30 novembre

 

"Frecciarotta", treni sporchi e vecchi. L'odissea quotidiana dei pendolari

Un'indagine di Altroconsumo rivela che la stragrande maggioranza di chi si sposta quotidianamente con Fs lamenta disservizi di vario genere. L'89% punta il dito sulla scarsa pulizia, il 64% sul sovraffollamento, il 63% sulla mancanza di puntualità

di VINCENZO FOTI

Sporcizia e cattivo odore. Riscaldamento rotto e gelo d'inverno, caldo asfissiante d'estate. Insicurezza e sovraffollamento. Poi, porte bloccate, sedili sudici e sbrindellati, bagni luridi e fuori servizio. Sono i treni 'Frecciarotta', secondo la definizione più comune che emerge dall'inchiesta "Siamo uomini o pendolari?" condotta da Altroconsumo1 nei nodi ferroviari di Roma, Milano e Napoli. Un quadro sempre più deprimente quello in cui si muovono i due milioni e mezzo di italiani che ogni giorno, per studio o per lavoro, utilizzano il treno per i loro spostamenti, spesso soffrendo la lentezza, i ritardi e le soppressioni per mancanza di materiale rotabile.

Dei 1.400 pendolari interpellati da Altroconsumo l'89% punta il dito sulla pulizia inesistente. Per nove pendolari su dieci gli standard igienici da Medioevo e sono addirittura peggiorati rispetto a un'analoga inchiesta datata 2004. I punti critici sono i sedili (77%), le carrozze sporche (69%) e il cattivo odore (58%). Il 71% dei passeggeri si lamenta della climatizzazione: gli impianti vanno sempre più frequentemente in panne. Le punte di questo disservizio si toccano al Nord, sulle tratte Bergamo-Carnate-Milano (90%), Novara-Milano (89%) e Bergamo-Treviglio-Milano (88%).

Per non parlare del sovraffollamento, percepito da sette pendolari su dieci, che tra l'altro temono per la loro incolumità: secondo il 64%, in caso di pericolo uscire dal treno sarebbe una vera impresa. Questo perché con l'introduzione

dell'Alta Velocità - stimano le associazioni - l'offerta di treni regionali è diminuita di circa un terzo e quelli rimasti hanno sempre lo stesso numero di vetture: da qui l'effetto 'sardina'.

La puntualità è da sempre il tasto dolente, anche se dal 2004 gli insoddisfatti sono calati dal 69 al 63%. Notevoli, al Nord, le differenze da tratta a tratta: tra le migliori ci sono la Milano-Treviglio-Bergamo e la Brescia-Milano, anche se un terzo degli utenti si dichiara scontento. La Milano-Piacenza è la più odiata, con il 100% di insoddisfazione. Al Centro e al Sud le cose non vanno meglio. Nel Lazio il 79% dei pendolari è insoddisfatto e le linee più criticate sono la Roma-Frosinone, Fara Sabina-Roma e Roma-Avezzano. In Campania (70% di insoddisfatti) suscitano proteste la Napoli-Salerno, la Formia-Napoli e la Sarno-Napoli. A proposito di ritardi e soppressioni, in Sicilia il sindacato Fit-Cisl ha contato dodici treni cancellati negli ultimi quattro giorni, 285 quelli che hanno fatto registrare un significativo ritardo; pollice verso per la Palermo-Messina, con 20 treni in ritardo, e per la Palermo-Termini Imerese, con 29 ritardi in cinque giorni. Dal 4 al 9 ottobre, il Comitato Pendolari siciliano ha contato invece 70 cancellazioni in tutta la regione.

Da questa situazione, i pendolari italiani escono esasperati, indignati, stremati: disagi a catena, ore di lavoro perse e da recuperare, trattenute sullo stipendio, ferie e permessi utilizzati invano, tempo sottratto alla famiglia. Contro le vessazioni di Trenitalia ognuno reagisce come può: si va dalle petizioni alla raccolta di firme, alle proteste nei forum online o sui blog. C'è chi blocca i binari, chi rifiuta di mostrare al controllore l'abbonamento, chi ricorre alla class action, come un gruppo di Nettuno. E c'è chi fa causa e vince. E' successo a Umberto Fantigrossi, avvocato e pendolare della Milano-Piacenza: il giudice di pace ha condannato Trenitalia a risarcirlo di 1.000 euro per danno esistenziale conseguente al ritardo subito, più altri 1.500 per le spese processuali. Insomma, se oggi c'è una cosa che unisce in qualche modo l'Italia sono i disservizi delle Fs. Alla loro nascita (1905) l'avevano unita in positivo, arrivando quasi in ogni angolo del Paese. Inoltre, i ferrovieri furono la prima categoria di lavoratori a insegnare la compattezza, la solidarietà, il senso di appartenenza, la fedeltà, lo spirito di corpo. Oggi invece l'unione è diventata condivisione degli stessi problemi e i treni locali sono una dannazione al Nord come al Sud.

La questione è economica. Da tempo le Fs hanno deciso di puntare il loro business sulla Tav, pur avendo varato un piano d'investimento da due miliardi per i treni regionali. Ntv, la nuova società di Montezemolo, dal prossimo settembre, inizierà a correre sulle linee ad alta velocità; tuttavia il certificato di sicurezza (documento di accesso all'infrastruttura ferroviaria) ottenuto anche per le linee tradizionali non esclude, in teoria, treni a breve e media percorrenza. Dal 2000, inoltre, la gestione dei treni locali compete alle Regioni, con cui Trenitalia firma contratti di servizio comprensivi di penali nel caso in cui gli standard non vengano rispettati. Ma non appena le Regioni contestano i disservizi, Trenitalia si lagna dell'irrisorio contributo regionale. E qui subentrano le scelte individuali: in alcune zone, comparti come la sanità drenano risorse enormi lasciando, per esempio, gli spiccioli al trasporto pubblico locale. Senza dimenticare che Trenitalia, al momento della costruzione della Tav, ha sottoscritto dei patti con le comunità locali in cui si prometteva che l'Alta Velocità sarebbe stata messa al servizio anche dei pendolari: a tutt'oggi, secondo Altroconsumo, non si è visto nulla.

 

Sbilanciamoci: 'Sulla legge finanziaria è ora di cambiare rotta'

Più giustizia soclale ed economia verde. Il gruppo propone una finanziaria alternativa che libererebbe risorse per quasi 26 miliardi di euro

di Giulio Marcon*

Il documento. Il Rapporto di Sbilanciamoci prende le mosse - anche quest'anno - dalla grave crisi economia e finanziaria che stiamo attraversando e che produce drammatiche conseguenze sociali sui cittadini ed in particolare sulle categorie sociali più esposte: precari, donne, immigrati, operai delle fabbriche, pensionati, disoccupati e studenti, dipendenti a basso reddito. In pratica, la maggioranza della popolazione. Come ogni anno il rapporto analizza criticamente - a partire dalla Legge di Stabilità (nuovo nome della legge finanziaria) e dalla Decisione di Finanza Pubblica (così ora si chiama il vecchio DPEF) - i provvedimenti economici e finanziari del governo e/o approvati in parlamento degli ultimi mesi. Dall'altra parte viene avanzato il punto di vista delle organizzazioni della società civile ed in particolare le proposte alternative in materia di spesa pubblica: proposte concrete e dettagliate, realizzabili. In questo modo prospettiamo una vera e propria "manovra finanziaria" alternativa non solo per le misure specifiche, ma anche per il modello di sviluppo che vorremmo: sostenibile, equo, di qualità. Negli ultimi anni la legge finanziaria si è progressivamente svuotata (e lo sarà ancora di più nei prossimi mesi con l'introduzione del nuovo Patto di Stabilità europeo); la trasparenza della sessione di bilancio (e la possibilità di far sentire la voce della società civile) è sempre più ridotta e i provvedimenti di spesa pubblica si sono moltiplicati durante tutto il periodo dell'anno. E' diventato praticamente impossibile quantificare l'entità della manovra.

La legge di stabilità. La legge di stabilità del 2011 fotografa i cambiamenti già introdotti dalla manovra di luglio (legge 122/2010) che di fatto ha anticipato la finanziaria (o legge di stabilità) del 2011 (per la analisi della 122/2010 si veda il documento preparatorio della controcernobbio del 2010 su www.sbilanciamoci.org). Le novità introdotte con il testo della finanziaria sono relativamente modeste rispetto alla manovra triennale di luglio. Cambiamenti più sostanziali sono introdotti dal maxi emendamento presentato l'11 novembre 2010 per venire incontro alle esigenze di rifinanziamento di alcuni capitoli di spesa del bilancio di vari dicasteri e per "ammorbidire" gli effetti della legge 122/2010. In effetti il "maxi emendamento" (che vale 5,7 miliardi) sembra essere la "vera finanziaria", dove sono contenuti gli interventi più importanti. Vengono ridati un po' di soldi all'università, alle politiche sociali e agli enti locali, ma si tratta di briciole rispetto ai tagli di luglio. Inoltre vengono stanziati i soldi per le missioni militari (750 milioni) e qualche spicciolo per il 5 per mille per il volontariato e l'associazionismo: con i soldi a disposizione è diventato l'1,25 per mille ... Come ha ricordato il Presidente Giorgio Napolitano a proposito della finanziaria: "C'è una grande confusione, un grande buio, il vuoto sulle scelte e sulle priorità di destinazione delle risorse pubbliche": parole condivisibili. Quello che emerge, oltre a ciò, sono sostanzialmente i tagli all'ambiente (-20%) alle politiche sociali (i fondi sociali diminuiscono di oltre il 70% dal 2008), della cooperazione allo sviluppo (-56%), del servizio civile (-60%). A tutto questo va aggiunto il massiccio taglio - come si è detto - a l Fondo di Funzionamento dell'Università, alle Borse di studio per gli studenti, mentre mancano all'appello oltre otto miliardi di trasferimenti agli enti locali: tutto questo vorrà dire nei prossimi mesi meno servizi per i cittadini o tariffe più care. Nel frattempo aumentano le spese militari, si stanzia un miliardo e mezzo per il ponte sullo stretto e le grandi opere, si regalano 700 milioni alle scuole private e - mentre si tagliano soldi a parchi, ferrovie per i pendolari e la mobilità sostenibile - si danno oltre 150 milioni, non si sa bene a che titolo, ai padroncini dell'autotrasporto.

Le proposte di Sbilanciamoci. Anche Sbilanciamoci propone di tagliare la spesa pubblica, ma non quella sociale, bensì quella militare (meno quattro miliardi), quella della missione di guerra in Afghanistan (-750milioni), quella del ponte sullo stretto e delle grandi opere (meno un miliardo e 500 milioni), quella dei finanziamenti alle scuole private (-700 milioni). E con una politica di giustizia fiscale potremmo avere molte altre risorse: oltre 10 miliardi con una tassa patrimoniale sopra i cinque milioni di euro di patrimoni e due miliardi dall'innalzamento dell'imposizione fiscale sulle rendite finanziarie al 23%. Risorse fondamentali per far fronte alla crisi, sostenendo in quesrto modo i redditi e le pensioni, ampliando gli ammortizzatori sociali a tutti i precari e rilanciando un'economia diversa da quella che abbiamo conosciuto: sostenendo in questo modo l '"economia verde" e l'economia sociale, dando incentivi alle energie rinnovabili e non all'industria dell'auto, promuovendo un piano di "piccole opere" (riassetto idrogeologico, messa in sicurezza delle scuole) alternativo alle grandi opere, mettendo in campo una politica di pace (cooperazione allo sviluppo, servizio civile, corpi di pace) opposta a quella di guerra che abbiamo seguito sino ad oggi, sostenendo il welfare dei diritti contro quello compassionevole di Tremonti. Non abbiamo bisogno di bonus bebè e bonus famiglia ma di asili nido (siamo tra gli ultimi in Europa) e di ripristinare il fondo per la non autosufficienza che la finanziaria del 2011 ha portato da 400 milioni a zero euro, lasciando da sole le famiglie ad assistere anziani infermi e disabili. Come abbiamo dimostrato con la controfinanziaria del 2011 (si vedano tutte le proposte e le tabelle su www.sbilanciamoci.org) si può mettere in campo una proposta diversa: noi abbiamo messo in fila interventi per 25 miliardi e 596 milioni, tutti coperti da maggiori entrate e minori spese. La nostra finanziaria è alternativa quella di un governo che aggrava le diseguaglianze e favorisce i privilegiati. Di fronte ad una politica regressiva ed antisociale è ora di cambiare rotta e di rimettere al centro delle politiche economiche i diritti, la pace e l'ambiente.

* Portavoce di Sbilanciamoci

 

Sul filo del razzismo

La Svizzera si prepara a votare il referendum che potrebbe permettere l'espulsione immediata di stranieri, anche nati nel Paese, condannati per un numero di reati come la violenza sessuale e il traffico di sostanze stupefacenti.

A un anno esatto dal referendum che ha impedito la costruzione di minareti nel territorio nazionale, la Svizzera torna a votare una consultazione popolare volta a inasprire la permanenza degli immigrati sul suolo elvetico. Questa volta gli elettori, alle urne domenica, sono chiamati ad esprimersi su due quesiti riguardanti l'espulsione degli stranieri che, in caso di vittoria dei "sì", dovranno sottostare a leggi decisamente più rigorose.

In cabina elettorale i cittadini svizzeri avranno a disposizione tre scelte: la prima è quella proposta dal partito di estrema destra Udc (Unione democratica di centro o, in tedesco, Schweizerische Volkspartei, SVP, Partito Popolare Svizzero) che vorrebbe ampliare i casi di espulsione per gli stranieri condannati con sentenza passata in giudicato. L'Udc, rivelazione politica della tornata elettorale federale del 2007, ripropone uno dei suoi manifesti più contestati e che raffigura un gregge di pecore bianche che espellono, scalciando, una pecora nera dalla bandiera crociata raffigurante il territorio nazionale. Il partito presieduto da Toni Brunner chiede ai cittadini di pronunciarsi a favore dell'espulsione automatica per gli stranieri giudicati colpevoli di una serie di reati che, se la proposta passasse, andrebbero ad aggiungersi a quelli già previsti dalla legge.

Violenza sessuale, rapina, traffico di sostanze stupefacenti, tratta di esseri umani e, infine, truffa agli istituti pubblici di previdenza sociale. Questi sono i nuovi capi d'imputazione che potrebbero dar vita a provvedimenti di allontanamento coatto immediato se, come prevedono i sondaggi dell'istituto gfs.bern, il 54 percento della popolazione elettrice dovesse confermare il proprio appoggio alla misura. Se applicata, questa non terrà conto di alcun caso di circostanze particolari come il tempo di permanenza nel Paese - chi ci vive da anni verrà trattato come chi ci vive da mesi - o dei matrimoni misti e del diritto al ricongiungimento familiare. Chi non ha la cittadinanza elvetica, e dovesse rientrare nella nuova legislazione, sarà costretto a lasciare il Paese.

Un'eventualità che il governo di Berna, presieduto da Doris Leuthard (Ppd), vorrebbe scongiurare con una controproposta referendaria, molto simile a quella dell'Udc ma mitigata dal richiamo al rispetto dei "diritti fondamentali e dei principi basilari della Costituzione federale e del diritto internazionale, in particolare del principio della proporzionalità". Una versione "light", come l'ha additata Amnesty International, che comprometterebbe ugualmente la posizione degli stranieri in terra elvetica, attualmente il 21,7 percento dei sette milioni della popolazione totale. Allo stato delle cose, infatti, le espulsioni annuali varierebbero dalle 350 alle 400. Se dovesse essere approvata la modifica costituzionale dell'Udc il numero dei rimpatri aumenterebbe a 1500, mentre salirebbe a circa 800 in caso si affermasse la proposta governativa. In entrambi i casi all'approvazione referendaria dovrà sommarsi, per l'entrata in vigore, quella della maggioranza dei cantoni componenti la federazione.

Intanto sale la tensione fra le parti politiche che si affronteranno domenica. Apertamente schierata sul fronte dei contrari è il sindaco di Ginevra, Sandrine Salerno, figlia di padre italiano e madre francese. Per lei, "suggerire che tutti gli stranieri sono potenzialmente dei criminali è solo un modo per fomentare xenofobia e razzismo. Il nostro patto di convivenza rischia di andare in frantumi". Respingono le accuse di apologia di razzismo quelli di Udc che, per bocca di uno dei suoi esponenti di primo piano, Oskar Freysinger, ha fatto sapere che la misura mira solo a "ristabilire lo Stato di diritto e mettere un freno alla criminalità importata. Noi vogliamo ridurre la xenofobia facendo una chiara distinzione tra gli stranieri che delinquono e quelli che rispettano la legge".

Ma nelle città della piccola nazione europea si stanno riempiendo di manifesti denigratori nei confronti degli immigrati. Fra di essi anche i cittadini membri dell' Unione Europea, di cui la Svizzera non fa parte, e, quindi, gli stessi italiani diventati, nell'immaginario del partito di estrema destra, un gruppo di topi che rosicchiano una forma di Emmentaler: Stolz der Nation, orgoglio della nazione.

Antonio Marafioti

 

26 novembre

 

Geraldina Colotti

Violenza sulle donne, allarme nel mondo

In piazza o nei convegni, ieri, si è discusso di violenza contro le donne, nella giornata internazionale Onu dedicata a questo tema: in ricordo del 25 novembre 1961 quando, nella Repubblica Domenicana oppressa dalla dittatura del generale Rafael Trujillo (1930-1961), le sorelle Mirabal vennero torturate e uccise per ordine del dittatore.
Un tema ancora drammaticamente all'ordine del giorno oltre sessant'anni dopo la proclamazione della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. La violenza è ancora troppo spesso una delle principali cause di mortalità per le donne fra i 15 e i 44 anni. Violenze subite in contesti di guerra, di miseria o fra le pareti domestiche.

In Europa, una donna su quattro è vittima di violenza fisica almeno una volta nella vita, il che significa 62 milioni di casi solo a livello europeo. Il 10% delle donne ha subito violenza sessuale. In Francia, ogni quattro giorni una donna muore a causa delle percosse di mariti e conviventi. In Belgio, una donna su sette è stata vittima di almeno un atto di violenza da parte del suo partner, attuale o ex nel corso degli ultimi 12 mesi. In Serbia, dall'inizio dell'anno 26 donne sono state uccise da uomini che conoscevano, tutte vittime del proprio partner (21), dell'ex partner o del marito.

In Italia, dove negli ultimi anni il numero dei femminicidi è in aumento, sono 115 le donne uccise nel corso del 2010 a causa di violenze da parte degli uomini. In aumento, in particolare, la violenza domestica. Nello scorso anno, nel 36% dei casi, i responsabili degli omicidi sono stati i mariti, a seguire conviventi o partner (per il 18%), i parenti (il 13%), e gli ex-compagni per il 9%.
Di recente, alcune deputate europee, di diversa nazionalità e provenienza politica, hanno proposto al Parlamento europeo di istituire l'anno della violenza contro le donne, e chiedono ai cittadini europei di firmare la petizione sul sito www.violenceagainstwomen.eu.
In base a quanto stabilito dal Trattato di Lisbona, infatti, il cittadino - sulla base di una consistente raccolta di firme - può proporre alla Commissione europea nuove misure legislative: «Se saremo un milione a firmare nei prossimi dodici mesi - ha detto il deputato belga Marc Tarabella, uno dei promotori - la Commissione europea dovrà piegarsi».

Secondo le cifre dell'Onu - contestate dall'attuale governo congolese - oltre 4500 donne e bambine, alcune di soli 7 anni, sono state violentate tra il 30 luglio e il 2 agosto nei villaggi del Nord e Sud Kivu, nella Repubblica democratica del Congo. Solo nel villaggio di Luvungi, sarebbero stati commessi oltre 200 stupri in un giorno. Nel 2008 e nel 2009, le organizzazione umanitarie presenti nel paese hanno raccolto 15.000 denunce da parte delle donne. E contro l'impunità di questi crimini, oltre 20.000 donne in quelle zone sono di recente scese in piazza dopo un incontro internazionale organizzato dalla Marcia mondiale delle donne.

Ieri, decine di donne hanno manifestato a Gaza per chiedere che chiunque violi i loro diritti, «sia a livello verbale che fisico, psicologico o sessuale», venga punito dalla legge. In una conferenza stampa, la direttrice del Centro per le questioni femminili, Amal Siyam, ha chiesto all'Autorità nazionale palestinese (Anp) di «adottare leggi più severe per porre un freno alla violenza contro le donne» e di «varare normative che rendano merito all'impegno delle donne nella lotta contro l'occupazione israeliana e alla loro partecipazione attiva in tutti i campi». Siyam ha anche esortato i movimenti di Fatah e Hamas a mettere l'interesse nazionale davanti a quello di partito e giungere a un punto d'incontro in vista di una riconciliazione, così da potersi concentrare sul conflitto vero, ossia quello con Israele.
Ad Algeri, invece, la prevista conferenza internazionale sulla violenza contro le donne, non è stata permessa dalle autorità.
Anche in Italia, le donne sono scese in piazza. A Roma, hanno manifestato contro il progetto di legge regionale della consigliera Olimpia Tarzia, «un attacco all'autoderminazione femminile».

 

Honduras, è caccia ai gay

Il racconto di un uomo in fuga dopo minacce e attentati. La sua colpa? Essere omosessuale e lottare per far rispettare i suoi diritti

Ricardo Figueroa ha 42 anni e viene dall'Honduras. Il 13 aprile del 2010, giorno del suo compleanno, è dovuto fuggire, lasciando tutto e tutti, per rifugiarsi in Spagna. Nel suo bel paese, dal 28 giugno 2009 un golpe ha cambiato tutte le carte in tavola e il terrore regna sovrano. Chiunque dissenta, in qualsiasi modo, è un nemico dello Stato e va eliminato. E lui, con la sua omosessualità e il suo coraggio di schierarsi per veder riconosciuti diritto e rispetto, è fra i primi della lista nera. Da un mese ha ottenuto asilo politico in Spagna ed è da qui che racconta la sua storia a Periodismo Humano, un media alternativo improntato sulla difesa dei diritti umani e senza scopo di lucro.

I peggiori quattro mesi della sua vita, per Figueroa iniziano il 3 gennaio 2010. "Ero a Tegucigalpa e me ne stavo andando a lavoro tranquillo - racconta -. Nulla fino a quel momento mi aveva fatto nemmeno sospettare che il mio nome fosse in una lista nera", e questo nonostante da tempo fosse un attivista per i diritti degli omosessuali. "Cominciai con la sensibilizzazione sull'Aids e poi passammo a reclamare visibilità sociale e a difendere la partecipazione dei gay alla vita pubblica", spiega. Quindi arrivò il colpo di stato militare che portò dopo quattro mesi a elezioni regolate dal medesimo esercito e dalle medesime forze golpiste e "l'Honduras si è convertito in un paese diretto da omofobi". Così, fu naturale per il Lgtb, il gruppo di omosessuali a cui apparteneva Figueroa, mettersi dalla parte dell'opposizione e lottare.

Quel 3 gennaio stava andando in ufficio quando si fermò in un mercato nell'attesa che aprissero le porte. "Mi si avvicinò un uomo con abiti civili, ma movenze militari - spiega -. Iniziò a farmi mille domande. Dalle partite di calcio ad alcuni aneddoti sulla piazza dov'eravamo. Poi mi menzionò il golpe: voleva sapere cosa ne pensassi". A quel punto Ricardo cercò di non rispondere e cambia discorso. "Ma tornava sempre sul medesimo argomento e sulla resistenza. Capii che si trattava di un interrogatorio". E quando tenta di allontanarsi viene afferrato per un braccio e minacciato: "Sappiamo dove vivi, conosciamo il tuo quartiere, sappiamo tutto di te, Ricardo". L'arrivo di alcune ragazze lo distraggono e Figueroa colglie l'occasione al balzo: "Lo abbracciai e lo baciai. Mi spintonò e se ne andò via correndo". Poche ore più tardi, la Ong in difesa dei diritti umani Cofadeh inserisce il suo nome nell'elenco dei minacciati di morti.

Sono tante le organizzazioni internazionali che hanno denunciato l'ondata di omicidi contro omosessuali e transessuali nell'Honduras del golpe. "La differenza fra il nostro caso e quello di altri collettivi d'opposizione è che nei nostri confronti c'è l'aggravante dell'odio per la nostra omosessualità. Sono crimini molto più sadici. Di noi si predano. Un mio collega dell'associazione, Walter Trochas, lo hanno sequestrato tre volte, lo hanno torturato e gli hanno tagliato la lingua. Ad altri hanno tagliato i genitali".

Da quell'incidente al mercato Figueroa entrò in paranoia. Ma il secondo episodio accadde quando meno se l'aspettava. Fingendosi poliziotti, due uomini scesi da un'auto dai vetri oscurati gli chiesero i documenti e con una scusa volevano portarselo via. Rinunciarono perché Ricardo dimostrò di essersene accorto e disse di voler chiamare Cofadeh. Davanti al nome di quell'organizzazione, sparirono nel nulla. Poi arrivò il terzo tentativo, sempre per mano di uomini a bordo della medesima autovettura, che franò per l'aiuto di alcuni amici che riuscirono a metterli in fuga. E finalmente giunse l'ultimo tentativo, quello che lo convinse a darsela a gambe. Convinto a nascondersi per un po', i sicari lo raggiunsero anche nel suo ritiro in uno sperduto paesino di montagna. Gli spararono addosso, mancandolo. Il giorno dopo era imbarcato per la Spagna. "Quel giorno mi hanno portato via tutto, i miei cari, i miei affetti, la mia vita. Ho lasciato anche il mio compagno, con cui convivevo da cinque anni. Scappare è una mezza sconfitta. Mi hanno lasciato senza niente. Una parte di me è morta. Ci sono riusciti".

Stella Spinelli

 

Rosarno: peggio di un anno fa

di Giulia Cerino

Nel comune calabrese dove si ribellarono gli immigrati è ricominciata la raccolta delle arance. Ma non una delle promesse è stata mantenuta. Gli africani si nascondono nella boscaglia. E la 'ndrangheta li sta sostituendo con i bulgari

Il cementificio dismesso dove si pensava di ospitare gli stagionali verrà pronto (forse) nel 2012. Intanto però i vecchi rifugi sono stati distrutti. Così centinaia di persone passeranno l'inverno dormendo tra i cartoni Rosarno, comune di 15 mila abitanti in provincia di Reggio Calabria ad alta intensità migratoria.

Il 7 gennaio 2010 qualcuno spara diversi colpi con un'arma ad aria compressa su tre africani di ritorno dai campi. Segue la rivolta degli extracomunitari: scontri con la polizia, attacchi a negozi e automobili, gruppi di rosarnesi armati di mazze e bastoni che formano ronde per la caccia al nero. Più di 50, alla fine, i feriti: 18 poliziotti, 14 abitanti di Rosarno e 21 extracomunitari. Il tutto si chiude con il trasferimento dei migranti nei centri - in Puglia e Campania - e con una sequela di promesse della politica per progetti sociali e posti di lavoro.

E' passato un anno, la stagione della raccolta delle arance è ricominciata e a Rosarno non è cambiato nulla. Qualche esempio? La Cartiera, una fabbrica in disuso nella piana di Gioia Tauro, che secondo un protocollo firmato alla Prefettura di Reggio Calabria doveva diventare un nuovissimo 'centro d'aggregazione' per ospitare i migranti: piano arenato, non se n'è fatto nulla, la Cartiera è abbandonata. Oppure prendiamo l'appalto pubblico indetto per 'riqualificare' la zona circostante e costruire container che accogliessero i braccianti senza tetto: la gara è stata vinta da una ditta privata ma il progetto è naufragato dopo meno di due mesi a causa del ricorso dell'impresa arrivata seconda. Risultato, gli immigrati si apprestano a passare un altro inverno dormendo tra i cartoni. Poi c'è il progetto del ministero dell'Interno Maroni 'Obiettivo 2.5 1', l'unica iniziativa diretta del governo in zona dopo la guerriglia di un anno fa.

Il piano prevedeva che la Beton Medma di Rosarno, il cementificio confiscato al clan dei Bellocco, venisse smantellato per fare posto ad un edificio da 60 posti letto con uno spazio dedicato all'intrattenimento, uno al supporto scolastico dei bambini, uno sportello sociale ed uno per la formazione professionale, per un costo di 3 milioni di euro stanziati dallo Stato e 16 milioni di fondi europei .

Il cantiere è stato aperto nel meso d'ottobre, nove mesi dopo la rivolta. Ad andare benissimo, verrà pronto nel 2012. Ma il problema, spiega don Pino De Masi, responsabile dell'associazione Libera, è che «la situazione non solo non è migliorata, ma è addirittura peggiorata rispetto a un anno fa». Perché le baraccopoli dove vivevano i migranti sono state distrutte, «quindi adesso gli africani non hanno più nemmeno un tetto per ripararsi dalla pioggia o prendere l'acqua potabile». Poi l'agricoltura «va peggio di un anno fa», quindi le paghe già da schiavitù sono ulteriormente diminuite». In compenso in zona gira molta più polizia: «Il che è un bene, per carità», dice don Pino, «ma costringe i migranti, che vengono sempre assunti in nero, a una crescente clandestinità».

Per ora, la buona notizia è solo una: gli africani arrivati a Rosarno sono molti meno dell'anno scorso. Nel 2009 infatti erano circa 2.500, ora nessuno sa il numero preciso, ma si parla di circa 500-700 persone al massimo. Che si nascondono nelle campagne, nel timore dei controlli, o trovano rifugio in vecchi casolari abbandonati. Quando riescono, si attrezzano con generatori elettrici e cucine a gas di fortuna, materiale fornito dai volontari. Anche se sono pochi, tuttavia, gli africani fanno fatica a trovare lavoro nei campi. Un po' per i controlli della polizia, come s'è detto, un po' perché quest'autunno, a raccogliere arance e clementine, sono arrivati anche i bulgari. Che, da cittadini comunitari, non hanno problemi di permesso e possono essere sfruttati senza che le n'drine incorrano nel reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina.

Così tra gli africani c'è chi, appena arrivato per la stagione della raccolta, vuole già andarsene. Come Pike, ghanese e irregolare: «Forse quest'anno ho sbagliato a venire. I miei amici, quelli con cui dormivo alla stazione Termini di Roma, mi avevano detto di restare in città. Qui dormiamo nelle macchine, nei garage, nelle cantine sovraffollate. E non parliamo con nessuno».

Unico momento di socialità e di pace, la domenica, alla mensa di 'Mamma Africa': così è soprannominata Norina, una signora di 83 anni che nel '91 ha creato una specie di ristorante che una volta alla settimana offre un pasto caldo agli immigrati. La mensa di Mamma Africa era andata distrutta negli scontri di gennaio, ora ha riaperto i battenti.

In paese, comunque, gli immigrati sono ancora il tema principale di cui si parla, anche per questioni politiche. Il 28 e il 29 novembre infatti i rosarnesi sono chiamati alle urne, dopo due anni di commisariamento del Comune per mafia. Si elegge il nuovo sindaco e la sfida tra i candidati gira tutta intorno all'integrazione degli stranieri. Elisabetta Tripodi, candidata del centrosinistra, avvocato, propone il 'voucher' per i braccianti e la lotta alle infiltrazioni dei clan attraverso la stazione unica appaltante. Raimondo Paparatti, avvocato, candidato con il centrodestra, garantisce centri per migranti regolari e liste composte da volti nuovi. Giacomo Saccomanno, rappresentante dell'Udc e di una lista civica di centrodestra, avvocato pure lui, promette in caso di elezione di dare la delega alla legalità a un magistrato, potenziando l'antiracket.

Intanto a Rosarno hanno appena arrestato due carabinieri, con l'accusa di essere al soldo del clan Pesce, insomma della 'Ndrangheta. Nel blitz (22 persone in manette) è finito in galera anche Andrea Fortugno, trafficante di droga e armi: uno di quelli che un anno fa avevano sparato a raffica contro gli extracomunitari. A parlare con gli inquirenti è Giuseppina Pesce, figlia del vecchio boss Salvatore e cugina di Francesco, latitante, capo emergente con collegamenti che vanno da Roma al Veneto, fino all'Austria. Giuseppina ha 31 anni e ha iniziato a 'pentirsi' quando era a San Vittore, un paio di mesi fa. La lotta agli schiavisti mafiosi di Rosarno, dicono al tribunale di Reggio, oggi passa soprattutto attraverso di lei.

 

Bertolaso, l'ultima vergogna

di Marco Guzzetta

La moglie di un sottosegretario. I figli dei giudici amici, dei generali amici e dei boiardi amici. Perfino la nipote di un cardinale. Tutti assunti (a tempo indeterminato) dalla Protezione civile un minuto prima del cambio della guardia. Con soldi sottratti ai terremotati

Guido BertolasoQuesto si chiama "mettere in sicurezza", solo che più dell'Italia sommersa dalle alluvioni la Protezione civile sembra esperta nel rendere sicure le poltrone del suo personale. E così mentre tutto frana, Guido Bertolaso stabilizza i suoi fedelissimi: 150 precari, spesso d'alto rango, vengono assunti nel botto finale della gestione che ha alternato successi a scandali fino a diventare nel bene e nel male simbolo del modello berlusconiano di governo. Tutto grazie a una nuova legge che prevede "l'assunzione di personale a tempo indeterminato, mediante valorizzazione delle esperienze acquisite presso il Dipartimento dal personale titolare di contratto di collaborazione coordinata e continuativa".

Mentre la pubblica amministrazione falcia i ranghi e il precariato diventa condizione di vita, negli uffici che dipendono da Palazzo Chigi c'è un'ondata di piena di assunzioni che garantisce lo stipendio per figli di magistrati e di prefetti, per mogli di sottosegretari e nipoti di cardinali. Tutti benedetti da una selezione su misura, alla quale ha potuto partecipare solo chi aveva già un contratto precario con il Dipartimento. Un esame affidato a una commissione interna, con poche domande rituali e procedure concluse entro l'estate: così gli ex cococo sono ormai a tutti gli effetti in pianta organica.

E rilette oggi, dopo i crolli di Pompei, le motivazioni che sostengono questa falange di assunzioni hanno un po' il sapore della farsa di fine impero: il testo della deroga al blocco imposto da Tremonti sostiene la necessità di quel personale "anche con riferimento alle complesse iniziative in atto per la tutela del patrimonio culturale". Ma è solo il botto finale: quando Bertolaso nel 2001 mise piede sulla tolda di comando l'organico si basava su 320 unità, passate a 590 nel 2006 e schizzate a quasi 900 alla fine del suo mandato. Cinquecento persone in più in nove anni, con uffici lievitati emergenza dopo emergenza, sempre a colpi di ordinanza e mai in forza di un concorso. Un vero e proprio esercito in cui spiccano gli oltre 60 autisti, distaccati dalle forze dell'ordine, per i dirigenti. L'apoteosi di un sistema di potere nato con il Giubileo del 2000, spalancando le porte degli uffici a figli, nipoti, familiari e amici dell'establishment istituzionale

E poi, sono arrivati i fedelissimi coltivati a Napoli nelle molteplici crisi dei rifiuti. Un posto per tutti grazie alle parentele giuste nell'esercito o nei servizi segreti, a Palazzo Chigi o in Vaticano, al Viminale o in magistratura, fino a creare una ragnatela di relazioni che sembra plasmata ad hoc per creare consenso verso le attività del Dipartimento e per non disturbare il suo manovratore.

Le parentele scomode iniziano ovviamente da Francesco Piermarini, l'ingegnere-cognato del sottosegretario Bertolaso, mandato tra i cantieri della Maddalena. Ma scorrendo la lista dei beneficiati si svela una rete di favori senza soluzione di continuità. Tra i primi ad essere stabilizzati, a metà di questo decennio, sono stati gli uomini della scorta di Francesco Rutelli in Campidoglio. Dieci "pizzardoni" passati senza semafori dalla polizia municipale di Roma al dipartimento di Palazzo Chigi. Dal fil rouge che lega il Giubileo alla Protezione civile spuntano anche tre supermanager del calibro di Agostino Miozzo, Marcello Fiori e Bernardo De Bernardinis. Facevano parte dell'unità di staff del Giubileo e, grazie al decreto rifiuti del 2008, entrano nel Gotha dei dirigenti generali della presidenza del Consiglio con norma ad personam, e un contratto da 180 mila euro l'anno. Ma sono stati ingaggiati anche ottuagenari che arrotondano la pensione grazie ai munifici gettoni delle emergenze: è il caso dell'83enne Domenico Rivelli, chiamato come "collaboratore per le problematiche amministrativo-contabili per i rifiuti a Napoli".

Storie vecchie, mentre con la stabilizzazione di fine mandato arriva Barbara Altomonte, moglie del sottosegretario Francesco Giro, docente di scuola superiore ed ora dirigente del Dipartimento. E non è certo un caso che in questa ondata la parte del leone la facciano uomini e donne legati a doppio filo con la Corte dei conti, ossia la magistratura che deve vigilare anche sulle spese della Protezione civile.

Proprio nella "sezione di controllo" della Corte un magistrato e due funzionari possono vantare le assunzioni dei propri figli al Dipartimento: si tratta del giudice Rocco Colicchio, di Carmen Iannacone, addetta al controllo degli atti della presidenza del Consiglio, e della segretaria generale Gabriella Palmieri. Spazio anche a Marco Conti, figlio di un altro giudice contabile. Invece Giovanna Andreozzi è stata chiamata dopo il sisma dell'Aquila con l'incarico di direttore generale per vigilare sugli appalti: proviene dalla sezione campana della Corte, presieduta da Mario Sancetta, magistrato sfiorato da più di un sospetto nell'inchiesta sulla Cricca per le relazioni con Angelo Balducci, l'ex numero uno delle opere pubbliche. Tra l'altro, per la Andreozzi è stato attivato un servizio di navetta ad personam tra Roma Termini e gli uffici del Dipartimento.

Quanto alla magistratura, tra gli assunti c'è anche Giovanni De Siervo, figlio del vicepresidente della Consulta Ugo: era entrato come precario con l'ordinanza per l'esondazione del Sarno ora è fisso al reparto "relazioni con gli organismi internazionali". Con l'ultima chiamata per i fedelissimi di Bertolaso, arriva il posto definitivo per Carola Angioni, figlia del pluridecorato generale Franco, capo della missione italiana in Libano ed ex parlamentare Pd. Carola Angioni è entrata come collaboratrice per l'emergenza traffico di Napoli e, dopo essersi occupata di smog, è passata ordinanza dopo ordinanza ai temporali del Veneto, dedicandosi, nel frattempo a qualche puntata in Croazia come ambasciatrice del dipartimento. La legge offre certezza occupazionale anche a Marta Sica, figlia del vicesegretario generale di palazzo Chigi; alla nipote del cardinale Achille Silvestrini; alla figlia del prefetto Anna Maria D'Ascenzo, (ex capo del dipartimento dei vigili del fuoco) e a quella del colonnello Roberto Babusci (una volta responsabile del centro operativo aereo della Protezione civile).

A loro, infine vanno aggiunti altri parenti illustri, legati all'ex presidente Rai Ettore Bernabei, al sindacalista della presidenza del Consiglio Mario Ferrazzano e a Giuseppina Perozzi, capo del personale di palazzo Chigi. Una manifestazione di potere assoluto cui si oppongono i sindacati, con un ricorso contro i metodi selettivi di quest'ultima raffica di assunzioni che verrà discusso a febbraio prossimo di fronte al Tar del Lazio. Anche perché l'ultima ondata dei Bertolaso boys costerà ben otto milioni di euro, in gran parte sottratti ai fondi per l'Abruzzo terremotato.

 

25 novembre

La conoscenza nel mirino del potere

Colloquio con Girolamo De Michele di Franz Baraggino

Quella del ministro Gelmini non è una semplice riforma. I tagli alla pubblica istruzione misurano l'involuzione del Paese e i rischi che corriamo. Economia, lavoro, welfare, globalizzazione. Tutto dipende dalla salute della scuola pubblica, imprescindibile indice di democrazia. Considerata la posta in gioco, non può trattarsi di una questione di risorse.
Dati alla mano, è il buon senso (nonché gli anni di insegnamento) a guidare Girolamo De Michele nelle analisi che smontano le ragioni del governo. Dai programmi ministeriali al precariato, l'autore di " La scuola è di tutti. Ripensarla, costruirla, difenderla" (Minimum Fax) attraversa l'intero pianeta scuola, smascherando la miopia di una classe dirigente che non valorizza la conoscenza perché non ne comprende il potenziale. O peggio, perché lo teme.

Volendo fare una premessa, che tipo di società e quale Paese hanno in mente coloro che si definiscono 'uomini del fare'?
Una società di uomini dalla mente semplice, che ha bisogno di stimoli semplici, elementari, facili da interpretare. Una società di gente comune, che non ha tempo di leggere libri: che lascia a chi governa la fatica di pensare per sé e per tutti. Una società che coltiva come un fibroma dellanima il rancore, affinché ogni problema, ogni ostacolo, ogni contrarietà sia risolto sfogando la propria frustrazione sul vicino: extracomunitario, meridionale, del quartiere di periferia, del pianerottolo di sotto. Una società di superbi, vittime delle illusioni e delle passioni tristi, già narrata da Leopardi nelDiscorso sui costumi deglitalianie nellaGinestra.

Insomma, non dovremmo stupirci. Eppure la scelta di tagliare le risorse è tutt'altro che scontata. Perché i tagli?
Per due ragioni. La prima: nellistruzione e nella formazione cè un enorme potenziale di rendita economica per i privati, le lobbies, i gruppi di potere: e-learning, educazione a distanza, apprendimento per tutta la vita, formazione e aggiornamento, e via dicendo. A condizione che alla scuola pubblica sia impedito di entrare in relazione con la società e farsi carico, in modo democratico ed egualitario, del sistema educativo.
La seconda ragione è lanalfabetismo culturale della nostra classe dirigente, incapace di leggere la società globale con strumenti aggiornati. Siamo governati da una classe dirigente incapace di pianificazione a medio termine, che pensa che il capitalismo sia accumulare luovo oggi fregandosene della gallina domani, che non capisce (perché sui quattro libri che ha letto non cè scritto) che oggi, nella società della conoscenza e della comunicazione, conoscenza, sapere, linguaggi sono immediatamente traducibili in valore.

I soldi per le private però li hanno trovati anche quest'anno.
Basta vedere in quali posizioni di rilievo, allinterno degli apparati del ministero dellistruzione, sono stati collocati gli uomini e le donne della lobby di CL (che sarebbe ora di chiamare una volta per tutte Comunione e Fatturazione) per capire perché i soldi per le scuole private non mancano mai. Soprattutto quelli nascosti tra le pieghe della finanziaria, come nel caso dei fondi per la scuola privata della moglie di Bossi.

Secondo Giulio Tremonti, allo stato attuale la scuola pubblica è un salasso. È possibile smontare questa teoria?
Non ci vuole molto: basta leggere i dati ufficiali, cioè quelli ministeriali. Il bilancio dellistruzione è, in rapporto al PIL, al di sotto della media europea; la quota di bilancio per listruzione, allinterno della spesa generale dello Stato, è di nuovo al di sotto della media europea. Le spese per listruzione, al 2008 (cioè prima del ritorno di Tremonti al governo), erano in costante diminuzione. Il numero di insegnanti, come pure quello degli edifici scolastici, erano, al 2008, in costante diminuzione. La quota di spesa per listruzione sostenuta dagli enti locali, allinterno della spesa generale per listruzione, è in costante aumento, ed è più alta della media europea. Mentre gli alunni aumentano, i lavoratori della scuola diminuiscono. Non cè bilancio più controllabile e controllato di quello dellistruzione, insomma. E non è una buona notizia.

Ben oltre lo svolgimento dei programmi ministeriali, il suo libro riconosce il ruolo sociale che la scuola si è sempre assunta. Di cosa si tratta?

La scuola svolge un positivo e indispensabile ruolo di ammortizzatore sociale. Gli ammortizzatori sociali sono come lolio nel motore delle automobili: consentono alle varie parti di funzionare in modo integrato e impediscono al motore, cioè alla società, di grippare, di rompersi, di arrestarsi. La scuola si fa carico dellalfabetizzazione dei giovani migranti; della cura dei ragazzi, in supplenza di quellattenzione che la famiglia, sottoposta ai ritmi di lavoro della società globale, non riesce a prestare; di una funzione di supporto psicologico per i ragazzi travolti dalla crisi dellistituzione familiare; di recupero della devianza e del disagio sociale, perché la percentuale di cosiddetti bulli che la scuola recupera è ben più alta di quella di altre specifiche istituzioni disciplinari (carcere, comunità di recupero). E soprattutto, è ormai lunico luogo nel quale quei meta-valori tradotti in diritti costituzionali libertà, democrazia, partecipazione, uguaglianza, giustizia sociale che costituiscono lossatura della società italiana sono appresi, discussi, interiorizzati.

Di sinistra, poco meritocratica, piena di insegnanti fannulloni. Perché è diventato così facile attaccare la scuola pubblica?
Perché abbiamo tutti tirato due calci a un pallone e siamo tutti stati a scuola, da piccoli. E quindi siamo bravissimi a criticare lallenatore della nostra squadra, soprattutto se è la nazionale, e a parlar male della scuola. È una tipica modalità di una società governata da passioni tristi, rancorose e a costo zero: una società che si rispecchia nelle telerisse, a partire da quelle tra cosiddetti giornalisti sportivi, e ne mima i comportamenti nella quotidianità. Non è un caso che prima di dare un incarico politico a una figura di secondo piano li si fa passare per qualche mese nei programmi di gossip o da Biscardi.

Il mondo del lavoro è cambiato molto più di quanto non abbia fatto quello della scuola. Quali rischi comporta questo divario?
Corriamo il rischio di una società nella quale il divario tra unélite dotata degli strumenti intellettuali e cognitivi necessari per governare la società complessa, e la gran parte della popolazione immobilizzata nelle paludi dellanalfabetismo di ritorno, si allarga. Nella società complessa è indispensabile avere una mente ricca, plurale, in grado di imparare ad imparare per apprendere le novità che ogni giorno invadono la nostra quotidianità, e senza il cui controllo siamo cittadini di serie B; se questo diventa privilegio di pochi, in una società come quella italiana, che è tra quelle con la più alta rigidità sociale nellOccidente, corriamo un grave rischio: di pagare la stabilizzazione dei gruppi di potere, il controllo sociale, la cosiddetta governance, con la perdita di posizioni rispetto ai paesi industrialmente avanzati. Del resto il capitalismo italiano non è mai stato particolarmente progressivo, e ha sempre preferito il controllo sociale al progresso industriale.

Considerato il contesto, smartphones, facebook, google, sono amici o nemici della scuola?
Né luno né laltro. Esistono, come esistevano ieri le lavagne e i calamai. Sono strumenti che, se utilizzati con consapevolezza critica, consentono di allargare la mente e superare limiti cognitivi; se utilizzati in modo passivo e acritico, aumentano la passività e limpotenza della mente. La scuola non deve né ignorarne lesistenza in nome del ricordo dei bei tempi che furono, né farsi invadere acriticamente dalla loro presenza.

Molti insegnanti lavorano con contratti di dieci mesi, rinnovati di anno in anno, col rischio di rimanere precari fino alla pensione. È possibile calcolare il danno?
Aggiungo: con salari che restano sempre al livello più basso, perché per i precari non ci sono mai scatti di anzianità: in violazione di una norma dello Stato che viene applicata solo (guarda caso) per gli insegnanti di religione. Il danno sociale è enorme, se solo pensiamo alla mancata progettazione di unesistenza degna di essere vissuta; ed anche in termini di crescita economica, perché si tratta di unintera generazione che non può permettersi di andare in vacanza, di andare al ristorante, di fare un cambio dabito ogni anno. E pensare che basterebbe poco per regolarizzare i precari che già lavorano nella scuola, e che sono, tra docenti e non docenti, circa 180.000. Ad esempio, per assumere i primi 40.000 basterebbe reintrodurre lICI sulla seconda casa; per altri 40.000 basterebbe ridurre gli sprechi del nostro esercito, prepensionando gli ufficiali in eccesso, trasferendo alla protezione civile i soldati in sovrappiù rispetto alle richieste dellUnione Europea e dismettendo gli edifici inutilizzati, che potrebbero ridare ossigeno al mercato delle abitazioni.

Il ministro Gelmini ha garantito che entro una decina d'anni tutti i precari della scuola saranno assorbiti. Le crede?
È una menzogna colossale. Il blocco dei contratti (e, al momento, anche degli scatti di anzianità, sul quale si rincorrono voci per ora prive di certezza) costringerà molti lavoratori che potrebbero andare in pensione a posticipare luscita dalla scuola, per non avere peggiori condizioni di vita per lintera vecchiaia. E quindi ci saranno meno uscite del previsto. E in ogni caso i posti lasciati liberi dai pensionamenti non restano a disposizione dei precari, ma sono tagliati via, e quindi scompaiono del tutto; le materie tagliate via dal riordino dei cicli delle scuole superiori scompaiono, e con loro le cattedre, questanno dalle prime, il prossimo anno da prime e seconde, e via dicendo. Non dimentichiamoci che i tagli non sono finiti: il prossimo anno salteranno altri 30.000 posti di lavoro.

La protesta, anche in questi giorni, continua a crescere. Insegnare è ancora il mestiere più bello del mondo?
Non so se sia mai stato il mestiere più bello del mondo: è un mestiere faticoso (un buon insegnante è, tra i pubblici dipendenti, quello che lavora il maggior numero di ore allanno), stressante (basta vedere i casi di malattie professionali, come il burn out, in aumento), poco interessante dal punto di vista della società dellapparire, del glamour, dei salotti televisivi. Ed è un mestiere che ha dei tempi particolari, che quasi sempre non consentono di integrare il magro salario con una seconda attività: il precario, una volta entrato nellingranaggio della scuola, non può uscirne, anche se quello che guadagna non gli basta. Ma una cosa va detta con chiarezza: ad illudere i precari, facendo spendere loro migliaia di euro per le Scuole di formazione (le SSIS), non sono stati fantomatici governi comunisti, ma il ministro Moratti e la sottosegretaria Valentina Aprea, ai tempi del secondo governo Berlusconi.

Pensando la difesa della scuola come difesa di un bene comune vengono in mente le battaglie per l'acqua pubblica. Il business e gli interessi privati minacciano anche la scuola?
Si, certo. Le lobbies private, a cominciare dalla galassia che orbita attorno a Comunione e Fatturazione, hanno enormi capitali da investire. Ma non hanno unofferta formativa in grado di competere con la scuola pubblica: le nostre scuole private, ci dicono quei test tanto graditi al ministro, sono le peggiori del mondo, e comunque ben peggiori della scuola pubblica. E dunque hanno bisogno di abbassare, e di molto, il livello della scuola pubblica. Però, in tutta franchezza, io non ho molta voglia di prendermela con la destra perché fa il suo mestiere, cioè fa la destra. È con lopposizione parlamentare, che non ha mai detto che lacqua è un bene comune (neanche Bersani a Vieni via con me!), che con lex-ministro Fioroni lancia profferte di collaborazione a Gelmini, che me la prendo. È solo un caso che su scuola e acqua il cosiddetto centro-sinistra balbetta?

 

Così B. uccide il Sud

di Gianluca Di Feo

Smantellata la struttura che aveva gestito l'emergenza del 2008, ora il governo riversa soldi a pioggia e senza gare d'appalto. Arricchendo i sottopoteri che da queste crisi traggono il massimo vantaggio
L'eruzione dei rifiuti, la desolazione di Pompei. Oggi come tre anni fa, in un agghiacciante deja vu che a Napoli mostra tutti i difetti dell'Italia e la sua incapacità di cambiare. E un unico punto di riferimento, che senza forzare i toni di una politica dove le urla sostituiscono i fatti cerca di salvare la credibilità delle istituzioni: il capo dello Stato.

Giorgio Napolitano ha imposto di intervenire sulla questione della spazzatura che invade le strade della terza città del Paese, la capitale di un Sud sempre più lontano dall'Europa. Ed è stato sempre il Quirinale a denunciare le condizioni della più grande area archeologica del mondo, un tesoro che non ha pari e che - come dimostra la videoinchiesta di Claudio Pappaianni per 'L'espresso' - continua a essere gestito in modo indecente: «È una vergogna, servono spiegazioni», ha dichiarato il presidente dopo il crollo della Domus dei Gladiatori.

Ma tre settimane dopo non ci sono state spiegazioni su come sia stato possibile arrivare a tanto degrado, né davanti alle Camere il ministro Bondi ha saputo indicare le responsabilità del disastro.

In compenso, le inchieste de 'L'espresso' hanno dimostrato come il commissariamento degli scavi abbia seguito il solito copione allegro della Protezione civile, con milioni di euro sprecati per iniziative effimere, per creare un'immagine di successo che occultasse la realtà, per elargire contratti a società di amici dei potenti.

Mentre Pompei va alla deriva, nelle strade di Napoli la spazzatura continua ad accumularsi. E quali sono le soluzioni del governo del fare? Evocare l'intervento dell'Esercito, come ha fatto il ministro della Difesa Ignazio La Russa.

I militari hanno avuto un ruolo chiave nella soluzione della grande crisi del 2008, quella che ferì la credibilità dell'esecutivo di Romano Prodi, e si sono occupati della regia della struttura creata da Guido Bertolaso in Campania: la struttura smantellata la scorsa primavera quando Silvio Berlusconi ha decretato il ritorno alla normalità e il passaggio di consegne alle Province, organismi amministrati da politici di centrodestra. Personaggi come Luigino Cesaro, che in gioventù frequentava i boss cutoliani; Cosimo Sibilia, figlio del discusso patron dell'Avellino Calcio; Edmondo Cirielli, che ha dato il nome a quella legge spesso chiamata "salva Previti".
L'effetto si è visto: la normalità non esiste, i termovalorizzatori annunciati nel 2008 rimangono sulla carta, le discariche sono piene, nessuna regione sembra disposta ad accettare rifiuti campani che potrebbero nascondere qualunque genere di sostanza tossica. I no più decisi vengono proprio dai governatori di centrodestra, mentre solo la "rossa" Toscana ha mostrato un'apertura di solidarietà.

A Napoli martedì 23 novembre si stimava che 3200 tonnellate di rifiuti fossero sparse per le strade. Ma il ministro della Salute Fazio tranquillizza: la situazione è critica, ma non c'è il rischio di epidemia. Epidemia: uno spettro che oggi riguarda solo Haiti, paese tra i più poveri del globo, distrutto da uno dei terremoti più violenti mai visti. Epidemia, un termine che sembrava cancellato dai dizionari europei e che invece continua a essere evocato nel timore che l'onda della spazzatura non venga fermata.

Il decreto finalmente varato dal governo, dopo l'esplosione di una faida interna al Pdl che dalla Campania ha minacciato la stabilità dell'intero esecutivo con la sortita di Mara Carfagna, non sembra garantire soluzioni definitive. L'unico elemento concreto sono i soldi, l'ennesima pioggia di milioni assegnati senza gare che permetteranno di trovare nuovi buchi dove accumulare munnezza ed ecoballe. Denaro che andrà ad arricchire anche la camorra, protagonista di queste emergenze come dimostrano le accuse confermate dalla Cassazione a Nicola Cosentino, l'ex sottosegretario che resta il numero uno del partito di maggioranza in Campania.

Ventitre novembre. Una data che tutti dovrebbero ricordare. Trent'anni fa il terremoto devastò quattro province, uccise quasi tremila persone, ne ferì più di ottomila e ne lasciò 280 mila senza una casa. Nonostante gli scandali successivi, quella - come ricorda Antonello Caporale in uno splendido volume, 'Terremoti Spa' - fu una tragedia che unì l'Italia: dal Friuli al Piemonte, ci fu una gara per sostenere Napoli, Avellino, Potenza.

Oggi il disastro quotidiano della Campania invece incentiva solo le spinte verso il federalismo più esasperato, ribadite con forza in questi giorni. Colpa anche di una classe politica che - come recita sempre il libro di Caporale - dall'Irpinia all'Aquila sfrutta le disgrazie e divide il Paese.

 

Israele, muro contro i migranti

Iniziano i lavori della barriera al confine con l'Egitto, sigillerà 110 chilometri di frontiera
I muri nel mondo sono sempre di più, ma cominciano a scarseggiare i nomi con cui chiamarli. Quello che lo Stato d'Israele ha iniziato a costruire ieri al confine con l'Egitto, ad esempio, viene chiamato nei documenti ufficiali israeliani 'barriera anti-infiltrazione'.

Dove gli 'infiltrati' sono i migranti in fuga da Sudan, Etiopia, Somalia ed Eritrea. Il progetto, approvato dal parlamento israeliano a marzo, è diventato operativo ieri. La spesa preventivata è di circa 270 milioni di euro, ma per l'opposizione israeliana costerà molto di più. Verrà edificato un vero e proprio muro lungo 110 dei 240 chilometri di confine tra Egitto e Israele. Il resto sarà dotato di tecnologie avanzate, comprese di sensori e video sorveglianza, oltre che monitorate da ingenti forze di polizia e militari.

Obiettivo dichiarato quello di impedire ai circa mille migranti che attraversano il confine ogni settimana, provenienti dall'Africa. Questi sono i dati di Ytzhak Ahakonovic, ministro israeliano della Sicurezza Interna, mentre l'Authority israeliana che si occupa di migranti li quantifica in circa settecento settimanali. Mentre si discute sui numeri, non è controversa la linea politica dell'esecutivo di Tel Aviv. Il premier Benjamin Netanyahu, in passato, ha definito i migranti illegali ''una grave minaccia per l'essenza ebraica e democratica d'Israele''.

L'unica minaccia certa per la democrazia, per ora, sono solo le guardie di frontiera israeliane ed egiziane. Nel 2009 sono stati trenta i migranti uccisi a sangue freddo, nel 2008 sono stati quaranta. La polizia egiziana si è sempre difesa dicendo che il fuoco viene aperto solo quando i migranti non si fermano alle intimazioni dei poliziotti del Cairo, ma le organizzazioni internazionali che si battono per la difesa dei diritti dell'uomo hanno sempre denunciato i metodi brutali delle guardie di frontiera egiziane.

Il muro, in realtà, va a completare il sistema di sicurezza integrato tra Israele e l'Egitto. Il Cairo ha costruito una barriera sotterranea, nel deserto del Sinai, per sigillare i tunnel che passano sotto il confine con Gaza. La parte settentrionale del muro israeliano finirà per ricongiungersi con la barriera egiziana.

Gli ingressi illegali, secondo il governo d'Israele, sono aumentati del trecento per cento durante l'ultimo anno, arrivando a oltre diecimila in un anno. Secondo l'Istituto di Statistica di Tel Aviv, sono illegali oltre il quaranta per cento dei lavoratori immigrati in Israele. Il campione della crociata contro di loro è Eli Yishai, ministro degli Interni israeliano. Lui è l'inventore della Brigata Oz, reparto scelto di polizia con il compito preciso di dare la caccia agli invisibili privi di documenti.

Ancora Yishai aveva proposto l' espulsione anche dei minorenni, figli dei sans-papier. Secondo l'ultimo progetto di Yishai, almeno ottocento di loro saranno espulsi al compimento del ventunesimo anno di età. Si tratta di migliaia di bambini, che per ora vengono difesi dalle organizzazioni non governative e da un pugno di deputati, ma non si sa per quanto tempo.

Christian Elia

 

Carroccio sprecone

Scuole di dialetto. Arredi d'oro. Ricchi corredi per le ronde. Fumetti storici pieni di errori. Così la Lega usa i fondi pubblici

di Tommaso Cerno

Di Alberto da Giussano, ferisce più la penna della spada. Satinata, punta extrafine, dannatamente pericolosa, è l'ultima trovata propagandistica della Lega nel suo feudo del Nord-est. Centinaia di biro griffate con il "Sole delle Alpi", che sparano litri di peperoncino sugli immigrati pericolosi. E soprattutto fanno campagna elettorale nelle borsette firmate delle elettrici. Le donne non devono più temere, perché nel lungo elenco di sprechi targati Carroccio c'è pure questo sofisticato arnese. Il veleno è un estratto di pepe rosso in percentuali conformi alla normativa comunitaria, recitano le istruzioni. Il getto spara fino a due metri con precisione svizzera. E come al solito, a pagare ci penserà Pantalone.

Che mai volete che sia qualche migliaia di euro magari tagliati dai bilanci della polizia, se nel corpo a corpo con l'aggressore si potrà sfoderare l'arma con le insegne di Bossi? Non sono le cattedrali nel deserto a cui ci ha abituato la Prima Repubblica. Né le maxi tangenti girate all'imprenditore di turno. Il verbo leghista ha un accento diverso da Roma anche quando spende male. Sembrano pochi spiccioli, ma quei rivoli di denaro pubblico che si sommano ad altri rivoli senza farsi notare, una volta a valle formano un lago di sprechi local sempre più profondo.

C'è di tutto nelle pieghe dei bilanci targati Lega Nord. E il colpo di grazia lo danno quasi sempre i capitoli caldi del gergo padano: cultura, prodotti locali e sicurezza. Che non scatenano solo le polemiche, come nel caso dell'Inno di Mameli sostituito in Veneto con il Va' Pensiero. Ma soprattutto esborsi di soldi. Sempre pubblici. Gli scolari lombardi forse non sanno che il fumetto camuffato da libro di storia che si sono visti distribuire qualche tempo fa è costato alla Regione 105 mila euro per 10 mila copie. Un bell'elenco di refusi storici, forse non voluti, ma pagati a caro prezzo: le incisioni rupestri dei Camuni datate 3000 dopo Cristo, un passaggio che sembra attribuire la strage di piazza Fontana ai sessantottini, i galli che cantano "we are the padan cocks" e Garibaldi che scompare dalla storia dell'Unità d'Italia.

A Trieste c'erano arrivati per primi con una legge ad hoc sulle origini celtiche del popolo friulano, costata 6 miliardi di vecchie lire e documentari etnici da 200 mila euro a botta. Senza contare lo studio della lingua locale nelle scuole, costato finora oltre 35 milioni anche grazie ai baracconi come l'Arlef, l'Agenzia regionale che lo gestisce, dove fra presidente e cda le poltrone sono cinque volte i dipendenti, per un costo mensile di quasi 100 mila euro.

In Veneto le polemiche sono esplose lo scorso marzo in piena campagna elettorale. Nemmeno l'ex ministro leghista Luca Zaia, eletto governatore a furor di popolo, lesinava in quanto a spesa pubblica proprio nei giorni in cui il Senatùr tuonava da Gemonio ordinando ai suoi di "portare le forbici in Regione per tagliare gli sprechi".

Chi ha sfogliato la rivista "Il Welfare", stampata da Buonitalia spa (società partecipata dal ministero delle Politiche agricole) e costata alle casse pubbliche 5 milioni di euro, avrà di certo apprezzato il book fotografico del nuovo Doge, distribuito a migliaia di famiglie venete. Ritraeva Zaia in differenti mise: dal gessato allo sportivo, fra bottiglie di vino, formaggi e salumi. Se poi qualcuno non l'avesse ricevuto, bastava dare un'occhiata al portale del ministero. Fino alla notte del 18 marzo, denuncia un esposto alla Procura di Padova, vi comparivano i manifesti elettorali del ministro. Cliccandoci sopra, poi, l'utente-navigatore veniva collegato al sito della campagna elettorale sotto lo slogan "Prima il Veneto". Sempre al ministero, gli statali in orario di lavoro garantivano la visione in rete di spot elettorali, messaggi politici, materiali personali del candidato leghista. Caricati dall'utente "Mipaaf", che altro non è che la sigla del dicastero romano.

C'è pure un taglio del nastro che ha scatenato la bufera. Quello, sempre voluto dalla Lega, del faraonico palazzo della Provincia di Treviso all'ex manicomio di Sant'Artemio. Un appalto che doveva costare 35 milioni di euro, ma che è lievitato fino a 80 milioni. E se qualcuno ripete che sono aumenti fisiologici, lo scontrino degli arredi parla chiaro: 12.840 euro sonanti per un solo tavolo e 531.426 euro per le sedie. Al punto che l'Italia dei Valori proclamò il "No spreco day", ricordando i tanti, si fa per dire piccoli, sperperi leghisti: la grigliata da 70 mila euro per lanciare le vacche venete o i tour promozionali dei prodotti Doc con sponsorizzazioni milionarie.

Fino agli incarichi ai parenti: promozioni e aumenti di stipendio per mogli, fratelli e amici. Tutto targato Carroccio. Stefania Villanova, la consorte del sindaco di Verona Flavio Tosi fu nominata a capo della segreteria dell'assessorato alla sanità della Regione senza concorso, ma a stipendio triplo. Oppure il caso dei fratelli Conte, che realizzarono con le congratulazioni pubbliche del sindaco di Tombolo un polo scolastico a ridosso delle regionali, affidando la progettazione in via fiduciaria all'architetto Tiziano, appunto Conte, fratello del consigliere Maurizio, anche lui Conte. Un lavoretto coi fiocchi per i tagliatori di nastri, meno per la pioggia che allagò dopo pochi mesi il piano superiore.
Se il buongiorno si vede dal mattino, presto anche il Piemonte, da poco passato alla Lega, potrebbe adeguarsi ai ritmi delle altre regioni padane.

Il neogovernatore Roberto Cota, che teme per l'esito del ricorso al Tar presentato da Mercedes Bresso, ha subito preso carta e penna e chiesto al Parlamento di concedergli più tempo per optare fra la poltrona piemontese e lo scranno romano. Un doppio incarico, che significa anche doppio stipendio. Ma non è un record. Di multi-poltrone la Lega è golosa. L'avvocato Paolo Marchioni, vicino al ministro Roberto Calderoli, è cristianamente trino: vicepresidente della Provincia del Verbano, assessore al bilancio, membro del cda dell'Eni alla modica cifra di 135 mila euro l'anno. Oppure Leonardo Ambrogio Carioni, sindaco di Turate, presidente della Provincia di Como, presidente dell'Unione delle province lombarde, di Sviluppo Sistema Fiere, senza contare il posto nel consiglio di amministrazione della Pedemontana veneta e dell'Expo 2015 a Milano. Per stargli dietro in questo peregrinare fra stipendi e prebende ci vorrebbero proprio le ronde.

Ennesimo spot che dura (e costa) da anni. Si inneggia al farsi giustizia da sé, nell'illusione del risparmio. Ma a guardar bene non è quasi mai così. Anche stavolta fra i primi a partire ci sono i friulani. Popolo di risparmiatori, tanto da avere varato per volontà dell'assessore leghista Federica Seganti un piano sicurezza da 16 milioni di euro fra volontari bardati di spray e camicie verdi, pistole per i vigili dei piccoli paesi e telecamere un po' ovunque. Un tesoretto che serve soprattutto a rifarsi il guardaroba. Visto che, non appena la scure della crisi ha costretto la regione a decimare i fondi in bilancio, riducendoli a un milione, l'assessore ha mantenuto come priorità proprio l'addestramento dei fedeli guardiani leghisti. Tutti rigorosamente in divisa. Giacconi invernali ed estivi, uniformi, radio per chi diventerà guardia padana. Peccato che, sfogliando i curriculum in Regione, più che ronde contro il crimine sembreranno passeggiate ai giardinetti. Delle poche domande trasmesse agli uffici, circa due iscritti su tre hanno passato i 65 anni di età. E chiedono le divise. Per passare qualche pomeriggio a spasso a godersi il sole. E gli sprechi leghisti.

 

22 novembre

LA CITTA’ SOPRA LE MACERIE

Eleonora Martini

«L'Italia s'è desta con L'Aquila in testa». Non è proprio una frase da comunisti e la signora che la mostra su uno dei tanti cartelli fatti in casa, portati stoicamente in corteo fino a quando la pioggia incessante non ne ha fatto carta straccia, sicuramente non lo è. A centinaia gli aquilani come lei fin dal mattino si erano messi in fila per firmare la legge di iniziativa popolare nei banchetti allestiti in molti angoli della città, indifferenti ai distinguo e alle patetiche grida di allarme lanciate dal centrodestra, con le sue giunte della Provincia e della Regione, con i suoi otto (unici) sindaci che si sono dissociati perché la manifestazione si era troppo «politicizzata», con il «suo» vescovo metropolita Giuseppe Molinari che ha «invitato» gli aquilani «buoni» a «isolare e neutralizzare ogni azione eversiva e demolitrice di strani gruppi che hanno annunciato la loro adesione». Tutto inutile: L'Aquila ha chiamato l'Italia e il paese ha risposto. Forse è stata la più grande manifestazione di sempre nel capoluogo d'Abruzzo, più corposa del 16 giugno, quando bloccarono l'A24, più del 25 giugno quando Landini concluse qui lo sciopero generale Fiom. O forse no. Ma che siano stati 25 mila come sostengono gli organizzatori o «non più di 15 mila» come vorrebbero i meno entusiasti, considerando anche l'enorme tenacia necessaria per resistere alle impietose intemperie, il risultato non cambia.

«Benvenuti all'Aquila,
una città coraggiosa, testarda e che resiste» urlano i padroni di casa da uno dei sound system del lungo corteo che dalle 14:30 alle 18 ha sfilato da piazza D'Armi fino a piazza Duomo dietro lo striscione d'apertura «Macerie di democrazia», dividendosi in due tronconi, pacifici ma determinati a violare la «zona rossa» del centro storico: uno che ha sfilato ammutolito davanti al ground zero della Casa dello studente, e l'altro altrettanto silente che ha deviato dentro i vicoli distrutti e nemmeno messi in sicurezza che diventano visibili solo forzando i divieti militari. Da quel momento, dal pericolante ponte del Belvedere, luminoso esempio di speculazione urbanistica a discapito delle popolazioni, è venuto giù uno striscione da dieci metri con su scritto «Riprendiamoci la città». Gli aquilani salutano i valsusini e i vicentini che non sono alla loro prima visita ma che ora, dopo la catastrofe dell'alluvione, si sentono ancora più vicini, ancora più legati dalla stessa lotta. Salutano le mamme vulcaniche dei paesi campani e i romani che sono arrivati in ritardo ma ce l'hanno fatta, col loro carico di militanti di tutti i colori. Salutano i palermitani e i mantovani che sono qui dal giorno prima, salutano i familiari delle vittime di Viareggio e quelle di Giampilieri e di San Giuliano di Puglia. 38 autobus sono partiti dai quattro punti cardinali del Paese. E perfino gli italiani che vivono in Spagna hanno inviato un saluto non avendo potuto, questa volta, sbarcare in nave come fecero l'estate scorsa a Genova.

I caschetti bianchi e gialli non si vedono già più, coperti dagli ombrelli e dalle bandiere nero-verdi indossate a mo' di impermeabile, rimaste unico simbolo della città che si vuole novella fenice. «Non ce l'hanno fatta a dividerci - rispondono gli ospiti - siamo qui perché è da qui che è cominciata la caduta di Berlusconi». «Vorrebbero vederci gli uni contro gli altri - urlano i romani di Action - giovani contro vecchi, bianchi contro neri, un paese contro l'altro, ma è un messaggio che non passa. Quello che fa paura è la nostra unità: tutti insieme contro gli speculatori».
Speculazione e profitto sono le parole più usate per descrivere la situazione aquilana in questa giornata caratterizzata dalla presenza massiccia di giovani. Sfilano composti dietro lo striscione listato a lutto dei familiari delle vittime del 6 aprile 2009, portando come simbolo una rosa bianca o rossa: «Per loro, per tutti». Ballano dietro il camion del «3e32» con su scritto: «Molinari, il vero mostro sei tu», o al seguito della Titubanda, o tra i nuovi briganti delle «Brigate di solidarietà comunista» che subito dopo il terremoto scipparono ai cattolici e alla protezione civile il monopolio di solidarietà con gli sfollati. Sfilano nello spezzone studentesco ricordando che «L'Aquila è una città universitaria». Era, perlomeno. Oggi a migliaia, gli studenti fuori sede stanno andando via annichiliti per la mancanza di alloggi, di spazi per studiare, di mense e di luoghi di aggregazione. E hai voglia a dire, come fa Enrico Letta arrivato con una decina di parlamentari Pd, che «per far rivivere l'economia già in crisi prima del terremoto bisogna puntare qui a un polo nazionale della farmaceutica», se tra le industrie straniere che qui continuano - uniche - a registrare alti fatturati e il territorio non c'è alcun nesso: nell'ateneo aquilano manca la facoltà di farmacia e la ricerca che fa vivere la Sanofi-Aventis, la Dompé e le altre fabbriche di medicinali d'alta tecnologia è rigorosamente straniera.

Tra i manifestanti sfilano i sindaci del cratere, primo tra tutti il Pd Massimo Cialente che giudica «un errore molto grave» la defezione di Regione e Provincia perché «qui c'è l'intera popolazione, dalla Confindustria ai sindacati, dalle banche ai cassintegrati». Ci sono anche i radicali Marco Pannella («questa è la vera politica») e Rita Bernardini, e c'è Antonio Di Pietro che promette, come il Pd, di sostenere con tutte le forze in parlamento la legge per la ricostruzione presentata dal presidio cittadino permanente. Una promessa che l'extraparlamentare Paolo Ferrero non può fare ma ai piedi del palco, off-limits ai politici, dove si alternano le voci dal cratere a quelle che raccontano altre macerie italiane, spiega così la sua presenza: «La Fds si costruisce all'Ergife ma anche qui». Dal palco, gli applausi se li guadagnano in molti e c'è chi propone di far diventare il 6 aprile giornata nazionale di prevenzione ambientale e sismica. Ma l'ovazione arriva come un grido di battaglia: «Senza una legge ad hoc e trattamenti fiscali simili a quelli adottati negli altri terremoti, verremo di nuovo tutti a Roma».
 

 Tabula rasa

Nella provincia afgana di Kandahar le truppe Usa radono al suolo tutte le case, a volte interi villaggi, abbandonati dai civili sfollati, per neutralizzare eventuali trappole esplosive


Le migliaia di sfollati fuggiti nelle scorse settimane dai distretti rurali attorno a Kandahar, dove da fine settembre è in corso l'offensiva militare americana Dragon Strike, non avranno più una casa a cui tornare, perché le loro abitazioni abbandonate vengono deliberatamente demolite dalle truppe Usa per neutralizzare mine e trappole esplosive che i guerriglieri talebani possono avervi nascosto, e che hanno già provocato decine di vittime tra le fila americane.

Complessi di edifici e spesso interi villaggi disabitati vengono rasi al suolo ricorrendo all'uso di bulldozer blindati, artiglieria pesante e aviazione. Vengono sistematicamente demoliti anche tutti i muri di cinta, i ponti sui canali e i muretti divisori tra i campi, dove il nemico potrebbe nascondersi per tendere imboscate. Per la stessa ragione, non vengono risparmiati nemmeno i filari di alberi, abbattuti a sventagliate alzo zero di mitra pesanti.

Secondo quanto scrive il New York Times, nei distretti di Arghandab, Zhari e Panjwai le forze statunitensi hanno già distrutto centinaia di abitazioni civili, forse migliaia.
''Non abbiamo cifre precise sugli edifici abbattuti, ma si tratta di un numero elevatissimo'', ha detto Zalmai Ayubi, portavoce del governatore della provincia di Kandahar, Tooryalai Wesa.

Il colonnello Webster Wright, portavoce delle forze alleate a Kandahar, sostiene che le demolizioni finora sono state 174: una stima che lo stesso quotidiano newyorkese giudica assai riduttiva rispetto alle denunce delle autorità locali.

Il governatore del distretto di Zhari, Karim Jan, ha parlato di centinaia di richieste di risarcimento solo nel suo territorio. Shah Muhammed Ahmadi, il suo omologo del distretto di Arghandab, ha riferito di almeno 130 case distrutte nel territorio di sua competenza, di cui 40 nel solo villaggio abbandonato di Khosrow, praticamente raso al suolo da una salva di 35 missili Himras. ''Altri interi villaggi sono stati distrutti perché pieni di trappole''.

Secondo Abdul Rahim Khan, un anziano capo tribale di Panjwai, in realtà le truppe Usa distruggono case e villaggi abbandonati anche senza avere la certezza che siano minati.
D'altronde, gli stessi ufficiali militari americani interpellati dal Times ammettono che ''perlustrare edifici vuoti è troppo rischioso''. Meglio raderli al suolo.

"Laddove fanno il deserto, lo chiamano pace", scriveva Publio Cornelio Tacito nell'Agricola, a proposito delle truppe dell'Impero Romano.

Enrico Piovesana

 

15 novembre

«Pecunia non olet» Gli affari birmani della signora Dini

Tre settimane fa la presidente dello Zeta Group ha incontrato il ministro dell’agricoltura, una delle figure più impresentabili del regime. Compare nella lista nera dell’Unione europea

Della serie: “pecunia non olet”. Una triste serie che l'Unità ha raccontato sulla rotta Libia-Tunisia-Antigua-Russia... E Birmania. Con una premessa d'obbligo: ognuno è libero di incontrare chi vuole, e di stringere rapporti di affari anche con i personaggi meno raccomandabili. Ciò che, però, non è lecito pretendere è il silenzio di fronte a vicende quanto meno discutibili, se non esecrabili. La Birmania dei generali dittatori ne è un esempio. E la vicenda che l'Unità racconta s'inquadra pienamente in quella “diplomazia degli affari” contestata dalle più importanti organizzazioni umanitarie.
Protagonista è la signora Donatella Zingone Dini, dirigente dello Zeta Group nonché moglie dell'ex premier, ex ministro degli Esteri e attuale presidente della Commissione esteri del Senato, Lamberto Dini. Il gruppo di cui la signora Dini è a capo, è specializzato, come rileva il sito online dell'impresa, nello sviluppo di: office parks, centri residenziali e commerciali, complessi turistici quali resorts & hotels, parchi industriali e “free zones”, prefabbricati in cemento armato. Altro settore strategico è quello Agro-industriale.

Come documentato da innumerevoli rapporti di agenzie internazionali, la Birmania dei generali dittatori è un Paese “free zone” quanto a diritti, umani, sociali, sindacali, negati. Non basta. Il settore agro-industriale in Birmania è noto per la confisca delle terre, il lavoro forzato, gli stupri consumati... Tutto questo è resocontato. E dovrebbe essere noto sia agli imprenditori italiani che si avvicinano alla Birmania che ai diplomatici che in quella realtà operano e che non possono non essere al corrente delle relazioni economiche, finanziarie e commerciali, che imprenditori italiani stabiliscono o cercano di stabilire con la giunta al potere in Birmania. Dovrebbe. Ma così non sembra essere.
Leggiamo e riportiamo dal sito del New Light of Myanmar, giornale ufficiale della Giunta: «In serata nello stesso luogo, il ministro ha incontrato anche President Madam Donatella Zingone Dini dello Zeta Group italiano. L’incontro è stato dedicato principalmente alla creazione di industrie a base agricola e alla coltivazione del caffé». Notizia del 20 ottobre 2010. Un passo indietro. E riflettori accesi sul ministro che ha incontrato “President Madam Donatella Zingone Dini”. Qui la vicenda assume connotati ancor più imbarazzanti. Perché il personaggio in questione è uno dei figuri più impresentabili dell'impresentabile Giunta birmana: il potente ministro dell'Agricoltura, U Htay Oo, segretario generale della associazione paramilitare USDA (ora trasformatasi in partito legato alla giunta), che attaccò Aung San Suu Kyi nel tristemente noto massacro di Depayin del 2003, e agì da braccio armato della Giunta nella sanguinosa repressione del 2007. Nel marzo 2008, in uno scontro interno alla Giunta militare, Htay Oo fu accusato, assieme al ministro dell'Industria, Aung Thaung, a quello dell'Industria ittica, Maung Maung Thein, e al titolare delle Costruzioni, Saw Htun, di aver accumulato enormi fortune personali attraverso il contrabbando e le tangenti. «Sono conosciuti come “i nazisti” all'interno delle alte gerarchie militari –precisa un imprenditore che intrattiene rapporti con le forze armate-. Hanno il loro denaro e una loro milizia. Sono loro i veri nemici del popolo».

Inoltre U Thay Oo è anche nella lista delle persone a cui la Posizione Comune della UE nega il visto. A questo punto alcune domande sono d'obbligo: è possibile che il senatore Dini, profondo conoscitore della realtà internazionale, non fosse a conoscenza della biografia pubblica dell'uomo che la signora Dini avrebbe incontrato? E ancora: è possibile che il nostro ministero degli Esteri o la nostra ambasciata ne siano all'oscuro? E ancora: come verifica il nostro governo la piena attuazione delle sanzioni economiche previste dalla Ue non solo per joint venture ma anche per importazioni ed esportazioni soprattutto in settori legati all'industria pesante, alle imprese della Giunta e dei suoi parenti e dell'esercito?
Annota Cecilia Brighi, responsabile Asia nel Dipartimento politiche internazionali della Cisl, profonda conoscitrice della realtà birmana: «Il controllo è importantissimo per evitare che le aziende che operano nei settori vietati dall'Ue –legnami, industrie pesanti, minerali, pietre preziose ...- possano continuare a fare affari con la Giunta o con aziende che sono di proprietà dei militari, in violazione delle norme europee». «Nel 2009 –aggiunge Brighi, autrice de “Il Pavone e i generali. Birmania, storie di un Paese in gabbia”- abbiamo una serie di aziende italiane che hanno esportato in Birmania pezzi di ricambio per motori, trivelle da sollevamento del terreno, pompe, tutte cose che possono essere funzionali sia per scopi militari (ad esempio costruzioni di bunker) o anche nei settori che danno profitto alle imprese in mano ai militari o che vengono utilizzate per il lavoro forzato». Secondo Brighi il governo italiano dovrebbe «mettere in piedi un monitoraggio con le parti sociali per attuare pienamente le sanzioni europee». Una richiesta ancora più impegnativa nel giorno della riacquistata libertà di Aung San Suu Kyi.

di Umberto de Giovannangeli
 

10 novembre

"Dateci i fondi o a fine anno chiudiamo"
A rischio le 55 case famiglia comunali

Ospitano 350 disabili gravi rimasti soli. Per salvarle servono 2,8 milioni

di GIOVANNA VITALE

Se entro fine anno non arriveranno i fondi necessari ad adeguare le rette delle 55 case famiglia comunali che da molti anni ospitano circa 350 disabili gravi rimasti soli al mondo, senza più genitori né parenti in grado di assisterli, una delle più importanti realtà cittadine nel settore sociale rischia di chiudere i battenti per sempre.
"Ormai siamo ridotti allo stremo", lancia l'allarme Luigi Vittorio Berliri, presidente di "Casa Plurale", l'associazione che rappresenta tutte le case famiglia romane. "Per ciascun ospite il Comune paga una retta di 127 euro al giorno, cifra che oltre a essere sottostimata rispetto alla reali necessità è ferma al 2007. Per continuare a svolgere un servizio che, qualora venisse interrotto, ci costringerebbe a mettere per strada centinaia di persone non autosufficienti e con handicap pesantissimi, servirebbero almeno 200 euro al giorno. Significa che mancano all'appello 2 milioni e 800mila euro, una situazione non più sostenibile". Una differenza di 73 euro utile a fare la spesa, pagare le bollette, gli operatori sanitari, l'assistenza quotidiana, la fisioterapia: in una parola per assicurare un'esistenza dignitosa a chi già fa fatica a rimanere in vita.

È preoccupato, Berliri. La manovra di assestamento di bilancio varata venerdì scorso dalla giunta capitolina ha sì destinato 7 milioni per il sociale, ma lui teme che alle case famiglia finiranno per arrivare solo briciole. "E se così fosse, non avremo altra scelta che spegnere la luce", dice sconsolato. Non vuol certo fare come a Palermo, dove la settimana scorsa gli operatori e i disabili hanno occupato il palazzo del municipio per protestare contro la mancanza di fondi, ma ci siamo vicini. "Se finora siamo riusciti a sopravvivere è solo grazie alla beneficenza e all'abnegazione di gran parte dei nostri operatori che, oltre l'orario retribuito, lavora gratis", racconta Berliri. Un quadro che il presidente non esita a definire drammatico. E, quel che è più grave, rimasto inascoltato: da mesi lui e tutte le associazioni che gestiscono queste case famiglia, dalla Don Calabria alla Capodarco, inondano di lettere e telegrammi il sindaco Alemanno e l'assessore Belviso. Arrivando fino al punto di lanciare, prima dell'estate, una clamorosa provocazione: "Dateci un pezzettino della Nuvola di Fuksas, per adeguare le rette basterebbe meno del 2% del costo del nuovo centro congressi".

Risultato? "Nessuna risposta". E adesso? "Non ci resta che lanciare un ultimo appello, ma stavolta a tutte le istituzioni, non solo al Comune", conclude Berliri. "Anche Regione e Provincia, con un po' di cuore, possono fare molto".
 

 

7 novembre

George W. Bush, l'autobiografia del peggior presidente

Bush difende la guerra in Iraq e ammette di aver autorizzato la tortura
Secondo una prassi comune a molti ex presidenti e uomini di potere che hanno lasciato i posti di responsabilità, anche George W. Bush ha pubblicato le sue memorie che saranno negli scaffali delle librerie statunitensi a partire dal nove novembre prossimo. Nell'autobiografia intitolata Decision Point, Bush passa in rassegna le quattordici decisioni più importanti della sua vita privata e pubblica, dalla scelta di chiudere con l'alcol - a un certo punto diventato un proprio e vero amore - a quella di invadere l'Iraq.

L'ex presidente degli Stati Uniti difende la sua Iraqi freedom operation sostenendo che oggi il mondo è più sicuro senza Saddam Hussein, "il tiranno omicida" che ambiva a possedere un arsenale di armi chimiche e batteriologiche per attaccare l'Occidente. Ma proprio a proposito di armi di distruzione di massa, Bush ammette che il fatto di non aver trovato traccia di quegli ordigni è "una cosa che mi fece star male allora e che mi fa star male tutt'oggi, quando ci penso": "Nessuno fu più scioccato e arrabbiato di me quando non furono trovate le armi", scrive Bush nel libro ricevuto in anteprima dal New York Times.

Intervistato da Matt Lauer per la Nbc (l'intervista andrà in onda l'8 novembre per il lancio del libro), Bush ha dichiarato di non ritenere di dover chiedere scusa agli americani per una guerra giusta che ha dato una nuova chance a venticinque milioni di iracheni che possono vivere in regime di libertà (sorvolando sul fatto che la guerra sia costata la vita a più di centomila civili e - ad oggi, fonte icasualties.org - di 4745 soldati).

Un altro passaggio del libro è dedicato ai rapporti con l'Amministrazione. Bush sostiene di essere stato "preso alle spalle" più volte dai suoi collaboratori: una su tutte, la vicenda degli abusi e delle torture perpetrate nella prigione di Abu Ghraib. A dargli credito, Bush afferma di aver visto le foto scandalo per la prima volta durante il programma televisivo 60 Minutes. Il senso di rabbia che lo pervase lo condusse a convocare i propri collaboratori per avvertirli "che mai più" avrebbero dovuto "prenderlo alle spalle". Ma Bush non si è mai schierato contro i metodi forti e, anzi, ha ammesso di aver autorizzato la pratica di tortura del waterboarding (simulazione di annegamento) sui presunti terroristi della rete di al-Qaeda.

Nel corso del suo primo mandato presidenziale, in previsione del secondo, Bush aveva anche preso in considerazione di sostituire Dick Cheney, "il Darth Varden dell'Amministrazione, visto da tutti come un uomo oscuro senza cuore", per mettere a tacere le voci secondo cui il vero decision maker fosse il vicepresidente. Ma la decisione non fu mai presa proprio perché Cheney era una sua "scelta".

Oggi Geroge W. Bush vive a Dallas, soddisfatto di quanto fatto durante la sua presidenza (anche se è l'inquilino della Casa Bianca che ha chiuso il mandato con il più basso tasso di gradimento nella storia degli Usa). E porta a spasso il suo cane, Barney. "Una mattina - scrive Bush nell'autobiografia - Barney aveva sporcato il prato del vicino e io ho dovuto ripulire. Ero lì, io: l'ex presidente degli Stati Uniti, con un sacchetto di plastica in mano, a raccogliere ciò che avevo schivato negli ultimi otto anni della mia vita". 

Nicola Sessa

 

3 novembre

Milano nera

Nel capoluogo lombardo le istituzioni continuano a sostenere gli eventi dell'estrema destra

''A seguito della protesta e delle reazioni di tanta parte della società civile, delle istituzioni, dell'associazionismo antifascista, la preannunciata manifestazionenazifascista prevista per il 28 ottobre non si terrà e ugualmente non avrà luogo il progettato pranzo presso il circolo ufficiali''.

Con questo comunicato, il Comitato permanente antifascista di Milano ha annunciato ieri l'annullamento di due eventi che avevano messo in allarme la società civile democratica e antifascista del capoluogo lombardo: si trattava di una conferenza sull'ex generale belga delle SS, Leon Degrelle, che doveva tenersi oggi (anniversario della Marcia su Roma) nella nuova sede milanese del movimento neofascista Hammerskin, e di un 'nostalgico' pranzo di gala organizzato per sabato dall' Ordine dell'Aquila Romana (presieduto da Guido Mussolini, nipote del Duce) in una sede istituzionale come il circolo ufficiali del comando dell'Esercito per l'Italia settentrionale.

L'incontro pubblico sul generale nazista, fondatore del rexismo belga, divenuto nel dopoguerra intellettuale di riferimento dell' estrema destra europea e morto nel 1994, era in programma per stasera alle 21 al circolo Avamposto (contro l'immigrazione e gli zingari) di viale Brianza 20, sede del movimento Lealtà Azione (associazione collegata al circuito internazionale degli Hammerskin) ottenuta in affitto dall' Aler, l'azienda lombarda che gestisce la case popolari.
L'evento, organizzato in collaborazione con la casa editrice/libreria neonazista milanese Ritter, aveva scatenato le proteste delle associazioni partigiane lombarde e dei partiti di sinistra.

L' Anpi milanese aveva denunciato ''la grave provocazione del gruppo nazifascista denominato Lealtà Azione'', promotore di un'iniziativa come quella sul generale SS proprio nel '' triste anniversario della marcia su Roma e a poca distanza dalla Stele dei 15 Martiri uccisi il 10 Agosto 1944 dai nazifascisti'' in Piazzale Loreto. E aveva indetto, in coincidenza con la conferenza, un presidio di protesta con fiaccolata proprio sotto il monumento (iniziativa poi confermata nonostante l'annullamento della conferenza).

Il segretario provinciale di Rifondazione, Antonello Patta, aveva parlato di '' un'apologia degli orrori del Terzo Reich, intollerabile e inaccettabile, che offende la memoria delle vittime del nazismo, dei deportati per motivi razziali nei campi di concentramento e dei perseguitati politici''.
Per questo il Prc milanese, assieme al Pd, aveva chiesto l'intervento del Prefetto e del Questore di Milano ''affinché una simile vergognosa iniziativa non abbia luogo, tanto più convocata, crediamo non a caso, nella data del 28 ottobre, anniversario della Marcia su Roma''.

A difesa dell'iniziativa di Lealtà Azione si era schierata la consigliera provinciale del Pdl, Roberta Capotosti, intervenuta in aula per difendere la conferenza su ''Leon Degrelle, un soldato che ha combattuto come volontario europeo sul fronte dell'Est fra il '41 e il '45 contro le armate sovietiche". Secondo la Capotosti, "la sola provocazione è la richiesta fatta da Prc e Pd di vietare
l'iniziativa, impedendo antidemocraticamente che le nuove generazioni possano crescere non omologate al pensiero marxista".

''Queste parole - era stata la replica di Patta - confermano l'esistenza da parte del centrodestra di scelte e filoni culturali che favoriscono e aprono le porte alla penetrazione di gruppi della galassia nera di Milano. Questa presa di posizione segue diversi casi verificatesi lo scorso anno in cui amministratori del centrodestra hanno appoggiato, sponsorizzato e concesso spazi per concerti e incontri pseudo-culturali dei numerosi gruppi dell' estremismo neo-nazifascista. L'insistenza nel susseguirsi di iniziative di tale natura ha l'obiettivo di rendere accettato, quasi naturale, la presenza a Milano di manifestazioni e raduni, in cui, come già accaduto, si esprime il peggio dell'armamentario di gesti, simboli e parole d'ordine dei peggiori rigurgiti nazifascisti''.

All' annullamento della conferenza su Degrelle (in realtà solo rinviatoa mercoledì 3 novembre) ha fatto seguito anche quello del pranzo di gala dell' Ordine dell'Aquila Romana: organizzazione erede dell'omonimo ordine militare della Repubblica Sociale Italiana, oggi 'patrimonio storico-araldico della famiglia Mussolini'. Tra gli invitati risultava anche il sottotenente Alberto La Russa, nipote del ministro della Difesa. L'iniziativa, prevista per sabato 30 ottobre nei prestigiosi saloni riservati agli ufficiali del comando militare lombardo di Palazzo Cusani, nel cuore di Brera, prevedeva una cerimonia d'investitura e premiazione per i nuovi 'cavalieri' dell'Ordine e una commemorazione ai caduti. La vicinanza con la data del 28 ottobre aveva destato sospetti sul significato 'commemorativo' di questa iniziativa. ''Ma quale Marcia su Roma! Lo scopo dell'evento era raccogliere fondi per i nostri progetti di assistenza ai bambini africani'', ha dichiarato a PeaceReporterLeone Mazzeo, coordinatore dell'Ordine e cofondatore di Ordine Nuovo (per cui fu condannato a due anni e otto mesi di carcere nel processo agli ordinovisti del 1973).

"Non sarebbe stata certo la prima volta che il comando militare di Milano ospitava un'iniziativa del nostro Ordine: ci conoscono benissimo e sanno cosa facciamo'', ha spiegato Mazzeo. ''Ma questa volta, condizionati da qualche articolo di giornale che ha distorto la verità, hanno preferito negarci le loro sale con la scusa che erano occupate".
Non c'è da stupirsi se qualche generale che ha giurato fedeltà alla Repubblica italiana fondata sull'antifascismo si è sentito in imbarazzo dopo che la notizia dell'evento era trapelata sulla stampa nazionale: un evento che, anche non fosse stato per commemorare la Marcia su Roma, era comunque indetto da un'organizzazione evidentemente nostalgica del Ventennio.

Nonostante l'annullamento dei due appuntamenti 'neri', nel capoluogo lombardo rimane la preoccupazione per il crescente appoggio delle istituzioni locali di centrodestra ad iniziative di chiara matrice neofascista. Come la mostra in corso allo Spazio Oberdan, 'Dalla battaglia di El Alamein alle missioni di pace', patrocinata dall' assessorato alla Cultura della Provincia di Milano. L'evento - inaugurato lo scorso 21 ottobre - è curato da Dario Macchi, ex paracadutista e storico militante dell'estrema destra milanese, e si avvale del contributo bibliografico della già citata casa editrice Ritter.

Enrico Piovesana

 

Cina, la 'mappa del sangue' degli espropri

Conflitti sociali collegati alla speculazione immobiliare. Un blogger li mette su Google

Ha voluto restare anonimo, di lui si sa solo che ha 35 anni ed è di Pechino. E' il blogger cinese che ha creato su Google, la " mappa del sangue" dei conflitti per gli espropri di terre e proprietà. Nella pagina, su una cartina della Cina, sono al momento segnalati ottantasei casi di sfratti e demolizioni forzosi sfociati in atti di violenza, dal 2008 in poi. Il numero cresce di ora in ora, perché il sito ha già registrato circa novantamila accessi e viene costantemente aggiornato con nuove segnalazioni.
"È necessario trovare un nuovo modo per esprimere la preoccupazione della gente su questi temi - ha detto il blogger all'agenzia Nuova Cina - per cercare di contenere il problema".

I conflitti per i terreni potenzialmente edificabili sono strettamente connessi al boom del settore immobiliare, una delle locomotive che traina la crescita economica cinese. Nel pacchetto di stimoli varato nel 2008 per contrastare la crisi globale - 4mila miliardi di yuan (cioè 460 miliardi di euro) - Pechino scelse di puntare con forza sulle costruzioni. Il settore ha il pregio di assorbire rapidamente forza lavoro e di corrispondere alle esigenze del nuovo ceto medio cinese, che sempre più cerca nell'abitazione la conferma del proprio status. E così, un po' ovunque il mercato si gonfia. Dopo le città di prima fascia, come Pechino e Shanghai, il fenomeno si è allargato a quelle di secondo - Wuhan, Chongqing, Suzhou - e quindi alle province.

Quello degli espropri è probabilmente il problema maggiore, perché mina la credibilità di una " società armoniosa", cioè socialmente più giusta.
Sfratti e demolizioni sono possibili perché nei grandi progetti di ristrutturazione urbana i funzionari locali possono requisire terreni e case per conto del governo, sebbene una clausola della costituzione cinese (inserita nel 2004), sancisca che "la proprietà legale dei cittadini è inviolabile".
Nel 2007, una legge ha però reso molto arbitraria l'applicazione del principio.
Lescamotage è stato quello di considerare lo Stato come un soggetto privato a tutti gli effetti, con il pieno diritto di possedere dei beni e una sorta di precedenza rispetto ai privati: si parla di "uguale protezione della proprietà statale, collettiva e individuale", ma si riafferma il supremo interesse dello Stato rispetto a quello degli altri attori sociali.
Inoltre si stabilisce che "il Consiglio di Stato o i governi locali debbano, in accordo con le leggi e in rappresentanza dello Stato, promuovere i diritti e tutelare gli interessi degli imprenditori".
Questo meccanismo favorisce violenze e corruzione, anche perché autorità politiche locali e palazzinari a cui vanno gli appalti sono spesso le medesime persone o appartengono alle stesse famiglie.
Non solo: vendere suoli edificabili è anche un buon modo per riempire le casse delle amministrazioni locali - sotto forma di di tasse sugli immobili e sulle transazioni - che durante la crisi avrebbero contratto debiti complessivi per circa 400 miliardi di euro.

Il secondo problema riguarda la sicurezza. Nel 2008, il crollo di una scuola durante il terremoto del Sichuan rese drammaticamente chiaro che la corsa al mattone non corrispondeva a una parallela qualità di tecniche e materiali. Da allora, giornalisti coraggiosi, spesso con il beneplacito delle autorità centrali, hanno denunciato con maggiore frequenza i fenomeni di corruzione.

Infine c'è la speculazione immobiliare. Più volte si è parlato di " bolla cinese", riferendosi alla crescita insostenibile e artificiale dei prezzi della casa, un' escalation che ha prodotto quartieri fantasma - nuovi ma disabitati - e indotto anche molti uffici a spostarsi nelle stesse periferie dove si trasferiscono gli ex abitanti dei vecchi quartieri centrali (così come parecchi stranieri residenti oltre Muraglia, un tempo più abbienti del cinese medio).

Per risolvere tutti questi problemi, il governo - oltre a favorire la denuncia della corruzione - sta lanciando programmi di edilizia convenzionata e premendo sul settore bancario affinché limiti i crediti ai palazzinari. Molti, infatti, acquistano i terreni grazie al prestito facile, cacciano i vecchi residenti e poi restano in attesa che i prezzi salgano prima di costruire.

Ma la riforma veramente efficace, ciò che renderebbe meno conveniente la corsa al mattone, sarebbe l'introduzione della tassa sulla proprietà, una sorta di Ici cinese di cui si parla da un pezzo. Dalle ultime notizie pare che sia in dirittura d'arrivo, sotto forma di un' imposta dello 0,6 per cento sugli immobili, con esclusione delle prime case.
Se sia sufficiente a frenare speculazione immobiliare, conflitti sociali e costruzioni scadenti fatte in fretta e furia, è tutto da verificare. Intanto, la "mappa del sangue" di un ignoto blogger pechinese si aggiorna.

Gabriele Battaglia

 

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