
29 maggio
Amnesty accusa l'Italia
La politica italiana violenta e
discriminatoria
Daniela Carboni*
Il 31 ottobre scorso una donna è
stata aggredita e uccisa a Roma. Dell’accaduto è
stato accusato un cittadino rumeno. Probabilmente,
per tutti voi come per noi è più facile ricordare i
dettagli della vita e della personalità della
persona accusata dell’omicidio, piuttosto che della
vittima.
Non è un caso né una vostra personale disattenzione,
ma semplicemente il risultato prevedibile del modo
in cui le istituzioni hanno affrontato la vicenda e
quindi il modo in cui la società italiana l’ha
vissuta: un drammatico fatto di cronaca – finito nel
modo peggiore – non viene visto per quello che è,
cioè l’ennesima violenza contro una donna, ma come
il sintomo inequivocabile di una tendenza alla
violenza e all’illegalità di gruppi di persone e
minoranze, in base alla nazionalità,
all’appartenenza etnica, al luogo in cui dimorano.
In quell’occasione, in pochi istanti e in maniera
assolutamente irresponsabile, rappresentanti
istituzionali e politici di diverso orientamento
hanno invocato il pugno di ferro su migliaia di
persone che non avevano niente a che fare con la
vittima, con l’abuso e l’omicidio, con il
responsabile di questi atti.
Tanto che, il 6 novembre 2007, l’Alto Commissariato
delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) ha
espresso preoccupazione per il clima di intolleranza
manifestatosi in quei giorni e per lo “stato di
tensione nei confronti degli stranieri alimentato
negli anni anche da risposte demagogiche alle
tematiche dell’immigrazione messe in atto dalla
politica”. Il giorno seguente il Presidente
dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa
ha messo in guardia l’Italia circa il rischio di una
“caccia alle streghe” contro i cittadini rumeni e in
particolare contro i rom.

Testa di ariete.
La violenza su una donna è diventata infatti la
“testa d’ariete” per sfondare la parete del pudore,
dell’equilibrio istituzionale, del rispetto dei
diritti umani e aprire la strada alla
discriminazione e all’erosione dei diritti,
attraverso fiumi di parole e specifici atti
normativi che rischiano di trasformare l’Italia in
un paese “pericoloso”, in questo momento
particolarmente per rom e rumeni, potenzialmente per
chiunque. Per chiunque di noi. L’erosione dei
diritti ci mette potenzialmente a rischio nelle più
diverse situazioni della nostra vita quotidiana,
come le mura domestiche, il luogo di lavoro, le
manifestazioni di piazza. Riteniamo che sia questa
la vera emergenza in Italia.
Con amarezza.
Amnesty International è
un’organizzazione indipendente, anche e soprattutto
rispetto alle parti politiche e ai partiti. I
politici italiani – lo diciamo con amarezza – non ci
hanno creato problemi in questo senso: sono stati
estremamente bipartisan, incredibilmente compatti
nel coro di esternazioni violente e discriminatorie.
Dopo quel episodio, l’allora sindaco di Roma, Walter
Veltroni, ha dichiarato che “non si possono aprire i
boccaporti” e che "prima dell'ingresso della Romania
nell'Unione Europea, Roma era la metropoli più
sicura del mondo", sottolineando quindi la necessità
di provvedimenti d’urgenza. In un’intervista
rilasciata il 4 novembre successivo Gianfranco Fini,
allora presidente di Alleanza Nazionale, ha
dichiarato: “c'è chi non accetta di integrarsi,
perché non accetta i valori e i principi della
società in cui risiede” e, riferendosi in
particolare ai rom ha affermato “mi chiedo come sia
possibile integrare chi considera pressoché lecito e
non immorale il furto, il non lavorare perché devono
essere le donne a farlo magari prostituendosi, e non
si fa scrupolo di rapire bambini o di generare figli
per destinarli all'accattonaggio. Parlare di
integrazione per chi ha una ‘cultura’ di questo tipo
non ha senso”.
Grave reponsabilità. Non sappiamo
perché i rappresentanti del Governo allora in carica
e il candidato del Partito Democratico alla
Presidenza del Consiglio abbiano parlato in questo
modo: ciò che ci preme dire è che, assieme ai
rappresentanti dei rispettivi schieramenti politici,
hanno una grave responsabilità nel deterioramento
del dibattito politico e nella legittimazione del
linguaggio razzista in Italia.
Con la stessa fretta, sull’onda emotiva di un fatto
di cronaca, il Consiglio dei Ministri si è riunito
la sera del 31 ottobre e ha approvato un decreto
sulle espulsioni dei comunitari. Il provvedimento ha
avuto un iter movimentato, essendo decaduto e
successivamente “reiterato” con alcune modifiche a
dicembre 2007.
Nel testo risultavano particolarmente preoccupanti
l’indeterminatezza dei nuovi motivi di espulsione
dei cittadini dell’Unione Europea, lasciati
scarsamente definiti nella norma (“motivi imperativi
di pubblica sicurezza”) e quindi fonte di
un’eccessiva discrezionalità delle autorità chiamate
ad applicarle, tra cui i prefetti. I contenuti della
decretazione d’urgenza sono infine confluiti nel
decreto legislativo 32/2008 che, migliorando il
testo originario, ha introdotto la necessità di
convalida del giudice ordinario per tutti i
provvedimenti di espulsione. Restano non ancorati a
parametri legali certi i presupposti
dell’espulsione.
Nonostante le promesse elettorali sui diritti di
migranti, questa è l’unica nuova legge in materia
approvata dal Governo presieduto da Romano Prodi.
I soui primi passi.
Con una linea di continuità di contenuti e di
approccio, ha mosso i suoi primi passi il nuovo
governo presieduto da Silvio Berlusconi.
Nel corso del primo Consiglio dei Ministri, il 21
maggio 2008 a Napoli, com’è noto è stato approvato
un insieme di modifiche e proposte normative,
anch’esse nominalmente riferite alla “sicurezza”,
che prevedono pesanti restrizioni e nuove figure di
reato e colpiscono soprattutto gli immigrati,
direttamente o indirettamente. Le nuove misure sono
state accompagnate da dichiarazioni in linea con la
tendenza a stigmatizzare interi gruppi di persone,
in particolare i rom e i migranti irregolari.
L’attuale leader dell’opposizione Walter Veltroni ha
dichiarato che queste misure in larga parte
coincidono con quelle pianificate dalla precedente
maggioranza di governo.
Il cosiddetto “pacchetto sicurezza” include:
o un decreto legge che punisce con la
reclusione e la confisca del bene chi affitta un
immobile a un immigrato irregolare, attribuisce più
ampi poteri ai sindaci in materia di “ordine e
sicurezza pubblica” e rende circostanza aggravante
di qualsiasi reato quella di essere stato commesso
da un immigrato irregolare; o un disegno di legge
che vuole aumentare da 60 giorni a 18 mesi il tempo
massimo della detenzione nei centri a scopo di
espulsione e che introduce il reato di ingresso e
soggiorno irregolare; o tre bozze di decreti
legislativi che inaspriscono, tra le altre cose, le
procedure di asilo.
L'allarme.
Hanno espresso allarme per la riforma normativa
molte organizzazioni non governative italiane e
internazionali e lo stesso Alto Commissariato delle
Nazioni per i rifugiati, il quale ha sottolineato
come i richiedenti asilo, spesso costretti dalla
mancanza di alternative a fare ingresso
irregolarmente nei paesi dove cercano protezione,
potrebbero venire accusati di aver commesso un reato.Nel
nuovo contesto normativo, quindi, i richiedenti
asilo che fuggono da persecuzioni e tortura
potrebbero essere accolti in Italia con
un’incriminazione per ingresso irregolare –
espressamente esclusa dalla Convenzione di Ginevra
sullo status dei rifugiati – e con 18 mesi di
detenzione in un CPT per il solo fatto di aver messo
piede nel nostro paese. Una misura che, secondo gli
standard internazionali, dovrebbe residuale ed
eccezionale.
Amnesty International è estremamente allarmata sia
per il contenuto di queste misure, sia per le
modalità affrettate e propagandistiche della loro
emanazione e per il clima di discriminazione che le
ha precedute e che le accompagna.
In questo contesto, in diverse parti d’Italia, vi
sono stati attacchi contro le comunità rom. Attacchi
che anche Amnesty International condanna e per i
quali chiede che siano aperte indagini per accertare
le responsabilità, che siano forniti adeguati
risarcimenti per le vittime e le loro famiglie e che
sia garantita un’adeguata protezione dei rom da
qualsiasi forma di violenza.
Attacchi.
Nel corso del 2007 e sino a praticamente ieri si
sono verificati attacchi violenti ad accampamenti
rom in diverse città e sono state segnalate diverse
aggressioni ai danni di immigrati romeni e di altre
nazionalità, tra cui i recentissimi episodi che
hanno colpito a Roma, nel quartiere Pigneto,
cittadini del Bangladesh.
La situazione italiana ha suscitato le
preoccupazioni delle Nazioni Unite (Comitato per
l’eliminazione della discriminazione razziale, marzo
2008) e dell’Ufficio per le istituzioni democratiche
e i diritti umani dell’OSCE, organismo che si occupa
a livello internazionale di sicurezza e che ha
sottolineato come la ricorrente stigmatizzazione di
gruppi quali rom e immigrati aumenta le probabilità
che si verifichino violenze contro di loro.
L’Italia e tutti i paesi UE dovrebbero attuare una
politica comune per l’inserimento sociale dei rom,
piuttosto che marginalizzarli ulteriormente ed
espellerli. Ricordiamoci che chi risente
particolarmente di queste migrazioni forzate sono i
bambini, costretti a fuggire e ad abbandonare la
scuola, quindi la possibilità di un futuro dignitoso
e più sicuro per tutti.
Tutti, indisciminatamente.
L’ondata di razzismo coinvolge a cerchi concentrici
i cittadini stranieri senza documenti regolari e, di
fatto in termini più generali, tutti i migranti
presenti nel territorio italiano.
Vorremmo che i rappresentanti politici italiani si
rendessero contro del fatto che parlare dei diritti
umani dei migranti non è impopolare. Amnesty
International lo ha verificato con la campagna
“Invisibili”: durante 16 mesi di attività, decine di
migliaia di persone hanno scelto di parlare di
questi temi senza pregiudizi, firmando petizioni,
organizzando o prendendo parte a spettacoli teatrali
e di musica, convegni e mostre. Crediamo che i
politici e le istituzioni italiane debbano avere lo
stesso coraggio dei bambini di Lampedusa, che ai
loro coetanei – i migranti che arrivano sulle loro
spiagge – hanno dedicato giochi e disegni sui
diritti umani.
Sul questo tema specifico dei diritti di migranti e
richiedenti asilo speravamo, fino a pochi giorni fa,
di poterapprezzare senza timori alcuni importanti
miglioramenti legislativi.
Tra questi, anche i risultati della campagna
“Invisibili” sui minori migranti detenuti all’arrivo
in Italia: la pubblicazione da parte del Governo dei
dati relativi agli arrivi dei minori via mare, la
netta diminuzione della detenzione dei minori non
accompagnati in frontiera e nuove migliorative
istruzioni del Ministero dell’interno sulla
determinazione dell’età, che impongono
l’applicazione del beneficio del dubbio in tutti i
casi di incertezza sulla minore età.
Complimenti.
Su uno di questi miglioramenti, invece, non abbiamo
fatto in tempo a complimentarci: l’introduzione
dell’effetto sospensivo, che consente al richiedente
asilo di restare nel territorio italiano durante la
decisione di secondo grado sulla sua domanda, come
richiesto dagli standard internazionali, potrebbe
essere presto cancellato dalle nuove misure
legislative per la sicurezza. In assenza
dell’effetto sospensivo, una decisione sbagliata in
prima istanza può comportare conseguenze gravi e
irreparabili per il richiedente asilo espulso nel
suo paese di origine. Pensate che un cittadino
sudanese del Darfur o eritreo possa presentare una
seconda istanza dal proprio paese, dopo una fuga e
un rimpatrio forzato, magari dopo essere passato in
andata e al ritorno attraverso i campi di detenzione
e le torture in Libia?
Questa scelta legislativa peggiorativa in materia di
migranti e richiedenti asilo, già di per sé
contraria agli standard internazionali sui diritti
umani, è preoccupante anche alla luce della
collaborazione tra Italia e Libia.
Sempre più intensi.
Una collaborazione trasversale ai governi che si
sono succeduti dal primo accordo siglato nel 1999
dall’allora Ministro degli esteri Lamberto Dini, con
un paese che – allora come oggi – non ha firmato la
Convezione di Ginevra sui rifugiati, non ha una
procedura di asilo, attua espulsioni a tappeto nei
confronti di migranti e richiedenti asilo. I
rapporti si sono via via intensificati con la
mediazione in prima persona, nei loro ruoli
istituzionali di Ministri, degli onorevoli Massimo
D’Alema, Piero Fassino, Giuseppe Pisanu e Giuliano
Amato. L’atto finale, per il momento, è l’accordo
del 29 dicembre 2007, che prevede il pattugliamento
congiunto con 6 navi della Guardia di Finanza cedute
alla Libia, con comando 3interforze a coordinamento
libico. Pochi mesi dopo, con l’approvazione del
rifinanziamento delle forze armate e di polizia in
missioni internazionali, oltre 6,2 milioni di euro
di denaro pubblico sono stati destinati a finanziare
il pattugliamento congiunto. In quegli stessi mesi,
il leader libico Gheddafi confermava pubblicamente
di voler attuare deportazioni di massa.
In alto mare. È quindi sempre più
urgente che gli accordi con la Libia siano resi
pubblici, che venga chiarito quali sono le garanzie
richieste dall’Italia per i diritti umani e che cosa
accade alle persone fermate in mare nel
pattugliamento congiunto.
La segretezza di accordi, dati e informazioni che
riguardano la vita di migliaia di persone non può
prolungarsi ulteriormente e assume una parvenza
ancor più preoccupante alla luce del clima italiano,
che sembra attribuire ai migranti responsabilità
collettive e una soglia più bassa di tutela dei
diritti umani e quindi di dignità umana.
Le minoranze non sono le uniche ad essere colpite
quando la cultura dei diritti viene sostituita dalla
loro erosione e dall’impunità.
Senza leggi.
E proprio parlando di impunità, non possiamo non
ricordare ancora una volta la mancanza di leggi
adeguate e di strumenti di prevenzione in Italia di
maltrattamenti e tortura. Questo contesto rende
allarmante il problema dei diritti umani, trovando
purtroppo conferma nei processi in corso.
Lo sanno bene le centinaia di persone che sono state
vittime di abusi a Genova, durante il G8 del 2001.
Nonostante gli impegni presi dal Governo Prodi, non
sono state garantite né una commissione indipendente
di inchiesta né gli strumenti necessari per
garantire che quanto accaduto a Genova non si
ripetesse più.
Dove sono il reato di tortura e la ratifica del
Protocollo opzionale alla Convenzione contro la
tortura, che decine di migliaia di persone, le
Nazioni Unite e il Consiglio d’Europa chiedono
all’Italia ormai da troppi anni?
Perché nessuno degli imputati nel processo è stato
sospeso dal servizio e molti sono stati di fatto
promossi, così contribuendo a diffondere un
pericoloso clima di impunità tra chi dovrebbe
proteggere la sicurezza?
G8.
Senza alcuna soddisfazione constatiamo oggi gli
effetti pratici di questo stato di cose, previsti e
annunciati da AI senza incontrare il dovuto ascolto.
Nel processo per Bolzaneto la pubblica accusa ha
ricostruito gli avvenimenti che, in quei giorni da
non dimenticare, hanno colpito nella caserma oltre
250 persone.Secondo i pubblici ministeri, il
trattamento è stato “di oggettiva vessazione nei
confronti di tutti i detenuti e per tutto il periodo
della loro permanenza presso il sito” e ha violato
il divieto di tortura e maltrattamenti previsto
dalla Convenzione europea dei diritti umani. Le
memorie dei pubblici ministeri hanno segnalato che è
difficile fotografare i fatti accaduti con l’attuale
codice penale, che non include il reato specifico di
tortura.
Fa effetto ascoltare che chi materialmente indaga
sui reati e ne deve chiedere l’applicazione,
constata gli effetti pratici della mancanza di un
reato di tortura. Altrettanto effetto fa constatare
che denunce di maltrattamenti e abusi simili sono
emersi, dopo Genova, rispetto alle situazioni più
disparate di protesta e di espressione del dissenso.
Ne sono un esempio gli atti di violenza denunciati
in relazione all’intervento da parte delle forze di
polizia in Val di Susa nella notte tra il 5 e il 6
dicembre 2005, contro un centinaio di persone che
manifestavano contro la costruzione di un
collegamento ferroviario ad alta velocità.
Stessa mentalità.
Per quanto sembrino cose diverse, la mentalità che
consente tutto questo è la stessa che porta un
governo a fidarsi di una semplice lettera di
assicurazioni diplomatiche, con la quale un paese
come la Tunisia promette di non torturare una
persona che l’Italia vuole rinviare.
E su questo argomento, l’Italia ha subito una sonora
lezione da parte della Corte europea dei diritti
umani, che dovrebbe rappresentare un monito per
tutti.
Si tratta della sentenza che, a febbraio, ha
annullato il provvedimento di espulsione nei
confronti del cittadino tunisino Nassim Saadi,
emesso dal Ministro dell’Interno Amato sulla base
del “decreto Pisanu”. L’Italia sosteneva che il
rischio di tortura all’arrivo non bastasse in sé a
bloccare l’espulsione. La Corte europea ha invece
respinto il tentativo italiano di relativizzare il
divieto di tortura nel diritto internazionale e ha
riaffermato che si tratta di un principio assoluto.
Abu Omar.
L’estrema debolezza dell’impegno italiano contro la
tortura e a sostegno del sistema internazionale dei
diritti umani è il contesto in cui si sviluppa il
caso di rendition che ha coinvolto Abu Omar.
Le indagini della magistratura
italiana e l’avvio del processo sul coinvolgimento
di funzionari di intelligence italiani e
statunitensi nella rendition di Abu Omar stanno
contribuendo a svelare la verità per mezzo della
giustizia.
Fino ad oggi i ministri della Giustizia che si sono
succeduti, Roberto Castelli e Clemente Mastella, non
hanno inoltrato al Governo Usa le richieste di
estradizione dei 26 agenti della Cia, come
sollecitato anche dal Parlamento Europeo e dal
Consiglio d’Europa. Non solo: l’Italia,
contrariamente alla maggioranza dei paesi europei,
di fatto non ha collaborato con le inchieste del
Parlamento europeo e del Consiglio d’Europa sulle
rendition e le violazioni dei diritti umani nella
guerra contro il terrorismo.
Auspichiamo un’inversione di rotta, che potrebbe
cominciare da un tema sin qui non citato. L’Italia,
notoriamente tra i principali produttori ed
esportatori di armi al mondo, dovrebbe integrare
effettivamente il rispetto dei diritti umani nelle
scelte politiche e amministrative che riguardano
queste attività.
Afghanistan.
Le singole autorizzazioni devono essere affrontate
dal Governo anche nell’ambito della propria politica
estera. Gli sforzi dell’Italia e della comunità
internazionale per il rafforzamento della tutela dei
diritti umani in Afghanistan, per esempio, rischiano
di essere danneggiati da un’eccessiva quantità di
armi piccole e leggere offerta dai paesi Nato e tra
essi dall’Italia. L’Italia ha esportato verso
l’Afghanistan armi “comuni da sparo” per oltre 3
milioni di euro per il quinquennio 2003/2007, con un
netto incremento nell’ultimo anno.
In particolare, l’Italia ha sempre dichiarato di
volersi impegnare per la difesa dei diritti dei
minori, con una specifica attenzione ai bambini
soldato. Tra il 2002 e il 2007, i governi che si
sono alternati hanno autorizzato l’esportazione di
armi di diversa tipologia e calibro – per un valore
di diversi milioni di euro – a privati e forze
armate di stati quali Filippine, Afghanistan,
Colombia, Repubblica Democratica del Congo, Nepal,
Uganda, Burundi e Ciad.
Per una “sfortunata” coincidenza, questi paesi sono
tutti nell’elenco di quelli in cui i bambini sono
utilizzati come soldati, in base ai Rapporti del
Segretario Generale delle Nazioni Unite e della
Coalizione “Stop all’uso dei bambini soldato”.
Non stiamo facendo una richiesta utopistica e
irrealizzabile, ma solo la richiesta di una scelta
netta: quella di non autorizzare più esportazioni di
armi né da guerra né cosiddette “comuni da sparo”
verso paesi in cui quelle armi alimentano conflitti
di cui bambine e bambini sono vittime certe e
numerose, perché feriti o uccisi o perché mandati a
combattere con pistole e fucili made in Italy.
Più in generale, per concludere, chiediamo
all’Italia di fare una scelta ben precisa, che non
ammette compromessi: il governo e il parlamento
devono decidere se violare i diritti umani oppure
tutelarli, e agire di conseguenza.
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Guinea,
un film già visto
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Crisi di governo, economica e militare nel Paese
dell'alluminio. Come nel 2007 |
Senza
governo, con i militari in rivolta e l'opposizione pronta a scendere
in piazza. In Guinea il tempo pare essere tornato indietro a un anno
fa, quando il presidente Lansana Conte dovette cedere di fronte alle
proteste di piazza e agli oltre 180 morti causati dagli scontri tra
manifestanti e polizia, nominando un governo di unità nazionale. Ma
una settimana fa il premier è stato sfiduciato per decisione del
presidente, provocando le ire di opposizione e sindacati. E da due
giorni i militari sono in fermento per le paghe arretrate.
Il
fulmine all'anestetizzata vita politica guineana è arrivato la
scorsa settimana, quando il presidente Conte, salito al potere
nel 1984 grazie a un golpe, ha deciso di licenziare il premier
Lansana Kouyaté, l'uomo “di consenso” scelto assieme ad
opposizione e sindacati a séguito degli incidenti del febbraio
2007, causati dal carovita ma presto diretti contro l'entourage
del presidente, responsabile della mala gestione del Paese. Al
posto di Kouyaté, impegnato nel varo di una legislazione che
avrebbe dovuto regolamentare le prossime elezioni, previste per
il 2009, è stato posto Ahmed Tidiane Souaré, ex-ministro delle
Miniere e uomo vicino al presidente. Il tutto senza consultare
l'opposizione che, divisa dopo le proteste dello scorso anno, ha
trovato un motivo per ricementare l'alleanza con i sindacati e
al suo interno. Finora, alcuni partiti hanno risposto
freddamente all'invito fatto da Souaré affinché entrassero nel
governo, mentre altri hanno minacciato di tornare a manifestare
per le strade.
Se l'opposizione si è limitata a minacciare,
l'esercito in piazza ci è sceso per davvero. Anzi, ha preferito
chiudersi in caserma. Così hanno fatto lunedì i soldati della
base Alpha Yaya Diallo nella capitale Conakry, che ospita i
reparti di élite dell'esercito, per protestare contro il
carovita (nonostante per i soldati i prezzi siano calmierati) e
per la mancata paga. I militari, che reclamano il pagamento di
arretrati del valore di 5 milioni di franchi Cfa (circa 1.000
dollari) dal 1996, hanno addirittura catturato il vice-capo
dell'esercito, il generale Mamadou Sampil, giunto alla base per
trattare con loro, rilasciandolo solo ieri sera dopo intense
trattative. Il mezzo ammutinamento si è esteso anche ai reparti
di stanza a Kindia, 130 km a nord della capitale, e a N'Zérékoré,
nel sud.
Per
l'ennesima volta, e a intervalli più o meno regolari, è riemerso
il cortocircuito nella politica guineana: un presidente che
governa attraverso i suoi fedelissimi, estremamente reticente a
dividere il potere con l'opposizione, e che ritiene la sua
presidenza una sorta di dono divino, da difendere a tutti i
costi. Ai suoi piedi ha un Paese dalle grandi potenzialità
(primo esportatore al mondo di bauxite, con un terzo delle
riserve mondiali, oltre a ferro, oro, diamanti) ma consumato da
una crisi economica che dura da anni, con servizi inesistenti e
un'inflazione che ha reso proibitivo anche l'acquisto dei generi
di prima necessità. In parte tradita da un'opposizione incapace
di mobilitarsi se non nei momenti di crisi, la popolazione ha
davanti una difficile scelta: chinare la testa, come ha fatto
per anni, o scendere in piazza. Come l'anno scorso, al prezzo di
186 vittime.
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Usa, un esercito di
malati |
Stress
post-traumatico: le vittime aumentano del 50 per cento
in un anno |
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Balza alle stelle il numero di
militari statunitensi trattati per disordini da
stress post-traumatico (Ptsd). Il numero dei
pazienti in cura al ritorno da missioni sempre
frequenti e durature nei teatri di guerra in
Afghanistan e Iraq ha subito un aumento del 50
percento nel 2007, rispetto al 2006. L'incremento ha
portato a 40 mila il numero dei soldati ai quali è
stata diagnosticata tale forma di stress a seguito
di uno dei due conflitti.
La
punta di un iceberg.
La maggior parte di loro ha prestato servizio
nell'esercito, il corpo che ha il più alto numero di
vittime di Ptsd, 28.365, diecimila dei quali solo lo
scorso anno. Tra i Marines, i malati sono 5.581
(2.114 lo scorso anno). Aeronautica e Marina
annoverano meno di un migliaio di casi. I dati sono
stati rilasciati dal Ufficio sanitario del
Pentagono. Le autorità militari Usa hanno anche
riferito che le cifre rese note rappresentano solo
una piccola frazione di tutti i dipendenti del
Pentagono malati di Ptsd. Tra loro, infatti, non
sarebbero stati inclusi quelli presi in carico dal
Dipartimento degli affari per i veterani, o gli
operatori civili, così come coloro che non
denunciano la malattia per paura di essere
stigmatizzati o di perdere il lavoro.
Gli
incubi della guerra.
"Se dovessimo descrivere il livello di conoscenza
del problema, direi che siamo ad uno stadio...
infantile", ha detto il medico generale
dell'esercito, Generale Eric Shoomaker. I malati da
stress post-traumatico si sentono costantemente
sotto minaccia, fanno continuamente incubi o sono
soggetti a pensieri ossessivi nei quali rivivono gli
orrori della guerra, dalla perdita di un compagno,
delle ferite subite in combattimento. Molti
diventano emotivamente insensibili. L'esercito
soffre di croniche carenze di personale di fronte al
costante aumento dei malati psichici. Trecento nuovi
medici verranno assunti nei prossimi mesi. Dovranno
sottoporre a cure adeguate i militari che tornano
dai teatri di guerra in Iraq e Afghanistan, che
hanno raggiunto, rispettivamente, le 170 mila e le
27 mila unità.
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28 maggio
Dalla mafia
devota, ai rapporti con i terroristi, ai costi del Vaticano
Quattro libri passano al setaccio gli aspetti più controversi della Chiesa
Costi, omertà e pedofilia
L'altro lato della tonaca
di
MATTEO TONELLI
ROMA - Si parla di Chiesa. Quella che passò
attraverso gli anni di piombo. Quella del sequestro Moro e della
dissociazione. La Chiesa e Cosa Nostra, la mafia devota e la religione
"capovolta". Ed ancora Chiesa e pedofilia, una delle pagine più nere della
storia. E i conti in tasca al Vaticano per capire quanto ci costa la Santa
Sede.
I costi della Chiesa. Da una serie di articoli a firma di Curzio
Maltese su Repubblica, nasce La Questua. Quanto costa la Chiesa
agli italiani (Feltrinelli, 14 euro). Qualche cifra per capire. Un
miliardo di euro dai versamenti dell'otto per mille. 650 milioni per gli
stipendi degli insegnanti di religione. 700 milioni per le convenzioni su
scuola e sanità. 250 milioni per il finanziamento dei Grandi Eventi.
Mittente lo Stato italiano, destinatario la Chiesa cattolica. Senza contare
vantaggi fiscali come il mancato incasso dell'lci. il totale si aggira sui 4
miliardi di euro. Una somma che solo per un quinto viene destinata a
interventi di carità e di assistenza sociale.
La mafia devota. Sembrano mondi lontanissimi. Eppure tra mafia e
religione, c'è un legame tutt'altro che tenue. Basta leggere La mafia
devota di Alessandra Dino (Editori Laterza, 295 pagine, 16 euro) per
rendersene conto. Per capire quante volte la mafia ha utilizzato e ancora
utilizza simboli cattolici per legittimarsi e autoassolversi. Quasi che
esistesse un Dio "privato" con cui negoziare "la salvezza della propria
anima. Una sorta di religione "capovolta", insomma. A cui, troppo spesso, la
Chiesa risponde con sottovalutazione o limitando il problema ad un concetto
di religiosità intimistico nel quale il mafioso è visto solo come "pecorella
smarrita". Perché c'è il Dio di padre Puglisi ucciso dalla mafia nel '93, ma
anche la Chiesa che modifica il tragitto della processione di sant'Agata a
Catania per arrivare sotto il balcone del mafioso uscito di prigione e
rendergli omaggio. Un'ibridazione, come la chiama la Dino che, dopo aver
parlato con molti sacerdoti siciliani. Ci sono parroci che "auspicano un
intervento della Chiesa "in sinergia con lo Stato", quelli che riducono il
problema ad un concetto di religiosità intimistico e quelli, e sono la
maggioranza degli intervistati, che non vedono la presenza mafiosa sul
territorio come una minaccia diretta per la Chiesa. Alcuni segnali vanno,
fortunatamente, in controtendenza. Ma una pronuncia chiara e diretta delle
alte sfere ecclesiastiche, ancora stenta ad arrivare.
Chiesa e terrorismo. Per quelli che scelsero la lotta armata Camillo
Torres, il prete guerrigliero, fu un punto di riferimento. Così come molti
terroristi si formarono in ambienti cattolici, quelli più sensibili ai temi
della giustizia sociale. Una "vicinanza" che trovò conferme durante i
sequestri Sossi e Moro e nella scelta di Prima Linea che consegnò le armi
alla Curia di Milano. Per chiudere con gli ex terroristi impegnati nel
volontariato cattolico. Si chiama Parole, opere e confessioni. La Chiesa
nell'Italia degli anni di piombo il libro di Anna Valle (Rizzoli, 262
pagine, 17 euro), un viaggio-inchiesta sul ruolo della Chiesa in una delle
pagine più cupe della storia contemporanea. Dagli inizi, quando alcuni
ragazzi "cresciuti negli oratori" decisero che l'unica strada possibile per
cambiare le cose era la lotta armata. "Mi sono chiesto tante volte i
messaggi che abbiamo dato - dice Don Ciotti nel libro - se e come aiutavamo
la gente a saldare la terra con il cielo". Poi c'è la vicenda Moro. La
Chiesa che fa, o vorrebbe fare di tutto per salvare lo statista e quella che
ferma ogni nuovo tentativo. Poi arriva il tempo della sconfitta del
terrorismo. Il carcere, la dissociazione, il reinserimento nella società. E
ancora una volta il ruolo importante della Chiesa. Quasi a chiudere un
cerchio iniziato anni prima in tranquilli oratori di provincia.
Chiesa e Pedofila. Il più orrendo dei crimini. L'ombra peggiore sulla
Chiesa. I silenzi, il dolore, le reticenze. Le parole delle vittime. Due
dati, tra gli altri, che si possono leggere in Viaggio nel silenzio
di Vania Lucia Gaito (Edizioni Chiarelettere, 273 pagine, 13 euro): in
Italia i casi noti di pedofilia clericale sono una cinquantina ma le
segnalazioni molte di più. L'elenco dei sacerdoti condannati per pedofilia è
disponibile. Nel libro vengono ricostruiti episodi e si fanno nomi e
cognomi. Ma quel che si vuol capire è il perché. Partendo dall'educazione
nei seminari. Ne viene fuori un quadro allarmante: la mancanza di uno
sviluppo psico-sessuale normale può spiegare la tendenza alla pedofilia. Le
diocesi americane, dopo lo scandalo che le ha investite, hanno chiuso i
seminari minori. In Italia continuano a essercene più di 100. E la
testimonianza dell'ex sacerdote Alessandro Pasquinelli (che patteggia e
sconta ingiustamente una condanna per pedofilia) accende i riflettori sul
problema: "Ho l'impressione che nei seminari ci fosse una percentuale di
omosessuali molto alta. È capitato anche a me di ricevere proposte".
27 maggio
Risparmiateci via Almirante
di FRANCESCO MERLO
POVERO Almirante. La via di Roma che il sindaco
Alemanno devotamente vorrebbe intitolargli non solo rischia di condannarlo
per sempre a quell'idea di fucilatore che a sinistra avevamo di lui.
Ma in più lo svilisce a ingrediente di un'insipida insalata toponomastica,
di una par condicio viaria: se le proposte di Alemanno verranno accettate,
al centro di Roma ci sarà infatti il Foro Fanfani dal quale si dipartiranno
a sinistra Viale Berlinguer e Vicolo Craxi, e a destra il Nuovo Corso
Almirante. Il sindaco ha spiegato che lo scopo di questa sua idea di
lapidare - mettere in lapide - i cadaveri di faziosa lacrimatura sarebbe la
pacificazione degli italiani, evidentemente non nel senso di farli vivere in
pace, ma in quello di farli ridere in pace. Mancano solo le prenotazioni a
futuro loculo: fra cent'anni ci sarà il cortile antagonista Bertinotti; a
Veltroni toccherà almeno un quartiere; e, perché no?, un romantico vialetto
verrà intitolato a Sandra e Clemente.
La verità è che questi amministratori di An, anche i migliori tra loro come
il sindaco Alemanno, mostrano di essere goffi e impacciati. Di sicuro
riaprendo, e proprio con Almirante, la guerra civile della toponomastica,
rischiano di trasformare in folklore un problema che potrebbe anche avere
una sua legittimità storica e simbolica.
E' evidente che Alemanno - e con lui il ministro Andrea Ronchi e il
capogruppo al Senato Maurizio Gasparri - si inventano la Grosse Koalition
cimiteriale, e sarebbero magari disposti a intitolare strade persino a Mara
Cagol e a Giangiacomo Feltrinelli, pur di ottenere nella storia d'Italia un
posto per il fondatore del Msi, che attualmente nei libri occupa appena
qualche cenno greve e distratto. Ma si può rifare la storia "strada
facendo"?
E bisogna aggiungere che se l'avesse fatta qualcun altro, un ex nemico
piuttosto che gli ex allievi, la proposta di intitolare una via ad Almirante
sarebbe stata magari sbagliata, ma almeno insospettabile. Invece un fazioso
omaggio toponomastico non solo non risarcirebbe Alimirante, inchiodandolo al
teschio nero e alle foto con gli sprangatori che ancora arredano gli archivi
dei giornali e la nostra memoria, ma sarebbe anche un brutto segnale per la
nuova stagione di governo, che dovrebbe al contrario marcare la
discontinuità con un passato ancora troppo recente: gli anni Settanta. Il
bisogno di dissotterrare e risarcire i propri morti con periodici incendi
emotivi svela che c'è un'anima di An che forse si sente umiliata e
minacciata da una identità istituzionale ormai troppo composta e discreta.
Le radici di Alemanno e Gasparri, le bandiere, il passato che ancora li
inorgoglisce non è certo quello fascista che non ha nulla a che vedere con
loro. Essi celebrano e mitizzano il passato missino, sfogliano e onorano
l'album di famiglia della destra italiana degli anni Settanta. L'etica e la
solidarietà che li cementa è la memoria del Msi di Almirante appunto,
esaltato come campione della democrazia italiana. Ma l'estremismo di destra
è un piccolo cimitero di vittime e di carnefici.
Chi ha dimenticato l'Italia degli anni Settanta - ma chi l'ha dimenticata? -
potrebbe prendere per buone le vibrazioni di orgoglio di Alemanno anche
perché ci furono effettivamente vittime innocenti e pulite tra quei giovani,
e bene ha fatto Veltroni a rendere onore, con una passione che a tutti -
anche a destra - è parsa sincera, alla memoria dei fratelli Mattei
orrendamente bruciati vivi da un commando di vigliacchi terroristi di Potere
Operaio.
Ma i picchiatori fascisti non sono un'invenzione della propaganda di
sinistra. Non erano animelle candide i giovani estremisti neri che Alemanno
spesso compiange. Alcuni di loro organizzavano spedizioni punitive e agguati
vigliacchi, aggredivano e colpivano, e qualcuno è saltato in aria
fabbricando e sistemando bombe, e c'è stato un terrorismo nero che ha ucciso
e ha accoltellato. E' vero che lo spirito del tempo proteggeva di più la
violenza dell'estrema sinistra, ma la violenza nera di quegli anni non fu
legittima difesa né tanto meno eroismo.
Chiediamoci dunque, al netto della goffaggine, cosa vuole sostenere Alemanno
proponendo di intitolare una via di Roma a Giorgio Almirante. Forse che
liberò l'Italia dai rancori eversivi fascisti disinnescandoli dentro il Msi,
partito borghese salazariano croce e ordine? O ancora che, come aveva fatto
Togliatti dopo l'attentato di Pallante, Almirante sconfessò e disarmò il
terrorismo nero? Oppure che, rendendo omaggio alla salma di Berlinguer, è
stato un precursore della pacificazione? Alemanno vuole ricordare Almirante
per il razzismo giovanile o per l'abiura che di quel razzismo pronunziò da
vecchio?
Invece di lapidare i cadaveri con accanimento nostalgico-ideologico ci
porti, Alemanno, i libri, gli studi, i documenti, le testimonianze. Ragioni
e si confronti nei convegni seri con gli storici che ricordano Almirante
come un fucilatore; e con chi dall'esterno non riusciva a distinguere tra
manganello e doppiopetto. Alemanno liberi, se ci riesce, questo personaggio
complesso dall'ambiguità e dalla doppiezza che in tanti gli attribuiamo.
Insomma provi a convincerci.
Diceva in vita il suo Almirante: "Quando vedi la tua
verità fiorire sulle labbra del nemico devi gioire perché è il segno della
vittoria". Nessuno può sapere cosa direbbe da morto. Ma forse, come il
cadavere di Polidoro che Enea sfruttava per addobbare l'altare della sua
città, anche quello di Almirante mormorerebbe: "parce sepulto", risparmiami.
Riso amaro e liti di
condominio
Va in scena a Dakar l'ennesimo
sciopero contro i bassi stipendi e gli aumenti del prezzo del
riso |
Scritto da
Alessio Antonini
I taxi gialli e gli autobus che dalla periferia vanno verso il
centro della città rallentano all'improvviso e un coro stonato di
clacson scuote Dakar. Gli autisti dei car rapide, i furgoni colorati
che garantiscono il servizio pubblico di trasporti nella capitale
senegalese, si sporgono dai finestrini e cominciano a gridare in
wolof, la lingua nazionale. Altri saltano giù dalle vetture agitando
le braccia in gesti e balletti incomprensibili ai pochi bianchi
incastrati nel traffico delle prime ore della mattina. "E'
l'ennesimo sciopero per l'aumento del prezzo del riso - dice Jerome,
tassista maliano immigrato in Senegal a cercar fortuna - in questo
periodo ce n'è uno alla settimana".
 Un
chilometro più avanti in direzione dell'enorme mercato di Sandaga,
cuore pulsante dell'economia dakarois, un migliaio di manifestanti
ha bloccato il traffico: alcuni sventolano sacchi di iuta vuoti, in
cui una volta c'era riso, altri si limitano a stare fermi in mezzo
alla strada. Un uomo sul tetto di un furgoncino Renault giallo e blu
parcheggiato di traverso rispetto alla direzione di marcia grida in
un megafono e incita la folla. "La gente è arrabbiata sul serio -
spiega Alistair Thomson, corrispondente della Reuters da Dakar - la
spesa quotidiana per mantenere una famiglia è passata da poco meno
di tre dollari al giorno di gennaio ai quasi cinque di oggi e non ci
sono stati aumenti di stipendio per i dipendenti pubblici negli
ultimi dodici mesi". Il riso infatti costa quasi il doppio rispetto
all'anno scorso e, in un paese dove i piatti nazionali sono lo yassa
poulet con riso, la djeboudjenne con riso o il riso e basta per i
più poveri, l'aumento dei prezzi si sente più che da altre parti.
Il Senegal importa circa l'80% del riso che consuma ed è
particolarmente esposto alla crisi dei prezzi. "Nonostante
l'economia senegalese stia crescendo a un ritmo del 6% annuo, è
chiaro che il governo non ha applicato nessuna politica di
ridistribuzione della ricchezza", commenta Alex Segura,
rappresentante per il Fondo Monetario Internazionale a Dakar. "In
tutto il paese sta bollendo la pentola della pressione sociale e per
il momento il governo si è limitato ad accusare le organizzazioni
umanitarie e i francesi di tutti i mali del mondo". Non a caso
l'ottantunenne presidente Abdoulaye Wade, ben saldo al timone del
palazzo presidenziale dal 2000, è apparso di recente alla
televisione nazionale, incolpando la Fao di totale inefficienza e
proponendo di sopprimerla. "Dare la colpa agli stranieri è l'arma
segreta dei politici di tutto il mondo: in questo caso la Fao e le
Nazioni Unite sono un bersaglio perfetto perché tutti in Africa
sanno che non servono a niente". Mamadou Bia, sindacalista
senegalese, non ha dubbi: "La Fao è colpevole di inefficienza, ma
non bisogna pensare che Wade abbia all'improvviso a cuore le sorti
dei suoi cittadini, l'attacco alla Fao è un modo per tenere buona la
gente. Punto e basta".
 Le
dichiarazioni di Wade contro la Fao sono un problema prevalentemente
interno, ma va aggiunto che le organizzazioni internazionali negli
ultimi mesi si sono messe d'impegno per entrare nel mirino: il
quotidiano senegalese l'Observateur avanza l'ipotesi che il
Programma Alimentare Mondiale (Pam) delle Nazioni Unite stia
manipolando la crisi alimentare per riuscire a piazzare in Senegal
varie tonnellate di riso thailandese prossimo alla scadenza che il
Pam aveva già acquistato e stoccato, mentre il giornale
filogovernativo Le Soleil attacca i progetti di partenariato europei
tacciandoli di essere nient'altro che operazioni finanziarie per il
rilancio dell'economia del vecchio continente a scapito dei
produttori di materie prime senegalesi. "E' vero che la gente
soffre, ma l'ingresso di aiuti alimentari in grandi quantità in un
paese come il Senegal rischia di fare più danni di quanti ne
potrebbe risolvere: la distribuzione gratuita di riso in questo
momento metterebbe in crisi gli imprenditori della zona che il riso
lo importano e lo vendono al mercato". Alia Yousof, della Standard
Asset Management, rincara la dose: "le aziende stanno creando
maggiori opportunità di distribuzione di ricchezza in Africa con
l'assunzione di lavoratori di quanto non stanno faccendo le
istituzioni umanitarie distribuendo elemosina".
L'intervento delle organizzazioni internazionali e umanitarie viene
visto dagli investitori non occidentali, prevalentemente arabi o
cinesi, come uno strumento di concorrenza sleale nei confronti delle
attività produttive. "Non è la prima volta che le organizzazioni
internazionali dipingono una situazione peggiore di quanto non sia
in realtà per attirare fondi - scriveva due anni fa a proposito del
Congo Barry Sesnan, ex dirigente dell'Unicef e oggi a capo di un
Think Tank per lo sviluppo - gli interventi umanitari in mancanza di
un coordinamento serio con lo Stato e con le imprese locali si
rivelano un tifone che spazza via il fragile impianto economico dei
paesi emergenti". Il Senegal come tutta l'Africa è un produttore di
materie prime: l'aumento del prezzo del riso è accompagnato anche da
un aumento dei fatturati delle imprese locali che sfruttano le
concessioni petrolifere sulle coste dell'Africa Occidentale,
aumentando non tanto la forbice tra paesi in via di sviluppo e paesi
sviluppati quanto tra senegalesi ricchi e poveri. "Non c'è bisogno
di regali - continua Bia - basterebbe rivedere i salari dei
lavoratori e i senegalesi tornerebbero ad avere accesso ai beni di
consumo come l'anno scorso. Non bisogna confondere un problema di
contratti collettivi con un emergenza umanitaria".
Il presidente Wade questo lo sa, come sa benissimo che l'aumento dei
prezzi degli alimenti è legato alla crescita di domanda di materie prime
da parte della Cina e dell'India e a causa della politica estera
statunitense che ha mandato alle stelle il prezzo del petrolio. "Il
Senegal è un produttore di greggio e di materie prime - spiega Andrea
Goldstein dell'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo
Economico - ma ormai la regione dell'Africa Occidentale ha legami più
solidi con la Cina e con il Brasile di quanti ne abbia con l'Europa. I
padroni delle concessioni petrolifere sono gli esponenti politici
senegalesi che si guardano bene dall'additare come un problema l'aumento
della domanda dei mercati asiatici o di criticare la politica di
espansione americana". Questo metterebbe in crisi, da una parte, i
rapporti con le autorità cinesi che fanno affari con il governo e,
dall'altra, i rapporti con l'Africom, il comando unificato statunitense
per l'Africa, che coordina le operazioni militari statunitensi su tutto
il continente nero. "La Fao - aggiunge Bia - questa volta è il debole
tra i forti e il governo è consapevole che le sue dichiarazioni non
avranno conseguenze".
 Il
discorso di Wade però mette in luce un problema che è diventato chiaro
negli ultimi anni: "Non c'è più confine tra l'impianto degli aiuti
umanitari, le imprese occidentali e le politiche di sicurezza - scrive
Sesnan - i singoli soggetti agiscono di concerto e si scambiano favori
reciproci". Ne è prova la facilità di passaggio degli operatori
umanitari dalle organizzazioni alle imprese e il contatto continuo con
gli ambienti militari. "E' nostra intenzione proteggere e aiutare paesi
come il Senegal che hanno gravi problemi di sicurezza sul territorio -
ha detto l'ammiraglio statunitense Anthony Kurta, coordinatore
territoriale del programma Africom - anche contribuendo ai programmi di
sviluppo". La presenza fino all'inizio di maggio della portaerei USS
Fort McHenry nelle acque territoriali senegalesi è stata letta dal
governo come un chiaro segnale dei rapporti che il Paese deve mantenere
con gli alleati americani. L'amministrazione dakarois è terrorizzata dal
finire su una possibile lista nera dei terroristi perché questo
comporterebbe la fine dei contratti commerciali come sono stati intesi
finora. Fino al 2003 il Senegal infatti intratteneva ottimi rapporti
diplomatici con i paesi del Golfo Persico per scambi di expertise
sull'estrazione petrolifera, rapporti che si sono immediatamente
raffreddati in seguito alla prima visita ufficiale del presidente
americano George Bush a Dakar. "Gli Stati Uniti hanno chiarito al
governo senegalese che è più vantaggioso per il Senegal stare dalla loro
parte - scrive Daniel Volman dell'African Security Research Project - le
conseguenze di una scelta diversa possono essere immensamente gravi per
i gruppi dirigenti del paese".
Basti pensare che l'allarme terrorismo dell'anno scorso ha spinto a
modificare il percorso della Parigi Dakar che ha sempre portato turismo
e denaro in Senegal. La gara più famosa del mondo infatti nella sua
edizione 2009 non toccherà né Parigi né tantomeno Dakar: si farà in Sud
America, da Buenos Aires in Argentina a Valparaiso in Cile. "Quello che
gli Usa non possono fare per il momento - prosegue la Yousof - è
proporre qualcosa di più vantaggioso rispetto a quello che già offre la
Cina". In cambio di aiuti per la lotta all'Hiv e alla povertà erogati
dall'organizzazione umanitaria protestante World Vision gli Usa hanno
ottenuto in tutta l'Africa occidentale le cosiddette lily pad facilities
(installazioni a ninfea), luoghi in cui gli aerei militari statunitensi
possono atterrare e ripartire senza dover avvisare le torri di controllo
o le autorità locali, come gli insetti sulle piante che galleggiano
sull'acqua, appunto. Nel gioco al rialzo, la Cina però ha offerto di
più: la costruzione di gran parte delle nuove opere edilizie di Dakar in
cambio del petrolio che sarà scoperto in futuro. Di fatto un guadagno
immediato a costo zero che sposta tutto il rischio dalle imprese
senegalesi a quelle cinesi. Una manna per chi governa il Senegal.
 La
Fao dunque è l'unico bersaglio rimasto su cui si può scagliare il
presidente senegalese senza creare incidenti gravi. "La Fao ha
dimostrato senza dubbio incompetenza - insiste Bia - ma questa volta non
c'entra nulla con i problemi del Senegal. Le difficoltà sono ben altre:
cioé che noi cittadini non contiamo niente e le cose ci passano sopra la
testa senza che noi possiamo fare nulla". Il sole infatti splende ancora
alto mentre gli aerei militari statunitensi decollati dalla pista di
Kaolak a 200 chilometri dalla capitale senegalese pattugliano i cieli
della penisola dakarois. Ma la maggior parte dei senegalesi pare non si
accorga nemmeno di quello che succede più in basso. Accanto ai sacchi di
iuta vuoti rimasti sull'asfalto al termine della manifestazione
sfrecciano tre toyota nere appena uscite dal palazzo presidenziale.
Stanno andando nella residenza di rue 18 prolongee: la sede
dell'ambasciata cinese.
Afghanistan, una guerra sporca |
Squadroni della morte afgani al servizio delle truppe
d’occupazione |
 Al
termine di una missione investigativa in Afghanistan,
l’australiano Philip Alston, inviato speciale delle Nazioni
Unite sulle esecuzioni sommarie, arbitrarie ed
extragiudiziali, ha denunciato il ricorso, da parte delle
forze d’occupazione straniere, a “squadroni della morte”
composti da “milizie irregolari afgane” per combattere una
guerra sporca contro la guerriglia talebana.
“Ho raccolto molte testimonianze di violenti raid contro
presunti insorti condotti da milizie afgane pesantemente
armate agli ordini di militari stranieri”, ha dichiarato
Alston a Kabul. “Azioni che spesso si concludono con
l’uccisione dei sospetti, senza che nessun esercito o
istituzione se ne prenda la responsabilità. Queste unità
segrete, chiamate Campaign Forces, pur essendo
sottoposte a una regolare catena di comando, operano al di
fuori di ogni legge e nella più totale impunità. E’ una
situazione assolutamente inaccettabile”.
L’inviato speciale dell’Onu ha spiegato che queste milizie
operano in tutte le zone ‘calde’ del Paese, dalle province
di Helmand e Kandahar nel sud a quella di Nangarhar
nell’est.
Faccia
a faccia con i mercenari. Due anni fa, nel maggio
2006, PeaceReporter aveva indagato su questo
argomento nell’ambito di
un reportage dalla provincia di Helmand. Ne
ripubblichiamo un estratto.
Provincia di Helmand, Afghanistan meridionale. Appena
fuori Grishk c’è la base militare statunitense: un fortino
in mezzo al deserto, dominato da una torre di legno su cui
sventola la bandiera stelle e strisce. La base ospita una
delle tante prigioni Usa ‘non ufficiali’ dove vengono
interrogati, e torturati, i sospetti membri dei talebani o
di Al-Qaeda, prima di essere spediti a Kandahar, Bagram e
poi a Guantanamo.
A difendere la base non ci sono militari americani, ma
mercenari afgani. La gente del posto li chiama khakhprush,
venduti al nemico. Sono ragazzi dei villaggi vicini. Non
indossano nessuna divisa. Quando non escono in missione per
o con gli statunitensi, se ne stanno sui tappeti stesi
davanti alle baracche che circondano le mura della base.
Passano la giornata bevendo tè, fumando hashish e facendo
manutenzione del loro arsenale: fucili, mitragliatrici e
lanciarazzi.
Il
loro comandante è mullah Daud. Ci riceve nella sua piccola e
buia baracca. Se ne sta seduto a terra a parlare con uno dei
suoi ufficiali. Dietro a lui, appoggiato al muro, il suo
Ak-47; accanto a lui un frasario d’inglese. “Gli americani
ci pagano bene, ma non è per quello che lavoriamo per loro:
lo facciamo perché sono gli unici che possono salvare questo
Paese. Il governo afgano, l’esercito afgano, la polizia,
sono tutti corrotti. Pensano solo ai soldi e per farli non
esitano ad allearsi con talebani e trafficanti d’oppio. Loro
non fanno nulla, mentre noi combattiamo i talebani: i miei
centocinquanta uomini ne hanno uccisi e arrestati a decine”.
Torniamo a Grishk e andiamo a casa del governatore
distrettuale. Haji Mohammed Ibrahim vive con il suo assistente
Farid in una vecchia casa appena fuori dal bazar. E’ una persona
colta e dai modi eleganti. “La gente di qui odia i mercenari di
Daud più degli stessi americani. Con la scusa della lotta ai
talebani e con le spalle coperte dai loro padroni, questi
criminali vanno in giro a uccidere e derubare la gente facendo
irruzione nelle case, terrorizzando le persone per farsi dare
soldi. Chi non paga viene rapito, portato agli americani e
spacciato per talebano, terrorista di Al-Qaeda”. |
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22 maggio
Cessate il fuoco |
Il bollettino settimanale delle guerre e dei conflitti
in corso n. 19 - 2008 dal 16/05/2008 al 21/05/2008 |
Nell'ultima settimana, in
tutti i Paesi in guerra, sono morte almeno 586 persone
Sri Lanka
Nell'ultima settimana sono morte almeno 137 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 4.344
Afghanistan
Nell'ultima settimana sono morte almeno 92 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 1.627
Pakistan talebani
Nell'ultima settimana sono morte almeno 23 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 1.183
Nord Caucaso
Nell'ultima settimana sono morte almeno 17 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 233
India Nord-est
Nell'ultima settimana sono morte almeno 12 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 364
India Naxaliti
Nell'ultima settimana sono morte almeno 5 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 260
Pakistan Balucistan
Nell'ultima settimana sono morte almeno 3 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 76
India-Kashmir
Nell'ultima settimana sono morte almeno 3 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 194
Thailandia del sud
Nell'ultima settimana sono morte almeno 3 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 154
Filippine Npa
Nell'ultima settimana sono morte almeno 1 persona
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 87
Filippine Abu Sayyaf
Nelle ultime due settimane è morta almeno 1 persona
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 61
Iraq
Nell'ultima settimana sono morte almeno 202 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 6.699
Israele e Palestina
Nell'ultima settimana sono morte almeno 2 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 337
Algeria
Nell'ultima settimana sono morte almeno 2 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 95
Sudan
Nell'ultima settimana sono morte almeno 22 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 631
Somalia
Nell'ultima settimana sono morte almeno 23 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 474
Rep. Dem. Congo
Nell'ultima settimana sono morte almeno 11 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 232
Mali
Nell'ultima settimana sono morte almeno 27 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 27
Vivere da
ricchi, oggi in Italia
Centomila euro per sette giorni in yacht. Ventimila per la festa
dei bambini. E 220 mila per una penna. È il Paese che non appare
nelle dichiarazioni dei redditi. Ma che, da quando non c'è più
la lira, sta meglio di prima
di DARIA GALATERIA,
ANNA LOMBARDI ed EMILIO MARRESE
Alla piccina piacciono le Winx e papà gliele ha portate. Non le
bambole: quelle vere in ciccia e paillettes. Ventimila euro per
allestire in giardino a Fregene una tappa privatissima del
musical delle fatine adorate dai bambini. Un piccolo sfizio se
lo si confronta a quella penna da 220 mila euro che un
industriale del sughero s'è portato a casa dall'ultima fiera del
lusso Luxury & Yachts di Vicenza (22 mila visitatori...).
O a quella poltrona col bracciolo decorato di diamanti
acquistata alla stessa modica cifra di 220 mila euro da un
notaio milanese. L'ombrello in coccodrillo da 32 mila euro
griffato Billionaire allora è roba da pezzenti. Schiaffi alla
miseria? Più che altro, un pestaggio bello e buono con mazze e
catene (d'oro, naturalmente).
Chi l'ha detto che l'Italia non è un Paese per ricchi? Se tanti
tirano la cinghia, al di là delle facili demagogie, i ricchi
sono sempre di più e sempre più ricchi. Sicuramente molti di più
di quei 54 mila contribuenti che dichiarano un reddito di oltre
200 mila euro (lo 0,13 per cento...), se è vero che nella sola
Milano ci sono 150 mila fortunati che spendono più di ventimila
euro al mese in beni superflui. E se è vero che l'anno scorso
sono stati venduti 200 mila Suv e comprate barche per tre
miliardi. I conti non tornano: quella sbirciata nelle
dichiarazioni on line che hanno fatto scandalo è una realtà
virtuale. E comunque, stando solo ai dati ufficiali, in un anno
quelli che hanno più di un milione in banca sono aumentati del
2,5 per cento: se nel 2002 erano 110 mila famiglie, oggi, grazie
anche all'euro, sono 205.800 (Merrill Lynch-CapGemini). Secondo
un sondaggio di Astra Ricerche gli italiani che si dichiarano
ricchissimi sono un milione 800 mila: evidentemente dimenticano
di dichiararlo anche al fisco...
15 maggio
L'istruttoria annunciata dal
presidente dell'Autorità, Catricalà.
Alla base del provvedimento il dossier dell'associazione Altroconsumo
L'Antitrust sulla Portabilità
mutui,
ecco le 10 banche sotto inchiesta
Il provvedimento
su gruppo Unicredit-Banca di Roma, Bnl, Carige, Intesa SanPaolo, Montepaschi,
Antonveneta, Deutsche Bank, Banca Sella, Ubi Banca, Popolare Milano
di ROSARIA AMATO
ROMA - L'Autorità
garante per la concorrenza e il mercato ha aperto dieci istruttorie nei
confronti di altrettante banche sulla portabilità dei mutui. Lo ha
annunciato il presidente Antonio Catricalà, nel corso di un intervento al
Forum della P.A. Le istruttorie nei confronti degli istituti di credito sono
state aperte per "pratica commerciale scorretta".
Catricalà non ha detto di quali banche si tratta. Tuttavia, da fonti
proprie, Repubblica ha appreso che tra le banche nei confronti delle
quali è stato aperto il procedimento ci sono Unicredit Banca di Roma, Bipop
Carire, Banco di Sicilia (tutte del medesimo gruppo), Intesa San Paolo, Bnl,
Monte dei Paschi di Siena, Antonveneta, Deutsche Bank, Ubi Banca, Banca
Popolare di Milano, Banca Sella, Carige.
"Questa legge sulla portabilità dei mutui è rimasta inattuata - ha spiegato
Catricalà - Abbiamo notizia di rinunce a cambiare solo a causa dei costi e
abbiamo denunce di cittadini perché le banche negano la surrogazione e
propongono un contratto analogo con costi insormontabili. Abbiamo evidenza
che questo sia vero e abbiamo raccolto prove sufficienti su dieci banche e
abbiamo aperto dieci istruttorie".
Il provvedimento dell'Authority, spiega il presidente di Altroconsumo Paolo
Martinello, è stato adottato quindici giorni fa anche sulla base del
dossier presentato alcuni mesi fa dalla stessa associazione dei
consumatori, e potrebbe sfociare a breve in una censura nei
confronti delle stesse banche indagate: "L'Autorità potrebbe adottare
d'urgenza un provvedimento di divieto di proseguire a praticare queste
pratiche sleali, è una prima iniziativa che l'Antitrust aveva annunciato di
avere all'esame per inibire alle banche la continuazione di questo
comportamento", dice Martinello.
Altroconsumo ha inviato all'Authoriy un'ampia documentazione sulle pratiche
illegittime delle banche: "Dalla nostra indagine, effettuata su 40 sportelli
tra Roma e Milano - ricorda Martinello - risultava che circa il 50 per cento
delle banche non offriva prodotti di surroga e l'altra metà, nove su 10,
offriva la surroga a costi illegittimi: tra commissioni bancarie e spese
notarili si va da 280 a circa 2500 euro. Solo 2 banche rispettavano
pienamente la legge. Quando abbiamo avuto notizia dell'apertura
dell'istruttoria, abbiamo mandato all'Antitrust tutte le segnalazioni che
abbiamo ricevuto dai nostri associati, svariate centinaia".
Denunce sulla scorrettezza dei comportamenti delle banche sono arrivate
anche da altre associazioni dei consumatori, tra le quali Adiconsum,
Federconsumatori e Adoc, che plaudono all'iniziativa di Catricalà: "E' un
costume, ormai consolidato nel tempo, di arroganza e di vessazione continua
nei confronti dei cittadini utenti". Mentre il presidente di un'altra
associazione, il Codacons, Carlo Rienzi, rileva: "I comportamenti scorretti
delle banche che non applicano le disposizioni previste dalle
liberalizzazioni introdotte dal pacchetto Bersani, hanno prodotto un danno
ai correntisti pari a 5,9 miliardi euro".
La portabilità del mutuo, introdotta dal pacchetto Bersani sulle
liberalizzazioni, consiste nella possibilità per gli utenti delle banche di
sostituire il proprio mutuo con uno meno oneroso a costo zero. La surroga
(cioè lo spostamento dell'ipoteca da una banca all'altra) per legge dovrebbe
avvenire gratuitamente. Eppure, nonostante anche l'Associazione Bancaria
Italiana abbia ammesso che per gli utenti non debba esserci alcun onere
economico, sono ancora tante le banche che rifiutano di prendersi in carica
un vecchio mutuo stipulato con un istituto concorrente.
E intanto oggi il Consiglio nazionale dei Notai assieme a un nutrito gruppo
di associazioni dei consumatori ha annunciato la pubblicazione della seconda
'Guida per il cittadino. Mutuo informato', che si pone l'obiettivo di
aiutare a scegliere in maniera consapevole tra i tanti strumenti creditizi a
disposizione.
Le paure dell'Italia
Una ragazza rumena dice la sua sulle
proposte del ministro italiano degli Interni Maroni
scritto da
Andreea Mihai
L’Italia ha paura degli stranieri e gli italiani dei rom e
rumeni. L’Italia ha paura per la sicurezza dei suoi cittadini,
puntando il dito non in base alla cittadinanza, visto che è
cresciuto il numero di stranieri cittadini italiani, ma in base
allo stato dal quale si proviene.
Gli
italiani hanno paura dello Straniero, dell’Altro,
chiunque esso sia, basta che abbia un tratto un po’ diverso, un
abbigliamento diverso o basta che semplicemente apra la bocca e
parli con un accento diverso. La domanda principale, ormai, non
è più chi sei, ma di dove sei; non è più importante l’individuo,
ma la provenienza: tutti i rom sono rumeni, tutti i rumeni sono
rom ed entrambi delinquenti e criminali. L’eccezione fa solo la
badante di famiglia, lei no, tutti gli altri sì però. Le badanti
che curano gli anziani d’Italia, gli operai e i muratori morti
sul lavoro costruendo le case d’Italia, i lavoratori stagionali
che portano la frutta e la verdura sulle tavole d’Italia non
esistono; loro rappresentano solo le piccole singole eccezioni
che ogni italiano, in parte, ammette tra sé, ma che nessuno ha
il coraggio di affermare in pubblico. L’Italia dimentica che
l’Europa ha già vissuto gli effetti devastanti del trend
xenofobico e dell’atteggiamento discriminatorio mirato contro
gruppi distinti dall’origine / etnia / nazionalità. Diventa
superfluo e quasi irritante continuare a ricordare i trattamenti
discriminanti che gli italiani hanno avuto nel mondo e gli
stereotipi che ancora continuano ad essere innescati dalla
semplice parola “italiano”.
I
provvedimenti che il neo-ministro Maroni vuole attuare
rappresentano proprio la ricognizione e legittimazione del trend
xenofobo che la politica italiana sta prendendo, per
non parlare della palese violazione dei Diritti dell’Uomo.
Nell’anno del 60esimo anniversario della Carta dei Diritti
dell’Uomo, un paese europeo occidentale si avvia verso la messa
in pratica di un pacchetto di leggi razziali che comprendono il
reato di immigrazione clandestina, la trasformazione dei Centri
di Prima Accoglienza (e sottolineerei accoglienza) in carceri,
l’adeguamento di tutte le leggi europee in materia per
discriminare un popolo in particolare, la chiusura delle
frontiere in base a criteri etnici e nazionali, e
l’obbligatorietà del reddito per l’ottenimento del permesso di
soggiorno. Tutte queste misure, ma soprattutto la chiusura delle
frontiere e l’obbligo del reddito, non fanno altro che colpire
la gente onesta e lavoratrice ed incentivare la creazione di una
fascia di clandestinità che vivrà nell’ombra e nel terrore della
prigione “di prima accoglienza”.
L’Occidente
ha fatto una lunga strada dal periodo Illuminista fino ad oggi,
passando per il diritto americano di ricerca della felicità, per
la Rivoluzione Francese, per il sogno di una Unione Europea,
tutto per arrivare a dimenticare gli orrori delle guerre
mondiali e, in modo superficialmente democratico e,
paradossalmente, in conformità con le normative europee,
ritornare al buio della rimozione delle persone
“indesiderabili”. La piega sensazionalistica che l’Italia ha
saputo dare alla fobia sulla sicurezza ha nascosto, sotto un
polverone di panico sociale, tutti i veri problemi che la
società italiana dovrebbe affrontare per poter dar le giuste
risposte ai problemi che la tormentano: industria traballante,
stipendi bloccati ai minimi europei, potere d’acquisto spostato
dai negozi ai mercatini di quartiere, servizi pubblici nelle
mani della mafia e tutte le soluzioni nelle mani degli stessi
politici che nel frattempo non hanno fatto altro che arricchire
le proprie fedine penali. L’Italia vuole pulire il paese dagli
stranieri ''sgradevoli'', scartando, come in un gioco di carte,
tutti quelli che non desidera. Ma alla fine della partita,
quando tutte le mani si saranno giocate, gli stranieri che
l’Italia gradirebbe, desidereranno ancora vivere nell’Italia
degli italiani?
Consulenze in
pompa magna e funebre

Il consulente ai funerali? Può sembrare assurdo, ma c'è
anche questo incarico. E forse, alla luce della
situazione politica in Campania descritta nell'inchiesta
di copertina de L'espresso, tra le tante consulenze
assegnate dal Consiglio regionale questa è la più
azzeccata. L'elenco comprende ben 152 nomine con la
spesa di un milione di euro. L'avvocato che darà
consigli sulla deontologia delle pompe funebri riceverà
3.000 euro. Per il sostegno e la valorizzazione delle
piccole librerie interverrà un ingegnere, pagato con
7.000 euro. Altri 5.000 invece voleranno via per dare
consigli sulla vigilanza delle spiagge libere. Notevole
anche l'istituzione di una consula delle confessioni
religiose con consulenza da 4500 euro o i mille euro per
un'analisi delle proposte normative sui biodisel.
Sorprende poi che l'assessore all'Ambiente del Comune di
Salerno si faccia versare 5 mila euro per pareri sulla
legislazione ambientale: è un esponente dei Verdi, forse
avrebbe potuto rinunciare al compenso. Solo tredici
incarichi non prevedono soldi. Ed è difficile pensare
che una struttura sterminata come la Regione Campania
non disponga di tecnici e professionisti interni a cui
affidare le stesse mansioni. Ma al Corriere del
Mezzogiorno, il presidente del Consiglio regionale ha
difeso le scelte: «Abbiamo tagliato le spese del 30 per
cento«. Di chi si tratta? Di Sandra Lonardo Mastella,
tornata al suo posto dopo la scarcerazione.
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dati Istat sui prezzi: gli aumenti
più significativi sono stati rilevati per il capitolo abitazione, acqua,
elettricità e combustibili
Inflazione ad aprile al 3,3%
Pane e pasta +13 e +18% annui
ROMA - E' definitivo il dato sull'inflazione in aprile comunicato
dall'Ista: l'indice nazionale dei prezzi al consumo per l'intera
collettività (comprensivo dei tabacchi) è aumentato dello 0,2 per cento
rispetto a marzo 2008 e del 3,3 per cento rispetto allo stesso mese
dell'anno precedente; anche al netto dei tabacchi i due dati non cambiano.
L'indice armonizzato (quello composto in modo leggermente diverso che serve
per i confronti europei) in aprile è salito invece dello 0,6 per cento
mensile e del 3,6 per cento rispetto all'anno precedente.
Gli aumenti congiunturali più significativi sono stati rilevati per i
capitoli Abitazione, acqua, elettricità e combustibili (più 1,5 per cento),
Prodotti alimentari e bevande analcoliche (più 0,5 per cento) e Servizi
ricettivi e di ristorazione (più 0,4 per cento); variazioni nulle si sono
registrate nei capitoli Servizi sanitari e spese per la salute, Istruzione e
Altri beni e servizi; variazioni negative si sono verificate nei capitoli
Trasporti, Comunicazioni (meno 0,3 per cento per entrambi) e Ricreazione,
spettacoli e cultura (meno 0,2 per cento).
Gli incrementi tendenziali (cioè su base annua) più elevati si sono
registrati nei capitoli Abitazione, acqua, elettricità e combustibili (più
6,1 per cento), Prodotti alimentari e bevande analcoliche (più 5,6 per
cento) e Trasporti (più 5,1 per cento); variazioni tendenziali negative si
sono verificate nei capitoli Comunicazioni (meno 2,7 per cento) e Servizi
sanitari e spese per la salute (meno 0,3 per cento).
Cresce ancora il peso dei prodotti alimentari sul costo della vita: secondo
l'Istat, è da segnalare un ulteriore acceleramento della crescita
tendenziale dei prezzi di pane e cereali, passati dal +10,1% di marzo al
+10,6% di marzo. Su base congiunturale, l'aumento è stato dello 0,6%. In
particolare, il prezzo del pane è aumentato dello 0,3% rispetto a marzo e
del 13% rispetto ad aprile 2007 mentre quello della pasta e' salito
dell'1,9% rispetto a marzo e del 18% rispetto ad aprile 2007.
Muro contro muro |
Continua lo sciopero degli
agricoltori, decisi a trattare con i governatori e far pressione sul
governo. Che non cede |
L'Argentina continua a essere
scossa dallo sciopero degli agricoltori, grandi e piccoli. Gli
enti che li raggruppano in questa settimana hanno in previsione
vari incontri con i governatori delle province agricole,
strategia per trovare una via d'uscita al conflitto con il
governo scatenato dall'aumento delle tasse sull'esportazione dei
prodotti del campo. Dopo essere scesi in piazza, paralizzando il
paese, a metà di marzo, e dopo essersi placati per le promesse
della presidente, Cristina Kirchner, una settimana fa hanno
ripreso lo sciopero per il niente di fatto con il governo. Che
resta fermo sulle sue posizioni: per esportare grano, soia e
semi di girasole l'imposta è dal 35 al 44 percento in più.
Niente discussioni. La Kirchner e il suo entourage sono convinti
che il settore agricolo sia in parte responsabile
dell'inflazione, e ha pensato che rincarare l'esportazione
significhi disincentivare i produttori a vendere all'estero e a
svuotare così il mercato interno, costringendo gli argentini a
comprare sul mercato internazionale dominato da prezzi
altissimi. Rincarare le imposte dell'export significa dunque
preservare il mercato interno e placare l'inflazione.
I
blocchi. In questa seconda fase di protesta che, a
quanto è stato annunciato, durerà fino a giovedì prossimo, i
coltivatori sono tornati a bloccare le strade, frenando il
passaggio dei camion che trasportano il grano e gli alimenti di
prima necessità. Nella settimana di sciopero scatenatosi a
marzo, molti negozi di generi alimentari si svuotarono per lo
stop ai rifornimenti. Questa volta, però, sembrano intenzionati
a impedire il passaggio unicamente ai trasportatori del grano
destinato all'estero, senza pregiudicare il mercato interno.
Ma
perché incontrare i governatori delle province? Si
tratterebbe di un piano per rompere o almeno danneggiare
l'alleanza di alcuni di loro con il governo centrale e far
pressione per averla vinta. Si sono incontrati per ora con Juan
Schiaretti, governatore di Cordoba, che si è quindi autoescluso
dalle fila dei kirchneristi. Ha infatti già ribadito che è
d'accordo con molte delle richieste dei produttori e ha fatto
sapere che non sarà presente al congresso di domani del
justicialismo, il movimento che ora fa capo ai Kirchner
all'interno del quale era candidato a ricoprire la carica di
portavoce.
Al contrario, Daniel Scioli, della
provincia di Buenos Aires, ha lasciato la palla a tre funzionari
per mantenersi distante da ogni coinvolgimento, tanto da
attirarsi le ire degli scioperanti: “Atteggiamento da
pagliacci”, hanno commentato. Ma secondo Scioli chiedere un
dialogo in queste condizioni di tensione è assurdo, dato che
dovrebbe avvenire senza nessun tipo di condizionamento. E in più
ha precisato che la protesta è ormai politicizzata e lui, che fu
vice di Nestor Kirchner, non vuole desidera che nessuna metta
zizzania tra di loro.
Sembrano probabili riunioni con
Hermes Binner, Santa Fe, Alberto Rodriguez Saà, Sal Luis, e
Jorge Capitanich, del Chaco. E, se l'incontro con Saà sembra
logico data la sua lontananza con la maggioranza, l'incontro con
Capitanich suona molto improbabile, dato che si tratta di uno
dei governatori più vicini a Kirchner.
Il
Governo. Se alla Casa Rosada arrivano da ogni parte
segnali nefasti che questo sciopero durerà ben oltre giovedì,
(“Non c'è nessun motivo che ci sia una tregua”, ha dichiarato
Eduardo Buzzi presidente della Federazione agraria), i Kirchner
ribadiscono la linea dura. Anzi, l'ex presidente, nell'atto di
domani, pare pronuncerà un discorso molto pesante contro i
quattro enti agricoli in conflitto.
Ma Buzzi, forte dell'atteggiamento
di Schiaretti, non si è limitato a dichiarare che lo sciopero
potrebbe prolungarsi, ha anche incitato gli altri governatori a
seguire il buon esempio: “Ci sono presidenti di provincia che si
animano, e questo è un esempio. È il primo che riceve i quattro
enti in sciopero e a dire che le imposte di export devono essere
abbassate. Che Schiaretti marchi la via ad altre province”.
Contraccolpi. In bilico per la protesta degli
agricoltori è, di riflesso, l'industria dell'export. Gli
imbarchi di prodotti del campo sono di nuovo congelati per lo
sciopero e se si considera che l'Argentina è uno dei maggiori
esportatori di alimenti agricoli del mondo, il conto è presto
fatto. Le perdite economiche sono inestimabili. Come gravi sono
i contraccolpi che arrivano al mercato finanziario: i bonus
argentini sono caduti del 20 percento.
Il clima è di totale incertezza,
dato che la soluzione sembra lontana, e la paura di una nuova
crisi finanziaria dilaga, anche via web, tanto da costringere la
Banca Nazionale a fare un annuncio pubblico per tranquillizzare
gli argentini: nessuna fuga di capitali, quindi niente panico.
Ma la ferita è ancora troppo aperta e brucia ancora.
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13 maggio
I complici nel
loft
Norma Rangeri
L'unità nazionale contro Marco
Travaglio. È l'immagine surreale, l'istantanea che fotografa la
reazione del mondo politico alle pesanti accuse del giornalista
contro il presidente del senato, Renato Schifani. Citando dalle
coraggiose pagine del libro di Lirio Abbate, I complici, nella prima
serata di Raitre, di fronte a un Fabio Fazio visibilmente a disagio,
Travaglio ricorda i rapporti del presidente del senato con alcuni
boss mafiosi. Relazioni note, politicamente imbarazzanti, anche se
giudiziariamente irrilevanti (Schifani non ha subito per questo
alcun processo). Il popolare giornalista non rivela verità nascoste,
ma moltiplica l'audience di fatti e circostanze già negli scaffali
delle librerie e negli articoli delle sparute, incorreggibili penne
antiberlusconiane.
Anziché discutere sull'attendibilità della denuncia, la nomenklatura
del Partito democratico (da Anna Finocchiaro a Luciano Violante) si
unisce alle voci del centrodestra e protesta con veemenza per la
diffusione televisiva delle irripetibili offese. Un leit-motiv già
risuonato nelle dichiarazioni del presidente della Rai, Claudio
Petruccioli, indignato per la puntata di Annozero dedicata alla
manifestazione torinese di Beppe Grillo.
Un film già visto all'indomani della celebre intervista di Daniele
Luttazzi a Travaglio (Satyricon) su un altro libro-scandalo, L'odore
dei soldi berlusconiani: sullo sfondo ancora la mafia, ancora la
Sicilia dell'eroe Mangano. Tuttavia nel 2002 l'antiberlusconismo era
moneta spendibile sul mercato elettorale, specialmente di fronte
all'editto bulgaro, preludio di un governo della televisione che non
faceva prigionieri.
Oggi, invece, la sinistra del loft sotterra la questione morale e
insegue con il fiato in gola il sentimento di rancore che la
maggioranza dei cittadini ha riversato nell'urna a favore del Popolo
delle libertà. Alle ronde di destra si affiancano quelle di
sinistra, le ordinanze contro i mendicanti sono un rito bipartisan.
E sull'informazione, casamatta del potere, si replica: tolleranza
zero.
In tv parla e ha accesso solo chi non tocca i nervi scoperti
dell'avversario. C'è da rinnovare il Cda del servizio pubblico,
bisogna difendere il fortino di Raitre assicurando la massima
collaborazione e tranquillità al presidente Berlusconi, già alle
prese con i colonnelli di Fini che affondano l'attuale direttore
generale, Claudio Cappon, nella speranza di strappare quella
poltrona al berlusconiano già designato.
E così eccoli tutti in fila a chiedere scusa per l'increscioso
incidente di percorso, mentre i nuovi regnanti di questa dolce
dittatura zittiscono gli ultimi cani sciolti e cancellano i fatti.
L'intervista del Tg1, a Renato Schifani, ne era un esempio luminoso.
Il politico liquida il merito della questione («fatti inconsistenti
e manipolati»), e si dilunga sul complotto politico («qualcuno vuol
minare il clima di dialogo tra maggioranza e opposizione»). Uno
spot. Non spiega nulla, ma significa moltissimo.
Il massacro di
Halba
Testimonianze delle violenze
avvenute in una piccola città del nord del Libano
Scritto da Erminia Calabrese
Sami ha 26 anni. Vive ad Akkar, una
città situata al nord del Libano.
La barbarie delle milizie che in questi ultimi giorni ha incendiato
il paese dei cedri non ha risparmiato né lui né la sua famiglia. Gli
scontri avvenuti nel fine settimana, tra la milizia di Hariri e
quella del partito social-nazionalista siriano (SSNP,
pro-opposizione) ad Halba, città del Libano Nord, situata al confine
con la Siria saranno ricordati come l’ennesimo massacro nella storia
del Libano.
Ragazzi a terra, pieni di sangue, la maggior parte morti e coperti
con un lenzuolo scuro altri ancora vivi ma gravamente feriti, grida
e insulti è questo lo scenario che offriva “il campo di battaglia” a
pochi minuti dalla fine, immagini crudeli, atroci, simbolo di una
lotta o di una guerra incivile. “Eravamo nella sede del nostro
partito quando verso le 11 di mattina un centinaio di miliziani del
movimento Mostaqbal di Hariri”, ha cominciato a raggrupparsi attorno
al nostro ufficio”, racconta Sami. “Hanno tentato di entrare con
colpi di armi e spranghe ma noi ci siamo difesi. Dopo sette ore di
combattimenti tramite la mediazione di qualche sheikh del villaggio
siamo giunti ad un patto: noi saremmo usciti senza armi e l’esercito
avrebbe preso il controllo del nostro ufficio. Siamo usciti fuori e
mentre aspettavamo che l’esercito arrivasse hanno cominciato a
sparare. Eravamo senza armi non potevamo difenderci. Mio fratello
Fadi di 28 anni è morto”. Il tragico bilancio dello scontro è di
undici morti e otto feriti, uno dei quali, a sentire un’attivista
del SSNP, sarebbe deceduto mentre veniva trasportato in ospedale.
Gli avevano stato sparato davanti a un medico.
Al telefono Ali Kanso, segretario generale del partito SSNP
commenta: “Questa è la conseguenza delle decisioni del 14 marzo di
combattere la resistenza in tutte le regioni. Questi attacchi sono
di tipo confessionale. E’ il governo Seniora ad essere responsabile
di questo massacro. Chiedo che gli autori siano consegnati alla
giustizia. Hanno attaccato questa sede perché è di un partito laico
che da sempre lotta contro il regime confessionale in Libano”. A
notte fonda alcuni attivisti del movimento Moustaqbal di Hariri
avrebbero anche attaccato alcune case di persone pro-opposizione, si
legge sul giornale As-Safir. “Hanno sfondato le porte di casa mia e
mi hanno distrutto tutto, questo è lo Stato che abbiamo? LA gente
muore a causa di una confessione?, dice Alia, 55 anni, piangendo.
“Sono costretto a prendere le armi e a combattere”, dice Hani, 25
anni, altrimenti rubano il mio paese, non ho altra scelta”. “Tutti
qui hanno delle armi, anche partiti di quella maggioranza al governo
che vuole il disarmo di “altre milizie”, dice Samia, una donna di
Halba di 49 anni.
Il ricordo di un Libano unito e solidale così come si era
manifestato durante e dopo la guerra dell’estate 2006 sembra davvero
essere sparito.
Andijan, la
strage dimenticata
Il 13 maggio 2005 in Uzbekistan la
peggior mattanza di piazza dopo Tienanmen
Scritto da Barbara Carcone
Ricorre
oggi il terzo anniversario del massacro di Andijan. Human Rights
Watch pubblica un rapporto sul perpetrarsi della repressione
governativa contro i presunti responsabili della strage.
“Proteggendo i loro segreti. Il governo e la repressione ad Andijan”
è il titolo del fascicolo di 45 pagine, reso noto ieri
dall'organizzazione per i diritti umani, a ricordare che questo
capitolo nero della storia uzbeca non si è chiuso, e ad auspicare,
di fronte all'ostinazione delle autorità di Tashkent, una maggiore
pressione internazionale per far luce sui fatti.
Andijan, 13 maggio 2005. "Interrogatori, sorveglianza
costante, ostracismo e minacce continuano a spingere la popolazione
a fuggire da Andijan - si legge nel rapporto - per la seconda volta
dal 13 maggio 2005". In quella data, si consumò la strage di piazza
più efferata dopo Tienanmen: la mattina presto alcuni uomini avevano
attaccato edifici governativi, uccidendo alcuni ufficiali di
sicurezza. Avevano fatto irruzione nel carcere della città,
prendendo alcuni ostaggi. Motivo dell'attacco: l’arresto di 23
uomini d'affari locali, accusati di essere estremisti islamici.
Accusa considerata ingiusta dalla popolazione, che si era radunata
per protesta contro il governo nelle strade di Andijan. Le vie e le
piazze principali, gremite di uomini, donne e bambini, vennero
circondate dall'esercito, con mezzi, anche blindati, cordoni di
soldati e trincee di sacchi di sabbia. Una trappola dalla quale in
pochi riuscirono a scappare quando il fuoco venne aperto senza alcun
preavviso su una folla perlopiù inerme. Il governo ha sempre negato
ogni responsabilità in merito all'accaduto, ammettendo la morte di
187 persone, la maggior parte delle quali "banditi" e "terroristi".
I supposti 60 civili uccisi, sarebbero caduti invece sotto il fuoco
degli insorti. Il tutto era stato frettolosamente liquidato con un
processo farsa nel novembre 2005.
Dopo il massacro, la persecuzione. In verità, non si sa
quante persone siano realmente morte quel giorno ad Andijan, e
probabilmente non si saprà mai. Si parla di alcune centinaia, o
migliaia. Seppelliti in fosse comuni, in luoghi segreti, secondo
alcuni testimoni. Tante le bocche da cucire, le verità da soffocare,
i colpevoli da inventare: nei giorni successivi alla carneficina la
dittatura di Karimov ha iniziato i rastrellamenti di massa tra gli
ipotetici responsabili della protesta. Centinaia di persone sono
fuggite nelle repubbliche limitrofe, molte in Kyrgyzstan, per le
quali Tashkent tenta di ottenere il rimpatrio forzato. La dittatura
ci prova anche con le buone a far tornare a casa i rifugiati,
promettendo che saranno "perdonati". Ma Hrw avverte: "Hanno tutte le
ragioni di temere per la loro sicurezza". Grazie anche al
deprecabile comportamento dei Paesi vicini che li ospitano: "Kyrgyzstan,
Kazakhstan, Ucraina e Russia hanno disatteso gli obblighi
internazionali - accusa Hrw - procedendo con il rimpatrio forzato in
Uzbekistan dei richiedenti asilo". Chi è rimasto nel Paese, non se
la passa meglio: ondate di arresti, minacce, torture e violenze
hanno costretto i "sospetti" a firmare confessioni e versioni dei
fatti fornite dalle autorità. Testimoni e giornalisti che hanno
tentato di fornire versioni diverse da quella ufficiale sono stati
messi sotto silenzio. L'attività di Ong locali e nazionali è stata
sospesa, e almeno 12 attivisti per i diritti umani arrestati
all'epoca sono ancora in carcere. Ritorsioni di vario genere sono
state applicate anche alle donne di Andijan, cui sono stati negati
servizi assistenziali, e persino ai bambini, sottoposti a
umiliazioni e misure disciplinari dalle amministrazioni scolastiche.
Il silenzio dell’Occidente. Con le rilevanti eccezioni di
Cina e Russia, la comunità internazionale aveva condannato
all'unanimità il comportamento del governo uzbeco. Tuttavia, sia
Unione europea che Stati Uniti hanno tenuto una condotta ambigua a
riguardo. La prima, dopo essersi vista rifiutare ripetutamente da
Karimov la richiesta di una commissione d'indagine, aveva imposto
una serie di sanzioni e bloccato i visti per alcuni funzionari
governativi giudicati responsabili; decisione, questa, revocata e
confermata periodicamente, ma comunque progressivamente attenuata. A
Washington la condanna era costata il ritiro delle truppe Usa dalla
base di Karshi-Khanabad. Ma dal marzo scorso i soldati a stelle
strisce sono tornati in quello che è il loro principale avamposto in
Asia centrale, e le relazioni della repubblica ex-sovietica sia con
l'Europa che con gli Usa sono riprese. Al di là delle vane
esortazioni alla trasparenza e all'autocritica dirette al governo
uzbeco, l'appello che Hrw rivolge oggi alla comunità internazionale
è quello di mantenere sempre presenti i fatti di Andijan nelle
relazioni con Tashkent.
13 maggio

Hugo Chavez accusa la Colombia di voler
provocare una guerra regionale che giustifichi l'intervento Usa
 |
“Il computer di Raul Reyes è come se servisse per orchestrare
un'opera umoristica in teatro. Ce n'è per tutti e adesso l'Interpol
prepara lo show, usata dal governo Usa che purtroppo manipola
anche quello colombiano”. Hugo Chavez spara a zero sull'ultima
uscita di Washington che ha chiesto a Bogotà di sottoporre il
computer, presumibilmente appartenuto al numero due delle Farc
ucciso il primo marzo in Ecuador dall'esercito colombiano, al
vaglio dell'Interpol. Una mossa, secondo il capo di stato
venezuelano che l'ha denunciata nel suo programma domenicale
"Alò Presidente", che rientrerebbe nel “plan del imperio” per
scatenare una guerra in America Latina e riprenderne il
controllo perduto. “L'Interpol dirà che ha revisionato il pc e
che non ci sono state manipolazioni di sorta. Come avrebbero
potuto mettere tutte queste informazioni? Figurarsi! È una
ridicolezza! Ma attenzione alle ridicolezze! Perché così come
Bush ha inventato le armi distruzione di massa (in Iraq), ora un
altro computer dice che noi stiamo appoggiando il terrorismo,
che diamo soldi e armi alle Farc, il tutto per cercare una scusa
per eliminare Chavez”, ha spiegato il presidente, mettendo in
guardia l'intera nazione e le Forze Armate. La situazione nella
regione latinoamericana si fa dunque sempre più tesa: mentre la
Cia non perde occasione per sottolineare la pericolosità di un
Venezuela accusato di tenere rapporti dubbi con Farc e Iran, a
largo delle coste argentine gli Stati Uniti scaldano i motori di
una flotta militare in disuso da 58 anni e che perlustrerà i
mari del continente.
Da
più fronti. Gli attacchi a Chavez non arrivano soltanto
dagli Usa, anzi, un fuoco incrociato si sta levando contro
Caracas. Se da Palazzo Narino, a Bogotà, sin dal giorno dopo
l'uccisione di Reyes si andava dicendo che i documenti ritrovati
in quell'accampamento inchiodavano il Venezuela a pesanti
responsabilità di filo-terrorismo, con tanto di fughe di
notizie finite su importanti settimanali come Semana, (che
pubblicarono parte dei contenuti scottanti in edizioni
speciali), adesso a rincarare la dose ci pensa la stampa Usa. Il
Wall Street Journal ha già scritto che fonti di intelligence
considerano veritieri gli archivi dell'ormai famigerato pc e
quindi tutte le insinuazioni contro Caracas. E non solo.
Questi archivi descriverebbero riunioni fra comandanti della
guerriglia e autorità venezuelane ed ecuadoriane, includendo
Chavez, inchiodato in più di cento documenti.
Ma gravi frecciate contro il Venezuela vengono anche dalla
Spagna. Il quotidiano El Pais ha cominciato a pubblicare da
sabato una serie di articoli a quanto pare basati sui file di
Reyes, che sostengono la tesi che Chavez avrebbe rifornito di
armi le Farc attraverso la mediazione della Bielorussia.
Le
accuse di Chavez. Ma il carismatico presidente
venezuelano non ci sta e passa al contrattacco. “Il governo
colombiano sì che ha seri problemi, perché lì ci sono gli
assassinati. Lì stanno le prove dell'invasione dell'Ecuador,
delle bugie del presidente Uribe”, ha detto, aggiungendo che il
computer di Reyes si chiama "Geroge W.-Uribe". Quindi si è
rivolto direttamente ai suoi cittadini: “Allerto il popolo
venezuelano e le Forze Armate sull'intenzione del governo della
Colombia di provocarci”, di scatenare una guerra per
giustificare l'intervento armato Usa, in particolare insistendo
in manovre sotterranee negli stati di Zulia e Tachira, sul
confine colombiano. In particolare nel ricco Zulia, governato
dal leader dell'opposizione venezuelana Manuel Rosales, gli Usa
starebbero finanziando intenti secessionisti.
Poi è passato al tema "Alvaro Uribe", che ormai non avrebbe più
uno straccio di credibilità a causa dei legami con il
paramilitarismo. “Nemmeno Bush crede alle bugie”, ha dichiarato
Chavez, visto che gli Usa non hanno rinnovato il Tlc con la
Colombia. Sul caso Reyes dice: “La Colombia non ha la tecnologia
aerea per sostenere un bombardamento simile” a quello avvenuto
sull'accampamento Farc, assicurando che questa operazione ha per
forza ricecvuto l'appoggio delle forze Usa. Ma Uribe continua a
nascondere la verità e che non ha rispettato l'Ecuador e il suo
presidente, quindi non si merita che i paesi abbiano relazioni
diplomatiche costruttive con lui. “Uribe è molto pericoloso, era
amico di Pablo Escobar Gaviria, ci sono molti libri che lo
provano”, ha incalzato. “Presidente Uribe, pensi bene fin dove è
capace di arrivare lei. La chiamo a riflettere pubblicamente in
nome dei governi sudamericani”, ha incalzato Chavez, dichiarando
pubblicamente che la Colombia avrebbe inviato 200 paramilitari
per ucciderlo.
Grandi
manovre. E mentre gli animi si scaldano, gli Usa fanno
le prove generali. Dopo 58 anni, ripristinano la Quarta Flotta,
disattivata dopo la Seconda guerra mondiale. Dal primo luglio di
quest'anno, dunque, l'Armata Usa tornerà ad avere un comando di
alto livello specificamente dedicato a supervisionare il lavoro
delle sue unità in America Latina e nei Caraibi. Un portavoce
militare statunitense ha assicurato però a Bbc Mundo che questo
non implicherà un aumento della presenza militare statunitense
nella regione. Ma per molti osservatori, siamo di fronte a una
mossa molto simbolica, con la quale la Casa Bianca intende far
la voce grossa con i vari governi anti-Usa nati ultimamente in
Sudamerica. Si tratterebbe più di una decisione politica che
militare, dunque, dovuta al fatto che a causa dell'imponente
impegno in Afghanistan e Iraq, gli Stati Uniti hanno dovuto
lasciar perdere il controllo da sempre avuto sul continente
americano, che di conseguenza si è sganciato dalla sua
influenza. E adesso corrono ai ripiari, mostrando i muscoli.
“Anche se i vari paesi del Sudamerica sono impegnati in una
corsa agli armamenti, nessuno potrà mai rappresentare una
minaccia militare per gli Stati Uniti”, ha spiegato a Bbc Mundo
Alejandro Sanchez, analista associato al Consiglio sugli affari
emisferici. E a futura memoria dell'onnipotenza Usa, da ora in
poi ci saranno anche le navi militari a stelle e strisce che
solcheranno in lungo e in largo i mari del sud. Non bastava la
miriade di
basi sparse nel continente.
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7
maggio
Gianfranco Bettin
Hanno allevato la bestia per anni, l'hanno nutrita di odio, aizzata
con parole e metafore, facendo i finti tonti sul nesso tra parole e
fatti, tra metafore e gesti. L'hanno allevata così, chiudendo occhi
e orecchi quando mordeva gli «altri». Ora che, a morte, ha colpito
«uno di noi», ora che la bestia è uscita dal recinto in cui si
poteva tollerarla e magari utilizzarla - con le sue prepotenze, le
sue aggressioni squadristiche, la sua presunzione d'impunità - ora
che sul «suolo natio» ha sparso il «sangue nostro», nessuno la
conosce più come figlia propria.
Il retaggio di questa intima conoscenza, tuttavia, si rivela,
nitido, in molti commenti della destra veronese e veneta, nel
tentativo di ridurre l'aggressione omicida a ragazzata finita male o
a mera bravata di deficienti o a effetto di un vuoto di valori.
Cazzate, o, appunto, istintiva, se non cosciente, volontà di
sradicare l'accaduto dal suo autentico terreno di maturazione.
Questi giovani sono tutt'altro che vuoti di valori. Ne sono invece
pieni: danno valore alla forza, alla violenza celebrata e praticata,
all'onore che deriva dalla sua cameratesca condivisione, ai miti
pagani e/o cristiani o al ciarpame che gli spacciano per tali,
all'ordine gerarchico e allo spazio vitale di cui si sentono
guardiani. È una predicazione attiva quella di cui sono stati
bersaglio, a Verona come sulla scena nazionale, dove questi stessi
«valori» vengono correntemente spacciati e dove il linguaggio delle
armi «nostrane» e dello stigma da imprimere agli «altri» è corrente,
anche da scranni istituzionali. Una predicazione che li ha raggiunti
fin dai primissimi anni, fino a fargli sentire come naturale e
legittimo questo modo di essere, certo rielaborato a modo proprio e
portato all'estremo, ma niente affatto alieno dal contesto. Alieni
sono gli altri, quelli da cacciare.
«Natural born nazi», checché ne dica Fini, che non vede in loro
contenuti ideologici e antisemiti e per questo sembra reputare più
gravi dei fatti di Verona quelli di Torino in cui sono state
bruciate le bandiere israeliana e americana. E nemmeno «deficienti»,
ma perfettamente integrati nella società locale: un bravo pargolo di
buona famiglia, un metalmeccanico, un promotore finanziario, ad
esempio, come quelli che hanno aggredito e ucciso Nicola. C'è da
scommettere che, a parte che erano nazistoidi, e che andavano in
curva con gli ultras veronesi, a parte che avevano accumulato una
ricca esperienza di violenze e prepotenze, a parte questo, c'è da
scommettere che per tutti erano dei «bravi ragazzi» e che nessuno
«l'avrebbe mai detto».
C'è da stare sicuri che un sacco di gente sapeva benissimo che cosa
combinavano in curva a danno di immigrati e di avversari politici, e
che cosa poteva costare incrociarli nelle zone che consideravano
territori propri. Lo sapevano, ma non gli creava problemi. Non era
ancora morto nessuno, e per di più si trattava di vittime «aliene».
Non contavano.
Dicono, da destra, che l'aggressione omicida non aveva contenuto
politico: in un certo senso è vero, ma ciò la rende ancora più
inquietante. Perché gratuita espressione di un puro odio cresciuto
così tanto da farsi indiscriminato: vomita addosso a chiunque il
veleno diffuso per anni nell'aria, e conferma l'antica terribile
legge per cui chi offende e perseguita i diversi, i deboli, gli
«altri», prima o poi offenderà e perseguiterà tutti.
L'unica certezza è che fino a oggi il partito democratico ha fatto
il possibile per perdere: ce l'ha messa proprio tutta. Vi ricorda
forse qualcosa? Anche se il ricordo che ricordate non è l'elezione
del presidente degli Stati uniti, anche e se le ragioni di questo
ricordo sono del tutto diverse sulle due sponde dell'Atlantico.
In un anno infatti in cui tutto sembrava congiurare per garantire
che il nuovo inquilino della Casa bianca sarebbe stato democratico,
la dinamica delle primarie sta dando nuovo fiato e nuove speranze al
candidato repubblicano, il senatore dell'Arizona John McCain. A
favore dei democratici giocavano fattori pesantissimi: la pesante
crisi economica accresce lo scontento degli statunitensi nei
confronti dell'amministrazione Bush; la guerra irachena continua a
lasciare la sua stanca, ma micidiale scia di morti e distruzioni;
l'indice di gradimento è uno dei più bassi dell'ultimo secolo per un
George W. Bush considerato quasi all'unanimità il peggiore
presidente della storia degli Usa; una lunga serie di scandali ha
colpito deputati e senatori repubblicani, facendo svanire il
sostegno dei cristiani conservatori.
Questo faceva sì che una presidenza democratica veniva data a 60
contro 40. Ma fin dall'indomani dell'Iowa, ogni volta il tanto
atteso colpo da Ko da parte di Obama non è arrivato. Dopo che il
senatore dell'Illinois ha stravinto in South Carolina, i grandi
stati come New York, California, Massachusettes hanno risollevato le
sorti della combattiva senatrice. Obama avrebbe potuto chiudere la
partita in Texas e Ohio a inizio marzo, e invece questi due stati
nevralgici sono andati alla Clinton. Altra chance ad aprile in
Pennsylvania, ma anche lì ha vinto la Clinton.
Oggi siamo nella stessa identica situazione. Se Obama vince in
Indiana e North Carolina, Hillary dovrà per forza gettare la spugna.
Se invece - ed è il risultato più probabile - Obama vince in North
Carolina (stato con una forte presenza nera), ma perde invece in
Indiana (classe operaia bianca), allora il tormentone continuerà
fino alla Convention nazionale di agosto a Denver (Colorado).
L'esito in Indiana è particolarmente interessante perché questo
stato è di fatto una dépendence dell'Illinois (di cui Obama è
senatore) e la sua grande città industriale, Gary, sull'estremo sud
del lago Michigan, è di fatto una periferia di Chicago.
Il paradosso di questo scontro tra una donna e un nero è che ha
finito per rafforzare la centralità elettorale del maschio bianco
nell'arena politica statunitense. All'inizio la forza di Obama era
stata di aver presentato la sua candidatura come «postrazziale»:
candidato nero sì, ma non candidato dei neri. E stati a stragrande
maggioranza bianca come Iowa, Vermont, Idaho, Nebraska gli hanno
dato ragione regalandogli folgoranti vittorie. Ma la lunghezza della
competizione, la sua asprezza, e - in una certa misura - gli stessi
successi di Obama negli stati a forte densità nera, hanno finito per
logorare in modo forse irreparabile quest'immagine «postrazziale».
Le affermazioni «estremiste» del pastore nero Jeremiah Wright sono
state solo uno dei fattori che hanno contribuito al «disincanto»
degli elettori bianchi. Non basta: in nome del «nuovo», del
«cambiamento» e del «superamento dei vecchi steccati», Obama si era
presentato come candidato capace di attirare gli elettori
indipendenti e i repubblicani insoddisfatti. Ma la stessa dinamica
della campagna lo ha costretto a contare sempre di più sul proprio
nucleo di attivisti attestati su posizioni assai più radicali e
liberal. Grazie anche ad alcune sue affermazioni, l'aura bipartisan
e messianica si è dissolta fino a restituirlo a una dimensione più
convenzionale. I propagandisti repubblicani lo ritraggono ormai come
«il solito liberal» (sottintendendo che sarà possibile affondarlo
con le solite tecniche propagandistiche già usate per Gary Hart,
Michael Dukakis, John Kerry). Il logoramento di Obama è apparso
anche questo sabato nel caucus di Guam, che il senatore dell'llinois
prevedeva di conquistare alla grande, ma che ha vinto per pochi
voti: fino a sabato ovunque si era votato col metodo del caucus
(cioè a voto assembleare palese), Obama aveva sempre stracciato
Hillary: è un segnale preoccupante. Così i famosi 750 superdelegati
- che di fatto sono l'ago della bilancia nella Convention
democratica - ci stiano ora seriamente ripensando, dopo che da
febbraio a marzo si erano spostati in modo massiccio dalla Clinton a
Obama. Si sono diradati, anzi sono quasi scomparsi, gli inviti alla
Clinton. ancora poco fa pressanti, perché si ritirasse.
Il problema politico che si pone ai superdelegati è duplice: il
primo riguarda lo zoccolo duro democratico, il secondo quegli
elettori repubblicani che è necessario attrarre per poter vincere la
Casa bianca. Sul primo versante, la lotta tra i due si è tanto
inasprita da lasciare fratture e veleni difficilmente riassorbibili.
Secondo sondaggi recenti, il 40% di chi nelle primarie ha votato per
Hillary dice che a novembre non andrà a votare per Obama (in misura
minore, avviene anche il viceversa). E come si sa l'astensionismo è
il fattore decisivo nelle presidenziali Usa. Dall'altro lato il tema
razziale - che già tanto sta pesando - influisce infinitamente meno
tra gli attivisti democratici che fin quei si sono espressi, di
quanto pesi sull'elettorato generale e sui repubblicani indecisi. Né
una candidatura Clinton risolverebbe la questione, poiché la
senatrice di Newe York, proprio nel suo ruolo di ex first lady di
Bill Clinton, suscita odi scatenati tra i repubblicani ed è capace
di spingere al voto quei conservatori cristiani che invece la
candidatura di John MacCain inviterebbe a disertare le urne: l'uomo
bianco repubblicano è un problema gravissimo anche per lei. Con
un'aggravante: per sopravvivere in questa lunga guerra di
logoramento, la Clinton ha dovuto sempre più giocare lei stessa
(facendo finta di non farlo) sul fattore razziale, ha dovuto
stimolare la «diffidenza bianca» per il candidato nero, coniugandola
per con la diffidenza operaia verso un liberal che esce da Harvard
(anche se lei esce da Yale). Con il risultato che la sua campagna
sta diventando sempre più respingente. Insomma, il rischio vero per
i democratici è che si stanno rinchiudendo all'angolo, in una
posizione loose-loose: di accrescere il rischio di perdere qualunque
dei due candidati essi scelgano alla fine. Eppur dovranno scegliere.
Morire di carcere in Italia
Come si perde la vita in silenzio nelle
prigioni del Bel Paese
scritto da
Barbara Carcone
Dall'inizio dell'anno più di trenta detenuti sono morti nei
penitenziari italiani. Di questi, undici si sono suicidati. Sono
i dati raccolti nell'ambito del monitoraggio "Morire di
carcere", consultabile sul sito internet www.ristretti.it.
Aggiornate al mese di aprile, queste stime si basano su
informazioni raccolte dai giornali e agenzie di stampa, ma più
spesso da comunicazioni di volontari e parenti dei detenuti.
Informazioni faticosamente costruite, non ufficiali, né
certamente complete. I decessi dei detenuti tendono a sfuggire
all'attenzione pubblica e, non di rado, vengono trascurate più o
meno distrattamente dalle autorità competenti.
Sandro
di Niso è morto in cella all'età di 35 anni, secondo il medico
legale, per "errore" mentre si drogava. E' svenuto con la testa
in un sacchetto di plastica senza riuscire a riprendersi dopo
aver sniffato gas da un fornelletto per riscaldare le vivande.
Una pratica usuale tra i tossicodipendenti internati. Orazio I.
è morto nel reparto di isolamento del carcere di Frosinone per
arresto cardiaco. Lo stesso è accaduto nel carcere di Regina
Coeli a Stefano M. , deceduto nella notte tra il 22 e il 23
aprile. Entrambi erano in condizioni di invalidità psichica
grave. Aldo Bianzino è stato trovato morto nella sua cella di
isolamento del carcere di Perugia: un'inchiesta in corso sta
verificando le responsabilità della morte, che pare essere stata
causata da un pestaggio da parte dei carcerieri.
Overdose, scioperi della fame, violenze, pestaggi, malattie
curate male o non curate affatto, stati di degenza mentale e
fisica: così si muore nelle prigioni italiane per "cause
naturali". Oppure ci si impicca con un lenzuolo. I decessi in
carcere sono per buona parte suicidi, quelli che Adriano Sofri
ha descritto come la "forma di evasione più diffusa e subdola":
un terzo dei 1.200 casi di decesso rilevati dal dossier "Morire
di carcere" dal 2000 ad oggi.
L'apparato medico sanitario e le strutture assistenziali che si
occupano dei detenuti lasciano molto a desiderare, così come le
indagini giudiziarie che dovrebbero chiarire le circostanze di
morte nelle prigioni. Spesso messi a tacere o soffocati
dall'indifferenza dei media, questi decessi rivelano la presenza
di realtà taciute e responsabilità mancate, di chi è colpevole
direttamente o comunque non fa abbastanza per impedirle.
In
base al Decreto Legislativo 230/99, i diritti di assistenza
sanitaria e cure mediche dei detenuti avrebbero dovuto essere
equiparati a quelli dei cittadini in stato di libertà, passando
dalla responsabilità del ministero di Giustizia a quello della
Sanità. Tuttavia in nove anni poco è cambiato e il numero dei
decessi per cause di salute sono aumentati progressivamente. "I
cittadini privati della libertà sono sotto la responsabilità e
la tutela dello Stato ancora di più dei cittadini in libertà",
spiega il sottosegretario di Stato alla Giustizia per le
carceri, Luigi Manconi. Le morti classificate per 'cause
naturali', spesso per arresto cardiaco, sottintendono situazioni
in cui i soggetti in questione verserebbero in condizioni
psico-fisiche tali, da concludere che il carcere forse non è il
luogo dove dovrebbero trovarsi: "il numero dei soggetti che
teoricamente sarebbero 'adatti' alla vita in carcere è
ridottissimo: si tratta dei soggetti di comprovata pericolosità
sociale. Tutti gli altri, che soffrono di squilibri psichici o
patologie fisico mentali più o meno gravi, e più in generale
tutti coloro che non recherebbero danno alla società, non
dovrebbero essere internati in istituti di detenzione. Nei fatti
il sistema penitenziario accoglie molte più persone di quante
possa prendersi cura."
Manconi
smentisce tuttavia la trascuratezza nelle indagini giudiziarie
per chiarire le morti in circostanze controverse, rilevando una
volontà precisa delle autorità in tal senso. A tal proposito
porta in esempio la vicenda di Bianzino: "in questo caso
specifico, che ho seguito personalmente, le indagini non sono
state né frettolose né superficiali. Anche se l'esito non è
prevedibile, e le responsabilità penali sono ancora da
definire, si evidenziano una serie di comportamenti
superficiali e sbrigativi. Questi sono dati di fatto, per fare
luce sui quali, gli uffici amministrativi e giudiziari
competenti hanno avviato una inchiesta seria".
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6 maggio
Alla corte dei privilegi
di Primo Di Nicola
Uno stipendio doppio di quello del capo dello Stato. Appartamento di
servizio. Assistenti. Liquidazioni da favola. Auto con chauffeur anche dopo
la fine del mandato. La vita dorata dei giudici costituzionali
La carica di giudice costituzionale è molto ambita. Non a caso per
scegliere quelli di nomina parlamentare i partiti si azzuffano per anni.
A causa certo della delicatezza del ruolo, visto che la Consulta è
chiamata a pronunciarsi sulla costituzionalità delle leggi, a decidere
sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato, ad ammettere o
respingere le richieste di referendum. Ma anche per la grande
appetibilità dell'incarico, per il quale scendono in pista parlamentari
di grido, docenti di chiara fama, illustri giuristi e principi del foro.
Tutti desiderosi di scalare il colle del Quirinale dove ha sede la
Consulta e di conquistare lo scranno. Che non significa solo indossare
la toga suprema tra le alte magistrature della Repubblica, ma anche
aggiudicarsi appannaggi e benefits principeschi. A cominciare dallo
stipendio.
Quanto guadagnano i designati? 416 mila euro lordi nel caso del
semplice giudice, addirittura 500 mila il presidente. Una cifra
che fa impallidire il compenso del presidente della Repubblica Giorgio
Napolitano, inchiodato a 218 mila euro e umilia quello del presidente
del Consiglio uscente Romano Prodi che, sommando indennità parlamentare
(146 mila euro), stipendio da premier (altri 55 mila) e indennità di
funzione (poco più di 11 mila) è riuscito a malapena a superare i 210
mila euro l'anno. Ma alla Corte costituzionale gli alti livelli
retributivi non portano benefici solo per i nove anni previsti dal
mandato. Scaricano effetti miracolosi anche sulla liquidazione e il
trattamento pensionistico dei magistrati. Anche nei casi di cessazione
anticipata dall'incarico.
L'esempio più eclatante è quello di Romano Vaccarella.
Professore di diritto processuale civile e difensore in vari processi di
Silvio Berlusconi, proprio grazie al sostegno del Cavaliere era stato
eletto dal Parlamento alla Corte nell'aprile 2002. Sarebbe dovuto
restare in carica fino al 2011, ma lo scorso anno, polemizzando con il
governo Prodi, si è dimesso. Con quali risultati? Ricongiungendo alla
stregua di qualsiasi dipendente pubblico i suoi periodi lavorativi
all'università con le annualità della Consulta, Vaccarella è riuscito ad
arrivare a 46 anni di anzianità lavorativa. Circostanza che gli ha
permesso di riscuotere una superliquidazione di 1 milione 200 mila euro
lordi (circa 850 mila netti) che si sarebbe solo sognato se fosse
rimasto semplice professore. Un vero record, ma non isolato. Trattamenti
di questo livello sono una regola per i giudici. E si allineano alle
altre ricche dotazioni garantite dalla Corte: un folto staff di
assistenti-portaborse, appartamenti di servizio, auto gratis e autisti
ad personam praticamente a vita. Ma quanto ci costano questi giudici?
Com'è regolato il loro trattamento economico?
Di quali benefits godono esattamente? La Corte
costituzionale costa ogni anno circa 50 milioni di euro. A parte la
modesta entrata legata alla vendita di sue pubblicazioni (7 mila 800
euro), tra le voci attive di bilancio ci sono solo le ritenute del
trattamento di quiescenza sulle retribuzioni del personale (900 mila
euro) e quelle dei giudici (450 mila). Per il resto si regge
completamente sul contributo dello Stato che per il 2007 è stato di
circa 46 milioni di euro (47 milioni nel 2008).
Di queste risorse per i giudici si spendono circa 6 milioni per le
retribuzioni e 4 per le loro pensioni (i trattamenti in corso sono 24,
vedove comprese). Come organo costituzionale, al pari di Camera, Senato
e presidenza della Repubblica, la Consulta organizza autonomamente
attraverso l'Ufficio di presidenza (tre giudici più il segretario
generale) le sue attività e dispone a proprio piacimento delle risorse
economiche (il 90 per cento se ne vanno in spese fisse), senza la minima
interferenza esterna. La struttura amministrativa (circa 220 persone) è
divisa in vari servizi (studi, gestione del personale, ragioneria,
eccetera) che supportano l'attività della Corte ed è guidata da un
segretario generale, nominato dalla presidenza con incarico temporaneo
tra alti magistrati o esperti. Quello attuale, Giuseppe Troccoli,
magistrato della Corte dei conti, guadagna circa 230 mila euro lordi
l'anno. In questo universo burocratico approdano i giudici al momento
della nomina. In carica per nove anni, i fortunati vengono per un terzo
designati dalle tre magistrature superiori (Cassazione, Corte dei conti,
Consiglio di Stato), per un altro terzo dal Parlamento in seduta comune
e per il resto scelti direttamente dal presidente della Repubblica. Si
insediano cominciando a contare sulla ricca retribuzione che per legge è
equiparata a quella del primo presidente della Corte di Cassazione
aumentata però della metà. In totale, fanno appunto 416 mila euro. Un
premio aggiuntivo va poi al presidente, al quale viene riconosciuta una
indennità di rappresentanza pari a un quinto della retribuzione del
giudice: sono altri 80 mila euro circa, che fanno lievitare la
retribuzione a quasi 500 mila. A chi non piacerebbe riscuotere un simile
appannaggio?
Alla Consulta gran parte dei giudici ci riescono perché, tranne poche
eccezioni, quasi tutti riescono a scalare il supremo scranno. Il
presidente non viene infatti scelto dai membri della Corte in base ai
meriti, ma tenendo conto dell'anzianità di carica. Per questo si
continua ad assistere a un tourbillon di nomine, anche per brevissimi
periodi. Qualche esempio: per soli otto mesi sono stati presidenti
Annibale Marini, Piero Alberto Capotosti e Gustavo Zagrebelsky; per 4
mesi Valerio Onida; per 3 mesi Giuliano Vassali e Francesco Paolo
Casavola; addirittura per appena 44 giorni Vincenzo Caianiello,
presidente dal 9 settembre al 23 ottobre del 1995. Pochi giorni, ma poco
importa. L'essenziale è che lo stipendio corra. Naturalmente
accompagnato dagli altri appannaggi. A cominciare dallo staff. Il
giudice può contare su una segreteria composta di tre persone, una delle
quali assunta anche dall'esterno. Tutto qui? No, perché l'eletto ha poi
diritto ai cosiddetti assistenti di studio, da lui scelti
fiduciariamente. Si tratta di persone specializzate, professori
universitari e magistrati (attualmente i distaccati dal Csm sono una
quarantina) che fanno ricerche e allestiscono fascicoli sulle delicate
questioni che la Corte è poi chiamata a dirimere. In origine questi
assistenti erano quattro e per tutti e 15 i magistrati della Consulta.
Ma con gli anni i loro ranghi si sono infoltiti: nel 1961 sono diventati
uno per ciascun giudice; dall'84, anno in cui si è registrato un vero
boom, i magistrati si sono autoassegnati ciascuno addirittura tre
assistenti che, oltre a continuare a riscuotere lo stipendio
dell'amministrazione di provenienza, incassano pure una discreta
indennità dalla Corte: 33 mila 690 euro l'anno (oltre il cellulare
gratis) se lavorano a tempo pieno, più di 25 mila se impiegati a tempo
parziale. Questi assistenti dovrebbero restare alla Corte al massimo
nove anni, quelli del mandato del giudice che li chiama. Ma lasciare il
palazzo e i suoi privilegi non è facile, così scaduto il novennio molti
fanno di tutto per restare accettando persino una ricollocazione nel
cosiddetto "ossario", termine con il quale viene ormai definito
l'ufficio studi.
Come mai questo andazzo? Perché prestigio a parte, l'impegno
alla Consulta non è poi così massacrante. I giudici infatti
lavorano a settimane alterne (senza contare che per tutto il mese di
luglio e fino al 20 settembre di regola si fermano del tutto). In quella
in cui sono impegnati (l'altra viene definita manco a dirlo "settimana
libera") arrivano in sede il lunedì pomeriggio per la camera di
consiglio, il martedì fanno udienza pubblica, dalla mattina seguente
discutono le cause e scrivono sentenze. Il giovedì alle 13 finisce
tutto, raramente i lavori si trascinano nel pomeriggio. Ma se accade
niente paura, i giudici possono tranquillamente ritirarsi e fare la
siesta nei confortevoli pied-à-terre, 2-3 stanze con bagno e angolo
cottura, di cui sono dotati (anche quelli residenti a Roma) al quinto
piano della Consulta o nel vicino palazzo di via della Cordonata. Un
punto d'appoggio che consente di evitare strapazzi e soprattutto di
risparmiare soldi per l'albergo o l'affitto di un appartamento. Come
stabilito dall'ufficio di presidenza i giudici costituzionali hanno poi
diritto a una carta di libera circolazione sulle ferrovie; al rimborso
dei viaggi aerei e dei taxi; a una tessera Viacard e a un apparato
telepass per la libera circolazione sulle autostrade. Non potevano poi
certo mancare il cellulare e il computer e nemmeno il telefax, anche a
casa e a spese della Corte, come l'utenza telefonica fissa
dell'abitazione privata. Poi c'è il capitolo autovettura. Ai giudici è
riconosciuto il rango di ministro. E come quest'ultimo hanno diritto a
una macchina di servizio con ben due autisti personali, a disposizione
sia a Roma che nella città di residenza. Ma mentre il ministro perde il
privilegio una volta cessato dall'incarico, il giudice costituzionale
conserva l'auto (solitamente di grossa cilindrata, Audi, Lancia e Alfa
Romeo) e il diritto ai servizi di uno chauffeur anche quando va in
pensione, sia che abiti o lavori a Roma come Leopoldo Elia (cessato
dalla carica di presidente nel lontano maggio del 1985) e Antonio
Baldassarre (ex presidente della Rai, titolare di un avviatissimo studio
legale, recentemente indagato nell'indagine sulla cordata da lui
rappresentata per l'acquisizione di Alitalia), sia che risieda fuori
dalla capitale. In situazioni come questa o l'autista viene distaccato
in loco (è il caso di Gustavo Zagrebelsky che vive in Piemonte) o
raggiunge l'emerito in auto dalla capitale (succede con Valerio Onida a
Milano).
Insomma, un servizio completo, con qualche ulteriore stonatura. Come nel
caso di Francesco Paolo Casavola, presidente in pensione dal 1995 e da
allora dotato dalla Consulta della sua brava vettura con autista. Solo
che Casavola cumula: dal 1998, come presidente della Treccani, dispone
anche di un'altra macchina di servizio. Interessanti anche le clausole
fissate dalla Consulta per l'utilizzo delle auto. Ciascun giudice ha
diritto a una dotazione di carburante: 405 litri mensili per quelli in
carica, 360 per gli emeriti. Con la Corte che si fa carico di tutte le
altre spese, a cominciare da quelle per il garage e per un servizio di
manutenzione mensile, per la tassa di circolazione, l'assicurazione, il
furto, l'incendio, il soccorso stradale e persino il rinnovo delle
patenti degli autisti in servizio. Infine, il ricco capitolo delle
liquidazioni e delle pensioni. Il periodo durante il quale il giudice ha
ricoperto la carica, sia svolgendo il mandato pieno di nove anni che
quello ridotto in conseguenza di una cessazione anticipata, è utile alla
pensione. Il mandato del giudice costituzionale è assimilato infatti a
un rapporto di pubblico impiego e, ai fini pensionistici, è
ricongiungibile, secondo la normativa fissata per i pubblici dipendenti,
con i servizi prestati presso lo Stato o con ogni altro periodo di
lavoro subordinato.
È proprio grazie a queste ricongiunzioni e agli alti livelli retributivi
concessi a giudici e presidenti che si registrano alla Corte i casi di
superliquidazione (la buonuscita viene calcolata sulla base dell'ultimo
stipendio moltiplicato il numero degli anni di lavoro) come quello di
Vaccarella.
Un caso non isolato: Gustavo Zagrebelsky, giudice dal settembre del 1995
e presidente della Consulta dal 28 gennaio al 13 settembre 2004, per
esempio, ricongiungendo gli anni della carriera universitaria come
professore ordinario con i nove di Corte ha alla fine accumulato 38 anni
di anzianità lavorativa. Circostanza che gli ha permesso di riscuotere
una liquidazione di 907 mila euro lordi, al netto ben 635 mila. E i
giudici che vengono dal libero foro e che facendo semplicemente i liberi
professionisti non hanno mai lavorato per lo Stato e non hanno altri
periodi di lavoro dipendente da ricongiungere, come vengono liquidati?
È il caso di Fernanda Contri, giudice dal 1996 al 2005: la sua
liquidazione, calcolata solo per il periodo trascorso alla Consulta, le
ha fruttato circa 222 mila euro lordi. Davvero ragguardevole
considerando che si tratta solo di nove anni di lavoro. Quanto alle
pensioni, anche su di esse le ricche retribuzioni fanno sentire effetti
portentosi. Romano Vaccarella, ricongiungendo gli anni di università con
quelli alla Consulta, può riscuotere 25.097 euro lordi mensili (pari a
14.288 euro netti); Zagrebelsky 21.332 euro lordi (12.267 euro netti),
mentre Fernanda Contri si porta a casa ogni mese un assegno di 10.934
euro lordi (netti: 6.463) che per soli nove anni di mandato fanno
impallidire persino le vituperate pensioni dei parlamentari che, con un
periodo di anzianità identico, riuscuotono "appena" 4.351 euro mensili.
Davvero una grande performance quella della Contri. E nemmeno l'unica.
Con soli nove anni di anzianità lavorativa alla Corte, essendo
equiparata a un pubblico dipendente, l'avvocato-giudice nemmeno avrebbe
avuto diritto alla pensione. Il minimo di anni richiesto a uno statale
per riscuotere l'assegno dopo le riforme degli anni Novanta è stato
infatti portato a 20 anni. Come ha fatto allora a spuntare
l'appannaggio? Per la Contri è stata applicata un'apposita leggina che
ha portato il requisito dell'anzianità minima per la pensione richiesta
ai giudici costituzionali provenienti dal libero foro solo a nove anni.
Guardacaso, proprio quello che a lei serviva.
4 maggio
Ricchi e
sconfitti
Il
portafoglio dei perdenti è molto ricco. Dal numero de L'espresso in edicola
questa settimana ecco uno stralcio del testo di Francesca Schianchi sulle
indennità che consoleranno, a spese dei contribuenti, i parlamentari sconfitti
di destra, sinistra e centro.
Pensione e liquidazione. Oltre 6
mila euro al mese più altri 131.068 una tantum: sono il vitalizio e il tfr del
rifondarolo Fausto Bertinotti che, lasciato lo
scranno più alto di Montecitorio, si consola con un bell’ufficio e il diritto a
quattro collaboratori e in più la presidenza della Fondazione Camera dei
deputati (senza stipendio). Generosi vitalizi e assegni di fine mandato
(“reinserimento nella vita sociale”) sono però la consolazione anche di altri
illustri esclusi. Come Ciriaco De Mita: per 43 anni di
Parlamento (prima con la Dc, poi con la Margherita, infine candidato ma non
eletto con l’Udc) 9.947 euro al mese di pensione e 112.344 di tfr, solo per gli
ultimi 12 anni consecutivamente in carica. Stessa pensione per Angelo
Sanza (anche lui ex Dc, Fi, non rieletto con l’Udc), 36 anni tra i
banchi e buonuscita di 337.032 euro. Ottomila 828 euro al mese per
Francesco D’Onofrio (22 anni, prima con la Dc poi con l’Udc) e fine
mandato di 168.516 euro, solo per gli ultimi 18 anni. Per Gavino Angius
(ex Ds, non rieletto con i socialisti), 21 anni, vitalizio di 8.641 e
liquidazione di 196.602. Sedici anni di carriera per Alfonso Pecoraro
Scanio (Verdi) e Teodoro Buontempo (La Destra): 6.963
euro di pensione e 149.792 di liquidazione. Stesso assegno mensile per
Cesare Salvi (Sinistra democratica) e 153.664 euro di tfr. Con 14 anni
Oliviero Diliberto (Pdci) ed Enrico Boselli
(partito Socialista) hanno diritto a 6.217 euro al mese e 131.068 di fine
mandato, come Bertinotti.
Per Franco Giordano
(Prc) e Paolo Cento (Verdi) 12 anni di Montecitorio significano
5.471 euro di vitalizio e 112.344 di buonuscita. Otto anni per Francesco
Storace (La Destra): 3.978 euro e 19.208 di fine mandato, per gli
ultimi due anni. Infine, Daniela Santanché (candidata premier
per La Destra) che, con sette anni, accumula 3.605 euro di pensione e 65.534 di
tfr.

La Zona
d'ombra
I piani degli Usa per
sviluppare una città di lusso nel cuore di Baghdad
Ora ci sono colpi di mortaio,
edifici murati per protezione, un sistema fognario inesistente e generatori di
corrente ronzanti tutto il giorno. E rimane un'oasi tranquilla, nell'inferno che
è Baghdad dal 2003. Ma tra cinque anni, la Zona Verde della capitale irachena
potrebbe ospitare hotel a cinque stelle, complessi residenziali, un centro
commerciale, uno stadio e persino un campo da golf. Almeno, così è in un piano
di sviluppo che ha l'approvazione del Pentagono, anche se in molti dubitano che
vedrà mai veramente la luce.
Scopo del progetto, che dovrebbe costare cinque miliardi di dollari, è quello di
creare una “zona di influenza” attorno alla mega-ambasciata che gli Stati Uniti
stanno costruendo all'interno della Zona Verde, la loro più grande sede
diplomatica al mondo. “Quando hai un miliardo di dollari (il costo di
costruzione del complesso, ndr) in sospeso e mille manovali impiegati, vuoi
sapere chi sono i tuoi vicini, e avere voce in quello che capita nel tuo
vicinato nel corso degli anni”, ha detto il capitano della Marina Thomas
Karnowski, a capo del gruppo che ha la supervisione del piano. Secondo Karnowski,
c'è già un accordo firmato con la catena Marriott per la costruzione di un loro
hotel. Altre società sono interessate alla costruzione di complessi residenziali
e di un parco di divertimenti: la prima parte di quest'ultimo, una pista per lo
skateboard, dovrebbe aprire entro questa estate.
Le condizioni della sicurezza all'interno della Green Zone, un conglomerato di
13 chilometri quadrati protetto da mura alte quasi cinque metri e posti di
blocco ai pochi varchi, al momento però non consentono grandi sogni di gloria.
La roccaforte Usa al centro di Baghdad, dove hanno sede anche le maggiori
istituzioni irachene, è oggetto di attacchi quasi quotidiani. Che sono ancora
più frequenti dallo scorso marzo, dopo il giro di vite contro la guerriglia
sciita a opera dell'esercito iracheno e statunitense. Nonostante il perenne
clima da assedio, le quotazioni immobiliari nella Zona Verde stanno però salendo
velocemente. Qualche anno fa il prezzo di un metro quadro si aggirava sui 60
dollari, mentre ora per la stessa superficie ci si sente chiedere anche 1.000
dollari.
Un'ulteriore complicazione per la realizzazione del piano è il fatto che nella
Zona Verde, dai tempi di Saddam, vige il principio del “chi prima arriva prima
alloggia”. Il concetto di proprietà è fumoso, in una specie di Far West
mediorientale. In più, c'è anche l'ostilità verso il progetto da parte di molti
funzionari iracheni, anche se il governo di Baghdad non ha escluso piani di
sviluppo della zona a priori. Forse perché due colpi al “Tigris Woods Golf and
Country Club”, come dovrebbe essere chiamato il complesso golfistico in riva al
Tigri in un gioco di parole col campionissimo Tiger, li tirerebbero volentieri.
Secondo la Confcommercio si
conferma "il permanere di una crisi profonda e strutturale della domanda
interna"
Consumi in
calo a marzo: -1,7%. "Dal 2005 dati mai così negativi"
ROMA
- Crollo dei consumi a marzo con una flessione dell'1,7%. Stando alla
Confcommercio si tratta del dato peggiore degli ultimi tre anni e conferma il
"permanere di una crisi profonda e strutturale della domanda interna". Nel primo
trimestre dell'anno, il calo è stato invece dello 0,7% (+0,3% nello stesso
periodo del 2007).
Il rallentamento della domanda fa sentire le sue conseguenze sulle dinamiche
produttive interne. Ad aprile, secondo le prime stime di Confindustria, la
produzione industriale è tornata a registrare una riduzione in termini
congiunturali (-1,0%). Il dato di marzo continua a riflettere un'evoluzione
negativa della domanda di beni (-3,4% in quantità rispetto all'analogo mese del
2007) a cui si contrappone una crescita per i servizi (+2,3%).
"Il dato di marzo riflette la consistente tendenza al ridimensionamento della
domanda per beni e servizi per la mobilità - continua la Confcommercio - Gli
unici settori della domanda che sembrano non risentire della crisi sono i beni e
servizi per le comunicazioni e, in misura più contenuta, i beni e servizi per la
cura della persona".
In flessione accentuata, la domanda di beni e servizi ricreativi che continua a
registrare un segno meno e che a marzo si assesta al -3,8%. A questa tendenza
sembrano fare eccezione solo la domanda per spettacoli e per l'acquisto di cd e
audiovisivi. Sempre a marzo, i servizi di ristorazione e di alloggio mostrano
una contenuta ripresa sul versante dei consumi delle famiglie (1,3% in termini
tendenziali), evoluzione che riflette in larga parte gli effetti della Pasqua.
Per quanto riguarda la domanda per i servizi di ristorazione e di alloggio si
registra una contenuta ripresa dei consumi delle famiglie (1,3% in termini
tendenziali). "Particolarmente consistente" è risultata a marzo la riduzione
registrata dalla domanda per beni e servizi per la mobilità (-14,8% rispetto
all'analogo mese del 2007), conseguenza di una elevata contrazione degli
acquisti per autoveicoli e motocicli a cui si è associata una flessione dei
consumi di carburanti".
In controtendenza rispetto agli scorsi mesi, gli articoli di abbigliamento e
calzature: la domanda ha registrato, rispetto all'analogo mese dello scorso
anno, una contenuta crescita (0,3%).
Su base congiunturale, e cioè rispetto a febbraio, a marzo i consumi hanno
mostrato una riduzione dello 0,8%: i beni e servizi per la mobilità hanno fatto
registrare un calo del 7%, gli alimentari invece hanno confermato il momento di
stagnazione con il +0,3%.
Fame di
profitto
La speculazione finanziaria
dietro il boom dei prezzi agricoli
Il boom dei prezzi dei generi
alimentari rischia di far morire di fame mezzo mondo e crea forti disagi
all’altra metà. L’Onu ha parlato di una catastrofe paragonabile allo tsunami.
Che però è un fenomeno naturale e in quanto tale inevitabile. Mentre quello che
sta accendo, nonostante quello che ci vogliono far credere, non lo è affatto.
Le cause note. Ci hanno
detto che la principale causa di questo drammatico fenomeno sono le inesorabili
leggi del mercato: troppa domanda rispetto all’offerta. Ma come! Se fino a
l’altro ieri tutti gli esperti mondiali continuavano a dire che oggigiorno si
produce abbastanza cibo per sfamare l'intera popolazione del pianeta! Possibile
che questa situazione sia mutata nel giro di pochi mesi a causa dell’incremento
del fabbisogno alimentare dei cinesi e degli indiani? O dei raccolti andati
distrutti da siccità e inondazioni causate dai cambiamenti climatici?
Evidentemente no. Ci hanno quindi spiegato che le cause principali vanno
ricercate nel crollo della produzione agroalimentare causata dal recente boom
delle coltivazioni agricole destinate alla produzione di biocombustibili.
Inoltre, sostengono gli esperti, l’aumento dei prezzi dei prodotti agricoli è
strettamente collegato al caropetrolio, visto che i fertilizzanti e pesticidi
usati in agricoltura derivano da prodotti petrolchimici.
Le cause nascoste. Quello che non viene detto, ma che sta iniziando a
emergere da alcune dichiarazioni poco evidenziate dai mass media, è che i prezzi
sono aumentati così tanto e così rapidamente a causa della cinica speculazione
finanziaria privata.
“Abbiamo cibo sufficiente per sfamare tutti gli abitanti di questo pianeta”, ha
ribadito Achim Steiner, direttore del Programma Ambientale dell’Onu. “Ma
l’accesso al cibo è distorto dai mercati”. Parole sibilline, parzialmente
chiarite dal suo collega Jean Ziegler, Relatore speciale sul diritto
all'alimentazione per la Commissione sui diritti dell'uomo delle Nazioni Unite:
“La situazione è degenerata a causa dalle compagnie che fanno investimenti di
private equity nel mercato alimentare approfittando del prevedibile andamento
dei prezzi”.
Più esplicita la spiegazione di Anthony Costello, direttore dell’Institute for
Global Health di Londra: “La ragione principale dell’aumento dei prezzi agricoli
è la speculazione che sta investendo tutti i beni essenziali: petrolio, oro e
metalli. Le risorse alimentari andrebbero messe al riparo dalle speculazioni
degli hedge funds che traggono profitto dall’innalzamento dei prezzi a spese
della vita di migliaia di esseri umani”.
“Attacco speculativo”. José Graziano de Silva, rappresentante della Fao
per l’America Latina, durante una conferenza tenutasi a Brasilia a metà aprile
ha parlato senza mezzi termini di un’ “attacco speculativo” come causa
principale dell’inflazione agricola. Un attacco che, secondo de Silva, è
iniziato nel 2007, dopo cinque anni di lento ma costante aumento dei prezzi in
questo settore dovuto ai fattori citati all’inizio. Certi che il trend sarebbe
continuato, gli speculatori hanno iniziato a investire con al sicurezza di
ricavare profitti dalle future vendite.
Dello stesso parere sono altri esperti del settore.
Secondo Ricardo Cota, dirigente della Confederazione agricola brasiliana (Cna),
“i prezzi dei prodotti agricoli non sono più determinati dalla legge della
domanda e dell’offerta: tutto è distorto dalla massiccia entrata dei fondi
d’investimento nel mercato agroalimentare mondiale”.
Un altro brasiliano, Fernando Muraro, analista della AgRural, afferma che “la
colpa è della finanziarizzazione dei mercati agricoli” provocata da “forze
speculative alla ricerca di profitti facili e garantiti”.
La mano visibile. A tutto questo si aggiunge un altro fattore poco
pubblicizzato e strettamente collegato alle speculazioni finanziarie: il
controllo del mercato agroalimentre mondiale da parte di poche potentissime
multinazionali. Cargill, Continental, Louis Dreyfus, Bunge&Born e Toepfer
controllano il 90 percento del mercato cerealicolo globale. E’ a loro vantaggio
che Usa, Ue, Wto e Fmi hanno imposto ai paesi produttori scellerate politiche
agricole basate sulla produzione per l’esportazione invece che per il consumo
interno. La mano invisibile, a volte, si vede benissimo.
Enrico Piovesana

La caduta
dell'impero romano
di Edmondo Berselli
Non solo l'addio al Campidoglio. Il
voto di Roma segna la sconfitta della strategia di Veltroni. E il Pd
ora rischia la disintegrazione della sua classe dirigente
Il borgataro si stacca dalla festa in
Campidoglio per Gianni Alemanno, stappa una birra e ti punta il dito
nel costato: "Ahò, lo volevate er nuovo conio, mò beccatevelo". Per
il Partito democratico, per Francesco Rutelli, per Walter Veltroni
la serata romana di lunedì è il segno di una disfatta
spaventosamente incomprensibile. È come se la capitale avesse
deciso di sferrare un uppercut micidiale all'idea democratica, al
progetto stesso del Pd: già, perché lo sconfitto è Rutelli, ma
la batosta romana si ripercuoterà sul partito, sui suoi equilibri,
forse sulla sua stessa esistenza.
Per il momento c'è lo choc tremendo di uno schianto politico
inatteso anche nelle dimensioni, il rovesciamento clamoroso del
risultato del primo turno, ma soprattutto un urto che fra molti
saluti romani, clacson di tassisti entusiasti, cori di ultras,
spazza via 15 anni di egemonia del centrosinistra, cominciati nella
dura campagna elettorale del 1993, quella che aveva sdoganato
Gianfranco Fini, e fa a pezzi il 'modello Roma', l'invenzione di
Goffredo Bettini portata all'eccellenza mondana e planetaria da
Veltroni, liquidando la Roma piaciona che aveva egemonizzato il
gusto e anche il conformismo in società.
Il caos non è proprio calmo. La tranvata, sostiene immediatamente
l'ala hard del Pd, i dalemiani che non hanno mai creduto ai
lustrini, dimostra quanto fosse fragile la struttura del consenso
raccolta dal sindaco uscente, quanto volatile la popolarità, quanto
effimero il radicamento sociale, e alla fine quanto leggero e alla
lunga irrilevante il clima capitolino fatto di attori, scrittori,
registi, notti bianche, festival, intrattenimento, morettismi.
Altrimenti non si spiegherebbe come mai in due anni sono evaporati
oltre 20 punti di vantaggio, contraddicendo anche la tendenza
generale del Pd, che alle politiche si è mostrato più competitivo
nelle città e negli aggregati metropolitani.
Eppure, per restare al caso romano, la politica "lieve" e colorata
di Veltroni era forse l'unico strumento capace di tenere insieme
l'establishment e le periferie; non appena si è assistito al
ritorno in campo di un candidato come Rutelli, interpretato come un
uomo dell'establishment, anzi della 'casta' politica, è scattato il
cortocircuito. Con distorsioni che devono essere ancora
interpretate, e possono portare a vendette e regolamenti di conti,
ma che per il momento rappresentano concretamente un attrito
ineluttabile della scelta di Veltroni di rompere con la Sinistra
Arcobaleno alle politiche: accanto al fallimento di Rutelli, il
successo conquistato alla Provincia di Roma dal candidato Zingaretti,
con un numero di voti nelle sezioni elettorali della capitale che
fanno subito sospettare un paradossale esercizio del voto 'disgiunto',
Zingaretti alla Provincia e Alemanno al Comune ("Ipotesi che fa
ribrezzo", scrive 'l'Unità', ma tant'è).
Una modalità quasi dadaista per praticare la vendetta della sinistra
radicale contro la leadership del Pd, responsabile della scelta di
'correre da soli' (nei centri sociali l'idea di punire Veltroni
votando Alemanno era stata sostenuta ripetutamente). Un colossale 'tié',
magari con il gesto dell'ombrello, rivolto a 'Franciasco', l'uomo
dei vescovi, l'amico della Binetti, il cattolico delle alleanze "di
nuovo conio". E che esalta la capacità di Alemanno di unire le 'due
Rome', da un lato la città centrale della borghesia, i Parioli, i
circoli tiberini, il generone scettico che si era prestato
all'unanimismo veltroniano, e dall'altro le borgate e gli outsider.
La destra 'sociale' del genero di Pino Rauti promette infatti misure
di sicurezza alla borghesia spaventata dai comportamenti irregolari
dei clandestini, e offre rappresentanza all'universo marginale nelle
periferie (laboratorio sociale e politico tutto da analizzare, che
sembra essere stato messo a fuoco soltanto dalla percezione
letteraria di Walter Siti, autore di un recente e impressionante
libro postpasoliniano, 'Il contagio', che esplora l'antropologia
degradata e mutante della Roma periferica). Mentre anche dalle
borgate salgono slogan che scandiscono "via gli albanesi, via i
romeni", Alemanno seleziona utilmente aspettative differenziate
anche nella Roma del degrado, prospettando criteri che etichettano i
clandestini come il nemico interno da colpire con spettacolari
misure di polizia.
Ora, è vero che il trionfo capitolino ha un impatto anche sul Pdl
e nel rapporto con la Lega, con un politico meridionale che fa il
salto di qualità, comincia a oscurare Gianfranco Fini in
procinto di sedersi sullo strapuntino della Camera, e in qualche
misura riequilibra il successo di Umberto Bossi al Nord. Ma è fuor
di dubbio che il crollo a Roma rappresenta un macigno sulla strada
del Pd, e in particolare del Pd veltroniano. Finora, dopo il
risultato del 13-14 aprile, si poteva sostenere che il 33,1 per
cento, pur nella sconfitta, rappresentava la costituzione del
'motore riformista', un partito in grado di diventare competitivo
nel medio periodo, e che risultava capace di mobilitare le città, i
ceti culturalmente più elevati, il lavoro dipendente qualificato, la
società italiana più moderna e creativa.
Prima del 'voto di pancia' e della voglia di discontinuità, prima
del sacco di Roma da parte delle 'truppe alemanne', Veltroni poteva
accampare una serie di giustificazioni credibili. A gravare sul Pd
c'era l'impopolarità di Prodi, nel Nord industriale lo sfondamento
della Lega nelle fasce operaie, al Sud l'effetto desolante
dell'emergenza rifiuti. C'era da mettere a fuoco il progetto
berlusconiano di 'modernizzazione reazionaria', o anche
semplicemente conservatrice, fondato sulla sintesi del secessionismo
leghista con il protezionismo tremontiano e il clientelismo dell'Mpa
di Raffaele Lombardo. A cui adesso si aggiunge il successo 'missino'
di Alemanno, prefigurando una destra complessivamente
nazionalcorporativa, aggregatrice di interessi parziali.
Non conviene naturalmente ai 'democrat' cercare pallide rivincite di
tipo culturale, stigmatizzando un modello politico a sfondo
peronista. Ma intanto, prima di procedere alle ritorsioni interne
inevitabili nelle sconfitte, ci sono da mettere a fuoco alcuni
aspetti problematici, che la leadership del Pd dovrà affrontare. In
primo luogo, l'esaurirsi empirico della pregiudiziale antifascista e
resistenziale, cioè l'esito fisiologico di un processo
socioculturale per molti versi inevitabile (ma che toglie valore
alle richieste di "lealtà costituzionale" che Veltroni aveva inviato
a Berlusconi negli ultimi giorni della campagna elettorale del 13
aprile, ricevendone in cambio un'alzata di spalle). In futuro sarà
difficile esibire una sorta di superiorità etico-repubblicana come
risorsa politica spendibile, così come sarà inutile puntare sui
simboli se in gioco ci sono gli interessi. Insomma se ne va fuori
dalla simbologia politica il ditino alzato dell'ideologismo targato
Fgci, se è vero che il 'capobranco missino' Alemanno sbanca il
Campidoglio con una campagna sinceramente populista, in una
fragranza tutt'intorno di umori autenticamente fascisti.
In secondo luogo, se il Pd riuscirà a sopravvivere al
contraccolpo della sconfitta alle politiche e alla caduta di Roma,
dovrà uscire dalla sindrome di un partito che per una settimana,
aspettando l'apertura del Parlamento, ha discusso esclusivamente
della questione epocale di chi dovevano essere i capigruppo alle
Camere. Andrebbe tenuta a mente come uno scongiuro la battuta di
Giancarlo Pajetta dopo i funerali del 'Migliore': "Con la morte di
Togliatti nel Pci si chiude una fase e non se ne apre nessun'altra".
Per evitare una dinamica dissolutiva, il Pd deve provare a
ripartire. Deve avere la consapevolezza che la propria classe
dirigente è particolarmente logora e che niente come le sconfitte
richiama le sconfitte. Occorre quindi mettere in rete gli
amministratori locali più capaci, dal sindaco di Torino Sergio
Chiamparino al sindaco di Salerno Vincenzo De Luca, e individuare
una strategia di azione sul territorio. È la fase in cui le
posizioni di rendita stanno smottando, e in momenti come questo
devono uscire allo scoperto le energie meno consumate. Innanzitutto
la coppia composta da Pier Luigi Bersani ed Enrico Letta, per
ricominciare dal territorio. E poi, occorre inquadrare le prossime
sfide: ci sono alle viste le elezioni europee del 2009 (un incubo,
dato che con la proporzionale non c'è voto utile che tenga) e il
referendum elettorale. Ci vuole una strategia. Altrimenti, le spinte
alla disintegrazione non le fermerà nessuno, e il tutti a casa sarà
inevitabile.

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