Novi Ligure, muore operaio
all'Ilva ma la fabbrica non si ferma
Immediata la reazione dei sindacati che hanno proclamato sciopero. L'uomo, di 31
anni, è stato schiacciato da un muletto
Un caporeparto dell'Ilva di Novi Ligure (Alessandria) - Pasquale La Rocca, di 31
anni - è morto, schiacciato da un muletto, la scorsa notte mentre lavorava nello
stabilimento siderurgico.
Nonostante l'incidente, l'attività della fabbrica non è stata sospesa e per
protesta i sindacati hanno proclamato uno sciopero immediato dei turni della
notte. Le Rsu hanno proclamato lo sciopero anche per i turni di stamani e del
pomeriggio. L'incidente - secondo la ricostruzione dei vigili del fuoco
intervenuti sul posto - è avvenuto durante una manovra di retromarcia per lo
spostamenti di un carico. Per cause non ancora chiarite da parte dello Spresa e
dei tecnici della Asl, il muletto si è ribaltato e La Rocca è rimasto
schiacciato.
A soccorrerlo sono stati gli stessi compagni di lavoro che - hanno riferito
sempre i pompieri - hanno sollevato e spostato il muletto utilizzando un carro
ponte dello stesso stabilimento. Sono intervenuti anche i sanitari del 118 che
hanno tentato invano di rianimare l'operaio
Tv, Corte europea condanna
Italia a pagare 10 milioni a Di Stefano per Europa 7
L'imprenditore, proprietario dell'emittente, aveva ha chiesto ai giudici
europei di riconoscergli un maxi indennizzo di due miliardi per non aver potuto
trasmettere perché non aveva frequenze su cui farlo sostenendo che le scelte non
erano dovute a impedimenti tecnici ma politici
La
Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per non avere concesso
per dieci anni le frequenze all’emittente televisiva Europa 7 di Francescantonio
Di Stefano. La Corte ha riconosciuto all’imprenditore 10 milioni di euro per
danni materiali e morali contro una richiesta di due miliardi di euro.
L’imprenditore, da anni, si batte, a suon di carte bollate, per farsi
riconoscere i suoi diritti. Dopo aver vinto la gara per l’assegnazione delle
frequenze ormai dieci anni fa, spendendo circa 15 milioni di euro per mettere
insieme gli studi più grandi d’Europa, ma Rete 4 destinata al satellite è
tuttora in onda.
Secondo la Corte, nel non assegnare le frequenze a Europa 7 le autorità italiane
non hanno rispettato “l’obbligo prescritto dalla Convenzione europea dei diritti
umani di mettere in atto un quadro legislativo e amministrativo per garantire
l’effettivo pluralismo dei media”. L’Italia è stata quindi condannata per aver
violato il diritto alla libertà d’espressione. All’emittente televisiva è stato
quindi riconosciuto il diritto a un risarcimento di 10 milioni di euro per danni
morali e di 100 mila euro per le spese legali sostenute per presentare il
ricorso a Strasburgo.
Arriva così al suo epilogo una storia cominciata nel luglio del 1999 quando
Europa 7, in base alla legge n.249 del 1997, ottenne la licenza per trasmettere
attraverso tre frequenze per la copertura dell’80% del territorio nazionale.
Tuttavia l’emittente ebbe l’effettiva possibilità di iniziare a trasmettere solo
nel 2009 e su una sola frequenza. Nel condannare l’Italia la Corte ha
sottolineato come, avendo ottenuto la licenza, Europa 7, potesse
“ragionevolmente aspettarsi” di poter trasmettere entro massimo due anni. Ma non
ha potuto farlo perchè le autorità hanno interferito con i suoi legittimi
diritti con la continua introduzione di leggi che hanno via via esteso il
periodo in cui le televisioni che già trasmettevano potevano mantenere la
titolarità di più frequenze. Di Stefano, proprietario dell’emittente, aveva ha
chiesto ai giudici europei di riconoscergli il maxi indennizzo per non aver
potuto trasmettere per anni perché non aveva frequenze su cui farlo. Con la
sentenza i giudici hanno innanzitutto stabilito che negando le frequenze a
Europa 7 le autorità italiane hanno violato il diritto alla protezione della
proprietà privata e quindi causato un danno economico all’emittente. Durante
l’udienza pubblica che ha avuto luogo lo scorso ottobre i difensori dello Stato
italiano avevano sottolineato che Di Stefano è stato già risarcito nel 2009,
quando il Consiglio di Stato gli ha riconosciuto una compensazione di un milione
di euro. Oltre alla questione strettamente economica, i giudici dovevano
stabilire tra l’altro se le scelte del governo siano state dovute a reali
impedimenti tecnici, oppure, come sostenuto da Di Stefano, da motivazioni
politiche.
”La condanna che arriva dalla Corte europea dei diritti umani sul caso Europa 7
è solo la conferma dei danni prodotti da Berlusconi e dal suo governo” afferma
in una nota il leader dell’Italia dei Valori, Antonio Di Pietro . L’ex
presidente del Consiglio ha utilizzato a proprio uso e consumo le istituzioni,
piegandole ai propri interessi e calpestando la democrazia e l’informazione.
L’Italia dei Valori, che per prima ha portato avanti la battaglia per
ristabilire le regole sull’attribuzione delle frequenze , continuerà a battersi
affinchè nel nostro Paese venga affermato lo stato di diritto e risolto una
volta per tutte il conflitto d’interessi. L’emittente televisiva Europa 7 è
stata vittima di un vergognoso abuso perpetrato per anni e per questo nessun
risarcimento sarà mai abbastanza”.
Springsteen a San Siro, la
Casta di Palazzo Marino va al concerto gratis
Il live del Boss a Milano non è l'unico evento che assessori, consiglieri e
dipendenti possono gustarsi senza spendere un centesimo e risparmiandosi la
fatica di cercare i tagliandi: dall’inizio della legislatura targata Pisapia i
ticket gratis per lo stadio sono stati 14mila. Ci sono i politici che "girano"
gli omaggi ai parenti. E quelli che, invece, li rimandano indietro o li regalano
con una lotteria
di Luigi Franco
Tutto esaurito per il concerto di
Bruce Springsteen . Ma tra il pubblico di San Siro c’è anche chi, il biglietto,
non se lo è dovuto pagare. Come diversi assessori, consiglieri e dipendenti del
Comune di Milano. Che a ogni evento, concerto o partita che sia, possono contare
sui 320 ingressi omaggio distribuiti da Palazzo Marino . Un privilegio mica
male, visto che dall’inizio della legislatura targata Pisapia i ticket gratis
per lo stadio sono stati 14mila.
Stasera a cantare sulle note del Boss ci sarà pure Marco Cappato , consigliere
comunale dei Radicali. Ma lui, i biglietti, se li è comprati da sé. Mentre per
quelli omaggio ha organizzato, come le altre volte, una lotteria gratuita su
Internet perché se li aggiudichi qualcun altro. Simile la scelta di Carlo
Monguzzi del Pd, che li dà via attraverso Facebook. Anche Mattia Calise ,
consigliere del Movimento 5 stelle, non vuole gli ingressi gratis: “Quando ero a
Palazzo Marino da pochi giorni – racconta – mi sono arrivati in una busta
quattro biglietti per il concerto di Vasco”. Stupito, Calise li ha mandati
indietro, e da allora non gli hanno più mandato alcun omaggio.
I biglietti sono in molti a tenerseli: vanno ai membri della giunta, ai
consiglieri comunali, ai dipendenti di Palazzo Marino, ai presidenti dei
consigli di zona e, quelli che avanzano, a diverse associazioni no profit. C’è
chi va allo stadio quando gioca l’Inter, come il consigliere del Pd Andrea
Fanzago , chi lì dà al figlio o ai parenti, come Riccardo De Corato , che in
Aula siede sui banchi del Pdl. Loro, del resto, non lo considerano un privilegio
da Casta. Il presidente del consiglio comunale, Basilio Rizzo , è della stessa
idea e non ci vede nulla di male, dal momento che i consiglieri comunali non
hanno stipendi d’oro come quelli regionali o come i parlamentari, ma ricevono
un’indennità intorno ai 1.500 euro mensili. “E – aggiunge sulle pagine locali di
Repubblica – il Comune non spende un centesimo di denaro pubblico”, visto che
quei biglietti sono previsti dalla convenzione che dal 2000 lega Palazzo Marino,
proprietario dello stadio, a Inter e Milan, le due società che lo gestiscono.
Sulla convenzione ha fatto però i conti Cappato. “Scade nel 2030 – spiega -. Il
valore degli ingressi che verranno distribuiti nei prossimi 18 anni è di circa
20 milioni di euro”. Insomma, se si cambiasse il contratto trentennale, la
giunta avrebbe un modo in più per impinguare le casse comunali. Oltre ai
biglietti di San Siro, ci sono poi quelli per i teatri della Scala, degli
Arcimboldi e del Piccolo. “Alla Scala il Comune ha a disposizione due palchi e
alcuni posti in platea, per un valore di 500mila euro all’anno. La convenzione
scade a fine anno: se il Comune decidesse di tenersi solo un palco, potrebbe
ricavare 300mila euro in più”. Anche Calise è a favore di una modifica dei
contratti che prevedono gli ingressi omaggio e a questo proposito ha presentato
una mozione. Un ripensamento, tra l’altro, non sarebbe nemmeno inedito nel
panorama delle grandi città europee: pochi mesi fa l’amministrazione comunale di
Berlino ha deciso di azzerare i “benefit di rappresentanza”.
Per il momento, però, i ticket ad assessori e consiglieri non si toccano. Da
Chiara Bisconti , responsabile in Giunta per Sport e tempo libero, è arrivato
solo l’annuncio di misure per rendere più trasparente la distribuzione degli
omaggi: da fine agosto i biglietti per San Siro saranno nominali, per evitare
che non si sappia nemmeno a chi vanno a finire, e quelli inutilizzati andranno a
rotazione ad associazioni e scuole che ne facciano richiesta. “La trasparenza
non è tutto – commenta però Cappato – è giusto che rimanga una piccola quantità
di posti riservati a esigenze di protocollo, ma 320 sono troppi”. E i privilegi
elargiti da Palazzo Marino nemmeno si limitano ai biglietti. Vanno aggiunti
5mila pass per le corsie preferenziali riservati non solo ai politici di Comune,
Provincia e Regione, ma anche a senatori, deputati, banchieri, magistrati,
medici e giornalisti. E ancora, un numero imprecisato di pass per parcheggiare
gratuitamente nelle strisce blu e di tessere della Sea (la società che gestisce
Linate e Malpensa) per lasciare l’auto all’aeroporto senza tirare fuori un
centesimo.
“Non abbiamo bisogno di queste stupidate – dice Cappato – quando come
consiglieri comunali siamo ridotti senza strumenti di lavoro”. Più risorse per
fare attività politica, questa l’esigenza. E fa niente se Springsteen dal vivo
non lo si ascolta gratis.
7 giugno
Il referto che inchioda il
Petrolchimico: "Quel cancro si prende solo all'Enichem"
La diagnosi di angiosarcoma epatico a carico di
Vincenzo di Totaro ha riaperto un caso chiuso quattro anni fa. I magistrati
avevano archiviato l'indagine per l'indimostrabilità del nesso causale fra
esposizione a Cvm (cloruro di vinile monomero) e Pvc (polivinilcloruro) e
insorgenza della malattia. Ma l'unico tumore in grado di dimostrare quel
collegamento è proprio quello che ha ucciso l'operaio brindisino.
BRINDISI - Dodici anni. Dal 1996 al 2008. Nove di indagini, dedicati a studi di
coorte, consulenze epidemiologiche, accertamenti medico-legali. Tre gli anni di
camera di consiglio, per un numero incalcolato di udienze.
Quattromilatrecentottanta giorni in tutto. Sessantotto i capitani di industria
Enichem e vertici dello stabilimento di Brindisi indagati per strage, omicidio
colposo plurimo, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro,
lesioni gravi e danni ambientali. Mai saliti sul banco degli imputati.
Centoventiquattro i parenti delle vittime, madri, mogli, figli degli operai alle
dipendenze del petrolchimico di Brindisi deceduti per cancro, figuranti di un
processo mai celebrato, la schiera delle persone offese o danneggiate. Eredi di
un dolore presunto, mai accertato. Tutto archiviato, quattro anni fa. Fino al 9
aprile 2012. Pasquetta.
E' il giorno in cui muore Vincenzo Di Totaro, operaio dello stabilimento di
Brindisi dal 1962 al 1993, sei mesi dopo il referto a firma dei medici
Jacqueline Valerio e Mario Criscuolo, che il 29 settembre 2011 sulla scorta di
una biopsia al fegato diagnosticano: "Il quadro morfologico ed immunoistochimico
pur nell'esiguità del prelievo orienta per angiosarcoma epatico". Il primo caso
conosciuto, a Brindisi, in assoluto. La diagnosi a carico dell'operaio 73enne
scompagina le granitiche certezze acquisite, quelle che avevano portato la
magistratura brindisina a cestinare nomi, numeri e dolore: indimostrabilità del
nesso causale fra esposizione professionale a Cvm (cloruro di vinile monomero) e
Pvc (polivinilcloruro) e insorgenza dei tumori nella popolazione operaia. Quel
nesso, lo aveva già ripetuto come un mantra il pubblico ministero Giuseppe De
Nozza nella richiesta, è dimostrato per una sola forma tumorale: l'angiosarcoma
del fegato. Appunto.
Cancro subdolo. Giace nelle viscere per decenni, invisibile, quieto. Non te ne
accorgi e non se ne accorgono nemmeno i medici. Fino all'esplosione improvvisa e
imprevedibile, che completa l'opera di corrosione e uccide nel breve volgere di
pochi mesi. Di angiosarcoma epatico è morto l'operaio dello stabilimento
petrolchimico di Marghera Tullio Faggian nel lontano 1999, aveva 63 anni. Per
quella morte è arrivata l'unica condanna a carico di tre amministratori delegati
dell'Enichem, del responsabile medico-sanitario centrale e un direttore generale
centrale, succeduti gli uni agli altri ai vertici di Foro Bonaparte. Un anno e
sei mesi di reclusione, pena sospesa, per omicidio colposo. Erano tutti
indagati, anche a Brindisi. Faggian non è l'unico caso di angiosarcoma
presentato dal pubblico ministero Felice Casson, ma a differenza dei compagni in
tuta da lavoro morti prima di lui, ha fatto il gran torto di morire un po' più
tardi. Prima che la prescrizione cancellasse per sempre anche il suo nome.
Tredici anni dopo, il filo rosso dei due processi che pareva reciso per sempre
si riannoda, da Nord a Sud, da Marghera a Brindisi. La morte dell'operaio Di
Totaro, uno solo, s'incunea negli ingranaggi del tempo, arresta la macina
dell'oblio e riapre il processo al petrolchimico, quattro anni dopo il decreto
di archiviazione. Tredici pagine, a firma del giudice per l'udienza preliminare
Antonio Sardiello, erano bastate a scrivere l'epilogo del processo mai celebrato
al petrolchimico di Brindisi. Tredici pagine, sbrigativo copia e incolla delle
sentenze già pronunciate in primo e secondo grado nei procedimenti gemelli sullo
stabilimento di Porto Marghera. Il gup riassume le ragioni del suo
pronunciamento, rinviando alla corposa richiesta di archiviazione del pm dove si
legge, a più riprese: "Come riferito, con riferimento alla mortalità osservata
all'interno dello stabilimento petrolchimico di Brindisi, deve ribadirsi che non
è stato osservato nessun caso di angiosarcoma epatico". Il sostituto procuratore
si dà la pena di indagare oltre il perimetro dello stabilimento, concludendo che
di un cancro simile mai nessuno era morto in tutto il territorio brindisino.
Oggi, è tutto da rifare. Sulla scorta di un esposto del dirigente medico
Maurizio Portaluri, di Salute pubblica, la procura di Brindisi ha riaperto
l'inchiesta, sequestrando la cartella clinica di quell'unico morto per
angiosarcoma. Si indagava per lesioni colpose gravi. La scomparsa dell'operaio
cambia di segno la natura stessa degli accertamenti, nuovamente affidati al
pubblico ministero Giuseppe De Nozza, oggi si indaga per omicidio colposo.
Inchiesta contro ignoti, al momento, almeno fino a quando il magistrato
inquirente non riuscirà a rispondere al quesito: se quella morte si poteva
scongiurare, oppure no. Se i vertici dell'azienda, che almeno a partire dagli
anni '70 senza dubbio conoscevano la pericolosità delle sostanze alla
trasformazione delle quali lavorava la comunità operaia e l'operaio Vincenzo Di
Totaro, hanno messo in atto tutte le cautele necessarie a difendere la sicurezza
dei lavoratori. E il bene prezioso, eternamente in saldo, della loro salute.
“I tonni rossi del Pacifico
sono vettori della radioattività di Fukushima”
Una ricerca ha rilevato negli esemplari livelli
di cesio-134 e cesio-137 superiori dopo l'incidente nucleare, ma comunque ancora
al di sotto sia dei limiti di sicurezza stabiliti tanto dal Giappone quanto
dagli Stati Uniti
Tonni come vettori di diffusione di radionuclidi
tra le sponde dell’oceano Pacifico. Tracce di radioattività riconducibili al
disastro nella centrale giapponese di Fukushima Daiichi sono state riscontrate
in esemplari di tonno rosso del Pacifico, catturati al largo della California .
Lo rivela uno studio condotto da ricercatori della Hopkins Marine Station della
Stanford University e della School of Marine and Atmospheric Sciences della
Stony Brook University , pubblicato sulla rivista Proceeding of the National
Academy of Sciences (Pnas).
Secondo quanto riscontrato dallo studio, livelli non elevati degli isotopi
radioattivi cesio-134 e cesio-137 sono stati rilevati nel tessuto muscolare di
15 pesci catturati lungo la costa di San Diego ad agosto del 2011, cinque mesi
dopo la duplice catastrofe naturale, terremoto e tsunami, che danneggiò
l’impianto nucleare giapponese. Confrontati con gli esemplari pescati prima
dell’incidente nucleare, i livelli di radioattività sono superiori, ma comunque
ancora al di sotto sia dei limiti di sicurezza stabiliti tanto dal Giappone
quanto dagli Stati Uniti , sia rispetto alle radiazioni prodotte naturalmente da
altri tipi di isotopi presenti nei pesci, come il potassio-40. “Non mi permetto
di dire cosa sia rischioso mangiare o meno”, ha detto però Daniel Madigan , uno
degli autori alla Reuters , “ci sono persone che credono che anche una minima
quantità di radioattività sia un male. Ma se comparati con quella presente in
natura e con i limiti di sicurezza non è molta”.
Al di là dei rischi più o meno immediati per la salute umana, ciò che interessa
gli scienziati è capire il ruolo delle migrazioni animali nel trasporto del
materiale radioattivo. “I risultati indicano che il tonno rosso del Pacifico è
in grado di trasportare rapidamente materiale radioattivo attraverso l’oceano. È
qualcosa di nuovo. Normalmente non si pensa agli animali migratori come vettori
di diffusione di radionuclidi”, ha spiegato Madigan. La radioattività avrebbe
viaggiato “a bordo” dei tonni addirittura più velocemente di quanto vento e
correnti hanno impiegato per portare detriti in Alaska e sulla costa
nordoccidentale degli Stati Uniti. La tempistica e le abitudini dei tonni legano
le quantità di radiazioni a Fukushima. Oltre che con esemplari pescati prima del
disastro, gli scienziati hanno confrontato i risultati con quelli degli esami
condotti su tonni a pinna gialla, specie che passa la vita nelle acque del
Pacifico orientale tra la California e il Messico . In questi esemplari i
livelli di radioattività prima e dopo l’incidente erano invariati. Al contrario
il tonno rosso depone le uova tra il Giappone e le Filippine per poi migrare a
oriente.
Contano infine i tempi di decadimento degli isotopi del cesio, ossia il tempo
necessario all’elemento radioattivo di ‘trasformarsi’ in un elemento più stabile
e leggero. I tempi di decadimento sono più lunghi per il cesio 137, la cui
presenza può essere ricondotta agli esperimenti nucleari nel Pacifico, ma di
appena di due anni circa per il cesio 134. Confrontati con esemplari della
stessa specie pescati tre anni prima il cesio 137 era cinque volte superiore a
quanto ci si aspettasse, mentre prima dell’incidente di Fukushima non era stato
rilevato cesio 134 né nell’acqua né negli animali. I tonni catturati nei mesi
seguenti saranno oggetto di nuovi esami. Molti potrebbero aver passato più tempo
al largo delle coste giapponesi e quindi avere livelli di radioattività più
alti. I risultati dello studio, ritengono i ricercatori, potrebbero rilevarsi un
nuovo strumento per tracciare gli schemi di migrazione delle specie marine. I
livelli dei due isotopi del cesio potrebbero servire a calcolare quando e quanto
duri una migrazione. “Un dato indispensabile per i progetti di tutela delle
specie e per regolare la pesca”, hanno spiegato gli scienziati. Dal disastro di
Fukushima, dunque, stando ai ricercatori statunitensi, potrebbe venire almeno
questo inaspettato aiuto alla ricerca sui tonni.
di Andrea Pira
Nuovo Ospedale della Murgia:
costato 110 milioni di euro e mai partito
La struttura in provincia di Bari, tra Altamura
e Gravina, doveva aprire nel 1990 ed essere un polo sanitario d'eccellenza.
Oltre vent'anni sprecati a causa della burocrazia, tra condotte dell’acquedotto
da rifare e danni provocati dal maltempo
Nell’atto che ne decretava la nascita – nel 1990 –
era scritto che si candidava ad essere il polo di eccellenza di una sanità
all’avanguardia, il meglio che si potesse offrire. Non lo è mai stato. Non a
causa della malasanità. Ma perché le sue porte, in 22 anni, non si sono mai
aperte. E’ la storia del Nuovo Ospedale della Murgia in provincia di Bari: nel
suo nome la prima contraddizione. Era nuovo 22 anni fa, quando ne fu approvata
la costruzione. Non lo è più oggi visto che quella è la più grande struttura
incompiuta della sanità del sud Italia e, forse, del Paese intero. 110 milioni
di euro spesi in 22 anni per non entrare mai in funzione. Un lasso di tempo
incredibile, nel quale si sono alternati sei presidenti di Regione, è cambiata
la moneta in circolazione, sono cambiati i partiti ma la storia del polo
sanitario no. E’ come fosse congelato.
L’ospedale si trova a metà strada tra il comune di Altamura e quello di Gravina
, nel mezzo dello splendido parco dell’Alta Murgia, tra paesi nei quali le
comunità vivono prevalentemente di agricoltura. La struttura è divisa in tre
lotti, due edifici gemelli da sette piani e uno centrale da cinque. Trecento i
posti letto previsti. Doveva servire una intera zona alla quale non era stato
offerto molto. La sua storia è un groviglio di problemi burocratici e politici.
I primi finanziamenti sono stati approvati dal Consiglio regionale nel 1990: 8
miliardi nel primo triennio, 53 miliardi nel secondo, per un totale di 61
miliardi di lire. Nel 1996 arriva dal Parlamentino pugliese un nuovo
stanziamento: altri 30 miliardi di lire. Il primo lotto viene bandito nel 1997 e
consegnato sette anni dopo. Siamo al 2004, la moneta è cambiata; si stanziano
nuovi fondi, 23 milioni 750 mila euro. Ma i lavori del secondo edificio non
procedono più speditamente del primo. Bandito nel 2004 viene realizzato dopo un
estenuante stop and go, durato anni. Non è la volontà politica a bloccare i
lavori quanto piccoli e penetranti problemi di ordine burocratico.
Ci si ferma per un mese per le condotte dell’acquedotto da rifare, 150 giorni
per attendere la prima variante, altri tre mesi per attendere la variante che
non arriva e quando finalmente c’è, ci si riferma per sette mesi per la perizia
di assestamento; altri quattro mesi per il maltempo e poi una pausa per
richiedere i danni causati dal maltempo che si sono tradotti in un risarcimento
alla ditta costato 140 mila euro dopo un accordo bonario. Si potrebbe continuare
all’infinito. Il terzo lotto vive, invece, il passaggio di consegne tra l’allora
presidente di Regione Raffaele Fitto e il suo successore Nichi Vendola .
All’inizio si propende per snellire la pratica e accontentarsi di due edifici;
ma poi si sceglie di andare avanti per dare un senso a quel progetto che parlava
di “un grande ospedale all’avanguardia”.
Il terzo lotto viene bandito nel 2008; arrivano altri 21 mila 470 euro. Non è
finita. Nel 2010 la Giunta regionale ricava dal bilancio 10 milioni di euro per
poter mettere riparo al deterioramento dei materiali che nel corso dei 15 anni
di lavori, ha inevitabilmente colpito gli edifici. La struttura ha una sua
forma; si inizia a parlare di inaugurazioni e di porte che si aprono. Ma dietro
l’angolo c’è un altro ostacolo. L’esperienza del terremoto dell’Aquila insegna
che un ospedale è all’ avanguardia anche quando resiste a qualsiasi scossa.
Quello di Altamura non lo è. Una beffa; una struttura ancora da inaugurare è già
vecchia al punto che bisogna correre ai ripari e procedere agli adeguamenti
sismici e antincendio. Questo significa una nuova emorragia di denaro pubblico:
3 milioni e 500 mila euro per il primo intervento, 5 milioni previsti per il
secondo. Quando saranno ultimati i lavori, si dovrà bandire la gara per
l’acquisto delle forniture costate 10 milioni di euro. I cittadini sembrano non
far più caso alla struttura che col suo silenzio è entrata ormai a far parte del
paesaggio. Pochi chiedono quando aprirà perché, del resto, la risposta è la
stessa da 20 anni: “Forse a fine anno”.
“Ex politico fa il lobbista
per l’imprenditore mafioso, assolto perché il fatto non è reato”
Depositate ieri le motivazioni della sentenza
con cui il giudice di Milano ha condannato 110 persone nel processo sulla
'ndrangheta in Lombardia. Assolto l'ex assessore provinciale Antonio Oliverio
perché il reato di "traffico di influenze" non è previsto dal codice italiano
di Davide Milosa
Il politico non lo fa più. Ma di quel mondo ha
conservato conoscenze e rapporti. E dunque li sfrutta a favore di alcuni
imprenditori. In cambio ottiene “regalie”. Non tangenti si badi. Solo doni che
come tali stanno dentro alla partita doppia dei giochi di lobby. Ecco appunto:
un lobbista. O meglio ancora: “Chi, oramai dismessa ogni carica politica, si
ingegna di sfruttare le proprie conoscenze acquisite nel tempo”. C’è condotta
illecita? Non in Italia dove questi “comportamenti appartengono al concetto di
traffico di influenze che non riveste rilievo penale alcuno”. Così, per dare un
motivo giuridico al reato, i magistrati sono costretti a imputare la corruzione.
Ma quando questa scivola fuori dal contesto, ecco che il castello crolla,
lasciando spazio a un’unica soluzione: assoluzione perché il fatto non sussiste.
Naturalmente il cortocircuito è evidente. Per sanarlo il governo Monti ha pronto
un nuovo ddl sulla corruzione . Il testo del ministro Paola Severino ,
osteggiato e frenato in Parlamento, prevede, infatti, l’introduzione del reato
di traffico d’influenze, portando così l’Italia a livello di tutti gli altri
paesi europei.
Nell’attesa, uno come Antonio Oliverio , calabrese di Pedice, ex assessore
provinciale di Milano, prima casacca Udc, poi Pdl, passando dal centrosinistra
di Filippo Penati al centrodestra di Guido Podestà , esce indenne dal
maxiprocesso sulla ‘ndrangheta in Lombardia. E questo nonostante i magistrati
antimafia abbiano accertato e certificato i suoi rapporti con Ivano Perego ,
imprenditore lombardissimo, in affari con il boss dell’Aspromonte Salvatore
Strangio .
Un boss e un imprenditore, oggi imputato per reati di mafia. Sullo sfondo
Milano. Città non più da bere, ma da conquistare con i soldi della ‘ndrangheta e
i mezzi dell’impresa lombarda. Miscela perfetta. E in mezzo? Il politico, anzi
l’ex politico, meglio il lobbista. Definizione del giudice milanese Roberto
Arnaldi che ieri ha depositato quasi mille pagine di motivazioni alla sentenza
che, il 19 novembre 2011, ha condannato 110 persone, assolvendone solo tre: tra
queste proprio Antonio Oliverio. Assoluzione chiesta dallo stesso pm Alessandra
Dolci , che davanti a un processo abbreviato (senza dibattimento e basato solo
sulle carte dell’indagine), non ha potuto che abdicare al codice.
Dunque carta canta e Oliverio scampa la galera. Motivo? I vantaggi ottenuti
arrivano dopo le sue dimissioni dalla Provincia. Eppure le parole restano.
Quelle del giudice Arnaldi che nelle prime ottocento pagine ricalca l’impianto
accusatorio della procura: contatti tra boss e politici, colonizzazione del
territorio e una struttura, la Lombardia, sempre più autonoma dalla Calabria.
Poi, a pagina 817, ecco Oliverio e l’amicizia con Ivano Perego.
Un salto indietro. Maggio 2009. La Perego costruzioni è già affare della
‘ndrangheta. Chi comanda è Salvatore Strangio. Che infila soldi e, annota il gip
Giuseppe Gennari , “trasforma l’azienda in uno zombie a disposizione delle
esigenze e degli interessi della componente ‘ndranghetista”. In quel momento i
rapporti tra Perego e Oliverio “iniziati già tempo” diventano assidui. Siamo nel
periodo in cui il politico (trombato da Penati) passa dall’altra parte dove,
però, non troverà fortuna e non sarà rieletto. Poche settimane prima (6 aprile)
il terremoto colpisce L’Aquila e l’Abruzzo. La ‘ndrangheta vuole entrare
nell’affare. Ci proverà ma senza fortuna. Obiettivo: la fusione con la Cosbau
spa all’epoca “assegnataria di alcuni lotti relativi alla ricostruzione”. Per la
mafia, scrive il gip, prendersi Cosbau “vuole dire entrare alla grande nel giro
degli appalti pubblici”. Il progetto viene annunciato dal broker Andrea Pavone
allo stesso Oliverio. “Diventeremo un’azienda tra le prime cinque più importanti
del settore”. L’ex politico risponde: “Ti sono vicino, tu lo sai…”.
Da quel momento in poi Oliverio sempre più viene considerato “una figura di non
trascurabile importanza all’interno dei contatti politico istituzionali che
interessano le vicende della Perego”. E di conseguenza della Cosbau dove i
colletti bianchi della ‘ndrangehta progettano di infilare tre uomini nel cda.
Uno di questi è Oliverio. “Tu – dice Pavone – sei l’espressione nostra (…) per
la capacità di organizzare il mercato sotto l’aspetto pubblica amministrazione”.
Tutto fatto: anche l’ufficio in piazza Duse. “Cazzo è in centro, perfetto”,
esclama l’ex Udc.
Insomma, il lavoro di lobby inizia a fruttare: ufficio vicino a corso Venezia,
qualche bella macchina. Una Bmw M6? Perché no. E se questa non va bene ecco in
pronta consegna una più classica Mercedes. Eppure, seguendo le parole di Arnaldi,
i rapporti tra Perego e Oliverio risalgono “indietro nel tempo”. I due si
conoscono, almeno dall’aprile 2009, periodo in cui Oliverio è ben saldo alla
poltrona di assessore provinciale al Turismo. E’ in questo mese, e grazie
all’opera del politico in carica, che Ivano Perego parteciperà alla “Giornata
della Sussidiarietà”, organizzata dalla Compagnia delle opere. Il giorno prima
lo stesso imprenditore conversando al telefono dirà riferendosi al politico: “Ci
muoviamo insieme (…) l’Antonio mi vuole bene”. Terminata la manifestazione ecco
il racconto dalla viva voce dell’imprenditore, ormai da tempo, a libro paga
della ‘ndrangheta: “C’era Formigoni, Lupi c’erano tutti… io in pole position”.
Nella primavera-estate 2009 l’agenda di Oliverio è molto fitta. Perego gli va
dietro. Fissano un incontro con l’allora assessore regionale all’Artigianato
Domenico Zambetti . Mentre per sbloccare l’affare della cava di Cremona,
Oliverio propone una cena con il futuro presidente della Provincia Guido Podestà
al Plaza di San Donato Milanese. E poi ci sono le mille intercettazioni in cui
l’ex assessore (siamo a giugno) dice “di non esporsi troppo con Podestà perché
poi magari rivince Penati e lui li ancora quattro contatti li ha”. Oppure
“promette a Perego di aprirgli tutte le strade” perché “loro sono una squadra” e
“Oliverio è il capo”. Parole, annoterà nel 2010 il gip Giuseppe Gennari, “che
dette da chi si candida a ricoprire ruoli istituzionali e di amministrazione
della cosa pubblica, non possono che preoccupare”
E per un processo che si chiude un altro (il prossimo 11 giugno) si apre. Sul
piatto sempre ‘ndrangheta e politica. Nomi diversi? Solo in parte, perché quello
di Antonio Oliverio, pur non indagato, compare nell’indagine sul presunto clan
Valle-Lampada . Addirittura, gli investigatori, annotano contatti tra Oliverio e
Giuseppe Lampada , presunto braccio finanziario dei Condello, a partire dal
2006. In quel periodo Lampada (“boss che gira armato di pc e non di pistola”)
conosce anche un altro politico: è Armando Vagliati , consigliere comunale del
Pdl. Anche lui mai indagato. E il motivo lo spiega il capo dell’antimafia
milanese Ilda Boccassini. “Il nostro metodo è di accusare qualcuno solo quando
siamo certi di poterlo mandare a processo. Altrimenti un’assoluzione è un regalo
alla mafia e una sconfitta non per il pm, ma per lo Stato”.