26 aprile

24 aprile
 

La crisi sorride agli imprenditori

Frankfurter Rundschau

Pressati dalla competizione interna all’Ue, i governi facilitano i licenziamenti e abbassano il costo del lavoro, realizzando sogni coltivati per anni dalle aziende.

Stephan Kaufmann

La crisi si fa sentire in Grecia, in Spagna, in Italia e in Portogallo. L’intera Europa del sud è in ginocchio. O quasi. In questi paesi infatti alcune vecchie rivendicazioni finiscono per realizzarsi. Come quelle di Juan Rosell, presidente dell’associazine degli imprenditori spagnoli Ceoe. Per anni Rosell ha chiesto maggiore flessibilità nei licenziamenti. Oggi il governo gli ha dato soddisfazione. “Non sarà l'ultima riforma del mercato del lavoro”, ha profetizzato Rosell, sicuro del suo successo. Per lui la crisi è un’ottima occasione.

Le imprese europee si fanno sempre più forti. Sotto la pressione della recessione e dei debiti pubblici, i governi cercano di ridurre i diritti dei lavoratori e i costi salariali. L’obiettivo è quello di arrivare a un lavoro più accessibile e quindi più attraente per gli investitori. “L’Europa sta diventando un paradiso per gli imprenditori. E tutto a spese dei lavoratori”, si rammarica Apostolos Kapsalis dell’istituto di ricerca della confederazione sindacale greca Gsee.

Di fronte all’esplosione della disoccupazione e al rigore imposto dall’Ue i sindacati sono sulla difensiva. In particolare in Grecia, dove il governo ha dato un taglio netto ai minimi salariali e ai sussidi di disoccupazione. “Ci saranno consistenti riduzioni degli stipendi”, avverte Michala Marcussen della banca Société Générale.

L’età pensionabile è stata innalzata. In questo modo non solo lo stato evita di pagare delle pensioni, ma aumenta anche il numero di candidati sul mercato del lavoro rendendo ancora più dura la concorrenza occupazionale. “La Grecia è la cavia da laboratorio delle riforme europee”, afferma Kapsalis. “Qui si testano le misure di rigore che possono passare”. Programmi analoghi sono già stati applicati in altri paesi, avverte il sindacalista.

In Spagna, per esempio, dove senza negoziare con i sindacati il governo a febbraio ha riformato il mercato del lavoro “in modo molto aggressivo", come ha riconosciuto lo stesso ministro dell’economia Luis de Guindos. I primi beneficiari di queste riforme sono le imprese: “Di fatto si tratta di aumentare i loro margini di profitto, e sul breve termine questo può essere fatto solo attraverso una riduzione dei costi salariali”, fa osservare Patrick Artus, economista presso la banca francese Natixis.

Ma l’ondata di riforme non riguarda solo i paesi più piccoli. Anche in Italia Mario Monti sta pensando di ridurre le garanzie per i lavoratori, fra cui gli ostacoli ai licenziamenti. Un primo tentativo era stato fatto nel 2002, ma era fallito di fronte alla reazione popolare. Una nuova occasione si presenta oggi – e il presidente del consiglio non vuole sprecarla. “Sulle questioni di politica economica, Monti si trova esattamente sulla nostra linea”, si felicita Emma Marcegaglia, ex presidente di Confindustria.

Fate come Berlino

I politici europei hanno preso come modello la Germania, dove l’Agenda 2010 e la moderazione salariale hanno aumentato la redditività delle imprese e dove la crisi è stata superata da molto tempo. “Sul piano della concorrenza internazionale l’unica soluzione di cui dispone l’Europa per affrontare le potenze emergenti come la Cina e il Brasile è diventare competitiva come la Germania”, ha dichiarato a gennaio Angela Merkel.

Il livello degli stipendi e la produttività tedesca servono anche da unità di misura per la concorrenza europea – anche per la Francia, che ha perso quote di mercato internazionale, mentre la Germania rafforzava la sua posizione. Secondo i calcoli della Commerzbank la produzione di automobili francesi e italiane è crollata di quasi il 30 per cento fra il 2004 e il 2011, mentre nello stesso periodo i costruttori tedeschi vedevano la loro produzione crescere del 22 per cento.

Le riforme del mercato del lavoro non sono misure contro la crisi di breve periodo, ma devono essere considerata sul lungo termine. Gli Stati si stanno mettendo reciprocamente sotto pressione attraverso le loro strategie di riduzione dei costi. Anche paesi con salari bassi come la Croazia e la Repubblica Ceca devono introdurre maggiore flessibilità nel loro mercato del lavoro e ridurre i costi salariali per rilanciare la competitività, avverte l’Fmi. Questa competizione tra stati membri è ben vista dall’Ue, che vuole fare dell’Europa la regione più competitiva del mondo entro il 2020. “Abbiamo l’obbligo di definire una strategia di crescita”, ha dichiarato il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso.

Questo rilancio della competitività attraverso una riduzione dei costi salariali è perseguito a scapito dei redditi – e quindi del consumo delle famiglie. “Per diversi anni le misure adottate saranno un problema per la crescita e per il mercato del lavoro”, avverte Artus. Il problema è sapere se i diretti interessati sono d’accordo. I sindacati portoghesi hanno lanciato un appello allo sciopero generale, e gli spagnoli sembrano decisi a seguirne l’esempio. Il sindacalista greco Kapsalis invita i tedeschi a dimostrare maggiore solidarietà: “Perché oggi siamo noi a subire i tagli in casa nostra, ma un giorno toccherà di nuovo a voi”.

 

19 aprile

La sconfitta infinita

Si fatica a trovare le parole per ripetere ancora, per l'ennesima volta, che siamo sconfitti . Costretti ad arrenderci di fronte all'impossibilità di arrivare a una verità giudiziaria sulle stragi italiane. La sentenza d'appello sulla bomba di Piazza della Loggia a Brescia era l'ultima occasione, dopo le assoluzioni per Piazza Fontana, per l'attentato alla Questura di Milano del 1973 e per tutte le altre stragi (tranne Bologna): occasione persa.

Di nuovo è arrivata ieri un'assoluzione, seppur con la formula dubitativa delle prove insufficienti o contraddittorie. Sono passati 43 anni dalla madre di tutte le stragi, quella del 12 dicembre 1969 a Milano. E 23 anni dalla caduta del Muro di cui quelle stragi sono figlie. Il mondo è cambiato, eppure non è ancora possibile sapere la verità. Gli imputati se ne vanno assolti. Condannati a restare orfani della propria memoria sono tutti gli altri, cittadini di uno Stato che non sa fare chiarezza su una stagione chiusa : quella della guerra segreta e senza esclusione di colpi combattuta negli anni Sessanta e Settanta in Italia, terra di confine di un mondo diviso in due blocchi.

Impossibile stabilire con certezza le responsabilità penali individuali, dicono le sentenze. Eppure noi sappiamo . E non è più soltanto l'intuizione al singolare di un intellettuale come Pasolini ("Io so"). È il risultato - storico, se non processuale - di quarant'anni di ricerche, inchieste, indagini e testimonianze, che hanno sedimentato almeno due certezze.

La prima è che le stragi della cosiddetta strategia della tensione sono state materialmente eseguite da gruppi neofascisti . La seconda è che gli apparati dello Stato hanno depistato le indagini e sottratto prove e testimoni, in nome della guerra senza quartiere al comunismo, combattuta con eserciti segreti e segretissimi accordi internazionali. Lo dicono le stesse sentenze (Piazza Fontana, Questura di Milano) che hanno mandato assolti i loro imputati.

Noi sappiamo, dunque. Conosciamo i gruppi allevati per le operazioni sporche, i meccanismi, le strategie, le intossicazioni. Un magistrato che ha a lungo indagato sull'eversione, Libero Mancuso, va ripetendo: "Ci avete sconfitti, ma sappiamo chi siete".

 

Difesa, nonostante la crisi il governo trova 132 milioni per la Marina militare

Contratti d'oro per Finmeccanica, Aermacchi, Agusta Westland, aziende di armamento finite al centro delle indagini di diverse procure. Secondo gli inquirenti di Napoli avrebbero avuto un ruolo anche nello scandalo che ha travolto la Lega

Per esodati, pensionati e disoccupati i soldi non ci sono mai. Per i militari, invece, pare si trovino sempre. Mentre i conti del paese arrancano infatti, il governo decide di spendere 132 milioni di euro per la nostra Marina. Una notizia nascosta tra le pieghe dell'attualità e contenuta in un estratto di aggiudicazione di gara pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale in cui si legge, a caratteri ridotti, "ai sensi dell'art. 66 del Dgls n. 163/2006″ per forniture e servizi militari. Segue un lungo elenco di sigle, numeri e importi. Di che si tratta? Sono una trentina di contratti d'oro che vanno a Finmeccanica , Aermacchi , Agusta Westland le aziende di armamento finite al centro delle indagini di diverse procure. Secondo gli inquirenti di Napoli avrebbero avuto un ruolo anche nello scandalo che ha travolto e decapitato la Lega .

Ma più che le ombre e le carte coperte da segreto istruttorio a sollevare un caso, stavolta, è una scelta compiuta alla luce del sole e sotto gli occhi di tutti: l'acquisto di 132,6 milioni di armi e dispositivi per la Marina Militare. Gli importi più impegnativi sono relativi alle fusoliere per i veivoli P72A. Costeranno 19 milioni e mezzo di euro in otto anni. L'aggiornamento degli elicotteri Agusta Westland con nuovi apparati di comunicazione è stato aggiudicato alla stessa impresa per 35,5 milioni e mezzo di euro. E ancora 3 milioni milioni in razzi per l'Esercito e apparati radio che consentano il controllo satellitare a bordo degli aerei (2,3 milioni). Seguono per svariati milioni mitragliatrici, munizioni, pezzi di ricambio, programmi di manutenzione. Chiudono il cerchio uno studio per l'impatto acustico nei siti militari del nuovo caccia F-35 e per "l'eliminazione di patologie alla cervicale tramite bilanciamento ergonomico dei caschi pilota di elicottero".

Ma il problema non sono solo i costi, in evidente contrasto con la situazione del Paese. L'ennesima shopping list militare è destinata a far riesplodere la polemica in Parlamento martedì prossimo, durante la Commissione Difesa alla Camera dove sarà ascoltato proprio il direttore generale Michele Esposito , ultimo firmatario degli atti di aggiudicazione delle gare. "Dirò che non erano questi i patti e chiederò spiegazioni in merito", attacca l'onorevole Audusto Di Stanislao (Idv) che ha fatto battaglie memorabili (quanto poco ascoltate) sul tema del disarmo: "Quei 132 milioni sono l'ennesima dimostrazione che la commissione è commissariata. Dovrebbe essere l'organo politico di indirizzo in materia di difesa e invece ogni volta scopriamo che le scelte vengono fatte altrove, a totale discrezionalità delle singole direzioni e senza alcuna garanzia che siano state prese per fare gli interessi del Paese e non quello dell'industria degli armamenti". Al centro della discussione proprio Finmeccanica e la sua galassia di aziende pubbliche. "Per capire cos'altro scopriremo domani leggendo i giornali abbiamo chiesto in un'audizione dei vertici il piano industriale di Finmeccanica e non è mai pervenuto. Martedì ribadirò che non possono fare i comodi loro, non possono comportarsi da impresa privata quando vogliono e da azienda pubblica quando fa comodo".

Meno tranciante il giudizio di Guido Crosetto (Pdl) che è stato sottosegretario alla Difesa e ne conosce bene i meccanismi. "Certo quegli acquisti destano un certo imbarazzo vista l'aria che tira nel Paese. Ma stiamo parlando di aziende che se non compra il Paese difficilmente hanno un fatturato. Che facciamo, chiudiamo l'industria bellica e mettendo a rischio 100mila posti di lavoro? E' una scelta rilevante ma non possiamo farla con demagogia. Sappiamo tutti che la galassia di Finmeccanica è un carrozzone della Prima Repubblica usato come serbatoio di consenso per collocamenti e operazioni imposti dalla politica. Quelle aziende non devono morire ma essere riconvertite dalla loro mission originaria allo sviluppo tecnologico ad uso civile. Certo, vanno rivoltate come un calzino perché tornino ad essere normali, moderne e in grado di competere nel mondo. E' un tassello importante delle scelte di politica industriale di cui il Paese ha profondamente bisogno".

Martedì si tornerà dunque a parlare dei tentativi di frenare la spesa militare. Dei caccia F35 ridotti di numero (da 131 a 90) ma confermati dal governo (nonostante gli stessi americani lo abbiano ridotto e diversi paesi si siano sfilati senza penali) e del piano di riduzione di spesa del ministro Giampaolo Di Paola approvato il 6 aprile scorso con il taglio di 50mila unità dall'organico. E non mancheranno le polemiche sugli sprechi anche sul fronte delle risorse umane. Grazie a un'interrogazione del radicale Maurizio Turco , ad esempio, si è appreso che a libro paga dell'esercito ci sono anche 176 cappellani, 5 vicari episcopali, il provicario generale e l'arcivescovo ordinario militare e quasi altrettanti loro colleghi in pensione (pensioni da 43mila euro lordi/anno). Alla fine dei conti solo la cura delle anime dei militari italiani nel 2012 costerà allo Stato 15 milioni di euro.

 

Disastro ambientale in città. Allarme di Legambiente

Pm10 ma non solo, ecco dati treno verde Legambiente-Fs risultati monitoraggio su inquinamento atmosferico e acustico

Città grandi e piccole soffocate da aria malsana, troppe macchine e troppo asfalto, come Ancona, che un giorno su due ha fatto registrare valori di pm10 fuori legge. Roma e Milano, le città più critiche, dove i valori delle polveri sottili due giorni su tre hanno superato il valore limite stabilito dalla normativa vigente per la protezione della salute umana. Anche le centraline delle arpa riportano l'allarme mal'aria: a meno di 4 mesi dall'inizio del 2012 sono già 39 i capoluoghi off-limits per aver superato il bonus di 35 giorni di superamento della concentrazione massima media giornaliera di pm10 concesso dalla legge in un anno.

A guidare la classifica delle città italiane più inquinate troviamo Parma e Cremona, entrambe a quota 70 superamenti, seguite da Alessandria e Vicenza con 68 giorni. Riappare anche il fantasma del benzene, con valori fuori legge in quattro città su otto. Ma lo smog non è il solo pericolo: la vertenza inquinamento acustico coinvolge tutte le città monitorate. Le più assordanti: Roma, Napoli, Genova e Milano. Questo il quadro complessivo presentato a conclusione della 23esima edizione del treno verde, la grande campagna di rilevamento dell'inquinamento atmosferico ed acustico nelle città italiane realizzata con la partecipazione del ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e con il contributo di enel green power.

Trentadue giorni sui binari, otto città monitorate, (Potenza, Napoli, Roma, Grosseto, Genova, Milano, Venezia, Ancona) migliaia di cittadini e circa diecimila alunni coinvolti e informati sui temi della mobilità sostenibile, dell'inquinamento atmosferico e acustico, del risparmio energetico e delle fonti rinnovabili. In tutte le città dove ha fatto tappa, il treno verde ha rilevato i dati relativi alla qualità dell'aria e dei livelli di rumore grazie alle attività del laboratorio mobile della struttura operativa laboratori di prove e misure di rete ferroviaria italiana.

Il convoglio è stato uno spazio itinerante dove riflettere ed incontrarsi, confrontarsi e capire che le possibilità per costruire città migliori, più vivibili e più sostenibili sono già qui, ma è necessario un impegno congiunto da parte di amministrazioni comunali, regioni, cittadini e associazioni attive sul territorio, per invertire la tendenza che vede le nostre città indietro rispetto ai criteri ambientali richiesti anche dall'unione europea.

Non solo pm10. A riportare ancora una volta l'attenzione al problema del traffico e dello smog cittadino è il dato sul benzene, che un giorno su tre a Napoli e Genova e due giorni su tre a roma e milano, ha superato il limite disposto per legge come massima media annuale. Si tratta di un inquinante ormai meno presente nelle città italiane ma molto pericoloso per la salute dei cittadini perchè cancerogeno, attribuibile al traffico veicolare sempre più invasivo. Insieme allo smog, altra nota dolente nel nostro paese è sicuramente l'inquinamento acustico che, dal punto di vista sanitario, meriterebbe la stessa attenzione riservata alle polveri sottili ed agli altri inquinanti atmosferici. I dati del monitoraggio del treno verde lanciano un messaggio ben preciso: in ognuna delle otto città visitate dal convoglio ambientalista sono stati registrati decibel oltre la norma di legge, sia di giorno che di notte. I decibel più alti sono stati riportati a Roma, Milano, Genova e Napoli. Gli effetti sulla salute e sulla vivibilità delle città sono evidentemente negativi, tuttavia, la complessa normativa italiana in materia di inquinamento acustico, in vigore già da alcuni anni, rimane per lo più sulla carta. E' allarmante che la percentuale di popolazione che ricade sotto un piano di zonizzazione acustica non arrivi nemmeno al 50%, pari al 42,9% dei comuni e al 37% del territorio nazionale. Il problema rumore, ampiamente sottovalutato, necessita senza dubbio di maggiore attenzione e di interventi incisivi a livello nazionale. Bisogna adoperarsi per diffondere in tutti i comuni misure anti-rumore: a partire dalle zonizzazioni acustiche, dove mancano, ma anche attraverso campagne di monitoraggio mappature e piani di risanamento, strumenti che dovranno assolutamente divenire una priorità di tutti i centri urbani italiani.

 

"Tutte fuori": è l'Autogrill style che non vuole mediazioni

ANTONIO SCIOTTO

La multinazionale licenzia 43 addette a Roma e rifiuta soluzioni per salvare i posti. Senza neanche concedere la cassa integrazione, contravviene alla sua tradizione di azienda d'oro delle relazioni sindacali

Fuori. Senza tentare un ricollocamento, senza neanche concedere la cassa integrazione. Fuori le 43 dipendenti del ristorante della Romanina, nella capitale, dall'oggi al domani in mezzo a una strada. La decisione l'ha presa Autogrill, multinazionale leader mondiale nel food and beverage in viaggio,contravvenendo alla sua tradizione di azienda "d'oro" delle relazioni sindacali. La multinazionale licenzia 43 addette a Roma e rifiuta soluzioni per salvare i posti. La crisi deve aver esacerbato gli animi e adesso non si guarda più in faccia nessuno. Neppure le tante donne, alcune dietro il bancone da 20 anni, con tanto di mutui e figli a carico. Unico refrain: li-cen-zia-te. La multinazionale, controllata dalla famiglia Benetton, mette la «sostenibilità» al centro della propria mission , ha un rigido codice etico ed è certificata SA8000: possibile che la recessione renda tutto questo carta straccia? Eppure Autogrill vanta numeri di rispetto: 5,7 miliardi di fatturato nel 2010, e conti altrettanto floridi nel 2011, con un 4% di utili; 62.500 addetti per 5.300 punti vendita nel mondo; i dipendenti italiani sono 10.238. Il portafoglio marchi è invidiabile: ben 350 in tutto il pianeta, tra cui Spizzico, Ciao, Burger King e perfino Starbucks, una sorta di McDonald's della caffetteria, diffusa ovunque (tranne che in Italia, dove ancora prevale il classico bar). Tanto popò di roba e non si riesce a ricollocare una cinquantina di persone. I problemi sono cominciati già l'anno scorso, e non solo a Roma. Autogrill lamenta perdite in Italia , anche se non ha mai fornito conti dettagliati al sindacato: così, nella riorganizzazione, ha deciso di cessare l'attività in un punto vendita di Milano (8 addetti) e in un altro a Bologna (una trentina), facendo partire le procedure di mobilità. Lo stesso è accaduto alla Romanina: ma nel centro commerciale alla periferia di Roma aveva ben 6 punti vendita, che di recente si erano ridotti a soli due, ricollocando negli altri 62 punti del Lazio una quarantina di persone. Gli ultimi 43 dipendenti pensavano di averla sfangata, e invece due mesi fa è arrivata la doccia gelata: si chiude, perché la gestione 2011 (notizie informali comunicate al sindacato) ha perso 250 mila euro, e il nuovo affitto richiesto per i locali è stratosferico. « Noi non abbiamo contestato tanto il fatto che ci sia una crisi - spiega Katia Della Rocca, funzionaria della Filcams Cgil - quanto piuttosto che non sia stata accettata alcuna nostra proposta per evitare i licenziamenti . Abbiamo chiesto la ricollocazione nei 62 punti vendita laziali, neanche un lavoratore per ristorante se si pensa che sono in tutto 43. E per giunta sono part time, la gran parte fanno 24 ore a settimana. Poi, con il sostegno della Regione Lazio, che si è detta disponibile a mettere i fondi per la cassa in deroga, abbiamo chiesto che si attivasse la cig. Ma nulla: ci hanno detto no su tutti i fronti». Evidentemente, Autogrill si è fissata: vuole proprio licenziare.Lo stesso atteggiamento, a muso duro e con un no a tutti i livelli, si è registrato a Bologna e a Milano. Ma in queste due ultime città c'è la possibilità di trovare una via di uscita alternativa, perché si sarebbero fatti avanti due gruppi - Compass e McDonald's - che rileverebbero le concessioni e con esse, come prevede il contratto nazionale, anche tutti gli addetti. «Sia in Emilia che in Lombardia - spiega la segretaria nazionale Filcams Cgil Lucia Anile - Autogrill aveva confermato le mobilità e detto no a qualsiasi nostra proposta. Abbiamo allora attivato la Fipe, associazione di settore, che si è interessata e ci ha comunicato che due gruppi sono pronti a subentrare». La Fipe dovrebbe portare all'incontro previsto oggi a Milano - con Autogrill, Cgil, Cisl e Uil - anche Compass e McDonald's, per comporre la vicenda. Ma purtroppo a Roma, al contrario, non si è ancora fatto avanti nessun nuovo soggetto. A Roma la gran parte delle lavoratrici (gli uomini si contano sulla punta delle dita, e tra loro ci sono il direttore e due responsabili) è part time, e porta a casa dai 650 ai 780 euro, ma c'è anche chi guadagna 550 euro al mese con 16 ore settimanali. Nell'ottobre scorso, per venire incontro all'azienda, si erano già autoridotte l'orario a 20 ore settimanali. Molte donne sono over 45, con una lunga anzianità in Autogrill, mutui e figli piccoli a carico. «Se si attivasse la cassa - spiegano alla Cgil - si potrebbe attendere l'arrivo di un nuovo concessionario, e nel frattempo utilizzare gli addetti nel turn over degli altri punti vendita: sono decine i contratti a termine attivati, gli ultimi 20 a Fiumicino per un mese e altri 3 a Ciampino. Ovviamente, se alla Romanina non dovesse subentrare nessuno, noi chiederemo che tutti i 43 addetti siano ricollocati dentro Autogrill».

 

I derivati che affossano un Comune, la vera storia del caso di Cassino

Un'inchiesta di Bloomberg rivela il disastro della cittadina laziale, vittima di un contratto disastroso con la banca JP Morgan, che ci guadanava sempre

Come perdere miliardi di euro con una firma. La storia di Cassino , comune di 33mila abitanti situato a metà strada fra Roma e Napoli, mostra tutta la potenza distruttiva dei contratti derivati firmati negli anni dalle amministrazioni pubbliche di mezzo mondo. I cronisti di Bloomberg , che hanno ricostruito la vicenda della cittadina italiana, l’hanno definita una scommessa persa nello stesso momento in cui è stata effettuata . L’inchiesta della testata americana non permette di capire se ci sia stata intenzionalità da parte dei responsabili pubblici. Di certo quell’azzardo ora lo stanno pagando i cittadini, visto che per recuperare le perdite l’amministrazione comunale sta tagliando, tra l’altro, i fondi per gli asili nido e alzando le tasse sui rifiuti. Insomma, ecco uno dei casi che ha portato la Banca d’Italia a stimare in 1,2 miliardi di euro il costo che i contribuenti dovranno pagare per i contratti derivati firmati da alcuni Comuni. Tanti, perché oltre al caso di Cassino ci sono grandi città italiane, prima fra tutte Milano, la tedesca Pforzheim e la contea di Jefferson, in Alabama, protagonista del più grande fallimento municipale negli Usa.

La ricostruzione di Bloomberg è basata su documenti ufficiali. In particolare sul contratto che l’amministrazione di Cassino firmò nel 2003 con Bear Stearns, banca acquisita nel 2008 dalla Jp Morgan. Obiettivo dell’accordo: trasformare il tasso fisso di un mutuo in un tasso variabile. Il prestito, contratto con la Cassa Depositi e Prestiti al tasso fisso del 4,7 per cento, ammontava a 22,5 milioni di euro. Il contratto con Bear Sterns prevedeva di agganciare l’interesse pagato dal Comune al Dollar Libor, un tasso interbancario. Il contratto funzionava così: Cassino pagava interessi variabili legati al Libor, la banca versava in contropartita un interesse al tasso fisso del 4,7 per cento . Se il Libor era basso, il Comune incassava la differenza. Altrimenti a guadagnare era la banca.

Qual è il problema? Che in quel momento il Dollar Libor era al minimo storico: 1,19 per cento. Una scommessa “estremamente rischiosa ”, l’hanno definita gli inquirenti nel 2009 in un’audizione al Senato. Ma l’allora sindaco di Cassino, Bruno Scittarelli , non indugiò. Firmò l’accordo senza cercare offerte concorrenti, scrive Bloomberg citando documenti comunali. Com’è finita? Secondo i calcoli riportati dalla testata statunitense, il contratto derivato permise a Cassino di guadagnare soldi solo il primo anno, nel 2003. Poi, con l’aumento dei tassi di interesse interbancari, i costi per il Comune cominciarono a lievitare. E la banca iniziò ad incassare. Anno dopo anno. Il migliore è stato il 2006, quando l’istituto ha ottenuto dal Comune di Cassino mezzo milione di euro. La cittadina laziale non ha nemmeno potuto beneficiare dello scoppio della crisi finanziaria, nel 2008, quando i tassi di interesse interbancari precipitarono. Nel contratto c’era infatti una clausola che prevedeva il blocco al 4,95 per cento.

L’emorragia è stata interrotta nel 2008, quando il Comune ha fermato i pagamenti e fatto causa a Jp Morgan. L’anno seguente, per chiudere la partita, la banca americana ha pagato alla città 386mila euro come compensazione. Morale della favola? A causa dei derivati, Cassino ha perso 577mila euro, più della metà di quanto spende ogni anno per gli asili nido comunali . Alle domande di Bloomberg l’allora sindaco della città, Bruno Scittarelli, non ha risposto. E così hanno fatto anche i due banchieri che all’epoca firmarono l’accordo: Bonito Oliva , ora a Londra in una società di energia rinnovabile (S2R), e Alberto Guazzi , passato alle dipendenze della svizzera Banca del Ceresio.

 

Quale pietà?

C’è un parroco, Don Piergiorgio Zanghi, che nella chiesa di Porto Garibaldi nel ferrarese, nega l’ostia durante l’eucarestia a un bambino di 10 anni diversamente abile perché, dice lui, “non in grado di intendere e di volere”. Poi c’è un Monsignore, Mons. Grandini, che pur di giustificare il gesto del parroco dice che “Il bambino deve saper distinguere il pane dall’ostia”. Poi c’è la comunità, quella in cui il bambino è nato e vive, che rimane scioccato dal gesto: “allibiti”, scrivono i giornali. Infine ci sono i compagni del ragazzino, altri bambini, che rimangono amareggiati davanti all’amichetto discriminato, tanto che uno di loro scrive al parroco una letterina in cui si chiede che “questo desiderio venga esaudito”. E poi c’è una mamma, quella del piccolo, che si sente delusa perché il bambino “era andato regolarmente al catechismo con tutti gli altri”. Il sacerdote, che aveva già espresso le sue perplessità ai genitori del bambino disabile, aveva infatti acconsentito a un percorso personalizzato con dvd creati a tale fine, ma poi lo scorso giovedì, giorno del fattaccio, lo stesso prelato aveva comunicato alcune sue perplessità ai genitori, per poi ammettere comunque il bambino alla funzione delle prove generali. In realtà il fatto che il ragazzino, ammesso a seguire il catechismo per poter fare la prima comunione, sia stato escluso proprio durante le prove generali prima della cerimonia, davanti a tutti, non solo è un atto discriminatorio verso il minore ma anche un cattivo esempio per gli altri bambini presenti che certamente non hanno avuto una bella impressione di fronte a un adulto che avrebbe dovuto avere, se non un minimo di tatto personale, almeno una sorta di pietas cristiana. Ma perché una storia così fa notizia? Perché si tratta di una discriminazione grave avvenuta in un Paese, il nostro, che si reputa “civile”, ai danni di un minore e diversamente abile che, al di là del credo religioso che probabilmente appartiene più ai suoi genitori che a lui, non può e non deve essere in alcun modo discriminato nell’ambiente in cui vive, siano i suoi genitori buddisti, induisti, islamici o di qualsiasi altra religione. In un Paese laico, come dovrebbe essere l’Italia, esistono infatti diverse normative e convenzioni internazionali ratificate anche da noi, in cui il minore viene tutelato, leggi che non solo la chiesa, che dovrebbe oltretutto essere dotata di una particolare sensibilità nei confronti di chi viene troppo spesso escluso, ma tutte le istituzioni, qualsiasi funzione ricoprano, dovrebbero tenere conto. Come ha detto Antonio Marziale, presidente dell’Osservatorio sui diritti dei minori e consulente della Commissione parlamentare per l’Infanzia: “Quanto accaduto è a dir poco assurdo, non soltanto sul piano etico, ma soprattutto sotto il profilo dei diritti fondamentali riconosciuti ai bambini. Il sacerdote, negando al piccolo la comunione ha leso la sua dignità di persona”. Da essere umano a essere umano, insomma e senza dover per forza ricorrere alla pietas cristiana, è un’evidente lesione di un diritto. Come recita l’articolo 2 della Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia (1989), i minori devono essere tutelati da uno Stato che abbia ratificato la Convenzione da ogni forma di discriminazione: “Gli Stati parti adottano tutti i provvedimenti appropriati affinché il fanciullo sia effettivamente tutelato contro ogni forma di discriminazione o di sanzione motivate dalla condizione sociale, dalle attività, opinioni professate o convinzioni dei suoi genitori, dei suoi rappresentanti legali o dei suoi familiari”. Un principio che non solo dovrebbe essere ricordato al parroco di Porto Garibaldi e a Monsignor Grandini, ma a tutti gli adulti che operano e lavorano con minorenni in un paese, il nostro, in cui troppe volte vengono sbandierati diritti che in realtà rimangono solo sulla carta.

 

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