30 marzo

Il bluff dell’oro nero lucano: non ha portato né lavoro né soldi. E i giovani emigrano

Altro che "Libia di casa nostra" come diceva il governatore Pd De Filippo: le royalties sono troppo basse, alla regione restano le briciole di un grande business che arricchisce multinazionali e Stato italiano. Così la Basilicata resta la più povera d'Italia

“Richiamate i vostri uomini, fateli venire da qualsiasi paese straniero si trovino e dite loro che qui finalmente c’è lavoro”. Era lo slogan preferito di Enrico Mattei cinquant’anni fa. Lo aveva scandito col suo accento marchigiano anche in Basilicata, a Ferrandina, mentre dava il via alla prima trivella della regione. Con lui Emilio Colombo, allora giovane ministro dell’Industria e padrone del grande serbatoio di voti Dc in Lucania. È il sud in bianco e nero degli anni Sessanta, terre tagliate fuori dal boom economico e famiglie intere che chiudevano in una valigia di cartone disperazione e speranze. Nelle viscere di monti e pianure c’è l’oro nero. “Richiamate i vostri uomini…”. E invece i nonni non tornarono più, i padri partirono, e ora emigrano anche i figli. Più di tremila giovani ogni anno lasciano la Basilicata. Le trivelle continuano a pompare una ricchezza che non li sfiora. E loro vanno via dalla regione più povera d’Italia dove il 31,6% di chi ha dai 15 ai 34 anni non ha uno straccio di lavoro, e più del 28% delle famiglie vive al di sotto della soglia di povertà.

“Governo e multinazionali possono maneggiare le statistiche come vogliono, ma dai pozzi di petrolio non sono usciti né lavoro, né sviluppo”, ci dice Pietro Simonetti, un passato da operaio sindacalista e un presente di direttore del “Centro studi e ricerche economico-sociali”. “Il petrolio si serve della marginalità e del sottosviluppo”, nota l’antropologo Enzo Alliegro. Altro che Texas, altro che “Libia di casa nostra”, come andava dicendo l’entusiasta governatore Vito De Filippo, Pd. Dopo decenni di trivellazioni Potenza non è Dubai, la Val d’Agri non ha l’aspetto di un emirato e la “Basilicata coast-to coast” è solo un bel film.

Per capire il grande inganno del petrolio bisogna aggrapparsi ai numeri. Dai 25 pozzi attivi in Val d’Agri, la Basilicata estrae l’80 per cento della produzione petrolifera italiana, il 5-6 del fabbisogno nazionale. Le compagnie petrolifere, l’Eni e la Shell, in particolare, puntano a passare dagli attuali 80mila barili al giorno ai 104 mila previsti da un accordo del 1998, più altri 25 mila che dovrebbero venir fuori dal miglioramento delle tecniche estrattive. Con l’ampliamento del Centro oli di Viggiano e l’entrata in funzione dell’impianto Total di Tempa Rossa, a Corleto Perticara, la Basilicata raddoppierebbe la sua produzione petrolifera fino a 175 mila barili al giorno, il 12% del consumo italiano.

“Così tra i lucani crescerà la potenza attrattiva del totem nero”. È il titolo di un libro di prossima uscita dell’antropologo Enzo Alliegro, lucano trapiantato all’Università napoletana Federico II. “Il petrolio è un totem, un oggetto ambivalente, desiderato ma anche temuto, che ha ridefinito l’immaginario collettivo. Si sogna la ricchezza, ma si teme la catastrofe”. L’illusione di un improvviso benessere si chiama royalty, la quota che le compagnie pagano allo Stato italiano per lo sfruttamento dei pozzi. Una legge del 1957 definiva un sistema di sliding scale royalties che andava dal 2 al 22% a barile, nel ‘96 una nuova normativa bloccò la percentuale al 7, successivamente portata al 10. Un vero eldorado per le compagnie. Che in Italia pagano molto di meno rispetto alla Norvegia e all’Indonesia, dove le royalties sono all’80%, o alla Libia, 90, mentre in Canada i governi locali si lamentano perché giudicano insufficiente il 45% che incassano su ogni barile. Pochi soldi, ma comunque tanti per la Basilicata che in 11 anni si è vista piovere addosso 669 milioni, 800 se si calcolano anche quelli destinati ai comuni. Un mare di “petroleuro”, in apparenza, in realtà solo le briciole di un grande business che arricchisce multinazionali e Stato italiano.

NEL 2010, anno d’oro per l’Eni (utile netto di 6,89 miliardi), la quota destinata alla regione e ai comuni lucani, più il 2,10% per il fondo benzina, è stata di 110 milioni. Pochissima cosa rispetto a quella che qui chiamano la “royalty camuffata”, quel 42% di tasse che lo Stato impone alle compagnie petrolifere: 450 milioni di euro solo per il 2010. Ma è come sono stati spesi i 33 miliardi del Fondo Benzina, ad indignare i lucani. È la storia della card da 100 euro di carburante arrivata ai 335 mila patentati della Basilicata. In pratica un paio di pieni per una macchina media. “Un’ingiustizia, quei soldi dovevano andare a tutti i residenti”, dice il governatore De Filippo. “Abbiamo restituito ai lucani soldi che gli appartengono. Una rivoluzione”, replica l’ex sottosegretario Pdl Guido Viceconte. Un vero affare per Poste Italiane, visto che ogni card costa 20 euro. Archiviata questa polemica, gli adoratori ottimisti del “totem petrolio”, calcolano che per il prossimo decennio saranno almeno 6 i miliardi di royalties che piomberanno su queste terre. “Una visione miope – dice Pietro Simonetti –, i giacimenti possono essere sfruttati per altri 20-30 anni, in Val d’Agri siamo alla metà del ciclo. Quando i pozzi chiuderanno cosa faremo? Bisogna ricontrattare tutto con lo Stato e le multinazionali, se è necessario anche con movimenti di lotta come abbiamo fatto a Scanzano contro le scorie nucleari”. Le parole d’ordine che si sentono nelle assemblee e nei consigli comunali aperti sono “blocco delle perforazioni, moratoria”. “No a nuovi pozzi – dice il governatore Vito De Filippo – nel 1998, quando sono cominciate le estrazioni non potevamo opporci, ma ora vogliamo imporre all’Eni una svolta radicale. O fanno sul serio o troveranno un muro”.

Tutto è affidato a un “memorandum”, una intesa per lo sviluppo tra Regione e Stato. Al centro i problemi della tutela ambientale e della salute. Allarmano le emissioni e le fuoriuscite di greggio. “Per 13 anni si è vissuti nella più totale opacità. Chi ha fatto i controlli, i monitoraggi? L’Arpab, vale a dire la Regione, ammette che finora non è stato fatto granché, siamo al buio. Solo ora sono partite quattro nuove centraline e tra due anni avremo i risultati degli effetti sul territorio”, dice Ennio Di Lorenzo di Legambiente. “No a nuove trivellazioni, fermiamoci dove siamo e cerchiamo di capire cosa è successo in tredici anni”, aggiunge Giovanbattista Mele, medico della Val d’Agri. Qui c’è l’oleodotto più grande d’Europa. Le sue luci, i bagliori del petrolio che brucia, si vedono dal punto più alto di Viggiano, la basilica dove si prega una Madonna tutta d’oro. Poco più di 3 mila abitanti, un tesoretto da 8 milioni e 300 mila euro di royalties solo quest’anno. Spesi per finanziare gli imprenditori che assumono disoccupati (1.000 euro al mese per tre anni), aiuti alle famiglie, tante opere pubbliche che alimentano il ciclo del cemento. C’è il campo da calcio, quello per il tennis e si sta costruendo la piscina comunale. “Ma non posso prevedere cosa accadrà tra vent’anni alla salute dei cittadini e all’ambiente”, ammette il sindaco Giuseppe Alberti. “Il petrolio porta soldi, ma non risolve i problemi sociali”. I ragazzi di Viggiano prendono l’ascensore del megagalattico e deserto parcheggio multipiano per salire sulla piazza della basilica. Poi scendono giù, a piedi, per le vie strette del paese. Molti, quelli che possono, vanno via. Altri, disillusi dal petrolio-totem, sognano di scappare. Sono i “basilischi” del Duemila. A differenza dei loro nonni raccontati da Lina Wertmüller, non fantasticano più su una Lucania diversa.

 

27 marzo

Al buon cuore del padrone

Se vi piacciono i testacoda, se avete una passione per gli autogol e provate ammirazione per l'autolesionismo, le argomentazioni degli smantellatori dell'articolo 18 vi suoneranno divertenti.
Impagabile il professor Monti: fare una legge e dire mentre la si fa «Vigileremo sugli abusi», significa sapere che ci saranno abusi. E' come se il chirurgo che opera un paziente e dicesse al suo staff: «Mi raccomando, delicatezza, poi quando dite ai parenti che è morto».
Il presidente della Repubblica, da primo sostenitore del governo Monti (più di certi ministri, a dar retta alle cronache), difende a spada tratta la riforma, e nel contempo dice che il problema non è l'articolo 18, ma «il crollo di determinate attività produttive». Che crollano perché le amministrazioni non pagano le imprese, perché i picciotti ti taglieggiano, perché i politici chiedono mazzette, perché le sentenze si aspettano per anni. Di leggi su queste cose non se ne vedono, e sull'articolo 18 invece sì. Saranno anche professori, ma non di logica.
Ferruccio De Bortoli sul Corriere rimprovera (proprio a noi del manifesto, wow, siamo famosi!) «Una ripetizione logora di schemi mentali del passato, il tentativo di creare un solco ideologico». E perché? Perché pensiamo, e scriviamo, che con una legge che rende facili i licenziamenti, gli imprenditori licenzieranno più facilmente. Siamo proprio scemi: pensiamo che con una legge che abolisce le strisce pedonali ci saranno più pedoni investiti. Ma come ci viene in mente! Ideologici, eh! Nel frattempo, il Corriere, che è poco ideologico, mette a pagina 53 la sentenza sugli operai Fiom della Fiat di Melfi, reintegrati dalla magistratura, che con la nuova legge sarebbero disoccupati «legali».
Insomma: cari imprenditori, vi facciamo una legge per licenziare, ma voi, mi raccomando, non usatela troppo. Ci appelliamo al vostro buon cuore. Parafrasando Jessica Rabbit, quello schianto di cartoon: «I padroni non sono cattivi, è che quelli del manifesto li disegnano così!».

 

Modello tedesco: un operaio della Volkswagen guadagna il doppio di un collega della Fiat

A confronto le buste paga erogate dai due grandi gruppi automobilistici: 2600 euro netti contro 1.400. Il lavoratore italiano prende di meno, paga più tasse e si ritrova welfare e servizi più scadenti. Eppure i bilanci della casa di Wolfsburg battono alla grande quelli del concorrente torinese. Intanto Marchionne chiede nuovi sacrifici e aiuti all'Europa

Marta Cevasco e Jurgen Schmitt sono due operai metalmeccanici. Hanno quasi la stessa età: 52 anni la signora italiana e 50 il suo collega tedesco, un’anzianità di servizio simile, entrambi tengono famiglia (coniuge e un figlio) e fanno più o meno lo stesso lavoro non specializzato. Qual è la differenza tra i due colleghi? Semplice: lo stipendio. Jurgen guadagna molto di più. A fine mese l’operaia italiana arriva a 1.436 euro, quasi la metà rispetto al metalmeccanico tedesco, che porta a casa una retribuzione 2.685 euro. A conti fatti, Marta e Jurgen sono divisi da 1. 250 euro. Chiamatelo, se volete, lo spread del lavoro. E anche qui, come succede per la finanza pubblica, vince la Germania. O meglio vince Volkswagen e perde Fiat, perché i due operai che abbiamo scelto per questo confronto sono dipendenti delle due più importanti aziende automobilistiche dei rispettivi Paesi. Jurgen passa le sue giornate alla catena di montaggio dello stabilimento di Wolfsburg. Marta invece lavora in una fabbrica del gruppo del Lingotto.

I nomi sono di fantasia, ma le buste paga, pubblicate in questa pagina, sono reali. E i numeri suonano come la conferma della superiorità del modello tedesco. Un sistema che garantisce retribuzioni più elevate. Ma non solo. Anche in Germania, ancora più che in Italia, lo stipendio è falcidiato da pesanti prelievi sotto forma di tasse, e, soprattutto, contributi previdenziali e assicurativi. In cambio, però, questa montagna di soldi contribuisce a finanziare un welfare che nonostante i tagli degli anni scorsi (a cominciare dalle riforme varate tra il 1998 e il 2004 dal cancelliere socialdemocratico Gerhard Schroeder ) rimane ancora uno dei più efficienti d’Europa. Dalle nostre parti, invece, i contributi restano alti, ma il welfare si sta squagliando.

Vediamo un po’ più nel dettaglio il caso tedesco. Jurgen parte da una paga base di poco superiore a 3 mila euro e con alcune ore di straordinario notturno arriva a superare un compenso mensile lordo di 3. 700 euro. Le trattenute previdenziali e assicurative sfiorano i 700 euro, di cui 336 per la pensione e 267 euro di cassa malattia. Se si considera che l’imponibile ammonta a 3. 380 euro circa, i contributi pesano per il 20 per cento circa. Marta invece paga circa 170 euro per la pensione. Poi però ci sono circa 18 euro per il fondo previdenziale integrativo e altri 16 euro sono destinati all’assicurazione sanitaria supplementare. Alla fine questi contributi assorbono l’ 11 per cento di un imponibile pari a circa 1. 800 euro, contro il 20 per cento di Jurgen. Poi ci sono le tasse, che pesano sullo stipendio per meno del 10 per cento (9,89 per cento) nel caso dell’operaio Vw. Le ritenute fiscali della dipendente Fiat, al netto delle detrazioni, valgono invece il 13 per cento circa dell’imponibile. Morale: per Marta meno stipendio e più tasse. Peggio ancora: anche se le imposte sono maggiori, l’operaia italiana riceve servizi meno efficienti rispetto al collega di Wolfsburg.

Va detto che anche in Germania la situazione può cambiare, anche di molto, da un’azienda a un’altra. E spesso anche tra i reparti dela medesima fabbrica. Alla Volkswagen di di Wolfsburg abbondano, anche se restano comunque in netta minoranza, i lavoratori part time e a tempo determinato, con retribuzioni anche del 20-30 per cento inferiori a quella dei loro colleghi .

Jurgen e Marta però fanno parte entrambi della stessa categoria di, per così dire, privilegiati: gli assunti a tempo indeterminato. Resta il fatto che nel regno di Sergio Marchionne l’operaio se la passa molto peggio rispetto al collega delle fabbriche tedesche della Volkswagen. Il capo del Lingotto però chiede ancora di più. Chiede nuovi sacrifici e maggiore flessibilità. Solo così Fiat tornerà grande, dice.

Il gruppo di Wolfsburg si muove diversamente. Negli ultimi anni ha spostato una parte importante della produzione in aree del mondo a basso costo del lavoro (Cina, Slovacchia, Messico), ma quasi la metà dei suoi 500 mila dipendenti vivono comunque in Germania e di questi la gran parte percepisce stipendi ben più elevati rispetto a quelli della Fiat. Eppure Volkswagen, anche al netto delle partite straordinarie, vanta profitti ben più elevati del concorrente italiano. Non sarà che l’arma vincente dei tedeschi sono i prodotti, pensati e realizzati grazie a imponenti investimenti in ricerca e sviluppo? Marchionne su questo punto resta un po’ vago. In compenso, da buon liberista all’italiana, continua a chiedere all’Europa interventi straordinari, con soldi pubblici, per ridurre la sovracapacità produttiva in Europa. Da Wolfsburg rispondono: noi non ne abbiamo bisogno.

 

20 marzo

Napolitano garante della Costituzione. O no?

Il dubbio ci ha assalito qualche giorno fa, leggendo un articolo di Italia Oggi del 7 marzo

Il quotidiano riporta di una lettera inviata al premier Monti e ai Presidenti delle due camere Renato Schifani e Gianfranco Fini: i decreti legge “devono essere coerenti con il provvedimento” del governo, bacchetta Napolitano!

E così la mannaia è calata in Commissione Ambiente sull’emendamento degli onorevoli Bratti (e altri 15 colleghi) e Lanzarin (e altri 2 colleghi) sul decreto legge n. 2 del 2012: accanto alle norme del decreto sull’emergenza rifiuti in Campania volevano proporre una norma per valorizzare le migliori gestioni pubbliche italiane dei rifiuti (eccellenze europee fra il 70 e l’89% di raccolta differenziata e a costi inferiori del 40% della media nazionale!) evitando di sacrificarle sull’altare delle privatizzazioni ad ogni costo.

Lo zelo di Napolitano è fondato: la Costituzione non vuole che nei vagoni del treno del decreto d’urgenza salgano in corsa inserimenti non pertinenti al testo originale di quando il treno è partito. Da raffinato tutore della Costituzione non poteva non accorgersi che le gestioni virtuose non c’entrano con l’emergenza Campania…

Ma, da così attento censore Costituzionale, come mai il Giorgio Nazionale non si è accorto anche che il 12 e 13 giugno 27 milioni di Italiani hanno sonoramente bocciato la privatizzazione forzata dei servizi pubblici locali e dopo soli 2 mesi ha sottoscritto il decreto legge di Berlusconi che – alla faccia degli stessi Italiani – ricopiava le norme cassate dal popolo?

Caro Presidente, “la sovranità appartiene al popolo”, dice l’articolo 1 della Costituzione. Un articolo molto più di sostanza dell’articolo 77 sulla procedura burocratica dei decreti legge. L’articolo 1 viene prima, quanto meno per ordine numerico!

Se per raffinatezze costituzionali su un decreto legge non ci stava la salvezza in corsa delle (poche) migliori realtà pubbliche italiane, allora dimenticarsi del referendum diventa una grossolanità costituzionale, quasi da vilipendio alla Costituzione stessa.

Non si ricordava? Certo la memoria del Presidente non è più quella dei suoi 20 anni, ma il suo decreto che ratificava il referendum era di appena 20 giorni prima della sua stessa firma sulla norma scippo di Berlusconi di agosto che reintroduceva la sostanziale privatizzazione dei servizi pubblici!

Una svista? No. La firma del Capo dello Stato la ritroviamo ancora sul nuovo decreto – peggiorativo – delle privatizzazioni Monti, dopo appena 4 mesi. Difficile non accorgersi 2 volte di fila.

Non aveva letto? Probabile … con tutto quello che ha da fare. Ma il Quirinale è fatto di attivissimi e preparatissimi funzionari che vivono di pane e costituzione, leggono e filtrano tutto, analizzano e vergano testi e proposte.

Ed è questo che ci inquieta: vuoi vedere che qualcuno al Colle sa bene cosa proporre al Presidente e agli Italiani, magari ben informato e collegato con la Bce - pardon – l’Europa? Qualcuno conscio di come gli Italiani siano un popolo volubile e disattento quando vota, qualcuno che sa di che cosa hanno bisogno veramente gli italiani anche quando votano il contrario? qualcuno che sa gestire i delicati equilibri con i gruppi di potere di chi scambia la copertura del nostro debito pubblico con un po’ della nostra sovranità?

Se è così, per favore, togliete l’articolo 1 della Costituzione. Almeno non ci sentiamo presi in giro e veramente quella domenica invece di votare il referendum potevamo andare al mare, come profeticamente qualcuno dai TG nazionali ci aveva suggerito di fare .

Ezio Orzes e Paolo Contò

 

A gennaio cede il mercato interno. Crollano fatturato e ordinativi dell'industria

I due indicatori mostrano le flessioni tendenziali peggiori dal quarto trimestre del 2009. Il giro d'affari delle imprese cala del 4,9% su dicembre e del 4,4% anno su anno. Le commesse perdono il 7,4% rispetto all'ultimo mese del 2011 e del 5,6% rispetto a gennaio di un anno fa

Inizio d'anno in salita per l'industria italiana

MILANO - Il fatturato dell'industria italiana a gennaio è calato su base mensile del 4,9% (-5,2% sul mercato interno e -4,5% su quello estero) e su base annua del 4,4% (corretto per gli effetti di calendario). Lo rileva l'Istat, aggiungendo che il ribasso tendenziale è il più forte da novembre 2009. A gennaio il fatturato degli autoveicoli su base annua è sceso dell'8,8% e gli ordinativi sono diminuiti del 6,1%. Il settore di attività economica per il quale si registra l'incremento tendenziale maggiore del fatturato è quello della fabbricazione di coke e prodotti petroliferi raffinati (+15,8%), mentre la diminuzione più marcata riguarda la fabbricazione di mezzi di trasporto (-14%).

Anche gli ordinativi dell'industria a gennaio sono diminuiti del 7,4% su base mensile (dato destagionalizzato e sintesi di una contrazione del 7,6% degli ordinativi interni e del 7,3% di quelli esteri), e del 5,6% su base annua (dato grezzo). Anche in questo caso si tratta di dati Istat. L'istituto sottolinea che il ribasso tendenziale è il peggiore dall'ottobre del 2009. Sulla flessione annua di fatturato e ordinativi pesa in misura maggiore la performance deludente del mercato interno rispetto a quelli esteri. Per gli ordinativi, l'aumento tendenziale maggiore si rileva per la produzione di prodotti farmaceutici di base e preparati farmaceutici (+6,5%). I cali più ampi si registrano, invece, per la fabbricazione di macchinari e attrezzature non classificate altrove (-11,7%), Per i mezzi di trasporto (-10,2%) e per la fabbricazione di computer, prodotti di elettronica e ottica, apparecchi elettromedicali, apparecchi di misurazione e orologi (-9%).

 

12 marzo

“Niente premi di produzione perché siamo donne”. Operaie del gruppo Fiat in rivolta

Alla Ferrari e Maserati di Modena si applica "l'accordo di Pomigliano". Il bonus di 600 euro scatta solo per chi ha lavorato almeno 870 ore all'anno e per le lavoratrici il diritto di maternità, escluso dal conteggio delle ore, diventa un impedimento

Sono più di mille, lavorano alla Ferrari , alla Maserati e alla Cnh . Sono le operaie e le impiegate modenesi del gruppo Fiat, che da gennaio stanno portando avanti la lotta per il diritto alla maternità. Sì, perché con il contratto separato approvato a fine anno, per ognuna di loro avere un figlio significa anche rischiare di perdere il premio di produttività di 600 euro. “Un accordo che discrimina” è la denuncia della Fiom Modena.

Il contratto estende a tutti gli stabilimenti del gruppo torinese il “modello Pomigliano” e prevede che il “premio straordinario 2012”, pari a 600 euro, vada solo a chi, nei primi sei mesi dell’anno, ha lavorato almeno 870 ore. Non una semplice dicitura contrattuale, se si considera che dal conteggio vengono esclusi , tra le altre cose, malattia, pausa pranzo ma, soprattutto, tutti gli impegni legati alla maternità e alla paternità . Detto in altre parole, perdono il diritto a percepire il premio 2012 le lavoratrici, ma anche i lavoratori, che si assentano per il periodo di congedo obbligatorio e quello sotto ispettorato, per il riposo dovuto all’allattamento, per i congedi parentali, per la malattia di un figlio, e per i permessi previsti dalla legge 104 per l’assistenza ai disabili. Una beffa per le madri, che si trovano in un posizione molto più svantaggiosa rispetto a quella dei loro colleghi uomini. “Ciò che è previsto nel contratto – afferma Giordano Fiorani , segretario provinciale della Fiom di Modena – utilizza dei parametri discriminatori”.

Per questo a febbraio, dopo una campagna di sensibilizzazione tra le lavoratrici Fiat, grazie alla quale sono state raccolte 205 firme a sostegno della causa , le iscritte alla Fiom si sono armate di carta e penna e hanno inviato una lettera al ministro del Lavoro Elsa Fornero . «Noi donne – si legge – abbiamo una ragione in più per voler cancellare quell’accordo, perché in esso sono contenute norme gravemente discriminatorie, lesive della legislazione vigente e dei principi di parità, sanciti dalla Costituzione Italiana e riaffermati dalle normative europee».

Ad alzare la voce sono state anche le lavoratrici di Modena. Nella provincia emiliana il gruppo Fiat infatti vanta una folta rappresentanza: due stabilimenti di Cnh , uno della Maserati e uno della Ferrari , per un totale di oltre 5000 dipendenti, di cui il 20% è donna. Tra le operaie metalmeccaniche (in misura minore) e le impiegate dello stabilimento di Cnh di San Matteo, le lavoratrici degli stabilimenti modenesi del gruppo che oggi si battono per avere uguali diritti sono circa un migliaio. “Non accettiamo questa discriminazione – commenta Paola Gherpelli , ex delegata Fiom alla Cnh San Matteo – perché una donna che vuole diventare madre deve rinunciare a questi 600 euro?”

Lo scorso 8 marzo , in occasione della tradizionale festa della donna, le impiegate della Cnh, che fa parte del gruppo Fiat Industrial, hanno deciso di accompagnare alla mimosa un volantino con le ragioni della loro protesta e il parere del ministro. «La risposta alla nostra lettera – va avanti Gherpelli – è stata breve ma è arrivata tempestivamente. Il ministro ha detto di comprende la nostra situazione e ci ha assicurato che avrebbe parlato con chi di dovere della questione. Ora ci aspettiamo che mantenga la parola data”.

Intanto, oltre a quello di alcune senatori, tra cui i bolognesi Rita Ghedini e Paolo Nerozzi , le lavoratrici della Fiat hanno incassato la solidarietà del consiglio provinciale di Bologna, che ha dato il via libera a un ordine del giorno che invita la giunta di palazzo Malvezzi ad impegnarsi nella lotta per le pari opportunità.

di Felicia Buonomo e Giulia Zaccariello

 

Anno nero per i diritti umani in Turchia

Il nuovo rapporto dell’IHD (Associazione per i Diritti Umani) afferma che nel 2011 nella regione kurda sono state registrate 29.366 violazioni dei diritti umani, un incremento sostanziale rispetto all’anno precedente, in cui 23.520 violazioni erano state denunciate. Nella relazione è stato sottolineato l’aumento rispetto agli anni precedenti, di scontri a fuoco, vittime civili e arresti così come un aumento di oltre il 100 per cento della tortura e dei trattamenti inumani. “Purtroppo il 2011 è stato un anno intenso di guerra, invece che un anno di pace e di soluzione per la questione kurda”, ha detto il segretario dell’IHD di Diyarbakır, Raci Bilici. Bilici ha anche notato che le violazioni del 2011 ricordano quelle degli anni ’90 e che il paese è diventato quasi ‘un campo di concentramento’ a causa dei numerosi arresti di politici, giornalisti, avvocati, accademici, studenti, sindacalisti e difensori dei diritti umani. Bilici ha dichiarato che la tortura e i trattamenti inumani sia sotto custodia che per le strade è aumentato notevolmente e ha aggiunto: “L’AKP [Partito della Giustizia e Sviluppo] e la magistratura tacciono sulla tortura e la brutalità della polizia nelle strade, ma adottano un atteggiamento spietato nei confronti di coloro che stanno cercando di denunciare la tortura e la violenza”. Il rapporto ha inoltre sottolineato l’alto tasso di violazioni dei diritti nelle carceri e l’indifferenza del Ministero della Giustizia. L’isolamento imposto al leader del PKK Abdullah Ocalan e gli scioperi della fame dentro e fuori le carceri per protestare contro l’isolamento di Ocalan hanno spinto l’associazione per i diritti umani ad affermare che “la politica di isolamento deve immediatamente terminare”. Nella relazione vengono evidenziate le violazioni dei diritti delle donne, il sostegno insufficiente da parte dello Stato alle vittime del terremoto in Van, la questione delle fosse comuni e degli omicidi irrisolti.
Di seguito l’elenco di violazioni:
* 149 membri delle forze di sicurezza sono morti, 295 feriti in scontri a fuoco

* 169 membri del PKK sono morti e 6 feriti in scontri a fuoco

* 129 civili uccisi, 259 feriti in omicidi irrisolti, omicidi extragiudiziari e sparatorie

* 6 morti, 49 feriti a causa di mine ed esplosivi

* 45 morti, 4 feriti a causa di negligenza ufficiale o errore

* 1917 persone arrestate

* 6306 persone prese in custodia

* 1555 casi di tortura e trattamenti inumani

* 1421 violazioni dei diritti umani nelle carceri

* 932 feriti a causa di interventi della polizia nelle manifestazioni

* 4496 richiedenti asilo e immigrati presi in custodia

* 4 villaggi bruciati ed evacuati

* Rivendicazioni di 111 fosse comuni dove sono sepolte 1699 persone

 

Lo scandalo dei consiglieri lampo, pochi minuti di presenza e paga piena

Molti eletti in consiglio comunale rispondono all'appello e si defilano subito dopo. E c'è chi non si leva neppure il casco. Per due mesi Repubblica ha rilevato le presenze degli eletti ai lavori delle commissioni. Ecco i risultati

di RAFFAELE NIRI

GENOVA - Mercoledì scorso, a Genova, c'era un bel sole primaverile. Così il consigliere comunale Aldo Praticò, del Pdl, si è presentato alla seduta della commissione alle 14.48 e ne è uscito alle 14.49, un minuto dopo. Senza neppure togliersi il casco della moto, per fare più in fretta. Per quel minuto di "lavoro" - ha risposto "presente" alla domanda "Praticò?" - riceverà a fine mese 97 euro e 61 centesimi.

Il 16 febbraio aveva fatto la stessa identica cosa, il 15 febbraio era rimasto due minuti, il 23 gennaio tre e il 18 gennaio addirittura quattro. Ogni volta che gli dicono "Praticò" e lui risponde "presente" fanno 97 euro e 61 centesimi. Nelle ultime diciotto commissioni consiliari, Praticò ha vinto per nove volte il Trofeo "Prendi i soldi e scappa": sei minuti, otto minuti, una volta addirittura quindici.

Non è il solo, naturalmente: Vincenzo Vacalebre, dell'Udc, alla vigilia di San Valentino, è rimasto in aula centottanta secondi, Andrea Proto dell'Italia dei Valori il 9 febbraio lo ha superato di pochi attimi. E ogni volta, nelle loro tasche e in quelle di tutti gli altri consiglieri comunali che rispondono all'appello del presidente di una commissione, arrivano i 97 euro e 61 centesimi (lordi) previsti dal regolamento del consiglio comunale.

Repubblica ha monitorato per quasi due mesi - dal 17 gennaio al 7 marzo - l'andamento delle nove commissioni consiliari operanti nel Comune

di Genova, città dove a inizio maggio si andrà alle urne. La logica vorrebbe che alla vigilia dell'appuntamento elettorale i consiglieri uscenti dessero il meglio, per meritarsi la riconferma. Ecco, allora, il capogruppo della Lega Nord, Alessio Piana, uscire - per nove volte su diciotto - ancora prima che scatti la "mezz'ora di decenza": una volta resta otto minuti, due volte dieci, una quindici, una sedici.

La coppia di consiglieri dell'Italia dei Valori - sempre per restare tra i partiti che fanno del buon governo la loro bandiera - lo straccia ampiamente: Andrea Proto vince tre tappe (rispettivamente cinque, tre e dieci minuti) in tredici riunioni, mentre Francesco De Benedictis è il più veloce il primo febbraio (cinque minuti scarsi) ma se ne va repentino altre sette volte.

Non tutti sono uguali in questa hit parade della "Toccata e fuga": più si va a sinistra, migliore è il comportamento. I tre consiglieri di Rifondazione e Sel (Antonio Bruno, Arcadio Nacini e Angela Burlando) non compaiono mai in classifica, mentre il pattuglione del Pd (che è il gruppo consiliare più numeroso) ha soltanto qualche pecora nera.

"È una vera schifezza - tuona il presidente del consiglio comunale genovese Giorgio Guerello - questi signori sviliscono il senso della democrazia. Ad inizio del ciclo amministrativo abbiamo provato a cambiare le regole, senza riuscirci. Sono certo che il nuovo consiglio comunale si autoemenderà".

In fondo basterebbe il "contrappello", come al militare: basta un comma di due righe, che reciti "il gettone di presenza viene assegnato solo a chi è presente sia all'inizio che alla fine della seduta". Anche perché ogni singola commissione costa 5.500 euro e se ne fanno una ventina al mese.

Il problema, infatti, è assicurare a ogni consigliere il massimo dei gettoni previsti, cioè diciotto: 1.800 euro lordi che sono - secondo quanto previsto dall'ultima Finanziaria - un terzo dello stipendio che si è assegnato il sindaco. E dato che Marta Vincenzi, fin dall'inizio del suo mandato, ha deciso di riconoscersi lo stipendio più basso possibile per una città oltre il mezzo milione di abitanti, anche i consiglieri devono "accontentarsi" di 1.800 euro.

A volte sono denari più sprecati del solito. Il 15 febbraio la quarta commissione doveva discutere una pratica urbanistica: all'appello alle 9,40 hanno risposto in trenta (97 euro per trenta), ma un'ora dopo, i nove che erano rimasti si sono accorti che mancava un documento. Niente paura, basta una nuova riunione. Della commissione fanno parte 48 dei 50 consiglieri comunali e - si può star certi - accorreranno in tanti.

 

Istat: l’inflazione sale del 4,5% sul carrello della spesa. Rialzo più alto dal 2008

L'Istituto di statistica diffonde i dati sull'inflazione e sottolinea che per i consumi quotidiani si tratta del rialzo maggiore dall’ottobre del 2008. Carburanti ancora alle stelle: per la verde nuovo record a 1,87 euro al litro

A febbraio volano i prezzi del carrello della spesa, che salgono del 4,5% su base annua e dello 0,4% al mese di gennaio. Lo rileva l’Istat, sottolineando che è il rialzo maggiore dall’ottobre del 2008 . Da un punto di vista settoriale, i più rilevanti effetti di sostegno alla dinamica congiunturale dell’indice generale derivano dagli alimentari non lavorati e dai beni energetici non regolamentati (per entrambi +1,7% ).

Al netto dei soli beni energetici, il tasso di crescita tendenziale dell’indice dei prezzi al consumo sale al 2,3% (era +2,2% a gennaio). La lieve accelerazione dell’inflazione, sottolinea l’Istat, deriva dall’aumento del tasso di crescita tendenziale dei prezzi dei beni ( +4,2% , dal +3,9% di gennaio 2012), soltanto in parte compensato dal calo di quello dei servizi ( +2,2% , dal +2,3% del mese precedente). Come conseguenza di tali andamenti, il differenziale inflazionistico tra beni e servizi aumenta . L’indice armonizzato dei prezzi al consumo (IPCA) aumenta dello 0,2% sul mese precedente e del 3,4% su quello corrispondente del 2011 (lo stesso valore registrato a gennaio 2012). L’indice nazionale dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati (FOI), al netto dei tabacchi, registra un aumento dello 0,4% sul piano congiunturale e del 3,3% su quello tendenziale.

Particolarmente forte è stato l’aumento dei prezzi dei vegetali freschi ( +8,7% in termini congiunturali). Un impatto significativo deriva anche dall’aumento congiunturale dei prezzi dei servizi relativi ai trasporti ( +0,8% ). I prezzi dei prodotti acquistati con maggiore frequenza subiscono forti rincari, aumentando dello 0,7% su base mensile e del 4,5% su base annua ( +4,2% a gennaio).

Analizzando singoli prodotti, sul fronte energia, a febbraio la benzina sale del 18,6% ( +17,4% gennaio) su base annua e del 2,0% su base mensile. E Piero De Simone , direttore generale di Unione Petrolifera, ha ribadito che il prezzo finale della benzina in Italia è il più caro d’Europa “per effetto della tassazione”. Ed è record: nei distributori della Q8, scrive Staffetta Quotidiana , il prezzo della verde è arrivato a 1,874 euro al litro, nuovo massimo storico. Secondo Quotidiano energia , le punte massime sul territorio sono di 1,96 euro al litro per la benzina e superano quota 1,80 per il diesel.

Inoltre il prezzo del gasolio per i mezzi di trasporto sale del 25,5% in termini tendenziali (+25,2% gennaio), il rialzo maggiore dal luglio del 2008, e dell’ 1,4% sul piano congiunturale. A questo si aggiunge l’aumento dei prezzi del gas naturale ( +15,6% in termini tendenziali) e del prezzo del gasolio per riscaldamento ( +14,4% su base annua). Quanto al capitolo trasporti, si registrano aumenti congiunturali consistenti per i prezzi del trasporto aereo passeggeri ( +6,4% ), che crescono su base tendenziale dell’ 11,3% (era +8,2% a gennaio). Inoltre, guardando agli alimentari, non si arresta la corsa del caffè ( +14,6% ).

 

12 marzo

Un miliardo di persone senza acqua potabile

Valerio Calzolaio*

Domani 4° rapporto mondiale delle Nazioni unite. Secondo l'Unicef ci sono importanti progressi, ma la situazione resta terribile. Sul «bene comune» il movimento italiano in prima fila

Alla vigilia della presentazione del quarto rapporto mondiale delle Nazioni Unite sull'acqua (domani, lunedì 12) e del World Water Day (il 22 marzo) Unicef e Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) hanno appena annunciato che uno degli Obiettivi del Millennio è stato raggiunto: dimezzare entro il 2015 il numero di persone senza accesso all'acqua potabile. Il rapporto «Progress on Drinking Water and Sanitation» afferma che già alla fine del 2010 l'89% della popolazione mondiale, circa 6,1 miliardi di persone, hanno avuto accesso a fonti migliorate di acqua potabile. Uno degli Obiettivi del Millennio approvati dall'Onu nel 2000 fissava il dimezzamento alla percentuale dell'88% della popolazione. Un secondo (non raggiunto) Obiettivo era correlato al parallelo dimezzamento delle persone senza adeguato accesso ai servizi igienico-sanitari. Bisognava arrivare al 75% entro il 2015, siamo al 63%, la proiezione è che si arrivi massimo al 67%.

Anche da questi dati emerge un quadro di crescente rischio e incertezza sulla disponibilità di acqua per i vari usi attuali. Il quarto United Nations World Water Development Report (Wwdr4) appunto intitolato a «Managing Water under Uncertainly and Risk» verrà presentato in anteprima domani pomeriggio a Marsiglia. Sono ben tre volumi, a differenza delle edizioni 2003, 2006 e 2009 in volume unico. Avevo studiato i precedenti, ho già scorso questi, vi sono dati, analisi, proposte, scenari sui quali ci sarà da meditare e agire a lungo. Teniamolo sott'occhio e cerchiamo di capire bene il contesto.
Le statistiche citate confermano sofferenze e dolori: quasi un miliardo di persone resta senza facile sicuro accesso ad acqua potabile (tanto più che la percentuale riguarda una popolazione in crescita demografica, pur più lenta del previsto), 2,5 miliardi non ha ancora accesso a servizi igienico sanitari, oltre 1,1 miliardi defeca all'aperto. In secondo luogo si tratta pur sempre di una media: vi è grande disparità fra regioni e paesi (oltre il 40% della popolazione che non ha accesso all'acqua potabile vive nell'Africa sub-sahariana), vi è grande disparità fra città e campagna (950 milioni del 1100 che defecano all'aperto vive in aree rurali, 626 in India). Gli eventi connessi ai cambiamenti climatici antropici globali, in terzo luogo, rendono più gravi e diffusi i fenomeni di scarsità d'acqua, soprattutto nelle aree già con minori precipitazioni medie, le aree secche (drylands), aggravando fame e povertà, inducendo migrazioni e conflitti. E, infine, sull'acqua gli Obiettivi e i rapporti dell'Onu scontano una certa subalternità al privato, alle grandi multinazionali. Come i precedenti anche il Wwdr4 viene diffuso dall'Onu all'interno del World Water Forum (il sesto Wwf), che non è un appuntamento Onu ma un processo pubblico-privato (molto discutibile, come sappiamo) «egemone» sul sistema Onu. A Marsiglia molte forze sociali, il sindacato e vari soggetti anche istituzionali contesteranno il Wwf, ribadiranno lotte e progetti contro la privatizzazione dell'acqua. In prima fila ci sarà il movimento italiano, che, anche con il successo referendario, ha raggiunto diffusa fama e meritato consenso internazionale.
Per svolgere un efficace ruolo «antiliberista» (ecologista e libertario) a livello internazionale molto ruota intorno all'idea di beni comuni e diritti della Terra. L'acqua è il «principio» della vita, il nesso originario, inestricabile ed evolutivo, tra vivente e non-vivente e tra vivente umano e vivente non-umano. Quasi tutti i conflitti in corso hanno stretta connessione con il controllo delle risorse idriche. Tutti i cambiamenti climatici provocano sconvolgimenti nei cicli idrologici. La stessa drammatica crisi economica ha conseguenze di emergenza immediata per chi soffre sete, fame, povertà. Ogni oggetto, ogni servizio, ogni bene può essere calcolato in termini di acqua utilizzata, inquinata, trasferita per produrlo.
L'Onu si è già dotata di un coordinamento sull'acqua, Un-Water, sempre più positivo ed efficace. Prima il Wwdr lo preparava solo l'Unesco, ormai è l'intero sistema Onu a presentarlo. Un-Water dovrebbe diventare una vera autorità, autonoma dal processo Wwf, sganciando la presentazione del Report Onu dal Wwf. Serve ora (ma a Rio+20 non se ne parla!) una Autorità Pubblica Mondiale per l'acqua e serve un piano globale delle Nazioni Unite che vada oltre il pur positivo ruolo di coordinamento avviato dalla Un-Water: acqua minima vitale da garantire a tutti, impegni vincolanti contro la sete, proprietà pubblica basata sul diritto umano e sul bene comune, principi pubblici di qualità gestione e controllo, attenzione agli equilibri delle specie e degli ecosistemi. In ogni bacino idrografico, goccia a goccia.

*coordinatore forum nazionale SeL Beni Comuni

 

La memoria corta del Carroccio

Accidenti se ringhiano, i leoni della Lega. Addirittura ruggiscono. E tutti in difesa di questo capolavoro di lombardo, Davide Boni: “Magistrati attenti!”. Ma ci fu un tempo in cui quegli stessi leoni, belavano. Era il 1993 . Il loro tesoriere Alessandro Patelli aveva appena dichiarato “di essere un pirla”, confessando di avere incassato 200 milioni di lire dalla famiglia Ferruzzi, proprietaria di Enimont, per le elezioni del 1992. Erano spiccioli piovuti dal cielo. E Patelli tremava di emozione ricevendoli nientedimeno che al bar Doney di via Veneto, come in un film.

Al processo, il capo dei capi della Lega, Umberto Bossi, arrivò a testa bassa. Tremava anche lui, ma a differenza di Patelli sospettava di non essere in un film . Davanti a Di Pietro confessò i milioni e un po’ anche la vergogna. Incassò senza fiatare la condanna definitiva a 8 mesi di reclusione per finanziamento illecito.

Ai giornalisti disse: “Restituiremo tutto, fino all’ultima lira”. E partì la sottoscrizione, una moneta alla volta , che non avrebbe mai più cancellato il disonore, ma almeno l’umiliazione dei belati. Adesso è tutta un’altra storia: gonfiano il petto, rivendicano, minacciano. E sono di casa al bar Doney.

 

Milano, polizia giudiziaria senza risorse: solo 3 auto per i 110 agenti del caso Ruby

La squadra soffre per la mancanza di mezzi e strumenti. Eppure il "capo" Antonio Manganelli, con i suoi 26 mila euro al mese, guadagna come venti dei suoi uomini

“Non riusciamo più a lavorare, a fare indagini. Noi crediamo nel nostro lavoro, lo facciamo con senso del dovere e con passione, al servizio della giustizia e dello Stato. Ma così non possiamo più andare avanti”. Ad ascoltare le voci degli sbirri della squadra di polizia giudiziaria di Milano, si sente prevalere lo sconforto. “Non abbiamo strumenti per lavorare. Siamo 110 poliziotti e siamo rimasti con sole tre auto: una Alfa 156 e due vecchissime Punto. Una circolare del ministero dell’Interno ci impone infatti di consegnare, entro sabato 10 marzo, le targhe di altre quattro auto, che sono ormai fuori uso e non verranno né riparate, né sostituite”.

Da oggi, dunque, tre auto per 110 agenti. La squadra di polizia giudiziaria presso il Tribunale di Milano è il gruppo interforze (Polizia, Carabinieri, Guardia di finanza, in totale quasi 300 persone) che lavora per la procura di Milano. Ha fatto le indagini sul caso Ruby e su altre mille inchieste dei pm milanesi. La parte composta da agenti della Polizia di Stato è quella che soffre di più per la mancanza di mezzi e strumenti. Il 31 dicembre 2011 è scaduto il contratto per la manutenzione delle macchine fotocopiatrici. Così adesso, quando se ne guasta una, nessuno la ripara. Tra qualche tempo gli agenti non potranno più fare fotocopie.

Non va meglio con i computer: soltanto una ventina sono efficienti, gli altri sono arrangiati, provenienti da altre amministrazioni, oppure personali. “Alcuni di noi portano in ufficio il loro computer privato: sarebbe proibito, ma altrimenti come facciamo a lavorare?”. Il punto più dolente è comunque quello delle auto. L’ultima fornitura consistente dell’amministrazione risale al 1998: venti Fiat Punto che si sono via via ridotte a due. Quando si guastavano non venivano più riparate. I contratti d’assicurazione non erano rinnovati. Ci sarebbero le auto confiscate: sette di queste erano state affidate dal giudice alla squadra di polizia giudiziaria, “ma il ministero ci ha detto che non ci sono fondi per rimetterle in strada e mantenerle”, dice un agente. “Così finiscono al Demanio dello Stato che le svende”. “Eravamo più attrezzati vent’anni fa”, dice sconsolato Carmelo Zapparrata , sostituto commissario nella squadra di polizia giudiziaria, ma anche segretario provinciale del Silp, il sindacato dei poliziotti della Cgil. “Nell’ultimo decennio abbiamo vissuto un lento declino, privati dei mezzi per lavorare. Dicono che bisogna investire nella sicurezza: ma noi vediamo che gli investimenti più elementari non vengono fatti. All’aumento della corruzione e della criminalità, si risponde con armi spuntate”.

La polizia giudiziaria compie il lavoro investigativo per i magistrati e dipende solo dal punto di vista funzionale dall’amministrazione di provenienza (i poliziotti dalla Polizia di Stato, i carabinieri dall’Arma, i finanzieri dalla Guardia di finanza). “Ci sentiamo un po’ dimenticati dalla nostra amministrazione”, dice sottovoce Zapparrata. Ci sono pochi soldi per i poliziotti, e ancor meno per quelli della polizia giudiziar ia.

Nelle indagini su Ruby, gli agenti hanno fatto fino in fondo il loro dovere, anche a costo di mettere in imbarazzo i funzionari della questura di Milano che in una notte di maggio del 2010 hanno subito le pressioni dell’a llora presidente del Consiglio, il quale aveva chiesto di lasciar andare la minorenne fermata per furto. Ora il Silp critica anche la sproporzione tra gli stipendi dei poliziotti e quelli del loro capo: Antonio Manganelli , con i suoi 26 mila euro al mese e più, guadagna come venti agenti messi insieme. “Siamo i poliziotti peggio pagati d’Europa”, dice Zapparrata, “e abbiamo il capo più pagato d’Europa. Non importa. Noi continuiamo a fare il nostro lavoro. Ci piace. Abbiamo il senso delle istituzioni. Però vorremmo almeno avere gli strumenti minimi per poter lavorare: i computer, le fotocopiatrici, le auto di servizio. Chiediamo troppo?”.

 

5 marzo

Nel 2020 l’Italia avrà l’età di pensionamento più alta d’Europa: 66 anni e 11 mesi

Contemporaneamente in Germania si uscirà dal mondo del lavoro a 65 anni e 9 mesi e in Danimarca a 66 anni. E nel 2060 il divario sarà ancora più netto: nel nostro Paese pensione a 70 anni e 3 mesi mentre per i tedeschi a 67 anni. A rivelarlo uno studio della Commissione Europea pubblicato nel libro bianco sui sistemi previdenziali

Nel 2020 l’Italia avrà l’età di pensionamento più alta d’Europa con 66 anni e 11 mesi , a fronte dei 65 anni e 9 mesi della virtuosa Germania e dei 66 della Danimarca. E la leadership sarà ulteriormente rafforzata negli anni a venire, raggiungendo, nel 2060 l’età di pensionamento di 70 anni e 3 mesi . Ben al di sopra di Germania, 67 anni, Regno Unito e Irlanda, 68 anni. E’ quanto si legge nel libro bianco della Commissione Europea sui sistemi previdenziali presentato nei giorni scorsi dal Commissario Ue all’occupazione. Nella scheda sui diversi sistemi pensionistici l’Italia è uno dei pochissimi Paesi, insieme alla Germania e all’Ungheria, a non avere a questo punto raccomandazioni specifiche sulla materia.

Nel 2009 nel nostro Paese l’età di pensionamento di vecchiaia era di 65 anni per gli uomini e 60 per le donne ma grazie alla possibilità di uscire dal lavoro con la pensione di anzianità (a 59 anni di età e con 35 di contributi dal luglio 2009 o 40 anni di contributi a qualsiasi età) l’età media effettiva di pensionamento era di 60,8 anni per gli uomini e 59,4 per le donne. In Germania nello stesso anno, a fronte dei 65 anni previsti per uomini e donne, per il pensionamento di vecchiaia la media per l’uscita dal lavoro era di 62,6 anni di età per gli uomini e 61,9 per le donne.

Il libro bianco evidenzia anche una proiezione sull’andamento dei tassi di sostituzione (tra la pensione e il reddito da lavoro precedente) con un calo per l’Italia tra il 2008 e il 2048, a parità dell’età di pensionamento, che si avvicina al 15% grazie prevalentemente al passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo. Il calo si riduce a meno del 5% se si considera che i lavoratori saranno costretti a lavorare più a lungo.

“Diventa più che mai urgente – spiega la Commissione Europea – sviluppare e attuare strategie globali per adeguare i regimi pensionistici all’andamento della contingenza economica e demografica. Si tratta di problemi enormi ma risolvibili se vengono attuate politiche adeguate. Una riforma dei regimi pensionistici e delle pratiche di pensionamento è essenziale per migliorare le prospettive di crescita europee. Il successo – aggiunge la Commissione – di riforme tese ad aumentare l’età del pensionamento dipende da migliori opportunità per uomini e donne anziani di restare sul mercato del lavoro. E ciò comporta necessariamente un adeguamento dei luoghi e dell’organizzazione del lavoro, oltre a una giusta promozione dell’apprendimento durante tutto l’arco della vita. Serviranno – conclude la relazione – politiche efficienti capaci di conciliare lavoro, vita privata e familiare, misure per sostenere un invecchiamento sano, lotta alle diseguaglianze di genere e alle discriminazioni basate sull’età”.

 

La propaganda aziendale Fiat di MarchiOrwell

La dirigenza del Lingotto ha realizzato un kit per i capi che contiene oltre a degli opuscoli e anche un dvd con un filmato di sei minuti circa. Serve a spiegare poi ai dipendenti i contenuti del nuovo contratto di lavoro. Domande e risposte sul contratto, come piace all'Ad, senza lo spiacevole contraddittorio del sindacato

Due attori nello spazio, scontornati, come due figurine di Star Trek quando il teletrasporto fa i capricci. Domande e risposte sul contratto, come piace alla Fiat , senza lo spiacevole contraddittorio del sindacato. A Pomigliano va in onda “il Grande Fratello Contratto”, o “ il cinegiornale Marchionne ”, ovvero un nuovo modulo di comunicazione propagandistica che farà sicuramente epoca, condensato in un cd, in un apposito manualetto e in un video che avete davanti agli occhi.

Il fatto è questo: da pochi giorni, negli stabilimenti dell’azienda di Marchionne sta andando in onda a ciclo continuo, sugli schermi della diffusione interna, un meraviglioso filmino di 6 minuti e 45 secondi che illustra agli operai le meraviglie del nuovo contratto . Immaginatevi la scena: l’operaio Ciro se ne sta alla catena di montaggio della nuova Panda, combattuto dal problema di dover fare la pipì e avere a disposizione (grazie alla nuove norme) dieci minuti di pausa in meno, ed ecco che davanti a lui scorrono le immagini di questa meravigliosa campagna di indottrinamento. Basta con le obsolescenze dei sindacalisti, con tutte le chiacchiere vuote sui diritti. Basta anche con l’ iconografia triste degli operai, in tuta blu e con la barba lunga. Lei, ragazza bruna con i capelli a caschetto, seno volitivo e sorriso smagliante, pare pronta per una telenovela. Lui, simpatica aria da tonno, capelli sale e pepe, camicia bianca e jeans è perfetto per la pubblicità del dentifricio: “Questo contratto – si chiede rapita lei – migliora le nostre condizioni?”. Le risposte rassicuranti di lui son tutto un programma: “Il contratto prevede una nuova busta paga che ha effetti quando si lavora di più”. Ovvero: non ci sono aumenti, ma usiamo una formulazione che lo lasci intendere, magari qualcuno ci crede.

D’altra parte lo scenario in cui va in onda la grande campagna di propaganda della Fiat è questo. Nelle nuove fabbriche dell’azienda, a partire da Pomigliano, lo schermo del cinegiornale-Lingotto arriva dopo che il campo è stato già preparato a dovere. Quelli che non hanno condiviso il contratto vengono tenuti fuori dalle nuove assunzioni (ad esempio 600 operai della Fiom a Pomigliano, nessuno dei quali è stato finora assunto) e così i dipendenti non vengono disturbati da antipatiche voci dissonanti. Mentre a tutti i capireparto viene fornito un accattivante kit da agit prop, con un bellissimo biglietto a visita e un numero verde per chiedere notizie e addirittura consulenze patronali, una brochure divisa in fascicoletti con una sorta di catechismo aziendale. Con lodevole efficienza la Fiat risolve il problema aperto dalla cacciata del sindacato sostituendolo. Esempio: “Per quel che riguarda la malattia: 1) Sono stati confermati i nostri trattamenti aziendali di miglior favore rispetto alla legge e in relazione alla malattia di lunga durata; 2) Sono state individuate misure – scrive l’opuscolo meravigliosamente ottimista – per fronteggiare nuovi abusi”. Ecco, pensate, quando c’erano ancora quei perfidi delegati della Fiom avevano persino stampato, a loro spese, il contratto (quello vero) presentato dall’azienda. Così – a Mirafiori – gli operai avevano potuto apprendere che i primi tre giorni di malattia non erano pagati.

Insieme al kit dell’agit prop marchionniano arriva la nuova procedura: i dipendenti saranno riuniti a gruppi di venti per la catechesi del Nuovo Testamento. Agli operai, che evidentemente vengono considerati più sempliciotti, potranno essere dedicati non più di 15 minuti. Agli impiegati, che già sono più considerati, “Si potrà parlare per 30 minuti”. Saranno gli stessi capi, e non i sindacati che hanno sottoscritto l’accordo, a dedicarsi all’opera di indottrinamento. Nuova domanda del catechismo marchionniano: “Il diritto di sciopero sarà limitato?”. Risposta: “Non vi è alcuna limitazione”. Risposta interessante, se è vero che nessuno dei sindacati che ha sottoscritto l’accordo potrà scioperare contro il nuovo contratto.

Tutto questo nello stabilimento in cui, lo ha raccontato ieri su Il Foglio Lanfranco Pace, gli operai che perdono colpi e non rispettano le cadenze della catena di montaggio vengono simpaticamente invitati da capi e sottocapi a recitare al microfono il grazioso scioglilingua: “Song un omm’e ’ merd”. È in questo clima collaborativo che la Fiom con il suo responsabile auto Giorgio Airaudo presenta 60 ricorsi contro le esclusioni discriminatorie. Speriamo vivamente che non siano ammessi, così che degli estranei non possano disturbare le illustrazioni del nuovo contratto fatte dai capi reparto anche “con lavagna luminosa”. L’opuscoletto prevede uno schema sintetico in cui si prescrive di impostare il discorso “1) Per emozioni, 2) Per immagini, 3) Per vantaggi” e in cui si prescrive addirittura che “a nessun concetto possono essere dedicati più di 2 / 3 minuti”. Ecco perché questo video racconta molto di più di quanto l’azienda non creda: é un modello di relazioni, é un saggio maldestro di propaganda leccata. Da Marchionne a MarchiOrwell, nelle intenzioni della Fiat. Ma se lo vedi con gli amici e i popcorn c’é da riderci su. É una via di mezzo fra le ambizioni del Grande Fratello e la satira dei Soliti idioti.

 

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