Sono quattro secoli più giù
Monti ha aumentato il divario
Il sud sprofonda. I dati del Rapporto Svimez parlano di una disoccupazione al
25 per cento, di un milione di emigrati al Nord, di 400 anni per colmare il
divario tra le due Italie. De-industrializzazione, disoccupazione, calo dei
consumi, emigrazione. Il disastro di una terra sempre più povera.
GIORGIO SALVETTI
La
crisi e le politiche del governo Monti non fanno che approfondire il divario tra
nord e sud. Il rapporto Svimez presentato ieri dall'Associazione per lo sviluppo
dell'industria nel Mezzogiorno è impietoso e fotografa un paese sempre più
spezzato in due. Se l'Italia fatica ad andare avanti, il sud va indietro in
maniera impressionante. Tutti gli indicatori segnalano che il meridione si sta
avvitando in una spirale spaventosa: calano il Pil e la ricchezza pro capite,
chiudono le imprese e aumenta la disoccupazione, specialmente dei giovani e
delle donne, e di conseguenza cresce l'emigrazione.
Decrescita infelice
Nel decennio 2000-2010 il Pil pro capite nel sud è salito di un solo punto
percentuale rispetto a quello del settentrione (dal 56,1% al 57,7%). Con questo
ritmo ci vorrebbero 400 anni per colmare il divario. Significa che al sud la
ricchezza prodotta è la metà di quella del nord: 17.645 euro pro capite contro
30.262. La regione più ricca è la Val d'Aosta con 32.288 euro, il doppio della
ricchezza pro capite prodotta da un cittadino della Campania, la regione più
povera, con 16.603 euro. E le cose stanno peggiorando: il Pil del sud nel 2012
calerà ancora del 3,5% contro un calo del 2,2% nel centro-nord. Significa che il
Pil del sud farà un salto indietro di 15 anni tornando al livello del 1997. E
continuerà a calare anche nel 2013 (-0,2%) mentre il settentrione dovrebbe
registrare un modesto +0,3%.
Nel 2012 i consumi scendono del 3,8% (-2,4% al nord), e gli investimenti
diminuiscono del 13,5% (contro il -5,7 del nord). Un trend che non accenna a
invertire rotta. I consumi al sud, infatti, non crescono da 4 anni, il loro
livello è diminuito di 3 miliardi di euro dal 2000. Secondo i dati dello Svimez
le manovre del governo Monti hanno depresso ulteriormente il meridione, il Pil
tra il 2010 e il 2011 è sceso di 2,1 punti mentre al nord è calato dello 0,8%.
Un crollo dovuto per il 75% alla perdita di investimenti De-industrializzazione
Dal 2007 al 2011 si sono persi 147 mila posti di lavoro (-15,5%). Un calo tre
volte superiore a quello del nord (-5,5%). In crisi soprattutto il settore delle
costruzioni (-6,2% di occupati e -15,5% di investimenti). Ma anche l'industria
ha perso 32 mila addetti. Si torna alla campagna: crescono infatti di quasi 11
mila unità gli impiegati in agricoltura che invece al nord sono scesi di oltre
27 mila unità. Disoccupazione
Nel 2011 più di un abitante su 4 del Mezzogiorno è disoccupato, il tasso di
disoccupazione reale arriva al 25,6% contro il 10% del centro nord. Un aumento
vertiginoso visto che nel 2010 il tasso di disoccupazione era 13% contro il 6,3%
del nord. Gli irregolari sono un milione 200 mila ma, al contrario che al nord,
qui non sono solo secondi lavori o stranieri, ma sono per lo più residenti. In
agricoltura un lavoratore su 4 è irregolare, il 22% nelle costruzioni e il 14%
nell'industria. Condizione femminile
Due donne su tre è senza lavoro. Le donne con un contratto part time sono il
27,3%, tre punti in meno rispetto al centro-nord (29,9%), ma il 67,2% ha questo
tipo di contratto non per esigenze personali ma solo perché non riesce a trovare
un lavoro a tempo pieno.
Poveri giovani
Il tasso di occupazione nella fascia tra 25-34 anni al sud è appena il 47,6%,
ovvero meno di un giovane su due ha un lavoro, mentre al centro nord è al 75% (3
su 4). Le giovani donne impiegate sono addirittura la metà dei maschi (24%),
ovvero una su 4. Emigrazione
Tutto questo obbliga di nuovo i meridionali a cercare fortuna altrove. Dal 2000
al 2010, un milione e 350 mila persone hanno lasciato il sud e solo nel 2011 i
pendolari di lungo raggio sono aumentati del 4,3% (pari a 140 mila emigranti,
dei quali 39 mila laureati).
La classifica delle città con maggiore tasso di emigrazione vede in testa Napoli
(-115 mila emigrati), seguita da Palermo (-20 mila), Bari (-16 mila) e Catania
(-11 mila). In maggioranza si parte per Roma (+ 73 mila immigrati dal sud),
Milano (+57 mila), Bologna (+24 mila), Parma (+154 mila), Modena (+15.700),
Reggio Emilia (+13 mila) e Bergamo (+11 mila). Un emigrato su quattro cerca
fortuna in Lombardia. 57,7 QUESTIONE DI PIL
Il prodotto interno lordo del meridione è pari al 57,7% rispetto alla ricchezza
prodotta al nord. In 10 anni la differenza è diminuita di un solo punto
Lazio, in consiglio
regionale Ipad da 1.759 euro e monitor pagati il triplo
Dall'inventario allegato al consuntivo 2011 emergono acquisti a prezzi
esorbitanti. Le attrezzature tecnologiche risultano molto più care delle offerte
on line. Stampanti da 390 euro, ma nel preventivo chiesto da
ilfattoquotidiano.it alla stessa ditta fornitrice la spesa cala a 245
di Andrea Palladino
Chissà chi è il fortunato possessore dell’ iPad più caro di Roma , venduto al
prezzo record di 1759,20 euro lo scorso 30 maggio al Consiglio regionale del
Lazio , travolto dallo scandalo Fiorito che ha portato alle dimissioni del
presidente Renata Polverini. Un prezzo stratosferico, pari a più del doppio
rispetto al valore di listino . E devono avere caratteristiche sconosciute ai
comuni mortali anche i monitor da 19 pollici in uso nelle stanze di via della
Pisana: pagati 210 euro (modello Asus led), contro il prezzo medio di circa 80
euro che è possibile trovare con una semplice ricerca su Google . L’inventario
dei beni acquistati nel 2011 nel consiglio regionale del Lazio – che
ilfattoquotidiano.it ha potuto consultare – appare come la vetrina degli sprechi
e dei prezzi gonfiati . La lista – quasi un centinaio di pagine – è allegata al
conto consuntivo dell’esercizio finanziario 2011 e porta il timbro e la firma
(non leggibile) della segreteria generale e della presidenza del consiglio della
regione Lazio. Due uffici che hanno in mano la gestione dei conti del palazzo
della Pisana, responsabili della gestione dei ricchissimi budget utilizzati dai
consiglieri regionali. All’interno
dell’inventario – aggiornato al 24 aprile 2012 – ci sono tavoli , sedie ,
lampade , cassettiere e materiale informatico. Ci sono 32 “ quadri d’autore ”,
senza nessuna indicazione del nome dell’artista, pagati poco più di 900 euro
l’uno. Ci sono divani a due posti in ecopelle costati 1.160 euro l’uno, cinque
frigobar , televisori Lcd e una ventina di “ distruggi documenti ”. Ma sul
materiale informatico è possibile verificare con una certa precisione i prezzi.
Oltre all’iPad acquistato ad un prezzo record (la voce riportata nell’inventario
parla di un “computer portatile apple IPAD”) il consiglio regionale del Lazio ha
acquistato lo scorso anno un ampio stock di stampanti, quasi tutte di marca “
Oki “.
Anche in questo caso i prezzi sembrano decisamente più alti rispetto alle medie
di mercato: il modello “Oki B431DN” – una stampante laser monocromatica – è
stata pagata, secondo quanto riportato sull’inventario, 390 euro. Per verificare
il prezzo basta scrivere alla stessa società fornitrice del consiglio regionale
del Lazio per ottenere uno megasconto in sole due ore: “Le confermiamo un
extrabid sulla quantità, offrendole 30 stampanti modello Oki B431DN al prezzo di
245,39 euro l’una”. Circa 145 euro in meno per ogni pezzo . Prezzi altissimi
anche per gli scanner, acquistati dal consiglio regionale del Lazio nel luglio
del 2011: il modello “Hp scanjet 1000” è stato pagato 324 euro, mentre su un
qualsiasi negozio online costa oggi circa 200 euro. Un modello leggermente
superiore è stato pagato 475 euro – una decina i pezzi acquistati – mentre il
costo medio oggi si aggira attorno ai 270-300 euro.
25 settembre
Riforma Fornero, comma 23
ALESSANDRO ROBECCHI
«L'unico motivo valido per chiedere il congedo dal
fronte è la pazzia, ma chiunque chieda il congedo dal fronte non è pazzo». Se
applicate il famoso paradosso di Comma 22 (romanzo di Joseph Heller) ai precari
italiani, che succede? Succede che viene fuori il Comma 23. Ed ecco la storia
dei precari di Italia Lavoro Spa, società strumentale del Ministero del Lavoro,
oltre 700 uomini e donne «a progetto» che si occupano di «stabilizzare» altri
lavoratori. Altri, perché loro non li stabilizza nessuno. Ma all'improvviso, un
lampo di sole, una speranza, una luce in fondo al tunnel. Proprio così, la
riforma Fornero (che alla fin fine sarebbe il loro datore di lavoro) stabilisce
che i lavoratori a progetto in mono-committenza vanno considerati lavoratori
dipendenti. Grande festa presso gli stabilizzatori che sperano di essere
stabilizzati. Invece no. Intanto, per non saper né leggere né scrivere, da
Lavoro Italia dicono che lì non si possono fare assunzioni (grazie alla
Finanziaria del 2010). Cioè, la riforma Fornero non si può applicare ai
lavoratori precari della signora Fornero. E poi invece, studia e ristudia,
compulsa le carte, scava tra le pieghe della legge, ecco che sì, hurrà, la
riforma Fornero si può applicare anche a loro. Basta leggere attentamente il
Comma 23 dell'articolo 1, ultime righe. Là dove si dice che sì, va bene, 'sti
disgraziati di precari che lavorano come dipendenti andranno assunti, ma...
«Fatte salve le prestazioni di elevata professionalità». Wow! Ecco il trucco.
Ora si tratta solo di mettersi d'accordo su quali siano le prestazioni di
«elevata professionalità» con qualche sindacato compiacente, tipo Cisl e Uil,
per non fare nomi, tagliando fuori la Cgil. E poi dicono che Marchionne non ha
insegnato niente! Riassumendo: riforma Fornero, comma 23: «Per i precari che
lavorano come dipendenti essere assunti è un diritto, ma se sono 700 e
forniscono prestazioni di elevata professionalità quel diritto non c'è più». I
casi sono due. O la Fornero non applica la riforma Fornero, oppure la applica
molto bene, ed è una riforma col trucco. In ogni caso, i precari restano
precari. Non è per questo che abbiamo chiamato i tecnici?
La recessione peggiora nel
2013. Pil ancora in calo
FRANCESCO PICCIONI
Il problema, per la retorica montiana, è invece
il 2013. Lo zero tondo di «crescita» stimato nel Def si trasforma in un -0,2%.
Poca roba, direte voi. Vero, ma è una piccola caduta che si aggiunge alla
precedente
Bisogna
dare atto a Mario Monti di saper difendere le proprie immagini retoriche anche
quando i dati che lui stesso illustra le smentiscono. Del resto, non poteva
certo lasciar spegnere quella «luce in fondo al tunnel» che solo lui aveva
intravisto, esponendosi ai lazzi generali (memorabile il Marchionne del
«speriamo non sia la luce del treno che ci sta arrivando addosso»). Ieri, nella
conferenza stampa convocata per spiegare la Nota di aggiornamento al Def
(documento di economia e finanza) del 18 aprile scorso, i numeri non erano
quelli da grandi annunci ottimistici. Anzi.
Il governo ha infatti rivisto al ribasso le stime sull'andamento del prodotto
interno lordo (Pil) nel 2012: la previsione precedente parlava di un -2,4%, ora
scesa al -2,6. Ma l'anno non si è ancora concluso e l'ultimo trimestre - che sta
per iniziare - si presenta come più negativo dei precedenti. Fin qui nulla di
nuovo. L'unica buona notizia viene dalla scoperta di «fieno in cascina per
evitare un altro aumento dell'Iva».
Il problema, per la retorica montiana, è invece il 2013. Lo zero tondo di
«crescita» stimato nel Def si trasforma in un -0,2%. Poca roba, direte voi.
Vero, ma è una piccola caduta che si aggiunge alla precedente. Le statistiche
possono essere ingannevoli, per i profani. Ogni anno non si riparte da un
immaginario «punto zero», ma esattamente dal livello che ci ha lasciato in
eredità quello prima. Detta altrimenti, la recessione proseguirà per tutto il
2013. Ma Monti non accetta di autosmentirsi, così gioca sull'«effetto
trascinamento» - un andamento negativo si ripercuote sulle performance del
periodo successivo - per sostenere che «l'anno prossimo sarà un anno in ripresa,
cioè l'andamento sarà crescente». I suoi numeri dicono di no. Al massimo, si può
dire che la prima parte del 2013 proseguirà in discesa per poi leggermente
«risalire» nella seconda parte dell'anno; sempre restando, naturalmente, al di
sotto del già disperante 2012 che è andato molto peggio del non proprio
entusiasmante 2011.
Fa niente... Per lui la cosa importante era soltanto poter concludere «quindi la
luce della ripresa si vede». Le stime per il 2014 parlano in effetti di un
possibile +1,1%, seguito da un +1,3 nel 2015 grazie all'aumento della domanda
interna ed esterna «in virtù degli effetti positivi delle riforme strutturali»
da lui realizzate. Le date indicate sono lontane e saranno certamente precedute
da altre «revisioni delle stime». soprattutto, non si vede come possa
riprendersi la «domanda interna» se proprio lui, soltanto 24 ore prima, aveva
consigliato alle imprese impegnate nel rinnovo dei contratti di lavoro di non
concedere aumenti salariali. Quanto agli effetti depressivi, e non «sviluppisti»
delle riforme strutturali, era stato ancora Monti ad ammetterli, Rivendicandoli.
Molto dipende dal contesto globale (la «domanda esterna»). E anche qui le cose
non vanno affatto bene. Ieri è stata registrata per l'undicesimo mese
consecutivo una flessione dell'attività manifatturiera in Cina, causata dalla
crisi europea e dalla stagnazione Usa. Dove, sempre ieri, il superindice ha
avuto una piccola ma imprevista caduta, oltre a richieste di sussidio di
disoccupazione superiori alle attese.
E anche dall'Europa - pur «calmata» dalle promesse della Bce - non arrivano
buoni segnali. Il premier spagnolo Mariano Rajoy, secondo la stampa locale,
meditava una richiesta «berlusconiana» all'Europa: poter utilizzare per il
bilancio dello Stato il «resto» dei 100 miliardi messi a disposizione dalla Ue
per salvare le banche iberiche (impegnati al 60%). In questo modo, pensava, si
sarebbe sottratto a eventuali «condizionalità» supplementari per accedere agli
aiuti della troika (Bce, Fmi, Ue). La risposta è stata immediata e tranchant:
Jean-Claude Juncker, parlando non a caso alla tv tedesca, ha promesso che le
condizioni per dare aiuto a Madrid saranno «molto dure».
Probabile, dunque, che le prossime «revisioni delle stime» siano ancor più al
ribasso. Ma, quando avverrà, Monti sarà quasi fuori da palazzo Chigi e nessuno
si ricorderà più della «luce» che ancora ieri addolciva le sue ricette.
18 settembre
La Fiat di Marchionne sbarca
nei Balcani: entra in scena ‘Fabbrica Serbia’
Li vedi sfilare a fine turno sull’unico ponte che
collega la fabbrica alla città. Polo bianca, pantaloni grigi, facce serie.
Giovani in stragrande maggioranza, tanti ragazzi che dimostrano vent’anni o poco
più. Alle loro spalle, sulla parete dello stabilimento, incombe una scritta a
caratteri cubitali, visibile a centinaia di metri di distanza: “Mi smo ono sto
stvaramo”. Che vuol dire, tradotto dal serbo: “Noi siamo quello che facciamo”. E
loro fanno, eccome se fanno. Gli operai dello stabilimento Fiat di Kragujevac,
140 chilometri a sud di Belgrado, stanno in fabbrica dieci ore al giorno, per
quattro giorni la settimana. Quaranta ore in tutto, con altre otto di
straordinario, che da queste parti, almeno per adesso, è diventata una faticosa
consuetudine. Non basta. Perché il caporeparto, spesso e volentieri, chiede di
lavorare un giorno in più, giusto qualche ora per fissare un pezzo mal riuscito
o per dare una sistemata alle macchine. Un’extra pagato? Magari. Tutto gratis.
“Ma come si fa a dire di no al capo, che è anche un amico? ”, taglia corto un
operaio, uno dei pochi che accettano di scambiare qualche parola.
È vero, alla Fiat di Kragujevac non si usa dire di no. Perché in Serbia un
lavoratore su quattro proprio non riesce a trovare un posto. E allora, con la
disoccupazione al 25 per cento, l’inflazione al 10 e le casse dello Stato ormai
allo stremo, la scritta sui muri della fabbrica (Noi siamo quello che facciamo)
finisce per diventare un monito anche per chi sta fuori. Voi non siete niente
perché non fate niente. E chi sta dentro la fabbrica non vuole certo tornare
quello che era prima, una nullità, uno dei tanti che si arrangiano con il lavoro
nero. Meglio chinare la testa, allora. Ubbidire ai capi e tacere con gli
estranei.
Vanno così le cose a Kragujevac, Serbia profonda, la nuova frontiera della Fiat
predicata e realizzata da Sergio Marchionne. Stipendi da 300-350 euro al mese,
turni di lavoro massacranti, straordinari pagati solo in parte. Prendere o
lasciare. Ma un’alternativa, un’alternativa vera, nessuno sa dove trovarla. E
allora bisogna prendere, bisogna accettare l’offerta targata Italia. Anzi,
targata Fiat Automobiles Serbia, in sigla Fas, la società controllata al 66,6
per cento da Torino e per il resto dal governo di Belgrado. A Kragujevac
lavorano circa 2.000 dipendenti: 1.700 operai, il resto sono dirigenti e
amministrativi.
Lo stabilimento funziona a pieno regime solo da qualche settimana, ad oltre
quattro anni di distanza dall’accordo che nel 2008 consegnò (gratis) a
Marchionne fabbrica e terreni dove sorgeva la Zastava, storica azienda
motoristica che fin dal 1954, ai tempi della Jugoslavia di Tito, ha prodotto
auto su licenza della casa di Torino. Esce da qui la 500L, l’unico modello
davvero nuovo che i manager del Lingotto sono riusciti a mettere sul mercato nel
2012. “Almeno 30 mila vetture entro la fine dell’anno”, questi gli obiettivi di
produzione dichiarati dai vertici della Fiat per l’impianto di Kragujevac.
Obiettivi quantomeno ambiziosi. Anche perché le auto, dopo averle fabbricate
bisognerebbe pure venderle. E di questi tempi, un po’ in tutta Europa, le
aziende del settore fanno una gran fatica a convincere i potenziali clienti.
Ecco perché non si trova un analista disposto a scommettere sull’immediato
mirabolante successo della versione large della 500, una monovolume che dovrà
conquistare spazio in un segmento di mercato già presidiato da rivali come la
Citroën C3 Picasso, la Opel Meriva e la Hyundai ix20. Anche ai più ottimisti tra
i tifosi di Torino sembra improbabile che la 500L sia sufficiente, da sola, a
garantire la sopravvivenza del modernissimo stabilimento di Kragujevac. “Siamo
in grado di produrre tra 120 mila e 180 mila auto l’anno, tutto dipende dalla
domanda di mercato”, ha dichiarato il numero uno di Fiat Serbia, Antonio Cesare
Ferrara, in una recente intervista all’agenzia di stampa Tanjug. Già, tutto
dipende dal mercato. Anche Marchionne se la cavava così quando raccontava dei 20
miliardi di investimenti del fantomatico piano “Fabbrica Italia”. Poi s’è visto
com’è andata a finire. Parole al vento.
In Serbia, invece, fonti del governo di Belgrado e anche del gruppo italiano nei
mesi scorsi hanno accreditato l’ipotesi che Kragujevac possa arrivare a produrre
oltre 200 mila auto l’anno. Tante, tantissime, se si pensa che quest’anno i
quattro impianti italiani della Fiat non arriveranno, messi insieme, a 500 mila
vetture, con la storica fabbrica di Mirafiori (quasi) ferma a quota 50 mila,
forse anche meno. La domanda, a questo punto, è la seguente. Perché mai
Marchionne dovrebbe accontentarsi di far viaggiare a mezzo servizio uno
stabilimento nuovo di zecca, moderno ed efficiente a poche centinaia di
chilometri dalla frontiera italiana? E per di più con tanto di manodopera
qualificata e con un costo del lavoro pari a meno di un quinto rispetto a quello
degli operai del Belpaese?
Le possibili risposte sono due. La prima: la 500L si rivela un clamoroso
successo planetario, travolge le dirette concorrenti sul mercato e arriva a
sfiorare i livelli di vendita delle best seller del gruppo, Punto e Panda. Tutto
è possibile, certo, ma al momento un boom di queste dimensioni sembra davvero
improbabile. Ipotesi numero due: la 500 in versione large serve giusto per il
rodaggio della fabbrica serba. Il bello (si fa per dire) viene dopo. Quando
Marchionne, accantonato una volta per tutte il bluff di Fabbrica Italia,
annuncerà nuovi tagli negli stabilimenti italiani. Colpa del crollo delle
vendite, si dirà, che rende insostenibili i costi di produzione nella Penisola.
L’alternativa? Eccola: si chiama Kragujevac. Da queste parti la Fiat ha già
accumulato due anni di ritardo rispetto ai piani di partenza e non può più
permettersi battute a vuoto. Il governo serbo, da parte sua, ha fatto ponti
d’oro all’investitore straniero. Ha regalato terreni e stabilimento (peraltro
ridotto quasi in macerie dai bombardamenti della Nato del 1999), ha istituito
una zona franca, ha garantito esenzioni fiscali e contributive, ha investito
decine di milioni di euro nel progetto promettendo, in aggiunta, nuove strade e
ferrovie. Solo che nel frattempo Belgrado ha finito i soldi e pure il governo è
cambiato. Con le elezioni del maggio scorso ha perso il posto Boris Tadic, il
presidente che insieme al ministro dell’Economia Mladjan Dinkic, era stato il
principale sponsor di Marchionne. Adesso comandano Tomislav Nikolic (presidente)
e Ivica Dacic (primo ministro), due vecchie volpi della politica locale,
nazionalisti un tempo vicini a Slobodan Milosevic. Così a Belgrado non si parla
quasi più di entrare nella Ue e la stella polare del nuovo governo è Vladimir
Putin, che si è affrettato a promettere appoggio politico e, soprattutto, soldi
a palate.
Anche Marchionne è stato costretto a fare i conti con la coppia Nikolic-Dacic.
Il piatto piange. Il capo della Fiat reclamava 90 milioni cash a suo tempo
promessi da Belgrado.Nessuno scontro. L’accordo è arrivato a tempo di record. Il
governo si impegnato a pagare in due rate. La prima, 50 milioni, entro la fine
dell’anno. Il resto nel 2013. Marchionne, che ha incontrato Nikolic a Kragujevac
il 4 settembre scorso, a quanto pare si fida. O finge di farlo. Del resto il
capo del Lingotto sa bene che i serbi a questo punto non possono tirarsi
indietro. La perdita dei posti di lavoro promessi dalla Fiat sarebbe una
catastrofe politica per il nuovo esecutivo. Marchionne, grande pokerista, ancora
una volta può giocare le carte migliori. E a Belgrado non c’è neppure bisogno di
bluffare. Il piano “Fabbrica Serbia” ormai è realtà.
di Lorenzo Galeazzi e Vittorio Malagutti
Il Fatto Quotidiano
Elezioni Usa, il ‘fuorionda’
che affossa la campagna elettorale di Mitt Romney
Lo scorso 17 maggio, in Florida, nel corso di
una cena con alcuni finanziatori della sua sfida a Obama, il candidato
repubblicano si è lasciato andare a considerazioni lesive nei confronti di una
grossa fetta di cittadini statunitensi, descritti come profittatori e
fannulloni. Una telecamera nascosta ha ripreso tutto e il video è andato online:
per l'ex governatore del Massachusetts è un colpo in grado di compromettere la
corsa alla Casa Bianca
“Il 47 per cento degli americani è completamente dipendente dal governo
federale… Credono di aver diritto alla sanità, al cibo, alla casa, a qualsiasi
cosa”. Parola di Mitt Romney, candidato repubblicano alla presidenza. La frase è
stata pronunciata nel corso di una cena con alcuni ricchi miliardari e
finanziatori della campagna repubblicana, lo scorso 17 maggio, a Boca Raton,
Florida. Il video con la frase incriminata è finito nella redazione della
rivista progressista Mother Jones, che l’ha postato sul proprio sito. Quel video
potrebbe ora affondare definitivamente la campagna, già seriamente in
difficoltà, del candidato repubblicano.
Mother Jones non ha voluto rivelare l’autore del video, né come ne sia entrata
in possesso. Sembra comunque che la registrazione sia stata consegnata a David
Corn, giornalista di Mother Jones, attraverso l’intermediazione di James Carter,
nipote dell’ex-presidente democratico Jimmy Carter e oggi research assistant
presso la rivista. Nel video Romney è chiaramente ripreso da una telecamera
nascosta, sistemata probabilmente su una sedia a lato del podio, all’insaputa di
oratore e ospiti. Dalla cena, cui i finanziatori contribuivano con 50 mila
dollari, erano stati esclusi i giornalisti.
Proprio la certezza di non aver testimoni deve aver guidato il ragionamento del
candidato repubblicano. Secondo cui, quel 47 per cento di americani sulle spalle
del governo Usa “voterà sempre e comunque per Obama“. “Questa è gente che non
paga l’imposta sul reddito – continua Romney – e così il nostro messaggio volto
ad abbassare le tasse con loro non funziona”. La conclusione di Romney pare
naturale, date le premesse: “Il mio compito non è di preoccuparmi di questa
gente. Non li convincerò mai a farsi carico e a curare le loro vite. Quello che
devo fare è invece convincere il 5-10 per cento di indipendenti”.
Mai nel passato un candidato alla presidenza degli Stati Uniti era stato colto,
sia pure in privato, a parlare con un simile disprezzo di quasi la metà dei suoi
concittadini. Proprio per questo la campagna di Barack Obama ha immediatamente
colto nel ‘video rubato’ un’immensa opportunità. “E’ scioccante sentire Mr.
Romney descrivere metà degli americani in questo modo – ha spiegato Jim Messina,
manager della campagna democratica – E’ difficile servire da presidente di tutti
gli americani, quando hai sprezzantemente escluso metà della nazione”.
In una conferenza stampa precipitosamente convocata dopo le 10 di sera, Romney
si è giustificato dicendo che quei concetti, “sia pure esposti in modo non
elegante”, sono simili a quelli espressi in altre occasioni. “Ho parlato
liberamente, in risposta a una domanda”, ha detto Romney.
Il colpo sembra però difficile da riassorbire. Non è la prima volta che una
gaffe verbale mette nei guai il candidato repubblicano. Il problema, questa
volta, è l’enormità di quanto affermato e il fatto che le frasi di Romney
vengono rivelate in un momento già difficile, a soli 50 giorni dalle elezioni.
Qualche giorno fa l’ex-governatore del Massachusetts era finito nei guai,
criticato anche da molti compagni di partito, per aver attaccato Obama nel pieno
della crisi delle ambasciate, quando quattro cittadini americani venivano
barbaramente assassinati. Di più. Sono ormai sempre più le voci, dentro il
partito repubblicano, che mettono in discussione la conduzione della campagna
elettorale di Romney, che in queste settimane non ha praticamente approfondito
alcun dettaglio della sua proposta economica, mantenendosi molto vago sui modi
per tagliare le tasse e creare i promessi 12 milioni di posti di lavoro.
Proprio per venire incontro a queste critiche Stuart Stevens, il responsabile
della campagna di Romney, aveva annunciato nelle scorse ore un deciso
cambiamento di marcia. Romney, nelle intenzioni di Stevens, avrebbe dovuto
allargare il messaggio, “non solo al lavoro, ma al deficit, alla sanità, ai
valori, alla difesa nazionale”. Un modo per modellare il voto 2012 su una chiara
alternativa, pro o contro la gestione del Paese negli ultimi quattro anni. Il
video di Mother Jones spariglia però ancora una volta le carte del candidato
repubblicano, che pare a questo punto su una china decisamente sfavorevole.
L’ultimo sondaggio CBS/New York Times dà Obama al 49 per cento e Romney al 46
per cento. Sono però soprattutto le previsioni sui ‘battlegrund states‘ a
rivelarsi disastrose per l’ex-governatore. Obama sarebbe in vantaggio di 11
punti in Pennsylvania, di 7 punti in Ohio, e starebbe consolidando la sua presa
sulla Virginia. Il disprezzo fatto colare su milioni di persone, giudicate come
una massa di profittatori e fannulloni, rischia di portare Obama ancora più su e
Romney sempre più giù.
10 settembre
Previdenza, la Germania
lancia l’allarme sulle pensioni della classe media
Secondo i dati elaborati dal ministero del
Lavoro tedesco, a partire dal 2030 più di un terzo dei pensionati tedeschi
dovranno cavarsela con 688 euro lordi al mese, una cifra che, per ammissione
dello stesso ministro Ursula von der Leyen, costringerà il pensionato "a
chiedere il sussidio statale di povertà"
Guadagnate 2.500 euro al mese e vi sembra poco? Godetevela finché potete, perché
il futuro potrebbe davvero grigio. A fare i primi conti su come si trasformerà
l’importo una volta in pensione , ci hanno pensato i tedeschi che non la vedono
affatto bene. E se i ricchi piangono, o meglio, piangeranno, figuriamoci i
poveri italiani che ancora stanno cercando di orientarsi nei meandri del
labirinto della riforma previdenziale del ministro Fornero.
Ma partiamo con la Germania. Secondo i dati elaborati dal ministero del Lavoro
tedesco, a partire dal 2030 più di un terzo dei pensionati tedeschi dovranno
cavarsela con 688 euro lordi al mese, una cifra che, per ammissione dello stesso
ministro Ursula von der Leyen, costringerà il pensionato “a chiedere il sussidio
statale di povertà “. E a ritrovarsi in questa situazione non saranno coloro che
hanno svolto un part time o lavorato con discontinuità, ma lavoratori a tempo
pieno che per 35 anni hanno percepito un salario lordo di 2.500 euro. La colpa è
della riduzione della percentuale di calcolo della pensione rispetto allo
stipendio, che nel 2030 sarà del 43% del salario netto, contro l’attuale 51%,
che garantisce a parità di stipendio una pensione di 816 euro.
Questi dati sono stati rivelati dall’edizione domenicale del quotidiano Bild ,
che scrive anche che, in una lettera inviata ai giovani parlamentari della Cdu,
la von der Leyen sottolinea l’importanza di sottoscrivere una pensione
aggiuntiva privata finanziata totalmente dal lavoratore. Secondo l’Ufficio
statistico federale, più di un terzo degli occupati tedeschi a tempo pieno
guadagna meno di 2.500 euro lordi al mese. Già oggi in Germania, dove dal 1998 è
stato più volte riformato il sistema previdenziale, si va in pensione a 65 anni
(per poi salire progressivamente a 67) e il costo del sistema previdenziale è
pari al 10,5% del prodotto interno lordo, contro il 14,1% fatto registrare
dall’Italia.
Secondo i dati raccolti dall’istituto Hans-Böckler, infermieri, panettieri,
imbianchini, educatrici, commesse, camerieri, operatori socio-sanitari e cuochi
sono alcuni degli impieghi il cui stipendio lordo medio è inferiore ai 2.500
euro. Tenuto conto del trend demografico la von der Leyen non intende però
modificare l’attuale sistema pensionistico ma puntare sulle pensioni
integrative. “Molti lavoratori non si rendono conto che rischiano la povertà in
vecchiaia e che hanno assolutamente bisogno di una pensione integrativa per non
cascare nella trappola della povertà una volta andati in pensione “. I calcoli
del ministero del Lavoro di Berlino si basano però solo sul cosiddetto primo
pilastro pensionistico, ovvero la pensione erogata direttamente dallo Stato, a
cui lavoratori e imprese versano contributi mensili nell’ordine del 20%
equamente distribuiti (10% il dipendente e 10% l’azienda, in Italia per contro
il lavoratore versa il 10% e l’azienda il 32%).
Nel sistema previdenziale tedesco esistono però anche un secondo e un terzo
pilastro, rispettivamente i fondi aziendali e i fondi pensionistici volontari.
Visto che i fondi aziendali sono molto diffusi e danno un deciso contributo al
totale della pensione dei lavoratori, un confronto con l’Italia risulta
estremamente difficile. Nel nostro Paese infatti mancano i fondi aziendali,
mentre è stato da pochi anni avviato il conferimento del Tfr ai fondi pensioni.
Al di là delle differenze dei due sistemi pensionistici, poi, c’è anche il fatto
che in Italia oggi è impossibile calcolare in maniera realistica l’importo della
pensione che un lavoratore percepirà nel 2030.
“Posso solo dire che per avere una pensione dignitosa , il lavoratore dovrà aver
versato nel corso della sua vita lavorativa almeno 300-400 mila euro di
contributi , una cifra molto alta – spiega Temistocle Bussino , docente della
Bocconi in materia previdenziale – Una cifra del genere è difficilmente
raggiungibile per un lavoratore dipendente, per chi ha altri contratti di lavoro
è sostanzialmente impossibile“. Per Bussino anche in Italia, dopo il passaggio a
un sistema esclusivamente contributivo, è di fondamentale importanza una
previdenza complementare che vada a integrare quella erogata dallo Stato: “Allo
stato attuale delle cose, ma è molto probabile che cambino da qui al 2030, la
pensione è inferiore al 50% dell’ultimo stipendio percepito“.
Secondo l’esperto, infatti, potrebbero cambiare i coefficienti legati alla
speranza di vita, così come non sono da escludere nuovi interventi sulle
pensioni. “Non credo che i futuri governi interverranno sull’età a cui poter
andare in pensione, perché la riforma Fornero prevede già che nel 2050 si possa
andare in pensione a 70 anni, però non sono affatto da escludere interventi sui
coefficienti, in modo da ridurre l’enorme costo del sistema previdenziale“,
conclude Bussino. Insomma, anche i ricchi piangono ma i poveri di più.
Stangata d’autunno, le
famiglie si preparano a tirare ancora la cinghia
Federconsumatori e Adusbef: "La ripresa si presenta sotto il segno di una
ulteriore riduzione del potere di acquisto delle famiglie a causa di una
politica economica che non riesce a dare risposte positive alla crisi che
attraversa il Paese". Il carrello della spesa rincara ancora, spinto dal
petrolio record, mentre ci si indebita per mandare i figli a scuola
“La ripresa autunnale si presenta purtroppo sotto il segno di una ulteriore
riduzione del potere di acquisto delle famiglie a causa di una politica
economica che non riesce a dare risposte positive alla crisi che attraversa il
Paese, ma che anzi nella rincorsa spasmodica dell’equilibrio di bilancio fa
correre il serio rischio di un peggioramento delle condizioni delle famiglie con
ricadute inevitabili sull’intera economia”. A mettere il dito nella piaga della
stangata autunnale sono stati i presidenti di Federconsumatori e Adusbef,
Rosario Trefiletti ed Elio Lannutti.
“Già abbiamo calcolato in 2.333 euro annui quanto incideranno l’aumento di
prezzi, tariffe e tasse sulle famiglie. Quello che ci preoccupa ulteriormente è
che questo andamento non sembra avere sosta anche nella ripresa autunnale,
soprattutto sul versante dell’alimentazione, anche alla luce delle speculazioni
internazionali sulle derrate alimentari con aumenti del 7% pari a più 392 euro;
con l’incremento dei costi mantenimento della casa dove le bollette di gas,
luce, acqua e rifiuti, si attesteranno a 308 euro in più e per i costi
energetici tra carburanti e riscaldamento che registreranno aumenti vertiginosi
per un complessivo più 471 euro. Senza dimenticare gli indicibili aumenti delle
tassazioni, Imu e addizionali Irpef, ed il gravoso carico economico per mandare
un figlio a scuola”, continuano Trefiletti e Lannutti.
E il futuro per l’agroalimentare non promette meglio, visto il grido della
Coldiretti sugli effetti dell’aumento del prezzo dei carburanti sul settore. Che
secondo le stime dell’associazione degli agricoltori ha provocato un aggravio di
costi stimabile in quasi 150 milioni di euro nell’ultimo anno per il settore,
dove il gasolio ha sostituito quasi completamente la benzina nell’alimentazione
dei mezzi meccanici. Il prezzo record raggiunto dalla benzina, lamenta quindi la
Coldiretti, sta condizionando la competitività delle imprese e la ripresa
economica del Paese. Oltre all’aumento dei costi per il movimento delle macchine
come i trattori, in agricoltura il caro carburanti colpisce sopratutto le
attività agricole che utilizzano il carburante per l’irrigazione o il
riscaldamento delle serre (fiori, ortaggi e funghi), di locali come le stalle,
ma anche per l’essiccazione dei foraggi destinati all’alimentazione degli
animali fino alla piscicoltura. E con l’arrivo del freddo a rischio ci sono
soprattutto gli oltre trentamila ettari di coltivazioni specializzate in serra
che producono fiori e piante ornamentali ed ortaggi. A subire gli effetti,
l’intero sistema agroalimentare dove i costi della logistica incidono dal 30 al
35 per cento per frutta e verdura e assorbono in media un quarto del fatturato
delle imprese agroalimentari .
Passando dal carrello della spesa allo zaino per la scuola, la situazione non
migliora. Secondo l’Osservatorio mensile Findomestic sui beni durevoli, infatti,
il 28% delle famiglie italiane dovrà ricorrere ai propri risparmi o ad aiuti
esterni per pagare il materiale scolastico dei figli . Numeri alla mano, la
spesa preventivata per le famiglie che hanno un figlio è pari a 494 euro, che
diventano 642 nel caso i figli siano due o più. Se i ragazzi frequentano il
liceo, l’esborso può arrivare a 716 euro. Di conseguenza, il 47% dei genitori
acquisterà libri usati – con buona pace del fatturato delle case editrici – e il
57% lamenta un aumento della spesa per mandare i figli a scuola.
Non stupisce pertanto l’aumento, dal 12,9% di luglio all’attuale 17%, delle
famiglie intenzionate a risparmiare nel prossimo anno . Più in generale, sempre
secondo la ricerca Findomestic, il livello di soddisfazione per la situazione
complessiva del Paese è pari a 3,3 punti su una scala da 1 a 10. L’Osservatorio
riporta anche la situazione delle previsioni di acquisto a tre mesi relative a
una serie di prodotti. Per quanto riguarda gli elettrodomestici, si prospetta,
rispetto a luglio, un aumento delle vendite per quelli piccoli, un calo per
quelli bianchi e una sostanziale stabilità negli acquisti di Tv video e Hi-Fi.
Passa invece dal 17,9 al 19% la quota di intervistati intenzionata a comprare un
cellulare. Mentre per pc e accessori si prevede un calo dal 20,5% al 19,4%, ma
per tablet, foto e videocamere la situazione non dovrebbe cambiare di molto.
Tuttavia, per tutti questi prodotti, gli importi medi di spesa tendono a calare.
“Ecco perchè, è indispensabile, come rivendichiamo da tempo, una nuova fase di
politica economica, basata sul rilancio e lo sviluppo . Intanto, è necessario
avviare subito una duplice operazione: abbassare accise sulla benzina e
detassare le tredicesime. Questo darebbe finalmente una boccata di ossigeno alle
famiglie ed all’intera economia”., chiosano Lannutti e Trefiletti.
“Non siamo obbligati a
pagarvi”, così uccidono l’Antimafia
La Dia , voluta Falcone, dai 28 milioni del 2001 ha visto negli ultimi anni un
taglio progressivo del suo budget. Ora in un documento in possesso del Fatto,
per il triennio 2013-2015 il Governo stanzia 3,6 milioni di euro. E "l'indennità
di cravatta" di 250 euro degli agenti è a rischio
Per
la sentenza di morte bastano tre parole: “Spese non obbligatorie”. Nel silenzio
più assordante di quasi tutta la classe politica (anche di quella che fa
dell’antimafia una bandiera), l’uccisione del sogno di Giovanni Falcone ora è
davvero vicina. Dovendo obbedire alla spending review, il governo non ha saputo
fare di meglio che abbattere la scure dei tagli nuovamente sull’“indennità
accessoria al personale in servizio presso la Direzione investigativa antimafia
”: il cosiddetto Tea (trattamento economico aggiuntivo), o “indennità di
cravatta”, la misura voluta dall’allora direttore Gianni De Gennaro per
fidelizzare i suoi uomini, renderli orgogliosi di lavorare nella Dia e allo
stesso tempo evitare che svolgessero (come accade in tutti gli altri reparti) un
secondo lavoro. Per intenderci, parliamo di circa 250 euro al mese per un
ispettore con 30 anni di servizio .
Non una cifra con cui diventare ricchi, ma neanche una che passa inosservata sul
bilancio di una famiglia media. E invece già lo scorso anno, il 12 novembre, la
legge di stabilità aveva drasticamente ridotto il Tea: nonostante alcune
interrogazioni parlamentari, di centrodestra e centrosinistra, nonostante le
proteste – sotto Montecitorio – degli stessi poliziotti della Dia, si era
passati al 35 per cento di quella somma. Ora, però, arriva (in sordina) la
mazzata finale. Il Viminale dovrà risparmiare in tutto, per la spending review,
ben 131 milioni. Con un documento datato 30 agosto 2012, di cui il Fatto ha
potuto prendere visione, sotto la voce Si.Co.Ge. (il sistema informativo di
contabilità che fa capo alla Ragioneria dello Stato, quindi al ministero
dell’Economia) c’è il capitolo 2673 che riguarda il Dipartimento di Pubblica
sicurezza del Viminale. Si tratta di un documento di programmazione in cui
vengono stanziate le cifre – 2013/2015 – destinate, appunto, al Tea. Le cose che
saltano agli occhi sono due. La prima è la somma prevista per l’anno prossimo:
3.655.059 euro .
Ciò significa che, dai 5,7 milioni promessi fino a qualche mese fa, ne sono
stati decurtati già due. Oltre un terzo. Ed è gravissimo, in un momento in cui,
tra l’altro, i poliziotti sono spesso costretti ad anticipare le spese di
missione. Ma per fare questo, ed è la seconda cosa che balza agli occhi, si sono
dovuti riclassificare gli oneri, passati da “giuridicamente obbligatori” a “non
obbligatori”. “Vuol dire che il ministero ritiene quelli per il personale costi
di ‘funzionamento’, quindi soggetti a decurtazioni”, commenta amareggiato un
funzionario. Il tutto con un atto amministrativo passato a fine agosto.
Per avere un termine di paragone, basti pensare che nel 2001 erano iscritti a
bilancio della Dia 28 milioni di euro. Ci si credeva, era la creatura di
Giovanni Falcone, che per primo comprese l’importanza di avere un’unica
struttura ( polizia, carabinieri e finanza ) per affiancare i magistrati
impegnati nella lotta alla mafia. E invece oggi non solo il personale è
sotto-dimensionato ( mancano circa 200 unità ), si creano gruppi interforze ad
hoc per il controllo degli appalti (quando la Dia ha già, al suo interno, un
Osservatorio centrale sugli appalti), e si decurta il Tea, ma quello stesso Tea
non viene neanche pagato: sul Viminale pesa un ricorso presentato da 500 tra
ufficiali e sottufficiali che non si sono visti corrispondere, come del resto
tutti gli altri colleghi, l’indennità dal novembre 2011.
L’Avvocatura dello Stato ha scritto al Dipartimento chiedendo perchè non sono
stati erogati quei fondi. “I provvedimenti del ministero continuano a essere
irrazionali – commenta Enzo Marco Letizia, segretario dell’Associazione
nazionale funzionari di polizia – e puniscono quelle donne e uomini che più di
altri contribuiscono alla confisca dei beni delle mafie. C’è un accanimento
contro la Dia, si colpisce la motivazione degli appartenenti che sono stati
protagonisti integerrimi delle inchieste più scottanti degli ultimi anni. Ma lo
Stato sembra proprio averli abbandonati”.