29 aprile

Flemma italiana

A gennaio il ministro della Giustizia ha dichiarato lo stato d'emergenza per far fronte alla drammatica situazione carceraria, ma da allora la politica sembra avere altre priorità

Era il mese di gennaio quando il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, presentava il Piano carceri per far fronte alla drammatica situazione dei penitenziari italiani. All'epoca il ministro aveva parlato di quattro pilastri che consistevano nella dichiarazione dello stato d'emergenza, nello stanziamento di 600 milioni di euro per l'edilizia carceraria, nell'assunzione di nuovi agenti penitenziari e nella presentazione di un disegno di legge contenente due norme. Ed è proprio quest'ultimo, l'aspetto più innovativo del Piano carceri che ha destato l'interesse degli addetti ai lavori, in quanto prevede la concessione dei domiciliari a quanti devono scontare un anno di pena residua e la possibilità della messa alla prova di quei detenuti che hanno compiuto reati punibili fino a tre anni di detenzione. Nonostante il tentativo di apertura a misure cautelari, alternative alla detenzione, visto l'eccessivo sovraffollamento, sono tante le aporie da chiarire e sulle quali intervenire per dare concretezza al disegno di legge.

PeaceReporter ha intervistato l'onorevole Rita Bernardini dei Radicali Italiani, che da anni visita le carceri italiane e si impegna per migliorarne le condizioni.

Che cosa pensa delle due norme contenute nel disegno di legge, presentato dal ministro della Giustizia?

Sicuramente è apprezzabile il tentativo di non andare solo in direzione della carcerizzazione, ma il provvedimento va tarato bene per consentire di far scontare la detenzione ai domiciliari. Qualora il disegno di legge non venisse modificato, saranno pochissimi i detenuti a poter abbandonare il carcere. Non potranno accedervi tutti i carcerati con alle spalle un precedente d'evasione e quelli che godono già di alcuni benefici. Così facendo, si crea una disparità di trattamento. Esiste, inoltre, una norma che prevede già la possibilità di avere accesso ai domiciliari per quanti commettono reati, punibili con pene inferiori ai due anni. Mi chiedo se non convenga modificare quella norma, piuttosto che crearne una nuova. I tempi si sarebbero accorciati.

E' stato proclamato lo stato d'emergenza, ma i tempi sembrano essere molto lunghi e il carcere è scomparso dalle priorità dell'agenda politica...

Sì, purtroppo. I tempi rischiano di prolungarsi all'infinito. Da più di dieci giorni sono in sciopero della fame per ricordare ai parlamentari che, se non si interviene, i detenuti entro l'estate potrebbero raggiungere le 70mila unità. Le carceri italiane vivono una situazione di illegalità e di privazione, tale per cui potrebbe succedere di tutto. Come già accade d'altronde. Un numero tanto elevato di suicidi non è che un segnale di questa emergenza irrisolta.

Sono più di vent'anni che visita le carceri del nostro Paese. Quale il suo commento?

La situazione è andata peggiorando notevolmente. Un miglioramento si è registrato subito dopo l'indulto del 2006, quando le prigioni si sono svuotate.

E' una delle poche persone a valutare positivamente l'indulto...

Certamente il mio giudizio è positivo. Sarebbe stato ancora più incisivo accompagnare l'indulto con un provvedimento di amnistia che avrebbe consentito di ridurre il carico di lavoro dei magistrati, evitando che moltissimi reati cadessero in proscrizione. Sarebbe stato anche opportuno preparare le istituzioni del territorio e i comuni a gestire l'indulto, ma tutto questo non toglie che il provvedimento sia servito a alleggerire le carceri e che sul provvedimento sia stata fatta una pessima informazione. Si è fatta passare l'idea che tutti coloro che hanno beneficiato dell'indulto sono rientrati in galera. Così non è. La recidiva dei detenuti che hanno usufruito dell'indulto è pari al 30 per cento, mentre quella di quanti escono dai penitenziari normalmente si aggira sul 70 per cento.

Ha visitato molti istituti penitenziari... Quali sono quelli più problematici?

Difficile stilare una classifica. Penso che i peggiori siano quelli di Poggioreale, Teramo, piazza Lanza a Catania. Anche se il primato negativo spetta al penitenziario di Sulmona, un lager. In questi istituti i detenuti passano in cella ventidue ore senza fare nulla. L'unico diversivo è rappresentato dalla televisione, in qualche raro caso dalle carte.

Cosa può fare la società civile per migliorare l'emergenza carceri?

Conoscere. E' fondamentale tenere un dialogo, un rapporto con i penitenziari, in modo da spezzare il loro isolamento. Invito che rivolgo in particolar modo ai politici.

Benedetta Guerriero

 

Anat Kamm, chi era costei?

La storia di cui in Israele tutti parlano. Ma di cui è proibito parlare

scritto da Francesca Borri

"Se avesse denunciato un caso di corruzione al ministero dell'Agricoltura, l'avremmo tutti applaudita", ha scritto Gideon Levy. Sfortunatamente, Anat Kamm ha denunciato i crimini compiuti dall'esercito israeliano nei Territori. Ed è finita agli arresti domiciliari. Rischia l'ergastolo per possesso e trasmissione di documenti suscettibili di minare la sicurezza nazionale. Di Uri Blau invece, il giornalista di Ha'aretz che da quei documenti ha sgomitolato le sue inchieste, si sa solo che è nascosto a Londra, atteso a Tel Aviv da un interrogatorio che lo Shin Bet ha promesso di condurre "senza guanti".

Un bavaglio al bavaglio. A scoprire la storia è stato un blogger di Seattle, Richard Silverstein, che a metà dicembre ha riportato la notizia dell'arresto di una giovane giornalista di Walla!, un portale israeliano di società e cultura, con l'accusa di avere illecitamente raccolto e divulgato informazioni potenzialmente pericolose per la sicurezza nazionale. Durante i due anni del suo servizio di leva, trascorsi nell'ufficio del Comando Centrale della Cisgiordania, Anat Kamm, oggi 23enne studentessa di filosofia, avrebbe copiato su un cd centinaia di documenti classificati come riservati. Per poi consegnarli a Uri Blau. Ad attirare l'attenzione dello Shin Bet, infatti, è stato un articolo di Ha'aretz a sua firma, nel novembre del 2008, in cui si racconta dell'assassinio di un militante del Jihad Islamico eseguito vicino Jenin su ordine del generale Yair Naveh, comandante in capo dell'esercito nella Cisgiordania. L'articolo ricostruisce nei dettagli la pianificazione dell'assassinio, in contrasto con una recente pronuncia della Corte Suprema, secondo cui l'esecuzione di un ricercato è illegale quando è possibile il suo arresto. Anat Kamm, all'epoca, era la segretaria di Yair Naveh. Pubblicata a metà marzo, da internet la notizia è rapidamente rimbalzata sui media internazionali. Non sui media israeliani, però. In contemporanea all'arresto, infatti, il tribunale ha emesso un gag order, vietando ai giornalisti di occuparsi del caso: una specie di bavaglio alla stampa sul bavaglio a Kamm, la cui violazione è punibile anche con il carcere. "Ma che paese è, un paese in cui un giornalista, semplicemente, scompare, e gli altri giornalisti non possono parlarne?", si è chiesto Richard Silverstein. "La Cina? Cuba? O forse l'Iran".

Reazioni e deviazioni. "Quando ho copiato quei documenti", ha spiegato Anat Kamm, "ho pensato solo che il tribunale della storia assolve chi denuncia crimini di guerra". Tuttavia, in questi giorni non solo il conservatore Jerusalem Post, ma anche Yediot Ahronot, il più diffuso quotidiano di Israele, trabocca di editoriali e lettere che bollano Anat Kamm come una traditrice - o più semplicemente, una ragazza con problemi psichici a cui non avrebbe mai dovuto essere assegnato un ruolo così delicato. Per altri, al contrario, Anat Kamm è un'israeliana esemplare. "Con l'Intifada", sostiene Akiva Eldar, "abbiamo capito che non esiste una cosa chiamata 'occupazione illuminata'. Non è possibile dominare un altro popolo per quarantatrè anni senza crudeltà e ferocia. Per gestire un'occupazione, bisogna allevare soldati e funzionari obbedienti - collaboratori. In questo preciso istante, centinaia di segretarie siedono alle loro scrivanie senza avere il coraggio di telefonare a un giornalista, e denunciare ministri e comandanti che minano il nostro futuro". Spesso, infatti, l'etichetta 'confidenziale' indica documenti la cui diffusione è ritenuta inopportuna, ma non necessariamente capace di compromettere la sicurezza nazionale - e "la differenza tra il giornalista che lavora su documenti riservati e quello che si guadagna lo stipendio pubblicando i comunicati stampa del governo è la differenza tra uno stato democratico e un regime autoritario", conclude Akiva Eldar. Anche se alla fine, l'ampio dibattito in corso su Anat Kamm e Uri Blau, e i diritti e i doveri del buon giornalista e del buon soldato e del buon cittadino, è in fondo un successo per lo Shin Bet, che ha così deviato l'attenzione dalla vera notizia: i crimini compiuti contro i palestinesi. "Mirate a Yair Naveh, non ad Anat Kamm", ha titolato Gideon Levy. "Non si cerca di proteggere segreti di stato, qui, ma di insabbiare reati. Il Comando Centrale, nel cui ufficio sono stati pianificati degli assassinii, dovrebbe essere sul banco degli imputati. E invece fa da pubblico ministero". Per questo, quando Uri Blau ha definito la sua battaglia "una battaglia per l'immagine di Israele, non per la mia libertà", è arrivata a stretto giro la precisazione di Jonathan Cook: "La preoccupazione per l'immagine lasciamola ai Netanyahu e allo Shin Bet. Questa è una battaglia per l'anima di Israele".

Un bersaglio non proprio casuale. In realtà, in Israele non è certo raro che ufficiali dell'esercito, agenti segreti e uomini politici passino documenti riservati a giornalisti. Incluso Uri Blau. Ma l'ultima volta la sanzione, per il soldato, si era limitata a trenta giorni di consegna in caserma. Il problema, nota Yuval Elbashan, è che Uri Blau non è uno qualsiasi. Sono infatti sue le inchieste che un anno fa, sulla base di archivi segreti del governo, hanno rivelato che due terzi degli insediamenti sono stati costruiti non su terra statale, ma su proprietà palestinese - in violazione cioè non solo del diritto internazionale, ma anche della legge israeliana. Sue, ancora, le inchieste sulla società di consulenza di Ehud Barak, oggi intestata alle figlie per evitare conflitti di interessi, e che ha ricevuto circa due milioni di dollari da una imprecisata fonte estera mentre risultava inattiva. E sue, infine, le anticipazioni su un imminente attacco a Gaza - una settimana prima dell'Operazione Piombo Fuso: una notizia che Ha'aretz ha scelto di non pubblicare. Un giornalista, dunque, nelle parole di Yuval Elbashan, "molto diverso dagli altri, che si auto-nominano portavoce dell'establishment, come se ancora fossero in servizio di leva. Non è mai stato tra quelli che leggono i comunicati dell'esercito. E invece larga parte dei suoi colleghi riceve un messaggio, telefona a un paio di ufficiali, generalmente gli stessi che hanno inviato il messaggio, per verificarne l'accuratezza, e corre a dettare il pezzo. La loro routine di corrispondenti militari, inoltre, include visite organizzare alle nostre truppe, con tanto di giubbotti dell'esercito. Da quello che descrivono come 'il campo', rendono noto a pappagallo quello che l'establishment desidera rendere noto. In questo senso, la storia di Anat Kamm è un segnale di allarme. Ma non per quello che Uri Blau ha scritto. Per quello che gli altri giornalisti non hanno scritto".

Tempi difficili. Ha'aretz ha difeso il suo giornalista ricordando che l'Ufficio della Censura Militare aveva approvato l'articolo. In Israele, infatti, in virtù di una norma che risale al Mandato Britannico, ogni notizia viene preventivamente controllata, per accertare che non contenga informazioni riservate o pericolose per la sicurezza nazionale. I cronisti israeliani, in realtà, minimizzano il ruolo della censura. La stessa Amira Hass, che è da Ramallah tra i più autorevoli e puntuali critici dell'occupazione, e definisce la sua professione come "il costante monitoraggio dei centri di potere", giudica irrilevanti le restrizioni imposte al suo lavoro. Ma una simile pratica non può non lasciare perplessi gli osservatori internazionali. Recentemente, per esempio, i media israeliani sono stati autorizzati a riportare la notizia dell'assassinio a Dubai di Mahmoud al-Mabhouh, di Hamas, ma non il coinvolgimento del Mossad nell'operazione. Anche se secondo Judith Miller, premio Pulitzer statunitense che ha pagato con il carcere la sua inchiesta sull'inesistenza delle armi irachene di distruzione di massa, il vero problema israeliano è l'auto-censura: generata di istinto da un sistema scolastico e universitario impregnato dei valori sionisti, a volte ai limiti dell'indottrinamento, e effetto inevitabile della completa continuità e osmosi tra esercito e società. Quale che sia l'effettiva solidità della libertà di stampa in Israele, al momento il dato certo è che nell'ultimo rapporto di Reporters Sans Frontieres, l'unica democrazia del Medio Oriente è precipitata dalla 47ma alla 93ma posizione - dietro Kuwait, Libano, ed Emirati Arabi. Senza dubbio, nella valutazione negativa ha inciso la scelta, senza precedenti, di sigillare Gaza ai giornalisti, israeliani e internazionali, costretti a raccontare la guerra con il binocolo dalle colline al confine. Ma la misteriosa incursione notturna nell'appartamento di Uri Blau, con carte e computer spariti, probabilmente non aiuterà Israele a migliorare la classifica.

 

La crisi greca e le colpe dei mercati

Ci sono nel mondo alcune società che campano dando i voti (rating, il termine tecnico) a imprese, banche e perfino stati sovrani. Krugman, premio Nobel per l'economia, alcuni giorni fa ha ricordato che il 93% delle obbligazioni alle quali era stato assegnato il massimo dei voti, oggi sono diventate junk, cioè spazzatura: non valgono niente. In altre parole le società di rating non si erano accorte che dietro quelle obbligazioni c'era il nulla. O meglio, c'erano i mutui subprime che hanno trascinato il sistema globale nella più grave crisi finanziaria dal grande crollo del 1929.

Solo con gli stati le società di rating sono da sempre spietate e la prova si è avuta ieri: le obbligazioni della Grecia sono state dichiarate spazzatura da Standard&Poor's. Ma non è solo la Grecia nel mirino delle società di rating: anche al Portogallo sono stati ridotti i «voti». E questo significa che Lisbona dovrà dovrà pagare maggiori interessi sul debito pubblico, aggravando una situazione già difficile. Duque, il Portogallo è a rischio, mentre la Grecia è già sull'orlo dell'abisso: non riesce a finanziarsi sui mercati.

Oltre all'annuncio della S&P è stata una dichiarazione di George Papaconstantinou a scatenare il terremoto. Il ministro delle finanze ha fatto un appello disperato: la Grecia ha bisogno dei prestiti dell'Unione europea e del Fmi entro il 19 maggio perché «non è in grado» di finanziarsi sui mercati. E poi ha aggiunto che la «mancanza di chiarezza» sulla posizione dell'Europa «non è di aiuto» al Paese. Non ha torto: l'Europa appare profondamente divisa e, Germania in testa, molti paesi premono perché alla Grecia nulla sia «regalato». E anche se Trichet, il presidente della Bce, ha cercato di tranquillizzare, sostenendo che è «fuori questione un default Atene o dell'eurozona», le reazioni dei mercati sono state violentemente al ribasso. Anche perché lo stesso Trichet non ha fornito spiegazioni né voluto commentare l'andamento dei negoziati tra il governo di Atene e Bruxelles sull'attivazione del pacchetto di prestiti.
La borsa di Atene ieri ha ceduto quasi il 7% (milano è andata giù di oltre il 3%) e l'intera Ue ha bruciato in borda oltre 160 miliardi: l'impressione è che la crisi si stia propagando a altri paesi «periferici». I forti allargamenti accusati sia dagli spread (rispetto al titolo di riferimento tedesco) sia dai Cds, ovvero il costo assicurativo contro il rischio default, testimoniano i crescenti timori vissuti dai mercati in questo senso. Nelle ultime battute i differenziali hanno accentuato il trend. Per quanto riguarda gli spread del segmento del decennale, quello greco si è portato a 718 punti base (come dire il 7,18%% in più rispetto al rendimento di quelli di Berlino). Si tratta del nuovo massimo dal febbraio 1998. Lo spread del Portogallo è salito a 263 punti base; quello della Spagna a 102,7, quello dell'Irlanda a 198,2 e quello dell'Italia a 101. Per quanto riguarda i Cds a cinque anni, il greco ha toccato un nuovo record di 814 punti base (8,14%), il portoghese a 355, lo spagnolo a 200, l'irlandese a 240 e l'italiano a 160. Una situazione già precaria che è ulteriormente peggiorata nella parte finale della seduta: l'annuncio da parte di Standard and Poor's prima del dowgrade del Portogallo e poi del taglio del rating della Grecia a livello di junk hanno rappresentato un'ulteriore tegola sui mercati del debito.
L'origine della crisi è la Grecia, sulla cui capacità di onorare i propri impegni (scadenze e interessi) in vista delle scadenze di metà maggio pochi ormai sono pronti a scommettere. Mentre nelle scorse settimane a vendere titoli del debito greco erano soprattutto i fondi ellenici, ora a cedere il debito sono anche le banche greche in forte difficoltà perché chi può ritira i soldi e li spedisce all'estero. Di più: in queste ultime giornate ad abbandonare sono soprattutto i possessori stranieri di debito greco che, secondo alcuni, è, o meglio era, distribuito soprattutto in Francia, Germania Austria. Non di meno, hanno osservato nelle sale operative, ad alleggerire le posizioni ci hanno pensato anche le banche greche e gli istituzionali locali nel timore di non riuscire più a dare alla Bce in garanzia i propri titoli per partecipare alle aste di rifinanziamento. A questo punto i mercati non sono più tanto interessati a quello che succederà alla Grecia, ma sembrano temere sempre di più l'ipotesi di contagio. E alcuni operatori, pur sottolineando che altrove il bilancio della seduta è stato ben peggiore, hanno fanno l'esempio di come sia andato ieri il mercato del debito italiano. Il Tesoro ieri mattina ha effettuato un'asta di Cts, Certificati del Tesoro, titoli indicizzati a due anni e nel pomeriggio questo titolo veniva trattato sul mercato secondario già 20 centesimi sotto il prezzo di aggiudicazione. Un brutto segnale che prelude a un rialzo dei tassi anche in Italia. «Sono segnali - ha commenta un analista - che negli ultimi giorni non avevamo mai visto: segnali di contagio».

 

28 aprile

In riva al mare

I genitori di un gruppo di ragazzi di Annabah, in Algeria, non si danno per vinti e continuano a cercare i figli scomparsi nel Mediterraneo
"La peggiore cosa è questo senso di impotenza. Sono passati due anni. Sappiamo che sono vivi da qualche parte, ma non possiamo fare niente per loro. E lo Stato non ci aiuta a cercarli. I nostri figli non valgono abbastanza".

Mérouane, Hadif, Faysal, Rédouane. Finiti gli sbarchi, restano loro. I giovani dispersi nel Mediterraneo. Una lista di migliaia di nomi, sulle cui sorti da anni si interrogano altrettante famiglie del mare di mezzo. Soltanto ad Annaba, l'antica Ippona che dette i natali a sant'Agostino, in Algeria, i dispersi censiti sono 92. Scomparsi sulla rotta per la Sardegna tra il 2007 e il 2009.
Mérouane è partito il 17 aprile 2007. E da allora è scomparso. Quella sera aveva addosso una strana euforia. Aveva chiesto al padre, Kamel, se poteva andare tre giorni a Tunisi con degli amici. Si salutarono velocemente, senza tante parole. Il pomeriggio del giorno dopo, Kamel ricevette la telefonata della moglie in lacrime. Piangeva a singhiozzi. Mérouane aveva preso il mare, glielo aveva detto un suo amico. Suo padre lasciò lo studio grafico e si precipitò a casa per capire quanto di vero ci fosse in quella storia. In effetti c'era un testimone.

Su quella stessa imbarcazione viaggiava Rédouane, il figlio di Hamdi, della baraccopoli di Sidi Salem. A differenza di Kamel, Hamdi era a conoscenza dei piani del figlio e lo aveva addirittura incoraggiato. Senza nessun titolo di studio, con un padre disoccupato, cosa poteva sperare dalla vita qui ad Annaba? Rimanere a Sidi Salem in quelle condizioni significava rischiare di finire nei brutti giri malavitosi di cui pullulava il quartiere e magari finire in galera a vent'anni. Rédouane era un ragazzo ambizioso. A Sidi Salem aveva una fidanzata. Volevano sposarsi. Ma un matrimonio in Algeria, con i tempi che correvano, non sarebbe costato meno di quattromila euro. E lui non voleva certo fare la fine del fratello maggiore, che a trent'anni era ancora scapolo e senza prospettive. Lui pensava in grande, avrebbe aiutato anche il padre a uscire da quella baracca, senza dover aspettare per anni le case popolari promesse dal Comune. E poi molti suoi amici erano già partiti. In quel periodo era facile arrivare in Sardegna.

Il padre non poté che sostenerlo. E probabilmente non se lo sarebbe mai perdonato. Non si sarebbe mai perdonato di aver pagato il biglietto della sua scomparsa. A stento tratteneva le lacrime sul volto asciutto mentre ne parlava. Ma dopotutto, non avrebbe potuto fare altrimenti. Capiva perfettamente le ambizioni del figlio. Lui aveva fatto lo stesso da giovane. Dal 1987 al 1993 aveva vissuto e lavorato in Italia, tra Brescia, Bergamo, Milano e Ravenna.
La sera della partenza, Rédouane passò da casa con il figlio di Kamel, Mérouane, e con altri tre ragazzi che si apprestavano a partire. Erano i compagni di viaggio più grandi, e venivano ad assicurarsi che il padre fosse al corrente di tutto e che il figlio non stesse partendo a sua insaputa, magari dopo avergli rubato in casa. Il padre li rassicurò, dette la sua benedizione a Rédouane e lo baciò per un'ultima volta, come si faceva prima di un lungo viaggio.

Partirono da una spiaggia isolata di Echatt, al riparo da sguardi indiscreti. Al timone c'era un marittimo, Kasmi Abdelouaheb, classe 1968. Uno col libretto di navigazione, uno che in mare c'era cresciuto, lavorando per anni sui mercantili in Francia e in Belgio.
La barca salpò alle dieci di sera. Due ore dopo, a mezzanotte, Hamdi riuscì a parlare con il figlio, telefonando a uno dei ragazzi che si era portato a bordo il cellulare. La sorella gli parlò di nuovo alle quattro del mattino, e per un'ultima volta alle nove. Più tardi, quando lo stesso Hamdi provò a comporre di nuovo il numero, a metà mattinata, il telefono era irraggiungibile. Rédouane sarebbe scomparso nel niente, assieme al figlio di Kamel e agli altri otto ragazzi dell'equipaggio.

Da quel giorno, i padri dei ragazzi dispersi non si danno per vinti. Sono pronti a scommettere che i figli non siano morti annegati. È impossibile, dicono, che i naufraghi siano scomparsi nel niente. Ma nei faldoni della Prefettura di Cagliari, degli algerini scomparsi in mare non c'è traccia. E allora l'unica ipotesi che resta in piedi è che si trovino detenuti in qualche carcere in Tunisia. Ma non ci sono prove. Il comitato dei padri, guidato dal signor Kamel, ha prodotto un dossier sui 92 dispersi e l'ha consegnato ai deputati del parlamento algerino, alle ambasciate e alla stampa, ma senza nessun risultato. La cosa sembra non interessare a nessuno. E i padri si ritrovano sempre più soli, abbandonati al loro sconforto. E a un lutto impossibile da elaborare senza una salma su cui piangere. "Ma lo sanno - si chiede Kamel - i Sarkozy, i Berlusconi, i Bouteflika, i Ben Ali cosa vuol dire lavare il sedere di un neonato? Conoscono l'odore dei pannolini? Hanno mai accompagnato per mano il proprio bambino al primo giorno di scuola? Ma lo sanno i Sarkozy, i Berlusconi, i Bouteflika, i Ben Ali cosa vuol dire perdere un figlio?".

Gabriele Del Grande

 

26 aprile

 

Catania Connection

di Lirio Abbate e Gianfrancesco Turano

Il caso Lombardo riporta l'attenzione sull'altra capitale siciliana. Dove Cosa nostra, politici e imprenditori proseguono i loro affari nel silenzio

Milioni di metri cubi e un nuovo partito politico. Catania costruisce. Catania inaugura. Chiacchiera, anche. Qui non siamo a Palermo, dove mezza parola deve bastare. I catanesi raccontano tutto. Tutto degli altri, ovviamente. Così, mentre a Palermo le inchieste giudiziarie e gli arresti hanno messo in ginocchio Cosa nostra e i suoi favoreggiatori borghesi, a Catania la mafia si rafforza sempre di più, perché intreccia imprenditoria e politica, facendo avanzare in silenzio volti nuovi, inseriti anche ai vertici delle associazioni di categoria.

Il governatore della Sicilia, Raffaele Lombardo, catanese con casa a pochi passi dalla chiesa del Carmine, nella piazza dove si tiene il mercato della 'fera 'o luni' (fiera del lunedì), ha replicato alle accuse di mafia mettendo all'indice il trasversalismo dei suoi nemici. Fra i bersagli del presidente siciliano ci sono soprattutto i concittadini Enzo Bianco, ex sindaco oggi senatore Pd, e Pino Firrarello, senatore Pdl dell'ala lealista, quella che lotta contro la destabilizzazione portata dal Mpa di Lombardo e che vede l'ipotesi di Lega del Sud come il fumo dell'Etna.

Questo scontro politico-giudiziario rallenta l'afflusso di denaro e il sereno andamento degli affari. Ma, secondo gli osservatori locali, lo sciame sismico turberà ancora per poco la pax catanensis. Lombardo è dato in uscita. A giugno è prevista la chiusura dell'indagine e una richiesta di rinvio a giudizio bloccherebbe l'espansione del governatore. Dopo le scosse, gli affari potranno riprendere sotto l'occhio di una magistratura finora poco incline agli assalti e di un'informazione dominata da Mario Ciancio Sanfilippo, editore della Sicilia e di Telecolor, padrone della pubblicità locale, membro del comitato esecutivo dell'Ansa e immobiliarista dal tocco infallibile. Sui terreni che aveva comprato vicino all'aeroporto di Fontanarossa alla fine di marzo è stato aperto un nuovo mega centro commerciale con un mega guadagno per Ciancio. Alle ore 14 c'era l'inaugurazione, alle 10 il Comune ha inaugurato la strada.

Nella stessa zona periferica a sud della città, verso le spiagge dorate della Plaia. Ciancio dispone di altri 600 mila metri quadrati di ex agrumeti ridotti a sterpaglie e pronti a trasformarsi nella prossima strepitosa plusvalenza grazie al Pua. La sigla sta per Piano urbanistico attuativo del Comune, dove comanda il sindaco Raffaele Stancanelli, compagno di Lombardo dai salesiani e pidiellino lealista. Il piano prevede sul lungomare un palazzo dei congressi, campo da golf, cinema multisala, parco del mare, acquario e campi da tennis. Il tutto a breve distanza dalla mitica Etna Valley, il distretto industriale specializzato in elettronica sulla falsariga della Silicon Valley californiana e trainato negli anni Novanta dalla Sgs di Pasquale Pistorio.

La crisi, qui, ha colpito duro. La St microelectronics, che è subentrata a Sgs, nel 2009 ha fatto due mesi di cassa integrazione. "Etna valley ha nuovi scenari con le energie alternative e i film fotovoltaici ultrasottili", dice il presidente di Confindustria locale, principe Domenico Bonaccorsi di Reburdone, eletto dopo uno scontro terrificante basato su chi era il più antimafioso del reame. La battaglia si è conclusa con la sconfitta del montezemoliano Fabio Scaccia, che nel frattempo ha fondato la Banca Base insieme all'industriale delle mozzarelle Zappalà e a Pietro Agen, potente presidente della Camera di Commercio.

Alla domanda su quante imprese siano state estromesse da Confindustria Catania secondo i dettami del presidente regionale Ivan Lo Bello, la risposta di Bonaccorsi è: una su 600. Né si può sapere quale sia. "Posso solo dire", dice Bonaccorsi, "che l'azienda operava negli appalti pubblici e che si è, correttamente, autosospesa".

Nonostante le speranze fotovoltaiche, lo sviluppo dell'industria appare stentato. Appena oltre la sede di St microelectronics, Etna Valley è stabilmente occupata da cani randagi, non tutti amichevoli. Sono i discendenti dei bastardi che scorrazzavano fino alla centralissima via Etnea, ai tempi del crac delle finanze municipali e dell'Enel che tagliava la luce dei lampioni al sindaco-taumaturgo Umberto Scapagnini. Fra capannoni abbandonati e strade accidentate, l'altra zona viva del distretto industriale è quella occupata da due ditte di trasporti. Una è la Di Martino, del vicepresidente di Confindustria locale Angelo Di Martino. L'altra è la Sud Trasporti della famiglia Ercolano. Insieme possiedono diverse centinaia di tir, tanto che Angelo Ercolano è presidente regionale della Fai, la Federazione autotrasportatori.

Non proprio uno qualunque, Angelo Ercolano. È l'ultimo rampollo della principale famiglia mafiosa della città. Lo zio Pippo è il reggente della cosca Santapaola (Nitto è suo cognato). Il cugino Aldo sta all'ergastolo per aver ucciso il giornalista Giuseppe Fava. Per decenni la famiglia Ercolano ha investito i propri denari nella ditta di trasporti, l'Avimec, poi confiscata per mafia. E non c'è subappalto per movimento terra, da queste parti, che sia sfuggito alla premiata ditta. Il vecchio boss Pippo, buon amico di Ciancio, fu arrestato in un sottoscala negli uffici della sua azienda. E anche Nitto Santapaola da latitante si spostava nascosto dentro i camion dell'Avimec. Adesso il nipote Angelo, incensurato titolare della Sud Trasporti rappresenterà 1.500 padroncini catanesi e sarà il punto di riferimento della Fai nazionale, oltre che un appoggio importante per la Camera di Commercio di Agen, ligure di Imperia importato a Sud.

A Catania dopo la nomina di Ercolano nessuno si stupisce. Perché qui la mafia ha un volto borghese. I boss trascurano da tempo la lupara e si sono trasformati in imprenditori nel campo dei rifiuti, dei trasporti, delle costruzioni e del commercio. All'ombra dell'Etna l'organizzazione criminale non vuole apparire violenta, secondo un metodo illustrato dai pizzini di Provenzano. Il boss corleonese consigliava di fare impresa ai capi a lui più vicini. È lo stesso suggerimento del boss Nitto Santapaola che ha sempre cercato la ricchezza nel silenzio delle armi.

Fra chi è riuscito a inserirsi nei subappalti per la realizzazione dei centri commerciali che circondano Catania c'è la Incoter della famiglia Basilotta. Uno dei fratelli, Vincenzo Basilotta, è stato arrestato nel 2005 in un'operazione che ha svelato i rapporti tra le cosche, il mondo delle imprese e quello della politica. Dal carcere Basilotta ha ceduto le sue quote dell'azienda a uno dei fratelli. Per i magistrati è un imprenditore organico a Cosa nostra, in particolare al clan La Rocca, che rappresenta la famiglia Santapaola nella zona di Caltagirone. I Basilotta si sono intrufolati in tutti i lavori più importanti del catanese, del nisseno e dell'agrigentino. Da poco tempo hanno acquisito anche una cava. Possibile? Certo. In Sicilia per ottenere una cava in concessione dalla Regione non occorre alcun certificato antimafia. "La mafia è niente al confronto della piovra burocrazia, così simile a quelle alghe che soffocano il fondale marino". La valutazione è del presidente dei costruttori Andrea Vecchio, in prima fila per la legalità e contro il racket, ma con un'indagine a carico per avere simulato minacce telefoniche. La burocrazia non ha scoraggiato l'arrivo sulla piazza di qualche impresa continentale. Sono molto attivi i vicentini Maltauro, che hanno rilevato quanto restava dell'impero di Carmelo Costanzo, uno dei quattro Cavalieri che furoreggiavano negli anni '80. I Maltauro hanno realizzato Etna Polis, subappaltata ai Basilotta, e si sono alleati con Uniter, la potenza locale emergente nelle infrastrutture pubbliche. Nel giro di pochi anni dalla nascita (2003) Uniter è diventata una delle maggiori imprese italiane, con lavori sulla Salerno-Reggio, sulla Terni-Rieti, a San Donà di Piave, al porto di Genova. A Catania Uniter ha l'ospedale San Marco e la metropolitana. I suoi fondatori sono un esempio del trasversalismo alla catanese. C'è Mimmo Costanzo (nessuna parentela con Carmelo), ex assessore di Bianco. E c'è Santo Campione, ex braccio destro del cavaliere Mario Rendo. Uniter e Maltauro realizzeranno la Catania-Ragusa (815 milioni) insieme all'eurodeputato Pdl Vito Bonsignore, cugino di Firrarello che, a sua volta, è suocero di Giuseppe Castiglione, presidente della Provincia e coordinatore del Pdl siciliano. Tutti e tre brontesi e tutti nemici di Lombardo.

Uniter è candidata anche ai lavori della darsena. La linea del litorale, il cosiddetto waterfront, è la più calda per i buoni affari. Gli sbancamenti previsti dovrebbero cambiare volto alla costa con un impatto ambientale devastante. I padroni della città hanno già preso posizione. La Vecchia dogana del porto è finita a Ennio Virlinzi, erede di una dinastia di industriali del ferro che producevano i tondini per le monete, al tempo della lira. Virlinzi è legato a Ciancio in vari business. Fra questi, quello dei parcheggi, un'altra costante catanese insieme ai centri commerciali. L'editore-immobiliarista e l'imprenditore siderurgico sono finiti sotto inchiesta assieme alla famiglia Di Martino per lo scempio di piazza Europa, sul lungomare in centro, dove la sabbia lascia il posto alla splendida scogliera lavica. La magistratura ha sequestrato i cantieri a metà dell'opera. Adesso piazza Europa sfoggia un ecomostro di pilastri mozzi.

I giudici sono stati più tolleranti con l'ex mulino Santa Lucia, una sorta di meringa a mare fabbricata dall'Acqua Marcia di Francesco Bellavista Caltagirone. Il costruttore romano ha potuto completare i lavori prima che fosse emesso il decreto di sequestro. L'incidente di percorso non ha impedito all'università di Catania di laureare Caltagirone honoris causa in ottobre alla presenza di politici e del procuratore generale Giovanni Tinebra ( Guarda il video).

Acqua Marcia si augura che l'opera non resti bloccata quanto la lottizzazione di Corso Martiri della Libertà, una colossale vasca nel cuore della città dove da decenni si avvicendano progetti e proposte. Il pallino è in mano a un altro forestiero, l'immobiliarista romano Sandro Parnasi, appoggiato da un manager di ritorno come il catanese Aldo Palmeri, storico braccio destro di Luciano Benetton a Ponzano Veneto. Per ora, l'unica decisione presa è l'abbattimento di una scuola che è uno dei pochi edifici antisimici della città.

Contro la demolizione è intervenuto Dario Montana, coordinatore provinciale di Libera. È il fratello del commissario Beppe Montana, assassinato dai corleonesi nel 1985 alla vigilia del maxiprocesso di Palermo. Nell'occasione 'La Sicilia' di Ciancio rifiutò di pubblicare il necrologio della famiglia. "È un'operazione insensata e una beffa", dice Montana. "A fine maggio dedicheranno il teatro della scuola a mio fratello e la palestra a Giuseppe Fava. Subito dopo spianeranno l'edificio per spostarlo duecento metri più in là, dov'era previsto un parcheggio per la Circumetnea. Tutto per fare cassa". E per costruire altri centri commerciali oppure hotel che rimangono vuoti come le casse del Comune.

Così è, se vi pare. A Catania sono in pochi a indignarsi, come è accaduto il 9 ottobre 2008, quando 'La Sicilia' ha pubblicato senza alcun commento la lettera del boss detenuto Vincenzo Santapaola. "La lettera", scrive il magistrato Roberto Alfonso nella relazione della Direzione nazionale antimafia, "è stata fatta uscire dal carcere tramite il difensore sottraendola in tal modo al controllo della direzione" del penitenziario. Il tutto in violazione al regime di 41 bis, il carcere duro imposto ai detenuti più pericolosi. A Catania accade anche questo. L'importante è battere la burocrazia


Il rasoio di Nick Clegg

di Barbara Spinelli

Quel che sta accadendo nel Regno Unito è una storia importante perché in essa ci siamo anche noi, e l'Europa, e l'America. È la storia di una grande illusione che s'infrange, e del fascino che hanno esercitato, specie in Italia, persone come Margaret Thatcher e Tony Blair. È la storia di un terzo uomo, che in queste ore sta infiammando il suo Paese e ha deciso di far scoppiare la bolla inglese.

Molte ragioni spiegano la'scesa di Nick Clegg, il candidato liberal-democratico che scompiglia l'Inghilterra alla vigilia delle elezioni del 6 maggio. Lo scompiglio è dovuto in parte alla crisi del 2007-2009: ovunque, essa sovverte pronostici, calcoli, abitudini. In Gran Bretagna, demolisce certezze decennali: un laburismo chiamato «nuovo», che per 13 anni è vissuto del modello Thatcher; un partito conservatore che è figlio dello stesso modello, pur esibendo la maschera modernista di David Cameron.

Ma ci sono motivi più antichi, profondi. Quel che scricchiola, per la prima volta, è l'identità postbellica dell'Inghilterra, è il suo rapporto con l'Europa e l'America. Su questi e altri temi, il linguaggio di Clegg è come un vento forte e insolito: ha toni eretici, e per i connazionali più che blasfemi. Per certi versi, la sua ascesa somiglia a quella di Obama.

Nell'immobile firmamento delle certezze britanniche è apparso un guastafeste, che dice verità scomode: come Al Gore sul clima, come Obama sulla razza. Clegg non ha la straordinaria scaltrezza di Obama né la sua eloquenza, ma anche gli è un outsider. È un europeista: il che vuol dire, per gli inglesi, un alieno. Quando sulla Manica scende la nebbia, non è convinto che il continente sia «tagliato fuori», come titolò un giornale nel 1940. È convinto che sia Londra a tagliarsi fuori con le proprie mani. Tanti inglesi sembrano aver sete di verità, sconveniente o no. Migliaia di giovani potenzialmente astensionisti stanno correndo a registrarsi per il voto. I giornali parlano di cleggmania.

Le verità di Clegg è altamente sgradita da laburisti e conservatori, perché non solo spezza un duopolio ma svela le menzogne di cui esso si nutre. Svela la bolla della potenza inglese, innanzitutto, con disinvoltura iconoclastica. In sostanza dice questo, agli elettori e a noi europei: le potenze vincitrici dalla seconda guerra mondiale sono in declino, perché la vittoria stessa le ha ossificate, ingabbiandole nell'illusione. Sia America che Inghilterra hanno dormito su quegli allori, persuase che la loro supremazia mondiale fosse imperitura e che ancora esistesse la sovranità assoluta dello Stato-nazione. Ambedue hanno una storia imperiale alle spalle, che complica il congedo dal nazionalismo occultandone le insidie.
La megalomania inglese ha assunto proporzioni grottesche, secondo Clegg. In un articolo scritto sul Guardian il 19 novembre 2002, la profanazione del tempio è stata radicale. Il Regno Unito è accusato di arroganza nazionalista, il suo disprezzo per l'Europa e soprattutto per i tedeschi è ridicolizzato. L'articolo conclude: «Tutte le nazioni hanno una croce da portare, e nessun Paese più della Germania, con le sue memorie del nazismo. Ma la croce inglese è ancora più insidiosa. Un mal riposto senso di superiorità, sostenuto da illusioni di grandeur e da una tenace ossessione dell'ultima guerra, è qualcosa di cui ci si libera molto più difficilmente. Abbiamo bisogno di essere rimessi al nostro posto». I giornali vicini alla destra, imbestialiti, ritirano fuori l'articolo e accusano Clegg di tradimento.

Eppure la storia lo conferma: ricostruirsi e ripartire è spesso più arduo per i vittoriosi che per i vinti. I secondi hanno di fronte a sé una montagna, devono riesaminare se stessi, agguerrirsi per uscire dalla prova vivi e liberi. I primi non hanno davanti a sé che pianure verdi, apparentemente eterne, ignare di baratri. LI'nghilterra è in caduta libera da decenni, ma infinita è la fatica di aprire gli occhi. Lo'perazione di Clegg è quella di Buñuel nelChien Andalou: nel cielo una nube solca la bianca luna, ed ecco la camera si sposta su una pupilla femminile tagliata dal rasoio, perché locchio infine veda (il film esce nel 1929, anno della grande crisi).

Anche il rasoio di Clegg è affilato: smaschera la chimera inglese, la stoffa di cui è fatta, le condotte drogate che secerne. Hanno questo fondamento chimerico le relazioni privilegiate con l'America, il desiderio di ostacolare l'unità in Europa come se ancora fossimo agli inizi del 900. Margaret Thatcher e Blair sono stati i due campioni della grande illusione, e le elezioni del 6 maggio sono in realtà un giudizio su di loro, sui falsi miti che hanno fabbricato in trent'anni. Ambedue hanno creduto nella sovranità inviolata della nazione, coltivando con l'merica quella relazione speciale che era la linfa vitale del mito. Clegg sconcerta perché annuncia che l'mperatore, nudo, non è più prediletto ma «asservito alla potenza Usa» (Daily Telegraph, 29-1-2010). Negli anni di Blair, «l'Inghilterra ha agito come un passivo Stato satellite»: ha partecipato allillegale guerra in Iraq, ha «vergognosamente taciuto» sulle torture a Guantanamo, sulla deportazione dei sospetti di terrorismo nelle prigioni segrete all'estero (leufemismo usato è extraordinary rendition, consegna straordinaria), sulla guerra israeliana a Gaza, sull'obsoleta atomica inglese. Non si è accorta che Obama punta su Londra solo se essa rafforza l'unione nel vecchio continente, «in modo che lAmerica possa parlare all'Europa come a un unico soggetto». La preminenza globale americana ha ceduto il passo a un mondo in cui contano Cina e India, nuove superpotenze dell'Oriente, e ciò rende Britannia ancora più piccola. Nel secondo dibattito televisivo, giovedì scorso, Clegg ha difeso l'Unione europea perché «size does matter», la dimensione geografica non è irrilevante in una terra che cambia.

Il vincitore inglese che riposa sugli allori non vede neppure le difficoltà crescenti della propria democrazia. Non solo la sua atomica è obsoleta ma anche il suo bipartitismo, che ha finito col perpetuare status quo e chimere, nascondendo le mutazioni avvenute dentro casa oltre che fuori. Sono anni che gli inglesi hanno smesso di concentrarsi sul duopolio, scegliendo una moltitudine di partiti d'altro colore o l'astensione. È quello che rende non solo ingiusta ma inefficace la loro legge elettorale, rigidamente maggioritaria. Secondo il presente sistema (lo stesso che vorrebbe introdurre Berlusconi in Italia, per l'elezione del Presidente della Repubblica) il partito che prende più voti si conquista una smisurata maggioranza, senza dover negoziare alcunché con altre forze rappresentative.

Tutto va bene se altre forze non esistono, come nell'Inghilterra degli Anni 50. Allora, solo il 2 per cento degli elettori sceglieva partiti estranei a conservatori e laburisti. La snodata società odierna non si esprime più così. Nelle elezioni locali del 2009 il 40 per cento degli elettori ha votato partiti diversi, fuori dal duopolio, e nelle ultime politiche 6 milioni hanno preferito i liberali. Tanto più assurde diventano le vecchie regole: il Labour ha ottenuto un enorme maggioranza parlamentare con poco più del 22 per cento dei voti. I liberali, con un quarto di elettori, hanno meritato solo 10 deputati. È il motivo per cui Clegg ha poche possibilità. Ma può disturbare parecchio: Gordon Brown ha già assicurato una mini-riforma del sistema elettorale, e le urne potrebbero incoronare un premier che senza liberali non sarà in grado di governare.

La maledizione che grava sui vincitori delle guerre è questa, sempre. Arriva il giorno in cui il piedistallo sul quale troneggiano vacilla, e il trono stesso si rivela finto. Il modello economico della Thatcher è fallito. Quello del Nuovo Labour pure, a meno che Brown non lo resusciti, magari non stavolta ma la prossima. Blair ha creato questo marasma (la pace in Irlanda è probabilmente l'unico suo successo politico). Ha distrutto la socialdemocrazia e i suoi principi, per consegnare luna e gli altri ai liberali e al loro terzo uomo

 

Niger, l'altra faccia del business minerario

Non solo risorse e occupazione, in Niger le miniere di uranio gestite da Areva stanno provocando gravi danni ambientali ed economici, come denuncia Greenpeace.

Ad Akokan, in Niger, non conviene respirare a cuor leggero ed è meglio evitare di bere acqua. In realtà, forse sarebbe bene anche non passeggiare per le strade. Akokan è una città tossica, un piccolo villaggio in cui si respira, si beve e si cammina sul veleno. E' questa l'altra faccia della medaglia di quelle miniere di uranio gestite da Areva, che avrebbero dovuto fare da volano all'economia del Paese e invece si sono trasformate in un boccone avvelenato, nel vero senso della parola.

Villaggi tossici. Le accuse al colosso francese, leader nel settore dell'energia nucleare, sono elencate, nero su bianco, in un dossier pubblicato il 30 marzo da Greenpeace, redatto in base ai dati ottenuti dalle ispezioni effettuate lo scorso novembre. Un rapporto che smentisce le dichiarazioni della società pubblica. Areva, già chiamata in causa nel 2007, si era impegnata a bonificare i territori in cui sorgono le miniere di uranio che ha in concessione. Secondo i tecnici della Ong ambientalista, però, quelle bonifiche non hanno mai avuto luogo e il risultato è che nelle città minerarie di Akokan e Arlit, a circa 850 chilometri a nordest della capitale Niamey, 80 mila persone vivono esposte a forti dosi di radioattività, causata dall'estrazione dell'uranio, minerale necessario come combustibile per la produzione di energia nucleare ed impiegato grezzo nella costruzione di armi atomiche.
Ad Akokan è stato registrata nell'aria una concentrazione di radon, un gas naturale tossico, 500 volte superiore a quella normale. Ma qui sono contaminate anche le strade, perché costruite con pietre ottenuto dallo scarto radioattivo della produzione mineraria.
Ad Arlit, invece, quattro campioni su cinque hanno certificato la pericolosità dell'acqua, con livelli di tossicità oltre i limiti fissati dall'Organizzazione mondiale della Sanità.
Secondo Rianna Teule, una delle menti della campagna di Greenpeace in ambito nucleare, "chiunque trascorresse anche meno di un'ora al giorno in questi posti, sarebbe esposto ad una quantità di radiazioni superiore a quella annuale, fissata come limite dalla International Commission on Radiological Protection, riconosciuta per legge in diversi Paesi". Semplificando, in quei distretti è pericoloso fermarsi persino per meno di un'ora al giorno, figurarsi viverci.
Né l'attività estrattiva minaccia solo la salute degli abitanti delle aree minerarie. E' in pericolo, infatti, anche l'economia locale che, soprattutto nel nord-est del Paese poggia ancora sulla pastorizia. Le miniere, che per funzionare hanno bisogno d'acqua, assorbono le già esigue risorse idriche. Per questo, nella regione di Agadez è a rischio la sopravvivenza dei Tuareg, dei Kounta e dei Fula, così come quella di altre popolazioni nomadi che vivono di pastorizia.

La scommessa nigerina. Il Niger, però, uno dei Paesi più poveri del mondo, all'ultimo posto per i parametri fissati dallo Human Development Index, ha scommesso sull'estrazione dell'uranio e in particolare su Areva che, presente con le sue due sussidiarie, Somair e Cominak, è il più importante partner commerciale e la più grande fonte occupazionale dello stato africano, dal quale ricava oltre la metà della sua produzione di uranio. Per il governo nigerino, insomma, le miniere sono una risorsa preziosa e non conviene stare troppo a sottilizzare: una eccessiva fermezza nei confronti delle compagnie straniere in tema di difesa dell'ambiente e della salute della propria popolazione, potrebbe provocare una fuga delle società minerarie verso altri lidi. Proprio quel che il Niger teme come il peggiore dei mali, visto che solo nel 2009 ha autorizzato l'avvio di 139 progetti di ricerca per l'individuazione di nuovi siti a compagnie canadesi, cinesi e australiane. Di sicuro c'è che una terza importante miniera vedrà la luce tra il 2013 e il 2014, a Imouraren, per il quale Areva avrebbe previsto un investimento di quasi due milioni di dollari. Un giacimento enorme - uno dei più grandi bacini uraniferi del mondo, si legge sul sito della compagnia francese che nel 2009 è salita al primo posto tra i produttori di uranio - che potrebbe restare produttivo per oltre 35 anni.
Ma il Niger è in buona compagnia.

Il trend africano. L'intero continente africano, più in generale, può vantare un'imponente ricchezza del sottosuolo, su cui siedono governi deboli e facilmente corruttibili. Un binomio che fa gola a chi ha capitali da investire
Si trovano in Africa, ad esempio, due delle quattro nuove miniere di uranio aperte tra il 2006 ed il 2009: Langer Heinrich, in Namibia, e Kayelekera, in Malawi.
Il 20 per cento circa della produzione mondiale di uranio nel 2008 proveniva dall'Africa, in particolare da Namibia, Niger e Sudafrica, ma in futuro la cifra è destinata a crescere, dal momento che nei prossimi anni nuovi impianti minerari saranno aperti nella Repubblica Centrafricana, in Namibia e in Botswana, dove negli ultimi anni sono state concesse 138 licenze esplorative, 112 delle quali nell'area del Central Kalahari Game Reserve, dove vivevano i Boscimani, prima che il governo li espellesse, nel 2002. Erano d'intralcio al progresso.
Tre Paesi in cui Areva è presente, così come in Mozambico, attraverso la sua sussidiaria Uramin, società britannico-canadese acquisita nel 2007, un consistente pacchetto delle cui azioni (il 49 per cento) è stato poi rivenduto alla cinese Cgnpc. Se si considera che il colosso francese ha miniere anche in Namibia e Gabon e che conduce esplorazioni o si accinge a farlo in Algeria, Ciad, Congo e Libia si comprende quale sia la sua forza in Africa, continente dove sta scoppiando la febbra mineraria.
L'ultima arrivata è la Tanzania, con due importanti depositi di ossido di uranio individuati nel centro e nel sud del Paese, per un peso pari a oltre 25 mila tonnellate, vale a dire 2,2 miliardi di dollari, su cui metteranno le mani le australiane Mantra Resources e Uranex Resources.

Alberto Tundo

 

Prof e buoi dei paesi tuoi

Insegnanti regionali doc, e test di dialetto per prendere la cattedra. La Lega si scatena sulla scuola, anche Gelmini annuncia graduatorie regionali. Eppure sono le scuole del Nord, piene di insegnanti che vengono dal Sud, le migliori nei test internazionali. E i numeri sui trasferimenti smentiscono gli allarmi

Lauree e abilitazioni non bastano, secondo la Lega, per fare l'insegnante. Ci vogliono altri due requisiti. Il primo è una residenza di almeno cinque anni nella regione in cui si chiede di insegnare. Il secondo è aver superato un esame di cultura, tradizioni, dialetto locale che dovrebbero essere le singole regioni a definire e gestire. Tutto ciò in un disegno di legge depositato lo scorso 30 marzo a firma dellon. Paola Goisis, segretaria della commissione istruzione e cultura della camera, già insegnante di lettere e storia in quel di Padova. Ancorché livornese di nascita. Se tale peccato originale Livorno non è proprio profondo Sud, ma certo non è la Padania santissima abbia influito negativamente su qualità e risultati della sua esperienza professionale, lonorevole non lo dice. Anche se per Davide Boni, capogruppo della Lega nel Consiglio regionale lombardo, non cè da dubitare dei guasti culturali, identitari, nutrizionali ? inflitti a studenti e famiglie dal fatto che nelle scuole del Nord approdino continuamente insegnanti che non sanno neanche cosè la polenta.

Ma è una cosa seria, questo disegno di legge (di cui si dice che potrebbe essere iscritto entro l'estate allordine del giorno), o questa idea che anche gli insegnanti, come le mogli e i buoi, debbano essere dei paesi tuoi è così insensata e inattuabile che non vale la pena parlarne? Contraria al dettato costituzionale, intanto, lo è di certo. Se l'amministrazione pubblica può, a parità di merito, decidere di dare priorità nelle assunzioni a chi è residente, per nessuna ragione invece può fare in modo che in Lombardia un siciliano con più titoli culturali e professionali venga scavalcato da un bergamasco che ne abbia di meno. Ma non ci si può fermare a questo. Ci sono anche altri motivi di discussione. Il primo è che già lo scorso luglio Goisis si era applicata, e con qualche successo, a far deragliare il disegno di legge sul governo delle istituzioni scolastiche e sullo stato giuridico del personale docente di Valentina Aprea, presidente Pdl della stessa commissione parlamentare. Guarda caso dopo che, sia pure in modo non proprio univoco e comunque limitato a una sola parte della proposta, si era intravista la possibilità di arrivare a qualche mediazione bipartisan. Essenziale a farla andare avanti, visto che il testo Aprea, in cui sono peraltro già contemplati per gli insegnanti albi regionali e assunzione diretta da parte delle scuole, è fermo da così tanto tempo (non c'è gran sintonia, è noto, tra l'ex sottosegretaria di Letizia Moratti e la ministra Gelmini) che i suoi sostenitori cominciano a perdersi d'animo. Ma allora Goisis non era andata oltre un test di dialetto come condizione dell'immissione in ruolo: così grottesco (quanti sono, e quanto diversi da una valle allaltra, i dialetti locali in Lombardia?) che perfino Maria Stella Gelmini si era potuta permettere di prenderne garbatamente le distanze. Oggi però, col trionfo leghista, il gioco si è fatto più duro. Il nuovo ddl, forzando i tempi del passaggio alle regioni della gestione del personale scolastico, contraddice apertamente la progressività e la cautela dell'intesa tecnica stipulata recentemente tra stato e regioni sull'attuazione del Titolo V. E alle regioni affida, in nome del federalismo, non solo la titolarità della contrattazione collettiva integrativa ma anche il ruolo strategico del reclutamento, finora di competenza esclusiva dello stato. Categoria statale per eccellenza , gli insegnanti vengono così quasi completamente regionalizzati. In un sol colpo, in sintesi, si materializzano i classici due piccioni . Da un lato una pesante ipoteca sul disegno Aprea, connotato del resto più da un'adesione alle suggestioni lombarde della sussidiarietà targata Compagnia delle opere che al duro regionalismo leghista di tipo veneto. Dall'altro la possibilità di riaprire i giochi, a proposito del Titolo V, rendendo più complicato , in una Conferenza stato-regioni uscita modificata dai risultati elettorali, il passaggio dall'accordo tecnico a quello politico. Piatto ricco, insomma, dall'esito incerto, ma da non sottovalutare.

C'è però forse qualcosa d'altro, di più concreto e stringente, dietro l'esasperato localismo del testo Goisis e le infuocate espressioni di ostilità di chi lo sostiene all'emigrazione intellettuale da Sud a Nord. Che nelle scuole del Nord ci sia un buon numero di insegnanti che vengono da altre aree del paese non è affatto una novità, fin dai primi anni settanta. Attualmente sono il 19,8%, solo 1 su 5, ma in Lombardia gli insegnanti nati nelle regioni meridionali sono il 31% (e un altro 9% viene da quelle del Centro). Sebbene i leghisti strepitino contro la vera o presunta maggiore facilità con cui sotto il Garigliano si ottengono diplomi, lauree, idoneità, iscrizioni agli ordini (e qualcosa di vero deve pur esserci, a vedere il curricolo dell'avvocato bresciano Gelmini Maria Stella), non pare proprio che da questa presenza aliena siano derivate particolari difficoltà , o specifiche disfunzioni. Sono notoriamente le scuole del Nord dicono indagini internazionali e nazionali - quelle che assicurano i migliori risultati in termini di apprendimento.

E non regge alla prova dei numeri neppure il martellante argomento della discontinuità didattica che deriverebbe dalla cattiva abitudine degli insegnanti di provenienza meridionale di tornare precipitosamente al paesello subito dopo aver acciuffato un'immissione in ruolo in terra veneta o lombarda. L'anno scorso, documenta la Fondazione Agnelli, sulle circa 120.000 domande di trasferimento solo 8.000 erano da una regione all'altra e di queste solo 3.000 da Nord a Sud. Ma quel che conta è che alla fine, dei 72.000 effettivamente trasferiti, siano stati solo 692 gli insegnanti che dalle scuole del Nord Ovest e del Nord Est si sono spostati in quelle meridionali. E neppure si può dare per scontato che in tutti i casi si tratti effettivamente di rientri. Questo tipo di migrazione intellettuale ha, del resto, delle ragioni specifiche, e ampiamente note. Nel mercato del lavoro del Nord l'insegnamento ha sempre visto la concorrenza di altre professioni, in particolare per i laureati in materie scientifiche e tecnologiche, come indicano le tante graduatorie provinciali esaurite o in via di esaurimento e perfino, qua e là, gli incarichi affidati a neolaureati senza alcun titolo professionale. E per questo e per altri motivi che il mercato del lavoro scolastico in Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia Romagna è stato sempre più dinamico e ricco di opportunità che in altre aree del paese. Maggiore lo sviluppo delle scuole materne statali e comunali. Più diffuso nel primo ciclo il tempo pieno e altre tipologie di prolungamento orario. Più numerosi gli istituti tecnici e professionali con orari più lunghi, più discipline, e quindi più personale anche di tipo tecnico rispetto ai licei. E ancora la Fondazione Agnelli a calcolare che per un insegnante precario spostarsi al Nord significa accorciare l'attesa dell'immissione in ruolo di almeno due-tre anni. Anche oggi ? Certo, anche oggi, e per motivi che hanno a che fare soprattutto con altri tipi di migrazione.

Tra il 2007-2008 e il 2008-2009, nel sistema scolastico pubblico italiano cè stata una diminuzione di circa 12.000 studenti. Ma è stato il Sud, dove il calo demografico non è compensato dalla presenza crescente dei figli degli immigrati, a perderne ben 52.000, mentre nel Nord il segno è positivo: più 18.500 nel Nord Ovest, più 19.500 nel Nord Est (e più 2.500 nel Centro). Così in Lombardia nelle graduatorie provinciali degli insegnanti precari gli iscritti non residenti sono il 44%, in Emilia Romagna il 42,5%, in Piemonte il 35%. Lon. Goisis e i suoi vorrebbero ricacciarli come barbari fuori dalle mura, anche a rischio di dover imbarcare insegnanti con titoli culturali e professionali più deboli. O almeno vorrebbero, come dichiara il governatore Cota che ha forse sentito dire che per certe discipline possono esserci liste insufficienti , dare priorità nell'assunzione in ruolo ai regolari, cioè ai regolarmente residenti da cinque anni. In singolare analogia con quel che ritengono si debba fare, in tempi di calo dell'occupazione, con i lavoratori stranieri immigrati. Dietro tutto ciò non cè solo il territorio ridotto a fortino, la cittadinanza a certificato di residenza, la cultura a un impasto tra tradizioni locali e dialetti. Ci sono anche gli effetti di una crisi lunga e ostinata che può fare il miracolo. Può cioè far diventare più desiderabile anche un lavoro modestamente retribuito, ma a tempo indeterminato se di ruolo, come quello dell'insegnante. Anche tipico di quella fannullaggine statale così indigesta al di sopra del Po. E cè forse anche la percezione dei guai occupazionali che si stanno determinando per effetto dei tagli che il governo di centrodestra, il loro governo, il loro Tremonti, impone alla scuola pubblica. Con tutto quello che può derivarne quando a perdere posto e a perdere le speranze siano anche insegnanti, di ruolo e precari, del Nord. Come succede sempre più spesso delle proposte leghiste, anche le più bizzarre e inattendibili, non si può più solo ridere.

 

Perchè la Chiesa non punisce i preti pedofili

di Michele Martelli

Ultima notizia giornalistica dal fronte dei preti pedofili: papa Wojtyla autorizzò nel settembre 2001 il cardinale Castrillon Hoyos (prefetto della Congregazione per il Clero dal 1996 al 2006) a inviare all'episcopato di tutto il mondo una lettera di elogio e congratulazioni a monsignor Pierre Pican, vescovo francese di Bayeux, per «non aver denunciato un prete all'amministrazione civile» e «aver preferito la prigione piuttosto che denunciare il suo figlio-prete», rispettando la natura «sacramentale, non professionale della relazione tra i preti e i loro vescovi». Il figlio-prete era don René Bissey, condannato nel 1998 a 18 anni di carcere dalla magistratura francese per aver commesso negli anni Ottanta e Novanta violenze e abusi sessuali a danno di una decina di ragazzi (il testimone reticente vescovo Pican, che nel processo tenne un contegno distaccato e altezzoso, ebbe soltanto tre mesi con la condizionale).

Nell'episodio ci sono a mio parere tutti gli ingredienti che spiegano perché la Chiesa normalmente non punisce i preti pedofili. Esaminiamoli brevemente.

1) Potere gerarchico - sacramentale del clero. Tra i sette sacramenti della Chiesa, il sesto è quello dell«Ordine sacro» o «sacerdozio ministeriale o gerarchico». Come spiega il Catechismo, «la parola ordo, Ordine, nell'antichità romana designava soprattutto il corpo di coloro che governano» (n. 1537). LOrdine sacro è quello che, munito di «sacra potestas, sacra potestà», governa la Chiesa dei fedeli, ed è distinto nei tre gradi gerarchici dei vescovi, presbiteri e diaconi. Al vertice della gerarchia cè il Sommo Pontefice. Ancora più importante è la supposizione che i sacerdoti e i fedeli «differiscano essenzialmente e non solo di grado» (n. 1547). I primi «sono posti in nome di Cristo a pascere la Chiesa colla parola e la grazia di Dio» (Costituzione conciliare Lumen gentium, 1964, nn. 10-11). Dunque, se la differenza è la stessa che corre tra i pastori e il gregge, si tratterebbe di una differenza non funzionale, ma ontologica. Il clero sacerdotale sarebbe per investitura divina quasi unaltra specie. E perciò senza obblighi verso i comuni mortali, soprattutto se teneri adolescenti. Comunque una sacra, mistica corporazione, da separare e difendere dallesterno.

2) Superiorità della giurisdizione canonica su quella civile. Rientra nella questione dei rapporti tra Stato e Chiesa. La Chiesa, in quanto parte della società civile, è sottoposta alla legge dello Stato, alla magistratura, e quindi al Codice civile e penale. In quanto societas perfecta, è sottoposta invece alla legge di Dio, alla gerarchia, e quindi al Codice di Diritto Canonico. Dove al papa, in quanto Christi Vicarius, si riconosce non solo la «potestà ordinaria, suprema, piena, immediata e universale» (n. 331), ma anche quella di «iudex supremus, giudice supremo in tutto lorbe cattolico», che «a nemini iudicatur, da nessuno può essere giudicato» (nn. 1404, 1442). Quando il diritto canonico confligge col diritto civile, prevale il diritto canonico. Che, per i delicta graviora, come la pedofilia, prevede lammonizione, il trasferimento, lisolamento, la penitenza e la preghiera, la sospensione a divinis, fino alla riduzione allo stato laicale. Dunque, non la denuncia alla magistratura civile. Nelle ultime Linee guide sugli abusi sessuali pubblicate in questi giorni dalla Santa Sede, cè un rigo con un generico accenno allobbligo di «seguire la legge civile allorché preveda la denuncia dei crimini alle appropriate autorità» (chi deve denunciare chi? E se la legge civile di un paese non prevede tale denuncia, bisogna continuare a coprire il reato?). A parte questa pur apprezzabile novità, tutto il documento è dedicato alle procedure interne, tratte dal diritto canonico, relative alla serie di indagini ed eventuali misure disciplinari da adottare in casi di pedofilia, sotto la giurisdizione del Congregazione per la Dottrina della Fede e in primis del Sommo Pontefice. Nessun accenno al secretum pontificium, invocato nella famosa direttiva del 2001 dellex prefetto Ratzinger sulla pedofilia. Dunque, il segreto rimane in vigore, perché non cè un giudice superiore al pontefice. E il prete pedofilo è tuttal più un peccatore, un problema interno alla Chiesa. Non lautore di odiosi crimini da denunciare allautorità giudiziaria dello Stato.

3) Rifiuto dei diritti umani. La dottrina morale della Chiesa ha al suo centro la dignità della persona umana. Tuttavia, la Chiesa non ha mai sottoscritto le dichiarazioni dei diritti umani, politici, sociali e civili, da quella francese del 1789 a quella dellONU del 1948 a quella dellUE del 2000, né le Convenzioni internazionali sulla parità uomo-donna, sulla protezione dellinfanzia ecc. (chi vuole approfondire il punto, può leggere il libro del teologo spagnolo José Maria Castillo, La Chiesa e i diritti umani, 2009). Nel Codice di Diritto canonico (1983) e nel Catechismo (2003) manca persino lespressione «diritti umani o civili». Si può preservare la dignità della persona umana senza rispetto e garanzie concrete, politico-giuridiche, per lesercizio o la protezione dei diritti di libertà, uguaglianza, sicurezza, integrità personale, autodeterminazione e così via? Un uomo senza diritti non è un uomo. La retorica moralistica della Chiesa gerarchica si palesa e infrange nella pratica del segreto pontificio che garantisce immunità e impunità ai preti pedofili, omo- o etero-sessuali che siano. Ma questo Bertone, nella foga di calpestare i diritti umani e civili degli omosessuali, non lo sa ancora.
Chi glielo dice?
 

3 aprile

Sergio Sinigaglia
«Mezza canaja», da prigione fascista a centro sociale

L'appuntamento è davanti alla stazione di Senigallia. Nicola Mancini, trent'anni, dottorando in scienze politiche all'Università di Catania, arriva in bicicletta, mezzo di trasporto assai usato da queste parti. Ma per andare nella nuova sede del centro sociale, a qualche chilometro di distanza, è preferibile usare l'auto. Il posto è verso la frazione di Scapezzano, bisogna inoltrarsi per circa un chilometro dalla statale. Una volta arrivati si può ammirare un panorama notevole, con il bleu del mare che si staglia all'orizzonte. Alle nostre spalle l'ex fabbrica Ragno, chiusa da venti anni, che cinque mesi fa i giovani del "Mezza Canaja" hanno individuato come la sede delle loro iniziative. Siamo alla terza occupazione in sei anni. Una vicenda nata proprio di questi tempi. Il nome del centro sociale si rifà a un detto popolare molto noto nelle Marche: «Sinigaglia, mezzo ebreo e mezza canaglia», battuta ben conosciuta da chi scrive per motivi evidenti. Nicola è il leader "storico" del centro, la cui storia ci sembra interessante soprattutto per chi a sinistra, in particolare dopo le ultime elezioni, ripete che «bisogna ripartire dai territori». E, in questo senso, l'esperienza del "Mezza Canaja" è particolarmente istruttiva. Una vicenda che affonda le radici negli anni prima e dopo le manifestazioni al G8 di Genova.
Il social forum e l'occupazione
«Anche qui - racconta Nicola - è nato un social forum, subito dopo i fatti del luglio 2001. Poi sulle sue ceneri la componente giovanile ha dato vita al collettivo "Il pane e le rose"». La nuova realtà incentra la sua attività su temi generali, verità e giustizia su Genova, l'opposizione al conflitto militare, prime riflessioni sulla questioni del reddito, ecc. «Ad un certo punto chiediamo al Comune uno spazio e ci viene risposto di metterci in fila. Lo facciamo per un anno ma, visto che non accade nulla, decidiamo di passare all'azione». L'opportunità la danno i carabinieri, naturalmente non volendo. Infatti Senigallia, nell'aprile del 2004, viene scelta come sede per la festa nazionale dell'Arma. È prevista la presenza delle massime cariche dello Stato, dal Presidente della Repubblica al ministro della Difesa. Quale migliore occasione per inaugurare un percorso di conflitto e partecipazione? «Decidemmo - continua Mancini - di fare una "incursione" e ci impadronimmo di un locale che stava proprio lungo il percorso, a venti metri dal corteo ufficiale. Nel cuore della "zona rossa" creata ad hoc per l'occasione. È da tenere presente che eravamo a pochi mesi dai fatti di Nassiriya, e proprio in quei giorni il nostro contingente si era macchiato di una strage di civili». La contestazione contro il militarismo che caratterizza la giornata ha una vasta eco. Nasce il centro sociale. I locali rimangono occupati per circa otto mesi, ma a sbloccare la situazione è un concerto. «Vista la situazione totalmente bloccata, decidiamo di organizzare un concerto con gli "Assalti frontali". L'iniziativa riesce e riusciamo a portare milleduecento persone. Insomma un successone». La cosa scuote la fredda amministrazione comunale, che decide di aprire una trattativa, anche in considerazione che il posto occupato è pieno di amianto.
Così ai ragazzi del Mezza Canaja vengono assegnati i locali dell'ex Colonia Enel, sul lungomare. La proprietà è di una società immobiliare che ha intenzione di costruirci, ma, visto che per gli eventuali lavori di ristrutturazione ci vorranno alcuni anni, il Comune coglie l'occasione per togliersi la gatta da pelare e favorisce un accordo per un contratto di comodato d'uso gratuito. Il posto è centro dello spaccio cittadino e i primi tempi non sono certamente facili. «Noi abbiamo avuto il merito di ripulire un luogo e restituirlo alla città. Lì erano presenti due bande di spacciatori, una di magrebini e l'altra di anconetani. Ci sono stati scontri duri. Alla fine anche grazie al lavoro fatto con i migranti, in collaborazione con l'Ambasciata dei diritti (associazione regionale da tempo impegnata sul tema dei diritti dei migranti, ndr), e alla mediazione degli stessi immigrati, siamo riusciti a venire a capo del problema. Gli stessi spacciatori, alla fine, hanno riconosciuto la validità del nostro progetto e hanno lasciato il campo libero».
Da prigione fascista a...
Questa palazzina è poi diventata protagonista di uno scandalo del quale si sono occupati anche i giornali nazionali (compreso il manifesto). In sostanza un autorevole rappresentante della comunità ebraica senigalliese, Ettore Coen, ha scoperto che tra il 1943 e il 1944 la struttura funzionò da campo di prigionia per ebrei ed antifascisti. Questo mentre la proprietà e il Comune avevano concordato la realizzazione di un residence di lusso, una volta cacciato il centro sociale. L'ampia mobilitazione affinché fosse evitato l'abbattimento ha avuto risposta negativa dall'amministrazione che di fronte alla proposta che il luogo diventasse un "spazio della memoria", ha preferito spalancare le porte al solito business. E l'ex colonia Enel è stata abbattuta pochi mesi fa. E il centro sociale? «Una volta scaduto l'anno il contratto - prosegue Nicola Mancini - ci è stato rinnovato ancora per sei mesi, finiti i quali è scattata una penale di 150 euro al giorno. La proprietà, anche per questioni di immagine, non ha mai voluto far intervenire la polizia, per cui alla fine con sulle spalle un debito così oneroso, arrivato a trecentomila euro, abbiamo dovuto lasciare liberi i locali in cambio della cancellazione del debito».
Fin qui la storia che vi abbiamo raccontata può sembrare simile a quella di altre esperienze del genere. Ma invece dietro la lunga vertenza con l'amministrazione comunale per il diritto ad uno spazio autogestito c'è un'attività che negli ultimi anni ha privilegiato il radicamento sociale, rispetto a logiche autoreferenziali che spesso contraddistingue esperienze del genere. Senigallia è una città di quarantasettemila abitanti. Il piano regolatore, risalente agli anni settanta, prevedeva una crescita fino a centomila, previsione che, per fortuna, non si è avverata, anche se in estate con i turisti, gli abitanti triplicano. Da sempre feudo della sinistra storica, fino a poco tempo fa si caratterizzava per un'economia incentrata sul classico turismo da riviera adriatica. Negli ultimi dieci anni, con la giunta targata Luana Angeloni, dirigente storico del "partito", il cui marito è figlio di quel Franco Rodano autorevole dirigente nazionale del Pci, è subentrata una politica da piccola "città globale.
«L'esperienza di governo comunale targata Angeloni - dice Nicola - ha stravolto Senigallia. E non do solo un'accezione negativa al termine. La tradizionale economia è stata sostituita da un sistema incentrato sul terziario avanzato, invitando i privati ad investire nella città, con la falsa idea che offrendo loro lo spazio necessario, con il denaro fresco, la città si sarebbe arricchita». In realtà si è svenduto il territorio e a beneficiarne soni stati i soliti noti, anche se con un avvicendamento. «Si è creato un oligopolio, sovvertendo i tradizionali luoghi di potere, per cui all'Etra costruzioni, sono subentrati soggetti come la società che ha spianato la palazzina Ex Enel, o la Immobiliare Roma che è imparentata proprio con la famiglia Rodano, quella del sindaco». Insomma una città vetrina, dove ormai non si trova più un centimetro di proprietà pubblica, con un centro storico il cui piano di ristrutturazione, proposto da un nome autorevole come quello di Cervellati, sta portando all'espulsione dei vecchi inquilini. A tutto questo il Mezza Canaja si è opposto, con un lavoro capillare su vari fronti. In primis proprio sul tema della casa. «Sono state occupate delle abitazioni sfitte di proprietà della Curia. Inoltre abbiamo lavorato nei quartieri più a rischio di sfratti ottenendo per una decina di famiglie il blocco. Tra l'altro in realtà eterogenee, con la presenza di nazionalità diverse, abbiamo riscontrato una solidarietà inimmaginabile».
Le iniziative sociali
Altro fronte caldo quello della cosiddetta Complanare, una mega arteria che dovrà attraversare la città, contro la quale è attivo un comitato cittadino, il quale ha preso spunto dalla questione per promuovere iniziative cittadine sul tema del consumo del territorio, alle quali ha invitato municipi virtuosi e urbanisti di fama nazionale. Anche in questo caso al loro fianco ci sono stati i giovani del centro sociale insieme a Rifondazione uscita dalla giunta Angeloni proprio contro le politiche urbanistiche.
E veniamo alla questione degli immigrati e della sicurezza. «Il toro è stato preso per le corna. Infatti abbiamo fatto un lavoro specifico nei quartieri più a rischio, contestando l'introduzione delle telecamere e nello stesso tempo favorendo la regolarizzazione degli immigrati, cercando di favorire il loro inserimento nel mercato del lavoro, e sottraendo parecchi di loro allo spaccio. Inoltre di fronte a casi di soprusi e pestaggi da parte dei carabinieri, siamo arrivati a manifestare davanti alla caserma con forza fino ad ottenere il rilascio di chi era stato fermato senza valide motivazioni. Infine abbiamo promosso feste ed iniziative socializzanti nelle zone più degradate per far sì che le gente si riappropriasse dei luoghi dove vive».
La Lega arretra
E la Lega, in notevole crescita nelle Marche? Se alle europee a Senigallia aveva avuto più del 5%, risultato confermato alle recenti regionali (5,7), alle comunali di quindici giorni fa che dopo al regno della Angeloni hanno visto subentrare il suo delfino Mangialardi, senza bisogno del ballottaggio, i leghisti sono arretrati di circa due punti. C'è da dire che il voto di protesta gli è stato sottratto dal candidato di Rifondazione Roberto Mancini che, appoggiato da una lista civica e sorprendentemente dai rutelliani dell'Api, ha ottenuto un importante 12%, un riconoscimento sia al lavoro svolto dopo la rottura con il Pd che alla persona conosciuta e stimata da molti. Il partito di Bossi ha comunque eletto un consigliere comunale e la differenza con il risultato delle concomitanti regionali, per alcuni, è dato anche dalla pochezza di chi si è presentato.
Ma in questo ultimo anno la Lega a Senigallia ha avuto comunque vita dura. «Abbiamo sottratto loro il terreno iniziando dai simboli. Appena hanno iniziato a fare riferimento alle tradizioni, "a Sena Gallica", alle nostre iniziative ci siamo presentati, oltre che con le nostre bandiere, anche con i colori della città, il rossoblu, il simbolo del comune, ecc. Inoltre ogni volta che hanno cercato di ritagliarsi uno spazio con banchetti al centro, siamo interventi circondandoli con i nostri striscioni, con volantini che denunciavano le loro politiche xenofobe, con la parola d'ordine "oscuriamo le parole e i volti dei razzisti". Nulla di violento ma praticamente nessuno li vedeva. Fino ad arrivare alla contestazione di un loro raduno regionale difeso con cariche della polizia. Dovevano essere centinaia. Erano una trentina, chi li contestava duecento».
Insomma dalla città vetrina che ha conquistato attenzione dai mass media nazionali per il "Kater Raduno" e il Summer Jamborie (revival anni cinquanta), dove si sta svendendo il suolo pubblico a favore delle voraci società immobiliari, i giovani di un centro sociale, insieme ad altri soggetti civici e singole persone, cercano di affermare un punto di vista diverso, lavorando capillarmente nel territorio. Un esempio per la regione, e non sol

Geraldina Colotti
Va in prigione l'ultimo dittatore

Il tribunale di San Martin (non lontano dalla capitale Buenos Aires) lo ha ritenuto responsabile della morte di 56 oppositori politici, detenuti e uccisi nella base militare Campo de Mayo, di cui è stato comandante in seconda tra il '78 e il 79. In quel centro di tortura segreto, situato nella parte ovest di Buenos Aires (il più importante nell'ultimo periodo della dittatura), furono incarcerati circa 4.000 oppositori, quasi tutti desaparecidos . In seguito, Bignone (82 anni), fu l'ultimo dittatore che governò il paese, tra l'82 e l'83, fino al passaggio di consegne a Raul Alfonsin (il 10 dicembre '83) e al ripristino della democrazia. Ottenne la presidenza all'indomani della disfatta delle Malvine. Allora, il regime tentò di stornare il malcontento popolare invadendo le isole britanniche, sperando così di ricostruire un consenso fidando sul sentimento nazionale. Dopo tre mesi di guerra, però, Londra riprese il controllo dell'arcipelago e la sconfitta militare accelerò la fine della dittatura.
Nell'84, la Commissione nazionale sui desaparecidos pubblicò un primo rapporto sulle violazioni dei diritti umani durante il regime militare, intitolato Nunca mas (Mai più) e a una prima valutazione le persone scomparse risultarono circa 9.000. Un numero che le ricerche negli anni seguenti portarono a circa 30.000. Il rapporto, diventato un libro, è risultato poi l'opera più venduta in Argentina nei successivi dieci anni. Nell'85, nel primo processo alle giunte vennero comminati numerosi ergastoli, ma due leggi promulgate da Alfonsin - la legge Punto final e Obediencia Debida - misero allora fine alla resa dei conti. Con la prima, venne anticipata la prescrizione dei reati ai militari in attesa di giudizio, con la seconda vennero discolpati quelli accusati di atrocità per ordine degli alti comandi. Nel '90 sarà il presidente Carlos Menem a liberare i capi militari detenuti con un provvedimento di clemenza generale, in nome della riconciliazione nazionale. Solo nel 2003, con l'abolizione della legge di amnistia da parte del Congresso, riprenderanno i processi ai responsabili della «guerra sporca» come Bignone: un torturatore passato in secondo piano, dato il suo ruolo di governo in un periodo in cui la dittatura militare - ormai ingestibile anche per i suoi sostenitori dell'epoca, in primo piano gli Usa - aveva dovuto allentare parzialmente la tenaglia.
Insieme a Bignone, il tribunale di San Martin, non lontano dalla capitale Buenos Aires, ha condannato per gli stessi reati anche gli ex generali Santiago Omar Riveros, 83 anni, e Fernando Verplaetsen, 84 anni. Tutti hanno dichiarato di aver dovuto combattere, negli anni '70, una «guerra interna contro il terrorismo», eseguendo anche «ordini discutibili» emanati dai loro superiori. Una «guerra sporca» appresa alla Scuola delle Americhe, luogo di addestramento a guida Cia, che formò i più feroci dittatori dell'America latina. In un documentario uscito in Francia - Escadrons de la mort, l'ecole francaise (Squadroni della morte, la scuola francese)-, Bignone aveva anche spiegato come gli alti ufficiali argentini avessero imparato a combattere «la sovversione» dai loro omologhi francesi, che avevano applicato quei metodi contro la resistenza in Algeria. Argomenti che Bignone ha ribadito in un documento letto in tribunale, mentre nell'aula il folto pubblico ironizzava o ricordava gli orrori perpetrati dai militari, che usavano anche rapire i figli degli oppositori uccisi e darli in «adozione».
Soddisfazione per il verdetto è stata espressa dai familiari delle vittime. «La giustizia a volte tarda ad arrivare, ma è comunque arrivata e questo è l'importante», ha commentato Estela de Carlotto, la presidente dell'associazione Madri di Plaza de Mayo. Per il ministro della Giustizia argentino, Julio Alak, la sentenza è «un atto di giustizia esemplare perché riguarda uno dei più sanguinari rappresentanti del genocidio nazionale commesso tra gli anni 1976 e 1983». Bignone e i suoi complici dovranno scontare la pena in un carcere per detenuti comuni.

 

Il secco "no" di Israele agli USA

Il premier Benjamin Netanyahu ha ribadito che Israele andrà avanti con la costruzione degli insediamenti a Gerusalemme Est.

Il grande freddo sceso un mese fa tra Stati Uniti e Israele all'indomani della visita del premier Benjamin Netanyahu a Washington, nell'ultime ore si è trasformato in vero e proprio gelo diplomatico. Il governo di Gerusalemme ha infatti confermato la decisione di non fermare gli insediamenti illegali nella parte Est della città santa. "È semplicemente impossibile e inaccettabile che qualcuno cerchi di spingerci a limitare la costruzione a Gerusalemme" ha sostenuto subito dopo la notizia il ministro israeliano Benny Begin.

Malcontento Usa. Questa volta, a differenza delle precedenti amministrazioni, gli Stati Uniti, dopo l'insediamento di Barack Obama alla Casa Bianca si sono dimostrati molto più inflessibili sulla questione rispetto al passato. Con i falchi repubblicani al governo, Israele era riuscita più di una volta a predicare pace e seminare terrore. Una tattica resa possibile dall'indifferenza del ticket Bush nei confronti del conflitto israelo-palestinese e dall'impegno del governo a stelle e strisce nella lotta al terrorismo internazionale prima in Iraq e poi in Afghanistan. Due anni fa, con l'insediamento di Obama, le cose sono cambiate per arrivare nel tempo a deteriorarsi profondamente. L'imprudenza di Netanyahu si era manifestata già lo scorso 8 marzo, durante la visita ufficiale del vicepresidente Usa John Biden in Israele. In quell'occasione il numero uno del Likud sfruttò l'onda mediatica dell'arrivo di Biden per annunciare la costruzione di 1600 nuovi insediamenti a Ramat Shlomo e prendere in contropiede oltre all'ignaro numero due dei democratici anche lo stesso Obama. Due settimane dopo quel proclama fu la volta del cambio di fronte e, insieme a un'esigua delegazione nazionale, Netanyahu atterrò nella capitale statunitense per incontrare l'uomo del "Change". Quest'ultimo fece capire fin dall'inizio l'aria che tirava fra le mura del Campidoglio con una serie di gesti che lasciarono pochi dubbi ai cronisti di tutto il mondo. Nessuna foto per la stampa, nessuna riunione a porte chiuse e, narrarono testimoni, una improvvisa interruzione dei colloqui da parte dello stesso Obama che lasciò la controparte israeliana insieme ai membri del suo staff nella sala Roosvelt.

Situazione da recuperare. Nonostante qualche frase di circostanza Netanyahu lasciò gli Stati Uniti con una spada di Damocle sulla testa: l'out out di Obama sullo sviluppo di abitazioni a Gerusalemme Est. Dopo il rinvio, imposto da Washington, del viaggio dell'inviato speciale in Medio Oriente, George Mitchell il silenzio politico è stato interrotto, una settimana fa, solo dalle urla della profughi che per le strade del campo di Shuafat, a Isawie, hanno dato vita a un'estemporanea intifada contro tremila uomini delle forze di sicurezza israeliana. Poi la calma, apparente, è scesa sulla capitale e sull'intera vicenda. Oggi Netanyahu si è dimostrato più cauto se non nella sostanza quanto meno nella forma annunciando il proprio "no" all'ultima richiesta Usa, prima della nuova visita di Mitchell in Israele, prevista per il prossimo week-end. Intanto mentre gli Stati Uniti si stanno lentamente defilando da una partita nella quale - ha detto Obama - "non si può forzare Israeliani e Palestinesi se non sono interessati al compromesso pacifico", dalla parte palestinese della barricata c'è ancora chi spera, come il negoziatore Saeb Erekat che gli Usa "siano capaci di convincere il governo d'Israele a dare un'occasione alla pace fermando la costruzione degli insediamenti a Gerusalemme Est e nel resto della regione".

Netanyahu, però, continua a fare orecchie da mercante non solo nei confronti di un alleato chiave ma anche, e soprattutto, del 60 percento dei propri cittadini che, secondo un'indagine dell'Università di Gerusalemme, vorrebbe la fine delle operazioni edilizie e il rispetto degli accordi di pace.

Antonio Marafioti

 

Mosca, processo ai neonazisti

Alla sbarra la più grande organizzazione dell'ultradestra xenofoba russa: Slavianskiy Soyuz

Comincia oggi a Mosca il processo contro la più importante organizzazione ultranazionalista russa: Slavianskiy Soyuz(Unione slava). Il gruppo di estrema destra, il cui ideologo è Dmitry Demushkin, è accusato di estremismo e istigazione all'odio. La corte dovrà decidere se Slavianskiy Soyuz ha il diritto di esistere e di propagandare la propria ideologia attraverso marce e comunicati sul suo sito web (www.demushkin.com). Il processo si terrà a porte chiuse.

Dieci giorni fa il giudice Eduart Chuvasov, noto per aver presieduto la corte federale in una serie di processi per omicidi di alto profilo imputati a skinhead, è stato ucciso a sangue freddo nella sua abitazione. La sua morte è solo l'ultima, in un'ondata di violenza ultranazionalista e neo-nazista che negli ultimi anni è cresciuta esponenzialmente a Mosca e in tutta la Russia. Secondo il gruppo di monitoraggio antirazzista 'Sova', nel 2009 71 persone sono state uccise e 300 ferite nei cosiddetti 'reati d'odio'.

L'espansione del nazionalismo russo ha trovato numerosi sostenitori anche in rappresentanti politici dei diversi schieramenti, mentre il governo ha spesso chiuso un occhio sugli omicidi, le minacce e le attività di queste organizzazioni. In molti, infatti, hanno denunciato i tentativi - talvolta riusciti - delle autorità russe di utilizzare tali movimenti per condurre le loro battaglie contro le opposizioni democratiche che operano al di fuori del sistema politico russo.

Chuvasov partecipò al caso del processo contro il razzista Artur Ryno, condannato a dieci anni di lavori forzati per l'omicidio di 19 persone. Uno dei commenti più pertinenti seguiti all'uccisione del giudice fu proprio quello del leader di Slavianskiy Soyuz, Dmitry Demushkin: "Una nuova generazione sta rimpiazzando le grandi organizzazioni di nazionalisti, una generazione di gruppi disparati di giovani autonomi che commettono i crimini più seri e violenti". Lamentando la richiesta di messa al bando della sua organizzazione da parte delle autorità russe, Demushkin ha prefigurato una minaccia diretta al governo: "L'ondata di attacchi di gruppi nazionalisti fuorilegge si intensificherà. Molti giovani senza alternative cominceranno a diventare più aggressivi".

Per lungo tempo il governo russo non ha considerato le forze ultranazionaliste come una minaccia al suo potere o alla stabilità del Paese, ma come strumento per rilanciare la retorica della madrepatria. Solo di recente, il Cremlino ha gradualmente iniziato a comprendere il pericolo di tali gruppi. Il processo contro Slaviansky Soyuz, e il capo d'accusa di 'odio a sfondo razziale' anziché il più generico 'teppismo' del passato, rappresentano un passo storico verso il riconoscimento del potenziale eversivo dei gruppi neonazisti, inclini sempre più a strutturarsi come una vera e propria organizzazione criminale sganciata da ogni controllo.

Luca Galassi

 

19 aprile

Niente business sulla sete, l'acqua dev'essere pubblica

di Luigi De Magistris

In Italia sta crescendo il dibattito relativo al referendum sull'acqua. Questo è un bene. È questo il momento della chiarezza, in modo tale che i cittadini siano informati con correttezza.
Le opzioni sono sostanzialmente tre.

La prima: la privatizzazione dell'acqua. In tal modo le multinazionali internazionali attraverso il controllo della sete possono monetizzare anche i bisogni primordiali dell'essere umano. Il profitto selvaggio contro la vita. È una della cause della migrazione, della categoria degli immigrati clandestini, delle non-persone considerate dal governo rifiuti della società consumistica. Deflagra una delle contraddizioni del populismo neo-fascista della Lega. Sponsorizzano la privatizzazione dell'acqua che, nel globo, è uno dei motivi delle migrazioni dei popoli. Immigrati che poi la Lega utilizza per sfondare con la sua propaganda razzista e xenofoba che tanto piace a quella parte del paese privo ormai anche della pietas.

La seconda: l'acqua gestita dalla società miste pubblico-private. Proposta che piace a una parte importante del centro-sinistra. Soluzione ambigua che non garantisce trasparenza. Le società miste pubblico-private - strumento giuridicamente lecito che non va criminalizzato - sono divenute in molti casi il principale strumento per realizzare affari attraverso controllo e drenaggio di denaro pubblico. Il luogo in cui si incontrano la lottizzazione partitocratica, i prenditori di soldi pubblici, la solita cricca di professionisti che usa andare a braccetto con la politica, la borghesia mafiosa.

La terza: l'acqua è un bene pubblico. Il primo, insieme all'aria. Un bene indisponibile, di tutti; un bene comune. L'accesso all'acqua dovrebbe essere gratuito. Acqua e proprietà privata non dovrebbero avere relazioni. Acqua e profitto, termini antitetici. L'acqua è natura, è di tutti, è un patrimonio dell'umanità; è del popolo, non è di sinistra, né di destra. È comunista, nel senso di uguale per tutti.

Tre ipotesi, tre opzioni. Non è però il momento del gioco delle tre carte. Si deve essere chiari e trasparenti, così come dovrebbe essere l'acqua che sgorga dai rubinetti. E dobbiamo essere uniti.

Il merito della lotta per l'acqua pubblica è in primo luogo del Forum delle associazioni per l'acqua, delle donne e degli uomini, di cattolici e laici, che da anni si battono per questo bene. Lotta concreta e, perché no, anche ideologica, nel senso puro del termine.

Il merito è anche di quelle formazioni politiche, di quei politici e personaggi pubblici che da anni conducono identica lotta. Nel centro-sinistra vi è un dibattito acceso che ruota soprattutto sulle due ultime opzioni. La mia impressione è che il popolo dell'alternativa al sistema vuole l'acqua pubblica. È questo il messaggio che sta passando nel Paese.

Il tema è questo: l'acqua è pubblica, oppure è un business? A questa domanda la risposta non può che essere unica: l'acqua è un bene pubblico, il capitale non può ridurre alla sete gli individui. La persona viene prima del profitto, il diritto prima degli affari, la trasparenza al posto del crimine: le prime due opzioni, infatti, diventano occasioni ghiotte per il godimento affaristico del partito unico trasversale della spesa pubblica fortemente inquinato dalla criminalità organizzata.

 

La crisi travolge la coop Basaglia

Andrea Luccehtta

A due mesi dalle celebrazioni per il trentennale della «Legge Basaglia», la cooperativa fondata dal più importante riformatore della psichiatria italiana è stata costretta a entrare in cassa integrazione. Un duro colpo per i suoi 220 dipendenti, il 43 per cento dei quali proveniente dall'area del disagio psichico. Il centro della vicenda non può che essere Trieste, capitale dell'azione basagliana oggi afflitta dall'onda lunga della crisi e gravata da un sistema degli appalti quantomeno discutibile, capace di fomentare una guerra di prezzi fra le cooperative sociali.
Adriano Sincovich, della Funzione Pubblica Cgil, sottolinea la particolarità del capoluogo giuliano. «Due terzi dell'economia cittadina si regge sul settore dei servizi, perciò siamo entrati più tardi nel vivo della crisi. Adesso, però, paghiamo un conto persino più salato che altrove: basti pensare che gli avviamenti lavorativi a tempo indeterminato sono crollati quasi del 70 per cento».
Roberto Colapietro è il presidente della Cooperativa Basaglia. Il suo sportello costituisce un osservatorio privilegiato per comprendere la gravità del momento. «Ogni settimana, si presenta da noi una cinquantina di persone in cerca di lavoro, e spesso si tratta di laureati». Difficile credere che in altri momenti avrebbero fatto la fila per una cooperativa che vive di pulizie, ristorazione, manutenzioni edili, trasporti e logistica. Un caso meglio di altri si presta a descrivere la situazione: «Poche settimane fa, si è presentata una donna che era stata assunta con un contratto a progetto per lavare scale. Un contratto a progetto: ma ci rendiamo conto? La volontà, evidentemente, è quella di esasperare la flessibilità dei rapporti di lavoro. Noi non abbiamo potuto assumerla, e adesso lavora in nero».
Un caso tutt'altro che eccezionale, frutto della guerra fra poveri che sta opponendo le cooperative sociali del capoluogo giuliano. «Noi siamo dovuti ricorrere alla Cig per una ragione ben precisa - sottolinea Colapietro - Abbiamo perso degli appalti in cui, semplicemente, non potevamo competere. In un caso, il nostro concorrente ha presentato un'offerta inferiore del 30-35 per cento. Un prezzo del genere si spiega in due modi: o non riusciranno a garantire il servizio promesso, oppure non vedo proprio come potranno rispettare i diritti dei lavoratori. Inutile sottolineare che sarebbe necessario stringere la rete dei controlli, per garantire una concorrenza corretta e sostenibile».
Il problema, insomma, è costituito dallo stesso sistema degli appalti, capace di esasperare la competizione fra cooperative che, per loro natura, svolgono un ruolo sociale di primaria importanza. «È un meccanismo che incentiva la flessibilità, estraneo a qualsiasi logica di sviluppo del territorio. Se l'amministrazione pubblica persegue il solo obiettivo di ridurre i costi, attua una politica miope. Cooperative come la nostra generano reddito per delle persone che, altrimenti, graverebbero in maniera ben più consistente sulle finanze pubbliche». Difficile allontanare il sospetto, poi, che la nuova fase politica sia estranea alle difficoltà di soggetti tradizionalmente vicini ad altre aree politiche. In Friuli Venezia Giulia il vento è cambiato, e pure più pesantemente che altrove. Basta pensare a Franco Rotelli, basagliano di ferro ed ex dirigente dell'Azienda Sanitaria, rimpiazzato nonostante la Regione avesse certificato il raggiungimento del 100% degli obiettivi fissati dalla stessa Giunta Tondo.
Colapietro, da parte sua, assicura che sarà fatto il possibile per evitare che i lavoratori «in disagio» siano coinvolti dalla sospensione del lavoro. Se questo non avvenisse, però, le conseguenze rischierebbero di diventare drammatiche. Mario Reali, psichiatra dell'equipe Basaglia, mette in guardia dai pericoli di una simile eventualità: «Il lavoro rappresenta lo strumento principe per il reinserimento e la guarigione dei soggetti più deboli. Se la crisi finisse per colpire anche loro, l'intero percorso terapeutico risulterebbe in pericolo».

 

'Un'impresa criminale diretta da Uribe'

Q
uesto il commento del presidente della Corte suprema colombiana sul caso delle intercettazioni e dei pedinamenti che Uribe avrebbe ordinato agli 007 contro magistrati, giornalisti e difensori dei diritti umani scomodi e da eliminare

"Un'impresa criminale diretta dalla Casa del Nariño". "Sinistro". "Assolutamente allarmante". E sono solo alcuni dei commenti rilasciati dai vari magistrati, incluso il presidente della Corte Suprema di Giustizia - massimo tribunale di giustizia ordinaria colombiano - dopo aver esaminato le prove presentate dalla procura sulle intercettazione illegali e i pedinamenti fatti dai servizi segreti (Dipartimento amministrativo di sicurezza, Das), sotto diretto controllo del presidente della repubblica Álvaro Uribe. Vittime: i magistrati, e non solo.

A chiudere le indagini iniziate ormai da tempo, l'arresto avvenuto la settimana scorsa di cinque alti funzionari, fra i quali il capo dell'Intelligence e quello del Controspionaggio. Le prove sembrano schiaccianti: negli ultimi anni, e in particolare nei periodi elettorali e quando i tribunali dovevano decidere sulla costituzionalità di un eventuale terzo mandato di Uribe, ogni sessione plenaria dei magistrati era puntualmente registrata da una spia, che trascriveva in maniera criptata le parti che riguardavano direttamente il presidente. Che pretendeva che gli 007 controllasero i giudici anche a casa, con il medesimo criterio: ogni volta si parlava di lui, le conversazioni dovevano essere trascritte e consegnate.

E nel mirino non c'erano solo i giudici: più di 200 politici, giornalisti e difensori dei diritti umani venivano ascoltati e registrati, controllati passo passo. "Non c'è dubbio che il responsabile politico di questi crimini, di queste violazioni dei diritti fondamentali sia Álvaro Uribe", si è precipitato a precisare Gustavo Petro, candidato presidenziale per il Polo Democratico, fra le principali vittime delle intercettazioni illegali assieme a ogni singolo candidato alle elezioni di maggio.

Ma i preferiti di Uribe restavano comunque i giudici. Fra questi, in particolare, colui che si è specializzato nel perseguire i paramilitari, César Valencia Copete, che aveva più volte denunciato le pressioni telefoniche ricevute dal presidente, circa le indagini contro suo cugino, l'ex parlamentare e proprietario terriero Mario Uribe, oggi in carcere.
Ma il braccio della piovra non si limitava alla Colombia. Secondo la documentazione raccolta dal procuratore incaricato di indagare sulla grave vicenda, il Das agiva anche in Europa. Tramite il responsabile delle operazioni estere Germán Villalba, gli 007 colombiani manipolavano conversazioni e mail di difensori di diritti umani e Ong, in modo da simulare una presunta collusione con i gruppi guerriglieri e screditarli.

"Quello che ha scoperto la fiscalia è molto più grave del Watergate, lo scandalo di spionaggio contro l'opposizione che nel 1974 costò la poltrona al presidente Usa Richard Nixon", ha commentato a El Tiempo il presidente della Corte Suprema, Jaime Arrubla.
Alcuni dei capi dei servizi segreti oggi in carcere hanno riferito di riunioni con le più alte cariche della presidenza. In una di queste, l'allora direttrice del Das, Maria Pilar Hurtado, chiese con urgenza la trascrizione di un Cd con la registrazione di una sessione della Corte Suprema per consegnarla direttamente a Uribe. Che smentisce senza cenni di imbarazzo. "La mia amministrazione non ha mai ordinato queste intercettazioni", tuona. Un caso, quello delle intercettazioni volute da Uribe, scoppiato nel febbraio 2009, ma mai ammesso da Uribe. Che punta il dito contro presunti funzionari deviati, specificando di essere stato egli stesso oggetto di intercettazioni illegali.

"Questo Governo non ordina nulla di illegale... mai è passato per la mente di questo Governo di suggerire al Das di fare intercettazioni o di violare la legge. In nessun modo", ha dichiarato il presidente uscente durante un'intervista a Radio Santa Fe. Quindi precisa di non capire perché questo caso vecchio di un anno venga rispolverato proprio adesso, insinuando però il perfetto tempismo con la campagna elettorale: "Non so, guarda un po' come coincide con il processo elettorale", ha dichiarato.
Intanto, la Fiscalía General ha messo dentro una decina di ex 007, ne ha iscritti molti altri nel registro degli indagati e ha sequestrato montagne di documenti trovati negli uffici del Das. Alcuni di questi sono stati visionati dall'agenzia giornalistica Associated Press che riferisce come si tratti di fascicoli approfonditi e molto personali. Ci sono foto di attivisti, dei loro figli piccoli, curricula, descrizioni di attività quotidiane, e perfino dei profili psicologici e dettagli sulla vita amorosa. Come se non bastasse, sono stati persino trovati estratti conto bancari di alcuni magistrati.

Stella Spinelli

 

14 aprile

E al terzo giorno Frattini si riscoprì ministro degli Esteri

Dopo le sparate: «Non li abbandoneremo». Ma poi: «Non è un sequestro»

Al terzo giorno, il ministro degli Esteri italiano Franco Frattini scoprì la presunzione d'innocenza e anche il diritto di cittadini italiani tratti in cattività all'estero,peraltro nel «servire chi soffre», a usufruire dell'assistenza della Repubblica. Ha mostrato d'aver effettuato la scoperta ieri sera, Frattini, su Facebook. Sotto l'assedio d'una indignazione che per sabato prepara una manifestazione di massa a fianco di Emergency sabato a Roma in piazza Navona e in poche ore ha raccolto oltre 100mila firme sotto l'appello «Io sto con Emergency» lanciato dalla Ong - non risconosciuta dal governo italiano, in Afghanistan, come proprio Frattini s'era affrettato a dire sabato, subito dopo il raid militare nell'ospedale di Lashkar Gah. E, soprattutto, al suono delle smentite su ciò in cui il ministro stesso s'era avventurato: ossia la «notizia» della «confessione» da parte dei tre italiani arrestati. Notizia smentita dal suo presunto diffusore, il portavoce governativo della provincia di Helmand, Daud Ahmadi, per quanto l'inviato del Times autore del relativo articolo dell'altro ieri continui ad attribuirgli quell'esternazione e anche l'accusa agli italiani di «coinvolgimento terroristico con Al Qaeda». Frattini ha dovuto argomentare dopo la smentita del portavoce che quella del Times era stata «una lezione di disinformazione offerta a tutto il mondo». Ha dovuto: perché domenica aveva avuto modo di dichiarare «prego che non sia vero» ad una notizia data da una testata giornalistica e che ha atteso poi la smentita, diffusa da altre fonti giornalistiche. Un ministro attento alla pubblica opinione, insomma: resta oscuro come mai il titolare della politica estera d'un Paese sin troppo esposto per contributo d'uomini mezzi e soldi e per responsabilità sul campo com'è l'Italia nella missione Nato denominata Isaf in Afghanistan, il ministro degli Esteri d'un Paese che per di più ha ospitato conferenze internazionali sulla "ricostruzione" e il "processo democratico" che dichiara di sostenere a Kabul, non abbia altre fonti che i giornali e le agenzie, quando colà tre connazionali, cooperanti e uomini di medicina, vengono fermati e poi trattenuti con accuse gravissime. A maggior ragione non si comprende il silenzio di Frattini, così come del suo collega alla Difesa, il normalmente loquace Ignazio La Russa, su un piccolo particolare di qualche rilevanza quanto alla posizione ufficiale italiana nella vicenda: ossia sulla partecipazione diretta di unità della stessa Isaf all'operazione nell'ospedale di Emergency a Lashkar Gah. Partecipazione subito segnalata sabato dalla Ong ma smentita immediatamente dopo dai comandi della missione Nato e quindi dal lato italiano, come un sol uomo, proprio da Frattini e La Russa. Peccato che da oltre 24 tutto il mondo abbia a disposizione un video che mostra reparti britannici, compresi sottufficiali e ufficiali, con i distintivi dell'Isaf all'opera precisamente durante la perquisizione nell'ospedale di Emergency, quando vi sono stati fermati i nove componenti dello staff compresi i tre italiani tra i quali il cofondatore dell'Ong e coordinatore medico del progetto in Afghanistan, il dottor Marco Garatti. Peccato anche che il video sia dell'autorevolissima Associated Press: un dato cui ministri così attenti ai media avrebbero dovuto essere sensibili. Ma invece, proprio su questo punto, il silenzio delle autorità governative italiane è totale. E dovrebbe essere un punto ben rilevante, al contrario, tanto per Frattini che ha sempre difeso le scelte di continuità nel contributo all'operazione di pace» in Afghanistan, quanto per La Russa che dell'aumento delle unità militari italiane impegnate sul campo, della revisione delle regole d'ingaggio e dell'invio di cacciabombardieri Tornado fra le dotazioni dell'Isaf ha fatto una sua bandiera, anche mediatica, per tutto l'anno trascorso. Eppure il ministro della Difesa ha preferito parlare solo per congetturare, ieri su La Stampa, su quanto «più cauto» dovrebbe essere Gino Strada e quanto anzi avrebbe dovuto già «prendere le distanze dai suoi collaboratori», alla luce (?) degli insegnamenti che secondo lui dovrebbero offrire i precedenti (??) del Pci con le Br e del Msi coi Nar. In quell'intervista concessa domenica, per non parlare del silenzio di tomba esibito nel corso della giornata di ieri, non una parola sulle evidenze della partecipazione al blitz a Lashkar Gah di quegli uomini della missione Isaf, cui l'Italia partecipa. Frattini, poi, ha trovato modo di tornare alla polemica con Strada ed Emergency subito dopo la sua esternazione "responsabile" su Facebook: ergendosi contro l'accusa di «sequestro» dei tre italiani, elevata da Emergency visto lo scadere delle 72 ore di fermo e l'assenza di autorizzazioni comunicate della magistratura afgana, con l'argomento che «se cominciamo a parlare di sequestro trasformiamo in una vicenda politica quella che è una investigazione alle prime battute, che vogliamo seguire garantendo i pieni diritti ai nostri connazionali». Garantirli, accettando l'assenza di garanzie?

Anubi D'Avossa Lussurgiu

 

13 aprile

 

Da Prandini a Bertolaso, vent'anni di opere

di Anna Donati

La deroga diventa la regola, gli appalti finiscono in tangenti, le grandi opere affondano nella corruzione. Cos'è successo dalla prima alla seconda Repubblica? Come e perché siamo tornati al punto di partenza? Diagnosi di un male che può curare con buone regole, ma anche buone opere

Le dilaganti inchieste sulle opere ed eventi della Protezione civile e sulla corruzione ripropongono il tema delle attuali regole che governano il settore degli appalti e lapplicazione poi concreta che ne deriva. Dal nord al sud, opere grandi e piccole, varianti urbanistiche e concessioni, piscine e forniture nella sanità, servizi di catering, consulenze, progetti, collaudi ed arbitrati: ogni intervento, secondo quanto è emerso, si presta a manipolazioni e pressioni indebite. Sono almeno quattro i fattori essenziali da affrontare per contrastare il fenomeno: un sistema di regole attualmente non capace di controllare a monte in modo efficace le procedure; la totale perdita di etica e senso dello Stato da parte di numerosi funzionari pubblici; la disattenzione dellopinione pubblica e dellinformazione in nome del fare presto; il rapporto deformato e sovrapposto tra imprenditori e politica, con il reciproco sostegno economico ed elettorale.
Sarebbe un errore fare una critica indistinta, mentre serve ricostruire levoluzione del quadro di regole che ha sistematicamente ridimensionato procedure più rigorose, in nome della politica del fare presto che ha imposto il governo Berlusconi ma che ha influenzato anche il centrosinistra in molte occasioni.
Anche ai tempi dellinchiesta Tangentopoli nel 1992 emerse chiaramente che gli eventi speciali e le ordinanze della protezione civile per giustificare interventi urgenti ed affidati a trattativa privata, erano stati uno dei volani formidabili di corruzione. Basti pensare agli interventi per il terremoto dellIrpinia, agli interventi per il disastro in Valtellina, ai Mondiali del 1990, alle Colombiadi del 1992, i piani di ricostruzione eterni di Longarini - dove migliaia di miliardi di vecchie lire non si trasformarono in interventi bensì in tangenti, come ha accertato la magistratura.
Negli stessi giorni della grande inchiesta sulla Protezione civile, sui giornali è apparsa con minor rilievo la notizia che la Corte dei Conti ha condannato definitivamente Gianni Prandini, potente ministro democristiano ai Lavori pubblici tra il 1989 ed 1992, ad un risarcimento allo Stato di 5 milioni per danno erariale. Colpa di ben 449 appalti affidati dal ministro a trattativa privata e che hanno causato un maggior esborso per lo Stato di 320 milioni di lire. Come dire che siamo ritornati alla stessa storia di 20 anni fa ...
Dopo il ciclone che travolse nel 1992 la prima repubblica su appalti e tangenti, il parlamento approvò nel 1994 la nuova legge in materia di appalti pubblici, su proposta del ministro Merloni. Conteneva regole molto stringenti sui limiti della trattativa privata e sulle ordinanze del protezione civile, sulle varianti in corso dopera e sui lavori complementari, separava progettazione ed esecuzione delle opere (altrimenti i progetti lievitano nellinteresse del costruttore), sostituiva il vecchio Albo dei Costruttori con la Soa - un sistema di certificazione controllato delle imprese di costruzione -, istituiva lAutorità di Vigilanza sui lavori pubblici. Si fece la riforma dellAnas, eliminando lo stretto cordone ombelicale con il ministro e si misero in campo le delibere per adottare la riforma delle concessioni autostradali. Non si riuscì invece a semplificare il numero delle stazioni appaltanti in un numero stringato e controllabile, lasciando lattuale "babele".
Uno dei primi atti che assunse il governo Berlusconi al suo primo debutto nel 1994 fu di sospendere gli effetti della legge Merloni. Si dovettero aspettare diversi anni e il governo Prodi perché tornasse - se pur rivista in diverse parti - la nuova norma in materia di appalti e concessioni. E' in questo clima che si svolsero i lavori per le Olimpiadi invernali di Torino ed i lavori del Giubileo a Roma, eventi speciali ma che comunque sono stati realizzati con regole e vigilanza pubblica.
Lentamente cominciò lattuazione della legge Merloni: anche se a più riprese, emendamenti mirati riuscirono a strapparle dei pezzi, invocando leliminazione dei lacci e lacciuoli che impedivano la realizzazione delle opere ed allungavano i tempi: un ritornello che ci ha inondato per anni e da cui certo non si è sottratto, tranne le solite lodevoli eccezioni, il sistema dellinformazione.
Nel 2001 la legge Merloni, con il secondo governo Berlusconi, subì un affondo frontale: con la "legge obiettivo" è tornato lappalto integrato di progettazione ed esecuzione, si è semplificata la valutazione ambientale ed i progetti sono tornati ad essere di pessima qualità. Si è tentato anche di sopprimere lAutorità di vigilanza sui lavori pubblici: tentativo fallito, ma l'Autorità non ha mai avuto le migliori condizioni per svolgere il proprio lavoro in termini di risorse e di poteri efficaci. Nel settembre 2001 un decreto legge ha ricondotto la Protezione civile sotto la Presidenza del consiglio, e nella conversione parlamentare ha poi allargato, su prposta del governo, la sua competenza della Protezione civile ai grandi eventi. Inutile ricordare che il piccolo drappello di Verdi allora presente in parlamento ben si accorse dellimpatto della norma e, benché intervenne con ostinazione per segnalare la gravità della cosa, rimase naturalmente abbastanza inascoltato, anche a sinistra.
Il risultato di che cosa significhi definire qualsiasi cosa un grande evento ed evitare in questo modo di affidare appalti e servizi con gara di evidenza pubblica, lo abbiamo visto tutti.
Infine nel 2006, a pochi giorni dalla nuova tornata elettorale, il governo Berlusconi ha emanato il nuovo codice appalti elaborato da Pasquale De Lise, presidente del Tar del Lazio, che partendo dal necessario recepimento di due direttive europee, riassume in un codice unico degli appalti, in cui si allentano ulteriormente alcune misure, tutte le norme del settore. Se da un lato è vero che le norme europee dovendo tener conto di regimi giuridici e sistemi imprenditoriali diversi, hanno maglie molto larghe e contengono anche forti innovazioni, è pur vero che esse sono state sempre utilizzate per allentare ulteriormente il sistema di regole italiane.
Nei due anni di Governo Prodi vengono corrette le norme più devastanti, si adottano riforme stringenti delle concessioni autostradali, si rimettono a gara le tratte non iniziate dellalta velocità ferroviaria ma, certo, non si è frenata la logica dei "grandi eventi" affidati alla Protezione civile, nè si è corretta la Legge obiettivo per le grandi opere, perché spesso anche nel centrosinistra la cultura del "fare presto" è sembrata inconciliabile conregole e procedure di controllo.
Con il ritorno del terzo governo Berlusconi, i grandi eventi e le ordinanze della Protezione civile diventano la regola, si cancella la riforma delle concessionarie autostradali, che tornano a realizzare il 60% dei lavori direttamente con le proprie imprese, si restituiscono ai vecchi consorzi 15 miliardi di lavori a trattativa privata per lalta velocità ferroviaria ( Milano-Genova, Milano-Verona-Padova). Si ripropone il piano carceri da realizzare in fretta con grandi deroghe in materia di appalti ed affidamenti, si consente alle opere pubbliche dellExpo 2015 di Milano con una apposita delibera del gennaio 2010 di derogare dal Codice Appalti sulle varianti, sui collaudi, sul subappalto, sulla direzione lavori e le procedure autorizzative.
Infine tornano i lotti costruttivi e non funzionali delle grandi opere che vengono introdotti con un emendamento in legge finanziaria 2010 per inaugurare pezzi di opere che si sa quando cominciano e non si sa quando finiscono! Ed è ancora di questi giorni il dibattito in consiglio dei ministri per mettere un freno alle parcelle degli arbitrati e ai collaudi affidati ai soli noti, che spesso fanno parte di istituzioni che dovrebbero vigilare in modo imparziale sul buon andamento dei lavori.
Sono stati ripristinati anche i commissari per le grandi opere, con lunico scopo di attribuire poteri speciali ed alleggerire le procedure già straordinarie come quelle della legge obiettivo: basti pensare a Pietro Ciucci, uno e trino, che è Presidente di Anas, Amministratore Delegato della Società Stretto di Messina (di cui Anas è socia all82%) e commissario straordinario per la realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina.
Con questo quadro di regole in cui la deroga è tornata la regola, inutile stupirsi dei risultati che le inchieste della magistratura hanno scoperchiato ed il sistema di informazione amplificato.
Anche la Corte dei Conti nella sua relazione annuale ha sottolineato come i casi di corruzione e concussione nel 2009 siano triplicati rispetto al 2008, mentre sono stati ridimensionati con norma i poteri della stessa Corte di Conti di intervento. Del resto la proposta di trasformare la Protezione Civile in SpA, poi bocciata per lo scoppio delle inchieste, aveva come scopo principale quella di ridurre i controlli della Corte dei Conti.

Cè un sistema politico ed imprenditoriale deformato, che cerca di evitare ad ogni passo laffidamento mediante gara ma, anche quando si procede con gara di evidenza pubblica, il sistema di regole non è sufficientemente efficace. Semplificare il numero delle stazioni appaltanti (per consentire controlli efficaci), rafforzare lAutorità di Vigilanza sui Lavori Pubblici anche sul piano delle risorse e dei poteri, eliminare gli eventi e lestensione dei poteri legati alle ordinanze della Protezione civile, sono misure essenziali per superare questa debolezza strutturale del sistema di regole.

Ma per accorciare i tempi servirebbe anche selezionare pochi e finanziati cantieri utili (e non la solita e sterminata lista delle grandi opere) ed elaborare progetti di qualità, per ridurre varianti, contenziosi ed impatti ambientali. Questi sono gli strumenti necessari per "fare presto" le opere e non le scorciatoie che deformano il sistema, premiando i meno innovativi ed i più permeabili alla corruzione e che, inoltre, non riducono affatto i tempi come si vuol far credere.
Adesso il sistema dellinformazione sembra essersi svegliato ma non è ammissibile che lattenzione sia a corrente alternata o legata al momento politico, perché se cè una cosa che il sistema teme più delle regole (chi si possono sempre aggirare elegantemente) è il fare luce sugli affari e le reti indecenti di protezione. Anche la reazione indignata dei cittadini è una buona premessa ed una speranza perché non vengano premiati gli affaristi e la buona politica del fare abbia la meglio. Oltre alle regole, al cambiamento servono anche informazione ed indignazione.

 

Emergency: "Guerra a un ospedale".

Gino Strada e l'organizzazione italiana si stringono attorno ai tre membri dello staff prelevati in Afghanistan senza alcuna comunicazione ufficiale. "Si mobiliti la società italiana"

Domenica mattina, sede di Emergency a Milano. Via vai di telecamere e registratori, macchine che scattano foto. La conferenza stampa dell'organizzazione fondata nel 1994, che da allora ha curato gratuitamente quasi quattro milioni di persone in tutto il mondo, è convocata per le 11.30.

Lo staff è incollato ai telefoni: tre di loro sono stati ''rapiti''in Afghanistan ieri, come dice il dottor Gino Strada, direttore esecutivo e fondatore dell'organizzazione, seduto davanti a telecamere e taccuini con il presidente di Emergency Cecilia Strada, il vice presidente Alessandro Bertani e il responsabile della comunicazione Maso Notarianni. Una telefonata, ieri, alle 11.30 ora italiana, da parte del personale dell'ospedale di Emergency a Lashkar-gah, nella provincia dell'Helmand: "Ci stanno ammanettando". Solo alcune ore dopo, al cellulare di Matteo Dell'Aira - responsabile medico del centro, uno dei fermati - risponde un uomo che si qualifica come soldato britannico del contingente Isaf, che tranquillizza sulle condizioni dei tre italiani trascinati via dall'ospedale ma rifiuta di fornire le proprie generalità. Poi un pesante silenzio. Come spiega Cecilia Strada, Emergency ha appreso le accuse che vengono mosse ai tre elementi di Emergency, portati via assieme ad alcuni lavoratori afgani, da un lancio di agenzia e ne ha avuto conferma dall'ambasciata italiana nel Paese asiatico. Nessuna comunicazione ufficiale da parte del governo afgano, nessun risconto dalle forze armate del contingente internazionale della Nato.

L'accusa è enorme, "al punto da trasformarsi in farsa", commenta Cecilia Strada. Matteo Dell'Aira, 41 anni, dal 2000 in giro per il mondo con Emergency, responsabile medico dell'ospedale, Marco Garatti, 49 anni, coordinatore del progetto in Afghanistan, dal 1999 con Emergency, e Matteo Pagani, 28 anni, responsabile logistico dell'ospedale, sono stati portati via. A quanto si legge dagli organi di stampa, i servizi segreti afgani li accusano di essere coinvolti nel progetto di attentare alla vita del governatore della provincia di Helmand nel corso di una sua futura visita all'ospedale, un centro chirurgico che funziona dal 2004 e che ha curato oltre 66mila persone. L'ambasciatore italiano a Kabul ha potuto vedere solo oggi i connazionali fermati. Sembrano essere in buona salute, ma sono naturalmente molto scossi.

"Questo è un attacco all'ospedale, sono allibito", dice il dottor Strada. "Un atto di guerra preventiva, magari in previsione di una nuova offensiva militare nel territorio, nel quale siamo rimasti gli unici, scomodi, testimoni". Non ci sono altri ospedali in Helmand, non ci sono giornalisti. All'interno della struttura, secondo l'intelligence di Kabul, sarebbero stati trovati armi ed esplosivi. "La perquisizione è avvenuta in assenza di nostri rappresentati", chiarisce Strada, "ma non si può escludere che qualcuno abbia portato all'interno dell'ospedale quel materiale. Quello che è grave è che tre persone che, nello spirito di Emergency, lavorano a salvare migliaia di vite da anni siano coinvolte in tutto questo".

L'Isaf, in un primo momento, ha smentito di aver preso parte all'azione. Un video diffuso dall'Associated Press, però, li smentisce, mostrando chiaramente come militari britannici del contingente Nato - che hanno il comando operativo nella regione dell'Helmand - abbiano circondato l'edificio e preso parte alla perquisizione dei locali, costringendo il personale a identificarsi. La situazione è complessa e, come racconta il dottor Strada, ''l'ospedale non ha in questo momento la possibilità di svolgere la sua funzione, in quanto occupato da militari". Rispetto alle prossime ore Emergency si augura una soluzione rapida della crisi, ma come risponde lo stesso Strada alla domanda di una giornalista, "per il futuro del progetto non ci sono certezze. La priorità in questo momento è la sicurezza dei nostri in carcere e degli altri (5 italiani e un indiano) del personale internazionale e locale che si trovano a Lashkargah. Tutto il resto si valuterà dopo".
In attesa che, come prevede il sistema giudiziario afgano implementato dai consulenti italiani, venga formalizzato un atto d'accusa e venga permesso ai tre italiani e ai sei afgani prelevati dall'ospedale di difendersi. "La situazione ricorda quella del 2007", conclude Strada, "quando il rapimento del giornalista italiano Daniele Mastrogiacomo segnò l'inizio di un escalation nei confronti del nostro lavoro in Helmand. Un lavoro fatto solo di cure mediche, per chiunque, perché una vita umana è una vita umana. Chiunque nei nostri ospedali in Afghanistan e nel mondo riceve cure mediche se ne ha bisogno. Il resto non conta. Proprio per questo principio sempre rispettato, Emergency rappresenta un volto amato dell'Italia nel Paese. Mi aspetto che i cittadini italiani facciano sentire la loro voce e che il governo italiano, come sta già facendo, continui ad adoperarsi per la soluzione del caso".

 

Ombre russe sul Kirghizistan

Lo zampino del Cremlino nel cambio di regime a Bishkek. In ballo c'è il futuro della presenza militare Usa in Asia centrale

I trascorsi filo-occidentali e filo-statunitensi dei leader dell'opposizione kirghisa, salita al potere a Bishkek dopo la sanguinosa rivolta popolare di mercoledì scorso, giustificavano i sospetti di un coinvolgimento di Washington in questo nuovo cambio di regime. Sospetti rafforzati dalle prime parole pronunciate dalla presidente/premier ad interim, Roza Otunbayeva, che appena insediata si è affrettata a garantire la permanenza della grande base Usa di Manas: unica presenza militare americane in Asia centrale dopo la cacciata dall'Uzbekistan nel 2005.

Putin tende la mano. Ma i fatti accaduti ed emersi nelle ultime ore mostrano che, in realtà, dietro questa nuova rivoluzione senza colori - a parte il rosso del sangue dei 76 morti e 1.400 feriti - c'è lo zampino di Putin. Quello stesso Putin che a caldo aveva negato ogni coinvolgimento (quando nessuno lo aveva nemmeno ventilato), ma che giovedì si è affrettato a telefonare alla Otunbayeva, riconoscendo la legittimità del nuovo governo (cosa che Obama non ha ancora fatto) e offrendo sostegno economico. E che venerdì già riceveva a Mosca una delegazione dei nuovi dirigenti kirghisi, guidata dal neo-vicepremier Almazbek Atambayev.

Le condizioni di Mosca. Segnali di un forte sostegno, che prevedono però una contropartita. A Praga, a margine della firma del trattato Usa-Russia sulle testate atomiche, un funzionario del Cremlino ha lanciato un messaggio molto chiaro: "Bakiyev non ha mantenuto la promessa di chiudere la base Usa di Manas. In Kirghizistan ci dovrebbe essere solo una base, russa". Messaggio immediatamente recepito da uno dei principali leader dell'opposizione kirghisa ora al potere, Omurbek Tekebayev: "E' molto probabile che la durata della presenza della base Usa verrà abbreviata". E ha aggiunto: "La Russia ha fatto la sua parte nel rovesciare Bakiyev".

Lo sgarro di Bakiyev. Negli ultimi mesi i rapporti tra il Cremlino e il deposto presidente kirghiso erano diventati molto tesi.
Nel 2009 Bakiyev, in cambio di 2 miliardi di dollari di finanziamenti russi, aveva promesso a Mosca di chiudere la base americana di Manas e di aprirne una seconda russa a Osh. Ma lo scorso febbraio, dopo aver ricevuto la prima tranche di questi soldi (300 milioni di dollari), non solo ha rinnovato il contratto con il Pentagono, ma ha pure chiesto alla Russia di iniziare a pagare l'affitto per la sua base.

La punizione del Cremlino. Il Cremlino non l'ha presa bene. Dopo aver bloccato la seconda tranche (1,7 miliardi di dollari per la costruzione della centrale idroelettrica di Kambarata), il 1° aprile ha sospeso le forniture di petrolio al paese e il giorno dopo ha imposto al Kirghizistan una pesante tassa di importazione sui carburanti russi (193 dollari a tonnellate), provocando i rincari che hanno scatenato la rivolta.
Alla vigilia delle manifestazioni, Temir Sariyev, uno dei principali leader dell'opposizione kirghisa (oggi ministro delle Finanze ad interim), era in visita a Mosca. Difficile pensare a una coincidenza.

Ma non è detta l'ultima. A prescindere dal contributo russo al cambio di regime a Bishkek, è ancora presto per dire quale sarà l'esito geopolitico finale di questa vicenda.
Così come Bakiyev aveva presto voltato le spalle a Washington dopo il 2005, i nuovi leader kirghisi potrebbero tradire nuovamente le aspettative di Mosca. Oppure proveranno a tenere i piedi in due staffe per ricevere sostegno da entrambe le parti, come aveva provato a fare Bakiyev negli ultimi.
Per capirci di più, basta aspettare e vedere se gli americani rimarranno nella base di Manas oppure saranno costretti a prendere armi e bagagli e trasferirsi altrove. Al Pentagono hanno già srotolato le mappe della Georgia e dell'Azerbaigian.

Enrico Piovesana

 

8 aprile

Crotone senza misericordia

Cinque mesi di reclusione nel centro di identificazione e di espulsione di Sant'Anna di Isola Capo Rizzuto hanno cancellato la speranza dagli occhi verdi di Maher. Ventitrè anni, tunisino. Dell'Italia ha visto solo il Cie. È finito dentro appena ha messo piede in Europa. A novembre del 2009, due giorni dopo lo sbarco in Sicilia. Ha pagato duemila euro per regalarsi questo incubo. Per arrivare sull'altra sponda del Mediterraneo passando dalla Libia. Maher ha rifiutato di chiedere asilo politico. Il suo sogno è andare in Germania dal fratello maggiore, che vive lì da quasi vent'anni. Il nostro paese doveva essere solo un luogo di transito. «Il mio programma è svanito - dice a testa bassa - anche moralmente non ho più forza. Mi sembra tutto un'illusione». Poche parole in arabo, pronunciate a stento con l'aiuto della mediatrice culturale. Un breve incontro dopo una lunga attesa. La richiesta alla prefettura di Crotone per visitare il Cie di Isola Capo Rizzuto è datata 29 settembre 2009. Tanti mesi per avere l'ok del ministero dell'Interno. Ci vengono concesse quattro ore. Tre delle quali le passiamo nel centro di accoglienza per richiedenti asilo (Cara), scortati da un coordinatore e da un poliziotto. Negli ultimi preziosi sessanta minuti riusciamo a visitare il Cie. La prima cosa che chiediamo è di raccogliere le storie di alcuni immigrati reclusi. Ci assicurano che è possibile. Prima però bisogna parlare con la direttrice del centro, con il coordinatore, con l'assistente legale e con la mediatrice culturale. Visitiamo con la direttrice il cortile esterno dei due edifici che costituiscono il Cie, ma la polizia non ci permette di avvicinarmi a nessuno. «Potrebbero scoppiare dei disordini, il nostro lavoro qui è già abbastanza difficile» è la motivazione che danno. Non si può entrare nei dormitori. Al ritorno, per il poliziotto responsabile della sicurezza il nostro tempo è scaduto, dobbiamo andarcene. Solo dopo proteste e molte insistenze, ci permettono di incontrare Maher. Hanno scelto lui «perché è uno dei più tranquilli». Il ragazzo arriva nell'ufficio della direzione molto scosso. Trema di paura. Il suo disagio aumenta davanti alle nostre domande. Sa che ha davanti una giornalista ma per lui sono soprattutto una donna sconosciuta. L'ennesimo trauma dopo il viaggio che l'ha catapultato dalla Tunisia non in Europa, come pensava, ma in una dimensione senza tempo, di cui non comprende le regole. I giorni devono sembrare interminabili per un ragazzo che quasi non ha ancora la barba e condivide gli spazi di reclusione con altri 47 immigrati di diverse nazionalità, tanti con precedenti penali per spaccio e furto. L'orizzonte quotidiano sono due alte recinzioni. Una è in ferro. L'altra è un muro di cemento. In mezzo c'è un cortile presidiato dalle camionette delle forze dell'ordine. Due palazzine verdi, un tempo alloggi della vecchia base dell'aeronautica militare, poi cpt. Chiuse a maggio 2007 dal Viminale, abbandonate e infine riaperte d'urgenza il 20 febbraio 2009 per trasferirci parte degli immigrati dopo la rivolta e l'incendio nel Cie di Lampedusa.
E i posti aumentano
Le Misericordie d'Italia, che gestiscono il Cara da anni, hanno coordinato la riapertura nella fase di emergenza e poi formalizzato la gestione anche del Cie vincendo il bando del 26 maggio 2009. I due edifici sono divisi in un totale di quattro moduli. Al momento sono in corso i lavori di ristrutturazione. Una volta completati a fine aprile, i posti aumenteranno fino a 124. Se davvero i detenuti dovessero più che raddoppiare, la situazione potrebbe sfuggire di mano. Già così la tensione è alle stelle come la disperazione. La testimonianza inequivocabile dell'emergenza umanitaria e psicologica è uno squarcio di diversi metri nel muro esterno della prima palazzina. Un buco enorme fatto dai reclusi sbattendo contro la parete i letti e le reti metalliche a ripetizione fino a spaccare diverse file di mattoni. «Ogni giorno è una guerra, abbiamo scontri, feriti, moduli smontati, atti di autolesionismo» è lo sfogo di un poliziotto. Il coordinatore Salvatore Petrocca, delle Misericordie, vuole precisare che «non ci sono stati veri e propri tafferugli». Ma poi ammette: «Le persone soffrono e sfasciano tutto. Ad esempio le televisioni, ne abbiamo cambiate 17 in poco tempo». Al Cie di Sant'Anna le cose sono peggiorate dopo il pacchetto sicurezza. Lo dicono tutti quelli che ci lavorano. «Sei mesi sono troppi per l'identificazione. Gli immigrati accettano perfino l'idea della reclusione ma non così a lungo» racconta Auatif, mediatrice culturale marocchina. «I maggiori dissensi li abbiamo avuti quando sono entrati in vigore i 180 giorni, i detenuti non riescono a capire le ragioni di questa norma» afferma anche la direttrice Rosa Viola.
Gli immigrati di Rosarno
In un anno dall'apertura, fino a marzo scorso, 631 persone sono state detenute nel Cie di Sant'Anna. Storie diverse, ma una costante: la maggioranza è in Italia da almeno dieci anni. Immigrati italiani. «Il marocchino di Isola Capo Rizzuto», un venditore ambulante da 25 anni in paese e conosciuto da tutti, si è fatto tre mesi in carcere. Ha raccontato di essere stato fermato dopo un controllo perché vendeva cd falsi. Un sessantenne, i cui figli già sposati vivono a Isola. È potuto uscire solo per motivi di salute. Con l'intimazione di lasciare il territorio nazionale entro 5 giorni. Ci sono poi sei immigrati trasferiti da Rosarno ai primi di gennaio dalle forze dell'ordine nei giorni della "caccia al nero" con i fucili a pallini. Lavoratori stagionali sfruttati per 25 euro nella raccolta delle arance, presi di mira da attacchi razzisti e sfuggiti agli agguati delle 'ndrine con lo sgombero da parte degli agenti. Una pulizia etnica che ha segnato per sempre la vergogna dell'Italia nel mondo. In carcere non ci sono gli aguzzini, bensì le vittime. Reato commesso: avevano tutti a carico una precedente espulsione. Tre di loro sono richiedenti asilo. Vengono da Liberia, Burkina Faso ed Etiopia. «Con a carico un'espulsione, pur non avendo mai fatto prima la domanda per lo status di rifugiato, devono stare nel Cie» spiega l'avvocato Francesco Vizza. La commissione territoriale deciderà entro la settimana. Altri tre, due mauritani e un maliano, avevano già avuto la richiesta di asilo rifiutata proprio dalla questura di Crotone. «Non possono ripeterla perché non ci sono fatti nuovi» sostiene ancora l'assistente legale del centro. Un iter che contrasta con le richieste per il permesso di soggiorno ai migranti di Rosarno portate avanti da mesi dalle associazioni antirazziste con sit in e proteste come quella delle "arance insanguinate" davanti al Senato.
Da sette mesi senza fondi
Il centro di Sant'Anna è il più grande d'Europa, con circa 1500 posti. A dieci anni dalla sua apertura, la maggior parte degli immigrati dorme ancora nei containers con i servizi igienici in comune. Era una base dell'aeronautica militare, oggi contiene il Cie, il Cara e il Centro di accoglienza. In attesa della decisione della commissione territoriale per l'asilo ci sono al momento 700 aspiranti allo status di rifugiato. Ognuno di loro costa 28,88 euro al giorno alle casse dello stato. Sono oltre ventimila euro al giorno in totale. «Una miseria, una delle rette più basse in Italia. Riusciamo ad andare avanti solo perché si lavora su grossi numeri - afferma la direttrice del Cara, Liberata Parisi - sono sette mesi che il ministero dell'Interno non salda i conti del finanziamento che abbiamo vinto come ente gestore con il bando per il 2009-2012». Soldi che non arrivano neanche per il Cie, nonostante la proroga della permanenza a sei mesi. «Paghiamo i fornitori facendo mutui e prestiti» dice ancora Parisi. Per avere un'idea dei costi di questa gigantesca macchina che ruota attorno all'immigrazione e ai permessi di soggiorno, bisogna calcolare che in media ogni richiedente asilo rimane dai quattro ai sei mesi prima di avere il responso della commissione, i cui uffici sono all'interno del centro. A riprova che i respingimenti in mare non risolvono il problema, a Crotone ci sono ancora 100 nuovi ingressi al mese. Cambiano le rotte, è diversa l'umanità in fuga che arriva. Non più africani passati dalla Libia ma soprattutto kurdi, afghani e iracheni che transitano dal confine nord est dell'Italia. Amir è un kurdo iraniano arrivato fino a Bari in un camion. È fermo a Sant'Anna da quattro mesi. Hamidullah ha ancora la famiglia a Kandahar. Suo padre ha messo insieme quello che aveva per farlo partire. Afghanistan, Turchia, Serbia, Ungheria il suo tragitto. Un altro afghano dice di avere «forse 30 anni». In Ungheria è stato fermato e deportato indietro in Serbia. Da lì è arrivato a Patrasso e poi sotto un camion in Italia. Anche lui quattro mesi a Sant'Anna in un container. Sono tutti dublinanti e la loro situazione giuridica è ancora più complessa.
Gli alloggi in cemento hanno solo 256 posti, costruiti nel 2008. La precedenza va a chi sta nel centro da più tempo, ai bambini e alle 30 donne, di cui una decina incinta. I minori hanno anche pochi mesi di età. Per gestire la convenzione e tutti i servizi previsti serve un piccolo esercito. Tra gli altri, ci sono assistenti sociali, psicologi, educatrici, mediatori culturali, istruttori isef per le attività sportive, esperti per la banca dati informatizzata. In totale sono impiegati con contratti a tempo e interinali 150 lavoratori delle Misericordie di Isola Capo Rizzuto. A loro vanno aggiunti 70 lavoratori del comune che gestisce i servizi di pulizia e di manutenzione. Militari, carabinieri e poliziotti per la sicurezza. Il personale sanitario dell'Asp di Crotone per l'infermeria in servizio 24 ore. Una vera fabbrica di posti di lavoro con un indotto 'prezioso' in un'area tra le più povere d'Italia, ad altissima disoccupazione. Costi destinati ad aumentare ancora con i lavori in corso per rafforzare la recinzione esterna e per ristrutturare e ampliare i posti delle due palazzine del Cie.

Raffaella Cosentino

 

Mensa non pagata, bambini fuori dalla scuola

Neanche a pane e acqua, bensì fuori da scuola per due ore. Dove non si sa, non è questione che interessa l’amministrazione leghista di Adro. Siamo in Franciacorta, provincia di Brescia, e la guerra contro i bambini figli di famiglie che non pagano la mensa scolastica vede di nuovo protagonista un sindaco del Carroccio: Oscar Lancini. Le polemiche contro un’analoga iniziativa adottata il mese scorso a Montecchio Maggiore, nel Vicentino, dove gli alunni morosi furono sfamati con panini imbottiti e una bottiglia di acqua, non hanno intaccato i primi cittadini in camicia verde. Così da stamattina 40 bambini dell’Istituto comprensivo di primo e secondo grado di via del Lazzaretto a Adro non saranno ammessi alla mensa scolastica. La circolare che è stata recapitata ai genitori - tramite bambini, che si sono visti consegnare in classe una busta chiusa di cui tutti i compagni conoscevano già il contenuto, si può immaginare la vergogna - parla chiaro: «L’organizzazione scolastica non ha nessuna possibilità e risorsa strutturale ed economica per garantire agli alunni l’assistenza e soprattutto un pasto alternativo rispetto a quello fornito dall’amministrazione comunale con il servizio della mensa scolastica». Insomma, scrive il dirigente scolastico Gianluca Cadei, la scuola non sa né come assistere, né cosa dare da mangiare ai bambini se non ci pensa chi ne ha la responsabilità, cioè il Comune. Quindi l'unica soluzione è che i figli dei morosi durante le ore dei pasti escano da scuola. Ma siccome si tratta di minorenni la circolare specifica che «dovranno essere ritirati dalla scuola alle 12,10 e riaccompagnati dai genitori alle 14,10 per le lezioni del pomeriggio».
Ma come faranno i genitori che lavorano? E la mensa non è forse orario scolastico obbligatorio? Il sindaco Lancini non si fa, evidentemente, tante domande. Contro la decisione dell’amministrazione comunale di Adro si sono mossi la Caritas e lo Spi Cgil, che per stamattina annunciano un’iniziativa di protesta: volontari porteranno nella scuola di via Lazzaretto cibo, frutta e acqua per i bambini esclusi dalla mensa. Ma da quanto è trapelato, il sindaco non ha intenzione di permettere l’ingresso nelle aule scolastiche dell’associazione cattolica e del sindacato dei pensionati.
Lancini è famoso per le sue iniziative contro gli immigrati extracomunitari: anni fa mise una taglia sui clandestini, ad Adro gli extracomunitari sono  sistematicamente esclusi dai bonus per le famiglie bisognose. Ma dalla guerra agli immigrati, la politica dell’amministrazione leghista sta virando velocemente verso la guerra contro tutti coloro che si trovano in difficoltà economiche e sociali. L’esempio della mensa scolastica è lampante. La maggior parte di bambini esclusi è di origine straniera, ma non sono stati risparmiati i bambini italiani. Spesso alle spalle hanno già il dramma della crisi economica e della perdita del lavoro dei genitori. Oppure solo una vita complicata, come nel caso di Ilaria Poli, la cui figlia che frequenta la quinta elementare è tra gli esclusi: «Cresco da sola tre figli - spiega - Ho sempre pagato, ma spesso in ritardo. Va anche detto però che a Adro la mensa si paga in anticipo: ti risarciscono se il bambino non frequenta». Pur avendo un reddito basso, Poli paga il massimo della retta (100 euro al mese) perché non è residente a Adro, ma in un paese vicino. In pratica sconta la volontà della giunta leghista di negare ogni supporto ai non residenti, pur essendo italianissima. Ad Adro la signora lavora, ci vive sua madre, e per questo ha iscritto sua figlia in quel Comune, pur essendo «straniera». Stamattina accompagnerà sua figlia a scuola: «Le ho parlato, ha sofferto per questa situazione. Ma a scuola andrà comunque. Non ci possono sbattere fuori».

Cinzia Gubbini

 

La Procura Generale d'Israele ammette il furto di centinaia di milioni di shekels che spetterebbero ai palestinesi

"Del caso se ne occuperà una squadra composta da esperti di vari dicasteri, coinvolgendo la materia il ministero della Giustizia, il ministero delle Finanze e l'Amministrazione Civile. Gli aspetti tecnici della questione saranno stabiliti la prossima settimana".

Meccanismo imperfetto. Malchiel Bals, il vice Procuratore Generale d'Israele, licenzia poche righe (riprese dal quotidiano israeliano Ha'aretz) che non riescono a celare un certo imbarazzo. Sono quindici anni che i palestinesi vengono derubati di somme di denaro ingenti dall'Amministrazione israeliana. Lo ha denunciato un avvocato della Procura militare israeliana che, per primo, si è accorto di come questi fondi transitassero direttamente nelle casse israeliane in violazione della normativa vigente rispetto ai rapporti tra Stato occupante e terra occupata. Bals, a quel punto, si è mosso per far partire l'indagine. Si parla, secondo una prima stima, di centinaia di milioni di shekels (moneta israeliana, un euro è pari a circa cinque shekels), circa 80 milioni all'anno per quindici anni. Da vengono questi soldi? Sono i proventi di tasse e bolli raccolti dall'amministrazione pubblica per esempio rispetto a concessioni per lo sfruttamento del suolo pubblico (le cave) o per aste su terreni. Secondo gli Accordi di Oslo della metà degli anni Novanta, che chiusero la Prima Intifada palestinese, i fondi devono essere raccolti dagli esattori israeliani e debbono essere reinvestiti in servizi e infrastrutture per la popolazione civile palestinese nei Territori Occupati. Invece, in questi quindici anni, sono finiti nelle casse di Tel Aviv. In violazione alla legge internazionale che impone agli Stati occupanti di 'conservare' i beni dei territori occupati fino al nuovo status. Gli Stati Uniti, per esempio, rispetto all'Iraq, hanno generato una sorta di fondo d'investimento che deve ritornare al Paese in forma d'investimento.
Scontro ministeriale. Blas ha annunciato che adesso verrà messo in ordine il sistema e, in modo retroattivo, verranno restituiti i soldi ai palestinesi. Meno chiaro il meccanismo di sanzione per i funzionari che si sono appropriati di beni palestinesi. Sembra probabile che questi fondi verranno divisi tra vari dicasteri, secondo le singole competenze, per essere poi trasformati in investimenti. Il ministero delle Finanze, nella serata di ieri, ha reso noto che darà battaglia contro la decisione di Blas, ritenendo che la decisione finale spetti al governo di Tel Aviv.
Questo denaro, oltre l'occupazione, è mancato a tutta una serie di infrastrutture che, negli anni, si sono andate deteriorando in Cisgiordania. Un esempio? Le condutture dell'acqua. Uzi Landau, ministro delle Infrastrutture israeliano, ha dichiarato ieri: "Se i palestinesi continuano a scaricare le proprie acqua reflue, inquinando fiumi e falda acquifera, Israele smetterà di aiutarli. I palestinesi - ha continuato Landau - devono collegarsi agli impianti di depurazione, altrimenti daremo loro solo acqua potabile, ma taglieremo quella per uso industriale e agricolo". Il ministro, però, ha sbagliato i conti. Per ottenere una gestione più funzionale della rete idrica basterebbe dare ai palestinesi quello che gli spetta. A quel punto il ministro Landau potrebbe smettere di aiutarli, evitando di derubarli.

Christian Elia

 

Capitali africani, ricchezza occidentale

In 40 anni, la fuga illecita di capitali è costata all'Africa 1800 miliardi di dollari

E' un paradosso crudele, come quello di un padre di famiglia che rischi di far morir di sete i suoi figli perché l'acqua che ha, la da' a chi ne ha meno bisogno. A questo viene da pensare, leggendo un rapporto, appena pubblicato, sulla fuga di capitali dall'Africa.
Soldi fantasma. Il dossier s'intitola "Illicit Financial Flow from Africa: Hidden Resources for Development" ed è stato redatto dal Global Financial Integrity, centro studi no-profit di Washington, che ha cercato di analizzare e quantificare i capitali africani che improvvisamente si volatilizzano, disperdendo risorse finanziarie che dovrebbero essere investite in quel continente.
Le cifre fornite dallo studio sono semplicemente spaventose: nel periodo che va dal 1970 al 2008, l'Africa avrebbe perso qualcosa come 854 miliardi di dollari.
Ma questa è un'approssimazione per difetto, perché gli analisti sono riusciti a quantificare soltanto i capitali spariti attraverso la pratica del "mispricing" (falsificazione dei prezzi) dei beni materiali, che è solo uno dei tanti sistemi attraverso i quali i soldi vengono spostati in maniera illecita. Ci sono altre strade, come il mispricing dei servizi e il contrabbando, la cui incidenza resta di difficile misurazione, perché l'individuazione di queste pratiche è molto più complicata.
La cifra a cui arriva il think tank americano, azzardando una ipotesi circa l'ammontare complessivo dei capitali usciti dai Paesi africani illegalmente, è impressionante: 1800 miliardi di dollari, che per una serie di trucchi hanno permesso a dittatori, leader democratici, militari, alti burocrati e imprenditori, africani ma non solo, di accumulare immense fortune all'estero, al riparo dalle frequenti crisi che scuotevano (e scuotono)periodicamente Paesi caratterizzati da economie deboli e da una forte instabilità politica. Un fiume di soldi che ha alimentato la crescita dei Paesi più sviluppati e che, paradossalmente, fa dell'Africa un continente virtualmente creditore, pur essendo imprigionato dal suo debito.  
Miseria reale. "Il massiccio flusso di soldi di provenienza illecita dall'Africa - scrive il direttore di Gfi, Raimond W. Baker - è facilitato da un sistema finanziario internazionale ombra, che comprende paradisi fiscali, segretezza di giurisdizione, finte corporation, false fondazioni, conti intestati a trust anonimi, transazioni commerciali truccate e diverse tecniche di lavaggio del denaro". La questione non è di natura etica o almeno non solo.
"L'impatto di questa struttura e dei fondi che sposta dall'Africa - continua il report - è devastante. Drena importanti riserve monetarie, aumenta l'inflazione, rende difficile la raccolta delle tasse, impedisce investimenti, mina il libero commercio".
Ma soprattutto, queste pratiche colpiscono il segmento sociale più povero e marginale, perché assorbono risorse che potrebbero essere utilizzate per la lotta alla povertà e per incentivare la crescita economica.
Basti pensare che con gli 854 miliardi di dollari persi solo attraverso il mispricing dei beni, l'Africa avrebbe potuto ripianare il suo debito estero (250 miliardi di dollari) e impiegare i 600 miliardi di dollari rimanenti per combattere la fame e la povertà.
L'analisi. Al totale di 854 miliardi di dollari, il Global Financial Integrity ci è arrivato concentrandosi sui flussi di capitali illeciti in uscita che ha documentato seguendo due strade. Volendo semplificare, il Gfi ha confrontato i flussi economici in ingresso, rintracciabili guardando le variazioni del debito con l'estero e il netto dell'investimento diretto di capitali stranieri, con il registro delle spese. La differenza tra i flussi finanziari in entrata e le risorse impiegate nel finanziamento del deficit corrente o nell'aumento delle riserve valutarie delle Banche centrali, equivale al capitale che si è volatilizzato su conti esteri.
L'altra strada percorsa è quella dell'analisi del mispricing, cioè di quella pratica che permette di occultare capitali in uscita aumentando sui documenti doganali il valore delle importazioni e riducendo quello delle esportazioni.
In tutti e due i casi, i dati a disposizione della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale consentono di scoprire la frode. Che rimane invece di difficile individuazione quando ad essere truccati non sono più i prezzi sui documenti doganali, ma quelli contrattati direttamente tra la società venditrice e quella acquirente. Quando la prima è complice della seconda, non si riesce a più capire quando e quanto una transazione commerciale nasconda un flusso di capitali illeciti. Questa è una via utilizzata soprattutto dalle grandi multinazionali per spostare fondi da un Paese all'altro.Pur con tutte le cautele e gli avvertimenti sulla mancanza di dati da alcuni Paesi africani e sulla difficoltà di rintracciare con certezza l'esistenza e la consistenza di flussi finanziari illeciti, i ricercatori del Gfi tracciano un quadro a tinte fosche. Dal 1970 al 2008, l'Africa ha perso, in media, 29 miliardi di dollari l'anno, 22 dei quali dai soli stati dell'Africa Sub-Sahariana, in particolare della regione centro-occidentale. Il fenomeno è cresciuto costantemente, con una media del 12,1 per cento all'anno. Ci sono, tuttavia, segnali di miglioramento. Diverse grandi economie, soprattutto quelle legate all'esportazione di idrocarburi come la Nigeria o l'Angola, nel 2008 hanno registrato una forte e crescita, che ha reso possibile misure macroeconomiche e riforme strutturali, condizioni che, generalmente, provocano un rientro di capitali.
Ciononostante, per raggiungere gli obiettivi fissati dallo United Nations' Millennium Development Goals per il 2010, All'Africa mancano ancora 348 miliardi di dollari e dai Paesi donatori, alle prese con la crisi economica globale, è difficile aspettarsi un aiuto risolutore. Anche di questo dovranno discutere i ministri delle Finanze africani, che a breve s'incontreranno in Malawi, in occasione della terza conferenza annuale, così come è prevedibile che la questione verrà posta anche al prossimo G20 che si terrà a giugno in Canada.

Alberto Tundo

 

6 aprile

Misteri dolorosi

Cento ore prima del voto la Cei del Cardinal Bagnasco lanciava il suo anatema contro l'aborto "che si vuole rendere invisibile". Se si riferisva a quelli praticati a pagamento dai medici obiettori fuori dalle strutture pubbliche, ha detto una cosa sacrosanta.

In un mondo di scandali clamorosi e di violenze contro i bambini, si sperava che l’elettorato cattolico, cui era rivolta la paterna sollecitazione, avesse accolto favorevolmente l'invito a riflettere prima di votare in favore dell’aborto clandestino...

Presidenza AFFI Edda Billi - Irene Giacobbe

 

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