Il bluff dell’oro nero
lucano: non ha portato né lavoro né soldi. E i giovani emigrano
Altro che "Libia di casa nostra" come diceva il governatore Pd De Filippo: le
royalties sono troppo basse, alla regione restano le briciole di un grande
business che arricchisce multinazionali e Stato italiano. Così la Basilicata
resta la più povera d'Italia
“Richiamate
i vostri uomini, fateli venire da qualsiasi paese straniero si trovino e dite
loro che qui finalmente c’è lavoro”. Era lo slogan preferito di Enrico Mattei
cinquant’anni fa. Lo aveva scandito col suo accento marchigiano anche in
Basilicata, a Ferrandina, mentre dava il via alla prima trivella della regione.
Con lui Emilio Colombo, allora giovane ministro dell’Industria e padrone del
grande serbatoio di voti Dc in Lucania. È il sud in bianco e nero degli anni
Sessanta, terre tagliate fuori dal boom economico e famiglie intere che
chiudevano in una valigia di cartone disperazione e speranze. Nelle viscere di
monti e pianure c’è l’oro nero. “Richiamate i vostri uomini…”. E invece i nonni
non tornarono più, i padri partirono, e ora emigrano anche i figli. Più di
tremila giovani ogni anno lasciano la Basilicata. Le trivelle continuano a
pompare una ricchezza che non li sfiora. E loro vanno via dalla regione più
povera d’Italia dove il 31,6% di chi ha dai 15 ai 34 anni non ha uno straccio di
lavoro, e più del 28% delle famiglie vive al di sotto della soglia di povertà.
“Governo e multinazionali possono maneggiare le statistiche come vogliono, ma
dai pozzi di petrolio non sono usciti né lavoro, né sviluppo”, ci dice Pietro
Simonetti, un passato da operaio sindacalista e un presente di direttore del
“Centro studi e ricerche economico-sociali”. “Il petrolio si serve della
marginalità e del sottosviluppo”, nota l’antropologo Enzo Alliegro. Altro che
Texas, altro che “Libia di casa nostra”, come andava dicendo l’entusiasta
governatore Vito De Filippo, Pd. Dopo decenni di trivellazioni Potenza non è
Dubai, la Val d’Agri non ha l’aspetto di un emirato e la “Basilicata coast-to
coast” è solo un bel film.
Per capire il grande inganno del petrolio bisogna aggrapparsi ai numeri. Dai 25
pozzi attivi in Val d’Agri, la Basilicata estrae l’80 per cento della produzione
petrolifera italiana, il 5-6 del fabbisogno nazionale. Le compagnie petrolifere,
l’Eni e la Shell, in particolare, puntano a passare dagli attuali 80mila barili
al giorno ai 104 mila previsti da un accordo del 1998, più altri 25 mila che
dovrebbero venir fuori dal miglioramento delle tecniche estrattive. Con
l’ampliamento del Centro oli di Viggiano e l’entrata in funzione dell’impianto
Total di Tempa Rossa, a Corleto Perticara, la Basilicata raddoppierebbe la sua
produzione petrolifera fino a 175 mila barili al giorno, il 12% del consumo
italiano.
“Così tra i lucani crescerà la potenza attrattiva del totem nero”. È il titolo
di un libro di prossima uscita dell’antropologo Enzo Alliegro, lucano
trapiantato all’Università napoletana Federico II. “Il petrolio è un totem, un
oggetto ambivalente, desiderato ma anche temuto, che ha ridefinito l’immaginario
collettivo. Si sogna la ricchezza, ma si teme la catastrofe”. L’illusione di un
improvviso benessere si chiama royalty, la quota che le compagnie pagano allo
Stato italiano per lo sfruttamento dei pozzi. Una legge del 1957 definiva un
sistema di sliding scale royalties che andava dal 2 al 22% a barile, nel ‘96 una
nuova normativa bloccò la percentuale al 7, successivamente portata al 10. Un
vero eldorado per le compagnie. Che in Italia pagano molto di meno rispetto alla
Norvegia e all’Indonesia, dove le royalties sono all’80%, o alla Libia, 90,
mentre in Canada i governi locali si lamentano perché giudicano insufficiente il
45% che incassano su ogni barile. Pochi soldi, ma comunque tanti per la
Basilicata che in 11 anni si è vista piovere addosso 669 milioni, 800 se si
calcolano anche quelli destinati ai comuni. Un mare di “petroleuro”, in
apparenza, in realtà solo le briciole di un grande business che arricchisce
multinazionali e Stato italiano.
NEL 2010, anno d’oro per l’Eni (utile netto di 6,89 miliardi), la quota
destinata alla regione e ai comuni lucani, più il 2,10% per il fondo benzina, è
stata di 110 milioni. Pochissima cosa rispetto a quella che qui chiamano la
“royalty camuffata”, quel 42% di tasse che lo Stato impone alle compagnie
petrolifere: 450 milioni di euro solo per il 2010. Ma è come sono stati spesi i
33 miliardi del Fondo Benzina, ad indignare i lucani. È la storia della card da
100 euro di carburante arrivata ai 335 mila patentati della Basilicata. In
pratica un paio di pieni per una macchina media. “Un’ingiustizia, quei soldi
dovevano andare a tutti i residenti”, dice il governatore De Filippo. “Abbiamo
restituito ai lucani soldi che gli appartengono. Una rivoluzione”, replica l’ex
sottosegretario Pdl Guido Viceconte. Un vero affare per Poste Italiane, visto
che ogni card costa 20 euro. Archiviata questa polemica, gli adoratori ottimisti
del “totem petrolio”, calcolano che per il prossimo decennio saranno almeno 6 i
miliardi di royalties che piomberanno su queste terre. “Una visione miope – dice
Pietro Simonetti –, i giacimenti possono essere sfruttati per altri 20-30 anni,
in Val d’Agri siamo alla metà del ciclo. Quando i pozzi chiuderanno cosa faremo?
Bisogna ricontrattare tutto con lo Stato e le multinazionali, se è necessario
anche con movimenti di lotta come abbiamo fatto a Scanzano contro le scorie
nucleari”. Le parole d’ordine che si sentono nelle assemblee e nei consigli
comunali aperti sono “blocco delle perforazioni, moratoria”. “No a nuovi pozzi –
dice il governatore Vito De Filippo – nel 1998, quando sono cominciate le
estrazioni non potevamo opporci, ma ora vogliamo imporre all’Eni una svolta
radicale. O fanno sul serio o troveranno un muro”.
Tutto è affidato a un “memorandum”, una intesa per lo sviluppo tra Regione e
Stato. Al centro i problemi della tutela ambientale e della salute. Allarmano le
emissioni e le fuoriuscite di greggio. “Per 13 anni si è vissuti nella più
totale opacità. Chi ha fatto i controlli, i monitoraggi? L’Arpab, vale a dire la
Regione, ammette che finora non è stato fatto granché, siamo al buio. Solo ora
sono partite quattro nuove centraline e tra due anni avremo i risultati degli
effetti sul territorio”, dice Ennio Di Lorenzo di Legambiente. “No a nuove
trivellazioni, fermiamoci dove siamo e cerchiamo di capire cosa è successo in
tredici anni”, aggiunge Giovanbattista Mele, medico della Val d’Agri. Qui c’è
l’oleodotto più grande d’Europa. Le sue luci, i bagliori del petrolio che
brucia, si vedono dal punto più alto di Viggiano, la basilica dove si prega una
Madonna tutta d’oro. Poco più di 3 mila abitanti, un tesoretto da 8 milioni e
300 mila euro di royalties solo quest’anno. Spesi per finanziare gli
imprenditori che assumono disoccupati (1.000 euro al mese per tre anni), aiuti
alle famiglie, tante opere pubbliche che alimentano il ciclo del cemento. C’è il
campo da calcio, quello per il tennis e si sta costruendo la piscina comunale.
“Ma non posso prevedere cosa accadrà tra vent’anni alla salute dei cittadini e
all’ambiente”, ammette il sindaco Giuseppe Alberti. “Il petrolio porta soldi, ma
non risolve i problemi sociali”. I ragazzi di Viggiano prendono l’ascensore del
megagalattico e deserto parcheggio multipiano per salire sulla piazza della
basilica. Poi scendono giù, a piedi, per le vie strette del paese. Molti, quelli
che possono, vanno via. Altri, disillusi dal petrolio-totem, sognano di
scappare. Sono i “basilischi” del Duemila. A differenza dei loro nonni
raccontati da Lina Wertmüller, non fantasticano più su una Lucania diversa.
27 marzo
Al buon cuore del padrone
Se vi piacciono i testacoda, se avete una passione
per gli autogol e provate ammirazione per l'autolesionismo, le argomentazioni
degli smantellatori dell'articolo 18 vi suoneranno divertenti.
Impagabile il professor Monti: fare una legge e dire mentre la si fa «Vigileremo
sugli abusi», significa sapere che ci saranno abusi. E' come se il chirurgo che
opera un paziente e dicesse al suo staff: «Mi raccomando, delicatezza, poi
quando dite ai parenti che è morto».
Il presidente della Repubblica, da primo sostenitore del governo Monti (più di
certi ministri, a dar retta alle cronache), difende a spada tratta la riforma, e
nel contempo dice che il problema non è l'articolo 18, ma «il crollo di
determinate attività produttive». Che crollano perché le amministrazioni non
pagano le imprese, perché i picciotti ti taglieggiano, perché i politici
chiedono mazzette, perché le sentenze si aspettano per anni. Di leggi su queste
cose non se ne vedono, e sull'articolo 18 invece sì. Saranno anche professori,
ma non di logica.
Ferruccio De Bortoli sul Corriere rimprovera (proprio a noi del manifesto, wow,
siamo famosi!) «Una ripetizione logora di schemi mentali del passato, il
tentativo di creare un solco ideologico». E perché? Perché pensiamo, e
scriviamo, che con una legge che rende facili i licenziamenti, gli imprenditori
licenzieranno più facilmente. Siamo proprio scemi: pensiamo che con una legge
che abolisce le strisce pedonali ci saranno più pedoni investiti. Ma come ci
viene in mente! Ideologici, eh! Nel frattempo, il Corriere, che è poco
ideologico, mette a pagina 53 la sentenza sugli operai Fiom della Fiat di Melfi,
reintegrati dalla magistratura, che con la nuova legge sarebbero disoccupati
«legali».
Insomma: cari imprenditori, vi facciamo una legge per licenziare, ma voi, mi
raccomando, non usatela troppo. Ci appelliamo al vostro buon cuore. Parafrasando
Jessica Rabbit, quello schianto di cartoon: «I padroni non sono cattivi, è che
quelli del manifesto li disegnano così!».
Modello tedesco: un operaio
della Volkswagen guadagna il doppio di un collega della Fiat
A
confronto le buste paga erogate dai due grandi gruppi automobilistici: 2600 euro
netti contro 1.400. Il lavoratore italiano prende di meno, paga più tasse e si
ritrova welfare e servizi più scadenti. Eppure i bilanci della casa di Wolfsburg
battono alla grande quelli del concorrente torinese. Intanto Marchionne chiede
nuovi sacrifici e aiuti all'Europa
Marta Cevasco e Jurgen Schmitt sono due operai
metalmeccanici. Hanno quasi la stessa età: 52 anni la signora italiana e 50 il
suo collega tedesco, un’anzianità di servizio simile, entrambi tengono famiglia
(coniuge e un figlio) e fanno più o meno lo stesso lavoro non specializzato.
Qual è la differenza tra i due colleghi? Semplice: lo stipendio. Jurgen guadagna
molto di più. A fine mese l’operaia italiana arriva a 1.436 euro, quasi la metà
rispetto al metalmeccanico tedesco, che porta a casa una retribuzione 2.685
euro. A conti fatti, Marta e Jurgen sono divisi da 1. 250 euro. Chiamatelo, se
volete, lo spread del lavoro. E anche qui, come succede per la finanza pubblica,
vince la Germania. O meglio vince Volkswagen e perde Fiat, perché i due operai
che abbiamo scelto per questo confronto sono dipendenti delle due più importanti
aziende automobilistiche dei rispettivi Paesi. Jurgen passa le sue giornate alla
catena di montaggio dello stabilimento di Wolfsburg. Marta invece lavora in una
fabbrica del gruppo del Lingotto.
I nomi sono di fantasia, ma le buste paga, pubblicate in questa pagina, sono
reali. E i numeri suonano come la conferma della superiorità del modello
tedesco. Un sistema che garantisce retribuzioni più elevate. Ma non solo. Anche
in Germania, ancora più che in Italia, lo stipendio è falcidiato da pesanti
prelievi sotto forma di tasse, e, soprattutto, contributi previdenziali e
assicurativi. In cambio, però, questa montagna di soldi contribuisce a
finanziare un welfare che nonostante i tagli degli anni scorsi (a cominciare
dalle riforme varate tra il 1998 e il 2004 dal cancelliere socialdemocratico
Gerhard Schroeder ) rimane ancora uno dei più efficienti d’Europa. Dalle nostre
parti, invece, i contributi restano alti, ma il welfare si sta squagliando.
Vediamo un po’ più nel dettaglio il caso tedesco. Jurgen parte da una paga base
di poco superiore a 3 mila euro e con alcune ore di straordinario notturno
arriva a superare un compenso mensile lordo di 3. 700 euro. Le trattenute
previdenziali e assicurative sfiorano i 700 euro, di cui 336 per la pensione e
267 euro di cassa malattia. Se si considera che l’imponibile ammonta a 3. 380
euro circa, i contributi pesano per il 20 per cento circa. Marta invece paga
circa 170 euro per la pensione. Poi però ci sono circa 18 euro per il fondo
previdenziale integrativo e altri 16 euro sono destinati all’assicurazione
sanitaria supplementare. Alla fine questi contributi assorbono l’ 11 per cento
di un imponibile pari a circa 1. 800 euro, contro il 20 per cento di Jurgen. Poi
ci sono le tasse, che pesano sullo stipendio per meno del 10 per cento (9,89 per
cento) nel caso dell’operaio Vw. Le ritenute fiscali della dipendente Fiat, al
netto delle detrazioni, valgono invece il 13 per cento circa dell’imponibile.
Morale: per Marta meno stipendio e più tasse. Peggio ancora: anche se le imposte
sono maggiori, l’operaia italiana riceve servizi meno efficienti rispetto al
collega di Wolfsburg.
Va detto che anche in Germania la situazione può cambiare, anche di molto, da
un’azienda a un’altra. E spesso anche tra i reparti dela medesima fabbrica. Alla
Volkswagen di di Wolfsburg abbondano, anche se restano comunque in netta
minoranza, i lavoratori part time e a tempo determinato, con retribuzioni anche
del 20-30 per cento inferiori a quella dei loro colleghi .
Jurgen e Marta però fanno parte entrambi della stessa categoria di, per così
dire, privilegiati: gli assunti a tempo indeterminato. Resta il fatto che nel
regno di Sergio Marchionne l’operaio se la passa molto peggio rispetto al
collega delle fabbriche tedesche della Volkswagen. Il capo del Lingotto però
chiede ancora di più. Chiede nuovi sacrifici e maggiore flessibilità. Solo così
Fiat tornerà grande, dice.
Il gruppo di Wolfsburg si muove diversamente. Negli ultimi anni ha spostato una
parte importante della produzione in aree del mondo a basso costo del lavoro
(Cina, Slovacchia, Messico), ma quasi la metà dei suoi 500 mila dipendenti
vivono comunque in Germania e di questi la gran parte percepisce stipendi ben
più elevati rispetto a quelli della Fiat. Eppure Volkswagen, anche al netto
delle partite straordinarie, vanta profitti ben più elevati del concorrente
italiano. Non sarà che l’arma vincente dei tedeschi sono i prodotti, pensati e
realizzati grazie a imponenti investimenti in ricerca e sviluppo? Marchionne su
questo punto resta un po’ vago. In compenso, da buon liberista all’italiana,
continua a chiedere all’Europa interventi straordinari, con soldi pubblici, per
ridurre la sovracapacità produttiva in Europa. Da Wolfsburg rispondono: noi non
ne abbiamo bisogno.
20 marzo
Napolitano garante della
Costituzione. O no?
Il dubbio ci ha assalito qualche giorno fa,
leggendo un articolo di Italia Oggi del 7 marzo
Il quotidiano riporta di una lettera inviata al premier Monti e ai Presidenti
delle due camere Renato Schifani e Gianfranco Fini: i decreti legge “devono
essere coerenti con il provvedimento” del governo, bacchetta Napolitano!
E così la mannaia è calata in Commissione Ambiente sull’emendamento degli
onorevoli Bratti (e altri 15 colleghi) e Lanzarin (e altri 2 colleghi) sul
decreto legge n. 2 del 2012: accanto alle norme del decreto sull’emergenza
rifiuti in Campania volevano proporre una norma per valorizzare le migliori
gestioni pubbliche italiane dei rifiuti (eccellenze europee fra il 70 e l’89% di
raccolta differenziata e a costi inferiori del 40% della media nazionale!)
evitando di sacrificarle sull’altare delle privatizzazioni ad ogni costo.
Lo zelo di Napolitano è fondato: la Costituzione non vuole che nei vagoni del
treno del decreto d’urgenza salgano in corsa inserimenti non pertinenti al testo
originale di quando il treno è partito. Da raffinato tutore della Costituzione
non poteva non accorgersi che le gestioni virtuose non c’entrano con l’emergenza
Campania…
Ma, da così attento censore Costituzionale, come mai il Giorgio Nazionale non si
è accorto anche che il 12 e 13 giugno 27 milioni di Italiani hanno sonoramente
bocciato la privatizzazione forzata dei servizi pubblici locali e dopo soli 2
mesi ha sottoscritto il decreto legge di Berlusconi che – alla faccia degli
stessi Italiani – ricopiava le norme cassate dal popolo?
Caro Presidente, “la sovranità appartiene al popolo”, dice l’articolo 1 della
Costituzione. Un articolo molto più di sostanza dell’articolo 77 sulla procedura
burocratica dei decreti legge. L’articolo 1 viene prima, quanto meno per ordine
numerico!
Se per raffinatezze costituzionali su un decreto legge non ci stava la salvezza
in corsa delle (poche) migliori realtà pubbliche italiane, allora dimenticarsi
del referendum diventa una grossolanità costituzionale, quasi da vilipendio alla
Costituzione stessa.
Non si ricordava? Certo la memoria del Presidente non è più quella dei suoi 20
anni, ma il suo decreto che ratificava il referendum era di appena 20 giorni
prima della sua stessa firma sulla norma scippo di Berlusconi di agosto che
reintroduceva la sostanziale privatizzazione dei servizi pubblici!
Una svista? No. La firma del Capo dello Stato la ritroviamo ancora sul nuovo
decreto – peggiorativo – delle privatizzazioni Monti, dopo appena 4 mesi.
Difficile non accorgersi 2 volte di fila.
Non aveva letto? Probabile … con tutto quello che ha da fare. Ma il Quirinale è
fatto di attivissimi e preparatissimi funzionari che vivono di pane e
costituzione, leggono e filtrano tutto, analizzano e vergano testi e proposte.
Ed è questo che ci inquieta: vuoi vedere che qualcuno al Colle sa bene cosa
proporre al Presidente e agli Italiani, magari ben informato e collegato con la
Bce - pardon – l’Europa? Qualcuno conscio di come gli Italiani siano un popolo
volubile e disattento quando vota, qualcuno che sa di che cosa hanno bisogno
veramente gli italiani anche quando votano il contrario? qualcuno che sa gestire
i delicati equilibri con i gruppi di potere di chi scambia la copertura del
nostro debito pubblico con un po’ della nostra sovranità?
Se è così, per favore, togliete l’articolo 1 della Costituzione. Almeno non ci
sentiamo presi in giro e veramente quella domenica invece di votare il
referendum potevamo andare al mare, come profeticamente qualcuno dai TG
nazionali ci aveva suggerito di fare .
Ezio Orzes e Paolo Contò
A gennaio cede il mercato
interno.
Crollano fatturato e ordinativi dell'industria
I due indicatori mostrano le flessioni
tendenziali peggiori dal quarto trimestre del 2009. Il giro d'affari delle
imprese cala del 4,9% su dicembre e del 4,4% anno su anno. Le commesse perdono
il 7,4% rispetto all'ultimo mese del 2011 e del 5,6% rispetto a gennaio di un
anno fa
Inizio d'anno in salita per l'industria
italiana
MILANO - Il fatturato dell'industria italiana a
gennaio è calato su base mensile del 4,9% (-5,2% sul mercato interno e -4,5% su
quello estero) e su base annua del 4,4% (corretto per gli effetti di
calendario). Lo rileva l'Istat, aggiungendo che il ribasso tendenziale è il più
forte da novembre 2009. A gennaio il fatturato degli autoveicoli su base annua è
sceso dell'8,8% e gli ordinativi sono diminuiti del 6,1%. Il settore di attività
economica per il quale si registra l'incremento tendenziale maggiore del
fatturato è quello della fabbricazione di coke e prodotti petroliferi raffinati
(+15,8%), mentre la diminuzione più marcata riguarda la fabbricazione di mezzi
di trasporto (-14%).
Anche gli ordinativi dell'industria a gennaio sono diminuiti del 7,4% su base
mensile (dato destagionalizzato e sintesi di una contrazione del 7,6% degli
ordinativi interni e del 7,3% di quelli esteri), e del 5,6% su base annua (dato
grezzo). Anche in questo caso si tratta di dati Istat. L'istituto sottolinea che
il ribasso tendenziale è il peggiore dall'ottobre del 2009. Sulla flessione
annua di fatturato e ordinativi pesa in misura maggiore la performance deludente
del mercato interno rispetto a quelli esteri. Per gli ordinativi, l'aumento
tendenziale maggiore si rileva per la produzione di prodotti farmaceutici di
base e preparati farmaceutici (+6,5%). I cali più ampi si registrano, invece,
per la fabbricazione di macchinari e attrezzature non classificate altrove
(-11,7%), Per i mezzi di trasporto (-10,2%) e per la fabbricazione di computer,
prodotti di elettronica e ottica, apparecchi elettromedicali, apparecchi di
misurazione e orologi (-9%).
12 marzo
“Niente premi di produzione
perché siamo donne”. Operaie del gruppo Fiat in rivolta
Alla Ferrari e Maserati di Modena si applica
"l'accordo di Pomigliano". Il bonus di 600 euro scatta solo per chi ha lavorato
almeno 870 ore all'anno e per le lavoratrici il diritto di maternità, escluso
dal conteggio delle ore, diventa un impedimento
Sono più di mille, lavorano alla Ferrari , alla Maserati e alla Cnh . Sono le
operaie e le impiegate modenesi del gruppo Fiat, che da gennaio stanno portando
avanti la lotta per il diritto alla maternità. Sì, perché con il contratto
separato approvato a fine anno, per ognuna di loro avere un figlio significa
anche rischiare di perdere il premio di produttività di 600 euro. “Un accordo
che discrimina” è la denuncia della Fiom Modena.
Il contratto estende a tutti gli stabilimenti del gruppo torinese il “modello
Pomigliano” e prevede che il “premio straordinario 2012”, pari a 600 euro, vada
solo a chi, nei primi sei mesi dell’anno, ha lavorato almeno 870 ore. Non una
semplice dicitura contrattuale, se si considera che dal conteggio vengono
esclusi , tra le altre cose, malattia, pausa pranzo ma, soprattutto, tutti gli
impegni legati alla maternità e alla paternità . Detto in altre parole, perdono
il diritto a percepire il premio 2012 le lavoratrici, ma anche i lavoratori, che
si assentano per il periodo di congedo obbligatorio e quello sotto ispettorato,
per il riposo dovuto all’allattamento, per i congedi parentali, per la malattia
di un figlio, e per i permessi previsti dalla legge 104 per l’assistenza ai
disabili. Una beffa per le madri, che si trovano in un posizione molto più
svantaggiosa rispetto a quella dei loro colleghi uomini. “Ciò che è previsto nel
contratto – afferma Giordano Fiorani , segretario provinciale della Fiom di
Modena – utilizza dei parametri discriminatori”.
Per questo a febbraio, dopo una campagna di sensibilizzazione tra le lavoratrici
Fiat, grazie alla quale sono state raccolte 205 firme a sostegno della causa ,
le iscritte alla Fiom si sono armate di carta e penna e hanno inviato una
lettera al ministro del Lavoro Elsa Fornero . «Noi donne – si legge – abbiamo
una ragione in più per voler cancellare quell’accordo, perché in esso sono
contenute norme gravemente discriminatorie, lesive della legislazione vigente e
dei principi di parità, sanciti dalla Costituzione Italiana e riaffermati dalle
normative europee».
Ad alzare la voce sono state anche le lavoratrici di Modena. Nella provincia
emiliana il gruppo Fiat infatti vanta una folta rappresentanza: due stabilimenti
di Cnh , uno della Maserati e uno della Ferrari , per un totale di oltre 5000
dipendenti, di cui il 20% è donna. Tra le operaie metalmeccaniche (in misura
minore) e le impiegate dello stabilimento di Cnh di San Matteo, le lavoratrici
degli stabilimenti modenesi del gruppo che oggi si battono per avere uguali
diritti sono circa un migliaio. “Non accettiamo questa discriminazione –
commenta Paola Gherpelli , ex delegata Fiom alla Cnh San Matteo – perché una
donna che vuole diventare madre deve rinunciare a questi 600 euro?”
Lo scorso 8 marzo , in occasione della tradizionale festa della donna, le
impiegate della Cnh, che fa parte del gruppo Fiat Industrial, hanno deciso di
accompagnare alla mimosa un volantino con le ragioni della loro protesta e il
parere del ministro. «La risposta alla nostra lettera – va avanti Gherpelli – è
stata breve ma è arrivata tempestivamente. Il ministro ha detto di comprende la
nostra situazione e ci ha assicurato che avrebbe parlato con chi di dovere della
questione. Ora ci aspettiamo che mantenga la parola data”.
Intanto, oltre a quello di alcune senatori, tra cui i bolognesi Rita Ghedini e
Paolo Nerozzi , le lavoratrici della Fiat hanno incassato la solidarietà del
consiglio provinciale di Bologna, che ha dato il via libera a un ordine del
giorno che invita la giunta di palazzo Malvezzi ad impegnarsi nella lotta per le
pari opportunità.
di Felicia Buonomo e Giulia Zaccariello
Anno nero per i diritti
umani in Turchia
Il nuovo rapporto dell’IHD (Associazione per i
Diritti Umani) afferma che nel 2011 nella regione kurda sono state registrate
29.366 violazioni dei diritti umani, un incremento sostanziale rispetto all’anno
precedente, in cui 23.520 violazioni erano state denunciate. Nella relazione è
stato sottolineato l’aumento rispetto agli anni precedenti, di scontri a fuoco,
vittime civili e arresti così come un aumento di oltre il 100 per cento della
tortura e dei trattamenti inumani. “Purtroppo il 2011 è stato un anno intenso di
guerra, invece che un anno di pace e di soluzione per la questione kurda”, ha
detto il segretario dell’IHD di Diyarbakır, Raci Bilici. Bilici ha anche notato
che le violazioni del 2011 ricordano quelle degli anni ’90 e che il paese è
diventato quasi ‘un campo di concentramento’ a causa dei numerosi arresti di
politici, giornalisti, avvocati, accademici, studenti, sindacalisti e difensori
dei diritti umani. Bilici ha dichiarato che la tortura e i trattamenti inumani
sia sotto custodia che per le strade è aumentato notevolmente e ha aggiunto:
“L’AKP [Partito della Giustizia e Sviluppo] e la magistratura tacciono sulla
tortura e la brutalità della polizia nelle strade, ma adottano un atteggiamento
spietato nei confronti di coloro che stanno cercando di denunciare la tortura e
la violenza”. Il rapporto ha inoltre sottolineato l’alto tasso di violazioni dei
diritti nelle carceri e l’indifferenza del Ministero della Giustizia.
L’isolamento imposto al leader del PKK Abdullah Ocalan e gli scioperi della fame
dentro e fuori le carceri per protestare contro l’isolamento di Ocalan hanno
spinto l’associazione per i diritti umani ad affermare che “la politica di
isolamento deve immediatamente terminare”. Nella relazione vengono evidenziate
le violazioni dei diritti delle donne, il sostegno insufficiente da parte dello
Stato alle vittime del terremoto in Van, la questione delle fosse comuni e degli
omicidi irrisolti.
Di seguito l’elenco di violazioni:
* 149 membri delle forze di sicurezza sono morti, 295 feriti in scontri a fuoco
* 169 membri del PKK sono morti e 6 feriti in scontri a fuoco
* 129 civili uccisi, 259 feriti in omicidi irrisolti, omicidi extragiudiziari e
sparatorie
* 6 morti, 49 feriti a causa di mine ed esplosivi
* 45 morti, 4 feriti a causa di negligenza ufficiale o errore
* 1917 persone arrestate
* 6306 persone prese in custodia
* 1555 casi di tortura e trattamenti inumani
* 1421 violazioni dei diritti umani nelle carceri
* 932 feriti a causa di interventi della polizia nelle manifestazioni
* 4496 richiedenti asilo e immigrati presi in custodia
* 4 villaggi bruciati ed evacuati
* Rivendicazioni di 111 fosse comuni dove sono sepolte 1699 persone
Lo scandalo dei consiglieri
lampo, pochi minuti di presenza e paga piena
Molti eletti in consiglio comunale rispondono
all'appello e si defilano subito dopo. E c'è chi non si leva neppure il casco.
Per due mesi Repubblica ha rilevato le presenze degli eletti ai lavori delle
commissioni. Ecco i risultati
di RAFFAELE NIRI
GENOVA
- Mercoledì scorso, a Genova, c'era un bel sole primaverile. Così il consigliere
comunale Aldo Praticò, del Pdl, si è presentato alla seduta della commissione
alle 14.48 e ne è uscito alle 14.49, un minuto dopo. Senza neppure togliersi il
casco della moto, per fare più in fretta. Per quel minuto di "lavoro" - ha
risposto "presente" alla domanda "Praticò?" - riceverà a fine mese 97 euro e 61
centesimi.
Il 16 febbraio aveva fatto la stessa identica cosa, il 15 febbraio era rimasto
due minuti, il 23 gennaio tre e il 18 gennaio addirittura quattro. Ogni volta
che gli dicono "Praticò" e lui risponde "presente" fanno 97 euro e 61 centesimi.
Nelle ultime diciotto commissioni consiliari, Praticò ha vinto per nove volte il
Trofeo "Prendi i soldi e scappa": sei minuti, otto minuti, una volta addirittura
quindici.
Non è il solo, naturalmente: Vincenzo Vacalebre, dell'Udc, alla vigilia di San
Valentino, è rimasto in aula centottanta secondi, Andrea Proto dell'Italia dei
Valori il 9 febbraio lo ha superato di pochi attimi. E ogni volta, nelle loro
tasche e in quelle di tutti gli altri consiglieri comunali che rispondono
all'appello del presidente di una commissione, arrivano i 97 euro e 61 centesimi
(lordi) previsti dal regolamento del consiglio comunale.
Repubblica ha monitorato per quasi due mesi - dal 17 gennaio al 7 marzo -
l'andamento delle nove commissioni consiliari operanti nel Comune
di Genova, città dove a inizio maggio si andrà alle urne. La logica vorrebbe che
alla vigilia dell'appuntamento elettorale i consiglieri uscenti dessero il
meglio, per meritarsi la riconferma. Ecco, allora, il capogruppo della Lega
Nord, Alessio Piana, uscire - per nove volte su diciotto - ancora prima che
scatti la "mezz'ora di decenza": una volta resta otto minuti, due volte dieci,
una quindici, una sedici.
La coppia di consiglieri dell'Italia dei Valori - sempre per restare tra i
partiti che fanno del buon governo la loro bandiera - lo straccia ampiamente:
Andrea Proto vince tre tappe (rispettivamente cinque, tre e dieci minuti) in
tredici riunioni, mentre Francesco De Benedictis è il più veloce il primo
febbraio (cinque minuti scarsi) ma se ne va repentino altre sette volte.
Non tutti sono uguali in questa hit parade della "Toccata e fuga": più si va a
sinistra, migliore è il comportamento. I tre consiglieri di Rifondazione e Sel
(Antonio Bruno, Arcadio Nacini e Angela Burlando) non compaiono mai in
classifica, mentre il pattuglione del Pd (che è il gruppo consiliare più
numeroso) ha soltanto qualche pecora nera.
"È una vera schifezza - tuona il presidente del consiglio comunale genovese
Giorgio Guerello - questi signori sviliscono il senso della democrazia. Ad
inizio del ciclo amministrativo abbiamo provato a cambiare le regole, senza
riuscirci. Sono certo che il nuovo consiglio comunale si autoemenderà".
In fondo basterebbe il "contrappello", come al militare: basta un comma di due
righe, che reciti "il gettone di presenza viene assegnato solo a chi è presente
sia all'inizio che alla fine della seduta". Anche perché ogni singola
commissione costa 5.500 euro e se ne fanno una ventina al mese.
Il problema, infatti, è assicurare a ogni consigliere il massimo dei gettoni
previsti, cioè diciotto: 1.800 euro lordi che sono - secondo quanto previsto
dall'ultima Finanziaria - un terzo dello stipendio che si è assegnato il
sindaco. E dato che Marta Vincenzi, fin dall'inizio del suo mandato, ha deciso
di riconoscersi lo stipendio più basso possibile per una città oltre il mezzo
milione di abitanti, anche i consiglieri devono "accontentarsi" di 1.800 euro.
A volte sono denari più sprecati del solito. Il 15 febbraio la quarta
commissione doveva discutere una pratica urbanistica: all'appello alle 9,40
hanno risposto in trenta (97 euro per trenta), ma un'ora dopo, i nove che erano
rimasti si sono accorti che mancava un documento. Niente paura, basta una nuova
riunione. Della commissione fanno parte 48 dei 50 consiglieri comunali e - si
può star certi - accorreranno in tanti.
Istat: l’inflazione sale del
4,5% sul carrello della spesa. Rialzo più alto dal 2008
L'Istituto di statistica diffonde i dati
sull'inflazione e sottolinea che per i consumi quotidiani si tratta del rialzo
maggiore dall’ottobre del 2008. Carburanti ancora alle stelle: per la verde
nuovo record a 1,87 euro al litro
A febbraio volano i prezzi del carrello della
spesa, che salgono del 4,5% su base annua e dello 0,4% al mese di gennaio. Lo
rileva l’Istat, sottolineando che è il rialzo maggiore dall’ottobre del 2008 .
Da un punto di vista settoriale, i più rilevanti effetti di sostegno alla
dinamica congiunturale dell’indice generale derivano dagli alimentari non
lavorati e dai beni energetici non regolamentati (per entrambi +1,7% ).
Al netto dei soli beni energetici, il tasso di crescita tendenziale dell’indice
dei prezzi al consumo sale al 2,3% (era +2,2% a gennaio). La lieve accelerazione
dell’inflazione, sottolinea l’Istat, deriva dall’aumento del tasso di crescita
tendenziale dei prezzi dei beni ( +4,2% , dal +3,9% di gennaio 2012), soltanto
in parte compensato dal calo di quello dei servizi ( +2,2% , dal +2,3% del mese
precedente). Come conseguenza di tali andamenti, il differenziale
inflazionistico tra beni e servizi aumenta . L’indice armonizzato dei prezzi al
consumo (IPCA) aumenta dello 0,2% sul mese precedente e del 3,4% su quello
corrispondente del 2011 (lo stesso valore registrato a gennaio 2012). L’indice
nazionale dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati (FOI), al
netto dei tabacchi, registra un aumento dello 0,4% sul piano congiunturale e del
3,3% su quello tendenziale.
Particolarmente forte è stato l’aumento dei prezzi dei vegetali freschi ( +8,7%
in termini congiunturali). Un impatto significativo deriva anche dall’aumento
congiunturale dei prezzi dei servizi relativi ai trasporti ( +0,8% ). I prezzi
dei prodotti acquistati con maggiore frequenza subiscono forti rincari,
aumentando dello 0,7% su base mensile e del 4,5% su base annua ( +4,2% a
gennaio).
Analizzando singoli prodotti, sul fronte energia, a febbraio la benzina sale del
18,6% ( +17,4% gennaio) su base annua e del 2,0% su base mensile. E Piero De
Simone , direttore generale di Unione Petrolifera, ha ribadito che il prezzo
finale della benzina in Italia è il più caro d’Europa “per effetto della
tassazione”. Ed è record: nei distributori della Q8, scrive Staffetta Quotidiana
, il prezzo della verde è arrivato a 1,874 euro al litro, nuovo massimo storico.
Secondo Quotidiano energia , le punte massime sul territorio sono di 1,96 euro
al litro per la benzina e superano quota 1,80 per il diesel.
Inoltre il prezzo del gasolio per i mezzi di trasporto sale del 25,5% in termini
tendenziali (+25,2% gennaio), il rialzo maggiore dal luglio del 2008, e dell’
1,4% sul piano congiunturale. A questo si aggiunge l’aumento dei prezzi del gas
naturale ( +15,6% in termini tendenziali) e del prezzo del gasolio per
riscaldamento ( +14,4% su base annua). Quanto al capitolo trasporti, si
registrano aumenti congiunturali consistenti per i prezzi del trasporto aereo
passeggeri ( +6,4% ), che crescono su base tendenziale dell’ 11,3% (era +8,2% a
gennaio). Inoltre, guardando agli alimentari, non si arresta la corsa del caffè
( +14,6% ).
12 marzo
Un miliardo di persone senza
acqua potabile
Valerio Calzolaio*
Domani 4° rapporto mondiale delle Nazioni unite. Secondo l'Unicef ci sono
importanti progressi, ma la situazione resta terribile. Sul «bene comune» il
movimento italiano in prima fila
Alla vigilia della presentazione del quarto rapporto mondiale delle Nazioni
Unite sull'acqua (domani, lunedì 12) e del World Water Day (il 22 marzo) Unicef
e Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) hanno appena annunciato che uno
degli Obiettivi del Millennio è stato raggiunto: dimezzare entro il 2015 il
numero di persone senza accesso all'acqua potabile. Il rapporto «Progress on
Drinking Water and Sanitation» afferma che già alla fine del 2010 l'89% della
popolazione mondiale, circa 6,1 miliardi di persone, hanno avuto accesso a fonti
migliorate di acqua potabile. Uno degli Obiettivi del Millennio approvati dall'Onu
nel 2000 fissava il dimezzamento alla percentuale dell'88% della popolazione. Un
secondo (non raggiunto) Obiettivo era correlato al parallelo dimezzamento delle
persone senza adeguato accesso ai servizi igienico-sanitari. Bisognava arrivare
al 75% entro il 2015, siamo al 63%, la proiezione è che si arrivi massimo al
67%.
Anche da questi dati emerge un quadro di crescente rischio e incertezza sulla
disponibilità di acqua per i vari usi attuali. Il quarto United Nations World
Water Development Report (Wwdr4) appunto intitolato a «Managing Water under
Uncertainly and Risk» verrà presentato in anteprima domani pomeriggio a
Marsiglia. Sono ben tre volumi, a differenza delle edizioni 2003, 2006 e 2009 in
volume unico. Avevo studiato i precedenti, ho già scorso questi, vi sono dati,
analisi, proposte, scenari sui quali ci sarà da meditare e agire a lungo.
Teniamolo sott'occhio e cerchiamo di capire bene il contesto.
Le statistiche citate confermano sofferenze e dolori: quasi un miliardo di
persone resta senza facile sicuro accesso ad acqua potabile (tanto più che la
percentuale riguarda una popolazione in crescita demografica, pur più lenta del
previsto), 2,5 miliardi non ha ancora accesso a servizi igienico sanitari, oltre
1,1 miliardi defeca all'aperto. In secondo luogo si tratta pur sempre di una
media: vi è grande disparità fra regioni e paesi (oltre il 40% della popolazione
che non ha accesso all'acqua potabile vive nell'Africa sub-sahariana), vi è
grande disparità fra città e campagna (950 milioni del 1100 che defecano
all'aperto vive in aree rurali, 626 in India). Gli eventi connessi ai
cambiamenti climatici antropici globali, in terzo luogo, rendono più gravi e
diffusi i fenomeni di scarsità d'acqua, soprattutto nelle aree già con minori
precipitazioni medie, le aree secche (drylands), aggravando fame e povertà,
inducendo migrazioni e conflitti. E, infine, sull'acqua gli Obiettivi e i
rapporti dell'Onu scontano una certa subalternità al privato, alle grandi
multinazionali. Come i precedenti anche il Wwdr4 viene diffuso dall'Onu
all'interno del World Water Forum (il sesto Wwf), che non è un appuntamento Onu
ma un processo pubblico-privato (molto discutibile, come sappiamo) «egemone» sul
sistema Onu. A Marsiglia molte forze sociali, il sindacato e vari soggetti anche
istituzionali contesteranno il Wwf, ribadiranno lotte e progetti contro la
privatizzazione dell'acqua. In prima fila ci sarà il movimento italiano, che,
anche con il successo referendario, ha raggiunto diffusa fama e meritato
consenso internazionale.
Per svolgere un efficace ruolo «antiliberista» (ecologista e libertario) a
livello internazionale molto ruota intorno all'idea di beni comuni e diritti
della Terra. L'acqua è il «principio» della vita, il nesso originario,
inestricabile ed evolutivo, tra vivente e non-vivente e tra vivente umano e
vivente non-umano. Quasi tutti i conflitti in corso hanno stretta connessione
con il controllo delle risorse idriche. Tutti i cambiamenti climatici provocano
sconvolgimenti nei cicli idrologici. La stessa drammatica crisi economica ha
conseguenze di emergenza immediata per chi soffre sete, fame, povertà. Ogni
oggetto, ogni servizio, ogni bene può essere calcolato in termini di acqua
utilizzata, inquinata, trasferita per produrlo.
L'Onu si è già dotata di un coordinamento sull'acqua, Un-Water, sempre più
positivo ed efficace. Prima il Wwdr lo preparava solo l'Unesco, ormai è l'intero
sistema Onu a presentarlo. Un-Water dovrebbe diventare una vera autorità,
autonoma dal processo Wwf, sganciando la presentazione del Report Onu dal Wwf.
Serve ora (ma a Rio+20 non se ne parla!) una Autorità Pubblica Mondiale per
l'acqua e serve un piano globale delle Nazioni Unite che vada oltre il pur
positivo ruolo di coordinamento avviato dalla Un-Water: acqua minima vitale da
garantire a tutti, impegni vincolanti contro la sete, proprietà pubblica basata
sul diritto umano e sul bene comune, principi pubblici di qualità gestione e
controllo, attenzione agli equilibri delle specie e degli ecosistemi. In ogni
bacino idrografico, goccia a goccia.
*coordinatore forum nazionale SeL Beni Comuni
La
memoria corta del Carroccio
Accidenti se ringhiano, i leoni della Lega. Addirittura ruggiscono. E tutti in
difesa di questo capolavoro di lombardo, Davide Boni: “Magistrati attenti!”. Ma
ci fu un tempo in cui quegli stessi leoni, belavano. Era il 1993 . Il loro
tesoriere Alessandro Patelli aveva appena dichiarato “di essere un pirla”,
confessando di avere incassato 200 milioni di lire dalla famiglia Ferruzzi,
proprietaria di Enimont, per le elezioni del 1992. Erano spiccioli piovuti dal
cielo. E Patelli tremava di emozione ricevendoli nientedimeno che al bar Doney
di via Veneto, come in un film.
Al processo, il capo dei capi della Lega, Umberto Bossi, arrivò a testa bassa.
Tremava anche lui, ma a differenza di Patelli sospettava di non essere in un
film . Davanti a Di Pietro confessò i milioni e un po’ anche la vergogna.
Incassò senza fiatare la condanna definitiva a 8 mesi di reclusione per
finanziamento illecito.
Ai giornalisti disse: “Restituiremo tutto, fino all’ultima lira”. E partì la
sottoscrizione, una moneta alla volta , che non avrebbe mai più cancellato il
disonore, ma almeno l’umiliazione dei belati. Adesso è tutta un’altra storia:
gonfiano il petto, rivendicano, minacciano. E sono di casa al bar Doney.
Milano, polizia giudiziaria
senza risorse: solo 3 auto per i 110 agenti del caso Ruby
La squadra soffre per la mancanza di mezzi e strumenti. Eppure il "capo"
Antonio Manganelli, con i suoi 26 mila euro al mese, guadagna come venti dei
suoi uomini
“Non riusciamo più a lavorare, a fare indagini. Noi crediamo nel nostro lavoro,
lo facciamo con senso del dovere e con passione, al servizio della giustizia e
dello Stato. Ma così non possiamo più andare avanti”. Ad ascoltare le voci degli
sbirri della squadra di polizia giudiziaria di Milano, si sente prevalere lo
sconforto. “Non abbiamo strumenti per lavorare. Siamo 110 poliziotti e siamo
rimasti con sole tre auto: una Alfa 156 e due vecchissime Punto. Una circolare
del ministero dell’Interno ci impone infatti di consegnare, entro sabato 10
marzo, le targhe di altre quattro auto, che sono ormai fuori uso e non verranno
né riparate, né sostituite”.
Da oggi, dunque, tre auto per 110 agenti. La squadra di polizia giudiziaria
presso il Tribunale di Milano è il gruppo interforze (Polizia, Carabinieri,
Guardia di finanza, in totale quasi 300 persone) che lavora per la procura di
Milano. Ha fatto le indagini sul caso Ruby e su altre mille inchieste dei pm
milanesi. La parte composta da agenti della Polizia di Stato è quella che soffre
di più per la mancanza di mezzi e strumenti. Il 31 dicembre 2011 è scaduto il
contratto per la manutenzione delle macchine fotocopiatrici. Così adesso, quando
se ne guasta una, nessuno la ripara. Tra qualche tempo gli agenti non potranno
più fare fotocopie.
Non va meglio con i computer: soltanto una ventina sono efficienti, gli altri
sono arrangiati, provenienti da altre amministrazioni, oppure personali. “Alcuni
di noi portano in ufficio il loro computer privato: sarebbe proibito, ma
altrimenti come facciamo a lavorare?”. Il punto più dolente è comunque quello
delle auto. L’ultima fornitura consistente dell’amministrazione risale al 1998:
venti Fiat Punto che si sono via via ridotte a due. Quando si guastavano non
venivano più riparate. I contratti d’assicurazione non erano rinnovati. Ci
sarebbero le auto confiscate: sette di queste erano state affidate dal giudice
alla squadra di polizia giudiziaria, “ma il ministero ci ha detto che non ci
sono fondi per rimetterle in strada e mantenerle”, dice un agente. “Così
finiscono al Demanio dello Stato che le svende”. “Eravamo più attrezzati vent’anni
fa”, dice sconsolato Carmelo Zapparrata , sostituto commissario nella squadra di
polizia giudiziaria, ma anche segretario provinciale del Silp, il sindacato dei
poliziotti della Cgil. “Nell’ultimo decennio abbiamo vissuto un lento declino,
privati dei mezzi per lavorare. Dicono che bisogna investire nella sicurezza: ma
noi vediamo che gli investimenti più elementari non vengono fatti. All’aumento
della corruzione e della criminalità, si risponde con armi spuntate”.
La polizia giudiziaria compie il lavoro investigativo per i magistrati e dipende
solo dal punto di vista funzionale dall’amministrazione di provenienza (i
poliziotti dalla Polizia di Stato, i carabinieri dall’Arma, i finanzieri dalla
Guardia di finanza). “Ci sentiamo un po’ dimenticati dalla nostra
amministrazione”, dice sottovoce Zapparrata. Ci sono pochi soldi per i
poliziotti, e ancor meno per quelli della polizia giudiziar ia.
Nelle indagini su Ruby, gli agenti hanno fatto fino in fondo il loro dovere,
anche a costo di mettere in imbarazzo i funzionari della questura di Milano che
in una notte di maggio del 2010 hanno subito le pressioni dell’a llora
presidente del Consiglio, il quale aveva chiesto di lasciar andare la minorenne
fermata per furto. Ora il Silp critica anche la sproporzione tra gli stipendi
dei poliziotti e quelli del loro capo: Antonio Manganelli , con i suoi 26 mila
euro al mese e più, guadagna come venti agenti messi insieme. “Siamo i
poliziotti peggio pagati d’Europa”, dice Zapparrata, “e abbiamo il capo più
pagato d’Europa. Non importa. Noi continuiamo a fare il nostro lavoro. Ci piace.
Abbiamo il senso delle istituzioni. Però vorremmo almeno avere gli strumenti
minimi per poter lavorare: i computer, le fotocopiatrici, le auto di servizio.
Chiediamo troppo?”.
5 marzo
Nel 2020 l’Italia avrà l’età
di pensionamento più alta d’Europa: 66 anni e 11 mesi
Contemporaneamente in Germania si uscirà dal mondo
del lavoro a 65 anni e 9 mesi e in Danimarca a 66 anni. E nel 2060 il divario
sarà ancora più netto: nel nostro Paese pensione a 70 anni e 3 mesi mentre per i
tedeschi a 67 anni. A rivelarlo uno studio della Commissione Europea pubblicato
nel libro bianco sui sistemi previdenziali
Nel 2020 l’Italia avrà l’età di pensionamento più alta d’Europa con 66 anni e 11
mesi , a fronte dei 65 anni e 9 mesi della virtuosa Germania e dei 66 della
Danimarca. E la leadership sarà ulteriormente rafforzata negli anni a venire,
raggiungendo, nel 2060 l’età di pensionamento di 70 anni e 3 mesi . Ben al di
sopra di Germania, 67 anni, Regno Unito e Irlanda, 68 anni. E’ quanto si legge
nel libro bianco della Commissione Europea sui sistemi previdenziali presentato
nei giorni scorsi dal Commissario Ue all’occupazione. Nella scheda sui diversi
sistemi pensionistici l’Italia è uno dei pochissimi Paesi, insieme alla Germania
e all’Ungheria, a non avere a questo punto raccomandazioni specifiche sulla
materia.
Nel 2009 nel nostro Paese l’età di pensionamento di vecchiaia era di 65 anni per
gli uomini e 60 per le donne ma grazie alla possibilità di uscire dal lavoro con
la pensione di anzianità (a 59 anni di età e con 35 di contributi dal luglio
2009 o 40 anni di contributi a qualsiasi età) l’età media effettiva di
pensionamento era di 60,8 anni per gli uomini e 59,4 per le donne. In Germania
nello stesso anno, a fronte dei 65 anni previsti per uomini e donne, per il
pensionamento di vecchiaia la media per l’uscita dal lavoro era di 62,6 anni di
età per gli uomini e 61,9 per le donne.
Il libro bianco evidenzia anche una proiezione sull’andamento dei tassi di
sostituzione (tra la pensione e il reddito da lavoro precedente) con un calo per
l’Italia tra il 2008 e il 2048, a parità dell’età di pensionamento, che si
avvicina al 15% grazie prevalentemente al passaggio dal sistema retributivo a
quello contributivo. Il calo si riduce a meno del 5% se si considera che i
lavoratori saranno costretti a lavorare più a lungo.
“Diventa più che mai urgente – spiega la Commissione Europea – sviluppare e
attuare strategie globali per adeguare i regimi pensionistici all’andamento
della contingenza economica e demografica. Si tratta di problemi enormi ma
risolvibili se vengono attuate politiche adeguate. Una riforma dei regimi
pensionistici e delle pratiche di pensionamento è essenziale per migliorare le
prospettive di crescita europee. Il successo – aggiunge la Commissione – di
riforme tese ad aumentare l’età del pensionamento dipende da migliori
opportunità per uomini e donne anziani di restare sul mercato del lavoro. E ciò
comporta necessariamente un adeguamento dei luoghi e dell’organizzazione del
lavoro, oltre a una giusta promozione dell’apprendimento durante tutto l’arco
della vita. Serviranno – conclude la relazione – politiche efficienti capaci di
conciliare lavoro, vita privata e familiare, misure per sostenere un
invecchiamento sano, lotta alle diseguaglianze di genere e alle discriminazioni
basate sull’età”.
La propaganda aziendale Fiat
di MarchiOrwell
La
dirigenza del Lingotto ha realizzato un kit per i capi che contiene oltre a
degli opuscoli e anche un dvd con un filmato di sei minuti circa. Serve a
spiegare poi ai dipendenti i contenuti del nuovo contratto di lavoro. Domande e
risposte sul contratto, come piace all'Ad, senza lo spiacevole contraddittorio
del sindacato
Due attori nello spazio, scontornati, come due
figurine di Star Trek quando il teletrasporto fa i capricci. Domande e risposte
sul contratto, come piace alla Fiat , senza lo spiacevole contraddittorio del
sindacato. A Pomigliano va in onda “il Grande Fratello Contratto”, o “ il
cinegiornale Marchionne ”, ovvero un nuovo modulo di comunicazione
propagandistica che farà sicuramente epoca, condensato in un cd, in un apposito
manualetto e in un video che avete davanti agli occhi.
Il fatto è questo: da pochi giorni, negli stabilimenti dell’azienda di
Marchionne sta andando in onda a ciclo continuo, sugli schermi della diffusione
interna, un meraviglioso filmino di 6 minuti e 45 secondi che illustra agli
operai le meraviglie del nuovo contratto . Immaginatevi la scena: l’operaio Ciro
se ne sta alla catena di montaggio della nuova Panda, combattuto dal problema di
dover fare la pipì e avere a disposizione (grazie alla nuove norme) dieci minuti
di pausa in meno, ed ecco che davanti a lui scorrono le immagini di questa
meravigliosa campagna di indottrinamento. Basta con le obsolescenze dei
sindacalisti, con tutte le chiacchiere vuote sui diritti. Basta anche con l’
iconografia triste degli operai, in tuta blu e con la barba lunga. Lei, ragazza
bruna con i capelli a caschetto, seno volitivo e sorriso smagliante, pare pronta
per una telenovela. Lui, simpatica aria da tonno, capelli sale e pepe, camicia
bianca e jeans è perfetto per la pubblicità del dentifricio: “Questo contratto –
si chiede rapita lei – migliora le nostre condizioni?”. Le risposte rassicuranti
di lui son tutto un programma: “Il contratto prevede una nuova busta paga che ha
effetti quando si lavora di più”. Ovvero: non ci sono aumenti, ma usiamo una
formulazione che lo lasci intendere, magari qualcuno ci crede.
D’altra parte lo scenario in cui va in onda la grande campagna di propaganda
della Fiat è questo. Nelle nuove fabbriche dell’azienda, a partire da Pomigliano,
lo schermo del cinegiornale-Lingotto arriva dopo che il campo è stato già
preparato a dovere. Quelli che non hanno condiviso il contratto vengono tenuti
fuori dalle nuove assunzioni (ad esempio 600 operai della Fiom a Pomigliano,
nessuno dei quali è stato finora assunto) e così i dipendenti non vengono
disturbati da antipatiche voci dissonanti. Mentre a tutti i capireparto viene
fornito un accattivante kit da agit prop, con un bellissimo biglietto a visita e
un numero verde per chiedere notizie e addirittura consulenze patronali, una
brochure divisa in fascicoletti con una sorta di catechismo aziendale. Con
lodevole efficienza la Fiat risolve il problema aperto dalla cacciata del
sindacato sostituendolo. Esempio: “Per quel che riguarda la malattia: 1) Sono
stati confermati i nostri trattamenti aziendali di miglior favore rispetto alla
legge e in relazione alla malattia di lunga durata; 2) Sono state individuate
misure – scrive l’opuscolo meravigliosamente ottimista – per fronteggiare nuovi
abusi”. Ecco, pensate, quando c’erano ancora quei perfidi delegati della Fiom
avevano persino stampato, a loro spese, il contratto (quello vero) presentato
dall’azienda. Così – a Mirafiori – gli operai avevano potuto apprendere che i
primi tre giorni di malattia non erano pagati.
Insieme al kit dell’agit prop marchionniano arriva la nuova procedura: i
dipendenti saranno riuniti a gruppi di venti per la catechesi del Nuovo
Testamento. Agli operai, che evidentemente vengono considerati più sempliciotti,
potranno essere dedicati non più di 15 minuti. Agli impiegati, che già sono più
considerati, “Si potrà parlare per 30 minuti”. Saranno gli stessi capi, e non i
sindacati che hanno sottoscritto l’accordo, a dedicarsi all’opera di
indottrinamento. Nuova domanda del catechismo marchionniano: “Il diritto di
sciopero sarà limitato?”. Risposta: “Non vi è alcuna limitazione”. Risposta
interessante, se è vero che nessuno dei sindacati che ha sottoscritto l’accordo
potrà scioperare contro il nuovo contratto.
Tutto questo nello stabilimento in cui, lo ha raccontato ieri su Il Foglio
Lanfranco Pace, gli operai che perdono colpi e non rispettano le cadenze della
catena di montaggio vengono simpaticamente invitati da capi e sottocapi a
recitare al microfono il grazioso scioglilingua: “Song un omm’e ’ merd”. È in
questo clima collaborativo che la Fiom con il suo responsabile auto Giorgio
Airaudo presenta 60 ricorsi contro le esclusioni discriminatorie. Speriamo
vivamente che non siano ammessi, così che degli estranei non possano disturbare
le illustrazioni del nuovo contratto fatte dai capi reparto anche “con lavagna
luminosa”. L’opuscoletto prevede uno schema sintetico in cui si prescrive di
impostare il discorso “1) Per emozioni, 2) Per immagini, 3) Per vantaggi” e in
cui si prescrive addirittura che “a nessun concetto possono essere dedicati più
di 2 / 3 minuti”. Ecco perché questo video racconta molto di più di quanto
l’azienda non creda: é un modello di relazioni, é un saggio maldestro di
propaganda leccata. Da Marchionne a MarchiOrwell, nelle intenzioni della Fiat.
Ma se lo vedi con gli amici e i popcorn c’é da riderci su. É una via di mezzo
fra le ambizioni del Grande Fratello e la satira dei Soliti idioti.