di Paolo Flores d’Arcais, il Fatto Quotidiano, 20
ottobre 2010
Per
capire se la manifestazione della Fiom di sabato sia stata solo un grande
successo o costituisca invece una potenziale svolta storica per la vita politica
e sociale del paese è necessario approfondire cinque punti: dimensioni numeriche
della partecipazione, strategia sindacale radicalmente alternativa avanzata dal
segretario Fiom Landini, capacità o meno di unificare lavoratori occupati con
disoccupati e precari, capacità di unificare lotte sociali e lotte civili,
implicita necessità di una proiezione politica di tutto ciò.
COMINCIAMO dai numeri. I mass media non hanno potuto disconoscere il successo,
ma ne hanno oscurato sapientemente le dimensioni, che sono state invece del
tutto fuori dell’immaginabile. Eppure tutti i giornalisti hanno visto quello che
Luca Telese ha puntualmente raccontato ai lettori de Il Fatto: dopo quattro ore
di manifestazione, quando durante l’ultimo discorso, quello di Epifani, molta
gente cominciava a tornare a casa, via Merulana era gremita dal corteo, la cui
coda doveva ancora muoversi da piazza Esedra. Ma gli altri giornalisti si sono
ben guardati dal riferire la circostanza ai rispettivi lettori e telespettatori.
Perché ciò avrebbe implicato il riconoscimento che neppure il Circo Massimo
sarebbe stato sufficiente per quel mare di dimostranti. E poiché la
manifestazione di otto anni fa al Circo Massimo con Cofferati era stata
riconosciuta come la più grande nella storia della nostra Repubblica ... Quella
dei numeri non è dunque questione filologica o maniacale. Se la dimensione della
manifestazione non fosse stata occultata, se ci fosse stata una diretta, con le
canoniche riprese dall’alto, tutti sarebbero oggi costretti a discutere sulla
“scandalosa” capacità di consenso di una forza sindacale data come
“isolatissima” e sul carattere di punto di riferimento generale e nazionale che
la sua piattaforma “radicale” si è conquistato.
PERCHÉ è verissimo che Maurizio Landini ha fatto un discorso privo di
divagazioni ideologiche, da leader sindacale tutto concretezza, ma proprio in
questa concretezza sono ritornate parole ormai scomparse da anni presso i
vertici della Cgil, come “ribellione” e “sfruttamento”, ed è stata delineata una
linea sindacale organica e alternativa su almeno tre questioni: primo, la
contrattazione deve sempre più andare in direzione di grandi contratti
nazionali, addirittura per compartimenti produttivi (industria, commercio, ecc.)
anziché per categorie (metalmeccanici, chimici, tessili, ecc.). Questo significa
che un contratto nazionale dell’industria è il minimo vincolante per tutti gli
imprenditori, senza possibilità di deroghe, poiché le uniche ammesse saranno
quelle migliorative dei contratti integrativi settoriali o locali. Con il che
siamo agli antipodi del modello Pomigliano, siamo allo scontro frontale con
Finmeccanica e Confindustria, siamo alla rottura con Bonanni che grida “dieci,
cento, mille Pomigliano”.
SECONDO, la proposta di un salario “di cittadinanza” per tutti, che dunque vada
oltre la cassa integrazione, che tuteli in radice il disoccupato. Novità
radicale nelle strategie sindacali italiane, fin qui sempre sospettose sul tema,
che invece in gran parte dei Paesi d’Europa è conquista storica irrinunciabile
(accettano solo che si discuta come rafforzarla evitando al contempo alcuni
possibili effetti perversi di “disoccupazione volontaria”). Proposta
accompagnata a quella del salario minimo per tutti i comparti produttivi, alla
impossibilità che il lavoro precario venga remunerato meno di quello fisso, alla
distruzione della frammentazione contrattuale nella stessa fabbrica tra chi
dipende dall’azienda, dalla “cooperativa” di un subappalto, ecc. Anche qui siamo
esattamente agli antipodi del modello che invece governo e padroni (parola che
alla Fiom si usa ancora) pretendono venga accettato come necessità “obiettiva”
imposta dalla globalizzazione.
TERZO, l’obbligo (addirittura per legge) della democrazia contrattuale, cioè del
voto della base dei lavoratori su qualsiasi contratto, nazionale o integrativo.
Il che significa l’impossibilità di firmare contratti separati con Cisl e Uil e
il dovere di lasciare ai lavoratori l’ultima parola anche per vertenze concluse
con la firma unanime dei sindacati. Una vera e propria “rivoluzione copernicana”
che ricrea le premesse per una unità dal basso, radicata negli interessi dei
lavoratori e che batterebbe in breccia gli interessi di burocrazie sindacali
troppo impegolate con l’establishment. È questa strategia alternativa ad essere
stata consacrata dall’inaudito successo della manifestazione di sabato. È su
queste posizioni di sindacalismo innovativo che è stato “incoronato” Maurizio
Landini. Non perché “radicali” ma perché le posizioni del gruppo dirigente Fiom
hanno dimostrato di essere le uniche a poter unificare tutto il mondo del lavoro
occupato (non a caso a riconoscersi nella lotta dei metalmeccanici c’erano dalle
tessili dell’Omsa ai chimici di Porto Torres), cioè a realizzare come dirigenti
metalmeccanici quello che dovrebbe essere il compito della Cgil.
MA LA STRATEGIA della Fiom si è dimostrata anche l’unica capace di parlare ai
precari e ai disoccupati, compiendo quello che sembrava un impossibile miracolo:
colmare tra lavoratori “garantiti” e non, un fossato che sembrava destinato
inesorabilmente ad accrescersi fino a diventare baratro anche esistenziale.
Questa è forse la novità più carica di conseguenze e la meno evidenziata: il
sindacato storico dell’industria più “fordista” che si dimostra capace di
unificare sotto la sua egida (“egemonia”, verrebbe da dire, ma di tipo davvero
nuovo) i lavoratori del precariato post-moderno, raccontati come individualisti
strutturalmente refrattari alla dimensione delle lotte solidali.
LA CAPACITÀ di difendere “interessi generali” proprio dando respiro strategico
alla difesa dei lavoratori che direttamente si rappresenta è da sempre il “salto
mortale” che a pochissime organizzazioni sindacali storicamente riesce. Ma la
Fiom sabato è riuscita a fare perfino di più: ha dimostrato come possano essere
unificate le lotte sociali, di cui il sindacato è istituzionalmente protagonista
(o almeno dovrebbe), con le lotte per obiettivi di civile progresso, per diritti
civili individuali e collettivi. Aprendo con ciò una prospettiva davvero
inedita, che non era riuscita neppure alla Cgil di Cofferati nel suo momento di
massima capacità rappresentativa. Non si tratta solo di avere dato spazio al
movimento per l’acqua pubblica e al pacifismo attivo di Emergency, ai movimenti
contro le mafie e al dovere dell’antirazzismo nella sinistra ufficiale
completamente edulcorato (per usare un eufemismo), alle lotte degli studenti e
alle necessità della ricerca scientifica, ma di averlo fatto indicando una serie
di obiettivi irrinunciabili per il movimento sindacale in quanto tale e che –
radicate nella concretezza sindacale – costituiscono già una SFIDA POLITICA. Di
questo infatti si tratta, quando il segretario del sindacato metalmeccanico
decide di porre DIGNITÀ e LEGALITÀ come temi cruciali della rivendicazione
operaia e li correda con la richiesta che meno tasse per i salari dei lavoratori
dipendenti vengano com-pensati da “più tasse per i ricchi”.
ECCO PERCHÉ, nella manifestazione più inequivocabilmente OPERAIA da molti anni a
questa parte, si è avuta la partecipazione massiccia di settori consistenti di
piccola e media borghesia, di quel mondo “moderato” che tutti dicono di voler
rappresentare, scambiando l’essere moderati con l’essere affascinati dalla
nullità dei Montezemolo o dai politicantismi dei Casini (che i voti li prendeva
grazie ai Cuffaro).
LA LEZIONE della Fiom è dunque anche quella di uno straordinario realismo, che
conferma come solo la strategia della intransigenza rispetto ai valori
costituzionali sia capace di allargare le alleanze sociali. Fino ad ora avevamo
una riprova per negativo: ammiccando alla destra i consensi dei “moderati” non
si conquistavano affatto. Ora abbiamo, grazie alla Fiom, la cartina di tornasole
in positivo: una politica bollata come “radicale” o addirittura “estremista” non
isola affatto, anzi consente di trascinare con sé strati sociali che si stavano
perdendo nell’apatia e nella rassegnazione. Per dirla nel modo più semplice, il
gruppo dirigente della Fiom ha dimostrato cosa voglia dire praticare davvero una
“vocazione maggioritaria”.
QUALSIASI politica sindacale ha necessità di una sua proiezione politica. Quella
della manifestazione di sabato più che mai, visto che entra in rotta di
collisione con la pretesa “oggettività” della globalizzazione e dunque esige una
sovranità popolare che non sia succube della “libertà” di derubare la famosa
“azienda Italia” di interi impianti industriali, trasferiti in qualche Serbia
per avidità di iperprofitti aggiuntivi. Ma con ciò arriviamo all’ultima
questione, che dovrà essere affrontata in un altro articolo. Qui possiamo solo
fissare i termini ineludibili dell’interrogativo: dai partiti del centrosinistra
attualmente esistenti non può venire la risposta politico-elettorale non solo
necessaria ma ormai improcrastinabile. E meno che mai potrà venire dal
qualunquismo con cui Beppe Grillo sta ibernando nell’avvitamento del “vaffa” le
energie giovanili degli elettori “cinque stelle”. Bisognerà che le forze più
consapevoli della società civile, in primo luogo le testate giornalistiche della
carta e del Web, riescano a inventare modalità fin qui inesplorate per risolvere
l’equazione della democrazia.
La Costituzione di Arcore
di Domenico Gallo
E’ giusto indignarsi ma non c’è da menare grande
scandalo per l’emendamento approvato in Commissione Affari costituzionali al
Senato che stabilisce che possono essere sospesi “i processi nei confronti del
Presidente della Repubblica o del Presidente del Consiglio dei ministri, anche
relativi a fatti antecedenti l'assunzione della carica.”
Quando un sarto confeziona un vestito deve pur sempre effettuare delle piccole
correzioni, tagli o aggiustamenti, per ottenere che il vestito calzi alla
perfezione al suo cliente.
Lo scandalo pertanto non sta nell’aggiustamento, ma nel fatto che un parlamento
asservito confezioni un vestito costituzionale che deve calzare a pennello al
capo politico che oggi svolge le funzioni di Presidente del Consiglio e domani
potrebbe giocare nel ruolo di Presidente della Repubblica.
Così dopo esserci rassegnati alle leggi ad personam, che hanno corrotto la
natura stessa della legge, come strumento di regolazione degli interessi per
perseguire il bene pubblico, adesso ci stiamo avviando ad una Costituzione ad
personam.
Se non c’è altro modo per evitarlo, allora si cambia la Costituzione per
impedire che il Capo politico possa essere chiamato a regolare i suoi conti con
la giustizia, rimasti ancora aperti malgrado una valanga di riforme del diritto
e della procedura penale, destinate ad ostacolare il controllo giurisdizionale
nei confronti dei reati dei colletti bianchi.
Tuttavia, come le leggi non possono essere deliberate ad libitum, poiché devono
rispettare la Costituzione, come testimonia la fine ingloriosa del primo “Lodo
Alfano” approvato con legge ordinaria, così anche le modifiche della
Costituzione effettuate con legge costituzionale, non possono essere ad libitum,
ma devono pur sempre rispettare quel nucleo intangibile della Costituzione
rappresentato dai principi supremi della Repubblica e dalla forma repubblicana.
Come è stato giustamente osservato da Giuseppe D’Avanzo su Repubblica:
“L'impunità costituzionale assicurata a Berlusconi svela come "un potere
costituente" voglia scardinare l'ordinamento costituito e crearne uno nuovo
ridisegnando gli equilibri dello Stato per il vantaggio di una sola persona. In
modo da rendere "permanente, quotidiano e al contempo perenne" il caso
d'eccezione che Berlusconi rappresenta.”
In effetti proprio questo è il significato della riforma costituzionale ad
personam che i sarti di Berlusconi stanno confezionando in Parlamento. Qui ci
troviamo in presenza di un potere costituente che pretende di scardinare
l’ordinamento costituito, introducendo delle forme di immunità per il Capo
politico che non hanno alcun fondamento giuridico in un ordinamento
repubblicano. Ciò comporta il cambiamento della natura della funzione pubblica
esercitata dal Presidente del Consiglio o dal Presidente della Repubblica poiché
il soggetto che interpreta questi ruoli viene trasformato in una sorta di
sovrano, politicamente inviolabile.
In questo modo verrebbe introdotta nell’ordinamento costituzionale una norma
tendenzialmente assimilabile all’art. 4 dello Statuto Albertino che statuiva:
“la persona del Re è sacra ed inviolabile”.
Nella Costituzione di Arcore che si delinea in questo provvedimento, si vorrebbe
scrivere che la persona di Silvio Berlusconi è sacra ed inviolabile, almeno
finché gode del favore politico della maggioranza parlamentare, che Berlusconi,
evidentemente, conta di conservare in eterno.
Si tratta di una scommessa rischiosa e destinata all’insuccesso, come tanti
altri progetti falliti di Berlusconi di liberarsi delle sue grane, ma non può
essere sottovalutato il vulnus che introdurrebbe nell’ordinamento repubblicano,
modificando l’equilibrio dei poteri e rendendo l’esercizio dei poteri politici
una funzione ancora più autoreferenziale ed irresponsabile di quanto non lo sia
adesso.
Per fortuna i costituenti nella loro infinita saggezza ci hanno dotato di uno
strumento per impedire ad una maggioranza arrogante di fare strame della
Costituzione: il referendum.
Questa maggioranza sappia che se la costituzione di Arcore venisse deliberata
come legge costituzionale, troverebbe un macigno insuperabile sulla strada della
sua entrata in vigore: il popolo italiano. Che l’affosserebbe con il referendum,
come è già avvenuto nel 2006.
Canadair: arrestato il capo
di Gianluca Di Feo
Giuseppe Spadaccini, l'uomo che gestiva la
flotta antincendio della Protezione civile, è accusato di una colossale frode
fiscale. Lavorava per il governo e faceva esibizioni davanti a Villa Certosa
Hanno
arrestato Mister Canadair. L'uomo che gestiva la flotta antincendio della
Protezione civile è accusato di una colossale frode fiscale: oltre 90 milioni di
euro nascosti al fisco da un'associazione per delinquere attraverso un giro di
società nei paradisi fiscali.
Giuseppe Spadaccini è uno degli imprenditori più noti dell'aviazione italiana.
La sua società più famosa è la Sorem, che da quasi tredici anni conduce la
guerra contro i roghi per conto di Palazzo Chigi e ha esteso le sue attività in
altri paesi. Infatti la Protezione civile in Italia è proprietaria solo degli
aeroplani ma esternalizza tutta l'attività - piloti, addestramento,
manutenzione, organizzazione operativa - a una società privata.
La Sorem ha ottenuto questo contratto per anni senza nessuna gara, con
trattativa diretta: solo dal 2007 in poi sono state applicate le regole degli
appalti, che hanno confermato la presenza della ditta di Spadaccini. Soltanto
tra il 2001 e il 2006, secondo i dati della Corte dei conti, la Sorem ha
incassato per le operazioni contro le fiamme 170 milioni di euro, grazie a
contratti assegnati per decreto dalla presidenza del Consiglio. Oggi si occupa
dei 19 Canadair Cl415 di proprietà statale e possiede 8 più anziani Cl215, che
vengono affittati all'estero per fronteggiare le emergenze, dalla Turchia alla
Corsica. Gran parte degli equipaggi vengono "noleggiati" con contratti
stagionali: piloti canadesi, affiancati da qualche veterano italiano e da alcune
giovani leve formate nelle scuole volo abruzzesi.
L'ultima creatura di Spadaccini è la Itali Airlines, che ha operato decine di
collegamenti nazionali e ambiva a rilevare i jet Md80 dismessi dalla nuova
Alitalia. Adesso svolge soprattutto collegamenti charter estivi e aerotaxi dallo
scalo romano di Ciampiano. E tra le attività più singolari condotte dalla Sorem
c'è stata anche la sperimentazione dell'idrovolante russo Beriev 200, usato nel
2005 a Porto Rotondo con frequenti voli-esibizione davanti a Villa Certosa.
Dietro questo regno dei cieli per i magistrati e per la Guardia di Finanza ci
sarebbero state grandi nuvole nere. La procura di Pescara - città dove
Spadaccini ha concentrato le sue attività - ha chiesto e ottenuto tredici
arresti: tra i personaggi colpiti dai provvedimenti anche un notaio, un avvocato
e i titolari di alcune società di Madeira che sarebbero state usate per
nascondere i soldi al fisco. Sorprendenti anche i sequestri: pacchetti di azioni
della Sorem, della Air Columbia (che si occupa della formazione di piloti e
tecnici), della San (specializzata nella manutenzione); uno yacht lungo 21
metri, decine di appartamenti a Roma, Milano, Porto Rotondo. Secondo gli
inquirenti il meccanismo della frode era semplice: le società di Madeira
emettevano fatture per operazioni inesistenti, che servivano a creare fondi neri
poi investiti in Italia e all'estero. In pratica, i quattrini pagati dallo Stato
per i voli della Protezione civile sarebbero andati a finanziare case e lussi in
nero.
Ma come ha rivelato due anni fa 'L'espresso', la procura sospetta che parte del
denaro sia servita anche per pagare personaggi importanti per far vincere
appalti alle compagnie di Spadaccini. Una piccola parte delle quote di Itali
Airlines, per un valore nominale di 50 mila euro, nel 2004 sono state vendute al
deputato di Forza Italia Sabatino Aracu. Ed anche nel cda delle sigle di
Spadaccini siedono diversi ex politici abruzzesi di peso.
Turchia, l'identità curda
alla sbarra
Inizia a Dyarbakir il processo contro la
piattaforma politica Kck: più di 150 persone sotto processo
di Luca Bellusci*
Il 18 ottobre scorso si è aperto uno dei più
grandi processi contro la società civile curda in Turchia. Al banco degli
imputati erano presenti per la prima udienza al tribunale di Diyarbakir circa
150 politici e attivisti appartenenti all'organizzazione curda Koma Civakên
Kurdistan (Kck).
L'accusa è quella di legami con il terrorismo e sovversione ai danni dello
Stato. Anche una delegazione italiana era presente davanti al tribunale di
Diyarbakir per portare la propria solidarietà ai detenuti politici curdi; la
presenza di delegazioni internazionali, tra cui anche una rappresentanza dell'Ue,
ha garantito il pacifico svolgimento della manifestazione, osservata a distanza
di sicurezza dalla polizia. La pubblica accusa di Diyarbakir, durante la prima
udienza del processo, ha presentato in tribunale un dossier di circa ottomila
pagine dove si dimostrerebbero i presunti legami tra gli imputati ed il Partito
Curdo dei Lavoratori (Pkk), organizzazione riconosciuta come terroristica da Usa
e Ue. Nello specifico, l'accusa si riferisce alla partecipazione degli indiziati
alla rete del Kck, piattaforma politica che racchiude tutti i principali
movimenti politici curdi e di cui fa parte anche il Pkk.
La questione posta dall'accusa, quindi, è se anche il Kck possa definirsi
un'organizzazione terroristica al pari del Pkk. A differenza del partito fuori
legge però, Ue e Usa non hanno inserito il Kck nellablack list mentre il governo
turco è intento, attraverso questo processo sommario, a dimostrare come sia una
faccia della stessa medaglia. Il Kck, nato nel 2005, è una piattaforma formata
da esponenti politici, attivisti, docenti, avvocati che hanno a cuore la causa
curda in tutto il Medio Oriente. Negli anni l'organizzazione ha cambiato i
propri obiettivi, spingendosi sempre più verso la difesa dei diritti della
popolazione curda in Turchia, operando attraverso campagne di sensibilizzazione
e incentivando la creazione di una coscienza politica collettiva sulla
questione.
Tra gli imputati sotto processo ci sono anche sindaci di alcune importanti città
del sud est turco, a maggioranza curda. Tra loro risulta indagato anche Osman
Baydemir, sindaco di Diyarbakir, che per il momento è in libertà a differenza
degli altri 151 imputati presenti alla prima udienza. Baydemir non ha esitato ad
affermare - all'agenzia di stampa Firat- come la prolungata detenzione dei
colleghi e degli altri attivisti del Kck sia del tutto illegale e risulti
un'ennesima tortura nei confronti della società civile curda.
Anche molte organizzazioni non governative turche hanno dato il loro sostegno ai
circa duemila detenuti, molti di loro in carcere dal 14 aprile 2009. Human
Rights Association in un recente comunicato ha ricordato come l'attuale sistema
processuale turco risulti ancora legato alla vecchia istituzione dei Tribunali
per la sicurezza dello Stato, creati ad hoc per reati connessi con il
terrorismo. Questa istituzione, nata dalle ceneri del terzo colpo di Stato degli
anni Ottanta, venne abolita dal governo dell'Akp, partito del premier Erdogan, a
maggio 2004 , in risposta alle pressioni esercitate dall'Ue per una modifica
sostanziale del codice penale turco. Ma nel dicembre dello stesso anno è stata
creata una nuova Corte Speciale per i reati contro lo Stato, regolamentata dagli
articoli 250, 251 e 252 del Codice di procedura penale, che in sostanza riprende
gli stessi principi di quella abrogata in precedenza.
Intanto il tribunale di Diyarbakir ha rifiutato la richiesta degli imputati di
utilizzare la lingua curda durante il processo. Nella dichiarazione del giudice
Menderes Yılmaz - riportata dal quotidiano Zaman - si fa appunto cenno al
divieto di difesa in curdo in aula, tenendo in considerazioni anche le s entenze
della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (Cedu). Ma questa decisione mina
palesemente la libertà di espressione dei cittadini curdi in Turchia e
sicuramente avrà un impatto negativo nelle trattative tra il governo ed il
partito curdo del Bdp, impegnati in questo periodo a trovare una soluzione
democratica per i circa venti milioni di curdi nel Paese. Inoltre il processo
potrebbe provocare il riacutizzarsi del conflitto tra esercito e guerriglieri
del Pkk, quest'ultimi in tregua dal mese di settembre per dimostrare la propria
volontà nel cercare una soluzione pacifica della questione curda in Turchia. La
strada verso la pace è ancora lontana.
*curatore del blog GeoInformazione e collaboratore
del Italian Center for Turkish Studies(ICTS)
Alla procura di Bruxelles in
un mese 103 nuove denunce contro preti
Dall'analisi dei dati il 78 per cento delle
vittime di abusi sessuali sono maschi, il più giovane ha 23 anni e il più
anziano 82. La Chiesa belga conferma che non istituirà una nuova commissione
BRUXELLES
- La procura federale del Belgio nell'ultimo mese ha ricevuto altre 103 nuove
denunce di abusi sessuali commessi da preti pedofili. E' quanto riportano oggi i
quotidiani in lingua fiamminga, Gazet van Atwerpen e Het Belang, che citano
dichiarazioni della portavoce della stessa procura, Lieve Pellens, nel corso di
un'audizione in commissione giustizia della Camera.
Dall'analisi delle denunce emerge che la maggioranza delle vittime che ha scelto
di ricorrere alla magistratura sono uomini (76%), il più giovane ha 23 anni e il
più anziano 82. Per la gran parte di loro, ha spiegato Pellens, la scelta di
parlare di quanto ha subito non è dettata da un desiderio di vendetta ma
piuttosto di essere riconosciute come vittime. Ieri la Chiesa belga ha intanto
confermato che non istituirà nessuna nuova commissione per la gestione dei casi
di abuso sessuale dopo le dimissioni della commissione indipendente Adriaenssens
lo scorso giugno, in seguito al sequestro da parte della magistratura dei
dossier che aveva raccolto.
Molti di quei dossier erano stati poi resi pubblici, con l'assenso delle
vittime. In tutto la commissione Adrianssens aveva raccolto quasi cinquecento
denunce di altrettante vittime di abusi, 13 delle quali suicidatesi.
19 ottobre
Miniere globali
Simona Baldanzi*
Quando ho letto che i 33 minatori del Cile
erano ancora vivi dopo 17 giorni dal crollo della miniera ho interrotto i miei
appunti. Da aprile mi stavo segnando le notizie apparse sulla stampa
internazionale con al centro il lavoro in miniera.
Aprile 2010. Crolla miniera di carbone in
Virginia. Venticinque morti e dieci dispersi. Aprile 2010. Cina, trovati cinque
cadaveri nella miniera del "miracolo. I soccorritori hanno miracolosamente
estratto vivi 115 minatori, sopravvissuti a una settimana sottoterra mangiando
corteccia e bevendo acqua lurida. Maggio 2010. Siberia, esplosioni in una
miniera. Trenta morti, decine di feriti e dispersi. Maggio 2010. Russia. Esplode
miniera di carbone. Dentro 312 minatori, 12 morti. Maggio 2010. Turchia, scoppio
in miniera. 28 minatori morti, 2 dispersi. Giugno 2010. Nigeria. Strage di
bambini tra i minatori. 111 morti nella corsa all'oro illegale.
Non stavo tenendo la lista delle stragi. Stavo prendendo appunti per il libro
che sto scrivendo sui lavoratori dei cantieri delle grandi opere in Mugello. Fra
le tute arancione ci sono i minatori, quelli che scavano le gallerie di strade e
ferrovie. Minatori di infrastrutture moderne che lavorano nelle pance delle
montagne. Pur tenendo presente la differenza di mansioni, di contratti, di
diritti, di condizione di vita e di salute, sia per i minatori in Mugello che
per quelli americani, cinesi, cileni, russi, turchi, nigeriani pensiamo siano
solo fotografie del passato, fantasmi che vagano in qualche angolo della memoria
e che ci scuotono dal torpore solo quando muoiono in massa o si salvano per
miracolo. Invece ci sono, emigrano per lavorare in miniera o in galleria, vivono
in baracche o campi base, non vedono crescere i loro figli, si ammalano di
silicosi. Vicino a noi e nel silenzio.
Sono ancora attuali le considerazioni di Orwell quando indagò sui minatori, su
quelli che ai suoi occhi sono statue di ferro battuto «con la liscia polvere di
carbone che si appiccica loro dalla testa ai piedi». Nel 1937 scriveva infatti:
«Uno può vivere una vita senza sentir parlare dei minatori, una maggioranza
preferirebbe addirittura non sentirne parlare. (...) La stessa cosa avviene con
tutte le specie di lavori manuali, ci tengono in vita e noi ci dimentichiamo che
esistono».
Mi ha colpito molto il messaggio dei 33 minatori cileni, scritto su un foglio
con una penna rossa, intrappolati, ma salvi a 700 metri di profondità. Volevano
avvertire familiari e parenti che stavano bene. Attraverso la lettera di Mario,
hanno scritto anche che è giusto far sapere come hanno passato gli ultimi mesi,
che problemi avevano in galleria, la mancanza di sicurezza. I trentatre minatori
cileni hanno mandato un messaggio al mondo globalizzato. Siamo ancora vivi.
Anche se vi dimenticate spesso di noi e del lavoro che facciamo. Noi siamo qua a
ricordarvi della nostra presenza e questa volta non vi potete girare da un'altra
parte. E quella televisione e quei giornali che parlavano solo delle morti in
miniera hanno iniziato a raccontare le loro storie, le loro famiglie in attesa,
le promesse di matrimonio, i figli. Quella vita che c'è sempre stata, ma di cui
nessuno parla. L'attenzione per il grande evento. Settanta giorni di grande
fratello in miniera, diritti acquistati dalle tv, migliaia di giornalisti
accampati nella valle di Acatama. Strumentalizzazione, spettacolo, commercio?
Sì, ma proprio tutta quell'attenzione, gli occhi del mondo su di loro, ancora
sottoterra, ma vivi, tutti quei soldi smossi dalle tv, li hanno salvati. Il
silenzio e l'indifferenza li avrebbe uccisi come succede ogni giorno nel mondo
del lavoro. Uno ad uno che escono dal bui, dalla gola della terra ci ricordano
quante vite e quante storie e nomi ci stanno dentro il lavoro. Ci dicono che
sono mineros e non stelle, regalano pietre e anche se ringraziano e abbracciano
quel presidente che ha bocciato il piano sulla sicurezza nel lavoro, ripetono
chiaramente «incidenti così non devono più accadere». Per una volta, vedere un
paese che festeggia perché salva dei lavoratori, a me fa brillare gli occhi.
Inutile negarlo. E spero che questa attenzione la utilizzino al meglio per
quello che sono: minatori. E lo sono stati là sotto minatori, dandosi
un'organizzazione, ruoli e compiti, tenendosi su il morale, sentendosi solidali
e uniti, continuando a vivere, a comunicare, a giocare, dando a tutti una
lezione di vita, di comunità, di civiltà, di tenuta di nervi e di cuore. Da
quando è crollata la miniera duecento sono senza stipendio. Ai 33 promettono
regali da nababbo e loro rispondono ancora da gruppo, pensando alla loro
condizione che li ha ingoiati nella terra e poi risputati, che vogliono fare una
fondazione per i minatori. Le operazioni di salvataggio con uomini e donne di
tutto il mondo, competenze e macchinari, esperienze di altri minatori,
ingegneri, geologi, tecnici, scienziati ha dimostrato che la sicurezza sul
lavoro si può attuare. Se siamo andati sulla Luna, possiamo andare anche
sottoterra, possiamo impedire che ogni giorno muoiano lavoratori di tutto il
mondo in tanti lavori. Volontà e intenti di tutti. Anche con le bandiere di un
paese a festeggiare come avesse vinto la nazionale a calcio e invece, per un
giorno, ha vinto il lavoro.
Il 22 settembre è morto un amico in galleria. Pietro era un minatore calabrese
delegato sindacale e alla sicurezza che per tutta la vita si è battuto per far
conoscere la loro condizione di lavoratori migranti. Figli d'arte perché figli
di altri minatori. È morto in Svizzera. Oggi sarebbe stato contento, ma avrebbe
ricordato a quelli che scrivono, che filmano, che fotografano, che raccontano di
non smettere. Ci sono gallerie e miniere vicine, in Italia, in Europa, buie e
oscure ai più con condizioni di lavoro inaccettabili. Lavori e lavoratori che ci
tengono in vita e che ci dimentichiamo che esistono.
* Autrice del romanzo «Figlia di una vestaglia
blu», sui minatori del Mugello nei cantieri dell'alta velocità
Le nuove rotte della guerra
Il Pentagono punta sempre di più sull'Asia
centrale per il transito dei rifornimenti alle truppe impegnate sul fronte
afgano. Una scelta che rischia però di destabilizzare la regione
Per portare avanti una lunga campagna militare in un paese lontano, come quella
in Afghanistan, non bastano soldati, armi, proiettili, carri armati e aerei.
Serve anche un continuo e massiccio rifornimento di carburante per i veicoli
militari, i jet e gli elicotteri, di cemento e legname per costruire basi e
avamposti, di barrire antiesplosive per erigere fortificazioni, di fosse
biologiche per le caserme.
Fino ad oggi, questi rifornimenti 'non letali' per le forze armate americane e
alleate impegnate sul fronte afgano arrivavano per l'80 per cento via mare al
porto pachistano di Karaci e da lì i container venivano caricati su camion,
autotreni e autocisterne, che in una decina di giorni raggiungevano i due
valichi di confine sulla frontiera afgana - quello del Khyber Pass a nord di
Peshawar e quello di Chaman a nord di Quetta - per poi proseguire fino alle
grandi basi militari di Bagram e Kandahar.
Il restante 20 per cento arrivava in Afghanistan via aerea, con costi almeno
dieci volte maggiori.
La rotta di rifornimento pachistana è però diventata sempre più insicura, non
solo per gli attacchi dei talebani contro i convogli di camion e autobotti, e
inaffidabile per i sempre più tesi rapporti tra Washington e il governo di
Islamabad, che a fine settembre ha addirittura bloccato il passaggio dei
rifornimenti per undici giorni, come rappresaglia ai continui bombardamenti
aerei americani sulle regioni tribali pachistane.
Questa situazione ha spinto il Pentagono a prendere una decisione molto
rischiosa per la stabilità della regione centroasiatica: spostare la maggior
parte dei rifornimenti sulle due rotte, finora secondarie, della cosiddetta
'Rete di distribuzione nord': una che parte dal porto lettone di Riga per poi
attraversare la Russia, il Kazakistan e l'Uzbekistan fino al valico afgano di
Termez-Hairatan (da dove parte la nuova rete ferroviaria afgana); l'altra che
collega il porto georgiano di Poti, sul Mar Nero, a quello azero di Baku, sul
Mar Caspio, proseguendo su navi-cargo fino al porto kazaco di Aqtau, per poi
ricongiungersi all'altra linea in Uzbekistan. Ne è prevista anche una terza,
attraverso Kirghizistan e Tagikistan.
I primi rifornimenti hanno iniziato a percorrere queste rotte, prevalentemente
ferroviarie, lo scorso marzo. Nei mesi successivi il traffico è stato
gradualmente incrementato fino a raggiungere nelle scorse settimane un ritmo di
cento container al giorno, arrivando a trasportare il 60 per cento dei
rifornimenti di gasolio e il 30 per cento dei materiali edili, sanitari e di
sicurezza.
Il piano del Pentagono, e dei vertici della Nato, è di potenziare ulteriormente
nei prossimi mesi la rotta nord - più sicura, rapida ed economica - fino a farla
diventare quella principale.
Il rischio è che il massiccio trasferimento delle rotte di rifornimento militari
dal Pakistan alle repubbliche centroasiatiche, attiri su questi paesi le
destabilizzanti attenzioni dei movimenti jihadisti storicamente attivi in queste
regioni.
La minaccia più concreta è rappresentata dal Movimento Islamico Uzbeco (Miu),
gruppo armato panislamico nato a fine anni '90 nella Valle di Fergana (a cavallo
tra Uzbekistan, Tagikistan e Kirghizistan) e successivamente trasferitosi in
Afghanistan e in Pakistan. La sua recente ricomparsa prima nella provincia
afghana settentrionale di Kunduz e poi nella Valle di Rasht, in Tagikistan, ha
già messo in allarme i regimi centroasiatici.
Enrico Piovesana
8 ottobre
In attesa che cresca la
Prato di tutti
La reazione della città toscana alla morte di
tre cittadine cinesi ha fatto emergere la divisione e la paura del diverso
"Tre
in meno! Questo ho sentito stamani al bar. Ma come abbiamo fatto a diventare
così stronzi?". Alessandro è un 36enne pratese, figlio di una di quelle 'buone
famiglie' decollate al tempo del boom economico, quando Prato era la culla del
tessile, i soldi giravano, tanti e per molti, e l'immigrazione cinese era ancora
all'orizzonte. E questa frase campeggiava sul suo profilo Facebook già poche ore
dopo la tragedia del cavalcavia di Galciana, dove tre giovani donne sono morte
affogate in una notte di pioggia e tempesta, incastrate nella loro auto in un
sottopasso allagato e troppo profondo per sperare di risalire. Tutte e tre erano
cinesi.
"Sono disgustata. Stronzi non inquadra il degrado morale in cui sta cadendo
questa città". "Chiamiamo le cose con il loro nome, razzismo. Prato è una città
di razzisti". "Xenofobia, direi piuttosto xenofoba". In pochi minuti la bacheca
di Alessandro si è riempita di commenti e di grida di dolore e rabbia per quell'esclamazione
fatta a voce alta in un bar del centro, e alla quale nessuno ha avuto il
coraggio di ribattere. "Colpevole anch'io, che quando sento queste infamie
scuoto la testa e, in silenzio, me ne vado". "Colpevoli tutti". In pochi minuti
le decine di messaggi postati da amici "made in Prato" hanno ricomposto il
puzzle di quella che è diventata una delle più grandi chinatown d'Europa. Con i
suoi 50mila cinesi, Prato è ormai per un quarto orientale. Ma se vent'anni fa
questa immigrazione di massa faceva comodo perché i cinesi pagavano "subito e in
contanti" gli spropositati affitti imposti dai residenti per allestire
laboratori tessili nei fondi lasciati vuoti dagli artigiani, ora che la crisi ha
piegato il distretto industriale, gettando sul lastrico centinaia di aziende, i
cinesi sono la piaga. E su di loro ricade la colpa di tutti i mali della città.
"Sono come le cavallette, ci hanno risucchiato l'anima", dice convinto Remo, uno
di quei "padroni" che ha chiuso "giusto in tempo" riuscendo a vendere tutto
prima di fallire. I suoi acquirenti? "I cinesi e chi pagava sennò. Tanto loro li
risparmiano in tasse. E poi hanno la loro mafia. Che se ne sa noi". Quanti
luoghi comuni e quanto astio nella sua voce. I medesimi che si ritrova nelle
piscine, nelle palestre, nei centri commerciali, nei negozi. Insofferenza per
quella popolazione così diversa, che parla poco, "sputa per terra" e non fa mai
un funerale. Questo si sente dire in quel di "Plato". È un'accozzaglia di
ignoranza e paura a guidare una buona parte di cittadini confusi da una comunità
che a stento parla italiano, che diffida per natura, e che è stanca di
discriminazione e scetticismo. E questo certo non aiuta.
Come non aiuta la maniera in cui è solita reagire questa amministrazione
comunale ogni volta che è chiamata a dare prova di solidarietà e apertura
mentale. Alla richiesta corale della comunità cinese del lutto cittadino in
segno di rispetto per la grave perdita, è stato rifilato un gentile e
decisissimo no. La destrorsa giunta di Roberto Cenni - patron della Sasch e fra
i primi ad avere avviato fruttuosi rapporti di lavoro con gli immigrati cinesi -
sostenuta da Pdl e Lega, ha giusto concesso la bandiera a mezz'asta fino a oggi,
giorno dei funerali. Niente più. "Per un disastro naturale non c'è lutto
cittadino" ha spiegato laconico. Un affronto. Tanto che persino il presidente
della Regione Toscana, Enrico Rossi, ha cercato di correre ai ripari definendo
"sbagliata" la posizione dell'amministrazione e porgendo le sue scuse. E non è
certo la prima volta che il Comune palesa il suo pensiero sugli immigrati,
rispecchiando comunque un sentimento pericolosamente diffuso a ogni livello
sociale e che si sta scatenando come un'epidemia. Lo sanno bene quei trentenni
in rivolta sul social network che hanno gridato alla vergogna, facendo outing e
ammettendo le proprie colpe. "Dobbiamo fare qualcosa. O iniziamo a reagire a
ogni commento razzista o sarà troppo tardi", dice Chiara, 34 anni, che ha appena
discusso con una coetanea nello spogliatoio di una famosa palestra del centro.
"Si lamentava sbraitando che ce ne sono troppi. Che se ci sono loro se ne va
lei. Che se ne vada. Queste cose non le reggo".
Eccola Prato, la Prato degli adulti, inesorabilmente divisa, fatta di vecchi
pratesi arrabbiati e nostalgici di un ricco passato che non ritorna, e di nuovi
cinesi nati e cresciuti in Cina, per i quali è ormai troppo difficile imparare
un buon italiano e avviarsi verso l'integrazione. Nel mezzo i trentenni,
schiacciati da una situazione stagnante e triste. E per questa Prato c'è
veramente poco da fare: c'è da indignarsi, questo sì, e da ribellarsi affinché
il disagio non degeneri. Per il resto è attesa. Attesa che cresca la nuova
Prato, promettente e multietnica. È la città dei giovanissimi e dei piccini,
quella dove tutti parlano la stessa lingua, ridono nella stessa maniera e
giocano insieme, bisticciando con le medesime movenze. La città dove si cresce,
tutti, spalla a spalla. Ed è a quella Prato che occorre anelare. Alla città di
tutti, fatta di pratesi punto e basta.
Stella Spinelli
Come cambia la censura in
Cina
"Spingere i confini un po' più in là". Parla
Zhang Ping, giornalista che sfida il potere
Qual è lo stato della censura in Cina? Per
capirlo, vale la pena leggere chi la conosce bene.
Zhang Ping (nome di penna, "Chang Ping") è un giornalista piuttosto noto in
Cina. Definito "voce liberal" (nell'accezione anglosassone), è stato redattore
del Nánfāng Rìbào, un giornale di Guangzhou (Canton) noto per la sua
indipendenza e per le sue inchieste su temi politicamente sensibili.
"Come scoprire la verità su Lhasa?", un articolo sui disordini in Tibet di due
anni fa, firmato da Zhang, chiedeva per esempio maggiori libertà per i media che
si occupano della questione tibetana.
Un mese fa, la polizia gli ha fatto visita in redazione. Da allora, gli è stato
proibito di scrivere editoriali per il giornale e per le riviste collegate.
Il cartoonist Kuang Biao gli ha dedicato una vignetta significativa [cliccarci
sopra per ingrandire].
In un'intervista al quotidiano taiwanese Wang Bao, Zhang spiega come cambia il
sitema dei media - e quindi il controllo - nel suo Paese.
Ne riprendiamo i punti salienti.
Complicità e autocensura
I media in Cina - sostiene - hanno grande potere. Per questo motivo, è molto
facile che i professionisti dell'informazione diventino "gruppo d'interesse".
Molti giornalisti "si ribellano" quindi alle autorità per il semplice desiderio
di essere cooptati nel sistema di potere: "Sarebbero molti felici di essere
invitati dai funzionari a cena".
Noi li chiameremmo nella migliore delle ipotesi "giornalisti compiacenti". Ma in
Cina la commistione tra potere e informazione è nel solco di una tradizione
millenaria in base alla quale l'intellettuale e il funzionario sono la stessa
persona. Anche oggi - osserva Zheng - molti direttori e redattori hanno cariche
ufficiali. Ma "nel caso di un funzionario, il segreto per avere successo è il
silenzio". L'esatto contrario di quanto dovrebbe fare un buon giornalista.
Nazionalismo
Dopo Tiananmen '89 questa tendenza si è acuita. Nella società cinese si sono
infatti imposti gli "studi nazionali" in contrapposizione alla precedente
"liberalizzazione borghese". Un famoso storico, Li Zehou, ha così descritto la
situazione: "I pensatori sono spariti e sono emersi i letterati", facendo
riferimento agli eruditi della Cina imperiale, i mandarini (letterati e
funzionari), riproduttori di cultura (i classici confuciani) più che creatori.
Gli studi nazionali hanno nutrito un'intera generazione di giovani cinesi nel
segno della fedeltà alla tradizione ripulita da ogni pensiero critico. Ma la
situazione è più complessa di quanto appaia, perché l'evoluzione della
tecnologia ha messo a disposizione strumenti - come Twitter - difficilmente
controllabili. E così il senso critico, uscito dalla porta, rientra dalla
finestra. La generazione dei "letterati" e dei "nazionalisti" comincia a porsi
qualche problema.
Evoluzione dei controlli
Così la censura si sposta su internet e si evolve tecnologicamente. Dieci anni
fa, gli staff redazionali ricevevano direttive dal ministero della Propaganda
che imponevano di trascurare determinati contenuti comparsi sul web. Oggi le
autorità dispongono di tecnologie per censurarli alla radice, direttamente
online. Il graduale trasferimento del controllo su Internet, paradossalmente,
consente più libertà alla carta stampata. Sono così i giornali tradizionali che
spesso diventano "scomodi".
Gli effetti del mercato
Perfino il giornale del Partito, il Quotidiano del popolo, ha creato una testata
satellite, il Beijing Times, gestita secondo criteri di mercato. Un suo
giornalista è stato di recente malmenato dal governatore dello Hubei, Li
Hongzhong (che ha cercato di strappargli di mano il registratore digitale),
perché gli faceva domande scomode su una vicenda torbida che riguardava un
funzionario locale. Per Zhang questo è solo uno dei molti casi in cui i giornali
(e quindi i reporter) rivelano una sempre maggiore autonomia dal potere
politico, che reagisce in maniera scomposta. Il punto è che se devi "vendere" un
giornale, devi anche trovare notizie che interessino alla gente. E quindi
editori e direttori devono "spingere i giornalisti a rompere gli indugi e fare
domande di ogni tipo".
D'altra parte, se la ragione economica sostituisce quella politica - osserva
Zhang - molti media puntano sempre più a privilegiare il profitto rispetto
all'informazione, cercando la compiacenza dei lettori più della verità.
E' comunque in corso un cambio generazionale nelle redazioni: oggi i ragazzi di
Tiananmen sono nella maturità e tengono maggiormente a professionalità e
indipendenza.
L'unione fa la forza
A marzo, tredici autorevoli testate hanno pubblicato un editoriale congiunto che
chiedeva la fine dell'Hukou, la residenza obbligatoria che penalizza i migranti
rurali. Il dibattito è acceso in Cina e c'è un consenso esteso sulla sua
abolizione, o quanto meno riforma. Per le autorità non è questo il problema -
sostiene il giornalista - bensì il fatto che i quotidiani abbiano esercitato una
sorta di contropotere semplicemente coalizzandosi. Il nuovo trend del ministero
della Propaganda è quindi quello di spingere i giornali a unirsi, sì, ma per
sostenere posizioni dettate dall'alto
Scrivere per i cinesi
Zhang non vuole "scrivere solo per gli americani", vuole continuare a farlo per
i cinesi. "Io e il gruppo del Nánfāng Rìbào non ci consideriamo forza
d'opposizione contro il governo, ma testiamo costantemente i confini. Un sistema
autoritario è diverso da una società fondata sul diritto, e i confini non sono
sempre chiari. Questo richiede una comprensione del pensiero di chi comanda.
Quanto spazio abbiamo? Nessuno lo sa, nessuno può saperlo se non si fa un
tentativo. Quello che cerco di fare è spingere i confini un po' più in là".
Gabriele Battaglia
Sporcizia e batteri killer,
l'ospedale è diventato un pericolo
Viaggio nelle strutture sanitarie italiane.
Ogni anno 700 mila infettati e 15 mila morti sospette. Nelle strutture del Sud
la media dei contagi è del 17%, il tasso nazionale è dell'8,7%. Quello europeo
del 7,7%. Le epidemie costano al servizio sanitario 2 miliardi di euro all'anno
di ALBERTO CUSTODERO
Quando
le infezioni nascono in corsia
ROMA - Bari, 4 ottobre. Antonella Mansueto aveva solo 22 anni e nell'ospedale di
Putignano ci era entrata per un intervento banale, l'asportazione di una cisti.
Ne è uscita incubando nel suo organismo un killer invisibile, un batterio
contratto in corsia, che, dopo molti mesi di cure sbagliate e 46 giorni esatti
di agonia, l'ha uccisa fra mille tormenti. Alcuni dei medici che l'hanno
visitata erano addirittura convinti che avesse l'influenza. Adesso la procura di
Bari indaga, i genitori chiedono giustizia. Catania, 6 ottobre. La procura apre
un'inchiesta per fare luce sulla morte di Carmelo Finocchiaro, 33 anni,
camionista originario di Taormina, deceduto dieci giorni prima all'ospedale
Cannizzaro in seguito ad uno shock settico. Diciassette medici di due ospedali,
quello di Catania e quello di Castrovillari in provincia di Cosenza, sono
indagati per omicidio colposo. Anche quello di Carmelo è stato una sorta di
calvario: primo ricovero in agosto dopo un incidente stradale, un principio di
cancrena, secondo ricovero, amputazione del braccio, coma. La madre: "Affido il
mio cuore ai giudici". Bologna, 2 ottobre, Loredana Mainetti, 59 anni, muore
all'ospedale Maggiore per una setticemia contratta dopo un'endoscopia per
l'asportazione di un polipo duodenale: 12 medici indagati. Tre casi isolati, sia
pure a distanza così ravvicinata? Non proprio. Le vittime di un'infezione
ospedaliera, secondo i dati dell'Associazione italiana dei microbiologi, l'Amcli,
che saranno resi noti al congresso nazionale di Rimini del 20 ottobre - sono in
Italia ogni anno circa 15 mila: malati uccisi dai cosiddetti "microbi
nosocomiali". E su 9 milioni e mezzo di ricoverati all'anno negli ospedali
pubblici e nelle cliniche private della Penisola, ben 700 mila si infettano
proprio durante la permanenza nella struttura sanitaria. Quali sono gli ospedali
a più alto tasso di endemie batteriche? Perché i pazienti vengono esposti a
questi rischi senza che nessuno li avvisi? Chi dovrebbe controllare e non
controlla? Quanto costa al Servizio sanitario nazionale la tragedia delle
infezioni?
I 26 MORTI DELL'AURELIA HOSPITAL
Non sempre i casi più eclatanti diventano di dominio pubblico. Un'inchiesta
ancora segreta della Commissione parlamentare sugli errori sanitari chiama in
causa un ospedale privato romano, l'Aurelia Hospital di proprietà del Gruppo
Garofalo, che opera in regime di convenzione con la Regione Lazio. In questa
struttura in soli nove mesi (dal gennaio al settembre 2009), si sono verificati
80 casi di infezioni ospedaliere provocate dall'acinetobacter baumanii, un
batterio che si diffonde in ambienti dove c'è scarsa igiene e pulizia e resiste
a moltissimi antibiotici. Di questi 80 pazienti, 26 sono morti. Come è potuto
accadere? Certo, al momento non è chiaro in che misura l'infezione abbia
influito sulle cause dei decessi. Il presidente della Commissione d'inchiesta,
Leoluca Orlando, ha inviato una lettera urgente al presidente della Regione
Lazio, Renata Polverini, chiedendo una relazione. Melania Rizzoli, medico e
capogruppo pdl della Commissione, giudica sospetto che "in un periodo così breve
si siano verificati 26 decessi in presenza del pericoloso batterio. Bastano
pochi casi per chiudere i reparti". Franco Turani, primario della Rianimazione,
s'è giustificato così: "Si trattava di pazienti con insufficienza multiorgano di
tali gravità per cui la causa del decesso è ampiamente ascrivibile alle suddette
criticità". A smentirlo, la vedova di uno di quei morti, Anna G., che, assistita
dall'avvocato Katia Verlingieri di Benevento, ha avviato una causa civile. "Mio
marito aveva 40 anni - racconta Anna G. - è entrato all'Aurelia per un problema
cardiaco. Gli hanno praticato alcuni stent coronarici, poi ha avuto delle
complicazioni e lo hanno ricoverato in rianimazione. Quando è morto non mi hanno
dato spiegazioni. Solo leggendo la cartella clinica, ho appreso che mio marito
aveva contratto in ospedale due batteri, l'acinetobacter e lo stafilococco".
Non tutti quei 26 pazienti, del resto, erano ricoverati in rianimazione. Almeno
un terzo di loro era distribuito in altri reparti, dunque non a rischio
immediato, e alcuni persino in riabilitazione. L'indagine ha dimostrato uno
stretto rapporto fra l'alto numero di infezioni e le precarie condizioni
igienico strutturali dell'Aurelia Hospital. Un sopralluogo del Dipartimento di
prevenzione (Sisp, Spresal e Area Governo della Rete) diretto dal professor
Daniele Gamberale ha dato l'allarme sulle precarie condizioni igieniche
generali. "Tutta la struttura dell'Aurelia - si legge - si presenta in carente
stato manutentivo e, per gli spazi comuni esterni alle aree di degenza, in
cattivo stato di pulizia". Critiche e osservazioni anche su molti altri reparti,
pronto soccorso compreso. In seguito ai risultati di questa ispezione, il
responsabile della Direzione delle Politiche di prevenzione della Regione Lazio,
dottor Salvatore Calabretta, ha inoltrato alla presidenza della Regione Lazio
una proposta di diffida "al fine di ottenere l'attuazione di interventi
manutentivi ordinari e straordinari volti al ripristino delle idonee condizioni
igienico-sanitarie necessarie per tutti i locali dei reparti (particolarmente
urgenti per i servizi igienici annessi alle stanze di degenza), negli
spogliatoi, nel Dea-pronto soccorso, nel blocco operatorio del secondo piano,
nella camera mortuaria, negli spazi esterni".
NIENTE CONTROLLI DA NORD A SUD
Il caso dell'Aurelia Hospital, pur eclatante, non è isolato. Le infezioni
colpiscono tutti gli ospedali senza risparmiare neppure i punti di eccellenza
con una media nazionale dell'8,7 per cento (contro 7,7 della media europea), e
oscillazioni che variano dal 5% al Nord al 17% al Sud. Va detto che nel Mondo i
tassi di infezione più elevati si registrano nei Paesi del Medio Oriente
(11,8%), e nel Sud Est Asiatico (10%), con un tasso lievemente inferiore negli
ospedali della Costa Occidentale del Pacifico. Ed è proprio dall'estero, in
particolare da India, Pakistan e Regno Unito che, secondo la rivista Lancet,
stanno arrivando gli ultimi superbatteri killer resistenti a ogni tipo di
antibiotico. "Ma ceppi simili a questi, come le Klebsielle pneumoniae
multiresistenti - ammonisce la professoressa Maria Paola Landini, docente di
microbiologia a Bologna - noi li abbiamo già in casa da almeno un anno e nessuno
ha mai detto nulla. Il primo di questi superbatteri è stato isolato nel silenzio
generale all'Ospedale Careggi di Firenze alla fine del 2008". Ed è allarme al
Policlinico Sant'Orsola di Bologna dove, nei primi sei mesi del 2010, s'è
registrato un aumento di questi batteri antibioticoresistenti: l'11.4% dei ceppi
di Klebsiella pneumoniae isolati si sono rivelati multiresistenti, stessa cosa
per il 58% degli Acinetobacter baumanii.
In Piemonte, nel centro di trapianti delle Molinette di Torino, fra il 1997 e il
2002 ci furono due epidemie: una di legionellosi diffusa da impianti idraulici
sporchi, l'altra di aspergillosi per contaminazione dalle polveri dei cantieri.
La prima provocò sette morti, la seconda nove. Qui, alle Molinette, Giovannella
Tramoni, 48 anni, operata due anni fa di tumore al seno, ha dovuto affrontare un
calvario non ancora terminato di una decina di operazioni per rimediare ai danni
di una devastante infezione alle protesi.
Ma hanno diritto i pazienti di sapere qual è il tasso di infezioni all'interno
degli ospedali pubblici e privati in modo da poter scegliere quelli che meglio
rispettano i protocolli igienico-sanitari? E sono obbligate le direzioni
sanitarie a denunciare alle procure e alle Regioni le percentuali delle endemie
batteriche oppure quei dati possono tenerli nascosti?
In Emilia Romagna, a Modena, all'Hesperia Hospital, centro cardiochirurgico
privato accreditato, tre pazienti - una donna di 78 anni e due uomini di 51 e 83
- sono morti tra febbraio e marzo per un'infezione di stafilococco diffusasi nel
cuore durante l'intervento di sostituzione di una valvola. Due di loro erano
stati operati lo stesso giorno, nello stesso blocco operatorio, e hanno
contratto lo stesso tipo di batterio. A maggio al Policlinico Umberto I di Roma
è tornato l'incubo epidemia (12 anni fa la legionella accecò 4 anziani operati
di cataratta, 11 anni fa 15 neonati furono colpiti da enterite, 9 anni fa 4
puerpere contrassero la polmonite). A morire, questa volta, una donna ricoverata
in neurochirurgia contagiata dal micidiale acinetobacter. Il 17 maggio di quest'anno
un'altra donna operata al Policlinico Umberto I e ricoverata dopo nella
rianimazione della Fondazione Santa Lucia di Roma, è deceduta sempre a causa
dall'acinetobacter. Man mano che si scende più a Sud la situazione peggiora. E
le condizioni igieniche precarie nelle quali si trovano alcuni ospedali come il
Cardarelli di Napoli, il Civico di Palermo e l'ospedale di Vibo Valentia sono
fra le cause dei picchi dei tassi di infezioni che in Meridione sfiorano il 17%.
A Cosenza un poliziotto in pensione, dopo un intervento chirurgico
all'intestino, s'è infettato ed è morto fra atroci sofferenze: il figlio,
Michelangelo Russo, ha fatto causa ai medici. Un anno fa a Napoli s'è verificata
un'epidemia di legionella all'ospedale Monaldi che ha ucciso due persone e ne ha
infettate altre dieci. A gennaio due neonati sono morti uccisi da una setticemia
negli ospedali Riuniti di Foggia, nel reparto di Terapia intensiva neonatale.
Secondo il Comitato di studio per le infezioni ospedaliere dell'Associazione
microbiologi, le infezioni si sviluppano maggiormente nell'apparato urinario
(26%), in quello respiratorio (le polmoniti sono il 25%), quindi ci sono le
infezioni del sangue (18%) e della ferita chirurgica (16%). Particolarmente a
rischio sono tutti quei pazienti ricoverati presso le unità di terapia intensiva
(si arriva anche al 30 % di casi), o nelle riabilitazioni, nelle oncologie ed
ematologie, nelle geriatrie e in tutti quei reparti che ospitano malati
immunodepressi.
Chi dovrebbe effettuare regolarmente i controlli sulle strutture? Le leggi ci
sono. Ma non sempre si applicano per prevenire le infezioni ospedaliere. Lo
sostiene il procuratore aggiunto di Torino, Raffaele Guariniello. "Nel nostro
Paese - spiega il magistrato - abbiamo una legislazione che riguarda la tutela
del lavoratori in qualsiasi ambiente, anche negli ospedali. Questo è un
principio generale per cui queste leggi si applicano anche a tutela dei pazienti
ricoverati. Da un punto di vista giudiziario, la tutela contro la patologia
infettiva è una efficace risposta da parte del nostro ordinamento". "Queste sono
le leggi - aggiunge Guariniello - però, come sempre capita, non basta che le
norme siano scritte sulla carta, bisogna applicarle e farle applicare: ed è
proprio qui che incominciano i problemi. Mi sembra più ragionevole impostare un
discorso che coinvolga tutte le varie istituzioni: gli organi della pubblica
amministrazione, l'autorità giudiziaria. Ma bisogna sviluppare una cultura
perché non tutti si rendono conto che un'infezione ospedaliera può essere un
reato".
DUE MILIARDI ALL'ANNO
Ma quanto costa al servizio sanitario nazionale il dramma delle infezioni? Le
infezioni ospedaliere comportano 3 milioni e 730 mila giorni di degenza
aggiuntivi all'anno con un conseguente costo addizionale di circa 1.865 milioni
di euro. Certo, il problema non è solo italiano. Ma qui, come abbiamo detto, il
numero di infezioni contratte in ospedale è molto più alto. Secondo l'Oms, il
tasso di contagio batterico nosocomiale rappresenta un importante e sensibile
indicatore della qualità dell'assistenza prestata, in quanto ai tradizionali
rischi legati a problemi di igiene ambientale si associano quelli derivanti da
comportamenti, pratiche professionali e assetti organizzativi inadeguati. A
questo proposito, dal 2000 il ministero della Salute, nel piano sanitario
nazionale, pone tra gli obiettivi principali da perseguire la riduzione di
almeno il 25 per cento delle forme infettive contratte in nosocomio. Nel piano
del 2002-04 le infezioni erano già inserite tra gli errori in medicina e si
prevedeva l'istituzione del Cio (Comitato infezioni ospedaliere), in tutti gli
ospedali italiani. L'ultimo piano sanitario del 2008-10, quello del governo
Berlusconi, ministro Ferruccio Fazio, impone protocolli per l'uso appropriato
della terapia antibiotica, responsabile, quando mal prescritta, dell'insorgere
dei super batteri antibioticoresistenti. E prevede una campagna igienica per la
riduzione delle infezioni: "lavarsi di più le mani".