31 ottobre

 

Istat: disoccupazione settembre al 10,8%. Senza lavoro il 35% dei giovani

Mai così male dal 2004. Ancor peggio il dato per le nuove generazioni, in aumento di 1,3 punti percentuali su agosto e di 4,7 punti su base annua. Tra i 15-24enni le persone in cerca di impiego sono 608 mila. Su base mensile, inoltre, si registra un rialzo del 2,3%, ovvero di 62 mila unità

di Redazione Il Fatto Quotidiano

Mai così male dal 2004. Secondo quanto comunicato dall’Istat, il dato sul tasso di disoccupazione a settembre è al 10,8%, in rialzo di 0,2 punti percentuali su agosto e di 2 punti su base annua. Guardando alle serie trimestrali, inoltre, è il più alto dal III trimestre 1999. Nella fattispecie, il numero dei disoccupati a settembre è di 2 milioni e 774 mila, si tratta del livello più alto dall’inizio delle serie storiche mensili (gennaio 2004) e dall’avvio di quelle trimestrali, ovvero dal quarto trimestre del 1992. E’ quindi un record assoluto. L’aumento congiunturale della disoccupazione, fa sapere sempre l’Istat, interessa prevalentemente la componente maschile (+4,0%) e, in misura modesta, quella femminile (+0,3%). In termini tendenziali cresce sia la disoccupazione maschile (+29,0%) sia quella femminile (+20,5%). Il tasso di disoccupazione maschile, pari al 10,1%, cresce nel confronto con agosto di 0,4 punti percentuali e di 2,2 punti nei dodici mesi; quello femminile, pari all’11,8%, resta invariato rispetto al mese precedente e aumenta di 1,6 punti rispetto a settembre 2011.

Ancor peggio il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni), che a settembre è al 35,1%, in aumento di 1,3 punti percentuali su agosto e di 4,7 punti su base annua. L’Istat, inoltre, ha fatto sapere che tra i 15-24enni le persone in cerca di lavoro sono 608 mila e rappresentano il 10,1% della popolazione in questa fascia d’età. Quanto al tasso di disoccupazione giovanile, l’Istituto chiarisce che si tratta dell’incidenza dei disoccupati sul totale degli occupati o in cerca di impiego.

Il livello record di disoccupati raggiunto a settembre, pari a 2 milioni 774 mila, è il risultato di un aumento del 24,9% su base annua, pari a 554 mila unità. Su base mensile, inoltre, si registra un rialzo del 2,3%, ovvero di 62 mila unità. A settembre gli occupati sono 22 milioni 937 mila, in diminuzione dello 0,2% rispetto ad agosto, ovvero di 57 mila unità. Il calo, secondo i dati dell’Istituto di statistica, riguarda esclusivamente la componente maschile. Il numero di occupati è invece invariato, cioè fermo, su base annua. Quanto al numero di individui inattivi (15-64 anni), ovvero chi non ha un lavoro né lo cerca, a settembre risulta sostanzialmente invariato rispetto al mese precedente, mentre diminuisce del 3,7%, ovvero di 552 mila unità, su base annua.

 

23 ottobre

Terapia del dolore, hospice insufficienti e oppiacei tabù: se una legge non basta

I centri non bastano e non c'è coordinamento tra medici di famiglia, specialisti e strutture sul territorio. Così il paziente che ha sofferenze croniche resta da solo e senza una guida. Nonostante esistano norme precise: "Ogni cittadino ha diritto a cure palliative e assistenza"

di Adele Lapertosa

Hospice e centri di terapia del dolore aperti in numero insufficiente rispetto alle effettive necessità della popolazione, farmaci oppiacei che continuano a rimanere ancora quasi un tabù, soprattutto per i medici. E poi manca il coordinamento tra medico di famiglia, specialista e strutture sul territorio, lasciando così spesso il paziente da solo e senza una guida. E’ questa la realtà che si trova ad affrontare in Italia una persona che soffre di dolore cronico , anche se da due anni c’è una legge, la 38/2010, che dice chiaramente che ogni cittadino ha diritto ad accedere alle cure palliative e alla terapia del dolore nell’ambito dei livelli essenziali di assistenza. A dirlo non sono solo le associazioni dei malati, ma anche i medici e i dati del ministero della Salute.

L’ultimo caso è quello dell’ospedale Sacco di Milano, il cui ambulatorio di Terapia del Dolore, dalla scorsa primavera, per offrire un servizio migliore con le risorse a disposizione sempre più risicate, ha deciso di concentrare la propria attività sui pazienti già in carico all’ambulatorio (circa 500) e quelli visitati dagli specialisti dell’ospedale Sacco che necessitano anche della cura del dolore, non più dunque agli esterni. Del resto, anche il libro bianco dell’associazione Nopain rileva un calo delle strutture più attrezzate. Anche se è aumentato il numero complessivo dei centri, passati da 158 nel 2009 a 190 nel 2012, di cui 161 pubblici, si tratta per lo più di strutture di primo livello, adatte a curare solo le forme di dolore più lieve, mentre quelle di terzo livello, in grado di trattare tutte le forme di dolore difficile, sono lievemente diminuite. Su scala nazionale risultano 0,78 strutture totali di terapia del dolore per 250 mila residenti rispetto al precedente di 0,66; ma solo 0,21 strutture avanzate di terzo livello per 250mila residenti. E nelle 190 strutture complessive operano 360 medici dedicati, cioè 1,4 ogni 250mila abitanti. Un po’ poco.

Eppure di dolore cronico in Italia ne soffrono in tanti. Le stime parlano del 26% della popolazione italiana, cioè 15 milioni di persone. Secondo i dati dall’ International association for the study of pain un italiano su quattro si rivolge al medico a causa del dolore e l’Italia è, dopo la Norvegia, il Paese con la più alta incidenza in Europa. Non c’è solo il dolore oncologico , che colpisce 200mila persone, ma anche mal di schiena e mal di testa , responsabili della metà delle visite dal medico di medicina generale. Il dolore cronico, poi, non sempre viene diagnosticato rapidamente. Come rivela un’indagine dell’Osservatorio nazionale sulla salute della donna a volte possono volerci 56 mesi, e in alcuni casi addirittura 23 anni, dalla comparsa dei sintomi.

Per quanto riguarda le terapie somministrate, i medicinali più prescritti continuano a rimanere i non oppiacei. Secondo la relazione al Parlamento 2012 del ministero della Salute sull’accesso alle cure palliative e terapia del dolore, nel 2011 per gli oppioidi forti si è registrato, rispetto ad altri paesi europei (che comunque hanno livelli medi molto più alti del nostro) un aumento nei consumi, pari a 1,17 euro pro capite. Andamento simile anche per gli oppioidi deboli, dove il valore medio italiano di consumo pro-capite è di 0,78 euro. I farmaci non oppioidi rimangono però i più prescritti, con un valore pro-capite 11,7 volte maggiore rispetto a quello degli oppiacei deboli e 7,8 volte maggiore degli oppiacei forti. E questo perché, secondo Marzio Bevilacqua , direttore della Terapia antalgica dell’Ospedale dell’Angelo di Mestre (Venezia), “c’è un po’ di oppiofobia anche fra i medici di base, e in generale si fa ancora fatica a considerare il dolore come un sintomo importante”.

Tuttavia non manca qualche segnale positivo. Il più importante è che la rilevazione del dolore nella cartella clinica dei pazienti ricoverati in ospedale sta diventando sempre più diffusa (l’attitudine dei medici a misurarlo è passata dal 47,8% al 77,4% secondo uno studio della Federazione dei medici internisti Fadoi). E l’altro è che i cittadini sono più informati sui centri di terapia contro il dolore. La loro conoscenza é salita dal 27,9 per cento al 44 per cento e si evidenzia un maggior coinvolgimento del terapista del dolore nella gestione della sintomatologia, dal 5,8% al 27%. Certo, la strada per avere un’assistenza adeguata e capillare sul territorio è ancora lunga, ma se i cittadini saranno più consapevoli dei loro diritti, potranno anche reclamarli per essere curati nel modo a cui hanno diritto.

 

Fondiaria, buonuscita di 3,6 milioni per il figlio del ministro Cancellieri

Piergiorgio Peluso era entrato nella disastrata società del gruppo Ligresti appena un anno fa. L'arrivo dei "salvatori" di Unipol ha determinato la rescissione del contratto. 1,7 milioni al suo braccio destro Gianandrea Perco

di Redazione Il Fatto Quotidiano

Una buonuscita di 3,6 milioni di euro per Piergiorgio Peluso , figlio del ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri. E’ la somma pagata da Fondiaria Sai , la società assicurativa di Salvatore Ligresti “salvata” dall’intervento di Unipol, all’ex direttore generale, ora neodirettore finanziario di Telecom . Al braccio destro di Peluso, Gianandrea Perco , sono andati 1,7 milioni di euro. La notizia è stata anticipata dal sito di Repubblica, che sottolinea come la maga-liquidazione sia arrivata dopo “un solo anno di duro lavoro”.

Il pagamento, che grava su un gruppo prostrato dalla gestione dei Ligresti e soggetto a due ricapitalizzazioni in un anno, è avvenuto in occasione delle dimissioni di Peluso a metà dello scorso settembre ed è stata comunicata al consiglio di amministrazione nel corso della riunione della scorsa settimana. Peluso ha potuto incassare la maxi-buonuscita in virtù delle clausole contenute nel suo contratto che consentivano, in caso di cambio di controllo o di demansionamento, la possibilità di dimettersi con giusta causa e di incassare l’equivalente di tre annualità . Facoltà che Peluso ha deciso di esercitare a settembre, non rientrando una sua conferma nei programmi di Unipol nel frattempo salita sulla plancia di comando dell’ex compagnia dei Ligresti.

Il figlio del ministro Cancellieri era entrato in Fonsai nel maggio del 2011, dopo essere stato responsabile del Corporate & Investment banking di Unicredit per l’Italia, posizione dalla quale aveva trattato l’esposizione delle società della famiglia siciliana verso l’istituto di Piazza Cordusio. Proprio la conoscenza con l’ingegnere Ligresti, che lo avrebbe voluto nel gruppo, aveva agevolato il suo ingresso. Al momento del suo ingresso Peluso rappresentava dunque una figura di garanzia sia per la famiglia Ligresti sia per Unicredit, grande creditore di Fonsai, appena uscita dal fallito matrimonio con Groupama, e la famiglia Ligresti.

I rapporti tra il manager e la famiglia siciliana hanno cominciato a deteriorarsi quando Peluso, allineandosi alla posizione di Mediobanca, si è speso per una profonda azione di pulizia del bilanci di Fonsai, facendo emergere la perdita miliardaria del bilancio 2011. Dalla quale è scaturita l’esigenza di ricapitalizzazione che ha portato al matrimonio, avversato dai Ligresti, con Unipol.

 

22 ottobre

Fiat, no della Corte d’appello al ricorso: “Assumere 145 iscritti alla Fiom”

Respinta la richiesta del Lingotto di riformare la pronuncia del tribunale di Roma della scorsa estate quando aveva rilevato discriminazioni ai danni del sindacato dei metalmeccanici della Cgil. Gli stessi giudici avevano già giudicato inammissibile la sospensiva

di Redazione Il Fatto Quotidiano

La Corte d’appello di Roma ha dato ragione alla Fiom sulla assunzione di 145 lavoratori iscritti al sindacato dei metalmeccanici Cgil nello stabilimento della Fiat di Pomigliano D’Arco . Lo fa sapere la Fiom.

Lo scorso 21 giugno il Tribunale di Roma aveva condannato la Fiat per discriminazioni contro la Fiom a Pomigliano disponendo che 145 lavoratori con la tessera del sindacato guidato da Maurizio Landini venissero assunti nella fabbrica. Alla data della costituzione in giudizio alla fine di maggio su 2.093 assunti da Fabbrica Italia Pomigliano nessuno risultava iscritto alla Fiom. Ad agosto la Corte d’appello aveva giudicato “inammissibile” la richiesta della Fiat di sospendere l’ordinanza di assunzione per i 145 iscritti alla Fiom riconoscendo una discriminazione ai danni del sindacato nelle riassunzioni dei dipendenti dello stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco.

Secondo il segretario della Cgil Susanna Camusso la pronuncia della Corte d’appello di Roma è “una buona notizia”. “Si tratta di sanare una discriminazione e un’ingiustizia” commenta il segretario della Fiom, Giorgio Airaudo . “L’iscrizione al sindacato – aggiunge – non può essere intesa come elemento di selezione e discriminazione nelle assunzioni. Tutti i lavoratori rimasti fuori devono rientrare, compresi quelli iscritti alla Cgil, anche perché la cassaintegrazione scade il prossimo luglio”. La sentenza della Corte d’appello è “la dimostrazione che la Costituzione che fissa i valori di una società democratica, non può rimanere fuori dai cancelli delle fabbriche – aggiunge il vicepresidente del Senato Vannino Chiti (Pd) – Vale per tutti, imprenditori e lavoratori, per ogni cittadino”.

 

Ente Sordi ‘dissanguato’ tra stipendi ai dirigenti e operazioni immobiliari

Fra busta paga, spese di rappresentanza e affitto il presidente Giuseppe Petrucci, che doveva risanare l'istituto, si porta a casa quasi 10 mila euro netti al mese. Chiesti finanziamenti per trasformare la sede, a due passi da S.Pietro, in un hotel di lusso. Ma è occupata dal tribunale penale

di Redazione Il Fatto Quotidiano

Si sono mangiati tutti i soldi dello Stato e dei sordi italiani. Ora vorrebbero vendere il loro patrimonio immobiliare. Un buco nel bilancio dell’ Ente nazionale sordi (Ens) da 12,5 milioni di euro. Con il presidente dell’Ens che si accredita quasi 10 mila euro netti al mese sul suo conto personale. Intanto lo Stato paga: 516 mila euro l’anno come contributo annuo all’Ente nazionale sordi.

Un anno fa all’assemblea dell’ente, la presidente Ida Collu , in carica dal ‘95, è accusata di dissesto finanziario, ma lei nega. Viene defenestrata dalla maggioranza con alla testa il giovane agrigentino Giuseppe Petrucci , benché anche lui avesse approvato i bilanci degli ultimi anni. Petrucci fa i conti in tasca alla gestione Collu e presenta la somma: il buco nel bilancio, scrive, è “di 12.403.891,94 milioni di euro” e quindi “l’Ente è impossibilitato ad erogare puntualmente il tesseramento alle sedi territoriali”. Possibile che la Corte dei Conti non abbia visto nulla? “L’ultima relazione della Corte dei conti al Parlamento risale per l’Ens al 2005”, rivelano i deputati radicali Maurizio Turco e Maria Antonietta Coscioni .

Petrucci, appena insediatosi, oltre a uno “stipendio” di circa 3.025 euro netti al mese, si fa pagare dall’Ens un affitto a Roma di 1.350 euro. Visto che l’appartamento è da ammobiliare, si fa pure comperare i mobili. Manca però la carta di credito, allora arriva pure quella: la TopCard della Bnl per spese di rappresentanza del presidente. Cinquemila euro al mese. Il presidente predilige i negozi degli aeroporti ma non disdegna gli abiti firmati della boutique Old England di Roma, dove, in un solo giorno, il 30 marzo scorso , spende 1.350 euro, sempre con la carta di credito dell’Ens. Pure una capatina da 400 euro la fa al negozio di abbigliamento Tagliacozzo. Nemmeno a tavola si tratta male: conti sempre salati. Tre pasti in tre giorni in Abruzzo per 640 euro. Ma i viaggi all’estero sono i suoi preferiti, soprattutto a Dublino , dove si reca più volte. A Vienna salda la pensione Schoenbrunn con 448,60 euro. Al Vada hotel di Monaco dorme per 369,80 euro. Sono pochissimi i giorni in cui non ci sono prelievi o spese. Nella sua città, ad Agrigento , striscia la carta per 988 euro in una sola volta, mentre in una società agricola è più morigerato: 453 euro. Al supermercato Pam riempie il carrello con 249 euro di prodotti, mentre alla Rinascente arriva a 194. Alla fine di marzo chiede, però, che la carta di credito della Bnl sia annullata e ordina all’ufficio ragioneria dell’Ens “di voler predisporre mensilmente per le spese di rappresentanza il versamento dell’importo della somma, ovvero euro 5.000 mensili, direttamente sul mio conto corrente” . Fra stipendio, spese di rappresentanza e affitto il presidente Giuseppe Petrucci si porta a casa quasi 10 mila euro netti al mese. Benché le casse siano esangui, i sette componenti del direttivo dell’Ens si assegnano 18.627 mila euro al mese fra gettoni di presenza, indennità di carica e rimborso spese. E qualche benefit ulteriore. Come la ristrutturazione di un vecchio immobile in via Casal Lumbroso alla periferia ovest di Roma per 375mila euro, “da destinare ad alloggio per i consiglieri”.

La sede dell’Ens è un palazzo a due passi da S.Pietro, in un edificio di cinque piani. In gran parte occupato dal tribunale del giudice di pace penale. Perché non trasformarlo in un hotel 4 stelle? Il direttivo Ens approva così il project financing messo a punto dalla società Risparmio e Sviluppo di Roma, che prevede un finanziamento di 20 milioni di euro da restituire in 30 anni. L’esposizione bancaria complessiva arriverebbe dunque a 32 milioni di euro, più interessi. “Il pagamento della rata deve essere coperta con i ricavi dell’hotel”, spiegano gli autori del project financing. Tuttavia l’immobile è occupato dal tribunale penale: solo un piccolo dettaglio per l’ente. Tuttavia si spaccia l’edificio “come attualmente vuoto in attesa di nuova destinazione d’uso”. Subito dopo l’approvazione della delibera, due consiglieri si dissociano, uno dei due scrive che non si può deliberare un operazione “così rischiosa per la sopravvivenza stessa dell’Ens. Andiamo incontro a responsabilità, anche penali, enormi”. In caso di insolvenza, l’intero patrimonio dell’Ens e, probabilmente lo stesso ente, sparirebbe nel giro di poco tempo. L’Ens, un tempo, aveva circa 60 mila iscritti, ora ne conta appena 15 mila.

 

19 ottobre

Alla cooperazione nemmeno mezzo F-35

Raffaele K. Salinari

Costo di un F-35, «modello base» circa 80 milioni di Euro, esclusa manutenzione; costo totale dei finanziamenti per la cooperazione internazionale allo sviluppo nel 2011, 23 milioni di Euro per circa. Legge di stabilità e inclusione del pareggio di bilancio in Costituzione: approvati con voto di fiducia; riforma delle legge di cooperazione risalente al secolo scorso, anno 1987: in discussione da una ventina d'anni nei due rami del Parlamento senza esiti.
Bastano poche cifre e qualche dato politico conseguente a fotografare una divaricazione crescente tra quanto abbiamo sottoscritto a livello di impegni verso le politiche di riduzione della povertà, diritti dei minori e tutto quello che includono gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, e i diktat dei mercati finanziari. Questo significa che esistono esigenze di credibilità internazionali a geometria variabile, impegni di serie A e di serie B, evidentemente gli uni legati al rating ed ai conseguenti spread, gli altri alla necessità di salvare miliardi di vite umane dal gorgo della miseria.
In Italia, attualmente, abbiamo ben due Ministri che si occupano di cooperazione ma, come evidenziato dal Capo del Governo durante l'ultimo Forum sulla cooperazione di qualche settimana fa, la materia è condizionata dalla crisi finanziaria e dunque non è possibile essere coerenti con quanto abbiamo promesso al mondo, tutto qui, semplicemente.
Da molto tempo, in sede politica come governativa, si parte dalla precondizione che non sarà possibile mettere a disposizione di questi impegni internazionali se non una manciata di milioni, diciamo un mezzo F-35, ma nulla di più. Ora però, di fronte allo scandalo dei prezzi gonfiati, di questa Salerno-Reggio Calabria militare, ci aspettiamo che dall'interno del Governo e del Parlamento si levino le stesse voci che reclamano al più presto una legge di riforma del settore cooperazione, e si trovino le risorse per dare credibilità internazionale al Paese anche facendo scelte coerenti con queste altre compatibilità che non sono semplicemente economiche ma etiche e dunque fondative dell'orizzonte verso il quale si vuole condurre la nazione.
Se si invoca l'Europa, infine, allora forse bisogna richiamare l'evidenza che l'intero continente non riesce a dare il suo contributo alla pace, pur avendo vinto un Nobel per questo, anche perché l'Italia ha cancellato la sua politica estera di cooperazione allo sviluppo verso molti Paesi dell'Africa sub sahariana, nei quali spesso gli interventi di lotta alla povertà a favore delle popolazioni rurali disinnescano vere e proprie bombe sociali a frammentazione.
I sistemi d'arma, dunque, non possono essere legibus soluti, in particolare quando la retroattività fiscale viene introdotta con la giustificazione dello stato di eccezione permanente. Se è possibile far pagare al contribuente tasse retroattive, allora è possibile rinegoziare i contratti militari, semplicemente seguendo la stessa logica. Coerenti sino in fondo.

 

Crotone, inquinatori impuniti Ora solo il ricorso

Quarantacinque proscioglimenti e colpo di spugna per politici e colletti bianchi. Per il gup non c'è nessuno rinviato a giudizio per i rifiuti industriali tossici dell'ex Pertusola interrati sotto le scuole.

SILVIO MESSINETTI

La scuola primaria Bernabò, l'istituto comprensivo statale Alcmeone-San Francesco, il liceo ginnasio Pitagora, l'istituto tecnico commerciale Lucifero. Tutte scuole costruite con rifiuti industriali, materiali tossici costituiti da Cic (Conglomerato Idraulico Catalizzato) e da "scoria cubilot", un composto di sabbia silicea, loppa di altoforno (proveniente dall'Ilva di Taranto) e catalizzatori, la cui matrice (il cubilot) altro non è che un rifiuto proveniente dalla lavorazione delle ferriti di zinco, effettuata nello stabilimento della ex Pertusola Sud di Crotone. Ma questo crimine ambientale non avrà giustizia. Ricorso permettendo. Perché ieri pomeriggio è arrivato il proscioglimento di tutti i 45 indagati al termine dell'udienza preliminare davanti al gup. Niente rinvio a giudizio, dunque. E colpo di spugna per politici e colletti bianchi. Un duro colpo all'inchiesta avviata, 5 anni orsono, sul presunto impiego di sostanze tossiche provenienti dai processi di lavorazione dello stabilimento dell'ex Pertusola.
Tra le persone prosciolte spiccano l'ex prefetto di Catanzaro, Salvatore Montanaro, indagato nella sua qualità di Commissario delegato per l'emergenza ambientale in Calabria, l'ex commissario all'emergenza ambientale, Domenico Bagnato, l'ex direttore generale del Ministero dell'Ambiente, Gianfranco Mascazzini, il capo di Gabinetto, Goffredo Zaccardi, l'ex presidente della Provincia di Crotone, Sergio Iritale (attuale capogruppo di Sel al comune), l'ex sindaco, Pasquale Senatore (Pdl, ex Msi), i legali rappresentanti della Pertusola Sud, quelli di tre imprese edili e tre funzionari dell'ex Presidio multizonale di prevenzione dell'ex Azienda sanitaria di Catanzaro.
L'inchiesta, dall'eloquente nome "Montagne nere", nel settembre del 2008, portò al sequestro preventivo di ben 23 aree dislocate tra il capoluogo, Isola Capo Rizzuto e Cutro. Secondo l'accusa oltre trecentocinquantamila tonnellate di rifiuti tossici erano state seppellite sottoterra. Il Cic veniva utilizzato per costituire la base su cui poggiavano le opere pubbliche e private: il cortile della Questura, le banchine del porto, scuole, strade, piazzali, interi palazzi. Insomma, un disastro ambientale che reclama giustizia. La pubblica accusa, che ha già annunciato ricorso, sostiene che due ditte prelevavano il materiale dall'ex Pertusola, e invece di smaltirlo in discarica lo usavano per le opere edili. Il gioco, riteneva l'accusa, era alquanto semplice: gli imprenditori prendevano il cic dalla fabbrica, in cambio ricevevano «modiche somme giustificandole come costo aggiuntivo per il trasporto e la posa del materiale» (più oneroso rispetto al classico misto di cava perché necessitava di rullaggi), e per gli appalti offrivano prezzi inferiori, perché l'approvvigionamento della miscela come sottofondo, non era solo a costo zero, ma veniva, secondo l'accusa, addirittura sovvenzionato da Pertusola. «Emerge dalle concentrazioni dei metalli valutate nelle diverse matrici biologiche, come i siti investigati come aeree a rischio siano stati realmente esposti alla contaminazione di alcuni metalli pesanti, in un lungo arco di tempo precedente alla nostra indagine», era riportato nelle conclusioni di una perizia disposta dalla Procura pitagorica. Ed a pagare son stati soprattutto gli alunni degli istituti costruiti sulle scorie. I giovani studenti, le sostanze (zinco, cadmio, nichel), le hanno trovate nello stomaco e nei capelli. E così non solo la bonifica di un territorio avvelenato da una produzione industriale assassina appare sempre di più un miraggio, ma a queste latitudini anche la ricerca della verità processuale in un pubblico dibattimento viene negata. A nulla sono valse le lotte e le mobilitazioni di studenti ed ambientalisti in tutti questi anni. Perché per il gup di Crotone «il disastro ambientale e l'avvelenamento delle acque non sussistono». E questo nonostante i tanti studi che dicono il contrario come la recente indagine "Sentieri" dell'Istituto Superiore di Sanità che ha studiato il profilo di mortalità delle popolazioni residenti nei siti di interesse nazionale per le bonifiche.
«È un inno all'impunità, un incentivo a costruire qualsiasi cosa in Calabria con la certezza che nulla avrai da temere» ha commentato Filippo Sestito della Rdt "Nisticò". «C'è un contesto che è malato, dal sistema politico a quello giudiziario. È una giornata amarissima per la Calabria che chiede giustizia ambientale».

 

18 ottobre

 

La lunga mano dei boss sul voto nell'Italia delle elezioni inquinate

Metà delle regioni conta almeno un caso di voto di scambio. Negli ultimi due anni il numero di inchieste su politici eletti grazie all'appoggio dei clan è cresciuto in maniera esponenziale. E aumentano i comuni sciolti per mafia, soprattutto al nord

ROMA - Una Regione su due conta almeno un caso di compravendita di voti. Dal 2010 a oggi il numero di inchieste su politici arrivati nelle stanze del potere grazie all'appoggio dei clan è cresciuto in maniera esponenziale. Nelle borgate dei grandi centri come nei paesi più piccoli, spesso ai margini della cronaca. Senza contare i comuni sciolti per infiltrazioni mafiose: oltre 200 dal '91.

La mappa dell'Italia è costellata da scandali che ruotano attorno al voto di scambio. Da Milano a Casal di Principe, da Ventimiglia a Torino, il Paese è una gigantesca scacchiera dove i calcoli a tavolino dei boss permettono di consegnare le chiavi dei palazzi istituzionali a "uomini fidati". A politici conniventi del clan di turno, che diventano così appendici delle cosche nei luoghi della democrazia del Paese.

Rispetto a qualche anno fa, è il nord ad aver compiuto il balzo in avanti più significativo. Piemonte, Lombardia e Liguria, un tempo triangolo industriale e motore del Paese, si sono trasformate nei presìdi delle 'ndrine, il cui controllo territoriale passa anche dalla vendita di migliaia di voti.

Un voto costa 50 euro. Ma può arrivare anche a 80 o 100. A seconda della Regione o delle condizioni dettate dai vertici della criminalità locale. In cambio di una semplice "x" che segni una preferenza, alcuni possono arrivare a offrire un panino, un pasto caldo oppure il pagamento di una bolletta.

Sono le schede elettorali sporche di mafia. Migliaia di voti in cambio di migliaia di euro. Pratica che ha
compromesso sul territorio nazionale decine e decine di assessori, consiglieri e ex presidenti di Regione. E che, in numerosi casi, li ha costretti a concedere favori su favori, strozzati dalla loro stessa voglia di potere.
Il voto di scambio si può raccontare attraverso tre storie. Eccole.

Operazione Minotauro. È il 6 giugno 2011. A Volpiano, cittadina di 15 mila abitanti in provincia di Torino, si riunisce il nuovo Consiglio comunale. È la prima seduta dopo le elezioni e sulla poltrona di sindaco esordisce Emanuele De Zuanne (lista civica vicina al Pdl). Aprono i lavori. Si susseguono gli interventi. I presenti, oggi, ne ricordano uno più di altri: "Con i soldi pubblici bisogna saper osare. Spenderli, ma senza rubare". Qualche applauso, ma anche fischi. L'oratore, secondo eletto dopo il Sindaco (e suo sostenitore) con il 33% dei voti, è Nevio Coral, già sindaco di Leinì (piccolo centro a due passi dal capoluogo piemontese), imprenditore di successo e politico molto noto nella zona.

Due giorni dopo, la mattina dell'8 giugno, scatta a Torino e provincia l'Operazione Minotauro, la più vasta azione anti 'ndrangheta nella storia del Piemonte: 191 persone iscritte nel registro degli indagati, 141 i mandati di custodia cautelare spiccati dal gip, sequestri preventivi di beni per un valore di oltre 117 milioni di euro. Associazione a delinquere di stampo mafioso, detenzione illegale di armi, traffico di stupefacenti, gioco d'azzardo, riciclaggio sono solo alcuni dei reati contestati. Tra gli arrestati c'è un solo politico: Nevio Coral. Lo stesso che due giorni prima invocava un uso onesto del denaro pubblico. Il discorso di Volpiano diventa così l'ultimo atto politico di un uomo costretto a difendersi da una doppia infamante accusa: concorso esterno in associazione mafiosa e voto di scambio.

"La criminalità organizzata - scrive il prefetto di Torino Alberto Di Pace nella relazione consegnata al Ministro Anna Maria Cancellieri il 29 febbraio - sarebbe arrivata a infiltrarsi tra le maglie dell'ente comunale (e non solo) realizzando un fattivo concorso nella gestione deviata della cosa pubblica". L'uomo chiave, il tramite tra lo Stato e il malaffare sarebbe sempre lui: Nevio Coral. Intrattiene rapporti con affiliati e pluripregiudicati come Vincenzo Argirò, originario di Locri classe 1957, residente a Caselle Torinese. I due vengono più volte intercettati, al telefono parlano come chi si conosce da tempo: "Bisogna proprio dire che i vecchi amici si trovano sempre" dice Coral al presunto boss. Si danno appuntamento nel ristorante dell'albergo Verdina a Volpiano, proprietà del figlio di Coral, Claudio. È il 18 maggio del 2009, Nevio cerca voti per l'altro figlio Ivano, all'epoca candidato alla Provincia di Torino. Una cena tra amici, una riunione per spartirsi il territorio.

Garantiscono voti nella zona di Leinì, Volpiano e Borgaro Torinese. In cambio Coral promette loro lavoro: "Quando le strade si fanno - dice intercettato dai Carabinieri - i lavori si fanno, gli appalti vanno avanti... e innanzitutto prendiamo uno, lo mettiamo in Comune, l'altro lo mettiamo nel consiglio, l'altro lo mettiamo in una proloco...". Ivano Coral, già sindaco, verrà da lì a poco eletto anche consigliere provinciale.

'Ndrangheta a Ponente. Biglietti da visita di alcuni esponenti politici locali, carte su misteriosi giri d'affari Italia-Germania-Stati Uniti-Emirati Arabi, oltre ad alcune lettere di un padre ergastolano. Quello che nel giugno 2011 gli agenti della Dda trovarono a casa di Michele Ciricosta , boss del "locale" (come si chiamano le 'ndrine) di Ventimiglia della 'ndrangheta, sembrava un vero e proprio "arsenale"malavitoso. Non armi ma contatti, relazioni, numeri di telefono. Durante la perquisizione un particolare colpì più di tutti i Carabinieri: una scritta dietro un santino elettorale: "E' andata tutto bene", firmato Alessio Saso (Pdl). Consigliere regionale della Ligura eletto un anno prima con oltre 6330 preferenze.

Secondo la Dda di Genova, mille di quei voti sarebbero arrivati proprio grazie alla "collaborazione" della 'ndrangheta e in particolare di Domenico Gangemi, professione verduriere, capo del "locale" di Genova. Per far arrivare le preferenze a Saso, mise in moto appunto la 'ndrina di Ventimiglia. Ossia Ciricosta. "Le intercettazioni del telefono di Gangemi - si legge nelle oltre 200 pagine di ordinanza di custodia cautelare firmate dal gip Nadia Magrini - consentivano di registrare già nel mese di novembre 2009 le telefonate con il consigliere regionale. Il primo contatto telefonico tra l'amministratore locale e il 'capo bastonè avveniva il 28 novembre e lasciava chiaramente intendere una loro pregressa conoscenza". Dai tabulati telefonici emerge un rapporto stretto tra Gangemi e Saso. Si sentono più volte. Prima delle elezioni il consigliere regionale ha un unico obiettivo, rassicurare il suo interlocutore: "Io sono una persona seria.. sono una persona che anche dopo ci si può contare... se uno mi chiede un lavoro, mi chiede un finanziamento... do anche quello... eh... io sono sempre rimasto in buoni rapporti con tutti".

Non è solo su Genova che le mafie allungano i loro tentacoli in cerca di agganci politici. Secondo la relazione della Divisione distrettuale antimafia "a Ventimiglia, al confine con la Francia, esiste una "camera di controllo" della 'ndrangheta calabrese". Nel febbraio scorso, il Consiglio dei Ministri decideva per lo scioglimento del comune di confine. Infiltrazione mafiosa, l'accusa. Secondo le indagini si era trasformata in una roccaforte di quelle famiglie mafiose, 'ndrangheta in primis, che avevano trovato un comodo e redditizio rifugio per fare gli affari loro. Anche grazie alla politica.

Ventimiglia non è sola però. Perché proprio un anno prima simile sorte era toccata a Bordighera. Dalle indagini svolte dai carabinieri del Comando Provinciale di Imperia erano emerse pressioni sul sindaco e su alcuni assessori per ottenere l'apertura di una sala giochi ed altri favori.

L'urna è Cosa Nostra. "È inutile che viene per cercare voti perché voti non ce n'è più per Raffaele... quello che ho fatto io quando lui è salito per la prima volta... e siccome io ho rischiato la vita e la galera per lui...". A parlare è il boss di Palagonia (Catania) Rosario Di Dio. Dall'altra parte del telefono c'è Salvo Politino, attuale direttore della Confesercenti etnea. Un suo amico. Il Raffaele di cui si fa riferimento, invece è - ritiene la Procura - Raffaele Lombardo, presidente dimissionario della Regione Sicilia, accusato insieme al fratello Angelo (deputato nazionale Mpa) di concorso esterno in associazione mafiosa e voto di scambio aggravato. L'oggetto della telefonata, secondo le ricostruzioni dei pm, sarebbero dei presunti favori elettorali fatti al governatore. "Le intercettazioni - si legge negli atti del pool di Catania - hanno dimostrato l'esistenza di rapporti diretti tra Di Dio Rosario, uomo d'onore ed esponente di primissimo piano dell'associazione criminale Santapaola, e Lombardo Raffaele". L'ex presidente si è sempre difeso, rimbalzando le accuse. Ha ammesso di aver incontrato mafiosi, presunti o acclarati, ma allo stesso tempo ha parlato di contatti fortuiti e occasionali, nati da conoscenze politiche.

Attualmente sono due i fascicoli "paralleli" nati da stralci dell'inchiesta "Iblis" su Raffaele e Angelo Lombardo, con reati in qualche modo assimilabili: voto di scambio e reato elettorale aggravato dall'avere favorito l'associazione mafiosa. Per questo l'ipotesi accreditata, da fonti dell'accusa e della difesa, è che le due inchieste vengano riunite in un solo processo, ma questo, con molta probabilità, comporterà un allungamento dei tempi dell'udienza preliminare. La motivazione che ha portato ad aggiungere l'aggravante mafiosa è che "nel rione di Agrigento o di Catania si sarebbe esercitato un potere intimidatorio di massa, una sorta di voto di opinione mafioso, non rivolgendo la richiesta di voto a tizio o a caio, ma un clima di intimidazione per cui si sapeva che si sarebbe dovuto votare Lombardo, e nessuno avrebbe fiatato".

Nei giorni scorsi è iniziata l'udienza preliminare davanti al Gip di Catania, Marina Rizza, sulla richiesta di rinvio a giudizio coattiva dell'ex governatore Lombardo. La Procura di Catania ha depositato i verbali con le dichiarazioni dell'ex assessore regionale Marco Venturi e di un nuovo collaboratore di giustizia, Giuseppe Mirabile. Nel suo verbale, Venturi ricostruirebbe le "anomalie nelle convocazioni delle riunioni di Giunta" nella stesura dei verbali e quello che definisce il "sistema clientelare" di Raffaele Lombardo.

 

 

L'Italia ultima in classifica nella protezione dei disabili

L'analisi, realizzata dal Censis, pone il nostro Paese tra gli ultimi paesi in Europa per risorse destinate alla persone con disabilità: si spendono 438 euro pro-capite annui contro i 531 della media europea, ben lontani dai 754 del Regno Unito. La rilevazione fa seguito a quella di Cittadinanza Attiva, secondo la quale il 50% dei malati cronici over 65 sono sulle spalle solo delle famiglie

ROMA - L'Italia è tra gli ultimi paesi in Europa per risorse destinate alla protezione sociale delle persone con disabilità: si spendono 438 euro pro-capite annui contro i 531 della media europea, ben lontani dai 754 del Regno Unito. Secondo una ricerca promossa dalla Fondazione Cesare Serono e realizzata dal Censis - che fa seguito a quella di Cittadinanza Attiva, secondo la quale il 50% dei malati cronici over 65 sono sulle spalle solo delle famiglie - in Francia si arriva a 547 euro, in Germania a 703 euro e solo la Spagna, con 395 euro, si colloca più in basso del nostro Paese. La spesa per i servizi in natura, pari a 23 euro pro-capite annui, risulta meno di un quinto della media europea e inferiore anche al dato della Spagna. Ma oltre le risorse economiche, quello che manca sono le politiche di inserimento lavorativo: il modello italiano resta assistenzialistico e le responsabilità sono scaricate sulle famiglie. Le capacità delle persone con disabilità o malattie croniche non vengono valorizzate e l'autonomia non è promossa.

Il raffronto con la Francia. In Francia risulta infatti occupato il 36% dei disabili con un'età compresa tra 45 e 64 anni, mentre in Italia il tasso si ferma al 18,4% tra i 15-44enni e al 17% tra i 45-64enni.
Così, è occupata meno di una persona Down su tre dopo i 24 anni, meno della metà delle persone con sclerosi multipla tra i 45 e i 54 anni, e il 10% degli autistici con più di 20 anni. Quanto all'inclusione scolastica, lo studio - presentato da Ketty Vaccaro, responsabile del settore Welfare del Censis e dal presidente Giuseppe De Rita - rileva che "l'esperienza italiana rappresenta un'eccellenza" per l'obbligo imposto alle scuole ad accettare alunni con disabilità, ma le risorse dedicate alle attività di sostegno e di integrazione degli alunni "appaiono spesso inadeguate". "Nell'anno scolastico 2010-2011 circa il 10% delle famiglie degli alunni con disabilità ha presentato un ricorso al Tribunale civile o al Tribunale amministrativo regionale per ottenere un aumento delle ore di sostegno".

Il ruolo dell'Inps. La ricerca evidenzia che le misure economiche erogate dall'Inps a favore di persone che hanno una limitata o nessuna capacità lavorativa sono pari a circa 4,6 milioni di prestazioni pensionistiche, di cui 1,5 milioni tra assegni ordinari di invalidità e pensioni di inabilità e 3,1 milioni per pensioni di invalidità civile, incluse le indennità di accompagnamento, per una spesa complessiva di circa 26 miliardi di euro all'anno. Il modello assistenzialistico lascia però alle famiglie il compito di provvedere ai bisogni delle persone con disabilità, senza avere l'opportunità di rivolgersi a strutture e servizi adeguati.

Le ampie zone d'ombra. Secondo lo studio "accanto ad alcune best practice legate a scelte coraggiose compiute in anni passati" vi sono "ampie zona d'ombra"; in alcuni territori sono cresciute "esperienze di eccellenza" ma quello che colpisce è "la disuguaglianza profonda tra territorio e territorio" ed "una generale e cronica carenza di servizi assistenziali in natura" e "una trasversale" ristrettezza di risorse. Tra le ombre lo studio sottolinea anche la carenza di un dibattito pubblico sui diritti delle persone con disabilità: il tema ottiene con estrema difficoltà l'attenzione dei media e appare nelle agende pubbliche quando si immaginano recuperi di spesa anziché nuovi investimenti.

 

Settembre 2013, centomila precari licenziati dalla scuola?

Docenti di ruolo con più lavoro, e gratis. Zero assunzioni. I 900 milioni di tagli annunciati mettono a rischio il posto di centomila docenti precari - un insegnante su sei - secondo le stime più pessimistiche

Roberto Ciccarelli

La legge di stabilità stabilisce un taglio di 723 milioni di euro nella scuola, aumenta di sei ore l’orario settimanale di lavoro per gli insegnanti e mette a rischio il posto di 100 mila docenti precari. A questo bisogna aggiungere il blocco di 182 milioni dell’indennità di vacanza contrattuale per i docenti che porta il totale dei tagli a 905 milioni.
«Siamo profondamente sconvolti da quanto ha intenzione di fare il governo» afferma Elena La Gioia, presidente del Comitato italiano precari (Cip). In pratica, un insegnante su sei nel 2013 potrebbe perdere il lavoro. Questa cifra è ancora oggetto di valutazione. Ci sono calcoli che l’abbassano a 80 mila (fonte Tutto Scuola), mentre la Flc-Cgil sostiene che sia più bassa, quasi 30 mila (25 mila precari e 4 mila insegnanti di sostegno). Altre fonti che ragionano sui dati Miur sostengono che corrisponda a “solo” 22 mila persone. In ogni caso, il taglio c’è, e i licenziamenti anche.
La pubblicazione del testo definitivo della legge di stabilità conferma le peggiori indiscrezioni circolate negli ultimi giorni. E aggiunge un corollario: al termine dell’iter parlamentare, che si preannuncia tormentato, sarà possibile cambiare i fattori, ma non il prodotto finale che contempla, tra l’altro, il rifinanziamento di 233 milioni delle scuole private a copertura dei fondi mancanti nel 2012.
I tagli entreranno in vigore a settembre 2013, e non nel 2014 come aveva annunciato Profumo. I docenti meno pagati d’Europa saranno costretti a lavorare 6 ore in più sottraendo ai colleghi precari gli spezzoni orari, ovvero le ore avanzate dalla costituzione delle cattedre ordinarie. Ciò comporterà il taglio delle supplenze per un importo pari a 265 milioni di euro. L’allungamento dell’orario non verrà compensato in denaro, ma in 15 giorni di ferie in più (per un totale di 47) che non potranno essere usufruiti durante l’anno scolastico. Secondo alcune proiezioni su dati Miur, in questo caso il risparmio sarebbe di 129 milioni. In altre parole, il governo chiede agli insegnanti di lavorare di più e gratis. Ed esclude, nei fatti, di assumerne di nuovi nei prossimi anni.
Da oggi, fare l’insegnante nella scuola italiana, o sperare in una stabilizzazione dei precari, sarà un’utopia. La decisione di cancellare il contratto nazionale e rimuovere il ruolo dei sindacati produrrà un’altra anomalia. Secondo i dati forniti dalla banca dati Eurydice, rielaborati dalla Uil Scuola, gli insegnanti italiani restano in classe un numero superiore di ore rispetto ai loro colleghi francesi, austriaci e tedeschi:

Orario settimanale di insegnamento dei docenti
Fonte Eurydice – 2011

     

   primaria   

   sec. Inf.   

   sec. Sup.   

  Bulgaria  

  12  

  15  

  14  

  Polonia  

  14  

  14  

  14  

  Estonia  

  16  

  16  

  15  

  Rep. Ceca  

  17  

  17  

  16  

  Slovenia  

  17  

  17  

  15  

  Danimarca  

  18  

  20  

  19  

  Grecia  

  18  

  16  

  14  

  Austria  

  18  

  17  

  17  

  Romania  

  18  

  18  

  18  

  Slovacchia  

  18  

  18  

  18  

  Finlandia  

  18  

  16  

  15  

  Cipro  

  19  

  18  

  18  

  media UE  

  19,6  

  18,1  

  16,3  

  Germania  

  20  

  18  

  18  

  Ungheria  

  20  

  20  

  20  

  Belgio  

  21  

  19  

  18  

  Lettonia  

  21  

  21  

  21  

  Lituania  

  21  

  18  

  18  

  Lussemburgo  

  21  

  18  

  18  

  Irlanda  

  22  

  22  

  22  

  Italia  

  22  

  18  

  18  

  Francia  

  24  

  17  

  14  

  Spagna  

  25  

  19  

  19  

  Portogallo  

  25  

  22  

  22  

  Malta  

  26  

  20  

  20  

  Olanda  

  m  

  m  

  m  

  Svezia  

  m  

  m  

  m  

  Regno Unito  

  m  

  m  

  m  

La media conferma che in Italia il numero delle ore lavorate dai docenti sono in linea con l’Europa e non c’è alcuna ragione di aumentarlo. Se non quello di attribuire ai presidi un monte di 200 ore annue in più a docente da gestire, senza ulteriori oneri, a loro discrezione. Scorrendo i dati presenti nella prima e nella terza colonna della tabella scopriamo che già oggi i docenti italiani lavorano un numero di ore superiore rispetto ai loro colleghi europei nelle scuole primarie (22 contro 19,6) e in quella secondaria superiore (18 contro 16,3). Per queste ragioni l’aumento dell’orario di lavoro rappresenterà un caso unico in Europa.
Considerati i vincoli di bilancio imposti dal ministro dell’Economia Grilli, il tentativo del Partito Democratico di modificare le norme capestro non sarà agevole. «Le misure sulla scuola sono inaccettabili e così le misure per le fasce di disagio e disabilità – ha ribadito ieri il segretario Pd Pier Luigi Bersani – Vediamo la versione definitiva, ma il diavolo è nei dettagli». L’invito al dialogo è stato raccolto da Profumo. «Il Pd – ha detto – sostiene lealmente il governo». Ma la mediazione dovrà restare «all’interno dei vincoli di bilancio votati dallo stesso Parlamento». Ovvero: i fattori possono cambiare, ma il taglio alla scuola resta di 905 milioni.
La precisazione di Profumo non è piaciuta ai sindacati. Il fuoco di fila è iniziato dalla Cisl, con il segretario generale Bonnani in persona: «Il governo deve cancellare i tagli e se non lo farà ci dovrà pensare il Parlamento». Di «norma contro la scuola che offende gli insegnanti» parla il segretario generale della Uil Scuola Massimo Di Menna: «non esiste alcuna ragione plausibile per obbligare a 24 ore di lezione, eliminando il contratto di lavoro, lasciando le retribuzione invariate». La conferma dello sciopero generale del 24 novembre è inevitabile.
Dalla Flc-Cgil si fa sentire il segretario generale Pantaleo che invita gli altri sindacati a promuovere «una grande manifestazione nazionale unitaria». Contro queste «odiose misure», di cui chiede il ritiro, annuncia l’occupazione dei provveditorati.

 

Lecce, in carcere è codice rosso, all’ospedale verde: aperta un’inchiesta

La percentuale di rinvii dal penitenziario alla struttura sanitaria sembra abnorme: in poco più di un anno solo nel 13 per cento degli 846 casi analizzati è stata confermata una situazione d'emergenza. E la stessa direzione dell'istituto negli ultimi mesi ha stoppato decine di trasferimenti

di Tiziana Colluto

Sulla carta erano tutti codici rossi , il lasciapassare più immediato perché i detenuti si allontanassero dal carcere di Lecce per essere trasferiti in ospedale. Una volta giunti al pronto soccorso, però, quasi tutti si trasformavano in codici gialli , se non addirittura verdi . Una stranezza macroscopica nei numeri, tanto da far scattare un’indagine alla Procura salentina, dopo gli accertamenti effettuati dagli agenti della Polizia penitenziaria, al comando del commissario Riccardo Secci . L’informativa di reato è stata depositata qualche mese fa ed è ora nelle mani del sostituto procuratore Giuseppe Capoccia , che ha aperto un fascicolo, al momento a carico di ignoti. L’accusa ipotizzata dalla magistratura è di interruzione di pubblico servizio .

La percentuale di rinvii in ospedale, infatti, pare essere abnorme. Stando ai numeri forniti dalle guardie carcerarie, tra il gennaio del 2010 e il febbraio del 2011, solo il 13,4 per cento degli 846 casi presi in considerazione è stato confermato come effettivo codice rosso. Il restante 86,6 per cento, dopo il trasferimento al pronto soccorso dell’ ospedale Vito Fazzi , è stato declassato a codice giallo o verde. Insomma, quasi la totalità degli spostamenti, che hanno viaggiato ad una media di oltre due detenuti al giorno, sarebbe risultata inutile, così come superfluo sarebbe stato l’impiego, ogni volta, di un’ambulanza e di almeno tre agenti di scorta. Un dato assolutamente non neutro, in una casa circondariale che soffre di carenza cronica di personale penitenziario, che si attesta sulle 715 unità, a fronte delle 767 assegnate dalla previsione ministeriale ferma, però, al 2001. Un parametro, questo, calcolato a fronte della capienza regolamentare di 660 detenuti. Attualmente, invece, a Borgo San Nicola ce ne sono il doppio, 1285. Numeri di un sovraffollamento drammatico, che è già costato allo Stato italiano la condanna per “ lesione della dignità umana ” da parte del tribunale di Sorveglianza di Lecce.

Il solo dato della popolazione carceraria, però, non basta a spiegare l’esplosione dei rinvii in ospedale, altissima rispetto alla media nazionale, come confermato dalla stessa direzione dell’istituto di pena, affidata ad Antonio Fullone , che negli ultimi mesi ha stoppato decine di trasferimenti, perché illegittimi. Per legge, infatti, fuori possono essere inviati solo i reclusi in pericolo di vita o che rischiano una grave menomazione e non sono curabili all’interno dell’istituto. Fin troppi, però, affollano l’infermeria del carcere, anche perché questa è l’unica struttura in Puglia ad avere assistenza medica 24 ore su 24 e assistenza psichiatrica trisettimanale. Per fronteggiare la continua emergenza, nelle ultime settimane la Asl ha rafforzato la dotazione del personale medico, mentre drastica resta l’assenza della metà degli infermieri necessari.

Anche al netto di tutto ciò, tuttavia, 846 rinvii ospedalieri in 13 mesi non si spiegano, se non si ipotizzano altre cause, come fatto nell’apposito studio stilato dalla direzione del penitenziario. Ci può essere una condizione di stress dei medici, poiché non è facile governare la tendenza alla simulazione ed esasperazione propria dei carcerati; c’è il timore reverenziale rispetto al detenuto di turno; c’è l’impennata delle denunce contro i sanitari. Le verifiche, a questo punto, diventano possibili soltanto ex post, perché, questo è sicuro, nel bilanciamento di interessi, si preferisce rischiare di impegnare in modo inopportuno la scorta, piuttosto che esporre al pericolo la vita e la salute della persona. Se i pesi sulla bilancia siano stati incautamente falsati da valutazioni leggere, saranno le indagini a stabilirlo. Il sospetto è che questa routine sia diventata metodo, dando per scontata sempre la buona fede. Nell’ambito della stessa inchiesta, però, ci è finito anche il caso di un medico già noto alle cronache e già sospeso per due mesi dal servizio. Stavolta, avrebbe stabilito l’incompatibilità col regime carcerario di un noto pregiudicato, redigendo una presunta falsa perizia.

 

16 ottobre

 

 

Sanatoria flop, solo 105mila richieste. Boom sospetto di colf e badanti

L'ultimo giorno per le domande, bilancio deludente rispetto alle attese di 300-400 mila adesioni di stranieri in nero. Pochissime richieste da fabbriche e cantieri, molti lavoratori domestici - meno costosi da regolarizzare - fra nazionalità "non tradizionali"

di Lorenzo Galeazzi e Mario Portanova

“L’amnistia a pagamento ”, come era stata definita da Pdl e Lega, si è dimostrata un flop e l’annunciata invasione di orde di immigrati regolarizzati dal governo è rimasta solo sulla carta. Parliamo della Sanatoria 2012, la normativa varata dal ministro per l’Integrazione Andrea Riccardi e rivolta a quei datori di lavoro che volevano fare uscire dalla clandestinità i propri dipendenti immigrati concedendo loro un permesso di soggiorno. Il Carroccio era arrivato a dichiarare che alla fine i migranti regolarizzati avrebbero toccato quota 800mila, con perdite per la sanità pubblica “nell’ordine di 43 milioni di euro nel 2012 e 130 negli anni a seguire”.

I dati forniti dal ministero dell’Interno restituiscono però un’altra realtà: nel mese messo a disposizione per la presentazione delle domande, dal 15 settembre al 15 ottobre, le schede presentate hanno superato di poco quota 105mila , numeri bel al di sotto delle stime del ministero guidato da Riccardi che, come ricorda Fulvia Colombini della Cgil, “aveva previsto dalle 3 alle 400mila richieste”.

L’altro aspetto che aveva fatto saltare la mosca al naso al centrodestra era a chi era destinata la sanatoria. Se nel 2009, quando Silvio Berlusconi era a Palazzo Chigi e Roberto Maroni al Viminale, il provvedimento era rivolto solo a colf e badanti , con l’attuale legge possono uscire dalla clandestinità tutti i lavoratori dipendenti: dagli edili a quelli impiegati nelle fabbriche e nell’agricoltura. Una differenza non da poco che aveva trasformato la normativa in “atto criminale, razzista nei confronti dei lavoratori italiani” contro il quale si sarebbe dovuta scatenare “una guerra totale” (Maroni), fino alla stessa “sopravvivenza del governo dei tecnici” (Maurizio Gasparri). Stiano tranquilli perché i diritti dei lavoratori italiani sono salvi: dati alla mano, i datori che hanno presentato domanda per regolarizzare forme di collaborazione non domestica sono meno di 12mila in tutta Italia: circa il 10 per cento del totale.

Ma perché questo flop? “E’ a causa della combinazione di due fattori – risponde Riccardo Tromba dello sportello legale del Naga , una delle principali associazioni che tutelano i diritti dei cittadini stranieri – Da una parte il costo elevato, dall’altra l’esito incerto della procedura”. I datori che intendevano regolarizzare i dipendenti stranieri, oltre a una tassa di 1000 euro (che in caso di diniego non viene restituita) dovevano versare allo Stato almeno gli ultimi sei mesi di contributi evasi . Se nel caso del lavoro domestico e della cura alla persona si viaggia su circa 4000 euro, la cifra sale fino a 14mila per gli altri settori. “Sappiamo bene che il 90 per cento delle domande presentate non provengono da colf e badanti – sottolinea il volontario del Naga – E’ che così facendo il permesso di soggiorno costa molto meno. Un particolare non da poco perché chi mette mano al portafoglio è quasi sempre il migrante e non il datore di lavoro”. Anche la “paternità” delle domande arrivate al Viminale confermano questa tesi: al primo posto, con oltre 13mila richieste, ci sono i marocchini seguiti dai cittadini del Bangladesh a quota 12mila. Nazionalità che, secondo gli esperti, poco hanno a vedere con la cura della persona o della casa. Quella ucraina è “terza” con 10mila richieste di regolarizzazione.

Prima dell’apertura della finestra per la sanatoria, i volontari del Naga, parlavano di un “provvedimento volutamente confuso per placare i mal di pancia di alcuni partiti” che sostengono il governo dei tecnici. Confusione che, come ha documentato la video-inchiesta del fattoquotidiano.it sul mercato illegale delle regolarizzazioni, va a braccetto con le truffe. “Una previsione azzeccata, visti i numeri”, chiosano oggi.

 

Roma, la Regione cacciò il direttore Asl. Ma il successore lo nomina consulente

Franco Condò fu dichiarato decaduto dalla carica a causa di "gravi disavanzi di gestione". Tanto che fu condannato anche dalla Corte dei Conti. Insieme a chi? Insieme al suo successore, Maria Sabia. Il motivo: un danno erariale dopo alcuni lavori di ristrutturazione al Santo Spirito

di Luca Teolato

Franco Condò , con una delibera della Giunta regionale del Lazio a gennaio 2009, amministrazione Marrazzo , è stato dichiarato decaduto dalla carica di direttore generale della Asl Roma E per una serie di inadempienze. Ma una volta uscito dalla porta, è rientrato dalla finestra, come consulente della stessa Asl, grazie all’amministrazione Polverini. "Gravi disavanzi di gestione per gli esercizi finanziari 2003, 2004, 2005 – si legge nella delibera regionale che gli revocò il mandato – numerose violazioni dei principi di buon andamento dell’amministrazione, violazioni di legge ed ulteriori gravi motivi riconducibili al mancato rispetto degli indirizzi regionali in materia di contenimento dei costi".

L’Asl Roma riunisce i municipi delle zone Prati, Aurelia, Monte Mario e Cassia Flaminia e quindi serve in tutto oltre mezzo milione di cittadini. La Polverini , dopo la cacciata di Condò, nominò come dirigente dell’azienda sanitaria Maria Sabia , ex direttore amministrativo della stessa azienda sanitaria. Tuttavia questa a sua volta nominò Condò suo consulente. Entrambi pochi mesi prima (nel giugno 2010) erano stati condannati dalla Corte dei Conti del Lazio, insieme all’ex presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici Angelo Balducci e ad altri, “al pagamento in parti uguali in favore dell’Asl RmE della somma di euro 229.260,47”, come dice la sentenza. Motivo? Un danno erariale causato da alcuni lavori di ristrutturazione dell’ospedale Santo Spirito di Roma, eseguiti in occasione del Giubileo, che non furono condotti a regola d’arte tanto da dover essere rifatti poco dopo.

Nella delibera che si pronunciava sulla decadenza di Condò, ci sono passaggi in cui vengono riportati giudizi della magistratura contabile . La Corte dei Conti ha infatti stabilito che la somma del bilancio di gestione, riferita all’esercizio 2005, evidenziava una differenza molto elevata tra quanto previsto in sede di budget ed i risultati effettivamente ottenuti. Inoltre “nel triennio 2003-2005 – si legge nella sentenza – la gestione aveva evidenziato un peggioramento del risultato economico pari al 62% ed un ulteriore depauperamento del patrimonio netto, già gravemente negativo, del 66%; aveva rilevato un aumento ingiustificato dei costi per l’acquisizione di beni e servizi (24%); rilevava irregolarità e carenze nelle procedure di contabilità”. Un curriculum che deve aver “ben impressionato” l’ex presidente della Regione Polverini.

Secondo la magistratura contabile, insomma, la gestione dell’Asl in quegli anni è stata non proprio regolare. E a quello stesso periodo (dal 2003 al 2005) si riferisce una denuncia dell’imprenditore Oreste Zambrelli , legale rappresentante della “Raphael srl Strutture Sanitarie e dell’Ospitalità” proprio ad alcuni dirigenti della Asl Roma E: gli stessi Condò e Sabia, ma anche il direttore del dipartimento salute mentale della Asl Gianfranco Palma e l’avvocato Guido De Santis , fino al 2005 consulente legale dell’Azienda sanitaria. La Raphael opera nel settore sanitario, in particolare nella riabilitazione psichiatrica. ”Nel solo periodo dal 29/04/2004 al 15/09/2005 – si legge in una relazione inviata alla Corte dei Conti e alla Procura della Repubblica di Roma – lo sperpero di denaro pubblico nella sola struttura Raphael di Via Cassia in Roma ammonta a 2.960.000,00 euro”.

“Nonostante lo avessi denunciato a tutti i livelli istituzionali, sono stato costretto per anni – denuncia Zambrelli – ad operare nell’illegalità, senza la prescritta autorizzazione regionale all’apertura e all’esercizio della struttura socio sanitaria, per inadempienze della Asl RmE e della Regione Lazio. Per vari periodi la società Raphael è stata pagata pur non avendo pazienti che, come da contratto, dovevano essere inviati dalla Asl RmE. Inoltre la Asl ha stipulato una convenzione ‘vuoto per pieno’ con la Fondazione Mario Lugli Onlus, per una spesa annuale di 957.100 euro. In sostanza – spiega Zambrelli – la Asl RmE, pur dichiarando l’insufficienza numerica delle strutture psichiatriche alternative al ricovero ospedaliero, contemporaneamente, pur pagandole a vuoto, non le ha utilizzate per soddisfare le numerose richieste, in lista di attesa, delle persone con disagio mentale”. In sostanza, secondo il racconto dell’imprenditore, per 4 anni ha incassato i rimborsi dell’Asl, ma questa non è mai passata al gradino successivo promesso: l’autorizzazione regionale.

La Corte dei Conti però ha archiviato la denuncia di Zambrelli e anche una della Fials , Federazione italiana autonoma lavoratori sanità, per la stessa vicenda. “Non capisco come sia possibile. Il mio è un esempio emblematico – denuncia Zambrelli – proprio della gestione sconsiderata di Condò e dell’operato discutibile dell’azienda sanitaria che dirigeva. Operato condannato proprio dalla magistratura contabile che però ha archiviato la mia denuncia specifica su tale gestione, rifiutando di rendere note le motivazioni di tale decisione da me più volte richieste. Io potevo tranquillamente stare zitto e prendermi i soldi della Asl pur non avendo pazienti ma ho creduto fosse mio dovere denunciare la cosa. Il presidente della Corte dei Conti, Luigi Giampaolino , fa appelli per incentivare la collaborazione dei cittadini per agevolare l’operato della magistratura contabile ma, alla luce di quello che mi è successo, mi sembra che tale collaborazione non serva a nulla”. Mentre anche la Procura ha archiviato la denuncia di Zambrelli (che ha fatto ricorso), ormai la struttura che rappresenta è ferma da anni “con motivazioni pretestuose addotte dalla Asl e dalla Regione, con conseguenti danni ingentissimi di ogni genere. Ma sono ancora fermamente intenzionato a far valere i miei diritti”.

 

 

Aiuti Ue, da Atene a Dublino montagna di soldi alle banche. Ai cittadini sacrifici

I fondi elargiti a Paesi europei in difficoltà come Irlanda, Grecia e Portogallo, un domani Spagna e poi, forse, Italia sono gravati da interessi tutt’altro che simbolici e concessi in cambio di giri di torchio sulle rispettive popolazioni. Ovunque la scusa del risanamento dei conti pubblici (spesso dissestati a causa dei soldi spesi per salvare le banche) è stata utilizzata per sdoganare l’opera di smantellamento dello Stato sociale e di mortificazione dei redditi da lavoro

di Mauro Del Corno

Ci vuole un certo coraggio a chiamarli aiuti. I fondi elargiti a Paesi europei in difficoltà come Irlanda, Grecia e Portogallo, un domani Spagna e poi, forse, Italia sono infatti gravati da interessi tutt’altro che simbolici e concessi in cambio di giri di torchio sulle rispettive popolazioni. Ovunque la scusa del risanamento dei conti pubblici (spesso dissestati a causa dei soldi spesi per salvare le banche ) è stata utilizzata per sdoganare l’opera di smantellamento dello Stato sociale e di mortificazione dei redditi da lavoro. Un approccio che, oltre a non aver sinora sortito nessun risultato positivo per l’economia, appare ancora più stridente se confrontato con il trattamento riservato alle banche. Per loro i prestiti elargiti da Banca centrale europea e Unione europea a costi irrisori e senza nessun vincolo di utilizzo. Giusto qualche blanda raccomandazione ‘pro forma’ e via. Finanziamenti che arrivano dopo che i singoli Stati del Vecchio Continente hanno messo in campo la bellezza di 2.300 miliardi di euro per riparare le falle dei loro sistemi bancari. Questa la situazione attuale dei Paesi che hanno chiesto e ottenuto fondi di sostegno.

PORTOGALLO. Lisbona ha ricevuto dalla famigerata Troika (Fondo Monetario Internazionale, Banca Centrale Europea, Unione Europea) un prestito da circa 80 miliardi di euro a un tasso del 4% annuo. In base ai calcoli del ministero delle Finanze alla fine i portoghesi pagheranno 35 miliardi di euro in interessi, più o meno 3.500 euro a testa. Ma non finisce qui perché i fondi sono arrivati in cambio di un progressivo indebolimento del welfare e di una decisa compressione del costo del lavoro. Secondo gli accordi la spesa pubblica dovrebbe venire quasi dimezzata in quattro anni. I fondi per farmaci e assistenza ospedaliera sono già stati decurtati per quasi un miliardo di euro. Sul fronte lavoro gli stipendi sono scesa in media del 7% e i lavoratori sono stati obbligati a sottoscrivere un’assicurazione contro la disoccupazione. Mentre la popolazione è sottoposta a questa cura lacrime e sangue le banche portoghesi hanno preso a prestito dalla Banca Centrale Europea circa 50 miliardi di euro (non esistono dati ufficiali ma solo stime) nell’ambito del programma di iniezione di liquidità (LTRO) varato da Mario Draghi tra fine 2011 e inizio 2012. Come per tutte la banche che hanno usufruito dei fondi il tasso è fissato all’ 1% e non esistono vincoli all’utilizzo.

IRLANDA. Le cifre sono simili a quelle del Portogallo e il gioco è sempre lo stesso, alle banche viene dato tanto in cambio di quasi niente , alla popolazione poco in cambio di quasi tutto. Dublino fu costretta a chiedere aiuto perché il Governo decise di farsi garante di tutte le perdite del sistema bancario nazionale, i cui conti apparivano devastati dopo lo scoppio della bolla immobiliare, portando così il suo debito dal 25 all’80% del Pil in soli tre anni. Arrivò così un assegno di 85 miliardi di euro a firma Fmi ed Unione europea. Come per i portoghesi gli interesse che gli irlandesi dovranno pagare attraverso le tasse è di circa il 4% (varia a seconda delle scadenze delle diverse tranches) e come accompagnamento c’è da trangugiare il solito cocktail indigesto di misure su welfare e lavoro. Da qui al 2014 la spesa per sanità, scuole, assistenza verrà ridimensionata del 13%, gli stipendi pubblici sono già stati ridotti del 20% mentre sul salario minimo, che riguarda tutti, è arrivata una sforbiciata dell’11 per cento. E ancora aumento dell’Iva, delle imposte sui redditi, delle tasse universitarie con l’obiettivo finale di garantirsi un maggior gettito fiscale di 5 mld di euro l’anno. Vengono invece risparmiate le aziende che conservano la tassazione super favorevole del 12,5% sui loro profitti. E le banche? Anche quelle irlandesi hanno approfittato ampiamente della maxi offerta Bce. Nei loro forzieri sono arrivati quasi 80 miliardi di euro con il solito tasso dell’1% e assoluta libertà di impiego.

GRECIA. Per il malato più grave il ‘successo’ della cura dell’austerità a firma Bce, Fmi, Ue è sotto gli occhi di tutti: Pil a meno 5%, conti pubblici che continuano a deteriorarsi, disoccupazione passata dal 17 al 25% in un anno. Finora a favore di Atene sono stati stanziati prestiti per un valore che si avvicina ai 240 miliardi di euro , in parte già corrisposti in parte programmati per il prossimo anno con tassi di interesse che oscillano tra il 3,5 e il 4% (solo dalla prima tranches la Germania ha già incassato 400 milioni di euro in interessi). La lista dei sacrifici imposti alla popolazione si allunga di giorno in giorno e comprende misure che ormai sfiorano il grottesco. Anche qui gli ingredienti base sono tagli a sanità, assistenza, spesa sociale e ghigliottina sugli stipendi: – 25% quelli pubblici, – 15% quelli privati e salario minimo ridotto del 22%. Più complessa la situazione del settore bancario che non partecipa all’abbuffata di fondi LTRO ma che prende ossigeno dal programma Emergency liquidity assistance sempre made in Francoforte, ma con condizioni un po’ più severe.

SPAGNA. Alle banche iberiche non sono bastati i circa 300 miliardi presi in prestito dalla Bce all’1 per cento. Hanno avuto bisogno di altri 100 miliardi di euro elargiti a condizioni un poco più onerose attraverso il fondo “Salva Stati”(il virgolettato è d’obbligo) per rafforzare il loro capitale. Visti i precedenti è comprensibile che il governo Rajoy stia facendo di tutto per evitare un intervento a sostegno del sistema paese che arriverebbe sotto forma di acquisti di titoli pubblici da parte della Bce subordinato all’accettazione di una serie di impegni. Come accaduto per Grecia, Irlanda e Portogallo il ricorso al soccorso esterno vorrebbe dire sottoporsi definitivamente ai diktat di Bruxelles e Francoforte . Madrid ha comunque già una mano legata essendosi impegnata con l’Unione Europea a ridurre il deficit pubblico esploso negli ultimi anni. E così negli ultimi due anni sono arrivate nuove tasse, tagli alla spesa pubblica per quasi 30 miliardi di euro, riduzione del numero dei dipendenti pubblici e dei loro stipendi , riforma del mercato del lavoro nell’ottica di una maggiore flessibilità. E pensare che potrebbe essere solo un antipasto e che un destino non molto diverso potrebbe riguardare anche noi . Le avvisaglie non mancano.

 

Alitalia, 4200 dipendenti a casa. E la compagnia annuncia altri mille esuberi

Nel 2008 erano già stati fatti fuori dal “Piano Fenice”, ma con la promessa di essere riassorbiti o accompagnati alla pensione. Ma quanto era stato promesso non si è avverato: da oggi sono mobilità. E col nuovo piano del Cai sono in arrivo altri tagli

di Gabriele Paglino

“Volo di solo andata”. E’ questa la dicitura sul fac-simile di una carta d’imbarco che, venerdì scorso, durante un sit-in sotto al ministero del Lavoro , gli ex lavoratori di Alitalia esponevano agli obiettivi di fotografi e cameraman. Sono 4200 tra piloti, assistenti di volo, addetti al check-in e al carico e scarico bagagli (il cosiddetto handling ) per i quali “il rapporto di lavoro (con la ex compagnia di bandiera, ndr ) – si legge nella lettera inviata il 30 settembre 2011, dai tre commissari straordinari succeduti ad Augusto Fantozzi – è da intendersi risolto alla data del 13 ottobre 2012”. Per loro dunque scattano adesso le procedure di mobilità: il preludio al licenziamento. “Il lavoratore – si legge sul sito alitaliaamministrazionestraordinaria.it – dovrà inoltrare la domanda all’ Inps entro il termine perentorio di 68 giorni”. Nessuno (o quasi), tra coloro che nel 2008 vennero esclusi dalla nuova compagnia ( Cai ), messa in piedi dalla cordata di imprenditori italiani guidata da Roberto Colaninno , poteva immaginarsi una fine simile.

“Le promesse che avevano fatto a noi e al Governo – racconta Luisa, una hostess assunta da Alitalia nel ’94 – erano altre”. Ovvero cassa integrazione per qualche anno e poi tutti (o quasi) riassorbiti. “Il rapporto di lavoro – riportava la prima lettera, arrivata loro quattro anni fa – resta sospeso”. Coloro che invece avevano maturato molti più anni di servizio sarebbero stati accompagnati, con i sette anni totali di ammortizzatori sociali – 4 di cassa integrazione, più altri 3 di mobilità –, alla pensione minima. Niente di tutto questo, perché per reclutare personale aggiuntivo, anziché attingere dalle liste dei cassintegrati, Cai – in netto contrasto con gli accordi siglati a Palazzo Chigi nell’ottobre del 2008 – ha assunto nuovi lavoratori, per poi mandarli, dopo poco tempo, in cassa integrazione (anche loro). Pochi mesi e sono iniziate le nuove assunzioni di altro personale precario ex novo. Talvolta anche previo corso di formazione pagato di tasca propria dai candidati. Ed intanto i cassaintegrati Alitalia sono rimasti ad aspettare. “Sono meno di un terzo, tra i quasi sei mila lavoratori tagliati nel 2008, quelli che sono stati reintegrati”, ricorda Fabio Frati, sindacalista della Cub Trasporti e anche lui nella lista dei licenziati.

Storia diversa ma stesso finale drammatico per coloro che, quando l’allora a.d. di Intesa Sanpaolo, Corrado Passera , mise appunto il “piano Fenice” – per far risorgere Alitalia dalle sue ceneri –, stavano per raggiungere l’agognata pensione: la nuova riforma delle pensioni, targata Fornero , “ci ha spostato la linea del traguardo di sette anni in avanti – prosegue Frati – E sperare che qualcuno assuma un ultracinquantenne (seppur altamente specializzato, ndr ) è inverosimile”. Già perché poi, per ciò che ad esempio riguarda i piloti, “dopo alcuni mesi di inattività – spiega uno degli oltre 800 comandanti lasciati a casa – nonostante continuiamo a spendere più di mille euro all’anno per rinnovare il nostro brevetto con i simulatori, nessuna compagnia al mondo potrebbe assumerci, visto che non abbiamo più la cosiddetta currency, cioè l’attività costante. E riciclarsi a cinquantaquattro anni è impossibile”.

Anche loro esodati, e costretti a coprire un “buco” contributivo più o meno grande. Intanto la nuova Alitalia Cai continua a perdere utili, allontanando di anno in anno l’annunciato pareggio di bilancio: nel primo semestre 2012 ha registrato una perdita netta di 201 milioni di euro. E la (quasi) automatica conseguenza non può non essere il taglio di altri posti di lavoro. Martedì prossimo l’azienda illustrerà ai sindacati il nuovo piano industriale. In quell’occasione, secondo quanto già lasciato intendere nei mesi scorsi dai vertici della stessa compagnia, potrebbe essere annunciata l’apertura di una nuova procedura di cassa integrazione per almeno mille lavoratori, di quasi tutti i settori. Che andrebbero così ad aggiungersi a quei 700 dipendenti Cai, in cigs da marzo 2011, e ai 76 lavoratori della Argol . Il progetto di rilancio della compagnia di bandiera italiana “è stato un fallimento”, continuavano a ripetere dal presidio sotto al ministero del Lavoro alcuni di quei 4.200 ex (dal 14 ottobre a tutti gli effetti) lavoratori Alitalia, mentre protestavano contro l’altro dicastero che sta proprio di fronte: quello dello Sviluppo Economico , presieduto dall’artefice del “piano Fenice”.

 

Quanto spende la "Regina". Ma agli atleti solo le briciole

ROMA — Impianti a pezzi, società fantasma e auto blu. Gli sprechi e i "metodi" elettivi, si annidano nei colossi dello sport, come la Regina atletica, ma anche nelle piccole.

Atletica leggera. Impianti a pezzi, borse di studio mal distribuite e il rebus dei corpi sportivi militari. La federazione italiana di atletica leggera, dopo Figc e Fin, è tra quelle che percepisce più finanziamenti dal Coni. Nel 2011 ha ricevuto 9,1 milioni, nel 2012 a budget ne ha 8,2, di cui oltre 2 milioni (un quarto) sono assorbiti dalle spese per i 71 dipendenti. Negli ultimi quattro anni le spese di funzionamento sono lievitate passando dal 14% del 2009 al 19,24% del 2012 (fonte: passioneatletica. it) mentre quelle per le attività tecniche sono diminuite dal 17% del 2009 al 15, quelle per le attività organizzative dal 19,8% all’11,7, senza parlare di quelle alla voce “ presidenza” passate dal 4,5% del 2009 all’8,4 di quest’
anno. La Fidal centrale pesa per il 72,4% sui conti della Regina Atletica. A scapito dei comitati regionali, quelli che curano direttamente l’attività sportiva sul territorio, la cui incidenza è scesa dal 31,6% al 27,6. Stupiscono inoltre quei quasi 3 milioni di euro spesi nel 2011 per la preparazione olimpica e di alto livello. Una cifra esosa, considerando che gli atleti andati poi alle Olimpiadi sono stati 37. Tra l’altro due di loro, l'ostacolista Marzia Caravelli e la velocista Giulia Arcioni, si allenano in strutture in condizioni disastrose, come il Paolo Rosi di Roma. Vengono allenati da tecnici che dalla federazione non prendono un euro. Lo stesso ostacolista e primatista italiano dei 110 hs, il ligure Emanuele Abate, viene allenato dal suo tecnico di sempre Pietro Astengo, ora pensionato. Caravelli quest’anno ha ricevuto dalla Fidal per aver stabilito il nuovo record italiano sui 100 ostacoli la “ bellezza” di 5.000 euro. Non un borsa di studio né alcun sostegno economico, sebbene abbia registrato il minimo A per i Giochi. Infatti è in cerca di sponsor per continuare ad allenarsi. Un fatto che stride con la borsa di studio di 15mila euro a testa per gli staffettisti della 4x100 maschile, che inoltre già percepiscono uno stipendio dai corpi sportivi militari di cui fanno parte. C’è forse un nesso tra corpi sportivi militari, borse di studio e sostegni federali? Per il Paolo Rosi, la Fidal dice di aver stanziato 210 mila euro per rifare il pistino coperto. Peccato che sia stata solo ripristinata la struttura di copertura originaria (sostituendo solo l’ondulato di plastica e i portelloni laterali), lasciando intatto il vecchio pistino ormai ventennale. E la pista? È come correre sul cemento.

Danza sportiva. Poi ci sono le piccole federazioni come quella della danza sportiva, il cui presidente, Ferruccio Galvagno, è stato radiato per illecito sportivo (era a conoscenza di gare truccate e non lo ha denunciato). Galvagno percepiva, su delibera del consiglio federale, un “indennizzo” di 70/80 mila euro annui. Aveva acquistato anche una Mercedes classe R come auto blu, dal costo di 70/80mila euro. Dopo due anni di commissariamento con Luca Pancalli, ora il presidente è Christian Zamblera, 32 anni, ex presidente del comitato Lombardia. Alla vicepresidenza è rimasto Sergio Rotaris, già vice di Galvagno. Tra l’altro dovrebbe essere in corso un’inchiesta Coni per capire che fine hanno fatto 30mila euro che Galvagno non sarebbe stato in grado di giustificare.

Pugilato. Un ammanco di circa 1,3 milioni è invece stato verificato dalla Corte dei Conti nelle casse della federazione pugilato. Un bel buco se si considera che il budget federale ammonta a circa 4 milioni di euro, per l’80% provenienti dal Coni. Gli ammanchi, si legge sul documento della Corte dei Conti, sono dovuti a spese non autorizzate, furti e sottrazioni di denaro, che si vanno a sommare anche ad altre irregolarità, dai ritardi nella predisposizione di bilanci, all’uso di cellulari di servizio e consulenze illecite. Sulla questione è ancora in corso un procedimento penale.

Pallamano. Poi c’è il nodo delle società fantasma, sempre per la solita questione dei voti. Per inciso, le elezioni si terranno il 29 e 30 ottobre. Una questione pesante in una federazione come quella di pallamano (Figh), denunciata dall’atleta Oscar Marcon. "Perciò sono stato squalificato per due anni" dice Marcon. "I bilanci non sono mai stati pubblicati ma quello che si sa è che la federazione riceve dal Coni 2,3 milioni di euro di contributi. Però non è dato sapere come vengono spesi. Sul discorso società fantasma faccio un esempio: a Reggio Calabria secondo la federazione esistono 18 società under 14 aventi diritto, un numero enorme considerando le dimensioni della città. Per aver diritto di voto devono svolgere attività sportiva. Secondo il calendario tutti gli incontri di queste 18 società si fanno presso il palazzetto Botteghelle di Reggio. Ebbene, ho verificato che negli orari dell’incontro, il palazzetto era occupato da altre squadre di altre discipline. E quando queste società “ virtuali” dovevano incontrare quelle “reali”, il match veniva rinviato e poi cancellato. Non si disputava insomma. Tra Reggio Calabria, Marano (Napoli) e altre zone, il presidente può contare su una quarantina di voti sicuri".

Squash. Sul numero di società e iscritti gioca anche un’altra federazione, quella dello squash, che riceve dal Coni meno di un milione di euro di finanziamenti. Ebbene, l’organizzazione si può permettere ben due auto blu, due Bmw, una di proprietà e una in leasing. Tra l’altro, andando a guardare il numero dei tesserati si parla di 13mila iscritti e 205mila praticanti, ma poi guardando le classifiche dei tornei si contano circa un migliaio di tesserati. A Milano, culla, insieme a Bologna, dello squash, i campi si sono dimezzati negli ultimi 5 anni (da 20 sono scesi a una decina). "E tra le cose strane è che tra gli aventi diritti al voto, una quarantina di società in tutto, non ne figura nemmeno una milanese" dice un praticante. "Ma per aver diritto al voto basta avere dieci iscritti e un tecnico". Le elezioni si terranno il 27 ottobre e c’è un unico candidato, Siro Zanella, presidente da 15 anni (il segretario Davide Monti è in carica da 25 anni). Eppure possibili concorrenti c’erano. Si saranno arenati sulla burocrazia. Come è successo a Luca Cabassi che aveva formalmente richiesto alla federazione l’elenco delle società per poter avanzare la sua candidatura entro i termini previsti dal regolamento. Elenco che gli è stato negato e che è stato pubblicato pochi giorni prima dello scadere dei termini per candidarsi. Chi sarà il nuovo presidente della federazione squash?

12 ottobre

La mazzetta insostenibile

Nella primavera di quest'anno, il presidente del consiglio Mario Monti incontrava una serie di potenziali investitori stranieri per convincerli a guardare all'Italia come un paese nuovo, riformato, appetibile per gli investimenti esteri. Forte delle sue riforme appena approvate (pensioni) o presentate (lavoro), si sentì rispondere con vari apprezzamenti per il cammino intrapreso, ma con altrettanta franchezza riguardo i veri problemi che frenano chiunque, straniero o no, voglia investire nel nostro paese: malfunzionamento della pubblica amministrazione, illegalità diffusa, e soprattutto corruzione.
È stato stimato che il costo della corruzione nell'Unione europea si aggira intorno ai 120 miliardi di euro l'anno, cioè una cifra equivalente a tutto il budget dell'Ue.
Secondo la Corte dei Conti italiana la corruzione nel nostro paese ci costa 60 miliardi l'anno. Molteplici iniziative internazionali di contrasto alla corruzione, con accordi intergovernativi e convenzioni promosse da organismi internazionali, hanno affrontato il problema. Dal Gruppo di Stati contro la corruzione (Greco) promosso dal Consiglio d'Europa, alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione, allo specifico gruppo di lavoro dell'Ocse, tutti svolgono un lavoro di definizione degli standard più appropriati da usare come metro di valutazione per gli stati. Tuttavia l'applicazione di misure specifiche di contrasto alla corruzione rimane molto diseguale fra i vari paesi.
Per questo motivo la Commissione europea ha lanciato la sua iniziativa anti-corruzione, che svilupperà un sistema di sorveglianza e valutazione continua delle misure messe in atto dagli stati membri dell'Ue in quest'ambito. La Banca Mondiale pubblica da tempo una serie di indicatori di buon governo, che mirano a misurare i livelli di legalità, trasparenza, stabilità politica, ed efficienza della pubblica amministrazione. In tutti questi esercizi di misurazione della qualità del governo, l'Italia perde continuamente posizioni, da più di un decennio ormai.
L'importanza del contrasto alla corruzione, come fattore decisivo nell'applicazione delle politiche pubbliche, è ormai ampiamente riconosciuta. I primi studi quantitativi sulla nuova strategia di sviluppo dell'Unione europea «Europa 2020» dimostrano come le differenze fra gli stati membri, nella capacità di raggiungere gli obiettivi fissati dalla strategia, non dipendano tanto da differenze nei livelli di reddito, o di crescita, e nemmeno dalla sostenibilità delle finanze pubbliche. Ciò che realmente fa la differenza e spiega il diverso grado di successo è il livello di corruzione, qualunque sia l'indicatore scelto per misurarlo.
Ulteriori studi sull'efficacia degli investimenti realizzati a livello regionale attraverso i fondi strutturali europei suggeriscono che anche in questo caso i livelli di corruzione sono l'elemento che fa la differenza fra uno stesso programma correttamente realizzato e che genera risultati positivi e ritorni su un territorio, rispetto a casi di fallimento, che ben conosciamo, in altri territori. Queste analisi suggeriscono che la tradizionale e storica diatriba fra economisti keynesiani e monetaristi, riguardo il famoso moltiplicatore della spesa pubblica, la capacità cioè degli investimenti pubblici di restituire un valore maggiore (secondo i keynesiani) o minore (secondo i monetaristi) rispetto all'investimento iniziale, possa essere risolta guardando alla qualità del sistema di governo che canalizza tali investimenti, piuttosto che alla decisione in sé di aumentare o diminuire la spesa pubblica.
Il livello di legalità, il funzionamento efficace ed efficiente della pubblica amministrazione, il contrasto alla corruzione sono i veri fattori critici di successo per lo sviluppo economico. Essi determinano la qualità dei canali attraverso cui passa la spesa pubblica, sono l'infrastruttura principale sulla quale si appoggiano le politiche pubbliche.
Oggi è piuttosto in voga parlare di governance, di good governance, ma già nel XIV secolo un italiano, Ambrogio Lorenzetti, raffigurava l'Allegoria ed Effetti del Buono e del Cattivo Governo nel Palazzo Pubblico di Siena per ispirare il comportamento dei governatori della città. Sette secoli più tardi l'Italia è uno dei paesi più corrotti del mondo occidentale, secondo tutti gli indicatori internazionali.
Può un paese in queste condizioni permettersi di non avere ancora regole serie ed efficaci di contrasto alla corruzione? Possiamo permetterci il lusso di non dotarci di una legge anti-corruzione, con una proposta di compromesso, timida e annacquata?

 

La legge di stabilità 2013 stabilizza solo le disuguaglianze

Tagli alla sanità, agli enti locali, al welfare: per Sbilanciamoci! è una manovra insostenibile, un'altra batosta per i cittadini. I tagli di 1 miliardo di euro alla sanità, di 1 miliardo agli enti locali, il blocco dei contratti per gli statali e l'aumento dell'IVA di 1 punto percentuale produrranno ulteriori e pesanti difficoltà economiche per la gran parte dei cittadini

La diminuizione di un punto delle aliquote Irpef per i due scaglioni più bassi di reddito (dal 23 al 22% e dal 27% al 26%) è ampiamente controbilanciata dall'aumento dell'IVA e dall'introduzione di un tetto massimo di 3mila euro per le deduzioni e le detrazioni sulla dichiarazione Irpef: complessivamente la gran parte della platea dei contribuenti subirà una riduzione del reddito disponibile. L'aumento dell'IVA produce oltretutto un effetto depressivo sui consumi e sull'economia: in particolare l'aumento dal 10 all'11% colpisce servizi e beni come quelli del turismo, di alcuni generi alimentari, delle ristrutturazioni edilizie.

Particolarmente odiose – secondo Sbilanciamoci! – sono le misure che riguardano la riduzione dei fondi alla sanità pubblica che significherà meno servizi e maggiore ricorso alle strutture private e la riduzione del 50% della retribuzione dei giorni di permesso usufruiti dai lavoratori per assistere i familiari disabili. Palesemente insufficienti sono le misure a favore degli esodati (solo 100 milioni) e soldi sprecati sono i 160 milioni di finanziamento per la Torino-Lione. Più positive sono invece le misure – per il momento solo promesse – di realizzazione della Tobin Tax ed il maggiore stanziamento per il trasporto pubblico locale.

Non ci sono misure per la crescita e per l'equità (nè patrimoniale, nè maggiore imposizione fiscale per lo scaglione più alto dell'Irpef). Non ci sono le riduzioni della spesa militare (anzi 58 milioni vengono stanziati per il quartier generale della Nato) e ci sono invece ulteriori alienazioni del demanio pubblico e la decisione di lasciare le città al buio.

Per Sbilanciamoci! si tratta di una manovra iniqua e depressiva che, in ossequio alle politiche di austerity, continua ad impoverire il paese e a farlo sprofondare in una crisi economica. L’Italia avrebbe bisogno di altre politiche, quelle che il governo Monti non sta facendo e che Sbilanciamoci! ripropone: politiche espansive e non recessive, redistributive e non di tagli lineari, di sviluppo e di intervento pubblico e non di gestione dell'esistente.

La riproduzione di quest'articolo è autorizzata a condizione che sia citata la fonte: www.sbilanciamoci.info

 

Plinio Seniore, prof e personale Ata entrano lasciando le impronte digitali

Il nuovo anno scolastico è iniziato con una novità per insegnanti e dipendenti del liceo scientifico romano: per entrare e uscire devono mettere i polpastrelli su un apposito lettore. La Flc Cgil: "Meccanismo autoritario. Nessuna certezza della privacy nel trattamento dei dati sensibili"

Occorrono le impronte digitali per entrare a scuola. Niente badge o cartellino, gli insegnanti e il personale Ata del liceo scientifico Plinio Seniore, da quest'anno devono usare i loro polpastrelli per segnalare l'entrata o l'uscita dalle mura dello storico istituto della capitale, a due passi da Castro Pretorio. Dura la reazione della Flc Cgil Roma Centro-Ovest-Litoranea, che definisce la novità "incredibile e grottesca".

"Senza una delibera discussa nel Consiglio d'istituto, senza un'informativa ufficiale, il dirigente ha convocato individualmente gli insegnanti e il personale Ata chiedendo loro di rilasciare le impronte digitali affinché i suddetti macchinari, dotati di un sistema di lettura di questi dati sensibili, potessero svolgere il compito di certificare l'entrata e l'uscita dei lavoratori dalla giornata di servizio - tuona il sindacato - La notizia della convocazione e di questa assurda scelta ci ha sconcertato poiché non è certo con questo meccanismo autoritario che si permette alla scuola di funzionare adeguatamente. Denunciamo l'inammissibilità di questa scelta che lede l'art.4 della legge 300/70 sull'istallazione degli impianti audio-visivi nei luoghi di lavoro e non permette di avere la certezza della privacy nel trattamento dei dati sensibili".

La Flc Cgil, assicura che "solo dopo gli interventi degli ispettori del lavoro, i dispositivi verranno rimossi nel giro di qualche giorno" e punta il dito contro "l'involuzione dirigista e autoritaria nella scuola",

che "negli ultimi anni ha portato in taluni casi a scelte di questo tipo, incompatibili con il giusto rapporto tra lavoratore e datore di lavoro e lesivi delle norme sul diritto al lavoro e alla privacy".

 

11 ottobre

 

Vaccinazioni sbagliate e fatte male dietro i tumori dei soldati italiani

Di Vittoria Iacovella

La commissione uranio ha trovato una nuova probabile causa dell'elevato numero di neoplasie registrate tra i nostri militari. L'audizione di un giovane caporal maggiore gravemente malato davanti ai senatori commossi. L'esperto: "Non sono sbagliati i protocolli, ma le modalità, i tempi e i controlli sulle somministrazioni". Dati impressionanti, ma l'esercito non riconosce il nesso causale

ROMA - Il caporal maggiore Erasmo Savino ha 31 anni, ha un cancro in fase avanzata, ma il 3 ottobre scorso si è alzato dal letto e non ha fatto la chemioterapia. Occhiaie profonde e fasciatura al braccio. E' seduto davanti al computer, emozionato e teso, collegato in videoconferenza col Senato della Repubblica. Col suo accento campano racconta alla Commissione parlamentare d'inchiesta per l'uranio impoverito di aver lavorato per 13 anni come maggiore dell'esercito. Spiega che adesso lotta contro un tumore maligno e afferma di averlo sviluppato a causa di un mix di vaccini fatti in poco tempo seguiti dall'esposizione all'uranio impoverito in Kosovo.

Parla lentamente per non sbagliare nessun dettaglio, accompagnato da un foglio scritto. Poi, davanti alle domande dei senatori, si lascia andare a una testimonianza più personale e drammatica: "Forse sono arrivato alla fine della mia vita... Certo sono un soldato, continuo a combattere, ma sono stato abbandonato dallo Stato". L'aula è ammutolita alcuni senatori sono visibilmente commossi. L'avvocato di Savino, Giorgio Carta, descrive le motivazioni scientifiche che portano a ritenere che ci sia collegamento tra i vaccini cui è stato sottoposto il giovane e il cancro che l'ha colpito. Non è il solo, molti sono già scomparsi, altri giacciono in un letto. Tutti giovani. Centinaia almeno, ma non è possibile avere dati certi... Anche perché, per il Ministero della Difesa questi casi non esistono, non sono collegati al lavoro.

Attorno al tavolo della commissione volti tirati e occhi lucidi. Il Senatore Giacinto Russo afferra il cellulare, scrive un sms al figlio militare che si trova in Afghanistan chiedendogli se anche lui ha fatto tutti quei vaccini in poco tempo. Arriva la risposta, il Senatore si porta le mani al viso. La risposta è un "sì". La seduta continua in apnea, si parla di un Paese in cui si è costretti a scegliere tra salute e lavoro, qualcuno dice "come a Taranto". Questi ragazzi sono precari, negare il consenso ai vaccini significa smettere di lavorare. Il senatore Gian Piero Scanu non riesce a finire il suo intervento, gli manca la voce, si piega su se stesso commosso.

Insomma, la commissione sull'uranio, dopo anni di stasi, ora ha trovato una nuova importante traccia da battere e gli studi scientifici in merito sembrano parlare chiaro. Sarebbero i vaccini numerosi, ripetuti, spesso fatti senza rispettare i protocolli, a indebolire ragazzi sanissimi, a tal punto da aprire la porta a malattie molto gravi, specialmente nel momento in cui vengono esposti a materiali tossici o sostanze inquinanti che possono essere l'uranio impoverito ma anche la diossina, le esalazioni di una discarica o agenti chimici fuoriusciti da una fabbrica.

L'85 per cento dei militari ammalati non è mai stato all'estero. Il problema è che non serve arrivare in Kosovo: la stessa Italia con tutti i suoi veleni rappresenta un pericolo mortale per chi ha un sistema immunitario impazzito a causa dei vaccini. Come accadde a Francesco Rinaldelli, alpino di 26 anni mandato a Porto Marghera e poi morto di tumore. Qualche numero negli anni però è venuto fuori.

Nel 2007, il Ministro della Difesa Arturo Parisi, riferì alla Commissione: "I militari che hanno contratto malattie tumorali, che risultano essere stati impiegati all'estero nel periodo 1996-2006 sono 255. Quelli che si sono ammalati pur non avendo partecipato a missioni internazionali sono 1427". Nel 2012 Il Colonnello Biselli, dell'Osservatorio epidemiologico della difesa, diede cifre raddoppiate: 698 malati che erano stati inviati all'estero e 3063 che avevano lavorato in Italia, 479 erano deceduti.

Lo Stato non riconosce quasi mai, però, a chi ha indossato la divisa, il riconoscimento né il risarcimento per le malattie contratte. Spesso viene negato che si tratti di cause di servizio. Così è in atto quasi una guerra fra vittime, tra chi vorrebbe essere risarcito per il danno da uranio impoverito e chi per quello causato da vaccini. "Al Ministero della Difesa conviene sostenere la causa dell'uranio impoverito perché questo è stato usato dall'esercito statunitense, non da quello italiano, quindi i nostri vertici non ne avrebbero colpa, mentre, ammettere che i danni derivano dalle modalità con cui vengono vaccinati i militari, significherebbe riconoscere una colpa interna, senza contare poi gli interessi milionari delle cause farmaceutiche" sostiene Santa Passaniti, madre di Francesco Finessi morto dopo essersi ammalato di linfoma di Hodgkin. Aveva ricevuto una dose tripla di Neotyf, un vaccino anti-tifo che poco dopo fu ritirato dal commercio. In molte schede dei militari ammalati si trovano vaccinazioni a brevissima distanza (anche nello stesso giorno) per la stessa malattia o somministrazione di preparati poi ritirati dal commercio. Non solo, secondo i parenti di vittime come Francesco Finessi, David Gomiero e Francesco Rinaldelli, i libretti vaccinali dei loro ragazzi, ottenuti dopo lunghe insistenze, riporterebbero anche visite mediche mai effettuate.

"Questo accade perché si cerca di far tutto velocemente - spiega Andrea Rinaldelli, padre di Francesco, morto nel 2008 - ad esempio, se devono partire per una missione 600 militari, seguire i protocolli e fare lo screening di tutti sarebbe difficile. Magari in base a un'attenta analisi 100 finirebbero per non partire". Così in alcuni distretti, fortunatamente non in tutti, i militari vengono vaccinati in serie quasi senza nessun controllo, senza andare troppo per il sottile: "Sono come prodotti di una catena di montaggio: stessa procedura per tutti e se qualcuno esce ammaccato, basta buttarlo via".

Il Ministero della Difesa sostiene da sempre di rispettare tutte le cautele necessarie, e che i ragazzi si sono ammalati per cause estranee al lavoro. Alle nostre domande, nessuno risponde, ci invitano a metterle per iscritto, ma ci fanno capire che ci vorranno mesi per avere una risposta. Un esame di coscienza però qualcuno se lo sarà fatto, se il protocollo vaccinazioni del 2003 era di appena tre pagine e quello del 2008 è arrivato a più di 200 e se alcuni documenti riservati trapelati, contengono la lista completa dei casi di militari ammalati dopo pratiche poco chiare di vaccinazioni.

"Il protocollo è scientificamente inattaccabile - sostiene il Prof di oncologia Franco Nobile considerato fra i massimi luminari della materia - il problema è che non viene rispettato. Per praticità e velocità si fanno vaccinazioni a tappeto uguali per tutti, senza controllare se qualcuno l'ha già fatta, se qualcun'altro non è in perfette condizioni di salute o ha ricevuto altre vaccinazioni pochi giorni prima. C'è superficialità, poca cura, non vengono considerate le conseguenze, spesso sono gli infermieri e non i medici a fare i vaccini".

I genitori di molte vittime, come Francesco Rinardelli, dimostrano che i figli erano stati vaccinati senza anamnesi, come sempre accade, ovvero senza indagare correttamente sul loro stato di salute, senza sapere se erano già immuni ad alcune malattie o domandarsi se fosse realmente necessario un vaccino in più. Sui loro libretti vaccinali sarebbero segnate visite mediche mai effettuate.

L'avvocato Giorgio Carta difende molti militari colpiti da tumore per esposizione a uranio o vaccini e sostiene: "la ricerca della verità è resa difficile da numerosi fattori e dalla scarsa trasparenza, inoltre i medici sono ufficiali, quindi superiori gerarchici, che non impartiscono cure, ma ordini militari ai sottoposti". Rifiutarsi o fare troppe domande non è consentito. Si rischiano sanzioni disciplinari e addirittura il carcere, come nel caso del Maresciallo dell'aereonautica Luigi Sanna che ha chiesto di rinviare i vaccini a quando avrebbe avuto risposte a una serie di domande sulla loro sicurezza e necessità.

A chi indossa la divisa non resta che sperare di essere fortunati, trovarsi davanti a un medico attento a rispettare i protocolli oppure che il mix di fretta, vaccini e sostanze ambientali tossiche, armi e prodotti chimici non abbia le conseguenze temute. Una roulette russa in cui si vince un lavoro o si perde la vita.

 

Il Pil decollerà assieme agli F35

Di Roberta Carlini

Cacciabombardieri, corazzate, bombe, munizioni. Tutte le armi distruttive vengono spostate nella contabilità del Pil, da un capitolo all'altro: e nel passaggio, acquistano valore. Così sale il Pil dei paesi più armati. Parola di Eurostat

Metti un turbo nel Pil. Le nuove direttive statistiche internazionali, con l'aggiornamento dei manuali a cui si attengono i sistemi nazionali di statistica in tutto il mondo, porteranno dal 2014 una sorpresa, cambiando i metodi di contabilizzazione delle spese militari. A essere "premiati", con un salto in avanti del prodotto interno lordo, saranno soprattutto i paesi con maggior produzione di armamenti di tipo puramente offensivo; cioè quelle armi che si distruggono nel loro uso bellico, non appena raggiungono l'obiettivo per cui sono state costruite: ammazzare e distruggere.

Non che finora le armi siano state messe fuori dal Pil. Come denunciava Robert Kennedy nel celebre discorso del '68 all'università del Kansas, sull'inadeguatezza di un indice che "misura tutto, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta", il Pil cresce anche "con la produzione di napalm, missili e testate nucleari". Solo che adesso si assisterà a un salto di qualità nella misurazione dei sistemi d'arma.

Tutto parte dall'aggiornamento del manuale di contabilità nazionale (sistema europeo dei conti SEC95), che entrerà in vigore nei paesi dell'Unione Europea dal 2014 (1): lì ci sono tutte le indicazioni sui nuovi metodi statistici di contabilizzazione delle grandezze economiche e finanziarie di ogni paese. Regole e metodi su cui si basa tutto il sistema europeo dei conti, e ai cui risultati fanno poi riferimento i governi, le politiche di convergenza, i giudizi degli analisti, la verifica degli obiettivi dei trattati europei (da Maastricht al fiscal compact).

Una delle novità riguarda proprio le spese militari. Novità metodologiche, ma con effetit sostanziali importanti. Attualmente, le spese militari sono considerate in modi diversi nella contabilità nazionale a seconda che siano passibili anche di un utilizzo civile (per esempio, una portaerei), oppure destinate a scopi esclusivamente distruttivi (per es., un missile). In questo secondo caso, non vanno ad arricchire il capitale di un paese, ma vengono classificate tra i "consumi intermedi". Con i nuovi metodi invece, tutti gli acquisti di sistemi d'arma e dei relativi sistemi di supporto, purché utilizzati per un periodo superiore a un anno, saranno contabilizzati come investimenti in beni durevoli; anche le munizioni, le bombe e i pezzi di ricambio vengono spostati dai consumi intermedi per essere collocate fra le scorte.

Lo spostamento da un capitolo all'altro non è di poco conto. Evidente la sua implicazione simbolica e politica: i sistemi d'arma sono capitale fisso, che a tutti gli effetti contribuisce alla ricchezza e al benessere di un paese. Il che ha una immediata traduzione concreta: chi spende di più in armi, ad esempio per una guerra, aumenta la propria ricchezza e aumenta il volume di prodotto interno lordo. Con l'entrata in vigore dei nuovi criteri contabili, aumenteranno gli aggregati di capitale fisso dei vari paesi, e con essi cambierà il prodotto interno lordo. Il tutto, con l'aggiunta di una clausola di riservatezza dei dati: quelli militari saranno divulgati solo come valori aggregati - con scarso o nullo beneficio, dunque, per la comunità scientifica.

A beneficiare dei nuovi manuali di contabilità nazionale, saranno soprattutto i paesi con maggior spesa militare: Stati Uniti, Russia, Cina. Ma il premio statistico a uno sviluppo weapon based avrà importanti ripercussioni sull'Europa martoriata dalla speculazione sui debiti sovrani e sullo spread: la revisione statistica migliorerà come d'incanto, i conti di molti paesi. Eurostat sottolinea come l'impatto positivo delle armi distruttive sul Pil, in seguito alla revisione, cambi di molto da paese a paese con una media di mezzo punto di Pil. Per l'Italia, si tratterebbe di un aumento "contabile" del Pil di 800 milioni di euro.

Stima anche troppo prudente, secondo l'istituto nazionale di statistica olandese Cbs, che giunge a valutare un impatto positivo sul Pil olandese, dovuto al cambiamento di contabilizzazione, compreso fra i 725 e gli 826 milioni di euro. Per l'Italia - che ha una spesa militare pari al triplo di quella olandese, e un Pil del 30% superiore - non è ancora disponibile alcuna stima ufficiale: ma un confronto anche grossolano con i numeri forniti dal Cbs fa capire che la posta in gioco, in termini di revisione del Pil, è abbastanza alta.

E crescerebbe ancora se dovesse passare, negli accordi europei, la proposta da molte parti avanzata in passato di escludere dal rapporto debito/Pil le spese per investimenti pubblici: se le spese pubbliche in armamenti distruttivi vengono considerate investimenti, e per di più esclusi dalle tagliole di Maastricht, i ministeri della difesa europei avranno buon gioco a trovare la copertura finanziaria per i loro sistemi d'arma.

Anche se la revisione dei conti scatterà in Europa nel 2014, i vari istituti di statistica si sono già attrezzati per soddisfare tutti i nuovi requisiti dei manuali contabili. Dunque, è più che probabile che tra poco più di un anno assisteremo al doppio decollo dei chiacchierati cacciabombardieri F35 assieme a quello di un Pil inflazionato dalla spesa militare. Se qualcuno non si muoverà prima, magari tirando fuori dagli archivi il Bob Kennedy del 1968.

(1) Il sistema europeo dei conti, versione europea del manuale SNA 1993 dell'Ufficio di Statistica delle Nazioni Unite, stabilisce le regole per costruire gli aggregati macroeconomici su cui si concentra l'analisi economica e le politiche dei governi come le politiche di convergenza, la verifica degli obiettivi di Maastricht e la valutazione delle leggi finanziarie. Il processo di revisione dello SNA 1993, iniziato nel 2003 dall'Ufficio di Statistica delle Nazioni Unite è stato coordinato da un gruppo di lavoro di cui fanno parte Eurostat, Ocse, Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, supportato da un comitato di esperti nazionali AEG ( Advisory Expert Group ), che ne ha prodotto la versione 2010 divenuta il riferimento per la successiva revisione del sistema europeo dei conti.

La riproduzione di quest'articolo è autorizzata a condizione che sia citata la fonte: www.sbilanciamoci.info

 

9 ottobre

Confindustria, ecco i conti segreti

Ilfattoquotidiano.it è entrato in possesso del bilancio che il sindacato padronale tradizionalmente non pubblica. E ha scoperto che mancano all'appello l'8% delle quote associative, con un tasso di morosità dei soci cresciuto in un anno del 57%. Mentre le perdite di tre controllate su sei erodono il patrimonio

di Gaia Scacciavillani

Confindustria predica bene, ma razzola maluccio. Gli scarni dati sulla confederazione trapelati a fatica sulla stampa e il riservatissimo bilancio dell’associazione alla guida del mostro a 262 teste che costituisce l’intera struttura, che il Fattoquotidiano.it ha potuto visionare, parlano chiaro. E contraddicono in molti punti battaglie e affermazioni di ieri e di oggi della lobby degli imprenditori italiani. Che non a caso nell’ultimo anno ha perso parecchi pezzi, non solo la Fiat: il Lingotto voleva avere mano libera sui contratti dei metalmeccanici, ma ha parlato anche di eccessiva politicizzazione dell’associazione. Ci sono state anche le uscite delle Cartiere Paolo Pigna , dei Tessili di Prato , della Giordano Riello e di Nero Giardini , per citare solo alcuni esempi.

PIU’ TASSE E MENO AIUTI.
“Stiamo morendo di tasse”, è stato il grido disperato lanciato sabato 29 settembre dal presidente Giorgio Squinzi che pochi giorni dopo è tornato alla carica sulla questione del carico fiscale sul lavoro. “L’obiettivo di ridurre il costo del lavoro è una delle cose in cui dobbiamo intervenire, anche per dare un segnale. E, visto anche il modesto ammontare degli incentivi, per le imprese non è un problema rinunciarci”, ha detto Mr Vinavil da Bruxelles il 2 ottobre
Chissà se negli incentivi è implicitamente inclusa anche la quarantina di milioni annui che secondo L’Espresso arrivano complessivamente alla confederazione dalle aziende di Stato associate, che come tutti i soci (secondo i dati ufficiali 149.288 per un totale di 5.516.975 occupati) versano ogni anno al sistema Confindustria una quota contributiva parametrata sul numero e il salario dei dipendenti per potere, come gli altri, “appoggiarsi ad un organismo che rappresenta gli interessi del sistema produttivo locale nei confronti di istituzioni, forze politiche e sociali, enti economici ed organi di informazione”, come recita la reclame di una delle associazioni territoriali.

Prima fra tutte Eni, che sulla designazione di Squinzi alla guida degli industriali, per ammissione dello stesso amministratore delegato del gruppo petrolifero, Paolo Scaroni , ha avuto un ruolo “decisivo”. Ma anche l’ Enel , le Poste , le Ferrovie , Finmeccanica e Terna tutte aziende densamente occupate che in pratica sborsano ogni anno svariati milioni per farsi rappresentare dall’associazione presso il loro azionista nelle sue svariate forme. Obiezione, potrebbe dire qualcuno, c’è anche la presenza all’estero! Peccato che lo Stato possieda una vasta gamma di enti che sostengono le imprese italiane oltreconfine a spese del contribuente: dall’Ice all’Enit passando per le sedi delle missioni all’estero delle Regioni fino alla rete delle Camere di Commercio che sono cofinanziate dal ministero dello Sviluppo economico. Ma tant’è. E forse non è un caso che nel 2011 ben 3,2 milioni di euro, l’8,2% dei 39,341 milioni di euro di contributi associativi che dalla periferia sarebbero dovuti arrivare nelle casse di Viale dell’Astronomia , non sono giunti a destinazione. Un costume che si va affermando sempre più negli anni: anche nel 2010 la quota destinata all’associazione centrale, che viene sottratta dai circa 500 milioni che vengono raccolti annualmente a livello territoriale, è arrivata a destinazione incompleta. Mancavano 2,066 milioni: nell’arco di un anno, quindi, il tasso di crescita della morosità dei soci è stato del 57,34 per cento.

I PAGAMENTI PUNTUALI. “Noi tutti abbiamo difficoltà, e in modo particolare chi è a contatto diretto con la pubblica amministrazione conosce sulla propria pelle una situazione indegna di un Paese civile in cui i ritardi dei pagamenti, nell’ordine dei 90 miliardi, non permettono una vita normale, un’azione equilibrata alle imprese”, ha tuonato Squinzi il 2 luglio scorso facendo sua una vecchia battaglia (sacrosanta, benché persa) del suo predecessore, Emma Marcegaglia . E ha aggiunto che “una pubblica amministrazione più efficiente è una pubblica amministrazione che paga i suoi debiti in tempi ragionevoli”.

Benché il tema sia calzante, bisognerebbe capire meglio cosa si intenda con tempi ragionevoli in Viale dell’Astronomia, dal momento che nel bilancio 2011 l’associazione ha iscritto debiti verso i fornitori per 1 milione di euro, mentre l’anno prima sotto la stessa voce c’erano 1,2 milioni. Sarà per questo che gli appelli al governo restano praticamente inascoltati?

LO SPREAD. “La fase più acuta della crisi sembra alle spalle: l’Italia non è al centro dei problemi del debito e la credibilità migliora come dimostra il calo dello spread, ma ancora non basta perché il livello resta comunque alto e sul lungo periodo non è sostenibile”, disse la Marcegaglia il 7 marzo scorso intervenendo all’inaugurazione dell’anno accademico dell’università Luiss Guido Carli. “Lo scenario è migliorato, ma ci sono ancora delle criticità”, concludeva.

Criticità anche qui condivisibili, ma di sicuro il miglioramento non era imputabile alla Confindustria, che tra gennaio e febbraio si è affrettata a ridurre drasticamente la sua esposizione sui titoli di Stato vendendo in anticipo 10 dei 18 milioni di euro di Btp che possedeva, la metà dei quali sarebbero scaduti naturalmente nove mesi dopo. Evidentemente in Confindustria ritenevano più sicuri dei titoli di Stato i bond del Monte dei Paschi di Siena , cioè la banca che sta facendo man bassa di aiuti pubblici e che, vista la drammatica situazione dei conti, avrà presto il Tesoro tra i suoi azionisti: l’investimento nelle obbligazioni di Rocca Salimbeni in scadenza a fine 2013 è di 9,9 milioni. Minore, sembrerebbe, la fiducia della Confindustria in Banca Intesa sui bond della quale ha puntato “solo” 3 milioni. Del resto la maggior parte degli investimenti dell’associazione sono fuori dal cosiddetto sistema: più della metà del totale, 27 milioni di euro, sono infatti stati usati per stipulare una polizza assicurativa con Chiara Vita, compagnia del gruppo svizzero Helvetia.

IL COSTO DELLE LOBBY. Del resto anche le lobby nel loro piccolo costano, ma sono in affanno. Sul fronte delle spese il 2011 registra 1,2 milioni per finanziare 12 mesi di stage presso “le diverse sedi del Sistema di rappresentanza” dei 100 giovani selezionati dal Progetto 100 giovani per 100 anni. Soldi che hanno prosciugato la Riserva Attività Istituzionali. Un milione e ottocentomila euro, poi, se ne sono andati in viaggi e trasferte. E un altro milione è stato utilizzato in attività di rappresentanza e missioni estere. Costi per la normale gestione dell’associazione che ha assistito nel 2011 ad un notevole ridimensionamento delle disponibilità bancarie (-11 milioni) a quota 4,6 milioni. Ma il peso maggiore, direbbe Squinzi, è quello del lavoro: gli stipendi del personale costano all’associazione 12,128 milioni al netto di oneri previdenziali e accantonamenti per il tfr, somma che per le 164 persone che lavorano in viale dell’Astronomia fa uno salario medio di 5700 euro. Ma non basta, ci sono anche i consulenti e i collaboratori, che l’anno scorso tra la crisi e la fine del mandato della Marcegaglia, sono costati 2,166 milioni.

E intanto il patrimonio dell’associazione si erode. Complici le perdite di tre controllate al 100% su sei, infatti, tra il 2010 e il 2011 il patrimonio della Confindustria è diminuito di 807mila euro. Peggio sarebbe andata, però, se la quota di controllo del Sole 24 Ore fosse stata valutata ai valori di Borsa. Il gruppo editoriale che pubblica il primo giornale di economia del Paese e non vede utili da diverso tempo (8,4 milioni il rosso 2011, perdita che è già stata replicata nella sola metà del 2012), è iscritto nel bilancio al valore di 1,47 euro per azione per un totale di 132 milioni di euro. Peccato però che in Borsa il titolo langua intorno ai 60 centesimi che, se utilizzati come valore di riferimento, toglierebbero alla partecipazione quasi 78 milioni di euro con ripercussioni dirette sul patrimonio dell’editore. Ma questo succede solo se si applicano i principi contabili internazionali che usano le società quotate in Borsa. Tuttavia, spiega il documento, sulla base dell’impairment test, un’analisi che verifica se le attività siano iscritte o meno ad un valore superiore rispetto a quello reale sia in termini di uso dell’asset che di eventuale cessione, Confindustria ha ritenuto di non dover procedere alla svalutazione. Intanto al Sole 24 Ore è attivo da mesi un contratto di solidarietà per tagliare il costo del lavoro dei 1874 dipendenti – che in parte è così passato a carico degli enti previdenziali – e le prospettive per il futuro del gruppo, che tra gennaio e giugno si è bruciato 10 milioni di patrimonio, non sono tra le più rosee.

Ma così Confindustria è riuscita ad archiviare il bilancio dello scorso anno con un risultato positivo della gestione operativa e finanziaria da 2,2 milioni di euro, che è stato prontamente utilizzato per rimpinguare gli accantonamenti al Fondo Rischi che serve “per consentire il proseguimento della ristrutturazione organizzativa” e la Riserva attività istituzionali che era stata prosciugata dal progetto 100 giovani per 100 anni. E il cerchio si chiude. Almeno finché le aziende di Stato continueranno a sborsare le quote e non decideranno magari che far lobby presso se stessi non è poi di così vitale importanza.

 

La prossima legge ad personam

Alessandro Robecchi

Vi stupirò: io non ho niente contro le leggi ad personam. Ad un patto: che ogni persona possa averne una. Dunque, indovinate quali di queste leggi ad personam sarà varata in fretta e furia dal Parlamento Italiano.
Legge Mohamed. Presentata in tutta fretta al Parlamento per risolvere il caso del giovane Mohamed (19 anni), afghano, arrivato fortunosamente ad Atene, e da lì giunto accovacciato per 1.724 chilometri sotto le ruote di un Tir fino a Trieste, dove è stato arrestato per immigrazione clandestina. La legge prevede l'abrogazione di quel reato e l'immediata scarcerazione.
Legge Esposito. Presentata d'urgenza per risolvere il problema personale di Carlo Esposito, lavoratore precario a Milano, costretto a spendere l'80 per cento del suo reddito per una camera in affitto. La legge prevede canoni d'affitto calmierati e salario di cittadinanza.
Legge Sallusti. Allo studio su una corsia preferenziale, la legge mira a risolvere il problema personale di Alessandro Sallusti, direttore di un quotidiano, condannato al carcere per diffamazione e omesso controllo dopo la pubblicazione di un articolo denso di notizie false. La legge prevede multe più alte per tutti, ma la libertà per lui.
Legge Manfredini. Preparata in tutta fretta, risponde alle esigenze particolari del cittadino Ennio Manfredini, che si trova, grazie a una recente riforma del governo, senza salario, senza pensione e senza sussidio di disoccupazione, con due figli a carico e un mutuo sul groppone. La legge prevede di dargli da mangiare almeno una volta al giorno e di reinserirlo nella vita produttiva.
Legge Maselli. Presentata con urgenza per il caso personale della signorina Francesca Maselli, picchiata da un poliziotto in tenuta antisommossa durante una manifestazione studentesca. La legge prevede un codice di riconoscimento sulle divise delle forze dell'ordine, ai fini di una certa e veloce identificazione.
Su, amici! So che siete persone sveglie. Indovinate quale di queste importanti leggi ad personam verrà approvata entro un mese.

 

L’ossessione infinita del Ponte sullo Stretto

Succede in Italia che un Commissario di Governo impugni un atto del Governo per favorire la realizzazione di una grande opera, irrealizzabile per validi motivi economico-finanziari, sociali ed ambientali: il ponte sullo Stretto di Messina

L’opera non è considerata più una priorità in tutti i recenti documenti ufficiali in Europa e in Italia. È così che il pluri- impiegato dello Stato , Pietro Ciucci – commissario di Governo per il ponte, amministratore delegato di ANAS SpA e della Stretto di Messina (SdM) Spa, entrambe società interamente pubbliche – ha prima preannunciato a luglio e poi ha confermato il 25 settembre scorso che la SdM SpA ha impugnato con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica la Delibera n. 6 del Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica - CIPE del 20 gennaio 2012 con cui si tagliavano 1,6 miliardi di euro destinati al ponte.

Diciamo subito che appare incredibile che questo vero e proprio atto di belligeranza di un boiardo di Stato contro l’esecutivo in carica sia stato possibile senza che il Governo dei tecnici abbia pensato di intervenire per tempo a bloccarlo. Anche perché le associazioni ambientaliste interessate – FAI, Italia Nostra, Legambiente, M.A.N. e WWF Italia – avevano chiesto già in una lettera inviata il 31 luglio scorso al Presidente del Consiglio Monti e ai ministri interessati che tale inconcepibile conflitto, allora preannunciato, fosse immediatamente bloccato e fosse severamente censurata la minaccia di Ciucci.

Ma come si sa i sogni perversi nel nostro Paese sono duri a morire e l’immaginifica millanteria del ponte, accreditata dal Governo Berlusconi a partire dal 2001, è sopravvissuta anche ai circa due anni di Governo Prodi, ad un nuovo Governo Berlusconi ed ora gira come una bomba a tempo nelle stanze del Governo dei tecnici . Anche se sarebbe proprio di un Governo dei tecnici porre la parola fine a questo film scadente su un ponte sospeso a doppio impalcato, stradale e ferroviario, ad unica campata della lunghezza di 3,3 km (quando il ponte più lungo di questo tipo il Minami-Bisan Seto, giapponese, date le attuali conoscenze tecniche è lungo solo 1,1 km) che dovrebbe sorgere in una delle aree a più elevato rischio sismico del Mediterraneo, severamente tutelata per i valori ambientali e paesaggistici dall’Europa e dall’Italia.

Invece nessuno scrive la parola “Fine” (l’unico che ha detto parole contrarie inequivocabili è stato ad oggi il ministro della coesione Fabrizio Barca) con il rischio concreto che se l’ampiamente lacunoso ed omissivo progetto definitivo presentato da Eurolink, il general contractor capeggiato da Impregilo, non viene rimandato al mittente dalla Commissione tecnica di VIA del Ministero dell’ambiente e bocciato in CIPE, il Governo sia costretto a pagare oggi oltre i 66 milioni di euro per l’acquisizione degli elaborati anche oltre 400 milioni di euro di penali al momento che fosse aperto anche un solo cantiere in qualche modo funzionale al ponte.

Si può evitare ancora oggi di correre questo rischio perché il Contratto tra il concessionario SdM SpA e il GC Eurolink consente di recedere in qualunque momento dal Contratto, pagando solo le prestazioni correttamente eseguite al momento, appunto del recesso. Sembra però che all’interno dell’amministrazione dello Stato, non ci sia ancora oggi un orientamento univoco su come debbano essere tutelati gli interessi pubblici. Con il risultato che il costo del ponte dal 2005 ad oggi è salito da 4,3 miliardi a 8,5 miliardi di euro, grazie anche all’ accompagnamento della SdM SpA.

C’è ancora chi lavora per il re di Prussia, ignorando bellamente che: 1. a fine ottobre 2011 viene presentato dalla Commissione Europea il Piano di investimenti per il periodo 2014-2020 “Connecting Europe Facility”, per complessivi 50 miliardi di euro, di cui 31,7 destinati alle TEN-T e tra le infrastrutture da finanziare non compare il ponte sullo Stretto di Messina; 2. il 20 gennaio 2012 è stata approvata la Delibera CIPE n. 6/2012 che prevede, nell’ambito delle riduzioni di spesa della programmazione sui Fondi per lo sviluppo e la coesione di tagliare i fondi previsti dalla Delibera CIPE 102/2009 “Assegnazione Società Stretto di Messina” (1,3 mld di euro) e dalla Delibera CIPE 121/2009 “Variante di Cannitello e aumento di capitale ANAS e RFI” (337 mln di euro); 3. nell’aprile 2012 non vengono pubblicate le Linee Guida – Allegato Infrastrutture 2013-2015 al Documento di Economia e Finanza – DEF 2012 in cui non c’è taccia del ponte.

Ma the show must go on e il biglietto di questo spettacolo fallimentare è a carico di tutti/e noi.

La riproduzione di quest'articolo è autorizzata a condizione che sia citata la fonte: www.sbilanciamoci.info

 

5 ottobre

 

Tremonti e la norma ad aziendam, così il ministro di B. salvò il truffatore Saggese

La società dell'amministratore delegato di Tributi Italia, che ha sottratto venti milioni di euro ai contribuenti, fu aiutata da un decreto del governo di Silvio Berlusconi

di Sara Nicoli

L’hanno chiamato il “sistema Saggese” . E non tanto per l’enorme “privatizzazione” di denaro pubblico che l’ad di Tributi Italia, appunto, Giuseppe Saggese, è riuscito a mettere insieme nel corso di tutta l’onorata carriera. È il reticolo di connivenze e protezioni politiche che ha avuto la società negli anni a rappresentare un vero “scandalo nello scandalo” più volte denunciato in sede parlamentare e sempre – puntualmente – coperto. O lasciato cadere nel nulla come le risposte alle quattro interrogazioni parlamentari che i Radicali hanno presentato nel corso di tre anni e che hanno avuto un’unica – insoddisfacente – risposta quando ormai il governo Berlusconi era sull’orlo dell’abisso (20 giugno 2011). Ovviamente, non è un caso.

Val la peena di ricostruire alcuni passaggi parlamentari, di cui la Tributi Italia è stata protagonista, per dare il senso del vischioso sistema di connivenze eretto a difesa della società da parte del governo Berlusconi. Il primo avvenimento, d’altra parte, è stato eclatante. E ha riguardato una vera e propria norma “ad aziendam” (non a caso ribattezzata “norma Tributitalia” ), inserita nel decreto fiscale 2010, firmato dal ministro Tremonti , che ha consentito alla società di Saggese di utilizzare la legge Marzano per il concordato delle grandi imprese in crisi (la stessa procedura utilizzata per Alitalia, giusto per capire le dimensioni). Era l’articolo 3, comma 3 del provvedimento, grazie al quale Tributi Italia ha avuto accesso alle procedure di ristrutturazione economica e finanziaria, evitando la bancarotta e continuando a svolgere attività di accertamento e riscossione dei tributi locali. In più di 400 comuni . La parte più scottante del comma è infatti quella in cui si dispone “la persistenza delle convenzioni vigenti con gli enti locali immediatamente prima della data di cancellazione dall’albo”: Tributi Italia, infatti, aveva in corso una procedura di cancellazione che, però, come ha ricordato anche ieri Rita Bernardini , ha avuto un iter molto lungo e sofferto in commissione Finanze di Montecitorio.

“Come già abbiamo ricordato nell’interrogazione del 13 aprile del 2010 – racconta la Bernardini – c’erano persone interne alla commissione di sorveglianza sugli enti di riscossione, che faceva gli interessi diretti della famiglia Saggese”. E non solo lì, certo. Il dicastero dell’Economia era retto da Giulio Tremonti, componente anche della commissione Finanze della Camera dove, tuttavia, non andava mai, visto che il lavoro vero di calendarizzazione delle discussioni (quello più delicato per stabilire le priorità) era nelle mani del presidente Gianfranco Conte, anche lui Pdl . Fin qui, in apparenza, nulla di strano. Ma è leggendo i resoconti dei lavori nella Commissione, come d’altra parte, i verbali delle riunioni tenute al ministero dell’Economia e delle Finanze della Commissione che gestisce l’albo dei riscossori che si scopre come sia stato tortuoso il cammino per la cancellazione dall’albo di Tributi Italia. E che l’Anci, l’associazione dei Comuni, non è sempre stata presente alle riunioni dell’Anacap (l’associazione di categoria dei riscossori). E che – soprattutto – tra i componenti di quest’ultima, che ha voce in capitolo sulla cancellazione, ci fosse Pietro Di Benedetto che fa l’avvocato e difende proprio Tributi Italia. L’avvocato di famiglia successore del primo, storico legale della società dall’epoca della prima denuncia per frode, datata 1999: Niccolò Ghedini .

Fino al 2010, la società aveva speso non meno di 6 milioni di euro (come si legge nell’interrogazione parlamentare del 2010) per pagare i suoi consulenti legali. Tasse dei cittadini? Alla luce degli ultimi fatti, la domanda è più che lecita. Insomma, quel fiume di denaro che anno dopo anno scompariva dopo essere stato prelevato dalle tasche dei contribuenti, era un po’ sotto gli occhi di tutti. Ma il “sistema Saggese” proteggeva la società, in barba alle richieste di indagini ispettive e trasmissione degli atti alla Corte dei conti, come minacciato da Idv e Radicali, per configurare un danno erariale.

“Volevamo uno strumento legislativo che potesse garantire innanzitutto i cittadini contribuenti – sostiene infine la parlamentare radicale – perché non è fallita solo Tributi Italia, è fallito un intero sistema. Il sistema della riscossione dei tributi va ora ripensato in modo da assicurare l’interesse generale”.

 

De Gennaro e il Pd

«Sono certo che il prefetto De Gennaro, nel suo nuovo incarico istituzionale, potrà efficacemente portare avanti il suo impegno...», così Massimo D'Alema, l'11 maggio, salutava la nomina a sottosegretario del governo Monti dell'uomo che ai tempi del massacro alla Diaz era il capo della polizia. La stessa persona che nelle motivazioni della Corte di Cassazione interpreta il ruolo del fantasma del palcoscenico, l'ispiratore di una repressione disumana, segnata da efferatezze che ancora oggi si fatica a leggere nei particolari descritti dai giudici. Quel poliziotto d'Italia che non volle fermare le squadracce spinte, invece, a emulare un clima cileno, nel cuore dell'Europa, quando l'Italia berlusconiana sospese la democrazia con il sangue di ragazzi inermi. Lo stesso uomo che la Cassazione ritiene responsabile di aver sollecitato il meccanismo della pura violenza nel tentativo di riscattare l'onore perduto di una polizia che non aveva saputo vigilare sull'ordine pubblico nei giorni del G8. Il comando di procedere ad arresti indiscriminati avrebbe prevalso sull'obbligo di osservare leggi e diritti.
Il cinismo del responsabile del Copasir appare oggi tanto più imbarazzante di fronte al pesante giudizio pronunciato dall'alta magistratura. E se D'Alema perse allora un'occasione per tacere, tuttavia le sue parole di encomio per De Gennaro si rivelano lo specchio perfetto dell'inverosimile silenzio della politica. La controprova del mutismo colpevole del Pd, il partito che si propone agli italiani come niente di meno che il baluardo della tenuta democratica.
Il segretario del Pd è intensamente impegnato negli affari interni del partito, preso dalle ingarbugliate vicende della campagna elettorale delle primarie. Non ha tempo da perdere, neppure una parola da spendere per sottolineare l'enormità della permanenza in uffici di governo del primo responsabile politico dei fatti di Genova. Il suo silenzio è il segno, un altro, della mancanza di una leadership affidabile, anche solo dal punto di vista della difesa della democrazia.
Tace Bersani e tace Monti, ciascuno testimone dell'ipocrita diatriba tra politici e tecnici. E, silenzio per silenzio, tanto vale tenersi Monti che almeno non si appende sul petto la medaglia di uomo di sinistra.
Solo Paolo Ferrero, solo il radicale Marco Perduca, solo l'allora portavoce del social Forum, Vittorio Agnoletto, hanno chiesto in queste ore le dimissioni di De Gennaro. Poche voci fuori dal coro a cui naturalmente aggiungiamo anche la nostra.
PS: A Bersani e a Monti fa compagnia un terzo silenziatore: il Corriere della Sera . In prima pagina nessuna notizia sulle motivazioni della Cassazione.

 

Prendi i soldi e scappa, un meccanismo tutto italiano

Per l'azienda di Portovesme, la selva di incentivi versati dallo stato alle imprese sfugge ad una chiara rendicontazione pubblica. Un'analisi del fallimento del privato assistito dell'ex azienda Efim.

Nel 1992, quando cedette le fonderie dell'Efim all'Alcoa, lo stato italiano garantì aiuti ed extraprofitti sia alla multinazionale Usa che all'Enel. Finita la festa, i banchettanti scappano. Una vicenda che, cifre alla mano, smentisce la retorica del «privato è meglio». Come ne usciamo, adesso?
Fino alla metà degli anni '90 le principali imprese della metallurgia di base dell'alluminio facevano parte dell'Efim, la finanziaria delle partecipazioni statali posta in liquidazione nel 1992 in seguito alle perdite accumulate; nel 1996 le aziende furono cedute a società internazionali specializzate e le fonderie - i cosiddetti smelter - furono acquistate dalla statunitense Alcoa.
Il prezzo di vendita degli smelter rappresentò una componente del tutto marginale del contratto; l'accordo riguardò infatti sia gli impianti sia la fornitura decennale di energia elettrica da parte dell'Enel, allora ente pubblico interamente posseduto dallo stato, a una tariffa di circa 18 euro per megawatt/ora, all'incirca pari alla metà di quella media di mercato. Dal punto di vista economico la cessione avvenne a un valore negativo, perché lo stato, tramite l'ente elettrico monopolista, si impegnò a sovvenzionare con tariffe agevolate la società acquirente per un decennio.
Un'energia pari a quella di Roma
L'importanza della disponibilità e del prezzo dell'elettricità deriva dal fatto che negli smelter il principale fattore produttivo è l'energia elettrica poiché, per estrarre il metallo dal semilavorato di base, l'allumina, è utilizzato un processo elettrochimico fortemente «energivoro». Secondo i dati riportati nel sito dell'Alcoa, nel 2011 l'impianto di Portovesme, pur ammodernato nel biennio precedente, per produrre 150.000 tonnellate di alluminio, pari a meno del 10 percento della domanda italiana, ha impiegato 2,3 miliardi di kilowatt/ora, lo 0,7% dell'intero consumo di energia del nostro Paese. Esso corrisponde alla quantità di energia prodotta da un campo di pannelli solari esteso per chilometri kilometri quadrati ed è sostanzialmente pari a quella consumata dai residenti della città di Roma per uso civile.
Il contratto con l'Enel assicurò all'Alcoa condizioni di profitto stabili per 10 anni, riducendo al contempo gli stimoli all'ammodernamento dell'apparato produttivo. Nel 1996 la Commissione europea autorizzò l'operazione non ravvisando l'esistenza di aiuti di stato anche se con la privatizzazione, non solo le vecchie perdite dell'Efim ma anche i nuovi profitti dell'acquirente furono posti a carico di un ente pubblico, l'Enel.
Prima dello scadere del contratto, l'Enel fu privatizzata e il governo emanò due decreti che, attraverso un complesso prelievo parafiscale, trasferirono l'onere della fornitura agevolata di energia elettrica direttamente sulle bollette degli italiani. Con le parole della Commissione Europea: «La tariffa è sovvenzionata mediante un pagamento in contanti da parte della Cassa Conguaglio, che è un ente pubblico, a riduzione del prezzo fissato contrattualmente tra Alcoa e il suo fornitore Enel. Le risorse necessarie sono raccolte mediante un prelievo parafiscale applicato alla generalità delle utenze elettriche mediante la componente A4 della tariffa elettrica». Il meccanismo era tale che successivamente al 2005, gli italiani hanno pagato non solo gli aiuti all'Alcoa ma anche ulteriori profitti di Enel, ora privata, conseguenti a condizioni contrattuali che la controparte aveva scarso interesse a negoziare al ribasso.
Sovvenzioni per 540 milioni
Secondo i dati della Commissione Europea, nel solo triennio 2006/2008, l'ammontare delle sovvenzioni ricevute dall'Alcoa per i due smelter italiani è stato pari a 540 milioni, dei quali 415 per lo stabilimento di Portovesme in Sardegna. Si tratta di valori di gran lunga superiori alle perdite di bilancio registrate quando lo smelter era gestito dall'ente delle partecipazioni statali più disastrato.
Nel novembre del 2009 la commissione europea ha stabilito che i suddetti sussidi costituiscono un aiuto di stato e ha imposto all'Alcoa la restituzione di circa 300 milioni di euro. In seguito al provvedimento della Commissione europea sono stati presi una serie di interventi:
1) l'Alcoa ha presentato ricorsi alla Corte di Giustizia di Strasburgo avverso tale decisione; 2) la società ha chiuso il piccolo stabilimento di Fusina nel Veneto e ha avviato un piano di ammodernamento dello smelter di Portovesme; 3) all'inizio del 2010, il governo ha emanato il decreto legge 3/2010 riguardante il rafforzamento della sicurezza del sistema elettrico insulare che con fantasia legislativa ha consentito all'Alcoa di continuare a ricevere l'energia elettrica a 30 euro al megawatt rispetto ad un prezzo medio di mercato superiore a 70.
La Corte di Giustizia ha rigettato il ricorso dell'Alcoa contro l'immediata esecutività della decisione della Commissione europea; subito dopo, l'Alcoa ha deciso la cessione del sito di Portovesme o la sua chiusura in caso di assenza di acquirenti; il giudizio di merito della Corte di Giustizia è ancora pendente, ma il suo esito sembra scontato.
Cosa ne resta
La vicenda dell'Alcoa è per molti versi paradigmatica di come si svolga l'attività economica, quantomeno nel nostro paese. Almeno nel caso delle fonderie di alluminio, la gestione privata è stata meno efficiente di quella pubblica tanto che gli oneri a carico della collettività sono progressivamente cresciuti secondo meccanismi sempre più opachi. Sotto la gestione pubblica, il costo per la collettività era pari alle perdite di bilancio, un valore univoco e noto, mentre in quella privata gli oneri sono pari alla somma di incentivi, sconti, sovvenzioni riconosciuti in forme più o meno esplicite e complicate, variabili nel tempo, di difficile quantificazione e non soggetti a una efficace rendicontazione pubblica.
Il mercato, inteso come luogo astratto dove avvengono gli scambi e le schede di domanda e offerta garantiscono la formazione di prezzi di equilibrio e l'ottimale allocazione delle risorse è una semplificazione che trova rarissima applicazione nella realtà. Il modello che attribuisce all'autorità pubblica soltanto la funzione di regolamentazione e controllo è disatteso quotidianamente; ne sono testimonianza i numerosi casi di questi ultimi anni (ad esempio l'onerosa vicenda Alitalia) e le stesse vicende degli ultimi giorni.
Dalla vicenda Alcoa anche la Commissione europea non ne esce bene; aldilà delle motivazioni giuridiche che sottostanno a due opposte decisioni, appare indubitabile che, sul piano economico, già dal 1996 l'Alcoa beneficiò di aiuti da parte dello stato italiano che non furono sanzionati. E sorge il dubbio che tale decisione possa essere stata indirizzata da pregiudizi ideologici in favore dell'attività privata, aprioristicamente ritenuta migliore di quella pubblica.
Soldi e lobby
In generale dal caso Alcoa emerge che la selva di incentivi versati dallo stato alle imprese, anche come risultato delle attività di lobby da parte di gruppi di interesse, sfugge ad una chiara rendicontazione pubblica. Perché la spending rewiew abbia un senso economico, occorre che la spesa pubblica sia spostata da improduttiva a produttiva e che l'effetto degli incentivi e dei disincentivi (imposte e tasse) sia monitorato, anche in termini di distribuzione del reddito. La crisi sollecita il governo a produrre tempestivamente nuove ed efficaci informazioni preventive e consuntive dei costi e dei benefici pubblici relativi agli aiuti all'attività economica.
Il caso Alcoa ha anche messo in evidenza la mancanza di una valida politica industriale da parte del governo che si sta manifestando con l'assenza di una risposta alla domanda chiave: «Come risolvere la questione dello smelter di Portovesme?». E' paradossale che l'impianto, dopo aver funzionato per molti decenni con livelli di produttività dell'energia molto bassi, venga chiuso immediatamente dopo i primi interventi di ammodernamento; peraltro, secondo i dati desumibili dal sito dell'Alcoa sussisterebbero ampi margini per accrescere l'efficienza della fonderia: i migliori smelter impiegherbbero circa 11,5 Mw/h per tonnellata di alluminio prodotto, mentre lo stabilimento sardo circa il 25 per cento in più.
Per trovare un compratore occorrono comunque soluzioni in grado di rendere paragonabile il costo del fattore produttivo energia elettrica a quello di altri paesi, anche extraeuropei. I nuovi siti dell'Alcoa sono stati aperti in Islanda insieme a un impianto idroelettrico e sono in corso di realizzazione grandi stabilimenti in Arabia Saudita, ossia in paesi dove il prezzo dell'energia è molto basso. L'eventualità di una cessione si presenta di non facile realizzazione - come dimostra la rapida uscita di scena della svizzera Glencore, che aveva manifestato un qualche interesse alla trattativa.
Dato il maggiore prezzo dell'energia nel nostro Paese, se si vuole mantenere la metallurgia di base in Sardegna è, come minimo, indispensabile che la produttività cresca al livello degli impianti più efficienti; il risparmio potenziale di energia elettrica corrisponderebbe ad almeno tre volte quella prodotta dal grande parco eolico da poco inaugurato a Portoscuso, vicino allo smelter, da parte dell'Enel Green Power.
Per avere più solide prospettive di conservazione dell'apparato produttivo sarebbe opportuno verificare se è possibile raggiungere una produttività superiore con le più recenti tecnologie. A tal fine il governo ha preso contatti con atenei e politecnici per avere attendibili risposte tecniche e formulare un business plan ragionevole?
Se Passera ha qualche idea
Inoltre, nell'attuale situazione di crisi, l'autorità pubblica ha valutato le interdipendenze con la filiera produttiva a monte e a valle, per esempio con la centrale termoelettrica e con le miniere del Sulcis? Ha preso in considerazione l'ipotesi di un rinnovato intervento diretto dello stato, soluzione comunque preferibile rispetto a pasticciate soluzioni private sovvenzionate da nuovi mascherati incentivi? Si è domandato quale sarebbe la posizione dell'Europa nei confronti di tale politica, comunque più trasparente rispetto al passato?
In ogni caso, poiché ci dovranno essere importanti risparmi nell'utilizzo di energia, occorre decidere cosa fare dei maggiori prelievi parafiscali sulle bollette degli italiani. Ridurre le bollette? Oppure utilizzare il maggior prelievo come sostegno al reddito dei lavoratori sardi (l'ammontare complessivo è sufficiente per pagare sussidi a migliaia di lavoratori)? Ovvero utilizzarlo per altre iniziative industriali? Se il ministro dello sviluppo economico ha qualche idea, è il momento di rappresentarla.

 

2 ottobre

Sisma, ecco il recupero Irpef: prime buste paga azzerate

Brutta sorpresa per i lavoratori di 34 comuni terremotati del mantovano: stipendio basso a causa del recupero in un'unica soluzione dell'addizionale regionale arretrata, non versata dopo il terremoto perché sospesa. La denuncia della Cgil

Un'immagine di Cavezzo, comune del modenese colpito dal sisma del 20 maggio

ROMA - Prime buste paga azzerate per i lavoratori delle zone colpite dal sisma dello scorso 20 e 29 maggio, in Emilia Romagna, Lombardia e Veneto. A denunciarlo è la Cgil, che dopo aver lanciato l'allarme già prima della proroga dello stop dei versamenti fiscali e contributivi dal 30 settembre al 30 novembre, ora porta alla luce i primi casi di brutte sorprese.

A farne le spese sono per ora un migliaio di lavoratori dipendenti residenti nei 34 Comuni terremotati del mantovano (su 70 della provincia) e che hanno hanno già ricevuto la busta paga di settembre, i quali si sono ritrovati con con stipendi "falcidiati" a causa del recupero in un'unica soluzione dell'Irpef arretrata, non versata dopo il sisma perchè sospesa. Secondo il sindacato si tratta solo di primi casi: molti altri, e in altre zone, presto si ritroveranno nella stessa situazione.

La sospensione dei pagamenti delle tasse per Emilia Romagna, Lombardia e Veneto è stata prorogata al 30 novembre, rispetto all'iniziale scadenza fissata al 30 settembre. Ma la sospensione non include i sostituti d'imposta, ossia aziende e datori di lavoro. Esclusione su cui, sottolinea il sindacato, non si è ancora intervenuti, perchè il secondo decreto di proroga ha poi solo fatto slittare il termine finale.

Cgil, Cisl e Uil, che sulla questione hanno scritto due lettere al ministro dell'Economia, Vittorio Grili, chiedendo anche un incontro, insistono da tempo perché si preveda possibilmente per via normativa la rateizzazione dei versamenti, come già avvenuto per il terremoto dell'Aquila e si chiariscano in maniera "inequivocabile" i comportamenti cui devono attenersi i diversi soggetti coinvolti. "Al governo e alle imprese chiediamo di recuperare l'imposta con gradualità entro l'anno - spiega il segretario provinciale della Cgil Massimo Marchini - nei prossimi giorni il quadro sarà ancora più pesante".

 

Il mais transgenico è tossico. Il governo fa finta di niente

Dopo lo studio francese sulla tossicità dell'Nk603 l'esecutivo di Monti non prende posizione. La ricerca riaccende la discussione sul bisogno di affidare alle autorità pubbliche, autonome dalle imprese, il giudizio sui prodotti. Intervista con Fabrizio Fabbri, direttore scientifico della Fondazione «Diritti Genetici»

Giorgio Salvetti

«Oui, les ogm sont des poisons!». Il magazine francese Nouvel Observateur ha lanciato l'allarme in prima pagina: «Sì, gli ogm sono veleno». E la notizia ha fatto subito il giro del mondo. Riguarda la pubblicazione di uno studio effettuato da un gruppo di ricercatori francesi coordinati da GillesEric Sèralini dell'università di Caen che dimostra la tossicità del mais transgenico Nk603 e dell'erbicida Roundup, entrambi prodotti dalla Monsanto. Secondo lo studio sviluppano danni a reni e fegato, alterano i parametri ematici e provocano formazioni cancerose alle ghiandole mammarie. La Russia ha già bloccato l'importazione dell'Nk603. La Ue, che ne aveva autorizzato il consumo, dovrà ristudiare il caso. In Francia il dibattito sugli organismi geneticamente modificati si è infiammato. In Italia quasi non se ne parla. Ne parliamo, invece, con Fabrizio Fabbri, direttore scientifico della Fondazione "Diritti Genetici", residente a Bruxelles. Quali sono i punti forti e i punti deboli di questo studio? Sèralini ha studiato i topi per tutta la loro vita, ovvero per due anni. Invece gli studi che vengono allegati alle richieste di autorizzazione per la messa sul mercato del prodotto, sia in America che in Europa, si basano su un periodo di 90 giorni. E poi si tratta di uno studio indipendente. Invece le autorità europee per concedere l'ok si basano solo sulle indagini effettuate dalle stesse aziende produttrici, ma non realizzano studi super partes. Sèralini chi è, e chi lo ha finanziato? L'hanno finanziato Carrefour e Auchan . E' un personaggio discusso perché ha avuto il merito di muoversi sempre in modo indipendente dai giganti del biotec. Quali sono gli elementi deboli di questa ricerca? Lo studio si è dato come obiettivo quello di analizzare l'effetto combinato dell'ogm e dell'erbicida ad esso abbinato. Il mais Nk603 ha la caratteristica di essere resistente all'erbicida Roundup di Monsanto, i due prodotti vengono usati insieme con il risultato che alla fine sono presenti entrambi nei prodotti alimentari. Sèralini ha diviso quattro gruppi di cavie, uno di controllo alimentato con mais non gm e senza erbicida, uno alimentato con il solo ogm, uno alimentato con il solo erbicida diluito in acqua, e infine all'ultimo gruppo sono state somministrate varie dosi dei due prodotti combinati. Questa scelta ha il pregio di ricreare in laboratorio le condizioni più realistiche presenti nei prodotti in commercio, ma ha una debolezza: i gruppi di cavie una volta divisi non erano molto numerosi. Inoltre il tipo di topi usati, soprattutto le femmine, è naturalmente predisposto a sviluppare tumori alle ghiandole mammarie. Questo vuol dire che non è uno studio valido? Al contrario, comunque i tumori sono aumentati, inoltre i danni ai reni e al fegato e le alterazioni ematiche sono certi. Ovviamente però si tratta solo di un punto di partenza che richiede di essere approfondito con ricerche ad hoc. Mi spiego. La maggiore difficoltà di questa ricerca è che ha tentato di rispondere a tanti interrogativi contemporaneamente. Il suo merito è che così facendo ha messo in luce molti aspetti problematici. A questo punto, però, bisogna prendere ogni singolo aspetto e studiarlo in modo specifico. Non si tratta né di buttare tutto nel cestino, né di prendere questi risultati come definitivi. Chi ha criticato la ricerca e con che argomenti? Per esempio un Science media center inglese ha raccolto il parere di 10 esperti che hanno avanzato dubbi. Il problema, però, è che questo istituto in parte è finanziato dalle stesse multinazionali del biotec e molti di questi esperti lavorano nel business degli ogm. Monsanto, invece, ha fatto addirittura rilievi non solo scientifici che al di là del merito puntano a mettere in dubbio le competenze dei ricercatori e addirittura avanzano l'ipotesi di un conflitto di interessi dell'equipe di Sèralini che sarebbe legata al settore delle piante omeopatiche. Come si può ottenere una valutazione non contaminata dagli interesse di parte? Questo è il punto. Ci vogliono autorità pubbliche veramente indipendenti che finanzino studi ben fatti. Purtroppo nel 1991 l'Ocse ha chiesto di semplificare le pratiche di autorizzazione degli ogm perché le ritenevano troppo costose sia in termini di soldi che di tempo. Questo ha causato una reazione a catena per cui ogni produttore tende a dire che il suo ogm è omologabile a quelli già autorizzati e gli studi sui nuovi prodotti sono molto ridotti e con un limitato controllo delle autorità pubbliche. Adesso che succederà? Dopo il blocco delle importazioni in Russia, in Francia stanno creando un apposito gruppo di studio. A livello europeo invece la palla passa all'Efsa (l'autorità europea di controllo sugli alimenti). Il problema però è che anche l'indipendenza di Efsa è molto dubbia. Molti autorevoli esponenti di Efsa lavorano o hanno lavorato per associazioni e aziende legate ai produttori. L'unico ogm la cui coltivazione è autorizzata in Europa, il mais Mon810, è stato promosso da Efsa nonostante Monsanto abbia tenuto nascosto uno studio su quel prodotto. Efsa, infatti, non ha mai bocciato nessun ogm, neppure la patata Amflora che anche l'Oms aveva giudicato causa dello sviluppo di resistenze verso gli antibiotici. E intanto il mais studiato dai francesi ce lo possiamo trovare nel piatto. E in Italia a che punto siamo? Riguardo all'Nk603 il ministro dell'agricoltura si è limitato a demandare la questione al ministero della salute. Più in generale il governo Monti non prende una posizione netta sugli ogm. Da noi gli ogm possono essere contenuti nei prodotti alimentari e nei mangimi per animali, ma di fatto non possono essere coltivati anche se approvati dall'Ue. Mancano le regole sulla coesistenza tra colture gm e gm free . Si tratta di quelle norme che tutelano i coltivatori che non vogliono usare semi transgenici e rischiano di essere contaminati dalle piante gm coltivate nei campi vicini. Una convivenza che, vista la struttura del nostro territorio, è di fatto impossibile. E infatti le regioni che hanno il compito di fissare questi parametri non si decidono da anni. La Corte europea, però, un mese fa ha detto che l'Italia su queste base non può rifiutare la coltivazioni di ogm già autorizzati dall'Ue. E non ha tutti i torti. Per questo molti paesi, come ad esempio Francia, Austria, Ungheria, Grecia, hanno già fatto ricorso alla cosiddetta clausola di salvaguardia, ovvero alla possibilità dei singoli stati di non ammettere un ogm sulla base di studi e ricerche nazionali. L'Italia e il governo Monti però non si vogliono assumere la responsabilità di prendere questa iniziativa. Si tratta non solo di tutelare la salute dei consumatori che gli ogm proprio non li vogliono, ma anche l'economia e l'ambiente italiani che non sono compatibili con colture estensive che puntano tutto sulla quantità della produzione e non sulla qualità.

 

I cento parlamentari condannati, imputati, indagati o prescritti

a cura di Giampiero Calapà e Caterina Perniconi

da Il Fatto Quotidiano del 30 settembre 2012

Sono cento i parlamentari condannati, imputati, indagati e prescritti che siedono tra Montecitorio e Palazzo Madama. Tocca a loro, per lo più macchiati da reati contro il patrimonio, votare la legge sulla corruzione. Del resto, come ha detto l’avvocato di Silvio Berlusconi, Piero Longo , a Report : “Il Parlamento deve essere la rappresentazione mediana del popolo. Perché dovrebbe essere migliore?”. Forse perché i delinquenti non dovrebbero esserci, invece di cercare addirittura rappresentanza nelle istituzioni?

Abrignani Ignazio (deputato Pdl): indagato per dissipazione post-fallimentare.

Alessandri Angelo (dep Lega): indagato per finanziamento illecito ai partiti.

Angelucci Antonio (dep Pdl): indagato per associazione a delinquere, truffa e falso.

Aracu Sabatino (dep Pdl): rinviato a giudizio nella Sanitopoli abruzzese.

Barbareschi Luca (dep Misto- eletto Pdl): indagato per abusivismo.

Berlusconi Silvio (dep Pdl): 2 amnistie (falsa testimonianza P2, falso in bilancio Macherio); 1 assoluzione per depenalizzazione del reato (falso in bilancio All Iberian); 3 processi in corso (frode fiscale Mediaset, intercettazioni Unipol, processo Ruby). 5 prescrizioni (Lodo Mondadori, All Iberian, Consolidato Fininvest, Falso in bilancio Lentini, processo Mills).

Bernardini Rita (dep Pd): condannata nel 2008 a quattro mesi per cessione gratuita di marijuana, pena estinta per indulto.

Berruti Massimo (dep Pdl): condannato a 8 mesi per favoreggiamento.

Bossi Umberto (dep Lega): condannato a 8 mesi di reclusione per finanziamento illecito, 1 anno per istigazione a delinquere, 1 anno e 4 mesi per vilipendio alla bandiera poi indultati, oggi è indagato per truffa ai danni dello Stato.

Bosi Francesco (dep Udc): indagato per abuso d’ufficio.

Bragantini Matteo (dep Lega): condannato in appello per propaganda razziale.

Brancher Aldo (dep Pdl): condannato per appropriazione indebita e ricettazione.

Briguglio Carmelo (dep Pdl): vari processi a carico (truffa, falso, abuso d’ufficio), alcuni prescritti, alcuni trasferiti ad altri tribunali e in seguito assolto.

Calderoli Roberto (senatore Lega): indagato per ricettazione, resistenza a pubblico ufficiale, prescritto. Indagato per truffa dal Tribunale dei ministri, i senatori votano contro l’autorizzazione a procedere.

Caliendo Giacomo (sen Pdl): indagato per violazione della legge Anselmi sulle società segrete (inchiesta nuova P2).

Camber Giulio (sen Pdl): condannato in via definitiva per millantato credito.

Caparini Davide (dep Lega): resistenza a pubblico ufficiale, prescritto.

Carlucci Gabriella (dep Pdl): condannata a risarcire una sua collaboratrice.

Carra Enzo (dep Udc): condannato in via definitiva a 16 mesi per false dichiarazioni ai pm.

Castagnetti Pierluigi (dep Pd): rinviato a giudizio per corruzione, prescritto.

Castelli Roberto (sen Lega): indagato per abuso d’ufficio patrimoniale.

Catone Giampiero (dep Misto – eletto Pdl): condannato in primo grado a otto anni per associazione a delinquere finalizzata alla truffa aggravata, falso, false comunicazioni sociali e bancarotta fraudolenta pluriaggravata.

Cesa Lorenzo (dep Udc): condannato in primo grado per corruzione aggravata, condanna annullata in appello per vizio di forma.

Cesaro Luigi (dep Pdl): indagato per associazione camorristica.

Ciarrapico Giuseppe (sen Pdl): condannato per truffa aggravata, bancarotta fraudolenta, finanziamento illecito, rinviato a giudizio per ricettazione, indagato per truffa ai danni di Palazzo Chigi.

Cilluffo Francesca (dep Pd): indagata per evasione fiscale.

Cosentino Nicola (dep Pdl): accusato di legami con il clan dei Casalesi, il Parlamento ha negato la richiesta d’arresto. Imputato anche nell’inchiesta sulla P3.

Crisafulli Vladimiro (sen Pd): sotto inchiesta per abuso d’ufficio.

Cursi Cesare (sen Pdl): indagato per corruzione.

D’Alema Massimo (dep Pd): finanziamento illecito accertato, prescritto.

D’Alì Antonio (sen Pdl): rinviato a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa.

De Angelis Marcello (dep Pdl): condannato per banda armata e associazione eversiva.

De Gregorio Sergio (sen Pdl): indagato per associazione per delinquere, concorso in truffa e truffa aggravata, concorso in bancarotta fraudolenta. Il Senato ha negato l’autorizzazione all’arresto.

Dell’Utri Marcello (dep Pdl): condannato per false fatture e frode fiscale, condannato in appello per tentata estorsione mafiosa, condannato in secondo grado a 7 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa ma annullata con rinvio dalla Cassazione.

Del Pennino Antonio : (sen Pdl): ha patteggiato una pena di 2 mesi e 20 giorni nel processo per le tangenti Enimont. A ottobre 1994 altro patteggiamento: di una pena di 1 anno, 8 mesi e 20 giorni per tangenti relative alla Metropolitana milanese. Prescritto per corruzione.

De Luca Francesco (dep Pdl): indagato per tentata corruzione in atti giudiziari.

Di Giuseppe Anita (dep Idv): indagata per abuso di ufficio, turbativa d’asta e associazione a delinquere.

Di Stefano Fabrizio (dep Pdl): rinviato a giudizio per corruzione.

Drago Giuseppe (dep Misto – eletto Udc): condannato per peculato e abuso d’ufficio.

Farina Renato (dep Pdl): condannato in primo grado a 2 anni e 8 mesi per falso in atto pubblico, ha patteggiato una pena di 6 mesi per favoreggiamento nel sequestro di Abu Omar.

Fasano Vincenzo (sen Pdl): condannato per concussione, indultato.

Fazzone Claudio (sen Pdl): rinviato a giudizio per abuso d’ufficio.

Firrarello Giuseppe (sen Pdl): condannato in primo grado per turbativa d’asta, indagato per concorso esterno in associazione mafiosa (nel ’99 il Senato ha negato l’arresto).

Fitto Raffaele (dep Pdl): rinvio a giudizio per concorso in corruzione, falso e finanziamento illecito.

Galati Giuseppe (dep Pdl): indagato per associazione a delinquere, truffa e associazione segreta.

Galioto Vincenzo (sen Misto-eletto Pdl): condannato in primo grado per falso in bilancio.

Genovese Fracantonio (dep Pd): indagato per abuso d’ufficio.

Grassano Maurizio (Misto – eletto Lega): condannato in primo grado a 4 anni per truffa.

Grillo Luigi (dep Pdl): indagato e prescritto per truffa.

Iapicca Maurizio (dep Misto-eletto Pdl): rinviato a giudizio per false fatture, falso in bilancio e abuso d’ufficio, prescritto.

La Malfa Giorgio (dep Misto-eletto Pdl): condannato per finanziamento illecito.

Laganà Maria Grazia (dep Pd): imputata per truffa ai danni dello Stato.

Landolfi Mario (dep Pdl): indagato per concorso in corruzione, concorso in truffa e concorso in favoreggiamento mafioso.

Lehner Giancarlo (dep Pdl): condannato per diffamazione.

Lolli Giovanni (dep Pd): rinviato a giudizio per favoreggiamento , prescritto.

Lombardo Angelo (dep Misto): indagato per concorso esterno in associazione mafiosa.

Lumia Giuseppe (dep Pd): indagato per diffamazione. Querelato dal suo ex addetto stampa.

Lunardi Pietro (dep Pdl): indagato per corruzione.

Luongo Antonio (dep Pd): rinviato a giudizio per corruzione.

Lusetti Renzo (dep Pd): condannato a risarcimento per consulenze ingiustificate.

Lusi Luigi (Misto-eletto Pd): indagato per appropriazione indebita e calunnia, è attualmente in carcerazione preventiva e resta senatore.

Malgieri Gennaro (dep Pdl): condannato dalla Corte dei conti per la nomina di Alfredo Meocci a dg della Rai.

Mannino Calogero (sen misto, eletto Udc): imputato per minaccia a corpo dello Stato nell’inchiesta sulla Trattativa Stato-mafia.

Maroni Roberto (Lega Nord): condannato per oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale.

Matteoli Altero (sen Pdl): imputato per favoreggiamento, processo bloccato dalla Camera.

Messina Alfredo (sen Pdl): indagato per favoreggiamento in bancarotta fraudolenta.

Milanese Marco (dep Pdl): indagato per corruzione, rivelazione segreta e associazione a delinquere (P4).

Nania Domenico : (sen Pdl): condannato per lesioni personali, condannato in primo grado per abusi edilizi e prescritto.

Naro Giuseppe (dep Udc): condannato per abuso d’ufficio, condanna in primo grado per peculato prescritta.

Nessa Pasquale (sen Pdl): rinviato a giudizio per concussione.

Nespoli Vincenzo : (sen Pdl): indagato per concorso in scambio elettorale, concorso in bancarotta fraudolenta e concorso in riciclaggio. Richiesta di arresto respinta dal Senato.

Paravia Antonio ( arrestato per tangenti, poi prescritto.

Papa Alfonso : (dep Pdl): accusato di concussione, favoreggiamento e rivelazione del segreto d’ufficio nell’ambito dell’inchiesta sulla P4.

Papania Antonino (dep Pd): patteggia accusa per abuso d’ufficio.

Pili Mauro (dep Pdl): indagato a Cagliari per peculato.

Pini Gianluca : (dep Lega): indagato per millantato credito.

Pittelli Giancarlo (dep Misto – eletto Pdl): indagato per associazione per delinquere finalizzata al riciclaggio e “appartenenza a loggia massonica segreta o struttura similare” e per minacce e lesioni a un collega avvocato.

Pistorio Giovanni (sen Misto): condannato dalla Corte dei conti per danno erariale.

Porfidia Americo : (dep Misto – eletto Idv): rinviato a giudizio per tentata estorsione e favoreggiamento.

Rigoni Andrea (dep Pd): condanna in primo grado per abuso edilizio, poi reato prescritto.

Rizzoli Melania (dep Pdl): indagata per concorso in falso.

Romano Francesco Saverio (dep misto – eletto Udc): indagato per corruzione.

Rosso Roberto (dep Pdl): indagato per associazione a delinquere.

Russo Paolo (dep Pdl): indagato per violazione della legge elettorale.

Rutelli Francesco (sen Misto): condannato per danno erariale dalla Corte dei conti.

Savino Elvira (dep Pdl): indagata per concorso in riciclaggio.

Scajola Claudio (dep Pdl): indagato per la casa vicino al Colosseo pagata dall’imprenditore Diego Anemone.

Scapagnini Umberto (dep Pdl): condannato in primo grado a 2 anni e 6 mesi per abuso d’ufficio e violazione della legge elettorale.

Scelli Maurizio (dep Pdl): condannato a pagare 900 mila euro per irregolarità nell’acquisizione di servizi informatici.

Sciascia Salvatore (sen Pdl): condannato per corruzione alla Guardia di finanza.

Simeoni Giorgio (dep Pdl): indagato per associazione per delinquere e corruzione.

Serafini Giancarlo (sen Pdl): ha patteggiato una condanna per corruzione.

Speciale Roberto (dep Pdl): condannato dalla Corte di appello militare a 1 anno e 1 mese per peculato d’uso e abuso d’ufficio.

Stiffoni Piergiorgio (sen misto – eletto Lega) indagato dalla Procura di Milano per peculato.

Strano Nino (sen Misto – Fli): condannato in appello a 2 anni e 2 mesi per abuso d’ufficio e violazione della legge elettorale

Tancredi Paolo (dep Pd): indagato per corruzione

Tedesco Alberto (sen Pd): indagato per turbativa d’asta e corruzione. La Camera dei deputati l’ha salvato negando l’autorizzazione all’arresto.

Tomassini Antonio (sen Pdl): condannato per falso.

Tortoli Roberto (dep Pdl): condannato in secondo grado a 3 anni e 4 mesi per estorsione.

Verdini Denis (dep Pdl): indagato per false fatture, mendacio bancario, appalti G8 L’Aquila, associazione a delinquere e abuso d’ufficio.

Vizzini Carlo (sen Pdl): condannato in primo grado per finanziamento illecito, si è salvato solo con la prescrizione. Era coinvolto nella maxi tangente Enimont. Indagato per favoreggiamento alla mafia.

Alcuni dati potrebbero essere cambiati rispetto a quelli riportati e nel caso saremo pronti a rettificarli essendo molti i processi in corso. Altri ancora possono essere subentrati.

 

Mesi precedenti

> Settembre

> Luglio

> Giugno

> Maggio

> Aprile

> Marzo

> Febbraio

> Gennaio

 

Anni precedenti

> Anno 2011

> Anno 2010

> Anno 2009

> Anno 2008

> Anno 2007

> Anno 2006

> Anno 2005

 

TORNA ALLA PAGINA INIZIALE