È giusto un anno che il parlamento italiano, auspice il presidente della
repubblica, si è consegnato mani e piedi a un illustre “tecnico” e al governo da
lui interamente scelto (se no non avrebbe accettato l’incarico) per smettere con
le fanfaluche politiche e risanare i conti del nostro bilancio, primo fra tutti
l’indebitamento. Si sa che la politica non è “oggettiva”, quando va bene
risponde a una parte sociale, quando va male risponde a interessi privati,
mentre la “tecnica” non guarda in faccia a nessuno, è neutra e, come il
professor Monti ama ripetere, è assolutamente super partes .
Risultato? L’analisi di Pitagora, (“ L'anno perduto di Mario Monti”,
Sbilanciamoci.info 20 novembre 2012) ha dimostrato nel modo che più chiaro non
potrebbe essere, che il nostro debito è aumentato, crescita, occupazione ed
entrate pubbliche sono calati. (E non parliamo del contorno di corruzione che
sembra incrostato nelle nostre istituzioni, non è per colpa specificamente di
questo governo). I fautori delle somme e delle sottrazioni contabili possono
soltanto dirci: “È vero. Niente di fatto. Ma se non avessimo applicato questa
terapia da cavallo chissà dove saremmo finiti. E avremmo dovuto chiedere un
prestito accettando di passare sotto il controllo della troika , cosa che il
nostro premier, essendo uno della stessa famiglia, ha evitato”. Dunque il debito
è cresciuto ma politicamente a bocce ferme; l’equilibrio sociale fra chi ha e
chi non ha non è stato toccato.
E invece no. L’essere Monti e il suo governo super partes , senza il fardello
delle ideologie, ha preteso che alcune parti, che sarebbero state finora
favorite, cioè i meno abbienti, abbiano pagato più delle altre, in soldi e
diritti. Oggi siamo informati che il governo tecnico sta riuscendo ad abolire
quel che nemmeno a Berlusconi era riuscito, il contratto nazionale di lavoro (la
Cgil non è d’accordo, ma non importa, Cisl e Uil sì, ma era ovvio). Sarebbe
stata la tecnica a esigerlo, rivelandosi curiosamente in feeling con la
Confindustria. Il grimaldello per dare una botta decisiva al salariato, che si
cercava di imporre già dagli anni ottanta del secolo scorso è stata la nostra
competitività sui mercati, troppo debole per colpa dell’alto costo del lavoro
(una volta si diceva lacci e lacciuoli). Il lavoro in Italia costa troppo, per
via dei salari diretti e indiretti, imposti a tutte le aziende di tutto il
paese; mentre se essi variassero fra le aziende prospere e quelle meno prospere,
come sarebbe oggettivamente giusto, Costituzione e altre fantasie a parte,
sarebbe a più buon prezzo. Se la contrattazione fra lavoratori e padroni venisse
riportata per legge soltanto su scala aziendale, senza pari trattamento tra chi
vende meno e chi vende di più, diventeremmo più competitivi. Non proprio come la
Cina, sfortunatamente, ma si darebbe un bel colpo in quella direzione. Il
paesaggio degli equilibri sociali si modificherebbe e i nostri prodotti
costerebbero meno.
Non è entrato nella cultura del governo che ci sono due modi di essere
competitivi, offrire prodotti a basso prezzo o offrire prodotti a migliore
qualità grazie all’innovazione. Neanche tenendo conto che è il caso della
Germania. Monti non segue la strada della sua amica Merkel e di qualcuno che la
ha preceduta (perfino abbassando l’orario di lavoro), per cui oggi anche una
povera diavola come me compra più volentieri una lavapanni tedesca, e non
parliamo di merci di più elevata tecnologia. Ricordo come venticinque anni fa lo
ripetesse Sergio Cofferati, e quanto poco il Pds lo stava a sentire. Sta di
fatto che i conti non tornano e i lavoratori dipendenti sono stati e saranno
ulteriormente penalizzati. Va da sé che i precari stanno ancora peggio – perfino
i miti studenti della Bocconi hanno ululato contro il loro ex rettore in casa
sua. Insomma la neutralità sociale della tecnica è sconfessata una settimana
dopo l’altra.
Nel suo Dna sta un gene padronale. Il governo tecnico ammette una sola variante
politica: non toccare gli abbienti, non tassare la rendita, non infastidire
troppo la finanza, se no queste “parti sociali” se ne vanno verso altri lidi.
Negli Stati Uniti perderebbero anche la cittadinanza, in Europa no. Vien da
pensare che hanno ragione coloro che ci ammoniscono, badate che ormai l’economia
è diventata più forte della politica. È lei che ha vinto, e ogni giorno azzanna
qualche lembo di potere che pareva ancora del dominio politico, in soldi e
diritti. È cosi? Non credo. I poteri che sono passati alla proprietà non sono
stati strappati a mano armata ai governi; questi – finora espressione della
politica – glieli hanno consegnati. E non sempre e solo i governi di destra;
quando Cofferati trascinava con sé qualche milione di italiani al Circo Massimo
il governo era di Berlusconi, ma quando Rifondazione ha fatto cadere un Prodi
che stava andando in questa direzione, tutta l’Italia l’ha coperta di obbrobrio.
Ma veniamo ad oggi: la famosa competitività sta spingendo sulla stessa strada
anche il socialista Hollande, che non vi è ancora approdato come noi, ma su cui
preme la tesi che, se si vuol fare soldi sui mercati, conviene abbassare il
costo del lavoro, invece che migliorare, innovandolo, il prodotto. Del resto
l’Europa monetaria e l’Organizzazione mondiale del commercio pretendono che gli
stati possano legiferare sul costo diretto e indiretto del lavoro (su cui si
pagano istruzione e sanità) ma non abbiano diritto di intervenire sugli
investimenti. Se no dove va a finire la libertà d’impresa? La libertà
dell’operaio o del salariato, come è noto, non è un problema.
E poi, che cosa è l’”economia”? Che ha a che vedere con la tecnica? Sempre di
questi giorni è successo che la Francia ha perduto una delle sue tre A nel
giudizio di quegli organismi tecnici e oggettivi che sarebbero le agenzie di
rating , nel caso Moody’s. Ma quel che è successo ad altri paesi così
severamente sanzionati – borse in convulsione, cadute, tassi sui prestiti alle
stelle – non è successo affatto: le borse non hanno battuto ciglio e il costo
del denaro, invece che salire di due cifre, è aumentato di due decimi di punto.
Non dovevano essere penalizzati dalla mano invisibile del mercato? Com’è che la
Francia e il suo governo, assai poco amato, se la sono cavata così a buon
prezzo? È successo che la Germania finisce per trovarsi, con le sue tre A, sola
fra le già grandi potenze fondatrici dell’Europa, in compagnia di Finlandia,
Danimarca e simili. Strana Europa: Italia, Francia, Spagna disastrate assieme a
Portogallo e Grecia, sana fra i fondatori solo la Germania, fulgida fra un
mucchio di pezzenti. Immediato passo indietro, le A intere restano, ma nulla ne
consegue. Meglio tenere per una manica la Francia fra i debitori di cui ci si
fida, mollarle i soldi a un tasso più basso di tutta l’Europa del sud, una
considerazione del tutto politica. La gretta Moody’s ha preso sul serio che la
politica non conta, mentre l’economia è il respiro della società, libero o
soffocato. Sono i governi a deciderlo; è sul territorio della politica, che ogni
tanto – come da trent’anni a questa parte – perde la bussola.
In capo a due mesi, votata una finanziaria sicuramente montiana, il nostro
presidente della repubblica scioglierà le camere, mandandoci alle elezioni che,
come è noto, di tecnico e oggettivo non hanno niente, ridanno voce ai partiti e
premono il pedale delle emozioni. La famosa ideologia riprende posto e si vedrà
che cosa ha maturato nell’anno in cui è stata sotto la tutela del professore.
Potrebbe, per esempio, ribaltare quell’occhio di riguardo che aveva per i più
abbienti, e spostarlo verso i lavoratori, pensionati, precari, disoccupati;
potrebbe essere questo il discorso della sinistra. Ma è verosimile? Il bifido Pd
ha nelle sue tre anime due culture assolutamente montiane (o peggio) e una,
quella bersaniana, di un montismo appena emendato. Una passione travolgente lo
spinge verso il premier, che non vedrebbe male – ma come confessarlo? –
mantenere il suo mandato o ancora meglio, dato che scade anche il presidente
della repubblica, andare al posto di Giorgio Napolitano. Che cosa speri di
ottenere Nichi Vendola salendo su questa barca non mi è chiaro. A sinistra del
Pd si affollano sigle e candidati, impegnati a strappare uno strapuntino di
minoranza, cosa del tutto legittima se dal medesimo riuscissero ad esprimere un
programma, che non abbia da pretendersi ipocritamente oggettivo e super partes ,
e abbia il coraggio di dire da che parte sta. Per ora non vedo.
Noi, nel nostro piccolo di gente che non mira a essere deputato, abbiamo detto
che siamo per un’Europa che faccia abbassare la cresta alla finanza, unifichi il
suo disorientato fisco, investa sulla crescita selettiva ed ecologica, non solo
difenda ma riprenda i diritti del lavoro. Non piacerà a tutti. Ma chi ci sta?
Un oceano di precari
superano i 4 milioni
L'Ires Cgil elabora i dati Istat e "scopre" 4.080.000 lavoratori che si
trovano nella cosiddetta ''area del disagio'', tra impieghi temporanei e
contratti a tempo determinati, le famiglie vivono nell'incertezza.
Sono
oltre 4 milioni (4.080.000) i lavoratori che, nel 2012, nel nostro paese, si
trovano nella cosiddetta ''area del disagio'', quella che comprende l'insieme
dei dipendenti temporanei e dei collaboratori che lavorano a tempo determinato
perche' non hanno trovato un impiego a tempo indeterminato e degli occupati
stabili che svolgono un lavoro a tempo parziale perche' non hanno trovato un
lavoro a tempo pieno, con un incremento di 718 mila unita' (pari al 21,4%)
rispetto al 2008. E' quanto emerge da una ricerca sulla qualita'dell'occupazione,
elaborata dall'Ires Cgil sui dati Istat riferiti al primo semestre di ogni anno.
''Un quadro drammatico, quello che emerge dalla ricerca - rileva la Cgil -,
considerando anche che, dal primo semestre 2008 al primo semestre 2012,
l'occupazione e' notevolmente calata in valori assoluti, passando da 23 milioni
376 mila a 22 milioni 919 mila (- 456 mila, pari a -2%), nonostante il numero
delle persone in eta' di lavoro sia aumentata di circa 500 mila unita'. Questi
numeri spiegano il costante e davvero preoccupante peggioramento delle
condizioni di lavoro''. Anche chi e' occupato, infatti, rileva lo studio
dell'Ires, lavora meno di quanto vorrebbe ed a condizioni diverse da quelle
auspicate. I dipendenti stabili a tempo pieno calano di 544 mila unita' (- 4.2%)
e gli autonomi full time di' 305 mila (- 6.1%). Se si aggiunge il calo dei part
time stabili volontari (- 215 mila) si supera il milione di persone. Aumentano
invece i lavori involontari, quelli che si e' costretti ad accettare (Altro che
''choosy'). Del resto anche i dati delle comunicazioni obbligatorie parlano
chiaro, nel 2012 solo il 17,2% delle nuove assunzioni e' a tempo indeterminato.
''Meno lavoro, peggioramento delle condizioni e diminuzione delle ore lavorate
sono la realta' che emerge dall'indagine - commentano il presidente della
Fondazione Di Vittorio, Fulvio Fammoni e il segretario nazionale della Cgil, con
delega sul mercato del lavoro, Serena Sorrentino -. Un dato molto grave che
mette fine alla propaganda sulla cosiddetta scelta personale dei lavoratori e'
che il 93,2% dei lavoratori a termine e dei collaboratori dichiara che vorrebbe
un lavoro stabile, mentre come e' ovvio tutti i part time involontari vorrebbero
un tempo pieno. All'area del mancato lavoro (disoccupati, scoraggiati e
cassaintegrati) si aggiunge, quindi, quella del disagio nel lavoro. Un bacino
enorme di persone, una fotografia purtroppo realistica e drammatica della
realta'''. Secondo Fammoni e Sorrentino, questo quadro ''e' sicuramente
determinato dalla crisi, ma anche e in modo evidente delle scelte sbagliate
fatte per contrastarla che producono effetti insopportabilmente negativi
sull'occupazione. E' la conferma, basata su dati di fatto, di un giudizio severo
e negativo sull'operato del governo''. ''E la legge 92/2012 di riforma del
mercato del lavoro - aggiungono ancora - , in particolare su precarieta' ed
ammortizzatori sociali, e' del tutto inadeguata ed ancor piu' paradossale appare
il taglio che si annuncia nella legge di stabilita'degli ammortizzatori sociali:
due fattori che aumenteranno ulteriormente quest'area di disagio. A questi
milioni di persone si continua a dire che la prospettiva di essere travolti
dalla crisi si e' allontanata, che il peggio e' passato, ma non e' cosi'. E'
evidente che il lavoro e' il principale fattore da affrontare in modo positivo e
credibile e che per uscire dalla crisi occorre uno straordinario piano del
lavoro''.
Posti di lavoro e consenso
sociale, come la ‘ndrangheta si sostituisce allo Stato
L'inchiesta che ha svelato gli interssi del clan Bellocco in un'azienda
lombarda di call center, racconta soprattutto della voglia di potere dei boss.
Scrive il giudice Giuseppe Gennari a proposito della gestione mafiosa della Blue
call sr: "“Assumendo persone e procurando lavoro la ‘ndrangheta acquista
consenso, dimostrando di essere in grado di fare quello che lo Stato non sa
fare”
di Davide Milosa
Un’azienda
da tredici milioni di fatturato l’anno e mille dipendenti. Una società leader
nel settore dei call center. Completamente a disposizione della ‘ndrangheta . E’
questo l’ultimo fotogramma scattato dall’inchiesta milanese che sabato scorso ha
svelato gli interessi in Lombardia della potente cosca Bellocco di Rosarno .
Eppure c’è di più: poche righe a pagina 296 dell’ordinanza cautelare firmata dal
gip Giuseppe Gennari. Scrive il giudice: “Assumendo persone e procurando lavoro
la ‘ndrangheta acquista consenso, dimostrando di essere in grado di fare quello
che lo Stato non sa fare”. Questo uno degli obiettivi principali che ha spinto
il giovane boss Umberto Bellocco a dare la scalata alla Blue call di Cernusco
sul Naviglio . Chiamati da Andrea Ruffino , imprenditore lombardo e incensurato,
per sollevarlo da vecchi soci scomodi (e mafiosi), gli uomini della Piana
entrano, occupano e comandano. Soprattutto il giovane erede del clan che di sé
va dicendo: “I miei impegni sono più alti di un sindaco”.
Strumento di potere
Posti di lavoro e voti. “Il passaggio successivo sarebbe stato questo – rivela
un investigatore milanese – ma per fortuna li abbiamo fermati prima”. La
‘ndrangheta come un partito che garantisce impieghi e stipendi. Ragiona il gip
di Milano: “Controllare una realtà del genere (la Blue call, ndr) vuol dire
controllare un notevole indotto lavorativo, di grande interesse soprattutto in
questo periodo di difficoltà economiche e occupazionali”. L’obiettivo è chiaro:
prendersi aziende in salute da utilizzare come strumento di potere. E non
importa che gli assunti, poi, abbiano capacità professionali, ciò che conta è
averli a disposizione quando servono. Loro e le loro famiglie. Emilio Fratto è
un commercialista e consulente del lavoro (attualmente latitante). Sarà lui a
portare Ruffino dai Bellocco. Dopodiché dalla cosca riceverà il compito di
gestire la Blue call. Eppure, nonostante questa promozione sul campo, lo stesso
Fratto si lamenta di come “con questa gente non si può mai costruire perché (…)
pensano che loro sono in quattro e ti portano dieci persone”. Il senso è chiaro:
“Se io tolgo le persone perché devo diminuire i costi, non è che posso
aggiungere altri costi (…) Se io tolgo delle persone, è perché non mi servono”.
La ‘ndrangheta fa il ragionamento opposto: aggiungere persone perché servono ad
aumentare il potere sociale del clan.
Boss o imprenditore
Non sarà allora un caso che proprio oggi, durante i primi interrogatori di
garanzia nel carcere di Opera, Carlo Antonio Longo , referente delle cosche per
il nord Italia, nel corso di dichiarazioni spontanee abbia confessato: “Io
faccio l’imprenditore e sotto la mia gestione l’azienda stava andando bene”.
Dice di più: racconta di futuri investimenti e soprattutto di nuove assunzioni
previste. Naturalmente nessun cenno al suo rapporto con Umberto Bellocco, il
giovane e capriccioso principe di Rosarno. Eppure dalle intercettazioni emerge
una reverenza singolare verso un ragazzo poco più che ventenne.
Del resto Longo dimostra di conoscere molto bene regole e metodi della
‘ndrangheta. Tanto da rivolgersi in questo modo ad Andrea Ruffino che vuole
ostacolare la presa definitiva della sua azienda: “Adesso mi hai rotto i
coglioni (…) vaffanculo tu e tutta la razza tua (…) vedi che vengo e ti prendo
stasera a casa e ti spacco di botte a te e a tutta la razza tua… pezzo di merda
che non sei altro (…) bastardo che non sei altro (…) mi stai facendo fuori di
testa e se devo avere qualche problema per te ti faccio pentire pure che sei
nato (…) bastardo!”
Agenzia di servizi, la migliore sul mercato
Non c’è che dire per uno che si presenta come imprenditore di successo capace di
tenere fissa la barra di un’azienda da mille dipendenti. Ma la ‘ndrangheta è
proprio questo: uno specchio a due facce. Da un lato ci sono i boss in
doppiopetto che “rappresentano la più efficace agenzia di servizi esistente sul
mercato”, capaci di soddisfare le richieste degli imprenditori “dalla necessità
di denaro liquido, al desiderio di affrontare il mercato della concorrenza con
una marcia in più”. Dall’altro lato, però, c’è la violenza e l’intimidazione.
Quella, ad esempio, che usa Longo per cacciare l’ex amministratrice della Blue
call. “Se tu vuoi avere un rapporto con me – le dice -, fuori dall’azienda
facciamo quello che vuoi, ma non devi mettere più piede là dentro (…) non
entrare più” o in alternativa “vieni, chiedi permesso, ti chiama la persona
interessata, fai il tuo colloquio e vai via. Non devi gironzolare negli uffici”.
La sconfitta della bella impresa lombarda
Insomma, le aziende, in particolari quelle lombarde (come già fu la Perego
strade ), non servono per riciclare. Nella Blue call Longo e compagni non ci
metteranno un euro. Il loro obiettivo è il potere. Un diamante in più da
aggiungere alla loro corona di imperatori. Perché tali si comportano in
Calabria, ma anche al nord. E l’ultimo capitolo della storia centenaria dei
Bellocco racconta proprio di questo. Di una bella classe imprenditoriale
lombarda “che – scrive Gennari – apre le porte alla mafia”. Con le cosche gli
imprenditori “bauscia” all’inizio guadagnano, quindi si illudono di cacciare i
calabresi con una buona uscita. Ma la ‘ndrangheta non vuole soldi, vuole potere
per rinforzare il suo Stato.
Michele Bellocco: dialogo finale
Ecco allora come ragionano due capi di questo mondo a parte. “Stavano facendo
una legge – ragiona Michele Bellocco , zio del giovane Umberto – : o ci
confiscate i beni, o ci date la galera! Decidete una cosa ce la prendiamo! Poi
vuoi la libertà, ti vuoi prendere a libertà, prendetevi la libertà!”. Il boss
parla nella casa di Giuseppe Pelle , il capo dei capi della ‘ndrangheta di San
Luca . Un appartamento diventato simbolo di potere e “delinquenza”. Laggiù ai
piedi dell’Aspromonte andavano tutti: mafiosi e politici, imprenditori e gente
dello Stato. Ore e ore di intercettazioni raccontate nell’inchiesta Reale.
Prosegue Michele Bellocco: “Volete i beni, lasciateci liberi per farci gli
altri” perché “la pagnotta la dobbiamo scippare o in una maniera o in un’altra,
che dobbiamo fare!”.
13 novembre
Imu, il governo di Mario
Monti tenta il colpo di mano per favorire la Chiesa
L'esecutivo tecnico dei professori ha inserito
una modifica ad hoc sulla definizione di no profit nel decreto Enti locali per
favorire le realtà ecclesiastiche. Il tutto contro il parere del Consiglio di
Stato e con il rischio che l'Europa multi l'Italia. Si tratterebbe di un danno
di quasi tre miliardi di euro
di Redazione Il Fatto Quotidiano
Una modifica ad hoc sulla definizione di no profit
. Obiettivo? Permettere alla Chiesa di non pagare la tassa sugli immobili
relativa alle 'attività ad uso misto', ovvero quelle che producono utili
(cliniche, alberghi, ostelli, mense, ecc). Se non è un colpo di mano poco ci
manca. Il governo tecnico di Mario Monti ci sta riprovando: cambiare in corsa le
regole del gioco al fine di far risparmiare il Vaticano sull'Imu. Una mossa che
non piace né al Consiglio di Stato (che il 4 ottobre scorso ha bocciato il
regolamento per l'Imu prodotto dal ministero dell'Economia), né probabilmente
all'Europa tanto cara ai professori, che potrebbe sanzionare l'Italia per aiuti
di stato illegali. Il favore alla Chiesa, inoltre, non farà bene alle casse del
Paese; sia per l'immediato (il governo contava di incassare dai 300 ai 500
milioni di euro all'anno), sia nel lungo periodo, visto che se la Commissione di
Bruxelles dovesse davvero multare l'Italia si tratterebbe di un danno assai
vicino ai tre miliardi di euro - come riportato oggi da Repubblica - perché l'Ue
punterebbe a recuperare le somme condonate sin dal 2006.
L'asso nella manica, come detto, passa da una nuova definizione del concetto di
ente commerciale, che tale non sarebbe se nello statuto venisse fatta una
piccola modifica entro dicembre: vietato distribuire gli utili, che al contrario
devono essere investiti per scopi sociali. E qualora l'ente non profit dovesse
sciogliersi, il suo patrimonio deve passare tassativamente ad un altro ente no
profit. Non solo. Particolarmente interessante il pagamento dell'Imu per
cliniche ed ospedali, che nulla dovranno pagare se accreditate o convenzionate
con gli enti pubblici e se - si legge nel provvedimento - le loro attività si
svolgono "in maniera complementare o integrativa rispetto al servizio pubblico".
Come? O a titolo gratuito o dietro pagamento di rette "di importo simbolico".
Cosa si intende per simbolico non è dato saperlo, il che produce un vuoto
normativo che potrebbe aprire il campo a tutta una serie di interpretazioni e,
perché no, speculazioni. Per quanto riguarda convitti e scuole, inoltre, saranno
esentati quelli che fanno attività paritaria rispetto alle istituzioni statali e
quelli che non discriminano gli alunni, mentre non pagheranno l'imposta sugli
immobili le strutture con ricettività sociale. Il concetto di pagamento
simbolico che evita l'Imu, inoltre, torna anche per le attività culturali,
ricreative e sportive.
Per quanto riguarda il timing della vicenda, il punto di non ritorno è la
bocciatura da parte del Consiglio di Stato (4 ottobre) del regolamento del
ministero dell'Economia , il cui obiettivo era aiutare a compilare entro
dicembre l'autocertificazione sui metri quadrati dell'immobile di proprietà
riservata alle attività commerciali. Il Consiglio di Stato, il cui parere è
obbligatorio ma non vincolante, dice no al documento prodotto dal governo (per
decreto, in virtù della delega concessa all'esecutivo dal Parlamento). Il
motivo? Proprio l'inserimento degli 'sconti' relativi all'Imu poiché del tutto
estranei all'ordinamento italiano. Il governo a questo punto inserisce il
cavillo con la nuova definizione di no profit all'interno del decreto Enti
Locali (pensato per occuparsi dei costi della politica) e lo rispedisce al
Consiglio di Stato, che l'8 novembre lo esamina nuovamente. Sconti confermati,
quindi.
Gli operai serbi contro
Marchionne: "Basta con i turni da 10 ore"
In agitazione la fabbrica di Kragujevac dove si
produce la nuova 500L. I sindacati hanno raggiunto un accordo sull'aumento
salariale del 13%, ma l'azienda ha detto no al ritorno delle 8 ore per 5 giorni.
Se da un lato la direzione di Fiat Serbia e il
sindacato hanno raggiunto un accordo per un aumento salariale del 13% a favore
dei 2.500 operai impiegati nello stabilimento di Kragujevac dove si produce la
nuova 500L, ora monta la protesta per i turni massacranti di 10 ore. Lo ha reso
noto il leader sindacale Zoran Mihajlovic, citato dalle agenzie. L'intesa, ha
precisato Mihajlovic, ha validita' a partire da ottobre e prevede anche il
pagamento di una 13/a mensilita' e di un bonus una tantum in due rate per un
ammontare complessivo di di circa 36 mila dinari (intorno a 320 euro). Non e'
stato invece raggiunto alcun accordo sul cambiamento dell'orario di lavoro, per
il quale prosegue la trattativa. Negli ultimi giorni e' emerso sempre piu'
chiaramente il malcontento degli operai dello stabilimento di Kragujevac,
insoddisfatti sia per i bassi salari sia per il nuovo orario di lavoro
introdotto dalla direzione Fiat - quattro giorni con turni di dieci ore. Le
paghe erogate finora oscillavano tra i 32 mila e i 34 mila dinari (285-300 euro)
al mese, inferiori - per il sindacato - di cinque volte rispetto a quelle dei
colleghi italiani e di tre volte a confronto degli operai Fiat in Polonia.
Mihajlovic non aveva escluso azioni di protesta che probabilmente ora saranno
attuate per l'organizzazione del lavoro.
7 novembre
Gela, la Procura apre
inchiesta su bambini nati con malformazioni
La media è sei volte più alta di quella
nazionale. L'ipotesi è che la causa possa essere l'inquinamento prodotto dal
petrolchimico dell’Eni. E il gruppo che aveva già risarcito alcune famiglie per
il caso Syndial fa sapere: "Se dovessero essere dimostrate responsabilità siamo
pronti ad aiutare anche quelle vittime”
di Giuseppe Pipitone
Alcuni
bambini nascono senza un orecchio, altri con quattro dita alle mani, altri
ancora con delle malformazioni al palato. Una percentuale superiore di sei volte
rispetto alla media nazionale. Succede a Gela, novantamila abitanti sulla costa
meridionale della Sicilia; lì venire al mondo è più difficile che nel resto
d’Italia. Una maledizione infernale che danna le famiglie del luogo dagli anni
‘70. Solo nel 2002 sono ben 512 i bambini nati malformati. E adesso, dopo anni
di disagio, la procura di Gela ha aperto un’indagine sul caso. Oggetto
dell’inchiesta una sola, importante, domanda: perché qui i casi di malformazione
sono più comuni che nel resto d’Italia? La risposta allunga inevitabilmente lo
sguardo sulla costa della cittadina in provincia di Caltanissetta, e
precisamente dalle parti del petrolchimico dell’Eni, voluto alla fine degli anni
’50 da Enrico Mattei in persona. Per anni a Gela la parola lavoro ha fatto rima
con l’azienda del cane a sei zampe. Erano decine di migliaia gli operai che ogni
mattina varcavano i cancelli del petrolchimico per portare a casa pane e lavoro.
Oggi sono meno di duemila. Centinaia invece le famiglie che negli anni hanno
temuto per la sorte dei loro figli.
Diffusissima è l’ipospadia, una malformazione congenita all’apparato genitale,
ma comuni sono anche i casi di bambini nati microcefali. Quasi una routine i
casi di malformazioni genetiche tra le famiglie di operai ed ex dipendenti del
petrolchimico dell’Eni. “Quando io e mio fratello gemello siamo nati senza alcun
tipo di malformazione, in famiglia si è quasi gridato al miracolo per una cosa
che in realtà dovrebbe essere normale” racconta Andrea Turco, ventenne figlio di
un operaio dell’indotto petrolchimico. Già nei mesi scorsi le telecamere del
fattoquotidiano.it erano arrivate a Gela per documentare la storia degli ex
operai di Clorosoda, il reparto killer dell’Eni, e raccontare l’allarmante
diffusione di malformazioni genetiche che si verificano ancora oggi, nonostante
ampie porzioni del petrolchimico dovrebbero essere state bonificate. Adesso la
procura guidata dalla dottoressa Lucia Iotti, che già aveva aperto un fascicolo
su Clorosoda, ha deciso di indagare anche sull’alto tasso di malformazioni
congenite, ricostruendo a livello storico la vicenda, e provando ad individuare
i possibili responsabili.
“Il problema è che a Gela è inquinato tutto: dall’acqua, agli ortaggi, al cibo
con cui viene allevato il bestiame” aveva spiegato il genetista Sebastiano
Bianca, perito della procura di Gela, ai microfoni del fattoquotidiano.it.
L’alto tasso di malformazioni genetiche è dovuto ai distruttori endocrini,
elementi derivati dalle sostanze inquinanti simili a quelle emesse dal
petrolchimico: dal potenziale micidiale sono in grado di attaccare il tessuto
provocando le malformazioni neonatali. Il problema per la procura è trovare il
nesso causale, ovvero provare a livello scientifico, e quindi giudiziario, che i
tumori e le malformazioni genetiche derivano dall’inquinamento prodotto dal
petrolchimico. Nel 2006 a Priolo, pochi chilometri a nord di Gela, si era
verificata una situazione simile. In quel caso, però, la Syndial, società
dell’indotto Eni, aveva deciso di risarcire alcune famiglie danneggiate mentre
le indagini erano ancora aperte: 101 casi di bambini nati con malformazioni
genetiche erano costate più di undici milioni di euro, ma la vertenza era stata
chiusa. Oggi Andrea Armaro, responsabile delle relazioni esterne dell’Eni in
Sicilia, si esprime anche sul caso di Gela. “Se dovessero essere dimostrate
responsabilità dell’Eni a Gela siamo pronti ad aiutare anche quelle vittime”.
Il dottor Bianca però lancia l’allarme: “Non è una condizione che si può
restringere ad alcuni casi, ma al contrario è una situazione che riguarda anche
altro. Riguarda il futuro. Il problema principale è che qui a Gela in trent’anni
non è cambiato nulla: pur avendo dismesso gran parte degli impianti del
petrolchimico le percentuali di malformazioni sono rimaste stabili. Quindi il
vero problema di questa città non sono le generazioni presenti ma quelle che
future. Non sappiamo per quanto le condizioni rimarranno allarmanti. Il padre
guarda il figlio che nasce e non può preoccuparsi soltanto per lui, ma anche per
il nipote”. Una catena generazionale che negli ultimi anni sembra essere stata
senza fine.
Spagna, la Corte
Costituzionale salva oltre 22mila nozze gay
I giudici supremi spagnoli hanno bocciato il ricorso presentato nel 2005 dal
Partito Popolare dell'allora leader e ora primo ministro Mariano Rajoy. La
normativa divenne il simbolo delle politiche di uguaglianza e della protezione
dei diritti di cittadinanza del primo governo Zapatero
di Redazione Il Fatto Quotidiano
La Corte Costituzionale spagnola ha dato il ‘via libera’ alle ‘nozze gay‘
bocciando un ricorso presentato nel 2005 dal Partito Popolare, contro la legge
approvata dal governo socialista di Jose Luis Zapatero. Il tribunale ha
stabilito che la legge contestata è costituzionale, legittimando così una norma
che ha consentito finora la celebrazione di quasi 23mila unioni tra persone
dello stesso sesso. Secondo fonti del Tribunale, la decisione è stata adottata
con 8 voti a favore e 3 contrari.
Nel suo ricorso, il Partito Popolare (Pp) sosteneva che la legge che regolamenta
le nozze gay snatura “l’istituzione fondamentale del matrimonio”, così come
inteso finora, creando un vulnus all’articolo 32 della Costituzione, secondo cui
sono “l’uomo e la donna” che “hanno diritto di contrarre il matrimonio con piena
uguaglianza giuridica”. In particolare l’allora leader dell’opposizione e ora
primo ministro Mariano Rajoy, presentò il ricorso alla suprema corte sia contro
la polemica riforma del codice civile che riconosceva le nozze fra coppie dello
stesso sesso che contro il diritto all’adozione, introdotto dalla normativa.
Il premier Rajoy ha detto che il suo partito è contrario all’utilizzo della
parola ‘matrimonio’ nella legge, ma prima di conoscere la decisione della Corte
Costituzionale, il ministro della Giustizia, Alberto Ruiz-Gallardón, aveva
anticipato che il governo non modificherà la normativa vigente. Il ministro ha
riconosciuto che la sentenza “convalida che l’unione fra persone dello stesso
sesso rientra nella concezione di matrimonio raccolta nel testo costituzionale,
stabilendo una dottrina vincolante”. La normativa, pioniera in materia, nel 2005
divenne il simbolo delle politiche di uguaglianza e della protezione dei diritti
di cittadinanza dell’esecutivo socialista di Zapatero. La Spagna fu allora il
quarto Paese nel mondo a riconoscerle, dopo Olanda, Belgio e Canada e il suo
esempio è stato seguito da una decina di Paesi. La sentenza della Corte
costituzionale avalla in toto la normativa, anche se le motivazioni saranno rese
note nei prossimi giorni.
La sentenza è stata celebrata in diretta da un concentramento organizzato dai
collettivi di omosessuali, al quale hanno partecipato famiglie e gente comune, a
Puerta del Sol, fra sventolii di bandiere arcobaleno. L’incertezza e la
preoccupazione di finire in un limbo giuridico, in caso venisse accolto il
ricorso del Pp, ha pesato come una spada di Damocle sulle coppie gay che in
questi sette anni si sono unite in matrimonio ed hanno adottato figli.
Oltre 4.573 coppie gay si sono sposate nel solo 2006 e, da allora, una media di
3mila l’anno, secondo i dati dell’Istituto Nazionale di Statistica. La media è
aumentata del 21,5% lo scorso anno, fino a quota 3.880, dal momento, per il
timore che potesse prosperare il ricorso davanti alla Corte Costituzionale. “Il
minimo è che il Pp chieda scusa per la minaccia velata, permanente, che ha fatto
gravare sui cittadini”, ha dichiarato la portavoce del Psoe, Elena Valenziano,
nel commentare la sentenza con i media. “E’ una sentenza giusta e rappresenta un
grande passo avanti, senza ritorno, sulla strada dei diritti civili”, ha
commentato alla radio Cadena Ser Ernesto Gasto, consigliere socialista di San
Sebastian, nel Paese Basco, che è stato il primo politico spagnolo a convolare a
nozze con il consigliere socialista Inigo Alonso, di Lasarte, in Guipuzocoa, nel
settembre del 2005. “Abbiamo diritto ad essere felici. Questo è un grande giorno
per il nostro Paese”, ha assicurato Gasto, senza poter trattenere lacrime di
commozione.
Sla, le famiglie:
“Impossibile farcela senza i fondi del governo”
Il racconto di Maria, moglie di un malato di sclerosi laterale amiotrofica:
"Ogni mese facciamo i conti al centesimo. Sto pensando di reinventarmi, di
trovare un lavoro che mi consenta di restare a casa"
di Silvia D’Onghia
“Io ho scelto di accudire Paolo per non lasciarlo solo di fronte a questo
orrore“. Essere vivo in un corpo morto, questo è l’orrore, che la medicina
chiama sclerosi laterale amiotrofica, una malattia subdola, umiliante, che ti
lascia cosciente in un organismo che non puoi più muovere. Non un passo, non un
boccone di pizza, non una parola, non un dito sulle corde del violino nel caso
di Paolo Di Modica, musicista affermato, fermato nel 2007 da una diagnosi
“gettata in faccia” nel corridoio di un ospedale romano. “Proprio quando stavamo
per trasferirci in America, lui per un master, io per un Phd”, racconta Maria.
Che nella vita, quella precedente, faceva l’insegnante, e invece in questa si
ritrova a fare la moglie di un malato di Sla.
UNO
DI QUELLI che il 21 ottobre scorso sono entrati in sciopero della fame contro un
governo tecnico che promette da sette mesi, ma non trova 300 milioni di euro da
destinare al fondo per la non autosufficienza dei disabili gravi. “Adesso io
comincio a respirare – racconta Maria – dopo un’estate infernale in cui Paolo
non riusciva a dormire la notte. Io ero talmente stravolta che spesso mi
aggiravo in casa tutto il giorno in camicia da notte e la sera urlavo nel letto
per i dolori alle ossa. Poi siamo stati in un centro riabilitativo delle colline
bolognesi. E lì siamo rinati. Paolo ha addirittura ricominciato a mangiare le
bistecche”. Adesso Maria si alza presto, fa colazione e aspetta l’arrivo di
Tania, la ragazza che aiuta Paolo fino alle 16. “Insieme lo facciamo alzare e
gli facciamo la doccia”. In due, una lo sostiene l’altra lo lava. Paolo non ce
la fa a stare in piedi, neanche sorreggendosi da qualche parte. Il suo corpo è
rigido e senza forze. “Paolo fa colazione con Tania e io ho un’ora d’aria”.
Maria non insegna più, ha dovuto mollare tutto per assistere il marito, ma non
ha rinunciato a leggere, informarsi, fare ricerche. “O anche solo far la spesa,
uscire a prendere quello che serve a lui”.
Il pranzo lo prepara lei, ma soprattutto è lei che fa mangiare “il musico
impertinente”, come lo stesso Paolo si è definito sul suo blog. “I muscoli della
deglutizione funzionano ancora bene, ma la lingua è ipotonica. Io lo aiuto con
un dito per non fargli andare il cibo giù per la trachea. Perché quello sì che
sarebbe l’inizio di una tracheostomia”. Che lui, lo ha già detto, non vuole.
Alle 16 arriva un’altra persona a dare il cambio a Tania, perché Paolo non può
mai rimanere da solo. “Cinque volte alla settimana viene il fisioterapista
convenzionato con la Asl – racconta ancora Maria –, ma siccome non basta ne
facciamo venire uno privato per altre due volte. Così come due giorni viene la
logopedista”. Che, sommato ai due “badanti”, vuol dire un sacco di soldi tutti i
mesi. “Io non lavoro più, perché non potrei essere a scuola la mattina alle 8,
lasciando mio marito da solo. Così campiamo con la sua pensione, un piccolo
contributo che ci arriva dal Municipio, ma soprattutto con il fondamentale aiuto
della mia famiglia, che si fa carico delle spese correnti”.
PERCHÉ LA VITA, al di là della malattia, continua. “Ogni mese facciamo i conti
al centesimo, per capire se ce la facciamo. Io sto pensando di reinventarmi, di
trovare un lavoro che mi consenta di restare a casa, in modo da poter
arrotondare”. Maria e Paolo, nella tragedia, sono fortunati, avendo gli
strumenti – culturali, economici, psichici – per affrontare la Sla con la
speranza di un futuro. “Quando incontro gli altri malati, rivedo nei loro occhi
la mortificazione che ho visto in quelli di mio marito. La malattia ci ha
colpiti un anno dopo il nostro matrimonio. Noi, prima, non stavamo mai a casa,
giravamo il mondo per la musica, ci interessava l’arte, il cinema. Oggi la
nostra finestra sul mondo è la televisione”. Quando arriva la sera, l’aiuto
domestico se ne va, Maria e Paolo restano da soli. “Se lui sta bene, è il nostro
momento delle coccole. Ci guardiamo un telefilm americano, parliamo di po-
litica. Poi io prendo un vassoio e lavo i denti a mio marito. Gli metto il
pigiama e lo porto a letto. Lo sollevo di peso e rimango con lui fino a quando
non trova una posizione. Paolo vuole dormire accanto a me, nel letto
matrimoniale. Di notte, quando va bene, si sveglia due o tre volte e mi chiede
di fargli cambiare posizione. Poi arriva il mattino e si ricomincia daccapo”. In
una giornata che è sempre la stessa, ma che il governo – se non troverà 300
milioni entro il 20 novembre – renderà peggiore. “È incredibile – conclude Maria
–: i tagli sono stati fatti dal governo Berlusconi, il governo della Roccella
che diceva di voler tutelare le famiglie e si scagliava contro la volontà di
mettere fine alle sofferenze. Adesso i tecnici non sanno fare di meglio. Anzi,
la Fornero piange. Mi sembrano bambini che non sanno quello che fanno
5 novembre
Smartphone e tablet ci
rendono “schiavi da lavoro”: due ore in più a giorno
Secondo uno studio britannico se da un lato infatti offrono la possibilità di
navigare su Internet, ascoltare musica e scattare foto ovunque, dall’altro lato
hanno anche il potere di portarci a fine giornata a lavorare di più. In pratica
ogni anno arriviamo a lavorare in media 460 ore in più
Possedere
uno smartphone o un tablet potrebbe essere un “danno”. Se da un lato infatti
offrono la possibilità di navigare su Internet, ascoltare musica e scattare foto
ovunque, dall’altro lato hanno anche il potere di trasformarci in veri e propri
maniaci del lavoro. E a quanto pare i “malati” sono ormai tantissimi. Una
ricerca britannica ha dimostrato che la facilità di accedere sempre e ovunque
alla propria casella di posta elettronica ci porta a fine giornata a lavorare in
media due ore in più rispetto al dovuto. In pratica, ogni anno a causa degli
smartphone e di tutte le diavolerie tecnologiche arriviamo a lavorare in media
460 ore in più.
Dai risultati della ricerca, commissionata dall’azienda specializzata in
tecnologie Pixmania, una giornata di lavoro in Gran Bretagna può durare dalle 9
alle 10 ore. Ma se a queste ci aggiungiamo gli “straordinari” con lo smartphone,
che consistono nell’invio e nella ricezione di e-mail di lavoro, o anche della
ricezione di semplici telefonate, la conta delle ore di lavoro aumenta.
Considerata la diffusione di queste nuove tecnologie in Gran Bretagna, ma anche
nel nostro paese, non siamo di fronte a un problema marginale. Si stima infatti
che oltre il 90 per cento degli impiegati ha un cellulare abilitato a ricevere
le e-mail e un terzo di questi accede alla propria casella di posta elettronica
più di 20 volte al giorno.
Quasi uno su dieci ammette di spendere fino a tre ore del proprio tempo fuori
dall’ufficio a controllare le e-mail di lavoro. E questo vale anche per chi non
possiede uno smartphone o un tablet, visto che dalla ricerca è emerso che molti
controllano eventuali comunicazioni di lavoro sulla posta elettronica anche dal
computer di casa. C’è chi addirittura ha confessato di “stare in guardia”
praticamente 24 ore al giorno: nove su dieci ha ammesso di guardare le e-mail di
lavoro o di fare e ricevere telefonate anche fuori l’orario d’ufficio. Quasi due
terzi dei soggetti ha ammesso di controllare spesso la propria casella di posta
elettronica poco prima di andare a letto la sera e la mattina appena sveglio,
mentre più di un terzo ha addirittura risposto a una e-mail nel bel mezzo della
notte. In media la finestra temporale in cui oltre un terzo degli impiegati
britannici controlla la mattina le e-mail di lavoro va dalle 6.00 alle 7.00. Un
quarto di questi controlla la propria casella anche tra le undici e mezzanotte.
Non si può certo negare che lo sviluppo di queste nuove tecnologie abbia due
facce. “La possibilità di accedere letteralmente a milioni di applicazioni, di
mantenere i contatti attraverso i social network e di scattare foto e video,
nonché di mandare messaggi e fare chiamate, ha reso lo smartphone uno strumento
prezioso per molte persone”, commenta Ghadi Hobeika, direttore marketing di
Pixmania. “Tuttavia, ci sono – continua – una serie di svantaggi. Molte aziende
si aspettano che i loro dipendenti siano in servizio 24 ore al giorno, sette
giorni alla settima, e lo smartphone significa che le persone non possono
letteralmente allontanarsi dal lavoro”. In pratica, più aumentano le possibilità
di stare in contatto più ci si aspetta una maggiore capacità lavorativa. Questa
della Pixmania non è l’unica ricerca che mostra la nostra, seppur inconsapevole,
“schiavitù da lavoro” a causa dello smartphone. Qualche mese fa è stata infatti
promossa una ricerca da Mozy, un’azienda britannica che fornisce servizi
tecnologici ad altre imprese, che ha sottolineato quanto lo smartphone abbia
allungato i nostri orari di lavoro. Anzi spesso, a causa delle possibilità
offerte dalle nuove tecnologie, non si riesce quasi mai a staccare del tutto.
Per alcuni questa situazione è da considerarsi come un vero e proprio campanello
d’allarme di quello che in America viene definito “workaholism”, ovvero
“sindrome da ubriacatura da lavoro”. Si tratta di una malattia che comporta una
dipendenza dal lavoro, intesa come un disturbo ossessivo-compulsivo, un
comportamento patologico di una persona troppo dedita alla professione e che
pone in secondo piano la sua vita sociale e familiare.