
30 aprile
Qui si rifugiavano i partigiani, qui ci fu un rastrellamento
nazista
ma lunedì in 19 seggi su 20 Alemanno ha battuto Rutelli
Cinecittà, così la
borgata rossa
ha voltato le spalle alla sinistra
di GIUSEPPE D'AVANZO
ROMA - C'erano
due modi a Roma per farla in barba ai tedeschi durante la guerra. O ti
rifugiavi in Vaticano o al Quadraro. I partigiani si nascondevano al
Quadraro nelle vecchie cave di pozzolana o, meno precariamente, al
Sanatorio Ramazzini. Si sentivano sicuri: in quelle strade non s'era mai
visto un fascista, figurarsi un tedesco.
La convinzione durò fino alle 4 del mattino del 17 aprile del 1944. Per
ordine di Herbert Kappler, gli uomini della Gestapo, delle SS, della
Wehrmacht, della banda Koch sbarrarono ogni strada di accesso e di fuga.
Rastrellarono 917 uomini e li deportarono in Germania. Solo la metà
ritornò a casa. I morti del Quadraro, come i martiri delle Fosse
Ardeatine, sono il passato non rimosso di Roma, le ragioni di un
convinto antifascismo e in quella borgata - tra le palazzine liberty del
primo novecento e le deformi lottizzazione urbanistiche degli anni
ottanta - il ricordo vivo che ha sempre connesso l'esperienza dei
contemporanei alle generazioni precedenti; una memoria collettiva che è
diventata di generazione in generazione genius loci, identità, opzione
politica. Fino a lunedì, quando il voto ha reciso il filo lungo e forte
di quel passato storico e, nei venti seggi del Quadraro, il postfascista
Gianni Alemanno l'ha avuta vinta in diciannove contro Rutelli.
Il successo ha clamorosamente trascinato verso destra l'intera
municipalità - la X, Tuscolano, Cinecittà, Capannelle, IV Miglio, Appio
Claudio, Romanina, Anagnina, Nuova Tor Vergata, 200 mila abitanti. Dove
al primo turno "passava" il presidente del municipio Sandro Medici con
quasi 59 mila voti, Rutelli si fermava a 55.379 contro i 42.787 di
Alemanno. Al ballottaggio c'è stato un improvviso capovolgimento.
Rutelli perde settemila voti, Alemanno ne guadagna quasi diecimila
(51.409).
Sandro Medici - un passato di direttore del Manifesto - dice: "Perdere
qui replica la lontana, prima sconfitta della Quercia a Mirafiori a
vantaggio di Forza Italia; duplica il voto operaio del Nord alla Lega.
Se l'esito è lo stesso, i perché sono diversi". Il perché di Massimo
Perifano, gelataio, è custodito in una sola parola: "Menzogna".
Raccontavano, dice, di una Roma luci e paillettes; una città felice,
allegra, che se la godeva. Una città serena, accogliente, solare, senza
ombre e problemi. "Sì, magari qualche problemino presto risolvibile qui
e là, ma nulla da impensierirsi. Bene, quelle parole ascoltate da queste
borgate erano menzogne che non ingannavano nessuno. Che facevano
soltanto incazzare, molto incazzare perché erano bugie che lasciavano
capire come al Campidoglio non importasse nulla delle borgate; che non
avevano bisogno di noi; che il nostro destino gli era indifferente; che
potevano fare a meno di noi, di quel che pensavamo o soffrivamo o
chiedevamo".
Il popolo di Roma sa essere entusiasta e appassionato. Risentito, se
imbrogliato. Feroce, se pensi di trattarlo con sfrontatezza e arroganza.
Le storie che si raccolgono a Cinecittà svelano "una superbia" che il
voto ha voluto punire. Non è che qui non abbiano capito quale pensiero
strategico ha convinto Walter Veltroni, nella sua seconda sindacatura, a
convogliare gran parte delle risorse comunali e della legge "Roma
Capitale" in grandi opere infrastrutturali come la linea C della
metropolitana.
Quel che non buttano giù è perché quell'ambizione ha dovuto riservare
alle borgate soltanto negligenza, il progressivo abbandono dei servizi
sociali, della piccola manutenzione. C'è qui il Parco degli Acquedotti.
È bellissimo. Al centro c'è un laghetto. Lo si è lasciato inaridire.
Sono stati eliminati gli orti abusivi. Si doveva riqualificare l'area.
Non se n'è fatto nulla. Soltanto per sciatteria non si sono eliminate le
buche nelle strade, le piccole discariche abusive "che anche soltanto in
una sola notte ti appaiono davanti a casa". Non è stato ristrutturato
quel rudere che doveva ospitare il centro anziani a Largo Spartaco. Per
disattenzione non si sono completati i marciapiedi, non sono state
aperte - e soltanto per stupidi intoppi burocratici, eliminabili con un
atto di volontà - una decina di piccole opere già pronte, un sottopasso,
una "bretella", un parcheggio, una scuola. Soltanto per disinteresse non
si è voluto porre limite al degrado del terminal dell'Anagnina, come se
il destino della città e l'abitare si potessero declinare soltanto con
le categorie del simbolico, dell'immaginario, della comunicazione e
queste fossero capaci di rendere invisibile la realtà.
Ti ci accompagnano al terminal perché, dicono, "vedrai, non puoi
immaginarlo". E non lo si può immaginare, infatti, quel suk. Il piazzale
della metro all'Anagnina è immenso come tre o quattro campi di calcio.
Ospita il terminal dei bus delle linee cittadine (verso il centro),
interprovinciali (Castelli), interregionali (Calabria), internazionali
(Romania). I venditori ambulanti autorizzati dovrebbero essere soltanto
quindici. Sono centinaia e centinaia e centinaia. Ogni settore
merceologico ha il suo banco, piccolo o grandissimo. Ogni etnia, il suo
angolo. Quando la domenica arriva sul piazzale il pullman da Timisoara,
i rumeni fanno festa. Hanno a disposizione, quel giorno, anche il loro
barbiere, un ristorante improvvisato, la musica, i bar e, dicono,
"spesso bevono troppo e litigano".
Quel piazzale era la porta di casa della borgata, l'uscio di un
territorio circoscritto, riconoscibile. Con la sua umanità, i suoi odori
nuovi e indefinibili, il suo disordine, le illegalità piccole e grandi,
è diventato un vuoto che non ospita, che non si può abitare, un
brulicante vuoto minaccioso che ha cancellato ogni significato accettato
e comune nel dirsi "sono di Cinecittà, del Quadraro, del Tuscolano". La
predicazione "buonista", l'inerzia ipocrita che lascia le cose così come
sono - e soddisfatti soltanto chi non ne paga le conseguenze ogni giorno
- produce qui furia, rabbia, la secrezione infausta di un'impotenza, la
convinzione di non essere ascoltati, "di non contare nulla".
"La sinistra non ha le culture e il sapere per affrontare la percezione
dell'insicurezza - ammette Sandro Medici - Qui non abbiamo grandi
problemi di sicurezza nel senso che, se guardi le statistiche, vedrai
che non ci sono criticità e i vecchi del quartiere ti spiegheranno che
negli anni Ottanta, con la guerra tra la banda della Magliana e i
napoletani, era molto più pericoloso girare di notte da queste parti.
Voglio dire che non è minacciata l'incolumità delle persone, ma la loro
familiarità con il luogo che abitano. Trovano la spazzatura davanti alla
loro porta. Vedono gente che non conoscono. Sono invasi dal fumo dei
fili di rame bruciati negli improvvisati campi rom. Questo spaesamento
ha provocato l'incertezza e l'insoddisfazione che in Campidoglio non
hanno voluto comprendere fino alla bocciatura di Rutelli, oggi. I
municipi più popolosi ci hanno voltato le spalle e si sono rivolti a chi
ha promesso sgomberi e deportazioni".
Messe così le cose, sembrerebbe che il peso della sconfitta della
sinistra a Roma, in questa municipalità "rossa" per tradizione e
convinzione, sia da scaricare per intero sulle spalle di Walter Veltroni,
responsabile di aver dimenticato le borgate a vantaggio del glamour dei
concerti al Colosseo, delle Feste del Cinema, della Città dello
Spettacolo. Sarebbe un errore. Anche l'investitura di Rutelli, dicono,
ha avuto il prezzo da scontare. Il come si è scelto quel nome. Il perché
lo si è scelto. È parsa soltanto la mossa di un'oligarchia, la ricerca
di un nuovo equilibrio all'interno di "una cricca di potere".
Un altro segno che la distanza tra la politica e la società civile rende
le scelte indipendenti dai gruppi sociali, dalle loro aspirazioni, dalle
loro necessità o interessi. Il processo politico riproduce soltanto se
stesso. Pensa di poter trascendere gli umori di chi vota, il sostegno
attivo della società che pure rappresenta. Una filosofia del potere che,
dicono, "non ha fatto i conti con il carattere e il temperamento del
popolo di Roma che chiede di essere rispettato oltre che rappresentato,
coinvolto e non soltanto usato e che, se non rispettato e coinvolto, ti
liquida con un vaffanculo".
La prova è nei numeri. Se Alemanno, al Quadraro, ha
sconfitto Rutelli diciannove a uno, Nicola Zingaretti, candidato della
sinistra alle provinciali, ha battuto il suo avversario per venti a
zero. Vuol dire, ti spiegano, che un'altra candidatura e un altro metodo
avrebbero potuto anche attenuare gli errori del passato e ottenere con
margini contenuti un altro mandato, un'altra fiducia. Sarà. Resta un
ultimo argomento da mettere in piazza. Come è possibile che una borgata
per storia e tradizione antifascista ha votato un postfascista? Le
risposte che si raccolgono sono un coro: "Quei pregiudizi ideologici non
contano più. Non funzionano. È roba del passato. Alemanno, un Alemanno
ripulito, è apparso credibile, affidabile, concreto anche ai vecchi che,
alla bocciofila del Quadraro, ancora possono raccontare quel 17 aprile
del 1944".
Precari,
appello-choc di una donna napoletana al capo dello Stato
"Caro presidente pochi soldi per un figlio, la ragione prevale sul cuore"
"Solo 1300 euro al mese
ho deciso di abortire"
di
LAURA LAURENZI
Un consultorio familiare
ABORTIRE perché non bastano i soldi. Non perché il
bambino è gravemente malformato, non perché si è vittime di uno stupro, non
perché si è sole senza un uomo accanto. Sandra (nome di fantasia) a 29 anni
non se la sente, non ce la fa a diventare mamma: il motivo è che il suo è un
lavoro precario, la sua esistenza è precaria, precari sono i suoi orizzonti.
Ha fatto i conti e con sgomento ha deciso: un figlio è un lusso che non può
permettersi.
E così ha scritto un appello al presidente Napolitano cui ha dato un titolo
terribile: "Necrologio di un bimbo che è ancora nella mia pancia". Scoprirsi
incinta le ha procurato "un'emozione bruciante, una felicità incontenibile",
ma ben presto "la ragione ha preso il posto del cuore". Scrive nella
lettera-appello che sta per inoltrare al Quirinale e che ha spedito al
nostro giornale: "Presidente, ora devo scegliere se essere egoista e portare
a termine la mia gravidanza sapendo di non poter garantire al mio piccolo
neppure la mera sopravvivenza, oppure andare su quel lettino d'ospedale e
lasciare che qualcuno risucchi il mio cuore spezzato dal mio utero
sanguinante, dicendo addio a questo figlio che se ne andrà per sempre".
Ieri mattina Sandra, che vive con il marito in un centro dell'area
vesuviana, ha fatto la prima ecografia al Policlinico di Napoli, ha firmato
le carte, ha saputo la data in cui abortirà: il 27 maggio, un martedì.
Chiede di mantenere l'anonimato perché sua madre non sa niente di questa
gravidanza: "Nonostante tutti i problemi sarebbe felice di diventare nonna e
di potermi aiutare".
Ha una famiglia alle spalle, un uomo che la ama, una casa. E' sicura di
una decisione così importante?
"Mi prenderò questo periodo di tempo per riflettere. E rifletterò molto.
Sono sempre in tempo a cambiare idea, intanto però ho prenotato
l'intervento. E non mi perdono di non esserci stata attenta, nel breve
periodo in cui ho sospeso l'anticoncezionale. Nel frattempo mi chiedo: dove
è andata a finire la mia dignità? Ce l'ho messa tutta per costruirmi un
futuro. Dopo avere fatto tanti sacrifici, dopo essermi quasi laureata in
Scienze Politiche con 18 esami su 22, dopo avere collaborato a un giornale
con oltre cento articoli senza mai avere un centesimo e neppure la tessera
di pubblicista, dopo aver fatto, io e mio marito, infiniti lavoretti che
definire umilianti e sottopagati è dir poco, mi ritrovo a non avere i mezzi
per crescere un figlio. Perché se ti manca la moneta da un euro per prendere
la metropolitana non importa, ma se ti mancano i cento euro per portare il
tuo bambino dal dottore importa eccome".
Alla Asl non paga. Quanto guadagna al mese?
"Io, che oggi faccio la commessa in un negozio di informatica ma non sono
ancora regolarizzata, prendo 800 euro al mese. Mio marito, che è più giovane
di me, ha 25 anni, è cubano, diplomato all'Accademia, un artista, ha trovato
un posto da apprendista sempre nel campo dei computer e guadagna 500 euro al
mese. Lavoriamo sei giorni alla settimana e insieme le nostre entrate
ammontano a circa 1.300 euro. E meno male che non paghiamo la casa perché ci
ospita una mia vecchia zia".
Con duemila euro al mese non abortirebbe?
"Sicuramente mi terrei il bambino. La mia, oggi, è una scelta per obbligata.
Mio marito è più deciso di me: più di me vede la cosa dal punto di vista
della concretezza. Pensa sia un fallimento non potere dare a un figlio ciò
di cui ha bisogno. In altri paesi le coppie vengono aiutate, qui si parla
tanto di baby bonus ma poi nei fatti non succede niente. Lo credo che
l'Italia è alla crescita zero".
Perché ha scelto di rivolgersi a Napolitano?
"Perché è la più alta carica dello Stato. Perché è un simbolo. Perché è una
persona che sento di rispettare più di tutti. La mia lettera è soprattutto
uno sfogo, un gesto di disperazione e di impotenza. Gli scrivo che qui non
c'è nessuno che ti tende una mano quando hai veramente bisogno. Gli scrivo
anche: per favore, mi risparmi banalità del tipo: 'Dove si mangia in due si
mangia anche in tre!. Mi risparmi la retorica, perché è l'unica cosa di cui
non ho bisogno'".
Spesso le banalità sono vere. Cosa le ha detto stamattina l'ecografista?
"Che sono alla quarta settimana di gravidanza. L'embrione è ancora così
piccolo che quasi non riusciva a vederlo. Poi la ginecologa mi ha prescritto
degli esami del sangue per sapere l'età esatta del feto. Ho anche parlato
con l'assistente sociale. Mi hanno fatto leggere e firmare una carta in cui
sono elencati tutti i rischi che l'interruzione di gravidanza comporta".
Suo marito l'ha accompagnata?
"Purtroppo non poteva assentarsi dal lavoro, che ha trovato da poco, e al
suo posto è venuta una mia amica. Ma mi ha telefonato molte volte. Sa qual è
la cosa che mi fa più rabbia? La mancanza di prospettive. Mio padre, che è
morto 15 anni fa, era un ingegnere, mia madre è una bancaria in pensione.
Noi di questa generazione occupiamo ruoli sociali molto inferiori rispetto
ai nostri genitori La mobilità sociale esiste, però in forma peggiorativa.
Fra i vari lavori che ho fatto c'è anche quello di baby sitter, prima con
un'agenzia, poi anche da sola. Amo moltissimo i bambini: ti riempiono la
vita, sono splendidi. Avrei anche già scelto il nome per mio figlio, perché
sento che è un maschio: lo stesso nome di mio padre".
Non ha pensato alla possibilità di farlo nascere e poi darlo in adozione?
"Non lo farei mai. Mai, per nessun motivo. Sapere che
esiste da qualche parte nel mondo un mio bambino e io non mi occupo di lui
sarebbe lo strazio peggiore".
Il
rifugio dei para-diplomatici
L'attuale ambasciatore colombiano a Roma
invischiato nella compra dei voti per la riforma costituzionale pro-Uribe
Di Annalisa Melandri
Situazione sempre più difficili in Colombia per il presidente Álvaro
Uribe, ma probabilmente si profilano tempi duri anche per l’attuale
ambasciatore colombiano in Italia, Sabas Pretelt de la Vega e per altri
funzionari, tra i quali il Fiscal General (la massima carica della
magistratura colombiana) Mario Iguarán. La Corte Suprema di Giustizia,
forse l’unica ancora di salvezza che rimane alla Colombia, sta indagando
sulle modalità con la quale fu approvata nel 2004 la riforma
costituzionale che ha reso possibile la rielezione del presidente
colombiano due anni più tardi.
Il
trio. E’ stato emesso infatti un mandato di arresto per la
parlamentare Yidis Medina, la quale una settimana fa ha rivelato in
un’intervista ai mezzi di comunicazione, di aver accettato incarichi
pubblici, tra i quali probabilmente un consolato, in cambio del suo voto
favorevole che fu decisivo proprio per l’approvazione di quella riforma
costituzionale. La stessa Medina ha affermato inoltre in quell’intervista,
che sia Uribe, sia alcuni suoi stretti collaboratori, quali l’allora
segretario generale della Presidenza Alberto Velásquez, l’attuale
ambasciatore colombiano a Roma e all’epoca ministro dell’Interno, Sabas
Pretelt de la Vega, nonché l’attuale Fiscal General Mario Iguaráni,
erano perfettamente a conoscenza della proposta dello scambio del voto
contro incarichi pubblici. La Medina attualmente è latitante, ma ha
comunicato tramite il suo avvocato, Ramón Ballesteros, che probabilmente
si consegnerà alla giustizia tra lunedì e martedì prossimo. Tutte le
persone coinvolte potrebbero essere pertanto inserite nelle indagini e
l’attuale ambasciatore colombiano essere richiamato in patria.
Sabas Pretelt de la Vega operò nella vicenda come tramite tra le
proposte del governo e Yidis Medina.
Corsi
e ricorsi storici. La storia si ripete quindi, e per il corpo
diplomatico di via Pisanelli, sede dell’ambasciata colombiana a Roma,
potrebbe figurarsi un nuovo cambio al vertice se la Corte Suprema di
Giustizia della Colombia decidesse di procedere anche contro
l’ambasciatore Sabas Pretelt de la Vega costringendolo quindi a far
ritorno in patria per far luce sul suo ruolo nell’intera vicenda. Già in
passato sorte analoga era toccata all’allora console di Milano Jorge
Noguera Cote e al precedente ambasciatore a Roma, Luis Camilo Osorio.
Luis Camilo Osorio fu trasferito da Roma alle sede diplomatica
messicana, da dove fu costretto a ritornare in patria per rispondere in
tre processi tuttora aperti in cui è accusato di aver favorito
l’ingerenza dei paramilitari quando ricopriva la carica di Fiscal
General tra il 2001 e il 2005. Secondo le accuse e le testimonianze
fornite, favorì l’impunità dei criminali e politici che avevano commesso
crimini contro l’umanità legati al paramilitarismo e al narcotraffico,
proteggendo tra gli altri il generale Rito Alejo del Río, indicato da
Salvatore Mancuso come artefice dell’espansione del paramilitarismo in
Colombia. Nel 2002 fu denunciato da Human Right Watch per aver
ostacolato la giustizia con il suo operato: “mancanza di appoggio ai
pubblici ministeri che lavoravano su casi sensibili di diritti umani,
incapacità di fornire una protezione efficace e tempestiva ai funzionari
le cui vite erano minacciate, e licenziamento o rinuncia forzata di
pubblici ministeri e investigatori esperti”.
Suspance.
Jorge Noguera Cote, ex console a Milano, fu costretto invece a lasciare
l’incarico nel 2006 per i procedimenti penali avviati contro di lui e fu
arrestato nel luglio del 2007 in Colombia, con l’accusa di avere avuto
stretti legami con i paramilitari e di aver fornito ai capi delle Auc
informazioni riservate, in particolare è accusato di aver fornito agli
stessi liste di sindacalisti, politici e attivisti sociali che furono
successivamente eliminati.
Sabas Pretelt de la Vega, l’ideatore della legge di Giustizia e Pace,
con la quale i paramilitari che si sono macchiati di crimini terribili
vengono condannati con pene che prevedono la reclusione al massimo per
otto anni di carcere, è accusato da due capi paramilitari di aver
promesso loro la non estradizione negli Stati Uniti in cambio del loro
appoggio alla rielezione di Uribe. I due fratelli Mejía Muñera (alias
Los Mellizos) lo hanno accusato invece di aver fatto da tramite nel
trasferimento del denaro con il quale i paramilitari hanno finanziato la
rielezione di Uribe nel 2006, denaro sporco di sangue e frutto dei
proventi del narcotraffico.
Si trova ancora a Roma, ma se dovessero essere confermate le accuse
mosse contro di lui da Yidis Medina e se la Corte Suprema dovesse
decidere di procedere nelle indagini, ben presto potrebbe essere
costretto a rinunciare per finire sotto processo in Colombia e quindi
fare ritorno in patria in veste di inquisito.
Rispetto alla Colombia, l’Italia, quindi, sembrerebbe svolgere in
Europa, lo stesso ruolo che il Messico svolge in America centrale:
entrambi i paesi funzionano da centro di smistamento di loschi
personaggi coinvolti con il paramilitarismo e il narcotraffico,
personaggi sul capo dei quali pendono accuse gravissime che poi si
concretizzano in mandati di cattura.
Il pelo nell'uovo. E’ evidente che la Farnesina
dovrebbe compiere indagini più accurate sulla storia personale dei
diplomatici provenienti dalla Colombia. Jorgue Noguera Cote per esempio
fu accettato in Italia, (allora era Gianfranco Fini agli Esteri), dopo
aver dovuto, nel 2005, rassegnare le dimissioni come direttore del Das
(Dipartimento Amministrativo di Sicurezza, la polizia segreta
colombiana), per le accuse che Rafael García, ex capo del reparto di
informatica del Dipartimento, gli stava muovendo contro. Accuse che
successivamente si dimostrarono fondate, dal momento che Jorgue Noguera
Cote fu arrestato nel febbraio del 2007. In seguito alle sue dimissioni,
il presidente Uribe lo nominò console a Milano, dopo che il Canada aveva
rifiutato saggiamente la proposta di averlo nel suo paese come
rappresentante diplomatico della Colombia. In Italia, invece, non si
andò tanto per il sottile: accuse come collusione con il
paramilitarismo, organizzazione di frode elettorale (con la quele Uribe
avrebbe vinto le elezioni nel 2002), ingerenza negli affari interni di
un paese straniero (il Venezuela, dove Noguera avrebbe tentato di
organizzare insieme ad alcuni capi paramilitari l’omicidio di Chávez e
dove avrebbe pianificato l’omicidio del pubblico ministero Danilo
Anderson, che stava svolgendo indagini sul golpe dell’aprile 2002),
probabilmente sembrarono cose di poco conto e la Farnesina accolse
Noguera senza nessuna riserva.
Processo senza garanzie
L'associazione degli avvocati europei
denuncia irregolarità e lesione dei diritti fondamentali nei processi
contro l'associazione di solidarietà con i prigionieri politici baschi
 Si
chiama sumario 33/01, istruito dall'Audiencia Nacional spagnola, un
tribunale speciale post-franchista chiamato a decidere soprattutto
su temi legati a terrorismo e narcotraffico, ma non solo.
Il sumario, l'inchiesta, riguarda un'associazione impegnata in
attività pubbliche per denunciare la violazione dei diritti umani
dei prigionieri politici. Si chiama Gestora pro amnistia,
messa fuori legge dal giudice istruttore Baltasar Garzon secondo una
tesi accusatoria allargata non solo a quell'inchiesta, ma a tutti i
procedimenti aperti in quello che passa alla storia, ormai, come il
juicio 18/98+. Una sommatoria di inchieste che coinvolgono spezzoni
dell'indipendentismo basco e della società civile, tutti accusati di
far parte, collaborare o essere humus prescelto dell'organizzazione
armata Eta.
E fin qui la tesi dell'accusa. Ma in uno Stato di diritto, poi,
servono le prove. Che scarseggiano, fionora nei processi che sono
arrivati al primo grado di sentenza. Tutte condanne, ma prove poche
e indizi raccontati da periti messi a disposizione del tribunale che
non sono altro che gli stessi agenti della guardia civil che hanno
redatto gli informes per arrivare ai processi.
 Ci
sono state, nei giorni scorsi, delle sedute pesanti, nel processo
contro G estora pro amnistia e la sua sigla successiva
Askatasuna (libertà, in basco). Militanti di Gestora e
torturati che hanno raccontato le umiliazioni fisiche, psicologiche
e sempre più spesso sessuali che hanno subito nei giorni di
isolamento forzato previsti dalla legge antiterrorismo spagnola:
cinque giorni senza vedere il proprio avvocato e in mano di aguzzini
spesso in combutta con i medici forensi e gli avvocati di ufficio.
I dubbi e le denuncie sullo svolgimento 'equo' del processo non è un
giudizio soggettivo, ma sta scritto nero su bianco in un documento
ufficiale dell'Associazione Avvocati Europei Democratici (Aed).
L'associazione “è venuta a conoscenza dell'apertura del processo (sumario
33/01) contro le organizzazioni basche Gestoras pro Amnistía
e Askatasuna, associazioni impegnate in attività
pubbliche di denuncia della violazione dei diritti umani e di
solidarietà con le persone detenute e con le vittime di queste
violazioni. L'avvocato Julen Arzuaga, rappresentante di
Eskubideak nella nostra associazione, figura tra le ventisette
persone accusate in questo procedimento''. Scrivono gli avvocati
europei che le stesse manchevolezze nel diritto che hanno
riscontrato nel corso dello svolgimento del processo 18/98 le stanno
ravvisando anche in questo troncone processuale contro
l'associazione di solidarietà verso i prigionieri politici e parlano
di un tema ben più generale: 'L'interpretazione estensiva del reato
di terrorismo e l'applicazione di queste leggi eccezionali
costituiscono una violazione dei diritti fondamentali, del diritto
alla difesa e della presunzione d'innocenza'.
 L'istruzione
di questo singolo spezzone di processo ha avuto dei momenti di grave
intromissione nei diritti fondamentali che dovrebbero garantire il
giusto processo. Come, per esempio, le perquisizioni negli studi di
avvocati senza le garanzie del rispetto del segreto professionale e
della riservatezza della comunicazione tra l'avvocato e i suoi
clienti, il ritardo ingiustificato della procedura, l'abuso di
misure cautelari come il carcere preventivo fino alla sua durata
massima di quattro anni, così come la sospensione legale delle
attività delle associazioni. L'Aed chiude il suo documento
denunciando la violazione del diritto alla difesa e del segreto
professionale, esigendo l'abrogazione dei tribunali eccezionali
quali l' Audiencia Nacional, respingendo l'estensione
arbitraria e inammissibile del concetto di terrorismo spinto fino ad
includere attività pubbliche e democratiche che fanno parte del
diritto alla libertà d'espressione e del diritto al libero impegno
politico e sociale.
E promette di seguire molto da vicino il processo 33/01. Un processo
che, secondo gli imputati, ha una sentenza già scritta. E non pare
essere, precedenti alla mano, un vezzo politico di difesa. Nella
prima udienza Juan Mari Olano, che era uscito dal carcere su
causizone, perchè imputato anche in altri filoni del 18/98+, lo ha
detto in maniera chiara e semplice: non collaborerà con lo
svolgimento del processo, perchè quel tipo di attività di sostegno
ai progionieri politici non sono un crimine, nè il tribunale
speciale ha – dal suo punto di vista – può vantare una leggittimità
che non gli riconosce. E così la sentenza, prevista per primi di
settembre, potrà arrivare prima dell'estate.
29 aprile
Due padri per una
sconfitta
di MASSIMO GIANNINI
Lo tsunami del 13 aprile sommerge la Capitale. Com'era prevedibile, l'onda
lunga della destra italiana travolge anche l'ultima, flebile "resistenza"
romana. La vittoria a Sondrio o a Vicenza è un pannicello caldo, che non
lenisce ma semmai acuisce la ferita profonda patita dal centrosinistra,
prima a livello nazionale e poi, dopo i ballottaggi, a livello locale. Con
la trionfale marcia su Roma di Alemanno la sconfitta del Pd diventa
disfatta. Una disfatta che non è orfana, ma stavolta ha almeno due padri.
C'è un padre, sul piano della proiezione politica romana. Si chiama
Francesco Rutelli. Nonostante l'ottimo passato da sindaco negli ormai
lontanissimi anni '90, stavolta Rutelli è stato un handicap, non una
risorsa.
Non è un giudizio politico, ma numerico. Il candidato alla
provincia del Pd Zingaretti, nelle stesse circoscrizioni in cui si votava
anche per le comunali, ha ottenuto 731 mila voti contro i 676 mila ottenuti
da Rutelli. Vuol dire che quasi 60 mila elettori di centrosinistra, con un
ragionato ancorché masochistico calcolo politico, hanno votato "secondo
natura" alla provincia, mentre hanno fatto il contrario per il Campidoglio.
Piuttosto che votare l'ex vicepremier del governo Prodi, hanno annullato o
lasciato bianca la scheda. In molti casi hanno addirittura votato Alemanno.
Dunque, a far montare la "marea nera" della Capitale che ha portato alla
vittoria il candidato sindaco del Pdl ha contribuito un'evidente
"pregiudiziale Rutelli" a sinistra. Soprattutto nelle aree più radicali. Che
magari non ne hanno mai apprezzato "l'equivicinanza" tra le disposizioni
della Curia vaticana e le posizioni della cultura laica. E che forse,
punendo Rutelli, hanno deciso di dare una lezione al Pd, colpevole di aver
"cannibalizzato" la sinistra nel voto nazionale di due settimane fa. Con una
campagna elettorale imperniata su un principio giusto (l'autosufficienza dei
riformisti) ma declinato nel modo sbagliato (il principale "nemico" è la
sinistra). Così Veltroni, salvo che negli ultimissimi giorni, ha finito per
perdere di vista il vero avversario, cioè Berlusconi. Adottando nei
confronti del Cavaliere una forma di parossistica "pubblicità involontaria",
con la trovata non proprio geniale del "principale esponente dello
schieramento a noi avverso", ripetuta ossessivamente, fino all'assurdo, e
così trasformata in un boomerang .
Di questa disfatta, quindi, c'è un padre anche sul piano della dimensione
politica nazionale. Quel padre si chiama Walter Veltroni. Il leader del Pd
ha scontato un deficit oggettivo: nella partita sulla sicurezza,
determinante nel giudizio degli elettori in tutta Italia e nelle singole
città, ha dovuto inseguire il Pdl. E da sempre, in quello che Barbara
Spinelli sulla Stampa definisce il "populismo penale", la destra eccelle
storicamente sulla sinistra. Semplicemente perché, nella percezione dei
cittadini impauriti (giusta o sbagliata che sia) "does it better": può farlo
meglio. Ma il leader del Pd ha pagato anche un errore soggettivo: non ha
capito che la sfida su Roma avrebbe richiesto un altro "metodo di
selezione", più consono all'idea del Partito democratico costruito "dal
basso", che gli elettori avevano iniziato a conoscere e ad apprezzare con le
primarie.
La candidatura di Rutelli, al contrario, è il frutto dell'ennesima alchimia
di laboratorio (o di loft). Una collocazione di "prestigioso ripiego", per
un dirigente che è già stato sindaco due volte, che ha corso e perso
un'elezione politica nel 2001, che è stato vicepremier nel 2006 e che ora,
nel nuovo organigramma del Pd sconfitto il 13 aprile, rischiava di
ritrovarsi senza un "posto di lavoro". L'opinione pubblica, di sinistra ma
anche di centro e di destra, ne ha tratto la sgradevolissima impressione di
una nomenklatura che usa le istituzioni come "sliding doors". Porte
girevoli, dalle quali si entra e si esce secondo opportunità pratica
personale, e non secondo utilità politica generale.
Ora, sul terreno di questa incipiente Terza Repubblica, per il centrodestra
si aprono le verdi vallate del governo nazionale e locale, da Milano a Roma,
con la fine di quello che Ilvo Diamanti definisce il "bipolarismo
metropolitano". Per il centrosinistra, al contrario, non restano che
macerie. Risultati alla mano, è difficile contestare l'irridente sberleffo
di uno striscione della destra che, in serata, inneggiava a "Veltroni santo
subito", lungo la scalinata del Campidoglio: "Con le primarie ha fatto
cadere il governo Prodi. Con le politiche ha cacciato i comunisti dal
Parlamento. Candidando Rutelli ha perso Roma".
L'analisi è rozza, ma ha un suo fondamento. Ora il Pd
corre un rischio mortale. All'indomani della disfatta, un regolamento di
conti al vertice sarà inevitabile. Ma a un anno dalle elezioni europee,
nelle quali si voterà con il proporzionale, un possibile ritorno al passato
(cioè alla vecchia e agonizzante divisione Ds-Margherita) sarebbe
imperdonabile.
22 aprile
Mattatoio Sri
Lanka
Ieri la più feroce battaglia degli
ultimi anni
E’ stata la più feroce battaglia da un
anno e mezzo a questa parte. Ieri, migliaia di soldati dell’esercito
governativo e guerriglieri delle Tigri tamil (Ltte) si sono
scontrati sul fronte nord, nella penisola di Jaffna, lungo quella
che viene chiamata la Linea Muhamalai: sette chilometri di trincee
scavate nella sabbia e bunker di cemento nascosti tra prati riarsi
dal sole e punteggiati da poche palme. Ieri pomeriggio, al termine
dei combattimenti, che sono durati per dieci ore consecutive e hanno
visto il massiccio impiego di artiglieria pesante da entrambe le
parti, sul terreno sono rimasti almeno centocinqunata, forse
duecento morti e un migliaio di feriti.
Versioni
e bilanci contrastanti. Il governo di Colombo sostiene che la
battaglia sia stata scatenata dalle Tigri tamil, che avrebbero
cercato di lanciare una massiccia offensiva per riconquistare la
penisola di Jaffna.
Secondo l’Ltte, invece, l’esercito ha sferrato un attacco nel
tentativo di sfondare la Linea Muhamalai.
Entrambe le parti rivendicano oggi di aver vinto la battaglia, di
aver respinto l’offensiva nemica. Il che significa che la linea del
fronte non si è mossa.
Confliggenti, come sempre, anche i bilanci delle vittime di questa
inutile carneficina.
Il portavoce dell’esercito, brigadier Udaya Nanayakkara, ha parlato
oggi di 43 soldati morti, 33 dispersi e 123 feriti. Altre fonti
militari hanno però parlato all’agenzia France Press di un totale di
127 caduti o dispersi. Gli ospedali della capitale Colombo
traboccano di giovani soldati feriti, tutti evacuati dal fronte
settentrionale. Le perdite inflitte ai ribelli, secondo il governo,
ammontano ad almeno cento uomini, più centinaia di feriti.
Dall’altra parte, il portavoce delle Tigri tamil, Rasiah
Ilanthiraiyan, ha detto che solo 16 combattenti dell’Ltte sono
rimasti uccisi, mentre almeno 150 soldati governativi sono stati
uccisi e altre centinaia feriti.
Una guerra ignorata dal mondo. Questa sanguinosa guerra
civile, solo dall’inizio del 2008, ha causato almeno 3.400 i morti:
più di 170 civili, circa 330 soldati e oltre 2.900 combattenti dell’Ltte.
Più morti che in Afghanistan, poco meno che in Iraq. Ma di questo
conflitto, che va avanti da 25 anni, nessuno ne parla mai.
Dopo quasi quattro anni di relativa pace e di tentativi negoziali
patrocinati dal governo norvegese, nel 2005 sono stati scoperti
nuovi ricchi giacimenti petroliferi al largo dei territori
controllati dall’Ltte.
Alla fine di quell’anno, il neoeletto presidente Mahinfa Rajapakse
decide di riprendere la guerra allo scopo di distruggere i
separatisti. Nel 2006-2007, l’esercito riesce a strappare all’Ltte
il controllo della fascia costiera orientale. Dall’inizio dell’anno,
le forze governative stanno cercando di riprendersi anche i
territori del nord, ancora saldamente controllati dall’Ltte, con una
manovra a tenaglia da sud (Linea Vavuniya-Mannar) e da nord (Linea
Muhamalai) e offensive da ‘guerra di posizione’ in stile 15-18, con
fronti fissi, offensive di sfondamento e bombardamenti aerei dietro
le linee nemiche.
Storia e geografia politica di un mondo che
cerca una rivincita contro lo Stato.
Quali sono i confini di un luogo che sembra totalmente diverso
dal resto del Paese
Nord, tra il
malessere e la ricchezza
Successo della Lega e futuro d'Italia
di ILVO DIAMANTI
"Il
Carroccio alla battaglia di Legnano", un dipinto di Massimo
d'Azeglio
Il Nord,
ovviamente, esiste da sempre. In Italia, però, da una ventina
d'anni, ne sono cambiate la definizione e la delimitazione.
Oltre al significato. Aveva confini più larghi, un tempo. Oltre
alle regioni al di sopra del Po, comprendeva l'Emilia Romagna,
come, d'altronde, risulta ancora dalle pubblicazioni dell'Istat
e degli altri organismi statistici.
Era identificato come luogo dello sviluppo di grande impresa,
della metropoli. Per questo, gravitava su Torino. Vertice di un
"triangolo industriale", che collegava, inoltre, Genova e
Milano. Il resto era periferia. La provincia lombarda e
piemontese, l'intero Nordest. Una campagna urbanizzata e
industrializzata. Disseminata di piccole città e di piccole
aziende artigiane. Prima o poi, sarebbero cresciute, le piccole
imprese. Insieme alle piccole città. Avvicinandosi a Torino e
alla Fiat. Questo si pensava, trent'anni fa.
Allora il Nord era definito anche in base alla geografia del
potere politico. Che aveva il suo centro a Roma. Il Sud, invece,
richiamava lo sviluppo arretrato e dipendente. Ma, insieme a
Roma, "comandava". Garantiva il consenso elettorale, ma anche la
classe politica, alle forze di governo. Da quell'epoca, molto è
cambiato, nel Nord.
È cambiata la geografia economica. Torino non è più la capitale.
Anche se si è ripresa, insieme alla Fiat. Da cui dipende molto
meno di un tempo. I centri dello sviluppo, tuttavia, si sono
spostati altrove. A Milano, metropoli di produzione dei beni
immateriali (per citare Arnaldo Bagnasco). Nelle province
pedemontane, che corrono a Nord del Nord e si tuffano nel
Nordest. In vent'anni questa periferia si è industrializzata e
urbanizzata come nessun altro posto in Europa. È passata dal
prefordismo al postfordismo. Prima e dopo la Fiat. Senza tappe
intermedie. Questa periferia è divenuta un centro. Diffuso e
nebuloso. Anche l'Emilia Romagna e le altre regioni centrali
hanno conosciuto una crescita rilevante dell'economia di piccola
impresa. Ma non con la stessa "violenza". Né con lo stesso
impatto sulla società e sul territorio. Così, il Nord si è
allargato e, al tempo stesso, accorciato. Si è spostato più
verso Milano e il Nordest. Ha eletto il Po a frontiera,
respingendo l'Emilia Romagna. Perché lo sviluppo del Nord si è
espresso in relazione stretta con la politica (e
l'antipolitica). Lungo tre assi. 1) La contestazione dei
tradizionali centri del potere economico e politico: Torino e
Roma. Confindustria, il sindacato e i partiti "romani". 2)
L'insofferenza per la politica, come mediazione realizzata dagli
specialisti e dalle organizzazioni. Economia e società senza
politica. Imprenditori, uomini del "popolo", che parlano come la
gente comune. E gliele cantano forte a Roma, ai partiti romani,
alla sinistra, al sindacato. Perfino a Confindustria. 3) La
rivendicazione autonomista. Che, volta a volta, assume forme e
traduzioni diverse: federalismo, indipendenza, secessione,
devoluzione.E' il "nuovo Nord" che pretende di contare. Di conquistare
potere ma anche ascolto. A costo di gridare, insultare, spezzare
le convenzioni; infrangere le "buone maniere". Gli hanno dato
voce e rappresentanza, da tempo, due attori politici molto
diversi fra loro. La Lega e Berlusconi.
La Lega, nelle aree di piccola impresa, nel territorio dei
distretti. Dove prima c'era la Dc. Alle elezioni politiche di
una settimana fa si è imposta come primo partito in oltre 800
comuni (su circa 4000, al di sopra del Po; Aosta e Bolzano
escluse). Soggetto politico comunitario, che ha trasformato la
società artigiana e laburista in una frontiera agguerrita.
Bossi, fin dai primi anni Novanta, l'ha unificata. Le ha dato
un'immagine e un nome: Padania. Patria dei produttori opposti
allo "Stato dissipatore e oppressivo". Nel corso degli anni, la
Lega si è insediata al governo di centinaia di comuni di taglia
piccolissima, piccola. Ma anche media e grande. Come Verona,
Treviso, Varese. Così è cresciuta una generazione di
amministratori locali. Che recitano diverse parti, a seconda del
luogo e del momento. Lo sceriffo, il governatore, il pragmatico,
l'irredentista, il negoziatore. Perché nella metropoli sparsa
del Nord, insieme alla ricchezza, è cresciuta anche
l'inquietudine. Il territorio sta scomparendo. Il lavoro è
garantito da centinaia di migliaia di immigrati (il 7% della
popolazione, dove la Lega è più forte). Il mondo, in cui sono
proiettate le imprese, fa paura. Viene in mente il bel film di
Carlo Mazzacurati, La giusta distanza, ambientato in un paese
del Polesine. Dove gli stranieri non sono gli immigrati. Ma noi.
Quelli del Nordest. Spaesati dal successo.
L'altro volto del Nord è Berlusconi. Quanto di più diverso dalla
fisicità della Lega. D'altronde, ha radici diverse. L'impresa
immobiliare, il capitale finanziario e assicurativo. I media.
Milano. Il suo "populismo" è mediatico. Nella santificazione
della propria figura, della propria immagine di "imprenditore"
di successo. In quanto tale - per definizione - più adatto di
chiunque altro a fare politica. Perché si è fatto da sé, è
riuscito in ogni impresa. Figurarsi se non è in grado di
"gestire" lo Stato...
Questi due diversi modi di intendere e di rappresentare il Nord
(la "megalopoli padana", come la chiama Giuseppe Berta, nel suo
saggio appena pubblicato da Mondadori) sono, appunto, diversi.
Perché hanno storie, geografie, economie e biografie diverse.
Sono destinati, per questo, a rimanere distinti. Talora, a
confliggere. Anche se alcuni elementi li attraggono. Li
accostano. Il linguaggio, la personalizzazione (fisica o
mediatica, non importa). I nemici. Roma, il ceto politico e le
organizzazioni di massa. Lo Stato centrale. Da ciò il problema
della "sinistra". Oppure del centrosinistra, non importa. Che
continua ad abitare le grandi città. Soprattutto del Centrosud.
(Ma anche del Nord. Dove vive da separato in casa). La cui base
elettorale è radicata nel Centro. Nelle regioni rosse. Lungo
l'asse Bologna-Firenze-Siena. Dove lo sviluppo di piccola
impresa è incorporato nel sistema politico e nelle
amministrazioni locali. Dove il ceto politico (lo hanno rilevato
Carlo Trigilia e Francesco Ramella), da qualche tempo, si è
progressivamente burocratizzato. Fatica a dialogare con le
imprese. E con la società.
Questo Nord non è uno solo. È plurale. Ma è unificato dal
linguaggio (im)politico di Berlusconi e della Lega. E ogni tanto
"esplode". Nelle zone pedemontane. Quando crescono la sfiducia e
il risentimento. Allora, affida alla Lega il compito di gridare
il suo malessere. La sua insoddisfazione. La sua "differenza".
Dal governo di Prodi, ma anche, preventivamente, da quello di
Berlusconi. Il voto leghista, sottratto largamente (anche se non
solo) al PdL, a questo serve. Come pre-monizione. O
pre-ammonimento.
Il centrosinistra, invece, non ha mai sfidato apertamente la
Lega (che, pure, D'Alema ebbe a definire "una costola della
sinistra"), né Berlusconi sul loro terreno. Così, è costretto a
evocare la "questione settentrionale". Dopo ogni sconfitta
elettorale. E, quindi, spesso negli ultimi vent'anni. Senza
trarne lezione, peraltro. Perché appare un lamento. Un inno
all'impotenza. All'incapacità di capire e di agire. D'altronde,
nel governo Prodi non ricordiamo un solo ministro del Nordest.
Mentre i sindaci, i governatori del Nord si sono trovati,
spesso, soli. A protestare contro Roma, contro il "loro"
governo. Quasi fossero leghisti.
Dopo il voto del 14 aprile, Illy (più
autonomista della Lega, sicuramente più liberista di Tremonti) è
caduto. Cacciari, Zanonato e Dellai appaiono assediati. Neppure
Chiamparino, la Bresso e la Vincenzi se la passano tanto bene.
Bersani e lo stesso Fassino hanno lo sguardo più triste del
solito. Il Nord padano ha ripreso ad allargarsi. Occupando lembi
della via Emilia (cantata da Berselli e Guccini). Ma tutti se la
prendono con Calearo. Perché è un padrone, per di più, piccolo.
Dice cose di destra. È un autonomista e parla come un leghista.
(Forse perché, in fondo, lo è). È proprio vero: nel
centrosinistra, uno come lui, c'è finito per sbaglio.
18 aprile
Le tute blu lombarde contro i flussi di
extracomunitari
E i camalli di Genova accusano il governo Prodi: "Ha messo fuori i
delinquenti"
Gli operai Fiom che votano a destra
"Così protetti da tasse e criminalità"
"Votiamo Cgil in
azienda e Bossi nell'urna. Che c'è di strano?
La prima ci dà il contratto, la seconda la garanzia che i soldi restino al Nord"
dal nostro inviato PAOLO GRISERI
BRESCIA -
L'importante è saper rispondere alla domanda: "Mi conviene?". Paolo, ad
esempio, ha capito che gli conviene votare Bossi perché la Lega lo protegge.
Ha 22 anni, sta appoggiato al muro insieme ai coetanei durante la pausa
mensa alla Innse Berardi, 250 metalmeccanici specializzati alla periferia di
Brescia. Da chi ti protegge la Lega? "Dagli extracomunitari". Ne hai bisogno
alla tua età? "Non è bello doversi difendere quando vai alla stazione". Che
cosa vuol dire che la Lega ti difende? "Che, bloccherà i flussi, non li
lascerà più entrare in Italia".
Il capannello aumenta, la discussione si anima, Enrico contesta: "Tutte
balle, ti lasci riempire la testa dalla tv. Non siamo a Chicago, dov'è tutta
'sta criminalità? E poi i criminali non ci sono in Italia? Prova ad andare
in Sicilia". "Quelli almeno sono nostri e ce li curiamo noi. Ma dobbiamo
preoccuparci anche di quelli che esportano gli altri?". E' facile sfottere
Paolo. Christian scioglie la tensione con la battuta vincente: "Vuoi
bloccare l'ingresso in Italia agli extracomunitari proprio tu che sei dell'Inter?".
Paolo sembra soccombere. Ma l'aiuto vero gli arriva da Gianni, un ragazzo di
32 anni che a queste elezioni non ha votato. Un grillino adirato con la
Casta? "No, non ho votato perché non posso ancora. Sono albanese, sono
arrivato nel '99. Il mio vero nome è Hashim ma siccome è troppo complicato,
tutti mi chiamano Gianni". Quando potrai votare per chi voterai? "Per il
partito che sceglieranno la maggioranza degli italiani". In questo momento è
la destra. Ti andrebbe bene la destra? "Perché no?". Forse perché potrebbe
bloccare l'ingresso degli stranieri alle frontiere. "E allora? Io sono
entrato, in autunno sono arrivati anche mia moglie e i miei figli. Se non
arrivano tanti altri a farci concorrenza è meglio".
Così, in dieci minuti di chiacchiere da bar, Paolo e Gianni fanno a pezzi
quel che resta del concetto di solidarietà, caro alla Dc di Martinazzoli,
che ha governato queste terre durante la prima repubblica, come alla Fiom di
Giorgio Cremaschi, che continua a governare il sindacato di fabbrica con il
70% dei voti alle elezioni delle rsu.
Votano Fiom in azienda e Bossi nell'urna? "Dov'è il problema? Si vede che la
Fiom e Bossi gli servono". Angelo, delegato a un passo dalla pensione, sa
che la sua è una risposta provocatoria. Ma anche profondamente vera. "Da
queste parti - spiega - le aziende hanno fame di operai specializzati. Qui i
contratti integrativi sono ricchi, arriviamo a strappare aumenti di 2-3 mila
euro all'anno".
Tute blu quasi benestanti, ben diverse da quelle che, sull'altro lato della
strada, costruiscono i camion all'Iveco, la vecchia e gloriosa Om, e portano
a casa i salari degli operai Fiat. "Alla Innse - aggiunge Angelo - molti
abitano nei paesi delle valli bresciane. Con il passare del tempo si sono
fatti la villetta a schiera. Una conquista che adesso hanno paura di perdere
con l'aumento del costo della vita". Qui si chiede ai comunisti di
contrattare l'aumento con il padrone, perché loro sono ancora i più bravi
nel settore ("tremila euro all'anno, sputaci sopra"), e si chiede a Bossi di
realizzare il federalismo fiscale. Il comunista ti porta i soldi ma è la
Lega che li difende.
La sirena del federalismo, ad esempio, è quella che ha attirato Giovanni,
contadino cuneese prestato all'industria della gomma. Arriva davanti al bar
"Sporting", il ritrovo degli operai sul piazzale della Michelin di Cuneo, e
spiega la sua soddisfazione: "Finalmente abbiamo vinto, adesso si può fare
il federalismo fiscale". Che cosa vuol dire? "Che siamo padroni a casa
nostra, che le tasse restano qui e non vanno a Roma. Con tutte quelle che
paghiamo io e mia moglie per l'azienda agricola".
Giovanni ha 49 anni e, come molti da queste parti, ha iniziato a compiere le
sue scelte politiche nel ventre della Balena bianca: "Qui - ricorda -
votavano tutti Dc, anzi votavano tutti Coldiretti", la potente associazione
dei contadini democristiani. Rotto quel contenitore, Giovanni è diventato un
leghista moderato. Uno che dice: "All'inizio votavo Lega per protesta. Poi
mi sono un po' allontanato quando dicevano che volevano la secessione".
Ma anche lui, quando si tratta di scegliere il sindacato, finisce per
affidarsi a Cgil, Cisl e Uil. Gaspare e Luigi, delegati di fabbrica,
raccontano del flop del SinPa, il sindacato dei leghisti: "Nel 2000 aveva
fatto il pieno alle elezioni del consiglio di fabbrica, avevano il 33% dei
voti. Poi sono rapidamente spariti. Quello del sindacalista non è un ruolo
che si improvvisa. Non basta dire "Roma ladrona" per chiudere un contratto".
Per il momento, comunque, sono i partiti del centrodestra più dei sindacati
del Carroccio a mettere in crisi i sindacati confederali. A Brescia, dove lo
straordinario è la regola, la detassazione promessa da Berlusconi ha fatto
breccia. Aldo, delegato della Fim dell'Innse, ammette sconsolato: "Quello è
stato un colpo da maestro".
La Lega è forte, i messaggi del centrodestra bucano il video, ma la sinistra
delle fabbriche dov'è finita? Sam, 35 anni, lavora alla Michelin di Cuneo
insieme a un gruppo di altri ragazzi di colore. "Arriviamo tutti dal Benin,
siamo in Italia da molti anni, abbiamo preso la cittadinanza. Abbiamo sempre
votato Rifondazione". Ma? "Questa volta non lo abbiamo più fatto. Ci siamo
riuniti per parlarne. Una parte ha scelto il Pd perché sperava di bloccare
Berlusconi. Ma alcuni hanno proprio deciso di smetterla con la sinistra.
Votano Berlusconi perché la sinistra litiga troppo, non si trova mai
d'accordo su nulla".
Per guardare in faccia la delusione della sinistra radicale basta andare a
Genova, nel cuore del Porto, roccaforte dei camalli della Compagnia unica
dove su sette delegati di area Cgil quattro sono di Rifondazione due dei Ds
e due di Lotta Comunista. Mauro spiega la sconfitta dell'Arcobaleno: "A
Genova si dice: "Ci hanno presi nella lassa", ci hanno fregati. Molti hanno
votato Pd credendo che tanto il 4 per cento alla Camera si faceva e che
Veltroni fosse vicino a Berlusconi nei sondaggi. Invece non era vero
niente".
Basta l'ingenuità a spiegare tutto? "No che non basta. Ne abbiamo parlato
martedì tra di noi. Rifondazione ha sbagliato". Dove ha sbagliato? "Ad
esempio con l'indulto". Ma l'indulto, una volta non era una legge di
sinistra? "Lo dici tu. Ma quale sinistra? Ha messo fuori i delinquenti altro
che sinistra". Forse non sarà solo per questo che nei seggi di Crevari,
storico quartiere partigiano di Genova, la Lega batte la Sinistra arcobaleno
486 a 358. Sarà anche perché "un partito come Rifondazione non può votare a
favore della guerra", come dice Matteo, operaio all'Iveco di Brescia. O
perché "non si raccolgono i voti nelle fabbriche promettendo di cambiare la
legge 30 sul precariato per poi non fare nulla", come rimpiange Luca che
scarica container al porto.
Così finisce che la delusione ti lascia a casa (a Genova
l'astensione coincide con i 40 mila voti persi dall'Arcobaleno) o ti getta
nelle braccia di Ferrando e Turigliatto: "Almeno loro la guerra non l'hanno
votata", si consola Matteo all'Iveco. Il risultato è che la Lega avrà
quattro ministri e l'Arcobaleno non c'è più. "Adesso tocca a Bossi mantenere
le promesse", dice Alberto, della Fiom di Brescia. Ma anche lui sa che è una
magra consolazione: "Sai come andrà a finire? Che quando la gente che ha
votato Lega si incazzerà verrà da noi a chiederci di fare gli estremisti, la
lotta dura e i blocchi stradali".
Cessate
il fuoco
Il
bollettino settimanale delle guerre e dei conflitti in corso n. 15 - 2008
dal 10/04/2008 al 16/04/2008
Questa settimana, in tutti i Paesi in guerra, sono morte
almeno 902 persone
Iraq
Questa settimana sono morte almeno 483 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 5.234
Sri Lanka
Questa settimana sono morte almeno 166
persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno
2.815
Afghanistan
Questa settimana sono morte almeno 64
persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati
almeno 1.146
Questa settimana sono morte 14 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 149
India-Kashmir
Questa settimana sono morte almeno 4 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 149
Israele e Palestina
Questa settimana sono morte almeno 35 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 294
India Naxaliti
Questa settimana sono morte almeno 16 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 214
India Nord-est
Questa settimana sono morte almeno 15 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 256
Nepal
Questa settimana sono morte almeno 4 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 36
Nord Caucaso
Questa settimana sono morte almeno 27 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 160
Pakistan talebani
Questa settimana sono morte almeno 40 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 1.092
Pakistan Balucistan
Questa settimana sono morte almeno 7 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 49
Bangladesh comunisti
Questa settimana è morta almeno 2 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 8
Filippine Npa
Questa settimana sono morte almeno 4 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 61
Thailandia del sud
Questa settimana sono morte almeno 5 persona
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 119
Somalia
Questa settimana sono morte 4 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 281
Etiopia
Questa settimana sono morte almeno 3 persone.
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 21
Uganda
Questa settimana sono morte almeno 9 persone.
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 9
17 aprile
Dalla
brace alla padella
In Iraq i Consigli del Risveglio, sunniti alleati degli Usa,
diventano un partito politico
Un cammino lungo, iniziato a gennaio del 2007, nel momento peggiore
dell'occupazione Usa dell'Iraq, sta per concludersi. I Consigli del
Risveglio, le milizie sunnite alleate degli Usa contro al-Qaeda in Iraq,
sono pronte a trasformarsi in un partito politico. Si chiamer�
Iraqi Karama Front (Fronte Dignit� Irachena). Ad annunciarlo �
Abu Azzam al-Tamimi, capo di uno dei consigli pi� influenti.
Nuovo
partito, vecchi metodi. Una prepotente candidatura per la
leadership della comunit� sunnita irachena, vista la fama che i
Consigli hanno saputo guadagnarsi agli occhi della popolazione civile,
ottenendo un calo delle violenze in particolare a Baghdad. Ancora non si
sa se tutti i 130 Consigli (forti di circa 80mila uomini) aderiranno al
Karama, ma sembra gi� garantita la partecipazione di alcuni
tra i pi� importanti, come quelli di Amirya, Ghazaliya, Khadra, Taji,
Abu Ghraib.
Le reazioni del mondo sunnita non sono state univoche: mentre l'Iraqi
Islamic Party di Tariq Hashimi, vice presidente iracheno, ha
salutato con gioia la novit�, il Consiglio degli Ulema (massima
autorit� religiosa sunnita in Iraq che controlla almeno 3mila moschee)
ha duramente criticato l'iniziativa, sottolineando come per loro i
Consigli abbiano finito per legittimare l'occupazione militare Usa.
Anche perch� da Washington i Consigli ricevono soldi e armi. Lo stesso
consiglio di studiosi dell'Islam, qualche giorno fa, ha accusato le
milizie dei Consigli di assassinare ex detenuti liberati di recente
dalle carceri irachene. Si tratterebbe di faide familiari, nelle quali
alcuni parenti di vittime di al-Qaeda in Iraq si sono vendicati degli
assassini dei loro cari. Alcuni miliziani sunniti, arrestati in passato
dai militari Usa o dagli iracheni, hanno goduto di un'amnistia,
approvata in febbraio dal Parlamento iracheno, che aveva lo scopo di
favorire la riconciliazione fra i diversi gruppi etnici e confessionali
del Paese.
Il
pilastro del surge.Detrattori a parte, i Consigli sono
stati (almeno nei piani del generale Usa David Petraeus) un successo.
Era il gennaio 2007 quando, per la prima volta, il presidente Bush ha
parlato alla stampa della cosiddetta surge, 'l'onda montante',
la strategia della stesso Petraeus per porre fine alle violenze inter
etniche e interconfessionali in Iraq, isolando gli elementi 'stranieri'
vicini ad al-Qaeda.
Lasciando alle milizie religiose il compito di fare piazza pulita. Gli
statunitensi hanno puntato su un primo Consiglio, nato nella provincia
dell'al-Anbar. Il concetto di questa trib� sunnita era quello
dell'autodifesa dall'imperversare di guerriglieri 'stranieri': visto che
gli Usa se ne fregavano dei sunniti, loro si sarebbero difesi da soli.
Gli Usa invece, visti anche gli ottimi risultati, hanno sposato il
modello dei Consigli del Risveglio, foraggiandoli con armi e denaro,
aiutandone la nascita in tutto l'Iraq e negoziando tregue militari con i
diversi gruppi di insorti sulla base delle piccole comunit� sunnite
irachene.
Tutto
come prima. Il piano sembra funzionare, almeno nell'intensit�
delle violenze. In realt�, come dimostrano gli attentati di ieri a
Baquba, Mosul, Baghdad e Ramadi, la situazione non � affatto
pacificata, solo che gli insorti concentrano i loro attacchi, meno
numerosi e pi� devastanti. Inoltre, cosa che Petraeus non ha detto,
sui metodi che utilizzano i Consigli ci sarebbe molto da dire.
Silvia Spring e Larry Kaplow, del Newsweek, il 5 aprile scorso
hanno pubblicato un'inchiesta che denuncia le condizioni di vita nei
quartieri dove i 'figli dell'Iraq' (come gli Usa chiamano i miliziani
dei Consigli) hanno fatto piazza pulita degli insorti. In particolare
raccontano la storia di una commessa di Baghdad. La ragazza viveva nel
terrore quando il quartiere della capitale, dove viveva, era in mano ai
miliziani di al-Qaeda in Iraq. Poi sono arrivati i miliziani del
Consiglio, hanno scacciato al-Qaeda e hanno preso il potere garantendo
la pacificazione del rione. Solo che la commessa vive ancora nel
terrore. Alla rigida visione dell'Islam imposta da al-Qaeda si �
sostituita la grezza brutalit� dei guerriglieri del Consiglio.
''Ognuno ha le sue regole bizzarre, alcuni minacciano di uccidere le
donne che non indossano il velo in pubblico'', racconta l'inchiesta del
settimanale, ''la commessa � in lutto per il fratello, che � stato
ucciso nel maggio scorso, ma va in cerca di guai se si veste di nero per
pi� di tre giorni di fila. Secondo quelli che adesso dettano legge nel
suo quartiere, chiunque vesta a lutto commette blasfemia, mettendo in
dubbio la volonta' di Dio''.
Cecenia,
guerra tra clan
Ieri una delle più violente battaglie degli ultimi mesi. Tra opposte fazioni
dell’esercito filo-russo
Almeno diciotto persone, tra cui diversi civili, sono morti ieri
in Cecenia in uno dei più violenti scontri a fuoco degli ultimi mesi.
Yamadaevtsy
e kadyrovtsy. A darsi battaglia nei pressi di Gudermes, una
ventina di chilometri a est di Grozny, non sono stati soldati
governativi e ribelli ceceni, bensì opposte fazioni delle forze armate
cecene fedeli a Mosca. Da una parte i soldati dell’esercito governativo
fedeli al presidente ceceno Ramzan Kadyrov; dall’altra quelli del
battaglione ‘Vostok’ comandato dall’ex comandante guerrigliero Sulim
Yamadayev. Durante il primo conflitto russo-ceceno (1994-1996) i
cosiddetti kamadaevtsy e kadyrovtsy, le milizie provate di
questi due potenti capi-clan rivali, si combattevano su fronti opposti.
Dal 1999, Yamadayev e i suoi uomini sono passati armi e bagagli dalla
parte delle forze d’occupazione russe, dando vita a uno dei più spietati
battaglioni delle forze armate collaborazioniste cecene.
Gli
effetti della cecenizzazione. Il secondo conflitto russo-ceceno,
iniziato in quell’anno e costato la vita ad almeno 135 mila persone, si
sta progressivamente ‘cecenizzando’: le truppe federali stanno
gradualmente ritirandosi, lasciando che siano le milizie filo-russe
cecene a combattere i guerriglieri indipendentisti ancora attivi. Una
mutazione genetica del conflitto che però, per le caratteristiche della
società cecena, rischia di trasformarsi in una guerra tra clan in cui le
distinzioni ideologiche (unionismo filo-russo o indipendentismo
islamico) perdono il loro significato.
16 aprile
Cambiare città per lavorare
lo fa ancora un italiano su due
Siamo nel
mondo tra quelli che più di altri si trasferiscono in un altro
nucleo urbano per un nuovo impiego. Quasi due su tre pronti
anche a cambiare paese per ragioni professionali. Superati nella
propensione al movimento tra città solo da tedeschi, giapponesi,
polacchi e spagnoli.
di FEDERICO PACE
Sempre in moto. Mai fermi. Gli italiani,
si sa, si sono quasi sempre messi in viaggio, per colpa, o
merito, della paga e del lavoro. Sempre in movimento per quel
qualcosa che aiuta a tirare avanti. Da un lato all’altro del
paese. Quasi sempre dal Sud al Nord. Ma anche al di là delle
Alpi e oltre le profondità dell’Oceano. E sono in moto anche
ora, anche ai tempi del lavoro flessibile, dei computer
portatili, dell’organizzazione orizzontale e dell’outsourcing.
Ancora migranti, seppure molto diversi da chi li ha preceduti,
per un impiego da tenersi stretti, ancora divisi tra tante città
dove ci sono origini, famiglie allargate, amici e colleghi di
lavoro.
A dirlo è l’indagine realizzata da Kelly
Services, gruppo operante nel settore della fornitura di servizi
per le risorse umane, che ha ascoltato 115 mila persone in 33
paesi con l’obiettivo di verificare la mobilità dei lavoratori
dei paesi industrializzati. Ebbene, anche oggi, gli italiani
sono tra i primi in questa speciale classifica. Secondo gli
autori dell’indagine, il 51 per cento degli italiani ha cambiato
città per ragioni occupazionali e al 23 per cento è successo di
cambiare anche nazione.
Più di tutti però a spostarsi da una
città all’altra sono i polacchi e i giapponesi dove la
percentuale arriva a toccare il 70 per cento. Elevate
proporzioni anche in Spagna (il 62 per cento) e in Germania (57
per cento). Tra quelli invece che si possono considerare più
stanziali ci sono gli olandesi, i danesi, gli ungheresi e i
belgi.
Minore la quota di chi ha cambiato paese
per ragioni professionali. E’ successo infatti al 23 per cento
degli italiani. E’ capitato lo stesso al 37 per cento degli
spagnoli e al 59 per cento degli irlandesi. Se c’è qualcosa che
li frena, a superare i confini nazionali, è soprattutto la
famiglia (lo dice il 60 per cento di chi non si muove) ma anche
le barriere linguistiche. Anche se molti di quelli che si sono
mossi, lo hanno fatto pur non parlando fluentemente la lingua
del paese che li ospitava. Tra gli altri ostacoli indicati, la
difficoltà nel trovare, a costi accessibili, una casa dove
vivere e il timore di perdere i diritti pensionistici maturati.
Ad ogni modo anche chi non si è mosso mai
sarebbe pronto a farlo e la propensione a muoversi è elevata.
Alla domanda se prenderebbe in considerazione un offerta di
lavoro fuori dall’Italia, rispondono affermativamente quasi
sette italiani su dieci. Se si guarda al dettaglio regionale ci
si accorge che i più propensi alla mobilità sono, ancora una
volta, gli abruzzesi, i marchigiani, i sardi, gli umbri, i
campani, i calabresi e i siciliani.
15 aprile

Treviso, le case
popolari della casta padana
Case a prezzi popolari? Sì, ma ai
leghisti che le hanno gestite. Quello che è accaduto nella Treviso
del boom mostra che non ci sono grandi differenze tra nord e sud
nella malagestione pubblica. Per il "Progetto casa", un piano
finanziato dall'Ater (l'ente che ha ereditato la gestione delle case
popolari), politici e loro familiari si sono insediati in pole
position. Il piano riguarda la costruzione di 30 appartamenti a
prezzo convenzionato: poco più di 100 metri quadrati per 160 mila
euro. Palazzine eleganti di tre piani che sorgeranno nella prima
periferia della Marca in un quartiere destinato a un grande
sviluppo: vi è prevista la nascita della "cittadella delle
istituzioni" disegnata da Mario Botta. Ma le graduatorie delle
assegnazioni si sono rivelate sorprendenti. Chi si è classificato
secondo per ottenere l'alloggio a prezzo agevolato? Pierantonio
Fanton, presidente proprio di Progetto casa, consigliere dell'Ater e
consigliere comunale leghista nel municipio del celebre Giancarlo
Gentilini. Fanton è stato tra i primissimi a depositare la domanda
nel giorno stesso dell'apertura del bando. Anche il primo nella
graduatoria di assegnazione è un nome noto in città. Si tratta di
Giobatta Zampese: è il padre del consigliere comunale leghista
Sandro, che presiede anche l'azienda pubblica di trasporto locale.
Volete una chicca finale? Fanton e Zampese Junior sono soci nello
stesso studio professionale di architettura. Il Carroccio si è
difeso: le domande sono state valutate da una commissione. Ma in
città la sinistra parla di "Casta padana". Ed è difficile darle
torto.
Thyssen: chi se
ne va costretto a rinunciare ai ricorsi
Giorgio Airaudo
Lo ha reso noto questa mattina il
segretario generale della Fiom torinese Giorgio Airaudo. Rinaldini:
«L'azienda ha un atteggiamento arrogante». Cremaschi: «E' la
dimostrazione che sono dei mascalzoni»
TORINO
La Thyssenkrupp sta facendo firmare ai
lavoratori che lasciano l’azienda un verbale, nel quale si impegnano
a non costituirsi parte civile, ma anche a non ricorrere contro
eventuali responsabilità penali dei dirigenti. Lo ha reso noto il
segretario generale della Fiom torinese, Giorgio Airaudo, nel corso
dell’assemblea nazionale degli Rls, rappresentanti della sicurezza
della Fiom, riuniti a Torino.
«Se la Thyssen - ha detto Airaudo - utilizzava questo verbale
storicamente, già prima della strage, nasce il sospetto che avesse
interesse a cautelarsi. Se invece il verbale è stato modificato dopo
la strage del 6 dicembre, ci troviamo di fronte a un’azienda che
tenta di sottrarre ai lavoratori un diritto, quello di costituirsi
parte civile. In ogni caso, si tratta per noi di atti non validi e
lavoreremo perchè vengano rimossi gli effetti».
Rinaldini: «L'azienda ha un atteggiamento arrogante»
«È un fatto gravissimo che arriva
all’indomani della tragedia della Thyssenkrupp e conferma
l’atteggiamento di assoluta arroganza dell’azienda e mancanza di
ogni forma di sensibilità, soprattutto tenuto conto del procedimento
giudiziario in corso nei confronti dei dirigenti della
multinazionale». Così il segretario generale della Fiom Cgil, Gianni
Rinaldini, a margine dell’assemblea nazionale Rls Fiom in corso a
Torino, commenta i verbali fatti firmare ai lavoratori delle
Acciaierie contenenti la remissione di procedure di carattere penale
e civile.
Sono in corso verifiche sulle dimensioni del fenomeno. Intanto
Rinaldini assicura che «il sindacato proseguirà la costituzione di
parte civile contro la Thyssenkrupp» e invita «i lavoratori a non
firmare».
Duro anche il giudizio espresso da Giorgio Cremaschi, segretario
nazionale Fiom. «Questa vicenda - dice - dimostra che i dirigenti
della Thyssenkrupp sono dei mascalzoni e bisogna fare il possibile
perchè abbiano la sanzione che meritano».
La sindrome del
terzo turno
Più volte vengono mandati in Iraq,
più i militari Usa tornano a casa con problemi mentali. Il Pentagono
è preoccupato
Mentre si trova a dover scegliere
quanti soldati far rimanere in Iraq dopo l'estate, l'esercito
statunitense ha scoperto che più rimanda i militari in guerra, più
questi tornano a casa con problemi mentali che vanno dall'insonnia
alla depressione. E dato che ormai decine di migliaia di soldati
sono stati inviati in Iraq per almeno tre volte, il nuovo studio del
Pentagono preoccupa i vertici del dipartimento della Difesa: il
bacino di militari da cui pescare si restringe sempre di più.
I numeri. Secondo la ricerca, dal 2003 a oggi i soldati in servizio
attivo che hanno servito in Iraq sono 513.000. Di questi, 197.000
sono stati inviati al fronte più di una volta, e 53.000 per almeno
tre turni. Di questi ultimi, il 27 percento soffre di sindrome da
stress post-traumatico (Ptsd), una percentuale che scende al 18
percento per i militari mandati al fronte in due occasioni, e al 12
percento per quelli che in Iraq ci sono stati una volta sola.
Proprio questa settimana il generale David Petraeus, massima
autorità militare Usa in Iraq, dirà al Congresso che non raccomanda
un'ulteriore diminuzione delle truppe nel Paese, oltre a quelle già
previste fino a luglio, che porteranno la presenza statunitense in
Iraq a circa 140.000 militari.
Le preoccupazioni del Pentagono. In un incontro preliminare con il
presidente Bush tenuto lo scorso marzo, il Joint Chiefs of Staff –
l'organo che riunisce i comandi dei servizi di ciascun ramo delle
forze armate statunitensi – ha espresso tutta la sua preoccupazione
per il livello di stress raggiunto dai militari. Nella ricerca del
Pentagono, si conclude che “i soldati che ritornano da turni
multipli al fronte segnalano un morale basso, più problemi mentali e
legati allo stress”. In particolare, i soldati al terzo o al quarto
turno in Iraq “sono a rischio particolare di riportare problemi di
salute mentale”. Per cercare di migliorare la situazione, le forze
armate stanno pensando di accorciare i turni di dispiegamento in
Iraq di tre mesi, portandoli a un anno, e di aumentare i periodi di
pausa tra uno e l'altro, estendendoli dagli attuali 12.
Alessandro Ursic
L'Ilva si ferma
per gli apprendisti
Il test che ti licenzia Un esame preparato «ad hoc» dall'azienda
per cacciare gli operai dopo 3 anni. Scatta lo sciopero e un corteo
ALESSANDRA FAVA
Genova
Un test scritto per cacciare un
operaio apprendista che lavora da tre anni nella tua azienda: è
l'ultima trovata dei Riva. Lo hanno utilizzato con sette apprendisti
operai all'Ilva di Cornigliano e nei test non c'erano neppure
domande attinenti il lavoro fatto dagli stessi in fabbrica. Anche la
tempistica è stata eccellente: venerdì mattina test a sorpresa per i
sette; nel pomeriggio si ventilava già l'assunzione a tempo
inderminato da firmare lunedì (cioè ieri): qualcuno è uscito felice
per festeggiare l'agognata assunzione. Invece venerdì sera la prima
doccia gelata: uno dei sette viene convocato per firmare la lettera
di licenziamento. A questo punto i sindacati hanno indetto lo
sciopero e ieri sono scesi in corteo da Cornigliano alla prefettura
con centinaia dei 2100 lavoratori occupando le vie del centro,
sinché dalla Prefettura è arrivato un impegno scritto da parte degli
enti locali a non accettare nessun incontro con Riva se non viene
messo come presupposto l'assunzione immediata dei sette.
«In questi tre anni abbiamo fatto di tutto - si sfoga uno dei
ragazzi, 25 anni - ho dato l'anima, ho lavorato con la febbre, non
ho fatto un giorno di mutua e ho 300 ore di ferie arretrate e meno
male che vivo da solo, ma come faccio a sposarmi, come faccio a fare
un bambino?». Accanto a lui c'è Mario, 52 anni, in cassa
integrazione con Ilva, è stato assegnato ai lavori di pubblica
utilità previsti dal piano firmato da Riva con gli enti locali, ora
è in Provincia: «Lo capisco - bofonchia - Io mi sono sposato l'anno
scorso. Ma dove sono gli enti locali, le istituzioni?».
Mentre piazza Corvetto diventa area pedonale a causa
dell'occupazione, vengono fuori le domande dei test. A due operai
che si occupano di manutenzione elettrica finiti poi nel ciclo a
caldo hanno chiesto come si fa a cambiare i giri di un motore in
continua. Ad altri dell'officina meccanica sono arrivati quiz sulle
saldature, sui circuiti di impianti oliodinamici e altri su tubature
che non hanno niente a che fare con la meccanica. «Sembra che
abbiano preso delle domande a caso di manuali degli istituti
tecnici», butta lì un operaio. «Venerdì fino a tre ore prima mi
dicevano di star tranquillo poi mi sono venuti a prendere sotto la
doccia per farmi firmare la lettera di licenziamento», aggiunge un
altro.
«L'azienda tenta di violare un accordo sull'apprendistato firmato
nel '96 - spiega Bruno Manganaro (Fiom) - propone il test e trova la
scusa per non assumere quattro dei sette; poi, appena dichiariamo lo
sciopero, decide di non assumerli tutti e sette».
In ballo c'è l'accordo più allargato con gli enti locali, frutto di
decine di tavoli tra l'azienda (che minacciava la delocalizzazione)
e gli enti locali con una cessione di aree a Riva e una tranche di
500 operai in cassa integrazione. L'accordo prevede tra l'altro che
l'8 agosto prossimo rientrino dalla cassa integrazione 500
dipendenti. Su questo Riva chiede la proroga di un anno e intanto ha
già parlato di una variante al programma per cui invece di arrivare
a 2700 dipendenti (l'obiettivo del piano) sarebbero 2200. Anche
questo sarà materia dell'incontro previsto per mercoledì in
prefettura con Comune, Provincia e Regione, che intanto hanno messo
per scritto che non si siedono al tavolo se non vengono riassunti i
sette apprendisti. «In questa situazione non mi ci sarei buttato -
dice il segretario provinciale Fiom Francesco Grondona, esperienza
pluriennale di vertenze industriali genovesi - a meno che non voglia
far vedere che cede alle pressioni». Così stamattina alle sei la
fabbrica ha ripreso l'attività, ma domani se i sette non vengono
riassunti gli operai riscenderanno in piazza in mattinata.
Noi precari
della cultura buttati via
Aprile 2004: mese ed anno di inizio
della nostra storia. Una storia che rischia di finire male e non
solo per noi.
Siamo stati selezionati sulla base dei nostri titoli: laurea,
specializzazioni, esperienze professionali, curricula. E questo
perché siamo bibliotecari e collaboriamo da svariati anni con l'Iccu,
Istituto Centrale per il Catalogo Unico delle biblioteche italiane e
per le informazioni bibliografiche, nato a seguito della
costituzione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, con
il compito di catalogare l'intero patrimonio bibliografico
nazionale, a garanzia dello sviluppo di servizi di uguale livello su
tutto il territorio nazionale.
Noi lavoriamo e maneggiamo libri rari e preziosi, antichi e moderni,
grazie a contratti di collaborazione che la pubblica amministrazione
ha voluto stipulare direttamente con noi, evitando di ricorrere
all'impiego di cooperative e a forme di cottimo nascoste. Siamo, per
essere chiari, personale altamente specializzato.
Dopo molteplici rinnovi contrattuali, il 31 maggio 2008 «scadiamo»,
non perché i progetti siano conclusi - in effetti il nostro lavoro
rientra nell'insieme delle attività istituzionali dell'Iccu - ma
perché non ci sono soldi o forse perché la pubblica amministrazione
non può o non vuole continuare a stipulare contratti con noi che
siamo ormai già dentro.
Dal 2004 la vita ha fatto il suo corso: matrimoni , figli, mutui...ma
la fatica è tanta e le difficoltà anche quelle minime e scontate (un
esempio la malattia) diventano a volte enormi. E naturalmente il
punto è questo: non parliamo di un lavoro precario ma di una vita
precaria, perché di fatto non esistiamo. Ma se i precari sono coloro
che lavorano con contratti di varia natura nel settore privato e
quelli che hanno contratti a tempo determinato nella pubblica
amministrazione, noi cosa siamo?
In tutto questo tempo lo Stato ha investito tempo e denaro per
formarci e metterci in condizione di fare il nostro lavoro al
meglio. Perché ora sprecare l'investimento fatto?
Perché anche così lo Stato spreca: gettando via le risorse che ha
creato e non perché non serviamo più; con il nostro lavoro
contribuiamo a creare e conservare la cultura del nostro paese.
L'applicazione dell'ultima finanziaria e della successiva circolare
(n.3/2008) della Funzione Pubblica potrebbe cancellarci
definitivamente come se non fossimo mai esistiti.
Ci chiediamo quale sia il motivo che porta il mondo politico in
generale, ora alla vigilia delle elezioni, a proclamare
preoccupazione per il precariato, definito piaga ed emergenza
sociale, ma a tacere sulle modalità di regolarizzazione di quanti
abbiano contratti atipici «in essere».
Non vogliamo miracoli, vogliamo che ci venga garantita una
continuità lavorativa e che venga chiarita la nostra situazione.
Vogliamo che lo Stato non ci butti via, non si butti via.
La cultura non è meno importante della famigerata Tav, del
«Corridoio 5» o dell'onirico ponte sullo Stretto.
La cultura è un'infrastruttura non tangibile, ma altrettanto
concreta. Vogliamo sapere: cosa faremo il 1° giugno 2008?
*** I precari Iccu -Biblioteche
italiane
La guerra dei
tubi
La Gazprom ha un nuovo alleato nel
gasdotto 'South Stream'
Ora che anche l'Ungheria si è
posizionata dalla parte dell'Orso sovietico, il progetto 'South
Stream' della Gazprom-Eni diventa l'antagonista più temibile per i
piani euro-americani di approvigionamento e sicurezza energetica.
Con l'accordo tra il presidente russo Dmitri Medvedev e il Primo
ministro ungherese Ferenc Gyurcsany, sottoscritto a Mosca il 28
febbraio scorso, la Russia si assicura il tratto finale del percorso
che il nuovo gasdotto dovrebbe seguire: partenza da Beregovaya nel
Mar Nero, arrivo a Varna in Bulgaria e da qui biforcazione verso
nord (attraverso Romania, Ungheria, Austria, Repubblica Ceca e
Germania) o sud (attraverso Grecia, Albania e Puglia).
Nabucco. Il tracciato finale non è ancora stato reso noto, ma il 'South
Stream' rappresenta l'alternativa all'opzione 'Nabucco' (appoggiato
da Unione Europea e Stati Uniti), che dai giacimenti del Mar Caspio
dovrebbe trasportare il gas azero, kazako e turkmeno passando per la
Turchia e seguendo un percorso analogo al 'South Stream'. L'Ungheria
mantiene di fatto il piede in due staffe ('due gasdotti sono meglio
di uno', ha detto Gyurcsan la scorsa settimana), ma l'offerta russa
sembra quella più convincente, nonostante sia la più costosa. Il 'South
Stream' è un progetto concepito da Eni e Gazprom lo scorso anno.
Dovrebbe comportare una spesa di 15 miliardi di euro e trasportare
annualmente dai 20 ai 30 miliardi di metri cubi di gas naturale, a
cominciare dal 2013. Il gasdotto è visto come il tentativo di Mosca
di entrare a gamba tesa nell'Europa centrale, già da anni dipendente
dalle riserve russe e delle repubbliche centroasiatiche, attuando
una politica di tagli tesa a marginalizzare Ucraina e Bielorussia a
vantaggio di mercati più imporanti e remunerativi.
Tubi vuoti. In occasione dell'incontro al Cremlino con Gyurcsany,
Putin non ha nascosto il proprio atteggiamento di sfida nei
confronti del progetto 'Nabucco', arrivando addirittura a
ridicolizzarlo: "Possono costruire uno, due o più gasdotti - ha
detto l'ex presidente russo -, ma con cosa li riempiono? Se qualcuno
vuole interrare del metallo sotto forma di tubi, lo faccia pure, noi
non abbiamo niente in contrario". La realtà è che dietro
l'aggressività della Gazprom vi sono elementi ben più concreti,
rispetto al progetto euro-americano. La compagnia energetica russa
ha enormi volumi di gas da vendere, ingenti capitali per gli studi
di fattibilità e per la costruzione del gasdotto, incentivi
supplementari sotto forma di progetti energetici collaterali per i
Paesi destinati a ospitare il 'South Stream'. Per converso, a
Bruxelles manca una politica energetica comune, e l'approccio
prudente di Washington si accompagna all'incertezza sulla
fattibilità di un progetto che non dispone ancora di
approvigionamenti sicuri dalle repubbliche centroasiatiche e,
soprattutto, dall'Iran.
Un solo vincitore. L'accelerazione che Mosca sta imprimendo al
progetto 'South Stream', attraverso la stipula di un protocollo
d'intesa dopo l'altro, si configura oggi come la più valida e
concreta garanzia per il bisogno di energia dei Paesi europei.
Tuttavia, nonostante la Gazprom difficilmente potrà garantire
riserve a lungo termine sia per l'Europa che per il suo crescente
fabbisogno interno senza operare tagli altrove, il controllo delle
infrastrutture, dell'accesso e del trasporto costituirà l'elemento
chiave per imporsi nel futuro scacchiere energetico europeo. In
questo senso, il Cremlino sembra il candidato più probabile a
garantirsi la vittoria, in quella che è già stata enfaticamente
definita la 'guerra dei tubi'.
Luca Galassi
8 aprile
Un
conflitto dimenticato
Messico, la lotta delle comunità
zapatiste dimenticata dai media internazionali
Rompere il silenzio sul conflitto in
Chiapas che da troppo tempo opprime le comunità zapatiste. Questo
l'obiettivo del giro internazionale di Ernesto Ledezma, direttore
del Capise (centro di analisi politica ricerca sociale ed
economica). L'Ong messicana, che da anni studia approfonditamente la
presenza di gruppi militari nella regione dice basta al silenzio
mediatico intorno a questo conflitto. E denuncia: le comunità
zapatiste del Chiapas sono oggetto di minacce e attacchi da parte di
militari e paramilitari.
I fatti. Erano i primi giorni del 1994 quando la rivolta degli
indigeni del Chiapas (sud del Messico), riempiva d'inchiostro le
pagine dei quotidiani di tutto il mondo. Figura centrale di quella
rivolta il Sub Comandante Marcos che grazie alla sua dialettica,
alla sua immagine romantica da rivoluzionario d'altri tempi e al suo
carisma, portava a conoscenza della comunità internazionale la lotta
degli zapatisti. Oggi, a 14 anni di distanza, di quel conflitto
ormai in pochi parlano.
"Oggi si è riattivata una forte offensiva contro la popolazione
indigena del Chiapas", racconta Ledesma. "Interventi così vigorosi
dell'esercito regolare e dei paramilitari non si verificavano da
oltre di dieci anni. Il problema che ha oggi il Messico è che ha un
presidente che non è stato legittimamente eletto. E' talmente debole
politicamente che è costretto a governare con il pugno di ferro,
usando spesso la forza dell'esercito. E nel caso delle popolazioni
zapatiste del Chiapas, le ostilità da quando c'è Felipe Calderon si
sono riacutizzate".
La presenza militare. Sparse ovunque in Chiapas , soprattutto nei
territori limitrofi alle comunità zapatiste, le caserme militari
sono diverse decine. Ognuna addestra militari ad un compito ben
determinato. E negli ultimi mesi proprio da queste caserme sono
partiti i soldati che hanno minato la tranquillità degli indios
della zona. "Ci sono 56 accampamenti militari permanenti all'interno
del territorio zapatista". Racconta preoccupato il direttore del
Capise che aggiunge: "Il 90 percento delle caserme è composto da
forze speciali. Un anno fa erano solo il 30 percento. E come
conseguenza è aumentato anche il numero di paramilitari. Si sono
moltiplicate le aggressioni fisiche contro la popolazione zapatista.
I gruppi paramilitari sono quelli che, alla fine dei giochi,
guadagnano di più perché le istituzioni agrarie stanno anche
ridistribuendo i terreni coltivabili e li stanno assegnando alle
corporazioni vincolate ai gruppi paramilitari".
La presenza paramilitare. "La presenza dei paramilitari in questo
momento è imponente. Noi abbiamo documentato 253 nomi di indigeni
che fanno parte dei gruppi paramilitari. Sappiamo tutto di loro:
dove vivono, di quale comunità fanno parte, quando hanno iniziato a
far parte dei paramilitari. Sappiamo bene anche quello che hanno
fatto. Non parlare di quello che succede in Messico in questo
momento dove la popolazione indigena è sempre attaccata è per noi il
vero problema. E' un silenzio scandaloso". Ledezma è in giro per
l'Europa proprio per riaccendere la luce intorno alla vicenda
Chiapas. "Il conflitto dovrebbe essere presente sulle prime pagine
dei quotidiani di tutto il mondo - rincara la dose Ledezma - invece
quasi mai lo troviamo o se leggiamo qualcosa è giusto un trafiletto.
Quello che esce sulla stampa internazionale rispetto al nostro
conflitto è niente".
Alessandro Grandi
Lustrascarpe nel
palazzo di giustizia
Paraguay: la storia di Eligio,
lustrascarpe davanti al trubunale di Asuncion
Scritto da Serena Corsi
Mille guaranies, poco piú di dieci
centesimi di euro, per lustrare un paio di scarpe con uno straccio.
Prima una, poggiata sullo sgabellino di legno che deve rimanere
pari, non tremare. Poi l’altra: dai cinque ai dieci minuti di
lavoro, inginocchiato o seduto a terra. Eligio ha sedici anni, ne
aveva appena dieci quando cominció a frequentare il Palazzo di
Giustizia di Asunción per fare il lavoro di lustrascarpe , “dalle
otto di mattina alle due. Poi vado a giocare a pallone”. E la
scuola? “Finita”.
La storia. Oggi Eligio ha avuto una buona giornata: torna a
casa con ventimila guaranies, circa tre euro. Il Palazzo di
Giustizia di Asuncion é un posto privilegiato per fare il
lustrascarpe, non tutti i lustrabotas di Asuncion hanno questo
privilegio. Non solo perché é calpestato ogni giorno da calzature
che si vogliono lucide –giudici, avvocati, gente comune in attesa di
una sentenza importante. Ma anche e soprattutto per un progetto
singolare nato dall’idea di José Altamirano, un giudice della Corte
Suprema che da sociologo studió gli effetti della disoccupazione nei
quartieri marginali come i Bañados – i quartieri di baracche sulla
sponda del fiume Paraguay che puntualmente si allagano durante la
stagione delle piogge. “Ovvio che il lavoro minorile é un cancro da
estirpare.. Siamo tutti d’accordo” dice Altamirano. “Ma reagire al
fenomeno con la sola repressione é sciocco, oltre che inutile.
Finché programmi sociali seri non ne ridurranno le cause, il meglio
che si puó fare é seguire i ragazzi perché intendano, e difendano,
la dignitá di quello che fanno”.
Casacche e strumenti d'ordinanza. Il fulcro del programma é
la registrazione come “lustrabotas” nell’ufficio risorse umane del
Palazzo. Chi é registrato ha diritto a una casacca di riconoscimento
e al materiale di lavoro , oltre che a una prima colazione a base di
mate cocido e pane e marmellata. Una bella differenza rispetto a
quando i lustrabotas venivano inseguiti e picchiati dalle guardie
interne del tribunale: oggi sono lavoratori come altri che popolano
la febbrile attivitá del palazzo. “Abbiamo tentato anche
l'accompagnamento psicologico, ma non ha funzionato " ammette Marta
dell’ufficio risorse umane. La registrazione come lustrabotas del
Palazzo ha un’unica contropartita: se ne viene sospesi in caso di
furto o di lite con un “collega”. “E alcuni materiali didattici
vengono distribuiti solo a chi dimostra di star ancora frequentando
la scuola”.
Del progetto non esiste nulla di ufficiale: tutto é organizzato,
finanziato e coordinato da un gruppo di giudici e da alcuni
volontari dell’ufficio risorse umane, che nell’ultimo anno hanno
anche organizzato incontri fra famiglie e pedagoghi (si cerca di
stabilire un contatto con la famiglia, anche per capire se, come
succede spesso, tutto quello che guadagnano i ragazzi, anziché per
sé o per le spese di casa, viene speso per qualche vizio dei
genitori) e un corso di teatro.
Il dibattito è aperto. "Non siamo d'accordo con nessun
progetto che sostenga il lavoro minorile"replica Barbara Balbunea,
della segreteria nazionale dell'infanzia e dell'adolescenza. Secondo
i dati del ministero, ottenuti grazie a un'elaborazione di una ONG
spagnola,il lavoro minorile interessa 280 mila bambini,di cui 145
mila lavorano rischiando la salute o la vita. Eppure in Paraguay
esiste una risoluzione ministeriale che stabilisce i criteri per
l'iscrizione al registro dell'adolescente lavoratore e che vi
esclude tutti i mestieri inclusi in una lista nera della OIT
(organizzazione internazionale del lavoro). Piú che essere
assolutamente vietato,a livello giuridico si puó dire che il lavoro
infantile sia tenuto il piú possibile sotto controllo e, in qualche
modo, sindacalizzato.
Ma in un paese in cui é molto facile corrompere ispettori ,forze
dell'ordine e giudici, i pochi meccanismi di controllo rimangono
molto spesso solo sulla carta.
Prendono prosciutto, carne o
parmigiano: cose che non possono più permettersi.
I direttori degli esercizi: "Questi furti sono raddoppiati nel giro di pochi
anni"
E la crisi
spinge i nonni
a rubare nei supermercati
di
JENNER MELETTI
BOLOGNA
- Per rubare grammi 300 di grana padano, costo euro 4,75, l'anziano con il
gabardine impiega 12 minuti. Ecco, si avvicina allo scaffale. Prende in mano il
pezzo di formaggio, si mette gli occhiali, legge il prezzo al chilo (13,50
euro), la scadenza, il nome del caseificio... Sembra proprio un cliente come
tutti gli altri. "Fanno tenerezza, i nostri ladri pensionati", dice Stefano
Cavagna, direttore dell'iper Leclerc Conad alla periferia di Bologna.
"Per portare via una busta di prosciutto o una confezione di formaggio -
continua - impiegano fra i dieci minuti e il quarto d'ora. Ecco, adesso fa la
faccia un po' arrabbiata, come se dicesse: 'guarda che prezzi'. Rimette il grana
al suo posto. Fa un giro, va allo scaffale del parmigiano reggiano. Anche qui
guarda i prezzi. Troppo caro: 422 grammi costano 7,05 euro, 16,70 al chilo. Può
sembrare strano, ma l'anziano che ha deciso di rubare sceglie quasi sempre il
prodotto che costa meno, per fare meno danni al supermercato e anche per
mettersi in pace la coscienza. Ecco, torna al grana padano. Sempre lo stesso
pezzo, ormai lo ha battezzato. Lo prende in mano, lo tiene in bella mostra.
Dieci metri dopo lo mette nella tasca del gabardine ma lo tira fuori quasi
subito, lo abbandona su un altro scaffale. Pochi passi ancora e torna indietro,
riprende il formaggio e lo riporta nel suo scaffale. Poveretti, questi poveri
ladri. Ci mettono tanto tempo che li becchiamo quasi tutti".
Provocano angoscia, i film a colori che raccontano i furti dei vecchi. Film che
per fortuna spariscono ogni sera, quando l'ipermercato viene chiuso e le
registrazioni delle tante telecamere vengono cancellate. "Ecco, l'uomo ha
trovato il coraggio. Non c'è nessuno intorno, mette il grana padano in tasca, si
avvia verso la cassa. Ha comprato anche due rosette di pane, un pacco di pasta e
le mele. Mentre è in fila alla cassa, si vede che ha paura. Si agita, si guarda
intorno. Ma ormai è fatta. Tanti ci ripensano all'ultimo momento, tornano
indietro e abbandonano la refurtiva dove capita, il salame fra le merendine e la
carne fra le fette biscottate".
L'uomo arriva davanti
alla cassiera, mette sul bancone le cose che vuole pagare. Ma la telecamera ha
seguito l'uomo che ha rubato il grana padano e, pochi metri dopo la casa, c'è
Antonella che aspetta. "È lei - dice Stefano Cavagna - che ferma gli anziani che
hanno rubato. Abbiamo messo una donna, così i ladri hanno meno paura. Ci sono
cartelli che annunciano che, per tutti, dopo il pagamento alla cassa ci può
essere un controllo scontrino e chi viene fermato non viene subito bollato come
ladro dagli altri clienti".
Valentina è una ragazza gentile. "Scusi, dovremmo controllare lo scontrino. Sa,
a volte anche le cassiere si sbagliano. Può seguirmi?". Poche decine di passi
verso una stanza usata come infermeria. "Signore, si è dimenticato di pagare
qualcosa? E qui l'anziano confessa. Tira fuori il grana o il prosciutto, chiede
scusa, spesso si mette a piangere. Dice che è solo, con l'affitto e le bollette
da pagare, che i figli non si fanno mai vivi. Antonella spiega che non si può
rubare al supermercato, che il Conad ogni giorno manda tanti prodotti vicino
alla scadenza alle mense e alle associazioni di carità che così possono
distribuire alimenti e 21.000 pasti all'anno. Chi ruba per fame, se non è
recidivo, non viene denunciato. Facciamo pagare ciò che è stato sottratto e
spieghiamo che non sarà perdonato una seconda volta".
Il Conad di via Larga è lo stesso dove, 4 anni fa, "nonno T." andava a rubare i
mandarini e, pieno di vergogna, accettava di parlarne con Repubblica. Erano
quasi mosche bianche, allora, gli anziani accusati di furto. "Da allora - dice
il direttore - le cose sono cambiate, in peggio. I 'nonni T.' si sono
moltiplicati. Rispetto a quattro anni fa - e il picco è stabile già da due anni
- gli anziani che rubano sono aumentati del 40- 50%. Guardi qui, sui monitor
della nostra sicurezza. I reparti dove sono si usano le telecamere più
sofisticate, che permettono di seguire una persona molto da vicino, sono puntate
sul reparto ortofrutta e sui cibi freschi. Sorvegliamo soprattutto il cibo
perché è il prodotto più a rischio".
"Questo vuol dire che ci sono molte persone che, se non soffrono la fame,
quantomeno non possono permettersi cibi ai quali si erano abituati. Vengono
rubati infatti la busta di prosciutto crudo, la confezione con due bistecche, il
formaggio per una grattugiata sulla pasta... E c'è chi mangia direttamente fra
gli scaffali. In questa stagione l'uva viene spesso consumata sul posto, c'è chi
svuota una confezione di merendine... Un iper è una città. Qui gli anziani sono
di casa, al caldo d'inverno e al fresco d'estate. In gran parte per fortuna non
rubano. Fanno il giro delle degustazioni. Un caffè gratis lo trovano ogni
giorno, e spesso una fetta di salame o di prosciutto. Tanti ormai vivono qui.
Chiedono ai commessi di spegnere tutta quella musica sugli schermi del reparto
tv. 'Fateci vedere invece il giro d'Italia'. C'è un buon rapporto, con loro. E
io continuo a mandare messaggi, a dire che siamo qui per vendere ma possiamo
dare una mano a chi abbia davvero bisogno. Noi stiamo male, quando dobbiamo
chiedere a un vecchio se 'ha dimenticato di pagare qualcosa'".
"Nei loro occhi - conclude - vedi il terrore: gente che ha lavorato una vita e
si trova a vivere così male gli ultimi anni. Ma i ladri con tanti anni e tanta
paura addosso sono aumentati e noi non possiamo spegnere le telecamere".
A Udine, nella strada che dalla città porta verso Tolmezzo, c'è la più alta
concentrazione di iper e supermercati d'Europa. "Anche qui, in quattro anni -
dice il tenente Fabio Pasquariello, comandante del nucleo investigativo dei
carabinieri - i furti commessi dagli anziani sono aumentati del 40%. Per
affrontare il problema, ho incontrato anche i direttori e responsabili sicurezza
di questi centri commerciali. Ho spiegato che il furto semplice si persegue solo
su querela, mentre chi fa danni - ad esempio strappando una confezione - può
essere accusato di furto aggravato e non serve querela. Ho anche detto che, se
il direttore ci chiama, noi non possiamo fare da pacieri: dobbiamo denunciare
chi ha commesso il reato".
"Per questo - continua - tanti direttori, quando trovano l'anziano che ha
rubato, si limitano a fargli pagare la merce e a dirgli di non presentarsi mai
più nel supermercato. L'anziano che ha rubato per fame, quando ci vede arrivare
in divisa, resta di ghiaccio. Non riesce nemmeno a parlare. Sono strani ladri, i
vecchi. Rubano la confezione di tonno che costa meno, o il prosciutto cotto in
offerta speciale. Ma la fame è brutta. Noi carabinieri vediamo la povertà anche
dentro le case, quando entriamo perché ci sono stati maltrattamenti o liti.
Trovi famiglie che hanno la tv al plasma e niente in frigorifero. Gli addetti
alla sicurezza dei supermercati dicono che gli anziani sono la categoria più a
rischio: rubano più dei ragazzi in cerca di dvd o cd e degli extracomunitari.
Secondo le mie informazioni, extracomunitari e pensionati sono alla pari, ma
solo perché questa è una zona di confine e gli extracomunitari residenti e
soprattutto di passaggio sono tanti. Con le bande di ladri professionisti
riusciamo a ottenere successi. Abbiamo individuato una banda di croati che
organizzava viaggi in Italia e costringeva altri croati che dovevano pagare
debiti agli usurai a compiere furti. Li abbiamo messi in galera. Ma contro il
vecchio che quando ci vede resta quasi paralizzato, che puoi fare?".
I titolari dei supermercati in questo pezzo di Nordest, non vogliono i loro nomi
sui giornali. "Ci sono anche gli anziani onesti e non vogliamo perdere clienti".
Raccontano però che anche le tecniche si sono affinate. "Non solo aggiungono
frutta al sacchetto già pesato: lo tengono sollevato al momento della pesata,
così lo scontrino è più leggero". "Il ladro più abile? Un anziano che veniva
tutte le mattine a comprare una pagnotta. Un giorno l'abbiamo fermato a addosso
aveva 80 euro di cibi vari". "Nel mio piccolo market di paese, dopo trent'anni
di attività, tre mesi fa ho dovuto assumere un addetto all'anti taccheggio". "Ai
vecchi noi non facciamo mettere l'acqua minerale sul bancone della cassa. La
lasciano sul carrello, così non fanno sforzi. E c'è chi se ne approfitta e fra
due confezioni ben strette l'una all'altra infila una busta di bresaola o di
salmone".
"Il furto più piccolo? C'è una signora che quasi ogni giorno si ruba un ovetto
Kinder, e non ha nipoti. L'altro giorno un anziano è stato trovato mentre rubava
una cioccolata da 1,05 euro". "Ormai, quando li fermi, senti la stessa litania:
non riesco ad arrivare a fine mese, ieri ho pagato la luce e sono rimasto senza
soldi...". Ma ci sono anche parole commosse. "Quando li fermi, i vecchi, ti
fanno stare male. Appena riescono a riprendere fiato ti chiedono solo una cosa:
"per carità, non ditelo ai miei
figli"".
4 aprile
Benvenuti a Velenitaly
di Paolo Tessadri
Concimi, sostanze cancerogene, acqua, zucchero, acido muriatico e solo un
quinto di mosto. Con questo miscuglio sono stati prodotti 70 milioni di
litri di vino a basso costo. Venduti in tutta Italia. In edicola da
venerdì
Di vino ne contengono poco: un terzo al massimo, spesso di meno. Il
resto è un miscuglio micidiale: una pozione di acqua, sostanze chimiche,
concimi, fertilizzanti e persino una spruzzata di acido muriatico.
Veleni a effetto lento: all'inizio non fanno male e ingannano i
controlli, poi nell'organismo con il tempo si trasformano in killer
cancerogeni.
Secondo i magistrati di due procure e la task force che da sei mesi
indagano sulla vicenda, questo cocktail infernale è il protagonista
della più grande sofisticazione alimentare mai scoperta in Italia.
Perché con la miscela tossica sono state confezionate quantità mostruose
di vino. Gli inquirenti ritengono che si tratti di almeno 700 mila
ettolitri: sì, 70 milioni di litri messi in vendita nei negozi e nei
supermercati come vino a basso costo anche dai marchi più pubblicizzati
del settore. Un distillato criminale che ha riempito circa 40 milioni di
bottiglie, fiaschi e confezioni di tetrapack d'ogni volume, offerte a un
prezzo modestissimo: da 70 centesimi a 2 euro al litro.
L'inchiesta è tutt'ora in corso: solo una parte dei prodotti pirata è
stata sequestrata perché è impossibile rintracciare tutte le bottiglie.
Ma gli elementi raccolti dagli investigatori mostrano un sistema
industriale di contraffazione che nasce dalla criminalità organizzata e
alimenta le grandi cantine: le aziende coinvolte nello scandalo sono già
20. Otto si trovano al Nord: in provincia di Brescia, Cuneo,
Alessandria, Bologna, Modena, Verona, Perugia. Il resto invece è sparso
tra Puglia e Sicilia: le sorgenti del vino contraffatto e dei documenti
che gli hanno permesso di invadere le botti. Perché con questo sistema
criminale i produttori riuscivano a risparmiare anche il 90 per cento:
una cisterna da 300 ettolitri costava 1.300 euro, un decimo del prezzo
normalmente chiesto dai grossisti del vino di bassa qualità.
Retrogusto al metanolo L'istruttoria è nata partendo da uno dei soliti
sospetti: una cantina di Veronella che 22 anni fa venne coinvolta dal
dramma delle bottiglie al metanolo. Ricordate? Diciannove persone uccise
mentre altre 15 persero la vista per colpa del mix a base di mosto e di
un alcol sintetico, normalmente utilizzato nelle fabbriche di vernici:
un liquido inodore e micidiale. Una tragedia che cancellò la credibilità
della nostra enologia e stroncò l'export. Ma nello stabilimento di Bruno
Castagna anche quella lezione sembra dimenticata. Quando nello scorso
settembre scatta l'irruzione, gli agenti del Corpo forestale di Asiago e
dell'Ispettorato centrale per il controllo dei prodotti agroalimentari
trovano subito una situazione anomala: accanto alle cisterne c'erano
taniche piene di acido cloridrico, altre con acido solforico e 60 chili
di zucchero. Gli ispettori mettono tutto sotto sequestro e fanno
esaminare campioni di vino bianco e rosso per capire cosa contengano. I
test condotti nell'Istituto agrario di San Michele all'Adige e nel
laboratorio di Conegliano Veneto dell'Ispettorato centrale forniscono lo
stesso verdetto choc: in quel liquido di uva ce n'è circa un quinto, il
minimo indispensabile per dare un po' di sapore. I test sono concordi:
tra il 20 e il 40 per cento, non di più. E il resto? Acqua, concimi,
fertilizzanti, zucchero, acidi. Sì, acidi: usati per mimetizzare lo
zucchero vietato per legge. L'acido cloridrico e l'acido solforico
vengono utilizzati per 'rompere' la molecola dello zucchero proibito (il
saccarosio) e trasformarlo in glucosio e fruttosio, legali e normalmente
presenti nell'uva. Un metodo che consente così di sfuggire ai controlli.
Risultato: da una normale analisi non emergerà la contraffazione. I due
acidi, assieme alle altre sostanze cancerogene, non uccidono subito, ma
lo fanno progressivamente, in modo subdolo. L'acido cloridrico,
comunemente chiamato acido muriatico, può provocare profonde ustioni se
finisce sulla pelle, se ingerito è devastante.
A Veronella uno degli investigatori è svenuto per i vapori e sono stati
chiamati i pompieri per rimuovere le scorte. Il titolare della cantina è
stato arrestato per il reato di sofisticazione alimentare con pericolo
della salute pubblica: di quel liquido ad alto rischio ne avevano ancora
migliaia di litri. Ma il fascicolo aperto dal pubblico ministero di
Verona Francesco Rombaldoni poco alla volta si è gonfiato di reati
pesantissimi: l'associazione a delinquere per gli imprenditori vinicoli
del Nord. Che diventa addirittura associazione mafiosa per i loro
referenti meridionali.
Sacra cantina unita Partendo dai silos veneti gli agenti della Forestale
sono arrivati ai fornitori della pozione micidiale. La pista conduce
fino a Massafra in provincia di Taranto. Secondo l'accusa, l'intruglio
proviene da due stabilimenti: la Enoagri export srl e la Vmc srl, vini,
mosti e concentrati. Per gli inquirenti il gigantesco impianto della Vmc
è stato costruito non per produrre vino, ma per fabbricare quantità
industriali di quel mix velenoso: c'è un vero laboratorio chimico. Da lì
l'inchiesta si allarga ancora e si estende in tutta Italia, con squadre
di investigatori all'opera anche in Sicilia, mentre il coordinamento per
il fronte Sud viene preso dal pm Luca Buccheri della Procura di Taranto.
Pochi giorni fa il magistrato ha sequestrato i due stabilimenti, ma gli
investigatori sono convinti che i titolari siano solo dei prestanome.
Dietro di loro, in realtà, ci sarebbero gli investimenti della Sacra
corona unità, il nucleo storico della mafia pugliese. E poiché ogni
documento falso richiede altre coperture, altre aziende nelle mani della
malavita avrebbero fornito certificati e ricevute per giustificare
l'attività delle distillerie di veleno. Tutto finto: vino, forniture,
bolle di trasporto, fatture. A Massafra è stata sequestrata la Tirrena
Vini, definita dagli inquirenti una 'cartiera'. E sono spuntati
documenti taroccati realizzati pure da ditte di Trapani, che hanno fatto
ipotizzare un collegamento operativo con Cosa nostra siciliana. E per
questo anche la Direzione investigativa antimafia è scesa in campo per
intercettare i movimenti di capitali impegnati nell'operazione
criminale.
Cocktail al veleno Una volta scoperte le sorgenti, gli specialisti della
Forestale e dell'Ispettorato centrale per il controllo dei prodotti
agroalimentari si sono messi a studiare tutti gli acquirenti della
pozione. E hanno ricostruito la mappa di quella che definiscono la più
grande frode mai scoperta in Italia: 70 milioni di litri di vino
corretto o fabbricato con liquidi pericolosi per la salute. Viene creata
una task force di investigatori e informato il ministero delle Politiche
agricole. La miscela è finita nelle cantine di sei regioni: Lombardia,
Piemonte, Veneto, Umbria, Puglia e Sicilia. I primi test avrebbero
riscontrato lo stesso cocktail di Veronella: solo il 20-30 per cento è
vino, il resto è composto dal solito intruglio di fertilizzante,
concime, zucchero e acido made in Massafra. Ma a preoccupare ministero e
inquirenti è soprattutto l'uso che ne avrebbero fatto due impianti, uno
nel Bresciano e l'altro nel Veronese, che sono leader in Italia
nell'imbottigliamento e nella vendita di vini a basso prezzo. Solo da
questi due stabilimenti sono uscite milioni di bottiglie, di fiaschi e
di cartoni destinati in massima parte al mercato nazionale.
È chiaro che a questo punto l'inchiesta assume una dimensione di alto
impatto per l'economia italiana. Con il rischio di un danno d'immagine
ben più grave di quello provocato dall'allarme sulla bufala. Per questo
il vertice del ministero ha scelto una linea di massima cautela: sia per
non compromettere gli sviluppi investigativi sul versante mafioso, sia
per non infliggere un nuovo colpo alla credibilità dei nostri prodotti.
Il settore basso del mercato è anche quello dove la concorrenza
internazionale è più forte, con nuove nazioni che si lanciano con
prodotti a prezzi infimi. Ma nonostante i sequestri, moltissime delle
bottiglie sotto inchiesta restano in vendita: 'L'espresso' ne ha visto
un intero stock in un centro commerciale del Nord-est.
D'altronde le quantità contraffatte accertate finora dagli investigatori
non hanno precedenti: 700 mila ettolitri. Un record, che può inondare
un'altra delle risorse nazionali con un fiume di vino dal retrogusto di
acido muriatico.
Il bottino
legale degli avvocati di Stato
Non basta la mesata, c'è pure "il quadrimestre". In una campagna
elettorale dove sbocciano promesse di regali e sussidi, non
sorprende che sia stata fatta passare in silenzio l'inchiesta di
Primo Di Nicola sugli avvocati di Stato. Eppure l'articolo
pubblicato su L'espresso mostrava una situazione in cui sarebbe
stato facile intervenire per recuperare milioni di euro. Oltre a
un ricco stipendio, oltre alla possibilità di ottenere incarichi
esterni, docenze e arbitrati, questi dipendenti dello Stato si
spartiscono un bottino senza precedenti. Sono pochi: 370 in
tutta Italia. Devono rappresentare e difendere l'amministrazione
statale in tutti i tribunali. Ma quando vincono le cause,
incassano in prima persona le spese legali che le loro
controparti devono versare. Incassano personalmente un rimborso
per svolgere il compito per cui vengono già pagati con lo
stipendio. Una somma enorme: nel 2006 42 milioni e 405 mila
euro, che poi vengono divisi secondo criteri territoriali.
Questa gratifica viene chiamata "quadrimestre", perchè calcoli e
spartizioni avvengono ogni quattro mesi. In media, nel 2006 ogni
toga pubblica romana ha intascatoto 91 mila euro, che diventano
244 mila a Bari, 247 mila a Potenza, 261 mila a Venezia e ben
296 mila a Messina: sempre oltre allo stipendio. Il capo di
questa avvocatura a Messina nel 2006 ha ricevuto 222 mila euro
di stipendio e quasi 300 mila dal bingo dei "quadrimestri"-
Viste le condizioni disastrose in cui versa l'amministrazione
della giustizia, che ha tempi vergognosi e lamenta carenze di
fondi, non sarebbe meglio usare i 42 milioni del "quadrimestre"
per fare qualcosa che aiuti tutti i cittadini? Non sembra una
riforma così difficile da realizzare...
Peggio
che nel West
Gli
Usa accelerano la costruzione del muro al confine con il Messico. Con
eccezionali deroghe alle leggi
C'è l'opposizione dei proprietari terrieri, degli ambientalisti, dei
nativi americani, nonché quella di molti politici locali. E la
costruzione va avanti a rilento, in ritardo rispetto ai tempi
prefissati. Così, per completare l'innalzamento del muro
anti-clandestini al confine tra Stati Uniti e Messico, l'amministrazione
Bush ha giocato la carta del colpo di mano legislativo. Sfruttando una
possibilità concessa dal Congresso, il governo ha approvato ieri oltre
trenta deroghe a leggi e regolamenti in vigore, che gli consentiranno di
velocizzare la costruzione del muro in barba a tutte le cause
giudiziarie aperte dai gruppi che si oppongono alla recinzione.
Il
blitz. La mossa di Washington, nelle intenzioni, permetterà di
aggiungere 429 chilometri di barriera “bloccati” da ostacoli a livello
federale, statale e locale, dalla California al Texas. In tutto, se si
volessero rispettare i tempi previsti dalla legge del 2006 ,che ha
disposto la costruzione del muro, servirà innalzare 580 chilometri da
qui a fine anno, mentre finora ne sono stati costruiti solo 497. Quando
sarà completata, la barriera coprirà circa un terzo dei 3.168 chilometri
di frontiera tra i due Paesi.
Progetto controverso. Il piano di sigillare il confine per
limitare l'afflusso di migranti ha scontentato molti abitanti delle zone
limitrofe. Proprietari terrieri hanno fatto causa per negare al governo
l'esproprio dei loro appezzamenti, o chiedendo indennizzi più cospicui.
Gruppi a difesa dell'ambiente sostengono che il muro, tagliando di netto
l'habitat naturale di molti animali, metterebbe alcune specie a rischio
di estinzione. Tribù di nativi americani hanno accusato il governo di
voler passare sopra le loro terre, compresi alcuni luoghi di sepoltura.
E politici delle zone di confine, in Texas e Arizona, accusano
regolarmente l'amministrazione Bush di arroganza nella gestione del
problema, perché decide senza consultarsi con loro. Ma la costruzione
del muro va a rilento anche su altri fronti. Qualche settimana fa il
governo ha dovuto ammettere che l'installazione della “recinzione
virtuale” - un sistema di sensori e telecamere iper-tecnologico nonché
costoso – su un tratto della frontiera, non sarebbe finita prima del
2011, anziché entro quest'anno come previsto.
Gli
effetti. Grazie alle deroghe, i tempi dovrebbero sveltirsi. Per
esempio, in alcune aree dove la costruzione sarebbe dovuta partire solo
dopo alcune valutazioni preliminari di sostenibilità, ora si potrà
cominciare a erigere il muro prima che questi esami – sugli effetti per
l'ambiente, la fauna e la qualità delle acque – vengano condotti. “In un
certo senso, il confine ora è più senza leggi di quando gli americani
hanno iniziato la corsa verso il West”, ha commentato il presidente del
gruppo ambientalista Defenders of Wildlife, Rodger Schlickeisen.
Il segretario per la Sicurezza interna, Michael Chertoff, non sarà
probabilmente d'accordo. Anche perché una volta perorò la causa del muro
spiegando che sarebbe stato una cosa positiva per l'ambiente: perché i
clandestini, attraversando il confine, sporcano.
Ora lo «sceriffo» Cioni
caccia i mendicanti
L'assessore fiorentino ex Ds e ora Pd già noto per
l'ordinanza anti-lavavetri torna all'assalto con un provvedimento
contro chi chiede l'elemosina. «Sono un pericolo per i pedoni e per
il traffico»
Sistemati i lavavetri, ora tocca ai mendicanti. Firenze e la sua
giunta (di centrosinistra) tornano al centro delle polemiche grazie
al nuovo pugno duro del suo assessore «sceriffo», quel Graziano
Cioni che la scorsa estate è passato alle cronache per aver
«ripulito» i semafori della sua città dai «vu lavà» e che ora lancia
la sua battaglia contro chi chiede l'elemosina sui marciapiedi.
Secondo Palazzo Vecchio i mendicanti rappresenterebbero «un pericolo
per i pedoni e per il traffico». «La situazione ha superato
oltremodo il livello di guardia», ha detto l'assessore comunale alla
sicurezza Cioni (ex Ds ora Pd), dopo che nei giorni scorsi una donna
non vedente è rimasta seriamente ferita inciampando su un questuante
sdraiato in terra. «L'accattonaggio - ricorda l'assessore -
rappresenta un grave ostacolo». Sembra però esserci una bella
differenza con l'ordinanza anti-lavavetri di sette mesi fa. «Ora
stiamo pensando a un nuovo regolamento della polizia municipale che
preveda anche nuove norme sul fenomeno e che dovrà poi essere
approvata dal Consiglio».
Cioni non parla apertamente di racket dell'elemosina, ma fa intuire
che dietro al fenomeno qualcosa di losco ci sia. «Quando vediamo
questi mendicanti stesi tutto il giorno nelle strade principali del
centro storico - dice ancora l'assessore - pensiamo quantomeno a uno
sfruttamento ignobile: l'accattonaggio individuale è una cosa, ma le
sue forme organizzate sono una storia diversa». Il nuovo
regolamento, quindi «dovrà prevedere delle modalità per contrastare
chi chiede l'elemosina intralciando i pedoni». Non solo, sono al
vaglio della giunta gigliata altre misure restrittive come proibire
ai turisti di toccare la porta del Battistero. «Sono norme di
convivenza civile in una città che vuole essere civile», secondo
l'assessore.
Il nuovo regolamento, così come anticipato ieri dal giornale free
press Il Firenze, è ancora una bozza ma tra una settimana dovrebbe
essere completato. «Ci ha lavorato una squadra di esperti per
quattro mesi - spiega il comandante della polizia municipale di
Firenze Alessandro Bartolini - e la norma porrà un divieto
amministrativo per chi mendica sdraiato in strada, in questo modo
gli agenti saranno legittimati ad intervenire».
Non serve però aspettare l'ufficialità e l'entrata in vigore del
regolamento per far scoppiare la polemica politica. Secondo il
segretario del Prc, nonché candidato alla Camera in Toscana, Franco
Giordano quella dell'assessore del Pd Cioni «è una parabola davvero
triste. Ha iniziato la sua carriera in un partito che si impegnava a
combatterla, la povertà, ed ora è finito per combattere i poveri».
Per Giordano «la palma delle politiche più disumane contro i poveri,
e gli immigrati, spettava all'ex sindaco di Treviso, il leghista
Giancarlo Gentilini. Ora Cioni lo ha quasi superato».
Ma la nuova battaglia dello «sceriffo» fiorentino trova dissensi
anche a destra. Il Pdl la reputa una trovata elettorale, descrivendo
Firenze un luogo da Inferno dantesco. «Non hanno voluto costruire i
cpt per controllare gli immigrati clandestini - dice Giovanni
Donzelli, un consigliere comunale di An - concedono alloggi agli
occupanti abusivi del movimento di lotta per la casa, tollerano le
decine di baraccopoli e i campi rom, tutte le notti subiamo risse e
accoltellamenti, il centro storico è invaso da venditori abusivi, la
prostituzione dilaga».
Cessate il fuoco
Il bollettino settimanale delle
guerre e dei conflitti in corso n. 13 - 2008 dal 28/03/2008 al
03/04/2008
Questa settimana, in tutti i Paesi in
guerra, sono morte almeno 1232 persone
Iraq
Questa settimana sono morte almeno 800 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 4364
Israele e Palestina
Questa settimana sono morte almeno 6 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 247
Sri Lanka
Questa settimana sono morte almeno 182 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 2.536
Afghanistan
Questa settimana sono morte almeno 74 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 973
India Nordest
Questa settimana sono morte almeno 13 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 238
Pakistan talebani
Questa settimana sono morte almeno 16 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 1.040
India-Kashmir
Questa settimana sono morte almeno 9 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 131
Nord Caucaso
uesta settimana sono morte almeno 7 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 131
Thailandia del Sud
Questa settimana sono morte almeno 9 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 112
Nepal
Questa settimana sono morte almeno 4 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 24
India Naxaliti
Questa settimana sono morte almeno 15 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 186
Pakistan Balucistan
Questa settimana sono morte almeno 8 person8
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 39
Pakistan Talebani
Questa settimana sono morte almeno 7 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 1047
Nigeria
Questa settimana sono morte 9 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 18
Somalia
Questa settimana sono morte 18 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 255
Sudan (Darfur)
Questa settimana sono morte 20 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 347
Niger
Questa settimana sono morte 15 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 23
Turchia
Questa settimana sono morte 19 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 135
Colombia
Questa settimana è morta almeno 1 persona
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 60
2 aprile
Sarà una estate
spazzatura
di Giuseppe Lo Bianco e Piero Messina
Agitazioni sindacali annunciate in
tutta Italia. Gestione opaca dei contratti. Differenziata fantasma.
Così si rischiano altre Napoli. A partire da Palermo
La discarica di Bellolampo, a Palermo
Di
fronte all'ingresso del Policlinico di Palermo c'è una larga chiazza
di cenere nera accanto ad un cassonetto rovesciato. È il simbolo
della soluzione 'fai da te' all'emergenza rifiuti: bruciare i
contenitori per non morire soffocati. Anche sotto le finestre delle
corsie affollate di malati. Il peggio, per adesso, sembra passato e
gli autocompattatori sono tornati a sgomberare le strade della
città, ma operatori ecologici e sindacati restano in preallarme e
anche Giancarlo Trevisone, prefetto del capoluogo siciliano, è
preoccupato: il rischio che il sistema di raccolta vada
definitivamente in tilt, ha detto alla Cgil, è alto.
Segnali di fumo dalle montagne di spazzatura ammassate nella
discarica di Bellolampo annunciano un'estate di fuoco. Per tutto il
sud. Il caso Napoli non è isolato: dalla Sicilia, dalla Calabria e
più su persino dal Lazio arrivano indizi allarmanti di un'emergenza
rifiuti globale, pronta a esplodere alla prima difficoltà tecnica o
sindacale. Come e peggio del capoluogo campano. È infatti bastata
una giornata di sciopero l'11 marzo per mandare in tilt i sistemi di
raccolta in metropoli come Roma e Palermo. Nella capitale c'è voluta
una settimana per tornare alla normalità; nell'hinterland di Palermo
le montagne di sacchetti sono rimaste al sole per dieci giorni.
La protesta
Il sistema è in crisi e i lavoratori minacciano nuovi scioperi. La
replica di quanto accaduto ai primi di marzo andrà in scena subito
dopo le elezioni: sono state indette quarantotto ore di serrata ed è
facile prevedere un altro girone infernale con cassonetti che
straripano nelle strade. C'è un contratto scaduto da più di due anni
per i centomila addetti del settore e la richiesta non è tanto di
profilo economico, quanto di vedere sempre più ridotto il ruolo e le
tutele dei lavoratori in un mercato sempre più ricco. "La verità
inconfessabile è che il sistema è diviso in due aree di attività",
spiega Franca Peroni, segretario nazionale del comparto igiene
ambientale Cgil: "
Da un lato ci sono quelle altamente redditizie, dall'altro quelle a
basso contenuto tecnologico. È ovvio che in un mercato di questo
tipo si tende ad abbandonare i settori che non creano profitto".
Si tende cioè a scaricare il costo del lavoro degli operatori che
fanno la raccolta su cooperative sociali o su aziende pubbliche. Con
operazioni senza trasparenza. La prassi è eguale un po' dovunque:
vanno ceduti quei rami di azienda che non garantiscono alti redditi
e richiedono una gran mole di manodopera. In Sicilia, poi, con le
aziende pubbliche ormai al collasso, è allarme rosso: "Siamo stati
convocati dal prefetto che ha espresso tutte le sue preoccupazioni",
avverte Michele Palazzotto, segretario funzione pubblica della Cgil
di Palermo: "C'è il rischio che il sistema della raccolta rifiuti in
Sicilia, vada in tilt da qui a breve".
L'oro nero
Dalla Sicilia arriva un dato che illumina il business nascosto nel
fondo del cassonetto: nel 2007 il servizio è costato più di 400
milioni di euro, 153 euro per tonnellata, praticamente il doppio di
quanto costava soltanto quattro anni prima. L'equazione è semplice:
si moltiplicano i protagonisti, i costi lievitano. E nelle regioni
del centro-sud si aprono nuovi spazi per le ecomafie, che sono in
grado di infiltrarsi a ogni livello del sistema: i reati ambientali
denunciati crescono al ritmo del 35 per cento annuo. "Si sono
moltiplicati gli attori del sistema e la filiera è stata trasformata
in un vero e proprio spezzatino che gonfia i costi, e dove è
estremamente complicato qualsiasi controllo di legalità e si creano
spazi per manovre politico clientelari", conferma Palazzotto.
Esattamente come in Campania.
Ma la complessità del sistema rifiuti siciliano è esasperata dalla
moltiplicazione ingiustificata di enti territoriali: il sistema è
suddiviso in 27 Ato, gli ambiti territoriali. Solo in provincia di
Palermo sono sei gli ambiti responsabili del ciclo dei rifiuti.
Questo accade nonostante una legge regionale abbia imposto la
riduzione del numero degli Ato da 27 a nove, uno per provincia. E
ogni ambito ha un consiglio di amministrazione e gestisce
direttamente assunzioni e appalti. Sono posti ambiti: non bisogna
sporcarsi le mani, c'è solo l'attività burocratica di passacarte e
di riscossione delle bollette.
Non sono loro ad occuparsi direttamente di spazzatura, ma la fanno
gestire a privati attraverso gare d'appalto. Con risultati
disastrosi: in poco più di cinque anni gli Ato rifiuti siciliani
hanno accumulato un deficit vicino ai 380 milioni. Una bolletta
salata che dovrà essere pagata dai cittadini. "Ancora l'impatto
economico non c'è stato perché non si è passati dal regime della
tassa a quello della tariffa. Ma sono molti i comuni ormai prossimi
al dissesto finanziario, con i costi della raccolta dei rifiuti che
in pochi anni si sono quintuplicati", continua Palazzotto.
Tra raccomandazioni e finanza creativa
L'esempio del Coinres, il consorzio che raggruppa ventidue comuni
della provincia di Palermo, ha fatto scuola. Lo guidava l'assessore
provinciale Raffaele Loddo. Il Coinres è finito sotto osservazione
da parte della Corte dei Conti per una serie di contratti a termine,
commissionati ad agenzie interinali. Centoventi persone assunte, tra
loro alcuni parenti di amministratori locali e consiglieri comunali.
Anche la Commissione antimafia ha chiesto di esaminare gli atti del
consorzio e dell'agenzia interinale. Loddo è stato costretto pochi
giorni fa alle dimissioni, a causa della crisi finanziaria del
consorzio e da una raffica di scioperi dei dipendenti, stanchi di
ricevere lo stipendio a singhiozzo.
Un capitolo a parte va dedicato all'Amia di Palermo. Per salvare
l'ex municipalizzata per l'igiene ambientale, il sindaco Diego
Cammarata ha lanciato il progetto di una 'holding multiutility'.
Dovrà raggruppare tutte le società di servizi controllate
dall'amministrazione comunale. A leggere il progetto di Medhelan,
advisor incaricato di redigere la bozza operativa, si intuisce che,
la 'finanza creativa' si applica non per rigore strategico ma
proprio con l'obiettivo di salvare il carrozzone creato dal Comune.
I conti dell'ex municipalizzata, che dà lavoro a 2.800 dipendenti
segnano profondo rosso. Il patrimonio netto della società, si legge
nel bilancio 2006, è stato cancellato, andando sotto di 11 milioni
di euro, la perdita di esercizio è quasi di 50 milioni di euro.
Tante vertenze che si sommano al problema strategico: l'assenza di
raccolta differenziata rischia di trasformare ogni agitazione
sindacale in un'emergenza ambientale.
Regioni indifferenziate
Un immaginario confine separa le due Italie dei rifiuti: al nord che
inizia a 'termovalorizzare' e ricicla percentuali crescenti di
scarti, si contrappone un sud arretrato e fortemente condizionato da
scelte politiche e clientelari. Che quelli del meridione siano
metodi vetusti lo dimostra il dato della raccolta differenziata, con
Basilicata, Sicilia e Molise agli ultimi posti della classifica. Ma
anche a Roma la raccolta differenziata è praticamente inesistente.
In Sicilia, nonostante la prescrizione di legge, non si riesce a
superare la soglia del 7 per cento. Così dei 32,5 milioni di
tonnellate di rifiuti urbani prodotti annualmente, la metà va a
intasare le discariche. E mentre la Lombardia seppellisce in
discarica soltanto il 17 per cento dei rifiuti, nell'intero Lazio la
differenziata è addirittura inferiore alla Campania dello 0,2 per
cento.Solo le proroghe all'uso della voragine di Malagrotta
impediscono che l'onda dei sacchetti neri sommerga la Capitale e le
province.
Proprio a Malagrotta sorge un impianto di gassificazione dei
rifiuti, definito sperimentale, che dovrebbe ufficialmente entrare
in funzione ad aprile ma che si pensa non comincerà nessuna
trasformazione prima del 2009. Appeso ad un progetto di massima,
invece, l'inceneritore di Albano, in attesa della valutazione di
impatto ambientale, e contestato da mobilitazioni popolari con il
sostegno persino dell'assessore verde Filiberto Zaratti, che ha
partecipato all'ultima manifestazione. Le linee di incenerimento nel
Lazio, in realtà, ci sono: tre per la precisione, localizzate a San
Vittore e Colleferro, ma mancano altri tasselli per completare il
ciclo. Gli inceneritori presenti bruciano i rifiuti, ma di altre
regioni: la regione Lazio non produce Cdr per carenza di impianti.
Gli impianti di compostaggio sono sedici, ma ne funzionano solo
dieci.
ha collaborato Nello Trocchia
Indagine di Altroconsumo: spese di
trasferimento fino a 2.800 euro. Solo due agenzie su quaranta
applicano il provvedimento sulla portabilità dei prestiti
Mutui bancari, a
un anno dal decreto il costo zero rimane un miraggio
di BARBARA ARDU
ROMA
- C'è voluto un anno per chiarire che il decreto Bersani sulla
portabilità dei mutui deve essere a costo zero per il cliente.
Tuttavia ci sono ancora molte banche cui il concetto non è chiaro.
Lo ha scoperto Altroconsumo, che ha visitato 40 filiali di aziende
di credito a Roma e a Milano. Una prima volta a novembre 2007, poi a
gennaio 2008, infine a metà marzo. E la tabella che verrà pubblicata
sul prossimo mensile dell'associazione dei consumatori parla chiaro.
Solo una filiale di Intesa Sanpaolo e una del Banco Desio, ambedue a
Roma, si sono dette disponibili a trasferire il mutuo a costo zero.
Tutte le altre hanno chiesto un "obolo", che va da un massimo di
2800 euro a un minimo di 183. Chi per le spese notarili, chi per
quelle bancarie. Si chiedeva il trasferimento di un mutuo a tasso
variabile sottoscritto nel febbraio 2003 con la Abbey National, oggi
Unicredit banca, per acquistare una casa del valore di 200mila euro.
Un contratto lungo 25 anni, con un capitale residuo a marzo, pari a
61mila euro e un tasso del 6,66 per cento.
A un anno dall'entrata in vigore del decreto Bersani, dunque,
bisogna ancora pagare per spostare il mutuo. Eppure ormai anche l'Abi,
l'Associazione bancaria italiana, dopo una lunga trattativa con i
notai e le associazioni dei consumatori, ha praticamente
riconosciuto che la surroga (cioè lo spostamento dell'ipoteca), va
fatta a costo zero. A maggio, tra l'altro, assicurano
all'Associazione bancaria, entrerà a regime una procedura
semplificata che consentirà alle aziende di credito di sbrigare la
pratica in poco tempo, qualche manciata di minuti.
Ma trovare una banca disposta ad accogliere la richiesta di surroga
è tutt'altro che semplice. Sono ancora tante, rileva Altroconsumo,
quelle non disponibili all'operazione: che rifiutano insomma di
prendersi in carico il vecchio mutuo di qualcuno. D'altra parte,
rilevano all'Abi, non è obbligatorio accettare un cliente: c'è un
dovere di uscita e a costo zero, ma non di entrata. Come dire che
una banca non può trattenere il mutuatario che vuole andarsene, ma
non ha nessun obbligo ad accogliere la richiesta di chi vorrebbe
emigrare. E secondo Altroconsumo due grandi gruppi come Unicredit e
Bnl-Bnp Paribas non sarebbero ancora pronti per la surroga.
Eppure è già passato un anno. Un anno durante il quale chi ha
chiesto e ottenuto di spostare il mutuo presso un'altra banca che
gli faceva un "prezzo" migliore, spesso s'è trovato ad aprire il
portafogli per portare a termine l'operazione. Un danno, che secondo
Altroconsumo potrebbe ammontare a 4,5 milioni di euro per le
famiglie italiane. E che potrebbe anche raddoppiare se la
percentuale dei mutui surrogati corrispondesse al totale di quelli
sostituiti, che rappresentano il 15 per cento dei contratti erogati
nel 2007. Chi ha pagato non avrebbe dunque diritto a un rimborso?
Secondo i consumatori sì. Solo se ci sono le condizioni, a detta
dell'Abi. La questione dunque è aperta.
Come aperto è il capitolo trasparenza e concorrenza. Che fine ha
fatto, si chiede Altroconsumo, il modello Esis, voluto dall'Unione
europea per rendere possibile il confronto dei mutui a livello
europeo? Un modellino dove viene indicato il cosiddetto Isc
(l'indicatore sintetico del costo del finanziamento), che comprende
tutte le spese. Un documento fondamentale per poter confrontare le
offerte sul mercato. Si tratta di una sorta di Taeg del mutuo, che
le banche dovrebbero consegnare al cliente che si presenta per avere
informazioni. Ma la normativa Ue che risale al 2001 non è mai stata
recepita. Così le aziende di credito non hanno nessun obbligo a
consegnare il modello Esis.
Una mancanza che l'Unione europea ha ricordato all'Italia nel Libro
bianco sui mutui pubblicato a dicembre. Il risultato? Di modelli
Esis nelle banche italiane se ne trovano davvero pochi. Delle 168
filiali di aziende di credito visitate a gennaio da Altroconsumo in
otto grandi città italiane, ben 100, cioè il 60 per cento, si sono
rifiutate di fornirlo. Le risposte più comuni? "Lo consegniamo solo
quando c'è una formale richiesta di mutuo", oppure "soltando dopo
l'istruttoria". Quando non serve più.
Università in
fermento
I giovani di Pristina, tra elezioni
e cambiamento
scritto da Raffaele Coniglio*
Davanti al Grand Hotel a Pristina non
si vedono più le solite facce stanche dei funzionari pubblici o
quelle di anziani intenti a camminare e fumare nervosamente. Liceali
con le classiche uniformi scozzesi o di qualche scuola
internazionale a passo felpato, ma la realtà underground di
Pristina, giovani stundenti e studentesse universitarie, dal look
differente e a tratti appariscente, i figli della guerra che hanno
visto con i loro giovani occhi le chilometriche marce dei loro
connazionali in fuga verso i confini della Macedonia, l’Albania o il
Montenegro, quelli che come Florent, 26 anni, ricordano nitidamente
il viaggio di circa un mese tra campi e casali strapieni di gente
pronta, nel momento più propizio, a raggiungere il parente in
Albania.
Vengono da tutte le parti del Kosovo, come Ilir, che viene da Peja/Pec,
e si riversano nella nuova capitale per affrontare gli studi. Vivono
a ridosso della cittadella universitaria, alcuni nelle case dello
studente, numerosi in quelle private, vivendo anche in condizioni
per nulla gradevoli. Sono coloro che possono permettersi
l’università pubblica solo con gli sforzi e i sacrifici dei genitori
o dei familiari all’estero. Quelli che snobbano chi frequenta le
tantissime università private, che negli ultimi anni sono sorte in
ogni angolo della città e che, come dice Luljeta, studentessa al
secondo anno di pedagogia, “non fanno mai nulla a lezione. Pagano
tanti soldi per ricevere presto e con un bel voto la laurea”.
Questa settimana c’è grande fermento all’Università. Ci sono le
elezioni studentesche. Gli attivisti delle numerose associazioni
degli studenti sono alle prese con il volantinaggio e
l’organizzazione delle ultime conferenze. Il 3 Aprile infatti si
voterà per eleggere i nuovi 17 rappresentanti degli studenti del
Consiglio studentesco. Sono 11 le associazioni che quest’anno si
presenteranno con un sistema elettorale a liste chiuse. È un sistema
elettorale che non piace tanto a Veton Fetahaj, 19 anni di Istog,
studente di Lingua albanese, che tuttavia andrà a votare perché
“solo così posso far valere le mie idee, votando per
un’organizzazione in cui credo. Peccato che non posso scegliere il
candidato” dice. Tra le organizzazioni più strutturate ed attive ci
sono ORS–UP, acronimo di Associazione degli Studenti – Università di
Pristina, così come VS, ovvero Visione Studentesca. I loro
presidenti sono ragazzi determinati e fiduciosi in un buon risultato
che hanno tutto lo spessore di veri leaders. Burim Balaj di VS, ad
esempio, sembra avere le idee chiare su come risolvere i cronici
problemi all’interno dell’Università e per punti cita quelli
organizzativo-gestionali dell’Università e quelli infrastrutturali,
sottolineando il fatto che “nei primi anni di corso non è possibile
seguire le lezioni, tanto alto è il numero degli studenti; dagli
ultimi posti, senza microfono, non si sente assolutamente nulla”
afferma, enfatizzando il suo discorso con le mani. Anche Besart
Dreshaj, 21 anni della Facoltà di Economia e Presidente di ORS-UP,
ha carisma da vendere. Quanto a sicurezza di sè ha certo poco da
invidiare agli amministratori locali del Kosovo. Sembra uscito dalla
loro scuola.
Tra i punti principali del suo programma annovera la
riorganizzazione amministrativa, a partire da una maggiore chiarezza
del calendario degli esami e del numero delle sessioni: farà
battaglia per portarle da tre a cinque. C’è poi il miglioramento
delle infrastrutture e dei servizi, con il potenziamento delle case
dello studente, e la decentralizzazione dell’università.
“L’Università di Pristina è cresciuta molto negli ultimi 5 anni, è
tempo di aprire altri poli distaccati anche a Peja/Pec ed a Prizren”
dice, e “di cercare insieme un maggiore coinvolgimento degli
studenti in merito ai problemi dell’università. Bisogna dare la
possibilità agli studenti che vengono da lontano di poter quantomeno
frequentare una sede più vicina a casa, risparmiando così molti
soldi. Una parte importante e decisiva di queste nostre battaglie,
di tutti gli studenti, dovranno presto avere risalto su tutte le
reti locali”, conclude, sottolineando inoltre il fatto che per
troppo tempo notizie di inefficienza e corruzione negli ambienti
universitari sono rimaste nascoste.
Dei trentamila iscritti all’Università di Pristina, pochi però
sembra andranno a votare, come del resto avvenuto negli anni
passati. Di sicuro non Enis Xhemaili, 24 anni studente di Legge, che
farà “qualcos’altro di più interessante che andare a votare” dice,
“perchè nulla cambierà dopo le elezioni: anche miei compagni di
corso fanno false promesse per essere eletti ed intascarsi i soldi”.
Ismet non è per niente interessato all’argomento, tutto impegnato
com’è a portare avanti la sua organizzazione per la promozione del
turismo in Kosovo. Le elezioni passeranno forse inosservate per lui,
ma avranno anche ben poco risalto nell’opinione pubblica. Eppure c’è
qualcosa di importante che rimarrà: lo spirito organizzativo, il
desiderio dei giovani di comunicare, l’idea e la voglia di
irrobustire sempre più questo mondo dell’associazionismo
studentesco.
Ci si augura che presto l’isolamento culturale che i giovani qui
hanno vissuto, fino ad oggi e per molto tempo, rispetto ai loro
coetanei europei possa al più presto avere sbocco in una serie di
scambi e di frequenti contatti con le altre università europee, di
collaborazioni e di lavori accademici congiunti, realizzando anche
il sogno di Besart. Potrebbe essere questo il modo più sano e
duraturo per lo sviluppo del Kosovo, puntare cioè sulla qualificata
formazione dei suoi giovani. Reports di vari organismi
internazionali riportano cifre interessanti.
Il Kosovo ha la popolazione più giovane dell’Europa con un tasso di
crescita demografica di gran lunga superiore alla media europea. I
dati parlano di 50 percento della popolazione sotto i 20 anni di età
ed il 70 percento sotto i 30 anni. É visibilmente sorprendente per
un italiano, abituato a vedere altro, il numero di persone giovani
che popolano le strade kosovare. Quello che appare un punto di
forza, ancor di più perché i giovani in questione hanno avuto la
possibilità in molti casi di usufruire di formazione da parte di
enti internazionali e per la maggior parte parlano diverse lingue
europee, potrebbe però rivelarsi presto un punto di debolezza. In un
paese in cui il tasso di povertà è del 37% (World Bank 2005) e
quello di disoccupazione è fermo al 46,2 percento (ILO 2007),
l’altissimo numero di giovani potrebbe, qualora questi poblemi
macro-economici non venissero affrontati nel breve termine, creare
una questione sociale e di sicurezza interna da non sottovalutare.
Cantine, fabbriche fantasma di
automobili, aziende mai aperte. "Report" indaga sullo scandalo della
legge 488
Che buon
passito, offre lo Stato
E il 60% dei finanziamenti va
perduto
Una legge famigerata, la 488, una rete
di amici (il politico, l'industriale, il consulente commercialista).
Triangolazione perfetta e risultato chiavi in mano: ogni dieci euro
che lo Stato italiano stanzia per finanziarie attività produttive,
sei euro vengono perduti. Frullati da mani amiche, deviati su conti
bancari misteriosi, triangolati e alla fine inghiottiti nel pozzo
senza fondo di imprenditori rapaci, banchieri distratti, consulenti
collusi. La politica, quando non è partecipe, devia l'occhio
altrove. Non sa, e se sa non risponde.
A fondo perduto è il titolo di un severo, raccapricciante reportage
che Milena Gabanelli ha esposto su Report, Raitre. Milioni come
noccioline, capannoni pagati dallo Stato e arrugginiti, imprenditori
calati dal profondo nord e scomparsi. Sembrano storie fantastiche di
bravi romanzieri. Vai in Calabria, e non sai cosa ti perdi. Venti
miliardi per agevolare un'impresa, l'Isotta Fraschini. Costruire
automobili. In quattro anni dal capannone è sbucata solo una
macchina di legno. I soldi inghiottiti, quattro ferraglie
prototipali adagiate in un capannone vuoto e deserto.
Scendono dalla padania leghista e votata al lavoro, gli imprenditori
che si fanno ricchi grazie agli aiuti di Stato. Ventidue milioni di
euro per un'azienda che doveva riciclare metallo. E' stato un
bresciano a fare richiesta. Il "pacco", come quelli illustrati per
gioco in tv da Flavio Insinna, risulta, nella stragrande maggioranza
di casi confezionato dalla sapiente dedizione di valenti
commercialisti, famigerati consulenti, che inviano a Roma, al
ministero dell'Attività produttive, felicissime e concludenti
considerazioni: top management all'altezza, mercato in crescita,
occupazione garantita. Roma, in effetti, ci crede. E ci casca. Ci ha
sempre creduto tanto che i quattro ministri succedutisi (Enrico
Letta, Antonio Marzano, Claudio Scajola e Pierluigi Bersani) hanno
firmato assegni pari a quasi un miliardo di euro. Di questi, secondo
le valutazioni degli inquirenti (Guardia di Finanza e Magistratura)
e le stesse idee che se ne è fatta la commissione Antimafia,
seicento milioni di euro sono stati bruciati: gestiti da incapaci, o
da imprenditori inadempienti o anche, e soprattutto, inghiottiti da
un circuito truffaldino perfettamente organizzato, sostanzialmente
colluso con la classe dirigente.
Se ne è accorto Bersani che la legge 488 è un colabrodo, un aiuto a
chi spreca e non a chi investe. Troppo tardi, si direbbe. E troppo
tardi, bisogna aggiungere, il direttore generale del ministero,
intervistato da Report, si accorge che le banche, che avrebbero un
ruolo di vigilanza attiva nell'erogazione dei fondi, non si
comportano sempre da partners leali dello Stato. Le industrie sono
di carta ma troppo spesso finanziate con soldi veri.
Danno e beffa corrono sullo stesso binario. Nel capannone vuoto,
l'imprenditore (leghista?) esorta l'operaio fantasma: "Non rubare,
piuttosto chiedi!" "Il tuo disordine danneggia tutti". La telecamera
di Report indugia disperata sui cartelli posti alle pareti di una
delle mille truffe di cui è costellato il sud. Calabria, dunque.
Crotone e Gioia Tauro. Ma anche Sicilia, anche Trapani. Dove lo
Stato elargisce soldi per realizzare cantine, in un mercato già
saturo di etichette. E a proposito di etichette: quella della tenuta
Chiarelli, titolare la moglie dell'ex governatore Cuffaro, adagiata
vicino a una bottiglia di un'altra azienda, naturalmente anch'essa
produttrice di vino griffato, dal titolo felicissimo: "Baciamolemani".
E baciamole queste mani. Baciamole e salutiamo il nuovo modello di
sviluppo. Tutti all'opera, tutti gran sommelier, fini intenditori.
Con i soldi dello Stato. Anche il senatore Calogero Mannino,
naturalmente, ne ha approfittato. A Pantelleria la sua famiglia
possiede una bella cantina, finanziata (c'è da dirlo?) con i fondi
dello Stato.
Ah che buon passito!

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