Istat: disoccupazione
settembre al 10,8%. Senza lavoro il 35% dei giovani
Mai così male dal 2004. Ancor peggio il dato per le nuove generazioni, in
aumento di 1,3 punti percentuali su agosto e di 4,7 punti su base annua. Tra i
15-24enni le persone in cerca di impiego sono 608 mila. Su base mensile,
inoltre, si registra un rialzo del 2,3%, ovvero di 62 mila unità
di Redazione Il Fatto Quotidiano
Mai
così male dal 2004. Secondo quanto comunicato dall’Istat, il dato sul tasso di
disoccupazione a settembre è al 10,8%, in rialzo di 0,2 punti percentuali su
agosto e di 2 punti su base annua. Guardando alle serie trimestrali, inoltre, è
il più alto dal III trimestre 1999. Nella fattispecie, il numero dei disoccupati
a settembre è di 2 milioni e 774 mila, si tratta del livello più alto
dall’inizio delle serie storiche mensili (gennaio 2004) e dall’avvio di quelle
trimestrali, ovvero dal quarto trimestre del 1992. E’ quindi un record assoluto.
L’aumento congiunturale della disoccupazione, fa sapere sempre l’Istat,
interessa prevalentemente la componente maschile (+4,0%) e, in misura modesta,
quella femminile (+0,3%). In termini tendenziali cresce sia la disoccupazione
maschile (+29,0%) sia quella femminile (+20,5%). Il tasso di disoccupazione
maschile, pari al 10,1%, cresce nel confronto con agosto di 0,4 punti
percentuali e di 2,2 punti nei dodici mesi; quello femminile, pari all’11,8%,
resta invariato rispetto al mese precedente e aumenta di 1,6 punti rispetto a
settembre 2011.
Ancor peggio il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni), che a settembre
è al 35,1%, in aumento di 1,3 punti percentuali su agosto e di 4,7 punti su base
annua. L’Istat, inoltre, ha fatto sapere che tra i 15-24enni le persone in cerca
di lavoro sono 608 mila e rappresentano il 10,1% della popolazione in questa
fascia d’età. Quanto al tasso di disoccupazione giovanile, l’Istituto chiarisce
che si tratta dell’incidenza dei disoccupati sul totale degli occupati o in
cerca di impiego.
Il livello record di disoccupati raggiunto a settembre, pari a 2 milioni 774
mila, è il risultato di un aumento del 24,9% su base annua, pari a 554 mila
unità. Su base mensile, inoltre, si registra un rialzo del 2,3%, ovvero di 62
mila unità. A settembre gli occupati sono 22 milioni 937 mila, in diminuzione
dello 0,2% rispetto ad agosto, ovvero di 57 mila unità. Il calo, secondo i dati
dell’Istituto di statistica, riguarda esclusivamente la componente maschile. Il
numero di occupati è invece invariato, cioè fermo, su base annua. Quanto al
numero di individui inattivi (15-64 anni), ovvero chi non ha un lavoro né lo
cerca, a settembre risulta sostanzialmente invariato rispetto al mese
precedente, mentre diminuisce del 3,7%, ovvero di 552 mila unità, su base annua.
23 ottobre
Terapia del dolore, hospice
insufficienti e oppiacei tabù: se una legge non basta
I centri non bastano e non c'è coordinamento
tra medici di famiglia, specialisti e strutture sul territorio. Così il paziente
che ha sofferenze croniche resta da solo e senza una guida. Nonostante esistano
norme precise: "Ogni cittadino ha diritto a cure palliative e assistenza"
di Adele Lapertosa
Hospice e centri di terapia del dolore aperti in
numero insufficiente rispetto alle effettive necessità della popolazione,
farmaci oppiacei che continuano a rimanere ancora quasi un tabù, soprattutto per
i medici. E poi manca il coordinamento tra medico di famiglia, specialista e
strutture sul territorio, lasciando così spesso il paziente da solo e senza una
guida. E’ questa la realtà che si trova ad affrontare in Italia una persona che
soffre di dolore cronico , anche se da due anni c’è una legge, la 38/2010, che
dice chiaramente che ogni cittadino ha diritto ad accedere alle cure palliative
e alla terapia del dolore nell’ambito dei livelli essenziali di assistenza. A
dirlo non sono solo le associazioni dei malati, ma anche i medici e i dati del
ministero della Salute.
L’ultimo caso è quello dell’ospedale Sacco di Milano, il cui ambulatorio di
Terapia del Dolore, dalla scorsa primavera, per offrire un servizio migliore con
le risorse a disposizione sempre più risicate, ha deciso di concentrare la
propria attività sui pazienti già in carico all’ambulatorio (circa 500) e quelli
visitati dagli specialisti dell’ospedale Sacco che necessitano anche della cura
del dolore, non più dunque agli esterni. Del resto, anche il libro bianco
dell’associazione Nopain rileva un calo delle strutture più attrezzate. Anche se
è aumentato il numero complessivo dei centri, passati da 158 nel 2009 a 190 nel
2012, di cui 161 pubblici, si tratta per lo più di strutture di primo livello,
adatte a curare solo le forme di dolore più lieve, mentre quelle di terzo
livello, in grado di trattare tutte le forme di dolore difficile, sono
lievemente diminuite. Su scala nazionale risultano 0,78 strutture totali di
terapia del dolore per 250 mila residenti rispetto al precedente di 0,66; ma
solo 0,21 strutture avanzate di terzo livello per 250mila residenti. E nelle 190
strutture complessive operano 360 medici dedicati, cioè 1,4 ogni 250mila
abitanti. Un po’ poco.
Eppure di dolore cronico in Italia ne soffrono in tanti. Le stime parlano del
26% della popolazione italiana, cioè 15 milioni di persone. Secondo i dati dall’
International association for the study of pain un italiano su quattro si
rivolge al medico a causa del dolore e l’Italia è, dopo la Norvegia, il Paese
con la più alta incidenza in Europa. Non c’è solo il dolore oncologico , che
colpisce 200mila persone, ma anche mal di schiena e mal di testa , responsabili
della metà delle visite dal medico di medicina generale. Il dolore cronico, poi,
non sempre viene diagnosticato rapidamente. Come rivela un’indagine
dell’Osservatorio nazionale sulla salute della donna a volte possono volerci 56
mesi, e in alcuni casi addirittura 23 anni, dalla comparsa dei sintomi.
Per quanto riguarda le terapie somministrate, i medicinali più prescritti
continuano a rimanere i non oppiacei. Secondo la relazione al Parlamento 2012
del ministero della Salute sull’accesso alle cure palliative e terapia del
dolore, nel 2011 per gli oppioidi forti si è registrato, rispetto ad altri paesi
europei (che comunque hanno livelli medi molto più alti del nostro) un aumento
nei consumi, pari a 1,17 euro pro capite. Andamento simile anche per gli
oppioidi deboli, dove il valore medio italiano di consumo pro-capite è di 0,78
euro. I farmaci non oppioidi rimangono però i più prescritti, con un valore
pro-capite 11,7 volte maggiore rispetto a quello degli oppiacei deboli e 7,8
volte maggiore degli oppiacei forti. E questo perché, secondo Marzio Bevilacqua
, direttore della Terapia antalgica dell’Ospedale dell’Angelo di Mestre
(Venezia), “c’è un po’ di oppiofobia anche fra i medici di base, e in generale
si fa ancora fatica a considerare il dolore come un sintomo importante”.
Tuttavia non manca qualche segnale positivo. Il più importante è che la
rilevazione del dolore nella cartella clinica dei pazienti ricoverati in
ospedale sta diventando sempre più diffusa (l’attitudine dei medici a misurarlo
è passata dal 47,8% al 77,4% secondo uno studio della Federazione dei medici
internisti Fadoi). E l’altro è che i cittadini sono più informati sui centri di
terapia contro il dolore. La loro conoscenza é salita dal 27,9 per cento al 44
per cento e si evidenzia un maggior coinvolgimento del terapista del dolore
nella gestione della sintomatologia, dal 5,8% al 27%. Certo, la strada per avere
un’assistenza adeguata e capillare sul territorio è ancora lunga, ma se i
cittadini saranno più consapevoli dei loro diritti, potranno anche reclamarli
per essere curati nel modo a cui hanno diritto.
Fondiaria, buonuscita di 3,6
milioni per il figlio del ministro Cancellieri
Piergiorgio Peluso era entrato nella disastrata
società del gruppo Ligresti appena un anno fa. L'arrivo dei "salvatori" di
Unipol ha determinato la rescissione del contratto. 1,7 milioni al suo braccio
destro Gianandrea Perco
di
Redazione Il Fatto Quotidiano
Una buonuscita di 3,6 milioni di euro per
Piergiorgio Peluso , figlio del ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri. E’
la somma pagata da Fondiaria Sai , la società assicurativa di Salvatore Ligresti
“salvata” dall’intervento di Unipol, all’ex direttore generale, ora neodirettore
finanziario di Telecom . Al braccio destro di Peluso, Gianandrea Perco , sono
andati 1,7 milioni di euro. La notizia è stata anticipata dal sito di
Repubblica, che sottolinea come la maga-liquidazione sia arrivata dopo “un solo
anno di duro lavoro”.
Il pagamento, che grava su un gruppo prostrato dalla gestione dei Ligresti e
soggetto a due ricapitalizzazioni in un anno, è avvenuto in occasione delle
dimissioni di Peluso a metà dello scorso settembre ed è stata comunicata al
consiglio di amministrazione nel corso della riunione della scorsa settimana.
Peluso ha potuto incassare la maxi-buonuscita in virtù delle clausole contenute
nel suo contratto che consentivano, in caso di cambio di controllo o di
demansionamento, la possibilità di dimettersi con giusta causa e di incassare
l’equivalente di tre annualità . Facoltà che Peluso ha deciso di esercitare a
settembre, non rientrando una sua conferma nei programmi di Unipol nel frattempo
salita sulla plancia di comando dell’ex compagnia dei Ligresti.
Il figlio del ministro Cancellieri era entrato in Fonsai nel maggio del 2011,
dopo essere stato responsabile del Corporate & Investment banking di Unicredit
per l’Italia, posizione dalla quale aveva trattato l’esposizione delle società
della famiglia siciliana verso l’istituto di Piazza Cordusio. Proprio la
conoscenza con l’ingegnere Ligresti, che lo avrebbe voluto nel gruppo, aveva
agevolato il suo ingresso. Al momento del suo ingresso Peluso rappresentava
dunque una figura di garanzia sia per la famiglia Ligresti sia per Unicredit,
grande creditore di Fonsai, appena uscita dal fallito matrimonio con Groupama, e
la famiglia Ligresti.
I rapporti tra il manager e la famiglia siciliana hanno cominciato a
deteriorarsi quando Peluso, allineandosi alla posizione di Mediobanca, si è
speso per una profonda azione di pulizia del bilanci di Fonsai, facendo emergere
la perdita miliardaria del bilancio 2011. Dalla quale è scaturita l’esigenza di
ricapitalizzazione che ha portato al matrimonio, avversato dai Ligresti, con
Unipol.
22 ottobre
Fiat, no della Corte
d’appello al ricorso: “Assumere 145 iscritti alla Fiom”
Respinta la richiesta del Lingotto di riformare la pronuncia del tribunale di
Roma della scorsa estate quando aveva rilevato discriminazioni ai danni del
sindacato dei metalmeccanici della Cgil. Gli stessi giudici avevano già
giudicato inammissibile la sospensiva
di Redazione Il Fatto Quotidiano
La Corte d’appello di Roma ha dato ragione alla Fiom sulla assunzione di 145
lavoratori iscritti al sindacato dei metalmeccanici Cgil nello stabilimento
della Fiat di Pomigliano D’Arco . Lo fa sapere la Fiom.
Lo scorso 21 giugno il Tribunale di Roma aveva condannato la Fiat per
discriminazioni contro la Fiom a Pomigliano disponendo che 145 lavoratori con la
tessera del sindacato guidato da Maurizio Landini venissero assunti nella
fabbrica. Alla data della costituzione in giudizio alla fine di maggio su 2.093
assunti da Fabbrica Italia Pomigliano nessuno risultava iscritto alla Fiom. Ad
agosto la Corte d’appello aveva giudicato “inammissibile” la richiesta della
Fiat di sospendere l’ordinanza di assunzione per i 145 iscritti alla Fiom
riconoscendo una discriminazione ai danni del sindacato nelle riassunzioni dei
dipendenti dello stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco.
Secondo il segretario della Cgil Susanna Camusso la pronuncia della Corte
d’appello di Roma è “una buona notizia”. “Si tratta di sanare una
discriminazione e un’ingiustizia” commenta il segretario della Fiom, Giorgio
Airaudo . “L’iscrizione al sindacato – aggiunge – non può essere intesa come
elemento di selezione e discriminazione nelle assunzioni. Tutti i lavoratori
rimasti fuori devono rientrare, compresi quelli iscritti alla Cgil, anche perché
la cassaintegrazione scade il prossimo luglio”. La sentenza della Corte
d’appello è “la dimostrazione che la Costituzione che fissa i valori di una
società democratica, non può rimanere fuori dai cancelli delle fabbriche –
aggiunge il vicepresidente del Senato Vannino Chiti (Pd) – Vale per tutti,
imprenditori e lavoratori, per ogni cittadino”.
Ente Sordi ‘dissanguato’ tra
stipendi ai dirigenti e operazioni immobiliari
Fra busta paga, spese di rappresentanza e affitto il presidente Giuseppe
Petrucci, che doveva risanare l'istituto, si porta a casa quasi 10 mila euro
netti al mese. Chiesti finanziamenti per trasformare la sede, a due passi da
S.Pietro, in un hotel di lusso. Ma è occupata dal tribunale penale
di Redazione Il Fatto Quotidiano
Si
sono mangiati tutti i soldi dello Stato e dei sordi italiani. Ora vorrebbero
vendere il loro patrimonio immobiliare. Un buco nel bilancio dell’ Ente
nazionale sordi (Ens) da 12,5 milioni di euro. Con il presidente dell’Ens che si
accredita quasi 10 mila euro netti al mese sul suo conto personale. Intanto lo
Stato paga: 516 mila euro l’anno come contributo annuo all’Ente nazionale sordi.
Un anno fa all’assemblea dell’ente, la presidente Ida Collu , in carica dal ‘95,
è accusata di dissesto finanziario, ma lei nega. Viene defenestrata dalla
maggioranza con alla testa il giovane agrigentino Giuseppe Petrucci , benché
anche lui avesse approvato i bilanci degli ultimi anni. Petrucci fa i conti in
tasca alla gestione Collu e presenta la somma: il buco nel bilancio, scrive, è
“di 12.403.891,94 milioni di euro” e quindi “l’Ente è impossibilitato ad erogare
puntualmente il tesseramento alle sedi territoriali”. Possibile che la Corte dei
Conti non abbia visto nulla? “L’ultima relazione della Corte dei conti al
Parlamento risale per l’Ens al 2005”, rivelano i deputati radicali Maurizio
Turco e Maria Antonietta Coscioni .
Petrucci, appena insediatosi, oltre a uno “stipendio” di circa 3.025 euro netti
al mese, si fa pagare dall’Ens un affitto a Roma di 1.350 euro. Visto che
l’appartamento è da ammobiliare, si fa pure comperare i mobili. Manca però la
carta di credito, allora arriva pure quella: la TopCard della Bnl per spese di
rappresentanza del presidente. Cinquemila euro al mese. Il presidente predilige
i negozi degli aeroporti ma non disdegna gli abiti firmati della boutique Old
England di Roma, dove, in un solo giorno, il 30 marzo scorso , spende 1.350
euro, sempre con la carta di credito dell’Ens. Pure una capatina da 400 euro la
fa al negozio di abbigliamento Tagliacozzo. Nemmeno a tavola si tratta male:
conti sempre salati. Tre pasti in tre giorni in Abruzzo per 640 euro. Ma i
viaggi all’estero sono i suoi preferiti, soprattutto a Dublino , dove si reca
più volte. A Vienna salda la pensione Schoenbrunn con 448,60 euro. Al Vada hotel
di Monaco dorme per 369,80 euro. Sono pochissimi i giorni in cui non ci sono
prelievi o spese. Nella sua città, ad Agrigento , striscia la carta per 988 euro
in una sola volta, mentre in una società agricola è più morigerato: 453 euro. Al
supermercato Pam riempie il carrello con 249 euro di prodotti, mentre alla
Rinascente arriva a 194. Alla fine di marzo chiede, però, che la carta di
credito della Bnl sia annullata e ordina all’ufficio ragioneria dell’Ens “di
voler predisporre mensilmente per le spese di rappresentanza il versamento
dell’importo della somma, ovvero euro 5.000 mensili, direttamente sul mio conto
corrente” . Fra stipendio, spese di rappresentanza e affitto il presidente
Giuseppe Petrucci si porta a casa quasi 10 mila euro netti al mese. Benché le
casse siano esangui, i sette componenti del direttivo dell’Ens si assegnano
18.627 mila euro al mese fra gettoni di presenza, indennità di carica e rimborso
spese. E qualche benefit ulteriore. Come la ristrutturazione di un vecchio
immobile in via Casal Lumbroso alla periferia ovest di Roma per 375mila euro,
“da destinare ad alloggio per i consiglieri”.
La sede dell’Ens è un palazzo a due passi da S.Pietro, in un edificio di cinque
piani. In gran parte occupato dal tribunale del giudice di pace penale. Perché
non trasformarlo in un hotel 4 stelle? Il direttivo Ens approva così il project
financing messo a punto dalla società Risparmio e Sviluppo di Roma, che prevede
un finanziamento di 20 milioni di euro da restituire in 30 anni. L’esposizione
bancaria complessiva arriverebbe dunque a 32 milioni di euro, più interessi. “Il
pagamento della rata deve essere coperta con i ricavi dell’hotel”, spiegano gli
autori del project financing. Tuttavia l’immobile è occupato dal tribunale
penale: solo un piccolo dettaglio per l’ente. Tuttavia si spaccia l’edificio
“come attualmente vuoto in attesa di nuova destinazione d’uso”. Subito dopo
l’approvazione della delibera, due consiglieri si dissociano, uno dei due scrive
che non si può deliberare un operazione
“così rischiosa per la sopravvivenza stessa dell’Ens. Andiamo incontro a
responsabilità, anche penali, enormi”. In caso di insolvenza, l’intero
patrimonio dell’Ens e, probabilmente lo stesso ente, sparirebbe nel giro di poco
tempo. L’Ens, un tempo, aveva circa 60 mila iscritti, ora ne conta appena 15
mila.
19 ottobre
Alla cooperazione nemmeno
mezzo F-35
Raffaele K. Salinari
Costo di un F-35, «modello base» circa 80 milioni di Euro, esclusa manutenzione;
costo totale dei finanziamenti per la cooperazione internazionale allo sviluppo
nel 2011, 23 milioni di Euro per circa. Legge di stabilità e inclusione del
pareggio di bilancio in Costituzione: approvati con voto di fiducia; riforma
delle legge di cooperazione risalente al secolo scorso, anno 1987: in
discussione da una ventina d'anni nei due rami del Parlamento senza esiti.
Bastano poche cifre e qualche dato politico conseguente a fotografare una
divaricazione crescente tra quanto abbiamo sottoscritto a livello di impegni
verso le politiche di riduzione della povertà, diritti dei minori e tutto quello
che includono gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, e i diktat dei mercati
finanziari. Questo significa che esistono esigenze di credibilità internazionali
a geometria variabile, impegni di serie A e di serie B, evidentemente gli uni
legati al rating ed ai conseguenti spread, gli altri alla necessità di salvare
miliardi di vite umane dal gorgo della miseria.
In Italia, attualmente, abbiamo ben due Ministri che si occupano di cooperazione
ma, come evidenziato dal Capo del Governo durante l'ultimo Forum sulla
cooperazione di qualche settimana fa, la materia è condizionata dalla crisi
finanziaria e dunque non è possibile essere coerenti con quanto abbiamo promesso
al mondo, tutto qui, semplicemente.
Da molto tempo, in sede politica come governativa, si parte dalla precondizione
che non sarà possibile mettere a disposizione di questi impegni internazionali
se non una manciata di milioni, diciamo un mezzo F-35, ma nulla di più. Ora
però, di fronte allo scandalo dei prezzi gonfiati, di questa Salerno-Reggio
Calabria militare, ci aspettiamo che dall'interno del Governo e del Parlamento
si levino le stesse voci che reclamano al più presto una legge di riforma del
settore cooperazione, e si trovino le risorse per dare credibilità
internazionale al Paese anche facendo scelte coerenti con queste altre
compatibilità che non sono semplicemente economiche ma etiche e dunque fondative
dell'orizzonte verso il quale si vuole condurre la nazione.
Se si invoca l'Europa, infine, allora forse bisogna richiamare l'evidenza che
l'intero continente non riesce a dare il suo contributo alla pace, pur avendo
vinto un Nobel per questo, anche perché l'Italia ha cancellato la sua politica
estera di cooperazione allo sviluppo verso molti Paesi dell'Africa sub
sahariana, nei quali spesso gli interventi di lotta alla povertà a favore delle
popolazioni rurali disinnescano vere e proprie bombe sociali a frammentazione.
I sistemi d'arma, dunque, non possono essere legibus soluti, in particolare
quando la retroattività fiscale viene introdotta con la giustificazione dello
stato di eccezione permanente. Se è possibile far pagare al contribuente tasse
retroattive, allora è possibile rinegoziare i contratti militari, semplicemente
seguendo la stessa logica. Coerenti sino in fondo.
Crotone, inquinatori
impuniti Ora solo il ricorso
Quarantacinque proscioglimenti e colpo di spugna per politici e colletti
bianchi. Per il gup non c'è nessuno rinviato a giudizio per i rifiuti
industriali tossici dell'ex Pertusola interrati sotto le scuole.
SILVIO MESSINETTI
La
scuola primaria Bernabò, l'istituto comprensivo statale Alcmeone-San Francesco,
il liceo ginnasio Pitagora, l'istituto tecnico commerciale Lucifero. Tutte
scuole costruite con rifiuti industriali, materiali tossici costituiti da Cic
(Conglomerato Idraulico Catalizzato) e da "scoria cubilot", un composto di
sabbia silicea, loppa di altoforno (proveniente dall'Ilva di Taranto) e
catalizzatori, la cui matrice (il cubilot) altro non è che un rifiuto
proveniente dalla lavorazione delle ferriti di zinco, effettuata nello
stabilimento della ex Pertusola Sud di Crotone. Ma questo crimine ambientale non
avrà giustizia. Ricorso permettendo. Perché ieri pomeriggio è arrivato il
proscioglimento di tutti i 45 indagati al termine dell'udienza preliminare
davanti al gup. Niente rinvio a giudizio, dunque. E colpo di spugna per politici
e colletti bianchi. Un duro colpo all'inchiesta avviata, 5 anni orsono, sul
presunto impiego di sostanze tossiche provenienti dai processi di lavorazione
dello stabilimento dell'ex Pertusola.
Tra le persone prosciolte spiccano l'ex prefetto di Catanzaro, Salvatore
Montanaro, indagato nella sua qualità di Commissario delegato per l'emergenza
ambientale in Calabria, l'ex commissario all'emergenza ambientale, Domenico
Bagnato, l'ex direttore generale del Ministero dell'Ambiente, Gianfranco
Mascazzini, il capo di Gabinetto, Goffredo Zaccardi, l'ex presidente della
Provincia di Crotone, Sergio Iritale (attuale capogruppo di Sel al comune), l'ex
sindaco, Pasquale Senatore (Pdl, ex Msi), i legali rappresentanti della
Pertusola Sud, quelli di tre imprese edili e tre funzionari dell'ex Presidio
multizonale di prevenzione dell'ex Azienda sanitaria di Catanzaro.
L'inchiesta, dall'eloquente nome "Montagne nere", nel settembre del 2008, portò
al sequestro preventivo di ben 23 aree dislocate tra il capoluogo, Isola Capo
Rizzuto e Cutro. Secondo l'accusa oltre trecentocinquantamila tonnellate di
rifiuti tossici erano state seppellite sottoterra. Il Cic veniva utilizzato per
costituire la base su cui poggiavano le opere pubbliche e private: il cortile
della Questura, le banchine del porto, scuole, strade, piazzali, interi palazzi.
Insomma, un disastro ambientale che reclama giustizia. La pubblica accusa, che
ha già annunciato ricorso, sostiene che due ditte prelevavano il materiale
dall'ex Pertusola, e invece di smaltirlo in discarica lo usavano per le opere
edili. Il gioco, riteneva l'accusa, era alquanto semplice: gli imprenditori
prendevano il cic dalla fabbrica, in cambio ricevevano «modiche somme
giustificandole come costo aggiuntivo per il trasporto e la posa del materiale»
(più oneroso rispetto al classico misto di cava perché necessitava di rullaggi),
e per gli appalti offrivano prezzi inferiori, perché l'approvvigionamento della
miscela come sottofondo, non era solo a costo zero, ma veniva, secondo l'accusa,
addirittura sovvenzionato da Pertusola. «Emerge dalle concentrazioni dei metalli
valutate nelle diverse matrici biologiche, come i siti investigati come aeree a
rischio siano stati realmente esposti alla contaminazione di alcuni metalli
pesanti, in un lungo arco di tempo precedente alla nostra indagine», era
riportato nelle conclusioni di una perizia disposta dalla Procura pitagorica. Ed
a pagare son stati soprattutto gli alunni degli istituti costruiti sulle scorie.
I giovani studenti, le sostanze (zinco, cadmio, nichel), le hanno trovate nello
stomaco e nei capelli. E così non solo la bonifica di un territorio avvelenato
da una produzione industriale assassina appare sempre di più un miraggio, ma a
queste latitudini anche la ricerca della verità processuale in un pubblico
dibattimento viene negata. A nulla sono valse le lotte e le mobilitazioni di
studenti ed ambientalisti in tutti questi anni. Perché per il gup di Crotone «il
disastro ambientale e l'avvelenamento delle acque non sussistono». E questo
nonostante i tanti studi che dicono il contrario come la recente indagine
"Sentieri" dell'Istituto Superiore di Sanità che ha studiato il profilo di
mortalità delle popolazioni residenti nei siti di interesse nazionale per le
bonifiche.
«È un inno all'impunità, un incentivo a costruire qualsiasi cosa in Calabria con
la certezza che nulla avrai da temere» ha commentato Filippo Sestito della Rdt "Nisticò".
«C'è un contesto che è malato, dal sistema politico a quello giudiziario. È una
giornata amarissima per la Calabria che chiede giustizia ambientale».
18 ottobre
La lunga mano dei boss sul
voto nell'Italia delle elezioni inquinate
Metà delle regioni conta almeno un caso di voto
di scambio. Negli ultimi due anni il numero di inchieste su politici eletti
grazie all'appoggio dei clan è cresciuto in maniera esponenziale. E aumentano i
comuni sciolti per mafia, soprattutto al nord
ROMA
- Una Regione su due conta almeno un caso di compravendita di voti. Dal 2010 a
oggi il numero di inchieste su politici arrivati nelle stanze del potere grazie
all'appoggio dei clan è cresciuto in maniera esponenziale. Nelle borgate dei
grandi centri come nei paesi più piccoli, spesso ai margini della cronaca. Senza
contare i comuni sciolti per infiltrazioni mafiose: oltre 200 dal '91.
La mappa dell'Italia è costellata da scandali che ruotano attorno al voto di
scambio. Da Milano a Casal di Principe, da Ventimiglia a Torino, il Paese è una
gigantesca scacchiera dove i calcoli a tavolino dei boss permettono di
consegnare le chiavi dei palazzi istituzionali a "uomini fidati". A politici
conniventi del clan di turno, che diventano così appendici delle cosche nei
luoghi della democrazia del Paese.
Rispetto a qualche anno fa, è il nord ad aver compiuto il balzo in avanti più
significativo. Piemonte, Lombardia e Liguria, un tempo triangolo industriale e
motore del Paese, si sono trasformate nei presìdi delle 'ndrine, il cui
controllo territoriale passa anche dalla vendita di migliaia di voti.
Un voto costa 50 euro. Ma può arrivare anche a 80 o 100. A seconda della Regione
o delle condizioni dettate dai vertici della criminalità locale. In cambio di
una semplice "x" che segni una preferenza, alcuni possono arrivare a offrire un
panino, un pasto caldo oppure il pagamento di una bolletta.
Sono le schede elettorali sporche di mafia. Migliaia di voti in cambio di
migliaia di euro. Pratica che ha
compromesso sul territorio nazionale decine e decine di assessori, consiglieri e
ex presidenti di Regione. E che, in numerosi casi, li ha costretti a concedere
favori su favori, strozzati dalla loro stessa voglia di potere.
Il voto di scambio si può raccontare attraverso tre storie. Eccole.
Operazione Minotauro. È il 6 giugno 2011. A Volpiano, cittadina di 15
mila abitanti in provincia di Torino, si riunisce il nuovo Consiglio comunale. È
la prima seduta dopo le elezioni e sulla poltrona di sindaco esordisce Emanuele
De Zuanne (lista civica vicina al Pdl). Aprono i lavori. Si susseguono gli
interventi. I presenti, oggi, ne ricordano uno più di altri: "Con i soldi
pubblici bisogna saper osare. Spenderli, ma senza rubare". Qualche applauso, ma
anche fischi. L'oratore, secondo eletto dopo il Sindaco (e suo sostenitore) con
il 33% dei voti, è Nevio Coral, già sindaco di Leinì (piccolo centro a due passi
dal capoluogo piemontese), imprenditore di successo e politico molto noto nella
zona.
Due giorni dopo, la mattina dell'8 giugno, scatta a Torino e provincia
l'Operazione Minotauro, la più vasta azione anti 'ndrangheta nella storia del
Piemonte: 191 persone iscritte nel registro degli indagati, 141 i mandati di
custodia cautelare spiccati dal gip, sequestri preventivi di beni per un valore
di oltre 117 milioni di euro. Associazione a delinquere di stampo mafioso,
detenzione illegale di armi, traffico di stupefacenti, gioco d'azzardo,
riciclaggio sono solo alcuni dei reati contestati. Tra gli arrestati c'è un solo
politico: Nevio Coral. Lo stesso che due giorni prima invocava un uso onesto del
denaro pubblico. Il discorso di Volpiano diventa così l'ultimo atto politico di
un uomo costretto a difendersi da una doppia infamante accusa: concorso esterno
in associazione mafiosa e voto di scambio.
"La criminalità organizzata - scrive il prefetto di Torino Alberto Di Pace nella
relazione consegnata al Ministro Anna Maria Cancellieri il 29 febbraio - sarebbe
arrivata a infiltrarsi tra le maglie dell'ente comunale (e non solo) realizzando
un fattivo concorso nella gestione deviata della cosa pubblica". L'uomo chiave,
il tramite tra lo Stato e il malaffare sarebbe sempre lui: Nevio Coral.
Intrattiene rapporti con affiliati e pluripregiudicati come Vincenzo Argirò,
originario di Locri classe 1957, residente a Caselle Torinese. I due vengono più
volte intercettati, al telefono parlano come chi si conosce da tempo: "Bisogna
proprio dire che i vecchi amici si trovano sempre" dice Coral al presunto boss.
Si danno appuntamento nel ristorante dell'albergo Verdina a Volpiano, proprietà
del figlio di Coral, Claudio. È il 18 maggio del 2009, Nevio cerca voti per
l'altro figlio Ivano, all'epoca candidato alla Provincia di Torino. Una cena tra
amici, una riunione per spartirsi il territorio.
Garantiscono voti nella zona di Leinì, Volpiano e Borgaro Torinese. In cambio
Coral promette loro lavoro: "Quando le strade si fanno - dice intercettato dai
Carabinieri - i lavori si fanno, gli appalti vanno avanti... e innanzitutto
prendiamo uno, lo mettiamo in Comune, l'altro lo mettiamo nel consiglio, l'altro
lo mettiamo in una proloco...". Ivano Coral, già sindaco, verrà da lì a poco
eletto anche consigliere provinciale.
'Ndrangheta a Ponente. Biglietti da visita di alcuni esponenti politici
locali, carte su misteriosi giri d'affari Italia-Germania-Stati Uniti-Emirati
Arabi, oltre ad alcune lettere di un padre ergastolano. Quello che nel giugno
2011 gli agenti della Dda trovarono a casa di Michele Ciricosta , boss del
"locale" (come si chiamano le 'ndrine) di Ventimiglia della 'ndrangheta,
sembrava un vero e proprio "arsenale"malavitoso. Non armi ma contatti,
relazioni, numeri di telefono. Durante la perquisizione un particolare colpì più
di tutti i Carabinieri: una scritta dietro un santino elettorale: "E' andata
tutto bene", firmato Alessio Saso (Pdl). Consigliere regionale della Ligura
eletto un anno prima con oltre 6330 preferenze.
Secondo la Dda di Genova, mille di quei voti sarebbero arrivati proprio grazie
alla "collaborazione" della 'ndrangheta e in particolare di Domenico Gangemi,
professione verduriere, capo del "locale" di Genova. Per far arrivare le
preferenze a Saso, mise in moto appunto la 'ndrina di Ventimiglia. Ossia
Ciricosta. "Le intercettazioni del telefono di Gangemi - si legge nelle oltre
200 pagine di ordinanza di custodia cautelare firmate dal gip Nadia Magrini -
consentivano di registrare già nel mese di novembre 2009 le telefonate con il
consigliere regionale. Il primo contatto telefonico tra l'amministratore locale
e il 'capo bastonè avveniva il 28 novembre e lasciava chiaramente intendere una
loro pregressa conoscenza". Dai tabulati telefonici emerge un rapporto stretto
tra Gangemi e Saso. Si sentono più volte. Prima delle elezioni il consigliere
regionale ha un unico obiettivo, rassicurare il suo interlocutore: "Io sono una
persona seria.. sono una persona che anche dopo ci si può contare... se uno mi
chiede un lavoro, mi chiede un finanziamento... do anche quello... eh... io sono
sempre rimasto in buoni rapporti con tutti".
Non è solo su Genova che le mafie allungano i loro tentacoli in cerca di agganci
politici. Secondo la relazione della Divisione distrettuale antimafia "a
Ventimiglia, al confine con la Francia, esiste una "camera di controllo" della
'ndrangheta calabrese". Nel febbraio scorso, il Consiglio dei Ministri decideva
per lo scioglimento del comune di confine. Infiltrazione mafiosa, l'accusa.
Secondo le indagini si era trasformata in una roccaforte di quelle famiglie
mafiose, 'ndrangheta in primis, che avevano trovato un comodo e redditizio
rifugio per fare gli affari loro. Anche grazie alla politica.
Ventimiglia non è sola però. Perché proprio un anno prima simile sorte era
toccata a Bordighera. Dalle indagini svolte dai carabinieri del Comando
Provinciale di Imperia erano emerse pressioni sul sindaco e su alcuni assessori
per ottenere l'apertura di una sala giochi ed altri favori.
L'urna è Cosa Nostra. "È inutile che viene per cercare voti perché voti
non ce n'è più per Raffaele... quello che ho fatto io quando lui è salito per la
prima volta... e siccome io ho rischiato la vita e la galera per lui...". A
parlare è il boss di Palagonia (Catania) Rosario Di Dio. Dall'altra parte del
telefono c'è Salvo Politino, attuale direttore della Confesercenti etnea. Un suo
amico. Il Raffaele di cui si fa riferimento, invece è - ritiene la Procura -
Raffaele Lombardo, presidente dimissionario della Regione Sicilia, accusato
insieme al fratello Angelo (deputato nazionale Mpa) di concorso esterno in
associazione mafiosa e voto di scambio aggravato. L'oggetto della telefonata,
secondo le ricostruzioni dei pm, sarebbero dei presunti favori elettorali fatti
al governatore. "Le intercettazioni - si legge negli atti del pool di Catania -
hanno dimostrato l'esistenza di rapporti diretti tra Di Dio Rosario, uomo
d'onore ed esponente di primissimo piano dell'associazione criminale Santapaola,
e Lombardo Raffaele". L'ex presidente si è sempre difeso, rimbalzando le accuse.
Ha ammesso di aver incontrato mafiosi, presunti o acclarati, ma allo stesso
tempo ha parlato di contatti fortuiti e occasionali, nati da conoscenze
politiche.
Attualmente sono due i fascicoli "paralleli" nati da stralci dell'inchiesta "Iblis"
su Raffaele e Angelo Lombardo, con reati in qualche modo assimilabili: voto di
scambio e reato elettorale aggravato dall'avere favorito l'associazione mafiosa.
Per questo l'ipotesi accreditata, da fonti dell'accusa e della difesa, è che le
due inchieste vengano riunite in un solo processo, ma questo, con molta
probabilità, comporterà un allungamento dei tempi dell'udienza preliminare. La
motivazione che ha portato ad aggiungere l'aggravante mafiosa è che "nel rione
di Agrigento o di Catania si sarebbe esercitato un potere intimidatorio di
massa, una sorta di voto di opinione mafioso, non rivolgendo la richiesta di
voto a tizio o a caio, ma un clima di intimidazione per cui si sapeva che si
sarebbe dovuto votare Lombardo, e nessuno avrebbe fiatato".
Nei giorni scorsi è iniziata l'udienza preliminare davanti al Gip di Catania,
Marina Rizza, sulla richiesta di rinvio a giudizio coattiva dell'ex governatore
Lombardo. La Procura di Catania ha depositato i verbali con le dichiarazioni
dell'ex assessore regionale Marco Venturi e di un nuovo collaboratore di
giustizia, Giuseppe Mirabile. Nel suo verbale, Venturi ricostruirebbe le
"anomalie nelle convocazioni delle riunioni di Giunta" nella stesura dei verbali
e quello che definisce il "sistema clientelare" di Raffaele Lombardo.
L'Italia ultima in
classifica nella protezione dei disabili
L'analisi, realizzata dal Censis, pone il
nostro Paese tra gli ultimi paesi in Europa per risorse destinate alla persone
con disabilità: si spendono 438 euro pro-capite annui contro i 531 della media
europea, ben lontani dai 754 del Regno Unito. La rilevazione fa seguito a quella
di Cittadinanza Attiva, secondo la quale il 50% dei malati cronici over 65 sono
sulle spalle solo delle famiglie
ROMA - L'Italia è tra gli ultimi paesi in Europa
per risorse destinate alla protezione sociale delle persone con disabilità: si
spendono 438 euro pro-capite annui contro i 531 della media europea, ben lontani
dai 754 del Regno Unito. Secondo una ricerca promossa dalla Fondazione Cesare
Serono e realizzata dal Censis - che fa seguito a quella di Cittadinanza Attiva,
secondo la quale il 50% dei malati cronici over 65 sono sulle spalle solo delle
famiglie - in Francia si arriva a 547 euro, in Germania a 703 euro e solo la
Spagna, con 395 euro, si colloca più in basso del nostro Paese. La spesa per i
servizi in natura, pari a 23 euro pro-capite annui, risulta meno di un quinto
della media europea e inferiore anche al dato della Spagna. Ma oltre le risorse
economiche, quello che manca sono le politiche di inserimento lavorativo: il
modello italiano resta assistenzialistico e le responsabilità sono scaricate
sulle famiglie. Le capacità delle persone con disabilità o malattie croniche non
vengono valorizzate e l'autonomia non è promossa.
Il raffronto con la Francia. In Francia risulta infatti occupato il 36%
dei disabili con un'età compresa tra 45 e 64 anni, mentre in Italia il tasso si
ferma al 18,4% tra i 15-44enni e al 17% tra i 45-64enni.
Così, è occupata meno di una persona Down su tre dopo i 24 anni, meno della metà
delle persone con sclerosi multipla tra i 45 e i 54 anni, e il 10% degli
autistici con più di 20 anni. Quanto all'inclusione scolastica, lo studio -
presentato da Ketty Vaccaro, responsabile del settore Welfare del Censis e dal
presidente Giuseppe De Rita - rileva che "l'esperienza italiana rappresenta
un'eccellenza" per l'obbligo imposto alle scuole ad accettare alunni con
disabilità, ma le risorse dedicate alle attività di sostegno e di integrazione
degli alunni "appaiono spesso inadeguate". "Nell'anno scolastico 2010-2011 circa
il 10% delle famiglie degli alunni con disabilità ha presentato un ricorso al
Tribunale civile o al Tribunale amministrativo regionale per ottenere un aumento
delle ore di sostegno".
Il ruolo dell'Inps. La ricerca evidenzia che le misure economiche erogate
dall'Inps a favore di persone che hanno una limitata o nessuna capacità
lavorativa sono pari a circa 4,6 milioni di prestazioni pensionistiche, di cui
1,5 milioni tra assegni ordinari di invalidità e pensioni di inabilità e 3,1
milioni per pensioni di invalidità civile, incluse le indennità di
accompagnamento, per una spesa complessiva di circa 26 miliardi di euro
all'anno. Il modello assistenzialistico lascia però alle famiglie il compito di
provvedere ai bisogni delle persone con disabilità, senza avere l'opportunità di
rivolgersi a strutture e servizi adeguati.
Le ampie zone d'ombra. Secondo lo studio "accanto ad alcune best practice
legate a scelte coraggiose compiute in anni passati" vi sono "ampie zona
d'ombra"; in alcuni territori sono cresciute "esperienze di eccellenza" ma
quello che colpisce è "la disuguaglianza profonda tra territorio e territorio"
ed "una generale e cronica carenza di servizi assistenziali in natura" e "una
trasversale" ristrettezza di risorse. Tra le ombre lo studio sottolinea anche la
carenza di un dibattito pubblico sui diritti delle persone con disabilità: il
tema ottiene con estrema difficoltà l'attenzione dei media e appare nelle agende
pubbliche quando si immaginano recuperi di spesa anziché nuovi investimenti.
Settembre 2013, centomila
precari licenziati dalla scuola?
Docenti di ruolo con più lavoro, e gratis. Zero
assunzioni. I 900 milioni di tagli annunciati mettono a rischio il posto di
centomila docenti precari - un insegnante su sei - secondo le stime più
pessimistiche
Roberto Ciccarelli
La
legge di stabilità stabilisce un taglio di 723 milioni di euro nella scuola,
aumenta di sei ore l’orario settimanale di lavoro per gli insegnanti e mette a
rischio il posto di 100 mila docenti precari. A questo bisogna aggiungere il
blocco di 182 milioni dell’indennità di vacanza contrattuale per i docenti che
porta il totale dei tagli a 905 milioni.
«Siamo profondamente sconvolti da quanto ha intenzione di fare il governo»
afferma Elena La Gioia, presidente del Comitato italiano precari (Cip). In
pratica, un insegnante su sei nel 2013 potrebbe perdere il lavoro. Questa cifra
è ancora oggetto di valutazione. Ci sono calcoli che l’abbassano a 80 mila
(fonte Tutto Scuola), mentre la Flc-Cgil sostiene che sia più bassa, quasi 30
mila (25 mila precari e 4 mila insegnanti di sostegno). Altre fonti che
ragionano sui dati Miur sostengono che corrisponda a “solo” 22 mila persone. In
ogni caso, il taglio c’è, e i licenziamenti anche.
La pubblicazione del testo definitivo della legge di stabilità conferma le
peggiori indiscrezioni circolate negli ultimi giorni. E aggiunge un corollario:
al termine dell’iter parlamentare, che si preannuncia tormentato, sarà possibile
cambiare i fattori, ma non il prodotto finale che contempla, tra l’altro, il
rifinanziamento di 233 milioni delle scuole private a copertura dei fondi
mancanti nel 2012.
I tagli entreranno in vigore a settembre 2013, e non nel 2014 come aveva
annunciato Profumo. I docenti meno pagati d’Europa saranno costretti a lavorare
6 ore in più sottraendo ai colleghi precari gli spezzoni orari, ovvero le ore
avanzate dalla costituzione delle cattedre ordinarie. Ciò comporterà il taglio
delle supplenze per un importo pari a 265 milioni di euro. L’allungamento
dell’orario non verrà compensato in denaro, ma in 15 giorni di ferie in più (per
un totale di 47) che non potranno essere usufruiti durante l’anno scolastico.
Secondo alcune proiezioni su dati Miur, in questo caso il risparmio sarebbe di
129 milioni. In altre parole, il governo chiede agli insegnanti di lavorare di
più e gratis. Ed esclude, nei fatti, di assumerne di nuovi nei prossimi anni.
Da oggi, fare l’insegnante nella scuola italiana, o sperare in una
stabilizzazione dei precari, sarà un’utopia. La decisione di cancellare il
contratto nazionale e rimuovere il ruolo dei sindacati produrrà un’altra
anomalia. Secondo i dati forniti dalla banca dati Eurydice, rielaborati dalla
Uil Scuola, gli insegnanti italiani restano in classe un numero superiore di ore
rispetto ai loro colleghi francesi, austriaci e tedeschi:
Orario settimanale di insegnamento dei docenti
Fonte Eurydice – 2011
primaria
sec.
Inf.
sec.
Sup.
Bulgaria
12
15
14
Polonia
14
14
14
Estonia
16
16
15
Rep.
Ceca
17
17
16
Slovenia
17
17
15
Danimarca
18
20
19
Grecia
18
16
14
Austria
18
17
17
Romania
18
18
18
Slovacchia
18
18
18
Finlandia
18
16
15
Cipro
19
18
18
media
UE
19,6
18,1
16,3
Germania
20
18
18
Ungheria
20
20
20
Belgio
21
19
18
Lettonia
21
21
21
Lituania
21
18
18
Lussemburgo
21
18
18
Irlanda
22
22
22
Italia
22
18
18
Francia
24
17
14
Spagna
25
19
19
Portogallo
25
22
22
Malta
26
20
20
Olanda
m
m
m
Svezia
m
m
m
Regno
Unito
m
m
m
La media conferma che in Italia il numero delle
ore lavorate dai docenti sono in linea con l’Europa e non c’è alcuna ragione di
aumentarlo. Se non quello di attribuire ai presidi un monte di 200 ore annue in
più a docente da gestire, senza ulteriori oneri, a loro discrezione. Scorrendo i
dati presenti nella prima e nella terza colonna della tabella scopriamo che già
oggi i docenti italiani lavorano un numero di ore superiore rispetto ai loro
colleghi europei nelle scuole primarie (22 contro 19,6) e in quella secondaria
superiore (18 contro 16,3). Per queste ragioni l’aumento dell’orario di lavoro
rappresenterà un caso unico in Europa.
Considerati i vincoli di bilancio imposti dal ministro dell’Economia Grilli, il
tentativo del Partito Democratico di modificare le norme capestro non sarà
agevole. «Le misure sulla scuola sono inaccettabili e così le misure per le
fasce di disagio e disabilità – ha ribadito ieri il segretario Pd Pier Luigi
Bersani – Vediamo la versione definitiva, ma il diavolo è nei dettagli».
L’invito al dialogo è stato raccolto da Profumo. «Il Pd – ha detto – sostiene
lealmente il governo». Ma la mediazione dovrà restare «all’interno dei vincoli
di bilancio votati dallo stesso Parlamento». Ovvero: i fattori possono cambiare,
ma il taglio alla scuola resta di 905 milioni.
La precisazione di Profumo non è piaciuta ai sindacati. Il fuoco di fila è
iniziato dalla Cisl, con il segretario generale Bonnani in persona: «Il governo
deve cancellare i tagli e se non lo farà ci dovrà pensare il Parlamento». Di
«norma contro la scuola che offende gli insegnanti» parla il segretario generale
della Uil Scuola Massimo Di Menna: «non esiste alcuna ragione plausibile per
obbligare a 24 ore di lezione, eliminando il contratto di lavoro, lasciando le
retribuzione invariate». La conferma dello sciopero generale del 24 novembre è
inevitabile.
Dalla Flc-Cgil si fa sentire il segretario generale Pantaleo che invita gli
altri sindacati a promuovere «una grande manifestazione nazionale unitaria».
Contro queste «odiose misure», di cui chiede il ritiro, annuncia l’occupazione
dei provveditorati.
Lecce, in carcere è codice
rosso, all’ospedale verde: aperta un’inchiesta
La percentuale di rinvii dal penitenziario alla
struttura sanitaria sembra abnorme: in poco più di un anno solo nel 13 per cento
degli 846 casi analizzati è stata confermata una situazione d'emergenza. E la
stessa direzione dell'istituto negli ultimi mesi ha stoppato decine di
trasferimenti
di Tiziana Colluto
Sulla carta erano tutti codici rossi , il
lasciapassare più immediato perché i detenuti si allontanassero dal carcere di
Lecce per essere trasferiti in ospedale. Una volta giunti al pronto soccorso,
però, quasi tutti si trasformavano in codici gialli , se non addirittura verdi .
Una stranezza macroscopica nei numeri, tanto da far scattare un’indagine alla
Procura salentina, dopo gli accertamenti effettuati dagli agenti della Polizia
penitenziaria, al comando del commissario Riccardo Secci . L’informativa di
reato è stata depositata qualche mese fa ed è ora nelle mani del sostituto
procuratore Giuseppe Capoccia , che ha aperto un fascicolo, al momento a carico
di ignoti. L’accusa ipotizzata dalla magistratura è di interruzione di pubblico
servizio .
La percentuale di rinvii in ospedale, infatti, pare essere abnorme. Stando ai
numeri forniti dalle guardie carcerarie, tra il gennaio del 2010 e il febbraio
del 2011, solo il 13,4 per cento degli 846 casi presi in considerazione è stato
confermato come effettivo codice rosso. Il restante 86,6 per cento, dopo il
trasferimento al pronto soccorso dell’ ospedale Vito Fazzi , è stato declassato
a codice giallo o verde. Insomma, quasi la totalità degli spostamenti, che hanno
viaggiato ad una media di oltre due detenuti al giorno, sarebbe risultata
inutile, così come superfluo sarebbe stato l’impiego, ogni volta, di
un’ambulanza e di almeno tre agenti di scorta. Un dato assolutamente non neutro,
in una casa circondariale che soffre di carenza cronica di personale
penitenziario, che si attesta sulle 715 unità, a fronte delle 767 assegnate
dalla previsione ministeriale ferma, però, al 2001. Un parametro, questo,
calcolato a fronte della capienza regolamentare di 660 detenuti. Attualmente,
invece, a Borgo San Nicola ce ne sono il doppio, 1285. Numeri di un
sovraffollamento drammatico, che è già costato allo Stato italiano la condanna
per “ lesione della dignità umana ” da parte del tribunale di Sorveglianza di
Lecce.
Il solo dato della popolazione carceraria, però, non basta a spiegare
l’esplosione dei rinvii in ospedale, altissima rispetto alla media nazionale,
come confermato dalla stessa direzione dell’istituto di pena, affidata ad
Antonio Fullone , che negli ultimi mesi ha stoppato decine di trasferimenti,
perché illegittimi. Per legge, infatti, fuori possono essere inviati solo i
reclusi in pericolo di vita o che rischiano una grave menomazione e non sono
curabili all’interno dell’istituto. Fin troppi, però, affollano l’infermeria del
carcere, anche perché questa è l’unica struttura in Puglia ad avere assistenza
medica 24 ore su 24 e assistenza psichiatrica trisettimanale. Per fronteggiare
la continua emergenza, nelle ultime settimane la Asl ha rafforzato la dotazione
del personale medico, mentre drastica resta l’assenza della metà degli
infermieri necessari.
Anche al netto di tutto ciò, tuttavia, 846 rinvii ospedalieri in 13 mesi non si
spiegano, se non si ipotizzano altre cause, come fatto nell’apposito studio
stilato dalla direzione del penitenziario. Ci può essere una condizione di
stress dei medici, poiché non è facile governare la tendenza alla simulazione ed
esasperazione propria dei carcerati; c’è il timore reverenziale rispetto al
detenuto di turno; c’è l’impennata delle denunce contro i sanitari. Le
verifiche, a questo punto, diventano possibili soltanto ex post, perché, questo
è sicuro, nel bilanciamento di interessi, si preferisce rischiare di impegnare
in modo inopportuno la scorta, piuttosto che esporre al pericolo la vita e la
salute della persona. Se i pesi sulla bilancia siano stati incautamente falsati
da valutazioni leggere, saranno le indagini a stabilirlo. Il sospetto è che
questa routine sia diventata metodo, dando per scontata sempre la buona fede.
Nell’ambito della stessa inchiesta, però, ci è finito anche il caso di un medico
già noto alle cronache e già sospeso per due mesi dal servizio. Stavolta,
avrebbe stabilito l’incompatibilità col regime carcerario di un noto
pregiudicato, redigendo una presunta falsa perizia.
16 ottobre
Sanatoria flop, solo 105mila
richieste. Boom sospetto di colf e badanti
L'ultimo giorno per le domande, bilancio
deludente rispetto alle attese di 300-400 mila adesioni di stranieri in nero.
Pochissime richieste da fabbriche e cantieri, molti lavoratori domestici - meno
costosi da regolarizzare - fra nazionalità "non tradizionali"
di Lorenzo Galeazzi e Mario Portanova
“L’amnistia a pagamento ”, come era stata definita
da Pdl e Lega, si è dimostrata un flop e l’annunciata invasione di orde di
immigrati regolarizzati dal governo è rimasta solo sulla carta. Parliamo della
Sanatoria 2012, la normativa varata dal ministro per l’Integrazione Andrea
Riccardi e rivolta a quei datori di lavoro che volevano fare uscire dalla
clandestinità i propri dipendenti immigrati concedendo loro un permesso di
soggiorno. Il Carroccio era arrivato a dichiarare che alla fine i migranti
regolarizzati avrebbero toccato quota 800mila, con perdite per la sanità
pubblica “nell’ordine di 43 milioni di euro nel 2012 e 130 negli anni a
seguire”.
I dati forniti dal ministero dell’Interno restituiscono però un’altra realtà:
nel mese messo a disposizione per la presentazione delle domande, dal 15
settembre al 15 ottobre, le schede presentate hanno superato di poco quota
105mila , numeri bel al di sotto delle stime del ministero guidato da Riccardi
che, come ricorda Fulvia Colombini della Cgil, “aveva previsto dalle 3 alle
400mila richieste”.
L’altro aspetto che aveva fatto saltare la mosca al naso al centrodestra era a
chi era destinata la sanatoria. Se nel 2009, quando Silvio Berlusconi era a
Palazzo Chigi e Roberto Maroni al Viminale, il provvedimento era rivolto solo a
colf e badanti , con l’attuale legge possono uscire dalla clandestinità tutti i
lavoratori dipendenti: dagli edili a quelli impiegati nelle fabbriche e
nell’agricoltura. Una differenza non da poco che aveva trasformato la normativa
in “atto criminale, razzista nei confronti dei lavoratori italiani” contro il
quale si sarebbe dovuta scatenare “una guerra totale” (Maroni), fino alla stessa
“sopravvivenza del governo dei tecnici” (Maurizio Gasparri). Stiano tranquilli
perché i diritti dei lavoratori italiani sono salvi: dati alla mano, i datori
che hanno presentato domanda per regolarizzare forme di collaborazione non
domestica sono meno di 12mila in tutta Italia: circa il 10 per cento del totale.
Ma perché questo flop? “E’ a causa della combinazione di due fattori – risponde
Riccardo Tromba dello sportello legale del Naga , una delle principali
associazioni che tutelano i diritti dei cittadini stranieri – Da una parte il
costo elevato, dall’altra l’esito incerto della procedura”. I datori che
intendevano regolarizzare i dipendenti stranieri, oltre a una tassa di 1000 euro
(che in caso di diniego non viene restituita) dovevano versare allo Stato almeno
gli ultimi sei mesi di contributi evasi . Se nel caso del lavoro domestico e
della cura alla persona si viaggia su circa 4000 euro, la cifra sale fino a
14mila per gli altri settori. “Sappiamo bene che il 90 per cento delle domande
presentate non provengono da colf e badanti – sottolinea il volontario del Naga
– E’ che così facendo il permesso di soggiorno costa molto meno. Un particolare
non da poco perché chi mette mano al portafoglio è quasi sempre il migrante e
non il datore di lavoro”. Anche la “paternità” delle domande arrivate al
Viminale confermano questa tesi: al primo posto, con oltre 13mila richieste, ci
sono i marocchini seguiti dai cittadini del Bangladesh a quota 12mila.
Nazionalità che, secondo gli esperti, poco hanno a vedere con la cura della
persona o della casa. Quella ucraina è “terza” con 10mila richieste di
regolarizzazione.
Prima dell’apertura della finestra per la sanatoria, i volontari del Naga,
parlavano di un “provvedimento volutamente confuso per placare i mal di pancia
di alcuni partiti” che sostengono il governo dei tecnici. Confusione che, come
ha documentato la video-inchiesta del fattoquotidiano.it sul mercato illegale
delle regolarizzazioni, va a braccetto con le truffe. “Una previsione azzeccata,
visti i numeri”, chiosano oggi.
Roma, la Regione cacciò il
direttore Asl. Ma il successore lo nomina consulente
Franco Condò fu dichiarato decaduto dalla
carica a causa di "gravi disavanzi di gestione". Tanto che fu condannato anche
dalla Corte dei Conti. Insieme a chi? Insieme al suo successore, Maria Sabia. Il
motivo: un danno erariale dopo alcuni lavori di ristrutturazione al Santo
Spirito
di Luca Teolato
Franco Condò , con una delibera della Giunta
regionale del Lazio a gennaio 2009, amministrazione Marrazzo , è stato
dichiarato decaduto dalla carica di direttore generale della Asl Roma E per una
serie di inadempienze. Ma una volta uscito dalla porta, è rientrato dalla
finestra, come consulente della stessa Asl, grazie all’amministrazione Polverini.
"Gravi disavanzi di gestione per gli esercizi finanziari 2003, 2004, 2005 – si
legge nella delibera regionale che gli revocò il mandato – numerose violazioni
dei principi di buon andamento dell’amministrazione, violazioni di legge ed
ulteriori gravi motivi riconducibili al mancato rispetto degli indirizzi
regionali in materia di contenimento dei costi".
L’Asl Roma riunisce i municipi delle zone Prati, Aurelia, Monte Mario e Cassia
Flaminia e quindi serve in tutto oltre mezzo milione di cittadini. La Polverini
, dopo la cacciata di Condò, nominò come dirigente dell’azienda sanitaria Maria
Sabia , ex direttore amministrativo della stessa azienda sanitaria. Tuttavia
questa a sua volta nominò Condò suo consulente. Entrambi pochi mesi prima (nel
giugno 2010) erano stati condannati dalla Corte dei Conti del Lazio, insieme
all’ex presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici Angelo Balducci e
ad altri, “al pagamento in parti uguali in favore dell’Asl RmE della somma di
euro 229.260,47”, come dice la sentenza. Motivo? Un danno erariale causato da
alcuni lavori di ristrutturazione dell’ospedale Santo Spirito di Roma, eseguiti
in occasione del Giubileo, che non furono condotti a regola d’arte tanto da
dover essere rifatti poco dopo.
Nella delibera che si pronunciava sulla decadenza di Condò, ci sono passaggi in
cui vengono riportati giudizi della magistratura contabile . La Corte dei Conti
ha infatti stabilito che la somma del bilancio di gestione, riferita
all’esercizio 2005, evidenziava una differenza molto elevata tra quanto previsto
in sede di budget ed i risultati effettivamente ottenuti. Inoltre “nel triennio
2003-2005 – si legge nella sentenza – la gestione aveva evidenziato un
peggioramento del risultato economico pari al 62% ed un ulteriore depauperamento
del patrimonio netto, già gravemente negativo, del 66%; aveva rilevato un
aumento ingiustificato dei costi per l’acquisizione di beni e servizi (24%);
rilevava irregolarità e carenze nelle procedure di contabilità”. Un curriculum
che deve aver “ben impressionato” l’ex presidente della Regione Polverini.
Secondo la magistratura contabile, insomma, la gestione dell’Asl in quegli anni
è stata non proprio regolare. E a quello stesso periodo (dal 2003 al 2005) si
riferisce una denuncia dell’imprenditore Oreste Zambrelli , legale
rappresentante della “Raphael srl Strutture Sanitarie e dell’Ospitalità” proprio
ad alcuni dirigenti della Asl Roma E: gli stessi Condò e Sabia, ma anche il
direttore del dipartimento salute mentale della Asl Gianfranco Palma e
l’avvocato Guido De Santis , fino al 2005 consulente legale dell’Azienda
sanitaria. La Raphael opera nel settore sanitario, in particolare nella
riabilitazione psichiatrica. ”Nel solo periodo dal 29/04/2004 al 15/09/2005 – si
legge in una relazione inviata alla Corte dei Conti e alla Procura della
Repubblica di Roma – lo sperpero di denaro pubblico nella sola struttura Raphael
di Via Cassia in Roma ammonta a 2.960.000,00 euro”.
“Nonostante lo avessi denunciato a tutti i livelli istituzionali, sono stato
costretto per anni – denuncia Zambrelli – ad operare nell’illegalità, senza la
prescritta autorizzazione regionale all’apertura e all’esercizio della struttura
socio sanitaria, per inadempienze della Asl RmE e della Regione Lazio. Per vari
periodi la società Raphael è stata pagata pur non avendo pazienti che, come da
contratto, dovevano essere inviati dalla Asl RmE. Inoltre la Asl ha stipulato
una convenzione ‘vuoto per pieno’ con la Fondazione Mario Lugli Onlus, per una
spesa annuale di 957.100 euro. In sostanza – spiega Zambrelli – la Asl RmE, pur
dichiarando l’insufficienza numerica delle strutture psichiatriche alternative
al ricovero ospedaliero, contemporaneamente, pur pagandole a vuoto, non le ha
utilizzate per soddisfare le numerose richieste, in lista di attesa, delle
persone con disagio mentale”. In sostanza, secondo il racconto
dell’imprenditore, per 4 anni ha incassato i rimborsi dell’Asl, ma questa non è
mai passata al gradino successivo promesso: l’autorizzazione regionale.
La Corte dei Conti però ha archiviato la denuncia di Zambrelli e anche una della
Fials , Federazione italiana autonoma lavoratori sanità, per la stessa vicenda.
“Non capisco come sia possibile. Il mio è un esempio emblematico – denuncia
Zambrelli – proprio della gestione sconsiderata di Condò e dell’operato
discutibile dell’azienda sanitaria che dirigeva. Operato condannato proprio
dalla magistratura contabile che però ha archiviato la mia denuncia specifica su
tale gestione, rifiutando di rendere note le motivazioni di tale decisione da me
più volte richieste. Io potevo tranquillamente stare zitto e prendermi i soldi
della Asl pur non avendo pazienti ma ho creduto fosse mio dovere denunciare la
cosa. Il presidente della Corte dei Conti, Luigi Giampaolino , fa appelli per
incentivare la collaborazione dei cittadini per agevolare l’operato della
magistratura contabile ma, alla luce di quello che mi è successo, mi sembra che
tale collaborazione non serva a nulla”. Mentre anche la Procura ha archiviato la
denuncia di Zambrelli (che ha fatto ricorso), ormai la struttura che rappresenta
è ferma da anni “con motivazioni pretestuose addotte dalla Asl e dalla Regione,
con conseguenti danni ingentissimi di ogni genere. Ma sono ancora fermamente
intenzionato a far valere i miei diritti”.
Aiuti Ue, da Atene a Dublino
montagna di soldi alle banche. Ai cittadini sacrifici
I fondi elargiti a Paesi europei in difficoltà
come Irlanda, Grecia e Portogallo, un domani Spagna e poi, forse, Italia sono
gravati da interessi tutt’altro che simbolici e concessi in cambio di giri di
torchio sulle rispettive popolazioni. Ovunque la scusa del risanamento dei conti
pubblici (spesso dissestati a causa dei soldi spesi per salvare le banche) è
stata utilizzata per sdoganare l’opera di smantellamento dello Stato sociale e
di mortificazione dei redditi da lavoro
di Mauro Del Corno
Ci vuole un certo coraggio a chiamarli aiuti. I
fondi elargiti a Paesi europei in difficoltà come Irlanda, Grecia e Portogallo,
un domani Spagna e poi, forse, Italia sono infatti gravati da interessi tutt’altro
che simbolici e concessi in cambio di giri di torchio sulle rispettive
popolazioni. Ovunque la scusa del risanamento dei conti pubblici (spesso
dissestati a causa dei soldi spesi per salvare le banche ) è stata utilizzata
per sdoganare l’opera di smantellamento dello Stato sociale e di mortificazione
dei redditi da lavoro. Un approccio che, oltre a non aver sinora sortito nessun
risultato positivo per l’economia, appare ancora più stridente se confrontato
con il trattamento riservato alle banche. Per loro i prestiti elargiti da Banca
centrale europea e Unione europea a costi irrisori e senza nessun vincolo di
utilizzo. Giusto qualche blanda raccomandazione ‘pro forma’ e via. Finanziamenti
che arrivano dopo che i singoli Stati del Vecchio Continente hanno messo in
campo la bellezza di 2.300 miliardi di euro per riparare le falle dei loro
sistemi bancari. Questa la situazione attuale dei Paesi che hanno chiesto e
ottenuto fondi di sostegno.
PORTOGALLO. Lisbona ha ricevuto dalla famigerata Troika (Fondo Monetario
Internazionale, Banca Centrale Europea, Unione Europea) un prestito da circa 80
miliardi di euro a un tasso del 4% annuo. In base ai calcoli del ministero delle
Finanze alla fine i portoghesi pagheranno 35 miliardi di euro in interessi, più
o meno 3.500 euro a testa. Ma non finisce qui perché i fondi sono arrivati in
cambio di un progressivo indebolimento del welfare e di una decisa compressione
del costo del lavoro. Secondo gli accordi la spesa pubblica dovrebbe venire
quasi dimezzata in quattro anni. I fondi per farmaci e assistenza ospedaliera
sono già stati decurtati per quasi un miliardo di euro. Sul fronte lavoro gli
stipendi sono scesa in media del 7% e i lavoratori sono stati obbligati a
sottoscrivere un’assicurazione contro la disoccupazione. Mentre la popolazione è
sottoposta a questa cura lacrime e sangue le banche portoghesi hanno preso a
prestito dalla Banca Centrale Europea circa 50 miliardi di euro (non esistono
dati ufficiali ma solo stime) nell’ambito del programma di iniezione di
liquidità (LTRO) varato da Mario Draghi tra fine 2011 e inizio 2012. Come per
tutte la banche che hanno usufruito dei fondi il tasso è fissato all’ 1% e non
esistono vincoli all’utilizzo.
IRLANDA. Le cifre sono simili a quelle del Portogallo e il gioco è sempre
lo stesso, alle banche viene dato tanto in cambio di quasi niente , alla
popolazione poco in cambio di quasi tutto. Dublino fu costretta a chiedere aiuto
perché il Governo decise di farsi garante di tutte le perdite del sistema
bancario nazionale, i cui conti apparivano devastati dopo lo scoppio della bolla
immobiliare, portando così il suo debito dal 25 all’80% del Pil in soli tre
anni. Arrivò così un assegno di 85 miliardi di euro a firma Fmi ed Unione
europea. Come per i portoghesi gli interesse che gli irlandesi dovranno pagare
attraverso le tasse è di circa il 4% (varia a seconda delle scadenze delle
diverse tranches) e come accompagnamento c’è da trangugiare il solito cocktail
indigesto di misure su welfare e lavoro. Da qui al 2014 la spesa per sanità,
scuole, assistenza verrà ridimensionata del 13%, gli stipendi pubblici sono già
stati ridotti del 20% mentre sul salario minimo, che riguarda tutti, è arrivata
una sforbiciata dell’11 per cento. E ancora aumento dell’Iva, delle imposte sui
redditi, delle tasse universitarie con l’obiettivo finale di garantirsi un
maggior gettito fiscale di 5 mld di euro l’anno. Vengono invece risparmiate le
aziende che conservano la tassazione super favorevole del 12,5% sui loro
profitti. E le banche? Anche quelle irlandesi hanno approfittato ampiamente
della maxi offerta Bce. Nei loro forzieri sono arrivati quasi 80 miliardi di
euro con il solito tasso dell’1% e assoluta libertà di impiego.
GRECIA. Per il malato più grave il ‘successo’ della cura dell’austerità a
firma Bce, Fmi, Ue è sotto gli occhi di tutti: Pil a meno 5%, conti pubblici che
continuano a deteriorarsi, disoccupazione passata dal 17 al 25% in un anno.
Finora a favore di Atene sono stati stanziati prestiti per un valore che si
avvicina ai 240 miliardi di euro , in parte già corrisposti in parte programmati
per il prossimo anno con tassi di interesse che oscillano tra il 3,5 e il 4%
(solo dalla prima tranches la Germania ha già incassato 400 milioni di euro in
interessi). La lista dei sacrifici imposti alla popolazione si allunga di giorno
in giorno e comprende misure che ormai sfiorano il grottesco. Anche qui gli
ingredienti base sono tagli a sanità, assistenza, spesa sociale e ghigliottina
sugli stipendi: – 25% quelli pubblici, – 15% quelli privati e salario minimo
ridotto del 22%. Più complessa la situazione del settore bancario che non
partecipa all’abbuffata di fondi LTRO ma che prende ossigeno dal programma
Emergency liquidity assistance sempre made in Francoforte, ma con condizioni un
po’ più severe.
SPAGNA. Alle banche iberiche non sono bastati i circa 300 miliardi presi
in prestito dalla Bce all’1 per cento. Hanno avuto bisogno di altri 100 miliardi
di euro elargiti a condizioni un poco più onerose attraverso il fondo “Salva
Stati”(il virgolettato è d’obbligo) per rafforzare il loro capitale. Visti i
precedenti è comprensibile che il governo Rajoy stia facendo di tutto per
evitare un intervento a sostegno del sistema paese che arriverebbe sotto forma
di acquisti di titoli pubblici da parte della Bce subordinato all’accettazione
di una serie di impegni. Come accaduto per Grecia, Irlanda e Portogallo il
ricorso al soccorso esterno vorrebbe dire sottoporsi definitivamente ai diktat
di Bruxelles e Francoforte . Madrid ha comunque già una mano legata essendosi
impegnata con l’Unione Europea a ridurre il deficit pubblico esploso negli
ultimi anni. E così negli ultimi due anni sono arrivate nuove tasse, tagli alla
spesa pubblica per quasi 30 miliardi di euro, riduzione del numero dei
dipendenti pubblici e dei loro stipendi , riforma del mercato del lavoro
nell’ottica di una maggiore flessibilità. E pensare che potrebbe essere solo un
antipasto e che un destino non molto diverso potrebbe riguardare anche noi . Le
avvisaglie non mancano.
Alitalia, 4200 dipendenti a
casa. E la compagnia annuncia altri mille esuberi
Nel 2008 erano già stati fatti fuori dal “Piano
Fenice”, ma con la promessa di essere riassorbiti o accompagnati alla pensione.
Ma quanto era stato promesso non si è avverato: da oggi sono mobilità. E col
nuovo piano del Cai sono in arrivo altri tagli
di Gabriele Paglino
“Volo di solo andata”. E’ questa la dicitura sul
fac-simile di una carta d’imbarco che, venerdì scorso, durante un sit-in sotto
al ministero del Lavoro , gli ex lavoratori di Alitalia esponevano agli
obiettivi di fotografi e cameraman. Sono 4200 tra piloti, assistenti di volo,
addetti al check-in e al carico e scarico bagagli (il cosiddetto handling ) per
i quali “il rapporto di lavoro (con la ex compagnia di bandiera, ndr ) – si
legge nella lettera inviata il 30 settembre 2011, dai tre commissari
straordinari succeduti ad Augusto Fantozzi – è da intendersi risolto alla data
del 13 ottobre 2012”. Per loro dunque scattano adesso le procedure di mobilità:
il preludio al licenziamento. “Il lavoratore – si legge sul sito
alitaliaamministrazionestraordinaria.it – dovrà inoltrare la domanda all’ Inps
entro il termine perentorio di 68 giorni”. Nessuno (o quasi), tra coloro che nel
2008 vennero esclusi dalla nuova compagnia ( Cai ), messa in piedi dalla cordata
di imprenditori italiani guidata da Roberto Colaninno , poteva immaginarsi una
fine simile.
“Le promesse che avevano fatto a noi e al Governo – racconta Luisa, una hostess
assunta da Alitalia nel ’94 – erano altre”. Ovvero cassa integrazione per
qualche anno e poi tutti (o quasi) riassorbiti. “Il rapporto di lavoro –
riportava la prima lettera, arrivata loro quattro anni fa – resta sospeso”.
Coloro che invece avevano maturato molti più anni di servizio sarebbero stati
accompagnati, con i sette anni totali di ammortizzatori sociali – 4 di cassa
integrazione, più altri 3 di mobilità –, alla pensione minima. Niente di tutto
questo, perché per reclutare personale aggiuntivo, anziché attingere dalle liste
dei cassintegrati, Cai – in netto contrasto con gli accordi siglati a Palazzo
Chigi nell’ottobre del 2008 – ha assunto nuovi lavoratori, per poi mandarli,
dopo poco tempo, in cassa integrazione (anche loro). Pochi mesi e sono iniziate
le nuove assunzioni di altro personale precario ex novo. Talvolta anche previo
corso di formazione pagato di tasca propria dai candidati. Ed intanto i
cassaintegrati Alitalia sono rimasti ad aspettare. “Sono meno di un terzo, tra i
quasi sei mila lavoratori tagliati nel 2008, quelli che sono stati reintegrati”,
ricorda Fabio Frati, sindacalista della Cub Trasporti e anche lui nella lista
dei licenziati.
Storia diversa ma stesso finale drammatico per coloro che, quando l’allora a.d.
di Intesa Sanpaolo, Corrado Passera , mise appunto il “piano Fenice” – per far
risorgere Alitalia dalle sue ceneri –, stavano per raggiungere l’agognata
pensione: la nuova riforma delle pensioni, targata Fornero , “ci ha spostato la
linea del traguardo di sette anni in avanti – prosegue Frati – E sperare che
qualcuno assuma un ultracinquantenne (seppur altamente specializzato, ndr ) è
inverosimile”. Già perché poi, per ciò che ad esempio riguarda i piloti, “dopo
alcuni mesi di inattività – spiega uno degli oltre 800 comandanti lasciati a
casa – nonostante continuiamo a spendere più di mille euro all’anno per
rinnovare il nostro brevetto con i simulatori, nessuna compagnia al mondo
potrebbe assumerci, visto che non abbiamo più la cosiddetta currency, cioè
l’attività costante. E riciclarsi a cinquantaquattro anni è impossibile”.
Anche loro esodati, e costretti a coprire un “buco” contributivo più o meno
grande. Intanto la nuova Alitalia Cai continua a perdere utili, allontanando di
anno in anno l’annunciato pareggio di bilancio: nel primo semestre 2012 ha
registrato una perdita netta di 201 milioni di euro. E la (quasi) automatica
conseguenza non può non essere il taglio di altri posti di lavoro. Martedì
prossimo l’azienda illustrerà ai sindacati il nuovo piano industriale. In quell’occasione,
secondo quanto già lasciato intendere nei mesi scorsi dai vertici della stessa
compagnia, potrebbe essere annunciata l’apertura di una nuova procedura di cassa
integrazione per almeno mille lavoratori, di quasi tutti i settori. Che
andrebbero così ad aggiungersi a quei 700 dipendenti Cai, in cigs da marzo 2011,
e ai 76 lavoratori della Argol . Il progetto di rilancio della compagnia di
bandiera italiana “è stato un fallimento”, continuavano a ripetere dal presidio
sotto al ministero del Lavoro alcuni di quei 4.200 ex (dal 14 ottobre a tutti
gli effetti) lavoratori Alitalia, mentre protestavano contro l’altro dicastero
che sta proprio di fronte: quello dello Sviluppo Economico , presieduto
dall’artefice del “piano Fenice”.
Quanto spende la "Regina".
Ma agli atleti solo le briciole
ROMA — Impianti a pezzi, società fantasma e
auto blu. Gli sprechi e i "metodi" elettivi, si annidano nei colossi dello
sport, come la Regina atletica, ma anche nelle piccole.
Atletica leggera. Impianti a pezzi, borse di studio mal distribuite e il rebus
dei corpi sportivi militari. La federazione italiana di atletica leggera, dopo
Figc e Fin, è tra quelle che percepisce più finanziamenti dal Coni. Nel 2011 ha
ricevuto 9,1 milioni, nel 2012 a budget ne ha 8,2, di cui oltre 2 milioni (un
quarto) sono assorbiti dalle spese per i 71 dipendenti. Negli ultimi quattro
anni le spese di funzionamento sono lievitate passando dal 14% del 2009 al
19,24% del 2012 (fonte: passioneatletica. it) mentre quelle per le attività
tecniche sono diminuite dal 17% del 2009 al 15, quelle per le attività
organizzative dal 19,8% all’11,7, senza parlare di quelle alla voce “
presidenza” passate dal 4,5% del 2009 all’8,4 di quest’
anno. La Fidal centrale pesa per il 72,4% sui conti della Regina Atletica. A
scapito dei comitati regionali, quelli che curano direttamente l’attività
sportiva sul territorio, la cui incidenza è scesa dal 31,6% al 27,6. Stupiscono
inoltre quei quasi 3 milioni di euro spesi nel 2011 per la preparazione olimpica
e di alto livello. Una cifra esosa, considerando che gli atleti andati poi alle
Olimpiadi sono stati 37. Tra l’altro due di loro, l'ostacolista Marzia Caravelli
e la velocista Giulia Arcioni, si allenano in strutture in condizioni
disastrose, come il Paolo Rosi di Roma. Vengono allenati da tecnici che dalla
federazione non prendono un euro. Lo stesso ostacolista e primatista italiano
dei 110 hs, il ligure Emanuele Abate, viene allenato dal suo tecnico di sempre
Pietro Astengo, ora pensionato. Caravelli quest’anno ha ricevuto dalla Fidal per
aver stabilito il nuovo record italiano sui 100 ostacoli la “ bellezza” di 5.000
euro. Non un borsa di studio né alcun sostegno economico, sebbene abbia
registrato il minimo A per i Giochi. Infatti è in cerca di sponsor per
continuare ad allenarsi. Un fatto che stride con la borsa di studio di 15mila
euro a testa per gli staffettisti della 4x100 maschile, che inoltre già
percepiscono uno stipendio dai corpi sportivi militari di cui fanno parte. C’è
forse un nesso tra corpi sportivi militari, borse di studio e sostegni federali?
Per il Paolo Rosi, la Fidal dice di aver stanziato 210 mila euro per rifare il
pistino coperto. Peccato che sia stata solo ripristinata la struttura di
copertura originaria (sostituendo solo l’ondulato di plastica e i portelloni
laterali), lasciando intatto il vecchio pistino ormai ventennale. E la pista? È
come correre sul cemento.
Danza sportiva. Poi ci sono le piccole federazioni come quella della
danza sportiva, il cui presidente, Ferruccio Galvagno, è stato radiato per
illecito sportivo (era a conoscenza di gare truccate e non lo ha denunciato).
Galvagno percepiva, su delibera del consiglio federale, un “indennizzo” di 70/80
mila euro annui. Aveva acquistato anche una Mercedes classe R come auto blu, dal
costo di 70/80mila euro. Dopo due anni di commissariamento con Luca Pancalli,
ora il presidente è Christian Zamblera, 32 anni, ex presidente del comitato
Lombardia. Alla vicepresidenza è rimasto Sergio Rotaris, già vice di Galvagno.
Tra l’altro dovrebbe essere in corso un’inchiesta Coni per capire che fine hanno
fatto 30mila euro che Galvagno non sarebbe stato in grado di giustificare.
Pugilato. Un ammanco di circa 1,3 milioni è invece stato verificato dalla
Corte dei Conti nelle casse della federazione pugilato. Un bel buco se si
considera che il budget federale ammonta a circa 4 milioni di euro, per l’80%
provenienti dal Coni. Gli ammanchi, si legge sul documento della Corte dei
Conti, sono dovuti a spese non autorizzate, furti e sottrazioni di denaro, che
si vanno a sommare anche ad altre irregolarità, dai ritardi nella
predisposizione di bilanci, all’uso di cellulari di servizio e consulenze
illecite. Sulla questione è ancora in corso un procedimento penale.
Pallamano. Poi c’è il nodo delle società fantasma, sempre per la solita
questione dei voti. Per inciso, le elezioni si terranno il 29 e 30 ottobre. Una
questione pesante in una federazione come quella di pallamano (Figh), denunciata
dall’atleta Oscar Marcon. "Perciò sono stato squalificato per due anni" dice
Marcon. "I bilanci non sono mai stati pubblicati ma quello che si sa è che la
federazione riceve dal Coni 2,3 milioni di euro di contributi. Però non è dato
sapere come vengono spesi. Sul discorso società fantasma faccio un esempio: a
Reggio Calabria secondo la federazione esistono 18 società under 14 aventi
diritto, un numero enorme considerando le dimensioni della città. Per aver
diritto di voto devono svolgere attività sportiva. Secondo il calendario tutti
gli incontri di queste 18 società si fanno presso il palazzetto Botteghelle di
Reggio. Ebbene, ho verificato che negli orari dell’incontro, il palazzetto era
occupato da altre squadre di altre discipline. E quando queste società “
virtuali” dovevano incontrare quelle “reali”, il match veniva rinviato e poi
cancellato. Non si disputava insomma. Tra Reggio Calabria, Marano (Napoli) e
altre zone, il presidente può contare su una quarantina di voti sicuri".
Squash. Sul numero di società e iscritti gioca anche un’altra
federazione, quella dello squash, che riceve dal Coni meno di un milione di euro
di finanziamenti. Ebbene, l’organizzazione si può permettere ben due auto blu,
due Bmw, una di proprietà e una in leasing. Tra l’altro, andando a guardare il
numero dei tesserati si parla di 13mila iscritti e 205mila praticanti, ma poi
guardando le classifiche dei tornei si contano circa un migliaio di tesserati. A
Milano, culla, insieme a Bologna, dello squash, i campi si sono dimezzati negli
ultimi 5 anni (da 20 sono scesi a una decina). "E tra le cose strane è che tra
gli aventi diritti al voto, una quarantina di società in tutto, non ne figura
nemmeno una milanese" dice un praticante. "Ma per aver diritto al voto basta
avere dieci iscritti e un tecnico". Le elezioni si terranno il 27 ottobre e c’è
un unico candidato, Siro Zanella, presidente da 15 anni (il segretario Davide
Monti è in carica da 25 anni). Eppure possibili concorrenti c’erano. Si saranno
arenati sulla burocrazia. Come è successo a Luca Cabassi che aveva formalmente
richiesto alla federazione l’elenco delle società per poter avanzare la sua
candidatura entro i termini previsti dal regolamento. Elenco che gli è stato
negato e che è stato pubblicato pochi giorni prima dello scadere dei termini per
candidarsi. Chi sarà il nuovo presidente della federazione squash?
12 ottobre
La mazzetta insostenibile
Nella primavera di quest'anno, il presidente del consiglio Mario Monti
incontrava una serie di potenziali investitori stranieri per convincerli a
guardare all'Italia come un paese nuovo, riformato, appetibile per gli
investimenti esteri. Forte delle sue riforme appena approvate (pensioni) o
presentate (lavoro), si sentì rispondere con vari apprezzamenti per il cammino
intrapreso, ma con altrettanta franchezza riguardo i veri problemi che frenano
chiunque, straniero o no, voglia investire nel nostro paese: malfunzionamento
della pubblica amministrazione, illegalità diffusa, e soprattutto corruzione.
È stato stimato che il costo della corruzione nell'Unione europea si aggira
intorno ai 120 miliardi di euro l'anno, cioè una cifra equivalente a tutto il
budget dell'Ue.
Secondo la Corte dei Conti italiana la corruzione nel nostro paese ci costa 60
miliardi l'anno. Molteplici iniziative internazionali di contrasto alla
corruzione, con accordi intergovernativi e convenzioni promosse da organismi
internazionali, hanno affrontato il problema. Dal Gruppo di Stati contro la
corruzione (Greco) promosso dal Consiglio d'Europa, alla Convenzione delle
Nazioni Unite contro la corruzione, allo specifico gruppo di lavoro dell'Ocse,
tutti svolgono un lavoro di definizione degli standard più appropriati da usare
come metro di valutazione per gli stati. Tuttavia l'applicazione di misure
specifiche di contrasto alla corruzione rimane molto diseguale fra i vari paesi.
Per questo motivo la Commissione europea ha lanciato la sua iniziativa
anti-corruzione, che svilupperà un sistema di sorveglianza e valutazione
continua delle misure messe in atto dagli stati membri dell'Ue in quest'ambito.
La Banca Mondiale pubblica da tempo una serie di indicatori di buon governo, che
mirano a misurare i livelli di legalità, trasparenza, stabilità politica, ed
efficienza della pubblica amministrazione. In tutti questi esercizi di
misurazione della qualità del governo, l'Italia perde continuamente posizioni,
da più di un decennio ormai.
L'importanza del contrasto alla corruzione, come fattore decisivo
nell'applicazione delle politiche pubbliche, è ormai ampiamente riconosciuta. I
primi studi quantitativi sulla nuova strategia di sviluppo dell'Unione europea
«Europa 2020» dimostrano come le differenze fra gli stati membri, nella capacità
di raggiungere gli obiettivi fissati dalla strategia, non dipendano tanto da
differenze nei livelli di reddito, o di crescita, e nemmeno dalla sostenibilità
delle finanze pubbliche. Ciò che realmente fa la differenza e spiega il diverso
grado di successo è il livello di corruzione, qualunque sia l'indicatore scelto
per misurarlo.
Ulteriori studi sull'efficacia degli investimenti realizzati a livello regionale
attraverso i fondi strutturali europei suggeriscono che anche in questo caso i
livelli di corruzione sono l'elemento che fa la differenza fra uno stesso
programma correttamente realizzato e che genera risultati positivi e ritorni su
un territorio, rispetto a casi di fallimento, che ben conosciamo, in altri
territori. Queste analisi suggeriscono che la tradizionale e storica diatriba
fra economisti keynesiani e monetaristi, riguardo il famoso moltiplicatore della
spesa pubblica, la capacità cioè degli investimenti pubblici di restituire un
valore maggiore (secondo i keynesiani) o minore (secondo i monetaristi) rispetto
all'investimento iniziale, possa essere risolta guardando alla qualità del
sistema di governo che canalizza tali investimenti, piuttosto che alla decisione
in sé di aumentare o diminuire la spesa pubblica.
Il livello di legalità, il funzionamento efficace ed efficiente della pubblica
amministrazione, il contrasto alla corruzione sono i veri fattori critici di
successo per lo sviluppo economico. Essi determinano la qualità dei canali
attraverso cui passa la spesa pubblica, sono l'infrastruttura principale sulla
quale si appoggiano le politiche pubbliche.
Oggi è piuttosto in voga parlare di
governance, di good governance, ma già nel XIV secolo un italiano, Ambrogio
Lorenzetti, raffigurava l'Allegoria ed Effetti del Buono e del Cattivo Governo
nel Palazzo Pubblico di Siena per ispirare il comportamento dei governatori
della città. Sette secoli più tardi l'Italia è uno dei paesi più corrotti del
mondo occidentale, secondo tutti gli indicatori internazionali.
Può un paese in queste condizioni permettersi di non avere ancora regole serie
ed efficaci di contrasto alla corruzione? Possiamo permetterci il lusso di non
dotarci di una legge anti-corruzione, con una proposta di compromesso, timida e
annacquata?
La legge di stabilità 2013
stabilizza solo le disuguaglianze
Tagli alla sanità, agli enti locali, al welfare: per Sbilanciamoci! è una
manovra insostenibile, un'altra batosta per i cittadini. I tagli di 1 miliardo
di euro alla sanità, di 1 miliardo agli enti locali, il blocco dei contratti per
gli statali e l'aumento dell'IVA di 1 punto percentuale produrranno ulteriori e
pesanti difficoltà economiche per la gran parte dei cittadini
La diminuizione di un punto delle aliquote Irpef per i due scaglioni più bassi
di reddito (dal 23 al 22% e dal 27% al 26%) è ampiamente controbilanciata
dall'aumento dell'IVA e dall'introduzione di un tetto massimo di 3mila euro per
le deduzioni e le detrazioni sulla dichiarazione Irpef: complessivamente la gran
parte della platea dei contribuenti subirà una riduzione del reddito
disponibile. L'aumento dell'IVA produce oltretutto un effetto depressivo sui
consumi e sull'economia: in particolare l'aumento dal 10 all'11% colpisce
servizi e beni come quelli del turismo, di alcuni generi alimentari, delle
ristrutturazioni edilizie.
Particolarmente odiose – secondo Sbilanciamoci! – sono le misure che riguardano
la riduzione dei fondi alla sanità pubblica che significherà meno servizi e
maggiore ricorso alle strutture private e la riduzione del 50% della
retribuzione dei giorni di permesso usufruiti dai lavoratori per assistere i
familiari disabili. Palesemente insufficienti sono le misure a favore degli
esodati (solo 100 milioni) e soldi sprecati sono i 160 milioni di finanziamento
per la Torino-Lione. Più positive sono invece le misure – per il momento solo
promesse – di realizzazione della Tobin Tax ed il maggiore stanziamento per il
trasporto pubblico locale.
Non ci sono misure per la crescita e per l'equità (nè patrimoniale, nè maggiore
imposizione fiscale per lo scaglione più alto dell'Irpef). Non ci sono le
riduzioni della spesa militare (anzi 58 milioni vengono stanziati per il
quartier generale della Nato) e ci sono invece ulteriori alienazioni del demanio
pubblico e la decisione di lasciare le città al buio.
Per Sbilanciamoci! si tratta di una manovra iniqua e depressiva che, in ossequio
alle politiche di austerity, continua ad impoverire il paese e a farlo
sprofondare in una crisi economica. L’Italia avrebbe bisogno di altre politiche,
quelle che il governo Monti non sta facendo e che Sbilanciamoci! ripropone:
politiche espansive e non recessive, redistributive e non di tagli lineari, di
sviluppo e di intervento pubblico e non di gestione dell'esistente.
La riproduzione di quest'articolo è autorizzata a condizione che sia citata la
fonte: www.sbilanciamoci.info
Plinio Seniore, prof e
personale Ata entrano lasciando le impronte digitali
Il nuovo anno scolastico è iniziato con una novità per insegnanti e
dipendenti del liceo scientifico romano: per entrare e uscire devono mettere i
polpastrelli su un apposito lettore. La Flc Cgil: "Meccanismo autoritario.
Nessuna certezza della privacy nel trattamento dei dati sensibili"
Occorrono
le impronte digitali per entrare a scuola. Niente badge o cartellino, gli
insegnanti e il personale Ata del liceo scientifico Plinio Seniore, da quest'anno
devono usare i loro polpastrelli per segnalare l'entrata o l'uscita dalle mura
dello storico istituto della capitale, a due passi da Castro Pretorio. Dura la
reazione della Flc Cgil Roma Centro-Ovest-Litoranea, che definisce la novità
"incredibile e grottesca".
"Senza una delibera discussa nel Consiglio d'istituto, senza un'informativa
ufficiale, il dirigente ha convocato individualmente gli insegnanti e il
personale Ata chiedendo loro di rilasciare le impronte digitali affinché i
suddetti macchinari, dotati di un sistema di lettura di questi dati sensibili,
potessero svolgere il compito di certificare l'entrata e l'uscita dei lavoratori
dalla giornata di servizio - tuona il sindacato - La notizia della convocazione
e di questa assurda scelta ci ha sconcertato poiché non è certo con questo
meccanismo autoritario che si permette alla scuola di funzionare adeguatamente.
Denunciamo l'inammissibilità di questa scelta che lede l'art.4 della legge
300/70 sull'istallazione degli impianti audio-visivi nei luoghi di lavoro e non
permette di avere la certezza della privacy nel trattamento dei dati sensibili".
La Flc Cgil, assicura che "solo dopo gli interventi degli ispettori del lavoro,
i dispositivi verranno rimossi nel giro di qualche giorno" e punta il dito
contro "l'involuzione dirigista e autoritaria nella scuola",
che "negli ultimi anni ha portato in taluni casi a scelte di questo tipo,
incompatibili con il giusto rapporto tra lavoratore e datore di lavoro e lesivi
delle norme sul diritto al lavoro e alla privacy".
11
ottobre
Vaccinazioni sbagliate e
fatte male dietro i tumori dei soldati italiani
Di Vittoria Iacovella
La commissione uranio ha trovato una nuova
probabile causa dell'elevato numero di neoplasie registrate tra i nostri
militari. L'audizione di un giovane caporal maggiore gravemente malato davanti
ai senatori commossi. L'esperto: "Non sono sbagliati i protocolli, ma le
modalità, i tempi e i controlli sulle somministrazioni". Dati impressionanti, ma
l'esercito non riconosce il nesso causale
ROMA
- Il caporal maggiore Erasmo Savino ha 31 anni, ha un cancro in fase avanzata,
ma il 3 ottobre scorso si è alzato dal letto e non ha fatto la chemioterapia.
Occhiaie profonde e fasciatura al braccio. E' seduto davanti al computer,
emozionato e teso, collegato in videoconferenza col Senato della Repubblica. Col
suo accento campano racconta alla Commissione parlamentare d'inchiesta per
l'uranio impoverito di aver lavorato per 13 anni come maggiore dell'esercito.
Spiega che adesso lotta contro un tumore maligno e afferma di averlo sviluppato
a causa di un mix di vaccini fatti in poco tempo seguiti dall'esposizione
all'uranio impoverito in Kosovo.
Parla lentamente per non sbagliare nessun dettaglio, accompagnato da un foglio
scritto. Poi, davanti alle domande dei senatori, si lascia andare a una
testimonianza più personale e drammatica: "Forse sono arrivato alla fine della
mia vita... Certo sono un soldato, continuo a combattere, ma sono stato
abbandonato dallo Stato". L'aula è ammutolita alcuni senatori sono visibilmente
commossi. L'avvocato di Savino, Giorgio Carta, descrive le motivazioni
scientifiche che portano a ritenere che ci sia collegamento tra i vaccini cui è
stato sottoposto il giovane e il cancro che l'ha colpito. Non è il solo, molti
sono già scomparsi, altri giacciono in un letto. Tutti giovani. Centinaia
almeno, ma non è possibile avere dati certi... Anche perché, per il Ministero
della Difesa questi casi non esistono, non sono collegati al lavoro.
Attorno al tavolo della commissione volti tirati e occhi lucidi. Il Senatore
Giacinto Russo afferra il cellulare, scrive un sms al figlio militare che si
trova in Afghanistan chiedendogli se anche lui ha fatto tutti quei vaccini in
poco tempo. Arriva la risposta, il Senatore si porta le mani al viso. La
risposta è un "sì". La seduta continua in apnea, si parla di un Paese in cui si
è costretti a scegliere tra salute e lavoro, qualcuno dice "come a Taranto".
Questi ragazzi sono precari, negare il consenso ai vaccini significa smettere di
lavorare. Il senatore Gian Piero Scanu non riesce a finire il suo intervento,
gli manca la voce, si piega su se stesso commosso.
Insomma, la commissione sull'uranio, dopo anni di stasi, ora ha trovato una
nuova importante traccia da battere e gli studi scientifici in merito sembrano
parlare chiaro. Sarebbero i vaccini numerosi, ripetuti, spesso fatti senza
rispettare i protocolli, a indebolire ragazzi sanissimi, a tal punto da aprire
la porta a malattie molto gravi, specialmente nel momento in cui vengono esposti
a materiali tossici o sostanze inquinanti che possono essere l'uranio impoverito
ma anche la diossina, le esalazioni di una discarica o agenti chimici
fuoriusciti da una fabbrica.
L'85 per cento dei militari ammalati non è mai stato all'estero. Il problema è
che non serve arrivare in Kosovo: la stessa Italia con tutti i suoi veleni
rappresenta un pericolo mortale per chi ha un sistema immunitario impazzito a
causa dei vaccini. Come accadde a Francesco Rinaldelli, alpino di 26 anni
mandato a Porto Marghera e poi morto di tumore. Qualche numero negli anni però è
venuto fuori.
Nel 2007, il Ministro della Difesa Arturo Parisi, riferì alla Commissione: "I
militari che hanno contratto malattie tumorali, che risultano essere stati
impiegati all'estero nel periodo 1996-2006 sono 255. Quelli che si sono ammalati
pur non avendo partecipato a missioni internazionali sono 1427". Nel 2012 Il
Colonnello Biselli, dell'Osservatorio epidemiologico della difesa, diede cifre
raddoppiate: 698 malati che erano stati inviati all'estero e 3063 che avevano
lavorato in Italia, 479 erano deceduti.
Lo Stato non riconosce quasi mai, però, a chi ha indossato la divisa, il
riconoscimento né il risarcimento per le malattie contratte. Spesso viene negato
che si tratti di cause di servizio. Così è in atto quasi una guerra fra vittime,
tra chi vorrebbe essere risarcito per il danno da uranio impoverito e chi per
quello causato da vaccini. "Al Ministero della Difesa conviene sostenere la
causa dell'uranio impoverito perché questo è stato usato dall'esercito
statunitense, non da quello italiano, quindi i nostri vertici non ne avrebbero
colpa, mentre, ammettere che i danni derivano dalle modalità con cui vengono
vaccinati i militari, significherebbe riconoscere una colpa interna, senza
contare poi gli interessi milionari delle cause farmaceutiche" sostiene Santa
Passaniti, madre di Francesco Finessi morto dopo essersi ammalato di linfoma di
Hodgkin. Aveva ricevuto una dose tripla di Neotyf, un vaccino anti-tifo che poco
dopo fu ritirato dal commercio. In molte schede dei militari ammalati si trovano
vaccinazioni a brevissima distanza (anche nello stesso giorno) per la stessa
malattia o somministrazione di preparati poi ritirati dal commercio. Non solo,
secondo i parenti di vittime come Francesco Finessi, David Gomiero e Francesco
Rinaldelli, i libretti vaccinali dei loro ragazzi, ottenuti dopo lunghe
insistenze, riporterebbero anche visite mediche mai effettuate.
"Questo accade perché si cerca di far tutto velocemente - spiega Andrea
Rinaldelli, padre di Francesco, morto nel 2008 - ad esempio, se devono partire
per una missione 600 militari, seguire i protocolli e fare lo screening di tutti
sarebbe difficile. Magari in base a un'attenta analisi 100 finirebbero per non
partire". Così in alcuni distretti, fortunatamente non in tutti, i militari
vengono vaccinati in serie quasi senza nessun controllo, senza andare troppo per
il sottile: "Sono come prodotti di una catena di montaggio: stessa procedura per
tutti e se qualcuno esce ammaccato, basta buttarlo via".
Il Ministero della Difesa sostiene da sempre di rispettare tutte le cautele
necessarie, e che i ragazzi si sono ammalati per cause estranee al lavoro. Alle
nostre domande, nessuno risponde, ci invitano a metterle per iscritto, ma ci
fanno capire che ci vorranno mesi per avere una risposta. Un esame di coscienza
però qualcuno se lo sarà fatto, se il protocollo vaccinazioni del 2003 era di
appena tre pagine e quello del 2008 è arrivato a più di 200 e se alcuni
documenti riservati trapelati, contengono la lista completa dei casi di militari
ammalati dopo pratiche poco chiare di vaccinazioni.
"Il protocollo è scientificamente inattaccabile - sostiene il Prof di oncologia
Franco Nobile considerato fra i massimi luminari della materia - il problema è
che non viene rispettato. Per praticità e velocità si fanno vaccinazioni a
tappeto uguali per tutti, senza controllare se qualcuno l'ha già fatta, se
qualcun'altro non è in perfette condizioni di salute o ha ricevuto altre
vaccinazioni pochi giorni prima. C'è superficialità, poca cura, non vengono
considerate le conseguenze, spesso sono gli infermieri e non i medici a fare i
vaccini".
I genitori di molte vittime, come Francesco Rinardelli, dimostrano che i figli
erano stati vaccinati senza anamnesi, come sempre accade, ovvero senza indagare
correttamente sul loro stato di salute, senza sapere se erano già immuni ad
alcune malattie o domandarsi se fosse realmente necessario un vaccino in più.
Sui loro libretti vaccinali sarebbero segnate visite mediche mai effettuate.
L'avvocato Giorgio Carta difende molti militari colpiti da tumore per
esposizione a uranio o vaccini e sostiene: "la ricerca della verità è resa
difficile da numerosi fattori e dalla scarsa trasparenza, inoltre i medici sono
ufficiali, quindi superiori gerarchici, che non impartiscono cure, ma ordini
militari ai sottoposti". Rifiutarsi o fare troppe domande non è consentito. Si
rischiano sanzioni disciplinari e addirittura il carcere, come nel caso del
Maresciallo dell'aereonautica Luigi Sanna che ha chiesto di rinviare i vaccini a
quando avrebbe avuto risposte a una serie di domande sulla loro sicurezza e
necessità.
A chi indossa la divisa non resta che sperare di essere fortunati, trovarsi
davanti a un medico attento a rispettare i protocolli oppure che il mix di
fretta, vaccini e sostanze ambientali tossiche, armi e prodotti chimici non
abbia le conseguenze temute. Una roulette russa in cui si vince un lavoro o si
perde la vita.
Il Pil decollerà assieme
agli F35
Di Roberta Carlini
Cacciabombardieri, corazzate, bombe, munizioni.
Tutte le armi distruttive vengono spostate nella contabilità del Pil, da un
capitolo all'altro: e nel passaggio, acquistano valore. Così sale il Pil dei
paesi più armati. Parola di Eurostat
Metti un turbo nel Pil. Le nuove direttive statistiche internazionali, con
l'aggiornamento dei manuali a cui si attengono i sistemi nazionali di statistica
in tutto il mondo, porteranno dal 2014 una sorpresa, cambiando i metodi di
contabilizzazione delle spese militari. A essere "premiati", con un salto in
avanti del prodotto interno lordo, saranno soprattutto i paesi con maggior
produzione di armamenti di tipo puramente offensivo; cioè quelle armi che si
distruggono nel loro uso bellico, non appena raggiungono l'obiettivo per cui
sono state costruite: ammazzare e distruggere.
Non che finora le armi siano state messe fuori dal Pil. Come denunciava Robert
Kennedy nel celebre discorso del '68 all'università del Kansas,
sull'inadeguatezza di un indice che "misura tutto, eccetto ciò che rende la vita
veramente degna di essere vissuta", il Pil cresce anche "con la produzione di
napalm, missili e testate nucleari". Solo che adesso si assisterà a un salto di
qualità nella misurazione dei sistemi d'arma.
Tutto parte dall'aggiornamento del manuale di contabilità nazionale (sistema
europeo dei conti SEC95), che entrerà in vigore nei paesi dell'Unione Europea
dal 2014 (1): lì ci sono tutte le indicazioni sui nuovi metodi statistici di
contabilizzazione delle grandezze economiche e finanziarie di ogni paese. Regole
e metodi su cui si basa tutto il sistema europeo dei conti, e ai cui risultati
fanno poi riferimento i governi, le politiche di convergenza, i giudizi degli
analisti, la verifica degli obiettivi dei trattati europei (da Maastricht al
fiscal compact).
Una delle novità riguarda proprio le spese militari. Novità metodologiche, ma
con effetit sostanziali importanti. Attualmente, le spese militari sono
considerate in modi diversi nella contabilità nazionale a seconda che siano
passibili anche di un utilizzo civile (per esempio, una portaerei), oppure
destinate a scopi esclusivamente distruttivi (per es., un missile). In questo
secondo caso, non vanno ad arricchire il capitale di un paese, ma vengono
classificate tra i "consumi intermedi". Con i nuovi metodi invece, tutti gli
acquisti di sistemi d'arma e dei relativi sistemi di supporto, purché utilizzati
per un periodo superiore a un anno, saranno contabilizzati come investimenti in
beni durevoli; anche le munizioni, le bombe e i pezzi di ricambio vengono
spostati dai consumi intermedi per essere collocate fra le scorte.
Lo spostamento da un capitolo all'altro non è di poco conto. Evidente la sua
implicazione simbolica e politica: i sistemi d'arma sono capitale fisso, che a
tutti gli effetti contribuisce alla ricchezza e al benessere di un paese. Il che
ha una immediata traduzione concreta: chi spende di più in armi, ad esempio per
una guerra, aumenta la propria ricchezza e aumenta il volume di prodotto interno
lordo. Con l'entrata in vigore dei nuovi criteri contabili, aumenteranno gli
aggregati di capitale fisso dei vari paesi, e con essi cambierà il prodotto
interno lordo. Il tutto, con l'aggiunta di una clausola di riservatezza dei
dati: quelli militari saranno divulgati solo come valori aggregati - con scarso
o nullo beneficio, dunque, per la comunità scientifica.
A beneficiare dei nuovi manuali di contabilità nazionale, saranno soprattutto i
paesi con maggior spesa militare: Stati Uniti, Russia, Cina. Ma il premio
statistico a uno sviluppo weapon based avrà importanti ripercussioni sull'Europa
martoriata dalla speculazione sui debiti sovrani e sullo spread: la revisione
statistica migliorerà come d'incanto, i conti di molti paesi. Eurostat
sottolinea come l'impatto positivo delle armi distruttive sul Pil, in seguito
alla revisione, cambi di molto da paese a paese con una media di mezzo punto di
Pil. Per l'Italia, si tratterebbe di un aumento "contabile" del Pil di 800
milioni di euro.
Stima anche troppo prudente, secondo l'istituto nazionale di statistica olandese
Cbs, che giunge a valutare un impatto positivo sul Pil olandese, dovuto al
cambiamento di contabilizzazione, compreso fra i 725 e gli 826 milioni di euro.
Per l'Italia - che ha una spesa militare pari al triplo di quella olandese, e un
Pil del 30% superiore - non è ancora disponibile alcuna stima ufficiale: ma un
confronto anche grossolano con i numeri forniti dal Cbs fa capire che la posta
in gioco, in termini di revisione del Pil, è abbastanza alta.
E crescerebbe ancora se dovesse passare, negli accordi europei, la proposta da
molte parti avanzata in passato di escludere dal rapporto debito/Pil le spese
per investimenti pubblici: se le spese pubbliche in armamenti distruttivi
vengono considerate investimenti, e per di più esclusi dalle tagliole di
Maastricht, i ministeri della difesa europei avranno buon gioco a trovare la
copertura finanziaria per i loro sistemi d'arma.
Anche se la revisione dei conti scatterà in Europa nel 2014, i vari istituti di
statistica si sono già attrezzati per soddisfare tutti i nuovi requisiti dei
manuali contabili. Dunque, è più che probabile che tra poco più di un anno
assisteremo al doppio decollo dei chiacchierati cacciabombardieri F35 assieme a
quello di un Pil inflazionato dalla spesa militare. Se qualcuno non si muoverà
prima, magari tirando fuori dagli archivi il Bob Kennedy del 1968.
(1) Il sistema europeo dei conti, versione europea del manuale SNA 1993
dell'Ufficio di Statistica delle Nazioni Unite, stabilisce le regole per
costruire gli aggregati macroeconomici su cui si concentra l'analisi economica e
le politiche dei governi come le politiche di convergenza, la verifica degli
obiettivi di Maastricht e la valutazione delle leggi finanziarie. Il processo di
revisione dello SNA 1993, iniziato nel 2003 dall'Ufficio di Statistica delle
Nazioni Unite è stato coordinato da un gruppo di lavoro di cui fanno parte
Eurostat, Ocse, Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, supportato da
un comitato di esperti nazionali AEG ( Advisory Expert Group ), che ne ha
prodotto la versione 2010 divenuta il riferimento per la successiva revisione
del sistema europeo dei conti.
La riproduzione di quest'articolo è autorizzata a condizione che sia citata la
fonte: www.sbilanciamoci.info
9 ottobre
Confindustria, ecco i conti
segreti
Ilfattoquotidiano.it è entrato in possesso del
bilancio che il sindacato padronale tradizionalmente non pubblica. E ha scoperto
che mancano all'appello l'8% delle quote associative, con un tasso di morosità
dei soci cresciuto in un anno del 57%. Mentre le perdite di tre controllate su
sei erodono il patrimonio
di Gaia Scacciavillani
Confindustria predica bene, ma razzola maluccio.
Gli scarni dati sulla confederazione trapelati a fatica sulla stampa e il
riservatissimo bilancio dell’associazione alla guida del mostro a 262 teste che
costituisce l’intera struttura, che il Fattoquotidiano.it ha potuto visionare,
parlano chiaro. E contraddicono in molti punti battaglie e affermazioni di ieri
e di oggi della lobby degli imprenditori italiani. Che non a caso nell’ultimo
anno ha perso parecchi pezzi, non solo la Fiat: il Lingotto voleva avere mano
libera sui contratti dei metalmeccanici, ma ha parlato anche di eccessiva
politicizzazione dell’associazione. Ci sono state anche le uscite delle Cartiere
Paolo Pigna , dei Tessili di Prato , della Giordano Riello e di Nero Giardini ,
per citare solo alcuni esempi.
PIU’ TASSE E MENO AIUTI. “Stiamo morendo di tasse”, è stato il grido
disperato lanciato sabato 29 settembre dal presidente Giorgio Squinzi che pochi
giorni dopo è tornato alla carica sulla questione del carico fiscale sul lavoro.
“L’obiettivo di ridurre il costo del lavoro è una delle cose in cui dobbiamo
intervenire, anche per dare un segnale. E, visto anche il modesto ammontare
degli incentivi, per le imprese non è un problema rinunciarci”, ha detto Mr
Vinavil da Bruxelles il 2 ottobre
Chissà se negli incentivi è implicitamente inclusa anche la quarantina di
milioni annui che secondo L’Espresso arrivano complessivamente alla
confederazione dalle aziende di Stato associate, che come tutti i soci (secondo
i dati ufficiali 149.288 per un totale di 5.516.975 occupati) versano ogni anno
al sistema Confindustria una quota contributiva parametrata sul numero e il
salario dei dipendenti per potere, come gli altri, “appoggiarsi ad un organismo
che rappresenta gli interessi del sistema produttivo locale nei confronti di
istituzioni, forze politiche e sociali, enti economici ed organi di
informazione”, come recita la reclame di una delle associazioni territoriali.
Prima fra tutte Eni, che sulla designazione di Squinzi alla guida degli
industriali, per ammissione dello stesso amministratore delegato del gruppo
petrolifero, Paolo Scaroni , ha avuto un ruolo “decisivo”. Ma anche l’ Enel , le
Poste , le Ferrovie , Finmeccanica e Terna tutte aziende densamente occupate che
in pratica sborsano ogni anno svariati milioni per farsi rappresentare
dall’associazione presso il loro azionista nelle sue svariate forme. Obiezione,
potrebbe dire qualcuno, c’è anche la presenza all’estero! Peccato che lo Stato
possieda una vasta gamma di enti che sostengono le imprese italiane oltreconfine
a spese del contribuente: dall’Ice all’Enit passando per le sedi delle missioni
all’estero delle Regioni fino alla rete delle Camere di Commercio che sono
cofinanziate dal ministero dello Sviluppo economico. Ma tant’è. E forse non è un
caso che nel 2011 ben 3,2 milioni di euro, l’8,2% dei 39,341 milioni di euro di
contributi associativi che dalla periferia sarebbero dovuti arrivare nelle casse
di Viale dell’Astronomia , non sono giunti a destinazione. Un costume che si va
affermando sempre più negli anni: anche nel 2010 la quota destinata
all’associazione centrale, che viene sottratta dai circa 500 milioni che vengono
raccolti annualmente a livello territoriale, è arrivata a destinazione
incompleta. Mancavano 2,066 milioni: nell’arco di un anno, quindi, il tasso di
crescita della morosità dei soci è stato del 57,34 per cento.
I PAGAMENTI PUNTUALI. “Noi tutti abbiamo difficoltà, e in modo
particolare chi è a contatto diretto con la pubblica amministrazione conosce
sulla propria pelle una situazione indegna di un Paese civile in cui i ritardi
dei pagamenti, nell’ordine dei 90 miliardi, non permettono una vita normale,
un’azione equilibrata alle imprese”, ha tuonato Squinzi il 2 luglio scorso
facendo sua una vecchia battaglia (sacrosanta, benché persa) del suo
predecessore, Emma Marcegaglia . E ha aggiunto che “una pubblica amministrazione
più efficiente è una pubblica amministrazione che paga i suoi debiti in tempi
ragionevoli”.
Benché il tema sia calzante, bisognerebbe capire meglio cosa si intenda con
tempi ragionevoli in Viale dell’Astronomia, dal momento che nel bilancio 2011
l’associazione ha iscritto debiti verso i fornitori per 1 milione di euro,
mentre l’anno prima sotto la stessa voce c’erano 1,2 milioni. Sarà per questo
che gli appelli al governo restano praticamente inascoltati?
LO SPREAD. “La fase più acuta della crisi sembra alle spalle: l’Italia
non è al centro dei problemi del debito e la credibilità migliora come dimostra
il calo dello spread, ma ancora non basta perché il livello resta comunque alto
e sul lungo periodo non è sostenibile”, disse la Marcegaglia il 7 marzo scorso
intervenendo all’inaugurazione dell’anno accademico dell’università Luiss Guido
Carli. “Lo scenario è migliorato, ma ci sono ancora delle criticità”,
concludeva.
Criticità anche qui condivisibili, ma di sicuro il miglioramento non era
imputabile alla Confindustria, che tra gennaio e febbraio si è affrettata a
ridurre drasticamente la sua esposizione sui titoli di Stato vendendo in
anticipo 10 dei 18 milioni di euro di Btp che possedeva, la metà dei quali
sarebbero scaduti naturalmente nove mesi dopo. Evidentemente in Confindustria
ritenevano più sicuri dei titoli di Stato i bond del Monte dei Paschi di Siena ,
cioè la banca che sta facendo man bassa di aiuti pubblici e che, vista la
drammatica situazione dei conti, avrà presto il Tesoro tra i suoi azionisti:
l’investimento nelle obbligazioni di Rocca Salimbeni in scadenza a fine 2013 è
di 9,9 milioni. Minore, sembrerebbe, la fiducia della Confindustria in Banca
Intesa sui bond della quale ha puntato “solo” 3 milioni. Del resto la maggior
parte degli investimenti dell’associazione sono fuori dal cosiddetto sistema:
più della metà del totale, 27 milioni di euro, sono infatti stati usati per
stipulare una polizza assicurativa con Chiara Vita, compagnia del gruppo
svizzero Helvetia.
IL COSTO DELLE LOBBY. Del resto anche le lobby nel loro piccolo costano,
ma sono in affanno. Sul fronte delle spese il 2011 registra 1,2 milioni per
finanziare 12 mesi di stage presso “le diverse sedi del Sistema di
rappresentanza” dei 100 giovani selezionati dal Progetto 100 giovani per 100
anni. Soldi che hanno prosciugato la Riserva Attività Istituzionali. Un milione
e ottocentomila euro, poi, se ne sono andati in viaggi e trasferte. E un altro
milione è stato utilizzato in attività di rappresentanza e missioni estere.
Costi per la normale gestione dell’associazione che ha assistito nel 2011 ad un
notevole ridimensionamento delle disponibilità bancarie (-11 milioni) a quota
4,6 milioni. Ma il peso maggiore, direbbe Squinzi, è quello del lavoro: gli
stipendi del personale costano all’associazione 12,128 milioni al netto di oneri
previdenziali e accantonamenti per il tfr, somma che per le 164 persone che
lavorano in viale dell’Astronomia fa uno salario medio di 5700 euro. Ma non
basta, ci sono anche i consulenti e i collaboratori, che l’anno scorso tra la
crisi e la fine del mandato della Marcegaglia, sono costati 2,166 milioni.
E intanto il patrimonio dell’associazione si erode. Complici le perdite di tre
controllate al 100% su sei, infatti, tra il 2010 e il 2011 il patrimonio della
Confindustria è diminuito di 807mila euro. Peggio sarebbe andata, però, se la
quota di controllo del Sole 24 Ore fosse stata valutata ai valori di Borsa. Il
gruppo editoriale che pubblica il primo giornale di economia del Paese e non
vede utili da diverso tempo (8,4 milioni il rosso 2011, perdita che è già stata
replicata nella sola metà del 2012), è iscritto nel bilancio al valore di 1,47
euro per azione per un totale di 132 milioni di euro. Peccato però che in Borsa
il titolo langua intorno ai 60 centesimi che, se utilizzati come valore di
riferimento, toglierebbero alla partecipazione quasi 78 milioni di euro con
ripercussioni dirette sul patrimonio dell’editore. Ma questo succede solo se si
applicano i principi contabili internazionali che usano le società quotate in
Borsa. Tuttavia, spiega il documento, sulla base dell’impairment test,
un’analisi che verifica se le attività siano iscritte o meno ad un valore
superiore rispetto a quello reale sia in termini di uso dell’asset che di
eventuale cessione, Confindustria ha ritenuto di non dover procedere alla
svalutazione. Intanto al Sole 24 Ore è attivo da mesi un contratto di
solidarietà per tagliare il costo del lavoro dei 1874 dipendenti – che in parte
è così passato a carico degli enti previdenziali – e le prospettive per il
futuro del gruppo, che tra gennaio e giugno si è bruciato 10 milioni di
patrimonio, non sono tra le più rosee.
Ma così Confindustria è riuscita ad archiviare il bilancio dello scorso anno con
un risultato positivo della gestione operativa e finanziaria da 2,2 milioni di
euro, che è stato prontamente utilizzato per rimpinguare gli accantonamenti al
Fondo Rischi che serve “per consentire il proseguimento della ristrutturazione
organizzativa” e la Riserva attività istituzionali che era stata prosciugata dal
progetto 100 giovani per 100 anni. E il cerchio si chiude. Almeno finché le
aziende di Stato continueranno a sborsare le quote e non decideranno magari che
far lobby presso se stessi non è poi di così vitale importanza.
La prossima legge ad
personam
Alessandro Robecchi
Vi stupirò: io non ho niente contro le leggi ad
personam. Ad un patto: che ogni persona possa averne una. Dunque, indovinate
quali di queste leggi ad personam sarà varata in fretta e furia dal Parlamento
Italiano. Legge Mohamed. Presentata in tutta fretta al Parlamento per risolvere il
caso del giovane Mohamed (19 anni), afghano, arrivato fortunosamente ad Atene, e
da lì giunto accovacciato per 1.724 chilometri sotto le ruote di un Tir fino a
Trieste, dove è stato arrestato per immigrazione clandestina. La legge prevede
l'abrogazione di quel reato e l'immediata scarcerazione. Legge Esposito. Presentata d'urgenza per risolvere il problema personale
di Carlo Esposito, lavoratore precario a Milano, costretto a spendere l'80 per
cento del suo reddito per una camera in affitto. La legge prevede canoni
d'affitto calmierati e salario di cittadinanza. Legge Sallusti. Allo studio su una corsia preferenziale, la legge mira a
risolvere il problema personale di Alessandro Sallusti, direttore di un
quotidiano, condannato al carcere per diffamazione e omesso controllo dopo la
pubblicazione di un articolo denso di notizie false. La legge prevede multe più
alte per tutti, ma la libertà per lui. Legge Manfredini. Preparata in tutta fretta, risponde alle esigenze
particolari del cittadino Ennio Manfredini, che si trova, grazie a una recente
riforma del governo, senza salario, senza pensione e senza sussidio di
disoccupazione, con due figli a carico e un mutuo sul groppone. La legge prevede
di dargli da mangiare almeno una volta al giorno e di reinserirlo nella vita
produttiva. Legge Maselli. Presentata con urgenza per il caso personale della
signorina Francesca Maselli, picchiata da un poliziotto in tenuta antisommossa
durante una manifestazione studentesca. La legge prevede un codice di
riconoscimento sulle divise delle forze dell'ordine, ai fini di una certa e
veloce identificazione.
Su, amici! So che siete persone sveglie. Indovinate quale di queste importanti
leggi ad personam verrà approvata entro un mese.
L’ossessione infinita del
Ponte sullo Stretto
Succede in Italia che un Commissario di Governo
impugni un atto del Governo per favorire la realizzazione di una grande opera,
irrealizzabile per validi motivi economico-finanziari, sociali ed ambientali: il
ponte sullo Stretto di Messina
L’opera non è considerata più una priorità in
tutti i recenti documenti ufficiali in Europa e in Italia. È così che il pluri-
impiegato dello Stato , Pietro Ciucci – commissario di Governo per il ponte,
amministratore delegato di ANAS SpA e della Stretto di Messina (SdM) Spa,
entrambe società interamente pubbliche – ha prima preannunciato a luglio e poi
ha confermato il 25 settembre scorso che la SdM SpA ha impugnato con ricorso
straordinario al Presidente della Repubblica la Delibera n. 6 del Comitato
Interministeriale per la Programmazione Economica - CIPE del 20 gennaio 2012 con
cui si tagliavano 1,6 miliardi di euro destinati al ponte.
Diciamo subito che appare incredibile che questo vero e proprio atto di
belligeranza di un boiardo di Stato contro l’esecutivo in carica sia stato
possibile senza che il Governo dei tecnici abbia pensato di intervenire per
tempo a bloccarlo. Anche perché le associazioni ambientaliste interessate – FAI,
Italia Nostra, Legambiente, M.A.N. e WWF Italia – avevano chiesto già in una
lettera inviata il 31 luglio scorso al Presidente del Consiglio Monti e ai
ministri interessati che tale inconcepibile conflitto, allora preannunciato,
fosse immediatamente bloccato e fosse severamente censurata la minaccia di
Ciucci.
Ma come si sa i sogni perversi nel nostro Paese sono duri a morire e
l’immaginifica millanteria del ponte, accreditata dal Governo Berlusconi a
partire dal 2001, è sopravvissuta anche ai circa due anni di Governo Prodi, ad
un nuovo Governo Berlusconi ed ora gira come una bomba a tempo nelle stanze del
Governo dei tecnici . Anche se sarebbe proprio di un Governo dei tecnici porre
la parola fine a questo film scadente su un ponte sospeso a doppio impalcato,
stradale e ferroviario, ad unica campata della lunghezza di 3,3 km (quando il
ponte più lungo di questo tipo il Minami-Bisan Seto, giapponese, date le attuali
conoscenze tecniche è lungo solo 1,1 km) che dovrebbe sorgere in una delle aree
a più elevato rischio sismico del Mediterraneo, severamente tutelata per i
valori ambientali e paesaggistici dall’Europa e dall’Italia.
Invece nessuno scrive la parola “Fine” (l’unico che ha detto parole contrarie
inequivocabili è stato ad oggi il ministro della coesione Fabrizio Barca) con il
rischio concreto che se l’ampiamente lacunoso ed omissivo progetto definitivo
presentato da Eurolink, il general contractor capeggiato da Impregilo, non viene
rimandato al mittente dalla Commissione tecnica di VIA del Ministero
dell’ambiente e bocciato in CIPE, il Governo sia costretto a pagare oggi oltre i
66 milioni di euro per l’acquisizione degli elaborati anche oltre 400 milioni di
euro di penali al momento che fosse aperto anche un solo cantiere in qualche
modo funzionale al ponte.
Si può evitare ancora oggi di correre questo rischio perché il Contratto tra il
concessionario SdM SpA e il GC Eurolink consente di recedere in qualunque
momento dal Contratto, pagando solo le prestazioni correttamente eseguite al
momento, appunto del recesso. Sembra però che all’interno dell’amministrazione
dello Stato, non ci sia ancora oggi un orientamento univoco su come debbano
essere tutelati gli interessi pubblici. Con il risultato che il costo del ponte
dal 2005 ad oggi è salito da 4,3 miliardi a 8,5 miliardi di euro, grazie anche
all’ accompagnamento della SdM SpA.
C’è ancora chi lavora per il re di Prussia, ignorando bellamente che: 1. a fine
ottobre 2011 viene presentato dalla Commissione Europea il Piano di investimenti
per il periodo 2014-2020 “Connecting Europe Facility”, per complessivi 50
miliardi di euro, di cui 31,7 destinati alle TEN-T e tra le infrastrutture da
finanziare non compare il ponte sullo Stretto di Messina; 2. il 20 gennaio 2012
è stata approvata la Delibera CIPE n. 6/2012 che prevede, nell’ambito delle
riduzioni di spesa della programmazione sui Fondi per lo sviluppo e la coesione
di tagliare i fondi previsti dalla Delibera CIPE 102/2009 “Assegnazione Società
Stretto di Messina” (1,3 mld di euro) e dalla Delibera CIPE 121/2009 “Variante
di Cannitello e aumento di capitale ANAS e RFI” (337 mln di euro); 3.
nell’aprile 2012 non vengono pubblicate le Linee Guida – Allegato Infrastrutture
2013-2015 al Documento di Economia e Finanza – DEF 2012 in cui non c’è taccia
del ponte.
Ma the show must go on e il biglietto di questo spettacolo fallimentare è a
carico di tutti/e noi.
La riproduzione di quest'articolo è autorizzata a condizione che sia citata la
fonte: www.sbilanciamoci.info
5 ottobre
Tremonti e la norma ad
aziendam, così il ministro di B. salvò il truffatore Saggese
La società dell'amministratore delegato di
Tributi Italia, che ha sottratto venti milioni di euro ai contribuenti, fu
aiutata da un decreto del governo di Silvio Berlusconi
di Sara Nicoli
L’hanno
chiamato il “sistema Saggese” . E non tanto per l’enorme “privatizzazione” di
denaro pubblico che l’ad di Tributi Italia, appunto, Giuseppe Saggese, è
riuscito a mettere insieme nel corso di tutta l’onorata carriera. È il reticolo
di connivenze e protezioni politiche che ha avuto la società negli anni a
rappresentare un vero “scandalo nello scandalo” più volte denunciato in sede
parlamentare e sempre – puntualmente – coperto. O lasciato cadere nel nulla come
le risposte alle quattro interrogazioni parlamentari che i Radicali hanno
presentato nel corso di tre anni e che hanno avuto un’unica – insoddisfacente –
risposta quando ormai il governo Berlusconi era sull’orlo dell’abisso (20 giugno
2011). Ovviamente, non è un caso.
Val la peena di ricostruire alcuni passaggi parlamentari, di cui la Tributi
Italia è stata protagonista, per dare il senso del vischioso sistema di
connivenze eretto a difesa della società da parte del governo Berlusconi. Il
primo avvenimento, d’altra parte, è stato eclatante. E ha riguardato una vera e
propria norma “ad aziendam” (non a caso ribattezzata “norma Tributitalia” ),
inserita nel decreto fiscale 2010, firmato dal ministro Tremonti , che ha
consentito alla società di Saggese di utilizzare la legge Marzano per il
concordato delle grandi imprese in crisi (la stessa procedura utilizzata per
Alitalia, giusto per capire le dimensioni). Era l’articolo 3, comma 3 del
provvedimento, grazie al quale Tributi Italia ha avuto accesso alle procedure di
ristrutturazione economica e finanziaria, evitando la bancarotta e continuando a
svolgere attività di accertamento e riscossione dei tributi locali. In più di
400 comuni . La parte più scottante del comma è infatti quella in cui si dispone
“la persistenza delle convenzioni vigenti con gli enti locali immediatamente
prima della data di cancellazione dall’albo”: Tributi Italia, infatti, aveva in
corso una procedura di cancellazione che, però, come ha ricordato anche ieri
Rita Bernardini , ha avuto un iter molto lungo e sofferto in commissione Finanze
di Montecitorio.
“Come già abbiamo ricordato nell’interrogazione del 13 aprile del 2010 –
racconta la Bernardini – c’erano persone interne alla commissione di
sorveglianza sugli enti di riscossione, che faceva gli interessi diretti della
famiglia Saggese”. E non solo lì, certo. Il dicastero dell’Economia era retto da
Giulio Tremonti, componente anche della commissione Finanze della Camera dove,
tuttavia, non andava mai, visto che il lavoro vero di calendarizzazione delle
discussioni (quello più delicato per stabilire le priorità) era nelle mani del
presidente Gianfranco Conte, anche lui Pdl . Fin qui, in apparenza, nulla di
strano. Ma è leggendo i resoconti dei lavori nella Commissione, come d’altra
parte, i verbali delle riunioni tenute al ministero dell’Economia e delle
Finanze della Commissione che gestisce l’albo dei riscossori che si scopre come
sia stato tortuoso il cammino per la cancellazione dall’albo di Tributi Italia.
E che l’Anci, l’associazione dei Comuni, non è sempre stata presente alle
riunioni dell’Anacap (l’associazione di categoria dei riscossori). E che –
soprattutto – tra i componenti di quest’ultima, che ha voce in capitolo sulla
cancellazione, ci fosse Pietro Di Benedetto che fa l’avvocato e difende proprio
Tributi Italia. L’avvocato di famiglia successore del primo, storico legale
della società dall’epoca della prima denuncia per frode, datata 1999: Niccolò
Ghedini .
Fino al 2010, la società aveva speso non meno di 6 milioni di euro (come si
legge nell’interrogazione parlamentare del 2010) per pagare i suoi consulenti
legali. Tasse dei cittadini? Alla luce degli ultimi fatti, la domanda è più che
lecita. Insomma, quel fiume di denaro che anno dopo anno scompariva dopo essere
stato prelevato dalle tasche dei contribuenti, era un po’ sotto gli occhi di
tutti. Ma il “sistema Saggese” proteggeva la società, in barba alle richieste di
indagini ispettive e trasmissione degli atti alla Corte dei conti, come
minacciato da Idv e Radicali, per configurare un danno erariale.
“Volevamo uno strumento legislativo che potesse garantire innanzitutto i
cittadini contribuenti – sostiene infine la parlamentare radicale – perché non è
fallita solo Tributi Italia, è fallito un intero sistema. Il sistema della
riscossione dei tributi va ora ripensato in modo da assicurare l’interesse
generale”.
De Gennaro e il Pd
«Sono certo che il prefetto De Gennaro, nel suo nuovo incarico istituzionale,
potrà efficacemente portare avanti il suo impegno...», così Massimo D'Alema,
l'11 maggio, salutava la nomina a sottosegretario del governo Monti dell'uomo
che ai tempi del massacro alla Diaz era il capo della polizia. La stessa persona
che nelle motivazioni della Corte di Cassazione interpreta il ruolo del fantasma
del palcoscenico, l'ispiratore di una repressione disumana, segnata da
efferatezze che ancora oggi si fatica a leggere nei particolari descritti dai
giudici. Quel poliziotto d'Italia che non volle fermare le squadracce spinte,
invece, a emulare un clima cileno, nel cuore dell'Europa, quando l'Italia
berlusconiana sospese la democrazia con il sangue di ragazzi inermi. Lo stesso
uomo che la Cassazione ritiene responsabile di aver sollecitato il meccanismo
della pura violenza nel tentativo di riscattare l'onore perduto di una polizia
che non aveva saputo vigilare sull'ordine pubblico nei giorni del G8. Il comando
di procedere ad arresti indiscriminati avrebbe prevalso sull'obbligo di
osservare leggi e diritti.
Il cinismo del responsabile del Copasir appare oggi tanto più imbarazzante di
fronte al pesante giudizio pronunciato dall'alta magistratura. E se D'Alema
perse allora un'occasione per tacere, tuttavia le sue parole di encomio per De
Gennaro si rivelano lo specchio perfetto dell'inverosimile silenzio della
politica. La controprova del mutismo colpevole del Pd, il partito che si propone
agli italiani come niente di meno che il baluardo della tenuta democratica.
Il segretario del Pd è intensamente impegnato negli affari interni del partito,
preso dalle ingarbugliate vicende della campagna elettorale delle primarie. Non
ha tempo da perdere, neppure una parola da spendere per sottolineare l'enormità
della permanenza in uffici di governo del primo responsabile politico dei fatti
di Genova. Il suo silenzio è il segno, un altro, della mancanza di una
leadership affidabile, anche solo dal punto di vista della difesa della
democrazia.
Tace Bersani e tace Monti, ciascuno testimone dell'ipocrita diatriba tra
politici e tecnici. E, silenzio per silenzio, tanto vale tenersi Monti che
almeno non si appende sul petto la medaglia di uomo di sinistra.
Solo Paolo Ferrero, solo il radicale Marco Perduca, solo l'allora portavoce del
social Forum, Vittorio Agnoletto, hanno chiesto in queste ore le dimissioni di
De Gennaro. Poche voci fuori dal coro a cui naturalmente aggiungiamo anche la
nostra.
PS: A Bersani e a Monti fa compagnia un terzo silenziatore: il Corriere della
Sera . In prima pagina nessuna notizia sulle motivazioni della Cassazione.
Prendi i soldi e scappa, un
meccanismo tutto italiano
Per l'azienda di Portovesme, la selva di incentivi versati dallo stato alle
imprese sfugge ad una chiara rendicontazione pubblica. Un'analisi del fallimento
del privato assistito dell'ex azienda Efim.
Nel
1992, quando cedette le fonderie dell'Efim all'Alcoa, lo stato italiano garantì
aiuti ed extraprofitti sia alla multinazionale Usa che all'Enel. Finita la
festa, i banchettanti scappano. Una vicenda che, cifre alla mano, smentisce la
retorica del «privato è meglio». Come ne usciamo, adesso?
Fino alla metà degli anni '90 le principali imprese della metallurgia di base
dell'alluminio facevano parte dell'Efim, la finanziaria delle partecipazioni
statali posta in liquidazione nel 1992 in seguito alle perdite accumulate; nel
1996 le aziende furono cedute a società internazionali specializzate e le
fonderie - i cosiddetti smelter - furono acquistate dalla statunitense Alcoa.
Il prezzo di vendita degli smelter rappresentò una componente del tutto
marginale del contratto; l'accordo riguardò infatti sia gli impianti sia la
fornitura decennale di energia elettrica da parte dell'Enel, allora ente
pubblico interamente posseduto dallo stato, a una tariffa di circa 18 euro per
megawatt/ora, all'incirca pari alla metà di quella media di mercato. Dal punto
di vista economico la cessione avvenne a un valore negativo, perché lo stato,
tramite l'ente elettrico monopolista, si impegnò a sovvenzionare con tariffe
agevolate la società acquirente per un decennio.
Un'energia pari a quella di Roma
L'importanza della disponibilità e del prezzo dell'elettricità deriva dal fatto
che negli smelter il principale fattore produttivo è l'energia elettrica poiché,
per estrarre il metallo dal semilavorato di base, l'allumina, è utilizzato un
processo elettrochimico fortemente «energivoro». Secondo i dati riportati nel
sito dell'Alcoa, nel 2011 l'impianto di Portovesme, pur ammodernato nel biennio
precedente, per produrre 150.000 tonnellate di alluminio, pari a meno del 10
percento della domanda italiana, ha impiegato 2,3 miliardi di kilowatt/ora, lo
0,7% dell'intero consumo di energia del nostro Paese. Esso corrisponde alla
quantità di energia prodotta da un campo di pannelli solari esteso per
chilometri kilometri quadrati ed è sostanzialmente pari a quella consumata dai
residenti della città di Roma per uso civile.
Il contratto con l'Enel assicurò all'Alcoa condizioni di profitto stabili per 10
anni, riducendo al contempo gli stimoli all'ammodernamento dell'apparato
produttivo. Nel 1996 la Commissione europea autorizzò l'operazione non
ravvisando l'esistenza di aiuti di stato anche se con la privatizzazione, non
solo le vecchie perdite dell'Efim ma anche i nuovi profitti dell'acquirente
furono posti a carico di un ente pubblico, l'Enel.
Prima dello scadere del contratto, l'Enel fu privatizzata e il governo emanò due
decreti che, attraverso un complesso prelievo parafiscale, trasferirono l'onere
della fornitura agevolata di energia elettrica direttamente sulle bollette degli
italiani. Con le parole della Commissione Europea: «La tariffa è sovvenzionata
mediante un pagamento in contanti da parte della Cassa Conguaglio, che è un ente
pubblico, a riduzione del prezzo fissato contrattualmente tra Alcoa e il suo
fornitore Enel. Le risorse necessarie sono raccolte mediante un prelievo
parafiscale applicato alla generalità delle utenze elettriche mediante la
componente A4 della tariffa elettrica». Il meccanismo era tale che
successivamente al 2005, gli italiani hanno pagato non solo gli aiuti all'Alcoa
ma anche ulteriori profitti di Enel, ora privata, conseguenti a condizioni
contrattuali che la controparte aveva scarso interesse a negoziare al ribasso.
Sovvenzioni per 540 milioni
Secondo i dati della Commissione Europea, nel solo triennio 2006/2008,
l'ammontare delle sovvenzioni ricevute dall'Alcoa per i due smelter italiani è
stato pari a 540 milioni, dei quali 415 per lo stabilimento di Portovesme in
Sardegna. Si tratta di valori di gran lunga superiori alle perdite di bilancio
registrate quando lo smelter era gestito dall'ente delle partecipazioni statali
più disastrato.
Nel novembre del 2009 la commissione europea ha stabilito che i suddetti sussidi
costituiscono un aiuto di stato e ha imposto all'Alcoa la restituzione di circa
300 milioni di euro. In seguito al provvedimento della Commissione europea sono
stati presi una serie di interventi:
1) l'Alcoa ha presentato ricorsi alla Corte di Giustizia di Strasburgo avverso
tale decisione; 2) la società ha chiuso il piccolo stabilimento di Fusina nel
Veneto e ha avviato un piano di ammodernamento dello smelter di Portovesme; 3)
all'inizio del 2010, il governo ha emanato il decreto legge 3/2010 riguardante
il rafforzamento della sicurezza del sistema elettrico insulare che con fantasia
legislativa ha consentito all'Alcoa di continuare a ricevere l'energia elettrica
a 30 euro al megawatt rispetto ad un prezzo medio di mercato superiore a 70.
La Corte di Giustizia ha rigettato il ricorso dell'Alcoa contro l'immediata
esecutività della decisione della Commissione europea; subito dopo, l'Alcoa ha
deciso la cessione del sito di Portovesme o la sua chiusura in caso di assenza
di acquirenti; il giudizio di merito della Corte di Giustizia è ancora pendente,
ma il suo esito sembra scontato. Cosa ne resta
La vicenda dell'Alcoa è per molti versi paradigmatica di come si svolga
l'attività economica, quantomeno nel nostro paese. Almeno nel caso delle
fonderie di alluminio, la gestione privata è stata meno efficiente di quella
pubblica tanto che gli oneri a carico della collettività sono progressivamente
cresciuti secondo meccanismi sempre più opachi. Sotto la gestione pubblica, il
costo per la collettività era pari alle perdite di bilancio, un valore univoco e
noto, mentre in quella privata gli oneri sono pari alla somma di incentivi,
sconti, sovvenzioni riconosciuti in forme più o meno esplicite e complicate,
variabili nel tempo, di difficile quantificazione e non soggetti a una efficace
rendicontazione pubblica.
Il mercato, inteso come luogo astratto dove avvengono gli scambi e le schede di
domanda e offerta garantiscono la formazione di prezzi di equilibrio e
l'ottimale allocazione delle risorse è una semplificazione che trova rarissima
applicazione nella realtà. Il modello che attribuisce all'autorità pubblica
soltanto la funzione di regolamentazione e controllo è disatteso
quotidianamente; ne sono testimonianza i numerosi casi di questi ultimi anni (ad
esempio l'onerosa vicenda Alitalia) e le stesse vicende degli ultimi giorni.
Dalla vicenda Alcoa anche la Commissione europea non ne esce bene; aldilà delle
motivazioni giuridiche che sottostanno a due opposte decisioni, appare
indubitabile che, sul piano economico, già dal 1996 l'Alcoa beneficiò di aiuti
da parte dello stato italiano che non furono sanzionati. E sorge il dubbio che
tale decisione possa essere stata indirizzata da pregiudizi ideologici in favore
dell'attività privata, aprioristicamente ritenuta migliore di quella pubblica.
Soldi e lobby
In generale dal caso Alcoa emerge che la selva di incentivi versati dallo stato
alle imprese, anche come risultato delle attività di lobby da parte di gruppi di
interesse, sfugge ad una chiara rendicontazione pubblica. Perché la spending
rewiew abbia un senso economico, occorre che la spesa pubblica sia spostata da
improduttiva a produttiva e che l'effetto degli incentivi e dei disincentivi
(imposte e tasse) sia monitorato, anche in termini di distribuzione del reddito.
La crisi sollecita il governo a produrre tempestivamente nuove ed efficaci
informazioni preventive e consuntive dei costi e dei benefici pubblici relativi
agli aiuti all'attività economica.
Il caso Alcoa ha anche messo in evidenza la mancanza di una valida politica
industriale da parte del governo che si sta manifestando con l'assenza di una
risposta alla domanda chiave: «Come risolvere la questione dello smelter di
Portovesme?». E' paradossale che l'impianto, dopo aver funzionato per molti
decenni con livelli di produttività dell'energia molto bassi, venga chiuso
immediatamente dopo i primi interventi di ammodernamento; peraltro, secondo i
dati desumibili dal sito dell'Alcoa sussisterebbero ampi margini per accrescere
l'efficienza della fonderia: i migliori smelter impiegherbbero circa 11,5 Mw/h
per tonnellata di alluminio prodotto, mentre lo stabilimento sardo circa il 25
per cento in più.
Per trovare un compratore occorrono comunque soluzioni in grado di rendere
paragonabile il costo del fattore produttivo energia elettrica a quello di altri
paesi, anche extraeuropei. I nuovi siti dell'Alcoa sono stati aperti in Islanda
insieme a un impianto idroelettrico e sono in corso di realizzazione grandi
stabilimenti in Arabia Saudita, ossia in paesi dove il prezzo dell'energia è
molto basso. L'eventualità di una cessione si presenta di non facile
realizzazione - come dimostra la rapida uscita di scena della svizzera Glencore,
che aveva manifestato un qualche interesse alla trattativa.
Dato il maggiore prezzo dell'energia nel nostro Paese, se si vuole mantenere la
metallurgia di base in Sardegna è, come minimo, indispensabile che la
produttività cresca al livello degli impianti più efficienti; il risparmio
potenziale di energia elettrica corrisponderebbe ad almeno tre volte quella
prodotta dal grande parco eolico da poco inaugurato a Portoscuso, vicino allo
smelter, da parte dell'Enel Green Power.
Per avere più solide prospettive di conservazione dell'apparato produttivo
sarebbe opportuno verificare se è possibile raggiungere una produttività
superiore con le più recenti tecnologie. A tal fine il governo ha preso contatti
con atenei e politecnici per avere attendibili risposte tecniche e formulare un
business plan ragionevole? Se Passera ha qualche idea
Inoltre, nell'attuale situazione di crisi, l'autorità pubblica ha valutato le
interdipendenze con la filiera produttiva a monte e a valle, per esempio con la
centrale termoelettrica e con le miniere del Sulcis? Ha preso in considerazione
l'ipotesi di un rinnovato intervento diretto dello stato, soluzione comunque
preferibile rispetto a pasticciate soluzioni private sovvenzionate da nuovi
mascherati incentivi? Si è domandato quale sarebbe la posizione dell'Europa nei
confronti di tale politica, comunque più trasparente rispetto al passato?
In ogni caso, poiché ci dovranno essere importanti risparmi nell'utilizzo di
energia, occorre decidere cosa fare dei maggiori prelievi parafiscali sulle
bollette degli italiani. Ridurre le bollette? Oppure utilizzare il maggior
prelievo come sostegno al reddito dei lavoratori sardi (l'ammontare complessivo
è sufficiente per pagare sussidi a migliaia di lavoratori)? Ovvero utilizzarlo
per altre iniziative industriali? Se il ministro dello sviluppo economico ha
qualche idea, è il momento di rappresentarla.
2 ottobre
Sisma, ecco il recupero
Irpef: prime buste paga azzerate
Brutta sorpresa per i lavoratori di 34 comuni terremotati del mantovano:
stipendio basso a causa del recupero in un'unica soluzione dell'addizionale
regionale arretrata, non versata dopo il terremoto perché sospesa. La denuncia
della Cgil
Un'immagine di Cavezzo, comune del modenese
colpito dal sisma del 20 maggio
ROMA - Prime buste paga azzerate per i lavoratori delle zone colpite dal sisma
dello scorso 20 e 29 maggio, in Emilia Romagna, Lombardia e Veneto. A
denunciarlo è la Cgil, che dopo aver lanciato l'allarme già prima della proroga
dello stop dei versamenti fiscali e contributivi dal 30 settembre al 30
novembre, ora porta alla luce i primi casi di brutte sorprese.
A farne le spese sono per ora un migliaio di lavoratori dipendenti residenti nei
34 Comuni terremotati del mantovano (su 70 della provincia) e che hanno hanno
già ricevuto la busta paga di settembre, i quali si sono ritrovati con con
stipendi "falcidiati" a causa del recupero in un'unica soluzione dell'Irpef
arretrata, non versata dopo il sisma perchè sospesa. Secondo il sindacato si
tratta solo di primi casi: molti altri, e in altre zone, presto si ritroveranno
nella stessa situazione.
La sospensione dei pagamenti delle tasse per Emilia Romagna, Lombardia e Veneto
è stata prorogata al 30 novembre, rispetto all'iniziale scadenza fissata al 30
settembre. Ma la sospensione non include i sostituti d'imposta, ossia aziende e
datori di lavoro. Esclusione su cui, sottolinea il sindacato, non si è ancora
intervenuti, perchè il secondo decreto di proroga ha poi solo fatto slittare il
termine finale.
Cgil, Cisl e Uil, che sulla questione hanno scritto due lettere al ministro
dell'Economia, Vittorio Grili, chiedendo anche un incontro, insistono da tempo
perché si preveda possibilmente per via normativa la rateizzazione dei
versamenti, come già avvenuto per il terremoto dell'Aquila e si chiariscano in
maniera "inequivocabile" i comportamenti cui devono attenersi i diversi soggetti
coinvolti. "Al governo e alle imprese chiediamo di recuperare l'imposta con
gradualità entro l'anno - spiega il segretario provinciale della Cgil Massimo
Marchini - nei prossimi giorni il quadro sarà ancora più pesante".
Il mais transgenico è
tossico. Il governo fa finta di niente
Dopo lo studio francese sulla tossicità dell'Nk603 l'esecutivo di Monti non
prende posizione. La ricerca riaccende la discussione sul bisogno di affidare
alle autorità pubbliche, autonome dalle imprese, il giudizio sui prodotti.
Intervista con Fabrizio Fabbri, direttore scientifico della Fondazione «Diritti
Genetici»
Giorgio Salvetti
«Oui,
les ogm sont des poisons!». Il magazine francese Nouvel Observateur ha lanciato
l'allarme in prima pagina: «Sì, gli ogm sono veleno». E la notizia ha fatto
subito il giro del mondo. Riguarda la pubblicazione di uno studio effettuato da
un gruppo di ricercatori francesi coordinati da GillesEric Sèralini
dell'università di Caen che dimostra la tossicità del mais transgenico Nk603 e
dell'erbicida Roundup, entrambi prodotti dalla Monsanto. Secondo lo studio
sviluppano danni a reni e fegato, alterano i parametri ematici e provocano
formazioni cancerose alle ghiandole mammarie. La Russia ha già bloccato
l'importazione dell'Nk603. La Ue, che ne aveva autorizzato il consumo, dovrà
ristudiare il caso. In Francia il dibattito sugli organismi geneticamente
modificati si è infiammato. In Italia quasi non se ne parla. Ne parliamo,
invece, con Fabrizio Fabbri, direttore scientifico della Fondazione "Diritti
Genetici", residente a Bruxelles. Quali sono i punti forti e i punti deboli di
questo studio? Sèralini ha studiato i topi per tutta la loro vita, ovvero per
due anni. Invece gli studi che vengono allegati alle richieste di autorizzazione
per la messa sul mercato del prodotto, sia in America che in Europa, si basano
su un periodo di 90 giorni. E poi si tratta di uno studio indipendente. Invece
le autorità europee per concedere l'ok si basano solo sulle indagini effettuate
dalle stesse aziende produttrici, ma non realizzano studi super partes. Sèralini
chi è, e chi lo ha finanziato? L'hanno finanziato Carrefour e Auchan . E' un
personaggio discusso perché ha avuto il merito di muoversi sempre in modo
indipendente dai giganti del biotec. Quali sono gli elementi deboli di questa
ricerca? Lo studio si è dato come obiettivo quello di analizzare l'effetto
combinato dell'ogm e dell'erbicida ad esso abbinato. Il mais Nk603 ha la
caratteristica di essere resistente all'erbicida Roundup di Monsanto, i due
prodotti vengono usati insieme con il risultato che alla fine sono presenti
entrambi nei prodotti alimentari. Sèralini ha diviso quattro gruppi di cavie,
uno di controllo alimentato con mais non gm e senza erbicida, uno alimentato con
il solo ogm, uno alimentato con il solo erbicida diluito in acqua, e infine
all'ultimo gruppo sono state somministrate varie dosi dei due prodotti
combinati. Questa scelta ha il pregio di ricreare in laboratorio le condizioni
più realistiche presenti nei prodotti in commercio, ma ha una debolezza: i
gruppi di cavie una volta divisi non erano molto numerosi. Inoltre il tipo di
topi usati, soprattutto le femmine, è naturalmente predisposto a sviluppare
tumori alle ghiandole mammarie. Questo vuol dire che non è uno studio valido? Al
contrario, comunque i tumori sono aumentati, inoltre i danni ai reni e al fegato
e le alterazioni ematiche sono certi. Ovviamente però si tratta solo di un punto
di partenza che richiede di essere approfondito con ricerche ad hoc. Mi spiego.
La maggiore difficoltà di questa ricerca è che ha tentato di rispondere a tanti
interrogativi contemporaneamente. Il suo merito è che così facendo ha messo in
luce molti aspetti problematici. A questo punto, però, bisogna prendere ogni
singolo aspetto e studiarlo in modo specifico. Non si tratta né di buttare tutto
nel cestino, né di prendere questi risultati come definitivi. Chi ha criticato
la ricerca e con che argomenti? Per esempio un Science media center inglese ha
raccolto il parere di 10 esperti che hanno avanzato dubbi. Il problema, però, è
che questo istituto in parte è finanziato dalle stesse multinazionali del biotec
e molti di questi esperti lavorano nel business degli ogm. Monsanto, invece, ha
fatto addirittura rilievi non solo scientifici che al di là del merito puntano a
mettere in dubbio le competenze dei ricercatori e addirittura avanzano l'ipotesi
di un conflitto di interessi dell'equipe di Sèralini che sarebbe legata al
settore delle piante omeopatiche. Come si può ottenere una valutazione non
contaminata dagli interesse di parte? Questo è il punto. Ci vogliono autorità
pubbliche veramente indipendenti che finanzino studi ben fatti. Purtroppo nel
1991 l'Ocse ha chiesto di semplificare le pratiche di autorizzazione degli ogm
perché le ritenevano troppo costose sia in termini di soldi che di tempo. Questo
ha causato una reazione a catena per cui ogni produttore tende a dire che il suo
ogm è omologabile a quelli già autorizzati e gli studi sui nuovi prodotti sono
molto ridotti e con un limitato controllo delle autorità pubbliche. Adesso che
succederà? Dopo il blocco delle importazioni in Russia, in Francia stanno
creando un apposito gruppo di studio. A livello europeo invece la palla passa
all'Efsa (l'autorità europea di controllo sugli alimenti). Il problema però è
che anche l'indipendenza di Efsa è molto dubbia. Molti autorevoli esponenti di
Efsa lavorano o hanno lavorato per associazioni e aziende legate ai produttori.
L'unico ogm la cui coltivazione è autorizzata in Europa, il mais Mon810, è stato
promosso da Efsa nonostante Monsanto abbia tenuto nascosto uno studio su quel
prodotto. Efsa, infatti, non ha mai bocciato nessun ogm, neppure la patata
Amflora che anche l'Oms aveva giudicato causa dello sviluppo di resistenze verso
gli antibiotici. E intanto il mais studiato dai francesi ce lo possiamo trovare
nel piatto. E in Italia a che punto siamo? Riguardo all'Nk603 il ministro
dell'agricoltura si è limitato a demandare la questione al ministero della
salute. Più in generale il governo Monti non prende una posizione netta sugli
ogm. Da noi gli ogm possono essere contenuti nei prodotti alimentari e nei
mangimi per animali, ma di fatto non possono essere coltivati anche se approvati
dall'Ue. Mancano le regole sulla coesistenza tra colture gm e gm free . Si
tratta di quelle norme che tutelano i coltivatori che non vogliono usare semi
transgenici e rischiano di essere contaminati dalle piante gm coltivate nei
campi vicini. Una convivenza che, vista la struttura del nostro territorio, è di
fatto impossibile. E infatti le regioni che hanno il compito di fissare questi
parametri non si decidono da anni. La Corte europea, però, un mese fa ha detto
che l'Italia su queste base non può rifiutare la coltivazioni di ogm già
autorizzati dall'Ue. E non ha tutti i torti. Per questo molti paesi, come ad
esempio Francia, Austria, Ungheria, Grecia, hanno già fatto ricorso alla
cosiddetta clausola di salvaguardia, ovvero alla possibilità dei singoli stati
di non ammettere un ogm sulla base di studi e ricerche nazionali. L'Italia e il
governo Monti però non si vogliono assumere la responsabilità di prendere questa
iniziativa. Si tratta non solo di tutelare la salute dei consumatori che gli ogm
proprio non li vogliono, ma anche l'economia e l'ambiente italiani che non sono
compatibili con colture estensive che puntano tutto sulla quantità della
produzione e non sulla qualità.
I cento parlamentari
condannati, imputati, indagati o prescritti
a cura di Giampiero Calapà e Caterina Perniconi
da Il Fatto Quotidiano del 30 settembre 2012
Sono cento i parlamentari condannati, imputati, indagati e prescritti che
siedono tra Montecitorio e Palazzo Madama. Tocca a loro, per lo più macchiati da
reati contro il patrimonio, votare la legge sulla corruzione. Del resto, come ha
detto l’avvocato di Silvio Berlusconi, Piero Longo , a Report : “Il Parlamento
deve essere la rappresentazione mediana del popolo. Perché dovrebbe essere
migliore?”. Forse perché i delinquenti non dovrebbero esserci, invece di cercare
addirittura rappresentanza nelle istituzioni?
Abrignani Ignazio (deputato Pdl): indagato per dissipazione post-fallimentare.
Alessandri Angelo (dep Lega): indagato per finanziamento illecito ai partiti.
Angelucci Antonio (dep Pdl): indagato per associazione a delinquere, truffa e
falso.
Aracu Sabatino (dep Pdl): rinviato a giudizio nella Sanitopoli abruzzese.
Barbareschi Luca (dep Misto- eletto Pdl): indagato per abusivismo.
Berlusconi Silvio (dep Pdl): 2 amnistie (falsa testimonianza P2, falso in
bilancio Macherio); 1 assoluzione per depenalizzazione del reato (falso in
bilancio All Iberian); 3 processi in corso (frode fiscale Mediaset,
intercettazioni Unipol, processo Ruby). 5 prescrizioni (Lodo Mondadori, All
Iberian, Consolidato Fininvest, Falso in bilancio Lentini, processo Mills).
Bernardini Rita (dep Pd): condannata nel 2008 a quattro mesi per cessione
gratuita di marijuana, pena estinta per indulto.
Berruti Massimo (dep Pdl): condannato a 8 mesi per favoreggiamento.
Bossi Umberto (dep Lega): condannato a 8 mesi di reclusione per finanziamento
illecito, 1 anno per istigazione a delinquere, 1 anno e 4 mesi per vilipendio
alla bandiera poi indultati, oggi è indagato per truffa ai danni dello Stato.
Bosi Francesco (dep Udc): indagato per abuso d’ufficio.
Bragantini Matteo (dep Lega): condannato in appello per propaganda razziale.
Brancher Aldo (dep Pdl): condannato per appropriazione indebita e ricettazione.
Briguglio Carmelo (dep Pdl): vari processi a carico (truffa, falso, abuso
d’ufficio), alcuni prescritti, alcuni trasferiti ad altri tribunali e in seguito
assolto.
Calderoli Roberto (senatore Lega): indagato per ricettazione, resistenza a
pubblico ufficiale, prescritto. Indagato per truffa dal Tribunale dei ministri,
i senatori votano contro l’autorizzazione a procedere.
Caliendo Giacomo (sen Pdl): indagato per violazione della legge Anselmi sulle
società segrete (inchiesta nuova P2).
Camber Giulio (sen Pdl): condannato in via definitiva per millantato credito.
Caparini Davide (dep Lega): resistenza a pubblico ufficiale, prescritto.
Carlucci Gabriella (dep Pdl): condannata a risarcire una sua collaboratrice.
Carra Enzo (dep Udc): condannato in via definitiva a 16 mesi per false
dichiarazioni ai pm.
Castagnetti Pierluigi (dep Pd): rinviato a giudizio per corruzione, prescritto.
Castelli Roberto (sen Lega): indagato per abuso d’ufficio patrimoniale.
Catone Giampiero (dep Misto – eletto Pdl): condannato in primo grado a otto anni
per associazione a delinquere finalizzata alla truffa aggravata, falso, false
comunicazioni sociali e bancarotta fraudolenta pluriaggravata.
Cesa Lorenzo (dep Udc): condannato in primo grado per corruzione aggravata,
condanna annullata in appello per vizio di forma.
Cesaro Luigi (dep Pdl): indagato per associazione camorristica.
Ciarrapico Giuseppe (sen Pdl): condannato per truffa aggravata, bancarotta
fraudolenta, finanziamento illecito, rinviato a giudizio per ricettazione,
indagato per truffa ai danni di Palazzo Chigi.
Cilluffo Francesca (dep Pd): indagata per evasione fiscale.
Cosentino Nicola (dep Pdl): accusato di legami con il clan dei Casalesi, il
Parlamento ha negato la richiesta d’arresto. Imputato anche nell’inchiesta sulla
P3.
Crisafulli Vladimiro (sen Pd): sotto inchiesta per abuso d’ufficio.
D’Alì Antonio (sen Pdl): rinviato a giudizio per concorso esterno in
associazione mafiosa.
De Angelis Marcello (dep Pdl): condannato per banda armata e associazione
eversiva.
De Gregorio Sergio (sen Pdl): indagato per associazione per delinquere, concorso
in truffa e truffa aggravata, concorso in bancarotta fraudolenta. Il Senato ha
negato l’autorizzazione all’arresto.
Dell’Utri Marcello (dep Pdl): condannato per false fatture e frode fiscale,
condannato in appello per tentata estorsione mafiosa, condannato in secondo
grado a 7 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa ma
annullata con rinvio dalla Cassazione.
Del Pennino Antonio : (sen Pdl): ha patteggiato una pena di 2 mesi e 20 giorni
nel processo per le tangenti Enimont. A ottobre 1994 altro patteggiamento: di
una pena di 1 anno, 8 mesi e 20 giorni per tangenti relative alla Metropolitana
milanese. Prescritto per corruzione.
De Luca Francesco (dep Pdl): indagato per tentata corruzione in atti giudiziari.
Di Giuseppe Anita (dep Idv): indagata per abuso di ufficio, turbativa d’asta e
associazione a delinquere.
Di Stefano Fabrizio (dep Pdl): rinviato a giudizio per corruzione.
Drago Giuseppe (dep Misto – eletto Udc): condannato per peculato e abuso
d’ufficio.
Farina Renato (dep Pdl): condannato in primo grado a 2 anni e 8 mesi per falso
in atto pubblico, ha patteggiato una pena di 6 mesi per favoreggiamento nel
sequestro di Abu Omar.
Fasano Vincenzo (sen Pdl): condannato per concussione, indultato.
Fazzone Claudio (sen Pdl): rinviato a giudizio per abuso d’ufficio.
Firrarello Giuseppe (sen Pdl): condannato in primo grado per turbativa d’asta,
indagato per concorso esterno in associazione mafiosa (nel ’99 il Senato ha
negato l’arresto).
Fitto Raffaele (dep Pdl): rinvio a giudizio per concorso in corruzione, falso e
finanziamento illecito.
Galati Giuseppe (dep Pdl): indagato per associazione a delinquere, truffa e
associazione segreta.
Galioto Vincenzo (sen Misto-eletto Pdl): condannato in primo grado per falso in
bilancio.
Genovese Fracantonio (dep Pd): indagato per abuso d’ufficio.
Grassano Maurizio (Misto – eletto Lega): condannato in primo grado a 4 anni per
truffa.
Grillo Luigi (dep Pdl): indagato e prescritto per truffa.
Iapicca Maurizio (dep Misto-eletto Pdl): rinviato a giudizio per false fatture,
falso in bilancio e abuso d’ufficio, prescritto.
La Malfa Giorgio (dep Misto-eletto Pdl): condannato per finanziamento illecito.
Laganà Maria Grazia (dep Pd): imputata per truffa ai danni dello Stato.
Landolfi Mario (dep Pdl): indagato per concorso in corruzione, concorso in
truffa e concorso in favoreggiamento mafioso.
Lehner Giancarlo (dep Pdl): condannato per diffamazione.
Lolli Giovanni (dep Pd): rinviato a giudizio per favoreggiamento , prescritto.
Lombardo Angelo (dep Misto): indagato per concorso esterno in associazione
mafiosa.
Lumia Giuseppe (dep Pd): indagato per diffamazione. Querelato dal suo ex addetto
stampa.
Lunardi Pietro (dep Pdl): indagato per corruzione.
Luongo Antonio (dep Pd): rinviato a giudizio per corruzione.
Lusetti Renzo (dep Pd): condannato a risarcimento per consulenze ingiustificate.
Lusi Luigi (Misto-eletto Pd): indagato per appropriazione indebita e calunnia, è
attualmente in carcerazione preventiva e resta senatore.
Malgieri Gennaro (dep Pdl): condannato dalla Corte dei conti per la nomina di
Alfredo Meocci a dg della Rai.
Mannino Calogero (sen misto, eletto Udc): imputato per minaccia a corpo dello
Stato nell’inchiesta sulla Trattativa Stato-mafia.
Maroni Roberto (Lega Nord): condannato per oltraggio e resistenza a pubblico
ufficiale.
Matteoli Altero (sen Pdl): imputato per favoreggiamento, processo bloccato dalla
Camera.
Messina Alfredo (sen Pdl): indagato per favoreggiamento in bancarotta
fraudolenta.
Milanese Marco (dep Pdl): indagato per corruzione, rivelazione segreta e
associazione a delinquere (P4).
Nania Domenico : (sen Pdl): condannato per lesioni personali, condannato in
primo grado per abusi edilizi e prescritto.
Naro Giuseppe (dep Udc): condannato per abuso d’ufficio, condanna in primo grado
per peculato prescritta.
Nessa Pasquale (sen Pdl): rinviato a giudizio per concussione.
Nespoli Vincenzo : (sen Pdl): indagato per concorso in scambio elettorale,
concorso in bancarotta fraudolenta e concorso in riciclaggio. Richiesta di
arresto respinta dal Senato.
Paravia Antonio ( arrestato per tangenti, poi prescritto.
Papa Alfonso : (dep Pdl): accusato di concussione, favoreggiamento e rivelazione
del segreto d’ufficio nell’ambito dell’inchiesta sulla P4.
Papania Antonino (dep Pd): patteggia accusa per abuso d’ufficio.
Pili Mauro (dep Pdl): indagato a Cagliari per peculato.
Pini Gianluca : (dep Lega): indagato per millantato credito.
Pittelli Giancarlo (dep Misto – eletto Pdl): indagato per associazione per
delinquere finalizzata al riciclaggio e “appartenenza a loggia massonica segreta
o struttura similare” e per minacce e lesioni a un collega avvocato.
Pistorio Giovanni (sen Misto): condannato dalla Corte dei conti per danno
erariale.
Porfidia Americo : (dep Misto – eletto Idv): rinviato a giudizio per tentata
estorsione e favoreggiamento.
Rigoni Andrea (dep Pd): condanna in primo grado per abuso edilizio, poi reato
prescritto.
Rizzoli Melania (dep Pdl): indagata per concorso in falso.
Romano Francesco Saverio (dep misto – eletto Udc): indagato per corruzione.
Rosso Roberto (dep Pdl): indagato per associazione a delinquere.
Russo Paolo (dep Pdl): indagato per violazione della legge elettorale.
Rutelli Francesco (sen Misto): condannato per danno erariale dalla Corte dei
conti.
Savino Elvira (dep Pdl): indagata per concorso in riciclaggio.
Scajola Claudio (dep Pdl): indagato per la casa vicino al Colosseo pagata
dall’imprenditore Diego Anemone.
Scapagnini Umberto (dep Pdl): condannato in primo grado a 2 anni e 6 mesi per
abuso d’ufficio e violazione della legge elettorale.
Scelli Maurizio (dep Pdl): condannato a pagare 900 mila euro per irregolarità
nell’acquisizione di servizi informatici.
Sciascia Salvatore (sen Pdl): condannato per corruzione alla Guardia di finanza.
Simeoni Giorgio (dep Pdl): indagato per associazione per delinquere e
corruzione.
Serafini Giancarlo (sen Pdl): ha patteggiato una condanna per corruzione.
Speciale Roberto (dep Pdl): condannato dalla Corte di appello militare a 1 anno
e 1 mese per peculato d’uso e abuso d’ufficio.
Stiffoni Piergiorgio (sen misto – eletto Lega) indagato dalla Procura di Milano
per peculato.
Strano Nino (sen Misto – Fli): condannato in appello a 2 anni e 2 mesi per abuso
d’ufficio e violazione della legge elettorale
Tancredi Paolo (dep Pd): indagato per corruzione
Tedesco Alberto (sen Pd): indagato per turbativa d’asta e corruzione. La Camera
dei deputati l’ha salvato negando l’autorizzazione all’arresto.
Tomassini Antonio (sen Pdl): condannato per falso.
Tortoli Roberto (dep Pdl): condannato in secondo grado a 3 anni e 4 mesi per
estorsione.
Verdini Denis (dep Pdl): indagato per false fatture, mendacio bancario, appalti
G8 L’Aquila, associazione a delinquere e abuso d’ufficio.
Vizzini Carlo (sen Pdl): condannato in primo grado per finanziamento illecito,
si è salvato solo con la prescrizione. Era coinvolto nella maxi tangente Enimont.
Indagato per favoreggiamento alla mafia.
Alcuni dati potrebbero essere cambiati rispetto a quelli riportati e nel caso
saremo pronti a rettificarli essendo molti i processi in corso. Altri ancora
possono essere subentrati.