24 agosto

 

Il vuoto cinese di mr. Marchionne

Nel solo mese di luglio, in Cina si sono vendute quasi tutte le auto che quest'anno si venderanno in Italia. 1,2 milioni contro gli 1,7 stimati dai costruttori nel nostro paese, dopo la fine degli incentivi statali.

«Abbiamo tanta ambizione di svilupparci molto in questa parte del mondo», ha detto il 2 giugno scorso il presidente della Fiat, John Elkann, partecipando alla festa della repubblica all'Expo di Shangai. Il gruppo italiano è di fatto fuori da questo immenso mercato, considerando che la controllata Magneti Marelli ha appena inaugurato la sua fabbrica alla presenza di Elkann. Solo alla fine del 2011 comincerà in Cina la produzione di una berlina italiana, la Linea, e dei suoi motori, in uno stabilimento nel Guangdong per l'accordo di joint venture siglato dal Lingotto con Guangzhou.
L'intesa è arrivata dopo diversi scacchi con altri partner locali, con i quali le intese si sono via via bloccate: una delle quali prevedeva la produzione dell'Alfa Romeo in Cina. Oggi, la «tanta ambizione» del gruppo deve accontentarsi di un accordo limitato: gli obiettivi sono la produzione di 140.000 vetture e 220.000 motori nel 2012, da portare rispettivamente fino a 250.000 e 300.000 entro il 2014.
Meglio tardi che mai, certo, benché sia un ritardo che si può già definire storico rispetto alla concorrenza europea e asiatica di Fiat. Basti pensare che i francesi di Psa Peugeot-Citroen hanno appena firmato per una seconda joint venture o che Renault-Nissan ha siglato un progetto sull'auto elettrica a Wuhan, politicamente oltre che automobilisticamente importante, considerando la forte accelerazione agli investimenti data dal governo di Pechino al tema dell'auto a zero emissioni negli ultimi sei mesi.
La Fiat non può contare nemmeno sulla controllata Chrysler, assente dalla Cina dopo un avvicinamento nel 2007 con Chery. Mentre i concorrenti General Motors e Ford traggono proprio da questo mercato i loro profitti più grandi, come si è visto negli spettacolari risultati delle trimestrali, rese note nei giorni scorsi. Che evidenziano anche come l'altro aumento delle vendite sia stato sul proprio mercato nordamericano, maggiore per le due big rispetto a quello della più piccola Chrysler.
Negli obiettivi dell'amministratore delegato del gruppo Fiat più Chrysler, i numeri piuttosto ambiziosi annunciati per il 2014 (ricordiamoli, 3,8 milioni di auto «italiane» e 2,8 «americane») tengono conto della Cina soltanto per le circa 300.000 vetture del Guangdong.
Questo mercato, per altro, sta premiando più i marchi di lusso che i generalisti come Fiat. In luglio, Audi ha aumentato le vendite del 53%, Bmw dell'82, Mercedes ha triplicato le vendite. Non che le cose vadano male per tutti gli altri: in Cina ci sono ancora soltanto 20 automobili per 1.000 abitanti.
Se nel 2009 le vendite sono aumentate complessivamente del 46% - un anno boom, spinto anche dalla detassazione del governo del 50% per chi acquistava automobili con una cilindrata massima di 1600 centimetri cubici - quest'anno l'associazione dei costruttori in Cina prevede una crescita del 17%, con un mercato fatto da circa 16milioni di vendite nuove.
E' un rallentamento, se non fosse che la parola suona strana nel depresso occidente e se non fosse che a guardare meglio i dati degli ultimi quindici anni, la crescita media del mercato cinese si è attestata fra il 12 e il 22%.
Gli analisti prevedono una piccola frenata in agosto e un settembre così così, per poi chiudere in bellezza il 2010 negli ultimi tre mesi.

 

Andrea Palladino

La collina dei misteri

Le case coloniche della pianura pontina sono le ultime labili tracce di una terra antica. Terra scura, di bonifica, terra smossa da generazioni di contadini, terra di migrazione e di fratture. Le strade che l'attraversano, a sessanta chilometri da Roma, riescono a mantenere quell'aura del '900, con davanti agli occhi le immagini delle giornate passate sulle coltivazioni, di famiglie sedute attorno a tavole che profumavano di campi e di lavoro. Era zona di malaria, di bufale, di carretti, di nebbie. Poi area bonificata - con le opere iniziate a fine '800 e concluse dal Mussolini della propaganda, chino a tagliare il fieno per le cineprese del Luce - e consegnata a contadini veneti, gente tosta e fiera.
La pianura pontina è oggi altro. È dove le ecomafie stanno giocando la peggiore partita, sporca, crudele e senza prigionieri. Tra i borghi che attorniano la nera Latina si contendono il territorio i colossi dei servizi ambientali, mentre sottoterra agisce indisturbata la peggiore manovalanza camorrista. Dell'epoca della malaria qui rimane solo la nebbia e il silenzio, irreale.
Borgo Montello è una piccola rocca, incastrata tra Nettuno e Cisterna. Sorge sul confine - labile e mobile - tra il territorio controllato dalla 'ndrina dei Gallace, originaria della provincia di Catanzaro, e i campi dove gli Schiavone di Casal di Principe hanno investito milioni di euro. Dalla sommità della piccola chiesa del borgo si può intravedere la centrale nucleare di Borgo Sabotino, dismessa nel 1987 e oggi cantiere aperto, pronta ad accogliere le fantasie nucleari di Berlusconi.

I colossi della monnezza

In questo piccolo borgo c'è una delle più grandi discariche del Lazio, divisa tra due colossi dei rifiuti. C'è la Indeco, del gruppo Grossi, oggi indagato a Milano per lo scandalo della bonifica di Santa Giulia; e c'è la Ecoambiente della Waste Management controllata dai fratelli Colucci, grandi elettori e finanziatori del centrodestra, che a Latina è padrone. Ma Borgo Montello non è semplicemente un ammasso di monnezza, è una vera collina dei misteri dove fusti tossici appaiono, si smaterializzano, si trasformano, come per incanto, in semplici ricordi. Ed è una sorta di porto senza mare, dove la notte arrivavano fusti di navi con i nomi atroci, come la Zanoobia e la Karin B.
L'audizione dei magistrati di Latina era attesa. Prima annunciata, poi rinviata. Alla fine, il 30 giugno scorso, il procuratore aggiunto Nunzia D'Elia e il Pm Giuseppe Miliano entrano a Palazzo San Macuto. La commissione bicamerale d'inchiesta sui rifiuti deve molto a questa terra. Alla fine degli anni '90 a Pontinia vennero sequestrati migliaia di fusti e, nel 2000, la commissione guidata da Massimo Scalia partì dalla provincia di Latina per ricostruire la rete - intricata e potente - delle lobby dei rifiuti. Un groviglio dove si incontrano e si sfiorano i grandi operatori internazionali e i piccoli broker campani, con relazioni che spiegano perché siamo terra di veleni.
Dunque la commissione che oggi è presieduta da Pecorella attendeva con ansia i magistrati pontini, anche perché di Borgo Montello sentono parlare da anni. Qui, secondo Carmine Schiavone, i casalesi hanno sotterrato migliaia di fusti velenosi, riscuotendo alla fine degli anni '80 500 mila lire per ogni bidone interrato. Fino ad oggi la presenza dei veleni era una sorta di ombra: le acque sono avvelenate, e su questo non c'è dubbio. Da cosa? In tanti anni nessuno lo ha mai scoperto, o meglio, nessuno lo ha voluto sapere.
Il procuratore Nunzia D'Elia - arrivata a Latina da pochi mesi - ha cercato di spulciare l'archivio della Procura, cercando una traccia, un rapporto, un ricordo. Ne sono usciti fantasmi e ombre: «C'è una notizia data a un ufficiale di PG della provinciale che ha detto di aver rinvenuto personalmente nel 2001 un fusto nell'invaso S3, se non sbaglio, che si sarebbe distrutto», ha spiegato il procuratore aggiunto. Un fusto che appare e che, mentre viene recuperato, si smaterializza, si polverizza.

Come inchiostro simpatico

La prima prova, la carta che poteva raccontare cosa si cela nella pancia della gigantesca discarica di Latina sparisce appena esce dalla tomba dove era stato sotterrato. «È come il nastro degli 007 - commenta Pecorella - che dopo essere stato ascoltato si dissolve».
A Latina non sono solo i veleni di Borgo Montello a volatilizzarsi. Del sequestro di migliaia di fusti in un deposito a Pontinia non c'è più traccia. «Personalmente, non sono riuscita a recuperare eventuali procedimenti penali», racconta con una vena di sconforto Nunzia D'Elia. Forse era un episodio minore, uno di quei processi da Pretura, che finiscono subito negli archivi. Ma non era così. Basta rileggere quello che scriveva la commissione rifiuti guidata da Scalia nel 2000: «Il sequestro di Pontinia è stato (in termini quantitativi) il più rilevante del genere mai effettuato in Italia ed esso è stato lo spunto per un'attività di indagine autonoma della Commissione (...) per valutare l'esistenza o meno di una sorta di holding affaristico-criminale attiva sul territorio nazionale nel ciclo dei rifiuti». Si trattava di 11.600 fusti, con i residui delle industrie farmaceutiche e chimiche di rilievo nazionale. Rifiuti stoccati a partire dal 1997 dalla società Sir di Roma, al centro del complesso intreccio societario che Massimo Scalia ricostruì dieci anni fa. Ma di tutto questo non c'è più una sola traccia a Latina.

Camion di notte e un omicidio

A Borgo Montello nessuno nasconde la paura per quella collina, carica di veleni e di misteri. Erano i primi anni '90 quando un gruppo di cacciatori lanciò l'allarme: la notte arrivano dei camion e scaricano bidoni. Nel piccolo borgo la curiosità era tanta e così la mattina qualcuno avvicinò gli autisti che facevano colazione al bar. «Da dove venite?» - chiesero - «Dalla Toscana e dall'Emilia» - fu la risposta. Ma la conversazione andò oltre, ricordano oggi gli abitanti: «Cosa portate?» - «I fusti delle navi». E per la prima volta uscirono fuori i nomi della Zanoobia e della Karin B, due delle navi dei veleni utilizzate per riportare in Italia le scorie abbandonate in Venezuela e in Nigeria da società italiane.
C'era un prete a Borgo Montello che si era messo in testa di andare fino in fondo su questa storia. Era un veneto, aveva ottant'anni ed è morto incaprettato nella sua canonica nel marzo del 1995. Sei mesi di indagini e un'archiviazione veloce, sotto la voce «ignoti», aggiungendo il suo nome all'elenco dei misteri e delle prove scomparse.
Oggi per i magistrati di Latina la via per ricostruire la verità su Borgo Montello è terribilmente difficile da percorrere. Anni di indagini mancate, pezzi di inchiesta e prove finite nel nulla, come quel fusto che nel 2001 si volatilizzò alla stregua dei nastri degli 007.
Per capire cosa si cela sotto una collina di rifiuti normalmente si scavano dei pozzetti da dove prelevare acqua e campioni degli eventuali veleni. Si chiamano pozzi piezometrici e sono fondamentali per il monitoraggio ambientale. Il pubblico ministero di Latina, Giuseppe Miliano, che oggi segue l'inchiesta ha provato ad incrociare questi dati: «Nel corso delle ultime indagini, ho accertato che il piezometro che in passato aveva segnalato la presenza di queste sostanze non esiste più. Tale aspetto è emerso proprio di recente. Quindi, sarà nostro interesse capire per quale motivo l'Arpa ha eliminato questo tipo di elementi». Un altro pezzo di verità sottratto.

Il mediatore dei rifiiuti

Da queste parti fare il mediatore di rifiuti è un mestiere che rende. Solo tre anni fa a Fondi un immobiliarista poi arrestato per usura con modalità mafiose si vantava di aver concluso accordi milionari per esportare rifiuti industriali in Liberia. Mostrò a tutti una foto con i rappresentanti del paese africano, l'ex sindaco di Fondi Luigi Parisella - lo stesso che il prefetto Frattasi voleva far dimettere, dopo aver accertato infiltrazioni mafiose - e un misterioso imprenditore di rifiuti, che poco dopo annunciava sul sito della confindustria di Latina la possibilità di mandare in Romania migliaia di tonnellate di monnezza.
Le inchieste che i magistrati da poco arrivati a Latina stanno oggi conducendo raccontano una gestione dell'intero ciclo dei rifiuti perlomeno sospetta. Si va dal comune di Minturno, dove la società Cic Clin è indagata per frode in pubbliche forniture, fino a Terracina, dove i magistrati stanno analizzando la società Aspica. E nelle ultime inchieste della Dda di Napoli appaiono i rapporti stretti tra imprenditori dei casalesi - attivi nell'edilizia - con nomi noti a Latina per l'intermediazione dei rifiuti. I veleni e gli affari criminali della peggiore imprenditoria italiana da tempo hanno lasciato la Campania. E oggi puntano decisamente verso la capitale, seguendo le strade che da Latina portano a Roma.

 

I bambini di Kony

La nuova campagna di arruolamenti forzati del Lord's Resistance Army semina il panico in Congo e Repubblica Centraficana. Il prezzo più alto è quello pagato dai bambini.

Si abbattono sui villaggi come un flagello; come uno sciame di locuste divorano e saccheggiano tutto ciò che può servire a soddisfare i loro istinti. Solo che, dopo il passaggio delle orde del Lord's Resistance Army (Lra) guidati dal messianico comandante Joseph Kony, a sparire dalle case messe a ferro e fuoco non sono soltanto le provvigioni, ma anche qualcosa di molto più prezioso: bambini e bambine. I primi impiegati nella lotta armata, le seconde come schiave del sesso nelle alcove dello stato maggiore del Lra. Joseph Kony, l'uomo che vorrebbe rovesciare il potere del presidente Museveni, ha in mente di instaurare a Kampala un governo teocratico regolato dai Dieci Comandamenti della Bibbia. Per far ciò deve rientrare in Uganda (dopo che l'esercito ugandese lo ha respinto fuori dai confini nel 2005) e rimpinguare le fila del suo esercito. Kony non ha scrupoli, procede nella sua campagna di arruolamento in maniera sistematica e spietata: arriva in un villaggio, lo saccheggia, lo rade al suolo, rapisce gli uomini e i bambini più in salute per usarli come soldati, le bambine come schiave e come concubine. I più deboli vengono ammazzati come bestie a colpi di bastone (i proiettili sono troppo preziosi per essere usati contro vittime inermi). Spesso, come esecutori di queste stragi vengono scelti proprio i bambini che sono costretti a uccidere i propri genitori, gli amici, i vicini di casa. Negli ultimi diciotto mesi, denuncia Human Right Watch (Hrw), gli uomini di Kony hanno effettuato 697 rapimenti (tra cui circa 250 bambini di età inferiore o poco superiore ai dieci anni) hanno ucciso 255 civili e provocato fughe di masse dai villaggi colpiti dalle devastazioni del Lra.
Operano in Uganda, in Sudan, in Repubblica Centrafricana ma l'area più colpita dalle incursioni di Kony è la provincia nordorientale del Congo (Drc) Bas Uele. The Enough Project (Enough), un'organizzazione non governativa che lotta per la prevenzione dei genocidi e dei crimini di guerra, ha documentato (in un periodo monitorato tra l'aprile del 2009 e il maggio del 2010) cinquantuno attacchi separati nel Bas Uele, 105 morti, 570 rapimenti (tra cui quelli di 52 bambini), 58 mila profughi interni.
Questa nuova ondata di violenza, che secondo Hrw ed Enough viene ignorata dal main streaming e dai governi occidentali, ha innalzato un nuovo fronte polemico (dopo quanto successo l'anno scorso nel Kivu) nei confronti delle Nazioni Unite e della loro missione in Congo (Monuc): dove sono i 19 mila caschi blu che dovrebbero proteggere la popolazione da queste violenze? In tutta la provincia di Bas Uele, infatti, il Monuc ha una sola base, quella di Dingile.
Mentre Hrw ed Enough lanciano l'allarme e invocano l'intervento di Stati Uniti, Onu e governi regionali per fermare la follia di Kony, pare che la sopravvivenza del Lord's Resistance Army sia utile a troppi giochi e ricatti politici: l'opposizione accusa il presidente Museveni, il presidente di ferro dell'Uganda, di non fare nulla per fermare Kony perché quest'ultimo costituisce un ottimo movente per condurre politiche repressive nei confronti della popolazione; le autorità del Sud Sudan accusano Khartoum di sponsorizzare e finanziare le truppe di Kony nel territorio sud sudanese per destabilizzare la regione. Il 24 maggio scorso il Congresso degli Stati Uniti ha approvato, e il presidente Obama ha firmato, l'Lra Disarmament and Northen Uganda Recovery Act, una legge che darebbe mandato al presidente Obama, di concerto con i governi regionali, a fermare i crimini del Lra e a ricostruire la società civile nel nord dell'Uganda. Ad oggi, però, nessun passo è stato fatto in questa direzione. Hrw continua a chiedere che vengano spiccati dei mandati di cattura per crimini di guerra nei confronti dello stato maggiore del Lra, i villaggi del Bas Uele continuano a vivere nel terrore e i bambini convertiti in soldati continuano ad essere sottoposti ai crudeli cerimoniali d'iniziazione che li trasformano negli assassini di chi li ha messi al mondo.

Nicola Sessa

 

Mondadori salvata dal Fisco, scandalo "ad aziendam" per il Cavaliere

La somma dovuta dall'azienda editoriale: 173 milioni, più imposte, interessi, indennità di mora e sanzioni. Una norma che si somma ai 36 provvedimenti "ad personam" fatti licenziare alle Camere dal premier. Segrate è difesa al meglio: i suoi interessi li cura lo studio tributario di Giulio Tremonti, nel '91 non ancora ministro. Marina Berlusconi mette da parte 8,6 milioni, in attesa delle integrazioni al decreto. Che puntualmente arrivano

di MASSIMO GIANNINI

Sotto i nostri occhi, distolti dalla Parentopoli privata di Gianfranco Fini usata come arma di distruzione politica e di distrazione di massa, sta passando uno scandalo pubblico che non stiamo vedendo. Questo scandalo si chiama Mondadori. Il colosso editoriale di Segrate - di cui il premier Berlusconi è "mero proprietario" e la figlia Marina è presidente - doveva al Fisco la bellezza di 400 miliardi di vecchie lire, per una controversia iniziata nel '91. Grazie al decreto numero 40, approvato dal governo il 25 marzo e convertito in legge il 22 maggio, potrà chiudere la maxi-vertenza pagando un mini-tributo: non i 350 milioni di euro previsti (tra mancati versamenti d'imposta, sanzioni e interessi) ma solo 8,6. E amici come prima.

Un "condono riservato". Meglio ancora, una legge "ad aziendam". Che si somma alle 36 leggi "ad personam" volute e fatte licenziare dalle Camere dal Cavaliere, in questi tumultuosi quindici anni di avventurismo politico. Repubblica ha già dato la notizia, in splendida solitudine, l'11 agosto scorso. Ma ora che il centrodestra discute di una "questione morale" al suo interno, ora che la propaganda di regime costruisce teoremi assolutori sul "così fan tutti" e la macchina del fango istruisce dossier avvelenati sulle compravendite immobiliari, è utile tornarci su. E raccontare fin dall'inizio la storia, che descrive meglio di ogni altra l'enormità del conflitto di interessi del premier, il micidiale intreccio tra funzioni pubbliche e affari privati, l'uso personale del potere esecutivo e l'abuso politico sul potere legislativo.

Il prologo: paura a Segrate

La vicenda inizia nel 1991, quando il marchio Mondadori, da poco entrato nell'orbita berlusconiana, decide di varare una vasta riorganizzazione nelle province dell'impero. Scatta una fusione infragruppo tra la stessa Arnoldo Mondadori Editore e la Arnoldo Mondadori Editore Finanziaria (Amef). Operazioni molto in voga, soprattutto all'epoca, per nascondere plusvalenze e pagare meno tasse. Il Fisco se ne accorge, scattano gli accertamenti, e le Finanze chiedono inizialmente 200 miliardi di imposte da versare. L'azienda ricorre e si apre il solito, lunghissimo contenzioso. Da allora, la Mondadori vince i due round iniziali, davanti alle Commissioni tributarie di primo e di secondo grado. È assistita al meglio: i suoi interessi fiscali li cura, in aula, lo studio tributario di Giulio Tremonti, nel 1991 non ancora ministro delle Finanze (lo diventerà nel '94, con il primo governo Berlusconi). Nell'autunno del 2008 l'Agenzia delle Entrate presenta il suo ricorso in terzo grado, alla Cassazione. Nel frattempo la somma dovuta dall'azienda editoriale del presidente del Consiglio è lievitata: 173 milioni di euro di imposte dovute, alle quali si devono aggiungere gli interessi, le indennità di mora e le eventuali sanzioni. Il totale fa 350 milioni di euro, appunto.

Se la Suprema Corte accogliesse il ricorso, per Segrate sarebbe un salasso pesantissimo. Soprattutto in una fase di crisi drammatica per il mercato editoriale, affogato quanto e più di altri settori dalla "tempesta perfetta" dei mutui subprime che dal 2007 in poi sommerge l'economia del pianeta. Così, nel silenzio che aleggia sull'intera vicenda e nel circuito perverso del berlusconismo che lega la famiglia naturale alla famiglia politica, scatta un piano con le relative contromisure. Che non sono aziendali, secondo il principio del liberalismo classico: mi difendo "nel" mercato, e non "dal" mercato. Ma normative, secondo il principio del liberismo berlusconiano: se dal mercato non mi posso difendere, cambio le leggi. Un "metodo" collaudato, ormai, che anche sul fronte dell'economia (come avviene da anni su quello della giustizia) esige il "salto di qualità": chiamando in causa la politica, mobilitando il partito del premier, militarizzando il Parlamento. Un "metodo" che, nel caso specifico, si tradurrà in tre tentativi successivi di piegare l'ordinamento generale in funzione di un vantaggio particolare. I primi due falliranno. Il terzo centrerà l'obiettivo.

Il primo tentativo: il "pacchetto giustizia"

Siamo all'inverno 2008. Nessuno sa nulla, del braccio di ferro che vede impegnate la Mondadori e l'Amministrazione Finanziaria. Nel frattempo, il 13 aprile dello stesso anno il Cavaliere ha stravinto le elezioni, è di nuovo capo del governo, e Tremonti, da "difensore" del colosso di Segrate in veste di tributarista, è diventato "accusatore" del gruppo, in veste di ministro dell'Economia. Può scattare il primo tentativo. E nessuno si insospettisce, quando nel mese di dicembre un altro ministro del Berlusconi Terzo, il guardasigilli Angelino Alfano, presenta il suo corposo "pacchetto giustizia" nel quale, insieme al processo breve e alla nuova disciplina delle intercettazioni telefoniche, compare anche la cosiddetta "definizione agevolata delle liti tributarie". Una norma stringatissima: prevede che nelle controversie fiscali nelle quali abbia avuto una sentenza favorevole, in primo e in secondo grado, il contribuente può estinguere la pendenza, senza aspettare l'eventuale pronuncia successiva in terzo grado (cioè la Cassazione) versando all'erario il 5% del dovuto. È un piccolo "colpo di spugna", senz'altro. Ma è l'ennesimo, e sembra rientrare nella logica delle sanatorie generalizzate, delle quali i governi di centrodestra sono da sempre paladini. In realtà, è esattamente il "condono riservato" che serve alla Mondadori.

L'operazione non riesce. Il treno del "pacchetto giustizia", che veicola la pillola avvelenata di quello che poi sarà ribattezzato il "Lodo Cassazione", non parte. La dura reazione del Quirinale, dei magistrati e dell'opposizione, sia sul processo breve che sulle intercettazioni, costringe Alfano allo stop. "Il pacchetto giustizia è rinviato al prossimo anno", dichiara il Guardasigilli alla vigilia di Natale. Così si blocca anche la "leggina" salva-Mondadori. Ma dietro le quinte, nei primi mesi del 2009, non si blocca il lavoro dell'inner circle del presidente del Consiglio. Il tempo stringe: la Cassazione ha già fissato l'udienza per il 28 ottobre 2009, di fronte alla sezione tributaria, per discutere della controversia fiscale tra l'Agenzia delle Entrate e l'azienda di Segrate. Così scatta il secondo tentativo. In autunno si discute alla Camera la Legge Finanziaria per il 2010. È il secondo "treno" in partenza, e per chi lavora a tutelare gli affari del premier è da prendere al volo.

Il secondo tentativo: la Finanziaria

Giusto alla vigilia dell'udienza davanti alla sezione tributaria della Suprema Corte, presieduta da un magistrato notoriamente inflessibile come Enrico Altieri, accadono due fatti. Il primo fatto accade al "Palazzaccio" di Piazza Cavour: il 27 ottobre il presidente della Cassazione Vincenzo Carbone (che poi risulterà pesantemente coinvolto nello scandalo della cosiddetta P3) decide a sorpresa di togliere la causa Agenzia delle Entrate/Mondadori alla sezione tributaria, e di affidarla alle Sezioni Unite come richiesto dagli avvocati di Segrate, con l'ovvio slittamento dei tempi in cui verrà discussa. Il secondo fatto accade a Montecitorio: il 29 ottobre, in piena notte, il presidente della Commissione Bilancio Antonio Azzolini, ovviamente del Pdl, trasmette alla Camera il testo di due emendamenti alla Finanziaria. Il primo innalza da 75 a 78 anni l'età di pensionamento per i magistrati della Cassazione (Carbone, il presidente che due giorni prima ha deciso di attribuire la causa Mondadori alle Sezioni Unite, sta per compiere proprio 75 anni, e quindi dovrebbe lasciare il servizio di lì a poco). Il secondo riproduce testualmente la "definizione agevolata delle liti tributarie" già prevista un anno prima dal "pacchetto giustizia" di Alfano. È di nuovo la legge "ad aziendam", che stavolta, con la corsia preferenziale della manovra economica, non può non arrivare al traguardo.

Ma anche questo secondo tentativo fallisce. Stavolta, a bloccarlo, è Gianfranco Fini. La mattina del 30 ottobre, cioè poche ore dopo il blitz notturno di Azzolini, il relatore alla Finanziaria Maurizio Sala (ex An) avverte il presidente della Camera: "Leggiti questo emendamento che consente a chi è in causa con il Fisco e ha avuto ragione in primo e in secondo grado di evitare la Cassazione pagando un obolo del 5%: c'è del marcio in Danimarca...". Fini legge, e capisce tutto. È l'emendamento salva-Mondadori, con la manovra non c'entra nulla, e non può passare. La norma salta ancora una volta. E non a caso, proprio in quella fase, cominciano a crescere le tensioni politiche tra Berlusconi e Fini, che due anni dopo porteranno alla rottura. Ma crescono anche le preoccupazioni di Marina sull'andamento dei conti di Segrate. Per questo il premier e i suoi uomini non demordono, e di lì a poco tornano all'attacco. Scatta il terzo tentativo. Siamo ai primi mesi del 2010, e sui binari di Palazzo Chigi c'è un terzo "treno" pronto a partire. Il 25 marzo il governo vara il decreto legge numero 40. È il cosiddetto "decreto incentivi", un provvedimento monstre, dove l'esecutivo infila di tutto. Durante l'iter di conversione, il Parlamento completa l'opera. Il 28 aprile, ancora una volta durante una seduta notturna, un altro parlamentare del Pdl, Alessandro Pagano, ripete il blitz, e ripresenta un emendamento con la norma salva-Mondadori.

Il terzo tentativo: il "decreto incentivi"

Stavolta, finalmente, l'operazione riesce. Il 22 maggio le Camere convertono definitivamente il decreto. All'articolo 3, relativo alla "rapida definizione delle controversie tributarie pendenti da oltre 10 anni e per le quali l'Amministrazione Finanziaria è risultata soccombente nei primi due gradi di giudizio", il comma 2 bis traduce in legge la norma "ad aziendam": "Il contribuente può estinguere la controversia pagando un importo pari al 5% del suo valore (riferito alle sole imposte oggetto di contestazione, in primo grado, senza tener conto degli interessi, delle indennità di mora e delle eventuali sanzioni)". E pazienza se il presidente della Repubblica Napolitano, poco dopo, sul "decreto incentivi" invia alle Camere un messaggio per esprimere "dubbi in ordine alla sussistenza dei presupposti di straordinaria necessità ed urgenza, per alcune nuove disposizioni introdotte, con emendamento, nel corso del dibattito parlamentare". E pazienza se la critica del Quirinale riguarda proprio quell'articolo 3, comma 2 bis. Ormai il gioco è fatto. Il colosso editoriale di proprietà del presidente del Consiglio è sostanzialmente salvo. Per consentire alla Mondadori di chiudere definitivamente i conti con il Fisco manca ancora un banale dettaglio, che rende necessario un ultimo passaggio parlamentare. Il decreto 40 non ha precisato che, per considerare concluso a tutti gli effetti il contenzioso, occorre la certificazione da parte dell'Amministrazione Finanziaria.

Per questo, nel bilancio semestrale 2010 del gruppo di Segrate, presentato il 30 giugno scorso, Marina Berlusconi fa accantonare "8.653 migliaia di euro relativi al versamento dell'importo previsto dal decreto legge 25 marzo 2010, numero 40" sulla "chiusura delle liti pendenti", e fa scrivere, a pagina 61, al capitolo "Altre attività correnti": "Pur nella convinzione della correttezza del proprio operato, e con l'obiettivo di non esporre la società a una situazione di incertezza ulteriore, sono state attuate le attività preparatorie rispetto al procedimento sopra richiamato. In particolare si è proceduto all'effettuazione del versamento sopra richiamato. Nelle more della definizione del quadro normativo, a fronte dell'introduzione di specifiche attestazioni da parte dell'Amministrazione Finanziaria previste nelle ultime modifiche al decreto, e tenuto anche conto del fatto che gli atti necessari per il perfezionamento del procedimento e l'acquisizione dei relativi effetti non sono stati ancora completati, la società ha ritenuto di iscrivere l'importo anticipato nella posta in esame...". Ricapitolando: la Mondadori mette da parte poco più di 8,6 milioni di euro, cioè il 5% dei 173 che avrebbe dovuto al Fisco (al netto di sanzioni e interessi), in attesa di considerare perfezionato il versamento al Fisco in base alle ultime integrazioni al decreto che saranno effettuate in Parlamento. E le integrazioni arrivano puntuali, alla Camera, il 7 luglio: nella manovra 2011 il relatore Antonio Azzolini (ancora lui) inserisce l'emendamento finale: "L'avvenuto pagamento estingue il giudizio a seguito dell'attestazione degli uffici dell'Amministrazione Finanziaria comprovanti la regolarità dell'istanza e il pagamento integrale di quanto dovuto". Ci siamo: ora il "delitto" è davvero perfetto. La Mondadori può pagare pochi spiccioli, e chiudere in gloria e per sempre la guerra con l'Erario, che a sua volta gliene da atto rilasciandogli regolare "quietanza".

L'epilogo: una nazione "ad personam"?

Sembra un romanzaccio di fanta-finanza o di fanta-politica. È invece la pura e semplice cronaca di un pasticciaccio di regime. Nel quale tutto è vero, tutto torna e tutto si tiene. Stavolta Berlusconi non può dire "non mi occupo degli affari delle mie aziende": non è forse vero che il 3 dicembre 2009 (come riportato testualmente dalle intercettazioni dell'inchiesta di Trani) nel pieno del secondo tentativo di far passare la legge "ad aziendam" dice al telefono al commissario dell'Agcom Giancarlo Innocenzi "è una cosa pazzesca, ho il fisco che mi chiede 900 milioni... De Benedetti che me li chiede ma ha già avuto una sentenza a favore, 750 milioni, pensa te, e mia moglie che mi chiede 90 miliardi delle vecchie lire all'anno... sono messo bene, no?". Stavolta Berlusconi non può dire che Carboni, Martino e Lombardi sono solo "quattro sfigati in pensione": non è forse vero che nelle 15 mila pagine dell'inchiesta delle procure sulla cosiddetta P3 la parola "Mondadori" ricorre 430 volte (insieme alle 27 in cui si ripete la parola "Cesare") e che nella frenetica attività della rete criminale creata per condizionare i magistrati nell'interesse del premier sono finiti sia il presidente della Cassazione Carbone (cui come abbiamo visto spettava il compito di dirottare alle Sezioni Unite la vertenza Mondadori-Agenzia delle Entrate) sia il presidente dell'Avvocatura dello Stato Oscar Fiumara (cui competeva il necessario via libera a quel "dirottamento"?).

È tutto agli atti. Una sola domanda: di fronte a un simile sfregio delle norme del diritto, un simile spregio dei principi del mercato e un simile spreco di denaro pubblico, ci si chiede come possano tacere le istituzioni, le forze politiche, le Confindustrie, gli organi di informazione. Possibile che "ad personam", o "ad aziendam", sia ormai diventata un'intera nazione?

 

Usa-Cina, Washington grida al lupo

L'annuale rapporto del Pentagono sulla capacità militare della Cina

La Difesa Usa ha diffuso l'annuale rapporto " Military and Security Developments Involving the Peoples Republic of China", cioè in pratica il documento che fotografa lo sviluppo militare della Cina.
I toni conciliativi del "new deal" obamiano mascherano solo parzialmente la retorica allarmistica che mira a spaventare soprattutto i vicini di casa del Dragone: Taiwan e India. Ma anche per l'opinione pubblica americana si suona la sirena: la Cina - si sostiene - può colpire a distanza.
Come ricorda anche The Nation, si dimentica per altro che "la spesa cinese corrisponde a una piccola frazione di quanto spendono gli Stati Uniti per le forze armate".
Per essere precisi: 150 miliardi di dollari è la spesa cinese del 2009 secondo lo stesso rapporto Usa; 651 miliardi è quella Usa (nel 2010 sarà compresa tra 880 e 1.030 miliardi).

Fatte queste dovute premesse, due parole sulla genesi del documento di 83 pagine che, uscito lunedì 16 agosto, era però pronto almeno da marzo. A Washington si è deciso non solo di rimandarne l'uscita ma anche di cambiarne il titolo, che in origine era " Military Power of the People's Republic of China". La scelta sposa la linea di non urtare, almeno sul piano della buona educazione, la suscettibilità di Pechino, che ogni anno protesta contro le "esagerazioni" contenute nel rapporto. Anche un think-tank composto da ufficiali cinesi e statunitensi in pensione - Sanya Initiative - ha più volte segnalato la sua inaffidabilità. Ulteriori precauzioni sono collegate alle recenti tensioni per la presenza della portaerei George Washington nel Mar Giallo.

Nell'edizione 2010 si sottolineano innanzitutto i cambiamenti in atto nell' Esercito Popolare di Liberazione, che passa dalla semplice difesa dell'integrità territoriale cinese a una nuova capacità di operare a distanza. Da anni, truppe cinesi sono impiegate nelle operazioni di peacekeeping internazionale - sotto l'ombrello Onu - e di soccorso in caso di calamità. Ultimamente la flotta del Dragone sta anche pattugliando il Golfo di Aden e l'Oceano Indiano in operazioni antipirateria.
Il Pentagono è favorevole a questo impegno, ma si mostra preoccupato invece per altri "investimenti", che hanno permesso all'Epl di adottare strategie " anti-accesso" ( anti-access) e di " negazione dell'area" ( area-denial), nonché di " proiezione di potenza ad ampio raggio" ( extended-range power projection).
Si riconosce però che "la capacità cinese di sostenere una forza militare a distanza resta oggi limitata".
In pratica, si afferma quindi che la Cina non dovrebbe potersi difendere.

Il tema dell'operatività ad ampio raggio è un po' il chiodo fisso di Washington. Il rapporto riconosce del resto che la Cina dipende dall' importazione di energia da "più di 50 Paesi" [si veda il box alle pp 20-21] e che "Pechino sta ancora cercando di rendere i rifornimenti meno esposti ai rischi di interruzione a causa di fattori esterni". Anche se sta costruendo gas e oleodotti un po' ovunque, le forniture "continueranno a dipendere dal trasporto marittimo". In base alla stessa logica che gli Usa applicano in giro per il mondo, non dovrebbe quindi apparire strano che i cinesi vogliano mettere in sicurezza le rotte attraverso il proprio esercito. Ma al Pentagono si agita lo spettro della Cina come nuova potenza globale.

Tra le tecnologie che rendono possibile la rinnovata strategia cinese, il rapporto dedica un occhio di riguardo a quelle spaziali e informatiche. Si sottolinea per esempio che il programma spaziale cinese di natura commerciale ha anche applicazioni belliche. Si fa riferimento in particolare ai diversi satelliti (Yaogan-6, Asiasat-5, Palapa-D), che entro 2015-20 dovrebbero diventare una vera e propria rete in grado di offrire una copertura totale del pianeta a "utilizzatori civili e militari", e ai missili "Lunga Marcia V", capaci di trasportare testate nucleari in orbita.
Quanto alla cyberguerra, il Pentagono denuncia sia l'accresciuta capacità cinese di intrusione nelle reti altrui per raccogliere informazioni "che possono avere utilità strategica o militare", sia gli attacchi ai network informatici. A questo proposito si rispolverano le accuse di infiltrazione nei sistemi del governo Usa e dell'India, anche se si riconosce che "non è chiaro se questi attacchi siano avvenuti su incarico o approvazione dell'Esercito Popolare di Liberazione o del governo cinese".

Rispetto ai vicini di casa del Dragone, si sottolinea che i rapporti di forza nello Stretto di Formosa stanno spostandosi sempre più a favore della Cina continentale e che nelle aree limitrofe all' Arunal Pradesh e all' Askai Chin - contesi all'India - Pechino sta sostituendo i vecchi missili Css-3 con la nuova generazione di Css-5.
Washington lamenta anche "i modesti miglioramenti nella trasparenza sulle questioni militari e di sicurezza della Cina". Secondo il Pentagono, le cifre relative al budget militare cinese mancano infatti di molte voci, su cui non c'è chiarezza.

Oltre Muraglia è soprattutto quest'ultimo punto a suscitare reazioni. In un commento dell' Agenzia Nuova Cina, ripreso poi anche da altre testate, si legge:
"La Cina ha fornito alle Nazioni Unite rapporti annuali sulle proprie spese militari a partire dal 2007 . Ha anche invitato rappresentanti di molte nazioni ad assistere alle sue manovre e condotto esercitazioni congiunte sia con i vicini sia con altri Paesi, Stati Uniti inclusi".

Gabriele Battaglia

 

Salvate il (bambino) soldato Khadr

Inizia a Guantanamo il processo Khadr, il bambino soldato prelevato in Afghanistan dalle forze speciali Usa quando aveva solo quindici anni

Sono bastate due udienze preliminari, lunedì e martedì, per vagliare le condizioni di procedibilità e la composizione della giuria che ha nelle mani il futuro di Omar Khadr, il ventitreenne cittadino canadese rinchiuso da sette anni nel campo di prigionia di Guantanamo, Cuba. Un terzo della sua giovane vita nel carcere più infame del pianeta, dal momento che quando le forze speciali Usa lo prelevarono nel villaggio afgano di Ayub Kheyl, Omar di anni ne aveva solo quindici.

Era il 27 luglio del 2002: nel corso di un combattimento tra gli uomini della Delta Force e un gruppo di talebani, Omar Khadr - classe 1986 - lanciò una granata che uccise un ufficiale statunitense e provocò il ferimento di altri due soldati: 1) omicidio, 2) tentato omicidio, 3) cospirazione, 4) affiliazione terroristica, 5) spionaggio, sono i cinque capi d'accusa di cui il bambino soldato Khadr deve rispondere davanti alla commissione militare di Guantanamo. È il primo procedimento dell'era Obama ( che aveva promesso la chiusura di Gtmo entro il 1° gennaio del 2010 e che, soprattutto, aveva aspramente criticato il sistema delle commissioni militari), e gli Stati Uniti sono il primo paese, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi, a processare un bambino soldato.

Omar è arrivato sorridente davanti agli uomini che lo giudicheranno, in giacca e cravatta, all'occidentale, diversamente dalle tuniche bianche musulmane che negli anni hanno sfilato sul banco degli imputati. Gli avvocati della difesa - il canadese Dennis Edney e il tenente colonnello Jon Jackson - hanno chiesto al giudice col. Patrick Parrish di stralciare dai verbali la confessione di Omar Khadr, inattendibile - ad avviso della difesa - in quanto estorta sotto minaccia e tortura. La corte la ritiene invece valida e attendibile, nonostante nel maggio scorso un ufficiale dell'esercito Usa avesse ammesso che nella prigione di Bagram, Afghanistan, (dove Omar è stato trattenuto prima del trasferimento a Cuba) la sua squadra avesse minacciato il quindicenne di stupro collettivo e di morte se non avesse collaborato. L'unico atto di indulgenza della corte arriva quando il col. Parrish interrompe l'accusa per invitare i giurati a tenere conto dell'età del ragazzo al tempo in cui risalgono i fatti. Difatti è proprio questo il perno su cui si basa l'impianto della difesa: Omar non sarebbe un feroce talebano ma solo un ragazzino capitato in una brutta situazione. L'unica colpa del bambino soldato è quella di essere figlio di Ahmed Said Khadr, cittadino canadese di origini egiziane trasferitosi in Pakistan a metà degli anni 80, sospettato di essere stato finanziatore di al-Qaeda per il tramite di un'oscura Ong.

La difesa ha sperato fino all'ultimo in un intervento del presidente Usa Obama che " ha invece deciso di scrivere un nuovo, triste e patetico capitolo nel libro delle commissioni militari" di Guantanamo. Diverse organizzazioni umanitarie stanno seguendo da vicino l'andamento del processo che potrebbe portare Omar Khadr alla sentenza del carcere a vita. L'Unicef, l'agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dell'infanzia, ha espresso forti dubbi sulla legalità di questo processo, in primis perché i paesi sottoscrittori (tra cui gli Usa) del "Protocollo opzionale sul coinvolgimento dei bambini nei conflitti armati" devono prestare assistenza ai bambini soldati per il loro recupero sociale e la loro reintegrazione e in secondo luogo perché questo processo potrebbe costituire un gravissimo precedente che mette a rischio il futuro e la vita di centinaia di migliaia di bambini soldati impiegati nei conflitti in tutto il mondo.

Omar Khadr quel 27 luglio del 2002 ha perso un occhio ed è stato colpito alla schiena da due proiettili, è stato sottoposto a molte delle pratiche presenti nel catalogo della "dottrina Cheney", nei suoi confronti non è stato applicato l'articolo 3 della Convenzione di Ginevra né alcun trattato sulla Giustizia minorile internazionale. In una lettera indirizzata ai suoi avvocati, Omar ha rifiutato il patteggiamento della pena, ha voluto che questo processo si celebri perché "Io ho l'obbligo di mostrare al mondo ciò che succede quaggiù. Sembra che quanto fatto finora non sia bastato, ma forse funzionerà se il mondo vedrà gli Usa condannare un bambino al carcere a vita. E se nessuno dovesse accorgersi di nulla, in quale mondo verrei rimesso in libertà? In un mondo fatto di odio e di discriminazione".

Nicola Sessa

 

10 agosto

 

Mettere al bando gli ex-sindacalisti potrebbe essere controproducente

di Sergio Luciano

La circolare del ministro Brunetta con cui viene preclusa la carriera di dirigenti del personale nella pubblica amministrazione agli ex sindacalisti nasce dall'individuazione di un problema reale ma pretende di risolvere in un modo massimalista e in sostanza sbagliato. Il pericolo che il ministro individua in una prassi storicamente molto diffusa risiede nell'osmosi eccessiva tra il sindacato e le sue logiche e la gestione del personale, che di esse dovrebbe essere controparte, e non dovrebbe provenirne, e quindi mutuarle, per essere efficace. Inoltre, per la melassa che collega potere politico a potere sindacale e amministrativo, l'ulteriore rischio è che i sindacati condizionino le carriere dei dirigenti per ottenerne favori o al contrario precluderla ai manager puri che non nascano nelle loro file. Ma risolverla semplicemente proibendo quest'osmosi pericolosa, salvo lunghi periodi di distanza tra l'impegno sindacale e la possibile nomina, rischia di buttar via con l'acqua sporca del conflitto d'interessi o delle possibili collusioni tra sindacati e gestori del personale anche il bambino di una meritocrazia che per essere tale deve poter premiare i meritevoli sempre e comunque, anche se macchiati del peccato originale di aver fatto sindacato. E c'è di più: se l'adesione al sindacato è vista come una scorciatoia per il potere e la carriera, è un male, ed è quel che spesso è capitato finora, sia nel pubblico che nel privato. Ma se fare i sindacalisti diventa un handicap per poi fare carriera, finisce che nel sindacato refluisce la feccia delle professionalità, con conseguenze incalcolabili quando ci si siede al tavolo delle trattative. D'altronde, i casi di sindacalisti divenuti bravi manager sono tanti. Per esempio, gli unici due anni di bilanci in attivo dell'ultimo quindicennio della vecchia Alitalia furono ottenuti, nel '97 e nel '98, dalla gestione di Domenico Cempella, grazie all'accordo sindacale concluso con l'Associazione nazionale dei piloti, l'Anpac, famigerata col nome di Aquila Selvaggia. Il capo dell'Anpac, Augusto Angioletti, fu cooptato nel consiglio d'amministrazione della compagnia, e dopo un paio d'anni, fu mandato a dirigere Eurofly, la nascente compagnia charter del gruppo, e ne pilotò prima lo start-up e poi la privatizzazione, ottenendo ottimi risultati. Mauro Moretti, attuale amministratore delegato delle Ferrovie dello stato, giustamente considerato il vero padre del risanamento economico dell'azienda, è un ex, importante sindacalista della Cgil. E gli esempi potrebbero essere tanti altri. Per cui, caro Brunetta, bando alle semplificazioni, se rischiano di conseguire l'effetto contrario a quello voluto.
 

La Sosta, horror movie

Eleonora Martini

Si può essere cresciuti a pane e prison movie, e aver letto la recente interrogazione parlamentare della radicale Rita Bernardini sugli istituti siciliani, ma quando si mette piede nella famigerata "Sosta" del carcere di Gazzi, a Messina, non si crede davvero ai propri occhi. Da otto persone in su sono stipate in ciascuna delle celle da 12 metri quadri con due letti a castello su quattro piani (che spesso raggiungono il quinto piano), un cesso e un lavello pietosamente separati da una lurida tenda da doccia, e armadietti nel poco spazio che resta. Le celle, ma sarebbe meglio chiamarle grotte, affacciano su un antro sudicio, col cemento a vista, intersecato da una specie di scolo aperto all'esterno, evidente ingresso indisturbato per topi di ogni dimensione, come sostengono i detenuti che si dicono costretti a ogni tipo di espediente pur di evitare di essere aggrediti dai ratti, e malgrado la smentita secca della direzione. Ma lo sgomento è totale quando si entra nell'unica doccia a disposizione dei 36 detenuti attuali, senza acqua calda, piazzata in uno sgabuzzino con una porta sfondata dall'umidità e dall'usura, che assomiglia a una di quelle discariche in cui negli anni si trasformano i locali aperti e abbandonati. Dentro e intorno c'è di tutto: armadietti rotti e stracci sporchi. Pensare che qualcuno possa vivere qui per mesi o anche anni, e altri possano lavorarci per otto ore al giorno e più, fa provare vergogna.

È uno degli antri orrorifici che tutto sommato non ci si aspetterebbe di vedere - nel tour sotto scorta della direzione - in una Casa circondariale dall'aspetto apparentemente quasi dignitoso, certamente non dissimile dal contesto dove è inserita, tra i campi della periferia estrema di Messina. Eppure all'improvviso i muri scrostati dappertutto, anche negli uffici della direzione, l'umidità nelle celle, i soffitti crepati che mostrano i mattoni interni, i cavi a vista, i corridoi ridipinti a metà (fino a esaurimento vernice), i passeggi quasi del tutto sprovvisti di tettoie, il caldo asfissiante d'estate e il freddo d'inverno, i cessi del braccio femminile divisi dal resto della cella solo da un pezzo di lamiera (con l'unica doccia per 25 donne costituita da un tubo di plastica verde aggrappata a un muro di un antro lurido), gli scarafaggi e le formiche contro i quali l'amministrazione del penitenziario ha ingaggiato una lotta senza vittoria, lasciano il posto all'incredibile. La "Sosta" avrebbe dovuto essere il reparto per detenzione transitoria dei nuovi giunti in attesa di sistemazione, ma il sovraffollamento lo ha reso a tutti gli effetti un reparto detentivo di media sicurezza. E chissà cosa direbbe la Corte europea dei diritti umani se potesse vederlo.
Così come lascia sconcertati trovare nel braccio delle detenute-mamme che ospita anche quattro bambini al di sotto dei 3 anni, un bimbo di due anni e mezzo con un grave ritardo psico-fisico, evidentemente bisognoso di cure qui inesistenti. La direzione ha scritto al magistrato invitandolo ad intervenire, ma ancora nessuna risposta.
Ma non sono le uniche ombre di un carcere senza dubbio difficile da gestire perché, come spesso avviene, pur essendo Casa circondariale (destinata ai detenuti appena arrestati o in attesa di giudizio), si è riempita via via anche di condannati definitivi o appellanti, stipati tutti insieme nei bracci di alta e media sicurezza o nel centro clinico, che dovrebbe essere il fiore all'occhiello della struttura, senza distinzione insieme ai tanti che così, in cella per la prima volta, cominciano qui la loro carriera delinquenziale. Succede da qualche anno in tutti i carceri, riempiti come sono di piccoli e non sempre veri spacciatori, fruitori di sostanze, tossicodipendenti («l'articolo 73 del 309/'90, la legge sulle droghe, ricorre in continuazione nelle ordinanze d'arresto», racconta la direzione) e malati psichici, grazie al giustizialismo populista di Lega e centrodestra. Ma qui, a Gazzi, dove si incontrano uomini e donne di mafia (orgogliose di raccontare che il loro uomo è sottoposto al regime speciale del 41 bis), assieme a quelli di 'ndrangheta e camorra, per molti giovani alle prime armi è un vanto poter varcare la soglia d'ingresso, una sorta di attestato di pedigree. Necessario per ottenere rispetto.
In un contesto così, per orientarsi c'è bisogno dell'aiuto di qualche numero: nella struttura di Gazzi, risalente agli anni '50, da quando sette mesi fa per manifesta indecenza è stato chiuso il reparto "Cellulare" spalmando i suoi 150 detenuti nel resto delle celle, c'è posto al massimo per 229 reclusi. Ce ne sono attualmente 390 (in attesa di primo giudizio solo 133) di cui 51 donne, ma il numero varia di giorno in giorno. I tossicodipendenti dichiarati sono 70, di cui 30 in terapia. Cinque i malati di Hiv. Gli agenti di polizia penitenziaria invece dovrebbero essere 235, in organico ne risultato 214, ma sono presenti solo in 129. Disponibili 8 dei 30 ispettori previsti in organico, e 7 dei 28 sovrintendenti. Molti sono in missione, distaccati ad altre sedi, usati per scorte, o a disposizione della Commissione medico-ospedaliera perché, essendo un lavoro duro e usurante, vengono ritenuti momentaneamente incompatibili con il servizio. Così può succedere per esempio che in piena notte, quando gli agenti sono pochi, arrivi un'ondata di arrestati e «in quei momenti riuscire a coniugare diritti umani e sicurezza è difficilissimo», spiega il direttore Calogero Tessitore che ricorda quando qualche anno fa vi fu l'ondata di clandestini: «Eravamo pieni di immigrati». Oggi ce ne sono molto pochi. È un carcere di zona, soprattutto, anche se la presenza del centro clinico (un reparto Medicina e uno Chirurgia comprensivo di sala operatoria) lo rende meta per detenuti malati. Che certamente qui, però, fanno fatica a guarire, a giudicare dalle celle che ospitano i pazienti accanto ai detenuti "sani" stipati sui letti a castello, e viste le condizioni del reparto Medicina dove vivono anche 9 internati (detenuti senza condanna, ritenuti dal magistrato "socialmente pericolosi", «soggetti che - parole del direttore - per le patologie di cui sono affetti dovrebbero stare altrove e non in carcere») e dove regnano sporcizia, insetti e degrado. Malgrado gli sforzi del personale. Eppure le detenute che qualche giorno fa hanno inscenato una protesta si lamentano - oltre che per la presenza di blatte e topi nelle loro celle e per la «pessima qualità del cibo» - anche per la difficoltà di cura. Comprensibile, perché malgrado le convenzioni con i medici di 32 branche specialistiche, i 4 medici incaricati, i due infermieri di ruolo più alcuni altri per complessive 80 ore al giorno, malgrado i 2 psichiatri, l'unico psicologo (1) di ruolo che ha il compito anche di visitare tutti i nuovi giunti e un'altra psicologa per 5 (cinque) ore al mese, e malgrado la spesa sanitaria complessiva di questo carcere ammonti a 1.682.000 euro l'anno, quando un detenuto deve fare una Tac o un'analisi un po' particolare, l'iter è lungo e facilmente naufraga il giorno dell'appuntamento per mancanza di agenti che possano accompagnarlo. Per questo, tra qualche giorno nell'ospedale Papardo di Messina verrà aperto un repartino con quattro camere detentive riservate ai detenuti malati. Da ricordare che la Sicilia non ha ancora recepito la legge che trasferisce la gestione diretta della sanità carceraria dal ministero di Giustizia a quello della Salute. Ma, secondo molti operatori penitenziari, non è detto che sia un male: il servizio per le tossicodipendenze che invece è già gestito dalle Asl, per esempio, quasi sempre non riesce a soddisfare le necessità del carcere, e la coordinazione tra "esterno" e "interno" risulta «molto difficile».Sarebbe ingeneroso, però, gettare la croce dei tanti mali di Gazzi (e in generale dei carceri italiani) sulla direzione, sugli operatori o sui soli quattro educatori: «Qui tutti fanno molto più del dovuto, con abnegazione e professionalità lavorano oltre le sei ore previste dalla legge, e tentano di ridare senso al carcere, che deve essere finalizzato alla riabilitazione del detenuto», racconta il vicecommissario Antonella Machì, a capo degli agenti. «Il vero problema è la mancanza di fondi - aggiunge la vicedirettrice Romina Taiani - basti pensare che per la manutenzione ordinaria riceviamo 20 mila euro l'anno e per pagare i detenuti che la fanno, e che lavorano in 40 a turno ogni 4 mesi, riceviamo 316 mila euro». Alla derattizzazione provvede gratis il comune di Messina ma non più di quattro o cinque volte l'anno. Troppo poco per un microcosmo come questo.
«Il carcere è una realtà che non interessa a nessuno - si sfoga amaro il direttore - quando ho contattato gli enti locali, di qualunque colore politico, ho trovato sempre scarsa disponibilità». Tessitore racconta per esempio di quando ha chiesto un aiuto per far lavorare "fuori" alcuni detenuti, o di quando ha cercato fondi per una pianola da usare in uno spettacolo (una delle tante attività ricreative e formative all'interno del carcere), o addirittura quando ha chiesto soldi per attrezzare con un gazebo, un tavolo e qualche gioco per i bambini la piccola area verde riservata agli incontri con i minori . «Tutto inutile, nessun politico o amministratore ci ha dato niente». Il carcere è solo un «contenitore dentro il quale confluiscono le scelte governative». E le incapacità di un ministro siciliano sotto scacco della Lega.

 

Petrolio, il doppiogioco di Quito

Quito ha siglato il fidecommesso con il Pnud per preservare la riserva Yasuni. Mancano le firme dei paesi esteri e le riserve di petrolio di quel paradiso resteranno lì per sempre. La distruzione del parco e dei suoi popoli è scongiurata. Forse

La riserva naturalistica Yasuní-Itt, 982 mila ettari nella conca dell'alto Napo, cuore dell'Amazzonia ecuadoriana, culla di civiltà indigene e prezioso ecosistema dalla varietà unica, è sempre più a rischio. Il governo Correa, che nel 2007 aveva lanciato, per bocca dell'allora braccio destro Alfredo Acosta, una campagna ecologica internazionale assolutamente rivoluzionaria nel tentativo di preservarla, adesso si dice disposto a procedere all'estrazione se gli accordi susseguitisi a quella iniziativa non andranno a buon fine.

Tre anni fa, l'Ecuador aveva fatto appello al mondo intero affinché lo aiutasse a preservare quella eccezionale riserva di biosfera, contribuendo a fornire al piccolo paese andino il denaro corrispondente alla somma che avrebbe ricavato se avesse proceduto all'estrazione dell'oro nero dallo Yasuní. Un sacrificio collettivo in nome della natura e contro il surriscaldamento globale. Una scelta per il clima e dunque, secondo Correa, per l'intero pianeta, che quindi doveva contribuire a sostenere. Da allora è nata una serie di incontri, riunioni, discussioni che hanno portato molti paesi ad avvicinarsi al progetto. Ma tutti pretendevano un garante super partes che sostenesse l'operazione ed è stato tirato in ballo il Pnud, il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo con il quale l'Ecuador ha già siglato una sostituzione fedecommissaria, o fedecommesso che dir si voglia. Adesso mancano solo le firme dei paesi interessati - fra i quali Italia, Belgio, Germania e Spagna - e gli 846 milioni di barili di crudo - pari al 20 percento delle riserve ecuadoriane - nascoste in quel paradiso resteranno lì per sempre. Eppure Quito si mostra più scettico che mai.

"Il presidente ha annunciato che in caso che non ci sia da parte dei paesi del mondo intero una risposta positiva, senza dubbio saremo costretti a estrarre questo petrolio, attraverso la più moderna tecnologia che permetta" la preservazione dell'ambiente", ha dichiarato il vice Lenin Moreno a TeleSur. Quindi ha ribadito come questo apporto generoso del suo paese al mondo per la conservazione della natura sia una responsabilità che devono spartirsi tutte le nazioni del pianeta. "Nello Yasuní ci sono molte più specie che in tutto il Nord America. Lì c'è il futuro ecologico. Ed è anche molto interessante dal punto di vista turistico". Tutti punti a favore dell'accordo, che parrebbe davvero fondamentale. Eppure il presidente Correa non si è nemmeo presentato per siglare il fidecommesso con il Pnud. Cosa c'è sotto?

A spiegare a PeaceReporter i retroscena di questo ambiguo comportamento è Paola Colleoni, antropologa che da anni vive e lavora in Ecuador, esperta di indigeni e questione amazzonica.
"A pochi giorni dalla firma del fedecommesso che dovrebbe garantire che il petrolio dell' Itt rimanga sotto terra, la dichiarazione del vicepresidente lascia intravedere ancora una volta l'intenzione di non portare a termine l'iniziativa di salvare il parco Yasuní dall'estrazione. E di applicare, piuttosto, il "plan B", ovvero l'estrazione del petrolio, che per molti esponenti della società civile ecuadoriana è, poi, la vera intenzione del governo. Che, non a caso, sta ultimando una raffineria vicino alla città di Manta, finanziata con investimenti della venezuelana Pedevesa e il cui funzionamento ha senso solo in vista della raffinazione della riserva di crudo dell'Itt".

"La questione dell'estrazione del petrolio nel parco Yasuní - prosegue - è solo una delle arene in cui il presidente Correa si sta scontrando con coloro che ha definito "ecologisti infantili",e che gli è costato lo scontro diretto con Conaie, l'organizzazione nazionale indigena ecuadoriana. Il nodo dello scontro è appunto il modello di sviluppo che dovrebbe sostenere la "revolucion ciudadana". Correa - continua Colleoni - non è disposto a rinunciare allo sfruttamento delle risorse naturali nei territori indigeni e accusa chi ne difende i diritti di condannare il paese a "continuare a star seduto, come un mendicante, su una miniera d'oro". Ma il prezzo di questo sviluppo, a cui lui si appella in nome dei cittadini ecuadoriani, rischia di provocare la distruzione dei territori indigeni, e anche i nativi sono una parte importante dell'Ecuador. Anche sulla questione dei popoli in isolamento Tagaeiri-Taromenane, il governo ha una posizione a dir poco ambigua: non hanno ancora impedito che si sfrutti il petrolio in una zona in cui è ormai risaputo risiedere uno di questi gruppi".

"Se nella lotta contro il neoliberalismo  - conclude l'antropologa - il movimento indigeno aveva alleati tra quelli che oggi formano il governo e Allianza Pais, oggi le posizioni nazionaliste e pro-sviluppo assunte dal governo stanno portando a galla contraddizioni profonde. E la stessa cosa sta accadendo in altri paesi dell'Alleanza bolivariana, come per esempio in Bolivia, dove gli indigeni amazzonici sono in rottura con Evo Morales per analoghe ragioni".

Stella Spinelli

 

Fosse comuni e forni crematori. Ecco l'eredità di Uribe

Mentre una delegazione europea prende atto della fossa comune con i 2000 cadaveri della Macarena, un paramilitare confessa: 'Per disfarci dei corpi usavamo spesso forni crematori fai da te'

Una delegazione europea, con sei eurodeputati, ha certificato durante un sopralluogo pubblico a La macarena, dipartimento centrale del Meta, culla dei Falsos Positivos, l'esistenza di una fossa comune contenente circa duemila cadaveri. A guidarla, il sacerdote gesuita Javier Giraldo, figura d'eccezione nella lotta per i diritti umani in Colombia, rappresentante del Centro di indagine ed educazione popolare (Cinep), fondazione no profit da sempre impegnata nella denuncia dei crimini di Stato e dei soprusi paramilitari. Che ha spiegato come tortura e omicidio generalizzato siano i tragici comun denominatori della normalità colombiana, anticipando come il prossimo settembre saranno presentati altri casi documentati di sparizioni forzate e omicidi in altre regioni del paese.

In una atmosfera surreale, i delegati europei hanno ascoltato, attoniti, le tragiche testimonianze dei sopravvissuti, contadini stroncati da fatica e terrore, che hanno finalmente deciso di rompere il silenzio denunciando come l'esercito colombiano usasse gli elicotteri per gettare nelle fosse i corpi di civili massacrati e spacciati per guerriglieri, con l'intento di ottenere qualche licenza speciale. Erano in tanti, circa 800, i campesinos, venuti da tutte le regioni in cui l'esercito ha agito indisturbato, ingannando, illudendo e ammazzando, a sangue freddo. Con loro anche la senatrice Piedad Cordoba, simbolo di quella mediazione con la guerriglia in nome di una pace che sembra sempre così lontana. È stata lei a tracciare il parallelo fra la gravissima crisi umanitaria che interessa le estese regioni orientali e il Plan Colombia, unito al Plan Patriota, i due programmi governativi sostenuti dagli Usa per combattere il narcotraffico e sconfiggere la guerriglia. Dei quali è conseguenza. Effetto collaterale. Mezzo giustificato dal fine: sfollare e spadroneggiare in territori preziosissimi dal punto di vista sia strategico sia naturalistico. Il tutto con un altro vantaggio: colpire le comunità dalle quali la guerriglia trae vita e sostegno, facendo piazza pulita.

Anche la eurodeputata della commissione per i diritti umani, Ana Gómez, non ha potuto che sottolineare l'aberrazione dell'assassinio di un popolo da parte di un esercito fratello. Parole, segni, da parte europea, dopo lunghi anni di colpevole silenzio, che ha permesso all'establishment colombiana di essere accolta con tutti gli onori nei loro tanti giri diplomatici nel Vecchio Continente. Dichiarazioni che forse inaugurano un'era di cambiamento nei rapporti verso uno Stato che finora ha orchestrato il paramilitarismo e complottato con il narcotraffico, nell'indifferenza generale.

E quanto questo complotto fosse fondato sul sangue e l'orrore emerge unendo come in grandi puzzles testimonianze e ricordi appartenenti a una parte e all'altra della barricata. L'ultima testimonianza shock in ordine di tempo è quella che ha rilasciato il paramilitare Iván Laverde Zapata, che davanti ai magistrati ha raccontato che per smaltire il numero impressionante di cadaveri che facevano a destra e a manca, cadaveri insostenibili perché avrebbero gonfiato in maniera inspiegabile le statistiche ufficiali, hanno funzionato per anni veri e propri forni crematori. Una maniera sbrigativa e pulita per far sparire le tracce di mattanze inenarrabili contro il popolo. Una pratica barbara, che ha subìto un'impennata proprio durante i due mandati di Uribe e della sua sicurezza democratica. Non solo. Zapata ha spiegato come in Antioquia, mentre Uribe era governatore, molti cadaveri venisero fatti sparire anche nel fiume Cauca. Stessa pratica anche nel dipartimento di Santander. Mentre altrove, si ricorreva a pratiche da macelleria: cadaveri fatti a pezzi e nascosti in varie fosse comuni, di cui La Macarena ne è eclatante esempio.

Questa è una parte della testimonianza del paramilitare: "Ci sono molti morti che non sono stati ritrovati perché qui nelle vicinanze di Medellín, ad un'ora, si trovavano dei forni crematori. Molta gente è stata bruciata. Io ho assistito a questi fatti [...]. Tra il 1995 ed il 1997 le vittime venivano buttate nel Cauca, dopo aver aperto i corpi e averli riempiti di pietre [...], avendo l'ordine di far scomparire le vittime, è sorta l'idea dei forni crematori [...]. Dell'istallazione del forno si è occupato Daniel Mejía, era delle Auc e della Oficina de envigado. Il forno lo faceva funzionare un tale detto Funeraria, credo si chiamasse Ricardo, mentre due signori si occupavano della manutenzione delle griglie e delle ciminiere, perché si ostruivano col grasso umano [...]. Portavamo al forno tra le 10 e le 20 vittime a settimana, vive o morte, e c'era un procedimento preciso da seguire: quando arrivavamo bisognava suonare e ci dicevano 'Questa spazzatura portatela giù', allora andavamo dentro e le portavamo in sacchi di plastica per non sporcare di sangue. Dopo aver dissanguato il cadavere, ci chiedevano: 'Chi lo manda questo?'. Avevano una cartella in cui annotavano tutto. Noi entravamo e dovevamo aspettare le ceneri... poi si mostravano a Daniel e si buttavano al fiume o dove ci dicevano. Il forno fu inaugurato gettandovi dentro una persona viva, perché aveva rubato dei soldi ".

Stella Spinelli

 

Grano russo e speculazione

Siccità e carestia abbattono la produzione e fanno salire i prezzi. La finanza aumenta l'effetto rincaro

La Russia ha annunciato il blocco temporaneo delle esportazioni di grano.
In una dichiarazione all'agenzia Interfax, il Primo ministo Putin ha dichiarato che la misura si è resa necessaria a causa "delle temperature molto alte e della siccità" e che riguarderà "grano e prodotti agroalimentari derivati".
Quello che sta affliggendo il Paese è il periodo secco più lungo degli ultimi cinquant'anni, a cui si aggiunge il danno ambientale degli incendi che hanno già distrutto oltre 712mila ettari di bosco (oltre 2500 chilometri quadrati), con il corollario di almeno 50 morti.

E così, secondo stime ufficiali, la produzione russa passerà quest'anno dai consueti 90 milioni di di tonnellate a 70-75 milioni, determinando un aumento dell'inflazione 2010 fino a 7-7,5 punti percentuali contro i 6,3 previsti.
Ma il calo dell'export russo ha forti ricadute anche sui mercati internazionali.
A luglio si è già registrato un aumento del prezzo del grano del 40 per cento; a breve anche per le decisioni annunciate da Putin, si prevede un'ulteriore balzo in alto.
Soffrono soprattutto i Paesi che dipendono dall'import per nutrirsi 2C+la+Fao+denuncia+quasi+un+miliardo+di+persone+soffre+la+fame>.
L'Egitto, il maggiore importatore di grano al mondo, ha appena acquistato 180mila tonnellate di grano russo al prezzo di 270 dollari alla tonnellata. Il 31 luglio costava 238 dollari.
A livello globale, gli analisti prevedono un rincaro di tutti i prodotti alimentari da qui a fine anno.

Questa è l'economia tradizionale: quando c'è scarsità di un bene, il suo prezzo aumenta.
Ma non tutti sanno che il grano, come del resto tutte le commodities, movimenta il mercato finanziario nella sua veste più speculatrice.
Stiamo parlando di "prodotti derivati", intesi qui non come pasta o pane, bensì come strumenti finanziari che "scommettono" sul fatto che un titolo o - come nel caso del grano - un bene, aumenti o cali di prezzo in un determinato periodo. E' quasi certo che queste "scommesse" moltiplicano l'effetto rialzo.

Sul mercato dei derivati non si scambia solo il grano che esiste effettivamente, bensì anche il grano ipotetico - cartaceo come i titoli che lo rappresentano - e questo determina la volatilità dei prezzi al di là della domanda e dell'offerta reali.
Sul sito di Nouriel Roubini, l'economista-guru salito all'onore delle cronache per aver previsto la crisi finanziaria con un anno di anticipo, si ipotizza per esempio che dopo i primi rialzi alcuni investitori istituzionali come gli hedge fund si siano trovati "corti", cioè con pochi titoli a disposizione. Sono quindi corsi a comprarne altri e il prezzo è salito una prima volta. Se però un autorevole fondo speculativo (gestito magari da una nota banca d'affari) fa incetta di un determinato titolo, tutti corrono a fare lo stesso. E così si scatenano ulteriori rialzi.

Nessuno sa quantificare esattamente il peso della componente finanziaria nei rincari del grano.
Ma sta di fatto che la carestia è un fatto per lo più naturale, la speculazione no.

Gabriele Battaglia

 

5 agosto

Alessandro Tettamanti

Tutti matti per L'Aquila

Guardando la facciata della Basilica di Santa Maria di Collemaggio simbolo della città dell'Aquila, leggermente nascosto alla sua sinistra, sorge il complesso dell'omonimo ex ospedale psichiatrico costruito tra il 1902 e il 1915. Una vera e propria piccola città sufficiente a sé stessa, uguale concettualmente agli altri manicomi costruiti in Italia in quell'epoca. Un patrimonio storico, architettonico e culturale diventato di inestimabile valore per una città d’arte ferita così profondamente dal sisma del 6 aprile e diventato insostituibile per tutte quelle associazioni cittadine che vi hanno trovato ospitalità. Un tesoro, di proprietà della Asl, che gli aquilani non vogliono perdere e su cui invece incombe un triste disegno: svenderlo con la scusa di tappare una piccola parte del buco della sanità abruzzese.

Lo storico aquilano Raffaele Colapietra (comparso in numerosi film e documentari post-terremoto, compreso Draquila di Sabina Guzzanti) scrive: «...il primo Aprile 1932, a cinque mesi, come mio più degno e conveniente soggiorno, fui condotto al manicomio, a Collemaggio dove mio padre era stato chiamato a dirigere un reparto. Ero l'unico bambino in un mondo di adulti, di pazzi e di vecchi, un bambino che andava girando col suo triciclo in mezzo alle ranocchie ed alle papere in una sorta di bonaria e affollata fattoria dove arrivava l'odore acre del fieno della colonia agricola e la fragranza del pane appena sfornato...in quello che era allora un autentico villaggio di un migliaio di abitanti». Entrandoci ora – in quest'area che si estende per 150mila metri quadri, proprietà dell'Asl – pare che il tempo si sia fermato ai tempi che Colapietra descrive. Difficile non rimanere affascinati dallo stile delle maestose palazzine di inizio secolo, un tempo padiglioni della sofferenza, disposti su due lati per dividere la parte maschile da quella femminile. Un tesoro storico e architettonico immerso in una natura rigogliosa: tra gli enormi alberi presenti, dalla quercia al cedro del libano e dell' himalaya, all'ippocastano, all'abate rosso e bianco, al tiglio, vivono numerose specie di uccelli come l'allocco, la civetta, il picchio muratore e il picchio rosso e altri animali tra cui scoiattoli e ricci.
Quest'area di incantevole bellezza - che ha smesso di essere manicomio recependo la legge Basaglia nel 1991 - è diventata dopo il terremoto, grazie al lavoro delle associazioni che hanno trovato un posto al suo interno, uno spazio pubblico aperto a tutti, tra i pochi spazi di socialità rimasti oltre ai centri commerciali, fondamentale per il confronto di idee e progetti, motore propulsore per la partecipazione dei cittadini alla ricostruzione della città e dei villaggi del cratere sismico. Uno spazio pubblico necessario per dare una speranza al futuro. E a testimoniarlo sono i tanti giovani che da due giorni lo animano arrivando con tende e sacchi a pelo da tutta Italia per prendere parte al campeggio sul tema della giustizia ambientale e sociale organizzato dal centro sociale «CaseMatte». Uno spazio, però, dove nonostante tutto questo pende ancora la spada di damocle di una possibile vendita.

Ad oggi quasi tutti i padiglioni presenti - inagibili dopo il 6 Aprile – sono rimasti in stato di abbandono e incuria come del resto alcuni di loro versavano già da prima. Questo nonostante l'assicurazione stipulata dalla Asl in caso di sisma, abbia fatto incassare all'azienda poco meno di 50 milioni di euro lasciando sperare a un pronto recupero dell'area anche in funzione strategica. Invece l'area dopo il terremoto viene inizialmente ignorata. A novembre si saprà che durante i mesi estivi erano altre le intenzioni e le trattative in corso. Invece di restaurare il patrimonio di Collemaggio con un intervento relativamente economico, si stava pensando ad una nuova sede per gli uffici amministrativi della Asl dell'Aquila con un appalto (mai partito) di 15milioni di euro per la cui assegnazione risultano indagati per corruzione vari imprenditori tra cui un ex assessore regionale. A settembre, piuttosto che recuperare gli edifici danneggiati, si decide allora di invadere l’area di container per dare un tetto transitorio, oltre che agli amministrativi, anche ad altre strutture già presenti nel complesso di Collemaggio prima del sisma, come l'unità territoriale dei medici di famiglia, diventati molto importanti dopo il terremoto, e il Centro di salute mentale.
Contemporaneamente, sbarca nell'area il comitato «3e32» che, nato subito dopo il sisma, in cinque mesi è diventato uno dei punti di riferimento più importanti per i giovani della città. E dà vita all'occupazione di «CaseMatte» recuperando l'ex-bar del manicomio lasciato all'abbandono da anni. Da fine agosto intanto hanno già ricominciato a vivere nell'area, ospitati in container abitativi donati dalla Protezione Civile del Trentino, più di una ventina di pazienti del centro di salute mentale fino ad allora rimasti nelle tendopoli.
Nel frattempo, con lo spoil system, la direzione dell'Asl è passata da Roberto Marzetti a Giancarlo Silveri il quale viene nominato col compito di riassorbire il buco che la Asl Abruzzo ha accumulato negli anni. L'area di Collemaggio viene dichiarata alienabile tramite cartolarizzazione per risanare il debito della sanità locale nonostante i ricavati della vendita di quel luogo siano vincolati per legge alla salute mentale. E nonostante altri progetti in tale ambito siano già stati approvati e finanziati. Come nel caso del progetto nominato «Ambiente, arte e salute» per il quale la regione stanziò nel 2006 (allora governata dal centrosinistra) circa tre milioni di euro, progetto che prevedeva un'integrazione multidisciplinare rivolta alla salute intesa come stato di benessere fisico, mentale e sociale e non solo come assenza si malattia o infermità. O nel caso del progetto dell' «Albergo in via dei matti» che prevede la ristrutturazione del padiglione Villa Edoarda con finanziamento Cipe del 2005, per il quale al 6 Aprile 2009 risultava già affidato l'appalto per i lavori e che ciò nonostante non viene fatto avanzare.

I ragazzi di 3e32 che intanto svolgono un’intensa attività sociale, culturale e politica vengono sostanzialmente ignorati e delegittimati anche quando sulla scrivania del manager arriva un progetto, già firmato da altri responsabili Asl, per due borse lavoro già assegnate dalla fondazione Basaglia ai pazienti del centro di salute mentale tramite l'unico soggetto capace di gestire attività lavorative nella zona, e cioè il comitato «3e32». Niente da fare. Il manager preferisce negare lavoro a due persone pur di non riconoscere il «3e32».
Si arriva così allo scorso Maggio quando il popolo delle carriole sbarca nell'ex manicomio entrando in un locale chiuso e agibile e mostrando come non vengano utilizzati preziosi stabili senza neanche una crepa e vengano lasciati abbandonati, ancora stoccati, diversi materiali sanitari. Il manager Silveri va su tutte le furie annunciando lo sgombero di «CaseMatte» e asserendo che il debito della sanità nel frattempo è stato sanato e che gli unici acquirenti di una possibile vendita sarebbero il Comune o l'Università. Ma mentre nessuna trattativa di vendita è ancora decollata, la scorsa settimana la direzione ha deciso che il Distretto sanitario di L’Aquila, da sempre collocato a Collemaggio debba essere spostato a Paganica, in un nuovo edificio di 700 metri quadrati i cui lavori prevedono un costo complessivo di 1 milione e 400 mila euro. Decisione presa senza coinvolgere la cittadinanza, senza sentire il parere degli utenti, delle associazioni, degli operatori sanitari e sociali, e di nuovo con un grande spreco di denaro pubblico. Ancora, dopo il terremoto, si ha la sensazione che invece di riparare con poche spese ciò che c'era, si preferisce costruire ex novo per favorire chissà quali interessi.

Per questo il prossimo 4 Agosto presso il tendone dell'assemblea cittadina di piazza Duomo, a L'Aquila è previsto un incontro chiarificatore tra vertici della Asl, istituzioni, comitati, associazioni e cittadini per tentare di fare un po' di chiarezza – forse per l'ultima volta possibile – sul futuro dell'area di Collemaggio. In un documento scritto a tre mani dall’«Associazione 180 amici», il «3e32» e l’«unità territoriale di assistenza primaria medici di base», tutti soggetti che operano nell'area, si legge che l'ex Op «per la sua centralità, il suo valore storico e simbolico, può, se riqualificato, diventare il luogo perfetto per quella salute di comunità necessaria e non opzionale, di una città distrutta nel suo nucleo più profondo, ospitando i Servizi Socio-Sanitari, il Centro di Salute Mentale, il Centro Diurno Psichiatrico, uno Studentato Universitario “Albergo degli studenti”con attività produttive a ricaduta sociale, un Campus Universitario, un Centro per il Sociale e la partecipazione, una Biblioteca Comunale, Laboratori Artigianali-Artistici, il Museo della Mente e del Ricordo, la Scuola di Restauro, l’Istituto Cinematografico ed uffici amministrativi vari». Ma se la dirigenza dell'Asl finora non ha fatto ancora chiarezza sulle sue intenzione, la popolazione sembra d'accordo: Collemaggio deve rimanere ai cittadini e continuare ad essere il cuore pulsante di una città che mai come ora ha bisogno di benessere (basti pensare che dopo il sisma l’uso di psicofarmaci è aumentato del 40%). Il cuore dell'Aquila, città che forse è ancora in coma, ma che non vuole morire.

 

Uribe, amico del Mossad, a capo della commisisone Onu sulla Flottilia

La Commissione Onu che dovrà indagare sull'assalto militare israeliano alla Flottiglia della pace sarà presieduta da Alvaro Uribe, il presidente colombiano uscente, uomo vicino agli Usa che ha fatto del disprezzo per i diritti umani una bandiera

Alvaro Uribe, presidente uscente della Colombia, non resterà senza lavoro l'8 agosto, quando il suo successore, Manuel Santos gli succederà a Palazzo Narino. Il Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon, lo ha appena scelto per presiedere il Comitato d'indagini sull'aggressione israeliana subìta dalla Freedom Flottilla turca carica di aiuti umanitari destinati a Gaza. Era il 31 maggio scorso. Dopo due lunghi mesi di intense consultazioni, il governo di Tel Aviv ha dunque concesso che una commissione Onu indaghi su quanto avvenne quando le truppe speciali israeliane assaltarono la nave in cui vennero assassinati nove attivisti turchi. È la prima volta che lo stato ebraico accetta un'inchiesta internazionale sull'operato del suo esercito, tanto che non sono mancate le polemiche interne: "E' un fatto senza precedenti e il risultato di una cattiva gestione di governo", ha tuonato Tzipi Livni, ex ministro degli Esteri e ora leader dell'opposizione. Plauso e soddisfazione invece da buona parte della comunità internazionale, Stati Uniti in testa. Ad affiancare Uribe, l'ex primo ministro della Nuova Zelanda Geoffrey Palmer e due rappresentanti di Turchia e Israele. Con la promessa che lo stato ebraico collaborerà.

Una buona notizia, dunque, per lo meno in apparenza. Ed è così che ce la presentano. Ban Ki-Moon in testa. Finalmente un Comitato super partes, di prestigio, composto da "esperti", dicono. Eppure, chiunque abbia masticato un po' di storia recente colombiana non può che sgranare gli occhi e sobbalzare dall'indignazione nel leggere il nome del prescelto Onu. Alvaro Uribe è considerato da commissioni internazionali e organizzazioni non governative in difesa dei diritti umani, comprese molte associazioni più o meno direttamente collegate alle Nazioni Unite stesse, uno degli uomini più oscuri e sinistri del panorama internazionale. Su di lui pendono non solo sospetti, ma anche cause di corruzione e legami con il narcotraffico. E non finisce qui. Durante i suoi due mandati di governo, la Colombia non ha visto che incrementare esecuzioni extragiudiziali per mano dell'esercito regolare, con migliaia di civili morti ammazzati e fatti sparire in fosse comuni. Ha visto oltre 4 milioni di sfollati interni, ignorati e ingannati. E la guerra interna, negata dalle versioni ufficiali, continuare imperterrita. E che dire delle decine e decine di collaboratori di Uribe, compreso parenti e amici, finiti indagati e spesso condannati per i reati più svariati, legati però, sempre e comunque, alla gestione del potere e alla spartizione dei proventi.

La Colombia di Uribe è un paese ingiusto e macchiato di sangue innocente. Per non parlare della serie di scandali gravissimi che hanno fatto tremare Palazzo Narino fino alle fondamenta: dai servizi segreti deviati e usati per scopi personali dal medesimo Uribe, il quale ordinava loro di spiare e minacciare uomini chiave della società colombiana; ai voti pagati a suon di prebende per ottenere la maggioranza per la riforma costituzionale che gli avrebbe permesso una seconda elezione.

Elencare in poche righe tutte le malefatte di un personaggio di tale portata è impossibile. A parlare sono i fatti della storia recente colombiana. Ma una cosa fra tutte va sicuramente evidenziata: Alvaro Uribe è da sempre e soprattutto un fedelissimo della Casa Bianca e molto amico di Israele. È grazie all'appoggio incondizionato ricevuto dal governo Bush che ha potuto ingaggiare una guerra campale contro guerriglia e narcotraffico, e sotto sotto costringere milioni di persone a fuggire da terre fertili e preziose per multinazionali affamate. È grazie ai soldi, tanti, destinati dalla Casa Bianca al Plan Colombia se ha potuto fare e disfare a suo piacimento. Un appoggio che ha, comunque, generosamente ricambiato svendendo il territorio colombiano agli interessi privati ed esteri. Prima di lasciare la poltrona, una delle sue ultime mosse, è stato concedere l'installazione di sette basi militari agli Usa, trasformando del tutto il paese in un vero avamposto strategico a stelle e strisce. E se si pensa alla posizione geografica della Colombia e agli stati con cui confina, i conti son presto fatti. E non scordiamo il ruolo, comprovato, che il Mossad, servizio segreto israeliano, ha da sempre nell'addestrare le truppe colombiane, affiancate da soldati e contractors Usa.

Averlo nella Commissione Onu di "esperti" super partes in cerca della verità, dunque, non è una buona notizia. Uribe non è super partes, non è votato alla verità, non è indipendente. Ma una cosa è certa. È esperto, sì, e molto, di diritti umani. Calpestati e violati, puntualmente, in nome del profitto.

Stella Spinelli

 

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