
di impotenza. Sono passati due anni. Sappiamo che sono vivi da
qualche parte, ma non possiamo fare niente per loro. E lo Stato
non ci aiuta a cercarli. I nostri figli non valgono abbastanza".
Mérouane,
Hadif, Faysal, Rédouane. Finiti gli sbarchi, restano loro. I
giovani dispersi nel Mediterraneo. Una lista di migliaia di
nomi, sulle cui sorti da anni si interrogano altrettante
famiglie del mare di mezzo. Soltanto ad Annaba, l'antica Ippona
che dette i natali a sant'Agostino, in Algeria, i dispersi
censiti sono 92. Scomparsi sulla rotta per la Sardegna tra il
2007 e il 2009.
Mérouane è partito il 17 aprile 2007. E da allora è scomparso.
Quella sera aveva addosso una strana euforia. Aveva chiesto al
padre, Kamel, se poteva andare tre giorni a Tunisi con degli
amici. Si salutarono velocemente, senza tante parole. Il
pomeriggio del giorno dopo, Kamel ricevette la telefonata della
moglie in lacrime. Piangeva a singhiozzi. Mérouane aveva preso
il mare, glielo aveva detto un suo amico. Suo padre lasciò lo
studio grafico e si precipitò a casa per capire quanto di vero
ci fosse in quella storia. In effetti c'era un testimone.
Su quella stessa imbarcazione
viaggiava Rédouane, il figlio di Hamdi, della baraccopoli di
Sidi Salem. A differenza di Kamel, Hamdi era a conoscenza dei
piani del figlio e lo aveva addirittura incoraggiato. Senza
nessun titolo di studio, con un padre disoccupato, cosa poteva
sperare dalla vita qui ad Annaba? Rimanere a Sidi Salem in
quelle condizioni significava rischiare di finire nei brutti
giri malavitosi di cui pullulava il quartiere e magari finire in
galera a vent'anni. Rédouane era un ragazzo ambizioso. A Sidi
Salem aveva una fidanzata. Volevano sposarsi. Ma un matrimonio
in Algeria, con i tempi che correvano, non sarebbe costato meno
di quattromila euro. E lui non voleva certo fare la fine del
fratello maggiore, che a trent'anni era ancora scapolo e senza
prospettive. Lui pensava in grande, avrebbe aiutato anche il
padre a uscire da quella baracca, senza dover aspettare per anni
le case popolari promesse dal Comune. E poi molti suoi amici
erano già partiti. In quel periodo era facile arrivare in
Sardegna.
Il padre non poté che
sostenerlo. E probabilmente non se lo sarebbe mai perdonato. Non
si sarebbe mai perdonato di aver pagato il biglietto della sua
scomparsa. A stento tratteneva le lacrime sul volto asciutto
mentre ne parlava. Ma dopotutto, non avrebbe potuto fare
altrimenti. Capiva perfettamente le ambizioni del figlio. Lui
aveva fatto lo stesso da giovane. Dal 1987 al 1993 aveva vissuto
e lavorato in Italia, tra Brescia, Bergamo, Milano e Ravenna.
La sera della partenza, Rédouane passò da casa con il figlio di
Kamel, Mérouane, e con altri tre ragazzi che si apprestavano a
partire. Erano i compagni di viaggio più grandi, e venivano ad
assicurarsi che il padre fosse al corrente di tutto e che il
figlio non stesse partendo a sua insaputa, magari dopo avergli
rubato in casa. Il padre li rassicurò, dette la sua benedizione
a Rédouane e lo baciò per un'ultima volta, come si faceva prima
di un lungo viaggio.
Partirono da una spiaggia
isolata di Echatt, al riparo da sguardi indiscreti. Al timone
c'era un marittimo, Kasmi Abdelouaheb, classe 1968. Uno col
libretto di navigazione, uno che in mare c'era cresciuto,
lavorando per anni sui mercantili in Francia e in Belgio.
La barca salpò alle dieci di sera. Due ore dopo, a mezzanotte,
Hamdi riuscì a parlare con il figlio, telefonando a uno dei
ragazzi che si era portato a bordo il cellulare. La sorella gli
parlò di nuovo alle quattro del mattino, e per un'ultima volta
alle nove. Più tardi, quando lo stesso Hamdi provò a comporre di
nuovo il numero, a metà mattinata, il telefono era
irraggiungibile. Rédouane sarebbe scomparso nel niente, assieme
al figlio di Kamel e agli altri otto ragazzi dell'equipaggio.
Da quel giorno, i padri dei
ragazzi dispersi non si danno per vinti. Sono pronti a
scommettere che i figli non siano morti annegati. È impossibile,
dicono, che i naufraghi siano scomparsi nel niente. Ma nei
faldoni della Prefettura di Cagliari, degli algerini scomparsi
in mare non c'è traccia. E allora l'unica ipotesi che resta in
piedi è che si trovino detenuti in qualche carcere in Tunisia.
Ma non ci sono prove. Il comitato dei padri, guidato dal signor
Kamel, ha prodotto un dossier sui 92 dispersi e l'ha consegnato
ai deputati del parlamento algerino, alle ambasciate e alla
stampa, ma senza nessun risultato. La cosa sembra non
interessare a nessuno. E i padri si ritrovano sempre più soli,
abbandonati al loro sconforto. E a un lutto impossibile da
elaborare senza una salma su cui piangere. "Ma lo sanno - si
chiede Kamel - i Sarkozy, i Berlusconi, i Bouteflika, i Ben Ali
cosa vuol dire lavare il sedere di un neonato? Conoscono l'odore
dei pannolini? Hanno mai accompagnato per mano il proprio
bambino al primo giorno di scuola? Ma lo sanno i Sarkozy, i
Berlusconi, i Bouteflika, i Ben Ali cosa vuol dire perdere un
figlio?".
Gabriele Del Grande
26 aprile
Catania Connection
di Lirio Abbate e Gianfrancesco Turano
Il caso Lombardo riporta l'attenzione sull'altra capitale siciliana. Dove
Cosa nostra, politici e imprenditori proseguono i loro affari nel silenzio
Milioni
di metri cubi e un nuovo partito politico. Catania costruisce. Catania inaugura.
Chiacchiera, anche. Qui non siamo a Palermo, dove mezza parola deve bastare. I catanesi raccontano tutto. Tutto degli altri, ovviamente. Così, mentre a Palermo
le inchieste giudiziarie e gli arresti hanno messo in ginocchio Cosa nostra e i
suoi favoreggiatori borghesi, a Catania la mafia si rafforza sempre di più,
perché intreccia imprenditoria e politica, facendo avanzare in silenzio volti
nuovi, inseriti anche ai vertici delle associazioni di categoria.
Il governatore della Sicilia, Raffaele Lombardo, catanese con casa a pochi passi
dalla chiesa del Carmine, nella piazza dove si tiene il mercato della 'fera 'o luni' (fiera del lunedì), ha replicato alle accuse di mafia mettendo all'indice
il trasversalismo dei suoi nemici. Fra i bersagli del presidente siciliano ci
sono soprattutto i concittadini Enzo Bianco, ex sindaco oggi senatore Pd, e Pino
Firrarello, senatore Pdl dell'ala lealista, quella che lotta contro la
destabilizzazione portata dal Mpa di Lombardo e che vede l'ipotesi di Lega del
Sud come il fumo dell'Etna.
Questo scontro politico-giudiziario rallenta l'afflusso di denaro e il sereno
andamento degli affari. Ma, secondo gli osservatori locali, lo sciame sismico
turberà ancora per poco la pax catanensis. Lombardo è dato in uscita. A giugno è
prevista la chiusura dell'indagine e una richiesta di rinvio a giudizio
bloccherebbe l'espansione del governatore. Dopo le scosse, gli affari potranno
riprendere sotto l'occhio di una magistratura finora poco incline agli assalti e
di un'informazione dominata da Mario Ciancio Sanfilippo, editore della Sicilia e
di Telecolor, padrone della pubblicità locale, membro del comitato esecutivo
dell'Ansa e immobiliarista dal tocco infallibile. Sui terreni che aveva comprato
vicino all'aeroporto di Fontanarossa alla fine di marzo è stato aperto un nuovo
mega centro commerciale con un mega guadagno per Ciancio. Alle ore 14 c'era
l'inaugurazione, alle 10 il Comune ha inaugurato la strada.
Nella stessa zona periferica a sud della città, verso le spiagge dorate della
Plaia. Ciancio dispone di altri 600 mila metri quadrati di ex agrumeti ridotti a
sterpaglie e pronti a trasformarsi nella prossima strepitosa plusvalenza grazie
al Pua. La sigla sta per Piano urbanistico attuativo del Comune, dove comanda il
sindaco Raffaele Stancanelli, compagno di Lombardo dai salesiani e pidiellino
lealista. Il piano prevede sul lungomare un palazzo dei congressi, campo da
golf, cinema multisala, parco del mare, acquario e campi da tennis. Il tutto a
breve distanza dalla mitica Etna Valley, il distretto industriale specializzato
in elettronica sulla falsariga della Silicon Valley californiana e trainato
negli anni Novanta dalla Sgs di Pasquale Pistorio.
La crisi, qui, ha colpito duro. La St microelectronics, che è subentrata a Sgs,
nel 2009 ha fatto due mesi di cassa integrazione. "Etna valley ha nuovi scenari
con le energie alternative e i film fotovoltaici ultrasottili", dice il
presidente di Confindustria locale, principe Domenico Bonaccorsi di Reburdone,
eletto dopo uno scontro terrificante basato su chi era il più antimafioso del
reame. La battaglia si è conclusa con la sconfitta del montezemoliano Fabio
Scaccia, che nel frattempo ha fondato la Banca Base insieme all'industriale
delle mozzarelle Zappalà e a Pietro Agen, potente presidente della Camera di
Commercio.
Alla domanda su quante imprese siano state estromesse da Confindustria Catania
secondo i dettami del presidente regionale Ivan Lo Bello, la risposta di
Bonaccorsi è: una su 600. Né si può sapere quale sia. "Posso solo dire", dice
Bonaccorsi, "che l'azienda operava negli appalti pubblici e che si è,
correttamente, autosospesa".
Nonostante le speranze fotovoltaiche, lo sviluppo dell'industria appare
stentato. Appena oltre la sede di St microelectronics, Etna Valley è stabilmente
occupata da cani randagi, non tutti amichevoli. Sono i discendenti dei bastardi
che scorrazzavano fino alla centralissima via Etnea, ai tempi del crac delle
finanze municipali e dell'Enel che tagliava la luce dei lampioni al
sindaco-taumaturgo Umberto Scapagnini. Fra capannoni abbandonati e strade
accidentate, l'altra zona viva del distretto industriale è quella occupata da
due ditte di trasporti. Una è la Di Martino, del vicepresidente di Confindustria
locale Angelo Di Martino. L'altra è la Sud Trasporti della famiglia Ercolano.
Insieme possiedono diverse centinaia di tir, tanto che Angelo Ercolano è
presidente regionale della Fai, la Federazione autotrasportatori.
Non proprio uno qualunque, Angelo Ercolano. È l'ultimo rampollo della principale
famiglia mafiosa della città. Lo zio Pippo è il reggente della cosca Santapaola
(Nitto è suo cognato). Il cugino Aldo sta all'ergastolo per aver ucciso il
giornalista Giuseppe Fava. Per decenni la famiglia Ercolano ha investito i
propri denari nella ditta di trasporti, l'Avimec, poi confiscata per mafia. E
non c'è subappalto per movimento terra, da queste parti, che sia sfuggito alla
premiata ditta. Il vecchio boss Pippo, buon amico di Ciancio, fu arrestato in un
sottoscala negli uffici della sua azienda. E anche Nitto Santapaola da latitante
si spostava nascosto dentro i camion dell'Avimec. Adesso il nipote Angelo,
incensurato titolare della Sud Trasporti rappresenterà 1.500 padroncini catanesi
e sarà il punto di riferimento della Fai nazionale, oltre che un appoggio
importante per la Camera di Commercio di Agen, ligure di Imperia importato a
Sud.
A Catania dopo la nomina di Ercolano nessuno si stupisce. Perché qui la mafia ha
un volto borghese. I boss trascurano da tempo la lupara e si sono trasformati in
imprenditori nel campo dei rifiuti, dei trasporti, delle costruzioni e del
commercio. All'ombra dell'Etna l'organizzazione criminale non vuole apparire
violenta, secondo un metodo illustrato dai pizzini di Provenzano. Il boss
corleonese consigliava di fare impresa ai capi a lui più vicini. È lo stesso
suggerimento del boss Nitto Santapaola che ha sempre cercato la ricchezza nel
silenzio delle armi.
Fra chi è riuscito a inserirsi nei subappalti per la realizzazione dei centri
commerciali che circondano Catania c'è la Incoter della famiglia Basilotta. Uno
dei fratelli, Vincenzo Basilotta, è stato arrestato nel 2005 in un'operazione
che ha svelato i rapporti tra le cosche, il mondo delle imprese e quello della
politica. Dal carcere Basilotta ha ceduto le sue quote dell'azienda a uno dei
fratelli. Per i magistrati è un imprenditore organico a Cosa nostra, in
particolare al clan La Rocca, che rappresenta la famiglia Santapaola nella zona
di Caltagirone. I Basilotta si sono intrufolati in tutti i lavori più importanti
del catanese, del nisseno e dell'agrigentino. Da poco tempo hanno acquisito
anche una cava. Possibile? Certo. In Sicilia per ottenere una cava in
concessione dalla Regione non occorre alcun certificato antimafia. "La mafia è
niente al confronto della piovra burocrazia, così simile a quelle alghe che
soffocano il fondale marino". La valutazione è del presidente dei costruttori
Andrea Vecchio, in prima fila per la legalità e contro il racket, ma con
un'indagine a carico per avere simulato minacce telefoniche. La burocrazia non
ha scoraggiato l'arrivo sulla piazza di qualche impresa continentale. Sono molto
attivi i vicentini Maltauro, che hanno rilevato quanto restava dell'impero di
Carmelo Costanzo, uno dei quattro Cavalieri che furoreggiavano negli anni '80. I
Maltauro hanno realizzato Etna Polis, subappaltata ai Basilotta, e si sono
alleati con Uniter, la potenza locale emergente nelle infrastrutture pubbliche.
Nel giro di pochi anni dalla nascita (2003) Uniter è diventata una delle
maggiori imprese italiane, con lavori sulla Salerno-Reggio, sulla Terni-Rieti, a
San Donà di Piave, al porto di Genova. A Catania Uniter ha l'ospedale San Marco
e la metropolitana. I suoi fondatori sono un esempio del trasversalismo alla
catanese. C'è Mimmo Costanzo (nessuna parentela con Carmelo), ex assessore di
Bianco. E c'è Santo Campione, ex braccio destro del cavaliere Mario Rendo.
Uniter e Maltauro realizzeranno la Catania-Ragusa (815 milioni) insieme
all'eurodeputato Pdl Vito Bonsignore, cugino di Firrarello che, a sua volta, è
suocero di Giuseppe Castiglione, presidente della Provincia e coordinatore del
Pdl siciliano. Tutti e tre brontesi e tutti nemici di Lombardo.
Uniter è candidata anche ai lavori della darsena. La linea del litorale, il
cosiddetto waterfront, è la più calda per i buoni affari. Gli sbancamenti
previsti dovrebbero cambiare volto alla costa con un impatto ambientale
devastante. I padroni della città hanno già preso posizione. La Vecchia dogana
del porto è finita a Ennio Virlinzi, erede di una dinastia di industriali del
ferro che producevano i tondini per le monete, al tempo della lira. Virlinzi è
legato a Ciancio in vari business. Fra questi, quello dei parcheggi, un'altra
costante catanese insieme ai centri commerciali. L'editore-immobiliarista e
l'imprenditore siderurgico sono finiti sotto inchiesta assieme alla famiglia Di
Martino per lo scempio di piazza Europa, sul lungomare in centro, dove la sabbia
lascia il posto alla splendida scogliera lavica. La magistratura ha sequestrato
i cantieri a metà dell'opera. Adesso piazza Europa sfoggia un ecomostro di
pilastri mozzi.
I giudici sono stati più tolleranti con l'ex mulino Santa Lucia, una sorta di
meringa a mare fabbricata dall'Acqua Marcia di Francesco Bellavista Caltagirone.
Il costruttore romano ha potuto completare i lavori prima che fosse emesso il
decreto di sequestro. L'incidente di percorso non ha impedito all'università di
Catania di laureare Caltagirone honoris causa in ottobre alla presenza di
politici e del procuratore generale Giovanni Tinebra ( Guarda il video).
Acqua Marcia si augura che l'opera non resti bloccata quanto la lottizzazione di
Corso Martiri della Libertà, una colossale vasca nel cuore della città dove da
decenni si avvicendano progetti e proposte. Il pallino è in mano a un altro
forestiero, l'immobiliarista romano Sandro Parnasi, appoggiato da un manager di
ritorno come il catanese Aldo Palmeri, storico braccio destro di Luciano
Benetton a Ponzano Veneto. Per ora, l'unica decisione presa è l'abbattimento di
una scuola che è uno dei pochi edifici antisimici della città.
Contro la demolizione è intervenuto Dario Montana, coordinatore provinciale di
Libera. È il fratello del commissario Beppe Montana, assassinato dai corleonesi
nel 1985 alla vigilia del maxiprocesso di Palermo. Nell'occasione 'La Sicilia'
di Ciancio rifiutò di pubblicare il necrologio della famiglia. "È un'operazione
insensata e una beffa", dice Montana. "A fine maggio dedicheranno il teatro
della scuola a mio fratello e la palestra a Giuseppe Fava. Subito dopo
spianeranno l'edificio per spostarlo duecento metri più in là, dov'era previsto
un parcheggio per la Circumetnea. Tutto per fare cassa". E per costruire altri
centri commerciali oppure hotel che rimangono vuoti come le casse del Comune.
Così è, se vi pare. A Catania sono in pochi a indignarsi, come è accaduto il 9
ottobre 2008, quando 'La Sicilia' ha pubblicato senza alcun commento la lettera
del boss detenuto Vincenzo Santapaola. "La lettera", scrive il magistrato
Roberto Alfonso nella relazione della Direzione nazionale antimafia, "è stata
fatta uscire dal carcere tramite il difensore sottraendola in tal modo al
controllo della direzione" del penitenziario. Il tutto in violazione al regime
di 41 bis, il carcere duro imposto ai detenuti più pericolosi. A Catania accade
anche questo. L'importante è battere la burocrazia
Il rasoio di Nick Clegg
di Barbara Spinelli
Quel che sta accadendo nel Regno Unito è una storia importante perché in essa ci
siamo anche noi, e l'Europa, e l'America. È la storia di una grande illusione
che s'infrange, e del fascino che hanno esercitato, specie in Italia, persone
come Margaret Thatcher e Tony Blair. È la storia di un terzo uomo, che in queste
ore sta infiammando il suo Paese e ha deciso di far scoppiare la bolla inglese.
Molte ragioni spiegano la'scesa di Nick Clegg, il candidato liberal-democratico
che scompiglia l'Inghilterra alla vigilia delle elezioni del 6 maggio. Lo
scompiglio è dovuto in parte alla crisi del 2007-2009: ovunque, essa sovverte
pronostici, calcoli, abitudini. In Gran Bretagna, demolisce certezze decennali:
un laburismo chiamato «nuovo», che per 13 anni è vissuto del modello Thatcher;
un partito conservatore che è figlio dello stesso modello, pur esibendo la
maschera modernista di David Cameron.
Ma ci sono motivi più antichi, profondi. Quel che scricchiola, per la prima
volta, è l'identità postbellica dell'Inghilterra, è il suo rapporto con l'Europa
e l'America. Su questi e altri temi, il linguaggio di Clegg è come un vento
forte e insolito: ha toni eretici, e per i connazionali più che blasfemi. Per
certi versi, la sua ascesa somiglia a quella di Obama.
Nell'immobile firmamento delle certezze britanniche è apparso un guastafeste,
che dice verità scomode: come Al Gore sul clima, come Obama sulla razza. Clegg
non ha la straordinaria scaltrezza di Obama né la sua eloquenza, ma anche gli è
un outsider. È un europeista: il che vuol dire, per gli inglesi, un alieno.
Quando sulla Manica scende la nebbia, non è convinto che il continente sia
«tagliato fuori», come titolò un giornale nel 1940. È convinto che sia Londra a
tagliarsi fuori con le proprie mani. Tanti inglesi sembrano aver sete di verità,
sconveniente o no. Migliaia di giovani potenzialmente astensionisti stanno
correndo a registrarsi per il voto. I giornali parlano di cleggmania.
Le verità di Clegg è altamente sgradita da laburisti e conservatori, perché non
solo spezza un duopolio ma svela le menzogne di cui esso si nutre. Svela la
bolla della potenza inglese, innanzitutto, con disinvoltura iconoclastica. In
sostanza dice questo, agli elettori e a noi europei: le potenze vincitrici dalla
seconda guerra mondiale sono in declino, perché la vittoria stessa le ha
ossificate, ingabbiandole nell'illusione. Sia America che Inghilterra hanno
dormito su quegli allori, persuase che la loro supremazia mondiale fosse
imperitura e che ancora esistesse la sovranità assoluta dello Stato-nazione.
Ambedue hanno una storia imperiale alle spalle, che complica il congedo dal
nazionalismo occultandone le insidie.
La megalomania inglese ha assunto proporzioni grottesche, secondo Clegg. In un
articolo scritto sul Guardian il 19 novembre 2002, la profanazione del tempio è
stata radicale. Il Regno Unito è accusato di arroganza nazionalista, il suo
disprezzo per l'Europa e soprattutto per i tedeschi è ridicolizzato. L'articolo
conclude: «Tutte le nazioni hanno una croce da portare, e nessun Paese più della
Germania, con le sue memorie del nazismo. Ma la croce inglese è ancora più
insidiosa. Un mal riposto senso di superiorità, sostenuto da illusioni di
grandeur e da una tenace ossessione dell'ultima guerra, è qualcosa di cui ci si
libera molto più difficilmente. Abbiamo bisogno di essere rimessi al nostro
posto». I giornali vicini alla destra, imbestialiti, ritirano fuori l'articolo e
accusano Clegg di tradimento.
Eppure la storia lo conferma: ricostruirsi e ripartire è spesso più arduo per i
vittoriosi che per i vinti. I secondi hanno di fronte a sé una montagna, devono
riesaminare se stessi, agguerrirsi per uscire dalla prova vivi e liberi. I primi
non hanno davanti a sé che pianure verdi, apparentemente eterne, ignare di
baratri. LI'nghilterra è in caduta libera da decenni, ma infinita è la fatica di
aprire gli occhi. Lo'perazione di Clegg è quella di Buñuel nelChien Andalou: nel
cielo una nube solca la bianca luna, ed ecco la camera si sposta su una pupilla
femminile tagliata dal rasoio, perché locchio infine veda (il film esce nel
1929, anno della grande crisi).
Anche il rasoio di Clegg è affilato: smaschera la chimera inglese, la stoffa di
cui è fatta, le condotte drogate che secerne. Hanno questo fondamento chimerico
le relazioni privilegiate con l'America, il desiderio di ostacolare l'unità in
Europa come se ancora fossimo agli inizi del 900. Margaret Thatcher e Blair sono
stati i due campioni della grande illusione, e le elezioni del 6 maggio sono in
realtà un giudizio su di loro, sui falsi miti che hanno fabbricato in trent'anni.
Ambedue hanno creduto nella sovranità inviolata della nazione, coltivando con l'merica
quella relazione speciale che era la linfa vitale del mito. Clegg sconcerta
perché annuncia che l'mperatore, nudo, non è più prediletto ma «asservito alla
potenza Usa» (Daily Telegraph, 29-1-2010). Negli anni di Blair, «l'Inghilterra
ha agito come un passivo Stato satellite»: ha partecipato allillegale guerra in
Iraq, ha «vergognosamente taciuto» sulle torture a Guantanamo, sulla
deportazione dei sospetti di terrorismo nelle prigioni segrete all'estero (leufemismo
usato è extraordinary rendition, consegna straordinaria), sulla guerra
israeliana a Gaza, sull'obsoleta atomica inglese. Non si è accorta che Obama
punta su Londra solo se essa rafforza l'unione nel vecchio continente, «in modo
che lAmerica possa parlare all'Europa come a un unico soggetto». La preminenza
globale americana ha ceduto il passo a un mondo in cui contano Cina e India,
nuove superpotenze dell'Oriente, e ciò rende Britannia ancora più piccola. Nel
secondo dibattito televisivo, giovedì scorso, Clegg ha difeso l'Unione europea
perché «size does matter», la dimensione geografica non è irrilevante in una
terra che cambia.
Il vincitore inglese che riposa sugli allori non vede neppure le difficoltà
crescenti della propria democrazia. Non solo la sua atomica è obsoleta ma anche
il suo bipartitismo, che ha finito col perpetuare status quo e chimere,
nascondendo le mutazioni avvenute dentro casa oltre che fuori. Sono anni che gli
inglesi hanno smesso di concentrarsi sul duopolio, scegliendo una moltitudine di
partiti d'altro colore o l'astensione. È quello che rende non solo ingiusta ma
inefficace la loro legge elettorale, rigidamente maggioritaria. Secondo il
presente sistema (lo stesso che vorrebbe introdurre Berlusconi in Italia, per
l'elezione del Presidente della Repubblica) il partito che prende più voti si
conquista una smisurata maggioranza, senza dover negoziare alcunché con altre
forze rappresentative.
Tutto va bene se altre forze non esistono, come nell'Inghilterra degli Anni 50.
Allora, solo il 2 per cento degli elettori sceglieva partiti estranei a
conservatori e laburisti. La snodata società odierna non si esprime più così.
Nelle elezioni locali del 2009 il 40 per cento degli elettori ha votato partiti
diversi, fuori dal duopolio, e nelle ultime politiche 6 milioni hanno preferito
i liberali. Tanto più assurde diventano le vecchie regole: il Labour ha ottenuto
un enorme maggioranza parlamentare con poco più del 22 per cento dei voti. I
liberali, con un quarto di elettori, hanno meritato solo 10 deputati. È il
motivo per cui Clegg ha poche possibilità. Ma può disturbare parecchio: Gordon
Brown ha già assicurato una mini-riforma del sistema elettorale, e le urne
potrebbero incoronare un premier che senza liberali non sarà in grado di
governare.
La maledizione che grava sui vincitori delle guerre è questa, sempre. Arriva il
giorno in cui il piedistallo sul quale troneggiano vacilla, e il trono stesso si
rivela finto. Il modello economico della Thatcher è fallito. Quello del Nuovo
Labour pure, a meno che Brown non lo resusciti, magari non stavolta ma la
prossima. Blair ha creato questo marasma (la pace in Irlanda è probabilmente
l'unico suo successo politico). Ha distrutto la socialdemocrazia e i suoi
principi, per consegnare luna e gli altri ai liberali e al loro terzo uomo
Niger, l'altra faccia del
business minerario
Non solo risorse e occupazione, in Niger le
miniere di uranio gestite da Areva stanno provocando gravi danni ambientali ed
economici, come denuncia Greenpeace.
Ad
Akokan, in Niger, non conviene respirare a cuor leggero ed è meglio evitare di
bere acqua. In realtà, forse sarebbe bene anche non passeggiare per le strade.
Akokan è una città tossica, un piccolo villaggio in cui si respira, si beve e si
cammina sul veleno. E' questa l'altra faccia della medaglia di quelle miniere di
uranio gestite da Areva, che avrebbero dovuto fare da volano all'economia del
Paese e invece si sono trasformate in un boccone avvelenato, nel vero senso
della parola.
Villaggi tossici. Le accuse al colosso francese, leader nel settore
dell'energia nucleare, sono elencate, nero su bianco, in un dossier pubblicato
il 30 marzo da Greenpeace, redatto in base ai dati ottenuti dalle ispezioni
effettuate lo scorso novembre. Un rapporto che smentisce le dichiarazioni della
società pubblica. Areva, già chiamata in causa nel 2007, si era impegnata a
bonificare i territori in cui sorgono le miniere di uranio che ha in
concessione. Secondo i tecnici della Ong ambientalista, però, quelle bonifiche
non hanno mai avuto luogo e il risultato è che nelle città minerarie di Akokan e
Arlit, a circa 850 chilometri a nordest della capitale Niamey, 80 mila persone
vivono esposte a forti dosi di radioattività, causata dall'estrazione
dell'uranio, minerale necessario come combustibile per la produzione di energia
nucleare ed impiegato grezzo nella costruzione di armi atomiche.
Ad Akokan è stato registrata nell'aria una concentrazione di radon, un gas
naturale tossico, 500 volte superiore a quella normale. Ma qui sono contaminate
anche le strade, perché costruite con pietre ottenuto dallo scarto radioattivo
della produzione mineraria.
Ad Arlit, invece, quattro campioni su cinque hanno certificato la pericolosità
dell'acqua, con livelli di tossicità oltre i limiti fissati dall'Organizzazione
mondiale della Sanità.
Secondo Rianna Teule, una delle menti della campagna di Greenpeace in ambito
nucleare, "chiunque trascorresse anche meno di un'ora al giorno in questi posti,
sarebbe esposto ad una quantità di radiazioni superiore a quella annuale,
fissata come limite dalla International Commission on Radiological Protection,
riconosciuta per legge in diversi Paesi". Semplificando, in quei distretti è
pericoloso fermarsi persino per meno di un'ora al giorno, figurarsi viverci.
Né l'attività estrattiva minaccia solo la salute degli abitanti delle aree
minerarie. E' in pericolo, infatti, anche l'economia locale che, soprattutto nel
nord-est del Paese poggia ancora sulla pastorizia. Le miniere, che per
funzionare hanno bisogno d'acqua, assorbono le già esigue risorse idriche. Per
questo, nella regione di Agadez è a rischio la sopravvivenza dei Tuareg, dei
Kounta e dei Fula, così come quella di altre popolazioni nomadi che vivono di
pastorizia.
La scommessa nigerina. Il Niger, però, uno dei Paesi più poveri del
mondo, all'ultimo posto per i parametri fissati dallo Human Development Index,
ha scommesso sull'estrazione dell'uranio e in particolare su Areva che, presente
con le sue due sussidiarie, Somair e Cominak, è il più importante partner
commerciale e la più grande fonte occupazionale dello stato africano, dal quale
ricava oltre la metà della sua produzione di uranio. Per il governo nigerino,
insomma, le miniere sono una risorsa preziosa e non conviene stare troppo a
sottilizzare: una eccessiva fermezza nei confronti delle compagnie straniere in
tema di difesa dell'ambiente e della salute della propria popolazione, potrebbe
provocare una fuga delle società minerarie verso altri lidi. Proprio quel che il
Niger teme come il peggiore dei mali, visto che solo nel 2009 ha autorizzato
l'avvio di 139 progetti di ricerca per l'individuazione di nuovi siti a
compagnie canadesi, cinesi e australiane. Di sicuro c'è che una terza importante
miniera vedrà la luce tra il 2013 e il 2014, a Imouraren, per il quale Areva
avrebbe previsto un investimento di quasi due milioni di dollari. Un giacimento
enorme - uno dei più grandi bacini uraniferi del mondo, si legge sul sito della
compagnia francese che nel 2009 è salita al primo posto tra i produttori di
uranio - che potrebbe restare produttivo per oltre 35 anni.
Ma il Niger è in buona compagnia.
Il trend africano. L'intero continente africano, più in generale, può
vantare un'imponente ricchezza del sottosuolo, su cui siedono governi deboli e
facilmente corruttibili. Un binomio che fa gola a chi ha capitali da investire
Si trovano in Africa, ad esempio, due delle quattro nuove miniere di uranio
aperte tra il 2006 ed il 2009: Langer Heinrich, in Namibia, e Kayelekera, in
Malawi.
Il 20 per cento circa della produzione mondiale di uranio nel 2008 proveniva
dall'Africa, in particolare da Namibia, Niger e Sudafrica, ma in futuro la cifra
è destinata a crescere, dal momento che nei prossimi anni nuovi impianti
minerari saranno aperti nella Repubblica Centrafricana, in Namibia e in Botswana,
dove negli ultimi anni sono state concesse 138 licenze esplorative, 112 delle
quali nell'area del Central Kalahari Game Reserve, dove vivevano i Boscimani,
prima che il governo li espellesse, nel 2002. Erano d'intralcio al progresso.
Tre Paesi in cui Areva è presente, così come in Mozambico, attraverso la sua
sussidiaria Uramin, società britannico-canadese acquisita nel 2007, un
consistente pacchetto delle cui azioni (il 49 per cento) è stato poi rivenduto
alla cinese Cgnpc. Se si considera che il colosso francese ha miniere anche in
Namibia e Gabon e che conduce esplorazioni o si accinge a farlo in Algeria,
Ciad, Congo e Libia si comprende quale sia la sua forza in Africa, continente
dove sta scoppiando la febbra mineraria.
L'ultima arrivata è la Tanzania, con due importanti depositi di ossido di uranio
individuati nel centro e nel sud del Paese, per un peso pari a oltre 25 mila
tonnellate, vale a dire 2,2 miliardi di dollari, su cui metteranno le mani le
australiane Mantra Resources e Uranex Resources.
Alberto Tundo
Prof e buoi dei paesi tuoi
Insegnanti regionali doc, e test di dialetto per prendere la cattedra. La
Lega si scatena sulla scuola, anche Gelmini annuncia graduatorie regionali.
Eppure sono le scuole del Nord, piene di insegnanti che vengono dal Sud, le
migliori nei test internazionali. E i numeri sui trasferimenti smentiscono gli
allarmi
Lauree e abilitazioni non bastano, secondo la Lega, per fare l'insegnante. Ci
vogliono altri due requisiti. Il primo è una residenza di almeno cinque anni
nella regione in cui si chiede di insegnare. Il secondo è aver superato un esame
di cultura, tradizioni, dialetto locale che dovrebbero essere le singole regioni
a definire e gestire. Tutto ciò in un disegno di legge depositato lo scorso 30
marzo a firma dellon. Paola Goisis, segretaria della commissione istruzione e
cultura della camera, già insegnante di lettere e storia in quel di Padova.
Ancorché livornese di nascita. Se tale peccato originale Livorno non è proprio
profondo Sud, ma certo non è la Padania santissima abbia influito negativamente
su qualità e risultati della sua esperienza professionale, lonorevole non lo
dice. Anche se per Davide Boni, capogruppo della Lega nel Consiglio regionale
lombardo, non cè da dubitare dei guasti culturali, identitari, nutrizionali ?
inflitti a studenti e famiglie dal fatto che nelle scuole del Nord approdino
continuamente insegnanti che non sanno neanche cosè la polenta.
Ma è una cosa seria, questo disegno di legge (di cui si dice che potrebbe essere
iscritto entro l'estate allordine del giorno), o questa idea che anche gli
insegnanti, come le mogli e i buoi, debbano essere dei paesi tuoi è così
insensata e inattuabile che non vale la pena parlarne? Contraria al dettato
costituzionale, intanto, lo è di certo. Se l'amministrazione pubblica può, a
parità di merito, decidere di dare priorità nelle assunzioni a chi è residente,
per nessuna ragione invece può fare in modo che in Lombardia un siciliano con
più titoli culturali e professionali venga scavalcato da un bergamasco che ne
abbia di meno. Ma non ci si può fermare a questo. Ci sono anche altri motivi di
discussione. Il primo è che già lo scorso luglio Goisis si era applicata, e con
qualche successo, a far deragliare il disegno di legge sul governo delle
istituzioni scolastiche e sullo stato giuridico del personale docente di
Valentina Aprea, presidente Pdl della stessa commissione parlamentare. Guarda
caso dopo che, sia pure in modo non proprio univoco e comunque limitato a una
sola parte della proposta, si era intravista la possibilità di arrivare a
qualche mediazione bipartisan. Essenziale a farla andare avanti, visto che il
testo Aprea, in cui sono peraltro già contemplati per gli insegnanti albi
regionali e assunzione diretta da parte delle scuole, è fermo da così tanto
tempo (non c'è gran sintonia, è noto, tra l'ex sottosegretaria di Letizia
Moratti e la ministra Gelmini) che i suoi sostenitori cominciano a perdersi
d'animo. Ma allora Goisis non era andata oltre un test di dialetto come
condizione dell'immissione in ruolo: così grottesco (quanti sono, e quanto
diversi da una valle allaltra, i dialetti locali in Lombardia?) che perfino
Maria Stella Gelmini si era potuta permettere di prenderne garbatamente le
distanze. Oggi però, col trionfo leghista, il gioco si è fatto più duro. Il
nuovo ddl, forzando i tempi del passaggio alle regioni della gestione del
personale scolastico, contraddice apertamente la progressività e la cautela
dell'intesa tecnica stipulata recentemente tra stato e regioni sull'attuazione
del Titolo V. E alle regioni affida, in nome del federalismo, non solo la
titolarità della contrattazione collettiva integrativa ma anche il ruolo
strategico del reclutamento, finora di competenza esclusiva dello stato.
Categoria statale per eccellenza , gli insegnanti vengono così quasi
completamente regionalizzati. In un sol colpo, in sintesi, si materializzano i
classici due piccioni . Da un lato una pesante ipoteca sul disegno Aprea,
connotato del resto più da un'adesione alle suggestioni lombarde della
sussidiarietà targata Compagnia delle opere che al duro regionalismo leghista di
tipo veneto. Dall'altro la possibilità di riaprire i giochi, a proposito del
Titolo V, rendendo più complicato , in una Conferenza stato-regioni uscita
modificata dai risultati elettorali, il passaggio dall'accordo tecnico a quello
politico. Piatto ricco, insomma, dall'esito incerto, ma da non sottovalutare.
C'è però forse qualcosa d'altro, di più concreto e stringente, dietro
l'esasperato localismo del testo Goisis e le infuocate espressioni di ostilità
di chi lo sostiene all'emigrazione intellettuale da Sud a Nord. Che nelle scuole
del Nord ci sia un buon numero di insegnanti che vengono da altre aree del paese
non è affatto una novità, fin dai primi anni settanta. Attualmente sono il
19,8%, solo 1 su 5, ma in Lombardia gli insegnanti nati nelle regioni
meridionali sono il 31% (e un altro 9% viene da quelle del Centro). Sebbene i
leghisti strepitino contro la vera o presunta maggiore facilità con cui sotto il
Garigliano si ottengono diplomi, lauree, idoneità, iscrizioni agli ordini (e
qualcosa di vero deve pur esserci, a vedere il curricolo dell'avvocato bresciano
Gelmini Maria Stella), non pare proprio che da questa presenza aliena siano
derivate particolari difficoltà , o specifiche disfunzioni. Sono notoriamente le
scuole del Nord dicono indagini internazionali e nazionali - quelle che
assicurano i migliori risultati in termini di apprendimento.
E non regge alla prova dei numeri neppure il martellante argomento della
discontinuità didattica che deriverebbe dalla cattiva abitudine degli insegnanti
di provenienza meridionale di tornare precipitosamente al paesello subito dopo
aver acciuffato un'immissione in ruolo in terra veneta o lombarda. L'anno
scorso, documenta la Fondazione Agnelli, sulle circa 120.000 domande di
trasferimento solo 8.000 erano da una regione all'altra e di queste solo 3.000
da Nord a Sud. Ma quel che conta è che alla fine, dei 72.000 effettivamente
trasferiti, siano stati solo 692 gli insegnanti che dalle scuole del Nord Ovest
e del Nord Est si sono spostati in quelle meridionali. E neppure si può dare per
scontato che in tutti i casi si tratti effettivamente di rientri. Questo tipo di
migrazione intellettuale ha, del resto, delle ragioni specifiche, e ampiamente
note. Nel mercato del lavoro del Nord l'insegnamento ha sempre visto la
concorrenza di altre professioni, in particolare per i laureati in materie
scientifiche e tecnologiche, come indicano le tante graduatorie provinciali
esaurite o in via di esaurimento e perfino, qua e là, gli incarichi affidati a
neolaureati senza alcun titolo professionale. E per questo e per altri motivi
che il mercato del lavoro scolastico in Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia
Romagna è stato sempre più dinamico e ricco di opportunità che in altre aree del
paese. Maggiore lo sviluppo delle scuole materne statali e comunali. Più diffuso
nel primo ciclo il tempo pieno e altre tipologie di prolungamento orario. Più
numerosi gli istituti tecnici e professionali con orari più lunghi, più
discipline, e quindi più personale anche di tipo tecnico rispetto ai licei. E
ancora la Fondazione Agnelli a calcolare che per un insegnante precario
spostarsi al Nord significa accorciare l'attesa dell'immissione in ruolo di
almeno due-tre anni. Anche oggi ? Certo, anche oggi, e per motivi che hanno a
che fare soprattutto con altri tipi di migrazione.
Tra il 2007-2008 e il 2008-2009, nel sistema scolastico pubblico italiano cè
stata una diminuzione di circa 12.000 studenti. Ma è stato il Sud, dove il calo
demografico non è compensato dalla presenza crescente dei figli degli immigrati,
a perderne ben 52.000, mentre nel Nord il segno è positivo: più 18.500 nel Nord
Ovest, più 19.500 nel Nord Est (e più 2.500 nel Centro). Così in Lombardia nelle
graduatorie provinciali degli insegnanti precari gli iscritti non residenti sono
il 44%, in Emilia Romagna il 42,5%, in Piemonte il 35%. Lon. Goisis e i suoi
vorrebbero ricacciarli come barbari fuori dalle mura, anche a rischio di dover
imbarcare insegnanti con titoli culturali e professionali più deboli. O almeno
vorrebbero, come dichiara il governatore Cota che ha forse sentito dire che per
certe discipline possono esserci liste insufficienti , dare priorità
nell'assunzione in ruolo ai regolari, cioè ai regolarmente residenti da cinque
anni. In singolare analogia con quel che ritengono si debba fare, in tempi di
calo dell'occupazione, con i lavoratori stranieri immigrati. Dietro tutto ciò
non cè solo il territorio ridotto a fortino, la cittadinanza a certificato di
residenza, la cultura a un impasto tra tradizioni locali e dialetti. Ci sono
anche gli effetti di una crisi lunga e ostinata che può fare il miracolo. Può
cioè far diventare più desiderabile anche un lavoro modestamente retribuito, ma
a tempo indeterminato se di ruolo, come quello dell'insegnante. Anche tipico di
quella fannullaggine statale così indigesta al di sopra del Po. E cè forse anche
la percezione dei guai occupazionali che si stanno determinando per effetto dei
tagli che il governo di centrodestra, il loro governo, il loro Tremonti, impone
alla scuola pubblica. Con tutto quello che può derivarne quando a perdere posto
e a perdere le speranze siano anche insegnanti, di ruolo e precari, del Nord.
Come succede sempre più spesso delle proposte leghiste, anche le più bizzarre e
inattendibili, non si può più solo ridere.
Perchè la Chiesa non punisce
i preti pedofili
di Michele Martelli
Ultima notizia giornalistica dal fronte dei preti pedofili: papa Wojtyla
autorizzò nel settembre 2001 il cardinale Castrillon Hoyos (prefetto della
Congregazione per il Clero dal 1996 al 2006) a inviare all'episcopato di tutto
il mondo una lettera di elogio e congratulazioni a monsignor Pierre Pican,
vescovo francese di Bayeux, per «non aver denunciato un prete
all'amministrazione civile» e «aver preferito la prigione piuttosto che
denunciare il suo figlio-prete», rispettando la natura «sacramentale, non
professionale della relazione tra i preti e i loro vescovi». Il figlio-prete era
don René Bissey, condannato nel 1998 a 18 anni di carcere dalla magistratura
francese per aver commesso negli anni Ottanta e Novanta violenze e abusi
sessuali a danno di una decina di ragazzi (il testimone reticente vescovo Pican,
che nel processo tenne un contegno distaccato e altezzoso, ebbe soltanto tre
mesi con la condizionale).
Nell'episodio ci sono a mio parere tutti gli ingredienti che spiegano perché la
Chiesa normalmente non punisce i preti pedofili. Esaminiamoli brevemente.
1) Potere gerarchico - sacramentale del clero. Tra i sette sacramenti
della Chiesa, il sesto è quello dell«Ordine sacro» o «sacerdozio ministeriale o
gerarchico». Come spiega il Catechismo, «la parola ordo, Ordine, nell'antichità
romana designava soprattutto il corpo di coloro che governano» (n. 1537).
LOrdine sacro è quello che, munito di «sacra potestas, sacra potestà», governa
la Chiesa dei fedeli, ed è distinto nei tre gradi gerarchici dei vescovi,
presbiteri e diaconi. Al vertice della gerarchia cè il Sommo Pontefice. Ancora
più importante è la supposizione che i sacerdoti e i fedeli «differiscano
essenzialmente e non solo di grado» (n. 1547). I primi «sono posti in nome di
Cristo a pascere la Chiesa colla parola e la grazia di Dio» (Costituzione
conciliare Lumen gentium, 1964, nn. 10-11). Dunque, se la differenza è la stessa
che corre tra i pastori e il gregge, si tratterebbe di una differenza non
funzionale, ma ontologica. Il clero sacerdotale sarebbe per investitura divina
quasi unaltra specie. E perciò senza obblighi verso i comuni mortali,
soprattutto se teneri adolescenti. Comunque una sacra, mistica corporazione, da
separare e difendere dallesterno.
2) Superiorità della giurisdizione canonica su quella civile. Rientra
nella questione dei rapporti tra Stato e Chiesa. La Chiesa, in quanto parte
della società civile, è sottoposta alla legge dello Stato, alla magistratura, e
quindi al Codice civile e penale. In quanto societas perfecta, è sottoposta
invece alla legge di Dio, alla gerarchia, e quindi al Codice di Diritto
Canonico. Dove al papa, in quanto Christi Vicarius, si riconosce non solo la
«potestà ordinaria, suprema, piena, immediata e universale» (n. 331), ma anche
quella di «iudex supremus, giudice supremo in tutto lorbe cattolico», che «a
nemini iudicatur, da nessuno può essere giudicato» (nn. 1404, 1442). Quando il
diritto canonico confligge col diritto civile, prevale il diritto canonico. Che,
per i delicta graviora, come la pedofilia, prevede lammonizione, il
trasferimento, lisolamento, la penitenza e la preghiera, la sospensione a
divinis, fino alla riduzione allo stato laicale. Dunque, non la denuncia alla
magistratura civile. Nelle ultime Linee guide sugli abusi sessuali pubblicate in
questi giorni dalla Santa Sede, cè un rigo con un generico accenno allobbligo di
«seguire la legge civile allorché preveda la denuncia dei crimini alle
appropriate autorità» (chi deve denunciare chi? E se la legge civile di un paese
non prevede tale denuncia, bisogna continuare a coprire il reato?). A parte
questa pur apprezzabile novità, tutto il documento è dedicato alle procedure
interne, tratte dal diritto canonico, relative alla serie di indagini ed
eventuali misure disciplinari da adottare in casi di pedofilia, sotto la
giurisdizione del Congregazione per la Dottrina della Fede e in primis del Sommo
Pontefice. Nessun accenno al secretum pontificium, invocato nella famosa
direttiva del 2001 dellex prefetto Ratzinger sulla pedofilia. Dunque, il segreto
rimane in vigore, perché non cè un giudice superiore al pontefice. E il prete
pedofilo è tuttal più un peccatore, un problema interno alla Chiesa. Non lautore
di odiosi crimini da denunciare allautorità giudiziaria dello Stato.
3) Rifiuto dei diritti umani. La dottrina morale della Chiesa ha al suo
centro la dignità della persona umana. Tuttavia, la Chiesa non ha mai
sottoscritto le dichiarazioni dei diritti umani, politici, sociali e civili, da
quella francese del 1789 a quella dellONU del 1948 a quella dellUE del 2000, né
le Convenzioni internazionali sulla parità uomo-donna, sulla protezione
dellinfanzia ecc. (chi vuole approfondire il punto, può leggere il libro del
teologo spagnolo José Maria Castillo, La Chiesa e i diritti umani, 2009). Nel
Codice di Diritto canonico (1983) e nel Catechismo (2003) manca persino
lespressione «diritti umani o civili». Si può preservare la dignità della
persona umana senza rispetto e garanzie concrete, politico-giuridiche, per
lesercizio o la protezione dei diritti di libertà, uguaglianza, sicurezza,
integrità personale, autodeterminazione e così via? Un uomo senza diritti non è
un uomo. La retorica moralistica della Chiesa gerarchica si palesa e infrange
nella pratica del segreto pontificio che garantisce immunità e impunità ai preti
pedofili, omo- o etero-sessuali che siano. Ma questo Bertone, nella foga di
calpestare i diritti umani e civili degli omosessuali, non lo sa ancora.
Chi glielo dice?
3 aprile
Sergio Sinigaglia «Mezza canaja», da
prigione fascista a centro sociale
L'appuntamento
è davanti alla stazione di Senigallia. Nicola Mancini, trent'anni, dottorando in
scienze politiche all'Università di Catania, arriva in bicicletta, mezzo di
trasporto assai usato da queste parti. Ma per andare nella nuova sede del centro
sociale, a qualche chilometro di distanza, è preferibile usare l'auto. Il posto
è verso la frazione di Scapezzano, bisogna inoltrarsi per circa un chilometro
dalla statale. Una volta arrivati si può ammirare un panorama notevole, con il
bleu del mare che si staglia all'orizzonte. Alle nostre spalle l'ex fabbrica
Ragno, chiusa da venti anni, che cinque mesi fa i giovani del "Mezza Canaja"
hanno individuato come la sede delle loro iniziative. Siamo alla terza
occupazione in sei anni. Una vicenda nata proprio di questi tempi. Il nome del
centro sociale si rifà a un detto popolare molto noto nelle Marche: «Sinigaglia,
mezzo ebreo e mezza canaglia», battuta ben conosciuta da chi scrive per motivi
evidenti. Nicola è il leader "storico" del centro, la cui storia ci sembra
interessante soprattutto per chi a sinistra, in particolare dopo le ultime
elezioni, ripete che «bisogna ripartire dai territori». E, in questo senso,
l'esperienza del "Mezza Canaja" è particolarmente istruttiva. Una vicenda che
affonda le radici negli anni prima e dopo le manifestazioni al G8 di Genova. Il social forum e l'occupazione
«Anche qui - racconta Nicola - è nato un social forum, subito dopo i fatti del
luglio 2001. Poi sulle sue ceneri la componente giovanile ha dato vita al
collettivo "Il pane e le rose"». La nuova realtà incentra la sua attività su
temi generali, verità e giustizia su Genova, l'opposizione al conflitto
militare, prime riflessioni sulla questioni del reddito, ecc. «Ad un certo punto
chiediamo al Comune uno spazio e ci viene risposto di metterci in fila. Lo
facciamo per un anno ma, visto che non accade nulla, decidiamo di passare
all'azione». L'opportunità la danno i carabinieri, naturalmente non volendo.
Infatti Senigallia, nell'aprile del 2004, viene scelta come sede per la festa
nazionale dell'Arma. È prevista la presenza delle massime cariche dello Stato,
dal Presidente della Repubblica al ministro della Difesa. Quale migliore
occasione per inaugurare un percorso di conflitto e partecipazione? «Decidemmo -
continua Mancini - di fare una "incursione" e ci impadronimmo di un locale che
stava proprio lungo il percorso, a venti metri dal corteo ufficiale. Nel cuore
della "zona rossa" creata ad hoc per l'occasione. È da tenere presente che
eravamo a pochi mesi dai fatti di Nassiriya, e proprio in quei giorni il nostro
contingente si era macchiato di una strage di civili». La contestazione contro
il militarismo che caratterizza la giornata ha una vasta eco. Nasce il centro
sociale. I locali rimangono occupati per circa otto mesi, ma a sbloccare la
situazione è un concerto. «Vista la situazione totalmente bloccata, decidiamo di
organizzare un concerto con gli "Assalti frontali". L'iniziativa riesce e
riusciamo a portare milleduecento persone. Insomma un successone». La cosa
scuote la fredda amministrazione comunale, che decide di aprire una trattativa,
anche in considerazione che il posto occupato è pieno di amianto.
Così ai ragazzi del Mezza Canaja vengono assegnati i locali dell'ex Colonia Enel,
sul lungomare. La proprietà è di una società immobiliare che ha intenzione di
costruirci, ma, visto che per gli eventuali lavori di ristrutturazione ci
vorranno alcuni anni, il Comune coglie l'occasione per togliersi la gatta da
pelare e favorisce un accordo per un contratto di comodato d'uso gratuito. Il
posto è centro dello spaccio cittadino e i primi tempi non sono certamente
facili. «Noi abbiamo avuto il merito di ripulire un luogo e restituirlo alla
città. Lì erano presenti due bande di spacciatori, una di magrebini e l'altra di
anconetani. Ci sono stati scontri duri. Alla fine anche grazie al lavoro fatto
con i migranti, in collaborazione con l'Ambasciata dei diritti (associazione
regionale da tempo impegnata sul tema dei diritti dei migranti, ndr), e alla
mediazione degli stessi immigrati, siamo riusciti a venire a capo del problema.
Gli stessi spacciatori, alla fine, hanno riconosciuto la validità del nostro
progetto e hanno lasciato il campo libero». Da prigione fascista a...
Questa palazzina è poi diventata protagonista di uno scandalo del quale si sono
occupati anche i giornali nazionali (compreso il manifesto). In sostanza un
autorevole rappresentante della comunità ebraica senigalliese, Ettore Coen, ha
scoperto che tra il 1943 e il 1944 la struttura funzionò da campo di prigionia
per ebrei ed antifascisti. Questo mentre la proprietà e il Comune avevano
concordato la realizzazione di un residence di lusso, una volta cacciato il
centro sociale. L'ampia mobilitazione affinché fosse evitato l'abbattimento ha
avuto risposta negativa dall'amministrazione che di fronte alla proposta che il
luogo diventasse un "spazio della memoria", ha preferito spalancare le porte al
solito business. E l'ex colonia Enel è stata abbattuta pochi mesi fa. E il
centro sociale? «Una volta scaduto l'anno il contratto - prosegue Nicola Mancini
- ci è stato rinnovato ancora per sei mesi, finiti i quali è scattata una penale
di 150 euro al giorno. La proprietà, anche per questioni di immagine, non ha mai
voluto far intervenire la polizia, per cui alla fine con sulle spalle un debito
così oneroso, arrivato a trecentomila euro, abbiamo dovuto lasciare liberi i
locali in cambio della cancellazione del debito».
Fin qui la storia che vi abbiamo raccontata può sembrare simile a quella di
altre esperienze del genere. Ma invece dietro la lunga vertenza con
l'amministrazione comunale per il diritto ad uno spazio autogestito c'è
un'attività che negli ultimi anni ha privilegiato il radicamento sociale,
rispetto a logiche autoreferenziali che spesso contraddistingue esperienze del
genere. Senigallia è una città di quarantasettemila abitanti. Il piano
regolatore, risalente agli anni settanta, prevedeva una crescita fino a
centomila, previsione che, per fortuna, non si è avverata, anche se in estate
con i turisti, gli abitanti triplicano. Da sempre feudo della sinistra storica,
fino a poco tempo fa si caratterizzava per un'economia incentrata sul classico
turismo da riviera adriatica. Negli ultimi dieci anni, con la giunta targata
Luana Angeloni, dirigente storico del "partito", il cui marito è figlio di quel
Franco Rodano autorevole dirigente nazionale del Pci, è subentrata una politica
da piccola "città globale.
«L'esperienza di governo comunale targata Angeloni - dice Nicola - ha stravolto
Senigallia. E non do solo un'accezione negativa al termine. La tradizionale
economia è stata sostituita da un sistema incentrato sul terziario avanzato,
invitando i privati ad investire nella città, con la falsa idea che offrendo
loro lo spazio necessario, con il denaro fresco, la città si sarebbe
arricchita». In realtà si è svenduto il territorio e a beneficiarne soni stati i
soliti noti, anche se con un avvicendamento. «Si è creato un oligopolio,
sovvertendo i tradizionali luoghi di potere, per cui all'Etra costruzioni, sono
subentrati soggetti come la società che ha spianato la palazzina Ex Enel, o la
Immobiliare Roma che è imparentata proprio con la famiglia Rodano, quella del
sindaco». Insomma una città vetrina, dove ormai non si trova più un centimetro
di proprietà pubblica, con un centro storico il cui piano di ristrutturazione,
proposto da un nome autorevole come quello di Cervellati, sta portando
all'espulsione dei vecchi inquilini. A tutto questo il Mezza Canaja si è
opposto, con un lavoro capillare su vari fronti. In primis proprio sul tema
della casa. «Sono state occupate delle abitazioni sfitte di proprietà della
Curia. Inoltre abbiamo lavorato nei quartieri più a rischio di sfratti ottenendo
per una decina di famiglie il blocco. Tra l'altro in realtà eterogenee, con la
presenza di nazionalità diverse, abbiamo riscontrato una solidarietà
inimmaginabile». Le iniziative sociali
Altro fronte caldo quello della cosiddetta Complanare, una mega arteria che
dovrà attraversare la città, contro la quale è attivo un comitato cittadino, il
quale ha preso spunto dalla questione per promuovere iniziative cittadine sul
tema del consumo del territorio, alle quali ha invitato municipi virtuosi e
urbanisti di fama nazionale. Anche in questo caso al loro fianco ci sono stati i
giovani del centro sociale insieme a Rifondazione uscita dalla giunta Angeloni
proprio contro le politiche urbanistiche.
E veniamo alla questione degli immigrati e della sicurezza. «Il toro è stato
preso per le corna. Infatti abbiamo fatto un lavoro specifico nei quartieri più
a rischio, contestando l'introduzione delle telecamere e nello stesso tempo
favorendo la regolarizzazione degli immigrati, cercando di favorire il loro
inserimento nel mercato del lavoro, e sottraendo parecchi di loro allo spaccio.
Inoltre di fronte a casi di soprusi e pestaggi da parte dei carabinieri, siamo
arrivati a manifestare davanti alla caserma con forza fino ad ottenere il
rilascio di chi era stato fermato senza valide motivazioni. Infine abbiamo
promosso feste ed iniziative socializzanti nelle zone più degradate per far sì
che le gente si riappropriasse dei luoghi dove vive». La Lega arretra
E la Lega, in notevole crescita nelle Marche? Se alle europee a Senigallia aveva
avuto più del 5%, risultato confermato alle recenti regionali (5,7), alle
comunali di quindici giorni fa che dopo al regno della Angeloni hanno visto
subentrare il suo delfino Mangialardi, senza bisogno del ballottaggio, i
leghisti sono arretrati di circa due punti. C'è da dire che il voto di protesta
gli è stato sottratto dal candidato di Rifondazione Roberto Mancini che,
appoggiato da una lista civica e sorprendentemente dai rutelliani dell'Api, ha
ottenuto un importante 12%, un riconoscimento sia al lavoro svolto dopo la
rottura con il Pd che alla persona conosciuta e stimata da molti. Il partito di
Bossi ha comunque eletto un consigliere comunale e la differenza con il
risultato delle concomitanti regionali, per alcuni, è dato anche dalla pochezza
di chi si è presentato.
Ma in questo ultimo anno la Lega a Senigallia ha avuto comunque vita dura.
«Abbiamo sottratto loro il terreno iniziando dai simboli. Appena hanno iniziato
a fare riferimento alle tradizioni, "a Sena Gallica", alle nostre iniziative ci
siamo presentati, oltre che con le nostre bandiere, anche con i colori della
città, il rossoblu, il simbolo del comune, ecc. Inoltre ogni volta che hanno
cercato di ritagliarsi uno spazio con banchetti al centro, siamo interventi
circondandoli con i nostri striscioni, con volantini che denunciavano le loro
politiche xenofobe, con la parola d'ordine "oscuriamo le parole e i volti dei
razzisti". Nulla di violento ma praticamente nessuno li vedeva. Fino ad arrivare
alla contestazione di un loro raduno regionale difeso con cariche della polizia.
Dovevano essere centinaia. Erano una trentina, chi li contestava duecento».
Insomma dalla città vetrina che ha conquistato attenzione dai mass media
nazionali per il "Kater Raduno" e il Summer Jamborie (revival anni cinquanta),
dove si sta svendendo il suolo pubblico a favore delle voraci società
immobiliari, i giovani di un centro sociale, insieme ad altri soggetti civici e
singole persone, cercano di affermare un punto di vista diverso, lavorando
capillarmente nel territorio. Un esempio per la regione, e non sol
Geraldina Colotti Va in prigione
l'ultimo dittatore
Il
tribunale di San Martin (non lontano dalla capitale Buenos Aires) lo ha ritenuto
responsabile della morte di 56 oppositori politici, detenuti e uccisi nella base
militare Campo de Mayo, di cui è stato comandante in seconda tra il '78 e il 79.
In quel centro di tortura segreto, situato nella parte ovest di Buenos Aires (il
più importante nell'ultimo periodo della dittatura), furono incarcerati circa
4.000 oppositori, quasi tutti desaparecidos . In seguito, Bignone (82 anni), fu
l'ultimo dittatore che governò il paese, tra l'82 e l'83, fino al passaggio di
consegne a Raul Alfonsin (il 10 dicembre '83) e al ripristino della democrazia.
Ottenne la presidenza all'indomani della disfatta delle Malvine. Allora, il
regime tentò di stornare il malcontento popolare invadendo le isole britanniche,
sperando così di ricostruire un consenso fidando sul sentimento nazionale. Dopo
tre mesi di guerra, però, Londra riprese il controllo dell'arcipelago e la
sconfitta militare accelerò la fine della dittatura.
Nell'84, la Commissione nazionale sui desaparecidos pubblicò un primo rapporto
sulle violazioni dei diritti umani durante il regime militare, intitolato Nunca
mas (Mai più) e a una prima valutazione le persone scomparse risultarono circa
9.000. Un numero che le ricerche negli anni seguenti portarono a circa 30.000.
Il rapporto, diventato un libro, è risultato poi l'opera più venduta in
Argentina nei successivi dieci anni. Nell'85, nel primo processo alle giunte
vennero comminati numerosi ergastoli, ma due leggi promulgate da Alfonsin - la
legge Punto final e Obediencia Debida - misero allora fine alla resa dei conti.
Con la prima, venne anticipata la prescrizione dei reati ai militari in attesa
di giudizio, con la seconda vennero discolpati quelli accusati di atrocità per
ordine degli alti comandi. Nel '90 sarà il presidente Carlos Menem a liberare i
capi militari detenuti con un provvedimento di clemenza generale, in nome della
riconciliazione nazionale. Solo nel 2003, con l'abolizione della legge di
amnistia da parte del Congresso, riprenderanno i processi ai responsabili della
«guerra sporca» come Bignone: un torturatore passato in secondo piano, dato il
suo ruolo di governo in un periodo in cui la dittatura militare - ormai
ingestibile anche per i suoi sostenitori dell'epoca, in primo piano gli Usa -
aveva dovuto allentare parzialmente la tenaglia.
Insieme a Bignone, il tribunale di San Martin, non lontano dalla capitale Buenos
Aires, ha condannato per gli stessi reati anche gli ex generali Santiago Omar
Riveros, 83 anni, e Fernando Verplaetsen, 84 anni. Tutti hanno dichiarato di
aver dovuto combattere, negli anni '70, una «guerra interna contro il
terrorismo», eseguendo anche «ordini discutibili» emanati dai loro superiori.
Una «guerra sporca» appresa alla Scuola delle Americhe, luogo di addestramento a
guida Cia, che formò i più feroci dittatori dell'America latina. In un
documentario uscito in Francia - Escadrons de la mort, l'ecole francaise
(Squadroni della morte, la scuola francese)-, Bignone aveva anche spiegato come
gli alti ufficiali argentini avessero imparato a combattere «la sovversione» dai
loro omologhi francesi, che avevano applicato quei metodi contro la resistenza
in Algeria. Argomenti che Bignone ha ribadito in un documento letto in
tribunale, mentre nell'aula il folto pubblico ironizzava o ricordava gli orrori
perpetrati dai militari, che usavano anche rapire i figli degli oppositori
uccisi e darli in «adozione».
Soddisfazione per il verdetto è stata espressa dai familiari delle vittime. «La
giustizia a volte tarda ad arrivare, ma è comunque arrivata e questo è
l'importante», ha commentato Estela de Carlotto, la presidente dell'associazione
Madri di Plaza de Mayo. Per il ministro della Giustizia argentino, Julio Alak,
la sentenza è «un atto di giustizia esemplare perché riguarda uno dei più
sanguinari rappresentanti del genocidio nazionale commesso tra gli anni 1976 e
1983». Bignone e i suoi complici dovranno scontare la pena in un carcere per
detenuti comuni.
Il secco
"no" di Israele agli USA
Il premier Benjamin Netanyahu
ha ribadito che Israele andrà avanti con la costruzione degli insediamenti a
Gerusalemme Est.
Il
grande freddo sceso un mese fa tra Stati Uniti e Israele all'indomani della
visita del premier Benjamin Netanyahu a Washington, nell'ultime ore si è
trasformato in vero e proprio gelo diplomatico. Il governo di Gerusalemme ha
infatti confermato la decisione di non fermare gli insediamenti illegali nella
parte Est della città santa. "È semplicemente impossibile e inaccettabile che
qualcuno cerchi di spingerci a limitare la costruzione a Gerusalemme" ha
sostenuto subito dopo la notizia il ministro israeliano Benny Begin.
Malcontento Usa. Questa volta, a differenza delle precedenti
amministrazioni, gli Stati Uniti, dopo l'insediamento di Barack Obama alla Casa
Bianca si sono dimostrati molto più inflessibili sulla questione rispetto al
passato. Con i falchi repubblicani al governo, Israele era riuscita più di una
volta a predicare pace e seminare terrore. Una tattica resa possibile
dall'indifferenza del ticket Bush nei confronti del conflitto
israelo-palestinese e dall'impegno del governo a stelle e strisce nella lotta al
terrorismo internazionale prima in Iraq e poi in Afghanistan. Due anni fa, con
l'insediamento di Obama, le cose sono cambiate per arrivare nel tempo a
deteriorarsi profondamente. L'imprudenza di Netanyahu si era manifestata già lo
scorso 8 marzo, durante la visita ufficiale del vicepresidente Usa John Biden in
Israele. In quell'occasione il numero uno del Likud sfruttò l'onda mediatica
dell'arrivo di Biden per annunciare la costruzione di 1600 nuovi insediamenti a
Ramat Shlomo e prendere in contropiede oltre all'ignaro numero due dei
democratici anche lo stesso Obama. Due settimane dopo quel proclama fu la volta
del cambio di fronte e, insieme a un'esigua delegazione nazionale, Netanyahu
atterrò nella capitale statunitense per incontrare l'uomo del "Change". Quest'ultimo
fece capire fin dall'inizio l'aria che tirava fra le mura del Campidoglio con
una serie di gesti che lasciarono pochi dubbi ai cronisti di tutto il mondo.
Nessuna foto per la stampa, nessuna riunione a porte chiuse e, narrarono
testimoni, una improvvisa interruzione dei colloqui da parte dello stesso Obama
che lasciò la controparte israeliana insieme ai membri del suo staff nella sala
Roosvelt.
Situazione da recuperare. Nonostante qualche frase di circostanza
Netanyahu lasciò gli Stati Uniti con una spada di Damocle sulla testa: l'out out
di Obama sullo sviluppo di abitazioni a Gerusalemme Est. Dopo il rinvio, imposto
da Washington, del viaggio dell'inviato speciale in Medio Oriente, George
Mitchell il silenzio politico è stato interrotto, una settimana fa, solo dalle
urla della profughi che per le strade del campo di Shuafat, a Isawie, hanno dato
vita a un'estemporanea intifada contro tremila uomini delle forze di sicurezza
israeliana. Poi la calma, apparente, è scesa sulla capitale e sull'intera
vicenda. Oggi Netanyahu si è dimostrato più cauto se non nella sostanza quanto
meno nella forma annunciando il proprio "no" all'ultima richiesta Usa, prima
della nuova visita di Mitchell in Israele, prevista per il prossimo week-end.
Intanto mentre gli Stati Uniti si stanno lentamente defilando da una partita
nella quale - ha detto Obama - "non si può forzare Israeliani e Palestinesi se
non sono interessati al compromesso pacifico", dalla parte palestinese della
barricata c'è ancora chi spera, come il negoziatore Saeb Erekat che gli Usa
"siano capaci di convincere il governo d'Israele a dare un'occasione alla pace
fermando la costruzione degli insediamenti a Gerusalemme Est e nel resto della
regione".
Netanyahu, però, continua a fare orecchie da mercante non solo nei confronti di
un alleato chiave ma anche, e soprattutto, del 60 percento dei propri cittadini
che, secondo un'indagine dell'Università di Gerusalemme, vorrebbe la fine delle
operazioni edilizie e il rispetto degli accordi di pace.
Antonio Marafioti
Mosca,
processo ai neonazisti
Alla sbarra la più grande
organizzazione dell'ultradestra xenofoba russa: Slavianskiy Soyuz
Comincia oggi a Mosca il processo contro la più importante organizzazione
ultranazionalista russa: Slavianskiy Soyuz(Unione slava). Il gruppo di estrema
destra, il cui ideologo è Dmitry Demushkin, è accusato di estremismo e
istigazione all'odio. La corte dovrà decidere se Slavianskiy Soyuz ha il diritto
di esistere e di propagandare la propria ideologia attraverso marce e comunicati
sul suo sito web (www.demushkin.com). Il processo si terrà a porte chiuse.
Dieci
giorni fa il giudice Eduart Chuvasov, noto per aver presieduto la corte federale
in una serie di processi per omicidi di alto profilo imputati a skinhead, è
stato ucciso a sangue freddo nella sua abitazione. La sua morte è solo l'ultima,
in un'ondata di violenza ultranazionalista e neo-nazista che negli ultimi anni è
cresciuta esponenzialmente a Mosca e in tutta la Russia. Secondo il gruppo di
monitoraggio antirazzista 'Sova', nel 2009 71 persone sono state uccise e 300
ferite nei cosiddetti 'reati d'odio'.
L'espansione del nazionalismo russo ha trovato numerosi sostenitori anche in
rappresentanti politici dei diversi schieramenti, mentre il governo ha spesso
chiuso un occhio sugli omicidi, le minacce e le attività di queste
organizzazioni. In molti, infatti, hanno denunciato i tentativi - talvolta
riusciti - delle autorità russe di utilizzare tali movimenti per condurre le
loro battaglie contro le opposizioni democratiche che operano al di fuori del
sistema politico russo.
Chuvasov partecipò al caso del processo contro il razzista Artur Ryno,
condannato a dieci anni di lavori forzati per l'omicidio di 19 persone. Uno dei
commenti più pertinenti seguiti all'uccisione del giudice fu proprio quello del
leader di Slavianskiy Soyuz, Dmitry Demushkin: "Una nuova generazione sta
rimpiazzando le grandi organizzazioni di nazionalisti, una generazione di gruppi
disparati di giovani autonomi che commettono i crimini più seri e violenti".
Lamentando la richiesta di messa al bando della sua organizzazione da parte
delle autorità russe, Demushkin ha prefigurato una minaccia diretta al governo:
"L'ondata di attacchi di gruppi nazionalisti fuorilegge si intensificherà. Molti
giovani senza alternative cominceranno a diventare più aggressivi".
Per lungo tempo il governo russo non ha considerato le forze ultranazionaliste
come una minaccia al suo potere o alla stabilità del Paese, ma come strumento
per rilanciare la retorica della madrepatria. Solo di recente, il Cremlino ha
gradualmente iniziato a comprendere il pericolo di tali gruppi. Il processo
contro Slaviansky Soyuz, e il capo d'accusa di 'odio a sfondo razziale' anziché
il più generico 'teppismo' del passato, rappresentano un passo storico verso il
riconoscimento del potenziale eversivo dei gruppi neonazisti, inclini sempre più
a strutturarsi come una vera e propria organizzazione criminale sganciata da
ogni controllo.
Luca Galassi
19 aprile
Niente business sulla sete,
l'acqua dev'essere pubblica
di Luigi De Magistris
In Italia sta crescendo il dibattito relativo al referendum sull'acqua. Questo è
un bene. È questo il momento della chiarezza, in modo tale che i cittadini siano
informati con correttezza.
Le opzioni sono sostanzialmente tre.
La prima: la privatizzazione dell'acqua. In tal modo le multinazionali
internazionali attraverso il controllo della sete possono monetizzare anche i
bisogni primordiali dell'essere umano. Il profitto selvaggio contro la vita. È
una della cause della migrazione, della categoria degli immigrati clandestini,
delle non-persone considerate dal governo rifiuti della società consumistica.
Deflagra una delle contraddizioni del populismo neo-fascista della Lega.
Sponsorizzano la privatizzazione dell'acqua che, nel globo, è uno dei motivi
delle migrazioni dei popoli. Immigrati che poi la Lega utilizza per sfondare con
la sua propaganda razzista e xenofoba che tanto piace a quella parte del paese
privo ormai anche della pietas.
La seconda: l'acqua gestita dalla società miste pubblico-private. Proposta che
piace a una parte importante del centro-sinistra. Soluzione ambigua che non
garantisce trasparenza. Le società miste pubblico-private - strumento
giuridicamente lecito che non va criminalizzato - sono divenute in molti casi il
principale strumento per realizzare affari attraverso controllo e drenaggio di
denaro pubblico. Il luogo in cui si incontrano la lottizzazione partitocratica,
i prenditori di soldi pubblici, la solita cricca di professionisti che usa
andare a braccetto con la politica, la borghesia mafiosa.
La terza: l'acqua è un bene pubblico. Il primo, insieme all'aria. Un bene
indisponibile, di tutti; un bene comune. L'accesso all'acqua dovrebbe essere
gratuito. Acqua e proprietà privata non dovrebbero avere relazioni. Acqua e
profitto, termini antitetici. L'acqua è natura, è di tutti, è un patrimonio
dell'umanità; è del popolo, non è di sinistra, né di destra. È comunista, nel
senso di uguale per tutti.
Tre ipotesi, tre opzioni. Non è però il momento del gioco delle tre carte. Si
deve essere chiari e trasparenti, così come dovrebbe essere l'acqua che sgorga
dai rubinetti. E dobbiamo essere uniti.
Il merito della lotta per l'acqua pubblica è in primo luogo del Forum delle
associazioni per l'acqua, delle donne e degli uomini, di cattolici e laici, che
da anni si battono per questo bene. Lotta concreta e, perché no, anche
ideologica, nel senso puro del termine.
Il merito è anche di quelle formazioni politiche, di quei politici e personaggi
pubblici che da anni conducono identica lotta. Nel centro-sinistra vi è un
dibattito acceso che ruota soprattutto sulle due ultime opzioni. La mia
impressione è che il popolo dell'alternativa al sistema vuole l'acqua pubblica.
È questo il messaggio che sta passando nel Paese.
Il tema è questo: l'acqua è pubblica, oppure è un business? A questa domanda la
risposta non può che essere unica: l'acqua è un bene pubblico, il capitale non
può ridurre alla sete gli individui. La persona viene prima del profitto, il
diritto prima degli affari, la trasparenza al posto del crimine: le prime due
opzioni, infatti, diventano occasioni ghiotte per il godimento affaristico del
partito unico trasversale della spesa pubblica fortemente inquinato dalla
criminalità organizzata.
La crisi travolge la coop
Basaglia
Andrea Luccehtta
A
due mesi dalle celebrazioni per il trentennale della «Legge Basaglia», la
cooperativa fondata dal più importante riformatore della psichiatria italiana è
stata costretta a entrare in cassa integrazione. Un duro colpo per i suoi 220
dipendenti, il 43 per cento dei quali proveniente dall'area del disagio
psichico. Il centro della vicenda non può che essere Trieste, capitale
dell'azione basagliana oggi afflitta dall'onda lunga della crisi e gravata da un
sistema degli appalti quantomeno discutibile, capace di fomentare una guerra di
prezzi fra le cooperative sociali.
Adriano Sincovich, della Funzione Pubblica Cgil, sottolinea la particolarità del
capoluogo giuliano. «Due terzi dell'economia cittadina si regge sul settore dei
servizi, perciò siamo entrati più tardi nel vivo della crisi. Adesso, però,
paghiamo un conto persino più salato che altrove: basti pensare che gli
avviamenti lavorativi a tempo indeterminato sono crollati quasi del 70 per
cento».
Roberto Colapietro è il presidente della Cooperativa Basaglia. Il suo sportello
costituisce un osservatorio privilegiato per comprendere la gravità del momento.
«Ogni settimana, si presenta da noi una cinquantina di persone in cerca di
lavoro, e spesso si tratta di laureati». Difficile credere che in altri momenti
avrebbero fatto la fila per una cooperativa che vive di pulizie, ristorazione,
manutenzioni edili, trasporti e logistica. Un caso meglio di altri si presta a
descrivere la situazione: «Poche settimane fa, si è presentata una donna che era
stata assunta con un contratto a progetto per lavare scale. Un contratto a
progetto: ma ci rendiamo conto? La volontà, evidentemente, è quella di
esasperare la flessibilità dei rapporti di lavoro. Noi non abbiamo potuto
assumerla, e adesso lavora in nero».
Un caso tutt'altro che eccezionale, frutto della guerra fra poveri che sta
opponendo le cooperative sociali del capoluogo giuliano. «Noi siamo dovuti
ricorrere alla Cig per una ragione ben precisa - sottolinea Colapietro - Abbiamo
perso degli appalti in cui, semplicemente, non potevamo competere. In un caso,
il nostro concorrente ha presentato un'offerta inferiore del 30-35 per cento. Un
prezzo del genere si spiega in due modi: o non riusciranno a garantire il
servizio promesso, oppure non vedo proprio come potranno rispettare i diritti
dei lavoratori. Inutile sottolineare che sarebbe necessario stringere la rete
dei controlli, per garantire una concorrenza corretta e sostenibile».
Il problema, insomma, è costituito dallo stesso sistema degli appalti, capace di
esasperare la competizione fra cooperative che, per loro natura, svolgono un
ruolo sociale di primaria importanza. «È un meccanismo che incentiva la
flessibilità, estraneo a qualsiasi logica di sviluppo del territorio. Se
l'amministrazione pubblica persegue il solo obiettivo di ridurre i costi, attua
una politica miope. Cooperative come la nostra generano reddito per delle
persone che, altrimenti, graverebbero in maniera ben più consistente sulle
finanze pubbliche». Difficile allontanare il sospetto, poi, che la nuova fase
politica sia estranea alle difficoltà di soggetti tradizionalmente vicini ad
altre aree politiche. In Friuli Venezia Giulia il vento è cambiato, e pure più
pesantemente che altrove. Basta pensare a Franco Rotelli, basagliano di ferro ed
ex dirigente dell'Azienda Sanitaria, rimpiazzato nonostante la Regione avesse
certificato il raggiungimento del 100% degli obiettivi fissati dalla stessa
Giunta Tondo.
Colapietro, da parte sua, assicura che sarà fatto il possibile per evitare che i
lavoratori «in disagio» siano coinvolti dalla sospensione del lavoro. Se questo
non avvenisse, però, le conseguenze rischierebbero di diventare drammatiche.
Mario Reali, psichiatra dell'equipe Basaglia, mette in guardia dai pericoli di
una simile eventualità: «Il lavoro rappresenta lo strumento principe per il
reinserimento e la guarigione dei soggetti più deboli. Se la crisi finisse per
colpire anche loro, l'intero percorso terapeutico risulterebbe in pericolo».
'Un'impresa
criminale diretta da Uribe'
Questo il commento del
presidente della Corte suprema colombiana sul caso delle intercettazioni e dei
pedinamenti che Uribe avrebbe ordinato agli 007 contro magistrati, giornalisti e
difensori dei diritti umani scomodi e da eliminare
"Un'impresa
criminale diretta dalla Casa del Nariño". "Sinistro". "Assolutamente
allarmante". E sono solo alcuni dei commenti rilasciati dai vari magistrati,
incluso il presidente della Corte Suprema di Giustizia - massimo tribunale di
giustizia ordinaria colombiano - dopo aver esaminato le prove presentate dalla
procura sulle intercettazione illegali e i pedinamenti fatti dai servizi segreti
(Dipartimento amministrativo di sicurezza, Das), sotto diretto controllo del
presidente della repubblica Álvaro Uribe. Vittime: i magistrati, e non solo.
A chiudere le indagini iniziate ormai da tempo, l'arresto avvenuto la settimana
scorsa di cinque alti funzionari, fra i quali il capo dell'Intelligence e quello
del Controspionaggio. Le prove sembrano schiaccianti: negli ultimi anni, e in
particolare nei periodi elettorali e quando i tribunali dovevano decidere sulla
costituzionalità di un eventuale terzo mandato di Uribe, ogni sessione plenaria
dei magistrati era puntualmente registrata da una spia, che trascriveva in
maniera criptata le parti che riguardavano direttamente il presidente. Che
pretendeva che gli 007 controllasero i giudici anche a casa, con il medesimo
criterio: ogni volta si parlava di lui, le conversazioni dovevano essere
trascritte e consegnate.
E nel mirino non c'erano solo i giudici: più di 200 politici, giornalisti e
difensori dei diritti umani venivano ascoltati e registrati, controllati passo
passo. "Non c'è dubbio che il responsabile politico di questi crimini, di queste
violazioni dei diritti fondamentali sia Álvaro Uribe", si è precipitato a
precisare Gustavo Petro, candidato presidenziale per il Polo Democratico, fra le
principali vittime delle intercettazioni illegali assieme a ogni singolo
candidato alle elezioni di maggio.
Ma i preferiti di Uribe restavano comunque i giudici. Fra questi, in
particolare, colui che si è specializzato nel perseguire i paramilitari, César
Valencia Copete, che aveva più volte denunciato le pressioni telefoniche
ricevute dal presidente, circa le indagini contro suo cugino, l'ex parlamentare
e proprietario terriero Mario Uribe, oggi in carcere.
Ma il braccio della piovra non si limitava alla Colombia. Secondo la
documentazione raccolta dal procuratore incaricato di indagare sulla grave
vicenda, il Das agiva anche in Europa. Tramite il responsabile delle operazioni
estere Germán Villalba, gli 007 colombiani manipolavano conversazioni e mail di
difensori di diritti umani e Ong, in modo da simulare una presunta collusione
con i gruppi guerriglieri e screditarli.
"Quello che ha scoperto la fiscalia è molto più grave del Watergate, lo scandalo
di spionaggio contro l'opposizione che nel 1974 costò la poltrona al presidente
Usa Richard Nixon", ha commentato a El Tiempo il presidente della Corte Suprema,
Jaime Arrubla.
Alcuni dei capi dei servizi segreti oggi in carcere hanno riferito di riunioni
con le più alte cariche della presidenza. In una di queste, l'allora direttrice
del Das, Maria Pilar Hurtado, chiese con urgenza la trascrizione di un Cd con la
registrazione di una sessione della Corte Suprema per consegnarla direttamente a
Uribe. Che smentisce senza cenni di imbarazzo. "La mia amministrazione non ha
mai ordinato queste intercettazioni", tuona. Un caso, quello delle
intercettazioni volute da Uribe, scoppiato nel febbraio 2009, ma mai ammesso da
Uribe. Che punta il dito contro presunti funzionari deviati, specificando di
essere stato egli stesso oggetto di intercettazioni illegali.
"Questo Governo non ordina nulla di illegale... mai è passato per la mente di
questo Governo di suggerire al Das di fare intercettazioni o di violare la
legge. In nessun modo", ha dichiarato il presidente uscente durante
un'intervista a Radio Santa Fe. Quindi precisa di non capire perché questo caso
vecchio di un anno venga rispolverato proprio adesso, insinuando però il
perfetto tempismo con la campagna elettorale: "Non so, guarda un po' come
coincide con il processo elettorale", ha dichiarato.
Intanto, la Fiscalía General ha messo dentro una decina di ex 007, ne ha
iscritti molti altri nel registro degli indagati e ha sequestrato montagne di
documenti trovati negli uffici del Das. Alcuni di questi sono stati visionati
dall'agenzia giornalistica Associated Press che riferisce come si tratti di
fascicoli approfonditi e molto personali. Ci sono foto di attivisti, dei loro
figli piccoli, curricula, descrizioni di attività quotidiane, e perfino dei
profili psicologici e dettagli sulla vita amorosa. Come se non bastasse, sono
stati persino trovati estratti conto bancari di alcuni magistrati.
Stella Spinelli
14 aprile
E al terzo giorno Frattini
si riscoprì ministro degli Esteri
Dopo le sparate: «Non li abbandoneremo». Ma
poi: «Non è un sequestro»
Al terzo giorno, il ministro degli Esteri italiano
Franco Frattini scoprì la presunzione d'innocenza e anche il diritto di
cittadini italiani tratti in cattività all'estero,peraltro nel «servire chi
soffre», a usufruire dell'assistenza della Repubblica. Ha mostrato d'aver
effettuato la scoperta ieri sera, Frattini, su Facebook. Sotto l'assedio d'una
indignazione che per sabato prepara una manifestazione di massa a fianco di
Emergency sabato a Roma in piazza Navona e in poche ore ha raccolto oltre
100mila firme sotto l'appello «Io sto con Emergency» lanciato dalla Ong - non
risconosciuta dal governo italiano, in Afghanistan, come proprio Frattini s'era
affrettato a dire sabato, subito dopo il raid militare nell'ospedale di Lashkar
Gah. E, soprattutto, al suono delle smentite su ciò in cui il ministro stesso
s'era avventurato: ossia la «notizia» della «confessione» da parte dei tre
italiani arrestati. Notizia smentita dal suo presunto diffusore, il portavoce
governativo della provincia di Helmand, Daud Ahmadi, per quanto l'inviato del
Times autore del relativo articolo dell'altro ieri continui ad attribuirgli
quell'esternazione e anche l'accusa agli italiani di «coinvolgimento
terroristico con Al Qaeda». Frattini ha dovuto argomentare dopo la smentita del
portavoce che quella del Times era stata «una lezione di disinformazione offerta
a tutto il mondo». Ha dovuto: perché domenica aveva avuto modo di dichiarare
«prego che non sia vero» ad una notizia data da una testata giornalistica e che
ha atteso poi la smentita, diffusa da altre fonti giornalistiche. Un ministro
attento alla pubblica opinione, insomma: resta oscuro come mai il titolare della
politica estera d'un Paese sin troppo esposto per contributo d'uomini mezzi e
soldi e per responsabilità sul campo com'è l'Italia nella missione Nato
denominata Isaf in Afghanistan, il ministro degli Esteri d'un Paese che per di
più ha ospitato conferenze internazionali sulla "ricostruzione" e il "processo
democratico" che dichiara di sostenere a Kabul, non abbia altre fonti che i
giornali e le agenzie, quando colà tre connazionali, cooperanti e uomini di
medicina, vengono fermati e poi trattenuti con accuse gravissime. A maggior
ragione non si comprende il silenzio di Frattini, così come del suo collega alla
Difesa, il normalmente loquace Ignazio La Russa, su un piccolo particolare di
qualche rilevanza quanto alla posizione ufficiale italiana nella vicenda: ossia
sulla partecipazione diretta di unità della stessa Isaf all'operazione
nell'ospedale di Emergency a Lashkar Gah. Partecipazione subito segnalata sabato
dalla Ong ma smentita immediatamente dopo dai comandi della missione Nato e
quindi dal lato italiano, come un sol uomo, proprio da Frattini e La Russa.
Peccato che da oltre 24 tutto il mondo abbia a disposizione un video che mostra
reparti britannici, compresi sottufficiali e ufficiali, con i distintivi dell'Isaf
all'opera precisamente durante la perquisizione nell'ospedale di Emergency,
quando vi sono stati fermati i nove componenti dello staff compresi i tre
italiani tra i quali il cofondatore dell'Ong e coordinatore medico del progetto
in Afghanistan, il dottor Marco Garatti. Peccato anche che il video sia
dell'autorevolissima Associated Press: un dato cui ministri così attenti ai
media avrebbero dovuto essere sensibili. Ma invece, proprio su questo punto, il
silenzio delle autorità governative italiane è totale. E dovrebbe essere un
punto ben rilevante, al contrario, tanto per Frattini che ha sempre difeso le
scelte di continuità nel contributo all'operazione di pace» in Afghanistan,
quanto per La Russa che dell'aumento delle unità militari italiane impegnate sul
campo, della revisione delle regole d'ingaggio e dell'invio di cacciabombardieri
Tornado fra le dotazioni dell'Isaf ha fatto una sua bandiera, anche mediatica,
per tutto l'anno trascorso. Eppure il ministro della Difesa ha preferito parlare
solo per congetturare, ieri su La Stampa, su quanto «più cauto» dovrebbe essere
Gino Strada e quanto anzi avrebbe dovuto già «prendere le distanze dai suoi
collaboratori», alla luce (?) degli insegnamenti che secondo lui dovrebbero
offrire i precedenti (??) del Pci con le Br e del Msi coi Nar. In quell'intervista
concessa domenica, per non parlare del silenzio di tomba esibito nel corso della
giornata di ieri, non una parola sulle evidenze della partecipazione al blitz a
Lashkar Gah di quegli uomini della missione Isaf, cui l'Italia partecipa.
Frattini, poi, ha trovato modo di tornare alla polemica con Strada ed Emergency
subito dopo la sua esternazione "responsabile" su Facebook: ergendosi contro
l'accusa di «sequestro» dei tre italiani, elevata da Emergency visto lo scadere
delle 72 ore di fermo e l'assenza di autorizzazioni comunicate della
magistratura afgana, con l'argomento che «se cominciamo a parlare di sequestro
trasformiamo in una vicenda politica quella che è una investigazione alle prime
battute, che vogliamo seguire garantendo i pieni diritti ai nostri
connazionali». Garantirli, accettando l'assenza di garanzie?
Anubi D'Avossa Lussurgiu
13 aprile
Da Prandini
a Bertolaso, vent'anni di opere
di Anna Donati
La deroga diventa la regola, gli appalti finiscono in tangenti, le grandi opere affondano nella corruzione. Cos'è successo dalla prima alla seconda Repubblica? Come e perché siamo tornati al punto di partenza? Diagnosi di un male che può curare con buone regole, ma anche buone opere
Le dilaganti inchieste sulle opere ed eventi della Protezione civile e sulla corruzione ripropongono il tema delle attuali regole che governano il settore degli appalti
e lapplicazione poi concreta che ne deriva. Dal nord al sud, opere grandi e piccole, varianti urbanistiche e concessioni, piscine e forniture nella sanità, servizi di catering, consulenze, progetti, collaudi ed arbitrati: ogni intervento, secondo quanto è emerso, si presta a manipolazioni e pressioni indebite. Sono almeno quattro i fattori essenziali da affrontare per contrastare il fenomeno: un sistema di regole attualmente non capace di controllare a monte in modo efficace le procedure; la totale perdita di etica e senso dello Stato da parte di numerosi funzionari pubblici; la disattenzione dellopinione pubblica
e dellinformazione in nome del fare presto; il rapporto deformato e sovrapposto tra imprenditori e politica, con il reciproco sostegno economico ed elettorale.
Sarebbe un errore fare una critica indistinta, mentre serve ricostruire levoluzione del quadro di regole che ha sistematicamente ridimensionato procedure più rigorose, in nome della politica del fare presto che ha imposto il governo Berlusconi ma che ha influenzato anche il centrosinistra in molte occasioni.
Anche ai tempi dellinchiesta Tangentopoli nel 1992 emerse chiaramente che gli eventi speciali e le ordinanze della protezione civile per giustificare interventi urgenti ed affidati a trattativa privata, erano stati uno dei volani formidabili di corruzione. Basti pensare agli interventi per il terremoto dellIrpinia, agli interventi per il disastro in Valtellina, ai Mondiali del 1990, alle Colombiadi del 1992, i piani di ricostruzione eterni di Longarini - dove migliaia di miliardi di vecchie lire non si trasformarono in interventi bensì in tangenti, come ha accertato la magistratura.
Negli stessi giorni della grande inchiesta sulla Protezione civile, sui giornali è apparsa con minor rilievo la notizia che la Corte dei Conti ha condannato definitivamente Gianni Prandini, potente ministro democristiano ai Lavori pubblici tra il 1989 ed 1992, ad un risarcimento allo Stato di 5 milioni per danno erariale. Colpa di ben 449 appalti affidati dal ministro a trattativa
privata e che hanno causato un maggior esborso per lo Stato di 320 milioni di lire. Come dire che siamo ritornati alla stessa storia di 20 anni fa ...
Dopo il ciclone che travolse nel 1992 la prima repubblica su appalti e tangenti, il parlamento approvò nel 1994 la nuova legge in materia di appalti pubblici, su proposta del ministro Merloni. Conteneva regole molto stringenti sui limiti della trattativa privata e sulle ordinanze del protezione civile, sulle varianti in corso dopera e sui lavori complementari, separava progettazione ed esecuzione delle opere (altrimenti i progetti lievitano nellinteresse del costruttore), sostituiva il vecchio Albo dei Costruttori con la Soa - un sistema di certificazione controllato delle imprese di costruzione -, istituiva lAutorità
di Vigilanza sui lavori pubblici. Si fece la riforma dellAnas, eliminando lo stretto cordone ombelicale con il ministro e si misero in campo le delibere per adottare la riforma delle concessioni autostradali. Non si riuscì invece a semplificare il numero delle stazioni appaltanti in un numero stringato e controllabile, lasciando lattuale "babele".
Uno dei primi atti che assunse il governo Berlusconi al suo primo debutto nel 1994 fu di sospendere gli effetti della legge Merloni. Si dovettero aspettare diversi anni e il governo Prodi perché tornasse - se pur rivista in diverse parti - la nuova norma in materia di appalti e concessioni. E' in questo clima che si svolsero i lavori per le Olimpiadi invernali di Torino ed i lavori del Giubileo a Roma, eventi speciali ma che comunque sono stati realizzati con regole e vigilanza pubblica.
Lentamente cominciò lattuazione della legge Merloni: anche se a più riprese, emendamenti mirati riuscirono a strapparle dei pezzi, invocando leliminazione
dei lacci e lacciuoli che impedivano la realizzazione delle opere ed allungavano i tempi: un ritornello che ci ha inondato per anni e da cui certo non si è sottratto, tranne le solite lodevoli eccezioni, il sistema dellinformazione.
Nel 2001 la legge Merloni, con il secondo
governo Berlusconi, subì un affondo frontale: con la "legge obiettivo" è tornato lappalto integrato di progettazione ed esecuzione, si è semplificata la valutazione ambientale ed i progetti sono tornati ad essere di pessima qualità. Si è tentato anche di sopprimere lAutorità di vigilanza sui lavori pubblici: tentativo fallito, ma l'Autorità non ha mai avuto le migliori condizioni per svolgere il proprio lavoro in termini di risorse e di poteri efficaci. Nel settembre 2001 un decreto legge ha ricondotto la Protezione civile sotto la Presidenza del consiglio, e nella conversione parlamentare ha poi allargato, su prposta del governo, la sua competenza della Protezione civile ai grandi eventi. Inutile ricordare che il piccolo drappello di Verdi allora presente in parlamento ben si accorse dellimpatto della norma e, benché intervenne con ostinazione per segnalare la gravità della cosa, rimase naturalmente abbastanza inascoltato, anche a sinistra.
Il risultato di che cosa significhi definire qualsiasi cosa un grande evento ed evitare in questo modo di affidare appalti e servizi con gara di evidenza pubblica, lo abbiamo visto tutti.
Infine nel 2006, a pochi giorni dalla nuova tornata elettorale, il governo Berlusconi ha emanato il nuovo codice appalti elaborato da Pasquale De Lise, presidente del Tar del Lazio, che partendo dal necessario recepimento di due direttive europee, riassume in un codice unico degli appalti, in cui si allentano ulteriormente alcune misure, tutte le norme del settore. Se da un lato è vero che le norme europee dovendo tener conto di regimi giuridici e sistemi imprenditoriali diversi, hanno maglie molto larghe e contengono anche forti innovazioni, è pur vero che esse sono state sempre utilizzate per allentare ulteriormente il sistema di regole italiane.
Nei due anni di Governo Prodi vengono corrette le norme più devastanti, si adottano riforme stringenti delle concessioni autostradali, si rimettono a gara le tratte non iniziate dellalta velocità ferroviaria ma, certo, non si è frenata la logica dei "grandi eventi" affidati alla Protezione civile, nè si è corretta la Legge obiettivo per le grandi opere, perché spesso anche nel centrosinistra la cultura del "fare presto" è sembrata inconciliabile conregole e procedure di controllo.
Con il ritorno del terzo governo Berlusconi, i grandi eventi e le ordinanze della Protezione civile diventano la regola, si cancella la riforma delle concessionarie autostradali, che tornano a realizzare il 60% dei lavori direttamente con le proprie imprese, si restituiscono ai vecchi consorzi 15 miliardi di lavori a trattativa privata per lalta velocità ferroviaria
( Milano-Genova, Milano-Verona-Padova). Si ripropone il piano carceri da realizzare in fretta con grandi deroghe in materia di appalti ed affidamenti, si consente alle opere pubbliche dellExpo 2015 di Milano con una apposita delibera del gennaio 2010 di derogare dal Codice Appalti sulle varianti, sui collaudi, sul subappalto, sulla direzione lavori e le procedure autorizzative.
Infine tornano i lotti costruttivi e non funzionali delle grandi opere che vengono introdotti con un emendamento in legge finanziaria 2010 per inaugurare pezzi di opere che si sa quando cominciano e non si sa quando finiscono! Ed è ancora di questi giorni il dibattito in consiglio dei ministri per mettere un freno alle parcelle degli arbitrati e ai collaudi affidati ai soli noti, che spesso fanno parte di istituzioni che dovrebbero vigilare in modo imparziale sul buon andamento dei lavori.
Sono stati ripristinati anche i commissari per le grandi opere, con lunico scopo di attribuire poteri speciali ed alleggerire le procedure già straordinarie come quelle della legge obiettivo: basti pensare a Pietro Ciucci, uno e trino, che è Presidente di Anas, Amministratore Delegato della Società Stretto di Messina (di cui Anas è socia all82%) e commissario straordinario per la realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina.
Con questo quadro di regole in cui la deroga è tornata la regola, inutile stupirsi dei risultati che le inchieste della magistratura hanno scoperchiato ed il sistema di informazione amplificato.
Anche la Corte dei Conti nella sua relazione annuale ha sottolineato come i casi di corruzione e concussione nel 2009 siano triplicati rispetto al 2008, mentre sono stati ridimensionati con norma i poteri della stessa Corte di Conti di intervento. Del resto la proposta di trasformare la Protezione Civile in SpA, poi bocciata per lo scoppio delle inchieste, aveva come scopo principale quella di ridurre i controlli della Corte dei Conti.
Cè un sistema politico ed imprenditoriale deformato, che cerca di evitare ad ogni passo laffidamento mediante gara ma, anche quando si procede con gara di evidenza pubblica, il sistema di regole non è sufficientemente efficace. Semplificare il numero delle stazioni appaltanti (per consentire controlli efficaci), rafforzare lAutorità di Vigilanza sui Lavori Pubblici anche sul piano delle risorse e dei poteri, eliminare gli eventi
e lestensione dei poteri legati alle ordinanze della Protezione civile, sono misure essenziali per superare questa debolezza strutturale del sistema di regole.
Ma per accorciare i tempi servirebbe anche selezionare pochi e finanziati cantieri utili (e non la solita e sterminata lista delle grandi opere) ed elaborare progetti di qualità, per ridurre varianti, contenziosi ed impatti ambientali. Questi sono gli strumenti necessari per "fare presto" le opere e non le scorciatoie che deformano il sistema, premiando i meno innovativi ed i più permeabili alla corruzione e che, inoltre, non riducono affatto i tempi come si vuol far credere.
Adesso il sistema dellinformazione sembra essersi svegliato ma non è ammissibile che lattenzione sia a corrente alternata o legata al momento politico, perché se cè una cosa che il sistema teme più delle regole (chi si possono sempre aggirare elegantemente) è il fare luce sugli affari e le reti indecenti di protezione. Anche la reazione indignata dei cittadini è una buona premessa ed una speranza perché non vengano premiati gli affaristi e la buona politica del fare abbia la meglio. Oltre alle regole, al cambiamento servono anche informazione ed indignazione.
Emergency: "Guerra a un ospedale".
Gino Strada e l'organizzazione italiana si stringono attorno ai tre membri dello staff prelevati in Afghanistan senza alcuna comunicazione ufficiale. "Si mobiliti la società italiana"
Domenica mattina, sede di Emergency a Milano. Via vai di telecamere e registratori, macchine che scattano foto. La conferenza stampa dell'organizzazione fondata nel 1994, che da allora ha curato gratuitamente quasi quattro milioni di persone in tutto il mondo, è convocata per le 11.30.
Lo staff è incollato ai telefoni: tre di loro sono stati ''rapiti''in Afghanistan ieri, come dice il dottor Gino Strada, direttore esecutivo e fondatore dell'organizzazione, seduto davanti a telecamere e taccuini con il presidente di Emergency Cecilia Strada, il vice presidente Alessandro Bertani e il responsabile della comunicazione Maso Notarianni. Una telefonata, ieri, alle 11.30 ora italiana, da parte del personale dell'ospedale di Emergency a
Lashkar-gah, nella provincia dell'Helmand: "Ci stanno ammanettando". Solo alcune ore dopo, al cellulare di Matteo Dell'Aira - responsabile medico del centro, uno dei fermati - risponde un uomo che si qualifica come soldato britannico del contingente Isaf, che tranquillizza sulle condizioni dei tre italiani trascinati via dall'ospedale ma rifiuta di fornire le proprie generalità. Poi un pesante silenzio. Come spiega Cecilia Strada, Emergency ha appreso le accuse che vengono mosse ai tre elementi di Emergency, portati via assieme ad alcuni lavoratori afgani, da un lancio di agenzia e ne ha avuto conferma dall'ambasciata italiana nel Paese asiatico. Nessuna comunicazione ufficiale da parte del governo afgano, nessun risconto dalle forze armate del contingente internazionale della Nato.
L'accusa è enorme, "al punto da trasformarsi in farsa", commenta Cecilia Strada. Matteo Dell'Aira, 41 anni, dal 2000 in giro per il mondo con Emergency, responsabile medico dell'ospedale, Marco Garatti, 49 anni, coordinatore del progetto in Afghanistan, dal 1999 con Emergency, e Matteo Pagani, 28 anni, responsabile logistico dell'ospedale, sono stati portati via. A quanto si legge dagli organi di stampa, i servizi segreti afgani li accusano di essere coinvolti nel progetto di attentare alla vita del governatore della provincia di Helmand
nel corso di una sua futura visita all'ospedale, un centro chirurgico che funziona dal 2004 e che ha curato oltre 66mila persone. L'ambasciatore italiano a Kabul ha potuto vedere solo oggi i connazionali fermati. Sembrano essere in buona salute, ma sono naturalmente molto scossi.
"Questo è un attacco all'ospedale, sono allibito", dice il dottor Strada. "Un atto di guerra preventiva, magari in previsione di una nuova offensiva militare nel territorio, nel quale siamo rimasti gli unici, scomodi, testimoni". Non ci sono altri ospedali in Helmand, non ci sono giornalisti. All'interno della struttura, secondo l'intelligence di Kabul, sarebbero stati trovati armi ed esplosivi. "La perquisizione è avvenuta in assenza di nostri rappresentati", chiarisce Strada, "ma non si può escludere che qualcuno abbia portato all'interno dell'ospedale quel materiale. Quello che è grave è che tre persone che, nello spirito di Emergency, lavorano a salvare migliaia di vite da anni siano coinvolte in tutto questo".
L'Isaf, in un primo momento, ha smentito di aver preso parte all'azione. Un video diffuso dall'Associated Press, però, li smentisce, mostrando chiaramente come militari britannici del contingente Nato - che hanno il comando operativo nella regione dell'Helmand - abbiano circondato l'edificio e preso parte alla perquisizione dei locali, costringendo il personale a identificarsi. La situazione è complessa e, come racconta il dottor Strada, ''l'ospedale non ha in questo momento la possibilità di svolgere la sua funzione, in quanto occupato da militari". Rispetto alle prossime ore Emergency si augura una soluzione rapida della crisi, ma come risponde lo stesso Strada alla domanda di una giornalista, "per il futuro del progetto non ci sono certezze. La priorità in questo momento è la sicurezza dei nostri in carcere e degli altri (5 italiani e un indiano) del personale internazionale e locale che si trovano
a Lashkargah. Tutto il resto si valuterà dopo".
In attesa che, come prevede il sistema giudiziario afgano implementato dai consulenti italiani, venga formalizzato un atto d'accusa e venga permesso ai tre italiani e ai sei afgani prelevati dall'ospedale di difendersi. "La situazione ricorda quella del 2007", conclude Strada, "quando il rapimento del giornalista italiano Daniele Mastrogiacomo segnò l'inizio di un escalation nei confronti del nostro lavoro in Helmand. Un lavoro fatto solo di cure mediche, per chiunque, perché una vita umana è una vita umana. Chiunque nei nostri ospedali in Afghanistan e nel mondo riceve cure mediche se ne ha bisogno. Il resto non conta. Proprio per questo principio sempre rispettato, Emergency rappresenta un volto amato dell'Italia nel Paese. Mi aspetto che i cittadini italiani facciano sentire la loro voce e che il governo italiano, come sta già facendo, continui ad adoperarsi per la soluzione del caso".
Ombre russe sul Kirghizistan
Lo zampino del Cremlino nel cambio di regime
a Bishkek. In ballo c'è il futuro della presenza militare Usa in Asia centrale
I trascorsi filo-occidentali e filo-statunitensi dei leader dell'opposizione kirghisa, salita al potere
a Bishkek dopo la sanguinosa rivolta popolare di mercoledì scorso, giustificavano i sospetti di un coinvolgimento di Washington in questo nuovo cambio di regime. Sospetti rafforzati dalle prime parole pronunciate dalla presidente/premier ad interim, Roza Otunbayeva, che appena insediata si è affrettata a garantire la permanenza della grande base Usa di Manas: unica presenza militare americane in Asia centrale dopo la cacciata dall'Uzbekistan
nel 2005.
Putin tende la mano. Ma i fatti accaduti ed emersi nelle ultime ore mostrano che, in realtà, dietro questa nuova rivoluzione senza colori - a parte il rosso del sangue dei 76 morti e 1.400 feriti - c'è lo zampino di Putin. Quello stesso Putin che a caldo aveva negato ogni coinvolgimento (quando nessuno lo aveva nemmeno ventilato), ma che giovedì si è affrettato a telefonare alla Otunbayeva, riconoscendo la legittimità del nuovo governo (cosa che Obama non ha ancora fatto) e offrendo sostegno economico. E che venerdì già riceveva a Mosca una delegazione dei nuovi dirigenti kirghisi, guidata dal neo-vicepremier
Almazbek Atambayev.
Le condizioni di Mosca. Segnali di un forte sostegno, che prevedono però una contropartita. A Praga, a margine della firma del trattato Usa-Russia sulle testate atomiche, un funzionario del Cremlino ha lanciato un messaggio molto chiaro:
"Bakiyev non ha mantenuto la promessa di chiudere la base Usa di Manas. In Kirghizistan ci dovrebbe essere solo una base, russa". Messaggio immediatamente recepito da uno dei principali leader dell'opposizione kirghisa
ora al potere, Omurbek Tekebayev: "E' molto probabile che la durata della presenza della base Usa verrà abbreviata". E ha aggiunto: "La Russia ha fatto la sua parte nel rovesciare Bakiyev".
Lo sgarro di Bakiyev. Negli ultimi mesi i rapporti tra il Cremlino e il deposto presidente kirghiso erano diventati molto tesi.
Nel 2009 Bakiyev, in cambio di 2 miliardi di dollari di finanziamenti russi, aveva promesso a Mosca di chiudere la base americana di Manas e di aprirne una seconda russa
a Osh. Ma lo scorso febbraio, dopo aver ricevuto la prima tranche di questi soldi (300 milioni di dollari), non solo ha rinnovato il contratto con il Pentagono, ma ha pure chiesto alla Russia di iniziare a pagare l'affitto per la sua base.
La punizione del Cremlino. Il Cremlino non l'ha presa bene. Dopo aver bloccato la seconda tranche (1,7 miliardi di dollari per la costruzione della centrale idroelettrica di Kambarata), il 1° aprile ha sospeso le forniture di petrolio al paese e il giorno dopo ha imposto al Kirghizistan una pesante tassa di importazione sui carburanti russi (193 dollari a tonnellate), provocando i rincari che hanno scatenato la rivolta.
Alla vigilia delle manifestazioni, Temir Sariyev, uno dei principali leader dell'opposizione kirghisa (oggi ministro delle Finanze ad interim), era in visita a Mosca. Difficile pensare a una coincidenza.
Ma non è detta l'ultima. A prescindere dal contributo russo al cambio di regime
a Bishkek, è ancora presto per dire quale sarà l'esito geopolitico finale di questa vicenda.
Così come Bakiyev aveva presto voltato le spalle a Washington dopo il 2005, i nuovi leader kirghisi potrebbero tradire nuovamente le aspettative di Mosca. Oppure proveranno a tenere i piedi in due staffe per ricevere sostegno da entrambe le parti, come aveva provato a fare Bakiyev negli ultimi.
Per capirci di più, basta aspettare e vedere se gli americani rimarranno nella base di Manas oppure saranno costretti a prendere armi e bagagli e trasferirsi altrove. Al Pentagono hanno già srotolato le mappe della Georgia e dell'Azerbaigian.
Enrico Piovesana
8 aprile
Crotone senza misericordia
Cinque mesi di reclusione nel centro di identificazione e di espulsione di Sant'Anna di Isola Capo Rizzuto
hanno cancellato la speranza dagli occhi verdi di Maher. Ventitrè anni, tunisino. Dell'Italia ha visto solo il Cie. È finito dentro appena ha messo piede in Europa. A novembre del 2009, due giorni dopo lo sbarco in Sicilia. Ha pagato duemila euro per regalarsi questo incubo. Per arrivare sull'altra sponda del Mediterraneo passando dalla Libia. Maher ha rifiutato di chiedere asilo politico. Il suo sogno è andare in Germania dal fratello maggiore, che vive lì da quasi vent'anni. Il nostro paese doveva essere solo un luogo di transito. «Il mio programma è svanito - dice a testa bassa - anche moralmente non ho più forza. Mi sembra tutto un'illusione». Poche parole in arabo, pronunciate a stento con l'aiuto della mediatrice culturale. Un breve incontro dopo una lunga attesa. La richiesta alla prefettura di Crotone per visitare il Cie di Isola Capo Rizzuto è datata 29 settembre 2009. Tanti mesi per avere l'ok del ministero dell'Interno. Ci vengono concesse quattro ore. Tre delle quali le passiamo nel centro di accoglienza per richiedenti asilo (Cara), scortati da un coordinatore e da un poliziotto. Negli ultimi preziosi sessanta minuti riusciamo a visitare il Cie. La prima cosa che chiediamo è di raccogliere le storie di alcuni immigrati reclusi. Ci assicurano che è possibile. Prima però bisogna parlare con la direttrice del centro, con il coordinatore, con l'assistente legale e con la mediatrice culturale. Visitiamo con la direttrice il cortile esterno dei due edifici che costituiscono il Cie, ma la polizia non ci permette di avvicinarmi a nessuno. «Potrebbero scoppiare dei disordini, il nostro lavoro qui è già abbastanza difficile» è la motivazione che danno. Non si può entrare nei dormitori. Al ritorno, per il poliziotto responsabile della sicurezza il nostro tempo è scaduto, dobbiamo andarcene. Solo dopo proteste e molte insistenze, ci permettono di incontrare Maher. Hanno scelto lui «perché è uno dei più tranquilli». Il ragazzo arriva nell'ufficio della direzione molto scosso. Trema di paura. Il suo disagio aumenta davanti alle nostre domande. Sa che ha davanti una giornalista ma per lui sono soprattutto una donna sconosciuta. L'ennesimo trauma dopo il viaggio che l'ha catapultato dalla Tunisia non in Europa, come pensava, ma in una dimensione senza tempo, di cui non comprende le regole. I giorni devono sembrare interminabili per un ragazzo che quasi non ha ancora la barba e condivide gli spazi di reclusione con altri 47 immigrati di diverse nazionalità, tanti con precedenti penali per spaccio e furto. L'orizzonte quotidiano sono due alte recinzioni. Una è in ferro. L'altra è un muro di cemento. In mezzo c'è un cortile presidiato dalle camionette delle forze dell'ordine. Due palazzine verdi, un tempo alloggi della vecchia base dell'aeronautica militare, poi cpt. Chiuse a maggio 2007 dal Viminale, abbandonate e infine riaperte d'urgenza il 20 febbraio 2009 per trasferirci parte degli immigrati dopo la rivolta e l'incendio nel Cie di Lampedusa.
E i posti aumentano
Le Misericordie d'Italia, che gestiscono il Cara da anni, hanno coordinato la riapertura nella fase di emergenza e poi formalizzato la gestione anche del Cie
vincendo il bando del 26 maggio 2009. I due edifici sono divisi in un totale di quattro moduli. Al momento sono in corso i lavori di ristrutturazione. Una volta completati a fine aprile, i posti aumenteranno fino a 124. Se davvero i detenuti dovessero più che raddoppiare, la situazione potrebbe sfuggire di mano. Già così la tensione è alle stelle come la disperazione. La testimonianza inequivocabile dell'emergenza umanitaria e psicologica è uno squarcio di diversi metri nel muro esterno della prima palazzina. Un buco enorme fatto dai reclusi sbattendo contro la parete i letti e le reti metalliche a ripetizione fino a spaccare diverse file di mattoni. «Ogni giorno è una guerra, abbiamo scontri, feriti, moduli smontati, atti di autolesionismo» è lo sfogo di un poliziotto. Il coordinatore Salvatore Petrocca, delle Misericordie, vuole precisare che «non ci sono stati veri e propri tafferugli». Ma poi ammette: «Le persone soffrono e sfasciano tutto. Ad esempio le televisioni, ne abbiamo cambiate 17 in poco tempo». Al Cie
di Sant'Anna le cose sono peggiorate dopo il pacchetto sicurezza. Lo dicono tutti quelli che ci lavorano. «Sei mesi sono troppi per l'identificazione. Gli immigrati accettano perfino l'idea della reclusione ma non così a lungo» racconta Auatif, mediatrice culturale marocchina. «I maggiori dissensi li abbiamo avuti quando sono entrati in vigore i 180 giorni, i detenuti non riescono a capire le ragioni di questa norma» afferma anche la direttrice Rosa Viola. Gli immigrati di Rosarno
In un anno dall'apertura, fino a marzo scorso, 631 persone sono state detenute nel Cie di Sant'Anna. Storie diverse, ma una costante: la maggioranza è in Italia da almeno dieci anni. Immigrati italiani. «Il marocchino di Isola Capo Rizzuto», un venditore ambulante da 25 anni in paese e conosciuto da tutti, si è fatto tre mesi in carcere. Ha raccontato di essere stato fermato dopo un controllo perché vendeva cd falsi. Un sessantenne, i cui figli già sposati vivono a Isola. È potuto uscire solo per motivi di salute. Con l'intimazione di lasciare il territorio nazionale entro 5 giorni. Ci sono poi sei immigrati trasferiti da Rosarno ai primi di gennaio dalle forze dell'ordine nei giorni della "caccia al nero" con i fucili a pallini. Lavoratori stagionali sfruttati per 25 euro nella raccolta delle arance, presi di mira da attacchi razzisti e sfuggiti agli agguati delle
'ndrine con lo sgombero da parte degli agenti. Una pulizia etnica che ha segnato per sempre la vergogna dell'Italia nel mondo. In carcere non ci sono gli aguzzini, bensì le vittime. Reato commesso: avevano tutti a carico una precedente espulsione. Tre di loro sono richiedenti asilo. Vengono da Liberia, Burkina Faso ed Etiopia. «Con a carico un'espulsione, pur non avendo mai fatto prima la domanda per lo status di rifugiato, devono stare nel Cie» spiega l'avvocato Francesco Vizza. La commissione territoriale deciderà entro la settimana. Altri tre, due mauritani e un maliano, avevano già avuto la richiesta di asilo rifiutata proprio dalla questura di Crotone. «Non possono ripeterla perché non ci sono fatti nuovi» sostiene ancora l'assistente legale del centro. Un iter che contrasta con le richieste per il permesso di soggiorno ai migranti di Rosarno portate avanti da mesi dalle associazioni antirazziste con sit in e proteste come quella delle "arance insanguinate" davanti al Senato.
Da sette mesi senza fondi
Il centro di Sant'Anna è il più grande d'Europa, con circa 1500 posti. A dieci anni dalla sua apertura, la maggior parte degli immigrati dorme ancora nei containers con i servizi igienici in comune. Era una base dell'aeronautica militare, oggi contiene il Cie, il Cara e il Centro di accoglienza. In attesa della decisione della commissione territoriale per l'asilo ci sono al momento 700 aspiranti allo status di rifugiato. Ognuno di loro costa 28,88 euro al giorno alle casse dello stato. Sono oltre ventimila euro al giorno in totale. «Una miseria, una delle rette più basse in Italia. Riusciamo ad andare avanti solo perché si lavora su grossi numeri - afferma la direttrice del Cara, Liberata Parisi - sono sette mesi che il ministero dell'Interno non salda i conti del finanziamento che abbiamo vinto come ente gestore con il bando per il 2009-2012». Soldi che non arrivano neanche per il Cie, nonostante la proroga della permanenza a sei mesi. «Paghiamo i fornitori facendo mutui e prestiti» dice ancora Parisi. Per avere un'idea dei costi di questa gigantesca macchina che ruota attorno all'immigrazione e ai permessi di soggiorno, bisogna calcolare che in media ogni richiedente asilo rimane dai quattro ai sei mesi prima di avere il responso della commissione, i cui uffici sono all'interno del centro. A riprova che i respingimenti in mare non risolvono il problema, a Crotone ci sono ancora 100 nuovi ingressi al mese. Cambiano le rotte, è diversa l'umanità in fuga che arriva. Non più africani passati dalla Libia ma soprattutto kurdi,
afghani e iracheni che transitano dal confine nord est dell'Italia. Amir è un kurdo iraniano arrivato fino a Bari in un camion. È fermo
a Sant'Anna da quattro mesi. Hamidullah ha ancora la famiglia a Kandahar. Suo padre ha messo insieme quello che aveva per farlo partire. Afghanistan, Turchia, Serbia, Ungheria il suo tragitto. Un altro afghano dice di avere «forse 30 anni». In Ungheria è stato fermato e deportato indietro in Serbia. Da lì è arrivato
a Patrasso e poi sotto un camion in Italia. Anche lui quattro mesi a Sant'Anna in un container. Sono tutti dublinanti e la loro situazione giuridica è ancora più complessa.
Gli alloggi in cemento hanno solo 256 posti, costruiti nel 2008. La precedenza va a chi sta nel centro da più tempo, ai bambini e alle 30 donne, di cui una decina incinta. I minori hanno anche pochi mesi di età. Per gestire la convenzione e tutti i servizi previsti serve un piccolo esercito. Tra gli altri, ci sono assistenti sociali, psicologi, educatrici, mediatori culturali, istruttori isef per le attività sportive, esperti per la banca dati informatizzata. In totale sono impiegati con contratti a tempo e interinali 150 lavoratori delle Misericordie di Isola Capo Rizzuto. A loro vanno aggiunti 70 lavoratori del comune che gestisce i servizi di pulizia e di manutenzione. Militari, carabinieri e poliziotti per la sicurezza. Il personale sanitario dell'Asp di Crotone per l'infermeria in servizio 24 ore. Una vera fabbrica di posti di lavoro con un indotto 'prezioso' in un'area tra le più povere d'Italia, ad altissima disoccupazione. Costi destinati ad aumentare ancora con i lavori in corso per rafforzare la recinzione esterna e per ristrutturare e ampliare i posti delle due palazzine del Cie.
Raffaella Cosentino
Mensa non pagata, bambini fuori dalla scuola
Neanche a pane e acqua, bensì fuori da scuola per due ore. Dove non si sa, non è questione che interessa l’amministrazione leghista di Adro. Siamo in Franciacorta, provincia di Brescia, e la guerra contro i bambini figli di famiglie che non pagano la mensa scolastica vede di nuovo protagonista un sindaco del Carroccio: Oscar Lancini. Le polemiche contro un’analoga iniziativa adottata il mese scorso
a Montecchio Maggiore, nel Vicentino, dove gli alunni morosi furono sfamati con panini imbottiti e una bottiglia di acqua, non hanno intaccato i primi cittadini in camicia verde. Così da stamattina 40 bambini dell’Istituto comprensivo di primo e secondo grado di via del Lazzaretto
a Adro
non saranno ammessi alla mensa scolastica. La circolare che è stata recapitata ai genitori
- tramite bambini, che si sono visti consegnare in classe una busta chiusa di cui tutti i compagni conoscevano già il contenuto, si può immaginare la vergogna - parla chiaro: «L’organizzazione scolastica non ha nessuna possibilità e risorsa strutturale ed economica per garantire agli alunni l’assistenza e soprattutto un pasto alternativo rispetto a quello fornito dall’amministrazione comunale con il servizio della mensa scolastica». Insomma, scrive il dirigente scolastico Gianluca Cadei, la scuola non sa né come assistere, né cosa dare da mangiare ai bambini se non ci pensa chi ne ha la responsabilità, cioè il Comune. Quindi
l'unica soluzione è che i figli dei morosi durante le ore dei pasti escano da scuola. Ma siccome si tratta di minorenni la circolare specifica che «dovranno essere ritirati dalla scuola alle 12,10 e riaccompagnati dai genitori alle 14,10 per le lezioni del pomeriggio».
Ma come faranno i genitori che lavorano? E la mensa non è forse orario scolastico obbligatorio? Il sindaco Lancini non si fa, evidentemente, tante domande. Contro la decisione dell’amministrazione comunale di Adro si sono mossi la Caritas e lo Spi Cgil, che per stamattina annunciano un’iniziativa di protesta: volontari porteranno nella scuola di via Lazzaretto cibo, frutta e acqua per i bambini esclusi dalla mensa. Ma da quanto è trapelato, il sindaco non ha intenzione di permettere l’ingresso nelle aule scolastiche dell’associazione cattolica e del sindacato dei pensionati.
Lancini è famoso per le sue iniziative contro gli immigrati extracomunitari: anni fa mise una taglia sui clandestini, ad Adro gli extracomunitari sono
sistematicamente esclusi dai bonus per le famiglie bisognose. Ma dalla guerra
agli immigrati, la politica dell’amministrazione leghista sta virando velocemente verso la guerra contro tutti coloro che si trovano in difficoltà economiche e sociali. L’esempio della mensa scolastica è lampante. La maggior parte di bambini esclusi è di origine straniera, ma non sono stati risparmiati i bambini italiani. Spesso alle spalle hanno già il dramma della crisi economica e della perdita del lavoro dei genitori. Oppure solo una vita complicata, come nel caso di Ilaria Poli, la cui figlia che frequenta la quinta elementare è tra gli esclusi: «Cresco da sola tre figli - spiega - Ho sempre pagato, ma spesso in ritardo. Va anche detto però che
a Adro la mensa si paga in anticipo: ti risarciscono se il bambino non frequenta». Pur avendo un reddito basso, Poli paga il massimo della retta (100 euro al mese) perché non è residente
a Adro, ma in un paese vicino. In pratica sconta la volontà della giunta leghista di negare ogni supporto ai non residenti, pur essendo italianissima. Ad Adro la signora lavora, ci vive sua madre, e per questo ha iscritto sua figlia in quel Comune, pur essendo
«straniera». Stamattina accompagnerà sua figlia a scuola: «Le ho parlato, ha sofferto per questa situazione. Ma a scuola andrà comunque. Non ci possono sbattere fuori».
Cinzia Gubbini
La Procura Generale d'Israele ammette il furto di centinaia di milioni di shekels che spetterebbero ai palestinesi
"Del caso se ne occuperà una squadra composta da esperti di vari dicasteri, coinvolgendo la materia il ministero della Giustizia, il ministero delle Finanze e l'Amministrazione Civile. Gli aspetti tecnici della questione saranno stabiliti la prossima settimana".
Meccanismo imperfetto.
Malchiel Bals, il vice Procuratore Generale d'Israele, licenzia poche righe (riprese dal quotidiano israeliano Ha'aretz) che non riescono a celare un certo imbarazzo. Sono quindici anni che i palestinesi vengono derubati di somme di denaro ingenti dall'Amministrazione israeliana. Lo ha denunciato un avvocato della Procura militare israeliana che, per primo, si è accorto di come questi fondi transitassero direttamente nelle casse israeliane in violazione della normativa vigente rispetto ai rapporti tra Stato occupante e terra occupata. Bals, a quel punto, si è mosso per far partire l'indagine. Si parla, secondo una prima stima, di centinaia di milioni di shekels (moneta israeliana, un euro è pari a circa cinque shekels), circa 80 milioni all'anno per quindici anni. Da vengono questi soldi? Sono i proventi di tasse e bolli raccolti dall'amministrazione pubblica per esempio rispetto a concessioni per lo sfruttamento del suolo pubblico (le cave) o per aste su terreni. Secondo gli Accordi di Oslo della metà degli anni Novanta, che chiusero la Prima Intifada palestinese, i fondi devono essere raccolti dagli esattori israeliani e debbono essere reinvestiti in servizi e infrastrutture per la popolazione civile palestinese nei Territori Occupati. Invece, in questi quindici anni, sono finiti nelle casse di Tel Aviv. In violazione alla legge internazionale che impone agli Stati occupanti di 'conservare' i beni dei territori occupati fino al nuovo status. Gli Stati Uniti, per esempio, rispetto all'Iraq, hanno generato una sorta di fondo d'investimento che deve ritornare al Paese in forma d'investimento. Scontro ministeriale. Blas ha annunciato che adesso verrà messo in ordine il sistema e, in modo retroattivo, verranno restituiti i soldi ai palestinesi. Meno chiaro il meccanismo di sanzione per i funzionari che si sono appropriati di beni palestinesi. Sembra probabile che questi fondi verranno divisi tra vari dicasteri, secondo le singole competenze, per essere poi trasformati in investimenti. Il ministero delle Finanze, nella serata di ieri, ha reso noto che darà battaglia contro la decisione di Blas, ritenendo che la decisione finale spetti al governo di Tel Aviv.
Questo denaro, oltre l'occupazione, è mancato a tutta una serie di infrastrutture che, negli anni, si sono andate deteriorando in Cisgiordania. Un esempio? Le condutture dell'acqua. Uzi Landau, ministro delle Infrastrutture israeliano, ha dichiarato ieri: "Se i palestinesi continuano a scaricare le proprie acqua reflue, inquinando fiumi e falda acquifera, Israele smetterà di aiutarli. I palestinesi - ha continuato Landau - devono collegarsi agli impianti di depurazione, altrimenti daremo loro solo acqua potabile, ma taglieremo quella per uso industriale e agricolo". Il ministro, però, ha sbagliato i conti. Per ottenere una gestione più funzionale della rete idrica basterebbe dare ai palestinesi quello che gli spetta. A quel punto il ministro Landau potrebbe smettere di aiutarli, evitando di derubarli.
Christian Elia
Capitali africani, ricchezza occidentale
In 40 anni, la fuga illecita di capitali è costata all'Africa 1800 miliardi di dollari
E' un paradosso crudele, come quello di un padre di famiglia che rischi di far morir di sete i suoi figli perché l'acqua che ha, la da' a chi ne ha meno bisogno. A questo viene da pensare, leggendo un rapporto, appena pubblicato, sulla fuga di capitali dall'Africa. Soldi fantasma. Il dossier s'intitola "Illicit Financial Flow from Africa: Hidden Resources for Development" ed è stato redatto dal Global Financial Integrity, centro studi no-profit di Washington, che ha cercato di analizzare e quantificare i capitali africani che improvvisamente si volatilizzano, disperdendo risorse finanziarie che dovrebbero essere investite in quel continente.
Le cifre fornite dallo studio sono semplicemente spaventose: nel periodo che va dal 1970 al 2008, l'Africa avrebbe perso qualcosa come 854 miliardi di dollari.
Ma questa è un'approssimazione per difetto, perché gli analisti sono riusciti a quantificare soltanto i capitali spariti attraverso la pratica del "mispricing" (falsificazione dei prezzi) dei beni materiali, che è solo uno dei tanti sistemi attraverso i quali i soldi vengono spostati in maniera illecita. Ci sono altre strade, come il mispricing dei servizi e il contrabbando, la cui incidenza resta di difficile misurazione, perché l'individuazione di queste pratiche è molto più complicata.
La cifra a cui arriva il think tank americano, azzardando una ipotesi circa l'ammontare complessivo dei capitali usciti dai Paesi africani illegalmente, è impressionante: 1800 miliardi di dollari, che per una serie di trucchi hanno permesso a dittatori, leader democratici, militari, alti burocrati e imprenditori, africani ma non solo, di accumulare immense fortune all'estero, al riparo dalle frequenti crisi che scuotevano (e scuotono)periodicamente Paesi caratterizzati da economie deboli e da una forte instabilità politica. Un fiume di soldi che ha alimentato la crescita dei Paesi più sviluppati e che, paradossalmente, fa dell'Africa un continente virtualmente creditore, pur essendo imprigionato dal suo debito. Miseria reale. "Il massiccio flusso di soldi di provenienza illecita dall'Africa - scrive il direttore di Gfi, Raimond W. Baker - è facilitato da un sistema finanziario internazionale ombra, che comprende paradisi fiscali, segretezza di giurisdizione, finte corporation, false fondazioni, conti intestati a trust anonimi, transazioni commerciali truccate e diverse tecniche di lavaggio del denaro". La questione non è di natura etica o almeno non solo.
"L'impatto di questa struttura e dei fondi che sposta dall'Africa - continua il report - è devastante. Drena importanti riserve monetarie, aumenta l'inflazione, rende difficile la raccolta delle tasse, impedisce investimenti, mina il libero commercio".
Ma soprattutto, queste pratiche colpiscono il segmento sociale più povero e marginale, perché assorbono risorse che potrebbero essere utilizzate per la lotta alla povertà e per incentivare la crescita economica.
Basti pensare che con gli 854 miliardi di dollari persi solo attraverso il mispricing dei beni, l'Africa avrebbe potuto ripianare il suo debito estero (250 miliardi di dollari) e impiegare i 600 miliardi di dollari rimanenti per combattere la fame e la povertà. L'analisi. Al totale di 854 miliardi di dollari, il Global Financial Integrity ci è arrivato concentrandosi sui flussi di capitali illeciti in uscita che ha documentato seguendo due strade. Volendo semplificare, il Gfi ha confrontato i flussi economici in ingresso, rintracciabili guardando le variazioni del debito con l'estero e il netto dell'investimento diretto di capitali stranieri, con il registro delle spese. La differenza tra i flussi finanziari in entrata e le risorse impiegate nel finanziamento del deficit corrente o nell'aumento delle riserve valutarie delle Banche centrali, equivale al capitale che si è volatilizzato su conti esteri.
L'altra strada percorsa è quella dell'analisi del mispricing, cioè di quella pratica che permette di occultare capitali in uscita aumentando sui documenti doganali il valore delle importazioni e riducendo quello delle esportazioni.
In tutti e due i casi, i dati a disposizione della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale consentono di scoprire la frode. Che rimane invece di difficile individuazione quando ad essere truccati non sono più i prezzi sui documenti doganali, ma quelli contrattati direttamente tra la società venditrice e quella acquirente. Quando la prima è complice della seconda, non si riesce a più capire quando e quanto una transazione commerciale nasconda un flusso di capitali illeciti. Questa è una via utilizzata soprattutto dalle grandi multinazionali per spostare fondi da un Paese all'altro.Pur con tutte le cautele e gli avvertimenti sulla mancanza di dati da alcuni Paesi africani e sulla difficoltà di rintracciare con certezza l'esistenza e la consistenza di flussi finanziari illeciti, i ricercatori del Gfi tracciano un quadro a tinte fosche. Dal 1970 al 2008, l'Africa ha perso, in media, 29 miliardi di dollari l'anno, 22 dei quali dai soli stati dell'Africa Sub-Sahariana, in particolare della regione centro-occidentale. Il fenomeno è cresciuto costantemente, con una media del 12,1 per cento all'anno. Ci sono, tuttavia, segnali di miglioramento. Diverse grandi economie, soprattutto quelle legate all'esportazione di idrocarburi come la Nigeria o l'Angola, nel 2008 hanno registrato una forte e crescita, che ha reso possibile misure macroeconomiche e riforme strutturali, condizioni che, generalmente, provocano un rientro di capitali.
Ciononostante, per raggiungere gli obiettivi fissati dallo United Nations' Millennium Development Goals per il 2010, All'Africa mancano ancora 348 miliardi di dollari e dai Paesi donatori, alle prese con la crisi economica globale, è difficile aspettarsi un aiuto risolutore. Anche di questo dovranno discutere i ministri delle Finanze africani, che a breve s'incontreranno in Malawi, in occasione della terza conferenza annuale, così come è prevedibile che la questione verrà posta anche al prossimo G20 che si terrà a giugno in Canada.
Alberto Tundo
6 aprile
Misteri dolorosi
Cento ore prima del voto la Cei del Cardinal Bagnasco lanciava il suo anatema contro l'aborto "che si vuole rendere invisibile". Se si riferisva a quelli praticati a pagamento dai medici obiettori fuori dalle strutture pubbliche, ha detto una cosa sacrosanta.
In un mondo di scandali clamorosi e di violenze contro i bambini, si sperava che l’elettorato cattolico, cui era rivolta la paterna sollecitazione, avesse accolto favorevolmente l'invito a riflettere prima di votare in favore dell’aborto clandestino...