25 ottobre

 

La piazza Fiom: cosa viene dopo

di Paolo Flores d’Arcais, il Fatto Quotidiano, 20 ottobre 2010

Per capire se la manifestazione della Fiom di sabato sia stata solo un grande successo o costituisca invece una potenziale svolta storica per la vita politica e sociale del paese è necessario approfondire cinque punti: dimensioni numeriche della partecipazione, strategia sindacale radicalmente alternativa avanzata dal segretario Fiom Landini, capacità o meno di unificare lavoratori occupati con disoccupati e precari, capacità di unificare lotte sociali e lotte civili, implicita necessità di una proiezione politica di tutto ciò.

COMINCIAMO dai numeri. I mass media non hanno potuto disconoscere il successo, ma ne hanno oscurato sapientemente le dimensioni, che sono state invece del tutto fuori dell’immaginabile. Eppure tutti i giornalisti hanno visto quello che Luca Telese ha puntualmente raccontato ai lettori de Il Fatto: dopo quattro ore di manifestazione, quando durante l’ultimo discorso, quello di Epifani, molta gente cominciava a tornare a casa, via Merulana era gremita dal corteo, la cui coda doveva ancora muoversi da piazza Esedra. Ma gli altri giornalisti si sono ben guardati dal riferire la circostanza ai rispettivi lettori e telespettatori. Perché ciò avrebbe implicato il riconoscimento che neppure il Circo Massimo sarebbe stato sufficiente per quel mare di dimostranti. E poiché la manifestazione di otto anni fa al Circo Massimo con Cofferati era stata riconosciuta come la più grande nella storia della nostra Repubblica ... Quella dei numeri non è dunque questione filologica o maniacale. Se la dimensione della manifestazione non fosse stata occultata, se ci fosse stata una diretta, con le canoniche riprese dall’alto, tutti sarebbero oggi costretti a discutere sulla “scandalosa” capacità di consenso di una forza sindacale data come “isolatissima” e sul carattere di punto di riferimento generale e nazionale che la sua piattaforma “radicale” si è conquistato.

PERCHÉ è verissimo che Maurizio Landini ha fatto un discorso privo di divagazioni ideologiche, da leader sindacale tutto concretezza, ma proprio in questa concretezza sono ritornate parole ormai scomparse da anni presso i vertici della Cgil, come “ribellione” e “sfruttamento”, ed è stata delineata una linea sindacale organica e alternativa su almeno tre questioni: primo, la contrattazione deve sempre più andare in direzione di grandi contratti nazionali, addirittura per compartimenti produttivi (industria, commercio, ecc.) anziché per categorie (metalmeccanici, chimici, tessili, ecc.). Questo significa che un contratto nazionale dell’industria è il minimo vincolante per tutti gli imprenditori, senza possibilità di deroghe, poiché le uniche ammesse saranno quelle migliorative dei contratti integrativi settoriali o locali. Con il che siamo agli antipodi del modello Pomigliano, siamo allo scontro frontale con Finmeccanica e Confindustria, siamo alla rottura con Bonanni che grida “dieci, cento, mille Pomigliano”.

SECONDO, la proposta di un salario “di cittadinanza” per tutti, che dunque vada oltre la cassa integrazione, che tuteli in radice il disoccupato. Novità radicale nelle strategie sindacali italiane, fin qui sempre sospettose sul tema, che invece in gran parte dei Paesi d’Europa è conquista storica irrinunciabile (accettano solo che si discuta come rafforzarla evitando al contempo alcuni possibili effetti perversi di “disoccupazione volontaria”). Proposta accompagnata a quella del salario minimo per tutti i comparti produttivi, alla impossibilità che il lavoro precario venga remunerato meno di quello fisso, alla distruzione della frammentazione contrattuale nella stessa fabbrica tra chi dipende dall’azienda, dalla “cooperativa” di un subappalto, ecc. Anche qui siamo esattamente agli antipodi del modello che invece governo e padroni (parola che alla Fiom si usa ancora) pretendono venga accettato come necessità “obiettiva” imposta dalla globalizzazione.

TERZO, l’obbligo (addirittura per legge) della democrazia contrattuale, cioè del voto della base dei lavoratori su qualsiasi contratto, nazionale o integrativo. Il che significa l’impossibilità di firmare contratti separati con Cisl e Uil e il dovere di lasciare ai lavoratori l’ultima parola anche per vertenze concluse con la firma unanime dei sindacati. Una vera e propria “rivoluzione copernicana” che ricrea le premesse per una unità dal basso, radicata negli interessi dei lavoratori e che batterebbe in breccia gli interessi di burocrazie sindacali troppo impegolate con l’establishment. È questa strategia alternativa ad essere stata consacrata dall’inaudito successo della manifestazione di sabato. È su queste posizioni di sindacalismo innovativo che è stato “incoronato” Maurizio Landini. Non perché “radicali” ma perché le posizioni del gruppo dirigente Fiom hanno dimostrato di essere le uniche a poter unificare tutto il mondo del lavoro occupato (non a caso a riconoscersi nella lotta dei metalmeccanici c’erano dalle tessili dell’Omsa ai chimici di Porto Torres), cioè a realizzare come dirigenti metalmeccanici quello che dovrebbe essere il compito della Cgil.

MA LA STRATEGIA della Fiom si è dimostrata anche l’unica capace di parlare ai precari e ai disoccupati, compiendo quello che sembrava un impossibile miracolo: colmare tra lavoratori “garantiti” e non, un fossato che sembrava destinato inesorabilmente ad accrescersi fino a diventare baratro anche esistenziale. Questa è forse la novità più carica di conseguenze e la meno evidenziata: il sindacato storico dell’industria più “fordista” che si dimostra capace di unificare sotto la sua egida (“egemonia”, verrebbe da dire, ma di tipo davvero nuovo) i lavoratori del precariato post-moderno, raccontati come individualisti strutturalmente refrattari alla dimensione delle lotte solidali.

LA CAPACITÀ di difendere “interessi generali” proprio dando respiro strategico alla difesa dei lavoratori che direttamente si rappresenta è da sempre il “salto mortale” che a pochissime organizzazioni sindacali storicamente riesce. Ma la Fiom sabato è riuscita a fare perfino di più: ha dimostrato come possano essere unificate le lotte sociali, di cui il sindacato è istituzionalmente protagonista (o almeno dovrebbe), con le lotte per obiettivi di civile progresso, per diritti civili individuali e collettivi. Aprendo con ciò una prospettiva davvero inedita, che non era riuscita neppure alla Cgil di Cofferati nel suo momento di massima capacità rappresentativa. Non si tratta solo di avere dato spazio al movimento per l’acqua pubblica e al pacifismo attivo di Emergency, ai movimenti contro le mafie e al dovere dell’antirazzismo nella sinistra ufficiale completamente edulcorato (per usare un eufemismo), alle lotte degli studenti e alle necessità della ricerca scientifica, ma di averlo fatto indicando una serie di obiettivi irrinunciabili per il movimento sindacale in quanto tale e che – radicate nella concretezza sindacale – costituiscono già una SFIDA POLITICA. Di questo infatti si tratta, quando il segretario del sindacato metalmeccanico decide di porre DIGNITÀ e LEGALITÀ come temi cruciali della rivendicazione operaia e li correda con la richiesta che meno tasse per i salari dei lavoratori dipendenti vengano com-pensati da “più tasse per i ricchi”.

ECCO PERCHÉ, nella manifestazione più inequivocabilmente OPERAIA da molti anni a questa parte, si è avuta la partecipazione massiccia di settori consistenti di piccola e media borghesia, di quel mondo “moderato” che tutti dicono di voler rappresentare, scambiando l’essere moderati con l’essere affascinati dalla nullità dei Montezemolo o dai politicantismi dei Casini (che i voti li prendeva grazie ai Cuffaro).

LA LEZIONE della Fiom è dunque anche quella di uno straordinario realismo, che conferma come solo la strategia della intransigenza rispetto ai valori costituzionali sia capace di allargare le alleanze sociali. Fino ad ora avevamo una riprova per negativo: ammiccando alla destra i consensi dei “moderati” non si conquistavano affatto. Ora abbiamo, grazie alla Fiom, la cartina di tornasole in positivo: una politica bollata come “radicale” o addirittura “estremista” non isola affatto, anzi consente di trascinare con sé strati sociali che si stavano perdendo nell’apatia e nella rassegnazione. Per dirla nel modo più semplice, il gruppo dirigente della Fiom ha dimostrato cosa voglia dire praticare davvero una “vocazione maggioritaria”.

QUALSIASI politica sindacale ha necessità di una sua proiezione politica. Quella della manifestazione di sabato più che mai, visto che entra in rotta di collisione con la pretesa “oggettività” della globalizzazione e dunque esige una sovranità popolare che non sia succube della “libertà” di derubare la famosa “azienda Italia” di interi impianti industriali, trasferiti in qualche Serbia per avidità di iperprofitti aggiuntivi. Ma con ciò arriviamo all’ultima questione, che dovrà essere affrontata in un altro articolo. Qui possiamo solo fissare i termini ineludibili dell’interrogativo: dai partiti del centrosinistra attualmente esistenti non può venire la risposta politico-elettorale non solo necessaria ma ormai improcrastinabile. E meno che mai potrà venire dal qualunquismo con cui Beppe Grillo sta ibernando nell’avvitamento del “vaffa” le energie giovanili degli elettori “cinque stelle”. Bisognerà che le forze più consapevoli della società civile, in primo luogo le testate giornalistiche della carta e del Web, riescano a inventare modalità fin qui inesplorate per risolvere l’equazione della democrazia.

 

La Costituzione di Arcore

di Domenico Gallo

E’ giusto indignarsi ma non c’è da menare grande scandalo per l’emendamento approvato in Commissione Affari costituzionali al Senato che stabilisce che possono essere sospesi “i processi nei confronti del Presidente della Repubblica o del Presidente del Consiglio dei ministri, anche relativi a fatti antecedenti l'assunzione della carica.”
Quando un sarto confeziona un vestito deve pur sempre effettuare delle piccole correzioni, tagli o aggiustamenti, per ottenere che il vestito calzi alla perfezione al suo cliente.

Lo scandalo pertanto non sta nell’aggiustamento, ma nel fatto che un parlamento asservito confezioni un vestito costituzionale che deve calzare a pennello al capo politico che oggi svolge le funzioni di Presidente del Consiglio e domani potrebbe giocare nel ruolo di Presidente della Repubblica.

Così dopo esserci rassegnati alle leggi ad personam, che hanno corrotto la natura stessa della legge, come strumento di regolazione degli interessi per perseguire il bene pubblico, adesso ci stiamo avviando ad una Costituzione ad personam.
Se non c’è altro modo per evitarlo, allora si cambia la Costituzione per impedire che il Capo politico possa essere chiamato a regolare i suoi conti con la giustizia, rimasti ancora aperti malgrado una valanga di riforme del diritto e della procedura penale, destinate ad ostacolare il controllo giurisdizionale nei confronti dei reati dei colletti bianchi.

Tuttavia, come le leggi non possono essere deliberate ad libitum, poiché devono rispettare la Costituzione, come testimonia la fine ingloriosa del primo “Lodo Alfano” approvato con legge ordinaria, così anche le modifiche della Costituzione effettuate con legge costituzionale, non possono essere ad libitum, ma devono pur sempre rispettare quel nucleo intangibile della Costituzione rappresentato dai principi supremi della Repubblica e dalla forma repubblicana.

Come è stato giustamente osservato da Giuseppe D’Avanzo su Repubblica: “L'impunità costituzionale assicurata a Berlusconi svela come "un potere costituente" voglia scardinare l'ordinamento costituito e crearne uno nuovo ridisegnando gli equilibri dello Stato per il vantaggio di una sola persona. In modo da rendere "permanente, quotidiano e al contempo perenne" il caso d'eccezione che Berlusconi rappresenta.”

In effetti proprio questo è il significato della riforma costituzionale ad personam che i sarti di Berlusconi stanno confezionando in Parlamento. Qui ci troviamo in presenza di un potere costituente che pretende di scardinare l’ordinamento costituito, introducendo delle forme di immunità per il Capo politico che non hanno alcun fondamento giuridico in un ordinamento repubblicano. Ciò comporta il cambiamento della natura della funzione pubblica esercitata dal Presidente del Consiglio o dal Presidente della Repubblica poiché il soggetto che interpreta questi ruoli viene trasformato in una sorta di sovrano, politicamente inviolabile.

In questo modo verrebbe introdotta nell’ordinamento costituzionale una norma tendenzialmente assimilabile all’art. 4 dello Statuto Albertino che statuiva: “la persona del Re è sacra ed inviolabile”.
Nella Costituzione di Arcore che si delinea in questo provvedimento, si vorrebbe scrivere che la persona di Silvio Berlusconi è sacra ed inviolabile, almeno finché gode del favore politico della maggioranza parlamentare, che Berlusconi, evidentemente, conta di conservare in eterno.

Si tratta di una scommessa rischiosa e destinata all’insuccesso, come tanti altri progetti falliti di Berlusconi di liberarsi delle sue grane, ma non può essere sottovalutato il vulnus che introdurrebbe nell’ordinamento repubblicano, modificando l’equilibrio dei poteri e rendendo l’esercizio dei poteri politici una funzione ancora più autoreferenziale ed irresponsabile di quanto non lo sia adesso.

Per fortuna i costituenti nella loro infinita saggezza ci hanno dotato di uno strumento per impedire ad una maggioranza arrogante di fare strame della Costituzione: il referendum.
Questa maggioranza sappia che se la costituzione di Arcore venisse deliberata come legge costituzionale, troverebbe un macigno insuperabile sulla strada della sua entrata in vigore: il popolo italiano. Che l’affosserebbe con il referendum, come è già avvenuto nel 2006.

 

Canadair: arrestato il capo

di Gianluca Di Feo

Giuseppe Spadaccini, l'uomo che gestiva la flotta antincendio della Protezione civile, è accusato di una colossale frode fiscale. Lavorava per il governo e faceva esibizioni davanti a Villa Certosa

Hanno arrestato Mister Canadair. L'uomo che gestiva la flotta antincendio della Protezione civile è accusato di una colossale frode fiscale: oltre 90 milioni di euro nascosti al fisco da un'associazione per delinquere attraverso un giro di società nei paradisi fiscali.

Giuseppe Spadaccini è uno degli imprenditori più noti dell'aviazione italiana. La sua società più famosa è la Sorem, che da quasi tredici anni conduce la guerra contro i roghi per conto di Palazzo Chigi e ha esteso le sue attività in altri paesi. Infatti la Protezione civile in Italia è proprietaria solo degli aeroplani ma esternalizza tutta l'attività - piloti, addestramento, manutenzione, organizzazione operativa - a una società privata.

La Sorem ha ottenuto questo contratto per anni senza nessuna gara, con trattativa diretta: solo dal 2007 in poi sono state applicate le regole degli appalti, che hanno confermato la presenza della ditta di Spadaccini. Soltanto tra il 2001 e il 2006, secondo i dati della Corte dei conti, la Sorem ha incassato per le operazioni contro le fiamme 170 milioni di euro, grazie a contratti assegnati per decreto dalla presidenza del Consiglio. Oggi si occupa dei 19 Canadair Cl415 di proprietà statale e possiede 8 più anziani Cl215, che vengono affittati all'estero per fronteggiare le emergenze, dalla Turchia alla Corsica. Gran parte degli equipaggi vengono "noleggiati" con contratti stagionali: piloti canadesi, affiancati da qualche veterano italiano e da alcune giovani leve formate nelle scuole volo abruzzesi.

L'ultima creatura di Spadaccini è la Itali Airlines, che ha operato decine di collegamenti nazionali e ambiva a rilevare i jet Md80 dismessi dalla nuova Alitalia. Adesso svolge soprattutto collegamenti charter estivi e aerotaxi dallo scalo romano di Ciampiano. E tra le attività più singolari condotte dalla Sorem c'è stata anche la sperimentazione dell'idrovolante russo Beriev 200, usato nel 2005 a Porto Rotondo con frequenti voli-esibizione davanti a Villa Certosa.

Dietro questo regno dei cieli per i magistrati e per la Guardia di Finanza ci sarebbero state grandi nuvole nere. La procura di Pescara - città dove Spadaccini ha concentrato le sue attività - ha chiesto e ottenuto tredici arresti: tra i personaggi colpiti dai provvedimenti anche un notaio, un avvocato e i titolari di alcune società di Madeira che sarebbero state usate per nascondere i soldi al fisco. Sorprendenti anche i sequestri: pacchetti di azioni della Sorem, della Air Columbia (che si occupa della formazione di piloti e tecnici), della San (specializzata nella manutenzione); uno yacht lungo 21 metri, decine di appartamenti a Roma, Milano, Porto Rotondo. Secondo gli inquirenti il meccanismo della frode era semplice: le società di Madeira emettevano fatture per operazioni inesistenti, che servivano a creare fondi neri poi investiti in Italia e all'estero. In pratica, i quattrini pagati dallo Stato per i voli della Protezione civile sarebbero andati a finanziare case e lussi in nero.

Ma come ha rivelato due anni fa 'L'espresso', la procura sospetta che parte del denaro sia servita anche per pagare personaggi importanti per far vincere appalti alle compagnie di Spadaccini. Una piccola parte delle quote di Itali Airlines, per un valore nominale di 50 mila euro, nel 2004 sono state vendute al deputato di Forza Italia Sabatino Aracu. Ed anche nel cda delle sigle di Spadaccini siedono diversi ex politici abruzzesi di peso.

 

Turchia, l'identità curda alla sbarra

Inizia a Dyarbakir il processo contro la piattaforma politica Kck: più di 150 persone sotto processo

di Luca Bellusci*

Il 18 ottobre scorso si è aperto uno dei più grandi processi contro la società civile curda in Turchia. Al banco degli imputati erano presenti per la prima udienza al tribunale di Diyarbakir circa 150 politici e attivisti appartenenti all'organizzazione curda Koma Civakên Kurdistan (Kck).

L'accusa è quella di legami con il terrorismo e sovversione ai danni dello Stato. Anche una delegazione italiana era presente davanti al tribunale di Diyarbakir per portare la propria solidarietà ai detenuti politici curdi; la presenza di delegazioni internazionali, tra cui anche una rappresentanza dell'Ue, ha garantito il pacifico svolgimento della manifestazione, osservata a distanza di sicurezza dalla polizia. La pubblica accusa di Diyarbakir, durante la prima udienza del processo, ha presentato in tribunale un dossier di circa ottomila pagine dove si dimostrerebbero i presunti legami tra gli imputati ed il Partito Curdo dei Lavoratori (Pkk), organizzazione riconosciuta come terroristica da Usa e Ue. Nello specifico, l'accusa si riferisce alla partecipazione degli indiziati alla rete del Kck, piattaforma politica che racchiude tutti i principali movimenti politici curdi e di cui fa parte anche il Pkk.

La questione posta dall'accusa, quindi, è se anche il Kck possa definirsi un'organizzazione terroristica al pari del Pkk. A differenza del partito fuori legge però, Ue e Usa non hanno inserito il Kck nellablack list mentre il governo turco è intento, attraverso questo processo sommario, a dimostrare come sia una faccia della stessa medaglia. Il Kck, nato nel 2005, è una piattaforma formata da esponenti politici, attivisti, docenti, avvocati che hanno a cuore la causa curda in tutto il Medio Oriente. Negli anni l'organizzazione ha cambiato i propri obiettivi, spingendosi sempre più verso la difesa dei diritti della popolazione curda in Turchia, operando attraverso campagne di sensibilizzazione e incentivando la creazione di una coscienza politica collettiva sulla questione.

Tra gli imputati sotto processo ci sono anche sindaci di alcune importanti città del sud est turco, a maggioranza curda. Tra loro risulta indagato anche Osman Baydemir, sindaco di Diyarbakir, che per il momento è in libertà a differenza degli altri 151 imputati presenti alla prima udienza. Baydemir non ha esitato ad affermare - all'agenzia di stampa Firat- come la prolungata detenzione dei colleghi e degli altri attivisti del Kck sia del tutto illegale e risulti un'ennesima tortura nei confronti della società civile curda.

Anche molte organizzazioni non governative turche hanno dato il loro sostegno ai circa duemila detenuti, molti di loro in carcere dal 14 aprile 2009. Human Rights Association in un recente comunicato ha ricordato come l'attuale sistema processuale turco risulti ancora legato alla vecchia istituzione dei Tribunali per la sicurezza dello Stato, creati ad hoc per reati connessi con il terrorismo. Questa istituzione, nata dalle ceneri del terzo colpo di Stato degli anni Ottanta, venne abolita dal governo dell'Akp, partito del premier Erdogan, a maggio 2004 , in risposta alle pressioni esercitate dall'Ue per una modifica sostanziale del codice penale turco. Ma nel dicembre dello stesso anno è stata creata una nuova Corte Speciale per i reati contro lo Stato, regolamentata dagli articoli 250, 251 e 252 del Codice di procedura penale, che in sostanza riprende gli stessi principi di quella abrogata in precedenza.

Intanto il tribunale di Diyarbakir ha rifiutato la richiesta degli imputati di utilizzare la lingua curda durante il processo. Nella dichiarazione del giudice Menderes Yılmaz - riportata dal quotidiano Zaman - si fa appunto cenno al divieto di difesa in curdo in aula, tenendo in considerazioni anche le s entenze della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (Cedu). Ma questa decisione mina palesemente la libertà di espressione dei cittadini curdi in Turchia e sicuramente avrà un impatto negativo nelle trattative tra il governo ed il partito curdo del Bdp, impegnati in questo periodo a trovare una soluzione democratica per i circa venti milioni di curdi nel Paese. Inoltre il processo potrebbe provocare il riacutizzarsi del conflitto tra esercito e guerriglieri del Pkk, quest'ultimi in tregua dal mese di settembre per dimostrare la propria volontà nel cercare una soluzione pacifica della questione curda in Turchia. La strada verso la pace è ancora lontana.

*curatore del blog GeoInformazione e collaboratore del Italian Center for Turkish Studies(ICTS)

 

Alla procura di Bruxelles in un mese 103 nuove denunce contro preti

Dall'analisi dei dati il 78 per cento delle vittime di abusi sessuali sono maschi, il più giovane ha 23 anni e il più anziano 82. La Chiesa belga conferma che non istituirà una nuova commissione

BRUXELLES - La procura federale del Belgio nell'ultimo mese ha ricevuto altre 103 nuove denunce di abusi sessuali commessi da preti pedofili. E' quanto riportano oggi i quotidiani in lingua fiamminga, Gazet van Atwerpen e Het Belang, che citano dichiarazioni della portavoce della stessa procura, Lieve Pellens, nel corso di un'audizione in commissione giustizia della Camera.

Dall'analisi delle denunce emerge che la maggioranza delle vittime che ha scelto di ricorrere alla magistratura sono uomini (76%), il più giovane ha 23 anni e il più anziano 82. Per la gran parte di loro, ha spiegato Pellens, la scelta di parlare di quanto ha subito non è dettata da un desiderio di vendetta ma piuttosto di essere riconosciute come vittime. Ieri la Chiesa belga ha intanto confermato che non istituirà nessuna nuova commissione per la gestione dei casi di abuso sessuale dopo le dimissioni della commissione indipendente Adriaenssens lo scorso giugno, in seguito al sequestro da parte della magistratura dei dossier che aveva raccolto.

Molti di quei dossier erano stati poi resi pubblici, con l'assenso delle vittime. In tutto la commissione Adrianssens aveva raccolto quasi cinquecento denunce di altrettante vittime di abusi, 13 delle quali suicidatesi.

 

19 ottobre

 

Miniere globali

Simona Baldanzi*

Quando ho letto che i 33 minatori del Cile erano ancora vivi dopo 17 giorni dal crollo della miniera ho interrotto i miei appunti. Da aprile mi stavo segnando le notizie apparse sulla stampa internazionale con al centro il lavoro in miniera.

Aprile 2010. Crolla miniera di carbone in Virginia. Venticinque morti e dieci dispersi. Aprile 2010. Cina, trovati cinque cadaveri nella miniera del "miracolo. I soccorritori hanno miracolosamente estratto vivi 115 minatori, sopravvissuti a una settimana sottoterra mangiando corteccia e bevendo acqua lurida. Maggio 2010. Siberia, esplosioni in una miniera. Trenta morti, decine di feriti e dispersi. Maggio 2010. Russia. Esplode miniera di carbone. Dentro 312 minatori, 12 morti. Maggio 2010. Turchia, scoppio in miniera. 28 minatori morti, 2 dispersi. Giugno 2010. Nigeria. Strage di bambini tra i minatori. 111 morti nella corsa all'oro illegale.
Non stavo tenendo la lista delle stragi. Stavo prendendo appunti per il libro che sto scrivendo sui lavoratori dei cantieri delle grandi opere in Mugello. Fra le tute arancione ci sono i minatori, quelli che scavano le gallerie di strade e ferrovie. Minatori di infrastrutture moderne che lavorano nelle pance delle montagne. Pur tenendo presente la differenza di mansioni, di contratti, di diritti, di condizione di vita e di salute, sia per i minatori in Mugello che per quelli americani, cinesi, cileni, russi, turchi, nigeriani pensiamo siano solo fotografie del passato, fantasmi che vagano in qualche angolo della memoria e che ci scuotono dal torpore solo quando muoiono in massa o si salvano per miracolo. Invece ci sono, emigrano per lavorare in miniera o in galleria, vivono in baracche o campi base, non vedono crescere i loro figli, si ammalano di silicosi. Vicino a noi e nel silenzio.
Sono ancora attuali le considerazioni di Orwell quando indagò sui minatori, su quelli che ai suoi occhi sono statue di ferro battuto «con la liscia polvere di carbone che si appiccica loro dalla testa ai piedi». Nel 1937 scriveva infatti: «Uno può vivere una vita senza sentir parlare dei minatori, una maggioranza preferirebbe addirittura non sentirne parlare. (...) La stessa cosa avviene con tutte le specie di lavori manuali, ci tengono in vita e noi ci dimentichiamo che esistono».
Mi ha colpito molto il messaggio dei 33 minatori cileni, scritto su un foglio con una penna rossa, intrappolati, ma salvi a 700 metri di profondità. Volevano avvertire familiari e parenti che stavano bene. Attraverso la lettera di Mario, hanno scritto anche che è giusto far sapere come hanno passato gli ultimi mesi, che problemi avevano in galleria, la mancanza di sicurezza. I trentatre minatori cileni hanno mandato un messaggio al mondo globalizzato. Siamo ancora vivi. Anche se vi dimenticate spesso di noi e del lavoro che facciamo. Noi siamo qua a ricordarvi della nostra presenza e questa volta non vi potete girare da un'altra parte. E quella televisione e quei giornali che parlavano solo delle morti in miniera hanno iniziato a raccontare le loro storie, le loro famiglie in attesa, le promesse di matrimonio, i figli. Quella vita che c'è sempre stata, ma di cui nessuno parla. L'attenzione per il grande evento. Settanta giorni di grande fratello in miniera, diritti acquistati dalle tv, migliaia di giornalisti accampati nella valle di Acatama. Strumentalizzazione, spettacolo, commercio? Sì, ma proprio tutta quell'attenzione, gli occhi del mondo su di loro, ancora sottoterra, ma vivi, tutti quei soldi smossi dalle tv, li hanno salvati. Il silenzio e l'indifferenza li avrebbe uccisi come succede ogni giorno nel mondo del lavoro. Uno ad uno che escono dal bui, dalla gola della terra ci ricordano quante vite e quante storie e nomi ci stanno dentro il lavoro. Ci dicono che sono mineros e non stelle, regalano pietre e anche se ringraziano e abbracciano quel presidente che ha bocciato il piano sulla sicurezza nel lavoro, ripetono chiaramente «incidenti così non devono più accadere». Per una volta, vedere un paese che festeggia perché salva dei lavoratori, a me fa brillare gli occhi. Inutile negarlo. E spero che questa attenzione la utilizzino al meglio per quello che sono: minatori. E lo sono stati là sotto minatori, dandosi un'organizzazione, ruoli e compiti, tenendosi su il morale, sentendosi solidali e uniti, continuando a vivere, a comunicare, a giocare, dando a tutti una lezione di vita, di comunità, di civiltà, di tenuta di nervi e di cuore. Da quando è crollata la miniera duecento sono senza stipendio. Ai 33 promettono regali da nababbo e loro rispondono ancora da gruppo, pensando alla loro condizione che li ha ingoiati nella terra e poi risputati, che vogliono fare una fondazione per i minatori. Le operazioni di salvataggio con uomini e donne di tutto il mondo, competenze e macchinari, esperienze di altri minatori, ingegneri, geologi, tecnici, scienziati ha dimostrato che la sicurezza sul lavoro si può attuare. Se siamo andati sulla Luna, possiamo andare anche sottoterra, possiamo impedire che ogni giorno muoiano lavoratori di tutto il mondo in tanti lavori. Volontà e intenti di tutti. Anche con le bandiere di un paese a festeggiare come avesse vinto la nazionale a calcio e invece, per un giorno, ha vinto il lavoro.
Il 22 settembre è morto un amico in galleria. Pietro era un minatore calabrese delegato sindacale e alla sicurezza che per tutta la vita si è battuto per far conoscere la loro condizione di lavoratori migranti. Figli d'arte perché figli di altri minatori. È morto in Svizzera. Oggi sarebbe stato contento, ma avrebbe ricordato a quelli che scrivono, che filmano, che fotografano, che raccontano di non smettere. Ci sono gallerie e miniere vicine, in Italia, in Europa, buie e oscure ai più con condizioni di lavoro inaccettabili. Lavori e lavoratori che ci tengono in vita e che ci dimentichiamo che esistono.

* Autrice del romanzo «Figlia di una vestaglia blu», sui minatori del Mugello nei cantieri dell'alta velocità

 

Le nuove rotte della guerra

Il Pentagono punta sempre di più sull'Asia centrale per il transito dei rifornimenti alle truppe impegnate sul fronte afgano. Una scelta che rischia però di destabilizzare la regione
Per portare avanti una lunga campagna militare in un paese lontano, come quella in Afghanistan, non bastano soldati, armi, proiettili, carri armati e aerei. Serve anche un continuo e massiccio rifornimento di carburante per i veicoli militari, i jet e gli elicotteri, di cemento e legname per costruire basi e avamposti, di barrire antiesplosive per erigere fortificazioni, di fosse biologiche per le caserme.

Fino ad oggi, questi rifornimenti 'non letali' per le forze armate americane e alleate impegnate sul fronte afgano arrivavano per l'80 per cento via mare al porto pachistano di Karaci e da lì i container venivano caricati su camion, autotreni e autocisterne, che in una decina di giorni raggiungevano i due valichi di confine sulla frontiera afgana - quello del Khyber Pass a nord di Peshawar e quello di Chaman a nord di Quetta - per poi proseguire fino alle grandi basi militari di Bagram e Kandahar.
Il restante 20 per cento arrivava in Afghanistan via aerea, con costi almeno dieci volte maggiori.

La rotta di rifornimento pachistana è però diventata sempre più insicura, non solo per gli attacchi dei talebani contro i convogli di camion e autobotti, e inaffidabile per i sempre più tesi rapporti tra Washington e il governo di Islamabad, che a fine settembre ha addirittura bloccato il passaggio dei rifornimenti per undici giorni, come rappresaglia ai continui bombardamenti aerei americani sulle regioni tribali pachistane.

Questa situazione ha spinto il Pentagono a prendere una decisione molto rischiosa per la stabilità della regione centroasiatica: spostare la maggior parte dei rifornimenti sulle due rotte, finora secondarie, della cosiddetta 'Rete di distribuzione nord': una che parte dal porto lettone di Riga per poi attraversare la Russia, il Kazakistan e l'Uzbekistan fino al valico afgano di Termez-Hairatan (da dove parte la nuova rete ferroviaria afgana); l'altra che collega il porto georgiano di Poti, sul Mar Nero, a quello azero di Baku, sul Mar Caspio, proseguendo su navi-cargo fino al porto kazaco di Aqtau, per poi ricongiungersi all'altra linea in Uzbekistan. Ne è prevista anche una terza, attraverso Kirghizistan e Tagikistan.

I primi rifornimenti hanno iniziato a percorrere queste rotte, prevalentemente ferroviarie, lo scorso marzo. Nei mesi successivi il traffico è stato gradualmente incrementato fino a raggiungere nelle scorse settimane un ritmo di cento container al giorno, arrivando a trasportare il 60 per cento dei rifornimenti di gasolio e il 30 per cento dei materiali edili, sanitari e di sicurezza.
Il piano del Pentagono, e dei vertici della Nato, è di potenziare ulteriormente nei prossimi mesi la rotta nord - più sicura, rapida ed economica - fino a farla diventare quella principale.

Il rischio è che il massiccio trasferimento delle rotte di rifornimento militari dal Pakistan alle repubbliche centroasiatiche, attiri su questi paesi le destabilizzanti attenzioni dei movimenti jihadisti storicamente attivi in queste regioni.
La minaccia più concreta è rappresentata dal Movimento Islamico Uzbeco (Miu), gruppo armato panislamico nato a fine anni '90 nella Valle di Fergana (a cavallo tra Uzbekistan, Tagikistan e Kirghizistan) e successivamente trasferitosi in Afghanistan e in Pakistan. La sua recente ricomparsa prima nella provincia afghana settentrionale di Kunduz e poi nella Valle di Rasht, in Tagikistan, ha già messo in allarme i regimi centroasiatici.

Enrico Piovesana

 

8 ottobre

 

In attesa che cresca la Prato di tutti

La reazione della città toscana alla morte di tre cittadine cinesi ha fatto emergere la divisione e la paura del diverso

"Tre in meno! Questo ho sentito stamani al bar. Ma come abbiamo fatto a diventare così stronzi?". Alessandro è un 36enne pratese, figlio di una di quelle 'buone famiglie' decollate al tempo del boom economico, quando Prato era la culla del tessile, i soldi giravano, tanti e per molti, e l'immigrazione cinese era ancora all'orizzonte. E questa frase campeggiava sul suo profilo Facebook già poche ore dopo la tragedia del cavalcavia di Galciana, dove tre giovani donne sono morte affogate in una notte di pioggia e tempesta, incastrate nella loro auto in un sottopasso allagato e troppo profondo per sperare di risalire. Tutte e tre erano cinesi.

"Sono disgustata. Stronzi non inquadra il degrado morale in cui sta cadendo questa città". "Chiamiamo le cose con il loro nome, razzismo. Prato è una città di razzisti". "Xenofobia, direi piuttosto xenofoba". In pochi minuti la bacheca di Alessandro si è riempita di commenti e di grida di dolore e rabbia per quell'esclamazione fatta a voce alta in un bar del centro, e alla quale nessuno ha avuto il coraggio di ribattere. "Colpevole anch'io, che quando sento queste infamie scuoto la testa e, in silenzio, me ne vado". "Colpevoli tutti". In pochi minuti le decine di messaggi postati da amici "made in Prato" hanno ricomposto il puzzle di quella che è diventata una delle più grandi chinatown d'Europa. Con i suoi 50mila cinesi, Prato è ormai per un quarto orientale. Ma se vent'anni fa questa immigrazione di massa faceva comodo perché i cinesi pagavano "subito e in contanti" gli spropositati affitti imposti dai residenti per allestire laboratori tessili nei fondi lasciati vuoti dagli artigiani, ora che la crisi ha piegato il distretto industriale, gettando sul lastrico centinaia di aziende, i cinesi sono la piaga. E su di loro ricade la colpa di tutti i mali della città. "Sono come le cavallette, ci hanno risucchiato l'anima", dice convinto Remo, uno di quei "padroni" che ha chiuso "giusto in tempo" riuscendo a vendere tutto prima di fallire. I suoi acquirenti? "I cinesi e chi pagava sennò. Tanto loro li risparmiano in tasse. E poi hanno la loro mafia. Che se ne sa noi". Quanti luoghi comuni e quanto astio nella sua voce. I medesimi che si ritrova nelle piscine, nelle palestre, nei centri commerciali, nei negozi. Insofferenza per quella popolazione così diversa, che parla poco, "sputa per terra" e non fa mai un funerale. Questo si sente dire in quel di "Plato". È un'accozzaglia di ignoranza e paura a guidare una buona parte di cittadini confusi da una comunità che a stento parla italiano, che diffida per natura, e che è stanca di discriminazione e scetticismo. E questo certo non aiuta.

Come non aiuta la maniera in cui è solita reagire questa amministrazione comunale ogni volta che è chiamata a dare prova di solidarietà e apertura mentale. Alla richiesta corale della comunità cinese del lutto cittadino in segno di rispetto per la grave perdita, è stato rifilato un gentile e decisissimo no. La destrorsa giunta di Roberto Cenni - patron della Sasch e fra i primi ad avere avviato fruttuosi rapporti di lavoro con gli immigrati cinesi - sostenuta da Pdl e Lega, ha giusto concesso la bandiera a mezz'asta fino a oggi, giorno dei funerali. Niente più. "Per un disastro naturale non c'è lutto cittadino" ha spiegato laconico. Un affronto. Tanto che persino il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, ha cercato di correre ai ripari definendo "sbagliata" la posizione dell'amministrazione e porgendo le sue scuse. E non è certo la prima volta che il Comune palesa il suo pensiero sugli immigrati, rispecchiando comunque un sentimento pericolosamente diffuso a ogni livello sociale e che si sta scatenando come un'epidemia. Lo sanno bene quei trentenni in rivolta sul social network che hanno gridato alla vergogna, facendo outing e ammettendo le proprie colpe. "Dobbiamo fare qualcosa. O iniziamo a reagire a ogni commento razzista o sarà troppo tardi", dice Chiara, 34 anni, che ha appena discusso con una coetanea nello spogliatoio di una famosa palestra del centro. "Si lamentava sbraitando che ce ne sono troppi. Che se ci sono loro se ne va lei. Che se ne vada. Queste cose non le reggo".
Eccola Prato, la Prato degli adulti, inesorabilmente divisa, fatta di vecchi pratesi arrabbiati e nostalgici di un ricco passato che non ritorna, e di nuovi cinesi nati e cresciuti in Cina, per i quali è ormai troppo difficile imparare un buon italiano e avviarsi verso l'integrazione. Nel mezzo i trentenni, schiacciati da una situazione stagnante e triste. E per questa Prato c'è veramente poco da fare: c'è da indignarsi, questo sì, e da ribellarsi affinché il disagio non degeneri. Per il resto è attesa. Attesa che cresca la nuova Prato, promettente e multietnica. È la città dei giovanissimi e dei piccini, quella dove tutti parlano la stessa lingua, ridono nella stessa maniera e giocano insieme, bisticciando con le medesime movenze. La città dove si cresce, tutti, spalla a spalla. Ed è a quella Prato che occorre anelare. Alla città di tutti, fatta di pratesi punto e basta.

Stella Spinelli

 

Come cambia la censura in Cina

"Spingere i confini un po' più in là". Parla Zhang Ping, giornalista che sfida il potere

Qual è lo stato della censura in Cina? Per capirlo, vale la pena leggere chi la conosce bene.
Zhang Ping (nome di penna, "Chang Ping") è un giornalista piuttosto noto in Cina. Definito "voce liberal" (nell'accezione anglosassone), è stato redattore del Nánfāng Rìbào, un giornale di Guangzhou (Canton) noto per la sua indipendenza e per le sue inchieste su temi politicamente sensibili.
"Come scoprire la verità su Lhasa?", un articolo sui disordini in Tibet di due anni fa, firmato da Zhang, chiedeva per esempio maggiori libertà per i media che si occupano della questione tibetana.
Un mese fa, la polizia gli ha fatto visita in redazione. Da allora, gli è stato proibito di scrivere editoriali per il giornale e per le riviste collegate.
Il cartoonist Kuang Biao gli ha dedicato una vignetta significativa [cliccarci sopra per ingrandire].
In un'intervista al quotidiano taiwanese Wang Bao, Zhang spiega come cambia il sitema dei media - e quindi il controllo - nel suo Paese.
Ne riprendiamo i punti salienti.

Complicità e autocensura
I media in Cina - sostiene - hanno grande potere. Per questo motivo, è molto facile che i professionisti dell'informazione diventino "gruppo d'interesse".
Molti giornalisti "si ribellano" quindi alle autorità per il semplice desiderio di essere cooptati nel sistema di potere: "Sarebbero molti felici di essere invitati dai funzionari a cena".
Noi li chiameremmo nella migliore delle ipotesi "giornalisti compiacenti". Ma in Cina la commistione tra potere e informazione è nel solco di una tradizione millenaria in base alla quale l'intellettuale e il funzionario sono la stessa persona. Anche oggi - osserva Zheng - molti direttori e redattori hanno cariche ufficiali. Ma "nel caso di un funzionario, il segreto per avere successo è il silenzio". L'esatto contrario di quanto dovrebbe fare un buon giornalista.

Nazionalismo
Dopo Tiananmen '89 questa tendenza si è acuita. Nella società cinese si sono infatti imposti gli "studi nazionali" in contrapposizione alla precedente "liberalizzazione borghese". Un famoso storico, Li Zehou, ha così descritto la situazione: "I pensatori sono spariti e sono emersi i letterati", facendo riferimento agli eruditi della Cina imperiale, i mandarini (letterati e funzionari), riproduttori di cultura (i classici confuciani) più che creatori.
Gli studi nazionali hanno nutrito un'intera generazione di giovani cinesi nel segno della fedeltà alla tradizione ripulita da ogni pensiero critico. Ma la situazione è più complessa di quanto appaia, perché l'evoluzione della tecnologia ha messo a disposizione strumenti - come Twitter - difficilmente controllabili. E così il senso critico, uscito dalla porta, rientra dalla finestra. La generazione dei "letterati" e dei "nazionalisti" comincia a porsi qualche problema.

Evoluzione dei controlli
Così la censura si sposta su internet e si evolve tecnologicamente. Dieci anni fa, gli staff redazionali ricevevano direttive dal ministero della Propaganda che imponevano di trascurare determinati contenuti comparsi sul web. Oggi le autorità dispongono di tecnologie per censurarli alla radice, direttamente online. Il graduale trasferimento del controllo su Internet, paradossalmente, consente più libertà alla carta stampata. Sono così i giornali tradizionali che spesso diventano "scomodi".

Gli effetti del mercato
Perfino il giornale del Partito, il Quotidiano del popolo, ha creato una testata satellite, il Beijing Times, gestita secondo criteri di mercato. Un suo giornalista è stato di recente malmenato dal governatore dello Hubei, Li Hongzhong (che ha cercato di strappargli di mano il registratore digitale), perché gli faceva domande scomode su una vicenda torbida che riguardava un funzionario locale. Per Zhang questo è solo uno dei molti casi in cui i giornali (e quindi i reporter) rivelano una sempre maggiore autonomia dal potere politico, che reagisce in maniera scomposta. Il punto è che se devi "vendere" un giornale, devi anche trovare notizie che interessino alla gente. E quindi editori e direttori devono "spingere i giornalisti a rompere gli indugi e fare domande di ogni tipo".
D'altra parte, se la ragione economica sostituisce quella politica - osserva Zhang - molti media puntano sempre più a privilegiare il profitto rispetto all'informazione, cercando la compiacenza dei lettori più della verità.
E' comunque in corso un cambio generazionale nelle redazioni: oggi i ragazzi di Tiananmen sono nella maturità e tengono maggiormente a professionalità e indipendenza.

L'unione fa la forza
A marzo, tredici autorevoli testate hanno pubblicato un editoriale congiunto che chiedeva la fine dell'Hukou, la residenza obbligatoria che penalizza i migranti rurali. Il dibattito è acceso in Cina e c'è un consenso esteso sulla sua abolizione, o quanto meno riforma. Per le autorità non è questo il problema - sostiene il giornalista - bensì il fatto che i quotidiani abbiano esercitato una sorta di contropotere semplicemente coalizzandosi. Il nuovo trend del ministero della Propaganda è quindi quello di spingere i giornali a unirsi, sì, ma per sostenere posizioni dettate dall'alto

Scrivere per i cinesi
Zhang non vuole "scrivere solo per gli americani", vuole continuare a farlo per i cinesi. "Io e il gruppo del Nánfāng Rìbào non ci consideriamo forza d'opposizione contro il governo, ma testiamo costantemente i confini. Un sistema autoritario è diverso da una società fondata sul diritto, e i confini non sono sempre chiari. Questo richiede una comprensione del pensiero di chi comanda. Quanto spazio abbiamo? Nessuno lo sa, nessuno può saperlo se non si fa un tentativo. Quello che cerco di fare è spingere i confini un po' più in là".

Gabriele Battaglia

 

Sporcizia e batteri killer, l'ospedale è diventato un pericolo

Viaggio nelle strutture sanitarie italiane. Ogni anno 700 mila infettati e 15 mila morti sospette. Nelle strutture del Sud la media dei contagi è del 17%, il tasso nazionale è dell'8,7%. Quello europeo del 7,7%. Le epidemie costano al servizio sanitario 2 miliardi di euro all'anno

di ALBERTO CUSTODERO

Quando le infezioni nascono in corsia
ROMA - Bari, 4 ottobre. Antonella Mansueto aveva solo 22 anni e nell'ospedale di Putignano ci era entrata per un intervento banale, l'asportazione di una cisti. Ne è uscita incubando nel suo organismo un killer invisibile, un batterio contratto in corsia, che, dopo molti mesi di cure sbagliate e 46 giorni esatti di agonia, l'ha uccisa fra mille tormenti. Alcuni dei medici che l'hanno visitata erano addirittura convinti che avesse l'influenza. Adesso la procura di Bari indaga, i genitori chiedono giustizia. Catania, 6 ottobre. La procura apre un'inchiesta per fare luce sulla morte di Carmelo Finocchiaro, 33 anni, camionista originario di Taormina, deceduto dieci giorni prima all'ospedale Cannizzaro in seguito ad uno shock settico. Diciassette medici di due ospedali, quello di Catania e quello di Castrovillari in provincia di Cosenza, sono indagati per omicidio colposo. Anche quello di Carmelo è stato una sorta di calvario: primo ricovero in agosto dopo un incidente stradale, un principio di cancrena, secondo ricovero, amputazione del braccio, coma. La madre: "Affido il mio cuore ai giudici". Bologna, 2 ottobre, Loredana Mainetti, 59 anni, muore all'ospedale Maggiore per una setticemia contratta dopo un'endoscopia per l'asportazione di un polipo duodenale: 12 medici indagati. Tre casi isolati, sia pure a distanza così ravvicinata? Non proprio. Le vittime di un'infezione ospedaliera, secondo i dati dell'Associazione italiana dei microbiologi, l'Amcli, che saranno resi noti al congresso nazionale di Rimini del 20 ottobre - sono in Italia ogni anno circa 15 mila: malati uccisi dai cosiddetti "microbi nosocomiali". E su 9 milioni e mezzo di ricoverati all'anno negli ospedali pubblici e nelle cliniche private della Penisola, ben 700 mila si infettano proprio durante la permanenza nella struttura sanitaria. Quali sono gli ospedali a più alto tasso di endemie batteriche? Perché i pazienti vengono esposti a questi rischi senza che nessuno li avvisi? Chi dovrebbe controllare e non controlla? Quanto costa al Servizio sanitario nazionale la tragedia delle infezioni?

I 26 MORTI DELL'AURELIA HOSPITAL
Non sempre i casi più eclatanti diventano di dominio pubblico. Un'inchiesta ancora segreta della Commissione parlamentare sugli errori sanitari chiama in causa un ospedale privato romano, l'Aurelia Hospital di proprietà del Gruppo Garofalo, che opera in regime di convenzione con la Regione Lazio. In questa struttura in soli nove mesi (dal gennaio al settembre 2009), si sono verificati 80 casi di infezioni ospedaliere provocate dall'acinetobacter baumanii, un batterio che si diffonde in ambienti dove c'è scarsa igiene e pulizia e resiste a moltissimi antibiotici. Di questi 80 pazienti, 26 sono morti. Come è potuto accadere? Certo, al momento non è chiaro in che misura l'infezione abbia influito sulle cause dei decessi. Il presidente della Commissione d'inchiesta, Leoluca Orlando, ha inviato una lettera urgente al presidente della Regione Lazio, Renata Polverini, chiedendo una relazione. Melania Rizzoli, medico e capogruppo pdl della Commissione, giudica sospetto che "in un periodo così breve si siano verificati 26 decessi in presenza del pericoloso batterio. Bastano pochi casi per chiudere i reparti". Franco Turani, primario della Rianimazione, s'è giustificato così: "Si trattava di pazienti con insufficienza multiorgano di tali gravità per cui la causa del decesso è ampiamente ascrivibile alle suddette criticità". A smentirlo, la vedova di uno di quei morti, Anna G., che, assistita dall'avvocato Katia Verlingieri di Benevento, ha avviato una causa civile. "Mio marito aveva 40 anni - racconta Anna G. - è entrato all'Aurelia per un problema cardiaco. Gli hanno praticato alcuni stent coronarici, poi ha avuto delle complicazioni e lo hanno ricoverato in rianimazione. Quando è morto non mi hanno dato spiegazioni. Solo leggendo la cartella clinica, ho appreso che mio marito aveva contratto in ospedale due batteri, l'acinetobacter e lo stafilococco".
Non tutti quei 26 pazienti, del resto, erano ricoverati in rianimazione. Almeno un terzo di loro era distribuito in altri reparti, dunque non a rischio immediato, e alcuni persino in riabilitazione. L'indagine ha dimostrato uno stretto rapporto fra l'alto numero di infezioni e le precarie condizioni igienico strutturali dell'Aurelia Hospital. Un sopralluogo del Dipartimento di prevenzione (Sisp, Spresal e Area Governo della Rete) diretto dal professor Daniele Gamberale ha dato l'allarme sulle precarie condizioni igieniche generali. "Tutta la struttura dell'Aurelia - si legge - si presenta in carente stato manutentivo e, per gli spazi comuni esterni alle aree di degenza, in cattivo stato di pulizia". Critiche e osservazioni anche su molti altri reparti, pronto soccorso compreso. In seguito ai risultati di questa ispezione, il responsabile della Direzione delle Politiche di prevenzione della Regione Lazio, dottor Salvatore Calabretta, ha inoltrato alla presidenza della Regione Lazio una proposta di diffida "al fine di ottenere l'attuazione di interventi manutentivi ordinari e straordinari volti al ripristino delle idonee condizioni igienico-sanitarie necessarie per tutti i locali dei reparti (particolarmente urgenti per i servizi igienici annessi alle stanze di degenza), negli spogliatoi, nel Dea-pronto soccorso, nel blocco operatorio del secondo piano, nella camera mortuaria, negli spazi esterni".

NIENTE CONTROLLI DA NORD A SUD
Il caso dell'Aurelia Hospital, pur eclatante, non è isolato. Le infezioni colpiscono tutti gli ospedali senza risparmiare neppure i punti di eccellenza con una media nazionale dell'8,7 per cento (contro 7,7 della media europea), e oscillazioni che variano dal 5% al Nord al 17% al Sud. Va detto che nel Mondo i tassi di infezione più elevati si registrano nei Paesi del Medio Oriente (11,8%), e nel Sud Est Asiatico (10%), con un tasso lievemente inferiore negli ospedali della Costa Occidentale del Pacifico. Ed è proprio dall'estero, in particolare da India, Pakistan e Regno Unito che, secondo la rivista Lancet, stanno arrivando gli ultimi superbatteri killer resistenti a ogni tipo di antibiotico. "Ma ceppi simili a questi, come le Klebsielle pneumoniae multiresistenti - ammonisce la professoressa Maria Paola Landini, docente di microbiologia a Bologna - noi li abbiamo già in casa da almeno un anno e nessuno ha mai detto nulla. Il primo di questi superbatteri è stato isolato nel silenzio generale all'Ospedale Careggi di Firenze alla fine del 2008". Ed è allarme al Policlinico Sant'Orsola di Bologna dove, nei primi sei mesi del 2010, s'è registrato un aumento di questi batteri antibioticoresistenti: l'11.4% dei ceppi di Klebsiella pneumoniae isolati si sono rivelati multiresistenti, stessa cosa per il 58% degli Acinetobacter baumanii.
In Piemonte, nel centro di trapianti delle Molinette di Torino, fra il 1997 e il 2002 ci furono due epidemie: una di legionellosi diffusa da impianti idraulici sporchi, l'altra di aspergillosi per contaminazione dalle polveri dei cantieri. La prima provocò sette morti, la seconda nove. Qui, alle Molinette, Giovannella Tramoni, 48 anni, operata due anni fa di tumore al seno, ha dovuto affrontare un calvario non ancora terminato di una decina di operazioni per rimediare ai danni di una devastante infezione alle protesi.
Ma hanno diritto i pazienti di sapere qual è il tasso di infezioni all'interno degli ospedali pubblici e privati in modo da poter scegliere quelli che meglio rispettano i protocolli igienico-sanitari? E sono obbligate le direzioni sanitarie a denunciare alle procure e alle Regioni le percentuali delle endemie batteriche oppure quei dati possono tenerli nascosti?
In Emilia Romagna, a Modena, all'Hesperia Hospital, centro cardiochirurgico privato accreditato, tre pazienti - una donna di 78 anni e due uomini di 51 e 83 - sono morti tra febbraio e marzo per un'infezione di stafilococco diffusasi nel cuore durante l'intervento di sostituzione di una valvola. Due di loro erano stati operati lo stesso giorno, nello stesso blocco operatorio, e hanno contratto lo stesso tipo di batterio. A maggio al Policlinico Umberto I di Roma è tornato l'incubo epidemia (12 anni fa la legionella accecò 4 anziani operati di cataratta, 11 anni fa 15 neonati furono colpiti da enterite, 9 anni fa 4 puerpere contrassero la polmonite). A morire, questa volta, una donna ricoverata in neurochirurgia contagiata dal micidiale acinetobacter. Il 17 maggio di quest'anno un'altra donna operata al Policlinico Umberto I e ricoverata dopo nella rianimazione della Fondazione Santa Lucia di Roma, è deceduta sempre a causa dall'acinetobacter. Man mano che si scende più a Sud la situazione peggiora. E le condizioni igieniche precarie nelle quali si trovano alcuni ospedali come il Cardarelli di Napoli, il Civico di Palermo e l'ospedale di Vibo Valentia sono fra le cause dei picchi dei tassi di infezioni che in Meridione sfiorano il 17%. A Cosenza un poliziotto in pensione, dopo un intervento chirurgico all'intestino, s'è infettato ed è morto fra atroci sofferenze: il figlio, Michelangelo Russo, ha fatto causa ai medici. Un anno fa a Napoli s'è verificata un'epidemia di legionella all'ospedale Monaldi che ha ucciso due persone e ne ha infettate altre dieci. A gennaio due neonati sono morti uccisi da una setticemia negli ospedali Riuniti di Foggia, nel reparto di Terapia intensiva neonatale.
Secondo il Comitato di studio per le infezioni ospedaliere dell'Associazione microbiologi, le infezioni si sviluppano maggiormente nell'apparato urinario (26%), in quello respiratorio (le polmoniti sono il 25%), quindi ci sono le infezioni del sangue (18%) e della ferita chirurgica (16%). Particolarmente a rischio sono tutti quei pazienti ricoverati presso le unità di terapia intensiva (si arriva anche al 30 % di casi), o nelle riabilitazioni, nelle oncologie ed ematologie, nelle geriatrie e in tutti quei reparti che ospitano malati immunodepressi.
Chi dovrebbe effettuare regolarmente i controlli sulle strutture? Le leggi ci sono. Ma non sempre si applicano per prevenire le infezioni ospedaliere. Lo sostiene il procuratore aggiunto di Torino, Raffaele Guariniello. "Nel nostro Paese - spiega il magistrato - abbiamo una legislazione che riguarda la tutela del lavoratori in qualsiasi ambiente, anche negli ospedali. Questo è un principio generale per cui queste leggi si applicano anche a tutela dei pazienti ricoverati. Da un punto di vista giudiziario, la tutela contro la patologia infettiva è una efficace risposta da parte del nostro ordinamento". "Queste sono le leggi - aggiunge Guariniello - però, come sempre capita, non basta che le norme siano scritte sulla carta, bisogna applicarle e farle applicare: ed è proprio qui che incominciano i problemi. Mi sembra più ragionevole impostare un discorso che coinvolga tutte le varie istituzioni: gli organi della pubblica amministrazione, l'autorità giudiziaria. Ma bisogna sviluppare una cultura perché non tutti si rendono conto che un'infezione ospedaliera può essere un reato".

DUE MILIARDI ALL'ANNO
Ma quanto costa al servizio sanitario nazionale il dramma delle infezioni? Le infezioni ospedaliere comportano 3 milioni e 730 mila giorni di degenza aggiuntivi all'anno con un conseguente costo addizionale di circa 1.865 milioni di euro. Certo, il problema non è solo italiano. Ma qui, come abbiamo detto, il numero di infezioni contratte in ospedale è molto più alto. Secondo l'Oms, il tasso di contagio batterico nosocomiale rappresenta un importante e sensibile indicatore della qualità dell'assistenza prestata, in quanto ai tradizionali rischi legati a problemi di igiene ambientale si associano quelli derivanti da comportamenti, pratiche professionali e assetti organizzativi inadeguati. A questo proposito, dal 2000 il ministero della Salute, nel piano sanitario nazionale, pone tra gli obiettivi principali da perseguire la riduzione di almeno il 25 per cento delle forme infettive contratte in nosocomio. Nel piano del 2002-04 le infezioni erano già inserite tra gli errori in medicina e si prevedeva l'istituzione del Cio (Comitato infezioni ospedaliere), in tutti gli ospedali italiani. L'ultimo piano sanitario del 2008-10, quello del governo Berlusconi, ministro Ferruccio Fazio, impone protocolli per l'uso appropriato della terapia antibiotica, responsabile, quando mal prescritta, dell'insorgere dei super batteri antibioticoresistenti. E prevede una campagna igienica per la riduzione delle infezioni: "lavarsi di più le mani".

 

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