Nel solo mese di luglio, in Cina si sono
vendute quasi tutte le auto che quest'anno si venderanno in Italia. 1,2 milioni
contro gli 1,7 stimati dai costruttori nel nostro paese, dopo la fine degli
incentivi statali.
«Abbiamo tanta ambizione di svilupparci molto in
questa parte del mondo», ha detto il 2 giugno scorso il presidente della Fiat,
John Elkann, partecipando alla festa della repubblica all'Expo di Shangai. Il
gruppo italiano è di fatto fuori da questo immenso mercato, considerando che la
controllata Magneti Marelli ha appena inaugurato la sua fabbrica alla presenza
di Elkann. Solo alla fine del 2011 comincerà in Cina la produzione di una
berlina italiana, la Linea, e dei suoi motori, in uno stabilimento nel Guangdong
per l'accordo di joint venture siglato dal Lingotto con Guangzhou.
L'intesa è arrivata dopo diversi scacchi con altri partner locali, con i quali
le intese si sono via via bloccate: una delle quali prevedeva la produzione
dell'Alfa Romeo in Cina. Oggi, la «tanta ambizione» del gruppo deve
accontentarsi di un accordo limitato: gli obiettivi sono la produzione di
140.000 vetture e 220.000 motori nel 2012, da portare rispettivamente fino a
250.000 e 300.000 entro il 2014.
Meglio tardi che mai, certo, benché sia un ritardo che si può già definire
storico rispetto alla concorrenza europea e asiatica di Fiat. Basti pensare che
i francesi di Psa Peugeot-Citroen hanno appena firmato per una seconda joint
venture o che Renault-Nissan ha siglato un progetto sull'auto elettrica a Wuhan,
politicamente oltre che automobilisticamente importante, considerando la forte
accelerazione agli investimenti data dal governo di Pechino al tema dell'auto a
zero emissioni negli ultimi sei mesi.
La Fiat non può contare nemmeno sulla controllata Chrysler, assente dalla Cina
dopo un avvicinamento nel 2007 con Chery. Mentre i concorrenti General Motors e
Ford traggono proprio da questo mercato i loro profitti più grandi, come si è
visto negli spettacolari risultati delle trimestrali, rese note nei giorni
scorsi. Che evidenziano anche come l'altro aumento delle vendite sia stato sul
proprio mercato nordamericano, maggiore per le due big rispetto a quello della
più piccola Chrysler.
Negli obiettivi dell'amministratore delegato del gruppo Fiat più Chrysler, i
numeri piuttosto ambiziosi annunciati per il 2014 (ricordiamoli, 3,8 milioni di
auto «italiane» e 2,8 «americane») tengono conto della Cina soltanto per le
circa 300.000 vetture del Guangdong.
Questo mercato, per altro, sta premiando più i marchi di lusso che i generalisti
come Fiat. In luglio, Audi ha aumentato le vendite del 53%, Bmw dell'82,
Mercedes ha triplicato le vendite. Non che le cose vadano male per tutti gli
altri: in Cina ci sono ancora soltanto 20 automobili per 1.000 abitanti.
Se nel 2009 le vendite sono aumentate complessivamente del 46% - un anno boom,
spinto anche dalla detassazione del governo del 50% per chi acquistava
automobili con una cilindrata massima di 1600 centimetri cubici - quest'anno
l'associazione dei costruttori in Cina prevede una crescita del 17%, con un
mercato fatto da circa 16milioni di vendite nuove.
E' un rallentamento, se non fosse che la parola suona strana nel depresso
occidente e se non fosse che a guardare meglio i dati degli ultimi quindici
anni, la crescita media del mercato cinese si è attestata fra il 12 e il 22%.
Gli analisti prevedono una piccola frenata in agosto e un settembre così così,
per poi chiudere in bellezza il 2010 negli ultimi tre mesi.
Andrea Palladino
La collina dei misteri
Le case coloniche della pianura pontina sono le
ultime labili tracce di una terra antica. Terra scura, di bonifica, terra smossa
da generazioni di contadini, terra di migrazione e di fratture. Le strade che
l'attraversano, a sessanta chilometri da Roma, riescono a mantenere quell'aura
del '900, con davanti agli occhi le immagini delle giornate passate sulle
coltivazioni, di famiglie sedute attorno a tavole che profumavano di campi e di
lavoro. Era zona di malaria, di bufale, di carretti, di nebbie. Poi area
bonificata - con le opere iniziate a fine '800 e concluse dal Mussolini della
propaganda, chino a tagliare il fieno per le cineprese del Luce - e consegnata a
contadini veneti, gente tosta e fiera.
La pianura pontina è oggi altro. È dove le ecomafie stanno giocando la peggiore
partita, sporca, crudele e senza prigionieri. Tra i borghi che attorniano la
nera Latina si contendono il territorio i colossi dei servizi ambientali, mentre
sottoterra agisce indisturbata la peggiore manovalanza camorrista. Dell'epoca
della malaria qui rimane solo la nebbia e il silenzio, irreale.
Borgo Montello è una piccola rocca, incastrata tra Nettuno e Cisterna. Sorge sul
confine - labile e mobile - tra il territorio controllato dalla 'ndrina dei
Gallace, originaria della provincia di Catanzaro, e i campi dove gli Schiavone
di Casal di Principe hanno investito milioni di euro. Dalla sommità della
piccola chiesa del borgo si può intravedere la centrale nucleare di Borgo
Sabotino, dismessa nel 1987 e oggi cantiere aperto, pronta ad accogliere le
fantasie nucleari di Berlusconi.
I colossi della monnezza
In questo piccolo borgo c'è una delle più grandi
discariche del Lazio, divisa tra due colossi dei rifiuti. C'è la Indeco, del
gruppo Grossi, oggi indagato a Milano per lo scandalo della bonifica di Santa
Giulia; e c'è la Ecoambiente della Waste Management controllata dai fratelli
Colucci, grandi elettori e finanziatori del centrodestra, che a Latina è
padrone. Ma Borgo Montello non è semplicemente un ammasso di monnezza, è una
vera collina dei misteri dove fusti tossici appaiono, si smaterializzano, si
trasformano, come per incanto, in semplici ricordi. Ed è una sorta di porto
senza mare, dove la notte arrivavano fusti di navi con i nomi atroci, come la
Zanoobia e la Karin B.
L'audizione dei magistrati di Latina era attesa. Prima annunciata, poi rinviata.
Alla fine, il 30 giugno scorso, il procuratore aggiunto Nunzia D'Elia e il Pm
Giuseppe Miliano entrano a Palazzo San Macuto. La commissione bicamerale
d'inchiesta sui rifiuti deve molto a questa terra. Alla fine degli anni '90 a
Pontinia vennero sequestrati migliaia di fusti e, nel 2000, la commissione
guidata da Massimo Scalia partì dalla provincia di Latina per ricostruire la
rete - intricata e potente - delle lobby dei rifiuti. Un groviglio dove si
incontrano e si sfiorano i grandi operatori internazionali e i piccoli broker
campani, con relazioni che spiegano perché siamo terra di veleni.
Dunque la commissione che oggi è presieduta da Pecorella attendeva con ansia i
magistrati pontini, anche perché di Borgo Montello sentono parlare da anni. Qui,
secondo Carmine Schiavone, i casalesi hanno sotterrato migliaia di fusti
velenosi, riscuotendo alla fine degli anni '80 500 mila lire per ogni bidone
interrato. Fino ad oggi la presenza dei veleni era una sorta di ombra: le acque
sono avvelenate, e su questo non c'è dubbio. Da cosa? In tanti anni nessuno lo
ha mai scoperto, o meglio, nessuno lo ha voluto sapere.
Il procuratore Nunzia D'Elia - arrivata a Latina da pochi mesi - ha cercato di
spulciare l'archivio della Procura, cercando una traccia, un rapporto, un
ricordo. Ne sono usciti fantasmi e ombre: «C'è una notizia data a un ufficiale
di PG della provinciale che ha detto di aver rinvenuto personalmente nel 2001 un
fusto nell'invaso S3, se non sbaglio, che si sarebbe distrutto», ha spiegato il
procuratore aggiunto. Un fusto che appare e che, mentre viene recuperato, si
smaterializza, si polverizza.
Come inchiostro simpatico
La prima prova, la carta che poteva raccontare
cosa si cela nella pancia della gigantesca discarica di Latina sparisce appena
esce dalla tomba dove era stato sotterrato. «È come il nastro degli 007 -
commenta Pecorella - che dopo essere stato ascoltato si dissolve».
A Latina non sono solo i veleni di Borgo Montello a volatilizzarsi. Del
sequestro di migliaia di fusti in un deposito a Pontinia non c'è più traccia.
«Personalmente, non sono riuscita a recuperare eventuali procedimenti penali»,
racconta con una vena di sconforto Nunzia D'Elia. Forse era un episodio minore,
uno di quei processi da Pretura, che finiscono subito negli archivi. Ma non era
così. Basta rileggere quello che scriveva la commissione rifiuti guidata da
Scalia nel 2000: «Il sequestro di Pontinia è stato (in termini quantitativi) il
più rilevante del genere mai effettuato in Italia ed esso è stato lo spunto per
un'attività di indagine autonoma della Commissione (...) per valutare
l'esistenza o meno di una sorta di holding affaristico-criminale attiva sul
territorio nazionale nel ciclo dei rifiuti». Si trattava di 11.600 fusti, con i
residui delle industrie farmaceutiche e chimiche di rilievo nazionale. Rifiuti
stoccati a partire dal 1997 dalla società Sir di Roma, al centro del complesso
intreccio societario che Massimo Scalia ricostruì dieci anni fa. Ma di tutto
questo non c'è più una sola traccia a Latina.
Camion di notte e un omicidio
A Borgo Montello nessuno nasconde la paura per
quella collina, carica di veleni e di misteri. Erano i primi anni '90 quando un
gruppo di cacciatori lanciò l'allarme: la notte arrivano dei camion e scaricano
bidoni. Nel piccolo borgo la curiosità era tanta e così la mattina qualcuno
avvicinò gli autisti che facevano colazione al bar. «Da dove venite?» - chiesero
- «Dalla Toscana e dall'Emilia» - fu la risposta. Ma la conversazione andò
oltre, ricordano oggi gli abitanti: «Cosa portate?» - «I fusti delle navi». E
per la prima volta uscirono fuori i nomi della Zanoobia e della Karin B, due
delle navi dei veleni utilizzate per riportare in Italia le scorie abbandonate
in Venezuela e in Nigeria da società italiane.
C'era un prete a Borgo Montello che si era messo in testa di andare fino in
fondo su questa storia. Era un veneto, aveva ottant'anni ed è morto incaprettato
nella sua canonica nel marzo del 1995. Sei mesi di indagini e un'archiviazione
veloce, sotto la voce «ignoti», aggiungendo il suo nome all'elenco dei misteri e
delle prove scomparse.
Oggi per i magistrati di Latina la via per ricostruire la verità su Borgo
Montello è terribilmente difficile da percorrere. Anni di indagini mancate,
pezzi di inchiesta e prove finite nel nulla, come quel fusto che nel 2001 si
volatilizzò alla stregua dei nastri degli 007.
Per capire cosa si cela sotto una collina di rifiuti normalmente si scavano dei
pozzetti da dove prelevare acqua e campioni degli eventuali veleni. Si chiamano
pozzi piezometrici e sono fondamentali per il monitoraggio ambientale. Il
pubblico ministero di Latina, Giuseppe Miliano, che oggi segue l'inchiesta ha
provato ad incrociare questi dati: «Nel corso delle ultime indagini, ho
accertato che il piezometro che in passato aveva segnalato la presenza di queste
sostanze non esiste più. Tale aspetto è emerso proprio di recente. Quindi, sarà
nostro interesse capire per quale motivo l'Arpa ha eliminato questo tipo di
elementi». Un altro pezzo di verità sottratto.
Il mediatore dei rifiiuti
Da queste parti fare il mediatore di rifiuti è un
mestiere che rende. Solo tre anni fa a Fondi un immobiliarista poi arrestato per
usura con modalità mafiose si vantava di aver concluso accordi milionari per
esportare rifiuti industriali in Liberia. Mostrò a tutti una foto con i
rappresentanti del paese africano, l'ex sindaco di Fondi Luigi Parisella - lo
stesso che il prefetto Frattasi voleva far dimettere, dopo aver accertato
infiltrazioni mafiose - e un misterioso imprenditore di rifiuti, che poco dopo
annunciava sul sito della confindustria di Latina la possibilità di mandare in
Romania migliaia di tonnellate di monnezza.
Le inchieste che i magistrati da poco arrivati a Latina stanno oggi conducendo
raccontano una gestione dell'intero ciclo dei rifiuti perlomeno sospetta. Si va
dal comune di Minturno, dove la società Cic Clin è indagata per frode in
pubbliche forniture, fino a Terracina, dove i magistrati stanno analizzando la
società Aspica. E nelle ultime inchieste della Dda di Napoli appaiono i rapporti
stretti tra imprenditori dei casalesi - attivi nell'edilizia - con nomi noti a
Latina per l'intermediazione dei rifiuti. I veleni e gli affari criminali della
peggiore imprenditoria italiana da tempo hanno lasciato la Campania. E oggi
puntano decisamente verso la capitale, seguendo le strade che da Latina portano
a Roma.
I bambini di Kony
La nuova campagna di arruolamenti forzati del
Lord's Resistance Army semina il panico in Congo e Repubblica Centraficana. Il
prezzo più alto è quello pagato dai bambini.
Si abbattono sui villaggi come un flagello; come
uno sciame di locuste divorano e saccheggiano tutto ciò che può servire a
soddisfare i loro istinti. Solo che, dopo il passaggio delle orde del Lord's
Resistance Army (Lra) guidati dal messianico comandante Joseph Kony, a sparire
dalle case messe a ferro e fuoco non sono soltanto le provvigioni, ma anche
qualcosa di molto più prezioso: bambini e bambine. I primi impiegati nella lotta
armata, le seconde come schiave del sesso nelle alcove dello stato maggiore del
Lra. Joseph Kony, l'uomo che vorrebbe rovesciare il potere del presidente
Museveni, ha in mente di instaurare a Kampala un governo teocratico regolato dai
Dieci Comandamenti della Bibbia. Per far ciò deve rientrare in Uganda (dopo che
l'esercito ugandese lo ha respinto fuori dai confini nel 2005) e rimpinguare le
fila del suo esercito. Kony non ha scrupoli, procede nella sua campagna di
arruolamento in maniera sistematica e spietata: arriva in un villaggio, lo
saccheggia, lo rade al suolo, rapisce gli uomini e i bambini più in salute per
usarli come soldati, le bambine come schiave e come concubine. I più deboli
vengono ammazzati come bestie a colpi di bastone (i proiettili sono troppo
preziosi per essere usati contro vittime inermi). Spesso, come esecutori di
queste stragi vengono scelti proprio i bambini che sono costretti a uccidere i
propri genitori, gli amici, i vicini di casa. Negli ultimi diciotto mesi,
denuncia Human Right Watch (Hrw), gli uomini di Kony hanno effettuato 697
rapimenti (tra cui circa 250 bambini di età inferiore o poco superiore ai dieci
anni) hanno ucciso 255 civili e provocato fughe di masse dai villaggi colpiti
dalle devastazioni del Lra.
Operano in Uganda, in Sudan, in Repubblica Centrafricana ma l'area più colpita
dalle incursioni di Kony è la provincia nordorientale del Congo (Drc) Bas Uele.
The Enough Project (Enough), un'organizzazione non governativa che lotta per la
prevenzione dei genocidi e dei crimini di guerra, ha documentato (in un periodo
monitorato tra l'aprile del 2009 e il maggio del 2010) cinquantuno attacchi
separati nel Bas Uele, 105 morti, 570 rapimenti (tra cui quelli di 52 bambini),
58 mila profughi interni.
Questa nuova ondata di violenza, che secondo Hrw ed Enough viene ignorata dal
main streaming e dai governi occidentali, ha innalzato un nuovo fronte polemico
(dopo quanto successo l'anno scorso nel Kivu) nei confronti delle Nazioni Unite
e della loro missione in Congo (Monuc): dove sono i 19 mila caschi blu che
dovrebbero proteggere la popolazione da queste violenze? In tutta la provincia
di Bas Uele, infatti, il Monuc ha una sola base, quella di Dingile.
Mentre Hrw ed Enough lanciano l'allarme e invocano l'intervento di Stati Uniti,
Onu e governi regionali per fermare la follia di Kony, pare che la sopravvivenza
del Lord's Resistance Army sia utile a troppi giochi e ricatti politici:
l'opposizione accusa il presidente Museveni, il presidente di ferro dell'Uganda,
di non fare nulla per fermare Kony perché quest'ultimo costituisce un ottimo
movente per condurre politiche repressive nei confronti della popolazione; le
autorità del Sud Sudan accusano Khartoum di sponsorizzare e finanziare le truppe
di Kony nel territorio sud sudanese per destabilizzare la regione. Il 24 maggio
scorso il Congresso degli Stati Uniti ha approvato, e il presidente Obama ha
firmato, l'Lra Disarmament and Northen Uganda Recovery Act, una legge che
darebbe mandato al presidente Obama, di concerto con i governi regionali, a
fermare i crimini del Lra e a ricostruire la società civile nel nord
dell'Uganda. Ad oggi, però, nessun passo è stato fatto in questa direzione. Hrw
continua a chiedere che vengano spiccati dei mandati di cattura per crimini di
guerra nei confronti dello stato maggiore del Lra, i villaggi del Bas Uele
continuano a vivere nel terrore e i bambini convertiti in soldati continuano ad
essere sottoposti ai crudeli cerimoniali d'iniziazione che li trasformano negli
assassini di chi li ha messi al mondo.
Nicola Sessa
Mondadori salvata dal Fisco,
scandalo "ad aziendam" per il Cavaliere
La somma dovuta dall'azienda editoriale: 173
milioni, più imposte, interessi, indennità di mora e sanzioni. Una norma che si
somma ai 36 provvedimenti "ad personam" fatti licenziare alle Camere dal
premier. Segrate è difesa al meglio: i suoi interessi li cura lo studio
tributario di Giulio Tremonti, nel '91 non ancora ministro. Marina Berlusconi
mette da parte 8,6 milioni, in attesa delle integrazioni al decreto. Che
puntualmente arrivano
di MASSIMO GIANNINI
Sotto i nostri occhi, distolti dalla Parentopoli
privata di Gianfranco Fini usata come arma di distruzione politica e di
distrazione di massa, sta passando uno scandalo pubblico che non stiamo vedendo.
Questo scandalo si chiama Mondadori. Il colosso editoriale di Segrate - di cui
il premier Berlusconi è "mero proprietario" e la figlia Marina è presidente -
doveva al Fisco la bellezza di 400 miliardi di vecchie lire, per una
controversia iniziata nel '91. Grazie al decreto numero 40, approvato dal
governo il 25 marzo e convertito in legge il 22 maggio, potrà chiudere la
maxi-vertenza pagando un mini-tributo: non i 350 milioni di euro previsti (tra
mancati versamenti d'imposta, sanzioni e interessi) ma solo 8,6. E amici come
prima.
Un "condono riservato". Meglio ancora, una legge "ad aziendam". Che si somma
alle 36 leggi "ad personam" volute e fatte licenziare dalle Camere dal
Cavaliere, in questi tumultuosi quindici anni di avventurismo politico.
Repubblica ha già dato la notizia, in splendida solitudine, l'11 agosto scorso.
Ma ora che il centrodestra discute di una "questione morale" al suo interno, ora
che la propaganda di regime costruisce teoremi assolutori sul "così fan tutti" e
la macchina del fango istruisce dossier avvelenati sulle compravendite
immobiliari, è utile tornarci su. E raccontare fin dall'inizio la storia, che
descrive meglio di ogni altra l'enormità del conflitto di interessi del premier,
il micidiale intreccio tra funzioni pubbliche e affari privati, l'uso personale
del potere esecutivo e l'abuso politico sul potere legislativo.
Il prologo: paura a Segrate
La vicenda inizia nel 1991, quando il marchio Mondadori, da poco entrato
nell'orbita berlusconiana, decide di varare una vasta riorganizzazione nelle
province dell'impero. Scatta una fusione infragruppo tra la stessa Arnoldo
Mondadori Editore e la Arnoldo Mondadori Editore Finanziaria (Amef). Operazioni
molto in voga, soprattutto all'epoca, per nascondere plusvalenze e pagare meno
tasse. Il Fisco se ne accorge, scattano gli accertamenti, e le Finanze chiedono
inizialmente 200 miliardi di imposte da versare. L'azienda ricorre e si apre il
solito, lunghissimo contenzioso. Da allora, la Mondadori vince i due round
iniziali, davanti alle Commissioni tributarie di primo e di secondo grado. È
assistita al meglio: i suoi interessi fiscali li cura, in aula, lo studio
tributario di Giulio Tremonti, nel 1991 non ancora ministro delle Finanze (lo
diventerà nel '94, con il primo governo Berlusconi). Nell'autunno del 2008
l'Agenzia delle Entrate presenta il suo ricorso in terzo grado, alla Cassazione.
Nel frattempo la somma dovuta dall'azienda editoriale del presidente del
Consiglio è lievitata: 173 milioni di euro di imposte dovute, alle quali si
devono aggiungere gli interessi, le indennità di mora e le eventuali sanzioni.
Il totale fa 350 milioni di euro, appunto.
Se la Suprema Corte accogliesse il ricorso, per Segrate sarebbe un salasso
pesantissimo. Soprattutto in una fase di crisi drammatica per il mercato
editoriale, affogato quanto e più di altri settori dalla "tempesta perfetta" dei
mutui subprime che dal 2007 in poi sommerge l'economia del pianeta. Così, nel
silenzio che aleggia sull'intera vicenda e nel circuito perverso del
berlusconismo che lega la famiglia naturale alla famiglia politica, scatta un
piano con le relative contromisure. Che non sono aziendali, secondo il principio
del liberalismo classico: mi difendo "nel" mercato, e non "dal" mercato. Ma
normative, secondo il principio del liberismo berlusconiano: se dal mercato non
mi posso difendere, cambio le leggi. Un "metodo" collaudato, ormai, che anche
sul fronte dell'economia (come avviene da anni su quello della giustizia) esige
il "salto di qualità": chiamando in causa la politica, mobilitando il partito
del premier, militarizzando il Parlamento. Un "metodo" che, nel caso specifico,
si tradurrà in tre tentativi successivi di piegare l'ordinamento generale in
funzione di un vantaggio particolare. I primi due falliranno. Il terzo centrerà
l'obiettivo.
Il primo tentativo: il "pacchetto giustizia"
Siamo all'inverno 2008. Nessuno sa nulla, del braccio di ferro che vede
impegnate la Mondadori e l'Amministrazione Finanziaria. Nel frattempo, il 13
aprile dello stesso anno il Cavaliere ha stravinto le elezioni, è di nuovo capo
del governo, e Tremonti, da "difensore" del colosso di Segrate in veste di
tributarista, è diventato "accusatore" del gruppo, in veste di ministro
dell'Economia. Può scattare il primo tentativo. E nessuno si insospettisce,
quando nel mese di dicembre un altro ministro del Berlusconi Terzo, il
guardasigilli Angelino Alfano, presenta il suo corposo "pacchetto giustizia" nel
quale, insieme al processo breve e alla nuova disciplina delle intercettazioni
telefoniche, compare anche la cosiddetta "definizione agevolata delle liti
tributarie". Una norma stringatissima: prevede che nelle controversie fiscali
nelle quali abbia avuto una sentenza favorevole, in primo e in secondo grado, il
contribuente può estinguere la pendenza, senza aspettare l'eventuale pronuncia
successiva in terzo grado (cioè la Cassazione) versando all'erario il 5% del
dovuto. È un piccolo "colpo di spugna", senz'altro. Ma è l'ennesimo, e sembra
rientrare nella logica delle sanatorie generalizzate, delle quali i governi di
centrodestra sono da sempre paladini. In realtà, è esattamente il "condono
riservato" che serve alla Mondadori.
L'operazione non riesce. Il treno del "pacchetto giustizia", che veicola la
pillola avvelenata di quello che poi sarà ribattezzato il "Lodo Cassazione", non
parte. La dura reazione del Quirinale, dei magistrati e dell'opposizione, sia
sul processo breve che sulle intercettazioni, costringe Alfano allo stop. "Il
pacchetto giustizia è rinviato al prossimo anno", dichiara il Guardasigilli alla
vigilia di Natale. Così si blocca anche la "leggina" salva-Mondadori. Ma dietro
le quinte, nei primi mesi del 2009, non si blocca il lavoro dell'inner circle
del presidente del Consiglio. Il tempo stringe: la Cassazione ha già fissato
l'udienza per il 28 ottobre 2009, di fronte alla sezione tributaria, per
discutere della controversia fiscale tra l'Agenzia delle Entrate e l'azienda di
Segrate. Così scatta il secondo tentativo. In autunno si discute alla Camera la
Legge Finanziaria per il 2010. È il secondo "treno" in partenza, e per chi
lavora a tutelare gli affari del premier è da prendere al volo.
Il secondo tentativo: la Finanziaria
Giusto alla vigilia dell'udienza davanti alla sezione tributaria della Suprema
Corte, presieduta da un magistrato notoriamente inflessibile come Enrico
Altieri, accadono due fatti. Il primo fatto accade al "Palazzaccio" di Piazza
Cavour: il 27 ottobre il presidente della Cassazione Vincenzo Carbone (che poi
risulterà pesantemente coinvolto nello scandalo della cosiddetta P3) decide a
sorpresa di togliere la causa Agenzia delle Entrate/Mondadori alla sezione
tributaria, e di affidarla alle Sezioni Unite come richiesto dagli avvocati di
Segrate, con l'ovvio slittamento dei tempi in cui verrà discussa. Il secondo
fatto accade a Montecitorio: il 29 ottobre, in piena notte, il presidente della
Commissione Bilancio Antonio Azzolini, ovviamente del Pdl, trasmette alla Camera
il testo di due emendamenti alla Finanziaria. Il primo innalza da 75 a 78 anni
l'età di pensionamento per i magistrati della Cassazione (Carbone, il presidente
che due giorni prima ha deciso di attribuire la causa Mondadori alle Sezioni
Unite, sta per compiere proprio 75 anni, e quindi dovrebbe lasciare il servizio
di lì a poco). Il secondo riproduce testualmente la "definizione agevolata delle
liti tributarie" già prevista un anno prima dal "pacchetto giustizia" di Alfano.
È di nuovo la legge "ad aziendam", che stavolta, con la corsia preferenziale
della manovra economica, non può non arrivare al traguardo.
Ma anche questo secondo tentativo fallisce. Stavolta, a bloccarlo, è Gianfranco
Fini. La mattina del 30 ottobre, cioè poche ore dopo il blitz notturno di
Azzolini, il relatore alla Finanziaria Maurizio Sala (ex An) avverte il
presidente della Camera: "Leggiti questo emendamento che consente a chi è in
causa con il Fisco e ha avuto ragione in primo e in secondo grado di evitare la
Cassazione pagando un obolo del 5%: c'è del marcio in Danimarca...". Fini legge,
e capisce tutto. È l'emendamento salva-Mondadori, con la manovra non c'entra
nulla, e non può passare. La norma salta ancora una volta. E non a caso, proprio
in quella fase, cominciano a crescere le tensioni politiche tra Berlusconi e
Fini, che due anni dopo porteranno alla rottura. Ma crescono anche le
preoccupazioni di Marina sull'andamento dei conti di Segrate. Per questo il
premier e i suoi uomini non demordono, e di lì a poco tornano all'attacco.
Scatta il terzo tentativo. Siamo ai primi mesi del 2010, e sui binari di Palazzo
Chigi c'è un terzo "treno" pronto a partire. Il 25 marzo il governo vara il
decreto legge numero 40. È il cosiddetto "decreto incentivi", un provvedimento
monstre, dove l'esecutivo infila di tutto. Durante l'iter di conversione, il
Parlamento completa l'opera. Il 28 aprile, ancora una volta durante una seduta
notturna, un altro parlamentare del Pdl, Alessandro Pagano, ripete il blitz, e
ripresenta un emendamento con la norma salva-Mondadori.
Il terzo tentativo: il "decreto incentivi"
Stavolta, finalmente, l'operazione riesce. Il 22 maggio le Camere convertono
definitivamente il decreto. All'articolo 3, relativo alla "rapida definizione
delle controversie tributarie pendenti da oltre 10 anni e per le quali
l'Amministrazione Finanziaria è risultata soccombente nei primi due gradi di
giudizio", il comma 2 bis traduce in legge la norma "ad aziendam": "Il
contribuente può estinguere la controversia pagando un importo pari al 5% del
suo valore (riferito alle sole imposte oggetto di contestazione, in primo grado,
senza tener conto degli interessi, delle indennità di mora e delle eventuali
sanzioni)". E pazienza se il presidente della Repubblica Napolitano, poco dopo,
sul "decreto incentivi" invia alle Camere un messaggio per esprimere "dubbi in
ordine alla sussistenza dei presupposti di straordinaria necessità ed urgenza,
per alcune nuove disposizioni introdotte, con emendamento, nel corso del
dibattito parlamentare". E pazienza se la critica del Quirinale riguarda proprio
quell'articolo 3, comma 2 bis. Ormai il gioco è fatto. Il colosso editoriale di
proprietà del presidente del Consiglio è sostanzialmente salvo. Per consentire
alla Mondadori di chiudere definitivamente i conti con il Fisco manca ancora un
banale dettaglio, che rende necessario un ultimo passaggio parlamentare. Il
decreto 40 non ha precisato che, per considerare concluso a tutti gli effetti il
contenzioso, occorre la certificazione da parte dell'Amministrazione
Finanziaria.
Per questo, nel bilancio semestrale 2010 del gruppo di Segrate, presentato il 30
giugno scorso, Marina Berlusconi fa accantonare "8.653 migliaia di euro relativi
al versamento dell'importo previsto dal decreto legge 25 marzo 2010, numero 40"
sulla "chiusura delle liti pendenti", e fa scrivere, a pagina 61, al capitolo
"Altre attività correnti": "Pur nella convinzione della correttezza del proprio
operato, e con l'obiettivo di non esporre la società a una situazione di
incertezza ulteriore, sono state attuate le attività preparatorie rispetto al
procedimento sopra richiamato. In particolare si è proceduto all'effettuazione
del versamento sopra richiamato. Nelle more della definizione del quadro
normativo, a fronte dell'introduzione di specifiche attestazioni da parte
dell'Amministrazione Finanziaria previste nelle ultime modifiche al decreto, e
tenuto anche conto del fatto che gli atti necessari per il perfezionamento del
procedimento e l'acquisizione dei relativi effetti non sono stati ancora
completati, la società ha ritenuto di iscrivere l'importo anticipato nella posta
in esame...". Ricapitolando: la Mondadori mette da parte poco più di 8,6 milioni
di euro, cioè il 5% dei 173 che avrebbe dovuto al Fisco (al netto di sanzioni e
interessi), in attesa di considerare perfezionato il versamento al Fisco in base
alle ultime integrazioni al decreto che saranno effettuate in Parlamento. E le
integrazioni arrivano puntuali, alla Camera, il 7 luglio: nella manovra 2011 il
relatore Antonio Azzolini (ancora lui) inserisce l'emendamento finale:
"L'avvenuto pagamento estingue il giudizio a seguito dell'attestazione degli
uffici dell'Amministrazione Finanziaria comprovanti la regolarità dell'istanza e
il pagamento integrale di quanto dovuto". Ci siamo: ora il "delitto" è davvero
perfetto. La Mondadori può pagare pochi spiccioli, e chiudere in gloria e per
sempre la guerra con l'Erario, che a sua volta gliene da atto rilasciandogli
regolare "quietanza".
L'epilogo: una nazione "ad personam"?
Sembra un romanzaccio di fanta-finanza o di fanta-politica. È invece la pura e
semplice cronaca di un pasticciaccio di regime. Nel quale tutto è vero, tutto
torna e tutto si tiene. Stavolta Berlusconi non può dire "non mi occupo degli
affari delle mie aziende": non è forse vero che il 3 dicembre 2009 (come
riportato testualmente dalle intercettazioni dell'inchiesta di Trani) nel pieno
del secondo tentativo di far passare la legge "ad aziendam" dice al telefono al
commissario dell'Agcom Giancarlo Innocenzi "è una cosa pazzesca, ho il fisco che
mi chiede 900 milioni... De Benedetti che me li chiede ma ha già avuto una
sentenza a favore, 750 milioni, pensa te, e mia moglie che mi chiede 90 miliardi
delle vecchie lire all'anno... sono messo bene, no?". Stavolta Berlusconi non
può dire che Carboni, Martino e Lombardi sono solo "quattro sfigati in
pensione": non è forse vero che nelle 15 mila pagine dell'inchiesta delle
procure sulla cosiddetta P3 la parola "Mondadori" ricorre 430 volte (insieme
alle 27 in cui si ripete la parola "Cesare") e che nella frenetica attività
della rete criminale creata per condizionare i magistrati nell'interesse del
premier sono finiti sia il presidente della Cassazione Carbone (cui come abbiamo
visto spettava il compito di dirottare alle Sezioni Unite la vertenza
Mondadori-Agenzia delle Entrate) sia il presidente dell'Avvocatura dello Stato
Oscar Fiumara (cui competeva il necessario via libera a quel "dirottamento"?).
È tutto agli atti. Una sola domanda: di fronte a un simile sfregio delle norme
del diritto, un simile spregio dei principi del mercato e un simile spreco di
denaro pubblico, ci si chiede come possano tacere le istituzioni, le forze
politiche, le Confindustrie, gli organi di informazione. Possibile che "ad
personam", o "ad aziendam", sia ormai diventata un'intera nazione?
Usa-Cina, Washington grida
al lupo
L'annuale rapporto del Pentagono sulla capacità
militare della Cina
La Difesa Usa ha diffuso l'annuale rapporto "
Military and Security Developments Involving the Peoples Republic of China",
cioè in pratica il documento che fotografa lo sviluppo militare della Cina.
I toni conciliativi del "new deal" obamiano mascherano solo parzialmente la
retorica allarmistica che mira a spaventare soprattutto i vicini di casa del
Dragone: Taiwan e India. Ma anche per l'opinione pubblica americana si suona la
sirena: la Cina - si sostiene - può colpire a distanza.
Come ricorda anche The Nation, si dimentica per altro che "la spesa cinese
corrisponde a una piccola frazione di quanto spendono gli Stati Uniti per le
forze armate".
Per essere precisi: 150 miliardi di dollari è la spesa cinese del 2009 secondo
lo stesso rapporto Usa; 651 miliardi è quella Usa (nel 2010 sarà compresa tra
880 e 1.030 miliardi).
Fatte queste dovute premesse, due parole sulla genesi del documento di 83 pagine
che, uscito lunedì 16 agosto, era però pronto almeno da marzo. A Washington si è
deciso non solo di rimandarne l'uscita ma anche di cambiarne il titolo, che in
origine era " Military Power of the People's Republic of China". La scelta sposa
la linea di non urtare, almeno sul piano della buona educazione, la
suscettibilità di Pechino, che ogni anno protesta contro le "esagerazioni"
contenute nel rapporto. Anche un think-tank composto da ufficiali cinesi e
statunitensi in pensione - Sanya Initiative - ha più volte segnalato la sua
inaffidabilità. Ulteriori precauzioni sono collegate alle recenti tensioni per
la presenza della portaerei George Washington nel Mar Giallo.
Nell'edizione 2010 si sottolineano innanzitutto i cambiamenti in atto nell'
Esercito Popolare di Liberazione, che passa dalla semplice difesa dell'integrità
territoriale cinese a una nuova capacità di operare a distanza. Da anni, truppe
cinesi sono impiegate nelle operazioni di peacekeeping internazionale - sotto
l'ombrello Onu - e di soccorso in caso di calamità. Ultimamente la flotta del
Dragone sta anche pattugliando il Golfo di Aden e l'Oceano Indiano in operazioni
antipirateria.
Il Pentagono è favorevole a questo impegno, ma si mostra preoccupato invece per
altri "investimenti", che hanno permesso all'Epl di adottare strategie "
anti-accesso" ( anti-access) e di " negazione dell'area" ( area-denial), nonché
di " proiezione di potenza ad ampio raggio" ( extended-range power projection).
Si riconosce però che "la capacità cinese di sostenere una forza militare a
distanza resta oggi limitata".
In pratica, si afferma quindi che la Cina non dovrebbe potersi difendere.
Il tema dell'operatività ad ampio raggio è un po' il chiodo fisso di Washington.
Il rapporto riconosce del resto che la Cina dipende dall' importazione di
energia da "più di 50 Paesi" [si veda il box alle pp 20-21] e che "Pechino sta
ancora cercando di rendere i rifornimenti meno esposti ai rischi di interruzione
a causa di fattori esterni". Anche se sta costruendo gas e oleodotti un po'
ovunque, le forniture "continueranno a dipendere dal trasporto marittimo". In
base alla stessa logica che gli Usa applicano in giro per il mondo, non dovrebbe
quindi apparire strano che i cinesi vogliano mettere in sicurezza le rotte
attraverso il proprio esercito. Ma al Pentagono si agita lo spettro della Cina
come nuova potenza globale.
Tra le tecnologie che rendono possibile la rinnovata strategia cinese, il
rapporto dedica un occhio di riguardo a quelle spaziali e informatiche. Si
sottolinea per esempio che il programma spaziale cinese di natura commerciale ha
anche applicazioni belliche. Si fa riferimento in particolare ai diversi
satelliti (Yaogan-6, Asiasat-5, Palapa-D), che entro 2015-20 dovrebbero
diventare una vera e propria rete in grado di offrire una copertura totale del
pianeta a "utilizzatori civili e militari", e ai missili "Lunga Marcia V",
capaci di trasportare testate nucleari in orbita.
Quanto alla cyberguerra, il Pentagono denuncia sia l'accresciuta capacità cinese
di intrusione nelle reti altrui per raccogliere informazioni "che possono avere
utilità strategica o militare", sia gli attacchi ai network informatici. A
questo proposito si rispolverano le accuse di infiltrazione nei sistemi del
governo Usa e dell'India, anche se si riconosce che "non è chiaro se questi
attacchi siano avvenuti su incarico o approvazione dell'Esercito Popolare di
Liberazione o del governo cinese".
Rispetto ai vicini di casa del Dragone, si sottolinea che i rapporti di forza
nello Stretto di Formosa stanno spostandosi sempre più a favore della Cina
continentale e che nelle aree limitrofe all' Arunal Pradesh e all' Askai Chin -
contesi all'India - Pechino sta sostituendo i vecchi missili Css-3 con la nuova
generazione di Css-5.
Washington lamenta anche "i modesti miglioramenti nella trasparenza sulle
questioni militari e di sicurezza della Cina". Secondo il Pentagono, le cifre
relative al budget militare cinese mancano infatti di molte voci, su cui non c'è
chiarezza.
Oltre Muraglia è soprattutto quest'ultimo punto a suscitare reazioni. In un
commento dell' Agenzia Nuova Cina, ripreso poi anche da altre testate, si legge:
"La Cina ha fornito alle Nazioni Unite rapporti annuali sulle proprie spese
militari a partire dal 2007 . Ha anche invitato rappresentanti di molte nazioni
ad assistere alle sue manovre e condotto esercitazioni congiunte sia con i
vicini sia con altri Paesi, Stati Uniti inclusi".
Gabriele Battaglia
Salvate il (bambino) soldato
Khadr
Inizia a Guantanamo il processo Khadr, il
bambino soldato prelevato in Afghanistan dalle forze speciali Usa quando aveva
solo quindici anni
Sono
bastate due udienze preliminari, lunedì e martedì, per vagliare le condizioni di
procedibilità e la composizione della giuria che ha nelle mani il futuro di Omar
Khadr, il ventitreenne cittadino canadese rinchiuso da sette anni nel campo di
prigionia di Guantanamo, Cuba. Un terzo della sua giovane vita nel carcere più
infame del pianeta, dal momento che quando le forze speciali Usa lo prelevarono
nel villaggio afgano di Ayub Kheyl, Omar di anni ne aveva solo quindici.
Era il 27 luglio del 2002: nel corso di un combattimento tra gli uomini della
Delta Force e un gruppo di talebani, Omar Khadr - classe 1986 - lanciò una
granata che uccise un ufficiale statunitense e provocò il ferimento di altri due
soldati: 1) omicidio, 2) tentato omicidio, 3) cospirazione, 4) affiliazione
terroristica, 5) spionaggio, sono i cinque capi d'accusa di cui il bambino
soldato Khadr deve rispondere davanti alla commissione militare di Guantanamo. È
il primo procedimento dell'era Obama ( che aveva promesso la chiusura di Gtmo
entro il 1° gennaio del 2010 e che, soprattutto, aveva aspramente criticato il
sistema delle commissioni militari), e gli Stati Uniti sono il primo paese,
dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi, a processare un bambino
soldato.
Omar è arrivato sorridente davanti agli uomini che lo giudicheranno, in giacca e
cravatta, all'occidentale, diversamente dalle tuniche bianche musulmane che
negli anni hanno sfilato sul banco degli imputati. Gli avvocati della difesa -
il canadese Dennis Edney e il tenente colonnello Jon Jackson - hanno chiesto al
giudice col. Patrick Parrish di stralciare dai verbali la confessione di Omar
Khadr, inattendibile - ad avviso della difesa - in quanto estorta sotto minaccia
e tortura. La corte la ritiene invece valida e attendibile, nonostante nel
maggio scorso un ufficiale dell'esercito Usa avesse ammesso che nella prigione
di Bagram, Afghanistan, (dove Omar è stato trattenuto prima del trasferimento a
Cuba) la sua squadra avesse minacciato il quindicenne di stupro collettivo e di
morte se non avesse collaborato. L'unico atto di indulgenza della corte arriva
quando il col. Parrish interrompe l'accusa per invitare i giurati a tenere conto
dell'età del ragazzo al tempo in cui risalgono i fatti. Difatti è proprio questo
il perno su cui si basa l'impianto della difesa: Omar non sarebbe un feroce
talebano ma solo un ragazzino capitato in una brutta situazione. L'unica colpa
del bambino soldato è quella di essere figlio di Ahmed Said Khadr, cittadino
canadese di origini egiziane trasferitosi in Pakistan a metà degli anni 80,
sospettato di essere stato finanziatore di al-Qaeda per il tramite di un'oscura
Ong.
La difesa ha sperato fino all'ultimo in un intervento del presidente Usa Obama
che " ha invece deciso di scrivere un nuovo, triste e patetico capitolo nel
libro delle commissioni militari" di Guantanamo. Diverse organizzazioni
umanitarie stanno seguendo da vicino l'andamento del processo che potrebbe
portare Omar Khadr alla sentenza del carcere a vita. L'Unicef, l'agenzia delle
Nazioni Unite che si occupa dell'infanzia, ha espresso forti dubbi sulla
legalità di questo processo, in primis perché i paesi sottoscrittori (tra cui
gli Usa) del "Protocollo opzionale sul coinvolgimento dei bambini nei conflitti
armati" devono prestare assistenza ai bambini soldati per il loro recupero
sociale e la loro reintegrazione e in secondo luogo perché questo processo
potrebbe costituire un gravissimo precedente che mette a rischio il futuro e la
vita di centinaia di migliaia di bambini soldati impiegati nei conflitti in
tutto il mondo.
Omar Khadr quel 27 luglio del 2002 ha perso un occhio ed è stato colpito alla
schiena da due proiettili, è stato sottoposto a molte delle pratiche presenti
nel catalogo della "dottrina Cheney", nei suoi confronti non è stato applicato
l'articolo 3 della Convenzione di Ginevra né alcun trattato sulla Giustizia
minorile internazionale. In una lettera indirizzata ai suoi avvocati, Omar ha
rifiutato il patteggiamento della pena, ha voluto che questo processo si celebri
perché "Io ho l'obbligo di mostrare al mondo ciò che succede quaggiù. Sembra che
quanto fatto finora non sia bastato, ma forse funzionerà se il mondo vedrà gli
Usa condannare un bambino al carcere a vita. E se nessuno dovesse accorgersi di
nulla, in quale mondo verrei rimesso in libertà? In un mondo fatto di odio e di
discriminazione".
Nicola Sessa
10 agosto
Mettere al bando gli
ex-sindacalisti potrebbe essere controproducente
di Sergio Luciano
La circolare del ministro Brunetta
con cui viene preclusa la carriera di dirigenti del personale nella pubblica
amministrazione agli ex sindacalisti nasce dall'individuazione di un problema
reale ma pretende di risolvere in un modo massimalista e in sostanza sbagliato.
Il pericolo che il ministro individua in una prassi storicamente molto diffusa
risiede nell'osmosi eccessiva tra il sindacato e le sue logiche e la gestione
del personale, che di esse dovrebbe essere controparte, e non dovrebbe
provenirne, e quindi mutuarle, per essere efficace. Inoltre, per la melassa che
collega potere politico a potere sindacale e amministrativo, l'ulteriore rischio
è che i sindacati condizionino le carriere dei dirigenti per ottenerne favori o
al contrario precluderla ai manager puri che non nascano nelle loro file. Ma
risolverla semplicemente proibendo quest'osmosi pericolosa, salvo lunghi periodi
di distanza tra l'impegno sindacale e la possibile nomina, rischia di buttar via
con l'acqua sporca del conflitto d'interessi o delle possibili collusioni tra
sindacati e gestori del personale anche il bambino di una meritocrazia che per
essere tale deve poter premiare i meritevoli sempre e comunque, anche se
macchiati del peccato originale di aver fatto sindacato. E c'è di più: se
l'adesione al sindacato è vista come una scorciatoia per il potere e la
carriera, è un male, ed è quel che spesso è capitato finora, sia nel pubblico
che nel privato. Ma se fare i sindacalisti diventa un handicap per poi fare
carriera, finisce che nel sindacato refluisce la feccia delle professionalità,
con conseguenze incalcolabili quando ci si siede al tavolo delle trattative.
D'altronde, i casi di sindacalisti divenuti bravi manager sono tanti. Per
esempio, gli unici due anni di bilanci in attivo dell'ultimo quindicennio della
vecchia Alitalia furono ottenuti, nel '97 e nel '98, dalla gestione di Domenico
Cempella, grazie all'accordo sindacale concluso con l'Associazione nazionale dei
piloti, l'Anpac, famigerata col nome di Aquila Selvaggia. Il capo dell'Anpac,
Augusto Angioletti, fu cooptato nel consiglio d'amministrazione della compagnia,
e dopo un paio d'anni, fu mandato a dirigere Eurofly, la nascente compagnia
charter del gruppo, e ne pilotò prima lo start-up e poi la privatizzazione,
ottenendo ottimi risultati. Mauro Moretti, attuale amministratore delegato delle
Ferrovie dello stato, giustamente considerato il vero padre del risanamento
economico dell'azienda, è un ex, importante sindacalista della Cgil. E gli
esempi potrebbero essere tanti altri. Per cui, caro Brunetta, bando alle
semplificazioni, se rischiano di conseguire l'effetto contrario a quello voluto.
La Sosta, horror movie
Eleonora Martini
Si può essere cresciuti a pane e prison movie, e aver letto la recente
interrogazione parlamentare della radicale Rita Bernardini sugli istituti
siciliani, ma quando si mette piede nella famigerata "Sosta" del carcere di
Gazzi, a Messina, non si crede davvero ai propri occhi. Da otto persone in su
sono stipate in ciascuna delle celle da 12 metri quadri con due letti a castello
su quattro piani (che spesso raggiungono il quinto piano), un cesso e un lavello
pietosamente separati da una lurida tenda da doccia, e armadietti nel poco
spazio che resta. Le celle, ma sarebbe meglio chiamarle grotte, affacciano su un
antro sudicio, col cemento a vista, intersecato da una specie di scolo aperto
all'esterno, evidente ingresso indisturbato per topi di ogni dimensione, come
sostengono i detenuti che si dicono costretti a ogni tipo di espediente pur di
evitare di essere aggrediti dai ratti, e malgrado la smentita secca della
direzione. Ma lo sgomento è totale quando si entra nell'unica doccia a
disposizione dei 36 detenuti attuali, senza acqua calda, piazzata in uno
sgabuzzino con una porta sfondata dall'umidità e dall'usura, che assomiglia a
una di quelle discariche in cui negli anni si trasformano i locali aperti e
abbandonati. Dentro e intorno c'è di tutto: armadietti rotti e stracci sporchi.
Pensare che qualcuno possa vivere qui per mesi o anche anni, e altri possano
lavorarci per otto ore al giorno e più, fa provare vergogna.
È
uno degli antri orrorifici che tutto sommato non ci si aspetterebbe di vedere -
nel tour sotto scorta della direzione - in una Casa circondariale dall'aspetto
apparentemente quasi dignitoso, certamente non dissimile dal contesto dove è
inserita, tra i campi della periferia estrema di Messina. Eppure all'improvviso
i muri scrostati dappertutto, anche negli uffici della direzione, l'umidità
nelle celle, i soffitti crepati che mostrano i mattoni interni, i cavi a vista,
i corridoi ridipinti a metà (fino a esaurimento vernice), i passeggi quasi del
tutto sprovvisti di tettoie, il caldo asfissiante d'estate e il freddo
d'inverno, i cessi del braccio femminile divisi dal resto della cella solo da un
pezzo di lamiera (con l'unica doccia per 25 donne costituita da un tubo di
plastica verde aggrappata a un muro di un antro lurido), gli scarafaggi e le
formiche contro i quali l'amministrazione del penitenziario ha ingaggiato una
lotta senza vittoria, lasciano il posto all'incredibile. La "Sosta" avrebbe
dovuto essere il reparto per detenzione transitoria dei nuovi giunti in attesa
di sistemazione, ma il sovraffollamento lo ha reso a tutti gli effetti un
reparto detentivo di media sicurezza. E chissà cosa direbbe la Corte europea dei
diritti umani se potesse vederlo.
Così come lascia sconcertati trovare nel braccio delle detenute-mamme che ospita
anche quattro bambini al di sotto dei 3 anni, un bimbo di due anni e mezzo con
un grave ritardo psico-fisico, evidentemente bisognoso di cure qui inesistenti.
La direzione ha scritto al magistrato invitandolo ad intervenire, ma ancora
nessuna risposta.
Ma non sono le uniche ombre di un carcere senza dubbio difficile da gestire
perché, come spesso avviene, pur essendo Casa circondariale (destinata ai
detenuti appena arrestati o in attesa di giudizio), si è riempita via via anche
di condannati definitivi o appellanti, stipati tutti insieme nei bracci di alta
e media sicurezza o nel centro clinico, che dovrebbe essere il fiore
all'occhiello della struttura, senza distinzione insieme ai tanti che così, in
cella per la prima volta, cominciano qui la loro carriera delinquenziale.
Succede da qualche anno in tutti i carceri, riempiti come sono di piccoli e non
sempre veri spacciatori, fruitori di sostanze, tossicodipendenti («l'articolo 73
del 309/'90, la legge sulle droghe, ricorre in continuazione nelle ordinanze
d'arresto», racconta la direzione) e malati psichici, grazie al giustizialismo
populista di Lega e centrodestra. Ma qui, a Gazzi, dove si incontrano uomini e
donne di mafia (orgogliose di raccontare che il loro uomo è sottoposto al regime
speciale del 41 bis), assieme a quelli di 'ndrangheta e camorra, per molti
giovani alle prime armi è un vanto poter varcare la soglia d'ingresso, una sorta
di attestato di pedigree. Necessario per ottenere rispetto.
In un contesto così, per orientarsi c'è bisogno dell'aiuto di qualche numero:
nella struttura di Gazzi, risalente agli anni '50, da quando sette mesi fa per
manifesta indecenza è stato chiuso il reparto "Cellulare" spalmando i suoi 150
detenuti nel resto delle celle, c'è posto al massimo per 229 reclusi. Ce ne sono
attualmente 390 (in attesa di primo giudizio solo 133) di cui 51 donne, ma il
numero varia di giorno in giorno. I tossicodipendenti dichiarati sono 70, di cui
30 in terapia. Cinque i malati di Hiv. Gli agenti di polizia penitenziaria
invece dovrebbero essere 235, in organico ne risultato 214, ma sono presenti
solo in 129. Disponibili 8 dei 30 ispettori previsti in organico, e 7 dei 28
sovrintendenti. Molti sono in missione, distaccati ad altre sedi, usati per
scorte, o a disposizione della Commissione medico-ospedaliera perché, essendo un
lavoro duro e usurante, vengono ritenuti momentaneamente incompatibili con il
servizio. Così può succedere per esempio che in piena notte, quando gli agenti
sono pochi, arrivi un'ondata di arrestati e «in quei momenti riuscire a
coniugare diritti umani e sicurezza è difficilissimo», spiega il direttore
Calogero Tessitore che ricorda quando qualche anno fa vi fu l'ondata di
clandestini: «Eravamo pieni di immigrati». Oggi ce ne sono molto pochi. È un
carcere di zona, soprattutto, anche se la presenza del centro clinico (un
reparto Medicina e uno Chirurgia comprensivo di sala operatoria) lo rende meta
per detenuti malati. Che certamente qui, però, fanno fatica a guarire, a
giudicare dalle celle che ospitano i pazienti accanto ai detenuti "sani" stipati
sui letti a castello, e viste le condizioni del reparto Medicina dove vivono
anche 9 internati (detenuti senza condanna, ritenuti dal magistrato "socialmente
pericolosi", «soggetti che - parole del direttore - per le patologie di cui sono
affetti dovrebbero stare altrove e non in carcere») e dove regnano sporcizia,
insetti e degrado. Malgrado gli sforzi del personale. Eppure le detenute che
qualche giorno fa hanno inscenato una protesta si lamentano - oltre che per la
presenza di blatte e topi nelle loro celle e per la «pessima qualità del cibo» -
anche per la difficoltà di cura. Comprensibile, perché malgrado le convenzioni
con i medici di 32 branche specialistiche, i 4 medici incaricati, i due
infermieri di ruolo più alcuni altri per complessive 80 ore al giorno, malgrado
i 2 psichiatri, l'unico psicologo (1) di ruolo che ha il compito anche di
visitare tutti i nuovi giunti e un'altra psicologa per 5 (cinque) ore al mese, e
malgrado la spesa sanitaria complessiva di questo carcere ammonti a 1.682.000
euro l'anno, quando un detenuto deve fare una Tac o un'analisi un po'
particolare, l'iter è lungo e facilmente naufraga il giorno dell'appuntamento
per mancanza di agenti che possano accompagnarlo. Per questo, tra qualche giorno
nell'ospedale Papardo di Messina verrà aperto un repartino con quattro camere
detentive riservate ai detenuti malati. Da ricordare che la Sicilia non ha
ancora recepito la legge che trasferisce la gestione diretta della sanità
carceraria dal ministero di Giustizia a quello della Salute. Ma, secondo molti
operatori penitenziari, non è detto che sia un male: il servizio per le
tossicodipendenze che invece è già gestito dalle Asl, per esempio, quasi sempre
non riesce a soddisfare le necessità del carcere, e la coordinazione tra
"esterno" e "interno" risulta «molto difficile».Sarebbe ingeneroso, però,
gettare la croce dei tanti mali di Gazzi (e in generale dei carceri italiani)
sulla direzione, sugli operatori o sui soli quattro educatori: «Qui tutti fanno
molto più del dovuto, con abnegazione e professionalità lavorano oltre le sei
ore previste dalla legge, e tentano di ridare senso al carcere, che deve essere
finalizzato alla riabilitazione del detenuto», racconta il vicecommissario
Antonella Machì, a capo degli agenti. «Il vero problema è la mancanza di fondi -
aggiunge la vicedirettrice Romina Taiani - basti pensare che per la manutenzione
ordinaria riceviamo 20 mila euro l'anno e per pagare i detenuti che la fanno, e
che lavorano in 40 a turno ogni 4 mesi, riceviamo 316 mila euro». Alla
derattizzazione provvede gratis il comune di Messina ma non più di quattro o
cinque volte l'anno. Troppo poco per un microcosmo come questo.
«Il carcere è una realtà che non interessa a nessuno - si sfoga amaro il
direttore - quando ho contattato gli enti locali, di qualunque colore politico,
ho trovato sempre scarsa disponibilità». Tessitore racconta per esempio di
quando ha chiesto un aiuto per far lavorare "fuori" alcuni detenuti, o di quando
ha cercato fondi per una pianola da usare in uno spettacolo (una delle tante
attività ricreative e formative all'interno del carcere), o addirittura quando
ha chiesto soldi per attrezzare con un gazebo, un tavolo e qualche gioco per i
bambini la piccola area verde riservata agli incontri con i minori . «Tutto
inutile, nessun politico o amministratore ci ha dato niente». Il carcere è solo
un «contenitore dentro il quale confluiscono le scelte governative». E le
incapacità di un ministro siciliano sotto scacco della Lega.
Petrolio, il doppiogioco di
Quito
Quito ha siglato il fidecommesso con il Pnud per preservare la riserva Yasuni.
Mancano le firme dei paesi esteri e le riserve di petrolio di quel paradiso
resteranno lì per sempre. La distruzione del parco e dei suoi popoli è
scongiurata. Forse
La riserva naturalistica Yasuní-Itt, 982 mila ettari nella conca dell'alto Napo,
cuore dell'Amazzonia ecuadoriana, culla di civiltà indigene e prezioso
ecosistema dalla varietà unica, è sempre più a rischio. Il governo Correa, che
nel 2007 aveva lanciato, per bocca dell'allora braccio destro Alfredo Acosta,
una campagna ecologica internazionale assolutamente rivoluzionaria nel tentativo
di preservarla, adesso si dice disposto a procedere all'estrazione se gli
accordi susseguitisi a quella iniziativa non andranno a buon fine.
Tre
anni fa, l'Ecuador aveva fatto appello al mondo intero affinché lo aiutasse a
preservare quella eccezionale riserva di biosfera, contribuendo a fornire al
piccolo paese andino il denaro corrispondente alla somma che avrebbe ricavato se
avesse proceduto all'estrazione dell'oro nero dallo Yasuní. Un sacrificio
collettivo in nome della natura e contro il surriscaldamento globale. Una scelta
per il clima e dunque, secondo Correa, per l'intero pianeta, che quindi doveva
contribuire a sostenere. Da allora è nata una serie di incontri, riunioni,
discussioni che hanno portato molti paesi ad avvicinarsi al progetto. Ma tutti
pretendevano un garante super partes che sostenesse l'operazione ed è stato
tirato in ballo il Pnud, il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo con il
quale l'Ecuador ha già siglato una sostituzione fedecommissaria, o fedecommesso
che dir si voglia. Adesso mancano solo le firme dei paesi interessati - fra i
quali Italia, Belgio, Germania e Spagna - e gli 846 milioni di barili di crudo -
pari al 20 percento delle riserve ecuadoriane - nascoste in quel paradiso
resteranno lì per sempre. Eppure Quito si mostra più scettico che mai.
"Il presidente ha annunciato che in caso che non ci sia da parte dei paesi del
mondo intero una risposta positiva, senza dubbio saremo costretti a estrarre
questo petrolio, attraverso la più moderna tecnologia che permetta" la
preservazione dell'ambiente", ha dichiarato il vice Lenin Moreno a TeleSur.
Quindi ha ribadito come questo apporto generoso del suo paese al mondo per la
conservazione della natura sia una responsabilità che devono spartirsi tutte le
nazioni del pianeta. "Nello Yasuní ci sono molte più specie che in tutto il Nord
America. Lì c'è il futuro ecologico. Ed è anche molto interessante dal punto di
vista turistico". Tutti punti a favore dell'accordo, che parrebbe davvero
fondamentale. Eppure il presidente Correa non si è nemmeo presentato per siglare
il fidecommesso con il Pnud. Cosa c'è sotto?
A spiegare a PeaceReporter i retroscena di questo ambiguo comportamento è Paola
Colleoni, antropologa che da anni vive e lavora in Ecuador, esperta di indigeni
e questione amazzonica.
"A pochi giorni dalla firma del fedecommesso che dovrebbe garantire che il
petrolio dell' Itt rimanga sotto terra, la dichiarazione del vicepresidente
lascia intravedere ancora una volta l'intenzione di non portare a termine
l'iniziativa di salvare il parco Yasuní dall'estrazione. E di applicare,
piuttosto, il "plan B", ovvero l'estrazione del petrolio, che per molti
esponenti della società civile ecuadoriana è, poi, la vera intenzione del
governo. Che, non a caso, sta ultimando una raffineria vicino alla città di
Manta, finanziata con investimenti della venezuelana Pedevesa e il cui
funzionamento ha senso solo in vista della raffinazione della riserva di crudo
dell'Itt".
"La questione dell'estrazione del petrolio nel parco Yasuní - prosegue - è solo
una delle arene in cui il presidente Correa si sta scontrando con coloro che ha
definito "ecologisti infantili",e che gli è costato lo scontro diretto con
Conaie, l'organizzazione nazionale indigena ecuadoriana. Il nodo dello scontro è
appunto il modello di sviluppo che dovrebbe sostenere la "revolucion ciudadana".
Correa - continua Colleoni - non è disposto a rinunciare allo sfruttamento delle
risorse naturali nei territori indigeni e accusa chi ne difende i diritti di
condannare il paese a "continuare a star seduto, come un mendicante, su una
miniera d'oro". Ma il prezzo di questo sviluppo, a cui lui si appella in nome
dei cittadini ecuadoriani, rischia di provocare la distruzione dei territori
indigeni, e anche i nativi sono una parte importante dell'Ecuador. Anche sulla
questione dei popoli in isolamento Tagaeiri-Taromenane, il governo ha una
posizione a dir poco ambigua: non hanno ancora impedito che si sfrutti il
petrolio in una zona in cui è ormai risaputo risiedere uno di questi gruppi".
"Se nella lotta contro il neoliberalismo - conclude l'antropologa - il
movimento indigeno aveva alleati tra quelli che oggi formano il governo e
Allianza Pais, oggi le posizioni nazionaliste e pro-sviluppo assunte dal governo
stanno portando a galla contraddizioni profonde. E la stessa cosa sta accadendo
in altri paesi dell'Alleanza bolivariana, come per esempio in Bolivia, dove gli
indigeni amazzonici sono in rottura con Evo Morales per analoghe ragioni".
Stella Spinelli
Fosse comuni e forni
crematori. Ecco l'eredità di Uribe
Mentre una delegazione europea prende atto della fossa comune con i 2000
cadaveri della Macarena, un paramilitare confessa: 'Per disfarci dei corpi
usavamo spesso forni crematori fai da te'
Una
delegazione europea, con sei eurodeputati, ha certificato durante un sopralluogo
pubblico a La macarena, dipartimento centrale del Meta, culla dei Falsos
Positivos, l'esistenza di una fossa comune contenente circa duemila cadaveri. A
guidarla, il sacerdote gesuita Javier Giraldo, figura d'eccezione nella lotta
per i diritti umani in Colombia, rappresentante del Centro di indagine ed
educazione popolare (Cinep), fondazione no profit da sempre impegnata nella
denuncia dei crimini di Stato e dei soprusi paramilitari. Che ha spiegato come
tortura e omicidio generalizzato siano i tragici comun denominatori della
normalità colombiana, anticipando come il prossimo settembre saranno presentati
altri casi documentati di sparizioni forzate e omicidi in altre regioni del
paese.
In una atmosfera surreale, i delegati europei hanno ascoltato, attoniti, le
tragiche testimonianze dei sopravvissuti, contadini stroncati da fatica e
terrore, che hanno finalmente deciso di rompere il silenzio denunciando come
l'esercito colombiano usasse gli elicotteri per gettare nelle fosse i corpi di
civili massacrati e spacciati per guerriglieri, con l'intento di ottenere
qualche licenza speciale. Erano in tanti, circa 800, i campesinos, venuti da
tutte le regioni in cui l'esercito ha agito indisturbato, ingannando, illudendo
e ammazzando, a sangue freddo. Con loro anche la senatrice Piedad Cordoba,
simbolo di quella mediazione con la guerriglia in nome di una pace che sembra
sempre così lontana. È stata lei a tracciare il parallelo fra la gravissima
crisi umanitaria che interessa le estese regioni orientali e il Plan Colombia,
unito al Plan Patriota, i due programmi governativi sostenuti dagli Usa per
combattere il narcotraffico e sconfiggere la guerriglia. Dei quali è
conseguenza. Effetto collaterale. Mezzo giustificato dal fine: sfollare e
spadroneggiare in territori preziosissimi dal punto di vista sia strategico sia
naturalistico. Il tutto con un altro vantaggio: colpire le comunità dalle quali
la guerriglia trae vita e sostegno, facendo piazza pulita.
Anche la eurodeputata della commissione per i diritti umani, Ana Gómez, non ha
potuto che sottolineare l'aberrazione dell'assassinio di un popolo da parte di
un esercito fratello. Parole, segni, da parte europea, dopo lunghi anni di
colpevole silenzio, che ha permesso all'establishment colombiana di essere
accolta con tutti gli onori nei loro tanti giri diplomatici nel Vecchio
Continente. Dichiarazioni che forse inaugurano un'era di cambiamento nei
rapporti verso uno Stato che finora ha orchestrato il paramilitarismo e
complottato con il narcotraffico, nell'indifferenza generale.
E quanto questo complotto fosse fondato sul sangue e l'orrore emerge unendo come
in grandi puzzles testimonianze e ricordi appartenenti a una parte e all'altra
della barricata. L'ultima testimonianza shock in ordine di tempo è quella che ha
rilasciato il paramilitare Iván Laverde Zapata, che davanti ai magistrati ha
raccontato che per smaltire il numero impressionante di cadaveri che facevano a
destra e a manca, cadaveri insostenibili perché avrebbero gonfiato in maniera
inspiegabile le statistiche ufficiali, hanno funzionato per anni veri e propri
forni crematori. Una maniera sbrigativa e pulita per far sparire le tracce di
mattanze inenarrabili contro il popolo. Una pratica barbara, che ha subìto
un'impennata proprio durante i due mandati di Uribe e della sua sicurezza
democratica. Non solo. Zapata ha spiegato come in Antioquia, mentre Uribe era
governatore, molti cadaveri venisero fatti sparire anche nel fiume Cauca. Stessa
pratica anche nel dipartimento di Santander. Mentre altrove, si ricorreva a
pratiche da macelleria: cadaveri fatti a pezzi e nascosti in varie fosse comuni,
di cui La Macarena ne è eclatante esempio.
Questa è una parte della testimonianza del paramilitare: "Ci sono molti morti
che non sono stati ritrovati perché qui nelle vicinanze di Medellín, ad un'ora,
si trovavano dei forni crematori. Molta gente è stata bruciata. Io ho assistito
a questi fatti [...]. Tra il 1995 ed il 1997 le vittime venivano buttate nel
Cauca, dopo aver aperto i corpi e averli riempiti di pietre [...], avendo
l'ordine di far scomparire le vittime, è sorta l'idea dei forni crematori [...].
Dell'istallazione del forno si è occupato Daniel Mejía, era delle Auc e della
Oficina de envigado. Il forno lo faceva funzionare un tale detto Funeraria,
credo si chiamasse Ricardo, mentre due signori si occupavano della manutenzione
delle griglie e delle ciminiere, perché si ostruivano col grasso umano [...].
Portavamo al forno tra le 10 e le 20 vittime a settimana, vive o morte, e c'era
un procedimento preciso da seguire: quando arrivavamo bisognava suonare e ci
dicevano 'Questa spazzatura portatela giù', allora andavamo dentro e le
portavamo in sacchi di plastica per non sporcare di sangue. Dopo aver
dissanguato il cadavere, ci chiedevano: 'Chi lo manda questo?'. Avevano una
cartella in cui annotavano tutto. Noi entravamo e dovevamo aspettare le
ceneri... poi si mostravano a Daniel e si buttavano al fiume o dove ci dicevano.
Il forno fu inaugurato gettandovi dentro una persona viva, perché aveva rubato
dei soldi ".
Stella Spinelli
Grano russo e speculazione
Siccità e carestia abbattono la produzione e fanno salire i prezzi. La
finanza aumenta l'effetto rincaro
La
Russia ha annunciato il blocco temporaneo delle esportazioni di grano.
In una dichiarazione all'agenzia Interfax, il Primo ministo Putin ha dichiarato
che la misura si è resa necessaria a causa "delle temperature molto alte e della
siccità" e che riguarderà "grano e prodotti agroalimentari derivati".
Quello che sta affliggendo il Paese è il periodo secco più lungo degli ultimi
cinquant'anni, a cui si aggiunge il danno ambientale degli incendi che hanno già
distrutto oltre 712mila ettari di bosco (oltre 2500 chilometri quadrati), con il
corollario di almeno 50 morti.
E così, secondo stime ufficiali, la produzione russa passerà quest'anno dai
consueti 90 milioni di di tonnellate a 70-75 milioni, determinando un aumento
dell'inflazione 2010 fino a 7-7,5 punti percentuali contro i 6,3 previsti.
Ma il calo dell'export russo ha forti ricadute anche sui mercati internazionali.
A luglio si è già registrato un aumento del prezzo del grano del 40 per cento; a
breve anche per le decisioni annunciate da Putin, si prevede un'ulteriore balzo
in alto.
Soffrono soprattutto i Paesi che dipendono dall'import per nutrirsi
2C+la+Fao+denuncia+quasi+un+miliardo+di+persone+soffre+la+fame>.
L'Egitto, il maggiore importatore di grano al mondo, ha appena acquistato
180mila tonnellate di grano russo al prezzo di 270 dollari alla tonnellata. Il
31 luglio costava 238 dollari.
A livello globale, gli analisti prevedono un rincaro di tutti i prodotti
alimentari da qui a fine anno.
Questa è l'economia tradizionale: quando c'è scarsità di un bene, il suo prezzo
aumenta.
Ma non tutti sanno che il grano, come del resto tutte le commodities, movimenta
il mercato finanziario nella sua veste più speculatrice.
Stiamo parlando di "prodotti derivati", intesi qui non come pasta o pane, bensì
come strumenti finanziari che "scommettono" sul fatto che un titolo o - come nel
caso del grano - un bene, aumenti o cali di prezzo in un determinato periodo. E'
quasi certo che queste "scommesse" moltiplicano l'effetto rialzo.
Sul mercato dei derivati non si scambia solo il grano che esiste effettivamente,
bensì anche il grano ipotetico - cartaceo come i titoli che lo rappresentano - e
questo determina la volatilità dei prezzi al di là della domanda e dell'offerta
reali.
Sul sito di Nouriel Roubini, l'economista-guru salito all'onore delle cronache
per aver previsto la crisi finanziaria con un anno di anticipo, si ipotizza per
esempio che dopo i primi rialzi alcuni investitori istituzionali come gli hedge
fund si siano trovati "corti", cioè con pochi titoli a disposizione. Sono quindi
corsi a comprarne altri e il prezzo è salito una prima volta. Se però un
autorevole fondo speculativo (gestito magari da una nota banca d'affari) fa
incetta di un determinato titolo, tutti corrono a fare lo stesso. E così si
scatenano ulteriori rialzi.
Nessuno sa quantificare esattamente il peso della componente finanziaria nei
rincari del grano.
Ma sta di fatto che la carestia è un fatto per lo più naturale, la speculazione
no.
Gabriele Battaglia
5 agosto
Alessandro Tettamanti
Tutti
matti per L'Aquila
Guardando la facciata della
Basilica di Santa Maria di Collemaggio simbolo della città dell'Aquila,
leggermente nascosto alla sua sinistra, sorge il complesso dell'omonimo ex
ospedale psichiatrico costruito tra il 1902 e il 1915. Una vera e propria
piccola città sufficiente a sé stessa, uguale concettualmente agli altri
manicomi costruiti in Italia in quell'epoca. Un patrimonio storico,
architettonico e culturale diventato di inestimabile valore per una città d’arte
ferita così profondamente dal sisma del 6 aprile e diventato insostituibile per
tutte quelle associazioni cittadine che vi hanno trovato ospitalità. Un tesoro,
di proprietà della Asl, che gli aquilani non vogliono perdere e su cui invece
incombe un triste disegno: svenderlo con la scusa di tappare una piccola parte
del buco della sanità abruzzese.
Lo storico aquilano Raffaele Colapietra (comparso in numerosi film e documentari
post-terremoto, compreso Draquila di Sabina Guzzanti) scrive: «...il primo
Aprile 1932, a cinque mesi, come mio più degno e conveniente soggiorno, fui
condotto al manicomio, a Collemaggio dove mio padre era stato chiamato a
dirigere un reparto. Ero l'unico bambino in un mondo di adulti, di pazzi e di
vecchi, un bambino che andava girando col suo triciclo in mezzo alle ranocchie
ed alle papere in una sorta di bonaria e affollata fattoria dove arrivava
l'odore acre del fieno della colonia agricola e la fragranza del pane appena
sfornato...in quello che era allora un autentico villaggio di un migliaio di
abitanti». Entrandoci ora – in quest'area che si estende per 150mila metri
quadri, proprietà dell'Asl – pare che il tempo si sia fermato ai tempi che
Colapietra descrive. Difficile non rimanere affascinati dallo stile delle
maestose palazzine di inizio secolo, un tempo padiglioni della sofferenza,
disposti su due lati per dividere la parte maschile da quella femminile. Un
tesoro storico e architettonico immerso in una natura rigogliosa: tra gli enormi
alberi presenti, dalla quercia al cedro del libano e dell' himalaya,
all'ippocastano, all'abate rosso e bianco, al tiglio, vivono numerose specie di
uccelli come l'allocco, la civetta, il picchio muratore e il picchio rosso e
altri animali tra cui scoiattoli e ricci.
Quest'area di incantevole bellezza - che ha smesso di essere manicomio recependo
la legge Basaglia nel 1991 - è diventata dopo il terremoto, grazie al lavoro
delle associazioni che hanno trovato un posto al suo interno, uno spazio
pubblico aperto a tutti, tra i pochi spazi di socialità rimasti oltre ai centri
commerciali, fondamentale per il confronto di idee e progetti, motore propulsore
per la partecipazione dei cittadini alla ricostruzione della città e dei
villaggi del cratere sismico. Uno spazio pubblico necessario per dare una
speranza al futuro. E a testimoniarlo sono i tanti giovani che da due giorni lo
animano arrivando con tende e sacchi a pelo da tutta Italia per prendere parte
al campeggio sul tema della giustizia ambientale e sociale organizzato dal
centro sociale «CaseMatte». Uno spazio, però, dove nonostante tutto questo pende
ancora la spada di damocle di una possibile vendita.
Ad oggi quasi tutti i padiglioni presenti - inagibili dopo il 6 Aprile – sono
rimasti in stato di abbandono e incuria come del resto alcuni di loro versavano
già da prima. Questo nonostante l'assicurazione stipulata dalla Asl in caso di
sisma, abbia fatto incassare all'azienda poco meno di 50 milioni di euro
lasciando sperare a un pronto recupero dell'area anche in funzione strategica.
Invece l'area dopo il terremoto viene inizialmente ignorata. A novembre si saprà
che durante i mesi estivi erano altre le intenzioni e le trattative in corso.
Invece di restaurare il patrimonio di Collemaggio con un intervento
relativamente economico, si stava pensando ad una nuova sede per gli uffici
amministrativi della Asl dell'Aquila con un appalto (mai partito) di 15milioni
di euro per la cui assegnazione risultano indagati per corruzione vari
imprenditori tra cui un ex assessore regionale. A settembre, piuttosto che
recuperare gli edifici danneggiati, si decide allora di invadere l’area di
container per dare un tetto transitorio, oltre che agli amministrativi, anche ad
altre strutture già presenti nel complesso di Collemaggio prima del sisma, come
l'unità territoriale dei medici di famiglia, diventati molto importanti dopo il
terremoto, e il Centro di salute mentale.
Contemporaneamente, sbarca nell'area il comitato «3e32» che, nato subito dopo il
sisma, in cinque mesi è diventato uno dei punti di riferimento più importanti
per i giovani della città. E dà vita all'occupazione di «CaseMatte» recuperando
l'ex-bar del manicomio lasciato all'abbandono da anni. Da fine agosto intanto
hanno già ricominciato a vivere nell'area, ospitati in container abitativi
donati dalla Protezione Civile del Trentino, più di una ventina di pazienti del
centro di salute mentale fino ad allora rimasti nelle tendopoli.
Nel frattempo, con lo spoil system, la direzione dell'Asl è passata da Roberto
Marzetti a Giancarlo Silveri il quale viene nominato col compito di riassorbire
il buco che la Asl Abruzzo ha accumulato negli anni. L'area di Collemaggio viene
dichiarata alienabile tramite cartolarizzazione per risanare il debito della
sanità locale nonostante i ricavati della vendita di quel luogo siano vincolati
per legge alla salute mentale. E nonostante altri progetti in tale ambito siano
già stati approvati e finanziati. Come nel caso del progetto nominato «Ambiente,
arte e salute» per il quale la regione stanziò nel 2006 (allora governata dal
centrosinistra) circa tre milioni di euro, progetto che prevedeva
un'integrazione multidisciplinare rivolta alla salute intesa come stato di
benessere fisico, mentale e sociale e non solo come assenza si malattia o
infermità. O nel caso del progetto dell' «Albergo in via dei matti» che prevede
la ristrutturazione del padiglione Villa Edoarda con finanziamento Cipe del
2005, per il quale al 6 Aprile 2009 risultava già affidato l'appalto per i
lavori e che ciò nonostante non viene fatto avanzare.
I ragazzi di 3e32 che intanto svolgono un’intensa attività sociale, culturale e
politica vengono sostanzialmente ignorati e delegittimati anche quando sulla
scrivania del manager arriva un progetto, già firmato da altri responsabili Asl,
per due borse lavoro già assegnate dalla fondazione Basaglia ai pazienti del
centro di salute mentale tramite l'unico soggetto capace di gestire attività
lavorative nella zona, e cioè il comitato «3e32». Niente da fare. Il manager
preferisce negare lavoro a due persone pur di non riconoscere il «3e32».
Si arriva così allo scorso Maggio quando il popolo delle carriole sbarca nell'ex
manicomio entrando in un locale chiuso e agibile e mostrando come non vengano
utilizzati preziosi stabili senza neanche una crepa e vengano lasciati
abbandonati, ancora stoccati, diversi materiali sanitari. Il manager Silveri va
su tutte le furie annunciando lo sgombero di «CaseMatte» e asserendo che il
debito della sanità nel frattempo è stato sanato e che gli unici acquirenti di
una possibile vendita sarebbero il Comune o l'Università. Ma mentre nessuna
trattativa di vendita è ancora decollata, la scorsa settimana la direzione ha
deciso che il Distretto sanitario di L’Aquila, da sempre collocato a Collemaggio
debba essere spostato a Paganica, in un nuovo edificio di 700 metri quadrati i
cui lavori prevedono un costo complessivo di 1 milione e 400 mila euro.
Decisione presa senza coinvolgere la cittadinanza, senza sentire il parere degli
utenti, delle associazioni, degli operatori sanitari e sociali, e di nuovo con
un grande spreco di denaro pubblico. Ancora, dopo il terremoto, si ha la
sensazione che invece di riparare con poche spese ciò che c'era, si preferisce
costruire ex novo per favorire chissà quali interessi.
Per questo il prossimo 4 Agosto presso il tendone dell'assemblea cittadina di
piazza Duomo, a L'Aquila è previsto un incontro chiarificatore tra vertici della
Asl, istituzioni, comitati, associazioni e cittadini per tentare di fare un po'
di chiarezza – forse per l'ultima volta possibile – sul futuro dell'area di
Collemaggio. In un documento scritto a tre mani dall’«Associazione 180 amici»,
il «3e32» e l’«unità territoriale di assistenza primaria medici di base», tutti
soggetti che operano nell'area, si legge che l'ex Op «per la sua centralità, il
suo valore storico e simbolico, può, se riqualificato, diventare il luogo
perfetto per quella salute di comunità necessaria e non opzionale, di una città
distrutta nel suo nucleo più profondo, ospitando i Servizi Socio-Sanitari, il
Centro di Salute Mentale, il Centro Diurno Psichiatrico, uno Studentato
Universitario “Albergo degli studenti”con attività produttive a ricaduta
sociale, un Campus Universitario, un Centro per il Sociale e la partecipazione,
una Biblioteca Comunale, Laboratori Artigianali-Artistici, il Museo della Mente
e del Ricordo, la Scuola di Restauro, l’Istituto Cinematografico ed uffici
amministrativi vari». Ma se la dirigenza dell'Asl finora non ha fatto ancora
chiarezza sulle sue intenzione, la popolazione sembra d'accordo: Collemaggio
deve rimanere ai cittadini e continuare ad essere il cuore pulsante di una città
che mai come ora ha bisogno di benessere (basti pensare che dopo il sisma l’uso
di psicofarmaci è aumentato del 40%). Il cuore dell'Aquila, città che forse è
ancora in coma, ma che non vuole morire.
Uribe,
amico del Mossad, a capo della commisisone Onu sulla Flottilia
La Commissione Onu che
dovrà indagare sull'assalto militare israeliano alla Flottiglia della pace sarà
presieduta da Alvaro Uribe, il presidente colombiano uscente, uomo vicino agli
Usa che ha fatto del disprezzo per i diritti umani una bandiera
Alvaro
Uribe, presidente uscente della Colombia, non resterà senza lavoro l'8 agosto,
quando il suo successore, Manuel Santos gli succederà a Palazzo Narino. Il
Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon, lo ha appena scelto per
presiedere il Comitato d'indagini sull'aggressione israeliana subìta dalla
Freedom Flottilla turca carica di aiuti umanitari destinati a Gaza. Era il 31
maggio scorso. Dopo due lunghi mesi di intense consultazioni, il governo di Tel
Aviv ha dunque concesso che una commissione Onu indaghi su quanto avvenne quando
le truppe speciali israeliane assaltarono la nave in cui vennero assassinati
nove attivisti turchi. È la prima volta che lo stato ebraico accetta
un'inchiesta internazionale sull'operato del suo esercito, tanto che non sono
mancate le polemiche interne: "E' un fatto senza precedenti e il risultato di
una cattiva gestione di governo", ha tuonato Tzipi Livni, ex ministro degli
Esteri e ora leader dell'opposizione. Plauso e soddisfazione invece da buona
parte della comunità internazionale, Stati Uniti in testa. Ad affiancare Uribe,
l'ex primo ministro della Nuova Zelanda Geoffrey Palmer e due rappresentanti di
Turchia e Israele. Con la promessa che lo stato ebraico collaborerà.
Una buona notizia, dunque, per lo meno in apparenza. Ed è così che ce la
presentano. Ban Ki-Moon in testa. Finalmente un Comitato super partes, di
prestigio, composto da "esperti", dicono. Eppure, chiunque abbia masticato un
po' di storia recente colombiana non può che sgranare gli occhi e sobbalzare
dall'indignazione nel leggere il nome del prescelto Onu. Alvaro Uribe è
considerato da commissioni internazionali e organizzazioni non governative in
difesa dei diritti umani, comprese molte associazioni più o meno direttamente
collegate alle Nazioni Unite stesse, uno degli uomini più oscuri e sinistri del
panorama internazionale. Su di lui pendono non solo sospetti, ma anche cause di
corruzione e legami con il narcotraffico. E non finisce qui. Durante i suoi due
mandati di governo, la Colombia non ha visto che incrementare esecuzioni
extragiudiziali per mano dell'esercito regolare, con migliaia di civili morti
ammazzati e fatti sparire in fosse comuni. Ha visto oltre 4 milioni di sfollati
interni, ignorati e ingannati. E la guerra interna, negata dalle versioni
ufficiali, continuare imperterrita. E che dire delle decine e decine di
collaboratori di Uribe, compreso parenti e amici, finiti indagati e spesso
condannati per i reati più svariati, legati però, sempre e comunque, alla
gestione del potere e alla spartizione dei proventi.
La Colombia di Uribe è un paese ingiusto e macchiato di sangue innocente. Per
non parlare della serie di scandali gravissimi che hanno fatto tremare Palazzo
Narino fino alle fondamenta: dai servizi segreti deviati e usati per scopi
personali dal medesimo Uribe, il quale ordinava loro di spiare e minacciare
uomini chiave della società colombiana; ai voti pagati a suon di prebende per
ottenere la maggioranza per la riforma costituzionale che gli avrebbe permesso
una seconda elezione.
Elencare in poche righe tutte le malefatte di un personaggio di tale portata è
impossibile. A parlare sono i fatti della storia recente colombiana. Ma una cosa
fra tutte va sicuramente evidenziata: Alvaro Uribe è da sempre e soprattutto un
fedelissimo della Casa Bianca e molto amico di Israele. È grazie all'appoggio
incondizionato ricevuto dal governo Bush che ha potuto ingaggiare una guerra
campale contro guerriglia e narcotraffico, e sotto sotto costringere milioni di
persone a fuggire da terre fertili e preziose per multinazionali affamate. È
grazie ai soldi, tanti, destinati dalla Casa Bianca al Plan Colombia se ha
potuto fare e disfare a suo piacimento. Un appoggio che ha, comunque,
generosamente ricambiato svendendo il territorio colombiano agli interessi
privati ed esteri. Prima di lasciare la poltrona, una delle sue ultime mosse, è
stato concedere l'installazione di sette basi militari agli Usa, trasformando
del tutto il paese in un vero avamposto strategico a stelle e strisce. E se si
pensa alla posizione geografica della Colombia e agli stati con cui confina, i
conti son presto fatti. E non scordiamo il ruolo, comprovato, che il Mossad,
servizio segreto israeliano, ha da sempre nell'addestrare le truppe colombiane,
affiancate da soldati e contractors Usa.
Averlo nella Commissione Onu di "esperti" super partes in cerca della verità,
dunque, non è una buona notizia. Uribe non è super partes, non è votato alla
verità, non è indipendente. Ma una cosa è certa. È esperto, sì, e molto, di
diritti umani. Calpestati e violati, puntualmente, in nome del profitto.