27 agosto

PRECARI In affitto dall'agenzia «Interim 25», rispondono per la Tim. Ma dopo due mesi non hanno ancora visto un euro
 
Call center Atesia, adesso i problemi toccano agli interinali

 

Antonio Sciotto
ROMA
 
Vuoi o non vuoi ad Atesia, il call center più grande d'Italia, c'è sempre qualche problema. Dopo l'abbondante stabilizzazione dei precari storici - con luci e ombre, nel corso del 2007 - adesso tocca agli interinali. Presi in affitto attraverso le agenzie Metis, Adecco e Interim 25, ad alcuni capita di lavorare senza venire retribuiti. In particolare, ci occupiamo di quelli della Interim 25, società che ha sede legale a Bari, ma che quest'anno aveva trovato una novantina di persone per l'emergenza estiva attraverso la filiale di Roma. Tutti lavoratori da impiegare al 119 della Tim. I novanta hanno fatto un corso di 15 giorni che avrebbe dovuto essere retribuito intorno ai 300 euro, con relativo attestato finale. Circa la metà di loro ha passato la selezione di fine corso e ha regolarmente preso servizio dal 7 luglio, per un contratto di due mesi: e il primo stipendio sarebbe dovuto arrivare già a inizio agosto. Ma siamo costretti a tutti questi condizionali perché dei soldi non s'è vista traccia e, come se non bastasse, la Interim 25 di Roma dopo alcune telefonate di protesta ha deciso di non rispondere più, lasciando un numero affisso in bacheca: per info contatta la sede di Bari. Noi ieri pomeriggio abbiamo provato ripetutamente a chiamare, sia Roma che Bari, ma non ci ha risposto nessuno.
«Ormai sono quasi due mesi che lavoro ma non ho ricevuto un euro - ci spiega un operatore, che per motivi comprensibili lasciamo nell'anonimato - Siamo esasperati, dobbiamo pagare affitti, bollette, abbiamo problemi persino con la spesa. Abbiamo chiamato decine di volte la Interim 25 ma ormai alla sede di Roma non ci rispondono più. A Bari abbiamo trovato qualcuno che ci ha ascoltato, ma non ci ha dato risposte esaurienti». E così, quasi per un crudele contrappasso, gli addetti al call center hanno dovuto attaccarsi a un altro call center per ottenere il loro salario. Almeno 800 euro per il solo luglio, senza contare le maggiorazioni per domeniche e notti; e gli straordinari: per alcuni sono più di 20 ore. Un po' il fatto che i dipendenti di Atesia sono in ferie, un po' le campagne estive, il lavoro non manca. E anche i 300 euro del corso: per ora nisba. E dire che si è svolto con tutti i crismi nella sede di Atesia, con una formatrice della Tim. Alla faccia, è tutto gratis?
Per il momento, pare di sì, anche se gli operatori annunciano vertenze a raffica: «Noi non ci arrendiamo, non è giusto lavorare e non essere pagati nelle scadenze giuste. E' una questione di correttezza. E poi con cosa viviamo?». Si tratta di contratti da 30 ore settimanali, quasi un full time, e dunque praticamente l'unica fonte di sostentamento per la gran parte dei lavoratori.
A 30 ore settimanali, comunque, arriveranno gradualmente anche i dipendenti di Atesia, grazie a un accordo di giugno: chi ne farà richiesta, potrà passare da 20 (o 25) a 30 ore. Il tutto in 3 anni, i primi 450 operatori già in settembre. Ma nonostante questo, Atesia continua a pescare nelle agenzie interinali. Per tutti, comunque, va ricordato l'appuntamento del prossimo 19 settembre: a Roma si terrà la prima manifestazione nazionale dei call center.

 

Gran Bazar Mussolini
 
di Ilvo Diamanti

Domenica scorsa, tardo pomeriggio, sono passato per Rimini con la famiglia. Il tempo di una vasca lungo le vie parallele al lungomare, in attesa di recarci a cena da amici. Ci siamo, così, tuffati in mezzo ai turisti che, di ritorno dalla spiaggia, sciamavano, in massa, costeggiando un'infinita teoria di botteghe, bar, ristoranti, pizzerie, minimarket, fast-food, gelaterie, pasticcerie, piadinerie. Come in ogni città turistica che si rispetti. E Rimini non è "una", ma "la" città turistica del lungomare di Romagna. Una città speciale, capace di non perdere la propria identità.

Perché Rimini ha un centro storico molto bello e ben tenuto. Una società (e una classe dirigente) locale ancora solida e resistente. Una storia e una tradizione artistica e culturale di tutto rispetto. Come rammentano le vie del lungomare che echeggiano i film di Federico Fellini. Rimini è una città "memorabile", in senso letterale: degna di memoria. Oltre l'amarcord: anche per la spiaggia, il lungomare e le vie dedicate allo struscio dei turisti. Il vecchio e il nuovo, insieme.

Questa breve visita occasionale mi ha, tuttavia, riservato una scoperta inattesa. L'immagine del duce, Benito Mussolini, disseminata lungo il passeggio commerciale. Esposta in numerosi negozi (davvero tanti). Mussolini: in vendita, come un prodotto di consumo popolare. Tra una piadina e la coca-cola, ecco il busto del duce, in diversi formati, ma soprattutto la faccia del duce: su magliette, camicie, poster, bandierine, adesivi, quadretti già incorniciati, bicchieri e sottobicchieri, piatti, penne, sulle etichette di bottiglie di vino, dal contenuto improbabile.

Ma l'iconografia del Ventennio non si riduce alla sola immagine del duce - proposto perlopiù in primo piano, di profilo, la mascella volitiva e l'elmo bellicoso. Su t-shirt, poster, stoviglie e bottiglie incontriamo massime del duce e slogan del regime. Gli stessi che resistono - talora sbiaditi dal tempo, talora rinfrescati - ancora in alcuni edifici del tempo. Tipo: "è l'aratro che traccia il solco ma è la spada che lo difende"; oppure il noto "molti nemici, molto onore" ... Inoltre, molte immagini del führer Adolf Hitler. Spesso accostato al Duce. Lungo il passeggio, in bella evidenza, un grande mobile- cantina, decine carico di bottiglie allineate. Il sangiovese di Benito alternato al nero di Adolf. Tutto ciò esposto alla luce del sole (domenica sera era ancora forte e caldo). Senza pudore e senza problemi. Perché, evidentemente, un problema di pudore non esiste, in questo caso. Prodotti come gli altri.

 
Se dedico una Bussola a questo argomento, tuttavia, non è per manifestare indignazione. Anche se lo spettacolo mi ha dato fastidio. (Ma se infastidisce solo me, che problema c'è?). Tanto meno per sollecitare provvedimenti restrittivi e proibizionisti. Probabilmente non servono, sicuramente non mi piacciono. Neppure per sollevare polemiche sul revisionismo dilagante, sul rischio di un "nuovo fascismo" o sul silenzio della memoria democratica. Questioni troppo impegnative per inseguirne le tracce a partire da cavatappi, magliette, bottiglie e sottobicchieri. (E poi non scrivo mica su Famiglia Cristiana...).

E' probabile, peraltro, che si tratti di un fenomeno più esteso. A Rimini (città di centrosinistra) appare più evidente perché luogo ad alta intensità turistica. Non lontano dalla terra del duce. I riminesi, che evitano le vie più affollate dai turisti, forse, non ci hanno fatto caso.

Comunque, nel passato, in alcuni mercati si incontravano (e ho incontrato) stand specializzati, che esponevano bottiglie fasciste, affiancate ad altre soviet-comuniste. Mussolini e Stalin vicini, in nome del vino. Poi, Stalin è scomparso. Mussolini, invece, resiste. E oggi fa concorrenza a Che Guevara (da tempo icona consumista, consumata negli accendini usa e getta e sulle copertine dei diari scolastici).

Nessuno scandalo. Anzi. Proprio questo mi ha colpito maggiormente: la "normalità" (neppure la normalizzazione) del fenomeno, ormai sospeso fra ideologia popolare e senso comune, fra politica e costume. La "banalizzazione del fascismo", commercializzato come un prodotto qualsiasi. Un consumo nazionalpopolare (nazipop?). L'immagine di Benito impressa su una t-shirt - accanto a quella di James Dean, George Clooney, Ronaldinho e Homer Simpson. Un gadget. Fra una piadina, una crescia, una birra e una coca-cola. Una porchetta e un sangiovese. Nell'aria echeggia la voce di De André ... "E un errore ho commesso - dice - un errore di saggezza abortire il figlio del bagnino e poi guardarlo con dolcezza. Ma voi che siete a Rimini tra i gelati e le bandiere non fate più scommesse sulla figlia del droghiere".
Coro: "Ri-mi-ni".
 
Algeria - 26.8.2008
Riconciliazione da cimitero
Un giornalista algerino commenta i drammatici attentati di questi giorni
Pubblichiamo un editoriale di Mustapha Hammouche, pubblicato il 22 agosto scorso sul quotidiano algerino Liberté, che commenta la spirale di violenza che ha riportato sulle prime pagine dei giornali l'Algeria e il conflitto tra i miliziani islamisti e le forze dell'ordine algerine. Hammouche, tacendo per la verità dei massacri dei militari, critica la strategia della Riconciliazione nazionale varata dal presidente Bouteflika per porre fine alla guerra civile che, negli anni Novanta, ha insanguinato il Paese. Il dibattito in Algeria continua: trattare con i fondamentalisti, magari tentando di coinvolgerli nel processo politico, o il pugno di ferro? Mentre si discute, in Algeria si continua a morire.
 
di Mustapha Hammouche*
 
L’Algeria ha subito il 21 agosto scorso il più micidiale degli attentati che abbia mai conosciuto in quindici anni di terrorismo, con l’eccezione dell’attentato del Boulevard Amirouche ad Algeri, nel gennaio 1993. In altri termini, se si escludono i massacri collettivi del Gia - Takfir, l’attentato di Issers è stato il più micidiale da più di trenta anni.

attentato in algeriaNaturalmente il governo non vedrà alcun legame tra il rilancio dell’azione terrorista e la politica che ha permesso al terrorismo di recuperare i suoi mezzi tecnici e finanziari, di rinforzare i suoi effettivi e che ha permesso ai suoi padrini islamisti di rifarsi una verginità politica. Eppure la relazione di causa ed effetto è di evidenza eclatante: privilegiando la pratica dell’accordo a quella dell’autodifesa, lo Stato ha sostituito un’atmosfera di permissività allo slancio di resistenza. Il terrorismo islamista, come si vede, non si è fatto pregare per sfruttare l’evoluzione politica e psicologica in suo favore.
Nella società, beneficia dell’arretramento dello Stato che ha lasciato che la vigilanza integralista violenta si sostituisse alle campagne di ordine pubblico.
Alla vigilia del massacro di Issers, mentre si succedevano al ritmo serrato di una campagna di guerra gli attacchi contro i soldati dell’Anp (Esercito nazionale popolare), gli agenti della Sureté nationale e della Gendarmerie nazionale, abbiamo avuto l’occasione di apprezzare un dibattito “civile” tra l’ex capo del Gia e l’ex ministro della Difesa (secondo l’ordine degli interventi).
All’origine della polemica una scena surreale svoltasi appena qualche mese fa su di uno sfondo inconsueto, il palco ufficiale del più grande cimitero del paese: un capo terrorista definitivamente assolto da tutti i suoi crimini con legge referendaria ed un generale che faceva parte dello Stato si sono parlati sulla tomba fresca di un generale che in vita era stato responsabile del controspionaggio.

Il terrorista immunizzato e ricompensato, di un analfabetismo notorio almeno quanto il suo talento criminale, trova da qualche giorno spazio nella stampa per diffondere le sue “rivelazioni” e le sue “riflessioni”. Il generale Nezzar risponde, a sua volta, facendo delle precisazioni aneddotiche la cui futilità è pari solo alla gravità del fatto che sia possibile un tale téte-à-téte.
La discussione su chi, se l’emiro o il generale, debba perdonare, costituisce l’espressione di una rinuncia disfattista della Repubblica davanti all’aggressione arrogante dell’iniziativa terrorista.
Il Presidente della Repubblica ha recentemente ammesso il fallimento della sua politica economica sulla semplice constatazione che ha permesso l’evasione legale di qualche miliardo di troppo. La perdita, oramai quotidiana, di decine di uomini, donne e bambini, non merita che ci si fermi un attimo con una pratica politica di sicurezza che, col pretesto di calmare gli animi terroristi, non fa che insanguinare sempre il paese?
Dopo il picco della metà degli anni 1990, l’attività terrorista non è mai stata così intraprendente come in questi due ultimi anni, come in una specie di un ritorno ciclico. Rifiutandosi di combattere una guerra fino alla sua conclusione, l’Algeria si è probabilmente condannata a doverla rifare. O a perderla.

Cessate il fuoco
Il bollettino settimanale delle guerre e dei conflitti in corso n. 32 - 2008 dal 14/08/2008 al 20/08/2008
Nell'ultima settimana, in tutti i Paesi in guerra, sono morte almeno 906 persone
 
Iraq
Nell'ultima settimana sono morte almeno 149 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 8.654
 
Sri Lanka
Nell'ultima settimana sono morte almeno 154 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 6.237

Afghanistan
Nell'ultima settimana sono morte almeno 165 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 3.898
 
Pakistan talebani
Nell'ultima settimana sono morte almeno 250 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 2.270
Somalia
Nell'ultima settimana sono morte almeno 18 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 925
Sudan
Nell'ultima settimana sono morte almeno 51 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 886

Nord Caucaso
Nell'ultima settimana sono morte almeno 2 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 373

Ciad
Nell'ultima settimana sono morte almeno 17 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 558

Turchia
Nell'ultima settimana sono morte almeno 3 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 457

India Nordest
Nell'ultima settimana sono morte almeno 5 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 457

India Naxaliti
Nell'ultima settimana sono morte almeno 2 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 389

 
India Kashmir
Nell'ultima settimana sono morte almeno persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 345
 
Thailandia del sud
Nell'ultima settimana sono morte almeno 3 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 258

Filippine Npa
Nell'ultima settimana sono morte almeno 4 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 171

 
Nigeria
Nell'ultima settimana sono morte almeno 15 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 175 
 
Pakistan Balucistan
Nell'ultima settimana sono morte almeno 17 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 174

Filippine Milf
Nell'ultima settimana sono morte almeno 37 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 160

 
Uganda
Nell'ultima settimana sono morte almeno 4 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 114

 
Burundi
Nell'ultima settimana è morta almeno 1 persona
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 105
 
Colombia
Nell'ultima settimana è morta almeno 1 persona
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 168

 

ImpantaNato
L'Occidente sta perdendo la guerra in Afghanistan
"Gli ultimi attacchi dimostrano che la strategia occidentale in Afghanistan sta fallendo, e sta mostrando la reale forza dei talebani, che ormai controllano gran parte del Paese e sono in grado di muovere rapidamente verso la capitale Kabul". All’indomani delle micidiali offensive talebane contro i parà francesi alle porte di Kabul (Surobi) e contro la principale base Usa sul confine pachistano (Khost), il think tank internazionale Senlis Council riconosce un'evidenza ormai innegabile: la Nato e gli Stati Uniti stanno perdendo la guerra in Afghanistan.    
E non potrebbe essere diversamente, visto che tutti i fattori in gioco sono in questo momento a vantaggio della guerriglia afgana.
 
Attacchi talebani del 18-19 agostoLa debolezza degli alleati. Gli Stati Uniti, con Bush ormai a fine corsa e le elezioni in vista, non hanno la forza politica di dare una svolta militare al conflitto, disimpegnandosi decisamente dal fronte iracheno per impegnarsi su quello afgano. Gli alleati della Nato, tranne la Francia di Sarkozy, hanno chiaramente dimostrato di non avere alcuna intenzione di farsi carico di questa guerra: anche Gran Bretagna e Canada, i due paesi che finora hanno dato di più sul fronte afgano, mostrano segni di stanchezza. Il risultato, sul terreno, è la sempre più evidente incapacità dei 50mila soldati occidentali di far fronte alla situazione. Senza nemmeno poter contare sull'aiuto dell'esercito afgano, dimostratosi del tutto incapace di fornire quel contributo alla guerra che il Pentagono aveva messo, ingenuamente, in conto.
 
Dalle Aree Tribali verso KabulLa retrovia pachistana. A peggiorare drasticamente la situazione, a tutto vantaggio dei talebani, è intervenuta negli ultimi mesi la crisi politica pachistana. L'uscita di scena del generale Musharraf, che negli anni passati aveva tenuto militarmente impegnati i talebani rifugiati nelle Aree Tribali pachistane, ha permesso a questi ultimi di usufruire di una tregua che ha consentito loro di riorganizzarsi e di concentrarsi totalmente sul fronte afgano, portando la guerra fino alle porte di Kabul. Adesso è nella retrovia pachistana che gli Stati Uniti si giocano l’esito della guerra in Afghanistan, spingendo l’esercito di Islamabad a reimpegnare i talebani nelle Aree Tribali, dove infatti da due settimane il generale pachistano Kyani ha scatenato una nuova offensiva, che ha già provocato cinquecento morti e 200mila sfollati. 
 
Alta tensione
Bolivia, dopo il referendum revocatorio si apre un nuovo braccio di ferro fra Morales e i prefetti ribelli
Chi credeva che il referendum revocatorio del 10 agosto scorso, brillantemente superato dal presidente Evo Morales con il 64 percento dei voti a favore, fosse la fine di un periodo di tensioni con i prefetti ribelli sostenitori delle autonomie regionali si deve ricredere.

Gli scontri di ieri a Santa CruzI fatti. Al centro della questione fondamentalmente ci sono due persone: Evo Morales, presidente indigeno e il prefetto della regione di Santa Cruz, la più ricca del Paese, l'agguerrito Ruben Costas. Contrario a ogni decisione governativa in materia di economia nazionale, Costas ha sfidato più volte Morales chiamando la popolazione ad esprimersi per mezzo di votazioni sull'autonomia regionale. Non solo. Costas ha lanciato il guanto della sfida a Morales mettendo da parte il capo della polizia della regione, uomo voluto dal governo. Inoltre, ultima delle sue azioni, ha indetto per oggi un nuovo sciopero generale, con relativo blocco stradale. Dunque dalla mezzanotte di oggi tre dipartimenti (Pando, Beni e Santa Cruz) si fermeranno, le strade saranno bloccate e il traffico su ruota, il più importante del Paese, probabilmente verrà paralizzato. I leader dei dipartimenti di Tarija e Chuquisasca, invece, decideranno solo oggi se aggregarsi alle proteste o definire nuove misure di lotta.

Ruben Costas prefetto ribelle di Santa CruzPressioni. Al centro del contendere c'è la richiesta delle regioni ricche della restituzione dell'Idh (Impuesto Directo a los Hidrocarburos). Il governo, infatti, ha deciso di abbassare la quota di proventi in arrivo dalla tassa sugli idrocarburi promessa alle zone della produzione. Ma l'abbassamento della quota non è un'idea campata in aria. Morales, infatti, ha deciso di finanziare un progetto per gli anziani boliviani che vivono in situazione di estrema povertà. Una decisione, quella del presidente che ha fatto storcere il naso ai prefetti ribelli. E non sono mancate le violenze: già nella giornata di ieri gruppi di giovani armati di bastoni appartenenti all'Union Juvenil Crucenista hanno causato numerosi incidenti scontrandosi con i fedelissimi del presidente. Alto il bilancio dei feriti a fine giornata. Inoltre, nel popoloso quartiere Plan 3000 alcuni giornalisti e fotografi sono stati selvaggiamente malmenati e le loro auto distrutte.

 
Scritte sui muri inneggianti al prefetto di Santa CruzIl governo. Dialogo, dialogo e ancora dialogo. Sembra essere questa la strada che seguirà l'esecutivo boliviano, nonostante tutto. Il ministro Alfredo Rada ha condannato gli episodi di violenza di ieri e l'annuncio di un imminente nuovo sciopero previsto per oggi. “Abbiamo sentito minacce contro la sicurezza e contro la tranquillità e la convivenza pacifica” ha detto Rada che ha aggiunto: “Adesso si mettono a dire che bloccheranno nuovamente le strade del Paese. Queste non sono misure utile alla nazione che ha bisogno di estrema tranquillità e non di scontri fisici e verbali”. 
 
Omicidi politici
Un altro sindacalista ucciso in Colombia, nell'indifferenza della stampa internazionale
 
Alessandro Bonafede*
 
Nell’indefferenza della stampa occidentale e dell’opinione pubblica mondiale in Colombia si sta consumando un "genocidio politico", che ha come obiettivo
i sindacati.  La mattina dell’8 agosto è stato ucciso a colpi di arma da fuoco Luis Mayusa Prada, dirigente del Partito Comunista Colombiano e sindacalista della Cut - Central Unitaria de los Trabajadores. L'omicidio è avvenuto a opera di ignoti nella città di Saravena, regione petrolifera di Arauca, storicamente una tra le più martoriate dalla violenza politica.
 
AucPerseguitato politico. Luis Mayusa aveva 46 anni ed era padre di quattro bambini. Secondo quanto informa la famiglia era uscito di casa per accompagnare i figli a una visita medica. Al ritorno, a pochi passi dalla sua abitazione, è stato raggiunto da vari proiettili sparati da ignoti.
L'associazione per la difesa di Diritti Umani Reiniciar in un comunicato denuncia l’accaduto e ricorda come "la sua militanza nella opposizione politica provocò a lui e alla sua famiglia la costante persecuzione da parte degli organismi di intelligece dello Stato, della forza pubblica e dei gruppi paramilitari."
La vita di Luis Mayusa è stata un drammatico e coraggioso esempio della persecuzione sistematica a cui sono soggetti in Colombia i sindacati e i partiti di sinistra. Era un militante, fra i pochi sopravvissuti, della Unión Patriótica, partito che sul finire degli anni '80 venne letteralmente sterminato dai gruppi paramilitari. Come sindacalista lavoró nelle fila della Central Unitaria de Trabajadores de Colombia nella regione meridionale del Meta, da cui dovette allontanarsi in seguito alle continue minacce. Aveva già subito altri due attentati sia nel Meta che in Aruca. La continua persecuzione di cui era oggetto lo aveva anche obbligato a fuggire varie volte dal paese, secondo quanto informa Reiniciar.
Il suo caso era stato portato all'attenzione della Commissione Interamericana dei Diritti Umani, nell'ambito del denuncia contro lo Stato colombiano per le sue responsabilità nel genocidio della Unión Patriótica, partito per il quale Luis Mayusa si era candidato varie volte come consigliere municipale.
 
guerrigliero farcSterminio. La Unión Patriótica nacque in seguito a un processo di pace tra le Farc e il governo del conservatore Belisario Betancur. Molti attivisti politici, entrati  nelle Farc per sfuggire agli assassinii politici, abbandonarono la lotta armata, e entrarono nella Up, convinti che fosse finito il ciclo di violenza politica che li aveva costretti alla clandestinità e che ci fossero le condizioni per ritornare a fare politica a viso aperto nella società civile. Ma cosí non era e quando la Unión Patriótica iniziò a ottenere rilevanti successi elettorali, venne fermata a colpi di arma da fuoco. Piú di 4000 omicidi tra cui 2 candidati presidenziali, 21 parlamentari, 11 sindaci, 70 consiglieri e migliaia di militanti e semplici simpatizzanti.
 
Denuncia. La Corporazione Reiniciar nel suo comunicato accusa direttamente lo Stato colombiano: “Esigiamo al Governo Nazionale che interrompa la persecuzione e la morte dei sopravviventi del genocidio contro la Up”. E aggiunge: “Non è ragionevole pensare che Luis Mayusa sia stato assassinato in Saravena (Arauca), municipio assolutamente controllato dalla forza pubblica, senza che questa abbia potuto evitare la sua morte”.
 
Alvaro Uribe, presidente colombiano"Arrivano le Auc". L’omicidio infatti è avvenuto proprio in una regione, Arauca, che segna il record quanto a militarizzazione: tra polizia ed esercito si conta un membro della forza pubblica ogni sette abitanti. Una forza militare dispiegata dal governo Uribe per proteggere le installazioni petrolifere e gli oleodotti. Ma che non riesce a proteggere la vita della popolazione e i diritti civili e politici: nelle prime due settimane di agosto solo in Saravena sono state uccise altre sei persone oltre a Luis Mayusa. E in città si moltiplicano graffiti con scritte come “Arrivano le Auc” (paramiltari delle Autodifese Unite di Colombia).
 
Trenta sindacalisti morti ammazzati. "Sono eventi che fanno ricordare il passato recente, quando sicari che agivano in nome dei paramilitari e che si muovevano tra i cordoni di sicurezza della Polizia Nazionale assassinarono un gran numero di persone", commenta in un comunicato la Fondazione Joel Sierra.
Secondo la Cut già sono una trentina i sindacalisti uccisi quest’anno. Dalla sua creazione nel 1986, sono stati uccisi circa 2.600 attivisti. Il 97 per cento degli omicidi sono rimasti impuniti.
 
Auguri e figli maschi

Episodi di orrore e ordinaria oppressione delle donne, nel medioevo del regno Saudita

Lo scorso 8 agosto un cittadino saudita, impiegato nel ministero per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio, ha ucciso sua figlia accusandola di essersi convertita al cristianesimo. I nomi di padre e figlia non sono stati divulgati ma la notizia, lanciata dal sito di news Saudi Al Ukhdoud, ha sollevato rabbia e indignazione dentro e fuori dal regno. La vittima frequentava siti web e blog come Free Copts, copti liberi, e il fratello aveva recentemente scoperto tracce del suo interesse nel computer di casa. Da allora sua vita era diventata impossibile, raccontava ai suoi amici telematici, fino alla scorsa settimana, quando il padre le ha tagliato la lingua e le ha dato fuoco, uccidendola. Ora l'uomo è in carcere e verrà giudicato per un crimine legato al Diritto D'onore, una pratica ancora tristemente attuale in diversi paesi islamici. Tuttavia è improbable che riceva una pena severa, del resto la maggior parte dei religiosi sauditi mette in guardia contro i siti cristiani e i canali televisivi occidentali, considerati a pieno titolo minacce contro l'islam.

Un altro episodio, avvenuto pochi giorni dopo, vede protagonista un uomo di 50 anni che ha regolarmente contratto matrimonio con una bambina di cinque anni. Il padre della sposa-bambina aveva acconsentito all'unione in cambio di una cospicua dote. La vicenda, avvenuta nella provincia di Al Qasim, è stata divulgata dal magazine locale Okaz. La madre della bambina, però, ha deciso di denunciare il marito e chiedere a un tribunale l'annullamento del matrimonio della figlia: “Quell'uomo è già sposato con due donne” ha spiegato. Secondo esperti di diritto familiare islamico, nei tribunali sauditi si presentano spesso cause di questo tipo, e non è affatto scontato che a vincere sia la madre della bambina. Una vicenda del tutto simile, infatti, è già in fase di processo nella provincia di Asir, a sud della Mecca, dove un settantenne è stato denunciato dopo aver sposato una bambina di 10 anni. In Arabia Saudita non ci sono leggi che determinino un'età minima per sposarsi e anche l'approvazione della donna, formalmente necessaria, spesso non viene nemmeno chiesta.

 
L'11 agosto, nella regione di Qatif, nella parte orientale del paese, la polizia religiosa arrestava Rueida, una donna di 47 anni, per avere infranto il divieto di guidare l'auto. La donna, scoperta grazie alla segnalazione indignata di alcuni astanti, è stata arrestata e verrà processata. In Arabia Saudita non ci sono leggi che proibiscano di guidare al gentil sesso, ma c'è una lunga tradizione di religiosi Wahabiti che insistono, anche emettendo delle fatwa, che guidare per le donne sia un peccato. In passato le manifestazioni di protesta contro questa limitazione sono state represse, le donne attiviste arrestate e, per punizione ulteriore, espulse dal lavoro o dall'università. Rueida è stata rilasciata su cauzione, ma il giorno dopo, il quotidiano Al Riad svelava: la donna alla guida stava compiendo un atto eroico. Rueida era stata costretta a violare la norma religiosa per salvare i familiari coinvolti in un incendio, che le era divampato in casa. Il padre e i fratelli erano rimasti feriti, non erano in grado di guidare, e lei, che aveva imparato a portare l'auto dentro la fattoria dei genitori, aveva dovuto accompagnarli all'ospedale. Secondo la stampa del regno, sono molte le donne che, per ragioni impellenti, si mettono alla guida sfidando i precetti islamici e sperando di non incontrare la polizia religiosa. Spesso la fanno franca ma, per i religiosi sauditi, quello che conta è la possibilità di continuare a vietare e punire.
 
 
 
Lascia o raddoppia
Gli Usa vogliono potenziare l'esercito afghano e gestire con un loro generale la missione Nato nel Paese
Messo di fronte a un conflitto che invece di placarsi si sta intensificando, al prezzo di ormai oltre 500 vite americane, il Pentagono vuole raddoppiare il numero delle truppe dell'esercito afghano nei prossimi cinque anni. Il segretario alla Difesa Robert Gates ha presentato il suo piano per destinare allo scopo 20 miliardi di dollari, che serviranno anche a ristrutturare i comandi militari di Usa e Nato in Afghanistan assegnando maggiori poteri di coordinamento alle forze armate di Washington.

 
Reclute dell'esercito afghanoIl piano. Secondo il progetto, l'esercito di Kabul verrebbe portato a 120mila uomini dai circa 63mila attuali. Gli Stati Uniti forniranno anche addestramento, equipaggiamento, cibo e strutture abitative per i militari afghani. Inoltre, il leader del Pentagono ha intenzione di modificare le strutture di comando delle due missioni a guida straniera in Afghanistan, dando al generale David McKieran – già alla guida della forza Nato da 45mila uomini, di cui 15mila soldati statunitensi – anche il comando delle 19mila truppe americane che al momento operano in una missione separata. L'ordine con le nuove disposizioni dovrebbe essere firmato alla fine di agosto.

 
Le difficoltà in Afghanistan. Il piano di Washington giunge in un momento difficile per le truppe straniere in Afghanistan, di fronte a una guerriglia che non conosce soste. Nel mese di maggio, per la prima volta, il numero di vittime statunitensi nella guerra contro i talebani ha superato quello del conflitto in Iraq, e a giugno il sorpasso si è ripetuto. Il 22 luglio, infine, gli Usa hanno raggiunto la simbolica quota di 500 soldati caduti in Afghanistan. Complice il calo delle violenze in Iraq e la proposta del candidato democratico Barack Obama di spostare truppe da un Paese all'altro per riprendere in grande stile la caccia a Osama bin Laden, ora l'Afghanistan è ritornato al centro dell'attenzione anche negli Usa, dopo essere stato a lungo trascurato dai grandi media.

 
Robert GatesRiorganizzazione dei comandi. Gli Stati Uniti fanno da tempo pressioni sugli alleati della Nato, affinché si assumano maggiori responsabilità in Afghanistan, in sostanza inviando più uomini e liberandosi dalle restrizioni legislative che impediscono ad alcuni Paesi, tra cui l'Italia, di partecipare ad aperte operazioni di guerra. La missione Nato, che nel 2006 ha preso in mano la gestione della ricostruzione e del mantenimento della sicurezza in aree che si consideravano relativamente pacificate, è andata in realtà incontro a una violenza maggiore rispetto alle previsioni. La missione guidata dagli Usa, invece, ha avuto da subito come priorità quella di combattere i militanti talebani. La ristrutturazione voluta da Washington, hanno precisato alcuni ufficiali del Pentagono, non significa comunque che le due missioni verrano unificate.
 
  
 

Zona verde, acqua nera

di Claudio Pappaianni e Paolo Tessadri
Coliformi fecali in un terzo dei rubinetti delle case campane. Idrocarburi in quelli di Vicenza. E nelle basi Usa scattano i divieti
 
 
Dovrebbe essere acqua da bere ma dai rubinetti sgorgano coliformi fecali. È l'ultima emergenza campana, anche se nessuno ne vuol sentir parlare. Nemmeno il comando americano che pure da sei mesi ha commissionato analisi sui rischi per la salute dei propri militari che vivono tra Napoli e Caserta. L'imperativo resta: nessun allarmismo.

Ma i primi risultati ufficiali sono inquietanti: nel 30 per cento dei casi analizzati, si registra un'elevata eccedenza di contaminazione batteriologica. Valori di coliformi totali anche 50 volte superiori la norma e la presenza massiccia di coliformi fecali. Si tratta di batteri presenti nelle feci animali e umane: è come dire che dal rubinetto di casa scorre acqua di fogna. A scoprirli sono stati i test ordinati dalle Forze armate statunitensi, sempre e solo loro, che già un mese fa avevano riscontrato in sette case abitate da loro connazionali presenze 'inaccettabili' di sostanze chimiche nell'acqua da rubinetto potenzialmente cancerogene come la diossina.

Allarme in caserma
Ma la scorsa settimana, nella guerra dell'ambiente che i generali americani stanno combattendo in Italia per tutelare la salute dei loro militari (ed evitare richieste di risarcimenti record), si è aperto un secondo fronte. Nella contestatissima base di Vicenza gli esami hanno rilevato quantità anomale di idrocarburi. È scattato subito il divieto di bere e di cucinare con quell'acqua, disponendo la distribuzione gratuita di bottiglie di minerale per tutti i 1.200 soldati.

Ma quale emergenza
Napoli, Caserta, Vicenza: rubinetti avvelenati per i marines e i parà a stelle e strisce ma ottimi per gli italiani. Possibile che solo la loro acqua sia sporca e contaminata? O che i loro laboratori siano meno capaci di nostri? Nella città veneta i tecnici della municipalizzata e quelli centro idrico di Novaledo negano emergenze e puntano il dito sui pozzi che alimentano parte della base statunitense. Ricordano poi la grande falla nell'oleodotto Nato che a marzo provocò una perdita di kerosene nel terreno alle porte dell'installazione militare: ma all'epoca era stata esclusa la contaminazione dell'acqua cittadina. Potrebbe quindi trattarsi, secondo loro, di un problema di manutenzione di depositi e condotte della caserma Ederle, base dei parà della 173ma brigata appena rientrati dall'Afghanistan, che hanno subìto lavori proprio nelle scorse settimane. Ma i tubi della base sono connessi a quelli della città: anche un problema interno al fortino può allargarsi a tutto il comune.
 
Solo minerale
Ancora più difficile circoscrivere il problema campano. Anche perché gli esami fanno parte di una grande campagna sull'inquinamento di aria, terra e, appunto, acqua nella zona compresa tra Napoli e Caserta dove vivono circa 10 mila tra militari e civili statunitensi. Dal comando della Sesta Flotta, dopo i primi imbarazzati silenzi e le stizzite repliche alle indiscrezioni, trapelate sulla rivista 'Star & Stripes', ora arrivano conferme. Segno che il dato è più preoccupante di quanto si potesse immaginare e ci sia poco da nascondere.
 
Le analisi batteriologiche, condotte tra lo US Naval Hospital di Napoli e i centri specializzati in Virginia, parlano di contaminazione delle acque in 48 dei primi 160 appartamenti monitorati. Può essere anche in questo caso un problema di pozzi e cisterne, ma difficile pensare che i batteri preferiscano gli americani ai napoletani. E a preoccupare di più, ora, sembrano essere i dati delle analisi chimiche commissionate a un laboratorio in Germania.

 
 
La base di Vicenza
Dovrebbero essere pronti per ottobre, ma le premesse non fanno ben sperare. E per il personale l'invito è perentorio: fuori dalle basi, usare bottiglie di acqua minerale per cucinare, bere e lavarsi i denti. Perché solo dentro il muro di cinta della 'zona verde', che ricalca il nome dell'area sicura di Baghdad, è tutto sotto controllo - acqua, aria, terra - altrove no.

Allacci abusivi
I 48 'casi' riscontrati dallo studio americano riguardano una decina di comuni, perlopiù casertani: Caserta, Casal di Principe, Casapesenna, Gricignano d'Aversa, Pozzuoli, San Maria Capua Vetere, San Cipriano D'Aversa, Villa di Briano e Villa Literno. E, oltre ai cittadini statunitensi, in quell'area vivono almeno 300 mila persone, tutte potenzialmente a rischio. Dai loro rubinetti potrebbero uscire le stesse sostanze che la 'Phase One' della ricerca ha evidenziato. Ma nessuno controlla. O, almeno, chi dovrebbe garantire la qualità di quell'acqua, evidentemente non lo fa fino in fondo.

Tutti dichiarano di effettuare puntuali verifiche: dal gestore del servizio (in molti dei casi in esame sono i Comuni, ndr), alle Aziende sanitarie locali, alla Regione attraverso l'Agenzia regionale per l'Ambiente. Ma, intanto, dai tubi sbuca di tutto ed è un palleggio continuo di responsabilità. L'acqua fornita da Acquacampania, società dell'Eni che gestisce l'Acquedotto della Campania Occidentale, è controllata costantemente anche grazie a uno degli impianti tecnologicamente più avanzati in Italia.

 
 
Antonio Bassolino
 
Il problema è nelle reti cittadine e, soprattutto, nei condomini dove nelle condotte finisce anche acqua di pozzo. A Casal di Principe, come a Villa Literno, Lago Patria e Santa Maria Capua Vetere, ma anche a Pozzuoli e Caserta, negli anni sono sorti palazzoni e villette come funghi, spesso con allacci abusivi alla rete fognaria e a quella idrica. "È una situazione drammatica, perché i comuni non sono in grado di monitorare le acque", denuncia Legambiente Campania. Ma non fanno nulla nemmeno le Province e la Regione. Eppure i segnali di allerta c'erano tutti da mesi e mesi.

C'è voluto lo studio americano per rovesciare un pentolone che nessuno aveva osato nemmeno scoperchiare: dopo un anno di emergenza rifiuti continua, il rischio sanitario in Campania è ormai reale. Diossina sprigionata dai roghi di spazzatura, moltiplicarsi di insetti e ratti, percolato che penetra nei terreni fino a inquinare la falda acquifera. Secondo dati ufficiali dell'Arpa Campania, solo il 18 percento delle acque sotterranee presenta una qualità 'elevata', a fronte di un 40 percento definita 'scarsa'.

Investimenti colabrodo
Questo, nonostante in Campania sul sistema integrato delle acque la Giunta Bassolino abbia investito, dal 2000 a oggi, oltre 265 milioni di euro di fondi europei e altri 270 sono previsti per i prossimi cinque anni. Soldi, i primi, gestiti senza soluzione di continuità da uomini imposti da Clemente Mastella. Almeno fino allo scorso gennaio, quando l'ultimo assessore all'Ambiente indicato da Ceppaloni, Luigi Nocera, è finito agli arresti nell'ambito dell'inchiesta di Santa Maria Capua Vetere che ha decapitato il Campanile e portato alla caduta del governo Prodi.

Il suo posto in giunta è stato preso da Walter Ganapini, impegnato in questi mesi quasi esclusivamente sul fronte rifiuti. Ma nulla è cambiato nella macchina amministrativa. E nemmeno nella gestione delle acque e degli appalti di manutenzione in Campania, che sembrano il vero assillo di Palazzo Santa Lucia. Più che la qualità delle acque, si bada alla quantità degli interventi. L'ultimo appena una settimana fa. Per due giorni e due notti gli operai delle ditte incaricate dalla Regione Campania hanno lavorato alla condotta DM 1300, una sorta di autostrada dell'acqua partenopea che in un anno aveva ceduto ben 52 volte, praticamente una volta a settimana.

Un intervento programmato, che ha interessato una quindicina di comuni vesuviani e costretto mezzo milione di cittadini, anche nella Costiera amalfitana, a file interminabili davanti alle autobotti nelle giornate più torride dell'anno. Un mese prima era andata peggio. Il guasto alle condutture era stato improvviso e il black-out idrico inatteso. In poche ore i prezzi di taniche e bottiglie di minerale erano schizzati in l'alto come un indice di Borsa impazzito.
 
EVO: VITTORIA PAGATA CARA
Maurizio Matteuzzi
 
Evo ha vinto, anzi stravinto. E, nel referendum revocatorio di domenica, è stato confermato alla grande presidente della repubblica (fu lo stesso per Hugo Chávez in Venezuela nel 2004). Ha avuto quasi il 10% in più che nel dicembre 2005, quando si abbatté a valanga sul Palazzo Quemado di La Paz. Il primo presidente indigeno in 500 anni di storia boliviana. Come già in passato, la guerra sempre più frontale dell'ambasciatore Usa a La Paz - prima del suo avvento conosciuto semplicemente come «il viceré» e ora costretto a tornare sulla terra -, ha finito per giovargli anziché danneggiarlo.
Ma anche la destra «autonomista» delle regioni dell'oriente ricco di gas - Tarija - e di terre fertili - Santa Cruz -, ha vinto.
Le due Bolivie contrapposte e nemiche, quella bianca dell'oriente e quella india dell'altipiano, da domenica non sono più vicine. Semmai ancor più lontane. Il «pareggio» alla lunga potrebbe rivelarsi catastrofico. E le pulsioni autonomiste, teoricamente legittime, potrebbero alla fine rivelarsi per quello che - forse - sono sempre state: prove di separatismo. I cambas dell'oriente «democratico» e capitalista per la loro strada, che è la strada della globalizzazione, i collas dell'occidente comunitario e «statalista» per un'altra strada, che è quella dell'impossibile ritorno alle glorie dei regni quechua e aymara di prima della conquista spagnola. Perdendo quelle risorse naturali - le ultime rimaste dopo il saccheggio dell'argento e dello stagno - che fanno della poverissima Bolivia uno dei paesi più ricchi del mondo.
Un'ipotesi inaccettabile e assurda che potrebbe divenire drammaticamente attuale. Non solo in Bolivia.
Con il referendum revocatorio Evo Morales ha messo sul tavolo la presidenza e sperato di assestare una botta secca ai governatori delle regioni ribelli, anch'essi costretti a rimettersi in gioco. Ma sia lui sia i suoi avversari di destra hanno superato la prova (tranne quello di Cochabamba). Alla fine entrambe hanno vinto, entrambe hanno perso. Ora le due Bolivie sono obbligate a cercare un'intesa che nessuna delle due vuole.
Storicamente e politicamente Evo ha ragione e la destra «autonomista» ha torto. 500 anni di apartheid sociale ed economica, politica e razziale (il governatore di Santa Cruz ancora ieri ha chimato Evo «macaco»), bastano e avanzano. La «rivoluzione democratica e culturale» di cui Evo è il portabandiera è un obiettivo sacrosanto che nessuno gli può chiedere di fermare. Ma Evo dovrà dimostrare una grande capacità tattica e strategica per impedire che la destra riesca a realizzare i suoi obiettivi. Perché la destra boliviana non è sola. E può ostentare un'aura di «modernità», economica e politica, che cozza contro la «antichità» della proposta indigena e dei rigurgiti statalisti.
Nel 2004 Chávez vincendo il referendum revocatorio riuscì a ingliggere un colpo da ko a un'opposizione recalcitrante e golpista, e ad aumentare il suo peso interno e internazionale. In Bolivia non è stato così. Perché se Evo ha vinto, la destra non ha perso.
Se Morales dovesse cadere, qualunque fosse il modo, non cadrebbe solo la Bolivia. E non sarebbero solo «i radicali» Chávez in Venezuela e Correa in Ecuador a dover temere l'onda d'urto.
 
INFLAZIONE
Il salasso quotidiano
Istat: indice dei prezzi al +4,1%. Beni ad alta frequenza d'acquisto: +6,1%
Carlo Leone Del Bello
 
Confermato il dato Istat sull'inflazione: a luglio i prezzi al consumo sono cresciuti del 4,1% rispetto allo scorso anno e di mezzo punto percentuale rispetto a giugno. L'aumento dei prezzi non era così sostenuto dal 1996, cioé prima delle strette monetarie imposte da Maastricht. Tuttavia, come ben sa chi fa la spesa tutti i giorni, i rincari più sostenuti si sono verificati per i beni che maggiormente incidono sul bilancio quotidiano delle famiglie. Lo dimostrano anche l'istituto di statistica: i beni ad «alta frequenza di acquisto» sono cresciuti del 6,1% rispetto al luglio del 2007. A risultare più colpiti dall'inflazione, come al solito, i percettori di reddito fisso, in particolare i pensionati.
I responsabili dell'aumento dei prezzi sono sempre gli stessi capitoli di spesa: trasporto (+0,9% rispetto a giugno) e bollette di acqua, luce e gas (+1,5%). Sorprendentemente inferiore alla media è invece l'aumento congiunturale dei prodotti alimentari, +0,1%, anche se l'incremento annuale rimane molto alto con un +6,3%. Rimangono fermi, o quasi, i prezzi di abbigliamento e calzature, di servizi sanitari e medicinali. Unico comparto che vede scendere nettamente i prezzi medi, quello delle telecomunicazioni: -0,7% congiunturale e -3,2% tendenziale. Tra i capoluoghi italiani con i più alti tassi di inflazione ci sono Ancona e Cagliari (+0,7%). Irrisorio l'aumento mensile dei prezzi a Roma (+0,1%), che rimane anche la città dove i prezzi sono cresciuti di meno nel corso dell'ultimo anno: +3,3%.
Merita una menzione l'andamento dell'inflazione «di fondo», l'equivalente dell'inflazione core calcolata negli Usa, ovvero l'aumento dei prezzi dei beni esclusi alimentari ed energetici. Anche senza questa componente «volatile», l'indice dei prezzi in Italia è cresciuto del 2,8% in un anno e dello 0,4% rispetto a giugno. Potrebbe trattarsi degli effetti di «secondo round» tanto temuti dalla Bce.
La conferma e la spiegazione a ciò che gli italiani già sanno, e che cioé l'inflazione reale «sembra» più alta di quella ufficiale, viene però dall'indice dei prezzi dei beni ad alta frequenza di acquisto, calcolato dall'Istat. Questo paniere «speciale» altro non fa che analizzare gli andamenti dei prezzi dei beni acquistati almeno una volta al mese, ovvero generi alimentari, bevande alcoliche e analcoliche, tabacchi, spese per l'affitto, prodotti per la casa, carburanti, trasporti urbani, giornali e periodici, servizi di ristorazione, spese di assistenza. L'aumento di questi prezzi è stato dello 0,4% su giugno, del 6,1% su luglio del 2007 e, nonostante pesino per circa il 40% sul paniere Istat, il loro contributo all'inflazione annuale è stato del 2,35%. Praticamente, oltre la metà dell'aumento medio dei prezzi è stato causato da questo tipo di acquisti.
Ovviamente, per tutti coloro i quali il peso relativo degli acquisti ad alta frequenza è maggiore, l'impatto sul reddito mensile è devastante, soprattutto se lo stipendio è fisso e ancorato a inflazioni irrealistiche quali quella programmata. Dello stesso avviso è Agostino Megale della Cgil, secondo il quale per le categorie a basso reddito, fra le quali ci sono 10 milioni di pensionati a meno di 800 euro al mese e quasi un milione di precari, l'inflazione è proprio fra il 6 e il 7%. A questo si aggiunge la mancata restituzione del fiscal drag, che aumenterà la pressione fiscale dello 0,6% nel 2008. Secondo le proiezioni effettuate da Adusbef e Federconsumatori, l'aumento dei prezzi comporterà per le famiglie una spesa annuale maggiorata di 2.182 euro in media.
Se chi è abbastanza fortunato da andare in vacanza se la vede con i consistenti aumenti degli stabilimenti balneari (+8%), chi rimane cerca di modificare le abitudini di consumo, per spendere di meno riempiendo ugualmente la pancia. Secondo la Cia (Confederazione italiana agricoltori) oltre il 60% delle famiglie sta cambiando o ha già cambiato comportamento di spesa a causa del caro-alimenti. Si risparmia sul pane (-2,5% di consumi a fronte di un aumento di prezzo del 12%) magari evitando di buttarlo e congelandolo, sulla carne bovina (-3%, sostituita dal pollo +6,6%), su frutta e ortaggi (-2,6% e -2,8% rispettivamente). In controtendenza la pasta, che vede aumentare il consumo (+1,4%) nonostante gli aumenti folli (+25% annuale).
 
Bella speranza
Quasi conclusa l'operazione in provincia di Diyala, un successo tutto iracheno?
Bashaer al Kheir, in arabo, bella speranza. Per una volta il nome di un'operazione militare in Iraq non suona machista e intimidatorio. Forse dipende dal fatto che l'esercito Usa ha esaurito le scorte di slogan, oppure, è un sintomo del fatto che, con questa operazione, gli Stati Uniti c'entrano meno del solito. Quella lanciata lo scorso 28 luglio nella provincia di Diyala, che si estende da nord di Baghdad fino al confine iraniano, è stata un'operazione diversa dalle precedenti, avvenute ad esempio a Sadr City e Bassora, dove la presenza dell'esercito Usa è stata in primo piano. A Diyala pare che la “contro-insorgenza” sia stata gestita in modo diverso, a cominciare dalle forze che vi hanno preso parte.

 
Soldati iracheni a BaqubaIl grosso delle forze armate impiegate a Diyala appartiene alla 19ma brigata dell'esercito iracheno, mentre le forze Usa sono rimaste in disparte, limitandosi a coordinare alcune delle brigate. Il governo di Baghdad ha però voluto che fosse anche un'operazione di immagine, per questo, assieme ai soldati sono giunti nella provincia anche giudici, commandos del ministero dell'interno, polizia stradale e persino membri dei dipartimenti deputati alle forniture elettriche, idriche e sanitarie. La notizia, però, è che accanto ai soldati iracheni hanno combattuto anche le milizie Sahwa, quelle dei Consigli del risveglio tribali. 90mila uomini che non avevano un buon rapporto con le forze armate , perlomeno, fino a quando il premier Al Maliki non ha promesso l'assunzione nell'esercito per 3mila di loro. Secondo il reporter Usa Dahar Jamail, gli stessi Consigli del risveglio avrebbero consegnato al generale Ali Gaidan, comandante delle forze terrestri irachene, una lista di nomi dei militanti Qaedisti della provincia. L'operazione Bashaer al Kheir, infatti, puntava proprio a eliminare dalla provincia le milizie di Al Qaeda, in parte le stesse che erano fuggite dalla “bonifica” dell'Al Anbar, attuata anch'essa con l'aiuto delle milizie tribali sunnite. Da mesi la provincia era diventata una roccaforte di Al Qaeda ed era stata teatro di numerosi attentati suicidi, alcuni dei quali, recentemente portati a termine da donne.

 
Inizialmente le milizie tribali avevano duramente criticato il largo preavviso concesso ai miliziani prima dell'inizio delle manovre, ma dal ministero dell'Interno iracheno si replica che “abbiamo intenzionalmente dato ai miliziani la possibilità di fuggire, allo scopo di creare una frattura con i loro leader una volta che fosse scoppiato il caos”. Una risposta nuova per una strategia che è stata adottata sin dall'inizio del conflitto. A quanto pare, però, il caos previsto non è scoppiato. Le forze armate hanno imposto il coprifuoco in tutta la provincia, hanno condotto perquisizioni casa per casa e imposto check point per le strade, apparentemente senza commettere gravi abusi. Secondo alcune interviste raccolte a Baquba, la capitale della provincia, da Jamail, che normalmente non risparmia critiche a nessuno, la violenza temuta dalla popolazione rimasta in città non c'è stata. Qualcuno parla delle buone maniere dei soldati, qualcun'altro racconta pure che la gente offriva loro cibo e acqua. Uno degli obiettivi dell'operazione era estirpare le infiltrazioni dei miliziani dalle forze di sicurezza provinciali, e dopo pochi giorni gli agenti arrestati erano già un centinaio.

Mercoledì 6 agosto, l'operazione pareva vicina alla conclusione. Il ministero della Difesa irachena annunciava l'arresto di 483 persone tra cui alti esponenti della “rete del terrore” e persino una donna considerata responsabile del reclutamento delle kamikaze. Lo stesso giorno, il New York Times pubblicava un articolo proprio sulla 19ma brigata dell'esercito iracheno, sostenendo che, nonostante la buona volontà, gran parte dei battaglioni iracheni non era in grado di agire senza il coordinamento con i cosiddetti Transition Team statunitensi. Anche il Nyt, però, conferma che in quest'operazione gli Usa hanno limitato di molto il loro apporto, sia logistico che strategico, alle forze armate di Baghdad. Ufficiali e soldati iracheni ammettono carenze di equipaggiamento di preparazione e coordinamento tra i reparti. Sostengono insomma che senza gli Stati Uniti l'esercito iracheno non ce la possa ancora fare. Ma forse, alla luce dei risultati di Diyala, l'allenza con le milizie Sahwa potrebbe ricevere maggiore considerazione: 90mila uomini che parlano arabo, sanno combattere ma anche rispettare la gente potrebbero essere più efficaci dei marines, che notoriamente incutono timore e odio nei civili. Martedì 5 agosto il premier al Maliki ha annunciato un'amnistia per i miliziani ancora presenti nella provincia che consegneranno le armi entro sette giorni. Se anche quell'inziativa avrà successo, allora la provincia potrà davvero dirsi sicura. Ci vorrà del tempo insomma per sapere se le nuove strategie sono davvero state utili, e se Bashaer al Kheir significa davvero bella speranza.
 
In Italia metà degli infortuni mortali sul lavoro avviene sulle strade
Una volta su due gli autisti fermati vengono trovati con qualche irregolarità

Turni massacranti e pochi controlli
l'incubo dei camion impazziti

di CATERINA PASOLINI

Turni massacranti e pochi controlli l'incubo dei camion impazziti

La carcassa di un camion dopo un incidente

ROMA - Rinunciano a ore di sonno, annullano i riposi tra un viaggio e la prossima consegna, pigiano sull'acceleratore. Non ci stanno con i conti, tra il gasolio che aumenta, la concorrenza, le aziende che fanno contratti capestro e chi lavora in nero, a cottimo, pagato 90 centesimi a chilometro. E la strada diventa così l'ultimo terreno di una guerra tra poveri: con camionisti esausti che investono operai lungo i cantieri stradali. Perché, come denuncia l'Inail le nostre strade sono sempre più pericolose: qui, nel 2007, è avvenuta la metà degli infortuni mortali sul lavoro, qui si sono feriti 132mila lavoratori in un anno.

Sempre più spesso, dicono gli uomini della Polstrada, gli incidenti dei mezzi pesanti, quegli inspiegabili salti di corsia che provocano stragi sono causati da un colpo di sonno. Una volta su due gli autisti dei camion fermati sono trovati con qualche irregolarità: dal mancato rispetto dei tempi di riposo al superamento dei limiti di velocità perché impegnati a raddoppiare i carichi di lavoro per far quadrare i conti.

Un esercito in viaggio quotidiano nell'Italia dove l'86% delle merci arriva su gomma, stipata su oltre 3 milioni e mezzo di veicoli pesanti (oltre 1,5 tonnellate). Guidati da uomini lumaca. "Li chiamiamo così - dice Giordano Biserni dell'Asaps l'associazione per la sicurezza stradale - perché la loro casa è la cabina di guida. Dovrebbero per legge lavorare al massimo 9 ore, ne fanno molte di più per rispettare consegne. Chiediamo che i controlli si allarghino: bisogna colpire anche il proprietario del mezzo, il committente del viaggio perché spesso il camionista è l'ultimo anello di uno sfruttamento. Bisogna fare contratti chiari perché la concorrenza spietata non porti a rischi per tutti".

Ma di chi sono i camion, i tir? "Due milioni e mezzo di veicoli appartengono a ditte produttrici, 700mila sono trasportatori professionisti: la maggior parte ha due o più mezzi ma ci sono anche 90mila padroncini che guidano il loro camion", dice Paolo Uggè presidente Fai Conftrasporto che chiede più controlli in strade e sulle aziende.
 
Perché è anche un problema di contratti. I committenti devono rispondere davanti alla legge se danno disposizioni che costringono il conducente a irregolarità" dice Uggè e racconta di una economia che cambia, che chiede consegne in tempo reale, della diminuzione di giorni in cui i "bisonti" possono viaggiare e quindi di strade più affollate. "La legge europea sulle ore di guida vale solo per i dipendenti, non si applica ai padroncini e questo con l'esasperazione della concorrenza anche straniera porta i singoli a massacrarsi di lavoro, sfruttati dalle agenzie di intermediazione che gli dicono se non arrivi a quell'ora non ti pago".

Tutti chiedono più controlli, in un'Italia che è al 14esimo posto in Europa per la sicurezza stradale con 9,6 morti ogni 100 mila abitanti quando la media europea è di 8,7. La Polstrada denuncia da anni una situazione di crisi, peggiorata dagli ultimi tagli. "Ci mancano cinquemila uomini e mezzi. Dagli etilometri - 900 sono ancora in via di consegna - alle auto: giriamo con Maree che hanno sulle ruote 300mila chilometri e lavoriamo con divise invernali anche sotto il solleone mentre le sezioni vengono chiuse perché chi va in pensione non viene sostituito", denuncia Stefano Spagnoli del Consap, sindacato di Polizia. E se raddoppiando gli sforzi sono aumentati i controlli antialcol - siamo a quota 750mila l'anno - Spagnoli ricorda che questo è stato fatto "rubando forze ad altri interventi e comunque siano ancora lontani da Germania o Francia dove arrivano a farne 8 milioni".

 

 

25 agosto

 

Quasi la metà delle scuole sfora il tetto di spesa previsto per legge. L'associazione chiede un intervento sui presidi, perché rispettino la normativa

Libri di testo, Altroconsumo diffida il ministero dell'Istruzione

La maggiore spesa per le famiglie ammonta a 14 milioni di euro. Una classe su 5 supera il limite di oltre il 10%: "Un bel regalo agli editori"

ROMA - Il 46 per cento delle classi non ha rispettato il tetto di spesa per i libri scolastici che il ministero dell'Istruzione ha deciso di adottare per il prossimo anno. La maggiore spesa che le famiglie saranno costrette ad affrontare ammonta a 14 milioni di euro. E' quanto risulta da un'indagine effettuata dall'associazione Altroconsumo sulle prime classi di 276 istituti scolastici in tutte le Regioni italiane. Un dato vicino a quello di un'analoga indagine effettuata meno di un mese fa da Repubblica.it. Di conseguenza, Altroconsumo ha inviato oggi una diffida al ministero dell'Istruzione, richiedendo un intervento, presso i presidi delle scuole che hanno sforato i tetti previsti, affinché rivedano le adozioni dei testi scolastici.

Ben una classe su 5, secondo Altroconsumo, 'sfora' del 10 per cento. "Di fatto un bel regalo agli editori", sottolinea l'associazione. Saranno soprattutto le prime classi degli istituti tecnici commerciali e industriali a pagarne le conseguenze visto che, rispetto alle indicazioni precedenti, l'aumento sarà del 18-20 per cento.

Altroconsumo ha passato al vaglio 2.362 sezioni in 21 città, una per ogni regione, tranne che per il Trentino Alto Adige, in cui sono state scelte sia Trento che Bolzano. In tutto sono stati presi in esame 276 istituti scolastici, di cui 209 scuole medie, 19 licei e 20 scientifici, 21 istituti tecnici commerciali e 7 industriali.

L'associazione ha considerato sempre le prime classi, tranne che per le scuole di Milano, Roma e Napoli, dove sono state rilevate anche le adozioni per le seconde e le terze. Le adozioni considerate, quelle ufficiali comunicate all'Associazione italiana editori, riguardano solo i testi che le scuole stesse hanno indicato "da acquistare" e non quelli inseriti come "consigliati", escludendo i dizionari, i libri di narrativa e gli atlanti.

Ecco alcuni esempi. Licei: quarta ginnasio, nonostante il tetto più alto, 320 euro, a loro va il primato degli sforamenti dei limiti imposti dal ministero. Infatti 'sfora' il 50 per cento delle 137 sezioni monitorate nei licei classici sfora. Maglia nera a Perugia, Napoli e Bologna dove oltre 4 classi su 5 sforano i tetti. Tra le ultime in classifica anche Roma, con il 67 per cento.

La città più 'virtuosa' risulta Ancona: su 33 classi considerate, soltanto il 4 per cento superano il tetto. Bene anche Campobasso (15%) e Bolzano (21%). Sul sito, Altroconsumo propone anche una serie di 'trucchi' per risparmiare sulla dotazione libraria e una lista con gli ipermercati che praticano uno sconto dal 15 al 25 per cento sul prezzo di copertina, per i libri di testo ordinati.

 

L'eterno dramma dei bambini soldato

In migliaia ancora prigionieri in Congo e Sudan

Nessuno sa con esattezza quanti siano, nessuno sa se e quando torneranno a casa. La guerra civile nel Nord dell’Uganda è in un momento di stasi, fermata dall’avvio degli accordi di pace tra il governo del presidente Yoweri Museveni e i ribelli del Lord’s Resistance Army, ma i bambini e le bambine rapiti dall’LRA rimangono un’incognita. Le fonti, più o meno ufficiali, parlano di circa 30mila, costretti con la forza, nel corso di più di vent’anni di conflitto, a lasciare le loro case e ad imbracciare un fucile o a diventare, nel caso delle bambine e ragazze, schiave sessuali dei capi ribelli. Certo, molti di loro, con il tempo, hanno fatto ritorno a casa, grazie a fortuite circostanze o perché sono riusciti a scappare. Ma in migliaia sono ancora prigionieri e conducono una vita terribile nascosti nell’est della Repubblica Democratica del Congo e nel Sud del Sudan, laddove i ribelli hanno sistemato le loro basi. Nel frattempo gli accordi di pace sono fermi e sulla possibilità che siano conclusi in tempi brevi si nutre più che una riserva. Il leader dell’LRA, Joseph Kony ha più volte ribadito che il processo di pace potrà andare avanti solo se la Corte Penale Internazionale rinuncerà a perseguirlo, come annunciato, per crimini di guerra e contro l’umanità.

E i bambini? “Qui non abbiamo bambini, solo combattenti” ha risposto Kony ad un giornalista della Reuters, uno dei pochissimi che è riuscito ad avvicinarlo, circa un anno fa. Ma a parlare contro e a raccontare di atrocità e violenze sono quegli stessi ragazzi e ragazze che hanno ritrovato la strada di casa. Molti vorrebbero evitare di parlarne, ma altrettanti sentono il bisogno di liberarsi da incubi e segreti che continuano a lacerarli e dividerli dagli amici, dai parenti, e anche da chi li incontrerà in futuro senza conoscere le loro storie.

George era un bambino di neanche 12 anni quando è stato rapito, insieme al fratello, dalla casa dove viveva con i genitori a Kitgum, nel Nord del Paese. Come molti altri, fu costretto ad una marcia forzata a piedi per giorni e giorni fino a raggiungere un accampamento militare nel Sud del Sudan. Lì, George ha imparato a tenere un fucile, prendere la mira e sparare. Ha imparato a nascondere il pensiero della casa, della famiglia. Ha imparato a nascondere se stesso e la voglia di fuggire. “Ma è quello a cui pensavo sempre, in ogni momento” ci racconta oggi fuori della capanna in un campo per sfollati che ora è la sua casa. Quando è tornato, infatti, George ha scoperto di essere rimasto solo, i genitori erano nel frattempo morti, entrambi di AIDS e della sua numerosa famiglia era rimasto uno zio, l'unico che potesse occuparsi di lui. George, tra i tanti, è uno dei fortunati. Un'organizzazione umanitaria si è presa cura di lui, gli ha dato supporto psicologico e l’opportunità di studiare.

Oggi George ha 17 anni, è orgoglioso dei suoi risultati scolastici e del fatto che è riuscito ad ottenere una vacca da un programma di sostegno alle comunità locali sfollate a causa della guerra. Sì, George è uno di quelli fortunati che è riuscito a fuggire, ma non ha dimenticato e racconta: “ci facevano fare quello che volevano. Una volta dovetti trasportare per ore e ore la testa di una compagna. Le era stata mozzata per darle una lezione e io dovevo portarla ad uno dei capi che in quel momento era in un campo più lontano. Pensavo solo a fuggire, anche se con i miei occhi avevo visto uccidere un altro compagno che aveva provato a scappare, poi la sua testa era stata fracassata e ci è stato chiesto di bagnare le nostre mani in quello che ne restava. Poi ci hanno dato da mangiare impedendoci di lavarci le mani”. Non chiediamo a George se sia stato costretto ad uccidere qualcuno, è superfluo e sarebbe un’inutile tortura. È una fortuna che sia tornato, del fratello non ha saputo più nulla.

Dominic, Nancy e Rose sono ragazzi ancora più speciali. Non solo perché sono riusciti a sfuggire ai ribelli dell’LRA, ma perché la loro storia l’hanno raccontata in un film. “Wardance”, firmato da due registi americani, ha già fatto il giro del mondo facendo conoscere un angolo di Africa che da paradiso può essere trasformato in inferno. Un inferno da cui ci si può riscattare ed emergere. Grazie all’arte e a persone che credono in te. Dominic, Nancy e Rose da ragazzi di villaggio cresciuti in povertà, tra le urla di paura e gli spari dei fucili, sono diventati attori di loro stessi. “E’ difficile per la gente credere alle nostre storie – afferma uno di loro quando il film ha inizio – ma se non le raccontiamo queste storie non saranno conosciute”. Incontriamo questi ragazzi a Kampala, la capitale dell’Uganda, il giorno in cui il film che li vede protagonisti viene presentato tra consoli, ambasciatori, ministri, responsabili di ONG. Loro sembrano adulti tra gli adulti, poco intimoriti da tanta folla, molto consapevoli del loro ruolo di portatori di un messaggio: fermare la guerra definitivamente, riportare i bambini a casa e dare loro speranza nel futuro. Tutti e tre vengono dal campo rifugiati di Patongo, nel distretto di Pader a Nord dell’Uganda. Così giovani hanno già un’esperienza incredibile da testimoniare. Dominic ha 14 anni e ne aveva 9 quando è stato rapito. Confessa: “ho ucciso tre persone, con un arnese per lavorare la terra, se non avessi ubbidito a chi mi aveva ordinato di farlo mi avrebbero ucciso. Quelle persone non mi avevano fatto nulla, non avevano fatto niente a nessuno. Penso sempre a loro, sempre”. Dominic è un artista, suona lo xilofono e insegna musica agli altri studenti. Rose, 13 anni, è timida, timidissima, parla solo Acholi la lingua del suo popolo, ed è Dominic a tradurre per lei in inglese. I ribelli le hanno ucciso entrambi i genitori, della madre le hanno fatto ritrovare il teschio. Rose ha una voce bellissima e canta in un coro. È questa la cosa che le piace fare di più, studiare le piace un po’ meno, ma che importa, continuare a cantare è il suo sogno. Infine Nancy, 14 anni: il padre è stato ucciso dai ribelli, la madre rapita. “Danzare mi fa dimenticare ogni cosa e se chiudo gli occhi mentre danzo mi sento di nuovo a casa”.

Nancy sogna di diventare dottore e a scuola è tra le prime. Dominic, Rose e Nancy sono tre giovani vittime della guerra civile combattuta per più di vent’anni in Nord Uganda, ma sono anche degli artisti. Nel 2005 insieme alla loro scuola, unica proveniente dalla zona di guerra, hanno partecipato al National Music Festival che si tiene ogni anno nel Teatro Nazionale di Kampala. Una partecipazione che non solo ha avuto un forte valore simbolico ed emotivo, ma ha valso ai ragazzi un premio da portare al villaggio con la loro meravigliosa Wardance.

Le storie raccontate dagli ex-bambini soldato si assomiglino tutte. Violenze, stupri, rituali di sangue. Ancora decine di migliaia restano prigionieri di guerre assurde. Andrebbe ricordato che a volte le denunce dei governi non solo altro che ipocrita retorica, visto che molti Stati (alcuni dei quali occidentali) ancora mancano di firmare o ratificare il Protocollo opzionale alla Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia, che stabilisce che gli Stati aderenti non possano impiegare nei conflitti armati minori di 18 anni. Molti di questi Stati consentono il reclutamento volontario o obbligatorio dei minori di 18 anni. L’Uganda è uno di questi.

Antonella Sinopoli

 

L'Italia, Repubblica fondata sui morti sul lavoro

Ministro La Russa, perché non manda i militari nei cantieri?

Lo dice il Censis: è di gran lunga il Paese europeo dove si muore di più sul lavoro.

Sono 918 casi in Italia in un anno. Un morto ogni 23 mila lavoratori, a fronte di 678 in Germania (un morto ogni 53 mila lavoratori), 662 in Spagna (un morto ogni 24 mila lavoratori), 593 in Francia (un morto ogni 50 mila lavoratori).
Senza contare che in Italia sono decine di migliaia gli incidenti sul lavoro non denunciati. E che sono decine, o forse più, i morti sul lavoro fatti passare per incidenti stradali o incidenti domestici.
Ma per il nostro governo (e pure per l'opposizione che sullo stesso tema ha incentrato la campagna elettorale) l'emergenza in Italia è la sicurezza.

Non sanno i nostri "politici" che in Italia si è molto più sicuri che altrove in Europa? Molto attenti ai numeri per quanto riguarda i sondaggi, la nostra casta politica è distratta quando si tratta di guardare alla vita reale del Paese. A Roma, lo dicono le statistiche, si è più sicuri che ad Amsterdam e a Londra.

In Italia ci sono 3.750 ispettori del lavoro. La stragrande maggioranza dei quali non mette piede fuori dagli uffici, essendo incaricata di lavori amministrativi. A fronte di centinaia di migliaia di luoghi di lavoro, a fronte di decine di migliaia di cantieri aperti.
Eppure, i giornalisti e i politici continuano ad alimentare un inesistente allarme sicurezza. E a fare abilmente aumentare l'insicurezza "percepita", che è un po' come il caldo di questi giorni: sembra molto più di quanto non lo sia realmente. Ma quello dellla temperatura percepita è un fenomeno del tutto naturale, mentre quello dell'insicurezza è costruito ad arte per distogliere l'attenzione dai veri problemi delle persone. Da media e politici, ancora una volta complici di una gestione privata delle cose pubbliche.

E poi ci si stupisce delle pattuglie di militari in città.
Perché non affiancare i militari agli ispettori del lavoro, caro ministro La Russa? Anche questa è una idea da sessantottini?

Maso Notarianni

 

Fronte del porco
 
Alla ricerca del cibo «low cost». Crollano gli acquisti degli italiani anche nella grande distribuzione. La crisi avanza. Prezzi alle stelle, le famiglie rinunciano al «lusso» persino negli alimentari.

Alessandro Braga


Del maiale, si sa, lo dice anche un vecchio adagio, non si butta via niente. Soprattutto, se è concesso il bisticcio letteral-zoologico, in tempi di vacche magre. Non meravigliano quindi gli ultimi dati sui consumi delle famiglie italiane che confermano, ancora una volta se fosse necessario, quello che si va dicendo da tempo. Ossia che nell'ormai ex Belpaese sono in moltissimi a far fatica ad arrivare a fine mese. E allora, per preservare l'incolumità di portafogli sempre meno gonfi, a fronte di costi sempre più elevati, si taglia dove si può, anche in settori una volta considerati di prima necessità.
A lanciare l'allarme, ieri, le rilevazioni fatte da Iri-Infoscan, società che monitora oltre settemila punti vendita tra ipermercati, supermercati e simili. La grande distribuzione italiana, nel bimestre maggio-giugno del 2008, ha fatto registrare un calo dello 0,7% delle vendite rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Era dal bimestre gennaio-febbraio del 2007 che non si assisteva a una decrescita nel settore.
Crisi che colpisce, in maniera pesante, anche il settore alimentare di qualità. La denuncia arriva dalla Coldiretti, che analizza come cambia la composizione del carrello degli italiani: per risparmiare, mangiano meno carne bovina, -3%, poca frutta, a meno che non sia di stagione (-2,6%), e si buttano a capofitto sulle offerte e sulle carni considerate più abbordabili. In particolare il maiale, nelle sue parti «meno nobili», seppur succulente: braciole («Che almeno costano mediamente 6-7 euro al chilo», fa notare una massaia all'uscita di un grande supermercato), salsicce e mortadella (al pan di magùtt, il pane dei muratori, si dice a Milano). Niente fettine di vitello, né tantomeno prosciutto crudo. E manco a pensarci di riempire il carrello con i prodotti tipici regionali, come formaggi sardi, bresaola della Valtellina e simili. Un ritorno, più o meno obbligato insomma, alla cucina tradizionale dei nonni. A volare, letteralmente, le carni bianche, con la carne di pollo che segnala un vero boom con un +6,6%, in totale controtendenza con i diretti concorrenti.
A patire il contraccolpo della crisi c'è anche il pane. Se ne compra meno, una famiglia tipo dimezza addirittura il suo consumo di pane quotidiano e, se proprio si deve acquistare, allora si punta su quello «povero», il casereccio, rinunciando a quelli più elaborati. Niente focaccine o pane all'olio, per capirci.
Ma se l'inflazione corre e il carrello della spesa, inevitabilmente, a poco a poco si svuota, le famiglie italiane cercano stratagemmi per riuscire, nei limiti del possibile, a mantenere inalterati i loro consumi. Rinunciando ad esempio ai prodotti di marca, i brand più noti anche a causa delle martellanti campagne pubblicitarie, e acquistano prodotti simili, ad esempio i cosiddetti private label, ossia quelli che espongono il marchio del supermercato stesso. Questi ultimi infatti, contro un calo delle vendite dei prodotti di marca costante negli ultimi tre mesi (-2,7% ad aprile, -2,5% a maggio e -0,9% a giugno) registrano un continuo aumento, seppur meno velocemente rispetto ai mesi scorsi: a giugno +5,1%, contro un +10,8 del mese di maggio.
A pesare sul calo dei consumi, ovviamente, il caro prezzi che, sempre secondo i dati forniti dall'indagine Iri-Infoscan, per i beni di largo consumo è schizzato al 4,6%. E, aggiungono gli analisti, fino a settembre «c'è da aspettarsi una tendenza rialzista». Immediate, le reazioni delle associaizoni di consumatori: Adusbef e Federconsumatori chiedono immediatamente iniziative concrete per sostenere il potere di acquisto delle famiglie italiane. «Simili provvedimenti - dicono - non sono più procrastinabili. Anzi, siamo già in ritardo, se non ci si muove si rischia il collasso». E preoccupato è anche Paolo Landi, di Adiconsum: «E' colpa del prezzo del petrolio - dice - mediamente una famiglia ha perso nell'ultimo anno, come potere di acquisto, circa una mensilità. Se si pensa poi a chi ha dovuto accendere un mutuo a tasso variabile, la media arriva a due mensilità». Insomma, tutti sono d'accordo, la recessione è vicina.

La morte di Bianzino non si può archiviare»
Il gip respinge la richiesta del pm
Emanuele Giordana
 
Come morì Aldo Bianzino, l'ebanista di Pietralunga entrato in perfetto stato di salute in carcere il 12 ottobre dell'anno scorso e uscito senza vita dalla casa circondariale di Perugia due giorni dopo? La domanda, cui la richiesta di archiviazione del pm Giuseppe Pietrazzini, sembrava aver dato una risposta definitiva con la richiesta di archiviazione, rimbalza adesso nuovamente su una vicenda sin dall'inizio apparsa oscura e piena di misteri. Il gip Massimo Ricciarelli, cui diverso tempo fa i famigliari presentarono opposizione in sede civile, ha deciso di accogliere adesso anche l'opposizione alla richiesta di archiviazione presentata in luglio dall'avvocato dei genitori di Aldo - Giuseppe e Maura - e di Roberta Radici, la compagna di Bianzino con lui arrestata e poi rilasciata senza che nemmeno le fosse stato detto, se non all'uscita dal carcere, che Aldo era morto.
Si deve alla caparbietà dei famigliari dunque se il caso non si chiude in uno scaffale degli uffici giudiziari perugini e se le eccezioni sollevate dal legale, l'avvocato Massimo Zaganelli, ricostruiscono un percorso di dubbi e interrogativi non ancora sciolti che il magistrato ha evidentemente considerato validi, quantomeno a non far diventare la storia di Aldo un semplice faldone di carte polverose. La ricostruzione della parte civile mette in fila tutte le contraddizioni di quelle terribili ore a cominciare dalla mattina di domenica 14 ottobre quando Aldo è rinvenuto, inanimato, sulla branda superiore del suo letto. I suoi indumenti si trovano, ordinati, su quella inferiore. La finestra della cella è aperta seppure sia ottobre inoltrato e Aldo indossi solo una maglietta a maniche corte. Per il resto è nudo. Il corpo viene prelevato dagli agenti, trasportato subito fuori della cella e deposto sul pavimento del corridoio dell'infermeria, sita a pochi metri. Viene innalzato un lenzuolo così che gli altri detenuti nulla possono vedere. Si tenta la rianimazione, effettuando il massaggio cardiaco sul corpo inanimato. Uno dei medici dirà che «non so spiegarmi per quale motivo il detenuto sia stato portato sul pianerottolo davanti alla porta dell'infermeria ancora chiusa poiché (in altri casi) il nostro intervento avveniva direttamente in cella».
Le indagini riveleranno «lesioni viscerali di indubbia natura traumatica (lacerazione del fegato) e a livello cerebrale una vasta soffusione emorragica subpiale, ritenuta al momento di origine parimenti traumatica». Ma poi le ricerche si esauriscono con l'acquisizione dei filmati estratti dalle videocamere dell'istituto di pena mentre viene aperto procedimento penale nei confronti di una guardia per omissione di soccorso. La richiesta di archiviazione per il reato di omicidio viene formulata dal pm nel febbraio scorso con la conclusione che Aldo è morto non per trauma ma per un aneurisma cerebrale; la lesione epatica viene ritenuta estranea all'evento letale facendo escludere « l'esistenza di aggressioni del Bianzino». Motivazioni «assertive e generiche» che, secondo i legali della famiglia, sono «insostenibili» e frutto di un'«istruttoria lacunosa». Valga per tutto una perizia medico legale secondo cui «la lacerazione epatica deve essere ritenuta conseguenza di un valido trauma occorso in vita e certamente non può essere ascrivibile al massaggio cardiaco, in riferimento al quale vi è prova certa che avvenne a cuore fermo».
Il commento, che Roberta Radici ha affidato al quotidiano La Nazione, è lapidario: «Una scheggia di luce per il mio piccolo Rudra», il figlio di Aldo e Roberta rimasto orfano del padre a soli 13 anni. Nessuno in famiglia si è mai arreso all'archiviazione: non gli altri due figli, Aruna Prem ed Elia con la madre Gioia (che hanno presentato l'altra istanza di opposizione), né i genitori e il fratello di Aldo. Il padre, Giuseppe, domenica scorsa è salito sul palco del Goa Boa, il festival per i diritti umani organizzato dalla Tavola della pace a Genova: di fronte a 15 mila persone, convenute anche per il concerto di Manu Chao e quello di Tonino Carotone, Bianzino ha ricordato il valore anche civile della difesa dei diritti umani. Aveva rivolto un suo personale appello al giudice perché non archiviasse il caso. Appello accolto.

 

L'isola dei segreti
La Diego Garcia utilizzata come prigione illegale
La Base Usa Diego Garcia è stata usata come centro segreto per interrogatori e detenzione di presunti terroristi. La notizia, diffusa dal Time Magazine, era stata ventilata in diverse occasioni, tra cui un rapporto di Human Rights First del 2004, che individuava nel piccolo atollo dell'Oceano indiano a metà strada tra Asia e Africa, uno dei sette centri di prigionia segreti utilizzati nell'ambito delle 'rendition', i trasferimenti di presunti terroristi da un Paese all'altro in violazione della sovranità territoriale, degli standard umanitari sul trattamento dei prigionieri e delle tutele legali dovute ai detenuti.
 
L'isola Diego GarciaNegare l'evidenza. "Gli Stati uniti non hanno mai trasportato nessuno in un Paese dove i prigionieri hanno subito torture. Gli Stati Uniti non usano lo spazio aereo o gli aeroporti di alcun Paese per trasferirli in altri Paesi dove verranno torturati". Questa era stata la dichiarazione di Condoleezza Rice nel 2005. Il presidente Usa Bush, due anni dopo, dietro pressione di numerosi rapporti di organizzazioni per la tutela dei diritti umani e interrogazioni parlamentari di numerosi Paesi europei e dello stesso Parlamento europeo, aveva invece ammesso l'esistenza di un programma della Cia in cui compagnie aeree private trasportavano sospetti in prigioni segrete intorno al mondo. I centri individuati alcuni anni fa erano circa una decina: uno in Iraq, sette in Afghanistan, uno in Pakistan, uno in Giordania, un altro alla base di Diego Garcia, nonché due su altrettante navi militari della marina statunitense. Successivamente, emersero testimonianze sull'esistenza di segrete anche nel territorio europeo, in Polonia e Romania.
 
Ubicazione geograficaSituation Room. Attraverso un ufficiale Usa oggi in pensione, il Time Magazine conferma che nell'isola di Diego Garcia, nel 2002 e nel 2003, vennero imprigionati e interrogati sospetti terroristi. Il militare, dietro l'anonimato, partecipò a numerose riunioni della 'Situation Room' della Casa Bianca, il centro nevralgico decisionale sulle questioni legate alla lotta al terrorismo dopo l'11 settembre. La fonte racconta che durante un incontro, un agente della Cia parlò espressamente dell'utilizzo dell'isola per la detenzione e l'interrogatorio di uno o più prigionieri 'di grande importanza', che in alcuni casi vennero anche interrogati sulle navi che stazionavano nelle acque territoriali dell'isola, la cui sovranità è britannica.
 
Un B-52 e un Stealth sulla pista della Diego GarciaAl di sopra del diritto. Per avere conferma della rivelazione dell'ufficiale contattato dal Time, il magazine statunitense ha intervistato Richard Clarke, ex consulente speciale di Bush sulla Sicurezza nazionale e il contro-terrorismo. "La possibilità di utilizzare la base di Diego Garcia - ha detto Clarke - per la detenzione di terroristi di primo piano è stata più volte discussa in mia presenza. Dato ciò che sappiamo circa l'approccio dell'amministrazione Bush, in termini legali, di fronte a questi problemi, ritengo che la possibilità dell'uso della Diego Garcia sia stato assolutamente verosimile". Clarke, da sempre critico della gestione della guerra al terrore da parte dell'amministrazione Bush, ha dichiarato che utilizzare l'isola senza l'autorizzazione del governo britannico rappresenta una 'violazione non solo della legge britannica, ma anche dell'accordo bilaterale che disciplina la gestione del suo territorio'.
 
Obblighi morali e legali. Il direttore della Cia, nel febbraio scorso, aveva ammesso che due voli in rotta per il Marocco e Guantanamo si erano fermati nell'isola, ma solo all'interno del programma di 'rendition', ovvero per il tempo necessario a fare rifornimento e ripartire verso le destinazioni prefissate. Nel 2003, lo stesso Time aveva rivelato che Hambali, la mente delle stragi di Bali, era detenuto nella base Usa della Diego Garcia. A giugno, il ministro degli Esteri britannico David Miliband ha dichiarato che la Gran Bretagna non accetterà più come oro colato le dichiarazioni degli Usa che negano torture a prigionieri, e che Londra ha "l'obbligo morale e legale" di far sì che nessuna detenzione, interrogatorio o tortura avvenga nel suo territorio nazionale, Diego Garcia compresa.
 
Decollo di uno StealthMedici per i diritti umani. Sulla questione è intervenuta anche l'organizzazione umanitaria statunitense Physicians for Human Rights (Medici per i diritti umani), che ha lanciato un appello per un'inchiesta 'transatlantica' da parte del Congresso Usa e del Parlamento britannico che faccia luce sull'utilizzo della Diego Garcia come centro di detenzione segreto. "Il trattamento dei detenuti e le pratiche di interrogatori dell'amministrazione Bush hanno danneggiato la reputazione della nostra nazione come leader nel campo dei diritti umani" ha dichiarato il direttore Frank Donaghue. "Sette anni di segreti sussurati in stanze segrete devono cessare, e una nuova epoca di testimonianze registrate e interrogatori con tutte le tutele legali finalmente cominciare".
 
La Diego Garcia, l'isola più grande dell'arcipelago delle Chagos, è lunga 25 chilometri e larga 10. Ospita circa 5 mila persone, tra militari e contractors civili. Da qui sono partiti i bombardieri B-52 per le missioni in Iraq e Afghanistan.
  
La verità su Shiwashan
I due elicotteristi rimpatriati dall’Afghanistan raccontano la loro versione
Cosa sia accaduto il 9 luglio nei cieli afgani di Shiwashan, sette chilometri da Herat, da oggi non sarà più un mistero. Perché attraverso una fonte militare arrivano i dettagli di quella sera, i fatti come sono descritti da chi era lì e decise di non sparare, nonostante fosse aggredito da 'fuoco ostile', per la presenza di civili nelle case da dove partivano colpi di armi leggere.
Domenico Leggiero, responsabile del comparto Difesa dell'Osservatorio militare, è noto per le sue battaglie a favore dei militari affetti da patologie legate all'esposizione all'uranio impoverito in teatri di guerra. Leggiero è in grado di riportare la versione dei due piloti di elicottero, protagonisti della notte del 9 luglio, che dopo aver passato alcuni giorni all'ospedale militare romano del Celio, sono stati rispediti nella base del 7° Reggimento Aviazione ‘Vega’ dell’Esercito, a Rimini.
Erano due i Mangusta, in appoggio a un'operazione medevac (evacuazione medica), con un elicottero spagnolo che era intervenuto dopo un'imboscata in cui erano rimasti intrappolati due blindati italiani  “Lince”. Le uniche notizie diffuse riguardavano il rifiuto di uno dei due Mangusta di aprire il fuoco, con il conseguente ricovero dei piloti per sindrome da stress post-traumatico.

 
Una lucida decisione. Secondo la versione dei protagonisti – riportata da Leggiero – quella sera l'intervento riguardò la copertura dell'elicottero medico che evacuò due soldati italiani. Ma dopo l'imboscata, avvenuta all’estrema periferia di Herat, e durante l’operazione di evacuazione medica dei nostri feriti – il tenente Gabriele Rame e l’aviere Francesco Manco – da un palazzo abitato della zona vennero esplosi numerosi colpi di armi leggere. Il timone di coda dell'eliambulanza venne 'sviolinato', graffiato, senza far danni. È proprio a quel punto che i due piloti italiani, ognuno alla cloche di un Mangusta, hanno valutato che rispondere al fuoco con i potenti cannoncini rotanti da 20 millimetri avrebbe significato distruggere l’edificio provocando sicuramente pesanti perdite tra i civili. Quindi hanno optato per una manovra di disimpegno e hanno fatto ritorno alla base. Il comando spagnolo non gradì. Di lì la lamentela con il comandante italiano ad Herat per la mancata copertura di fuoco da parte dei Mangusta. I due piloti, convocati dal comandante per chiarimenti, hanno spiegato di aver lucidamente preso la decisione di non rispondere al fuoco in accordo con le regole d’ingaggio di una missione ufficialmente di pace, non di guerra, che consentono di sparare se attaccati, ma solo se c’è la ragionevole certezza di non provocare vittime civili.
Contro i due piloti non è stata avviata alcuna procedura disciplinare: i comandi hanno preferito rimpatriarli e ricoverarli per alcuni giorni all’ospedale militare del Celio, dando in pasto alla stampa la storia dello stress.

 
Nessuno stress. La questione, come si evince dalle differenze con le versioni ufficiali diffuse fino a oggi, è quanto mai delicata. I due Mangusta, e non solo uno, optarono per la manovra di disimpegno senza aprire il fuoco. E non lo fecero degli equipaggi ‘stressati’, ma consapevoli di fare una precisa scelta, nonostante le raffiche dirette verso di loro. “La loro decisione – afferma Leggiero – è stata un atto di alto profilo etico e morale, che come pilota mi sento di condividere al cento per cento”.
Il secondo punto delicato riguarda direttamente la politica e la propaganda dello Stato Maggiore italiano. L'immagine dei due piloti circolata sui mezzi di informazione è quella di due traumatizzati, quindi colpiti da una sindrome che viene affiancata al fatto stesso di non aver voluto aprire il fuoco. Sono più o meno sottili accostamenti che sortiscono un effetto immediato nella ricezione di una notizia. Dai resoconti diretti, invece, la situazione appare ben diversa, con una scelta che poco ha a che spartire con il logoramento psico-fisico. Ma che risponde, invece, a una presa di coscienza nella difficile decisione di aprire o meno il fuoco su un palazzo abitato.
Per di più il nostro ordinamento militare, aggiungono le nostre fonti in ambito militare e giudiziario, non ha previsto figure di aiuto psicologico direttamente sul teatro di guerra.
 
Cosa succederà adesso ai due piloti, ormai rientrati alla base in Italia, passando per il Celio? L'unica certezza delle nostre fonti è che non li attende un roseo avvenire: in campo militare – ci dicono – queste scelte si pagano. E la vendetta è un piatto che, in quel mondo, viene servito freddo.
 

 

Cessate il fuoco
Il bollettino settimanale delle guerre e dei conflitti in corso n. 29 - 2008 dal 24/7/2008 al 31/07/2008
Nell'ultima settimana, in tutti i Paesi in guerra, sono morte
almeno 828 persone

 
Iraq
Nell'ultima settimana sono morte almeno 147 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno
8343

 
Sri Lanka
Nell'ultima settimana sono morte almeno 208 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 5.699

 
Afghanistan
Nell'ultima settimana sono morte almeno 233 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 3.513

 
Pakistan talebani
Nell'ultima settimana sono morte almeno 90 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 1.604

 
Somalia
Nell'ultima settimana sono morte almeno 28 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 859

 
Sudan
Nell'ultima settimana sono morte almeno 3 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 815

 
Turchia
Nell'ultima settimana sono morte almeno 5 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 432

 
Ciad
Nell'ultima settimana sono morte almeno 3 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 533

 
India Nordest
Nell'ultima settimana sono morte almeno 20 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 438

 
Israele - Palestina
Nell'ultima settimana sono morte almeno 10 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 400

 
India Naxaliti
Nell'ultima settimana sono morte almeno 5 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 378

 
Nord Caucaso
Nell'ultima settimana sono morte almeno 10 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 353

 
India Kashmir
Nell'ultima settimana sono morte almeno 12 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 317

 
Thailandia del sud
Nell'ultima settimana sono morte almeno 4 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 233

 
Colombia
Nell'ultima settimana sono morte almeno 10 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 164

 
Filippine Npa
Nell'ultima settimana sono morte almeno 4 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 159

 
Pakistan Balucistan
Nell'ultima settimana sono morte almeno 1 persona
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 146

Algeria
questa settimana sono morte almeno 4 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 120

 
Nigeria
Nell'ultima settimana sono morte almeno 10 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 125

 
Burundi
Nell'ultima settimana sono morte almeno 2 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 100

 
Filippine Abu Sayyaf/Milf
Nell'ultima settimana è morta almeno 9 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 90

 
Uganda
Nell'ultima settimana sono morte almeno 5 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 88

 
Nepal
Nell'ultima settimana è morta almeno 1 persona
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 52

 
Bangladesh
Nell'ultima settimana sono morte almeno 4 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 32

 

Adelante, senza giudizio
Il Texas sta per mettere a morte un messicano, portando allo scontro Usa e Corte mondiale
Un immigrato ispanico reo confesso, lo stato Usa che più ricorre alla pena capitale, il difficile rapporto tra Usa e Messico, l'insofferenza americana verso le convenzioni internazionali. Non potevano unirsi meglio i vari elementi del controverso caso di José Medellin, un messicano condannato a morte per lo stupro di gruppo e l'omicidio di due adolescenti texane nel 1993, e destinato a morire per iniezione letale il prossimo 5 agosto, nonostante un ordine in senso contrario emesso dalla Corte internazionale di giustizia.

 
L'unica foto recente di Medellin rilasciata dalla polizia di HoustonIl caso. L'affaire Medellin, insieme ai casi di altri cinquanta cittadini messicani attualmente nel braccio della morte in carceri statunitensi, rientra in un contenzioso tra i due Paesi in atto da anni. L'arresto di queste persone non fu notificato ai consolati messicani negli Usa, un obbligo fissato dalla Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari. In passato, Washington ha riconosciuto le violazioni del trattato internazionale e si è scusata con le autorità messicane. Non soddisfatte, queste hanno però portato il caso davanti alla Corte internazionale di giustizia (Icj), che nel 2004 diede ragione a Città del Messico, ordinando ai tribunali Usa di stabilire se la mancata comunicazione ai consolati rendesse invalidi i processi, dato che pregiudica il diritto alla difesa. Dopo quella decisione, il governatore dell'Oklahoma trasformò in ergastolo la condanna a morte del messicano Osvaldo Torres.

 
Scontro legale. Ma il Texas ha un'idea diversa. I tribunali dello stato hanno stabilito che il 33enne Medellin non ha diritto a veder rivista la sua pena. Il principale organo giudiziario delle Nazioni Unite ha però ordinato comunque una nuova udienza per il condannato, che vive negli Usa da quando aveva tre anni ma non ha mai ottenuto la cittadinanza. Nello scontro tra Texas e Icj è intervenuto il presidente George W. Bush, che ha esortato lo stato a dare retta alla corte dell'Onu, ma è andato incontro a un altro rifiuto. Lo scorso marzo, la Corte Suprema statunitense ha dato ragione al Texas, definendo non vincolanti le decisioni dell'Icj e di Bush, che avrebbe dovuto passare prima per il Congresso. Un'ultima richiesta in tal senso dell'Icj, per sospendere l'applicazione della pena a Medellin e ad altri quattro messicani la cui data dell'esecuzione non è ancora stata fissata, è stata respinta dal governatore Rick Perry a metà luglio. Le famiglie delle due vittime, ragazze di 14 e 16 anni, premono affinché l'esecuzione si compia.

 
Il governatore del Texas, Rick PerryUn precedente scomodo. La questione preoccupa però gli esperti legali americani, perché il mancato rispetto delle disposizioni della Corte internazionale di giustizia creerebbe un precedente scomodo per qualsiasi cittadino Usa all'estero. “Gli americani arrestati all'estero potrebbero perdere la protezione legale dell'accesso ai consolati statunitensi”, ha scritto di recente Lucy Reed, presidente dell'American Society of International Law, in una lettera al Congresso, chiedendo a senatori e rappresentanti di intervenire. Ma a pochi giorni dall'esecuzione, il destino di Medellin pare segnato. Potrebbe salvarlo solo un intervento di urgenza del Congresso che però, a pochi mesi dalle elezioni, difficilmente vorrà mettere il dito in una faccenda che lo farebbe percepire “debole” in materia di lotta al crimine. Ci sarebbe anche una mozione Medellin già presentata in aula, ma non è stata neanche discussa. E nessun analista prevede che verrà messa al voto nei pochi giorni che mancano all'esecuzione.
 

 

All'ombra dei rifiuti c'è il re di Malagrotta

di Francesco Bonazzi
Smaltisce la spazzatura di Roma e del Vaticano. Fattura 800 milioni l'anno. E restando sempre dietro le quinte ha creato un impero da due miliardi di euro
La discarica di Malagrotta
In Italia c'è un vecchietto di 84 anni che se domani chiudesse i cancelli dei suoi terreni alla periferia di Roma farebbe cadere il governo in poche ore. Se questo signore con i capelli bianchi decidesse di buttare le chiavi della sua 'tenuta' di Malagrotta e bloccasse i camion della spazzatura all'ingresso, rispedirebbe al mittente le 4.500 tonnellate d'immondizia prodotte ogni giorno dalla capitale e dalla Città del Vaticano. La spazzatura di Gianni Alemanno e quella del Papa.

Uno scenario di fronte al quale l'emergenza rifiuti della Campania sembrerebbe una passeggiata tra i colori e i profumi del Golfo, mentre le immagini del Colosseo inondato dai sacchetti spopolerebbero su Internet e sui telegiornali di tutto il mondo. Così, perfino Silvio Berlusconi, il premier che ha dichiarato di aver già ripulito Napoli, sarebbe costretto ad andare in pellegrinaggio dal signor Manlio Cerroni da Pisoniano, borgo di 700 anime arrampicato sui monti Prenestini, a una cinquantina di chilometri dalla capitale.

Tutto questo per fortuna non accadrà mai, almeno finché Cerroni continuerà a comportarsi da imprenditore responsabile e avveduto. E finché la regione Lazio (nonostante le prediche e le multe minacciate da Bruxelles) consentirà alla discarica di Malagrotta di operare oltre il termine di saturazione, che dal 2005 continua provvidenzialmente a slittare. Tuttavia, lo scenario apocalittico della spazzatura che assedia il Cupolone e copre Piazza Navona aiuta a capire perché Cerroni sia diventato uno degli uomini più potenti d'Italia. Un personaggio con il quale i politici romani fanno i conti silenziosamente fin dal 1975, anno in cui si narra abbia esordito con lo smaltimento dei rifiuti del mattatoio di Testaccio, ma con il quale devono ormai misurarsi anche il governo nazionale e chiunque sia interessato alla gran corsa all'oro rappresentata dai nuovi termovalorizzatori.

Fuori dai confini laziali, l'ottavo re di Roma continua ad essere conosciuto solo dagli addetti ai lavori. Merito soprattutto della riservatezza con la quale Re Manlio ha saputo costruire sulla spazzatura e sui fanghi di scarto un impero gigantesco, capace di operare a Brescia come in Australia, a Perugia come in Romania, in Puglia come in Albania. E poi Francia, Brasile e Norvegia, perché sul suo impero non tramonta mai il sole. Il tutto senza una holding di controllo, senza una banca di riferimento, senza una sola poltrona accettata nel mondo della finanza o della politica.

Cerroni ha messo su un impero a ragnatela, con decine di società che fatturano almeno 800 milioni l'anno, ma poi lo trovi socio di riferimento solo della metà di Malagrotta e di poco altro. Per il resto, preferisce operare in consorzi locali dove compaiono le varie municipalizzate dei rifiuti e dell'energia, dove è complicatissimo capire chi comanda a termine di codici, ma dove a mezza bocca tutti dicono che comanda sempre lui. E dove non c'è lui ci sono le figlie (a Perugia e a Brescia) o collaboratori legati da rapporti ultratrentennali. Secondo stime ufficiose che circolano in ambienti bancari, l'impero di Cerroni varrebbe oltre due miliardi. Ma non essendosi né quotato né indebitato, sono cifre molto aleatorie.

La sua forza non è solo l'evidente potere che gli conferisce il fatto di essere presente in mezzo mondo e di essere "il monopolista assoluto dello smaltimento rifiuti" nei comuni di Roma, Ciampino, Fiumicino e della Città del Vaticano (come ha scritto nel 2004 la commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti). La sua abilità è anche quella di non aver mai frequentato quei salotti della capitale dove il potere romano si annusa, si struscia, ammicca, si esibisce e alla fine si mescola in una macedonia ricca più di veleni che di vitamine.

Al massimo 'l'Avvocato', come lo chiamano con deferenza i suoi dipendenti senza stare tanto a sottilizzare se alla laurea in legge sia seguita anche l'abilitazione professionale, lo puoi incontrare a piedi per l'Eur o sul suo Suv, mentre controlla personalmente le discariche di Malagrotta (con i suoi 250 ettari, la più grande d'Europa) o i terreni di Albano laziale (ai Castelli), dove tutto è pronto per costruire un nuovo termovalorizzatore. E se gli altri suoi nomignoli locali sono 'il Re della monnezza' o 'il Signore di Malagrotta' è solo perché giusto ai nomignoli bisogna affidarsi.

Il suo volto non dice nulla né ai romani né agli italiani. Nessuno lo ha mai visto fare anticamere nei ministeri, né battere i corridoi dei palazzi regionali, del ministero dell'Ambiente o mostrarsi in foto o in tivù. Non rilascia interviste neppure al canale 'Roma Uno Tv', che pure gli appartiene. Non ne ha bisogno. È così ricco che se volesse potrebbe salvare senza fatica la Roma dai 300 e passa milioni di debiti che soffocano il suo vecchio amico Franco Sensi con l'ex Banca di Roma.

Ma, anche se Cerroni è un supertifoso dei giallorossi, neppure Cesare Geronzi potrebbe mai chiederglielo sul serio perché lui non deve nulla a nessuno. L'unica debolezza, se proprio la si vuol chiamare tale, è quella per Pisoniano, del quale è un benefattore riconosciuto. Tempo fa ha salvato anche la locale squadra di pallone, ma senza impegnarsi direttamente: pure al suo paese ha preferito mandare avanti un giovane avvocato romano di sua fiducia. Bastavano pochi soldi (la squadra milita in serie D), eppure li ha fatti un po' sudare. Forse non a caso Pisoniano è dominato da un monte di nome Guadàgnalo.

Guadagnare consensi, al centro come a destra e sinistra, non è mai stato un problema per Cerroni. Nessuno conosce con esattezza le sue attuali idee politiche e neppure se ne abbia. Così si è sussurrato che fosse vicino ad Andreotti solo perché ha fatto fortuna nella zona dove meglio regnava il Divo Giulio, ovvero Roma e il basso Lazio. Ma tra le poche confidenze politiche mai sfuggitegli c'è semmai quella di una stima sconfinata per Alcide De Gasperi. Poi si è mormorato di una sua vicinanza alla Margherita e al centro-sinistra in generale, visto che gli impianti dove tratta i rifiuti sono in gran parte dislocati in aree amministrate da giunte di quel colore. Però è anche un fatto che non ha mai avuto problemi ad andare d'accordo con Francesco Storace, esattamente come non ne ha con Piero Marrazzo e con chiunque ne prenderà il posto alla regione Lazio nel 2010.

Pare che il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, non lo ami particolarmente, come neppure il neosenatore del Pdl Giuseppe Ciarrapico, che con i suoi giornali si diverte a punzecchiarlo. Ma anche nel centrodestra riconoscono a 'Re Manlio' equidistanza e professionalità. Certo, si potrebbe osservare che se nel Lazio la raccolta differenziata rimane a livelli da ridere (più o meno il 15 per cento), una qualche responsabilità l'avrà anche Cerroni. Ma a chi a quattr'occhi gli fa notare la faccenda, lui risponde con due dati di fatto e una cifra tutta sua: il gruppo da trent'anni smaltisce tutto quello che la città gli chiede di smaltire e applica tariffe tra le più economiche d'Italia "grazie alle quali Roma ha risparmiato negli anni oltre un miliardo". Intanto, Cerroni guarda al futuro: tanto che sta già investendo milioni nei termovalorizzatori di domani. Perché i rifiuti (e i politici) passano, Re Manlio no.

 

1 agosto

Piccole vittime senza nome

Due bambini crivellati a un checkpoint della Nato

Non sappiamo i nomi dei due bambini afgani uccisi domenica dalle raffiche di mitra dei soldati della Nato – i morti stranieri non meritano tale umana attenzione. Sappiamo solo che domenica si trovavano a Kandahar, a bordo di un’automobile che non si è fermata subito all’alt di un checkpoint Isaf. I militari, per ragioni di sicurezza, hanno aperto il fuoco. I due bambini sono stati crivellati di colpi e sono morti dissanguati. Ferito gravemente il guidatore.
Il giorno prima, nella vicina provincia di Helmand, quattro civili avevano perso la vita nella stessa identica maniera, tre rimangono feriti.
Nelle stesse ore, altri tre civili erano morti sotto un bombardamento dell’artiglieria Usa nella provincia orientale di Paktika, mentre nove agenti di polizia afgani erano stati uccisi “per errore” in un bombardamento aereo statunitense nella provincia occidentale di Farah, sotto comando italiano.

Escalation di stragi. Quest’anno il numero di civili afgani uccisi dalle forze Nato ha registrato una drammatica impennata, con “incidenti” ormai quotidiani e sempre più sanguinosi. Tra giugno e luglio si sono verificate delle vere e proprie stragi. Come quella del 6 luglio, quando i caccia della Nato hanno bombardato un corteo nuziale sulle montagne della provincia di Nangarhar, ammazzando quarantadue donne e bambini, tra cui la giovanissima sposa, una ragazzina di nome Ruhmina.
Solo due giorni prima, ventidue civili sono rimasti uccisi in un bombardamento aereo Usa nella provincia orientale del Nuristan. Il governatore provinciale che ha denunciato il massacro è stato destituito pochi giorni dopo da Karzai.
Il 10 di giugno, trentatré civili sono morti sotto le bombe sganciate dai caccia statunitensi su un villaggio della provincia di Paktika.

Piccole vittime. Dei tanti – impuniti – crimini di guerra commessi dagli Stati Uniti e dalla Nato in Afghanistan, quelli contro i bambini sono certamente i più odiosi.
Lo scorso 21 marzo, il nostro Venerdì Santo, le bombe Nato sganciate su un villaggio nella provincia centrale di Uruzgan uccisero e ustionarono diversi bambini. Altri ne morirono dopo il ricovero all’ospedale di Emergency a Lashkargah.
Nella stessa clinica pochi giorni prima era stata ricoverata una donna, Halima, che aveva appena perso i suoi due bambini, uccisi dalla mitragliatrice di un elicottero Apache assieme ad altri dodici suoi familiari nel villaggio di Haydarabad, in provincia di Helmand.
Tornando indietro negli anni, fino alle stragi del dicembre 2003 a Hutala e Gardez, l’elenco degli episodi che hanno visto la morte di bambini afgani per mano delle truppe Usa e Nato è lunghissimo, e dovrebbe far riflettere.

Enrico Piovesana

 

Roma, chiude l'ospedale dei poveri

Cura migranti e precari, ma il decreto taglia Ici uccide l'Inmp

«Riusciremo a proseguire le nostre attività fino ad ottobre, poi saremo costretti a chiudere». È un'altra conseguenza del decreto taglia Ici: la chiusura dell'Istituto nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti e per il contrasto delle malattie della povertà (Inmp). Inaugurato solo nel gennaio scorso come fiore all'occhiello della sanità pubblica italiana alla presenza del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, l'Inmp ha raccolto l'esperienza lunga 25 anni del prestigioso ospedale San Gallicano di Roma. Qui, nel cuore di Trastevere, l'Inmp è diventato il punto di riferimento delle fasce più deboli e povere della popolazione, come immigrati e anziani ma anche, in misura sempre più crescente, giovani disoccupati e precari. «Solo nell'ultimo anno - racconta il direttore Aldo Morrone - abbiamo dato assistenza a 20.000 persone, di cui il 10% bambini. Immigrati, ma anche, e sempre di più, cittadini italiani con redditi bassi, circa il 40% dei nostri pazienti. Sono pensionati, ma anche tantissimi giovani precari: come ad esempio i precari dei call-center che non hanno i mezzi per rivolgersi altrove». Talmente importante il lavoro dell'Inmp, che nel giro di pochi mesi ha aperto centri regionali di riferimento anche in Sicilia e in Puglia. Il decreto taglia Ici ha cancellato i 20 milioni di finanziamento stanziati dal precedente ministro della salute Livia Turco per il biennio 2008-2009, mentre nel 2007 l'istituto aveva potuto usufruire di 5 milioni di euro. Ma Morrone, che spiega come l'assistenza alle donne immigrate aveva , per esempio, fatto ridurre il numero di aborti, non molla: «Ho scritto a tutti, da Berlusconi a Tremonti e Letta: nessuna risposta salvo che da parte del sottosegretario alla salute Eugenia Roccella che ha detto di apprezzare la nostra attività ma il bilancio impone la cancellazione dei fondi. Spero non ci siano elementi di xenofobia in tale decisione e lancio un appello a governo e Parlamento».

 

Aiuti allo sviluppo, indietro come i gamberi

La Finanziaria taglia 170 milioni di euro per la cooperazione internazionale

Indietro come i gamberi. L'Italia diminuisce ancora la quota degli aiuti allo sviluppo. La retromarcia è stata innestata la settimana scorsa, quando la Camera dei Deputati ha approvato un taglio di 170 milioni di euro nel Decreto di programmazione economica e finanziaria (Dpef).

Al di sotto delle aspettative. Con la misura, conentuta nell'articolo 60, comma 11 del disegno di legge, nel triennio 2009-2011 (dopo il passaggio in Senato) si diminuirà, anzichè aumentare come previsto dagli obiettivi fisssati dall'Unione Europea e dalle Nazioni Unite, la percentuale di prodotto interno lordo destinata ad aiutare i Paesi poveri a migliorare la loro crescita. L'Italia tira a fondo l'Europa, confermandosi il fanalino di coda per allocazioni alla cooperazione internazionale: solo lo 0,19 del Pil. Secondo quanto calcolato dall ong Oxfam-Ucodep, per rispettare gli impegni sottoscritti in varie sedi internazionali, l'Italia dovrebbe stanziare 6,403 miliardi di euro entro il 2010, pari allo 0,51 percento del Pil (112 euro per ogni abitante). Meno della metà di quanto gli italiani spendono in calzature (260 per abitante), barbiere e parrucchiere (185 euro) o acque minerali e bibite (127 euro). Avendo stanziato finora 2,471 miliardi di euro, entro il 2010 i fondi per lo sviluppo dovrebbero ammontare a 2,932 miliardi di euro. "Ci auguriamo che il governo stanzi nuovi fondi per rispettare gli impegni" esorta Farida Bena, responsabile ufficio campagne dell'Oxfam-Ucodep.

Pochi spiccioli. Il primo ministro Silvio Berlusconi ha annunciato al G8 giapponese che l'Italia, che ospiterà il summit il prossimo anno, stanzierà 1,57 miliardi per la salute globale nell'arco di cinque anni, ma non è ancora chiaro a quali risorse attingere per assicurare tale somma. Ciò che è certo è che dei quasi tre miliardi di euro del 2007, solo 71 milioni sono transitati alle organizzazioni non governative. Mancando una comunicazione trasparente da parte del governo, per verificare gli stanziamenti reali occorre fare come ha fatto l'Ocse (Organizzazione europea per la cooperazione e lo sviluppo), che ogni anno pubblica un rapporto sulla cooperazione italiana. In quello del 2006 (dove il totale era di 2,3 miliardi di euro) risultava che un miliardo è 'virtuale', riferendosi alla cancellazione del debito. Ottocento milioni sono andati alla Commissione europea come contributo annuale. La cifra che l'Italia ha investito direttamente in cooperazione è stata di 461 milioni. Pochi spiccioli alle ong, e il resto 'spalmato' tra varie istituzioni internazionali, tra cui Banca mondiale, banche regionali di sviluppo, agenzie delle Nazioni Unite o governi dei Paesi destinatari dell'aiuto.

L'esperto. Abbiamo chiesto a Sergio Marelli, presidente dell'associazione delle Ong italiane, una valutazione sui tagli agli aiuti. "E' un segnale che esprime un forte allarme. Non solo fa sprofondare l'Italia in fondo alla media europea, ma soprattutto disattende gli impegni formali che il nostro Paese ha sottoscritto con la comunità internazionale".

Quali sono i Paesi più virtuosi in Europa?
Quelli che hanno già superato la soglia dello 0,7 precento indicata dalle Nazioni Unite come necessaria per il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo del millennio: Svezia, Olanda e Lussemburgo. Noi risultiamo lontani anche da quei Paesi di fascia media che, pur non raggiungendo gli obiettivi, hanno sviluppato politiche reali di investimento, come la Spagna, un Paese che potremmo considerare accomunabile all'Italia, in termini economici, che ha raddoppiato i fondi per la cooperazione internazionale.

Quali strumenti si possono adottare per migliorare la situazione, a quali fonti 'alternative' attingere per aumentare gli stanziamenti?
Lo 0,7 percento è solo una parte del problema. Ma non è l'unico. C'è la questione di come vengono spesi questi soldi. A settembre, ad Accra, mi recherò a un'imporante conferenza internazionale delle Nazioni Unite dove verrà discussa la cosiddetta qualità degli aiuti e la loro efficacia. Anche qui l'Italia non brilla nello scenario internzionale. Pensiamo all''aiuto allegato', ovvero l'erogazioni di aiuti ai Paesi poveri solo a condizione che le commesse e i fornitori siano di provenienza del Paese donatore. L'Italia registra le percentuali più alte d'Europa, perchè al netto della cancellazione del debito, i due terzi delle risorse allocate dall'Italia soggiacciono a questo meccanismo. Ancora: per i servizi fondamentali si era deciso alla conferenza di Copenhagen che il 20 percento delle risorse dovessero andare a educazione, sanita ecc... L'Italia è al di sotto del 5 percento. Infine, il governo potrebbe incentivare l'intervento del privato sociale, delle ong, con misure concrete. Per esempio la defiscalizzazione dei volontari, che sono paradossalmente considerati soggetti d'imposta. Il rimborso che viene loro erogato è soggetto a tassazione come se fossero dei lavoratori dipendenti. Poi si dovrebbe rendere più efficace e snello il meccanismo del 5 per mille, oppure investire le tasse di scopo, come la carbon tax, nello sviluppo. Infine, ed è forse la causa principale del disequilibrio a livello mondiale (e io penso anche dell'impennata dei prezzi alimentari), i fenomeni speculativi internazionali, anche quelli andrebbero tassati. C'è qualcuno che sta giocando sui mercati, a danno dei più deboli e dei più poveri. L'instabilità di borsa generata da questi fenomeni a noi toglie qualche spicciolo dalle tasche, mentre sulle economie fragili dei Paesi in via di sviluppo ha un impatto devastante.

Luca Galassi

 

Poveri nel mirino. Preti e casalinghe senza assegni sociali

Carlo Lania

ROMA

A rischio sono le fasce più deboli della popolazione, quelle che già oggi faticano ad arrivare alla fine del mese. Casalinghe, pensionati con il minimo dei contributi, ma anche sacerdoti, suore e immigrati. Tutte persone che legano la propria sopravvivenza all'assegno sociale percepito ogni mese, messo oggi pesantemente in pericolo dal decreto legge sulla finanziaria del governo Berlusconi che, restringendo i requisiti necessari per vedersi riconsciuto il sussidio, colpisce duramente proprio chi ha più bisogno. «Se la norma sugli assegni sociali non sarà modificata in Senato, ci troveremo di fronte alla distruzione del nostro sistema assistenziale», denuncia Morena Piccinini, segretaria confederale della Cgil. E insieme ai sindacati protestano anche i partiti di opposizione e le associazioni, dalle Acli alla Federcasalinghe. Al punto che in serata il ministro del Welfare Sacconi è costretto a intervenire promettendo di correggere la norma incriminata nel futuro ddl sulla manovra che verrà discusso nei prossimi mesi.
Per essere un governo che si vanta di mettere in atto politiche di sinistra, come afferma Berlusconi, non c'è davvero male. Oggi l'assegno sociale di 380 euro viene riconosciuto agli ultrasessantacinquenni che, non avendo contributi, non hanno diritto alla pensione. Norma che però viene cambiata sostanziamente e più volte dal decreto legge. L'ansia xenofa della maggioranza punta infatti ad escludere gli immigrati dal beneficio attraverso una serie di emendamenti che, oltre all'età minima di 65 anni, introducono un criterio nuovo, legato questa volta al reddito. L'ultima versione dell'articolo spiega infatti che ha diritto al sussidio solo chi ha lavorato legalmente - e quindi versato i contributi - per almeno dieci anni in Italia e con un salario pari almeno all'ammontare del reddito sociale. Una condizione che ovviamente non esclude solo gli immigrati, ma soprattutto una grossa fetta di italiani.
Tra i primi a protestare ci sono proprio infatti le casalinghe, a lungo corteggiate dal premier Berlusconi in tempo di campagna elettorale. «Se c'è una categoria che ha diritto all'assegno è proprio quella della calinghe, che dopo aver dedicato la vita alla famiglia si ritrovano senza reddito. La povertà è donna», dice Federica Rossi Gasparrini, presidente dei Federcasalinghe, che non rinuncia a una sottacata polemica: «E' paradossale - dice infatti - che le casalinghe vengano penalizzate proprio dal governo che hanno votato». «Si tratta di una modifica maldestra oltre che ingiusta», fanno eco le Acli, mentre per il Pd Luigi Bobba «con un colpo di mano notturno, la maggioranza ha cancellato di fatto 800 mila assegni sociali». D'accordo sulla necessità di rimettere mano all'articolo anche il presidente della commissione Lavoro della Camera Giuliano Cazzola: «Stando al formulazione attuale - ammette - l'assegno cambia natura e non sarà più percepito neanche da tanti cittadini italiani».

 

E' bravo, mandiamolo via

di Daniela Minerva

Aveva messo le briglie alle aziende. Imponendo prezzi più bassi. Così Nello Martini, direttore dell’Agenzia del farmaco, è stato licenziato. E ora gli scienziati insorgono

Troppo potere in una sola persona: è questo il commento di molti addetti ai lavori alla notizia del licenziamento di Nello Martini dalla direzione generale dell'Aifa, l'agenzia preposta all'autorizzazione e commercializzazione dei farmaci in Italia, e quindi a gestire un business da 17 miliardi di euro, di cui 16 per la sola parte pubblica. Per come è congegnata l'Aifa, e per come è fatto Martini, questa fetta della torta negli ultimi quattro anni è stata nelle mani dei tecnici dell'agenzia, che hanno deciso tutto, dal tipo di farmaci in vendita al prezzo.

Oggi a dirigerla è Guido Rasi, professore di microbiologia, consigliere di amministrazione dell'Istituto superiore di sanità, in quota ad An. E il governo si avvia a una "riorganizzazione" dell'agenzia, con una divisione delle competenze che molti chiamano smantellamento. Troppo potere, in una sola persona senza un definito colore politico e in un solo organismo tecnico. Sulla carta, però, Nello Martini è caduto sotto i colpi dell'inchiesta del giudice torinese Raffaele Guariniello che, nel maggio scorso, ha ipotizzato il reato di corruzione per Pasqualino Rossi e Antonella Bove, funzionari dell'Aifa, e per sei lobbisti incaricati da diverse aziende farmaceutiche di ammorbidire i funzionari dell'agenzia. E ha accusato Martini di «disastro colposo» per aver tardato a aggiornare 22 foglietti illustrativi sui possibili effetti collaterali dei farmaci. Ma l'accusa sembra flebile alla luce del parere, che "L'espresso" è in grado di rivelare, redatto per il collegio di difesa di Martini da nove esperti tra i più autorevoli d'Italia: cinque farmacologi (Montanaro, Tognoni, De Ponti, Caputi, Tagliamonte) e quattro clinici (Pagliaro, Del Favero, Bobbio, Brignoli). Gli scienziati hanno concluso che l'aggiornamento dei 22 foglietti era «spesso solo di riformulazione stilistica».
E negano che i ritardi «abbiano costituito un pericolo per la salute pubblica ». In particolare, scrivono gli esperti: «Le valutazioni della professoressa Adriana Ceci (la farmacologa perito di parte dell'accusa, ndr) rilevano una mancata padronanza dei princìpi alla base della valutazione del profilo rischio-beneficio dei farmaci. Ella sembra ritenere che la menzione degli effetti indesiderati dei farmaci in una data forma piuttosto che in un'altra, formalmente diversa ma identica nel significato, possa scongiurarne l'eventuale comparsa».

Non solo, aggiungono: «Adriana Ceci, nella sua perizia, giunge a argomentazioni e valutazioni sull'organizzazione complessiva dell'Aifa e della direzione generale, andando oltre il mandato ricevuto e rivelando un'animosità che non sembra compatibile con l'imparzialità propria del consulente d'ufficio e compromette gravemente la validità dell'impianto complessivo della relazione». Periti di parte, si dirà. Ma a confermare il giudizio complessivo è persino la commissione convocata dallo stesso ministro del Welfare e della Salute che ha destituito Martini, Maurizio Sacconi, per decidere se è in atto il "disastro colposo", che ha deliberato: pericoli non ce ne sono per nessuno.

Così, come un mantra, ritorna quel «troppo potere in una sola persona», a suggerire che l'inchiesta di Guariniello, meritoria nell'individuare alcune mele marce dentro l'Aifa, ha finito per dare l'occasione che tutti aspettavano da anni. Levare di mezzo Martini, il ras dell'Agenzia, lo schivo veronese che nessuno ha mai incontrato in nessun salotto, il più bipartisan dei gran commis, l'amico di Rosy Bindi che Girolamo Sirchia ha nominato all'Aifa. Ma, nei fatti, l'uomo che ha tagliato i prezzi dei farmaci del 15 per cento in quattro anni (l'Aifa è nata nel 2004). E che ha costretto i lobbisti di Big pharma a ore di anticamera per entrare nella sala delle negoziazioni, l'incubo degli uomini delle aziende, dove, a colpi di studi clinici, di dati epidemiologici, ma anche di blandizie e minacce, le due parti arrivavano a definire il prezzo di un farmaco; sempre troppo basso e frutto di intollerabili aut aut di Martini, a sentire i lobbisti. Che poi salivano e scendevano col cappello in mano le scale di via della Sierra Nevada, per avere informazioni sulle registrazioni, sugli iter, su tutto, insomma. Perché i funzionari erano blindatissimi e per sapere a che punto erano le procedure, i controlli e le autorizzazioni, per avere delle indiscrezione sulla linea che intendeva tenere Martini nelle negoziazioni, gli uomini delle industrie erano costretti a decine di telefonate e a dispensare sorrisi, inviti a pranzo, come anche, a sentire il giudice Guariniello, regalini a Rossi.

L'Agenzia di Martini era come un bunker dove la stragrande maggioranza delle decisioni passava sul tavolo del direttore. Il comandante ombroso che sorrideva a tutti, ma riceveva solo chi pareva a lui, ovvero chi dava garanzie di abbassare i prezzi e la cresta. E la cresta le aziende in questi anni l'hanno abbassata: «Martini non lo riceve, » si sussurrava Da sinistra: l'ex capo dell'Aifa, Nello Martini; il ministro del Welfare Maurizio Sacconi; due fasi del processo produttivo in un'industria farmaceutica di questo o quel manager farmaceutico, e subito le nuvole si addensavano sulla sua testa. E le case madri di New York o Londra si rabbuiavano: che razza di lobbista sei se Martini non ti riceve? È stato come assistere a un match durato anni, con le aziende da una parte e il gran commis dall'altra.

Il ministro del Welfare Maurizio Sacconi

Impegnato a mettere ordine nel delirante mercato dei farmaci italiano, frutto di una storia e di un sistema che hanno spinto duplicazioni e sprechi per anni. E dove raramente i numeri della diffusione di una malattia coincidono con quelli dei farmaci per curarla, a dimostrare inequivocabilmente che molti prendono medicine non necessarie che lo Stato paga. Impossibile controllare fino in fondo il rapporto tra medici di base, che prescrivono le medicine, e gli uomini delle aziende, che li convincono a prescrivere. E così, nella Finanziaria 2007, compare il pugno duro di Martini: da oggi sarà l'Aifa a decidere quanto può fatturare un'azienda, assegnandole un budget complessivo basato sul fatturato dell'anno precedente più un incremento fisiologico. Con una clausola di questo genere l'intera macchina del marketing subisce un colpo durissimo.

Non solo: a mettere le briglie a un'altra voce discutibile dei bilanci farmaceutici arriva, nei mesi scorsi, l'algoritmo per definire esattamente cosa rende un farmaco davvero innovativo, e quindi meritorio di prezzi più alti e accesso al mercato. Spiega Montanaro, lo scienziato che lo ha messo a punto: «Per la prima volta si è definito con esattezza un metodo, condiviso con l'industria, per decidere quali farmaci rappresentano una vera innovazione terapeutica. E questo ci permette di mettere a disposizioni dei pazienti medicine davvero utili, scremandole dalle tante novità che arrivano sul mercato e sono per lo più innovazioni di marketing». Insomma, tutti reputano grandi onori all'Aifa, governo e industriali in testa. E allora, molti si chiedono se i regalini presi da Rossi (una finestra, un mobile, un migliaio di euro in contanti) e altre furfanterie riscontrate dagli investigatori ma senza un qualche impatto sulla salute pubblica, come rileva la commissione del ministro Sacconi, siano sufficienti a giustificare il licenziamento di Martini e lo smantellamento dell'Agenzia. Ma l'occasione è ghiotta e irripetibile.
Perché Martini sembrava inamovibile: weltanschauung democristiana, grande diplomatico, invisibile e onnipresente; il Gianni Letta della sanità, come è chiamato, ha bastonato gli industriali, accentrato tutti i poteri nelle sue mani creandosi non pochi nemici interni, imposto agli italiani di usare i farmaci generici che non piacciono a nessuno. Eppure ha costruito una rete bipartisan di amicizie politiche solidissime che l'ha tenuto in sella per anni, a prescindere dai governi in carica. E con lui in sella l'operazione annunciata di fare a pezzi l'Aifa sarebbe difficilmente andata in porto.

Il sottosegretario Ferruccio Fazio ha detto che l'Agenzia sarà organizzata diversamente, anche «attraverso una chiara suddivisione dei compiti e delle responsabilità». Una suddivisione dei poteri, insomma. Più poltrone che contano, a gestire settori milionari. Più potere per i partiti che piazzeranno i loro uomini. Ma in molti si chiedono se con tanti piccoli ras in azione non si moltiplichino i rischi di corruzione che in questo settore sono sempre in agguato. E, in sintesi, ciò che sfugge alla comprensione dell'opinione pubblica è: se l'Aifa ha abbassato i prezzi, garantito i farmaci utili, e limitato a episodi risibili la corruzione, perché cambiare? Troppo lunghi i tempi di registrazione, è l'accusa degli industriali, del governo (nelle parole di Fazio) e di molte associazioni di consumatori. Ma c'è chi, come il farmacologo Silvio Garattini, non manca di ripetere a ogni occasione che più lunghi sono i tempi, maggiori sono le garanzie che un farmaco non abbia effetti collaterali disastrosi e sia davvero utile. E qualcosa di vero nelle sue parole ci deve essere se gli americani, di fronte agli scandali che hanno travolto la loro agenzia, la Fda, accusata di aver licenziato troppo rapidamente delle medicine che poi hanno ucciso, ora fanno marcia indietro e stanno allungando le procedure, chiedendo dossier più accurati e più accurate sperimentazioni. Ma certo le industrie non ne sono contente.

 

 

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