28 settembre

Sono quattro secoli più giù Monti ha aumentato il divario

Il sud sprofonda. I dati del Rapporto Svimez parlano di una disoccupazione al 25 per cento, di un milione di emigrati al Nord, di 400 anni per colmare il divario tra le due Italie. De-industrializzazione, disoccupazione, calo dei consumi, emigrazione. Il disastro di una terra sempre più povera.

GIORGIO SALVETTI

La crisi e le politiche del governo Monti non fanno che approfondire il divario tra nord e sud. Il rapporto Svimez presentato ieri dall'Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno è impietoso e fotografa un paese sempre più spezzato in due. Se l'Italia fatica ad andare avanti, il sud va indietro in maniera impressionante. Tutti gli indicatori segnalano che il meridione si sta avvitando in una spirale spaventosa: calano il Pil e la ricchezza pro capite, chiudono le imprese e aumenta la disoccupazione, specialmente dei giovani e delle donne, e di conseguenza cresce l'emigrazione.

Decrescita infelice
Nel decennio 2000-2010 il Pil pro capite nel sud è salito di un solo punto percentuale rispetto a quello del settentrione (dal 56,1% al 57,7%). Con questo ritmo ci vorrebbero 400 anni per colmare il divario. Significa che al sud la ricchezza prodotta è la metà di quella del nord: 17.645 euro pro capite contro 30.262. La regione più ricca è la Val d'Aosta con 32.288 euro, il doppio della ricchezza pro capite prodotta da un cittadino della Campania, la regione più povera, con 16.603 euro. E le cose stanno peggiorando: il Pil del sud nel 2012 calerà ancora del 3,5% contro un calo del 2,2% nel centro-nord. Significa che il Pil del sud farà un salto indietro di 15 anni tornando al livello del 1997. E continuerà a calare anche nel 2013 (-0,2%) mentre il settentrione dovrebbe registrare un modesto +0,3%.
Nel 2012 i consumi scendono del 3,8% (-2,4% al nord), e gli investimenti diminuiscono del 13,5% (contro il -5,7 del nord). Un trend che non accenna a invertire rotta. I consumi al sud, infatti, non crescono da 4 anni, il loro livello è diminuito di 3 miliardi di euro dal 2000. Secondo i dati dello Svimez le manovre del governo Monti hanno depresso ulteriormente il meridione, il Pil tra il 2010 e il 2011 è sceso di 2,1 punti mentre al nord è calato dello 0,8%. Un crollo dovuto per il 75% alla perdita di investimenti
De-industrializzazione
Dal 2007 al 2011 si sono persi 147 mila posti di lavoro (-15,5%). Un calo tre volte superiore a quello del nord (-5,5%). In crisi soprattutto il settore delle costruzioni (-6,2% di occupati e -15,5% di investimenti). Ma anche l'industria ha perso 32 mila addetti. Si torna alla campagna: crescono infatti di quasi 11 mila unità gli impiegati in agricoltura che invece al nord sono scesi di oltre 27 mila unità.
Disoccupazione
Nel 2011 più di un abitante su 4 del Mezzogiorno è disoccupato, il tasso di disoccupazione reale arriva al 25,6% contro il 10% del centro nord. Un aumento vertiginoso visto che nel 2010 il tasso di disoccupazione era 13% contro il 6,3% del nord. Gli irregolari sono un milione 200 mila ma, al contrario che al nord, qui non sono solo secondi lavori o stranieri, ma sono per lo più residenti. In agricoltura un lavoratore su 4 è irregolare, il 22% nelle costruzioni e il 14% nell'industria.
Condizione femminile
Due donne su tre è senza lavoro. Le donne con un contratto part time sono il 27,3%, tre punti in meno rispetto al centro-nord (29,9%), ma il 67,2% ha questo tipo di contratto non per esigenze personali ma solo perché non riesce a trovare un lavoro a tempo pieno.
Poveri giovani
Il tasso di occupazione nella fascia tra 25-34 anni al sud è appena il 47,6%, ovvero meno di un giovane su due ha un lavoro, mentre al centro nord è al 75% (3 su 4). Le giovani donne impiegate sono addirittura la metà dei maschi (24%), ovvero una su 4.
Emigrazione
Tutto questo obbliga di nuovo i meridionali a cercare fortuna altrove. Dal 2000 al 2010, un milione e 350 mila persone hanno lasciato il sud e solo nel 2011 i pendolari di lungo raggio sono aumentati del 4,3% (pari a 140 mila emigranti, dei quali 39 mila laureati).
La classifica delle città con maggiore tasso di emigrazione vede in testa Napoli (-115 mila emigrati), seguita da Palermo (-20 mila), Bari (-16 mila) e Catania (-11 mila). In maggioranza si parte per Roma (+ 73 mila immigrati dal sud), Milano (+57 mila), Bologna (+24 mila), Parma (+154 mila), Modena (+15.700), Reggio Emilia (+13 mila) e Bergamo (+11 mila). Un emigrato su quattro cerca fortuna in Lombardia. 57,7
QUESTIONE DI PIL
Il prodotto interno lordo del meridione è pari al 57,7% rispetto alla ricchezza prodotta al nord. In 10 anni la differenza è diminuita di un solo punto

Lazio, in consiglio regionale Ipad da 1.759 euro e monitor pagati il triplo
 
Dall'inventario allegato al consuntivo 2011 emergono acquisti a prezzi esorbitanti. Le attrezzature tecnologiche risultano molto più care delle offerte on line. Stampanti da 390 euro, ma nel preventivo chiesto da ilfattoquotidiano.it alla stessa ditta fornitrice la spesa cala a 245

di Andrea Palladino

Chissà chi è il fortunato possessore dell’ iPad più caro di Roma , venduto al prezzo record di 1759,20 euro lo scorso 30 maggio al Consiglio regionale del Lazio , travolto dallo scandalo Fiorito che ha portato alle dimissioni del presidente Renata Polverini. Un prezzo stratosferico, pari a più del doppio rispetto al valore di listino . E devono avere caratteristiche sconosciute ai comuni mortali anche i monitor da 19 pollici in uso nelle stanze di via della Pisana: pagati 210 euro (modello Asus led), contro il prezzo medio di circa 80 euro che è possibile trovare con una semplice ricerca su Google . L’inventario dei beni acquistati nel 2011 nel consiglio regionale del Lazio – che ilfattoquotidiano.it ha potuto consultare – appare come la vetrina degli sprechi e dei prezzi gonfiati . La lista – quasi un centinaio di pagine – è allegata al conto consuntivo dell’esercizio finanziario 2011 e porta il timbro e la firma (non leggibile) della segreteria generale e della presidenza del consiglio della regione Lazio. Due uffici che hanno in mano la gestione dei conti del palazzo della Pisana, responsabili della gestione dei ricchissimi budget utilizzati dai consiglieri regionali.
All’interno dell’inventario – aggiornato al 24 aprile 2012 – ci sono tavoli , sedie , lampade , cassettiere e materiale informatico. Ci sono 32 “ quadri d’autore ”, senza nessuna indicazione del nome dell’artista, pagati poco più di 900 euro l’uno. Ci sono divani a due posti in ecopelle costati 1.160 euro l’uno, cinque frigobar , televisori Lcd e una ventina di “ distruggi documenti ”. Ma sul materiale informatico è possibile verificare con una certa precisione i prezzi. Oltre all’iPad acquistato ad un prezzo record (la voce riportata nell’inventario parla di un “computer portatile apple IPAD”) il consiglio regionale del Lazio ha acquistato lo scorso anno un ampio stock di stampanti, quasi tutte di marca “ Oki “.

Anche in questo caso i prezzi sembrano decisamente più alti rispetto alle medie di mercato: il modello “Oki B431DN” – una stampante laser monocromatica – è stata pagata, secondo quanto riportato sull’inventario, 390 euro. Per verificare il prezzo basta scrivere alla stessa società fornitrice del consiglio regionale del Lazio per ottenere uno megasconto in sole due ore: “Le confermiamo un extrabid sulla quantità, offrendole 30 stampanti modello Oki B431DN al prezzo di 245,39 euro l’una”. Circa 145 euro in meno per ogni pezzo . Prezzi altissimi anche per gli scanner, acquistati dal consiglio regionale del Lazio nel luglio del 2011: il modello “Hp scanjet 1000” è stato pagato 324 euro, mentre su un qualsiasi negozio online costa oggi circa 200 euro. Un modello leggermente superiore è stato pagato 475 euro – una decina i pezzi acquistati – mentre il costo medio oggi si aggira attorno ai 270-300 euro.

 

25 settembre
 

 

Riforma Fornero, comma 23

ALESSANDRO ROBECCHI

«L'unico motivo valido per chiedere il congedo dal fronte è la pazzia, ma chiunque chieda il congedo dal fronte non è pazzo». Se applicate il famoso paradosso di Comma 22 (romanzo di Joseph Heller) ai precari italiani, che succede? Succede che viene fuori il Comma 23. Ed ecco la storia dei precari di Italia Lavoro Spa, società strumentale del Ministero del Lavoro, oltre 700 uomini e donne «a progetto» che si occupano di «stabilizzare» altri lavoratori. Altri, perché loro non li stabilizza nessuno. Ma all'improvviso, un lampo di sole, una speranza, una luce in fondo al tunnel. Proprio così, la riforma Fornero (che alla fin fine sarebbe il loro datore di lavoro) stabilisce che i lavoratori a progetto in mono-committenza vanno considerati lavoratori dipendenti. Grande festa presso gli stabilizzatori che sperano di essere stabilizzati. Invece no. Intanto, per non saper né leggere né scrivere, da Lavoro Italia dicono che lì non si possono fare assunzioni (grazie alla Finanziaria del 2010). Cioè, la riforma Fornero non si può applicare ai lavoratori precari della signora Fornero. E poi invece, studia e ristudia, compulsa le carte, scava tra le pieghe della legge, ecco che sì, hurrà, la riforma Fornero si può applicare anche a loro. Basta leggere attentamente il Comma 23 dell'articolo 1, ultime righe. Là dove si dice che sì, va bene, 'sti disgraziati di precari che lavorano come dipendenti andranno assunti, ma... «Fatte salve le prestazioni di elevata professionalità». Wow! Ecco il trucco. Ora si tratta solo di mettersi d'accordo su quali siano le prestazioni di «elevata professionalità» con qualche sindacato compiacente, tipo Cisl e Uil, per non fare nomi, tagliando fuori la Cgil. E poi dicono che Marchionne non ha insegnato niente! Riassumendo: riforma Fornero, comma 23: «Per i precari che lavorano come dipendenti essere assunti è un diritto, ma se sono 700 e forniscono prestazioni di elevata professionalità quel diritto non c'è più». I casi sono due. O la Fornero non applica la riforma Fornero, oppure la applica molto bene, ed è una riforma col trucco. In ogni caso, i precari restano precari. Non è per questo che abbiamo chiamato i tecnici?

 

La recessione peggiora nel 2013. Pil ancora in calo

FRANCESCO PICCIONI

Il problema, per la retorica montiana, è invece il 2013. Lo zero tondo di «crescita» stimato nel Def si trasforma in un -0,2%. Poca roba, direte voi. Vero, ma è una piccola caduta che si aggiunge alla precedente

Bisogna dare atto a Mario Monti di saper difendere le proprie immagini retoriche anche quando i dati che lui stesso illustra le smentiscono. Del resto, non poteva certo lasciar spegnere quella «luce in fondo al tunnel» che solo lui aveva intravisto, esponendosi ai lazzi generali (memorabile il Marchionne del «speriamo non sia la luce del treno che ci sta arrivando addosso»). Ieri, nella conferenza stampa convocata per spiegare la Nota di aggiornamento al Def (documento di economia e finanza) del 18 aprile scorso, i numeri non erano quelli da grandi annunci ottimistici. Anzi.
Il governo ha infatti rivisto al ribasso le stime sull'andamento del prodotto interno lordo (Pil) nel 2012: la previsione precedente parlava di un -2,4%, ora scesa al -2,6. Ma l'anno non si è ancora concluso e l'ultimo trimestre - che sta per iniziare - si presenta come più negativo dei precedenti. Fin qui nulla di nuovo. L'unica buona notizia viene dalla scoperta di «fieno in cascina per evitare un altro aumento dell'Iva».
Il problema, per la retorica montiana, è invece il 2013. Lo zero tondo di «crescita» stimato nel Def si trasforma in un -0,2%. Poca roba, direte voi. Vero, ma è una piccola caduta che si aggiunge alla precedente. Le statistiche possono essere ingannevoli, per i profani. Ogni anno non si riparte da un immaginario «punto zero», ma esattamente dal livello che ci ha lasciato in eredità quello prima. Detta altrimenti, la recessione proseguirà per tutto il 2013. Ma Monti non accetta di autosmentirsi, così gioca sull'«effetto trascinamento» - un andamento negativo si ripercuote sulle performance del periodo successivo - per sostenere che «l'anno prossimo sarà un anno in ripresa, cioè l'andamento sarà crescente». I suoi numeri dicono di no. Al massimo, si può dire che la prima parte del 2013 proseguirà in discesa per poi leggermente «risalire» nella seconda parte dell'anno; sempre restando, naturalmente, al di sotto del già disperante 2012 che è andato molto peggio del non proprio entusiasmante 2011.
Fa niente... Per lui la cosa importante era soltanto poter concludere «quindi la luce della ripresa si vede». Le stime per il 2014 parlano in effetti di un possibile +1,1%, seguito da un +1,3 nel 2015 grazie all'aumento della domanda interna ed esterna «in virtù degli effetti positivi delle riforme strutturali» da lui realizzate. Le date indicate sono lontane e saranno certamente precedute da altre «revisioni delle stime». soprattutto, non si vede come possa riprendersi la «domanda interna» se proprio lui, soltanto 24 ore prima, aveva consigliato alle imprese impegnate nel rinnovo dei contratti di lavoro di non concedere aumenti salariali. Quanto agli effetti depressivi, e non «sviluppisti» delle riforme strutturali, era stato ancora Monti ad ammetterli, Rivendicandoli.
Molto dipende dal contesto globale (la «domanda esterna»). E anche qui le cose non vanno affatto bene. Ieri è stata registrata per l'undicesimo mese consecutivo una flessione dell'attività manifatturiera in Cina, causata dalla crisi europea e dalla stagnazione Usa. Dove, sempre ieri, il superindice ha avuto una piccola ma imprevista caduta, oltre a richieste di sussidio di disoccupazione superiori alle attese.
E anche dall'Europa - pur «calmata» dalle promesse della Bce - non arrivano buoni segnali. Il premier spagnolo Mariano Rajoy, secondo la stampa locale, meditava una richiesta «berlusconiana» all'Europa: poter utilizzare per il bilancio dello Stato il «resto» dei 100 miliardi messi a disposizione dalla Ue per salvare le banche iberiche (impegnati al 60%). In questo modo, pensava, si sarebbe sottratto a eventuali «condizionalità» supplementari per accedere agli aiuti della troika (Bce, Fmi, Ue). La risposta è stata immediata e tranchant: Jean-Claude Juncker, parlando non a caso alla tv tedesca, ha promesso che le condizioni per dare aiuto a Madrid saranno «molto dure».
Probabile, dunque, che le prossime «revisioni delle stime» siano ancor più al ribasso. Ma, quando avverrà, Monti sarà quasi fuori da palazzo Chigi e nessuno si ricorderà più della «luce» che ancora ieri addolciva le sue ricette.

 

18 settembre
 


 

La Fiat di Marchionne sbarca nei Balcani: entra in scena ‘Fabbrica Serbia’

Li vedi sfilare a fine turno sull’unico ponte che collega la fabbrica alla città. Polo bianca, pantaloni grigi, facce serie. Giovani in stragrande maggioranza, tanti ragazzi che dimostrano vent’anni o poco più. Alle loro spalle, sulla parete dello stabilimento, incombe una scritta a caratteri cubitali, visibile a centinaia di metri di distanza: “Mi smo ono sto stvaramo”. Che vuol dire, tradotto dal serbo: “Noi siamo quello che facciamo”. E loro fanno, eccome se fanno. Gli operai dello stabilimento Fiat di Kragujevac, 140 chilometri a sud di Belgrado, stanno in fabbrica dieci ore al giorno, per quattro giorni la settimana. Quaranta ore in tutto, con altre otto di straordinario, che da queste parti, almeno per adesso, è diventata una faticosa consuetudine. Non basta. Perché il caporeparto, spesso e volentieri, chiede di lavorare un giorno in più, giusto qualche ora per fissare un pezzo mal riuscito o per dare una sistemata alle macchine. Un’extra pagato? Magari. Tutto gratis. “Ma come si fa a dire di no al capo, che è anche un amico? ”, taglia corto un operaio, uno dei pochi che accettano di scambiare qualche parola.

È vero, alla Fiat di Kragujevac non si usa dire di no. Perché in Serbia un lavoratore su quattro proprio non riesce a trovare un posto. E allora, con la disoccupazione al 25 per cento, l’inflazione al 10 e le casse dello Stato ormai allo stremo, la scritta sui muri della fabbrica (Noi siamo quello che facciamo) finisce per diventare un monito anche per chi sta fuori. Voi non siete niente perché non fate niente. E chi sta dentro la fabbrica non vuole certo tornare quello che era prima, una nullità, uno dei tanti che si arrangiano con il lavoro nero. Meglio chinare la testa, allora. Ubbidire ai capi e tacere con gli estranei.

Vanno così le cose a Kragujevac, Serbia profonda, la nuova frontiera della Fiat predicata e realizzata da Sergio Marchionne. Stipendi da 300-350 euro al mese, turni di lavoro massacranti, straordinari pagati solo in parte. Prendere o lasciare. Ma un’alternativa, un’alternativa vera, nessuno sa dove trovarla. E allora bisogna prendere, bisogna accettare l’offerta targata Italia. Anzi, targata Fiat Automobiles Serbia, in sigla Fas, la società controllata al 66,6 per cento da Torino e per il resto dal governo di Belgrado. A Kragujevac lavorano circa 2.000 dipendenti: 1.700 operai, il resto sono dirigenti e amministrativi.

Lo stabilimento funziona a pieno regime solo da qualche settimana, ad oltre quattro anni di distanza dall’accordo che nel 2008 consegnò (gratis) a Marchionne fabbrica e terreni dove sorgeva la Zastava, storica azienda motoristica che fin dal 1954, ai tempi della Jugoslavia di Tito, ha prodotto auto su licenza della casa di Torino. Esce da qui la 500L, l’unico modello davvero nuovo che i manager del Lingotto sono riusciti a mettere sul mercato nel 2012. “Almeno 30 mila vetture entro la fine dell’anno”, questi gli obiettivi di produzione dichiarati dai vertici della Fiat per l’impianto di Kragujevac. Obiettivi quantomeno ambiziosi. Anche perché le auto, dopo averle fabbricate bisognerebbe pure venderle. E di questi tempi, un po’ in tutta Europa, le aziende del settore fanno una gran fatica a convincere i potenziali clienti.

Ecco perché non si trova un analista disposto a scommettere sull’immediato mirabolante successo della versione large della 500, una monovolume che dovrà conquistare spazio in un segmento di mercato già presidiato da rivali come la Citroën C3 Picasso, la Opel Meriva e la Hyundai ix20. Anche ai più ottimisti tra i tifosi di Torino sembra improbabile che la 500L sia sufficiente, da sola, a garantire la sopravvivenza del modernissimo stabilimento di Kragujevac. “Siamo in grado di produrre tra 120 mila e 180 mila auto l’anno, tutto dipende dalla domanda di mercato”, ha dichiarato il numero uno di Fiat Serbia, Antonio Cesare Ferrara, in una recente intervista all’agenzia di stampa Tanjug. Già, tutto dipende dal mercato. Anche Marchionne se la cavava così quando raccontava dei 20 miliardi di investimenti del fantomatico piano “Fabbrica Italia”. Poi s’è visto com’è andata a finire. Parole al vento.

In Serbia, invece, fonti del governo di Belgrado e anche del gruppo italiano nei mesi scorsi hanno accreditato l’ipotesi che Kragujevac possa arrivare a produrre oltre 200 mila auto l’anno. Tante, tantissime, se si pensa che quest’anno i quattro impianti italiani della Fiat non arriveranno, messi insieme, a 500 mila vetture, con la storica fabbrica di Mirafiori (quasi) ferma a quota 50 mila, forse anche meno. La domanda, a questo punto, è la seguente. Perché mai Marchionne dovrebbe accontentarsi di far viaggiare a mezzo servizio uno stabilimento nuovo di zecca, moderno ed efficiente a poche centinaia di chilometri dalla frontiera italiana? E per di più con tanto di manodopera qualificata e con un costo del lavoro pari a meno di un quinto rispetto a quello degli operai del Belpaese?

Le possibili risposte sono due. La prima: la 500L si rivela un clamoroso successo planetario, travolge le dirette concorrenti sul mercato e arriva a sfiorare i livelli di vendita delle best seller del gruppo, Punto e Panda. Tutto è possibile, certo, ma al momento un boom di queste dimensioni sembra davvero improbabile. Ipotesi numero due: la 500 in versione large serve giusto per il rodaggio della fabbrica serba. Il bello (si fa per dire) viene dopo. Quando Marchionne, accantonato una volta per tutte il bluff di Fabbrica Italia, annuncerà nuovi tagli negli stabilimenti italiani. Colpa del crollo delle vendite, si dirà, che rende insostenibili i costi di produzione nella Penisola.

L’alternativa? Eccola: si chiama Kragujevac. Da queste parti la Fiat ha già accumulato due anni di ritardo rispetto ai piani di partenza e non può più permettersi battute a vuoto. Il governo serbo, da parte sua, ha fatto ponti d’oro all’investitore straniero. Ha regalato terreni e stabilimento (peraltro ridotto quasi in macerie dai bombardamenti della Nato del 1999), ha istituito una zona franca, ha garantito esenzioni fiscali e contributive, ha investito decine di milioni di euro nel progetto promettendo, in aggiunta, nuove strade e ferrovie. Solo che nel frattempo Belgrado ha finito i soldi e pure il governo è cambiato. Con le elezioni del maggio scorso ha perso il posto Boris Tadic, il presidente che insieme al ministro dell’Economia Mladjan Dinkic, era stato il principale sponsor di Marchionne. Adesso comandano Tomislav Nikolic (presidente) e Ivica Dacic (primo ministro), due vecchie volpi della politica locale, nazionalisti un tempo vicini a Slobodan Milosevic. Così a Belgrado non si parla quasi più di entrare nella Ue e la stella polare del nuovo governo è Vladimir Putin, che si è affrettato a promettere appoggio politico e, soprattutto, soldi a palate.

Anche Marchionne è stato costretto a fare i conti con la coppia Nikolic-Dacic. Il piatto piange. Il capo della Fiat reclamava 90 milioni cash a suo tempo promessi da Belgrado.Nessuno scontro. L’accordo è arrivato a tempo di record. Il governo si impegnato a pagare in due rate. La prima, 50 milioni, entro la fine dell’anno. Il resto nel 2013. Marchionne, che ha incontrato Nikolic a Kragujevac il 4 settembre scorso, a quanto pare si fida. O finge di farlo. Del resto il capo del Lingotto sa bene che i serbi a questo punto non possono tirarsi indietro. La perdita dei posti di lavoro promessi dalla Fiat sarebbe una catastrofe politica per il nuovo esecutivo. Marchionne, grande pokerista, ancora una volta può giocare le carte migliori. E a Belgrado non c’è neppure bisogno di bluffare. Il piano “Fabbrica Serbia” ormai è realtà.

di Lorenzo Galeazzi e Vittorio Malagutti
Il Fatto Quotidiano

 

Elezioni Usa, il ‘fuorionda’ che affossa la campagna elettorale di Mitt Romney

Lo scorso 17 maggio, in Florida, nel corso di una cena con alcuni finanziatori della sua sfida a Obama, il candidato repubblicano si è lasciato andare a considerazioni lesive nei confronti di una grossa fetta di cittadini statunitensi, descritti come profittatori e fannulloni. Una telecamera nascosta ha ripreso tutto e il video è andato online: per l'ex governatore del Massachusetts è un colpo in grado di compromettere la corsa alla Casa Bianca

“Il 47 per cento degli americani è completamente dipendente dal governo federale… Credono di aver diritto alla sanità, al cibo, alla casa, a qualsiasi cosa”. Parola di Mitt Romney, candidato repubblicano alla presidenza. La frase è stata pronunciata nel corso di una cena con alcuni ricchi miliardari e finanziatori della campagna repubblicana, lo scorso 17 maggio, a Boca Raton, Florida. Il video con la frase incriminata è finito nella redazione della rivista progressista Mother Jones, che l’ha postato sul proprio sito. Quel video potrebbe ora affondare definitivamente la campagna, già seriamente in difficoltà, del candidato repubblicano.

Mother Jones non ha voluto rivelare l’autore del video, né come ne sia entrata in possesso. Sembra comunque che la registrazione sia stata consegnata a David Corn, giornalista di Mother Jones, attraverso l’intermediazione di James Carter, nipote dell’ex-presidente democratico Jimmy Carter e oggi research assistant presso la rivista. Nel video Romney è chiaramente ripreso da una telecamera nascosta, sistemata probabilmente su una sedia a lato del podio, all’insaputa di oratore e ospiti. Dalla cena, cui i finanziatori contribuivano con 50 mila dollari, erano stati esclusi i giornalisti.

Proprio la certezza di non aver testimoni deve aver guidato il ragionamento del candidato repubblicano. Secondo cui, quel 47 per cento di americani sulle spalle del governo Usa “voterà sempre e comunque per Obama“. “Questa è gente che non paga l’imposta sul reddito – continua Romney – e così il nostro messaggio volto ad abbassare le tasse con loro non funziona”. La conclusione di Romney pare naturale, date le premesse: “Il mio compito non è di preoccuparmi di questa gente. Non li convincerò mai a farsi carico e a curare le loro vite. Quello che devo fare è invece convincere il 5-10 per cento di indipendenti”.

Mai nel passato un candidato alla presidenza degli Stati Uniti era stato colto, sia pure in privato, a parlare con un simile disprezzo di quasi la metà dei suoi concittadini. Proprio per questo la campagna di Barack Obama ha immediatamente colto nel ‘video rubato’ un’immensa opportunità. “E’ scioccante sentire Mr. Romney descrivere metà degli americani in questo modo – ha spiegato Jim Messina, manager della campagna democratica – E’ difficile servire da presidente di tutti gli americani, quando hai sprezzantemente escluso metà della nazione”.

In una conferenza stampa precipitosamente convocata dopo le 10 di sera, Romney si è giustificato dicendo che quei concetti, “sia pure esposti in modo non elegante”, sono simili a quelli espressi in altre occasioni. “Ho parlato liberamente, in risposta a una domanda”, ha detto Romney.

Il colpo sembra però difficile da riassorbire. Non è la prima volta che una gaffe verbale mette nei guai il candidato repubblicano. Il problema, questa volta, è l’enormità di quanto affermato e il fatto che le frasi di Romney vengono rivelate in un momento già difficile, a soli 50 giorni dalle elezioni. Qualche giorno fa l’ex-governatore del Massachusetts era finito nei guai, criticato anche da molti compagni di partito, per aver attaccato Obama nel pieno della crisi delle ambasciate, quando quattro cittadini americani venivano barbaramente assassinati. Di più. Sono ormai sempre più le voci, dentro il partito repubblicano, che mettono in discussione la conduzione della campagna elettorale di Romney, che in queste settimane non ha praticamente approfondito alcun dettaglio della sua proposta economica, mantenendosi molto vago sui modi per tagliare le tasse e creare i promessi 12 milioni di posti di lavoro.

Proprio per venire incontro a queste critiche Stuart Stevens, il responsabile della campagna di Romney, aveva annunciato nelle scorse ore un deciso cambiamento di marcia. Romney, nelle intenzioni di Stevens, avrebbe dovuto allargare il messaggio, “non solo al lavoro, ma al deficit, alla sanità, ai valori, alla difesa nazionale”. Un modo per modellare il voto 2012 su una chiara alternativa, pro o contro la gestione del Paese negli ultimi quattro anni. Il video di Mother Jones spariglia però ancora una volta le carte del candidato repubblicano, che pare a questo punto su una china decisamente sfavorevole.

L’ultimo sondaggio CBS/New York Times dà Obama al 49 per cento e Romney al 46 per cento. Sono però soprattutto le previsioni sui ‘battlegrund states‘ a rivelarsi disastrose per l’ex-governatore. Obama sarebbe in vantaggio di 11 punti in Pennsylvania, di 7 punti in Ohio, e starebbe consolidando la sua presa sulla Virginia. Il disprezzo fatto colare su milioni di persone, giudicate come una massa di profittatori e fannulloni, rischia di portare Obama ancora più su e Romney sempre più giù.

 

10 settembre

Previdenza, la Germania lancia l’allarme sulle pensioni della classe media

Secondo i dati elaborati dal ministero del Lavoro tedesco, a partire dal 2030 più di un terzo dei pensionati tedeschi dovranno cavarsela con 688 euro lordi al mese, una cifra che, per ammissione dello stesso ministro Ursula von der Leyen, costringerà il pensionato "a chiedere il sussidio statale di povertà"

Guadagnate 2.500 euro al mese e vi sembra poco? Godetevela finché potete, perché il futuro potrebbe davvero grigio. A fare i primi conti su come si trasformerà l’importo una volta in pensione , ci hanno pensato i tedeschi che non la vedono affatto bene. E se i ricchi piangono, o meglio, piangeranno, figuriamoci i poveri italiani che ancora stanno cercando di orientarsi nei meandri del labirinto della riforma previdenziale del ministro Fornero.

Ma partiamo con la Germania. Secondo i dati elaborati dal ministero del Lavoro tedesco, a partire dal 2030 più di un terzo dei pensionati tedeschi dovranno cavarsela con 688 euro lordi al mese, una cifra che, per ammissione dello stesso ministro Ursula von der Leyen, costringerà il pensionato “a chiedere il sussidio statale di povertà “. E a ritrovarsi in questa situazione non saranno coloro che hanno svolto un part time o lavorato con discontinuità, ma lavoratori a tempo pieno che per 35 anni hanno percepito un salario lordo di 2.500 euro. La colpa è della riduzione della percentuale di calcolo della pensione rispetto allo stipendio, che nel 2030 sarà del 43% del salario netto, contro l’attuale 51%, che garantisce a parità di stipendio una pensione di 816 euro.

Questi dati sono stati rivelati dall’edizione domenicale del quotidiano Bild , che scrive anche che, in una lettera inviata ai giovani parlamentari della Cdu, la von der Leyen sottolinea l’importanza di sottoscrivere una pensione aggiuntiva privata finanziata totalmente dal lavoratore. Secondo l’Ufficio statistico federale, più di un terzo degli occupati tedeschi a tempo pieno guadagna meno di 2.500 euro lordi al mese. Già oggi in Germania, dove dal 1998 è stato più volte riformato il sistema previdenziale, si va in pensione a 65 anni (per poi salire progressivamente a 67) e il costo del sistema previdenziale è pari al 10,5% del prodotto interno lordo, contro il 14,1% fatto registrare dall’Italia.

Secondo i dati raccolti dall’istituto Hans-Böckler, infermieri, panettieri, imbianchini, educatrici, commesse, camerieri, operatori socio-sanitari e cuochi sono alcuni degli impieghi il cui stipendio lordo medio è inferiore ai 2.500 euro. Tenuto conto del trend demografico la von der Leyen non intende però modificare l’attuale sistema pensionistico ma puntare sulle pensioni integrative. “Molti lavoratori non si rendono conto che rischiano la povertà in vecchiaia e che hanno assolutamente bisogno di una pensione integrativa per non cascare nella trappola della povertà una volta andati in pensione “. I calcoli del ministero del Lavoro di Berlino si basano però solo sul cosiddetto primo pilastro pensionistico, ovvero la pensione erogata direttamente dallo Stato, a cui lavoratori e imprese versano contributi mensili nell’ordine del 20% equamente distribuiti (10% il dipendente e 10% l’azienda, in Italia per contro il lavoratore versa il 10% e l’azienda il 32%).

Nel sistema previdenziale tedesco esistono però anche un secondo e un terzo pilastro, rispettivamente i fondi aziendali e i fondi pensionistici volontari. Visto che i fondi aziendali sono molto diffusi e danno un deciso contributo al totale della pensione dei lavoratori, un confronto con l’Italia risulta estremamente difficile. Nel nostro Paese infatti mancano i fondi aziendali, mentre è stato da pochi anni avviato il conferimento del Tfr ai fondi pensioni. Al di là delle differenze dei due sistemi pensionistici, poi, c’è anche il fatto che in Italia oggi è impossibile calcolare in maniera realistica l’importo della pensione che un lavoratore percepirà nel 2030.

“Posso solo dire che per avere una pensione dignitosa , il lavoratore dovrà aver versato nel corso della sua vita lavorativa almeno 300-400 mila euro di contributi , una cifra molto alta – spiega Temistocle Bussino , docente della Bocconi in materia previdenziale – Una cifra del genere è difficilmente raggiungibile per un lavoratore dipendente, per chi ha altri contratti di lavoro è sostanzialmente impossibile“. Per Bussino anche in Italia, dopo il passaggio a un sistema esclusivamente contributivo, è di fondamentale importanza una previdenza complementare che vada a integrare quella erogata dallo Stato: “Allo stato attuale delle cose, ma è molto probabile che cambino da qui al 2030, la pensione è inferiore al 50% dell’ultimo stipendio percepito“.

Secondo l’esperto, infatti, potrebbero cambiare i coefficienti legati alla speranza di vita, così come non sono da escludere nuovi interventi sulle pensioni. “Non credo che i futuri governi interverranno sull’età a cui poter andare in pensione, perché la riforma Fornero prevede già che nel 2050 si possa andare in pensione a 70 anni, però non sono affatto da escludere interventi sui coefficienti, in modo da ridurre l’enorme costo del sistema previdenziale“, conclude Bussino. Insomma, anche i ricchi piangono ma i poveri di più.

 

Stangata d’autunno, le famiglie si preparano a tirare ancora la cinghia

Federconsumatori e Adusbef: "La ripresa si presenta sotto il segno di una ulteriore riduzione del potere di acquisto delle famiglie a causa di una politica economica che non riesce a dare risposte positive alla crisi che attraversa il Paese". Il carrello della spesa rincara ancora, spinto dal petrolio record, mentre ci si indebita per mandare i figli a scuola
“La ripresa autunnale si presenta purtroppo sotto il segno di una ulteriore riduzione del potere di acquisto delle famiglie a causa di una politica economica che non riesce a dare risposte positive alla crisi che attraversa il Paese, ma che anzi nella rincorsa spasmodica dell’equilibrio di bilancio fa correre il serio rischio di un peggioramento delle condizioni delle famiglie con ricadute inevitabili sull’intera economia”. A mettere il dito nella piaga della stangata autunnale sono stati i presidenti di Federconsumatori e Adusbef, Rosario Trefiletti ed Elio Lannutti.

“Già abbiamo calcolato in 2.333 euro annui quanto incideranno l’aumento di prezzi, tariffe e tasse sulle famiglie. Quello che ci preoccupa ulteriormente è che questo andamento non sembra avere sosta anche nella ripresa autunnale, soprattutto sul versante dell’alimentazione, anche alla luce delle speculazioni internazionali sulle derrate alimentari con aumenti del 7% pari a più 392 euro; con l’incremento dei costi mantenimento della casa dove le bollette di gas, luce, acqua e rifiuti, si attesteranno a 308 euro in più e per i costi energetici tra carburanti e riscaldamento che registreranno aumenti vertiginosi per un complessivo più 471 euro. Senza dimenticare gli indicibili aumenti delle tassazioni, Imu e addizionali Irpef, ed il gravoso carico economico per mandare un figlio a scuola”, continuano Trefiletti e Lannutti.

E il futuro per l’agroalimentare non promette meglio, visto il grido della Coldiretti sugli effetti dell’aumento del prezzo dei carburanti sul settore. Che secondo le stime dell’associazione degli agricoltori ha provocato un aggravio di costi stimabile in quasi 150 milioni di euro nell’ultimo anno per il settore, dove il gasolio ha sostituito quasi completamente la benzina nell’alimentazione dei mezzi meccanici. Il prezzo record raggiunto dalla benzina, lamenta quindi la Coldiretti, sta condizionando la competitività delle imprese e la ripresa economica del Paese. Oltre all’aumento dei costi per il movimento delle macchine come i trattori, in agricoltura il caro carburanti colpisce sopratutto le attività agricole che utilizzano il carburante per l’irrigazione o il riscaldamento delle serre (fiori, ortaggi e funghi), di locali come le stalle, ma anche per l’essiccazione dei foraggi destinati all’alimentazione degli animali fino alla piscicoltura. E con l’arrivo del freddo a rischio ci sono soprattutto gli oltre trentamila ettari di coltivazioni specializzate in serra che producono fiori e piante ornamentali ed ortaggi. A subire gli effetti, l’intero sistema agroalimentare dove i costi della logistica incidono dal 30 al 35 per cento per frutta e verdura e assorbono in media un quarto del fatturato delle imprese agroalimentari .

Passando dal carrello della spesa allo zaino per la scuola, la situazione non migliora. Secondo l’Osservatorio mensile Findomestic sui beni durevoli, infatti, il 28% delle famiglie italiane dovrà ricorrere ai propri risparmi o ad aiuti esterni per pagare il materiale scolastico dei figli . Numeri alla mano, la spesa preventivata per le famiglie che hanno un figlio è pari a 494 euro, che diventano 642 nel caso i figli siano due o più. Se i ragazzi frequentano il liceo, l’esborso può arrivare a 716 euro. Di conseguenza, il 47% dei genitori acquisterà libri usati – con buona pace del fatturato delle case editrici – e il 57% lamenta un aumento della spesa per mandare i figli a scuola.

Non stupisce pertanto l’aumento, dal 12,9% di luglio all’attuale 17%, delle famiglie intenzionate a risparmiare nel prossimo anno . Più in generale, sempre secondo la ricerca Findomestic, il livello di soddisfazione per la situazione complessiva del Paese è pari a 3,3 punti su una scala da 1 a 10. L’Osservatorio riporta anche la situazione delle previsioni di acquisto a tre mesi relative a una serie di prodotti. Per quanto riguarda gli elettrodomestici, si prospetta, rispetto a luglio, un aumento delle vendite per quelli piccoli, un calo per quelli bianchi e una sostanziale stabilità negli acquisti di Tv video e Hi-Fi. Passa invece dal 17,9 al 19% la quota di intervistati intenzionata a comprare un cellulare. Mentre per pc e accessori si prevede un calo dal 20,5% al 19,4%, ma per tablet, foto e videocamere la situazione non dovrebbe cambiare di molto. Tuttavia, per tutti questi prodotti, gli importi medi di spesa tendono a calare.

“Ecco perchè, è indispensabile, come rivendichiamo da tempo, una nuova fase di politica economica, basata sul rilancio e lo sviluppo . Intanto, è necessario avviare subito una duplice operazione: abbassare accise sulla benzina e detassare le tredicesime. Questo darebbe finalmente una boccata di ossigeno alle famiglie ed all’intera economia”., chiosano Lannutti e Trefiletti.

 

“Non siamo obbligati a pagarvi”, così uccidono l’Antimafia

La Dia , voluta Falcone, dai 28 milioni del 2001 ha visto negli ultimi anni un taglio progressivo del suo budget. Ora in un documento in possesso del Fatto, per il triennio 2013-2015 il Governo stanzia 3,6 milioni di euro. E "l'indennità di cravatta" di 250 euro degli agenti è a rischio

Per la sentenza di morte bastano tre parole: “Spese non obbligatorie”. Nel silenzio più assordante di quasi tutta la classe politica (anche di quella che fa dell’antimafia una bandiera), l’uccisione del sogno di Giovanni Falcone ora è davvero vicina. Dovendo obbedire alla spending review, il governo non ha saputo fare di meglio che abbattere la scure dei tagli nuovamente sull’“indennità accessoria al personale in servizio presso la Direzione investigativa antimafia ”: il cosiddetto Tea (trattamento economico aggiuntivo), o “indennità di cravatta”, la misura voluta dall’allora direttore Gianni De Gennaro per fidelizzare i suoi uomini, renderli orgogliosi di lavorare nella Dia e allo stesso tempo evitare che svolgessero (come accade in tutti gli altri reparti) un secondo lavoro. Per intenderci, parliamo di circa 250 euro al mese per un ispettore con 30 anni di servizio .

Non una cifra con cui diventare ricchi, ma neanche una che passa inosservata sul bilancio di una famiglia media. E invece già lo scorso anno, il 12 novembre, la legge di stabilità aveva drasticamente ridotto il Tea: nonostante alcune interrogazioni parlamentari, di centrodestra e centrosinistra, nonostante le proteste – sotto Montecitorio – degli stessi poliziotti della Dia, si era passati al 35 per cento di quella somma. Ora, però, arriva (in sordina) la mazzata finale. Il Viminale dovrà risparmiare in tutto, per la spending review, ben 131 milioni. Con un documento datato 30 agosto 2012, di cui il Fatto ha potuto prendere visione, sotto la voce Si.Co.Ge. (il sistema informativo di contabilità che fa capo alla Ragioneria dello Stato, quindi al ministero dell’Economia) c’è il capitolo 2673 che riguarda il Dipartimento di Pubblica sicurezza del Viminale. Si tratta di un documento di programmazione in cui vengono stanziate le cifre – 2013/2015 – destinate, appunto, al Tea. Le cose che saltano agli occhi sono due. La prima è la somma prevista per l’anno prossimo: 3.655.059 euro .

Ciò significa che, dai 5,7 milioni promessi fino a qualche mese fa, ne sono stati decurtati già due. Oltre un terzo. Ed è gravissimo, in un momento in cui, tra l’altro, i poliziotti sono spesso costretti ad anticipare le spese di missione. Ma per fare questo, ed è la seconda cosa che balza agli occhi, si sono dovuti riclassificare gli oneri, passati da “giuridicamente obbligatori” a “non obbligatori”. “Vuol dire che il ministero ritiene quelli per il personale costi di ‘funzionamento’, quindi soggetti a decurtazioni”, commenta amareggiato un funzionario. Il tutto con un atto amministrativo passato a fine agosto.

Per avere un termine di paragone, basti pensare che nel 2001 erano iscritti a bilancio della Dia 28 milioni di euro. Ci si credeva, era la creatura di Giovanni Falcone, che per primo comprese l’importanza di avere un’unica struttura ( polizia, carabinieri e finanza ) per affiancare i magistrati impegnati nella lotta alla mafia. E invece oggi non solo il personale è sotto-dimensionato ( mancano circa 200 unità ), si creano gruppi interforze ad hoc per il controllo degli appalti (quando la Dia ha già, al suo interno, un Osservatorio centrale sugli appalti), e si decurta il Tea, ma quello stesso Tea non viene neanche pagato: sul Viminale pesa un ricorso presentato da 500 tra ufficiali e sottufficiali che non si sono visti corrispondere, come del resto tutti gli altri colleghi, l’indennità dal novembre 2011.

L’Avvocatura dello Stato ha scritto al Dipartimento chiedendo perchè non sono stati erogati quei fondi. “I provvedimenti del ministero continuano a essere irrazionali – commenta Enzo Marco Letizia, segretario dell’Associazione nazionale funzionari di polizia – e puniscono quelle donne e uomini che più di altri contribuiscono alla confisca dei beni delle mafie. C’è un accanimento contro la Dia, si colpisce la motivazione degli appartenenti che sono stati protagonisti integerrimi delle inchieste più scottanti degli ultimi anni. Ma lo Stato sembra proprio averli abbandonati”.

 

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