30 aprile

Qui si rifugiavano i partigiani, qui ci fu un rastrellamento nazista
ma lunedì in 19 seggi su 20 Alemanno ha battuto Rutelli

Cinecittà, così la borgata rossa
ha voltato le spalle alla sinistra

di GIUSEPPE D'AVANZO

<B>Cinecittà, così la borgata rossa<br>ha voltato le spalle alla sinistra</B>
ROMA - C'erano due modi a Roma per farla in barba ai tedeschi durante la guerra. O ti rifugiavi in Vaticano o al Quadraro. I partigiani si nascondevano al Quadraro nelle vecchie cave di pozzolana o, meno precariamente, al Sanatorio Ramazzini. Si sentivano sicuri: in quelle strade non s'era mai visto un fascista, figurarsi un tedesco.

La convinzione durò fino alle 4 del mattino del 17 aprile del 1944. Per ordine di Herbert Kappler, gli uomini della Gestapo, delle SS, della Wehrmacht, della banda Koch sbarrarono ogni strada di accesso e di fuga. Rastrellarono 917 uomini e li deportarono in Germania. Solo la metà ritornò a casa. I morti del Quadraro, come i martiri delle Fosse Ardeatine, sono il passato non rimosso di Roma, le ragioni di un convinto antifascismo e in quella borgata - tra le palazzine liberty del primo novecento e le deformi lottizzazione urbanistiche degli anni ottanta - il ricordo vivo che ha sempre connesso l'esperienza dei contemporanei alle generazioni precedenti; una memoria collettiva che è diventata di generazione in generazione genius loci, identità, opzione politica. Fino a lunedì, quando il voto ha reciso il filo lungo e forte di quel passato storico e, nei venti seggi del Quadraro, il postfascista Gianni Alemanno l'ha avuta vinta in diciannove contro Rutelli.

Il successo ha clamorosamente trascinato verso destra l'intera municipalità - la X, Tuscolano, Cinecittà, Capannelle, IV Miglio, Appio Claudio, Romanina, Anagnina, Nuova Tor Vergata, 200 mila abitanti. Dove al primo turno "passava" il presidente del municipio Sandro Medici con quasi 59 mila voti, Rutelli si fermava a 55.379 contro i 42.787 di Alemanno. Al ballottaggio c'è stato un improvviso capovolgimento. Rutelli perde settemila voti, Alemanno ne guadagna quasi diecimila (51.409).

Sandro Medici - un passato di direttore del Manifesto - dice: "Perdere qui replica la lontana, prima sconfitta della Quercia a Mirafiori a vantaggio di Forza Italia; duplica il voto operaio del Nord alla Lega. Se l'esito è lo stesso, i perché sono diversi". Il perché di Massimo Perifano, gelataio, è custodito in una sola parola: "Menzogna". Raccontavano, dice, di una Roma luci e paillettes; una città felice, allegra, che se la godeva. Una città serena, accogliente, solare, senza ombre e problemi. "Sì, magari qualche problemino presto risolvibile qui e là, ma nulla da impensierirsi. Bene, quelle parole ascoltate da queste borgate erano menzogne che non ingannavano nessuno. Che facevano soltanto incazzare, molto incazzare perché erano bugie che lasciavano capire come al Campidoglio non importasse nulla delle borgate; che non avevano bisogno di noi; che il nostro destino gli era indifferente; che potevano fare a meno di noi, di quel che pensavamo o soffrivamo o chiedevamo".

Il popolo di Roma sa essere entusiasta e appassionato. Risentito, se imbrogliato. Feroce, se pensi di trattarlo con sfrontatezza e arroganza. Le storie che si raccolgono a Cinecittà svelano "una superbia" che il voto ha voluto punire. Non è che qui non abbiano capito quale pensiero strategico ha convinto Walter Veltroni, nella sua seconda sindacatura, a convogliare gran parte delle risorse comunali e della legge "Roma Capitale" in grandi opere infrastrutturali come la linea C della metropolitana.

Quel che non buttano giù è perché quell'ambizione ha dovuto riservare alle borgate soltanto negligenza, il progressivo abbandono dei servizi sociali, della piccola manutenzione. C'è qui il Parco degli Acquedotti. È bellissimo. Al centro c'è un laghetto. Lo si è lasciato inaridire. Sono stati eliminati gli orti abusivi. Si doveva riqualificare l'area. Non se n'è fatto nulla. Soltanto per sciatteria non si sono eliminate le buche nelle strade, le piccole discariche abusive "che anche soltanto in una sola notte ti appaiono davanti a casa". Non è stato ristrutturato quel rudere che doveva ospitare il centro anziani a Largo Spartaco. Per disattenzione non si sono completati i marciapiedi, non sono state aperte - e soltanto per stupidi intoppi burocratici, eliminabili con un atto di volontà - una decina di piccole opere già pronte, un sottopasso, una "bretella", un parcheggio, una scuola. Soltanto per disinteresse non si è voluto porre limite al degrado del terminal dell'Anagnina, come se il destino della città e l'abitare si potessero declinare soltanto con le categorie del simbolico, dell'immaginario, della comunicazione e queste fossero capaci di rendere invisibile la realtà.

Ti ci accompagnano al terminal perché, dicono, "vedrai, non puoi immaginarlo". E non lo si può immaginare, infatti, quel suk. Il piazzale della metro all'Anagnina è immenso come tre o quattro campi di calcio. Ospita il terminal dei bus delle linee cittadine (verso il centro), interprovinciali (Castelli), interregionali (Calabria), internazionali (Romania). I venditori ambulanti autorizzati dovrebbero essere soltanto quindici. Sono centinaia e centinaia e centinaia. Ogni settore merceologico ha il suo banco, piccolo o grandissimo. Ogni etnia, il suo angolo. Quando la domenica arriva sul piazzale il pullman da Timisoara, i rumeni fanno festa. Hanno a disposizione, quel giorno, anche il loro barbiere, un ristorante improvvisato, la musica, i bar e, dicono, "spesso bevono troppo e litigano".

Quel piazzale era la porta di casa della borgata, l'uscio di un territorio circoscritto, riconoscibile. Con la sua umanità, i suoi odori nuovi e indefinibili, il suo disordine, le illegalità piccole e grandi, è diventato un vuoto che non ospita, che non si può abitare, un brulicante vuoto minaccioso che ha cancellato ogni significato accettato e comune nel dirsi "sono di Cinecittà, del Quadraro, del Tuscolano". La predicazione "buonista", l'inerzia ipocrita che lascia le cose così come sono - e soddisfatti soltanto chi non ne paga le conseguenze ogni giorno - produce qui furia, rabbia, la secrezione infausta di un'impotenza, la convinzione di non essere ascoltati, "di non contare nulla".

"La sinistra non ha le culture e il sapere per affrontare la percezione dell'insicurezza - ammette Sandro Medici - Qui non abbiamo grandi problemi di sicurezza nel senso che, se guardi le statistiche, vedrai che non ci sono criticità e i vecchi del quartiere ti spiegheranno che negli anni Ottanta, con la guerra tra la banda della Magliana e i napoletani, era molto più pericoloso girare di notte da queste parti. Voglio dire che non è minacciata l'incolumità delle persone, ma la loro familiarità con il luogo che abitano. Trovano la spazzatura davanti alla loro porta. Vedono gente che non conoscono. Sono invasi dal fumo dei fili di rame bruciati negli improvvisati campi rom. Questo spaesamento ha provocato l'incertezza e l'insoddisfazione che in Campidoglio non hanno voluto comprendere fino alla bocciatura di Rutelli, oggi. I municipi più popolosi ci hanno voltato le spalle e si sono rivolti a chi ha promesso sgomberi e deportazioni".

Messe così le cose, sembrerebbe che il peso della sconfitta della sinistra a Roma, in questa municipalità "rossa" per tradizione e convinzione, sia da scaricare per intero sulle spalle di Walter Veltroni, responsabile di aver dimenticato le borgate a vantaggio del glamour dei concerti al Colosseo, delle Feste del Cinema, della Città dello Spettacolo. Sarebbe un errore. Anche l'investitura di Rutelli, dicono, ha avuto il prezzo da scontare. Il come si è scelto quel nome. Il perché lo si è scelto. È parsa soltanto la mossa di un'oligarchia, la ricerca di un nuovo equilibrio all'interno di "una cricca di potere".

Un altro segno che la distanza tra la politica e la società civile rende le scelte indipendenti dai gruppi sociali, dalle loro aspirazioni, dalle loro necessità o interessi. Il processo politico riproduce soltanto se stesso. Pensa di poter trascendere gli umori di chi vota, il sostegno attivo della società che pure rappresenta. Una filosofia del potere che, dicono, "non ha fatto i conti con il carattere e il temperamento del popolo di Roma che chiede di essere rispettato oltre che rappresentato, coinvolto e non soltanto usato e che, se non rispettato e coinvolto, ti liquida con un vaffanculo".

La prova è nei numeri. Se Alemanno, al Quadraro, ha sconfitto Rutelli diciannove a uno, Nicola Zingaretti, candidato della sinistra alle provinciali, ha battuto il suo avversario per venti a zero. Vuol dire, ti spiegano, che un'altra candidatura e un altro metodo avrebbero potuto anche attenuare gli errori del passato e ottenere con margini contenuti un altro mandato, un'altra fiducia. Sarà. Resta un ultimo argomento da mettere in piazza. Come è possibile che una borgata per storia e tradizione antifascista ha votato un postfascista? Le risposte che si raccolgono sono un coro: "Quei pregiudizi ideologici non contano più. Non funzionano. È roba del passato. Alemanno, un Alemanno ripulito, è apparso credibile, affidabile, concreto anche ai vecchi che, alla bocciofila del Quadraro, ancora possono raccontare quel 17 aprile del 1944".


 

Precari, appello-choc di una donna napoletana al capo dello Stato
"Caro presidente pochi soldi per un figlio, la ragione prevale sul cuore"

"Solo 1300 euro al mese
ho deciso di abortire"

di LAURA LAURENZI

<B>"Solo 1300 euro al mese<br>ho deciso di abortire"</B>

Un consultorio familiare

ABORTIRE perché non bastano i soldi. Non perché il bambino è gravemente malformato, non perché si è vittime di uno stupro, non perché si è sole senza un uomo accanto. Sandra (nome di fantasia) a 29 anni non se la sente, non ce la fa a diventare mamma: il motivo è che il suo è un lavoro precario, la sua esistenza è precaria, precari sono i suoi orizzonti. Ha fatto i conti e con sgomento ha deciso: un figlio è un lusso che non può permettersi.

E così ha scritto un appello al presidente Napolitano cui ha dato un titolo terribile: "Necrologio di un bimbo che è ancora nella mia pancia". Scoprirsi incinta le ha procurato "un'emozione bruciante, una felicità incontenibile", ma ben presto "la ragione ha preso il posto del cuore". Scrive nella lettera-appello che sta per inoltrare al Quirinale e che ha spedito al nostro giornale: "Presidente, ora devo scegliere se essere egoista e portare a termine la mia gravidanza sapendo di non poter garantire al mio piccolo neppure la mera sopravvivenza, oppure andare su quel lettino d'ospedale e lasciare che qualcuno risucchi il mio cuore spezzato dal mio utero sanguinante, dicendo addio a questo figlio che se ne andrà per sempre".

Ieri mattina Sandra, che vive con il marito in un centro dell'area vesuviana, ha fatto la prima ecografia al Policlinico di Napoli, ha firmato le carte, ha saputo la data in cui abortirà: il 27 maggio, un martedì. Chiede di mantenere l'anonimato perché sua madre non sa niente di questa gravidanza: "Nonostante tutti i problemi sarebbe felice di diventare nonna e di potermi aiutare".

Ha una famiglia alle spalle, un uomo che la ama, una casa. E' sicura di una decisione così importante?
"Mi prenderò questo periodo di tempo per riflettere. E rifletterò molto. Sono sempre in tempo a cambiare idea, intanto però ho prenotato l'intervento. E non mi perdono di non esserci stata attenta, nel breve periodo in cui ho sospeso l'anticoncezionale. Nel frattempo mi chiedo: dove è andata a finire la mia dignità? Ce l'ho messa tutta per costruirmi un futuro. Dopo avere fatto tanti sacrifici, dopo essermi quasi laureata in Scienze Politiche con 18 esami su 22, dopo avere collaborato a un giornale con oltre cento articoli senza mai avere un centesimo e neppure la tessera di pubblicista, dopo aver fatto, io e mio marito, infiniti lavoretti che definire umilianti e sottopagati è dir poco, mi ritrovo a non avere i mezzi per crescere un figlio. Perché se ti manca la moneta da un euro per prendere la metropolitana non importa, ma se ti mancano i cento euro per portare il tuo bambino dal dottore importa eccome".

Alla Asl non paga. Quanto guadagna al mese?
"Io, che oggi faccio la commessa in un negozio di informatica ma non sono ancora regolarizzata, prendo 800 euro al mese. Mio marito, che è più giovane di me, ha 25 anni, è cubano, diplomato all'Accademia, un artista, ha trovato un posto da apprendista sempre nel campo dei computer e guadagna 500 euro al mese. Lavoriamo sei giorni alla settimana e insieme le nostre entrate ammontano a circa 1.300 euro. E meno male che non paghiamo la casa perché ci ospita una mia vecchia zia".

Con duemila euro al mese non abortirebbe?
"Sicuramente mi terrei il bambino. La mia, oggi, è una scelta per obbligata. Mio marito è più deciso di me: più di me vede la cosa dal punto di vista della concretezza. Pensa sia un fallimento non potere dare a un figlio ciò di cui ha bisogno. In altri paesi le coppie vengono aiutate, qui si parla tanto di baby bonus ma poi nei fatti non succede niente. Lo credo che l'Italia è alla crescita zero".

Perché ha scelto di rivolgersi a Napolitano?
"Perché è la più alta carica dello Stato. Perché è un simbolo. Perché è una persona che sento di rispettare più di tutti. La mia lettera è soprattutto uno sfogo, un gesto di disperazione e di impotenza. Gli scrivo che qui non c'è nessuno che ti tende una mano quando hai veramente bisogno. Gli scrivo anche: per favore, mi risparmi banalità del tipo: 'Dove si mangia in due si mangia anche in tre!. Mi risparmi la retorica, perché è l'unica cosa di cui non ho bisogno'".

Spesso le banalità sono vere. Cosa le ha detto stamattina l'ecografista?
"Che sono alla quarta settimana di gravidanza. L'embrione è ancora così piccolo che quasi non riusciva a vederlo. Poi la ginecologa mi ha prescritto degli esami del sangue per sapere l'età esatta del feto. Ho anche parlato con l'assistente sociale. Mi hanno fatto leggere e firmare una carta in cui sono elencati tutti i rischi che l'interruzione di gravidanza comporta".

Suo marito l'ha accompagnata?
"Purtroppo non poteva assentarsi dal lavoro, che ha trovato da poco, e al suo posto è venuta una mia amica. Ma mi ha telefonato molte volte. Sa qual è la cosa che mi fa più rabbia? La mancanza di prospettive. Mio padre, che è morto 15 anni fa, era un ingegnere, mia madre è una bancaria in pensione. Noi di questa generazione occupiamo ruoli sociali molto inferiori rispetto ai nostri genitori La mobilità sociale esiste, però in forma peggiorativa. Fra i vari lavori che ho fatto c'è anche quello di baby sitter, prima con un'agenzia, poi anche da sola. Amo moltissimo i bambini: ti riempiono la vita, sono splendidi. Avrei anche già scelto il nome per mio figlio, perché sento che è un maschio: lo stesso nome di mio padre".

Non ha pensato alla possibilità di farlo nascere e poi darlo in adozione?
"Non lo farei mai. Mai, per nessun motivo. Sapere che esiste da qualche parte nel mondo un mio bambino e io non mi occupo di lui sarebbe lo strazio peggiore".

 

Il rifugio dei para-diplomatici

L'attuale ambasciatore colombiano a Roma invischiato nella compra dei voti per la riforma costituzionale pro-Uribe
Di Annalisa Melandri 
 
Situazione sempre più difficili in Colombia per il presidente Álvaro Uribe, ma probabilmente si profilano tempi duri anche per l’attuale ambasciatore colombiano in Italia, Sabas Pretelt de la Vega e per altri funzionari, tra i quali il Fiscal General (la massima carica della magistratura colombiana) Mario Iguarán. La Corte Suprema di Giustizia, forse l’unica ancora di salvezza che rimane alla Colombia, sta indagando sulle modalità con la quale fu approvata nel 2004 la riforma costituzionale che ha reso possibile la rielezione del presidente colombiano due anni più tardi.
 
 
Alvaro UribeIl trio. E’ stato emesso infatti un mandato di arresto per la parlamentare Yidis Medina, la quale una settimana fa ha rivelato in un’intervista ai mezzi di comunicazione, di aver accettato incarichi pubblici, tra i quali probabilmente un consolato, in cambio del suo voto favorevole che fu decisivo proprio per l’approvazione di quella riforma costituzionale. La stessa Medina ha affermato inoltre in quell’intervista, che sia Uribe, sia alcuni suoi stretti collaboratori, quali l’allora segretario generale della Presidenza Alberto Velásquez, l’attuale ambasciatore colombiano a Roma e all’epoca ministro dell’Interno, Sabas Pretelt de la Vega, nonché l’attuale Fiscal General Mario Iguaráni, erano perfettamente a conoscenza della proposta dello scambio del voto contro incarichi pubblici. La Medina attualmente è latitante, ma ha comunicato tramite il suo avvocato, Ramón Ballesteros, che probabilmente si consegnerà alla giustizia tra lunedì e martedì prossimo. Tutte le persone coinvolte potrebbero essere pertanto inserite nelle indagini e l’attuale ambasciatore colombiano essere richiamato in patria.
Sabas Pretelt de la Vega operò nella vicenda come tramite tra le proposte del governo e Yidis Medina.
 
 
Sabas Pretelt de la VegaCorsi e ricorsi storici. La storia si ripete quindi, e per il corpo diplomatico di via Pisanelli, sede dell’ambasciata colombiana a Roma, potrebbe figurarsi un nuovo cambio al vertice se la Corte Suprema di Giustizia della Colombia decidesse di procedere anche contro l’ambasciatore Sabas Pretelt de la Vega costringendolo quindi a far ritorno in patria per far luce sul suo ruolo nell’intera vicenda. Già in passato sorte analoga era toccata all’allora console di Milano Jorge Noguera Cote e al precedente ambasciatore a Roma, Luis Camilo Osorio. 
Luis Camilo Osorio fu trasferito da Roma alle sede diplomatica messicana, da dove fu costretto a ritornare in patria per rispondere in tre processi tuttora aperti in cui è accusato di aver favorito l’ingerenza dei paramilitari quando ricopriva la carica di Fiscal General tra il 2001 e il 2005. Secondo le accuse e le testimonianze fornite, favorì l’impunità dei criminali e politici che avevano commesso crimini contro l’umanità legati al paramilitarismo e al narcotraffico, proteggendo tra gli altri il generale Rito Alejo del Río, indicato da Salvatore Mancuso come artefice dell’espansione del paramilitarismo in Colombia. Nel 2002 fu denunciato da Human Right Watch per aver ostacolato la giustizia con il suo operato: “mancanza di appoggio ai pubblici ministeri che lavoravano su casi sensibili di diritti umani, incapacità di fornire una protezione efficace e tempestiva ai funzionari le cui vite erano minacciate, e licenziamento o rinuncia forzata di pubblici ministeri e investigatori esperti”.
 
AucSuspance. Jorge Noguera Cote, ex console a Milano, fu costretto invece a lasciare l’incarico nel 2006 per i procedimenti penali avviati contro di lui e fu arrestato nel luglio del 2007 in Colombia, con l’accusa di avere avuto stretti legami con i paramilitari e di aver fornito ai capi delle Auc informazioni riservate, in particolare è accusato di aver fornito agli stessi liste di sindacalisti, politici e attivisti sociali che furono successivamente eliminati.
Sabas Pretelt de la Vega, l’ideatore della legge di Giustizia e Pace, con la quale i paramilitari che si sono macchiati di crimini terribili vengono condannati con pene che prevedono la reclusione al massimo per otto anni di carcere, è accusato da due capi paramilitari di aver promesso loro la non estradizione negli Stati Uniti in cambio del loro appoggio alla rielezione di Uribe. I due fratelli Mejía Muñera (alias Los Mellizos) lo hanno accusato invece di aver fatto da tramite nel trasferimento del denaro con il quale i paramilitari hanno finanziato la rielezione di Uribe nel 2006, denaro sporco di sangue e frutto dei proventi del narcotraffico.
Si trova ancora a Roma, ma se dovessero essere confermate le accuse mosse contro di lui da Yidis Medina e se la Corte Suprema dovesse decidere di procedere nelle indagini, ben presto potrebbe essere costretto a rinunciare per finire sotto processo in Colombia e quindi fare ritorno in patria in veste di inquisito.
Rispetto alla Colombia, l’Italia, quindi, sembrerebbe svolgere in Europa, lo stesso ruolo che il Messico svolge in America centrale: entrambi i paesi funzionano da centro di smistamento di loschi personaggi coinvolti con il paramilitarismo e il narcotraffico, personaggi sul capo dei quali pendono accuse gravissime che poi si concretizzano in mandati di cattura.
 
Il pelo nell'uovo. E’ evidente che la Farnesina dovrebbe compiere indagini più accurate sulla storia personale dei diplomatici provenienti dalla Colombia. Jorgue Noguera Cote per esempio fu accettato in Italia, (allora era Gianfranco Fini agli Esteri), dopo aver dovuto, nel 2005, rassegnare le dimissioni come direttore del Das (Dipartimento Amministrativo di Sicurezza, la polizia segreta colombiana), per le accuse che Rafael García, ex capo del reparto di informatica del Dipartimento, gli stava muovendo contro. Accuse che successivamente si dimostrarono fondate, dal momento che Jorgue Noguera Cote fu arrestato nel febbraio del 2007. In seguito alle sue dimissioni, il presidente Uribe lo nominò console a Milano, dopo che il Canada aveva rifiutato saggiamente la proposta di averlo nel suo paese come rappresentante diplomatico della Colombia. In Italia, invece, non si andò tanto per il sottile: accuse come collusione con il paramilitarismo, organizzazione di frode elettorale (con la quele Uribe avrebbe vinto le elezioni nel 2002), ingerenza negli affari interni di un paese straniero (il Venezuela, dove Noguera avrebbe tentato di organizzare insieme ad alcuni capi paramilitari l’omicidio di Chávez e dove avrebbe pianificato l’omicidio del pubblico ministero Danilo Anderson, che stava svolgendo indagini sul golpe dell’aprile 2002), probabilmente sembrarono cose di poco conto e la Farnesina accolse Noguera senza nessuna riserva.
 
 
Processo senza garanzie

L'associazione degli avvocati europei denuncia irregolarità e lesione dei diritti fondamentali nei processi contro l'associazione di solidarietà con i prigionieri politici baschi

il logo originario di gestoraSi chiama sumario 33/01, istruito dall'Audiencia Nacional spagnola, un tribunale speciale post-franchista chiamato a decidere soprattutto su temi legati a terrorismo e narcotraffico, ma non solo.
Il sumario, l'inchiesta, riguarda un'associazione impegnata in attività pubbliche per denunciare la violazione dei diritti umani dei prigionieri politici. Si chiama Gestora pro amnistia, messa fuori legge dal giudice istruttore Baltasar Garzon secondo una tesi accusatoria allargata non solo a quell'inchiesta, ma a tutti i procedimenti aperti in quello che passa alla storia, ormai, come il juicio 18/98+. Una sommatoria di inchieste che coinvolgono spezzoni dell'indipendentismo basco e della società civile, tutti accusati di far parte, collaborare o essere humus prescelto dell'organizzazione armata Eta.
E fin qui la tesi dell'accusa. Ma in uno Stato di diritto, poi, servono le prove. Che scarseggiano, fionora nei processi che sono arrivati al primo grado di sentenza. Tutte condanne, ma prove poche e indizi raccontati da periti messi a disposizione del tribunale che non sono altro che gli stessi agenti della guardia civil che hanno redatto gli informes per arrivare ai processi.
 
Ci sono state, nei giorni scorsi, delle sedute pesanti, nel processo contro Gestora pro amnistia e la sua sigla successiva Askatasuna (libertà, in basco). Militanti di Gestora e torturati che hanno raccontato le umiliazioni fisiche, psicologiche e sempre più spesso sessuali che hanno subito nei giorni di isolamento forzato previsti dalla legge antiterrorismo spagnola: cinque giorni senza vedere il proprio avvocato e in mano di aguzzini spesso in combutta con i medici forensi e gli avvocati di ufficio.
I dubbi e le denuncie sullo svolgimento 'equo' del processo non è un giudizio soggettivo, ma sta scritto nero su bianco in un documento ufficiale dell'Associazione Avvocati Europei Democratici (Aed). L'associazione “è venuta a conoscenza dell'apertura del processo (sumario 33/01) contro le organizzazioni basche Gestoras pro Amnistía e Askatasuna, associazioni impegnate in attività pubbliche di denuncia della violazione dei diritti umani e di solidarietà con le persone detenute e con le vittime di queste violazioni. L'avvocato Julen Arzuaga, rappresentante di Eskubideak nella nostra associazione, figura tra le ventisette persone accusate in questo procedimento''. Scrivono gli avvocati europei che le stesse manchevolezze nel diritto che hanno riscontrato nel corso dello svolgimento del processo 18/98 le stanno ravvisando anche in questo troncone processuale contro l'associazione di solidarietà verso i prigionieri politici e parlano di un tema ben più generale: 'L'interpretazione estensiva del reato di terrorismo e l'applicazione di queste leggi eccezionali costituiscono una violazione dei diritti fondamentali, del diritto alla difesa e della presunzione d'innocenza'.
 
L'istruzione di questo singolo spezzone di processo ha avuto dei momenti di grave intromissione nei diritti fondamentali che dovrebbero garantire il giusto processo. Come, per esempio, le perquisizioni negli studi di avvocati senza le garanzie del rispetto del segreto professionale e della riservatezza della comunicazione tra l'avvocato e i suoi clienti, il ritardo ingiustificato della procedura, l'abuso di misure cautelari come il carcere preventivo fino alla sua durata massima di quattro anni, così come la sospensione legale delle attività delle associazioni. L'Aed chiude il suo documento denunciando la violazione del diritto alla difesa e del segreto professionale, esigendo l'abrogazione dei tribunali eccezionali quali l'Audiencia Nacional, respingendo l'estensione arbitraria e inammissibile del concetto di terrorismo spinto fino ad includere attività pubbliche e democratiche che fanno parte del diritto alla libertà d'espressione e del diritto al libero impegno politico e sociale.
E promette di seguire molto da vicino il processo 33/01. Un processo che, secondo gli imputati, ha una sentenza già scritta. E non pare essere, precedenti alla mano, un vezzo politico di difesa. Nella prima udienza Juan Mari Olano, che era uscito dal carcere su causizone, perchè imputato anche in altri filoni del 18/98+, lo ha detto in maniera chiara e semplice: non collaborerà con lo svolgimento del processo, perchè quel tipo di attività di sostegno ai progionieri politici non sono un crimine, nè il tribunale speciale ha – dal suo punto di vista – può vantare una leggittimità che non gli riconosce. E così la sentenza, prevista per primi di settembre, potrà arrivare prima dell'estate.

 

29 aprile

Due padri per una sconfitta

di MASSIMO GIANNINI

<B>Due padri per una sconfitta</B>

Lo tsunami del 13 aprile sommerge la Capitale. Com'era prevedibile, l'onda lunga della destra italiana travolge anche l'ultima, flebile "resistenza" romana. La vittoria a Sondrio o a Vicenza è un pannicello caldo, che non lenisce ma semmai acuisce la ferita profonda patita dal centrosinistra, prima a livello nazionale e poi, dopo i ballottaggi, a livello locale. Con la trionfale marcia su Roma di Alemanno la sconfitta del Pd diventa disfatta. Una disfatta che non è orfana, ma stavolta ha almeno due padri.

C'è un padre, sul piano della proiezione politica romana. Si chiama Francesco Rutelli. Nonostante l'ottimo passato da sindaco negli ormai lontanissimi anni '90, stavolta Rutelli è stato un handicap, non una risorsa. Non è un giudizio politico, ma numerico. Il candidato alla provincia del Pd Zingaretti, nelle stesse circoscrizioni in cui si votava anche per le comunali, ha ottenuto 731 mila voti contro i 676 mila ottenuti da Rutelli. Vuol dire che quasi 60 mila elettori di centrosinistra, con un ragionato ancorché masochistico calcolo politico, hanno votato "secondo natura" alla provincia, mentre hanno fatto il contrario per il Campidoglio.

Piuttosto che votare l'ex vicepremier del governo Prodi, hanno annullato o lasciato bianca la scheda. In molti casi hanno addirittura votato Alemanno. Dunque, a far montare la "marea nera" della Capitale che ha portato alla vittoria il candidato sindaco del Pdl ha contribuito un'evidente "pregiudiziale Rutelli" a sinistra. Soprattutto nelle aree più radicali. Che magari non ne hanno mai apprezzato "l'equivicinanza" tra le disposizioni della Curia vaticana e le posizioni della cultura laica. E che forse, punendo Rutelli, hanno deciso di dare una lezione al Pd, colpevole di aver "cannibalizzato" la sinistra nel voto nazionale di due settimane fa. Con una campagna elettorale imperniata su un principio giusto (l'autosufficienza dei riformisti) ma declinato nel modo sbagliato (il principale "nemico" è la sinistra). Così Veltroni, salvo che negli ultimissimi giorni, ha finito per perdere di vista il vero avversario, cioè Berlusconi. Adottando nei confronti del Cavaliere una forma di parossistica "pubblicità involontaria", con la trovata non proprio geniale del "principale esponente dello schieramento a noi avverso", ripetuta ossessivamente, fino all'assurdo, e così trasformata in un boomerang .

Di questa disfatta, quindi, c'è un padre anche sul piano della dimensione politica nazionale. Quel padre si chiama Walter Veltroni. Il leader del Pd ha scontato un deficit oggettivo: nella partita sulla sicurezza, determinante nel giudizio degli elettori in tutta Italia e nelle singole città, ha dovuto inseguire il Pdl. E da sempre, in quello che Barbara Spinelli sulla Stampa definisce il "populismo penale", la destra eccelle storicamente sulla sinistra. Semplicemente perché, nella percezione dei cittadini impauriti (giusta o sbagliata che sia) "does it better": può farlo meglio. Ma il leader del Pd ha pagato anche un errore soggettivo: non ha capito che la sfida su Roma avrebbe richiesto un altro "metodo di selezione", più consono all'idea del Partito democratico costruito "dal basso", che gli elettori avevano iniziato a conoscere e ad apprezzare con le primarie.

La candidatura di Rutelli, al contrario, è il frutto dell'ennesima alchimia di laboratorio (o di loft). Una collocazione di "prestigioso ripiego", per un dirigente che è già stato sindaco due volte, che ha corso e perso un'elezione politica nel 2001, che è stato vicepremier nel 2006 e che ora, nel nuovo organigramma del Pd sconfitto il 13 aprile, rischiava di ritrovarsi senza un "posto di lavoro". L'opinione pubblica, di sinistra ma anche di centro e di destra, ne ha tratto la sgradevolissima impressione di una nomenklatura che usa le istituzioni come "sliding doors". Porte girevoli, dalle quali si entra e si esce secondo opportunità pratica personale, e non secondo utilità politica generale.

Ora, sul terreno di questa incipiente Terza Repubblica, per il centrodestra si aprono le verdi vallate del governo nazionale e locale, da Milano a Roma, con la fine di quello che Ilvo Diamanti definisce il "bipolarismo metropolitano". Per il centrosinistra, al contrario, non restano che macerie. Risultati alla mano, è difficile contestare l'irridente sberleffo di uno striscione della destra che, in serata, inneggiava a "Veltroni santo subito", lungo la scalinata del Campidoglio: "Con le primarie ha fatto cadere il governo Prodi. Con le politiche ha cacciato i comunisti dal Parlamento. Candidando Rutelli ha perso Roma".

L'analisi è rozza, ma ha un suo fondamento. Ora il Pd corre un rischio mortale. All'indomani della disfatta, un regolamento di conti al vertice sarà inevitabile. Ma a un anno dalle elezioni europee, nelle quali si voterà con il proporzionale, un possibile ritorno al passato (cioè alla vecchia e agonizzante divisione Ds-Margherita) sarebbe imperdonabile.


 

22 aprile

Mattatoio Sri Lanka

Ieri la più feroce battaglia degli ultimi anni

E’ stata la più feroce battaglia da un anno e mezzo a questa parte. Ieri, migliaia di soldati dell’esercito governativo e guerriglieri delle Tigri tamil (Ltte) si sono scontrati sul fronte nord, nella penisola di Jaffna, lungo quella che viene chiamata la Linea Muhamalai: sette chilometri di trincee scavate nella sabbia e bunker di cemento nascosti tra prati riarsi dal sole e punteggiati da poche palme. Ieri pomeriggio, al termine dei combattimenti, che sono durati per dieci ore consecutive e hanno visto il massiccio impiego di artiglieria pesante da entrambe le parti, sul terreno sono rimasti almeno centocinqunata, forse duecento morti e un migliaio di feriti.

Versioni e bilanci contrastanti. Il governo di Colombo sostiene che la battaglia sia stata scatenata dalle Tigri tamil, che avrebbero cercato di lanciare una massiccia offensiva per riconquistare la penisola di Jaffna.
Secondo l’Ltte, invece, l’esercito ha sferrato un attacco nel tentativo di sfondare la Linea Muhamalai.
Entrambe le parti rivendicano oggi di aver vinto la battaglia, di aver respinto l’offensiva nemica. Il che significa che la linea del fronte non si è mossa.
Confliggenti, come sempre, anche i bilanci delle vittime di questa inutile carneficina.
Il portavoce dell’esercito, brigadier Udaya Nanayakkara, ha parlato oggi di 43 soldati morti, 33 dispersi e 123 feriti. Altre fonti militari hanno però parlato all’agenzia France Press di un totale di 127 caduti o dispersi. Gli ospedali della capitale Colombo traboccano di giovani soldati feriti, tutti evacuati dal fronte settentrionale. Le perdite inflitte ai ribelli, secondo il governo, ammontano ad almeno cento uomini, più centinaia di feriti.
Dall’altra parte, il portavoce delle Tigri tamil, Rasiah Ilanthiraiyan, ha detto che solo 16 combattenti dell’Ltte sono rimasti uccisi, mentre almeno 150 soldati governativi sono stati uccisi e altre centinaia feriti.

Una guerra ignorata dal mondo. Questa sanguinosa guerra civile, solo dall’inizio del 2008, ha causato almeno 3.400 i morti: più di 170 civili, circa 330 soldati e oltre 2.900 combattenti dell’Ltte. Più morti che in Afghanistan, poco meno che in Iraq. Ma di questo conflitto, che va avanti da 25 anni, nessuno ne parla mai.
Dopo quasi quattro anni di relativa pace e di tentativi negoziali patrocinati dal governo norvegese, nel 2005 sono stati scoperti nuovi ricchi giacimenti petroliferi al largo dei territori controllati dall’Ltte.
Alla fine di quell’anno, il neoeletto presidente Mahinfa Rajapakse decide di riprendere la guerra allo scopo di distruggere i separatisti. Nel 2006-2007, l’esercito riesce a strappare all’Ltte il controllo della fascia costiera orientale. Dall’inizio dell’anno, le forze governative stanno cercando di riprendersi anche i territori del nord, ancora saldamente controllati dall’Ltte, con una manovra a tenaglia da sud (Linea Vavuniya-Mannar) e da nord (Linea Muhamalai) e offensive da ‘guerra di posizione’ in stile 15-18, con fronti fissi, offensive di sfondamento e bombardamenti aerei dietro le linee nemiche.


 

Storia e geografia politica di un mondo che cerca una rivincita contro lo Stato. Quali sono i confini di un luogo che sembra totalmente diverso dal resto del Paese

Nord, tra il malessere e la ricchezza
Successo della Lega e futuro d'Italia

di ILVO DIAMANTI

<B>Nord, tra il malessere e la ricchezza<br>Successo della Lega e futuro d'Italia</B>

"Il Carroccio alla battaglia di Legnano", un dipinto di Massimo d'Azeglio

Il Nord, ovviamente, esiste da sempre. In Italia, però, da una ventina d'anni, ne sono cambiate la definizione e la delimitazione. Oltre al significato. Aveva confini più larghi, un tempo. Oltre alle regioni al di sopra del Po, comprendeva l'Emilia Romagna, come, d'altronde, risulta ancora dalle pubblicazioni dell'Istat e degli altri organismi statistici.

Era identificato come luogo dello sviluppo di grande impresa, della metropoli. Per questo, gravitava su Torino. Vertice di un "triangolo industriale", che collegava, inoltre, Genova e Milano. Il resto era periferia. La provincia lombarda e piemontese, l'intero Nordest. Una campagna urbanizzata e industrializzata. Disseminata di piccole città e di piccole aziende artigiane. Prima o poi, sarebbero cresciute, le piccole imprese. Insieme alle piccole città. Avvicinandosi a Torino e alla Fiat. Questo si pensava, trent'anni fa.

Allora il Nord era definito anche in base alla geografia del potere politico. Che aveva il suo centro a Roma. Il Sud, invece, richiamava lo sviluppo arretrato e dipendente. Ma, insieme a Roma, "comandava". Garantiva il consenso elettorale, ma anche la classe politica, alle forze di governo. Da quell'epoca, molto è cambiato, nel Nord.

È cambiata la geografia economica. Torino non è più la capitale. Anche se si è ripresa, insieme alla Fiat. Da cui dipende molto meno di un tempo. I centri dello sviluppo, tuttavia, si sono spostati altrove. A Milano, metropoli di produzione dei beni immateriali (per citare Arnaldo Bagnasco). Nelle province pedemontane, che corrono a Nord del Nord e si tuffano nel Nordest. In vent'anni questa periferia si è industrializzata e urbanizzata come nessun altro posto in Europa. È passata dal prefordismo al postfordismo. Prima e dopo la Fiat. Senza tappe intermedie. Questa periferia è divenuta un centro. Diffuso e nebuloso. Anche l'Emilia Romagna e le altre regioni centrali hanno conosciuto una crescita rilevante dell'economia di piccola impresa. Ma non con la stessa "violenza". Né con lo stesso impatto sulla società e sul territorio. Così, il Nord si è allargato e, al tempo stesso, accorciato. Si è spostato più verso Milano e il Nordest. Ha eletto il Po a frontiera, respingendo l'Emilia Romagna. Perché lo sviluppo del Nord si è espresso in relazione stretta con la politica (e l'antipolitica). Lungo tre assi. 1) La contestazione dei tradizionali centri del potere economico e politico: Torino e Roma. Confindustria, il sindacato e i partiti "romani". 2) L'insofferenza per la politica, come mediazione realizzata dagli specialisti e dalle organizzazioni. Economia e società senza politica. Imprenditori, uomini del "popolo", che parlano come la gente comune. E gliele cantano forte a Roma, ai partiti romani, alla sinistra, al sindacato. Perfino a Confindustria. 3) La rivendicazione autonomista. Che, volta a volta, assume forme e traduzioni diverse: federalismo, indipendenza, secessione, devoluzione.

E' il "nuovo Nord" che pretende di contare. Di conquistare potere ma anche ascolto. A costo di gridare, insultare, spezzare le convenzioni; infrangere le "buone maniere". Gli hanno dato voce e rappresentanza, da tempo, due attori politici molto diversi fra loro. La Lega e Berlusconi.

La Lega, nelle aree di piccola impresa, nel territorio dei distretti. Dove prima c'era la Dc. Alle elezioni politiche di una settimana fa si è imposta come primo partito in oltre 800 comuni (su circa 4000, al di sopra del Po; Aosta e Bolzano escluse). Soggetto politico comunitario, che ha trasformato la società artigiana e laburista in una frontiera agguerrita. Bossi, fin dai primi anni Novanta, l'ha unificata. Le ha dato un'immagine e un nome: Padania. Patria dei produttori opposti allo "Stato dissipatore e oppressivo". Nel corso degli anni, la Lega si è insediata al governo di centinaia di comuni di taglia piccolissima, piccola. Ma anche media e grande. Come Verona, Treviso, Varese. Così è cresciuta una generazione di amministratori locali. Che recitano diverse parti, a seconda del luogo e del momento. Lo sceriffo, il governatore, il pragmatico, l'irredentista, il negoziatore. Perché nella metropoli sparsa del Nord, insieme alla ricchezza, è cresciuta anche l'inquietudine. Il territorio sta scomparendo. Il lavoro è garantito da centinaia di migliaia di immigrati (il 7% della popolazione, dove la Lega è più forte). Il mondo, in cui sono proiettate le imprese, fa paura. Viene in mente il bel film di Carlo Mazzacurati, La giusta distanza, ambientato in un paese del Polesine. Dove gli stranieri non sono gli immigrati. Ma noi. Quelli del Nordest. Spaesati dal successo.

L'altro volto del Nord è Berlusconi. Quanto di più diverso dalla fisicità della Lega. D'altronde, ha radici diverse. L'impresa immobiliare, il capitale finanziario e assicurativo. I media. Milano. Il suo "populismo" è mediatico. Nella santificazione della propria figura, della propria immagine di "imprenditore" di successo. In quanto tale - per definizione - più adatto di chiunque altro a fare politica. Perché si è fatto da sé, è riuscito in ogni impresa. Figurarsi se non è in grado di "gestire" lo Stato...

Questi due diversi modi di intendere e di rappresentare il Nord (la "megalopoli padana", come la chiama Giuseppe Berta, nel suo saggio appena pubblicato da Mondadori) sono, appunto, diversi. Perché hanno storie, geografie, economie e biografie diverse. Sono destinati, per questo, a rimanere distinti. Talora, a confliggere. Anche se alcuni elementi li attraggono. Li accostano. Il linguaggio, la personalizzazione (fisica o mediatica, non importa). I nemici. Roma, il ceto politico e le organizzazioni di massa. Lo Stato centrale. Da ciò il problema della "sinistra". Oppure del centrosinistra, non importa. Che continua ad abitare le grandi città. Soprattutto del Centrosud. (Ma anche del Nord. Dove vive da separato in casa). La cui base elettorale è radicata nel Centro. Nelle regioni rosse. Lungo l'asse Bologna-Firenze-Siena. Dove lo sviluppo di piccola impresa è incorporato nel sistema politico e nelle amministrazioni locali. Dove il ceto politico (lo hanno rilevato Carlo Trigilia e Francesco Ramella), da qualche tempo, si è progressivamente burocratizzato. Fatica a dialogare con le imprese. E con la società.

Questo Nord non è uno solo. È plurale. Ma è unificato dal linguaggio (im)politico di Berlusconi e della Lega. E ogni tanto "esplode". Nelle zone pedemontane. Quando crescono la sfiducia e il risentimento. Allora, affida alla Lega il compito di gridare il suo malessere. La sua insoddisfazione. La sua "differenza". Dal governo di Prodi, ma anche, preventivamente, da quello di Berlusconi. Il voto leghista, sottratto largamente (anche se non solo) al PdL, a questo serve. Come pre-monizione. O pre-ammonimento.

Il centrosinistra, invece, non ha mai sfidato apertamente la Lega (che, pure, D'Alema ebbe a definire "una costola della sinistra"), né Berlusconi sul loro terreno. Così, è costretto a evocare la "questione settentrionale". Dopo ogni sconfitta elettorale. E, quindi, spesso negli ultimi vent'anni. Senza trarne lezione, peraltro. Perché appare un lamento. Un inno all'impotenza. All'incapacità di capire e di agire. D'altronde, nel governo Prodi non ricordiamo un solo ministro del Nordest. Mentre i sindaci, i governatori del Nord si sono trovati, spesso, soli. A protestare contro Roma, contro il "loro" governo. Quasi fossero leghisti.

Dopo il voto del 14 aprile, Illy (più autonomista della Lega, sicuramente più liberista di Tremonti) è caduto. Cacciari, Zanonato e Dellai appaiono assediati. Neppure Chiamparino, la Bresso e la Vincenzi se la passano tanto bene. Bersani e lo stesso Fassino hanno lo sguardo più triste del solito. Il Nord padano ha ripreso ad allargarsi. Occupando lembi della via Emilia (cantata da Berselli e Guccini). Ma tutti se la prendono con Calearo. Perché è un padrone, per di più, piccolo. Dice cose di destra. È un autonomista e parla come un leghista. (Forse perché, in fondo, lo è). È proprio vero: nel centrosinistra, uno come lui, c'è finito per sbaglio.

 

18 aprile

 

Le tute blu lombarde contro i flussi di extracomunitari
E i camalli di Genova accusano il governo Prodi: "Ha messo fuori i delinquenti"

Gli operai Fiom che votano a destra
"Così protetti da tasse e criminalità"

"Votiamo Cgil in azienda e Bossi nell'urna. Che c'è di strano?
La prima ci dà il contratto, la seconda la garanzia che i soldi restino al Nord"

dal nostro inviato PAOLO GRISERI

<B>Gli operai Fiom che votano a destra<br>"Così protetti da tasse e criminalità"</B>
BRESCIA - L'importante è saper rispondere alla domanda: "Mi conviene?". Paolo, ad esempio, ha capito che gli conviene votare Bossi perché la Lega lo protegge. Ha 22 anni, sta appoggiato al muro insieme ai coetanei durante la pausa mensa alla Innse Berardi, 250 metalmeccanici specializzati alla periferia di Brescia. Da chi ti protegge la Lega? "Dagli extracomunitari". Ne hai bisogno alla tua età? "Non è bello doversi difendere quando vai alla stazione". Che cosa vuol dire che la Lega ti difende? "Che, bloccherà i flussi, non li lascerà più entrare in Italia".

Il capannello aumenta, la discussione si anima, Enrico contesta: "Tutte balle, ti lasci riempire la testa dalla tv. Non siamo a Chicago, dov'è tutta 'sta criminalità? E poi i criminali non ci sono in Italia? Prova ad andare in Sicilia". "Quelli almeno sono nostri e ce li curiamo noi. Ma dobbiamo preoccuparci anche di quelli che esportano gli altri?". E' facile sfottere Paolo. Christian scioglie la tensione con la battuta vincente: "Vuoi bloccare l'ingresso in Italia agli extracomunitari proprio tu che sei dell'Inter?".

Paolo sembra soccombere. Ma l'aiuto vero gli arriva da Gianni, un ragazzo di 32 anni che a queste elezioni non ha votato. Un grillino adirato con la Casta? "No, non ho votato perché non posso ancora. Sono albanese, sono arrivato nel '99. Il mio vero nome è Hashim ma siccome è troppo complicato, tutti mi chiamano Gianni". Quando potrai votare per chi voterai? "Per il partito che sceglieranno la maggioranza degli italiani". In questo momento è la destra. Ti andrebbe bene la destra? "Perché no?". Forse perché potrebbe bloccare l'ingresso degli stranieri alle frontiere. "E allora? Io sono entrato, in autunno sono arrivati anche mia moglie e i miei figli. Se non arrivano tanti altri a farci concorrenza è meglio".

Così, in dieci minuti di chiacchiere da bar, Paolo e Gianni fanno a pezzi quel che resta del concetto di solidarietà, caro alla Dc di Martinazzoli, che ha governato queste terre durante la prima repubblica, come alla Fiom di Giorgio Cremaschi, che continua a governare il sindacato di fabbrica con il 70% dei voti alle elezioni delle rsu.

Votano Fiom in azienda e Bossi nell'urna? "Dov'è il problema? Si vede che la Fiom e Bossi gli servono". Angelo, delegato a un passo dalla pensione, sa che la sua è una risposta provocatoria. Ma anche profondamente vera. "Da queste parti - spiega - le aziende hanno fame di operai specializzati. Qui i contratti integrativi sono ricchi, arriviamo a strappare aumenti di 2-3 mila euro all'anno".

Tute blu quasi benestanti, ben diverse da quelle che, sull'altro lato della strada, costruiscono i camion all'Iveco, la vecchia e gloriosa Om, e portano a casa i salari degli operai Fiat. "Alla Innse - aggiunge Angelo - molti abitano nei paesi delle valli bresciane. Con il passare del tempo si sono fatti la villetta a schiera. Una conquista che adesso hanno paura di perdere con l'aumento del costo della vita". Qui si chiede ai comunisti di contrattare l'aumento con il padrone, perché loro sono ancora i più bravi nel settore ("tremila euro all'anno, sputaci sopra"), e si chiede a Bossi di realizzare il federalismo fiscale. Il comunista ti porta i soldi ma è la Lega che li difende.

La sirena del federalismo, ad esempio, è quella che ha attirato Giovanni, contadino cuneese prestato all'industria della gomma. Arriva davanti al bar "Sporting", il ritrovo degli operai sul piazzale della Michelin di Cuneo, e spiega la sua soddisfazione: "Finalmente abbiamo vinto, adesso si può fare il federalismo fiscale". Che cosa vuol dire? "Che siamo padroni a casa nostra, che le tasse restano qui e non vanno a Roma. Con tutte quelle che paghiamo io e mia moglie per l'azienda agricola".

Giovanni ha 49 anni e, come molti da queste parti, ha iniziato a compiere le sue scelte politiche nel ventre della Balena bianca: "Qui - ricorda - votavano tutti Dc, anzi votavano tutti Coldiretti", la potente associazione dei contadini democristiani. Rotto quel contenitore, Giovanni è diventato un leghista moderato. Uno che dice: "All'inizio votavo Lega per protesta. Poi mi sono un po' allontanato quando dicevano che volevano la secessione".

Ma anche lui, quando si tratta di scegliere il sindacato, finisce per affidarsi a Cgil, Cisl e Uil. Gaspare e Luigi, delegati di fabbrica, raccontano del flop del SinPa, il sindacato dei leghisti: "Nel 2000 aveva fatto il pieno alle elezioni del consiglio di fabbrica, avevano il 33% dei voti. Poi sono rapidamente spariti. Quello del sindacalista non è un ruolo che si improvvisa. Non basta dire "Roma ladrona" per chiudere un contratto". Per il momento, comunque, sono i partiti del centrodestra più dei sindacati del Carroccio a mettere in crisi i sindacati confederali. A Brescia, dove lo straordinario è la regola, la detassazione promessa da Berlusconi ha fatto breccia. Aldo, delegato della Fim dell'Innse, ammette sconsolato: "Quello è stato un colpo da maestro".

La Lega è forte, i messaggi del centrodestra bucano il video, ma la sinistra delle fabbriche dov'è finita? Sam, 35 anni, lavora alla Michelin di Cuneo insieme a un gruppo di altri ragazzi di colore. "Arriviamo tutti dal Benin, siamo in Italia da molti anni, abbiamo preso la cittadinanza. Abbiamo sempre votato Rifondazione". Ma? "Questa volta non lo abbiamo più fatto. Ci siamo riuniti per parlarne. Una parte ha scelto il Pd perché sperava di bloccare Berlusconi. Ma alcuni hanno proprio deciso di smetterla con la sinistra. Votano Berlusconi perché la sinistra litiga troppo, non si trova mai d'accordo su nulla".

Per guardare in faccia la delusione della sinistra radicale basta andare a Genova, nel cuore del Porto, roccaforte dei camalli della Compagnia unica dove su sette delegati di area Cgil quattro sono di Rifondazione due dei Ds e due di Lotta Comunista. Mauro spiega la sconfitta dell'Arcobaleno: "A Genova si dice: "Ci hanno presi nella lassa", ci hanno fregati. Molti hanno votato Pd credendo che tanto il 4 per cento alla Camera si faceva e che Veltroni fosse vicino a Berlusconi nei sondaggi. Invece non era vero niente".

Basta l'ingenuità a spiegare tutto? "No che non basta. Ne abbiamo parlato martedì tra di noi. Rifondazione ha sbagliato". Dove ha sbagliato? "Ad esempio con l'indulto". Ma l'indulto, una volta non era una legge di sinistra? "Lo dici tu. Ma quale sinistra? Ha messo fuori i delinquenti altro che sinistra". Forse non sarà solo per questo che nei seggi di Crevari, storico quartiere partigiano di Genova, la Lega batte la Sinistra arcobaleno 486 a 358. Sarà anche perché "un partito come Rifondazione non può votare a favore della guerra", come dice Matteo, operaio all'Iveco di Brescia. O perché "non si raccolgono i voti nelle fabbriche promettendo di cambiare la legge 30 sul precariato per poi non fare nulla", come rimpiange Luca che scarica container al porto.

Così finisce che la delusione ti lascia a casa (a Genova l'astensione coincide con i 40 mila voti persi dall'Arcobaleno) o ti getta nelle braccia di Ferrando e Turigliatto: "Almeno loro la guerra non l'hanno votata", si consola Matteo all'Iveco. Il risultato è che la Lega avrà quattro ministri e l'Arcobaleno non c'è più. "Adesso tocca a Bossi mantenere le promesse", dice Alberto, della Fiom di Brescia. Ma anche lui sa che è una magra consolazione: "Sai come andrà a finire? Che quando la gente che ha votato Lega si incazzerà verrà da noi a chiederci di fare gli estremisti, la lotta dura e i blocchi stradali".

Cessate il fuoco

Il bollettino settimanale delle guerre e dei conflitti in corso n. 15 - 2008 dal 10/04/2008 al 16/04/2008

Questa settimana, in tutti i Paesi in guerra, sono morte almeno 902 persone
 
Iraq
Questa settimana sono morte almeno 483 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 5.234

 
Sri Lanka
Questa settimana sono morte almeno 166 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 2.815
 
Afghanistan
Questa settimana sono morte almeno 64 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 1.146
 
Turchia
Questa settimana sono morte 14 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 149
 
India-Kashmir
Questa settimana sono morte almeno 4 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 149
 
Israele e Palestina
Questa settimana sono morte almeno 35 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 294
 
India Naxaliti
Questa settimana sono morte almeno 16 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 214
 
India Nord-est
Questa settimana sono morte almeno 15 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 256
 
Nepal
Questa settimana sono morte almeno 4 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 36
 
Nord Caucaso 
Questa settimana sono morte almeno 27 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 160
 
Pakistan talebani
Questa settimana sono morte almeno 40 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 1.092
 
Pakistan Balucistan
Questa settimana sono morte almeno 7 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 49
 
Bangladesh comunisti
Questa settimana è morta almeno 2 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 8
 
Filippine Npa
Questa settimana sono morte almeno 4 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 61
 
Thailandia del sud
 Questa settimana sono morte almeno 5 persona
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 119
 
Somalia
Questa settimana sono morte 4 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 281
 
Etiopia
Questa settimana sono morte almeno 3 persone.
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 21
 
Uganda
Questa settimana sono morte almeno 9 persone.
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 9
 

17 aprile
 

Dalla brace alla padella

In Iraq i Consigli del Risveglio, sunniti alleati degli Usa, diventano un partito politico

Un cammino lungo, iniziato a gennaio del 2007, nel momento peggiore dell'occupazione Usa dell'Iraq, sta per concludersi. I Consigli del Risveglio, le milizie sunnite alleate degli Usa contro al-Qaeda in Iraq, sono pronte a trasformarsi in un partito politico. Si chiamer� Iraqi Karama Front (Fronte Dignit� Irachena). Ad annunciarlo � Abu Azzam al-Tamimi, capo di uno dei consigli pi� influenti.
 
Nuovo partito, vecchi metodi. Una prepotente candidatura per la leadership della comunit� sunnita irachena, vista la fama che i Consigli hanno saputo guadagnarsi agli occhi della popolazione civile, ottenendo un calo delle violenze in particolare a Baghdad. Ancora non si sa se tutti i 130 Consigli (forti di circa 80mila uomini) aderiranno al Karama, ma sembra gi� garantita la partecipazione di alcuni tra i pi� importanti, come quelli di Amirya, Ghazaliya, Khadra, Taji, Abu Ghraib.
Le reazioni del mondo sunnita non sono state univoche: mentre l'Iraqi Islamic Party di Tariq Hashimi, vice presidente iracheno, ha salutato con gioia la novit�, il Consiglio degli Ulema (massima autorit� religiosa sunnita in Iraq che controlla almeno 3mila moschee) ha duramente criticato l'iniziativa, sottolineando come per loro i Consigli abbiano finito per legittimare l'occupazione militare Usa. Anche perch� da Washington i Consigli ricevono soldi e armi. Lo stesso consiglio di studiosi dell'Islam, qualche giorno fa, ha accusato le milizie dei Consigli di assassinare ex detenuti liberati di recente dalle carceri irachene. Si tratterebbe di faide familiari, nelle quali alcuni parenti di vittime di al-Qaeda in Iraq si sono vendicati degli assassini dei loro cari. Alcuni miliziani sunniti, arrestati in passato dai militari Usa o dagli iracheni, hanno goduto di un'amnistia, approvata in febbraio dal Parlamento iracheno, che aveva lo scopo di favorire la riconciliazione fra i diversi gruppi etnici e confessionali del Paese.
 
Il pilastro del surge.Detrattori a parte, i Consigli sono stati (almeno nei piani del generale Usa David Petraeus) un successo. Era il gennaio 2007 quando, per la prima volta, il presidente Bush ha parlato alla stampa della cosiddetta surge, 'l'onda montante', la strategia della stesso Petraeus per porre fine alle violenze inter etniche e interconfessionali in Iraq, isolando gli elementi 'stranieri' vicini ad al-Qaeda.
Lasciando alle milizie religiose il compito di fare piazza pulita. Gli statunitensi hanno puntato su un primo Consiglio, nato nella provincia dell'al-Anbar. Il concetto di questa trib� sunnita era quello dell'autodifesa dall'imperversare di guerriglieri 'stranieri': visto che gli Usa se ne fregavano dei sunniti, loro si sarebbero difesi da soli. Gli Usa invece, visti anche gli ottimi risultati, hanno sposato il modello dei Consigli del Risveglio, foraggiandoli con armi e denaro, aiutandone la nascita in tutto l'Iraq e negoziando tregue militari con i diversi gruppi di insorti sulla base delle piccole comunit� sunnite irachene.

Tutto come prima. Il piano sembra funzionare, almeno nell'intensit� delle violenze. In realt�, come dimostrano gli attentati di ieri a Baquba, Mosul, Baghdad e Ramadi, la situazione non � affatto pacificata, solo che gli insorti concentrano i loro attacchi, meno numerosi e pi� devastanti. Inoltre, cosa che Petraeus non ha detto, sui metodi che utilizzano i Consigli ci sarebbe molto da dire.
Silvia Spring e Larry Kaplow, del Newsweek, il 5 aprile scorso hanno pubblicato un'inchiesta che denuncia le condizioni di vita nei quartieri dove i 'figli dell'Iraq' (come gli Usa chiamano i miliziani dei Consigli) hanno fatto piazza pulita degli insorti. In particolare raccontano la storia di una commessa di Baghdad. La ragazza viveva nel terrore quando il quartiere della capitale, dove viveva, era in mano ai miliziani di al-Qaeda in Iraq. Poi sono arrivati i miliziani del Consiglio, hanno scacciato al-Qaeda e hanno preso il potere garantendo la pacificazione del rione. Solo che la commessa vive ancora nel terrore. Alla rigida visione dell'Islam imposta da al-Qaeda si � sostituita la grezza brutalit� dei guerriglieri del Consiglio. ''Ognuno ha le sue regole bizzarre, alcuni minacciano di uccidere le donne che non indossano il velo in pubblico'', racconta l'inchiesta del settimanale, ''la commessa � in lutto per il fratello, che � stato ucciso nel maggio scorso, ma va in cerca di guai se si veste di nero per pi� di tre giorni di fila. Secondo quelli che adesso dettano legge nel suo quartiere, chiunque vesta a lutto commette blasfemia, mettendo in dubbio la volonta' di Dio''.

Cecenia, guerra tra clan

Ieri una delle più violente battaglie degli ultimi mesi. Tra opposte fazioni dell’esercito filo-russo

Almeno diciotto persone, tra cui diversi civili, sono morti ieri in Cecenia in uno dei più violenti scontri a fuoco degli ultimi mesi.
 
Yamadaevtsy e kadyrovtsy. A darsi battaglia nei pressi di Gudermes, una ventina di chilometri a est di Grozny, non sono stati soldati governativi e ribelli ceceni, bensì opposte fazioni delle forze armate cecene fedeli a Mosca. Da una parte i soldati dell’esercito governativo fedeli al presidente ceceno Ramzan Kadyrov; dall’altra quelli del battaglione ‘Vostok’ comandato dall’ex comandante guerrigliero Sulim Yamadayev. Durante il primo conflitto russo-ceceno (1994-1996) i cosiddetti kamadaevtsy e kadyrovtsy, le milizie provate di questi due potenti capi-clan rivali, si combattevano su fronti opposti. Dal 1999, Yamadayev e i suoi uomini sono passati armi e bagagli dalla parte delle forze d’occupazione russe, dando vita a uno dei più spietati battaglioni delle forze armate collaborazioniste cecene.
 
Gli effetti della cecenizzazione. Il secondo conflitto russo-ceceno, iniziato in quell’anno e costato la vita ad almeno 135 mila persone, si sta progressivamente ‘cecenizzando’: le truppe federali stanno gradualmente ritirandosi, lasciando che siano le milizie filo-russe cecene a combattere i guerriglieri indipendentisti ancora attivi. Una mutazione genetica del conflitto che però, per le caratteristiche della società cecena, rischia di trasformarsi in una guerra tra clan in cui le distinzioni ideologiche (unionismo filo-russo o indipendentismo islamico) perdono il loro significato.

 

16 aprile

Cambiare città per lavorare
lo fa ancora un italiano su due

Siamo nel mondo tra quelli che più di altri si trasferiscono in un altro nucleo urbano per un nuovo impiego. Quasi due su tre pronti anche a cambiare paese per ragioni professionali. Superati nella propensione al movimento tra città solo da tedeschi, giapponesi, polacchi e spagnoli.
 

di FEDERICO PACE

Sempre in moto. Mai fermi. Gli italiani, si sa, si sono quasi sempre messi in viaggio, per colpa, o merito, della paga e del lavoro. Sempre in movimento per quel qualcosa che aiuta a tirare avanti. Da un lato all’altro del paese. Quasi sempre dal Sud al Nord. Ma anche al di là delle Alpi e oltre le profondità dell’Oceano. E sono in moto anche ora, anche ai tempi del lavoro flessibile, dei computer portatili, dell’organizzazione orizzontale e dell’outsourcing. Ancora migranti, seppure molto diversi da chi li ha preceduti, per un impiego da tenersi stretti, ancora divisi tra tante città dove ci sono origini, famiglie allargate, amici e colleghi di lavoro.

A dirlo è l’indagine realizzata da Kelly Services, gruppo operante nel settore della fornitura di servizi per le risorse umane, che ha ascoltato 115 mila persone in 33 paesi con l’obiettivo di verificare la mobilità dei lavoratori dei paesi industrializzati. Ebbene, anche oggi, gli italiani sono tra i primi in questa speciale classifica. Secondo gli autori dell’indagine, il 51 per cento degli italiani ha cambiato città per ragioni occupazionali e al 23 per cento è successo di cambiare anche nazione.

Più di tutti però a spostarsi da una città all’altra sono i polacchi e i giapponesi dove la percentuale arriva a toccare il 70 per cento. Elevate proporzioni anche in Spagna (il 62 per cento) e in Germania (57 per cento). Tra quelli invece che si possono considerare più stanziali ci sono gli olandesi, i danesi, gli ungheresi e i belgi.

Minore la quota di chi ha cambiato paese per ragioni professionali. E’ successo infatti al 23 per cento degli italiani. E’ capitato lo stesso al 37 per cento degli spagnoli e al 59 per cento degli irlandesi. Se c’è qualcosa che li frena, a superare i confini nazionali, è soprattutto la famiglia (lo dice il 60 per cento di chi non si muove) ma anche le barriere linguistiche. Anche se molti di quelli che si sono mossi, lo hanno fatto pur non parlando fluentemente la lingua del paese che li ospitava. Tra gli altri ostacoli indicati, la difficoltà nel trovare, a costi accessibili, una casa dove vivere e il timore di perdere i diritti pensionistici maturati.

Ad ogni modo anche chi non si è mosso mai sarebbe pronto a farlo e la propensione a muoversi è elevata. Alla domanda se prenderebbe in considerazione un offerta di lavoro fuori dall’Italia, rispondono affermativamente quasi sette italiani su dieci. Se si guarda al dettaglio regionale ci si accorge che i più propensi alla mobilità sono, ancora una volta, gli abruzzesi, i marchigiani, i sardi, gli umbri, i campani, i calabresi e i siciliani.

 

15 aprile

Treviso, le case popolari della casta padana

Case a prezzi popolari? Sì, ma ai leghisti che le hanno gestite. Quello che è accaduto nella Treviso del boom mostra che non ci sono grandi differenze tra nord e sud nella malagestione pubblica. Per il "Progetto casa", un piano finanziato dall'Ater (l'ente che ha ereditato la gestione delle case popolari), politici e loro familiari si sono insediati in pole position. Il piano riguarda la costruzione di 30 appartamenti a prezzo convenzionato: poco più di 100 metri quadrati per 160 mila euro. Palazzine eleganti di tre piani che sorgeranno nella prima periferia della Marca in un quartiere destinato a un grande sviluppo: vi è prevista la nascita della "cittadella delle istituzioni" disegnata da Mario Botta. Ma le graduatorie delle assegnazioni si sono rivelate sorprendenti. Chi si è classificato secondo per ottenere l'alloggio a prezzo agevolato? Pierantonio Fanton, presidente proprio di Progetto casa, consigliere dell'Ater e consigliere comunale leghista nel municipio del celebre Giancarlo Gentilini. Fanton è stato tra i primissimi a depositare la domanda nel giorno stesso dell'apertura del bando. Anche il primo nella graduatoria di assegnazione è un nome noto in città. Si tratta di Giobatta Zampese: è il padre del consigliere comunale leghista Sandro, che presiede anche l'azienda pubblica di trasporto locale. Volete una chicca finale? Fanton e Zampese Junior sono soci nello stesso studio professionale di architettura. Il Carroccio si è difeso: le domande sono state valutate da una commissione. Ma in città la sinistra parla di "Casta padana". Ed è difficile darle torto.

 

Thyssen: chi se ne va costretto a rinunciare ai ricorsi

Giorgio Airaudo

Lo ha reso noto questa mattina il segretario generale della Fiom torinese Giorgio Airaudo. Rinaldini: «L'azienda ha un atteggiamento arrogante». Cremaschi: «E' la dimostrazione che sono dei mascalzoni»

TORINO

La Thyssenkrupp sta facendo firmare ai lavoratori che lasciano l’azienda un verbale, nel quale si impegnano a non costituirsi parte civile, ma anche a non ricorrere contro eventuali responsabilità penali dei dirigenti. Lo ha reso noto il segretario generale della Fiom torinese, Giorgio Airaudo, nel corso dell’assemblea nazionale degli Rls, rappresentanti della sicurezza della Fiom, riuniti a Torino.

«Se la Thyssen - ha detto Airaudo - utilizzava questo verbale storicamente, già prima della strage, nasce il sospetto che avesse interesse a cautelarsi. Se invece il verbale è stato modificato dopo la strage del 6 dicembre, ci troviamo di fronte a un’azienda che tenta di sottrarre ai lavoratori un diritto, quello di costituirsi parte civile. In ogni caso, si tratta per noi di atti non validi e lavoreremo perchè vengano rimossi gli effetti».

Rinaldini: «L'azienda ha un atteggiamento arrogante»

«È un fatto gravissimo che arriva all’indomani della tragedia della Thyssenkrupp e conferma l’atteggiamento di assoluta arroganza dell’azienda e mancanza di ogni forma di sensibilità, soprattutto tenuto conto del procedimento giudiziario in corso nei confronti dei dirigenti della multinazionale». Così il segretario generale della Fiom Cgil, Gianni Rinaldini, a margine dell’assemblea nazionale Rls Fiom in corso a Torino, commenta i verbali fatti firmare ai lavoratori delle Acciaierie contenenti la remissione di procedure di carattere penale e civile.

Sono in corso verifiche sulle dimensioni del fenomeno. Intanto Rinaldini assicura che «il sindacato proseguirà la costituzione di parte civile contro la Thyssenkrupp» e invita «i lavoratori a non firmare».

Duro anche il giudizio espresso da Giorgio Cremaschi, segretario nazionale Fiom. «Questa vicenda - dice - dimostra che i dirigenti della Thyssenkrupp sono dei mascalzoni e bisogna fare il possibile perchè abbiano la sanzione che meritano».

 

La sindrome del terzo turno

Più volte vengono mandati in Iraq, più i militari Usa tornano a casa con problemi mentali. Il Pentagono è preoccupato

Mentre si trova a dover scegliere quanti soldati far rimanere in Iraq dopo l'estate, l'esercito statunitense ha scoperto che più rimanda i militari in guerra, più questi tornano a casa con problemi mentali che vanno dall'insonnia alla depressione. E dato che ormai decine di migliaia di soldati sono stati inviati in Iraq per almeno tre volte, il nuovo studio del Pentagono preoccupa i vertici del dipartimento della Difesa: il bacino di militari da cui pescare si restringe sempre di più.

I numeri. Secondo la ricerca, dal 2003 a oggi i soldati in servizio attivo che hanno servito in Iraq sono 513.000. Di questi, 197.000 sono stati inviati al fronte più di una volta, e 53.000 per almeno tre turni. Di questi ultimi, il 27 percento soffre di sindrome da stress post-traumatico (Ptsd), una percentuale che scende al 18 percento per i militari mandati al fronte in due occasioni, e al 12 percento per quelli che in Iraq ci sono stati una volta sola. Proprio questa settimana il generale David Petraeus, massima autorità militare Usa in Iraq, dirà al Congresso che non raccomanda un'ulteriore diminuzione delle truppe nel Paese, oltre a quelle già previste fino a luglio, che porteranno la presenza statunitense in Iraq a circa 140.000 militari.

Le preoccupazioni del Pentagono. In un incontro preliminare con il presidente Bush tenuto lo scorso marzo, il Joint Chiefs of Staff – l'organo che riunisce i comandi dei servizi di ciascun ramo delle forze armate statunitensi – ha espresso tutta la sua preoccupazione per il livello di stress raggiunto dai militari. Nella ricerca del Pentagono, si conclude che “i soldati che ritornano da turni multipli al fronte segnalano un morale basso, più problemi mentali e legati allo stress”. In particolare, i soldati al terzo o al quarto turno in Iraq “sono a rischio particolare di riportare problemi di salute mentale”. Per cercare di migliorare la situazione, le forze armate stanno pensando di accorciare i turni di dispiegamento in Iraq di tre mesi, portandoli a un anno, e di aumentare i periodi di pausa tra uno e l'altro, estendendoli dagli attuali 12.

 

Alessandro Ursic

L'Ilva si ferma per gli apprendisti
Il test che ti licenzia Un esame preparato «ad hoc» dall'azienda per cacciare gli operai dopo 3 anni. Scatta lo sciopero e un corteo

ALESSANDRA FAVA

Genova

Un test scritto per cacciare un operaio apprendista che lavora da tre anni nella tua azienda: è l'ultima trovata dei Riva. Lo hanno utilizzato con sette apprendisti operai all'Ilva di Cornigliano e nei test non c'erano neppure domande attinenti il lavoro fatto dagli stessi in fabbrica. Anche la tempistica è stata eccellente: venerdì mattina test a sorpresa per i sette; nel pomeriggio si ventilava già l'assunzione a tempo inderminato da firmare lunedì (cioè ieri): qualcuno è uscito felice per festeggiare l'agognata assunzione. Invece venerdì sera la prima doccia gelata: uno dei sette viene convocato per firmare la lettera di licenziamento. A questo punto i sindacati hanno indetto lo sciopero e ieri sono scesi in corteo da Cornigliano alla prefettura con centinaia dei 2100 lavoratori occupando le vie del centro, sinché dalla Prefettura è arrivato un impegno scritto da parte degli enti locali a non accettare nessun incontro con Riva se non viene messo come presupposto l'assunzione immediata dei sette.
«In questi tre anni abbiamo fatto di tutto - si sfoga uno dei ragazzi, 25 anni - ho dato l'anima, ho lavorato con la febbre, non ho fatto un giorno di mutua e ho 300 ore di ferie arretrate e meno male che vivo da solo, ma come faccio a sposarmi, come faccio a fare un bambino?». Accanto a lui c'è Mario, 52 anni, in cassa integrazione con Ilva, è stato assegnato ai lavori di pubblica utilità previsti dal piano firmato da Riva con gli enti locali, ora è in Provincia: «Lo capisco - bofonchia - Io mi sono sposato l'anno scorso. Ma dove sono gli enti locali, le istituzioni?».
Mentre piazza Corvetto diventa area pedonale a causa dell'occupazione, vengono fuori le domande dei test. A due operai che si occupano di manutenzione elettrica finiti poi nel ciclo a caldo hanno chiesto come si fa a cambiare i giri di un motore in continua. Ad altri dell'officina meccanica sono arrivati quiz sulle saldature, sui circuiti di impianti oliodinamici e altri su tubature che non hanno niente a che fare con la meccanica. «Sembra che abbiano preso delle domande a caso di manuali degli istituti tecnici», butta lì un operaio. «Venerdì fino a tre ore prima mi dicevano di star tranquillo poi mi sono venuti a prendere sotto la doccia per farmi firmare la lettera di licenziamento», aggiunge un altro.
«L'azienda tenta di violare un accordo sull'apprendistato firmato nel '96 - spiega Bruno Manganaro (Fiom) - propone il test e trova la scusa per non assumere quattro dei sette; poi, appena dichiariamo lo sciopero, decide di non assumerli tutti e sette».
In ballo c'è l'accordo più allargato con gli enti locali, frutto di decine di tavoli tra l'azienda (che minacciava la delocalizzazione) e gli enti locali con una cessione di aree a Riva e una tranche di 500 operai in cassa integrazione. L'accordo prevede tra l'altro che l'8 agosto prossimo rientrino dalla cassa integrazione 500 dipendenti. Su questo Riva chiede la proroga di un anno e intanto ha già parlato di una variante al programma per cui invece di arrivare a 2700 dipendenti (l'obiettivo del piano) sarebbero 2200. Anche questo sarà materia dell'incontro previsto per mercoledì in prefettura con Comune, Provincia e Regione, che intanto hanno messo per scritto che non si siedono al tavolo se non vengono riassunti i sette apprendisti. «In questa situazione non mi ci sarei buttato - dice il segretario provinciale Fiom Francesco Grondona, esperienza pluriennale di vertenze industriali genovesi - a meno che non voglia far vedere che cede alle pressioni». Così stamattina alle sei la fabbrica ha ripreso l'attività, ma domani se i sette non vengono riassunti gli operai riscenderanno in piazza in mattinata.

 

Noi precari della cultura buttati via

Aprile 2004: mese ed anno di inizio della nostra storia. Una storia che rischia di finire male e non solo per noi.
Siamo stati selezionati sulla base dei nostri titoli: laurea, specializzazioni, esperienze professionali, curricula. E questo perché siamo bibliotecari e collaboriamo da svariati anni con l'Iccu, Istituto Centrale per il Catalogo Unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche, nato a seguito della costituzione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, con il compito di catalogare l'intero patrimonio bibliografico nazionale, a garanzia dello sviluppo di servizi di uguale livello su tutto il territorio nazionale.
Noi lavoriamo e maneggiamo libri rari e preziosi, antichi e moderni, grazie a contratti di collaborazione che la pubblica amministrazione ha voluto stipulare direttamente con noi, evitando di ricorrere all'impiego di cooperative e a forme di cottimo nascoste. Siamo, per essere chiari, personale altamente specializzato.
Dopo molteplici rinnovi contrattuali, il 31 maggio 2008 «scadiamo», non perché i progetti siano conclusi - in effetti il nostro lavoro rientra nell'insieme delle attività istituzionali dell'Iccu - ma perché non ci sono soldi o forse perché la pubblica amministrazione non può o non vuole continuare a stipulare contratti con noi che siamo ormai già dentro.
Dal 2004 la vita ha fatto il suo corso: matrimoni , figli, mutui...ma la fatica è tanta e le difficoltà anche quelle minime e scontate (un esempio la malattia) diventano a volte enormi. E naturalmente il punto è questo: non parliamo di un lavoro precario ma di una vita precaria, perché di fatto non esistiamo. Ma se i precari sono coloro che lavorano con contratti di varia natura nel settore privato e quelli che hanno contratti a tempo determinato nella pubblica amministrazione, noi cosa siamo?
In tutto questo tempo lo Stato ha investito tempo e denaro per formarci e metterci in condizione di fare il nostro lavoro al meglio. Perché ora sprecare l'investimento fatto?
Perché anche così lo Stato spreca: gettando via le risorse che ha creato e non perché non serviamo più; con il nostro lavoro contribuiamo a creare e conservare la cultura del nostro paese.
L'applicazione dell'ultima finanziaria e della successiva circolare (n.3/2008) della Funzione Pubblica potrebbe cancellarci definitivamente come se non fossimo mai esistiti.
Ci chiediamo quale sia il motivo che porta il mondo politico in generale, ora alla vigilia delle elezioni, a proclamare preoccupazione per il precariato, definito piaga ed emergenza sociale, ma a tacere sulle modalità di regolarizzazione di quanti abbiano contratti atipici «in essere».
Non vogliamo miracoli, vogliamo che ci venga garantita una continuità lavorativa e che venga chiarita la nostra situazione. Vogliamo che lo Stato non ci butti via, non si butti via.
La cultura non è meno importante della famigerata Tav, del «Corridoio 5» o dell'onirico ponte sullo Stretto.
La cultura è un'infrastruttura non tangibile, ma altrettanto concreta. Vogliamo sapere: cosa faremo il 1° giugno 2008?

*** I precari Iccu -Biblioteche italiane

 

La guerra dei tubi

La Gazprom ha un nuovo alleato nel gasdotto 'South Stream'

Ora che anche l'Ungheria si è posizionata dalla parte dell'Orso sovietico, il progetto 'South Stream' della Gazprom-Eni diventa l'antagonista più temibile per i piani euro-americani di approvigionamento e sicurezza energetica. Con l'accordo tra il presidente russo Dmitri Medvedev e il Primo ministro ungherese Ferenc Gyurcsany, sottoscritto a Mosca il 28 febbraio scorso, la Russia si assicura il tratto finale del percorso che il nuovo gasdotto dovrebbe seguire: partenza da Beregovaya nel Mar Nero, arrivo a Varna in Bulgaria e da qui biforcazione verso nord (attraverso Romania, Ungheria, Austria, Repubblica Ceca e Germania) o sud (attraverso Grecia, Albania e Puglia).

Nabucco. Il tracciato finale non è ancora stato reso noto, ma il 'South Stream' rappresenta l'alternativa all'opzione 'Nabucco' (appoggiato da Unione Europea e Stati Uniti), che dai giacimenti del Mar Caspio dovrebbe trasportare il gas azero, kazako e turkmeno passando per la Turchia e seguendo un percorso analogo al 'South Stream'. L'Ungheria mantiene di fatto il piede in due staffe ('due gasdotti sono meglio di uno', ha detto Gyurcsan la scorsa settimana), ma l'offerta russa sembra quella più convincente, nonostante sia la più costosa. Il 'South Stream' è un progetto concepito da Eni e Gazprom lo scorso anno. Dovrebbe comportare una spesa di 15 miliardi di euro e trasportare annualmente dai 20 ai 30 miliardi di metri cubi di gas naturale, a cominciare dal 2013. Il gasdotto è visto come il tentativo di Mosca di entrare a gamba tesa nell'Europa centrale, già da anni dipendente dalle riserve russe e delle repubbliche centroasiatiche, attuando una politica di tagli tesa a marginalizzare Ucraina e Bielorussia a vantaggio di mercati più imporanti e remunerativi.

Tubi vuoti. In occasione dell'incontro al Cremlino con Gyurcsany, Putin non ha nascosto il proprio atteggiamento di sfida nei confronti del progetto 'Nabucco', arrivando addirittura a ridicolizzarlo: "Possono costruire uno, due o più gasdotti - ha detto l'ex presidente russo -, ma con cosa li riempiono? Se qualcuno vuole interrare del metallo sotto forma di tubi, lo faccia pure, noi non abbiamo niente in contrario". La realtà è che dietro l'aggressività della Gazprom vi sono elementi ben più concreti, rispetto al progetto euro-americano. La compagnia energetica russa ha enormi volumi di gas da vendere, ingenti capitali per gli studi di fattibilità e per la costruzione del gasdotto, incentivi supplementari sotto forma di progetti energetici collaterali per i Paesi destinati a ospitare il 'South Stream'. Per converso, a Bruxelles manca una politica energetica comune, e l'approccio prudente di Washington si accompagna all'incertezza sulla fattibilità di un progetto che non dispone ancora di approvigionamenti sicuri dalle repubbliche centroasiatiche e, soprattutto, dall'Iran.

Un solo vincitore. L'accelerazione che Mosca sta imprimendo al progetto 'South Stream', attraverso la stipula di un protocollo d'intesa dopo l'altro, si configura oggi come la più valida e concreta garanzia per il bisogno di energia dei Paesi europei. Tuttavia, nonostante la Gazprom difficilmente potrà garantire riserve a lungo termine sia per l'Europa che per il suo crescente fabbisogno interno senza operare tagli altrove, il controllo delle infrastrutture, dell'accesso e del trasporto costituirà l'elemento chiave per imporsi nel futuro scacchiere energetico europeo. In questo senso, il Cremlino sembra il candidato più probabile a garantirsi la vittoria, in quella che è già stata enfaticamente definita la 'guerra dei tubi'.

Luca Galassi

 

8 aprile

 

Un conflitto dimenticato

Messico, la lotta delle comunità zapatiste dimenticata dai media internazionali

Rompere il silenzio sul conflitto in Chiapas che da troppo tempo opprime le comunità zapatiste. Questo l'obiettivo del giro internazionale di Ernesto Ledezma, direttore del Capise (centro di analisi politica ricerca sociale ed economica). L'Ong messicana, che da anni studia approfonditamente la presenza di gruppi militari nella regione dice basta al silenzio mediatico intorno a questo conflitto. E denuncia: le comunità zapatiste del Chiapas sono oggetto di minacce e attacchi da parte di militari e paramilitari.

I fatti. Erano i primi giorni del 1994 quando la rivolta degli indigeni del Chiapas (sud del Messico), riempiva d'inchiostro le pagine dei quotidiani di tutto il mondo. Figura centrale di quella rivolta il Sub Comandante Marcos che grazie alla sua dialettica, alla sua immagine romantica da rivoluzionario d'altri tempi e al suo carisma, portava a conoscenza della comunità internazionale la lotta degli zapatisti. Oggi, a 14 anni di distanza, di quel conflitto ormai in pochi parlano.
"Oggi si è riattivata una forte offensiva contro la popolazione indigena del Chiapas", racconta Ledesma. "Interventi così vigorosi dell'esercito regolare e dei paramilitari non si verificavano da oltre di dieci anni. Il problema che ha oggi il Messico è che ha un presidente che non è stato legittimamente eletto. E' talmente debole politicamente che è costretto a governare con il pugno di ferro, usando spesso la forza dell'esercito. E nel caso delle popolazioni zapatiste del Chiapas, le ostilità da quando c'è Felipe Calderon si sono riacutizzate".

La presenza militare. Sparse ovunque in Chiapas , soprattutto nei territori limitrofi alle comunità zapatiste, le caserme militari sono diverse decine. Ognuna addestra militari ad un compito ben determinato. E negli ultimi mesi proprio da queste caserme sono partiti i soldati che hanno minato la tranquillità degli indios della zona. "Ci sono 56 accampamenti militari permanenti all'interno del territorio zapatista". Racconta preoccupato il direttore del Capise che aggiunge: "Il 90 percento delle caserme è composto da forze speciali. Un anno fa erano solo il 30 percento. E come conseguenza è aumentato anche il numero di paramilitari. Si sono moltiplicate le aggressioni fisiche contro la popolazione zapatista. I gruppi paramilitari sono quelli che, alla fine dei giochi, guadagnano di più perché le istituzioni agrarie stanno anche ridistribuendo i terreni coltivabili e li stanno assegnando alle corporazioni vincolate ai gruppi paramilitari".

La presenza paramilitare. "La presenza dei paramilitari in questo momento è imponente. Noi abbiamo documentato 253 nomi di indigeni che fanno parte dei gruppi paramilitari. Sappiamo tutto di loro: dove vivono, di quale comunità fanno parte, quando hanno iniziato a far parte dei paramilitari. Sappiamo bene anche quello che hanno fatto. Non parlare di quello che succede in Messico in questo momento dove la popolazione indigena è sempre attaccata è per noi il vero problema. E' un silenzio scandaloso". Ledezma è in giro per l'Europa proprio per riaccendere la luce intorno alla vicenda Chiapas. "Il conflitto dovrebbe essere presente sulle prime pagine dei quotidiani di tutto il mondo - rincara la dose Ledezma - invece quasi mai lo troviamo o se leggiamo qualcosa è giusto un trafiletto. Quello che esce sulla stampa internazionale rispetto al nostro conflitto è niente".

Alessandro Grandi

 

Lustrascarpe nel palazzo di giustizia

Paraguay: la storia di Eligio, lustrascarpe davanti al trubunale di Asuncion

Scritto da Serena Corsi

Mille guaranies, poco piú di dieci centesimi di euro, per lustrare un paio di scarpe con uno straccio. Prima una, poggiata sullo sgabellino di legno che deve rimanere pari, non tremare. Poi l’altra: dai cinque ai dieci minuti di lavoro, inginocchiato o seduto a terra. Eligio ha sedici anni, ne aveva appena dieci quando cominció a frequentare il Palazzo di Giustizia di Asunción per fare il lavoro di lustrascarpe , “dalle otto di mattina alle due. Poi vado a giocare a pallone”. E la scuola? “Finita”.

La storia. Oggi Eligio ha avuto una buona giornata: torna a casa con ventimila guaranies, circa tre euro. Il Palazzo di Giustizia di Asuncion é un posto privilegiato per fare il lustrascarpe, non tutti i lustrabotas di Asuncion hanno questo privilegio. Non solo perché é calpestato ogni giorno da calzature che si vogliono lucide –giudici, avvocati, gente comune in attesa di una sentenza importante. Ma anche e soprattutto per un progetto singolare nato dall’idea di José Altamirano, un giudice della Corte Suprema che da sociologo studió gli effetti della disoccupazione nei quartieri marginali come i Bañados – i quartieri di baracche sulla sponda del fiume Paraguay che puntualmente si allagano durante la stagione delle piogge. “Ovvio che il lavoro minorile é un cancro da estirpare.. Siamo tutti d’accordo” dice Altamirano. “Ma reagire al fenomeno con la sola repressione é sciocco, oltre che inutile. Finché programmi sociali seri non ne ridurranno le cause, il meglio che si puó fare é seguire i ragazzi perché intendano, e difendano, la dignitá di quello che fanno”.

Casacche e strumenti d'ordinanza. Il fulcro del programma é la registrazione come “lustrabotas” nell’ufficio risorse umane del Palazzo. Chi é registrato ha diritto a una casacca di riconoscimento e al materiale di lavoro , oltre che a una prima colazione a base di mate cocido e pane e marmellata. Una bella differenza rispetto a quando i lustrabotas venivano inseguiti e picchiati dalle guardie interne del tribunale: oggi sono lavoratori come altri che popolano la febbrile attivitá del palazzo. “Abbiamo tentato anche l'accompagnamento psicologico, ma non ha funzionato " ammette Marta dell’ufficio risorse umane. La registrazione come lustrabotas del Palazzo ha un’unica contropartita: se ne viene sospesi in caso di furto o di lite con un “collega”. “E alcuni materiali didattici vengono distribuiti solo a chi dimostra di star ancora frequentando la scuola”.
Del progetto non esiste nulla di ufficiale: tutto é organizzato, finanziato e coordinato da un gruppo di giudici e da alcuni volontari dell’ufficio risorse umane, che nell’ultimo anno hanno anche organizzato incontri fra famiglie e pedagoghi (si cerca di stabilire un contatto con la famiglia, anche per capire se, come succede spesso, tutto quello che guadagnano i ragazzi, anziché per sé o per le spese di casa, viene speso per qualche vizio dei genitori) e un corso di teatro.

Il dibattito è aperto. "Non siamo d'accordo con nessun progetto che sostenga il lavoro minorile"replica Barbara Balbunea, della segreteria nazionale dell'infanzia e dell'adolescenza. Secondo i dati del ministero, ottenuti grazie a un'elaborazione di una ONG spagnola,il lavoro minorile interessa 280 mila bambini,di cui 145 mila lavorano rischiando la salute o la vita. Eppure in Paraguay esiste una risoluzione ministeriale che stabilisce i criteri per l'iscrizione al registro dell'adolescente lavoratore e che vi esclude tutti i mestieri inclusi in una lista nera della OIT (organizzazione internazionale del lavoro). Piú che essere assolutamente vietato,a livello giuridico si puó dire che il lavoro infantile sia tenuto il piú possibile sotto controllo e, in qualche modo, sindacalizzato.
Ma in un paese in cui é molto facile corrompere ispettori ,forze dell'ordine e giudici, i pochi meccanismi di controllo rimangono molto spesso solo sulla carta.

 

Prendono prosciutto, carne o parmigiano: cose che non possono più permettersi. I direttori degli esercizi: "Questi furti sono raddoppiati nel giro di pochi anni"

E la crisi spinge i nonni a rubare nei supermercati

di JENNER MELETTI

BOLOGNA - Per rubare grammi 300 di grana padano, costo euro 4,75, l'anziano con il gabardine impiega 12 minuti. Ecco, si avvicina allo scaffale. Prende in mano il pezzo di formaggio, si mette gli occhiali, legge il prezzo al chilo (13,50 euro), la scadenza, il nome del caseificio... Sembra proprio un cliente come tutti gli altri. "Fanno tenerezza, i nostri ladri pensionati", dice Stefano Cavagna, direttore dell'iper Leclerc Conad alla periferia di Bologna.

"Per portare via una busta di prosciutto o una confezione di formaggio - continua - impiegano fra i dieci minuti e il quarto d'ora. Ecco, adesso fa la faccia un po' arrabbiata, come se dicesse: 'guarda che prezzi'. Rimette il grana al suo posto. Fa un giro, va allo scaffale del parmigiano reggiano. Anche qui guarda i prezzi. Troppo caro: 422 grammi costano 7,05 euro, 16,70 al chilo. Può sembrare strano, ma l'anziano che ha deciso di rubare sceglie quasi sempre il prodotto che costa meno, per fare meno danni al supermercato e anche per mettersi in pace la coscienza. Ecco, torna al grana padano. Sempre lo stesso pezzo, ormai lo ha battezzato. Lo prende in mano, lo tiene in bella mostra. Dieci metri dopo lo mette nella tasca del gabardine ma lo tira fuori quasi subito, lo abbandona su un altro scaffale. Pochi passi ancora e torna indietro, riprende il formaggio e lo riporta nel suo scaffale. Poveretti, questi poveri ladri. Ci mettono tanto tempo che li becchiamo quasi tutti".

Provocano angoscia, i film a colori che raccontano i furti dei vecchi. Film che per fortuna spariscono ogni sera, quando l'ipermercato viene chiuso e le registrazioni delle tante telecamere vengono cancellate. "Ecco, l'uomo ha trovato il coraggio. Non c'è nessuno intorno, mette il grana padano in tasca, si avvia verso la cassa. Ha comprato anche due rosette di pane, un pacco di pasta e le mele. Mentre è in fila alla cassa, si vede che ha paura. Si agita, si guarda intorno. Ma ormai è fatta. Tanti ci ripensano all'ultimo momento, tornano indietro e abbandonano la refurtiva dove capita, il salame fra le merendine e la carne fra le fette biscottate".

L'uomo arriva davanti alla cassiera, mette sul bancone le cose che vuole pagare. Ma la telecamera ha seguito l'uomo che ha rubato il grana padano e, pochi metri dopo la casa, c'è Antonella che aspetta. "È lei - dice Stefano Cavagna - che ferma gli anziani che hanno rubato. Abbiamo messo una donna, così i ladri hanno meno paura. Ci sono cartelli che annunciano che, per tutti, dopo il pagamento alla cassa ci può essere un controllo scontrino e chi viene fermato non viene subito bollato come ladro dagli altri clienti".

Valentina è una ragazza gentile. "Scusi, dovremmo controllare lo scontrino. Sa, a volte anche le cassiere si sbagliano. Può seguirmi?". Poche decine di passi verso una stanza usata come infermeria. "Signore, si è dimenticato di pagare qualcosa? E qui l'anziano confessa. Tira fuori il grana o il prosciutto, chiede scusa, spesso si mette a piangere. Dice che è solo, con l'affitto e le bollette da pagare, che i figli non si fanno mai vivi. Antonella spiega che non si può rubare al supermercato, che il Conad ogni giorno manda tanti prodotti vicino alla scadenza alle mense e alle associazioni di carità che così possono distribuire alimenti e 21.000 pasti all'anno. Chi ruba per fame, se non è recidivo, non viene denunciato. Facciamo pagare ciò che è stato sottratto e spieghiamo che non sarà perdonato una seconda volta".

Il Conad di via Larga è lo stesso dove, 4 anni fa, "nonno T." andava a rubare i mandarini e, pieno di vergogna, accettava di parlarne con Repubblica. Erano quasi mosche bianche, allora, gli anziani accusati di furto. "Da allora - dice il direttore - le cose sono cambiate, in peggio. I 'nonni T.' si sono moltiplicati. Rispetto a quattro anni fa - e il picco è stabile già da due anni - gli anziani che rubano sono aumentati del 40- 50%. Guardi qui, sui monitor della nostra sicurezza. I reparti dove sono si usano le telecamere più sofisticate, che permettono di seguire una persona molto da vicino, sono puntate sul reparto ortofrutta e sui cibi freschi. Sorvegliamo soprattutto il cibo perché è il prodotto più a rischio".

"Questo vuol dire che ci sono molte persone che, se non soffrono la fame, quantomeno non possono permettersi cibi ai quali si erano abituati. Vengono rubati infatti la busta di prosciutto crudo, la confezione con due bistecche, il formaggio per una grattugiata sulla pasta... E c'è chi mangia direttamente fra gli scaffali. In questa stagione l'uva viene spesso consumata sul posto, c'è chi svuota una confezione di merendine... Un iper è una città. Qui gli anziani sono di casa, al caldo d'inverno e al fresco d'estate. In gran parte per fortuna non rubano. Fanno il giro delle degustazioni. Un caffè gratis lo trovano ogni giorno, e spesso una fetta di salame o di prosciutto. Tanti ormai vivono qui. Chiedono ai commessi di spegnere tutta quella musica sugli schermi del reparto tv. 'Fateci vedere invece il giro d'Italia'. C'è un buon rapporto, con loro. E io continuo a mandare messaggi, a dire che siamo qui per vendere ma possiamo dare una mano a chi abbia davvero bisogno. Noi stiamo male, quando dobbiamo chiedere a un vecchio se 'ha dimenticato di pagare qualcosa'".

"Nei loro occhi - conclude - vedi il terrore: gente che ha lavorato una vita e si trova a vivere così male gli ultimi anni. Ma i ladri con tanti anni e tanta paura addosso sono aumentati e noi non possiamo spegnere le telecamere".

A Udine, nella strada che dalla città porta verso Tolmezzo, c'è la più alta concentrazione di iper e supermercati d'Europa. "Anche qui, in quattro anni - dice il tenente Fabio Pasquariello, comandante del nucleo investigativo dei carabinieri - i furti commessi dagli anziani sono aumentati del 40%. Per affrontare il problema, ho incontrato anche i direttori e responsabili sicurezza di questi centri commerciali. Ho spiegato che il furto semplice si persegue solo su querela, mentre chi fa danni - ad esempio strappando una confezione - può essere accusato di furto aggravato e non serve querela. Ho anche detto che, se il direttore ci chiama, noi non possiamo fare da pacieri: dobbiamo denunciare chi ha commesso il reato".

"Per questo - continua - tanti direttori, quando trovano l'anziano che ha rubato, si limitano a fargli pagare la merce e a dirgli di non presentarsi mai più nel supermercato. L'anziano che ha rubato per fame, quando ci vede arrivare in divisa, resta di ghiaccio. Non riesce nemmeno a parlare. Sono strani ladri, i vecchi. Rubano la confezione di tonno che costa meno, o il prosciutto cotto in offerta speciale. Ma la fame è brutta. Noi carabinieri vediamo la povertà anche dentro le case, quando entriamo perché ci sono stati maltrattamenti o liti. Trovi famiglie che hanno la tv al plasma e niente in frigorifero. Gli addetti alla sicurezza dei supermercati dicono che gli anziani sono la categoria più a rischio: rubano più dei ragazzi in cerca di dvd o cd e degli extracomunitari. Secondo le mie informazioni, extracomunitari e pensionati sono alla pari, ma solo perché questa è una zona di confine e gli extracomunitari residenti e soprattutto di passaggio sono tanti. Con le bande di ladri professionisti riusciamo a ottenere successi. Abbiamo individuato una banda di croati che organizzava viaggi in Italia e costringeva altri croati che dovevano pagare debiti agli usurai a compiere furti. Li abbiamo messi in galera. Ma contro il vecchio che quando ci vede resta quasi paralizzato, che puoi fare?".

I titolari dei supermercati in questo pezzo di Nordest, non vogliono i loro nomi sui giornali. "Ci sono anche gli anziani onesti e non vogliamo perdere clienti". Raccontano però che anche le tecniche si sono affinate. "Non solo aggiungono frutta al sacchetto già pesato: lo tengono sollevato al momento della pesata, così lo scontrino è più leggero". "Il ladro più abile? Un anziano che veniva tutte le mattine a comprare una pagnotta. Un giorno l'abbiamo fermato a addosso aveva 80 euro di cibi vari". "Nel mio piccolo market di paese, dopo trent'anni di attività, tre mesi fa ho dovuto assumere un addetto all'anti taccheggio". "Ai vecchi noi non facciamo mettere l'acqua minerale sul bancone della cassa. La lasciano sul carrello, così non fanno sforzi. E c'è chi se ne approfitta e fra due confezioni ben strette l'una all'altra infila una busta di bresaola o di salmone".

"Il furto più piccolo? C'è una signora che quasi ogni giorno si ruba un ovetto Kinder, e non ha nipoti. L'altro giorno un anziano è stato trovato mentre rubava una cioccolata da 1,05 euro". "Ormai, quando li fermi, senti la stessa litania: non riesco ad arrivare a fine mese, ieri ho pagato la luce e sono rimasto senza soldi...". Ma ci sono anche parole commosse. "Quando li fermi, i vecchi, ti fanno stare male. Appena riescono a riprendere fiato ti chiedono solo una cosa: "per carità, non ditelo ai miei figli"".

 

4 aprile

 

Benvenuti a Velenitaly

di Paolo Tessadri
Concimi, sostanze cancerogene, acqua, zucchero, acido muriatico e solo un quinto di mosto. Con questo miscuglio sono stati prodotti 70 milioni di litri di vino a basso costo. Venduti in tutta Italia. In edicola da venerdì
 
 
Di vino ne contengono poco: un terzo al massimo, spesso di meno. Il resto è un miscuglio micidiale: una pozione di acqua, sostanze chimiche, concimi, fertilizzanti e persino una spruzzata di acido muriatico. Veleni a effetto lento: all'inizio non fanno male e ingannano i controlli, poi nell'organismo con il tempo si trasformano in killer cancerogeni.

Secondo i magistrati di due procure e la task force che da sei mesi indagano sulla vicenda, questo cocktail infernale è il protagonista della più grande sofisticazione alimentare mai scoperta in Italia. Perché con la miscela tossica sono state confezionate quantità mostruose di vino. Gli inquirenti ritengono che si tratti di almeno 700 mila ettolitri: sì, 70 milioni di litri messi in vendita nei negozi e nei supermercati come vino a basso costo anche dai marchi più pubblicizzati del settore. Un distillato criminale che ha riempito circa 40 milioni di bottiglie, fiaschi e confezioni di tetrapack d'ogni volume, offerte a un prezzo modestissimo: da 70 centesimi a 2 euro al litro.

L'inchiesta è tutt'ora in corso: solo una parte dei prodotti pirata è stata sequestrata perché è impossibile rintracciare tutte le bottiglie. Ma gli elementi raccolti dagli investigatori mostrano un sistema industriale di contraffazione che nasce dalla criminalità organizzata e alimenta le grandi cantine: le aziende coinvolte nello scandalo sono già 20. Otto si trovano al Nord: in provincia di Brescia, Cuneo, Alessandria, Bologna, Modena, Verona, Perugia. Il resto invece è sparso tra Puglia e Sicilia: le sorgenti del vino contraffatto e dei documenti che gli hanno permesso di invadere le botti. Perché con questo sistema criminale i produttori riuscivano a risparmiare anche il 90 per cento: una cisterna da 300 ettolitri costava 1.300 euro, un decimo del prezzo normalmente chiesto dai grossisti del vino di bassa qualità.

Retrogusto al metanolo L'istruttoria è nata partendo da uno dei soliti sospetti: una cantina di Veronella che 22 anni fa venne coinvolta dal dramma delle bottiglie al metanolo. Ricordate? Diciannove persone uccise mentre altre 15 persero la vista per colpa del mix a base di mosto e di un alcol sintetico, normalmente utilizzato nelle fabbriche di vernici: un liquido inodore e micidiale. Una tragedia che cancellò la credibilità della nostra enologia e stroncò l'export. Ma nello stabilimento di Bruno Castagna anche quella lezione sembra dimenticata. Quando nello scorso settembre scatta l'irruzione, gli agenti del Corpo forestale di Asiago e dell'Ispettorato centrale per il controllo dei prodotti agroalimentari trovano subito una situazione anomala: accanto alle cisterne c'erano taniche piene di acido cloridrico, altre con acido solforico e 60 chili di zucchero. Gli ispettori mettono tutto sotto sequestro e fanno esaminare campioni di vino bianco e rosso per capire cosa contengano. I test condotti nell'Istituto agrario di San Michele all'Adige e nel laboratorio di Conegliano Veneto dell'Ispettorato centrale forniscono lo stesso verdetto choc: in quel liquido di uva ce n'è circa un quinto, il minimo indispensabile per dare un po' di sapore. I test sono concordi: tra il 20 e il 40 per cento, non di più. E il resto? Acqua, concimi, fertilizzanti, zucchero, acidi. Sì, acidi: usati per mimetizzare lo zucchero vietato per legge. L'acido cloridrico e l'acido solforico vengono utilizzati per 'rompere' la molecola dello zucchero proibito (il saccarosio) e trasformarlo in glucosio e fruttosio, legali e normalmente presenti nell'uva. Un metodo che consente così di sfuggire ai controlli. Risultato: da una normale analisi non emergerà la contraffazione. I due acidi, assieme alle altre sostanze cancerogene, non uccidono subito, ma lo fanno progressivamente, in modo subdolo. L'acido cloridrico, comunemente chiamato acido muriatico, può provocare profonde ustioni se finisce sulla pelle, se ingerito è devastante.

A Veronella uno degli investigatori è svenuto per i vapori e sono stati chiamati i pompieri per rimuovere le scorte. Il titolare della cantina è stato arrestato per il reato di sofisticazione alimentare con pericolo della salute pubblica: di quel liquido ad alto rischio ne avevano ancora migliaia di litri. Ma il fascicolo aperto dal pubblico ministero di Verona Francesco Rombaldoni poco alla volta si è gonfiato di reati pesantissimi: l'associazione a delinquere per gli imprenditori vinicoli del Nord. Che diventa addirittura associazione mafiosa per i loro referenti meridionali.
 
 
Sacra cantina unita Partendo dai silos veneti gli agenti della Forestale sono arrivati ai fornitori della pozione micidiale. La pista conduce fino a Massafra in provincia di Taranto. Secondo l'accusa, l'intruglio proviene da due stabilimenti: la Enoagri export srl e la Vmc srl, vini, mosti e concentrati. Per gli inquirenti il gigantesco impianto della Vmc è stato costruito non per produrre vino, ma per fabbricare quantità industriali di quel mix velenoso: c'è un vero laboratorio chimico. Da lì l'inchiesta si allarga ancora e si estende in tutta Italia, con squadre di investigatori all'opera anche in Sicilia, mentre il coordinamento per il fronte Sud viene preso dal pm Luca Buccheri della Procura di Taranto. Pochi giorni fa il magistrato ha sequestrato i due stabilimenti, ma gli investigatori sono convinti che i titolari siano solo dei prestanome. Dietro di loro, in realtà, ci sarebbero gli investimenti della Sacra corona unità, il nucleo storico della mafia pugliese. E poiché ogni documento falso richiede altre coperture, altre aziende nelle mani della malavita avrebbero fornito certificati e ricevute per giustificare l'attività delle distillerie di veleno. Tutto finto: vino, forniture, bolle di trasporto, fatture. A Massafra è stata sequestrata la Tirrena Vini, definita dagli inquirenti una 'cartiera'. E sono spuntati documenti taroccati realizzati pure da ditte di Trapani, che hanno fatto ipotizzare un collegamento operativo con Cosa nostra siciliana. E per questo anche la Direzione investigativa antimafia è scesa in campo per intercettare i movimenti di capitali impegnati nell'operazione criminale.

Cocktail al veleno Una volta scoperte le sorgenti, gli specialisti della Forestale e dell'Ispettorato centrale per il controllo dei prodotti agroalimentari si sono messi a studiare tutti gli acquirenti della pozione. E hanno ricostruito la mappa di quella che definiscono la più grande frode mai scoperta in Italia: 70 milioni di litri di vino corretto o fabbricato con liquidi pericolosi per la salute. Viene creata una task force di investigatori e informato il ministero delle Politiche agricole. La miscela è finita nelle cantine di sei regioni: Lombardia, Piemonte, Veneto, Umbria, Puglia e Sicilia. I primi test avrebbero riscontrato lo stesso cocktail di Veronella: solo il 20-30 per cento è vino, il resto è composto dal solito intruglio di fertilizzante, concime, zucchero e acido made in Massafra. Ma a preoccupare ministero e inquirenti è soprattutto l'uso che ne avrebbero fatto due impianti, uno nel Bresciano e l'altro nel Veronese, che sono leader in Italia nell'imbottigliamento e nella vendita di vini a basso prezzo. Solo da questi due stabilimenti sono uscite milioni di bottiglie, di fiaschi e di cartoni destinati in massima parte al mercato nazionale.

È chiaro che a questo punto l'inchiesta assume una dimensione di alto impatto per l'economia italiana. Con il rischio di un danno d'immagine ben più grave di quello provocato dall'allarme sulla bufala. Per questo il vertice del ministero ha scelto una linea di massima cautela: sia per non compromettere gli sviluppi investigativi sul versante mafioso, sia per non infliggere un nuovo colpo alla credibilità dei nostri prodotti. Il settore basso del mercato è anche quello dove la concorrenza internazionale è più forte, con nuove nazioni che si lanciano con prodotti a prezzi infimi. Ma nonostante i sequestri, moltissime delle bottiglie sotto inchiesta restano in vendita: 'L'espresso' ne ha visto un intero stock in un centro commerciale del Nord-est.

D'altronde le quantità contraffatte accertate finora dagli investigatori non hanno precedenti: 700 mila ettolitri. Un record, che può inondare un'altra delle risorse nazionali con un fiume di vino dal retrogusto di acido muriatico.

Il bottino legale degli avvocati di Stato

Non basta la mesata, c'è pure "il quadrimestre". In una campagna elettorale dove sbocciano promesse di regali e sussidi, non sorprende che sia stata fatta passare in silenzio l'inchiesta di Primo Di Nicola sugli avvocati di Stato. Eppure l'articolo pubblicato su L'espresso mostrava una situazione in cui sarebbe stato facile intervenire per recuperare milioni di euro. Oltre a un ricco stipendio, oltre alla possibilità di ottenere incarichi esterni, docenze e arbitrati, questi dipendenti dello Stato si spartiscono un bottino senza precedenti. Sono pochi: 370 in tutta Italia. Devono rappresentare e difendere l'amministrazione statale in tutti i tribunali. Ma quando vincono le cause, incassano in prima persona le spese legali che le loro controparti devono versare. Incassano personalmente un rimborso per svolgere il compito per cui vengono già pagati con lo stipendio. Una somma enorme: nel 2006 42 milioni e 405 mila euro, che poi vengono divisi secondo criteri territoriali. Questa gratifica viene chiamata "quadrimestre", perchè calcoli e spartizioni avvengono ogni quattro mesi. In media, nel 2006 ogni toga pubblica romana ha intascatoto 91 mila euro, che diventano 244 mila a Bari, 247 mila a Potenza, 261 mila a Venezia e ben 296 mila a Messina: sempre oltre allo stipendio. Il capo di questa avvocatura a Messina nel 2006 ha ricevuto 222 mila euro di stipendio e quasi 300 mila dal bingo dei "quadrimestri"-
Viste le condizioni disastrose in cui versa l'amministrazione della giustizia, che ha tempi vergognosi e lamenta carenze di fondi, non sarebbe meglio usare i 42 milioni del "quadrimestre" per fare qualcosa che aiuti tutti i cittadini? Non sembra una riforma così difficile da realizzare...

 

Peggio che nel West

Gli Usa accelerano la costruzione del muro al confine con il Messico. Con eccezionali deroghe alle leggi

C'è l'opposizione dei proprietari terrieri, degli ambientalisti, dei nativi americani, nonché quella di molti politici locali. E la costruzione va avanti a rilento, in ritardo rispetto ai tempi prefissati. Così, per completare l'innalzamento del muro anti-clandestini al confine tra Stati Uniti e Messico, l'amministrazione Bush ha giocato la carta del colpo di mano legislativo. Sfruttando una possibilità concessa dal Congresso, il governo ha approvato ieri oltre trenta deroghe a leggi e regolamenti in vigore, che gli consentiranno di velocizzare la costruzione del muro in barba a tutte le cause giudiziarie aperte dai gruppi che si oppongono alla recinzione.
 
Il blitz. La mossa di Washington, nelle intenzioni, permetterà di aggiungere 429 chilometri di barriera “bloccati” da ostacoli a livello federale, statale e locale, dalla California al Texas. In tutto, se si volessero rispettare i tempi previsti dalla legge del 2006 ,che ha disposto la costruzione del muro, servirà innalzare 580 chilometri da qui a fine anno, mentre finora ne sono stati costruiti solo 497. Quando sarà completata, la barriera coprirà circa un terzo dei 3.168 chilometri di frontiera tra i due Paesi.
 
Progetto controverso. Il piano di sigillare il confine per limitare l'afflusso di migranti ha scontentato molti abitanti delle zone limitrofe. Proprietari terrieri hanno fatto causa per negare al governo l'esproprio dei loro appezzamenti, o chiedendo indennizzi più cospicui. Gruppi a difesa dell'ambiente sostengono che il muro, tagliando di netto l'habitat naturale di molti animali, metterebbe alcune specie a rischio di estinzione. Tribù di nativi americani hanno accusato il governo di voler passare sopra le loro terre, compresi alcuni luoghi di sepoltura. E politici delle zone di confine, in Texas e Arizona, accusano regolarmente l'amministrazione Bush di arroganza nella gestione del problema, perché decide senza consultarsi con loro. Ma la costruzione del muro va a rilento anche su altri fronti. Qualche settimana fa il governo ha dovuto ammettere che l'installazione della “recinzione virtuale” - un sistema di sensori e telecamere iper-tecnologico nonché costoso – su un tratto della frontiera, non sarebbe finita prima del 2011, anziché entro quest'anno come previsto.
 
Gli effetti. Grazie alle deroghe, i tempi dovrebbero sveltirsi. Per esempio, in alcune aree dove la costruzione sarebbe dovuta partire solo dopo alcune valutazioni preliminari di sostenibilità, ora si potrà cominciare a erigere il muro prima che questi esami – sugli effetti per l'ambiente, la fauna e la qualità delle acque – vengano condotti. “In un certo senso, il confine ora è più senza leggi di quando gli americani hanno iniziato la corsa verso il West”, ha commentato il presidente del gruppo ambientalista Defenders of Wildlife, Rodger Schlickeisen. Il segretario per la Sicurezza interna, Michael Chertoff, non sarà probabilmente d'accordo. Anche perché una volta perorò la causa del muro spiegando che sarebbe stato una cosa positiva per l'ambiente: perché i clandestini, attraversando il confine, sporcano.
 

Ora lo «sceriffo» Cioni caccia i mendicanti

 

L'assessore fiorentino ex Ds e ora Pd già noto per l'ordinanza anti-lavavetri torna all'assalto con un provvedimento contro chi chiede l'elemosina. «Sono un pericolo per i pedoni e per il traffico»
Stefano Milani

 

Sistemati i lavavetri, ora tocca ai mendicanti. Firenze e la sua giunta (di centrosinistra) tornano al centro delle polemiche grazie al nuovo pugno duro del suo assessore «sceriffo», quel Graziano Cioni che la scorsa estate è passato alle cronache per aver «ripulito» i semafori della sua città dai «vu lavà» e che ora lancia la sua battaglia contro chi chiede l'elemosina sui marciapiedi.
Secondo Palazzo Vecchio i mendicanti rappresenterebbero «un pericolo per i pedoni e per il traffico». «La situazione ha superato oltremodo il livello di guardia», ha detto l'assessore comunale alla sicurezza Cioni (ex Ds ora Pd), dopo che nei giorni scorsi una donna non vedente è rimasta seriamente ferita inciampando su un questuante sdraiato in terra. «L'accattonaggio - ricorda l'assessore - rappresenta un grave ostacolo». Sembra però esserci una bella differenza con l'ordinanza anti-lavavetri di sette mesi fa. «Ora stiamo pensando a un nuovo regolamento della polizia municipale che preveda anche nuove norme sul fenomeno e che dovrà poi essere approvata dal Consiglio».
Cioni non parla apertamente di racket dell'elemosina, ma fa intuire che dietro al fenomeno qualcosa di losco ci sia. «Quando vediamo questi mendicanti stesi tutto il giorno nelle strade principali del centro storico - dice ancora l'assessore - pensiamo quantomeno a uno sfruttamento ignobile: l'accattonaggio individuale è una cosa, ma le sue forme organizzate sono una storia diversa». Il nuovo regolamento, quindi «dovrà prevedere delle modalità per contrastare chi chiede l'elemosina intralciando i pedoni». Non solo, sono al vaglio della giunta gigliata altre misure restrittive come proibire ai turisti di toccare la porta del Battistero. «Sono norme di convivenza civile in una città che vuole essere civile», secondo l'assessore.
Il nuovo regolamento, così come anticipato ieri dal giornale free press Il Firenze, è ancora una bozza ma tra una settimana dovrebbe essere completato. «Ci ha lavorato una squadra di esperti per quattro mesi - spiega il comandante della polizia municipale di Firenze Alessandro Bartolini - e la norma porrà un divieto amministrativo per chi mendica sdraiato in strada, in questo modo gli agenti saranno legittimati ad intervenire».
Non serve però aspettare l'ufficialità e l'entrata in vigore del regolamento per far scoppiare la polemica politica. Secondo il segretario del Prc, nonché candidato alla Camera in Toscana, Franco Giordano quella dell'assessore del Pd Cioni «è una parabola davvero triste. Ha iniziato la sua carriera in un partito che si impegnava a combatterla, la povertà, ed ora è finito per combattere i poveri». Per Giordano «la palma delle politiche più disumane contro i poveri, e gli immigrati, spettava all'ex sindaco di Treviso, il leghista Giancarlo Gentilini. Ora Cioni lo ha quasi superato».
Ma la nuova battaglia dello «sceriffo» fiorentino trova dissensi anche a destra. Il Pdl la reputa una trovata elettorale, descrivendo Firenze un luogo da Inferno dantesco. «Non hanno voluto costruire i cpt per controllare gli immigrati clandestini - dice Giovanni Donzelli, un consigliere comunale di An - concedono alloggi agli occupanti abusivi del movimento di lotta per la casa, tollerano le decine di baraccopoli e i campi rom, tutte le notti subiamo risse e accoltellamenti, il centro storico è invaso da venditori abusivi, la prostituzione dilaga».
 

Cessate il fuoco

Il bollettino settimanale delle guerre e dei conflitti in corso n. 13 - 2008 dal 28/03/2008 al 03/04/2008

Questa settimana, in tutti i Paesi in guerra, sono morte almeno 1232 persone

Iraq
Questa settimana sono morte almeno 800 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 4364

Israele e Palestina
Questa settimana sono morte almeno 6 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 247

Sri Lanka
Questa settimana sono morte almeno 182 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 2.536

Afghanistan
Questa settimana sono morte almeno 74 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 973

India Nordest
Questa settimana sono morte almeno 13 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 238

Pakistan talebani
Questa settimana sono morte almeno 16 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 1.040

India-Kashmir
Questa settimana sono morte almeno 9 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 131

Nord Caucaso
uesta settimana sono morte almeno 7 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 131

Thailandia del Sud
Questa settimana sono morte almeno 9 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 112

Nepal
Questa settimana sono morte almeno 4 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 24

India Naxaliti
Questa settimana sono morte almeno 15 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 186

Pakistan Balucistan
Questa settimana sono morte almeno 8 person8
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 39

Pakistan Talebani 
Questa settimana sono morte almeno 7 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 1047

Nigeria
Questa settimana sono morte 9 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 18

Somalia
Questa settimana sono morte 18 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 255

Sudan (Darfur)
Questa settimana sono morte 20 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 347

Niger
Questa settimana sono morte 15 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 23

Turchia
Questa settimana sono morte 19 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 135

Colombia
Questa settimana è morta almeno 1 persona
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 60

 

2 aprile

 

Sarà una estate spazzatura

di Giuseppe Lo Bianco e Piero Messina

Agitazioni sindacali annunciate in tutta Italia. Gestione opaca dei contratti. Differenziata fantasma. Così si rischiano altre Napoli. A partire da Palermo

La discarica di Bellolampo, a Palermo

Di fronte all'ingresso del Policlinico di Palermo c'è una larga chiazza di cenere nera accanto ad un cassonetto rovesciato. È il simbolo della soluzione 'fai da te' all'emergenza rifiuti: bruciare i contenitori per non morire soffocati. Anche sotto le finestre delle corsie affollate di malati. Il peggio, per adesso, sembra passato e gli autocompattatori sono tornati a sgomberare le strade della città, ma operatori ecologici e sindacati restano in preallarme e anche Giancarlo Trevisone, prefetto del capoluogo siciliano, è preoccupato: il rischio che il sistema di raccolta vada definitivamente in tilt, ha detto alla Cgil, è alto.

Segnali di fumo dalle montagne di spazzatura ammassate nella discarica di Bellolampo annunciano un'estate di fuoco. Per tutto il sud. Il caso Napoli non è isolato: dalla Sicilia, dalla Calabria e più su persino dal Lazio arrivano indizi allarmanti di un'emergenza rifiuti globale, pronta a esplodere alla prima difficoltà tecnica o sindacale. Come e peggio del capoluogo campano. È infatti bastata una giornata di sciopero l'11 marzo per mandare in tilt i sistemi di raccolta in metropoli come Roma e Palermo. Nella capitale c'è voluta una settimana per tornare alla normalità; nell'hinterland di Palermo le montagne di sacchetti sono rimaste al sole per dieci giorni.

La protesta
Il sistema è in crisi e i lavoratori minacciano nuovi scioperi. La replica di quanto accaduto ai primi di marzo andrà in scena subito dopo le elezioni: sono state indette quarantotto ore di serrata ed è facile prevedere un altro girone infernale con cassonetti che straripano nelle strade. C'è un contratto scaduto da più di due anni per i centomila addetti del settore e la richiesta non è tanto di profilo economico, quanto di vedere sempre più ridotto il ruolo e le tutele dei lavoratori in un mercato sempre più ricco. "La verità inconfessabile è che il sistema è diviso in due aree di attività", spiega Franca Peroni, segretario nazionale del comparto igiene ambientale Cgil: "
Da un lato ci sono quelle altamente redditizie, dall'altro quelle a basso contenuto tecnologico. È ovvio che in un mercato di questo tipo si tende ad abbandonare i settori che non creano profitto".

Si tende cioè a scaricare il costo del lavoro degli operatori che fanno la raccolta su cooperative sociali o su aziende pubbliche. Con operazioni senza trasparenza. La prassi è eguale un po' dovunque: vanno ceduti quei rami di azienda che non garantiscono alti redditi e richiedono una gran mole di manodopera. In Sicilia, poi, con le aziende pubbliche ormai al collasso, è allarme rosso: "Siamo stati convocati dal prefetto che ha espresso tutte le sue preoccupazioni", avverte Michele Palazzotto, segretario funzione pubblica della Cgil di Palermo: "C'è il rischio che il sistema della raccolta rifiuti in Sicilia, vada in tilt da qui a breve".

L'oro nero
Dalla Sicilia arriva un dato che illumina il business nascosto nel fondo del cassonetto: nel 2007 il servizio è costato più di 400 milioni di euro, 153 euro per tonnellata, praticamente il doppio di quanto costava soltanto quattro anni prima. L'equazione è semplice: si moltiplicano i protagonisti, i costi lievitano. E nelle regioni del centro-sud si aprono nuovi spazi per le ecomafie, che sono in grado di infiltrarsi a ogni livello del sistema: i reati ambientali denunciati crescono al ritmo del 35 per cento annuo. "Si sono moltiplicati gli attori del sistema e la filiera è stata trasformata in un vero e proprio spezzatino che gonfia i costi, e dove è estremamente complicato qualsiasi controllo di legalità e si creano spazi per manovre politico clientelari", conferma Palazzotto. Esattamente come in Campania.

Ma la complessità del sistema rifiuti siciliano è esasperata dalla moltiplicazione ingiustificata di enti territoriali: il sistema è suddiviso in 27 Ato, gli ambiti territoriali. Solo in provincia di Palermo sono sei gli ambiti responsabili del ciclo dei rifiuti. Questo accade nonostante una legge regionale abbia imposto la riduzione del numero degli Ato da 27 a nove, uno per provincia. E ogni ambito ha un consiglio di amministrazione e gestisce direttamente assunzioni e appalti. Sono posti ambiti: non bisogna sporcarsi le mani, c'è solo l'attività burocratica di passacarte e di riscossione delle bollette.

Non sono loro ad occuparsi direttamente di spazzatura, ma la fanno gestire a privati attraverso gare d'appalto. Con risultati disastrosi: in poco più di cinque anni gli Ato rifiuti siciliani hanno accumulato un deficit vicino ai 380 milioni. Una bolletta salata che dovrà essere pagata dai cittadini. "Ancora l'impatto economico non c'è stato perché non si è passati dal regime della tassa a quello della tariffa. Ma sono molti i comuni ormai prossimi al dissesto finanziario, con i costi della raccolta dei rifiuti che in pochi anni si sono quintuplicati", continua Palazzotto.

Tra raccomandazioni e finanza creativa
L'esempio del Coinres, il consorzio che raggruppa ventidue comuni della provincia di Palermo, ha fatto scuola. Lo guidava l'assessore provinciale Raffaele Loddo. Il Coinres è finito sotto osservazione da parte della Corte dei Conti per una serie di contratti a termine, commissionati ad agenzie interinali. Centoventi persone assunte, tra loro alcuni parenti di amministratori locali e consiglieri comunali. Anche la Commissione antimafia ha chiesto di esaminare gli atti del consorzio e dell'agenzia interinale. Loddo è stato costretto pochi giorni fa alle dimissioni, a causa della crisi finanziaria del consorzio e da una raffica di scioperi dei dipendenti, stanchi di ricevere lo stipendio a singhiozzo.

Un capitolo a parte va dedicato all'Amia di Palermo. Per salvare l'ex municipalizzata per l'igiene ambientale, il sindaco Diego Cammarata ha lanciato il progetto di una 'holding multiutility'. Dovrà raggruppare tutte le società di servizi controllate dall'amministrazione comunale. A leggere il progetto di Medhelan, advisor incaricato di redigere la bozza operativa, si intuisce che, la 'finanza creativa' si applica non per rigore strategico ma proprio con l'obiettivo di salvare il carrozzone creato dal Comune. I conti dell'ex municipalizzata, che dà lavoro a 2.800 dipendenti segnano profondo rosso. Il patrimonio netto della società, si legge nel bilancio 2006, è stato cancellato, andando sotto di 11 milioni di euro, la perdita di esercizio è quasi di 50 milioni di euro. Tante vertenze che si sommano al problema strategico: l'assenza di raccolta differenziata rischia di trasformare ogni agitazione sindacale in un'emergenza ambientale.

Regioni indifferenziate
Un immaginario confine separa le due Italie dei rifiuti: al nord che inizia a 'termovalorizzare' e ricicla percentuali crescenti di scarti, si contrappone un sud arretrato e fortemente condizionato da scelte politiche e clientelari. Che quelli del meridione siano metodi vetusti lo dimostra il dato della raccolta differenziata, con Basilicata, Sicilia e Molise agli ultimi posti della classifica. Ma anche a Roma la raccolta differenziata è praticamente inesistente. In Sicilia, nonostante la prescrizione di legge, non si riesce a superare la soglia del 7 per cento. Così dei 32,5 milioni di tonnellate di rifiuti urbani prodotti annualmente, la metà va a intasare le discariche. E mentre la Lombardia seppellisce in discarica soltanto il 17 per cento dei rifiuti, nell'intero Lazio la differenziata è addirittura inferiore alla Campania dello 0,2 per cento.Solo le proroghe all'uso della voragine di Malagrotta impediscono che l'onda dei sacchetti neri sommerga la Capitale e le province.

Proprio a Malagrotta sorge un impianto di gassificazione dei rifiuti, definito sperimentale, che dovrebbe ufficialmente entrare in funzione ad aprile ma che si pensa non comincerà nessuna trasformazione prima del 2009. Appeso ad un progetto di massima, invece, l'inceneritore di Albano, in attesa della valutazione di impatto ambientale, e contestato da mobilitazioni popolari con il sostegno persino dell'assessore verde Filiberto Zaratti, che ha partecipato all'ultima manifestazione. Le linee di incenerimento nel Lazio, in realtà, ci sono: tre per la precisione, localizzate a San Vittore e Colleferro, ma mancano altri tasselli per completare il ciclo. Gli inceneritori presenti bruciano i rifiuti, ma di altre regioni: la regione Lazio non produce Cdr per carenza di impianti. Gli impianti di compostaggio sono sedici, ma ne funzionano solo dieci.

ha collaborato Nello Trocchia

 

Indagine di Altroconsumo: spese di trasferimento fino a 2.800 euro. Solo due agenzie su quaranta applicano il provvedimento sulla portabilità dei prestiti

Mutui bancari, a un anno dal decreto il costo zero rimane un miraggio

di BARBARA ARDU

ROMA - C'è voluto un anno per chiarire che il decreto Bersani sulla portabilità dei mutui deve essere a costo zero per il cliente. Tuttavia ci sono ancora molte banche cui il concetto non è chiaro. Lo ha scoperto Altroconsumo, che ha visitato 40 filiali di aziende di credito a Roma e a Milano. Una prima volta a novembre 2007, poi a gennaio 2008, infine a metà marzo. E la tabella che verrà pubblicata sul prossimo mensile dell'associazione dei consumatori parla chiaro. Solo una filiale di Intesa Sanpaolo e una del Banco Desio, ambedue a Roma, si sono dette disponibili a trasferire il mutuo a costo zero. Tutte le altre hanno chiesto un "obolo", che va da un massimo di 2800 euro a un minimo di 183. Chi per le spese notarili, chi per quelle bancarie. Si chiedeva il trasferimento di un mutuo a tasso variabile sottoscritto nel febbraio 2003 con la Abbey National, oggi Unicredit banca, per acquistare una casa del valore di 200mila euro. Un contratto lungo 25 anni, con un capitale residuo a marzo, pari a 61mila euro e un tasso del 6,66 per cento.

A un anno dall'entrata in vigore del decreto Bersani, dunque, bisogna ancora pagare per spostare il mutuo. Eppure ormai anche l'Abi, l'Associazione bancaria italiana, dopo una lunga trattativa con i notai e le associazioni dei consumatori, ha praticamente riconosciuto che la surroga (cioè lo spostamento dell'ipoteca), va fatta a costo zero. A maggio, tra l'altro, assicurano all'Associazione bancaria, entrerà a regime una procedura semplificata che consentirà alle aziende di credito di sbrigare la pratica in poco tempo, qualche manciata di minuti.

Ma trovare una banca disposta ad accogliere la richiesta di surroga è tutt'altro che semplice. Sono ancora tante, rileva Altroconsumo, quelle non disponibili all'operazione: che rifiutano insomma di prendersi in carico il vecchio mutuo di qualcuno. D'altra parte, rilevano all'Abi, non è obbligatorio accettare un cliente: c'è un dovere di uscita e a costo zero, ma non di entrata. Come dire che una banca non può trattenere il mutuatario che vuole andarsene, ma non ha nessun obbligo ad accogliere la richiesta di chi vorrebbe emigrare. E secondo Altroconsumo due grandi gruppi come Unicredit e Bnl-Bnp Paribas non sarebbero ancora pronti per la surroga.

Eppure è già passato un anno. Un anno durante il quale chi ha chiesto e ottenuto di spostare il mutuo presso un'altra banca che gli faceva un "prezzo" migliore, spesso s'è trovato ad aprire il portafogli per portare a termine l'operazione. Un danno, che secondo Altroconsumo potrebbe ammontare a 4,5 milioni di euro per le famiglie italiane. E che potrebbe anche raddoppiare se la percentuale dei mutui surrogati corrispondesse al totale di quelli sostituiti, che rappresentano il 15 per cento dei contratti erogati nel 2007. Chi ha pagato non avrebbe dunque diritto a un rimborso? Secondo i consumatori sì. Solo se ci sono le condizioni, a detta dell'Abi. La questione dunque è aperta.

Come aperto è il capitolo trasparenza e concorrenza. Che fine ha fatto, si chiede Altroconsumo, il modello Esis, voluto dall'Unione europea per rendere possibile il confronto dei mutui a livello europeo? Un modellino dove viene indicato il cosiddetto Isc (l'indicatore sintetico del costo del finanziamento), che comprende tutte le spese. Un documento fondamentale per poter confrontare le offerte sul mercato. Si tratta di una sorta di Taeg del mutuo, che le banche dovrebbero consegnare al cliente che si presenta per avere informazioni. Ma la normativa Ue che risale al 2001 non è mai stata recepita. Così le aziende di credito non hanno nessun obbligo a consegnare il modello Esis.

Una mancanza che l'Unione europea ha ricordato all'Italia nel Libro bianco sui mutui pubblicato a dicembre. Il risultato? Di modelli Esis nelle banche italiane se ne trovano davvero pochi. Delle 168 filiali di aziende di credito visitate a gennaio da Altroconsumo in otto grandi città italiane, ben 100, cioè il 60 per cento, si sono rifiutate di fornirlo. Le risposte più comuni? "Lo consegniamo solo quando c'è una formale richiesta di mutuo", oppure "soltando dopo l'istruttoria". Quando non serve più.

 

Università in fermento

I giovani di Pristina, tra elezioni e cambiamento

scritto da Raffaele Coniglio*

Davanti al Grand Hotel a Pristina non si vedono più le solite facce stanche dei funzionari pubblici o quelle di anziani intenti a camminare e fumare nervosamente. Liceali con le classiche uniformi scozzesi o di qualche scuola internazionale a passo felpato, ma la realtà underground di Pristina, giovani stundenti e studentesse universitarie, dal look differente e a tratti appariscente, i figli della guerra che hanno visto con i loro giovani occhi le chilometriche marce dei loro connazionali in fuga verso i confini della Macedonia, l’Albania o il Montenegro, quelli che come Florent, 26 anni, ricordano nitidamente il viaggio di circa un mese tra campi e casali strapieni di gente pronta, nel momento più propizio, a raggiungere il parente in Albania.

Vengono da tutte le parti del Kosovo, come Ilir, che viene da Peja/Pec, e si riversano nella nuova capitale per affrontare gli studi. Vivono a ridosso della cittadella universitaria, alcuni nelle case dello studente, numerosi in quelle private, vivendo anche in condizioni per nulla gradevoli. Sono coloro che possono permettersi l’università pubblica solo con gli sforzi e i sacrifici dei genitori o dei familiari all’estero. Quelli che snobbano chi frequenta le tantissime università private, che negli ultimi anni sono sorte in ogni angolo della città e che, come dice Luljeta, studentessa al secondo anno di pedagogia, “non fanno mai nulla a lezione. Pagano tanti soldi per ricevere presto e con un bel voto la laurea”.

Questa settimana c’è grande fermento all’Università. Ci sono le elezioni studentesche. Gli attivisti delle numerose associazioni degli studenti sono alle prese con il volantinaggio e l’organizzazione delle ultime conferenze. Il 3 Aprile infatti si voterà per eleggere i nuovi 17 rappresentanti degli studenti del Consiglio studentesco. Sono 11 le associazioni che quest’anno si presenteranno con un sistema elettorale a liste chiuse. È un sistema elettorale che non piace tanto a Veton Fetahaj, 19 anni di Istog, studente di Lingua albanese, che tuttavia andrà a votare perché “solo così posso far valere le mie idee, votando per un’organizzazione in cui credo. Peccato che non posso scegliere il candidato” dice. Tra le organizzazioni più strutturate ed attive ci sono ORS–UP, acronimo di Associazione degli Studenti – Università di Pristina, così come VS, ovvero Visione Studentesca. I loro presidenti sono ragazzi determinati e fiduciosi in un buon risultato che hanno tutto lo spessore di veri leaders. Burim Balaj di VS, ad esempio, sembra avere le idee chiare su come risolvere i cronici problemi all’interno dell’Università e per punti cita quelli organizzativo-gestionali dell’Università e quelli infrastrutturali, sottolineando il fatto che “nei primi anni di corso non è possibile seguire le lezioni, tanto alto è il numero degli studenti; dagli ultimi posti, senza microfono, non si sente assolutamente nulla” afferma, enfatizzando il suo discorso con le mani. Anche Besart Dreshaj, 21 anni della Facoltà di Economia e Presidente di ORS-UP, ha carisma da vendere. Quanto a sicurezza di sè ha certo poco da invidiare agli amministratori locali del Kosovo. Sembra uscito dalla loro scuola.

Tra i punti principali del suo programma annovera la riorganizzazione amministrativa, a partire da una maggiore chiarezza del calendario degli esami e del numero delle sessioni: farà battaglia per portarle da tre a cinque. C’è poi il miglioramento delle infrastrutture e dei servizi, con il potenziamento delle case dello studente, e la decentralizzazione dell’università.
“L’Università di Pristina è cresciuta molto negli ultimi 5 anni, è tempo di aprire altri poli distaccati anche a Peja/Pec ed a Prizren” dice, e “di cercare insieme un maggiore coinvolgimento degli studenti in merito ai problemi dell’università. Bisogna dare la possibilità agli studenti che vengono da lontano di poter quantomeno frequentare una sede più vicina a casa, risparmiando così molti soldi. Una parte importante e decisiva di queste nostre battaglie, di tutti gli studenti, dovranno presto avere risalto su tutte le reti locali”, conclude, sottolineando inoltre il fatto che per troppo tempo notizie di inefficienza e corruzione negli ambienti universitari sono rimaste nascoste.
Dei trentamila iscritti all’Università di Pristina, pochi però sembra andranno a votare, come del resto avvenuto negli anni passati. Di sicuro non Enis Xhemaili, 24 anni studente di Legge, che farà “qualcos’altro di più interessante che andare a votare” dice, “perchè nulla cambierà dopo le elezioni: anche miei compagni di corso fanno false promesse per essere eletti ed intascarsi i soldi”. Ismet non è per niente interessato all’argomento, tutto impegnato com’è a portare avanti la sua organizzazione per la promozione del turismo in Kosovo. Le elezioni passeranno forse inosservate per lui, ma avranno anche ben poco risalto nell’opinione pubblica. Eppure c’è qualcosa di importante che rimarrà: lo spirito organizzativo, il desiderio dei giovani di comunicare, l’idea e la voglia di irrobustire sempre più questo mondo dell’associazionismo studentesco.

Ci si augura che presto l’isolamento culturale che i giovani qui hanno vissuto, fino ad oggi e per molto tempo, rispetto ai loro coetanei europei possa al più presto avere sbocco in una serie di scambi e di frequenti contatti con le altre università europee, di collaborazioni e di lavori accademici congiunti, realizzando anche il sogno di Besart. Potrebbe essere questo il modo più sano e duraturo per lo sviluppo del Kosovo, puntare cioè sulla qualificata formazione dei suoi giovani. Reports di vari organismi internazionali riportano cifre interessanti.
Il Kosovo ha la popolazione più giovane dell’Europa con un tasso di crescita demografica di gran lunga superiore alla media europea. I dati parlano di 50 percento della popolazione sotto i 20 anni di età ed il 70 percento sotto i 30 anni. É visibilmente sorprendente per un italiano, abituato a vedere altro, il numero di persone giovani che popolano le strade kosovare. Quello che appare un punto di forza, ancor di più perché i giovani in questione hanno avuto la possibilità in molti casi di usufruire di formazione da parte di enti internazionali e per la maggior parte parlano diverse lingue europee, potrebbe però rivelarsi presto un punto di debolezza. In un paese in cui il tasso di povertà è del 37% (World Bank 2005) e quello di disoccupazione è fermo al 46,2 percento (ILO 2007), l’altissimo numero di giovani potrebbe, qualora questi poblemi macro-economici non venissero affrontati nel breve termine, creare una questione sociale e di sicurezza interna da non sottovalutare.
 

Cantine, fabbriche fantasma di automobili, aziende mai aperte. "Report" indaga sullo scandalo della legge 488

Che buon passito, offre lo Stato

E il 60% dei finanziamenti va perduto

Una legge famigerata, la 488, una rete di amici (il politico, l'industriale, il consulente commercialista). Triangolazione perfetta e risultato chiavi in mano: ogni dieci euro che lo Stato italiano stanzia per finanziarie attività produttive, sei euro vengono perduti. Frullati da mani amiche, deviati su conti bancari misteriosi, triangolati e alla fine inghiottiti nel pozzo senza fondo di imprenditori rapaci, banchieri distratti, consulenti collusi. La politica, quando non è partecipe, devia l'occhio altrove. Non sa, e se sa non risponde.

A fondo perduto è il titolo di un severo, raccapricciante reportage che Milena Gabanelli ha esposto su Report, Raitre. Milioni come noccioline, capannoni pagati dallo Stato e arrugginiti, imprenditori calati dal profondo nord e scomparsi. Sembrano storie fantastiche di bravi romanzieri. Vai in Calabria, e non sai cosa ti perdi. Venti miliardi per agevolare un'impresa, l'Isotta Fraschini. Costruire automobili. In quattro anni dal capannone è sbucata solo una macchina di legno. I soldi inghiottiti, quattro ferraglie prototipali adagiate in un capannone vuoto e deserto.

Scendono dalla padania leghista e votata al lavoro, gli imprenditori che si fanno ricchi grazie agli aiuti di Stato. Ventidue milioni di euro per un'azienda che doveva riciclare metallo. E' stato un bresciano a fare richiesta. Il "pacco", come quelli illustrati per gioco in tv da Flavio Insinna, risulta, nella stragrande maggioranza di casi confezionato dalla sapiente dedizione di valenti commercialisti, famigerati consulenti, che inviano a Roma, al ministero dell'Attività produttive, felicissime e concludenti considerazioni: top management all'altezza, mercato in crescita, occupazione garantita. Roma, in effetti, ci crede. E ci casca. Ci ha sempre creduto tanto che i quattro ministri succedutisi (Enrico Letta, Antonio Marzano, Claudio Scajola e Pierluigi Bersani) hanno firmato assegni pari a quasi un miliardo di euro. Di questi, secondo le valutazioni degli inquirenti (Guardia di Finanza e Magistratura) e le stesse idee che se ne è fatta la commissione Antimafia, seicento milioni di euro sono stati bruciati: gestiti da incapaci, o da imprenditori inadempienti o anche, e soprattutto, inghiottiti da un circuito truffaldino perfettamente organizzato, sostanzialmente colluso con la classe dirigente.

Se ne è accorto Bersani che la legge 488 è un colabrodo, un aiuto a chi spreca e non a chi investe. Troppo tardi, si direbbe. E troppo tardi, bisogna aggiungere, il direttore generale del ministero, intervistato da Report, si accorge che le banche, che avrebbero un ruolo di vigilanza attiva nell'erogazione dei fondi, non si comportano sempre da partners leali dello Stato. Le industrie sono di carta ma troppo spesso finanziate con soldi veri.

Danno e beffa corrono sullo stesso binario. Nel capannone vuoto, l'imprenditore (leghista?) esorta l'operaio fantasma: "Non rubare, piuttosto chiedi!" "Il tuo disordine danneggia tutti". La telecamera di Report indugia disperata sui cartelli posti alle pareti di una delle mille truffe di cui è costellato il sud. Calabria, dunque. Crotone e Gioia Tauro. Ma anche Sicilia, anche Trapani. Dove lo Stato elargisce soldi per realizzare cantine, in un mercato già saturo di etichette. E a proposito di etichette: quella della tenuta Chiarelli, titolare la moglie dell'ex governatore Cuffaro, adagiata vicino a una bottiglia di un'altra azienda, naturalmente anch'essa produttrice di vino griffato, dal titolo felicissimo: "Baciamolemani".

E baciamole queste mani. Baciamole e salutiamo il nuovo modello di sviluppo. Tutti all'opera, tutti gran sommelier, fini intenditori. Con i soldi dello Stato. Anche il senatore Calogero Mannino, naturalmente, ne ha approfittato. A Pantelleria la sua famiglia possiede una bella cantina, finanziata (c'è da dirlo?) con i fondi dello Stato.

Ah che buon passito!

 

 

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