27 marzo

Regione Campania, mazzette all'americana

Spot con mazzetta? Anche sulle attività per promuovere l'immagine della Campania nel mondo spunta l'accusa di corruzione. A partire proprio da quella lussuosa sede di rappresentanza nel cuore di New York che  è sempre apparsa come uno spreco: solo nel 2004 è venuta a costare un milione e centomila euro. I magistrati napoletani hanno arrestato Elio De Rosa, titolare della Cosmofilm: la società che ha vinto l'appalto per la promozione della Regione e ha realizzato i video per le campagne pubblicitarie destinate a sostenere l'immagine della Campania. Il mandato di cattura riguarda le iniziative realizzate dalla Cosmofilm a New York: De Rosa sarebbe accusato di corruzione, associazione per delinquere e frode nelle pubbliche forniture. Con lui sono sotto inchiesta due dirigenti della Regione: l'ex responsabile della sede newyorchese, che si è dimesso dall'incarico dopo l'apertura dell'istruttoria, e l'ex responsabile del settore stampa, entrambi nominati da Antonio Bassolino. Anche in questo caso, c'è da interrogarsi sul silenzio della politica e della cosìdetta società civile di fronte a sprechi manifesti da anni: la Corte dei conti già nel 2005 aveva denunciato le spesi folli dell'ambasciata campana negli States. Eppure i viaggi di rappresentanza dell'assemblea erano proseguiti: nel'ultima delle sue trasferte transatlantiche Sandra Lonardo Mastella riuscì a spendere ben 59 mila euro, vantandosi di averne risparmiati 6 mila rispetto al budget stanziato. Ma il capitolo più impressionante delle accuse riguarda le iniziative assurde finanziate con i soldi dei contribuenti. Spicca la mostra sulla "ceramica artistica di San Lorenzello e dell'intarsio sorrentino" allestita nella Grande Mela nel settembre 2005 con un investimento di 300 mila euro e nessun visitatore. Scrissero due ispettori, mandati dalla stessa Regione: «È un fallimento, non è stata visitata da nessun operatore di settore nè dal pubblico». Perché allora si continuava a consegnare la gestione di questi eventi alla stessa azienda? Una spiegazione secondo i magistrati può venire da quelle consegne che venivano ritirate dall'allora numero uno della comunicazione regionale: «Quanto pattuito, una busta pallinata, tutto sigillato, anonimo». E dentro 10 mila euro in contanti.

 

Adesso che i mercati vanno in tilt, tutti chiedono l'aiuto di Stato

Alessandro Volpi

Da qualche tempo è ricomparso con forza il grande bistrattato. Quasi ovunque infatti sembra non si possa fare a meno della richiesta di aiuto allo Stato, indicato come il solo possibile sollievo, rapido e indolore, nei confronti dei dissesti lasciati dalle crisi dei mercati. La banca inglese Northern Rock, incapace di restituire il gigantesco prestito ponte fattogli dal governo inglese per circa 50 miliardi di dollari e di trovare compratori veri, sarà nazionalizzata per evitare drammatiche ripercussioni sul mercato dei mutui e sulle sorti di moltissimi contraenti di tali contratti in terra anglosassone. Intanto 180 mila azionisti, quelli appunto della Northern Rock, hanno già perso quasi tutto. Ma quello della banca britannica è solo un caso fra i molti della ricomparsa dell'appello all'aiuto di Stato, che ha fatto breccia anche nel cuore di George W. Bush spingendolo ad erogare, ancora per fronteggiare la crisi dei mutui, un contributo pubblico di circa 150 miliardi di dollari. Nella vicina Francia, dove del resto la pratica dell'aiuto di Stato non ha mai perso realmente il suo fascino, la crisi della Société Générale sembra avviata a risoluzione con l'intervento decisivo di un'altra istituzione pubblica, forse della Banque Postale. Anche in Germania massicci aiuti pubblici hanno salvato la banca IKB da un sicuro fallimento.
Quando i mercati eccedono nella loro «euforia creativa» e quando gli strumenti da essi concepiti contribuiscono a spingere il debito delle famiglie fino a farlo divenire pericolosamente pari a 1,5 volte il loro reddito disponibile, come avviene negli Stati Uniti e in Inghilterra, allora la necessità del sostegno del buon vecchio Stato perde i caratteri dell' antiquato e odioso ritorno al passato. Anche le continue iniezioni di liquidità da parte di Federal Reserve e Bce paiono sempre più configurarsi per la loro regolarità come interventi «pubblici» per evitare l'esplosione del debito diffuso; il modello dell'effetto leva, dell'ingegneria finanziaria che distribuisce il rischio vendendolo a centinaia di migliaia di soggetti ignari, delle piramidi simili al fondo Carlyle con 31 dollari di debito per ogni dollaro di attivo sembra incapace di provvedere alla propria manutenzione. Ha quindi bisogno di soccorso, reso indispensabile dal fatto che le nuove dimensioni della finanziarizzazione hanno assunto caratteri sociali.
I titolari di mutui, di pensioni di scorta, di debiti al consumo, di obbligazioni e di carta commerciale dall'incerta sorte rischiano di diventare i veri poveri del futuro e allora lo Stato finanziatore torna a presentarsi come l'unica panacea nonostante sia sempre più chiaro il pericolo inflazionistico della svalutazione. In questo senso, la vera minaccia per l'inflazione non proviene dall'indicizzazione delle retribuzioni dei lavoratori «reali», ma dalla estesa moltitudine dei diseredati finanziari. D'altra parte, se non interviene l'aiuto pubblico «nazionale», si profila l'eventualità sempre più concreta che a «salvare» le economie mature dalle loro difficoltà giungano altri Stati. Solo nel corso dell'ultima estate, i fondi sovrani di proprietà di alcuni governi di paesi emergenti - Cina, Singapore, Kuwait - hanno investito oltre 60 miliardi di dollari per «soccorrere» le grandi banche statunitensi in crisi di liquidità, divenendo spesso detentori di quote decisamente rilevanti.
Nel complesso, stime attendibili valutano in quasi 4 mila miliardi di dollari le disponibilità in mano dei fondi sovrani dei principali paesi esportatori di questo pianeta; un vero e proprio arsenale pronto per essere utilizzato in salvataggi o per sfruttare opportunità spesso dettate dall'emergere di situazioni di crisi. Si profila quindi uno scontro tra due diverse tipologie di intervento statale, nazionale ed estero, in vari settori delle economie mature che saranno messe a dura prova della nuova fase del ciclo internazionale. Certo, se gli aiuti dei fondi sovrani provengono da paesi dove non esiste un sistema democratico le preoccupazioni nei riguardi dei loro effetti non sono infondate e forse l'idea di smantellare del tutto lo «Stato imprenditore» dovrebbe suscitare almeno qualche dubbio se non lo si vuole trasformare in un mero Stato finanziatore, peraltro con poche possibilità di successo visto che le manovre sui tassi hanno esaurito il loro effetto.
*Università di Pisa

 

La ragione dispersa nel vento

Cinque anni di guerra in Iraq

Sono passati cinque anni. Cinque anni di massacri, di bombe calate dall'alto, di bombe portate strette alla pancia, di proiettili vaganti. Cinque anni di torture. Cinque anni di violazione di ogni convenzione possibile. Cinque anni di violazione di ogni logica e di ogni buonsenso.

Forse un milione e mezzo di morti, forse centomila. Non si sa. Segno che è proprio vero, dei morti civili non importa proprio a nessuno. Perché quel che è peggio, nessuno lo vuole sapere. Si conoscono i morti della prima guerra mondiale. Si stimano i morti delle guerre puniche. Quelli iracheni sono un mistero.

Un paese civile, ricco di storia, con una cultura tra le più importanti e vive al mondo è stato trasformato, in cinque anni, in una macelleria che nessuno è più ormai in grado di controllare. 

Per cosa? Perché Saddam Hussein era legato ad Al-Qaeda. Chiunque avesse anche solo un'infarinatura di cose mediorientali sapeva benissimo che questa era una scemenza. Saddam era un macellaio, più o meno come tanti altri che l'occidente ritiene essere fedeli alleati e paladini della democrazia (lo era anche lui, un fedele alleato, peraltro), ma era un laico. Di più, era un difensore del laicismo. Mai e poi mai sarebbe potuto andare d'accordo con chi professa il potere assoluto della religione e delle scritture (no, non stiamo parlando di Benedetto XVI). 

Per portare la democrazia? Anche questa, è evidente a tutti, è una bugia colossale. Cosa importa del fatto che ci sia democrazia o meno nei paesi del mondo? Parliamo di Cina? Parliamo di Arabia Saudita? Parliamo di Filippine? L'elenco delle tirannidi amiche e alleate è molto più lungo di quello delle democrazie compiute.

Se è stata una guerra per le risorse, cosa più probabile, è una guerra persa.

"Il petrolio, dopo l'invasione dell'Iraq, scenderà sotto i 40 dollari al barile", dicevano le marionette che si fan passare per esperti economici. Oggi il petrolio costa 105.5 dollari al barile. E prima che il greggio iracheno possa tornare sotto il controllo occidentale, passeranno altri anni.

In compenso, nel nome di questa guerra, nel mondo adesso si può torturare, la violenza fisica e verbale, è diventata il linguaggio quotidiano con cui è lecito e a volte persino giusto esprimersi.

A farne una analisi attenta e obiettiva, questa guerra a qualche cosa è servita: ci ha fatto scoprire che il faro della democrazia, lo Stato a cui tutti dicevano di ispirarsi, il luogo delle promesse mantenute e delle speranze realizzate, gli Stati Uniti d'America, sono in realtà governati da una banda, che mano a mano che giungono le verità sui loro misfatti, appare sempre più come una accozzaglia di cinici affaristi che non si fa scrupolo nemmeno di commissionare torture ed omicidi pur di raggiungere il suo personale e particolare interesse.

In molti saran saltati sulla sedia, leggendo quella frase. Perché persino a me che scrivo fa impressione. Eppure così è. Tutti sapevano delle menzogne. Ma le hanno dette e ripetute fino a coprirsi di ridicolo. Tutti sapevano che ad Abu Grahib si torturavao i prigionieri. Tutti sapevano e sanno che ci sono decine, forse centinaia di carceri segrete in giro per il mondo dove la tortura è pratica comune.

Eppure, ancora oggi, mentre negli Usa si riflette sulle proprie colpe e sugli errori di una banda di delinquenti e di assassini che ha portato il mondo così vicino alla rovina, nella periferia più scalcinata dell'impero - cioé a casa nostra - c'è ancora chi dice di vedere nel governo statunitense un prezioso alleato. Di più, un amico. Di più, un modello da cui trarre ispirazione.

Io di mio, amici così non ne vorrei.

 

Una crisi nel vuoto

Galapagos

Il capitalismo globale se la passa male e, per l'ex presidente della Fed Alan Greenspan, quella attuale è la peggiore crisi del dopoguerra. Ma in Italia nessuno sembra accorgesene. Basta guardare i programmi elettorali. Il comunismo non sarà all'ordine del giorno, ma in questa fase di crisi di sistema c'è un vuoto di idee e proposte.
Circa 90 anni fa Rosa Luxemburg fece una analisi straordinaria di quella fase di globalizzazione, dell'apertura ai mercati di approvvigionamento di materie prime da parte dei paesi industrializzati e della creazione di mercati di sbocco per la sovraproduzione degli stessi paesi. Negli ultimi anni la situazione si è modificata: i paesi emergenti sono diventati, oltre a un enorme serbatoio di domanda, un fornitore straordinario di prodotti per i paesi del primo mondo. A questo punto la contraddizione della sovraproduzione si è riprodotta.
Con una aggravante: mentre ai tempi dell'Urss il proletario occidentale beneficiava (con il boom dello stato sociale) dei vantaggi della guerra fredda, da anni con l'Urss sparita, lo stato sociale si è progressivamente ridotto, fino quasi ad annullarsi in alcuni paesi nei quali (come gli Usa) regge solo un po' di flexsecurity sotto forma di sussidi di disoccupazione. La crisi attuale nasce proprio dal trionfo della globalizzazione e del liberismo. E non a caso il primo paese nel quale è esplosa sono gli Stati uniti, mentre per ora - a fatica - la vecchia Europa regge.

Collateralmente è esplosa la crisi della finanza che dovrebbe garantire tra l'altro - con i fondi pensione - anche il futuro di centinaia di milioni di persone. Negli ultimi 10 anni la finanza creativa ha conosciuto - senza controlli - un autentico boom: il giro d'affari che movimenta è centinaia di volte superiore al Pil mondiale. Lo è praticamente esentasse con un meccanismo diabolico che consente con pochi spicci di muovere miliardi. La finanza esalta il ciclo economico: quando le cose vanno bene le fa andare ancora meglio, ma quando qualcosa non va, l'economia reale subisce contraccolpi micidiali. Di organismi di controllo ne esistono decine (dalla banche centrali, alle varie autorità tipo la Sec e la Consob) ma la speculazione è andata liscia, negli ultimi anni ha fatto quello che voleva e i risultati sono ora sotto gli occhi di tutti. Insomma, parlare di finanza, significa parlare - più o meno direttamente - di economia reale, della vita delle persone costrette ad accettare i mutui subprime a tassi altissimi per poter comprarsi casa. Senza contare che la crisi della finanza porterà un vecchiaia grama per una moltitudine di futuri pensionati.
Ma torniamo ai programmi e alla politica: si può anche abolire (Berlusconi) l'Ici sulla prima casa, si può ridurre (Veltroni) la pressione fiscale ai lavoratori dipendenti. Ma è inutile se dalla crisi attuale non si matura un'ipotesi «riformista»: questo mondo com'è, è destinato ad andare sempre peggio se non si mettono al primo posto i bisogni fondamentali dei più e non si rilancia un'ipotesi di controllo della produzione e della distribuzione del reddito.

Marco Poggi, infermiere penitenziario, era in servizio in quei tre giorni
Il racconto al pm e un libro sulla vicenda: "Quegli uomini dovevano essere sospesi"

"Io, l'infame della caserma
che ha denunciato quelle torture"

di GIUSEPPE D'AVANZO

<B>"Io, l'infame della caserma<br>che ha denunciato quelle torture"</B>

Marco Poggi

MARCO Poggi, infermiere penitenziario, entrò in servizio a Bolzaneto alle 20 di venerdì 20 luglio 2001 e ci rimase fino alle 15, 15.30 di domenica 22 luglio. "Ho visto picchiare con violenza e ripetutamente i detenuti presenti con schiaffi, pugni, calci, testate contro il muro". "Picchiava la polizia di stato ma soprattutto il "gruppo operativo mobile" e il "nucleo traduzioni" della polizia penitenziaria. Ho visto trascinare un detenuto in bagno, da tre o quattro agenti della "penitenziaria". Gli dicevano: "Devi pisciare, vero?". Una volta arrivati nell'androne del bagno, ho sentito che lo sottoponevano a un vero e proprio linciaggio...".

Marco Poggi dice che sa che cos'è la violenza. "Ci sono cresciuto dentro. Ho "rubato" la terza elementare ai corsi serali delle 150 ore e sono andato infermiere in carcere per buscarmi il mio pezzo di pane. Per anni ho lavorato al carcere della Dozza a Bologna. Un posto mica da ridere. Tossici, ladri di galline, mafiosi, trans, stupratori. La violenza la respiravi come aria, ma quel che ho visto a Bolzaneto in quei giorni non l'avrei mai ritenuto possibile, prima. Alcuni detenuti non capivano come fare le flessioni di routine previste dalla perquisizione di primo ingresso in carcere. Meno capivano e più venivano picchiati a pugni e calci dagli agenti della polizia penitenziaria. Gli ufficiali, i sottufficiali guardavano, ridevano e non intervenivano. Ho visto il medico, vestito con tuta mimetica, anfibi, maglietta blu con stampato sopra il distintivo degli agenti della polizia penitenziaria, togliere un piercing dal naso di una ragazza che era in quel momento sottoposta a visita medica e intanto le diceva: "Sei una brigatista?"".

Marco Poggi è "l'infame di Bolzaneto". Così lo chiamavano alcuni agenti della "penitenziaria" e lui, in risposta, per provocazione, per orgoglio, per sfida, proprio in quel modo - Io, l'infame di Bolzaneto - ha voluto titolare il libro che raccoglie la sua testimonianza. Poggi è stato il primo - tra chi era dall'altra parte - a sentire il dovere di rompere il cerchio del silenzio. "Delle violenze nelle strade di Genova - dice - c'erano le immagini, le foto, i filmati. Tutto è avvenuto alla luce del sole. A Bolzaneto, no. Le violenze, le torture si sono consumate dietro le mura di una caserma, in uno spazio chiuso e protetto, in un ambiente che prometteva impunità. Solo chi l'ha visto, poteva raccontarlo. Solo chi c'era poteva confermare che il racconto di quei ragazzi vittime delle violenze era autentico. Io ero tra quelli. Che dovevo fare, allora? Dopo che sono tornato a casa da Genova, per giorni me ne sono stato zitto, anche con i miei. Io sono un pavido, dico sempre. Ma in quei giorni avevo come un dolore al petto, un sapore di amaro nella bocca quando ascoltavo il bla bla bla dei ministri, le menzogne, la noncuranza e infine le accuse contro quei ragazzi. Non ho studiato - l'ho detto - ma la mia famiglia mi ha insegnato il senso della giustizia. Non ho la fortuna di credere in Dio, ho la fortuna di credere in questa cosa - nella giustizia - e allora mi sono ripetuto che non potevo fare anch'io scena muta come stavano facendo tutti gli altri che erano con me, accanto a me e avevano visto che quel che io avevo visto. Ne ho parlato con i miei e loro mi hanno detto che dovevo fare ciò che credevo giusto perché mi sarebbero stati sempre accanto. E l'ho fatta, la cosa giusta. Interrogato dal magistrato, ho detto quel che avevo visto e non ci ho messo coraggio, come mi dicono ora esagerando. Non sono matto. Ci ho messo, credo, soltanto l'ossequio per lo stato, il rispetto per il mio lavoro e per gli agenti della polizia carceraria - e sono la stragrande maggioranza - che non menano le mani".

Marco Poggi ha pagato il prezzo della sua testimonianza. "Beh! - dice - un po' sì, devo dirlo. Dopo la testimonianza, in carcere mi hanno consigliato - vivamente, per dire così - di lasciare il lavoro. Dicevano che quel posto per me non era più sicuro. Qualcuno si è divertito con la mia auto, rovinandomela. Qualche altro mi ha spedito la mia foto con su scritto: "Te la faremo pagare". Il medico con la mimetica e gli anfibi mi ha denunciato per calunnia. Ma il giudice ha archiviato la mia posizione e con il lavoro mi sono arrangiato con contratti part-time in case di riposo per anziani. Oggi, anche se molti continuano a preoccuparsi della mia integrità più di quanto faccia solitamente la mia famiglia, sono tornato a lavorare in carcere, allo psichiatrico di Castelfranco Emilia. Mi faccio 160 chilometri al giorno, ma va bene così. Sono tutti gentili con me, l'infame di Bolzaneto".

Dice Marco Poggi che "se i reati non ci sono - se la tortura non è ancora un reato - non è che te li puoi inventare". Dice che lui "lo sapeva fin dall'inizio che poi le condanne sarebbero state miti e magari cancellate con la prescrizione". Dice Poggi che però "quel che conta non è la vendetta. La vendetta è sempre oscena. Il direttore del carcere di Bologna Chirolli - una gran brava persona che mi ha insegnato molte cose sul mio lavoro - ci ripeteva sempre che lo Stato ha il dovere di punire e mai il diritto di vendicarsi. Mi sembra che sia una frase da tenere sempre a mente. Voglio dire che importanza ha che quelli di Bolzaneto, i picchiatori, non andranno in carcere? Non è che uno voglia vederli per forza in gabbia. La loro detenzione potrebbe apparire oggi soltanto una vendetta, mi pare. Quel che conta è che siano puniti e che la loro punizione sia monito per altri che, come loro, hanno la tentazione di abusare dell'autorità che hanno in quel luogo nascosto e chiuso che è il carcere, la questura, la caserma. Per come la penso io, la debolezza di questa storia non è nel carcere che quelli non faranno, ma nella sanzione amministrativa che non hanno ancora avuto e che non avranno mai. Che ci vuole a sospenderli da servizio? Non dico per molto. Per una settimana. Per segnare con un buco nero la loro carriera professionale. È questa la mia amarezza: vedere i De Gennaro, i Canterini, i Toccafondi al loro posto, spesso più prestigioso del passato, come se a Genova non fosse accaduto nulla. Io credo che bisogna espellere dal corpo sano i virus della malattia e ricordarsi che qualsiasi corpo si può ammalare se non è assistito con attenzione. Quella piccola minoranza di poliziotti, carabinieri, agenti di polizia penitenziaria, medici che è si abbandonata alle torture di Bolzaneto è il virus che minaccia il corpo sano. Sono i loro comportamenti che hanno creato e possono creare, se impuniti, sfiducia nelle istituzioni, diffidenza per lo Stato. Possono trasformare gli uomini in divisa - tutti, i moltissimi buoni e i pochissimi cattivi - in nemici del cittadino. Non ci vuole molto a comprendere - lo capisco anch'io e non ho studiato - che soltanto se si fa giustizia si potrà restituire alle vittime di Genova, ai giovani che vanno in strada per manifestare le loro idee, fiducia nella democrazia e non rancore e frustrazione. I giudici fanno il loro lavoro, ma devono fare i conti con quel che c'è scritto nei codici, con quel che viene fuori dai processi. Non parlo soltanto dei processi, è chiaro. Parlo della responsabilità della politica. Che cosa ha fatto la politica per sanare le ferite di Genova? Gianfranco Fini, che era al governo in quei giorni, disse che, se fossero emerse delle responsabilità, sarebbero state severamente punite. Perché non ne parla più, ora che quelle responsabilità sono alla luce del sole? Perché Luciano Violante si oppose alla commissione parlamentare d'inchiesta? Dopo sette anni questa pagina nera rischia di chiudersi con una notizia di cronaca che dà conto di una sentenza di condanna, peraltro inefficace, senza che la politica abbia fatto alcuno sforzo per riconciliare lo Stato e le istituzioni con i suoi giovani. Ecco quel che penso, e temo".

 

Oggi la caserma non è più quella di allora: cancellati i "luoghi della vergogna"
Manganellate, minacce, umiliazioni: tutto ricostruito al processo da più di 300 testimoni

Le violenze impunite del lager Bolzaneto

<B>Le violenze impunite<br>del lager Bolzaneto  </B>

di GIUSEPPE D'AVANZO
C'ERA anche un carabiniere "buono", quel giorno. Molti "prigionieri" lo ricordano. "Giovanissimo". Più o meno ventenne, forse "di leva". Altri l'hanno in mente con qualche anno in più. In tre giorni di "sospensione dei diritti umani", ci sono stati dunque al più due uomini compassionevoli a Bolzaneto, tra decine e decine di poliziotti, carabinieri, guardie di custodia, poliziotti carcerari, generali, ufficiali, vicequestori, medici e infermieri dell'amministrazione penitenziaria. Appena poteva, il carabiniere "buono" diceva ai "prigionieri" di abbassare le braccia, di levare la faccia dal muro, di sedersi. Distribuiva la bottiglia dell'acqua, se ne aveva una a disposizione. Il ristoro durava qualche minuto. Il primo ufficiale di passaggio sgridava con durezza il carabiniere tontolone e di buon cuore, e la tortura dei prigionieri riprendeva.

Tortura. Non è una formula impropria o sovrattono. Due anni di processo a Genova hanno documentato - contro i 45 imputati - che cosa è accaduto a Bolzaneto, nella caserma Nino Bixio del reparto mobile della polizia di Stato nei giorni del G8, tra venerdì 20 e domenica 22 luglio 2001, a 55 "fermati" e 252 arrestati. Uomini e donne. Vecchi e giovani. Ragazzi e ragazze. Un minorenne. Di ogni nazionalità e occupazione; spagnoli, greci, francesi, tedeschi, svizzeri, inglesi, neozelandesi, tre statunitensi, un lituano.

Studenti soprattutto e disoccupati, impiegati, operai, ma anche professionisti di ogni genere (un avvocato, un giornalista...). I pubblici ministeri Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati hanno detto, nella loro requisitoria, che "soltanto un criterio prudenziale" impedisce di parlare di tortura. Certo, "alla tortura si è andato molto vicini", ma l'accusa si è dovuta dichiarare impotente a tradurre in reato e pena le responsabilità che hanno documentato con la testimonianza delle 326 persone ascoltate in aula.

Il reato di tortura in Italia non c'è, non esiste. Il Parlamento non ha trovato mai il tempo - né avvertito il dovere in venti anni - di adeguare il nostro codice al diritto internazionale dei diritti umani, alla Convenzione dell'Onu contro la tortura, ratificata dal nostro Paese nel 1988. Esistono soltanto reatucci d'uso corrente da gettare in faccia agli imputati: l'abuso di ufficio, l'abuso di autorità contro arrestati o detenuti, la violenza privata. Pene dai sei mesi ai tre anni che ricadono nell'indulto (nessuna detenzione, quindi) e colpe che, tra dieci mesi (gennaio 2009), saranno prescritte (i tempi della prescrizione sono determinati con la pena prevista dal reato).

Come una goccia sul vetro, penosamente, le violenze di Bolzaneto scivoleranno via con una sostanziale impunità e, quel che è peggio, possono non lasciare né un segno visibile nel discorso pubblico né, contro i colpevoli, alcun provvedimento delle amministrazioni coinvolte in quella vergogna. Il vuoto legislativo consentirà a tutti di dimenticare che la tortura non è cosa "degli altri", di quelli che pensiamo essere "peggio di noi". Quel "buco" ci permetterà di trascurare che la tortura ci può appartenere. Che - per tre giorni - ci è già appartenuta.

Nella prima Magna Carta - 1225 - c'era scritto: "Nessun uomo libero sarà arrestato, imprigionato, spossessato della sua indipendenza, messo fuori legge, esiliato, molestato in qualsiasi modo e noi non metteremo mano su di lui se non in virtù di un giudizio dei suoi pari e secondo la legge del paese". Nella nostra Costituzione, 1947, all'articolo 13 si legge: "La libertà personale è inviolabile. È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà"

La caserma di Bolzaneto oggi non è più quella di ieri. Con un'accorta gestione, si sono voluti cancellare i "luoghi della vergogna", modificarne anche gli spazi, aprire le porte alla città, alle autorità cittadine, civili, militari, religiose coltivando l'idea di farne un "Centro della Memoria" a ricordo delle vittime dei soprusi. C'è un campo da gioco nel cortile dove, disposti su due file, i "carcerieri" accompagnavano l'arrivo dei detenuti con sputi, insulti, ceffoni, calci, filastrocche come "Chi è lo Stato? La polizia! Chi è il capo? Mussolini!", cori di "Benvenuti ad Auschwitz".

Dov'era il famigerato "ufficio matricole" c'è ora una cappella inaugurata dal cardinale Tarcisio Bertone e nei corridoi, dove nel 2001 risuonavano grida come "Morte agli ebrei!", ha trovato posto una biblioteca intitolata a Giovanni Palatucci, ultimo questore di Fiume italiana, ucciso nel campo di concentramento di Dachau per aver salvato la vita a 5000 ebrei.

Quel giorno, era venerdì 20 luglio, l'ambiente è diverso e il clima di piombo. Dopo il cancello e l'ampio cortile, i prigionieri sono sospinti verso il corpo di fabbrica che ospita la palestra. Ci sono tre o quattro scalini e un corridoio centrale lungo cinquanta metri. È qui il garage Olimpo. Sul corridoio si aprono tre stanze, una sulla sinistra, due sulla destra, un solo bagno. Si è identificati e fotografati. Si è costretti a firmare un prestampato che attesta di non aver voluto chiamare la famiglia, avvertire un avvocato. O il consolato, se stranieri (agli stranieri non si offre la traduzione del testo).

A una donna, che protesta e non vuole firmare, è mostrata la foto dei figli. Le viene detto: "Allora, non li vuoi vedere tanto presto...". A un'altra che invoca i suoi diritti, le tagliano ciocche di capelli. Anche H. T. chiede l'avvocato. Minacciano di "tagliarle la gola". M. D. si ritrova di fronte un agente della sua città. Le parla in dialetto. Le chiede dove abita. Le dice: "Vengo a trovarti, sai". Poi, si è accompagnati in infermeria dove i medici devono accertare se i detenuti hanno o meno bisogno di cure ospedaliere. In un angolo si è, prima, perquisiti - gli oggetti strappati via a forza, gettati in terra - e denudati dopo. Nudi, si è costretti a fare delle flessioni "per accertare la presenza di oggetti nelle cavità".

Nessuno sa ancora dire quanti sono stati i "prigionieri" di quei tre giorni e i numeri che si raccolgono - 55 "fermati", 252 "arrestati" - sono approssimativi. Meno imprecisi i "tempi di permanenza nella struttura". Dodici ore in media per chi ha avuto la "fortuna" di entrarvi il venerdì. Sabato la prigionia "media" - prima del trasferimento nelle carceri di Alessandria, Pavia, Vercelli, Voghera - è durata venti ore. Diventate trentatré la domenica quando nella notte tra 1.30 e le 3.00 arrivano quelli della Diaz, contrassegnati all'ingresso nel cortile con un segno di pennarello rosso (o verde) sulla guancia.

È saltato fuori durante il processo che la polizia penitenziaria ha un gergo per definire le "posizioni vessatorie di stazionamento o di attesa". La "posizione del cigno" - in piedi, gambe divaricate, braccia alzate, faccia al muro - è inflitta nel cortile per ore, nel caldo di quei giorni, nell'attesa di poter entrare "alla matricola". Superati gli scalini dell'atrio, bisogna ancora attendere nelle celle e nella palestra con varianti della "posizione" peggiori, se possibile. In ginocchio contro il muro con i polsi ammanettati con laccetti dietro la schiena o nella "posizione della ballerina", in punta di piedi.

Nelle celle, tutti sono picchiati. Manganellate ai fianchi. Schiaffi alla testa. La testa spinta contro il muro. Tutti sono insultati: alle donne gridato "entro stasera vi scoperemo tutte"; agli uomini, "sei un gay o un comunista?" Altri sono stati costretti a latrare come cani o ragliare come asini; a urlare: "viva il duce", "viva la polizia penitenziaria". C'è chi viene picchiato con stracci bagnati; chi sui genitali con un salame, mentre steso sulla schiena è costretto a tenere le gambe aperte e in alto: G. ne ricaverà un "trauma testicolare". C'è chi subisce lo spruzzo del gas urticante-asfissiante. Chi patisce lo spappolamento della milza. A.

D. arriva nello stanzone con una frattura al piede. Non riesce a stare nella "posizione della ballerina". Lo picchiano con manganello. Gli fratturano le costole. Sviene. Quando ritorna in sé e si lamenta, lo minacciano "di rompergli anche l'altro piede". Poi, gli innaffiano il viso con gas urticante mentre gli gridano. "Comunista di merda". C'è chi ricorda un ragazzo poliomielitico che implora gli aguzzini di "non picchiarlo sulla gamba buona". I. M. T. lo arrestano alla Diaz. Gli viene messo in testa un berrettino con una falce e un pene al posto del martello. Ogni volta che prova a toglierselo, lo picchiano. B. B. è in piedi.

Gli sbattono la testa contro la grata della finestra. Lo denudano. Gli ordinano di fare dieci flessioni e intanto, mentre lo picchiano ancora, un carabiniere gli grida: "Ti piace il manganello, vuoi provarne uno?". S. D. lo percuotono "con strizzate ai testicoli e colpi ai piedi". A. F. viene schiacciata contro un muro. Le gridano: "Troia, devi fare pompini a tutti", "Ora vi portiamo nei furgoni e vi stupriamo tutte". S. P. viene condotto in un'altra stanza, deserta. Lo costringono a denudarsi. Lo mettono in posizione fetale e, da questa posizione, lo obbligano a fare una trentina di salti mentre due agenti della polizia penitenziaria lo schiaffeggiano. J. H. viene picchiato e insultato con sgambetti e sputi nel corridoio. Alla perquisizione, è costretto a spogliarsi nudo e "a sollevare il pene mostrandolo agli agenti seduti alla scrivania". J. S., lo ustionano con un accendino.

Ogni trasferimento ha la sua "posizione vessatoria di transito", con la testa schiacciata verso il basso, in alcuni casi con la pressione degli agenti sulla testa, o camminando curvi con le mani tese dietro la schiena. Il passaggio nel corridoio è un supplizio, una forca caudina. C'è un doppia fila di divise grigio-verdi e blu. Si viene percossi, minacciati.

In infermeria non va meglio. È in infermeria che avvengono le doppie perquisizioni, una della polizia di Stato, l'altra della polizia penitenziaria. I detenuti sono spogliati. Le donne sono costrette a restare a lungo nude dinanzi a cinque, sei agenti della polizia penitenziaria. Dinanzi a loro, sghignazzanti, si svolgono tutte le operazioni. Umilianti. Ricorda il pubblico ministero: "I piercing venivano rimossi in maniera brutale. Una ragazza è stata costretta a rimuovere il suo piercing vaginale con le mestruazioni dinanzi a quattro, cinque persone". Durante la visita si sprecano le battute offensive, le risate, gli scherni.

 P. B., operaio di Brescia, lo minacciano di sodomizzazione. Durante la perquisizione gli trovano un preservativo. Gli dicono: "E che te ne fai, tanto i comunisti sono tutti froci". Poi un'agente donna gli si avvicina e gli dice: "È carino però, me lo farei". Le donne, in infermeria, sono costrette a restare nude per un tempo superiore al necessario e obbligate a girare su se stesse per tre o quattro volte. Il peggio avviene nell'unico bagno con cesso alla turca, trasformato in sala di tortura e terrore. La porta del cubicolo è aperta e i prigionieri devono sbrigare i bisogni dinanzi all'accompagnatore. Che sono spesso più d'uno e ne approfittano per "divertirsi" un po'.

Umiliano i malcapitati, le malcapitate. Alcune donne hanno bisogno di assorbenti. Per tutta risposta viene lanciata della carta da giornale appallottolata. M., una donna avanti con gli anni, strappa una maglietta, "arrangiandosi così". A. K. ha una mascella rotta. L'accompagnano in bagno. Mentre è accovacciata, la spingono in terra. E. P. viene percossa nel breve tragitto nel corridoio, dalla cella al bagno, dopo che le hanno chiesto "se è incinta". Nel bagno, la insultano ("troia", "puttana"), le schiacciano la testa nel cesso, le dicono: "Che bel culo che hai", "Ti piace il manganello".

Chi è nello stanzone osserva il ritorno di chi è stato in bagno. Tutti piangono, alcuni hanno ferite che prima non avevano. Molti rinunciano allora a chiedere di poter raggiungere il cesso. Se la fanno sotto, lì, nelle celle, nella palestra. Saranno però picchiati in infermeria perché "puzzano" dinanzi a medici che non muovono un'obiezione. Anche il medico che dirige le operazioni il venerdì è stato "strattonato e spinto".

Il giorno dopo, per farsi riconoscere, arriva con il pantalone della mimetica, la maglietta della polizia penitenziaria, la pistola nella cintura, gli anfibi ai piedi, guanti di pelle nera con cui farà poi il suo lavoro liquidando i prigionieri visitati con "questo è pronto per la gabbia". Nel suo lavoro, come gli altri, non indosserà mai il camice bianco. È il medico che organizza una personale collezione di "trofei" con gli oggetti strappati ai "prigionieri": monili, anelli, orecchini, "indumenti particolari". È il medico che deve curare L. K.

A L. K. hanno spruzzato sul viso del gas urticante. Vomita sangue. Sviene. Rinviene sul lettino con la maschera ad ossigeno. Stanno preparando un'iniezione. Chiede: "Che cos'è?". Il medico risponde: "Non ti fidi di me? E allora vai a morire in cella!". G. A. si stava facendo medicare al San Martino le ferite riportate in via Tolemaide quando lo trasferiscono a Bolzaneto. All'arrivo, lo picchiano contro un muretto. Gli agenti sono adrenalinici. Dicono che c'è un carabiniere morto. Un poliziotto gli prende allora la mano. Ne divarica le dita con due mani. Tira. Tira dai due lati. Gli spacca la mano in due "fino all'osso". G. A. sviene. Rinviene in infermeria. Un medico gli ricuce la mano senza anestesia. G. A. ha molto dolore. Chiede "qualcosa". Gli danno uno straccio da mordere. Il medico gli dice di non urlare.

Per i pubblici ministeri, "i medici erano consapevoli di quanto stava accadendo, erano in grado di valutare la gravità dei fatti e hanno omesso di intervenire pur potendolo fare, hanno permesso che quel trattamento inumano e degradante continuasse in infermeria".

Non c'è ancora un esito per questo processo (arriverà alla vigilia dell'estate). La sentenza definirà le responsabilità personali e le pene per chi sarà condannato. I fatti ricostruiti dal dibattimento, però, non sono più controversi. Sono accertati, documentati, provati. E raccontano che, per tre giorni, la nostra democrazia ha superato quella sempre sottile ma indistruttibile linea di confine che protegge la dignità della persona e i suoi diritti. È un'osservazione che già dovrebbe inquietare se non fosse che - ha ragione Marco Revelli a stupirsene - l'indifferenza dell'opinione pubblica, l'apatia del ceto politico, la noncuranza delle amministrazioni pubbliche che si sono macchiate di quei crimini appaiono, se possibile, ancora più minacciose delle torture di Bolzaneto.

Possono davvero dimenticare - le istituzioni dello Stato, chi le governa, chi ne è governato - che per settantadue ore, in una caserma diventata lager, il corpo e la "dimensione dell'umano" di 307 uomini e donne sono stati sequestrati, umiliati, violentati? Possiamo davvero far finta di niente e tirare avanti senza un fiato, come se i nostri vizi non fossero ciclici e non si ripetessero sempre "con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l'etica, con l'identica allergia alla coerenza"?

 

La protesta dell'idrante

Antincendio 'non a norma': chiusa l'Università Europea di San Pietroburgo
Prosegue l'attacco del Cremlino alle istituzioni culturali finanziate dall'Occidente. L'università europea di San Pietroburgo è stata costretta, ormai un mese fa, a sospendere gli insegnamenti dopo che le autorità cittadine hanno riscontrato che il sistema antincendio 'non era a norma'. Un palese pretesto per attaccare un'istituzione accademica rinomata e autorevole ma, purtroppo, finanziata dall'Occidente.

L'Università Europea a San PietroburgoCampagna digitale. La strenua battaglia che accademici e studenti stanno combattendo contro la decisione ha colto letteralmente di sorpresa il Cremlino. Oltre alle consuete proteste per strada, con picchetti e manifestazioni di fronte all'università, professori e studenti hanno lanciato una massiccia campagna in internet. Ilya Utekhin, docente di antropologia, ha postato i suoi video in un blog per documentare le attività di protesta. Nei video, girati il 29 febbraio e il 7 marzo, sono ripresi gli studenti che - per farsi beffe dell'assurdo pretesto - hanno portato un idrante dall'edificio universitario fino alla statua dello scienziato Michail Lomonosov (http://www.fontanka.ru/2008/02/29/031/), considerato il padre dell'istruzione superiore in Russia.
 
La protesta dell'idranteNelle mani occidentali. Lo scorso anno l'università aveva accettato 673 mila euro dall'Unione Europea per un progetto di 'consulenza' ai partiti politici russi in vista delle elezioni. La finalità del progetto era informare i partiti su come garantire che le elezioni si svolgessero correttamente. A ottobre Putin sferrò un attacco al vetriolo contro l'Università Europea, accusandola di essere un'agente degli 'intrallazzi occidentali'. Alla fine di gennaio, il Consiglio accademico fu costretto a piegarsi alle pressioni del Cremlino e dovette abbandonare il progetto. Nel corso dei suoi due mandati, l'ex presidente russo ha lanciato numerosi attacchi contro organizzazioni non governative, gruppi per la tutela dei diritti umani, piccoli partiti di opposizione: tutti accusati di essere strumenti occidentali e traditori del loro Paese.
 
La statua d LomonosovVideo-burla. Fino ad oggi, il settore dell'istruzione universitaria era stato ignorato dalla mano pesante del regime, e gli accademici avevano un certo grado di autonomia nell'insegnamento, nella selezione degli studenti e nella ricerca. Adesso, neanche le università sono più un'eccezione. Ma a San Pietroburgo gli universitari e i loro professori hanno continuato ad alimentare la protesta per tutto il mese, soprattutto sul blog. Un altro video mostra il rettore dell'istituto, Boris Vakhtin, che si burla delle motivazioni che hanno portato alla chiusura: "La cosa più eclatante - spiega il rettore - è che l'ateneo avrebbe acconsentito alla costruzione di una scala a chiocciola che ostruisce le uscite antincendio. Forse non si sono accorti che la scala è stata costruita nel 1881".

 

I vescovi italiani dicono che non si schierano, ma poi promuovono il test dei valori per l'elettore cattolico contro vecchi e nuovi diritti di libertà. E' l'ultima ed inaccettabile ingerenza La Cei precetta il voto cattolico

Contro donne, gay e unioni civili

Anubi D'Avossa Lussurgiu

Ieri il consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana ha diramato un comunicato. Vi si legge che, non potendosi certo ammettere una «diaspora culturale dei cattolici», essi debbono adoprarsi contro il «rischio di scelte politiche e legislative che contraddicono fondamentali valori e principi antropologici ed etici radicati nella natura dell'essere umano, in particolare riguardo alla tutela della vita umana in tutte le sue fasi e alla promozione della famiglia fondata sul matrimonio». Precisamente «evitando di introdurre nell'ordinamento pubblico altre forme di unione che contribuirebbero a destabilizzarla».
Dunque, i vescovi di Santa Romana Chiesa Cattolica e Apostolica hanno trovato il modo di rivendicare in piena campagna elettorale il blocco di ogni riconoscimento delle unioni di fatto. E non sfugge all'indirizzo lanciato dai vescovi all'elettorato l'insieme di questioni che vanno sotto l'apodittico titolo di «tutela della vita umana», così rivendicando altri ostruzionismi ottenuti nel Parlamento uscente (e nel governo): come quelli che hanno bloccato ogni iniziativa di superamento della legge 40 sulla "procreazione assisistita" e ogni accenno di testamento biologico.
Né si frena l'offensiva reazionaria contro la libertà delle donne, a partire da quella di scelta sulla maternità. Al punto che il segretario generale della Cei monsignor Giuseppe Betori ha elargito questa luminosa sentenza: «Il no netto all'aborto da sempre ha fatto la differenza, per i cristiani, rispetto alla società». Addirittura «dal primo secolo». E pensare si credeva una certa differenza «rispetto alla società» l'avessero stabilitea piuttosto le Beatitudini di Gesù di Nazareth...
Ma Betori fa sul serio e giunge a citare «le ruote» dei conventi dove si accoglievano i neonati delle madri povere e/o "reiette": per lui «hanno espresso e possono esprimere ancora oggi un modo per venire incontro alle esigenze delle donne». Esigenze che, evidentemente, sono ben chiare al sacerdozio maschile cattolico.
Tutto questo, però, è servito al monsignore ad uno scopo ben più prosaico. Poter dire cioè che la Curia dubita che «il problema dell'aborto possa essere risolto solo in chiave sociale, sia con una legge, sia attraverso espressioni politiche». E che però «tutto può essere d'aiuto per pronunciare un no all'aborto, in questo momento». Pur velata e vescovilmente paludata, è finalmente giunta l'agognata benedizione attesa da Giuliano Ferrara per la sua lista.
Ora: visto che notoriamente l'ingerenza delle gerarchie d'oltretevere nelle decisioni della Repubblica è uno «spettro» del «vetero-laicismo», ci si dovrà pur stupire della spettralità della politica dominante. Perché solo silenzi e plausi sono venuti, oltre che dall'Udc, sia dal Pdl sia dal Pd. Ad allarmarsi, oltre il solito e meritevole Grillini, è solo la sinistra: con il solo segretario del Prc, Franco Giordano, a parlare di «precettazione» del «mondo cattolico» e di «tentativo di condizionare pesantemente le scelte dello Stato laico». Che per gli altri, forse, non merita più di un Amen.

17 marzo

Chi paga i partiti

di Primo Di Nicola e Marco Lillo

I milioni di Forza Italia a Dc, Mussolini e De Gregorio. I fondi ai ministri di Prodi. Le lobby trasversali e le coop. Tutta la politica euro per euro

Alla faccia della gratitudine. Il ministro dello Sviluppo economico Pier Luigi Bersani alla vigilia della storica decisione sulla cessione di Alitalia se ne è uscito con un sorprendente assist alla compagnia Air France concorrente dell'abruzzese volante Carlo Toto: "L'italianità non è indispensabile". Ci deve essere rimasto davvero male il patron di Air One ripensando a quel bell'assegno da 40 mila euro staccato a favore del futuro ministro durante la campagna elettorale del 2006. Sperava di aver trovato in Bersani un paladino dei suoi interessi imprenditoriali, ne ha ricavato invece una cocente delusione.

Ben diverso il comportamento di Roberto Ulivi, deputato di An, farmacista di professione, che ha incassato 10 mila euro proprio dalla Federazione nazionale dei titolari di farmacie (Federfarma) e altri 8 mila dalle associazioni territoriali di Firenze e Pistoia. Lui in difesa della categoria che lo aveva finanziato si è battuto come un leone, con interrogazioni e interventi contro le liberalizzazioni avviate dallo stesso Bersani per consentire la vendita di medicinali nei supermercati. "Ma quale liberalizzazione, questa è una cambiale pagata alla grande distribuzione", ha tuonato Ulivi, "in modo particolare alle Coop". Sospetti esagerati? Sta di fatto che proprio dalle cooperative Bersani riceve altri lauti finanziamenti: 35 mila euro dalla bolognese Manutencoop e 49 mila dal Consorzio nazionale servizi, sempre di Bologna.

Ecco le sorprese che spuntano sfogliando la documentazione relativa ai finanziamenti concessi da privati e aziende a uomini politici e partiti dal primo gennaio del 2006 a oggi, compresi quelli per la campagna elettorale di due anni fa. Esaminando queste carte è possibile ricostruire una mappa dei legami tra politici e imprenditori e comprendere meglio quali lobby si muovono talvolta dietro le scelte legislative e di governo. Non solo: quell'archivio di sigle e numeri custodito con tanta riservatezza dagli uffici del Parlamento (che non ne rilascia copia informatica a nessuno) aiuta a capire meglio anche i rapporti economici che corrono tra le diverse forze politiche.

 

Forza nani

Il tesoro che i partiti italiani si spartiscono è rappresentato anzitutto dalla pioggia dei rimborsi elettorali, introdotti nonostante il 90 per cento degli italiani, con il referendum del 1993, si sia dichiarato contrario al finanziamento pubblico dei partiti. Partecipa all'abbuffata solo chi ha superato la soglia dell'1 per cento alle elezioni e riceve un rimborso proporzionale ai voti ricevuti: 1 euro per ogni cittadino iscritto nelle liste elettorali. Complessivamente fanno 50 milioni di euro all'anno per la Camera e altrettanti per il Senato. Una legislatura costa circa 500 milioni di euro.

E chi non ha partecipato con il proprio simbolo alle elezioni, dissolvendosi magari in liste più ampie per superare le soglie di sbarramento? Come si finanziano questi piccoli partiti? Ci pensano i grandi. Emblematico il caso di Forza Italia, che negli ultimi due anni ha foraggiato Azione sociale, il movimento fondato da Alessandra Mussolini nel 2004, dopo che Fini aveva definito il nonno Benito "il male assoluto del XX secolo". In due anni la Mussolini ha avuto dal Cavaliere ben 673 mila euro.

Non basta: il partito di Berlusconi ha finanziato anche la Democrazia cristiana di Gianfranco Rotondi (220 mila euro); la Federazione dei Verdi Verdi (130 mila) apparentata alla Casa delle libertà per togliere voti agli ambientalisti di Alfonso Pecoraro Scanio; il Nuovo Psi di Gianni De Michelis (2 milioni di euro); il Partito repubblicano di Francesco Nucara (90 mila euro); i Riformatori liberali di Benedetto Della Vedova (450 mila) e gli Italiani nel mondo (700 mila euro). Il movimento del senatore Sergio De Gregorio, eletto con l'Italia dei valori di Di Pietro, è passato al centrodestra con in mano un contratto nel quale Forza Italia si impegnava a fornire sostegno economico.

I big spender
In questo clima da campagna acquisti è inevitabile che qualcuno maligni di fronte al contributo versato al partito di Lamberto Dini da un amico di Paolo Berlusconi. Si chiama Davide Cincotti e la scorsa estate era ospite nella villa del Berluschino in Costa Smeralda. Quando in autunno Dini inizia a flirtare con il Cavaliere in vista dell'approdo nel centrodestra, improvvisamente Cincotti scopre la sua passione per Rinnovamento Italiano. Al partito di Dini questo imprenditore di Battipaglia con interessi in Sardegna, dove sta per costruire un porticciolo alla Maddalena, tra dicembre e gennaio versa ben 295 mila euro. Niente male se si pensa che nella classifica dei donatori-imprenditori Cincotti è battuto solo da Giovanni Arvedi, il re dell'acciaio cremonese che ha donato a Fi 300 mila euro nel novembre scorso. E che ora annuncia a 'L'espresso': "Ho appena versato altri 300 mila euro al Partito democratico per essere equidistante".

Lobby inossidabile
Gli imprenditori dell'acciaio sono poco popolari nel Paese per la dura condizione delle fabbriche e i frequenti incidenti sul lavoro, ma sono amatissimi nel Palazzo dove cercano una sponda in entrambi gli schieramenti. La piemontese Tubosider e la ligure Transider hanno finanziato Fi rispettivamente con 50 mila e 75 mila euro, Umberto Bossi ha ricevuto un piccolo contributo dalla Oiki di Parma, mentre il gruppo Riva, mediante le due controllate Riva Fire e Ilva, ha dato a Forza Italia ben 245 mila euro e altri 98 mila al solito Bersani. Il ministro dello Sviluppo economico è un asso pigliatutto: per la campagna elettorale del 2006 da solo ha collezionato oltre 480 mila euro di contributi. Più del doppio di Marco Minniti, altra star del partito, che ha avuto come primo finanziatore la società Leat del gruppo Vitrociset con 50 mila euro.

Finanziatori bipartisan
L'associazione di categoria Federacciai è "attentissima", come recita lo statuto, "a promuovere le politiche economiche volte a risolvere le criticità del settore" e per questo ha finanziato ecumenicamente quasi tutti gli ultimi titolari del dicastero delle Attività produttive (che prima si chiamava Industria e ora Sviluppo economico). A Bersani ha dato 50 mila euro; stessa cifra all'ex viceministro di destra Adolfo Urso, mentre al predecessore di entrambi, Enrico Letta, ora sottosegretario a Palazzo Chigi, sono andati 30 mila euro.

Altro assertore della tattica dell''equivicinanza' è Carlo Toto: il patron di Air One sa bene che per volare sicuro c'è bisogno di oliare sia l'ala sinistra che quella destra. Così, dopo avere finanziato Bersani, Minniti (30 mila euro) e il dipietrista Egidio Pedrini (5 mila) ha pensato bene di mettersi al sicuro anche con Fi, alla quale ha elargito 50 mila euro. Cifre più modeste, ma identica filosofia, per l'associazione dei produttori delle macchine utensili Ucimu (5 mila a Bersani, altrettanti a Urso) e per il Comitato nazionale caccia e natura, che finanzia Bersani con 15 mila euro ma non dimentica il solito Urso (12 mila) e nemmeno il berlusconiano Carlo Giovanardi, destinatario di altri 5 mila euro.

Finanziatori faziosi
Chi non teme di lasciare trasparire le proprie simpatie sono invece i farmacisti di Federfarma: oltre a Ulivi di An finanziano infatti anche Guido Crosetto di Fi (5 mila) e Maurizio Gasparri di An (10 mila). Al massimo i farmacisti si spingono ad aiutare (con 5 mila euro) un moderato di centrosinistra come Giuseppe Astorre dell'Idv. Decisamente orientato a sinistra invece il gruppo immobiliare Romeo. La società che ha gestito buona parte delle cartolarizzazioni delle case pubbliche e che ha vinto la maxi gara per tappare le buche stradali di Roma, predilige gli ex diessini, da Gianni Cuperlo a Umberto Ranieri, e Silvio Sircana, il portavoce di Romano Prodi. La cifra non è da capogiro, appena 5 mila euro a testa, e diventa ancora più piccina se confrontata con quella stanziata da FrancescoGaetano Caltagirone, costruttore ed editore del 'Messaggero', che riserva le sue elargizioni esclusivamente all'Udc, il partito di Pier Ferdinando Casini, marito della figlia Azzurra.

In due anni la famiglia Caltagirone ha regalato alla creatura del leader centrista 900 mila euro, frazionando i versamenti in nove tranche da 100 mila. Hanno contribuito nell'ordine Francesco, Gaetano, Francesco Gaetano e la moglie Luisa Farinon più cinque società del gruppo. Una potenza di fuoco che l'ex compagno di partito, Marco Follini, si sogna. Anche se pure lui ha un immobiliarista nella manica: il gruppo Statuto, mediante la società Colli Aminei ha donato al transfuga dall'Udc al Pd ben 70 mila euro.

Finanziatori organici
Ci sono poi gli imprenditori e i professionisti prestati alla politica che foraggiano il proprio partito. Il secondo finanziatore dell'Udc è per esempio l'europarlamentare Vito Bonsignore. Democristiano di lungo corso, poi imprenditore con il pallino delle autostrade, Bonsignore ha versato 220 mila euro all'Udc del Lazio e del Piemonte, più altri 250 mila nelle casse nazionali mediante la sua finanziaria Mec, che ha pagato anche i voli del suo padrone politico: dal primo febbraio al 31 dicembre del 2007 Bonsignore ha totalizzato voli per 200 mila euro, poco meno di mille euro al giorno.

Altrettanto munifica è stata la radicale Cecilia Maria Angioletti, commercialista e amministratrice delle società del partito che ha versato 121 mila euro alla Rosa nel pugno e altri 236 mila alla Lista Pannella. L'associazione Iniziativa subalpina dell'avvocato Michele Vietti ha finanziato l'Udc piemontese con 159 mila euro, mentre l'avvocato Angelo Piazza ha pagato 142 mila euro al suo partito, lo Sdi. L'imprenditore Sergio Abramo, ex sindaco di Catanzaro per Forza Italia e candidato alla presidenza della Regione senza successo, ha versato a Fi 50 mila euro mediante la società di famiglia Sqa. Generoso si rivela pure Giuseppe Mussari, presidente del Monte Paschi di Siena, diessino di lungo corso e finanziatore dei Ds cittadini con 160 mila euro.

Contributi off shore
La palma del finanziamento più misterioso spetta invece a Maurizio Gasparri. L'ex ministro delle Comunicazioni nell'ultima campagna elettorale ha dichiarato un introito dalla Svizzera di 19 mila e 900 euro dalla società Satyricon Services. "È un versamento della società telefonica israeliana Telit", spiega Gasparri che aggiunge: "Sono in ottimi rapporti con loro e mi hanno anche nominato nel board. Non conosco la Satyricon, ma penso l'abbiano usata per logiche interne al gruppo". Tra i finanziatori di Gasparri si contano pure gli amici Alessandro Iachia e Maurizio Momi, produttori di una fiction per la Rai dal titolo politicamente coerente: 'La fiamma nel ghiaccio'.

Ignazio La Russa
Il suo collega Ignazio La Russa invece ne ha avuti 15 mila da Tosinvest. Anche l'Udc ha un finanziatore misterioso: la lussemburghese Energex Engineering. Nel 2006 ha speso 77 mila euro per mettere a disposizione dell'Udc voli gratis. E nel 2002 ne aveva pagati altri 251 mila per la stessa causale. L'ufficio stampa del partito non sa chi sia il padrone di questa società né chi abbia usato i suoi servigi.

Tutte le Autostrade portano a Roma
Le società più generose sono le concessionarie autostradali. I manager non dimenticano che il futuro dei loro bilanci dipende dalle tariffe che saranno fissate tra qualche anno, quando magari al governo potrebbe esserci chi oggi è all'opposizione. Per questo l'approccio alla politica è assolutamente bipartisan. Autostrade del gruppo Benetton ha finanziato con 150 mila euro ciascuno Margherita, Ds, Fi, An, Udc, Lega e persino il Comitato per Prodi 2006, mentre Mastella si è dovuto accontentare di 50 mila. Per non essere da meno il concorrente dei Benetton, Marcellino Gavio, ha finanziato con diverse società del suo gruppo sia Prodi (100 mila euro), sia Forza Italia (50 mila euro) senza trascurare l'Udc: 100 mila euro.

Diamoci all'ippica
Un'altra lobby molto potente e ricca è quella dei pronostici e delle scommesse. Anche se i finanziamenti ai politici dichiarati in Parlamento sono esigui. Per quanto riguarda l'ippica, la Snai finanzia con 10 mila euro l'Udc e con 150 mila euro la Margherita. Una brusca caduta di stile si registra invece esaminando la lista dei finanziatori per la campagna 2006 compilata dal ministro delle Politiche agricole Paolo De Castro, destinatario di un versamento di 10 mila euro da parte della Torinese corse cavalli. Dov'è il problema? Nel fatto che la società ippica ha tra i suoi soci i familiari di Guido Melzi d'Eril, nell'autunno 2006 nominato dallo stesso ministro commissario straordinario dell'Unire, l'Unione nazionale per l'incremento delle razze equine.

Udeur a sorpresa
Tra i finanziatori di Clemente Mastella spicca Diego Della Valle, che ha dato 150 mila euro al suo amico di Ceppaloni. A dire il vero, dopo un'iniziale incertezza tra Diego e Andrea, il contributo è stato registrato a nome del fratello. Della Valle ha finanziato praticamente tutto il centro, versando 150 mila euro anche a Margherita e Udc. Mastella ha ricevuto anche due finanziamenti inattesi. Il primo viene dalla Mec del solito Vito Bonsignore (50 mila euro), europarlamentare Udc. Il secondo dalla Romed spa di Carlo De Benedetti: l'editore di questo giornale ha donato, a titolo personale, 25 mila euro al leader Udeur. Due sono invece i finanziatori che spiccano tra i pochi dichiarati da Antonio Di Pietro per la sua Idv: la Media Cisco srl (15 mila euro) di Pierino Tulli e i 40 mila euro dell'ex presidente del Treviso calcio, Ettore Setten.

Interessi Radicali
Piccolo giallo per un finanziamento del 2006 alla Rosa nel pugno dall'associazione Luca Coscioni. Che ci fa l'organismo che dovrebbe battersi per la libertà della ricerca scientifica tra i finanziatori dei partiti? La spiegazione sta inun prestito di un milione e mezzo di euro chiesto due anni fa da Emma Bonino e Marco Pannella all'amico americano George Soros per fondare la Rosa nel pugno. Il magnate e filantropo divise a metà il prestito tra l'associazione Coscioni e i Radicali italiani. Entrambi inoltrarono alla Rosa nel pugno due contributi da 650 mila euro. Soldi tornati indietro nei mesi successivi con gli interessi quando, incassati i rimborsi elettorali, la Rosa nel pugno ha rimpinguato i bilanci dell'universo pannelliano riversando denaro non solo alla Coscioni e ai Radicali italiani (500 mila euro ciascuno), ma anche al Partito radicale (100 mila) e al Partito radicale transnazionale (572 mila).

ha collaborato Francesca Schianchi

 

Ha vinto la monnezza
di Gianluca Di Feo e Claudio Pappaianni
Dopo due mesi i rifiuti ricominciano a crescere. E De Gennaro ha dovuto abbandonare il suo piano. Ecco perché il prefetto senza superpoteri rischia di fallire
 
 
Talquale. Questo eloquente eufemismo indica l'immondizia che nessuno riesce più a selezionare in Campania: il termine, indicato persino nei contratti, sembra anche il destino che minaccia la Campania. Perché tale e quale è la situazione in cui sta precipitando la regione dopo 60 giorni di Gianni De Gennaro: la montagna dei sacchi neri ha ripreso a crescere. Un disastro che rischia di segnare la prima sconfitta per l'ex capo della polizia, alle prese con un mostro: per la prima volta nella sua storia personale si comincia a parlare di fallimento.

Dal 3 marzo tutte le soluzioni escogitate finora dal prefetto hanno cominciato a perdere colpi: la Germania ha bloccato i treni, i lavoratori dei Cdr si fermano a singhiozzo, la pioggia ha rallentato i cantieri delle nuove discariche. In più sono intervenuti i vigili urbani di Acerra, che su ordine del sindaco controllano tutti i camion dell'immondizia e li multano per ogni piccola infrazione, ingorgando l'unica rotta per lo smaltimento. Una farsa incredibile: pochi vigili che mettono in crisi il super commissario. Ma non è l'unica, perché di super-poteri in realtà De Gennaro ne ha veramente pochi. Non può precettare, non può obbligare, non ha nemmeno fondi da spendere: ai suoi ordini direttamente c'è soltanto il battaglione dell'Esercito. Per tutto il resto deve chiedere ad altri e bussare alle porte di Palazzo Chigi, dove Romano Prodi ha già la testa altrove.

UNO E TRINO De Gennaro non ha nemmeno il pieno controllo della situazione dei rifiuti. Perché i commissari di governo che operano in questo settore sono ben tre. L'ex capo della polizia deve gestire l'emergenza, pulire le strade e trovare dove mettere la spazzatura. Poi c'è il commissario liquidatore, che deve chiudere le precedenti strutture: a lui tocca domare i Cdr, le fabbriche infernali dove si compattano i carichi per trasformarli in ecoballe. Il problema è che in questi impianti strategici tutto è precario: dipendenti, forniture, manutenzione, mense, tute, persino la pulizia. Nel tentativo virtuoso di eliminare gli sprechi del passato, molti contratti sono stati revocati mentre in altri casi lo Stato è in ritardo sui pagamenti. I dipendenti, poi, spesso incrociano le braccia o sono obbligati a fermare le macchine: ogni ora persa significa lasciare 300 tonnellate a marcire. Infine il liquidatore deve trovare qualcuno che compri e completi il mostro di Acerra, ormai degradato per decreto da termovalorizzatore ad inceneritore. Una missione titanica. Il primo nome scelto dal governo, un generale della Finanza, si è tirato indietro. A quel punto l'incarico è finito a Goffredo Sottile, che come prefetto di Caserta ha imparato a conoscere la materia.
 

Ma c'è una terza figura fondamentale: il commissario alle bonifiche, ossia colui che doveva disinnescare tutte le discariche create nei precedenti 14 anni di emergenza, trasformando le bombe chimiche in pascoli. Una struttura che agisce in modo autonomo, parallelo e in almeno un caso conflittuale con le altre due. Alla fine di gennaio l'incarico era ancora in mano ad Antonio Bassolino, che ha gestito dal 2001 stanziamenti per 300 milioni, Bagnoli inclusa. Ma dopo le prime indagini di De Gennaro, Prodi ha subito rimpiazzato il governatore con Massimo Mengozzo, un esperto della Regione. Perché l'ex capo della polizia ha capito a sue spese che senza bonifiche non ci possono essere nuovi spazi per versare i rifiuti. Ci ha messo 40 giorni, poi è stato costretto a rottamare il piano presentato in pompa magna: i siti che risultavano ripuliti a suon di milioni invece erano ancora colmi di veleni. "Guai ad avvicinarsi alle vecchie discariche", ha sentenziato con amarezza in un'intervista a 'Repubblica'.

CARTE FALSE Che le cose andassero peggio del previsto De Gennaro lo ha scoperto in un lampo. L'illusione sul piano è svanita poche ore dopo la conferenza stampa del 21 gennaio. All'alba i tecnici del Commissariato si sono presentati in un capannone industriale di Pianura, destinato ad accogliere una catasta di ecoballe. Una mossa politica: dopo gli scontri con la polizia per la discarica, si voleva dimostrare che lo Stato non faceva dietrofront e portava comunque dei rifiuti in quel comune. Nei dossier del Commissariato quel capannone risultava vuoto e sotto sequestro, insomma pronto all'uso: in realtà la pattuglia del prefetto è stata accolta dal metronotte di turno, che vigilava sulle sette aziende con 80 operai legalmente attive nell'impianto. Il bello è che già un anno prima gli emissari del Commissariato lo avevano ispezionato. Con un brivido, il prefetto ha compreso: il suo piano era stato costruito su carte inattendibili. Aveva mosso armate che non esistevano ed era finito in laghi di veleni, muovendosi verso lo scontro popolazioni senza più fiducia nelle istituzioni. La sua manovra prevedeva di riaprire in 7-10 giorni quattro vecchie discariche 'bonificate' (Villaricca, Difesa Grande, Montesarchio e Parapoti come riserva) dove infilare di corsa gran parte degli arretrati. Il resto, circa 200 mila tonnellate, doveva finire in 11 siti provvisori in attesa di una soluzione definitiva. Ossia i quattro nuovi maxidepositi (Serre, Savignano, Terzigno, Sant'Arcangelo) che in realtà sarebbero dovuti nascere già nel luglio 2007 ma dove i cantieri non erano mai partiti. Un piano da 900 mila tonnellate, ingoiando 10 mila tonnellate al giorno: 7.200 di produzione quotidiana, più una fetta del giacente. L'immondizia sarebbe sparita da metà marzo: il miracolo di De Gennaro. Che nemmeno il Gennaro santo avrebbe potuto realizzare: nel primo mese quota 10 mila è stata toccata solo 5 volte.
 
 
INDIETRO TUTTA L'ex capo della polizia ha lottato per andare avanti: "Dico no al gioco dell'oca, il piano è perfettibile ma non si può sempre tornare alla casella di partenza", ha insistito il 30 gennaio. Il bollettino di guerra ora dopo ora è diventato drammatico: nelle vecchie discariche spuntavano giacimenti mefitici. È stata dissepolta dal terreno persino un'intera autocisterna piena di liquami tossici. Risvegliare quei mostri significava perdere tempo prezioso. A San Valentino la resa: bisogna trovare un'altra rotta. Quale? L'estero. Portare tutto l'arretrato in Germania, ben 200 mila tonnellate via mare fino ai porti del Baltico: un'alternativa costosa. E finora impraticabile. Perché i tedeschi da dieci giorni rifiutano anche quelle 700 tonnellate quotidiane che facevano respirare Napoli. E il loro nein rischia di riaprire il baratro: fino ad allora erano state spostate 329 mila tonnellate, dimezzando la montagna di 250 mila che sommergeva tutto a metà gennaio. Adesso tecnici del prefetto e militari corrono da un sito all'altro, cercando di impedire la paralisi. Sfruttano al massimo i centri di stoccaggio creati dai mezzi dell'Esercito. Ogni giorno 1.700 tonnellate vengono portate ad Acerra, pesate e messe nel magazzino di Italambiente. Da lì la Fibe li trasloca a Santa Maria la Fossa, dove sono pesate di nuovo e gettate a Ferrandelle: tutto doppio, processione di camion e costi.

SOTTO IL TAPPETO Ma senza nuove discariche è come nascondere la polvere sotto il tappeto. L'unico vero impianto, quello di Serre, corre verso l'esaurimento. Taverna del Re, riaperta dopo l'intervento personale di De Gennaro ha chiuso mentre Marigliano che doveva rimpiazzarla non è ancora pronta. Nel gioco delle quattro discariche, risuscita anche il 'vulcano cattivo' di Somma Vesuviana: nel 2005 era quasi pieno di rifiuti quando un incendio lo svuotò tra nuvole tossiche. I nuovi maxi siti di Savignano e Sant'Arcangelo non apriranno prima di un mese, ammesso che arrivino i soldi. Sperando che non scoppi il caldo: per adesso non si temono epidemie, quanto l'invasione dei ratti e insetti. Spetterebbe ai comuni e alle Asl intervenire anche solo spargendo disinfettante e topicida. Ma nessuno fa nulla.

De Gennaro non vuole gettare la spugna: "Di rifiuti ce ne sono fin troppi...". Dicono lo faccia per senso dello Stato e per una questione personale. Ma prima di lui, anche un duro come Guido Bertolaso dovette arrendersi. E se falliscono gli unici funzionari credibili di cui lo Stato dispone, chi mai potrà ripulire la Campania?

ha collaborato Piero Messina

 

All'ombra di una stessa bandiera
Reportage dal Kurdistan turco, dove si finisce ancora in carcere se si scrive in curdo.
scritto  da
Nicola Sessa
 
Gli orologi nei corridoi del tribunale di Diyarbakir sono quasi tutti fermi. Nessuno di questi segna l’ora esatta. Il giudice Nhuan Ayaci aspetta nella sua aula al terzo piano; indossa un collare ortopedico e la sua figura assume forme rigide. Il volto, al pari della Sfinge, non rilascia emozioni. Accanto, siede la pubblica accusa che, se non fosse per un impercettibile movimento degli occhi, sembrerebbe di pietra. Alle loro spalle campeggia il motto “La giustizia è fondamento dello Stato”. Gli imputati sono in numero superiore a quanti ne possa contenere il banco e la stessa aula. Ventuno persone accusate di aver attentato alla “turchità” della Repubblica. L’articolo 222 del codice penale lo prevede; il sindaco della municipalità di Sur, Abdullah Demirbas, con tutto il consiglio, lo ha violato nel momento in cui, il sei ottobre del 2006, ha deliberato di produrre una brochure esplicativa dei servizi del comune in quattro lingue. Le quattro lingue che da uno studio risultavano essere le più parlate: il curdo, il siriano, il turco, l’arabo. Scrivere in curdo è reato: l’intera amministrazione di Sur, più il sindaco di Diyarbakir, che ha espresso solidarietà al suo omologo, rischia una condanna a quattro anni di reclusione. Nel frattempo il prefetto ha provveduto a sollevarli dalle loro mansioni.

 
All’interno dei cinque chilometri di mura che abbracciano la città di Diyarbakir vivono ufficialmente 350.000 persone, a grandissima maggioranza curda, ma se si esce fuori dai bastioni la popolazione si quintuplica: un milione di profughi arrivati da tutto il Kurdistan a Diyarbakir, antica Amed, capitale di un paese che non esiste (più) sulle carte ufficiali. Il 74 percento della popolazione parla il curdo, moltissimi non conoscono la lingua turca, solo la lingua madre. Sono più di quattromila i villaggi evacuati o dati alle fiamme dalle forze turche perché ritenuti collegati alla guerriglia combattuta dal Pkk.

 
La questione curda è da anni la grande preoccupazione della Turchia. Risolverla vorrebbe dire risolvere non soltanto intrecci di politica interna, ma anche problemi di affari esteri, soprattutto con l’Unione Europea. Il modo di affrontare la questione non piace a molti intellettuali turchi, non piace ai curdi che pure vorrebbero vederla risolta. I tentativi di soluzione inciampano in una continua violazione dei diritti umani.
Il governo turco intende procedere a una assimilazione della popolazione curda, nonostante le parole pronunciate da Erdogan in Germania per incitare i turchi a integrarsi con i tedeschi ma non ad assimilarsi; i curdi vogliono vedere riconosciuta loro una identità culturale e linguistica.

 
Secondo Ali Akiaci, presidente di Ihd - associazione che si occupa della tutela di diritti umani -, in Turchia c’è una vera e propria emergenza democratica. In seguito all’invasione turca nel Nord Iraq la popolazione del Kurdistan si è messa in moto: in ogni città ci sono state pacifiche marce di protesta; le associazioni civili, le assemblee degli avvocati hanno convocato conferenze stampa per denunciare la violazione del diritto internazionale.
A seguito della manifestazione del 25 febbraio, solo a Diyarbakir sono state arrestate 40 persone. Parte di queste hanno denunciato all’Ihd di aver subito torture: gli ultimi due arrivati erano una donna con il volto livido e un ragazzo di appena sedici anni a cui era stato spezzato un braccio.
 

 

Sulle ali della menzogna
Heathrow, il contestato progetto per l'ampliamento
Con la costruzione di una terza pista all'aeroporto londinese di Heathrow la Gran Bretagna potrebbe rinunciare definitivamente alla sua lotta contro i cambiamenti climatici.
 
Progetto della nuova pistaIl rapporto 'aggiustato'. Nei primi mesi del 2007, il destino del progetto sembrava segnato: una ricerca - non resa pubblica - commissionata dal governo aveva infatti evidenziato che l'espansione dell'aeroporto avrebbe provocato un impatto tale da superare di gran lunga le soglie di inquinamento acustico e ambientale fissate dal ministero per l'Ambiente. Risultati poco incoraggianti soprattutto per il dirigente del Dipartimento dei Trasporti (DfT), David Gray. Questi aveva infatti il compito di mostrare all'opinione pubblica come la terza pista non avrebbe avuto conseguenze troppo onerose in termini di squilibrio ecologico, o almeno non troppo gravi da vanificare l'ambizioso piano di lotta all'inquinamento che il Primo ministro Gordon Brown va sbandierando ad ogni incontro sul clima al quale partecipi.
 
Aereo decollato da HeathrowCome aggirare il problema? Trasmettere (in via del tutto confidenziale) al Baa, l'ente di gestione dell'aeroporto, i risultati del rapporto. Il Baa avrebbe scritto al Dipartimento dei Trasporti esortandolo a riconsiderare la valutazione di impatto ambientale sulla base di 'nuove acquisizioni'. Un aggiustamento qua e uno là, finalmente governo e Baa approdano al risultato finale. "Gli sforzi congiunti di entrambi - scriveva il Times nella sua edizione domenicale - hanno avuto come risultato il tentativo di far passare l'idea che un nuovo aeroporto delle dimensioni di Gatwick può essere tranquillamente aggiunto a Heathrow senza alcun impatto ambientale".
 
Gordon BrownAnti-pista. In un momento in cui milioni di persone a livello globale stanno esprimendo la necessità di cambiamenti climatici urgenti, ma soprattutto in un momento in cui Gordon Brown si fa paladino di queste richieste, propagandando ovunque il suo piano per la lotta globale all'inquinamento, le betoniere stanno già preparando a sputare chilometri di asfalto per la nuova pista di Heathrow e gli scarichi degli aerei tonnellate di ossido di carbonio che - a detta del governo - avranno un impatto solo 'minimo' sul sistema ecologico britannico. Per bloccare il progetto, gli ambientalisti stanno preparando picchetti nell'area interessata, e più di 10 mila persone sono attese alla manifestazione che si terrà a Heathrow il 31 maggio prossimo.
Luca Galassi
 
 
 
Tiro al canguro
L'Australia vuole sopprimere 400 canguri che vivono in un'ex base militare. Proteste degli animalisti
Per riconquistare una ex base militare ora in mano a un nemico che continua a moltiplicare le sue forze, il governo australiano è pronto a lanciare un'offensiva a colpi di armi chimiche. Ma molti australiani non sono d'accordo e sono pronti a fare da scudi umani, chiedendo una soluzione diplomatica alla crisi. Dall'altra parte non giungono però proposte alternative. E come potrebbero, dato che il nemico da sterminare è una colonia di canguri, destinata a essere decimata con un'iniezione letale di massa, che sta provocando la reazione compatta dei gruppi animalisti.

 
Il piano. Le autorità di Canberra vogliono sopprimere 400 canguri sui circa 500 che vivono nell'area attorno alla dismessa stazione di trasmissione navale di Belconnen, proprio nella capitale. Secondo il governo, l'eccessivo numero di canguri a pascolo nella zona mette a rischio altre specie animali, tra cui un tipo di lucertola e di falena. Un piano per spostare i marsupiali in un'altra regione, come proposto dagli animalisti, è stato bocciato dal governo in quanto “inumano”. Così, questo fine settimana gli animali dovrebbero venire soppressi, dopo essere stati addormentati con dei sonniferi sparati a distanza. L'idea di un tiro a segno con proiettili veri è stata scartata per i rischi di colpire i residenti delle case circostanti, o i dimostranti che si dovessero opporre al piano.

 
Le reazioni. “Programmi come questi, se amministrati in modo umano, sono a volte necessari”, ha detto il ministro per l'ambiente Peter Garrett. Ma gli attivisti per i diritti degli animali hanno intenzione di bloccare il massacro, incatenandosi ai cancelli della Belconnen Station. “Da sabato saremo lì 24 ore su 24”, ha annunciato Pat O'Brien, presidente della Wildlife Protection Association of Australia. Secondo gli attivisti, i canguri da sopprimere sono inoltre già fatti soffrire inutilmente perché tenuti lontani dalle fonti d'acqua dove si abbeverano, per colpa di una rete provvisoria installata dalle autorità. Un gruppo animalista britannico, Viva!, si è unito alla battaglia grazie anche al sostegno di Paul McCartney, che in un messaggio video ha parlato del “bisogno urgente di proteggere i canguri da una barbara industria che li massacra per la loro carne e la loro pelle”.

 
Paul McCartneyUn commercio mondiale. Il piano era stato ideato un anno fa dall'allora governo conservatore di John Howard, ma le proteste degli animalisti avevano fatto rinviare la sua esecuzione. In un precedente simile, nel 2004, l'Australia provocò uno scandalo internazionale decidendo di sparare a 900 canguri vicino a una diga che rifornisce d'acqua la capitale. Anche in quella occasione, il motivo era l'erosione del terreno causata dal pascolo selvaggio degli animali. Ma lontano dai riflettori, ogni anno in Australia sono milioni i canguri uccisi per motivi commerciali. “La carne è venduta come cibo per cani ed esportata, specialmente in Francia, Germania e Russia”, ha spiegato O'Brien.
 
Pakistan, bombe sui civili
I villaggi pashtun sotto i colpi delle artiglierie statunitense e pachistana
La popolazione civile delle aree tribali pachistane continua a morire sotto le bombe della guerra al terrorismo. Solo ieri, almeno sedici civili, tra cui donne e bambini, sono rimasti uccisi in due distinti bombardamenti di artiglieria condotti dall’esercito statunitense e da quello pachistano
 
Le aree tribaliKangrai, Nord Waziristan. Secondo il capo di Stato Maggiore pachistano, generale Athar Abbas, cinque proiettili d’artiglieria sparati dalle forze Usa dal territorio afgano hanno colpito un’area residenziale distruggendo una casa e uccidendo due donne e due bambini. “Abbiamo inoltrato una dura protesta alle forze della Coalizione al di là del confine”, ha detto il generale.
Da Kabul gli ha risposto un portavoce delle forze Usa, il maggiore Chris Belcher, confermando un attacco “di precisione” condotto un chilometro e mezzo all’interno del territorio pachistano contro “un edificio legato alla rete di Sirajuddin Haqqani”, comandante dei talebani waziri. “Non ho alcuna informazione sulle vittime dall’operazione”, ha però aggiunto il maggiore.
 
Aree tribali, casa bombardataNawagai, Bajahur. Nelle stesse ore, in una zona più settentrionale delle aree tribali pashtun, un massiccio bombardamento dell’artiglieria pachistana ha ucciso almeno dodici civili, tra cui due donne e un bambino. L’attacco governativo è stato sferrato in rappresaglia a due imboscate talebane costate la vita ad alcuni soldati. Questa mattina, gli abitanti dei villaggi bombardati sono andati nella più vicina cittadina, Khar, per manifestare contro queste stragi di civili. In migliaia hanno protestato  scandendo rabbiosi slogan contro il governo pachistano e contro gli Stati Uniti: “Morte al traditore Musharraf!”, “Morte all’America!”.
Da quando nel 2004 Musharraf – su pressione di Washington – ha lanciato la campagna militare anti-terrorismo nelle aree tribali, sono morte più di seimila persone, per metà civili. 

 

13 marzo

Candidati

Le figurine della politica

Marco d'Eramo

Nei presepi napoletani di Via San Gregorio Armeno ogni condizione umana è sempre raffigurata da una sola statuina: la giovane con l'anfora sulle spalle che torna dalla fonte, il pastore con il piffero, il fabbro davanti all'incudine, la massaia alacre al lavatoio. Nelle liste di candidature, la cui presentazione si è conclusa ieri, il parlamento che uscirà dal voto del 13 aprile si configura già come presepio postmoderno, di cui ogni deputato è statuina.
Ecco lì a sinistra «la Giovane»; più in alto «il Manager»; in fondo «l'Operaio» accanto al «Generale»; nel Transatlantico «il Tassista», mentre «il Trentenne» uscito da una pubblicità antiforfora discute alla buvette con «lo Scienziato» telegenico prestato alla cosa pubblica (esempi non immaginari). C'è sempre da dubitare quando le categorie umane si trasformano in singolare maiuscolo. Fa paura quando gli ebrei diventano l'Ebreo, le donne la Donna. È una visione da Commedia dell'Arte: il giovin signore, la servetta, la locandiera e il figaro. Un'idea cristallizzata, stereotipata della società, come se ogni dirigente politico vedesse ciò che lo circonda solo attraverso i luoghi comuni di cui è vittima. A lungo andare, una concezione deleteria del mondo, perché lo riduce alla statica di un tableau vivant, e si preclude di percepirne la dinamica, i mutamenti. Ancora più deleteria è l'idea soggiacente di politica. Queste candidature di «esponenti della società civile» si presentano come una risposta all'antipolitica, alle accuse di casta. Deputati non saranno più politici, ma italiani qualunque, il cui anonimato è garanzia di genuinità: «cittadini veraci».
In realtà questo metodo di candidatura è l'operazione più eversiva messa in atto negli ultimi anni perché scippa ogni residua sovranità al popolo sovrano. Cosa faranno in parlamento queste figure se non appunto le belle statuine? Come oseranno ribellarsi a decisioni prese altrove? La Giovane si opporrà al leader che l'ha proiettata alla ribalta? E l'onorevole Operaio dirà no a chi lo ha sottratto all'indigenza di fabbrica? Non è neanche una riedizione del corporativismo: lì erano le Corporazioni a scegliere esponenti che dovevano promuoverne gli interessi. Ma quali interessi esprime la giovane cooptata come capolista solo per la sua età e per non aver mai fatto politica? È il più subdolo, buonista attacco alla democrazia rappresentativa mai visto, un'operazione letteralmente extraparlamentare, perché il parlamento vi si riduce a raccolta di figurine da incollare in un album Panini di nuovo tipo: non più calciatori ma deputati. Pare già di vederli i leader dei partiti scambiarsele scartando i doppioni: «Ce l'ho; ce l'ho; mi manca».
Per dirla tutta, è perversa l'idea che per fare una politica favorevole a un certo segmento sociale, bisogna inviare al parlamento un prototipo di quel segmento. Come la mettiamo coi bambini? Come si fa a fare una politica a favore dell'infanzia senza pueri a Montecitorio? Solo un anacronistico limite di età della nostra anacronistica costituzione vieta di candidare pupetti. Quanto sarebbero più efficaci manifesti e spot! Non più il candidato che abbraccia un bimbo, ma un candidato in braccio al leader. E poi, a elezioni avvenute, immaginate che bello: parlamentari con treccine e boccoli, da far sbavare un pedofilo. Infine deputate col biberon, senatori col ciuccio.

 

Telecom

Il volo senza slot di Franco Bernabè

Francesco Paternò

 

L'aereo di Vincino (CorrierEconomia di ieri) che gira su Malpensa in attesa di sapere chi vincerà le elezioni è sintesi perfetta non solo del caso Alitalia ma delle vicende del nostro intero sistema paese. La campagna elettorale condotta a colpi di imprenditori sottrae più che aggiungere, mentre la borsa continua a bastonare indistintamente, in chiaro segno di confusione. In ballo, o in volo, c'è un po' di credibilità residua, con la finanza sempre più slacciata dalla realtà.
La Telecom Italia tornata nelle mani di Franco Bernabè sembra un altro aereo di Vincino. Ieri il Wall Street Journal ha definito «saggio» l'amministratore delegato di TI perché ha staccato la linea alla vecchia gestione basata su allegre finanze e ha deciso di restituire alla società un ruolo proprio, che è poi quello di fare il suo mestiere, a partire da un piano industriale vero. Basta con l'era Tronchetti fatta da dividendi «a piene mani» agli azionisti, il «saggio» Bernabè non è profeta in patria: oggi comincia il suo road show in giro per il mondo a cercare investitori lasciandosi alle spalle una frana di borsa.
Il suo aereo assomiglia un po' a quello di un altro manager cui da tre anni e mezzo la fortuna arride, Sergio Marchionne. L'amministratore delegato del gruppo Fiat ha cominciato come Bernabè, mettendo il silenziatore agli squilli di tromba dei suoi predecessori (che promettevano sfracelli sul mercato e poi sfracellavano i bilanci) e cominciando a ricostruire l'azienda. Gestione, squadra, prodotto, ricerca all'estero di investitori con cui condividere oneri di sviluppo. Ritorno all'utile, gloria, eccetera. Ma ora il 2008 si presenta difficile per il comparto, certo meno difficile del 2004 guidato sull'orlo della bancarotta, e la borsa che fa? Punisce secco il titolo Fiat.
Tornando a Vincino, di sicuro su quell'aereo non c'è ai comandi Maurizio Prato, l'amministratore delegato di Alitalia voluto da Romano Prodi che continua a tenere la cloche dritta verso Air France, a fronte di una privatizzazione difficile, giunta all'ultimo slot, che avrà dei costi per quanto riguarda il lavoro. Il titolo perde, Prato va, benché il cielo sopra sia in tempesta, con la compagnia arrivata agli ultimi sgoccioli di carburante finanziario e la politica a spingerlo nei vuoti d'aria di moratorie per Malpensa e simili.
Atterrare è in italiano un verbo transitivo, che sia questo il motivo?


 

Ambiente
Falla nell'oleodotto Nato, disastro ecologico a Vicenza

Ettolitri di cherosene si sono riversati nel fiume Bacchiglione (nel vicentino) e in un torrente vicino. Nell'oleodotto Nato che da Livorno arriva fino a Aviano è stata scoperta una falla di dimensioni ancora non chiare. Centinaia di cittadini ieri sera hanno telefonato ai vigili del fuoco per lamentare forti dolori alla gola, problemi di respirazione e agli occhi. La ditta che controlla l'oleodotto aveva già registrato ieri mattina un calo di pressione.

 

Sottopasso e sovraprezzo, così a Firenze si gonfiano i costi

Foto_vert_220aSotto-passo e sovra-prezzo. Così i metodi finanziari più moderni, nati per realizzare opere pubbliche trasparenti e senza ritardi, sembrano essere diventati lo strumento per riproporre vecchi vizi. Come quello dei costi per i cantieri che lievitano di anno in anno, fino a sfiorare il raddoppio. La lezione arriva da Firenze, che ha scelto il project financing per una serie di interventi destinati a cambiare il volto della città. Tra queste il sottopasso di viale Strozzi pare destinato a diventare un monumento allo spreco. I costi sono passati da 5 milioni previsti ad oltre 8, tutti a carico del Comune.

Secondo gli inquirenti, le spese in molti casi sono state gonfiate ad arte. La Guardia di Finanza, per esempio, ha calcolato che  per il sottopasso sono state utilizzati 2.416 metri quadrati di pietra pregiata ma ne sono state fatturate al Comune 2.792. Stessa moltiplicazione virtuale per i cubetti di porfido. Così si arriva a un sovra-prezzo di 3 milioni 187 mila: oltre il 60% in più rispetto al contratto.

Le Fiamme Gialle hanno segnalato questa e altre opere urbane alla Corte dei conti, sostenendo che quei soldi in più non andassero pagati: una responsabilità che ricadrebbe soprattutto sull'architetto Gaetano De Benedetto, numero uno della direzione urbanistica del Comune, ma che in seconda istanza coinvolgerebbe tutta la giunta di Palazzo Vecchio, sindaco incluso, accusata di avere pagato i milioni extra senza vigilare. Adesso scende in campo anche la Procura, che indaga sul sottopasso per il reato di truffa: quattro persone sono sotto inchiesta, tra loro l'ingegnere che presiede Firenze Mobilità, designato dal colosso delle costruzioni Baldassini-Tognozzi-Pontello e che ha un ruolo in tutte le nuove iniziative urbanistiche cittadine.

 

Bolzaneto, chiesti 76 anni per poliziotti e medici
I pm di Genova: nella caserma violazioni della Convenzione europea sulla tortura
La caserma di BolzanetoLa richiesta più pesante è stata quella per Antonio Biagio Gugliotta, ispettore della polizia penitenziaria: 5 anni, 8 mesi e 5 giorni di reclusione. Poi quella per Massimo Pigozzi, il poliziotto accusato di lesioni personali: 3 anni e 11 mesi. Infine, quella per Giorgio Toccafondi, il medico, accusato di abuso di atti d'ufficio e  diversi episodi di percosse, ingiurie e violenza privata: 3 anni, 6 mesi e 25 giorni di reclusione. Sono 76 in totale gli anni di prigione chiesti oggi dai pm genovesi Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati per 44 dei 45 imputati nel processo per i fatti avvenuti nella caserma di Bolzaneto durante il G8. Per uno solo degli imputati, il funzionario di polizia Giuseppe Fornasiere, è stata chiesta l'assoluzione.
 
Inadempienza italiana. In quella caserma, descritta dai pm nella requisitoria come un 'girone infernale', furono inflitte alle persone fermate "almeno quattro" delle cinque tecniche di interrogatorio che, secondo la Corte Europea sui diritti dell'uomo, vengono configurate come "trattamenti inumani e degradanti". Purtroppo, però, il nostro Paese, a differenza di altri come Gran Bretagna e Francia, non ha mai accolto nel proprio ordinamento la Convenzione europea contro la tortura. Non esistendo, quindi, una norma penale (per la quale l'Italia è inadempiente rispetto all'obbligo di adeguare il proprio ordinamento alla convenzione internazionale), l' accusa è stata costretta a contestare agli imputati l'articolo 323 (abuso d'ufficio), che comunque sarà prescritto nel 2009. L'unico reato per cui sono richieste 10 anni per la prescrizione è il falso ideologico. Altri reati contestati a vario titolo sono: violazione della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, abuso di autorità nei confronti di persone arrestate o detenute, minacce, ingiurie, lesioni.
 
Sale la tensione
Bolivia, è scontro sulla decisione di non far svolgere i referendum il prossimo 4 maggio
Dopo le infinite polemiche che hanno accompagnato la decisione di indire in Bolivia referendum costituzionali, la corte nazionale elettorale ha deciso che non “esistono le condizioni tecniche, operative, legali e politiche per portare avanti il processo referendario per il prossimo 4 maggio”.

 
Contadini nel campo (foto A.Grandi/PeaceReporter)I fatti. Dunque, i due referendum indetti non si svolgeranno. Nel primo quesito sarebbe stata chiesta al popolo boliviano l'approvazione della nuova Costituzione. Nel secondo referendum, altrettanto importante, sarebbe stata presa in considerazione la proprietà terriera. Il quesito, infatti, avrebbe dovuto stabilire se le proprietà terriere dovevano essere inferiori ai 5 mila ettari oppure potevano arrivare fino a 10 mila.
Secondo Morales, la nuova carta costituzionale cerca di “garantire la rifondazione della Bolivia, una rifondazione democratica che garantisca l'unità, la dignità e l'uguaglianza di tutti i boliviani”
Ma, dal 9 dicembre scorso, giorno in cui è stata approvata dall'Assemblea Costituente la nuova Carta Magna, è iniziato anche un duro braccio di ferro fra Evo Morales e i governatori di Santa Cruz, Tarija, Pando e Beni. Fino a giungere alla decisione del Cne di sospendere i referendum.

 
Le province ricche. Ricche e industrializzate, le quattro province in polemica con Morales hanno auto-indetto per il mese di giugno un referendum per l'approvazione degli statuti d'autonomia dal governo centrale. Ma anche in questo caso il Cne ha bloccato il loro svolgimento. Secondo i giudici, infatti, la convocazione referendaria da parte dei governatori delle quattro province non è conforme alla legalità. La convocazione di elezioni che stabiliscano l'autonomia o meno di alcune regioni del Paese è di assoluta competenza del Parlamento e non dei governatori regionali.
Inoltre dal Cne fanno sapere che la decisione è stata presa in piena autonomia, senza nessun “calcolo politico” o “pressione” ma solo "applicando della legge e principi di imparzialità, autonomia e indipendenza”. Ma non è difficile intuire che per la Bolivia si apre una nuova fase politica. Morales invita tutte le forze al dialogo ma, forse, oggi più che mai le sue parole non verranno ascoltate.

 
Incidenti a La PazNovità. Intanto, nella notte fra sabato e domenica scorsa, violenti incidenti fra i sostenitori di Evo Morales e quelli dei partiti di opposizione si sono verificati a La Paz. Le strade della città si sono inizialmente riempite di persone che manifestavano in favore dei governatori, quando i fedeli di Morales si sono presentati armati di bastoni e hanno iniziato ad accusare i prefetti di essere gli stessi che negli anni passati hanno svenduto le risorse del Paese alle multinazionali straniere.
Immediate le reazioni da parte dei servizi di sicurezza boliviani che hanno caricato i manifestanti fedeli a Morales, lanciando anche diversi lacrimogeni. E' di alcune decine di feriti lievi il bilancio della giornata di scontri.
 

 

10 marzo

 

Per le autorità ci sono state solo dieci vittime. Ma c'è chi parla di quattromila morti

La repressione più dura è scattata quando alle proteste si sono uniti gli studenti

Birmania, nel monastero della rivolta

'Noi, monaci che sfidammo il regime'

dal nostro inviato DANIELE MASTROGIACOMO

<B>Birmania, nel monastero della rivolta<br>'Noi, monaci che sfidammo il regime'</B>

PAKOKKU - Cinque mesi dopo, restano ancora le tracce della battaglia. Fuori, lungo i muri di cinta sbrecciati dalla pallottole; dentro, sui pavimenti in legno anneriti, nei giardini invasi dalle erbacce, nei bagni collettivi allagati, nell'infermeria saccheggiata, nelle stanze dei novizi vuote e sporche. Persino i corridoi, luogo di meditazione e di lettura, sono occupati dai resti di armadi, sedie e tavoli ammassati alla rinfusa. Per terra, allineati con cura in una stanza chiusa a chiave, si sono salvati solo loro: i libri sacri dello Sangha, la chiesa buddista, e le antiche pergamena di palma scritte a mano.

Il grande bonzo, il capo spirituale del monastero, è assorto nella sua lettura. E' solo, al centro del salone al primo piano dove si tengono le lezioni, disteso su un letto in tek coperto da un telo rosso scuro. Restiamo in attesa, avvolti da un cupo senso di desolazione. Il maestro piega il libro. Si mette seduto, incrocia le gambe, si gira verso di noi, porta le mani giunte sulla fronte. "Siate i benvenuti", ci dice dopo minuti che sembrano eterni.

Ma-Gway Taungdwingyi, 84 anni, il viso liscio, lo sguardo sereno, non aggiunge altro. Osserva il silenzio che il regime gli ha imposto. Non può dire, come chiunque racconta in Birmania, che tutto è iniziato qui dentro, in un monastero alla periferia di Pakokku: un villaggio lontano dalle rotte turistiche, famoso per il suo tabacco forte e profumato con cui si confezionano i sigari cheerok, sulle sponde del fiume Ayeyarwady, cuore della Birmania centrale, oggi chiamata Myanmar.

E' il 16 agosto scorso. Quattro funzionari del governo si presentano nel collegio di Pakhanngeh Kyaung, il più grande di tutto il paese, 100 anni di storia, un'immensa struttura che si regge su 322 pilastri in legno intarsiati. Chiedono di Ma-Gway: non sono venuti, come fanno molti, per chiedere un consiglio e lasciare un'offerta. Hanno altro in testa, il maestro è finito nel mirino della giunta militare. Parla troppo e parla male: del governo dei militari, di quanto sia profondo il distacco che li divide dal paese reale. Lo ammoniscono senza molte remore: "Questo deve essere un luogo di studio e di preghiera, non di politica".

Lo minacciano in modo brusco: "Smettila di sobillare i tuoi studenti o ti facciamo sparire". Il grande monaco è paziente. Usa tutto il suo carisma e la sua influenza. Ricorda che l'aumento di cinque volte il prezzo della benzina e di tanti altri beni di prima necessità sta affamando il popolo.

I bonzi lo sanno bene: vivono a stretto contatto con la gente. La colletta che compiono ogni mattina all'alba, secondo un rituale di secoli, scalzi, avvolti nelle loro tuniche colorate, passando di casa in casa, si è interrotta. A Pakokku, davanti alla ciotola mostrata per raccogliere le offerte, le famiglie portano la mano alla bocca: non c'è cibo, non ci sono soldi. Il maestro invita i funzionari a lasciare il monastero. Ma i quattro emissari insistono; l'ordine è arrestarlo, portarlo via. Volano parole grosse: la discussione è animata, violenta, sostiene chi era presente.

Sfidare un monaco, un maestro spirituale, in Birmania è una grave offesa, una vera provocazione. Decine di novizi, ragazzi che vivono nel monastero il tempo per studiare i testi sacri del buddismo e imparare l'inglese, hanno seguito il diverbio. Sono indignati. Intervengono, come sono sempre intervenuti. Anche nelle proteste del 1988 sono stati i bonzi più giovani, assieme agli studenti, ad accendere la miccia della rivolta. Scoppia una rissa generale. I quattro funzionari lasciano a fatica il monastero. Ma all'esterno trovano le loro auto in fiamme. Ma-Gway Taungdwingyi non scenderà nei dettagli e noi eviteremo domande che non vanno fatte.

Sarà George, la nostra guida di Nyaung U che ci ha accompagnato sul posto, a dirci cosa è accaduto. Al ritorno, mentre attraversiamo l'Ayeyarwady a bordo di una lancia, coperti dal rumore assordante del motore ad elica allungata, ci spiega: "Adesso posso parlare. Prima non mi fidavo di nessuno. Pakokku è piena di spie. Le autorità le hanno infiltrate anche tra i monaci.
La rivolta dell'agosto e settembre scorsi è nata qui dentro. Dopo l'incendio delle auto dei quattro funzionari del governo, sono arrivati la polizia e l'esercito. Ma è accorsa anche la gente del villaggio.

La voce si è sparsa in tutta la regione. Migliaia di persone sono giunte dai paesi vicini: ne arrivavano ad ondate, con ogni mezzo, dall'interno e poi con le barche, dall'altra sponda del fiume. Ci sono stati gli scontri, molti feriti, tantissimi morti. La gente è rimasta, ha resistito. La protesta si è allargata a Bagan, a Mandalay, a Yangon. Ventotto giorni di cortei e manifestazioni.

Fino a quando sono intervenuti i reparti speciali, con i fucili, le mitragliatrici, lo stato d'assedio, il coprifuoco". Il monastero resterà isolato e circondato dal filo spinato fino a Natale.

Oggi il collegio di Pakhanngeh Kyaung è stato riaperto ma sembra abbandonato: pochi lo frequentano e non ci sono soldi per restaurare le ferite inferte durante la sommossa. Su 836 monaci ne sono rimasti solo 174. I pochi che si affacciano, timidi e preoccupati, evitano ogni contatto. C'è ancora molta diffidenza: i bonzi sono visti dal regime come un pericolo. In tutta la Birmania, ce n'erano 400 mila. In dieci anni la giunta, con la sua "campagna di purificazione", li ha ridotti del 20 per cento. Il monastero si è svuotato.

Molti sono fuggiti. Forse tornati a casa, forse scomparsi, morti, inghiottiti nelle carceri. Nessuno sa nulla di loro. Solo il principio buddista per cui la vita è un continuo ripetersi può spiegare le contraddizioni di questo paese allegro e insieme triste, ribelle e rassegnato. Il suo fascino è tutto lì. La Birmania sembra galleggiare su un tempo indefinito: ancorata al suo passato glorioso, costretta a vivere un presente drammatico, proiettata su un futuro che non le appartiene ancora.

La giunta dei militari è rimasta sorpresa dalla rivolta di Pakokku. Non si aspettava che proprio in questo monastero, immerso nel cuore dell'etnia bamar, scattasse l'ennesima sfida. I pericoli, storicamente, arrivano dalle zone che confinano con Cina, Thailandia, Laos e India, dove sono arroccate le minoranze più ostili al sogno di una grande Birmania. Occupato dal suo business, il regime non si era reso conto che l'intero paese bolliva come un vulcano pronto ad esplodere. Eppure basta camminare nel centro di Mandalay, 80 chilometri più a nord, per capire che la "primavera" birmana non è mai finita.

Il sangue versato a settembre sui grandi viali che costeggiano la maestosa fortezza costruita del re Mindom Min, penultimo sovrano della dinastia Konbaung, ha scosso dal torpore questa città adagiata sul privilegio di essere la culla religiosa e l'ultima capitale del regno prima della dominazione britannica. Avvolta dal buio dopo il tramonto, punteggiata dai fari dei motorini e delle biciclette che invadono le strade come sciami, abbagliata da decine di pagode dalle cupole bianche e i pennacchi dorati, Mandalay fa i conti con l'ennesimo incendio. La corrente arriva a singhiozzo.

Il governo la concentra sulle strutture militari. Quando torna, l'energia è una scarica che brucia gli impianti ridotti ad un ammasso di fili. Il cortocircuito è inevitabile. La benzina comprata al mercato nero e tenuta in casa fa il resto. L'anno scorso, in questo modo, nella sola Mandalay, un milione di abitanti, sono andate a fuoco 40 mila abitazioni.

Tsa-Tsa, il ragazzo del nostro risciò, si dirige verso la zona dove adesso si alzano fiamme rosse e gialle. Ha bisogno di lavorare e si fa coraggio. Sostiene di non mangiare da tre giorni. C'è da credergli. Nel 2007, secondo una fonte diplomatica occidentale, ci sono stati solamente duecentomila turisti, rispetto agli 800 mila dell'anno precedente. Si fanno sentire gli inviti (timidi) al boicottaggio rivolti alle Nazioni unite e all'Unione europea contro la giunta militare da 46 anni al potere. Prevalgono gli scrupoli morali. L'appello a disertare la Birmania di Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace nel 1991, leader dell'Nld (National leage for democracy), vincitrice assoluta delle passate elezioni, da 6 anni di nuovo agli arresti domiciliari, sembra avere effetto. Per due settimane abbiamo girato il paese in lungo e in largo incontrando pochissimi turisti.

Chiediamo alla nostra guida cosa sta accadendo; vediamo, in lontananza, le luci della polizia. "Problem, problem", si affanna allarmato. "Police, army, protest". Ma poi, subito dopo, giù a ridere, come fanno sempre i birmani per stemperare anche la più piccola tensione.
"Questo viale", racconta, "ad agosto era pieno di gente. Migliaia e migliaia di persone. Prima sono scesi in piazza i monaci, poi la gente si è fatta coraggio e li ha seguiti". Chiediamo quanti feriti e quanti morti ci sono stati. Lo domandiamo spesso in giro. Le risposte sono sempre diverse e vaghe. Dopo tante pressioni, il governo dello Spdc (State peace and development council), ex Slorc, il partito unico, artefice di questa "via birmana al socialismo", ha ammesso dieci vittime, 2700 arresti, tra cui 573 monaci, 1600 dei quali già stati rilasciati.

Il "Tate naing" della "Assistance association of political prisoniers" parla invece di 4000 morti e 700 arresti. La verità, inaccessibile, resta isolata al centro della Birmania, a Nyapyidaw, dove il regime, con una scelta paranoica e ossessiva appoggiata dall'indovino di corte, ha deciso di trasferire la nuova capitale. Una città-caserma artificiale, nata dal nulla, senza negozi, ristoranti, case, sale da tè, ospedali e scuole. Ci vivono il vertice della giunta militare, i generali, gli ufficiali, la truppa, i dirigenti del Spdc. Una comunità priva di vita, rumori, colori, emozioni. I birmani ci ridono sopra e la spiegano con una barzelletta: "Hanno paura di tutto, persino del loro popolo".

Tsa-Tsa ricorda molto bene i cadaveri abbandonati sull'asfalto o lungo i marciapiedi quando l'esercito ebbe l'ordine di sparare. E' convinto: "Li hanno cremati o buttati in una fossa comune". Racconta che i cortei sono durati quattro settimane. "C'erano due appuntamenti quotidiani: la mattina alle 9 e poi alle 4 del pomeriggio. Non si mangiava e si dormiva poco. Bevevamo coca-cola, lo zucchero ci dava forza e ci teneva svegli. Le autorità non hanno reagito subito. Sono rimaste a guardare per una settimana. Sparare sui religiosi li metteva in crisi".

Oltre ad essere buddista, la giunta militare è nota per essere superstiziosa: nelle scelte più importanti interpella esperti astrali e interpreti del fuoco in grado di scacciare gli spiriti maligni. Ma qualcosa si è rotto al vertice. Si parla di uno scontro tra il capo, il tenente generale Than Shwe, 74 anni e il suo vice, il generale Maung Aye, 69. Il primo era favorevole ad un intervento, il secondo invitava alla prudenza. La realtà della piazza ha fatto prevalere la linea dura.

"Quando si sono uniti anche gli studenti", aggiunge il ragazzo del risciò, "i professori, i commercianti, gli ingeneri, i farmacisti, quando tutti i negozi sono rimasti chiusi, quando i genitori si sono rifiutati di mandare i propri figli a scuola, allora è scattata la repressione". Indica le feritoie della muraglia che scorre sul lato: "Sparavano da lì. La folla marciava e loro sparavano". Ciò che è accaduto, lo ha saputo e visto tutto il mondo. Grazie alle foto scattate con i cellulari e spedite all'estero via mail dai più coraggiosi. Sono gli stessi che vediamo accorrere verso l'incendio. Le ragazze in minigonna ma con il viso protetto dalla "tannaka", la crema di legno di sandalo, per mantenere la pelle bianca. I ragazzi con i jeans larghi e calati, i capelli colorati, i tatuaggi, gli orecchini, mischiati a quelli che indossano i "longyi", il pareo tradizionale, e ciabattine. Passato e futuro.
Tutti insieme. Alzano le due dita in segno di vittoria, strombazzano clacson e trillano i campanelli delle loro biciclette.

La scuola è finita. Due potenti casse sparano musica heavy metal da un camion. Stasera si balla. Anche il nuovo incendio sarà spento. La Birmania, quella vera, non vuole più attendere.

Mesi precedenti

> Febbraio 2008

> Gennaio 2008

Anni precedenti

> Anno 2007

> Anno 2006

> Anno 2005

TORNA ALLA PAGINA INIZIALE