Il balzello delle Province
sulla Rc auto: tassa al massimo in due casi su tre
Sono gli enti considerati inutili e "da
tagliare". Ma hanno il potere di mettere mano al prelievo fiscale sui premi
pagati dagli automobilisti. Risultato: 77 su 110 hanno alzato al 16% la tassa.
Le associazioni dei consumatori: "Nell'ultimo biennio aumenti del 30%". E al Sud
gli importi raddoppiano
di Mauro Del Corno
Nell’attesa che quello che viene promesso da più parti trovi alla fine una
traduzione nella pratica – cioè che vengano abolite – le Province assestano
l’ultimo colpo nel prelievo fiscale sui premi delle Rc auto alzandolo fino al
tetto massimo del 16%. Sono quelle stesse Province che in molti vorrebbero
abolire giudicandole superflue e che ci costano ogni anno 2,3 miliardi di euro
in spese di funzionamento. Dal 2011 è stata loro attribuita la possibilità di
agire sull’aliquota base del 12,5% alzandola o abbassandola del 3,5%. Facile
indovinare com’è andata a finire.
Le
Province che hanno ridotto l’aliquota si contano sulle dita di una mano, quelle
che l’hanno portata al massimo consentito sono ormai 77 su 110. Trentasei
avevano già provveduto nel 2011 mentre altre quarantuno si apprestano a farlo
quest’anno. L’aliquota sull’Rc auto è ormai al top in quasi tutti i grandi
centri a cominciare da Milano, Torino, Genova e Bologna e continuando al Sud con
Bari, Lecce, Napoli e Palermo. Fanno eccezione Roma dove è rimasta ferma al
12,5% e soprattutto Firenze che ha abbassato il prelievo all’11%. Tra le
pochissime altre amministrazioni provinciali virtuose menzione d’onore per Aosta
(aliquota abbassata del 3,5% al 9%) Bolzano (-3%) e Trento (-3%).
Tradotto in moneta sonante questo significa che ad esempio su un premio netto da
1000 euro un automobilista di Milano, Bologna o Palermo pagherà 35 euro in più
di tasse (da 125 a 160 euro). Se il costo netto della polizza è di 1500 euro
l’aggravio sale invece a 52 euro.
Come in molti altri casi, dalle aliquote Irpef a quelle Imu , il giochetto è
sempre lo stesso. Da un lato lo Stato taglia i trasferimenti (senza però ridurre
la tassazione a livello centrale), dall’altro attribuisce agli enti locali la
possibilità di rifarsi manovrando aliquote e balzelli. Nel mezzo, i cittadini.
Negli ultimi tre anni le Province hanno dovuto far fronte a tagli da 1,5
miliardi di euro e una sforbiciata analoga è prevista da qui al 2014. Lo stesso
è accaduto ai Comuni che nonostante la compartecipazione al gettito Imu sono ben
lontani dal compensare i mancati trasferimenti e che nei prossimi tre anni
vedranno sparire almeno altri 3 miliardi.
Secondo Gianluigi Bizioli che insegna diritto tributario all’Università di
Bergamo, “è inevitabile che gli enti locali, se non vogliono ridurre i servizi,
cerchino risorse dove e come possono”. I tagli sono effettivamente pesanti e le
razionalizzazioni di spesa, quando possibili, richiedono comunque tempi lunghi
che non consentono di far fronte nell’immediato ai minori introiti. “D’altro
canto – continua Bizioli – in una fase di crisi è inevitabile che lo Stato
centrale dreni quante più risorse possibili per far fronte all’emergenza”.
“Inutile sperare nel federalismo – conclude Bizioli – la riforma conteneva una
buon principio, quello dei costi standard (ossia la calibrazione delle spese,
specie quella sanitaria, sul livello delle regioni più virtuose) ma ormai giace
nel dimenticatoio e lì resterà almeno finché la fase più acuta della crisi non
sarà superata”.
Rimane il fatto che nel caso specifico dell’Rc auto il fisco provinciale va a
colpire una voce di spesa che negli ultimi anni ha già aumentato sensibilmente
il suo peso sui bilanci familiari. Le associazioni dei consumatori stimano che
negli ultimi dieci anni il costo per assicurare l’ auto sia in pratica
raddoppiato e che solo nell’ultimo biennio l’aumento sia stato del 30%. Senza
contare che molte Province hanno alzato anche le imposte per le iscrizioni e le
annotazioni sul Pra, il Pubblico registro automobilistico.
Per gli abitanti del Mezzogiorno poi la beffa è in molti casi doppia. Quasi
ovunque subiscono il prelievo massimo da parte della Provincia e per di più
l’aliquota si calcola su premi sensibilmente più alti rispetto al Centro-Nord.
Secondo il portale Supermoney che consente di confrontare le offerte di diversi
operatori, il costo medio di una polizza per chi non ha fatto incidenti negli
ultimi 5 anni è di 1.456 euro al Sud contro i 920 euro del Nord. Questo sebbene
il tasso di incidentalità del Mezzogiorno sia ormai più basso rispetto a quello
delle altre aree del paese.
Italia, dalla politica alle
università la classe dirigente più vecchia d'Europa
Un report della Coldiretti sull'età media dei "potenti" nei Paesi dell'Ue
conferma il primato della gerontocrazia italiana: l'età media è di 59 anni. In
Parlamento come ai vertici delle aziende statali spicca la percentuale
bassissima di giovani
Gli ultimi due premier italiani: Silvio
Berlusconi, 76 anni e Mario Monti, 69
ROMA - L'Italia è il Paese con la classe dirigente più vecchia d'Europa. E'
quanto emerge dal primo report sull'anagrafe dei potenti italiani al tempo della
crisi, presentato oggi nel corso dell'assemblea dei giovani della Coldiretti. La
media italiana si aggira intorno ai 59 anni di età.
Il record spetta ai manager delle banche, a pari merito con i vescovi in carica
ed ai rappresentanti del governo, rispettivamente con 67 e 64 anni, seguiti dai
professori universitari con 63 anni; i più giovani sono i dirigenti delle
aziende quotate in Borsa con 53 anni.
Ma è sul fronte politico che emergono i dati più interessanti. Se il presidente
del Consiglio, Mario Monti, ha 69 anni e i ministri più giovani, Renato Balduzzi
e Filippo Patroni Griffi, 57 anni, in Gran Bretagna David Cameron è diventato
primo ministro a 43 anni, Tony Blair a 44, John Major a 47 e Gordon Brown a poco
più di 50.
Nelle ultime tre legislature, poi, sono stati eletti soltanto due under 30 su
2.500 deputati, anche se il peso dei 25-29 enni è pari al 28% della popolazione
eleggibile. Oggi solo un deputato su 630 ha meno di 30 anni e appena 47 sono gli
under 40, mentre gli over 60 anni sono 157.
Un'anzianità che, per quanto riguarda la burocrazia, va ad incidere secondo
cittadini e imprese, sulla scarsa attenzione per le nuove tecnologie. Ecco che
l'età media dei direttori generali della Pubblica amministrazione è di 57 anni,
che sale a 61 per le aziende partecipate statali.
Secondo lo studio di Coldiretti, le cose non vanno meglio sul fronte
universitario. Un quarto dei professori ha più di 60 anni, contro il 10% di
Francia e Spagna e l'8% della Gran Bretagna: tre su 16 mila gli ordinari con
meno di 35 anni e 78 gli under 40.
I segretari regionali dei sindacati dei lavoratori, infine, secondo il report,
hanno in media 57 anni e 59 quelli delle organizzazioni di rappresentanza di
industria e commercio, mentre nell'agricoltura, in Coldiretti, l'età è di 47
anni.
"Ad essere vecchie e poche sono soprattutto le idee con le quali si vuole
affrontare la crisi" ha detto il presidente Sergio Marini, a margine
dell'incontro. "Si cerca di riproporre modelli di sviluppo fondati su finanza ed
economie di scala che hanno già fallito altrove e che non hanno nulla a che fare
con le peculiarità del Paese".
Sulla stessa lunghezza d'onda il delegato nazionale dei giovani della Coldiretti,
Vittorio Sangiorgio: "La maggioranza della classe dirigente attuale - ha
ironizzato - andrà probabilmente in pensione prima che la crisi sia superata e
questo anche tenendo conto della riforma del ministro del Lavoro, Elsa Fornero.
La disoccupazione giovanile record - ha concluso - non è solo un problema
familiare e sociale, ma provoca anche un invecchiamento della classe dirigente
che deve affrontare la crisi con un'Italia che sta rinunciando a risorse
fondamentali per la crescita".
18 maggio
Trieste, muore a 32 anni in
questura. Indagato dirigente della polizia
Inchiesta sul capo dell'ufficio immigrazione del capoluogo giuliano, accusato di
omicidio colposo e sequestro di persona. La giovane, infatti, non doveva essere
trattenuta in cella di sicurezza, ma accompagnata al Cie. Nell'ufficio del
funzionario trovato anche il cartello "Ufficio epurazione" e una foto di
Mussolini
Il
capo dell’ufficio immigrazione di Trieste Carlo Biffi è indagato per omicidio
colposo e sequestro di persona per la morte di una donna di 32 anni avvenuta in
una camera di sicurezza della polizia. Alina Bonar Diachuk era ucraina e aveva
32 anni: un mese fa era stata trovata con un cappio al collo al termosifone di
una cella del commissariato di Villa Opicina , una frazione del capoluogo
giuliano, dove era custodita da due giorni. Un episodio sul quale è stata aperta
un’inchiesta della Procura che non solo si potrebbe estendere anche ad altri
agenti della questura, ma anche ad altri aspetti: tra questi anche il cartello
“Ufficio epurazione” attaccato all’interno dell’ufficio immigrazione e una foto
di Benito Mussolini affissa nelle stesse stanze. Una storia raccontata dal
Piccolo di Trieste e ripresa anche dal Manifesto .
La morte. Secondo i primi rilievi dei magistrati la Diachuk in realtà non doveva
essere trattenuta in custodia dalla polizia. Era stata infatti accusata di
favoreggiamento all’immigrazione e aveva patteggiato, così era tornata in
libertà il 14 aprile: avrebbe dovuto essere trasferita nel Centro di
identificazione ed espulsione di Bologna. Al contrario dopo la lettura della
sentenza era stata sì prelevata da una pattuglia della polizia, ma trovata morta
dopo due giorni nella camera di sicurezza. Sulla cella vigilava una telecamera
di sicurezza ma per i 40 minuti di agonia della donna nessuno ha notato cosa
stava accadendo (inoltre la ragazza aveva già tentato di togliersi la vita in
carcere). Una serie di anomalie che ha spinto la magistratura ad aprire
un’indagine.
Per capire qualcosa di più la Procura ha disposto la perquisizione degli uffici
del commissariato e gli agenti si sono imbattuti nel cartello “Ufficio
epurazione” e nella foto di Benito Mussolini . Ma non solo: nell’abitazione di
Biffi sono stati trovati alcuni libri dal contenuto antisemita: “Come
riconoscere e spiegare l’ebreo”, “La difesa della razza” di Julius Evola , “Mein
Kampf” di Adolf Hitler , “La questione ebraica”. In Procura, al momento non
intendono dare grande rilievo all’altro aspetto emerso durante le indagini, e
cioè all’acquisizione di materiale di natura antisemita e di cartucce trovate in
casa di Baffi durante una perquisizione. Materiale, quello documentale,
giustificato da un sindacato di Polizia dal fatto che Baffi abbia lavorato anche
alla Digos. “I rapporti con la Questura di Trieste – afferma Dalla Costa – sono
sempre ottimi e collaborativi, tanto che il questore mi ha assegnato suo
personale proprio per sviluppare questa indagine. Non c’è alcun ostruzionismo da
parte della Questura”, ribadisce il capo della Procura.
Le indagini condotte dal pm Massimo De Bortoli devono verificare se in effetti
la Diachuk fosse trattenuta in commissariato senza alcun titolo, se fosse chiusa
a chiave dentro una stanza e se si sia trattato di un caso isolato, o, come ha
confermato il procuratore capo Michele Dalla Costa, ci siano stati altri casi di
stranieri trattenuti a Opicina senza alcun titolo. “Stiamo valutando decine di
posizioni, a partire dal secondo semestre del 2011, per verificare se quello
dell’ucraina sia stato un caso isolato o meno” conferma
Dalla Costa.
I libri per bambini
ammazzano le foreste. Altro che favole
La denuncia di Greenpeace al Salone del libro di Torino: analizzati 11 libri
di Giunti e Rcs stampati in Cina. Quattro contengono fibre delle foreste
indonesiane, a rischio scomparsa
Greenpeace
ha oggi portato un po' di scompiglio al Salone del libro di Torino. Quella
dell'associazione ambientalista è stata una conferenza stampa per presentare il
libro sulla deforestazione curato dalla stessa associazione, ma anche una
denuncia dei "colleghi" presenti al Salone Rcs libri e Giunti. Rei di non aver
adottato - come hanno già fatto altre case editrici - politiche per l'acquisto
di carta "deforestazione zero". Dunque sono stati "presi di punta", anche perché
si tratta di due grosse case editrici che potrebbero e dovrebero dare l'esempio,
e undici dei loro libri per bambini sono stati fatti analizzare presso
l’Istituto Tedesco della Scienza e Tecnologia della Carta.
Brutte sorprese: le analisi dimostrano che ben quattro degli undici libri
analizzati contengono fibre di legno duro tropicale (MTH) provenienti dalla
distruzione delle ultime foreste indonesiane.
I libri sono stati tutti stampati in Cina, dove ormai è quasi del tutto
delocalizzata la produzione dei libri per i più piccoli, secondo molti analisti
vera e unica tipologia di libro che resisterà all'invasione degli "e book"
proprio in virtù della loro specializzazione e molto spesso dell'attenzione alla
fattura e ai particolari. Tutte cose, però, che in Italia costerebbero molti
soldi e dunque la produzione viene delocalizzata in Cina. Ma proprio in Cina due
grandi multinazionali indonesiane - APP e APRIL - hanno il loro maggior mercato
per la vendita della carta." Il problema è che queste aziende, APP in
particolare - dice Greenpeace - per produrre la carta distruggono le foreste e
condannano all’estinzione le ultime tigri di Sumatra e specie arboree protette
dal CITES come il ramino".
I libri contenenti fibre delle preziose foreste sono Per RCS Libri: “Alice nel
paese delle meraviglie” e “Le Mamme” (Rizzoli). Per Giunti Editore: “I tre
porcellini” e “Le Macchine” (Dami). È inaccettabile che due giganti
dell’editoria italiana come RCS Libri e Giunti permettano che i propri libri
siano contaminati dalla deforestazione e dall’estinzione di specie protette -
denuncia Chiara Campione, responsabile campagna Foreste di Greenpeace Italia - I
risultati delle nostre analisi parlano chiaro: queste favole sono il frutto di
gravissimi crimini forestali».
In realtà il ad essere presa davvero di punta è la APP. Anzi, proprio al Salone
del Libro è stata presentata una campagna che mette insieme Greenpeace,
Legambiente, WWF e Terra! che rende pubblica una lista di venti clienti italiani
di APP tra stampatori, distributori e tipografi.
«Nonostante APP continui a distruggere le foreste indonesiane, il numero dei
suoi clienti in Italia aumenta. Queste aziende devono sapere che acquistare da
APP significa rendersi complici della distruzione di preziosi ecosistemi e
dell’estinzione di specie già fortemente minacciate come la tigre e l’orango di
Sumatra o piante come il ramino, tipiche di quell’angolo del nostro pianeta» -
sostengono WWF, Terra!, Legambiente e Greenpeace.
Se chi entra al tempo pieno
viene deciso con una riffa
Anna Maria Bruni
Scuola Cesare Battisti, nel popoloso quartiere di Garbatella. 70 famiglie
hanno chiesto il tempo pieno, ma le classi sono solo due. Il dirigente decide di
estrarre i numeri dei "fortunati" a caso.
Avete
mai sentito parlare del tempo pieno? Quel tempo scuola istituto per trasformare
la didattica frontale in un laboratorio di conoscenza costruita in modo
artigiano da due insegnanti in compresenza, insieme ai bambini attivi e
partecipi, portati anche attraverso il divertimento a voler sapere sempre di
più? Non è la quarta dimensione, o meglio secondo Einstein è esattamente la
quarta dimensione, perché si tratta di un fatto reale, semplicemente legato al
tempo. Quello passato, però.
Perché ora il tempo pieno viene falcidiato attraverso i tagli agli organici, le
classi si infoltiscono, e torna la lezione frontale, affidata ad un solo
insegnante. Ma il guaio è che le richieste invece continuano ad essere
tantissime. Al 45° circolo didattico Cesare Battisti per esempio, giusto nel
popoloso quartiere Garbatella di Roma, scuola elementare A. Alonzi, sono state
72 le richieste di tempo pieno per le classi prime, il che significa che per non
fare torto a nessuno si sarebbero potute istituire 3 classi con 24 alunni. Una
soluzione che ancora non tiene conto dei bambini disabili, la cui presenza
prevede un massimo di 20 alunni per classe, ma in ogni caso risolve la richiesta
che da sempre mette insieme la qualità della scuola con le necessità delle
famiglie. Invece no. Sono state istituite solamente due classi, sebbene sempre
con 24 alunni, e per non fare torto a nessuno, la soluzione dell’assegnazione
dei posti è stata affidata ad una estrazione a caso. Messi i nomi nel
bussolotto, la scuola - raccontano genitori basiti - “si è trasformata in uno
stadio”, dove le famiglie che hanno scelto di partecipare, si sono ritrovate a
fare il tifo e a lanciare gli hurrà ogni volta che è stato estratto il proprio
nome.
Ma procediamo con ordine. Le 72 famiglie che avevano fatto richiesta del tempo
pieno già a febbraio erano state rassicurate sul fatto che entro marzo avrebbero
avuto la conferma, certificata dall’eventuale silenzio-assenso da parte della
scuola. Già qui si può rilevare un primo gap, dovuto al fatto che la circolare
che conferma gli organici non arriva mai prima di aprile, e ci si domanda se una
simile comunicazione è stata data approfittando dell’ignoranza di famiglie alle
prese con la scuola elementare per la prima volta. In ogni caso, queste famiglie
solamente il 4 maggio scorso hanno avuto la comunicazione che sarebbero state
istituite solo due classi, e che quattro giorni dopo, esattamente l’8 maggio
scorso, avrebbe avuto luogo la “riffa”.
Alcune famiglie si sono immediatamente attivate diffidando con lettera scritta,
per conoscenza al Ministero e all’Ufficio scolastico regionale, il dirigente
scolastico dal mettere in atto un simile metodo arbitrario, e chiedendo invece
di considerare la graduatoria per l’assegnazione. Non hanno però ricevuto alcuna
risposta, se non quella plateale dell’estrazione, attraverso la quale si è
realizzato un dividi et impera “che non fa ben sperare - dice al manifesto una
mamma - sulla possibilità di mobilitarci tutti per ottenere la soddisfazione di
tutte le richieste di tempo pieno”. In ogni caso le famiglie rimaste escluse non
hanno alcuna intenzione di mollare. In prima fila sotto viale Trastevere il
prossimo 24 maggio insieme al Coordinamento delle elementari, valuteranno anche
la possibilità di una denuncia legale. Ma di sicuro, ciò che bisogna cominciare
a chiedere a gran voce è l’istituzione del reato di disumanità.
17 maggio
Fine di un'egemonia
Ida Dominijanni
Non archiviano solo il Pdl, le prime elezioni del dopo-Berlusconi, ma l'intero
polo dell'allora "nuova" destra che Berlusconi mise al mondo nel '94 e che ha
tenuto il campo della politica italiana per quasi un ventennio. Già lesionato
dalla separazione di Fini di due anni fa, quel polo è oggi palesemente in
frantumi, colpito al cuore dell'asse Berlusconi-Bossi che ne è stato il nerbo.
Non aiuta la comprensione di quello che sta accadendo riportare questo crollo
solo alle cause scatenanti più recenti: come sempre, nel momento della fine
conviene piuttosto allungare lo sguardo sull'inizio.
Sul crollo della destra incidono infatti di sicuro la fine della leadership di
Berlusconi - certificata ormai da un lungo declino, iniziato alle Europee del
2009 e mai più arrestatosi - e la devastante sequenza dei cosiddetti "scandali"
- dal sexgate al Belsito-gate -, potenti rivelatori del funzionamento di un
sistema di potere ancor più che eloquenti spie di una "questione morale"
delegittimante. Giova però ricordare, per spiegarne la tenuta prima e adesso il
disfarsi, di quali ingredienti fosse fatta la creatura berlusconiana del '94,
una creatura tricipite che teneva insieme tre destre diverse fra loro: quella
neoliberista di Forza Italia, quella comunitarista-xenofoba della Lega e quella
statalista-sociale di An. Il "miracolo" del Cavaliere consistette precisamente
nella capacità di unificare e cementificare sotto il proprio "carisma" queste
tre anime diverse, talvolta perfino incompatibili, dando vita a un campo
neolib-neocon più simile al suo omologo americano marcato Bush che alle destre
europee. E consistette altresì nella capacità di incardinare su questa destra
tricipite il bipolarismo della cosiddetta seconda repubblica, ridefinendo al
contempo un'agenda di lotta e di governo tagliata sul blocco sociale e sugli
interessi del Nord postfordista e "autoimprenditoriale", con il Sud "assistenzialista"
in posizione periferica e ancillare.
Quel miracolo non è più ripetibile, e non solo perché è finita, o comunque
sfinita, la leadership di Berlusconi senza la quale esso non si dà, ma perché la
ricetta neolib-neocon che esso predicava non funziona (ammesso che abbia mai
funzionato) e non seduce più. Il crollo, prima che politico, è di blocco
sociale, nonché ideologico (al di là delle sue sopravvivenze residuali,
paradossalmente più tenaci, a giudicare dal voto di domenica, al Sud che al
Nord). Si tratta, in altri termini, della fine di una egemonia. Se e come una
destra, e quale destra, riemergerà dalle macerie di questo blocco egemonico, ha
probabilmente a che fare con la forma che prenderanno le sue tre componenti
originarie. Ed è facile ipotizzare fin d'ora, dalle divisioni che le separano,
che non si profila una loro ricomposizione bensì una loro scomposizione,
dominata, più che dallo scenario nazionale, dall'evoluzione di quello europeo.
Qui entra in campo il secondo fattore decisivo del terremoto elettorale. Che non
serve a nulla interpretare esclusivamente, o prevalentemente, nei termini triti
dell'opposizione politica-antipolitica, rimuovendo il dato eclatante della
contestazione antirigorista che dal voto (e dal non voto) emerge nettamente, in
perfetta consonanza con i segnali che vengono dalla Francia e dalla Grecia. E
qui si vedono anche gli enormi limiti di una transizione al dopo-Berlusconi
tutta affidata alla sostituzione del neoliberismo più americano che europeo del
Cavaliere con il neoliberismo più tedesco che americano di Monti. Alla prima
verifica elettorale, il risultato di questa transizione dall'alto è che alla
sepoltura del ventennio del Cavaliere si somma la contestazione del governo dei
tecnici e dell'Europa ostile e vessatoria che esso rappresenta. E questo mentre,
crollato con la destra di Berlusconi il bipolarismo sperimentato fin qui,
l'intero sistema politico deve ridefinirsi, e si sta già ridefinendo, in
relazione al quadro europeo, alla crisi europea e alle politiche sociali
europee. Non ne dipende infatti solo la configurazione che prenderà la destra, o
le destre, orfana del Cavaliere, e allo stato prive di possibilità di riparo in
un "terzo polo" che il voto di domenica ha dichiarato inesistente. Ne dipende
altrettanto la configurazione che prenderà la sinistra, o le sinistre, nonché la
curvatura che assumeranno i movimenti antisistema fin qui troppo genericamente
etichettati come "antipolitici", e fin qui nella loro stessa
autorappresentazione né di destra né di sinistra. A proposito di questi ultimi,
lo spettro europeo è assai vasto, va dalla sperimentazione delle pratiche di
democrazia telematica dei "Pirati" tedeschi alla inquietante riesumazione del
binomio socialnazista dell'"Alba dorata" greca, e oscilla dalla critica
dell'Unione europea fin qui conosciuta al rifiuto tout court della costruzione
europea. Sono movimenti che non garantiscono di per sé niente di buono, ma
niente può piegarli al peggio quanto una pregiuziale sordità al disagio sociale
di cui sono portatori.
Quanto ai destini della sinistra italiana, il voto francese, peraltro
insistemente invocato dai suoi leader come condizione necessaria di un cambio di
stagione su scala continentale, le indica limpidamente la strada. Non è affatto
detto però che su quella strada essa possa portarsi l'appoggio al governo
tecnico, né che basti mettere Monti nella posizione del mediatore fra Merkel e
Hollande per far quadrare i conti dell'Euro e delle prossime elezioni politiche.
Il Pd non è stato punito per le sue oscillazioni dal voto amministrativo, ma non
è stato nemmeno granché premiato; e queste non sono circostanze in cui la
rendita dell' "unico partito che tiene" possa durare a lungo. Ci sono situazioni
in cui i tempi stringono, e le oscillazioni non pagano. La nettezza, manda a
dire il caso Hollande, paga di più. La fine dell'egemonia neoliberista
berlusconiana e il cambiamento del vento europeo domandano e comandano una
manovra controegemonica in grande stile, di segno opposto all'introiezione
temperata del rigore montiano. E la stessa contabilità del voto obbliga a
distogliere finalmente lo sguardo da un centro desaparecido e a volgerlo con più
convinzione verso sinistra. Diversamente, ci saranno nell'immediato una sinistra
senza popolo e un populismo senza sinistra, e all'orizzonte più la disgregazione
greca che l'alternativa francese.
Roma, nel 2013 nuovi tagli
agli organici delle elementari
Le riduzioni a dispetto del crescente numero di
iscrizioni. Tagli pesanti per il sostegno e la lingua straniera, il tempo pieno
ormai finito. Una denuncia del Coordinamento, si moltiplicano le assemblee di
quartiere.
Anna Maria Bruni
Come
volevasi dimostrare. Nonostante le rassicurazioni avute dal Ministero nel corso
dell’ultimo presidio il 22 marzo scorso, il Coordinamento delle elementari di
Roma denuncia l’ennesimo taglio di organici per il prossimo anno scolastico. E
torna quindi sul piede di guerra, deciso ad organizzare “iniziative a raffica”
da qui alla chiusura delle scuole. L’assemblea organizzata ieri alla scuola
elementare Maffi di Primavalle, ha visto la presenza di diverse scuole fra cui
il 49° circolo Principe di Piemonte di San Paolo Garbatella, il 103° Pizzetti
della Pisana, l’Igg Tagliacozzo del Laurentino, l’elementari Parini del
quartiere Valli, l’Iqbal Masih del Casilino, decise a far rispettare il numero
di docenti necessario alle compresenze come al sostegno, oltreché per l’inglese.
“A fronte di un maggior numero di iscrizioni – ha fatto sapere Domenico Montuori,
direttore amministrativo della scuola ospite - che arriva a 3600 alunni, è stato
confermato l'organico di diritto dell'anno precedente, quindi circa 150 posti
docente in meno rispetto all'organico di fatto 2011/12. Non solo, ma all'appello
mancano i docenti necessari per le nuove classi che si sono formate per
l'aumento delle iscrizioni. Inoltre, i docenti di inglese sono stati ridotti a
8, dai 270 che erano fino anni fa. Il che vuol dire l’impossibilità di far
partire i corsi”. “Ultima nota dolente - sottolinea -. per il sostegno si
conferma il rapporto di 1 docente ogni 4 alunni diversamente abili”.
Questo il quadro generale, che si traduce nella riduzione sostanziale delle
compresenze e quindi nell’eliminazione di fatto del tempo pieno, trasformando
sostanzialmente l’organizzazione della didattica e realizzando
classi-spezzatino. Una politica che va di pari passo con la logica del sapere in
pillole di fatto promossa dai test invalsi. Tutti gli interventi hanno tradotto
in numeri specifici questa “foto di gruppo”. 5 docenti in meno alla Principe di
Piemonte, 2 alla Maffi e nessun insegnante d’inglese, 3 in meno alla Tagliacozzo
e così via. Riprendersi i docenti è un punto fermo per tutti, perché significa
classi a tempo pieno, qualità della didattica, difesa del sostegno. A questo
proposito giovedì 3 si è svolta l’udienza del secondo ricorso organizzato dal
Coordinamento - 41 le famiglie ricorrenti questa volta - e l’avvocato Tavernese
che li assiste ha fatto sapere che ci sono buone possibilità che il ricorso, la
cui sentenza dovrebbe arrivare in una decina di giorni, si risolva positivamente
come il precedente.
Ma i ricorsi non bastano, sebbene Bruna Sferra, docente della Principe di
Piemonte abbia comunque lanciato la proposta di intentarlo direttamente contro
l’USR, reo di stabilire l’organico sulla base delle ore dei docenti, piuttosto
che sul numero degli alunni e quindi delle classi. Un passo più politico, in
quanto mette sotto accusa direttamente i risposabili di questa gestione
degradante. Ma ora si tratta di attivarsi per riappropriarsi del maltolto,
oltreché prendere posizione contro gli invalsi che dovrebbero svolgersi già la
prossima settimana, nelle date del 9 e dell’11 maggio. Maffi e Principe di
Piemonte hanno già messo sul tavolo le delibere dei collegi dei docenti che si
oppongono ai test, ma si tratta di fare informazione perché questa è l’unica
strada perché i genitori prendano posizione, anche contro l’idea di far restare
a casa i bambini che non svolgeranno i test. E’ Alessandra Carnicella, mamma
della Maffi a ribadirlo. “Abbiamo lottato, fatto informazione, abbiamo la
delibera dalla nostra parte, perciò io mi rifiuto di far rimanere a casa mia
figlia come se fosse un mio problema personale”. Lo ribadisce anche Pino, un
genitore della Tagliacozzo. “Anche noi stiamo ragionando per mettere in piedi
iniziative alternative da tenere a scuola in quei giorni”.
Volantino già pronto per coinvolgere i genitori, discutere con loro e creare
consapevolezza. A ribadirlo è Cesare, un altro genitore della Pizzetti. “E non è
neanche così scontato, perché siamo in una situazione talmente tragica che anche
i problemi più semplici e concreti che ci toccano di vicino, rimbalzano sulla
totale indifferenza delle persone”. Perché ormai straziate dai problemi
quotidiani, o perché lontane dalla politica quanto chi la mastica tutti i giorni
spesso non riesce a comprendere. Questo il punto dolente, quanto sostanziale,
che anche il Coordinamento dei precari della scuola, venuto per invitare
all’assemblea che si terrà domenica 6 maggio al Volturno occupato, ha dimostrato
di faticare a comprendere, imputando un atteggiamento di chiusura al
Coordinamento.
Ma nonostante l’unità della lotta sia più che mai urgente e necessaria, è
altrettanto vero che una fuga in avanti significherebbe oggi più che mai perdere
le tante persone che invece stanno crescendo nel lavoro comune sui problemi
concreti, per la radicale, istintiva diffidenza maturata verso le modalità
strumentali della politica. Troppe se ne sono viste negli ultimi anni, dettate
dall’urgenza. Con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti, per i quali
replicare significherebbe stavolta la vera devastazione sociale. Altro è invece
“far maturare i tempi", ha sottolineato Bruna Sferra, per risvegliare il senso
critico costruendo una visione comune, capace di identificare i problemi
specifici con quelli più generali. La forza del Coordinamento elementari di Roma
sta proprio in questa consapevolezza. Perciò al momento invito rifiutato, e
ovvia apertura invece al prossimo appuntamento sotto al Ministero
dell’istruzione, il 24 maggio.
Lega, la Procura di Tirana
invia informativa a Milano per la laurea albanese del Trota
Possibile convocazione dei magistrati albanesi
del figlio del Senatur che ha conseguito il diploma in business management senza
mai entrare nel paese. L'ex consigliere regionale ha più volte, tramite un
legale, cercato di far riconoscere legalmente l'attestato. Marcia indietro dopo
le prime perquisizioni
di Redazione Il Fatto Quotidiano
La Procura generale di Tirana ha inviato una nota informativa relativa alla
laurea “sospetta” che Renzo Bossi, figlio di Umberto Bossi, avrebbe conseguito
all’università Kristal di Tirana il 29 settembre 2010 senza mai entrare nel
paese delle aquile. I documenti, relativi al diploma in business management
dell’ex consigliere regionale leghista dopo le dimissioni seguite allo scandalo
sull’utilizzo dei soldi del partito, sono arrivati ieri ai magistrati milanesi
che indagano sui soldi della Lega . Denaro per lo più denaro pubblico incassato
con i rimborsi elettorali .
La copia del diploma di laurea era stata trovata nella cartella “The family”
custodita da Francesco Belsito, l’ex tesoriere indagato da tre procure ovvero
Napoli, Reggio Calabria, Milano, in una cassaforte che si trovava in uffici di
pertinenza della Camera dei deputati a Roma. In quella cartella l’ex
amministratore aveva raccolto i documenti che comprovavano l’utilizzo di soldi
del partito per le spese della famiglia Bossi, comprese le multe del Trota o gli
studi dei Rosi Mauro, senatrice espulsa dal Carroccio, e anche un intervento di
chirurgia plastica per il figlio minore del Senatur. Gli inquirenti milanesi
stanno già accertando se il titolo di studio possa essere stato comprato con i
soldi del partito. Intanto la magistratura albanese ha aperto un fascicolo per
fare chiarezza sull’episodio e, stando a quanto si apprende, avrebbe intenzione
di convocare Renzo Bossi.
La notizia della laurea di Renzo Bossi, conseguita senza mai avere messo piede
in Albania con il record davvero impressionante di 29 esami in un solo anno e
soprattutto poco dopo aver conseguito il diploma di maturità in Italia (il Trota
ha dovuto presentarsi agli esami di maturità ben quattro volte, ndr), è
diventata un caso al di là dell’Adriatico. Il capo dell’ateneo di “doktor Trofta”
ha spiegato l’anomalia al ilfattoquotidianotv dicendo che all’improvviso il
rampollo di casa Bossi è diventato intelligente.
Secondo gli accertamenti Renzo Bossi ha provato più volte a far riconoscere
legalmente in Italia la laurea facendo retromarcia e rinunciando alla pratica
quando è esploso lo scandalo. Dal carteggio tra l’ambasciata di Tirana in Italia
e la Procura di Milano emerge che alla fine del luglio 2011 un cittadino
albanese si è presentato all’ ambasciata chiedendo copia della laurea in
Economia rilasciata al Trota con relativa dichiarazione di valore in Italia,
suscitando un certo stupore negli uffici perché da una ricerca in Internet,
risultava che il giovane si era diplomato, al quarto tentativo, nel settembre
2010, ed appariva quindi difficile che avesse già conseguito una laurea
triennale il 29 settembre 2010. Sempre dal carteggio si viene a sapere che
nell’ottobre 2011 l’ avvocato albanese Dragoi, reitera la richiesta, producendo
presso l’Ambasciata alcuni documenti, tra cui un certificato di ammissione alla
maturità del ‘Trota datato 18 maggio 2007. Dopo oltre 5 mesi, il 19 marzo scorso
lo stesso avvocato fa una nuova richiesta, producendo il passaporto di Renzo
Bossi per farsi rilasciare copia della laurea. La retromarcia arriva il 4
aprile, all’indomani delle perquisizioni nella sede della Lega, in via Bellerio:
quel giorno l’avvocato Dragoi spiega all’Ambasciata che ci hanno ripensato e
ritira la documentazione. Il 10 aprile il decano della Facoltà, Chercocu,
afferma che il signor Renzo Bossi ha conseguito la laurea all’Universita’
Kristal. Quanto alla laurea conseguita da Pier Moscagiuro, il capo scorta di
Rosi Mauro, nel carteggio si precisa che nessuna pratica per ottenere il
riconoscimento legale del titolo di studio è stata avviata perché la facoltà di
Scienze Politiche non è accreditata presso le competenti autorità albanesi.