29 maggio

Amnesty accusa l'Italia
La politica italiana violenta e discriminatoria
 Daniela Carboni*
 Il 31 ottobre scorso una donna è stata aggredita e uccisa a Roma. Dell’accaduto è stato accusato un cittadino rumeno. Probabilmente, per tutti voi come per noi è più facile ricordare i dettagli della vita e della personalità della persona accusata dell’omicidio, piuttosto che della vittima.
Non è un caso né una vostra personale disattenzione, ma semplicemente il risultato prevedibile del modo in cui le istituzioni hanno affrontato la vicenda e quindi il modo in cui la società italiana l’ha vissuta: un drammatico fatto di cronaca – finito nel modo peggiore – non viene visto per quello che è, cioè l’ennesima violenza contro una donna, ma come il sintomo inequivocabile di una tendenza alla violenza e all’illegalità di gruppi di persone e minoranze, in base alla nazionalità, all’appartenenza etnica, al luogo in cui dimorano.
In quell’occasione, in pochi istanti e in maniera assolutamente irresponsabile, rappresentanti istituzionali e politici di diverso orientamento hanno invocato il pugno di ferro su migliaia di persone che non avevano niente a che fare con la vittima, con l’abuso e l’omicidio, con il responsabile di questi atti.
Tanto che, il 6 novembre 2007, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) ha espresso preoccupazione per il clima di intolleranza manifestatosi in quei giorni e per lo “stato di tensione nei confronti degli stranieri alimentato negli anni anche da risposte demagogiche alle tematiche dell’immigrazione messe in atto dalla politica”. Il giorno seguente il Presidente dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa ha messo in guardia l’Italia circa il rischio di una “caccia alle streghe” contro i cittadini rumeni e in particolare contro i rom.
 
donna nomade
Testa di ariete. La violenza su una donna è diventata infatti la “testa d’ariete” per sfondare la parete del pudore, dell’equilibrio istituzionale, del rispetto dei diritti umani e aprire la strada alla discriminazione e all’erosione dei diritti, attraverso fiumi di parole e specifici atti normativi che rischiano di trasformare l’Italia in un paese “pericoloso”, in questo momento particolarmente per rom e rumeni, potenzialmente per chiunque. Per chiunque di noi. L’erosione dei diritti ci mette potenzialmente a rischio nelle più diverse situazioni della nostra vita quotidiana, come le mura domestiche, il luogo di lavoro, le manifestazioni di piazza. Riteniamo che sia questa la vera emergenza in Italia.
 
Con amarezza. Amnesty International è un’organizzazione indipendente, anche e soprattutto rispetto alle parti politiche e ai partiti. I politici italiani – lo diciamo con amarezza – non ci hanno creato problemi in questo senso: sono stati estremamente bipartisan, incredibilmente compatti nel coro di esternazioni violente e discriminatorie.
Dopo quel episodio, l’allora sindaco di Roma, Walter Veltroni, ha dichiarato che “non si possono aprire i boccaporti” e che "prima dell'ingresso della Romania nell'Unione Europea, Roma era la metropoli più sicura del mondo", sottolineando quindi la necessità di provvedimenti d’urgenza. In un’intervista rilasciata il 4 novembre successivo Gianfranco Fini, allora presidente di Alleanza Nazionale, ha dichiarato: “c'è chi non accetta di integrarsi, perché non accetta i valori e i principi della società in cui risiede” e, riferendosi in particolare ai rom ha affermato “mi chiedo come sia possibile integrare chi considera pressoché lecito e non immorale il furto, il non lavorare perché devono essere le donne a farlo magari prostituendosi, e non si fa scrupolo di rapire bambini o di generare figli per destinarli all'accattonaggio. Parlare di integrazione per chi ha una ‘cultura’ di questo tipo non ha senso”.

Grave reponsabilità. Non sappiamo perché i rappresentanti del Governo allora in carica e il candidato del Partito Democratico alla Presidenza del Consiglio abbiano parlato in questo modo: ciò che ci preme dire è che, assieme ai rappresentanti dei rispettivi schieramenti politici, hanno una grave responsabilità nel deterioramento del dibattito politico e nella legittimazione del linguaggio razzista in Italia.
Con la stessa fretta, sull’onda emotiva di un fatto di cronaca, il Consiglio dei Ministri si è riunito la sera del 31 ottobre e ha approvato un decreto sulle espulsioni dei comunitari. Il provvedimento ha avuto un iter movimentato, essendo decaduto e successivamente “reiterato” con alcune modifiche a dicembre 2007.
Nel testo risultavano particolarmente preoccupanti l’indeterminatezza dei nuovi motivi di espulsione dei cittadini dell’Unione Europea, lasciati scarsamente definiti nella norma (“motivi imperativi di pubblica sicurezza”) e quindi fonte di un’eccessiva discrezionalità delle autorità chiamate ad applicarle, tra cui i prefetti. I contenuti della decretazione d’urgenza sono infine confluiti nel decreto legislativo 32/2008 che, migliorando il testo originario, ha introdotto la necessità di convalida del giudice ordinario per tutti i provvedimenti di espulsione. Restano non ancorati a parametri legali certi i presupposti dell’espulsione.
Nonostante le promesse elettorali sui diritti di migranti, questa è l’unica nuova legge in materia approvata dal Governo presieduto da Romano Prodi.
 
 
I soui primi passi. Con una linea di continuità di contenuti e di approccio, ha mosso i suoi primi passi il nuovo governo presieduto da Silvio Berlusconi.
Nel corso del primo Consiglio dei Ministri, il 21 maggio 2008 a Napoli, com’è noto è stato approvato un insieme di modifiche e proposte normative, anch’esse nominalmente riferite alla “sicurezza”, che prevedono pesanti restrizioni e nuove figure di reato e colpiscono soprattutto gli immigrati, direttamente o indirettamente. Le nuove misure sono state accompagnate da dichiarazioni in linea con la tendenza a stigmatizzare interi gruppi di persone, in particolare i rom e i migranti irregolari. L’attuale leader dell’opposizione Walter Veltroni ha dichiarato che queste misure in larga parte coincidono con quelle pianificate dalla precedente maggioranza di governo.

Il cosiddetto “pacchetto sicurezza” include: o un decreto legge che punisce con la reclusione e la confisca del bene chi affitta un immobile a un immigrato irregolare, attribuisce più ampi poteri ai sindaci in materia di “ordine e sicurezza pubblica” e rende circostanza aggravante di qualsiasi reato quella di essere stato commesso da un immigrato irregolare; o un disegno di legge che vuole aumentare da 60 giorni a 18 mesi il tempo massimo della detenzione nei centri a scopo di espulsione e che introduce il reato di ingresso e soggiorno irregolare; o tre bozze di decreti legislativi che inaspriscono, tra le altre cose, le procedure di asilo.
 
 
L'allarme. Hanno espresso allarme per la riforma normativa molte organizzazioni non governative italiane e internazionali e lo stesso Alto Commissariato delle Nazioni per i rifugiati, il quale ha sottolineato come i richiedenti asilo, spesso costretti dalla mancanza di alternative a fare ingresso irregolarmente nei paesi dove cercano protezione, potrebbero venire accusati di aver commesso un reato.Nel nuovo contesto normativo, quindi, i richiedenti asilo che fuggono da persecuzioni e tortura potrebbero essere accolti in Italia con un’incriminazione per ingresso irregolare – espressamente esclusa dalla Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati – e con 18 mesi di detenzione in un CPT per il solo fatto di aver messo piede nel nostro paese. Una misura che, secondo gli standard internazionali, dovrebbe residuale ed eccezionale.
Amnesty International è estremamente allarmata sia per il contenuto di queste misure, sia per le modalità affrettate e propagandistiche della loro emanazione e per il clima di discriminazione che le ha precedute e che le accompagna.
In questo contesto, in diverse parti d’Italia, vi sono stati attacchi contro le comunità rom. Attacchi che anche Amnesty International condanna e per i quali chiede che siano aperte indagini per accertare le responsabilità, che siano forniti adeguati risarcimenti per le vittime e le loro famiglie e che sia garantita un’adeguata protezione dei rom da qualsiasi forma di violenza.
 
 
Attacchi. Nel corso del 2007 e sino a praticamente ieri si sono verificati attacchi violenti ad accampamenti rom in diverse città e sono state segnalate diverse aggressioni ai danni di immigrati romeni e di altre nazionalità, tra cui i recentissimi episodi che hanno colpito a Roma, nel quartiere Pigneto, cittadini del Bangladesh.
La situazione italiana ha suscitato le preoccupazioni delle Nazioni Unite (Comitato per l’eliminazione della discriminazione razziale, marzo 2008) e dell’Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani dell’OSCE, organismo che si occupa a livello internazionale di sicurezza e che ha sottolineato come la ricorrente stigmatizzazione di gruppi quali rom e immigrati aumenta le probabilità che si verifichino violenze contro di loro.
L’Italia e tutti i paesi UE dovrebbero attuare una politica comune per l’inserimento sociale dei rom, piuttosto che marginalizzarli ulteriormente ed espellerli. Ricordiamoci che chi risente particolarmente di queste migrazioni forzate sono i bambini, costretti a fuggire e ad abbandonare la scuola, quindi la possibilità di un futuro dignitoso e più sicuro per tutti.
 
 
Tutti, indisciminatamente. L’ondata di razzismo coinvolge a cerchi concentrici i cittadini stranieri senza documenti regolari e, di fatto in termini più generali, tutti i migranti presenti nel territorio italiano.
Vorremmo che i rappresentanti politici italiani si rendessero contro del fatto che parlare dei diritti umani dei migranti non è impopolare. Amnesty International lo ha verificato con la campagna “Invisibili”: durante 16 mesi di attività, decine di migliaia di persone hanno scelto di parlare di questi temi senza pregiudizi, firmando petizioni, organizzando o prendendo parte a spettacoli teatrali e di musica, convegni e mostre. Crediamo che i politici e le istituzioni italiane debbano avere lo stesso coraggio dei bambini di Lampedusa, che ai loro coetanei – i migranti che arrivano sulle loro spiagge – hanno dedicato giochi e disegni sui diritti umani.
Sul questo tema specifico dei diritti di migranti e richiedenti asilo speravamo, fino a pochi giorni fa, di poterapprezzare senza timori alcuni importanti miglioramenti legislativi.
Tra questi, anche i risultati della campagna “Invisibili” sui minori migranti detenuti all’arrivo in Italia: la pubblicazione da parte del Governo dei dati relativi agli arrivi dei minori via mare, la netta diminuzione della detenzione dei minori non accompagnati in frontiera e nuove migliorative istruzioni del Ministero dell’interno sulla determinazione dell’età, che impongono l’applicazione del beneficio del dubbio in tutti i casi di incertezza sulla minore età.
 
 
Complimenti. Su uno di questi miglioramenti, invece, non abbiamo fatto in tempo a complimentarci: l’introduzione dell’effetto sospensivo, che consente al richiedente asilo di restare nel territorio italiano durante la decisione di secondo grado sulla sua domanda, come richiesto dagli standard internazionali, potrebbe essere presto cancellato dalle nuove misure legislative per la sicurezza. In assenza dell’effetto sospensivo, una decisione sbagliata in prima istanza può comportare conseguenze gravi e irreparabili per il richiedente asilo espulso nel suo paese di origine. Pensate che un cittadino sudanese del Darfur o eritreo possa presentare una seconda istanza dal proprio paese, dopo una fuga e un rimpatrio forzato, magari dopo essere passato in andata e al ritorno attraverso i campi di detenzione e le torture in Libia?
Questa scelta legislativa peggiorativa in materia di migranti e richiedenti asilo, già di per sé contraria agli standard internazionali sui diritti umani, è preoccupante anche alla luce della collaborazione tra Italia e Libia.
 
 
Sempre più intensi. Una collaborazione trasversale ai governi che si sono succeduti dal primo accordo siglato nel 1999 dall’allora Ministro degli esteri Lamberto Dini, con un paese che – allora come oggi – non ha firmato la Convezione di Ginevra sui rifugiati, non ha una procedura di asilo, attua espulsioni a tappeto nei confronti di migranti e richiedenti asilo. I rapporti si sono via via intensificati con la mediazione in prima persona, nei loro ruoli istituzionali di Ministri, degli onorevoli Massimo D’Alema, Piero Fassino, Giuseppe Pisanu e Giuliano Amato. L’atto finale, per il momento, è l’accordo del 29 dicembre 2007, che prevede il pattugliamento congiunto con 6 navi della Guardia di Finanza cedute alla Libia, con comando 3interforze a coordinamento libico. Pochi mesi dopo, con l’approvazione del rifinanziamento delle forze armate e di polizia in missioni internazionali, oltre 6,2 milioni di euro di denaro pubblico sono stati destinati a finanziare il pattugliamento congiunto. In quegli stessi mesi, il leader libico Gheddafi confermava pubblicamente di voler attuare deportazioni di massa.

In alto mare. È quindi sempre più urgente che gli accordi con la Libia siano resi pubblici, che venga chiarito quali sono le garanzie richieste dall’Italia per i diritti umani e che cosa accade alle persone fermate in mare nel pattugliamento congiunto.
La segretezza di accordi, dati e informazioni che riguardano la vita di migliaia di persone non può prolungarsi ulteriormente e assume una parvenza ancor più preoccupante alla luce del clima italiano, che sembra attribuire ai migranti responsabilità collettive e una soglia più bassa di tutela dei diritti umani e quindi di dignità umana.
Le minoranze non sono le uniche ad essere colpite quando la cultura dei diritti viene sostituita dalla loro erosione e dall’impunità.
 
 
Senza leggi. E proprio parlando di impunità, non possiamo non ricordare ancora una volta la mancanza di leggi adeguate e di strumenti di prevenzione in Italia di maltrattamenti e tortura. Questo contesto rende allarmante il problema dei diritti umani, trovando purtroppo conferma nei processi in corso.
Lo sanno bene le centinaia di persone che sono state vittime di abusi a Genova, durante il G8 del 2001. Nonostante gli impegni presi dal Governo Prodi, non sono state garantite né una commissione indipendente di inchiesta né gli strumenti necessari per garantire che quanto accaduto a Genova non si ripetesse più.
Dove sono il reato di tortura e la ratifica del Protocollo opzionale alla Convenzione contro la tortura, che decine di migliaia di persone, le Nazioni Unite e il Consiglio d’Europa chiedono all’Italia ormai da troppi anni?
Perché nessuno degli imputati nel processo è stato sospeso dal servizio e molti sono stati di fatto promossi, così contribuendo a diffondere un pericoloso clima di impunità tra chi dovrebbe proteggere la sicurezza?
 
 
G8. Senza alcuna soddisfazione constatiamo oggi gli effetti pratici di questo stato di cose, previsti e annunciati da AI senza incontrare il dovuto ascolto. Nel processo per Bolzaneto la pubblica accusa ha ricostruito gli avvenimenti che, in quei giorni da non dimenticare, hanno colpito nella caserma oltre 250 persone.Secondo i pubblici ministeri, il trattamento è stato “di oggettiva vessazione nei confronti di tutti i detenuti e per tutto il periodo della loro permanenza presso il sito” e ha violato il divieto di tortura e maltrattamenti previsto dalla Convenzione europea dei diritti umani. Le memorie dei pubblici ministeri hanno segnalato che è difficile fotografare i fatti accaduti con l’attuale codice penale, che non include il reato specifico di tortura.
Fa effetto ascoltare che chi materialmente indaga sui reati e ne deve chiedere l’applicazione, constata gli effetti pratici della mancanza di un reato di tortura. Altrettanto effetto fa constatare che denunce di maltrattamenti e abusi simili sono emersi, dopo Genova, rispetto alle situazioni più disparate di protesta e di espressione del dissenso. Ne sono un esempio gli atti di violenza denunciati in relazione all’intervento da parte delle forze di polizia in Val di Susa nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2005, contro un centinaio di persone che manifestavano contro la costruzione di un collegamento ferroviario ad alta velocità.
 
 
Stessa mentalità. Per quanto sembrino cose diverse, la mentalità che consente tutto questo è la stessa che porta un governo a fidarsi di una semplice lettera di assicurazioni diplomatiche, con la quale un paese come la Tunisia promette di non torturare una persona che l’Italia vuole rinviare.
E su questo argomento, l’Italia ha subito una sonora lezione da parte della Corte europea dei diritti umani, che dovrebbe rappresentare un monito per tutti.
Si tratta della sentenza che, a febbraio, ha annullato il provvedimento di espulsione nei confronti del cittadino tunisino Nassim Saadi, emesso dal Ministro dell’Interno Amato sulla base del “decreto Pisanu”. L’Italia sosteneva che il rischio di tortura all’arrivo non bastasse in sé a bloccare l’espulsione. La Corte europea ha invece respinto il tentativo italiano di relativizzare il divieto di tortura nel diritto internazionale e ha riaffermato che si tratta di un principio assoluto.
 
 
Abu Omar. L’estrema debolezza dell’impegno italiano contro la tortura e a sostegno del sistema internazionale dei diritti umani è il contesto in cui si sviluppa il caso di rendition che ha coinvolto Abu Omar.
Le indagini della magistratura italiana e l’avvio del processo sul coinvolgimento di funzionari di intelligence italiani e statunitensi nella rendition di Abu Omar stanno contribuendo a svelare la verità per mezzo della giustizia.
Fino ad oggi i ministri della Giustizia che si sono succeduti, Roberto Castelli e Clemente Mastella, non hanno inoltrato al Governo Usa le richieste di estradizione dei 26 agenti della Cia, come sollecitato anche dal Parlamento Europeo e dal Consiglio d’Europa. Non solo: l’Italia, contrariamente alla maggioranza dei paesi europei, di fatto non ha collaborato con le inchieste del Parlamento europeo e del Consiglio d’Europa sulle rendition e le violazioni dei diritti umani nella guerra contro il terrorismo.
Auspichiamo un’inversione di rotta, che potrebbe cominciare da un tema sin qui non citato. L’Italia, notoriamente tra i principali produttori ed esportatori di armi al mondo, dovrebbe integrare effettivamente il rispetto dei diritti umani nelle scelte politiche e amministrative che riguardano queste attività.
 
 
Afghanistan. Le singole autorizzazioni devono essere affrontate dal Governo anche nell’ambito della propria politica estera. Gli sforzi dell’Italia e della comunità internazionale per il rafforzamento della tutela dei diritti umani in Afghanistan, per esempio, rischiano di essere danneggiati da un’eccessiva quantità di armi piccole e leggere offerta dai paesi Nato e tra essi dall’Italia. L’Italia ha esportato verso l’Afghanistan armi “comuni da sparo” per oltre 3 milioni di euro per il quinquennio 2003/2007, con un netto incremento nell’ultimo anno.
In particolare, l’Italia ha sempre dichiarato di volersi impegnare per la difesa dei diritti dei minori, con una specifica attenzione ai bambini soldato. Tra il 2002 e il 2007, i governi che si sono alternati hanno autorizzato l’esportazione di armi di diversa tipologia e calibro – per un valore di diversi milioni di euro – a privati e forze armate di stati quali Filippine, Afghanistan, Colombia, Repubblica Democratica del Congo, Nepal, Uganda, Burundi e Ciad.
Per una “sfortunata” coincidenza, questi paesi sono tutti nell’elenco di quelli in cui i bambini sono utilizzati come soldati, in base ai Rapporti del Segretario Generale delle Nazioni Unite e della Coalizione “Stop all’uso dei bambini soldato”.
Non stiamo facendo una richiesta utopistica e irrealizzabile, ma solo la richiesta di una scelta netta: quella di non autorizzare più esportazioni di armi né da guerra né cosiddette “comuni da sparo” verso paesi in cui quelle armi alimentano conflitti di cui bambine e bambini sono vittime certe e numerose, perché feriti o uccisi o perché mandati a combattere con pistole e fucili made in Italy.
Più in generale, per concludere, chiediamo all’Italia di fare una scelta ben precisa, che non ammette compromessi: il governo e il parlamento devono decidere se violare i diritti umani oppure tutelarli, e agire di conseguenza.

 
 Guinea, un film già visto
Crisi di governo, economica e militare nel Paese dell'alluminio. Come nel 2007
Senza governo, con i militari in rivolta e l'opposizione pronta a scendere in piazza. In Guinea il tempo pare essere tornato indietro a un anno fa, quando il presidente Lansana Conte dovette cedere di fronte alle proteste di piazza e agli oltre 180 morti causati dagli scontri tra manifestanti e polizia, nominando un governo di unità nazionale. Ma una settimana fa il premier è stato sfiduciato per decisione del presidente, provocando le ire di opposizione e sindacati. E da due giorni i militari sono in fermento per le paghe arretrate.

 
L'ex-premier, Lansana KouyatéIl fulmine all'anestetizzata vita politica guineana è arrivato la scorsa settimana, quando il presidente Conte, salito al potere nel 1984 grazie a un golpe, ha deciso di licenziare il premier Lansana Kouyaté, l'uomo “di consenso” scelto assieme ad opposizione e sindacati a séguito degli incidenti del febbraio 2007, causati dal carovita ma presto diretti contro l'entourage del presidente, responsabile della mala gestione del Paese. Al posto di Kouyaté, impegnato nel varo di una legislazione che avrebbe dovuto regolamentare le prossime elezioni, previste per il 2009, è stato posto Ahmed Tidiane Souaré, ex-ministro delle Miniere e uomo vicino al presidente. Il tutto senza consultare l'opposizione che, divisa dopo le proteste dello scorso anno, ha trovato un motivo per ricementare l'alleanza con i sindacati e al suo interno. Finora, alcuni partiti hanno risposto freddamente all'invito fatto da Souaré affinché entrassero nel governo, mentre altri hanno minacciato di tornare a manifestare per le strade.

 
Se l'opposizione si è limitata a minacciare, l'esercito in piazza ci è sceso per davvero. Anzi, ha preferito chiudersi in caserma. Così hanno fatto lunedì i soldati della base Alpha Yaya Diallo nella capitale Conakry, che ospita i reparti di élite dell'esercito, per protestare contro il carovita (nonostante per i soldati i prezzi siano calmierati) e per la mancata paga. I militari, che reclamano il pagamento di arretrati del valore di 5 milioni di franchi Cfa (circa 1.000 dollari) dal 1996, hanno addirittura catturato il vice-capo dell'esercito, il generale Mamadou Sampil, giunto alla base per trattare con loro, rilasciandolo solo ieri sera dopo intense trattative. Il mezzo ammutinamento si è esteso anche ai reparti di stanza a Kindia, 130 km a nord della capitale, e a N'Zérékoré, nel sud.

 
Militari per le strade di Conakry durante la crisi dell'anno scorsoPer l'ennesima volta, e a intervalli più o meno regolari, è riemerso il cortocircuito nella politica guineana: un presidente che governa attraverso i suoi fedelissimi, estremamente reticente a dividere il potere con l'opposizione, e che ritiene la sua presidenza una sorta di dono divino, da difendere a tutti i costi. Ai suoi piedi ha un Paese dalle grandi potenzialità (primo esportatore al mondo di bauxite, con un terzo delle riserve mondiali, oltre a ferro, oro, diamanti) ma consumato da una crisi economica che dura da anni, con servizi inesistenti e un'inflazione che ha reso proibitivo anche l'acquisto dei generi di prima necessità. In parte tradita da un'opposizione incapace di mobilitarsi se non nei momenti di crisi, la popolazione ha davanti una difficile scelta: chinare la testa, come ha fatto per anni, o scendere in piazza. Come l'anno scorso, al prezzo di 186 vittime.
 
Usa, un esercito di malati
Stress post-traumatico: le vittime aumentano del 50 per cento in un anno
Balza alle stelle il numero di militari statunitensi trattati per disordini da stress post-traumatico (Ptsd). Il numero dei pazienti in cura al ritorno da missioni sempre frequenti e durature nei teatri di guerra in Afghanistan e Iraq ha subito un aumento del 50 percento nel 2007, rispetto al 2006. L'incremento ha portato a 40 mila il numero dei soldati ai quali è stata diagnosticata tale forma di stress a seguito di uno dei due conflitti.
 
Militare Usa in IraqLa punta di un iceberg. La maggior parte di loro ha prestato servizio nell'esercito, il corpo che ha il più alto numero di vittime di Ptsd, 28.365, diecimila dei quali solo lo scorso anno. Tra i Marines, i malati sono 5.581 (2.114 lo scorso anno). Aeronautica e Marina annoverano meno di un migliaio di casi. I dati sono stati rilasciati dal Ufficio sanitario del Pentagono. Le autorità militari Usa hanno anche riferito che le cifre rese note rappresentano solo una piccola frazione di tutti i dipendenti del Pentagono malati di Ptsd. Tra loro, infatti, non sarebbero stati inclusi quelli presi in carico dal Dipartimento degli affari per i veterani, o gli operatori civili, così come coloro che non denunciano la malattia per paura di essere stigmatizzati o di perdere il lavoro.
 
Disordini psichiciGli incubi della guerra. "Se dovessimo descrivere il livello di conoscenza del problema, direi che siamo ad uno stadio... infantile", ha detto il medico generale dell'esercito, Generale Eric Shoomaker. I malati da stress post-traumatico si sentono costantemente sotto minaccia, fanno continuamente incubi o sono soggetti a pensieri ossessivi nei quali rivivono gli orrori della guerra, dalla perdita di un compagno, delle ferite subite in combattimento. Molti diventano emotivamente insensibili. L'esercito soffre di croniche carenze di personale di fronte al costante aumento dei malati psichici. Trecento nuovi medici verranno assunti nei prossimi mesi. Dovranno sottoporre a cure adeguate i militari che tornano dai teatri di guerra in Iraq e Afghanistan, che hanno raggiunto, rispettivamente, le 170 mila e le 27 mila unità.
 
 

28 maggio

Dalla mafia devota, ai rapporti con i terroristi, ai costi del Vaticano
Quattro libri passano al setaccio gli aspetti più controversi della Chiesa

Costi, omertà e pedofilia
L'altro lato della tonaca

di MATTEO TONELLI

 
ROMA - Si parla di Chiesa. Quella che passò attraverso gli anni di piombo. Quella del sequestro Moro e della dissociazione. La Chiesa e Cosa Nostra, la mafia devota e la religione "capovolta". Ed ancora Chiesa e pedofilia, una delle pagine più nere della storia. E i conti in tasca al Vaticano per capire quanto ci costa la Santa Sede.

I costi della Chiesa. Da una serie di articoli a firma di Curzio Maltese su Repubblica, nasce La Questua. Quanto costa la Chiesa agli italiani (Feltrinelli, 14 euro). Qualche cifra per capire. Un miliardo di euro dai versamenti dell'otto per mille. 650 milioni per gli stipendi degli insegnanti di religione. 700 milioni per le convenzioni su scuola e sanità. 250 milioni per il finanziamento dei Grandi Eventi. Mittente lo Stato italiano, destinatario la Chiesa cattolica. Senza contare vantaggi fiscali come il mancato incasso dell'lci. il totale si aggira sui 4 miliardi di euro. Una somma che solo per un quinto viene destinata a interventi di carità e di assistenza sociale.

La mafia devota. Sembrano mondi lontanissimi. Eppure tra mafia e religione, c'è un legame tutt'altro che tenue. Basta leggere La mafia devota di Alessandra Dino (Editori Laterza, 295 pagine, 16 euro) per rendersene conto. Per capire quante volte la mafia ha utilizzato e ancora utilizza simboli cattolici per legittimarsi e autoassolversi. Quasi che esistesse un Dio "privato" con cui negoziare "la salvezza della propria anima. Una sorta di religione "capovolta", insomma. A cui, troppo spesso, la Chiesa risponde con sottovalutazione o limitando il problema ad un concetto di religiosità intimistico nel quale il mafioso è visto solo come "pecorella smarrita". Perché c'è il Dio di padre Puglisi ucciso dalla mafia nel '93, ma anche la Chiesa che modifica il tragitto della processione di sant'Agata a Catania per arrivare sotto il balcone del mafioso uscito di prigione e rendergli omaggio. Un'ibridazione, come la chiama la Dino che, dopo aver parlato con molti sacerdoti siciliani. Ci sono parroci che "auspicano un intervento della Chiesa "in sinergia con lo Stato", quelli che riducono il problema ad un concetto di religiosità intimistico e quelli, e sono la maggioranza degli intervistati, che non vedono la presenza mafiosa sul territorio come una minaccia diretta per la Chiesa. Alcuni segnali vanno, fortunatamente, in controtendenza. Ma una pronuncia chiara e diretta delle alte sfere ecclesiastiche, ancora stenta ad arrivare.


Chiesa e terrorismo. Per quelli che scelsero la lotta armata Camillo Torres, il prete guerrigliero, fu un punto di riferimento. Così come molti terroristi si formarono in ambienti cattolici, quelli più sensibili ai temi della giustizia sociale. Una "vicinanza" che trovò conferme durante i sequestri Sossi e Moro e nella scelta di Prima Linea che consegnò le armi alla Curia di Milano. Per chiudere con gli ex terroristi impegnati nel volontariato cattolico. Si chiama Parole, opere e confessioni. La Chiesa nell'Italia degli anni di piombo il libro di Anna Valle (Rizzoli, 262 pagine, 17 euro), un viaggio-inchiesta sul ruolo della Chiesa in una delle pagine più cupe della storia contemporanea. Dagli inizi, quando alcuni ragazzi "cresciuti negli oratori" decisero che l'unica strada possibile per cambiare le cose era la lotta armata. "Mi sono chiesto tante volte i messaggi che abbiamo dato - dice Don Ciotti nel libro - se e come aiutavamo la gente a saldare la terra con il cielo". Poi c'è la vicenda Moro. La Chiesa che fa, o vorrebbe fare di tutto per salvare lo statista e quella che ferma ogni nuovo tentativo. Poi arriva il tempo della sconfitta del terrorismo. Il carcere, la dissociazione, il reinserimento nella società. E ancora una volta il ruolo importante della Chiesa. Quasi a chiudere un cerchio iniziato anni prima in tranquilli oratori di provincia.

Chiesa e Pedofila. Il più orrendo dei crimini. L'ombra peggiore sulla Chiesa. I silenzi, il dolore, le reticenze. Le parole delle vittime. Due dati, tra gli altri, che si possono leggere in Viaggio nel silenzio di Vania Lucia Gaito (Edizioni Chiarelettere, 273 pagine, 13 euro): in Italia i casi noti di pedofilia clericale sono una cinquantina ma le segnalazioni molte di più. L'elenco dei sacerdoti condannati per pedofilia è disponibile. Nel libro vengono ricostruiti episodi e si fanno nomi e cognomi. Ma quel che si vuol capire è il perché. Partendo dall'educazione nei seminari. Ne viene fuori un quadro allarmante: la mancanza di uno sviluppo psico-sessuale normale può spiegare la tendenza alla pedofilia. Le diocesi americane, dopo lo scandalo che le ha investite, hanno chiuso i seminari minori. In Italia continuano a essercene più di 100. E la testimonianza dell'ex sacerdote Alessandro Pasquinelli (che patteggia e sconta ingiustamente una condanna per pedofilia) accende i riflettori sul problema: "Ho l'impressione che nei seminari ci fosse una percentuale di omosessuali molto alta. È capitato anche a me di ricevere proposte".

 

 

27 maggio

Risparmiateci via Almirante

di FRANCESCO MERLO


POVERO Almirante. La via di Roma che il sindaco Alemanno devotamente vorrebbe intitolargli non solo rischia di condannarlo per sempre a quell'idea di fucilatore che a sinistra avevamo di lui.

Ma in più lo svilisce a ingrediente di un'insipida insalata toponomastica, di una par condicio viaria: se le proposte di Alemanno verranno accettate, al centro di Roma ci sarà infatti il Foro Fanfani dal quale si dipartiranno a sinistra Viale Berlinguer e Vicolo Craxi, e a destra il Nuovo Corso Almirante. Il sindaco ha spiegato che lo scopo di questa sua idea di lapidare - mettere in lapide - i cadaveri di faziosa lacrimatura sarebbe la pacificazione degli italiani, evidentemente non nel senso di farli vivere in pace, ma in quello di farli ridere in pace. Mancano solo le prenotazioni a futuro loculo: fra cent'anni ci sarà il cortile antagonista Bertinotti; a Veltroni toccherà almeno un quartiere; e, perché no?, un romantico vialetto verrà intitolato a Sandra e Clemente.

La verità è che questi amministratori di An, anche i migliori tra loro come il sindaco Alemanno, mostrano di essere goffi e impacciati. Di sicuro riaprendo, e proprio con Almirante, la guerra civile della toponomastica, rischiano di trasformare in folklore un problema che potrebbe anche avere una sua legittimità storica e simbolica.

E' evidente che Alemanno - e con lui il ministro Andrea Ronchi e il capogruppo al Senato Maurizio Gasparri - si inventano la Grosse Koalition cimiteriale, e sarebbero magari disposti a intitolare strade persino a Mara Cagol e a Giangiacomo Feltrinelli, pur di ottenere nella storia d'Italia un posto per il fondatore del Msi, che attualmente nei libri occupa appena qualche cenno greve e distratto. Ma si può rifare la storia "strada facendo"?

E bisogna aggiungere che se l'avesse fatta qualcun altro, un ex nemico piuttosto che gli ex allievi, la proposta di intitolare una via ad Almirante sarebbe stata magari sbagliata, ma almeno insospettabile. Invece un fazioso omaggio toponomastico non solo non risarcirebbe Alimirante, inchiodandolo al teschio nero e alle foto con gli sprangatori che ancora arredano gli archivi dei giornali e la nostra memoria, ma sarebbe anche un brutto segnale per la nuova stagione di governo, che dovrebbe al contrario marcare la discontinuità con un passato ancora troppo recente: gli anni Settanta. Il bisogno di dissotterrare e risarcire i propri morti con periodici incendi emotivi svela che c'è un'anima di An che forse si sente umiliata e minacciata da una identità istituzionale ormai troppo composta e discreta.

Le radici di Alemanno e Gasparri, le bandiere, il passato che ancora li inorgoglisce non è certo quello fascista che non ha nulla a che vedere con loro. Essi celebrano e mitizzano il passato missino, sfogliano e onorano l'album di famiglia della destra italiana degli anni Settanta. L'etica e la solidarietà che li cementa è la memoria del Msi di Almirante appunto, esaltato come campione della democrazia italiana. Ma l'estremismo di destra è un piccolo cimitero di vittime e di carnefici.

Chi ha dimenticato l'Italia degli anni Settanta - ma chi l'ha dimenticata? - potrebbe prendere per buone le vibrazioni di orgoglio di Alemanno anche perché ci furono effettivamente vittime innocenti e pulite tra quei giovani, e bene ha fatto Veltroni a rendere onore, con una passione che a tutti - anche a destra - è parsa sincera, alla memoria dei fratelli Mattei orrendamente bruciati vivi da un commando di vigliacchi terroristi di Potere Operaio.

Ma i picchiatori fascisti non sono un'invenzione della propaganda di sinistra. Non erano animelle candide i giovani estremisti neri che Alemanno spesso compiange. Alcuni di loro organizzavano spedizioni punitive e agguati vigliacchi, aggredivano e colpivano, e qualcuno è saltato in aria fabbricando e sistemando bombe, e c'è stato un terrorismo nero che ha ucciso e ha accoltellato. E' vero che lo spirito del tempo proteggeva di più la violenza dell'estrema sinistra, ma la violenza nera di quegli anni non fu legittima difesa né tanto meno eroismo.

Chiediamoci dunque, al netto della goffaggine, cosa vuole sostenere Alemanno proponendo di intitolare una via di Roma a Giorgio Almirante. Forse che liberò l'Italia dai rancori eversivi fascisti disinnescandoli dentro il Msi, partito borghese salazariano croce e ordine? O ancora che, come aveva fatto Togliatti dopo l'attentato di Pallante, Almirante sconfessò e disarmò il terrorismo nero? Oppure che, rendendo omaggio alla salma di Berlinguer, è stato un precursore della pacificazione? Alemanno vuole ricordare Almirante per il razzismo giovanile o per l'abiura che di quel razzismo pronunziò da vecchio?

Invece di lapidare i cadaveri con accanimento nostalgico-ideologico ci porti, Alemanno, i libri, gli studi, i documenti, le testimonianze. Ragioni e si confronti nei convegni seri con gli storici che ricordano Almirante come un fucilatore; e con chi dall'esterno non riusciva a distinguere tra manganello e doppiopetto. Alemanno liberi, se ci riesce, questo personaggio complesso dall'ambiguità e dalla doppiezza che in tanti gli attribuiamo. Insomma provi a convincerci.

Diceva in vita il suo Almirante: "Quando vedi la tua verità fiorire sulle labbra del nemico devi gioire perché è il segno della vittoria". Nessuno può sapere cosa direbbe da morto. Ma forse, come il cadavere di Polidoro che Enea sfruttava per addobbare l'altare della sua città, anche quello di Almirante mormorerebbe: "parce sepulto", risparmiami.

 

 

Riso amaro e liti di condominio
Va in scena a Dakar l'ennesimo sciopero contro i bassi stipendi e gli aumenti del prezzo del riso
Scritto  da
Alessio Antonini
 
I taxi gialli e gli autobus che dalla periferia vanno verso il centro della città rallentano all'improvviso e un coro stonato di clacson scuote Dakar. Gli autisti dei car rapide, i furgoni colorati che garantiscono il servizio pubblico di trasporti nella capitale senegalese, si sporgono dai finestrini e cominciano a gridare in wolof, la lingua nazionale. Altri saltano giù dalle vetture agitando le braccia in gesti e balletti incomprensibili ai pochi bianchi incastrati nel traffico delle prime ore della mattina. "E' l'ennesimo sciopero per l'aumento del prezzo del riso - dice Jerome, tassista maliano immigrato in Senegal a cercar fortuna - in questo periodo ce n'è uno alla settimana".

Foto di Alessio AntoniniUn chilometro più avanti in direzione dell'enorme mercato di Sandaga, cuore pulsante dell'economia dakarois, un migliaio di manifestanti ha bloccato il traffico: alcuni sventolano sacchi di iuta vuoti, in cui una volta c'era riso, altri si limitano a stare fermi in mezzo alla strada. Un uomo sul tetto di un furgoncino Renault giallo e blu parcheggiato di traverso rispetto alla direzione di marcia grida in un megafono e incita la folla. "La gente è arrabbiata sul serio - spiega Alistair Thomson, corrispondente della Reuters da Dakar - la spesa quotidiana per mantenere una famiglia è passata da poco meno di tre dollari al giorno di gennaio ai quasi cinque di oggi e non ci sono stati aumenti di stipendio per i dipendenti pubblici negli ultimi dodici mesi". Il riso infatti costa quasi il doppio rispetto all'anno scorso e, in un paese dove i piatti nazionali sono lo yassa poulet con riso, la djeboudjenne con riso o il riso e basta per i più poveri, l'aumento dei prezzi si sente più che da altre parti.

Il Senegal importa circa l'80% del riso che consuma ed è particolarmente esposto alla crisi dei prezzi. "Nonostante l'economia senegalese stia crescendo a un ritmo del 6% annuo, è chiaro che il governo non ha applicato nessuna politica di ridistribuzione della ricchezza", commenta Alex Segura, rappresentante per il Fondo Monetario Internazionale a Dakar. "In tutto il paese sta bollendo la pentola della pressione sociale e per il momento il governo si è limitato ad accusare le organizzazioni umanitarie e i francesi di tutti i mali del mondo". Non a caso l'ottantunenne presidente Abdoulaye Wade, ben saldo al timone del palazzo presidenziale dal 2000, è apparso di recente alla televisione nazionale, incolpando la Fao di totale inefficienza e proponendo di sopprimerla. "Dare la colpa agli stranieri è l'arma segreta dei politici di tutto il mondo: in questo caso la Fao e le Nazioni Unite sono un bersaglio perfetto perché tutti in Africa sanno che non servono a niente". Mamadou Bia, sindacalista senegalese, non ha dubbi: "La Fao è colpevole di inefficienza, ma non bisogna pensare che Wade abbia all'improvviso a cuore le sorti dei suoi cittadini, l'attacco alla Fao è un modo per tenere buona la gente. Punto e basta".

Foto di Alessio AntoniniLe dichiarazioni di Wade contro la Fao sono un problema prevalentemente interno, ma va aggiunto che le organizzazioni internazionali negli ultimi mesi si sono messe d'impegno per entrare nel mirino: il quotidiano senegalese l'Observateur avanza l'ipotesi che il Programma Alimentare Mondiale (Pam) delle Nazioni Unite stia manipolando la crisi alimentare per riuscire a piazzare in Senegal varie tonnellate di riso thailandese prossimo alla scadenza che il Pam aveva già acquistato e stoccato, mentre il giornale filogovernativo Le Soleil attacca i progetti di partenariato europei tacciandoli di essere nient'altro che operazioni finanziarie per il rilancio dell'economia del vecchio continente a scapito dei produttori di materie prime senegalesi. "E' vero che la gente soffre, ma l'ingresso di aiuti alimentari in grandi quantità in un paese come il Senegal rischia di fare più danni di quanti ne potrebbe risolvere: la distribuzione gratuita di riso in questo momento metterebbe in crisi gli imprenditori della zona che il riso lo importano e lo vendono al mercato". Alia Yousof, della Standard Asset Management, rincara la dose: "le aziende stanno creando maggiori opportunità di distribuzione di ricchezza in Africa con l'assunzione di lavoratori di quanto non stanno faccendo le istituzioni umanitarie distribuendo elemosina".

L'intervento delle organizzazioni internazionali e umanitarie viene visto dagli investitori non occidentali, prevalentemente arabi o cinesi, come uno strumento di concorrenza sleale nei confronti delle attività produttive. "Non è la prima volta che le organizzazioni internazionali dipingono una situazione peggiore di quanto non sia in realtà per attirare fondi - scriveva due anni fa a proposito del Congo Barry Sesnan, ex dirigente dell'Unicef e oggi a capo di un Think Tank per lo sviluppo - gli interventi umanitari in mancanza di un coordinamento serio con lo Stato e con le imprese locali si rivelano un tifone che spazza via il fragile impianto economico dei paesi emergenti". Il Senegal come tutta l'Africa è un produttore di materie prime: l'aumento del prezzo del riso è accompagnato anche da un aumento dei fatturati delle imprese locali che sfruttano le concessioni petrolifere sulle coste dell'Africa Occidentale, aumentando non tanto la forbice tra paesi in via di sviluppo e paesi sviluppati quanto tra senegalesi ricchi e poveri. "Non c'è bisogno di regali - continua Bia - basterebbe rivedere i salari dei lavoratori e i senegalesi tornerebbero ad avere accesso ai beni di consumo come l'anno scorso. Non bisogna confondere un problema di contratti collettivi con un emergenza umanitaria".
 
Il presidente Wade questo lo sa, come sa benissimo che l'aumento dei prezzi degli alimenti è legato alla crescita di domanda di materie prime da parte della Cina e dell'India e a causa della politica estera statunitense che ha mandato alle stelle il prezzo del petrolio. "Il Senegal è un produttore di greggio e di materie prime - spiega Andrea Goldstein dell'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico - ma ormai la regione dell'Africa Occidentale ha legami più solidi con la Cina e con il Brasile di quanti ne abbia con l'Europa. I padroni delle concessioni petrolifere sono gli esponenti politici senegalesi che si guardano bene dall'additare come un problema l'aumento della domanda dei mercati asiatici o di criticare la politica di espansione americana". Questo metterebbe in crisi, da una parte, i rapporti con le autorità cinesi che fanno affari con il governo e, dall'altra, i rapporti con l'Africom, il comando unificato statunitense per l'Africa, che coordina le operazioni militari statunitensi su tutto il continente nero. "La Fao - aggiunge Bia - questa volta è il debole tra i forti e il governo è consapevole che le sue dichiarazioni non avranno conseguenze".

Foto di Alessio AntoniniIl discorso di Wade però mette in luce un problema che è diventato chiaro negli ultimi anni: "Non c'è più confine tra l'impianto degli aiuti umanitari, le imprese occidentali e le politiche di sicurezza - scrive Sesnan - i singoli soggetti agiscono di concerto e si scambiano favori reciproci". Ne è prova la facilità di passaggio degli operatori umanitari dalle organizzazioni alle imprese e il contatto continuo con gli ambienti militari. "E' nostra intenzione proteggere e aiutare paesi come il Senegal che hanno gravi problemi di sicurezza sul territorio - ha detto l'ammiraglio statunitense Anthony Kurta, coordinatore territoriale del programma Africom - anche contribuendo ai programmi di sviluppo". La presenza fino all'inizio di maggio della portaerei USS Fort McHenry nelle acque territoriali senegalesi è stata letta dal governo come un chiaro segnale dei rapporti che il Paese deve mantenere con gli alleati americani. L'amministrazione dakarois è terrorizzata dal finire su una possibile lista nera dei terroristi perché questo comporterebbe la fine dei contratti commerciali come sono stati intesi finora. Fino al 2003 il Senegal infatti intratteneva ottimi rapporti diplomatici con i paesi del Golfo Persico per scambi di expertise sull'estrazione petrolifera, rapporti che si sono immediatamente raffreddati in seguito alla prima visita ufficiale del presidente americano George Bush a Dakar. "Gli Stati Uniti hanno chiarito al governo senegalese che è più vantaggioso per il Senegal stare dalla loro parte - scrive Daniel Volman dell'African Security Research Project - le conseguenze di una scelta diversa possono essere immensamente gravi per i gruppi dirigenti del paese".

Basti pensare che l'allarme terrorismo dell'anno scorso ha spinto a modificare il percorso della Parigi Dakar che ha sempre portato turismo e denaro in Senegal. La gara più famosa del mondo infatti nella sua edizione 2009 non toccherà né Parigi né tantomeno Dakar: si farà in Sud America, da Buenos Aires in Argentina a Valparaiso in Cile. "Quello che gli Usa non possono fare per il momento - prosegue la Yousof - è proporre qualcosa di più vantaggioso rispetto a quello che già offre la Cina". In cambio di aiuti per la lotta all'Hiv e alla povertà erogati dall'organizzazione umanitaria protestante World Vision gli Usa hanno ottenuto in tutta l'Africa occidentale le cosiddette lily pad facilities (installazioni a ninfea), luoghi in cui gli aerei militari statunitensi possono atterrare e ripartire senza dover avvisare le torri di controllo o le autorità locali, come gli insetti sulle piante che galleggiano sull'acqua, appunto. Nel gioco al rialzo, la Cina però ha offerto di più: la costruzione di gran parte delle nuove opere edilizie di Dakar in cambio del petrolio che sarà scoperto in futuro. Di fatto un guadagno immediato a costo zero che sposta tutto il rischio dalle imprese senegalesi a quelle cinesi. Una manna per chi governa il Senegal.

Foto di Alessio AntoniniLa Fao dunque è l'unico bersaglio rimasto su cui si può scagliare il presidente senegalese senza creare incidenti gravi. "La Fao ha dimostrato senza dubbio incompetenza - insiste Bia - ma questa volta non c'entra nulla con i problemi del Senegal. Le difficoltà sono ben altre: cioé che noi cittadini non contiamo niente e le cose ci passano sopra la testa senza che noi possiamo fare nulla". Il sole infatti splende ancora alto mentre gli aerei militari statunitensi decollati dalla pista di Kaolak a 200 chilometri dalla capitale senegalese pattugliano i cieli della penisola dakarois. Ma la maggior parte dei senegalesi pare non si accorga nemmeno di quello che succede più in basso. Accanto ai sacchi di iuta vuoti rimasti sull'asfalto al termine della manifestazione sfrecciano tre toyota nere appena uscite dal palazzo presidenziale. Stanno andando nella residenza di rue 18 prolongee: la sede dell'ambasciata cinese. 
 
  
Afghanistan, una guerra sporca
Squadroni della morte afgani al servizio delle truppe d’occupazione
Philip AlstonAl termine di una missione investigativa in Afghanistan, l’australiano Philip Alston, inviato speciale delle Nazioni Unite sulle esecuzioni sommarie, arbitrarie ed extragiudiziali, ha denunciato il ricorso, da parte delle forze d’occupazione straniere, a “squadroni della morte” composti da “milizie irregolari afgane” per combattere una guerra sporca contro la guerriglia talebana.
“Ho raccolto molte testimonianze di violenti raid contro presunti insorti condotti da milizie afgane pesantemente armate agli ordini di militari stranieri”, ha dichiarato Alston a Kabul. “Azioni che spesso si concludono con l’uccisione dei sospetti, senza che nessun esercito o istituzione se ne prenda la responsabilità. Queste unità segrete, chiamate Campaign Forces, pur essendo sottoposte a una regolare catena di comando, operano al di fuori di ogni legge e nella più totale impunità. E’ una situazione assolutamente inaccettabile”.
L’inviato speciale dell’Onu ha spiegato che queste milizie operano in tutte le zone ‘calde’ del Paese, dalle province di Helmand e Kandahar nel sud a quella di Nangarhar nell’est.
 
Le milizie afgane di Daud (Foto. E.Piovesana/PeaceReporter)Faccia a faccia con i mercenari. Due anni fa, nel maggio 2006, PeaceReporter aveva indagato su questo argomento nell’ambito di un reportage dalla provincia di Helmand. Ne ripubblichiamo un estratto.
Provincia di Helmand, Afghanistan meridionale. Appena fuori Grishk c’è la base militare statunitense: un fortino in mezzo al deserto, dominato da una torre di legno su cui sventola la bandiera stelle e strisce. La base ospita una delle tante prigioni Usa ‘non ufficiali’ dove vengono interrogati, e torturati, i sospetti membri dei talebani o di Al-Qaeda, prima di essere spediti a Kandahar, Bagram e poi a Guantanamo.
A difendere la base non ci sono militari americani, ma mercenari afgani. La gente del posto li chiama khakhprush, venduti al nemico. Sono ragazzi dei villaggi vicini. Non indossano nessuna divisa. Quando non escono in missione per o con gli statunitensi, se ne stanno sui tappeti stesi davanti alle baracche che circondano le mura della base. Passano la giornata bevendo tè, fumando hashish e facendo manutenzione del loro arsenale: fucili, mitragliatrici e lanciarazzi.
Il comandante Daud (Foto. E.Piovesana/PeaceReporter)Il loro comandante è mullah Daud. Ci riceve nella sua piccola e buia baracca. Se ne sta seduto a terra a parlare con uno dei suoi ufficiali. Dietro a lui, appoggiato al muro, il suo Ak-47; accanto a lui un frasario d’inglese. “Gli americani ci pagano bene, ma non è per quello che lavoriamo per loro: lo facciamo perché sono gli unici che possono salvare questo Paese. Il governo afgano, l’esercito afgano, la polizia, sono tutti corrotti. Pensano solo ai soldi e per farli non esitano ad allearsi con talebani e trafficanti d’oppio. Loro non fanno nulla, mentre noi combattiamo i talebani: i miei centocinquanta uomini ne hanno uccisi e arrestati a decine”.
Torniamo a Grishk e andiamo a casa del governatore distrettuale. Haji Mohammed Ibrahim vive con il suo assistente Farid in una vecchia casa appena fuori dal bazar. E’ una persona colta e dai modi eleganti. “La gente di qui odia i mercenari di Daud più degli stessi americani. Con la scusa della lotta ai talebani e con le spalle coperte dai loro padroni, questi criminali vanno in giro a uccidere e derubare la gente facendo irruzione nelle case, terrorizzando le persone per farsi dare soldi. Chi non paga viene rapito, portato agli americani e spacciato per talebano, terrorista di Al-Qaeda”. 

22 maggio

Cessate il fuoco
Il bollettino settimanale delle guerre e dei conflitti in corso n. 19 - 2008 dal 16/05/2008 al 21/05/2008

Nell'ultima settimana, in tutti i Paesi in guerra, sono morte almeno 586 persone


Sri Lanka
Nell'ultima settimana sono morte almeno 137 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 4.344

 
Afghanistan
Nell'ultima settimana sono morte almeno 92 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 1.627

 
Pakistan talebani
Nell'ultima settimana sono morte almeno 23 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 1.183

 
Nord Caucaso
Nell'ultima settimana sono morte almeno 17 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 233

 
India Nord-est
Nell'ultima settimana sono morte almeno 12 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 364

 
India Naxaliti
Nell'ultima settimana sono morte almeno 5 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 260

 
Pakistan Balucistan
Nell'ultima settimana sono morte almeno 3 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 76

 
India-Kashmir
Nell'ultima settimana sono morte almeno 3 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 194

 
Thailandia del sud
Nell'ultima settimana sono morte almeno 3 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 154

 
Filippine Npa
Nell'ultima settimana sono morte almeno 1 persona
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 87

 
Filippine Abu Sayyaf
Nelle ultime due settimane è morta almeno 1 persona
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 61

 
Iraq
Nell'ultima settimana sono morte almeno 202 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 6.699

 
Israele e Palestina
Nell'ultima settimana sono morte almeno 2 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 337

 
Algeria
Nell'ultima settimana sono morte almeno 2 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 95

 
Sudan
Nell'ultima settimana sono morte almeno 22 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 631

 
Somalia
Nell'ultima settimana sono morte almeno 23 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 474

 
Rep. Dem. Congo
Nell'ultima settimana sono morte almeno 11 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 232

 
Mali
Nell'ultima settimana sono morte almeno 27 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 27

 

Vivere da ricchi, oggi in Italia

Centomila euro per sette giorni in yacht. Ventimila per la festa dei bambini. E 220 mila per una penna. È il Paese che non appare nelle dichiarazioni dei redditi. Ma che, da quando non c'è più la lira, sta meglio di prima
di DARIA GALATERIA, ANNA LOMBARDI ed EMILIO MARRESE


Alla piccina piacciono le Winx e papà gliele ha portate. Non le bambole: quelle vere in ciccia e paillettes. Ventimila euro per allestire in giardino a Fregene una tappa privatissima del musical delle fatine adorate dai bambini. Un piccolo sfizio se lo si confronta a quella penna da 220 mila euro che un industriale del sughero s'è portato a casa dall'ultima fiera del lusso Luxury & Yachts di Vicenza (22 mila visitatori...).

O a quella poltrona col bracciolo decorato di diamanti acquistata alla stessa modica cifra di 220 mila euro da un notaio milanese. L'ombrello in coccodrillo da 32 mila euro griffato Billionaire allora è roba da pezzenti. Schiaffi alla miseria? Più che altro, un pestaggio bello e buono con mazze e catene (d'oro, naturalmente).

Chi l'ha detto che l'Italia non è un Paese per ricchi? Se tanti tirano la cinghia, al di là delle facili demagogie, i ricchi sono sempre di più e sempre più ricchi. Sicuramente molti di più di quei 54 mila contribuenti che dichiarano un reddito di oltre 200 mila euro (lo 0,13 per cento...), se è vero che nella sola Milano ci sono 150 mila fortunati che spendono più di ventimila euro al mese in beni superflui. E se è vero che l'anno scorso sono stati venduti 200 mila Suv e comprate barche per tre miliardi. I conti non tornano: quella sbirciata nelle dichiarazioni on line che hanno fatto scandalo è una realtà virtuale. E comunque, stando solo ai dati ufficiali, in un anno quelli che hanno più di un milione in banca sono aumentati del 2,5 per cento: se nel 2002 erano 110 mila famiglie, oggi, grazie anche all'euro, sono 205.800 (Merrill Lynch-CapGemini). Secondo un sondaggio di Astra Ricerche gli italiani che si dichiarano ricchissimi sono un milione 800 mila: evidentemente dimenticano di dichiararlo anche al fisco...

 

15 maggio

 

L'istruttoria annunciata dal presidente dell'Autorità, Catricalà. Alla base del provvedimento il dossier dell'associazione Altroconsumo

L'Antitrust sulla Portabilità mutui, ecco le 10 banche sotto inchiesta

Il provvedimento su gruppo Unicredit-Banca di Roma, Bnl, Carige, Intesa SanPaolo, Montepaschi, Antonveneta, Deutsche Bank, Banca Sella, Ubi Banca, Popolare Milano

di ROSARIA AMATO

ROMA - L'Autorità garante per la concorrenza e il mercato ha aperto dieci istruttorie nei confronti di altrettante banche sulla portabilità dei mutui. Lo ha annunciato il presidente Antonio Catricalà, nel corso di un intervento al Forum della P.A. Le istruttorie nei confronti degli istituti di credito sono state aperte per "pratica commerciale scorretta".

Catricalà non ha detto di quali banche si tratta. Tuttavia, da fonti proprie, Repubblica ha appreso che tra le banche nei confronti delle quali è stato aperto il procedimento ci sono Unicredit Banca di Roma, Bipop Carire, Banco di Sicilia (tutte del medesimo gruppo), Intesa San Paolo, Bnl, Monte dei Paschi di Siena, Antonveneta, Deutsche Bank, Ubi Banca, Banca Popolare di Milano, Banca Sella, Carige.

"Questa legge sulla portabilità dei mutui è rimasta inattuata - ha spiegato Catricalà - Abbiamo notizia di rinunce a cambiare solo a causa dei costi e abbiamo denunce di cittadini perché le banche negano la surrogazione e propongono un contratto analogo con costi insormontabili. Abbiamo evidenza che questo sia vero e abbiamo raccolto prove sufficienti su dieci banche e abbiamo aperto dieci istruttorie".

Il provvedimento dell'Authority, spiega il presidente di Altroconsumo Paolo Martinello, è stato adottato quindici giorni fa anche sulla base del dossier presentato alcuni mesi fa dalla stessa associazione dei consumatori, e potrebbe sfociare a breve in una censura nei confronti delle stesse banche indagate: "L'Autorità potrebbe adottare d'urgenza un provvedimento di divieto di proseguire a praticare queste pratiche sleali, è una prima iniziativa che l'Antitrust aveva annunciato di avere all'esame per inibire alle banche la continuazione di questo comportamento", dice Martinello.

Altroconsumo ha inviato all'Authoriy un'ampia documentazione sulle pratiche illegittime delle banche: "Dalla nostra indagine, effettuata su 40 sportelli tra Roma e Milano - ricorda Martinello - risultava che circa il 50 per cento delle banche non offriva prodotti di surroga e l'altra metà, nove su 10, offriva la surroga a costi illegittimi: tra commissioni bancarie e spese notarili si va da 280 a circa 2500 euro. Solo 2 banche rispettavano pienamente la legge. Quando abbiamo avuto notizia dell'apertura dell'istruttoria, abbiamo mandato all'Antitrust tutte le segnalazioni che abbiamo ricevuto dai nostri associati, svariate centinaia".

Denunce sulla scorrettezza dei comportamenti delle banche sono arrivate anche da altre associazioni dei consumatori, tra le quali Adiconsum, Federconsumatori e Adoc, che plaudono all'iniziativa di Catricalà: "E' un costume, ormai consolidato nel tempo, di arroganza e di vessazione continua nei confronti dei cittadini utenti". Mentre il presidente di un'altra associazione, il Codacons, Carlo Rienzi, rileva: "I comportamenti scorretti delle banche che non applicano le disposizioni previste dalle liberalizzazioni introdotte dal pacchetto Bersani, hanno prodotto un danno ai correntisti pari a 5,9 miliardi euro".

La portabilità del mutuo, introdotta dal pacchetto Bersani sulle liberalizzazioni, consiste nella possibilità per gli utenti delle banche di sostituire il proprio mutuo con uno meno oneroso a costo zero. La surroga (cioè lo spostamento dell'ipoteca da una banca all'altra) per legge dovrebbe avvenire gratuitamente. Eppure, nonostante anche l'Associazione Bancaria Italiana abbia ammesso che per gli utenti non debba esserci alcun onere economico, sono ancora tante le banche che rifiutano di prendersi in carica un vecchio mutuo stipulato con un istituto concorrente.

E intanto oggi il Consiglio nazionale dei Notai assieme a un nutrito gruppo di associazioni dei consumatori ha annunciato la pubblicazione della seconda 'Guida per il cittadino. Mutuo informato', che si pone l'obiettivo di aiutare a scegliere in maniera consapevole tra i tanti strumenti creditizi a disposizione.
 

 

Le paure dell'Italia

Una ragazza rumena dice la sua sulle proposte del ministro italiano degli Interni Maroni

scritto da
Andreea Mihai 
 L’Italia ha paura degli stranieri e gli italiani dei rom e rumeni. L’Italia ha paura per la sicurezza dei suoi cittadini, puntando il dito non in base alla cittadinanza, visto che è cresciuto il numero di stranieri cittadini italiani, ma in base allo stato dal quale si proviene.

Gli italiani hanno paura dello Straniero, dell’Altro, chiunque esso sia, basta che abbia un tratto un po’ diverso, un abbigliamento diverso o basta che semplicemente apra la bocca e parli con un accento diverso. La domanda principale, ormai, non è più chi sei, ma di dove sei; non è più importante l’individuo, ma la provenienza: tutti i rom sono rumeni, tutti i rumeni sono rom ed entrambi delinquenti e criminali. L’eccezione fa solo la badante di famiglia, lei no, tutti gli altri sì però. Le badanti che curano gli anziani d’Italia, gli operai e i muratori morti sul lavoro costruendo le case d’Italia, i lavoratori stagionali che portano la frutta e la verdura sulle tavole d’Italia non esistono; loro rappresentano solo le piccole singole eccezioni che ogni italiano, in parte, ammette tra sé, ma che nessuno ha il coraggio di affermare in pubblico. L’Italia dimentica che l’Europa ha già vissuto gli effetti devastanti del trend xenofobico e dell’atteggiamento discriminatorio mirato contro gruppi distinti dall’origine / etnia / nazionalità. Diventa superfluo e quasi irritante continuare a ricordare i trattamenti discriminanti che gli italiani hanno avuto nel mondo e gli stereotipi che ancora continuano ad essere innescati dalla semplice parola “italiano”.

I provvedimenti che il neo-ministro Maroni vuole attuare rappresentano proprio la ricognizione e legittimazione del trend xenofobo che la politica italiana sta prendendo, per non parlare della palese violazione dei Diritti dell’Uomo. Nell’anno del 60esimo anniversario della Carta dei Diritti dell’Uomo, un paese europeo occidentale si avvia verso la messa in pratica di un pacchetto di leggi razziali che comprendono il reato di immigrazione clandestina, la trasformazione dei Centri di Prima Accoglienza (e sottolineerei accoglienza) in carceri, l’adeguamento di tutte le leggi europee in materia per discriminare un popolo in particolare, la chiusura delle frontiere in base a criteri etnici e nazionali, e l’obbligatorietà del reddito per l’ottenimento del permesso di soggiorno. Tutte queste misure, ma soprattutto la chiusura delle frontiere e l’obbligo del reddito, non fanno altro che colpire la gente onesta e lavoratrice ed incentivare la creazione di una fascia di clandestinità che vivrà nell’ombra e nel terrore della prigione “di prima accoglienza”.

L’Occidente ha fatto una lunga strada dal periodo Illuminista fino ad oggi
, passando per il diritto americano di ricerca della felicità, per la Rivoluzione Francese, per il sogno di una Unione Europea, tutto per arrivare a dimenticare gli orrori delle guerre mondiali e, in modo superficialmente democratico e, paradossalmente, in conformità con le normative europee, ritornare al buio della rimozione delle persone “indesiderabili”. La piega sensazionalistica che l’Italia ha saputo dare alla fobia sulla sicurezza ha nascosto, sotto un polverone di panico sociale, tutti i veri problemi che la società italiana dovrebbe affrontare per poter dar le giuste risposte ai problemi che la tormentano: industria traballante, stipendi bloccati ai minimi europei, potere d’acquisto spostato dai negozi ai mercatini di quartiere, servizi pubblici nelle mani della mafia e tutte le soluzioni nelle mani degli stessi politici che nel frattempo non hanno fatto altro che arricchire le proprie fedine penali. L’Italia vuole pulire il paese dagli stranieri ''sgradevoli'', scartando, come in un gioco di carte, tutti quelli che non desidera. Ma alla fine della partita, quando tutte le mani si saranno giocate, gli stranieri che l’Italia gradirebbe, desidereranno ancora vivere nell’Italia degli italiani?
 
 
Consulenze in pompa magna e funebre
Mastella Il consulente ai funerali? Può sembrare assurdo, ma c'è anche questo incarico. E forse, alla luce della situazione politica in Campania descritta nell'inchiesta di copertina de L'espresso, tra le tante consulenze assegnate dal Consiglio regionale questa è la più azzeccata. L'elenco comprende ben 152 nomine con la spesa di un milione di euro. L'avvocato che darà consigli sulla deontologia delle pompe funebri riceverà 3.000 euro. Per il sostegno e la valorizzazione delle piccole librerie interverrà un ingegnere, pagato con 7.000 euro. Altri 5.000 invece voleranno via per dare consigli sulla vigilanza delle spiagge libere. Notevole anche l'istituzione di una consula delle confessioni religiose con consulenza da 4500 euro o i mille euro per un'analisi delle proposte normative sui biodisel. Sorprende poi che l'assessore all'Ambiente del Comune di Salerno si faccia versare 5 mila euro per pareri sulla legislazione ambientale: è un esponente dei Verdi, forse avrebbe potuto rinunciare al compenso. Solo tredici incarichi non prevedono soldi. Ed è difficile pensare che una struttura sterminata come la Regione Campania non disponga di tecnici e professionisti interni a cui affidare le stesse mansioni. Ma al Corriere del Mezzogiorno, il presidente del Consiglio regionale ha difeso le scelte: «Abbiamo tagliato le spese del 30 per cento«. Di chi si tratta? Di Sandra Lonardo Mastella, tornata al suo posto dopo la scarcerazione.

 

 dati Istat sui prezzi: gli aumenti più significativi sono stati rilevati per il capitolo abitazione, acqua, elettricità e combustibili

Inflazione ad aprile al 3,3%
Pane e pasta +13 e +18% annui

<B>Inflazione ad aprile al 3,3%<br>Pane e pasta +13 e +18% annui</B>

ROMA - E' definitivo il dato sull'inflazione in aprile comunicato dall'Ista: l'indice nazionale dei prezzi al consumo per l'intera collettività (comprensivo dei tabacchi) è aumentato dello 0,2 per cento rispetto a marzo 2008 e del 3,3 per cento rispetto allo stesso mese dell'anno precedente; anche al netto dei tabacchi i due dati non cambiano.

L'indice armonizzato (quello composto in modo leggermente diverso che serve per i confronti europei) in aprile è salito invece dello 0,6 per cento mensile e del 3,6 per cento rispetto all'anno precedente.

Gli aumenti congiunturali più significativi sono stati rilevati per i capitoli Abitazione, acqua, elettricità e combustibili (più 1,5 per cento), Prodotti alimentari e bevande analcoliche (più 0,5 per cento) e Servizi ricettivi e di ristorazione (più 0,4 per cento); variazioni nulle si sono registrate nei capitoli Servizi sanitari e spese per la salute, Istruzione e Altri beni e servizi; variazioni negative si sono verificate nei capitoli Trasporti, Comunicazioni (meno 0,3 per cento per entrambi) e Ricreazione, spettacoli e cultura (meno 0,2 per cento).
Gli incrementi tendenziali (cioè su base annua) più elevati si sono registrati nei capitoli Abitazione, acqua, elettricità e combustibili (più 6,1 per cento), Prodotti alimentari e bevande analcoliche (più 5,6 per cento) e Trasporti (più 5,1 per cento); variazioni tendenziali negative si sono verificate nei capitoli Comunicazioni (meno 2,7 per cento) e Servizi sanitari e spese per la salute (meno 0,3 per cento).

Cresce ancora il peso dei prodotti alimentari sul costo della vita: secondo l'Istat, è da segnalare un ulteriore acceleramento della crescita tendenziale dei prezzi di pane e cereali, passati dal +10,1% di marzo al +10,6% di marzo. Su base congiunturale, l'aumento è stato dello 0,6%. In particolare, il prezzo del pane è aumentato dello 0,3% rispetto a marzo e del 13% rispetto ad aprile 2007 mentre quello della pasta e' salito dell'1,9% rispetto a marzo e del 18% rispetto ad aprile 2007.
 
 
Muro contro muro
Continua lo sciopero degli agricoltori, decisi a trattare con i governatori e far pressione sul governo. Che non cede
L'Argentina continua a essere scossa dallo sciopero degli agricoltori, grandi e piccoli. Gli enti che li raggruppano in questa settimana hanno in previsione vari incontri con i governatori delle province agricole, strategia per trovare una via d'uscita al conflitto con il governo scatenato dall'aumento delle tasse sull'esportazione dei prodotti del campo. Dopo essere scesi in piazza, paralizzando il paese, a metà di marzo, e dopo essersi placati per le promesse della presidente, Cristina Kirchner, una settimana fa hanno ripreso lo sciopero per il niente di fatto con il governo. Che resta fermo sulle sue posizioni: per esportare grano, soia e semi di girasole l'imposta è dal 35 al 44 percento in più. Niente discussioni. La Kirchner e il suo entourage sono convinti che il settore agricolo sia in parte responsabile dell'inflazione, e ha pensato che rincarare l'esportazione significhi disincentivare i produttori a vendere all'estero e a svuotare così il mercato interno, costringendo gli argentini a comprare sul mercato internazionale dominato da prezzi altissimi. Rincarare le imposte dell'export significa dunque preservare il mercato interno e placare l'inflazione.

proteste argentineI blocchi. In questa seconda fase di protesta che, a quanto è stato annunciato, durerà fino a giovedì prossimo, i coltivatori sono tornati a bloccare le strade, frenando il passaggio dei camion che trasportano il grano e gli alimenti di prima necessità. Nella settimana di sciopero scatenatosi a marzo, molti negozi di generi alimentari si svuotarono per lo stop ai rifornimenti. Questa volta, però, sembrano intenzionati a impedire il passaggio unicamente ai trasportatori del grano destinato all'estero, senza pregiudicare il mercato interno.

proteste agricoleMa perché incontrare i governatori delle province? Si tratterebbe di un piano per rompere o almeno danneggiare l'alleanza di alcuni di loro con il governo centrale e far pressione per averla vinta. Si sono incontrati per ora con Juan Schiaretti, governatore di Cordoba, che si è quindi autoescluso dalle fila dei kirchneristi. Ha infatti già ribadito che è d'accordo con molte delle richieste dei produttori e ha fatto sapere che non sarà presente al congresso di domani del justicialismo, il movimento che ora fa capo ai Kirchner all'interno del quale era candidato a ricoprire la carica di portavoce.
Al contrario, Daniel Scioli, della provincia di Buenos Aires, ha lasciato la palla a tre funzionari per mantenersi distante da ogni coinvolgimento, tanto da attirarsi le ire degli scioperanti: “Atteggiamento da pagliacci”, hanno commentato. Ma secondo Scioli chiedere un dialogo in queste condizioni di tensione è assurdo, dato che dovrebbe avvenire senza nessun tipo di condizionamento. E in più ha precisato che la protesta è ormai politicizzata e lui, che fu vice di Nestor Kirchner, non vuole desidera che nessuna metta zizzania tra di loro.
Sembrano probabili riunioni con Hermes Binner, Santa Fe, Alberto Rodriguez Saà, Sal Luis, e Jorge Capitanich, del Chaco. E, se l'incontro con Saà sembra logico data la sua lontananza con la maggioranza, l'incontro con Capitanich suona molto improbabile, dato che si tratta di uno dei governatori più vicini a Kirchner.

proteste argentineIl Governo. Se alla Casa Rosada arrivano da ogni parte segnali nefasti che questo sciopero durerà ben oltre giovedì, (“Non c'è nessun motivo che ci sia una tregua”, ha dichiarato Eduardo Buzzi presidente della Federazione agraria), i Kirchner ribadiscono la linea dura. Anzi, l'ex presidente, nell'atto di domani, pare pronuncerà un discorso molto pesante contro i quattro enti agricoli in conflitto.
Ma Buzzi, forte dell'atteggiamento di Schiaretti, non si è limitato a dichiarare che lo sciopero potrebbe prolungarsi, ha anche incitato gli altri governatori a seguire il buon esempio: “Ci sono presidenti di provincia che si animano, e questo è un esempio. È il primo che riceve i quattro enti in sciopero e a dire che le imposte di export devono essere abbassate. Che Schiaretti marchi la via ad altre province”.

Contraccolpi. In bilico per la protesta degli agricoltori è, di riflesso, l'industria dell'export. Gli imbarchi di prodotti del campo sono di nuovo congelati per lo sciopero e se si considera che l'Argentina è uno dei maggiori esportatori di alimenti agricoli del mondo, il conto è presto fatto. Le perdite economiche sono inestimabili. Come gravi sono i contraccolpi che arrivano al mercato finanziario: i bonus argentini sono caduti del 20 percento.
Il clima è di totale incertezza, dato che la soluzione sembra lontana, e la paura di una nuova crisi finanziaria dilaga, anche via web, tanto da costringere la Banca Nazionale a fare un annuncio pubblico per tranquillizzare gli argentini: nessuna fuga di capitali, quindi niente panico. Ma la ferita è ancora troppo aperta e brucia ancora.

 

13 maggio

 

I complici nel loft

Norma Rangeri

L'unità nazionale contro Marco Travaglio. È l'immagine surreale, l'istantanea che fotografa la reazione del mondo politico alle pesanti accuse del giornalista contro il presidente del senato, Renato Schifani. Citando dalle coraggiose pagine del libro di Lirio Abbate, I complici, nella prima serata di Raitre, di fronte a un Fabio Fazio visibilmente a disagio, Travaglio ricorda i rapporti del presidente del senato con alcuni boss mafiosi. Relazioni note, politicamente imbarazzanti, anche se giudiziariamente irrilevanti (Schifani non ha subito per questo alcun processo). Il popolare giornalista non rivela verità nascoste, ma moltiplica l'audience di fatti e circostanze già negli scaffali delle librerie e negli articoli delle sparute, incorreggibili penne antiberlusconiane.
Anziché discutere sull'attendibilità della denuncia, la nomenklatura del Partito democratico (da Anna Finocchiaro a Luciano Violante) si unisce alle voci del centrodestra e protesta con veemenza per la diffusione televisiva delle irripetibili offese. Un leit-motiv già risuonato nelle dichiarazioni del presidente della Rai, Claudio Petruccioli, indignato per la puntata di Annozero dedicata alla manifestazione torinese di Beppe Grillo.
Un film già visto all'indomani della celebre intervista di Daniele Luttazzi a Travaglio (Satyricon) su un altro libro-scandalo, L'odore dei soldi berlusconiani: sullo sfondo ancora la mafia, ancora la Sicilia dell'eroe Mangano. Tuttavia nel 2002 l'antiberlusconismo era moneta spendibile sul mercato elettorale, specialmente di fronte all'editto bulgaro, preludio di un governo della televisione che non faceva prigionieri.
Oggi, invece, la sinistra del loft sotterra la questione morale e insegue con il fiato in gola il sentimento di rancore che la maggioranza dei cittadini ha riversato nell'urna a favore del Popolo delle libertà. Alle ronde di destra si affiancano quelle di sinistra, le ordinanze contro i mendicanti sono un rito bipartisan. E sull'informazione, casamatta del potere, si replica: tolleranza zero.
In tv parla e ha accesso solo chi non tocca i nervi scoperti dell'avversario. C'è da rinnovare il Cda del servizio pubblico, bisogna difendere il fortino di Raitre assicurando la massima collaborazione e tranquillità al presidente Berlusconi, già alle prese con i colonnelli di Fini che affondano l'attuale direttore generale, Claudio Cappon, nella speranza di strappare quella poltrona al berlusconiano già designato.
E così eccoli tutti in fila a chiedere scusa per l'increscioso incidente di percorso, mentre i nuovi regnanti di questa dolce dittatura zittiscono gli ultimi cani sciolti e cancellano i fatti. L'intervista del Tg1, a Renato Schifani, ne era un esempio luminoso. Il politico liquida il merito della questione («fatti inconsistenti e manipolati»), e si dilunga sul complotto politico («qualcuno vuol minare il clima di dialogo tra maggioranza e opposizione»). Uno spot. Non spiega nulla, ma significa moltissimo.

 

Il massacro di Halba

Testimonianze delle violenze avvenute in una piccola città del nord del Libano

Scritto da Erminia Calabrese

Sami ha 26 anni. Vive ad Akkar, una città situata al nord del Libano.
La barbarie delle milizie che in questi ultimi giorni ha incendiato il paese dei cedri non ha risparmiato né lui né la sua famiglia. Gli scontri avvenuti nel fine settimana, tra la milizia di Hariri e quella del partito social-nazionalista siriano (SSNP, pro-opposizione) ad Halba, città del Libano Nord, situata al confine con la Siria saranno ricordati come l’ennesimo massacro nella storia del Libano.

Ragazzi a terra, pieni di sangue, la maggior parte morti e coperti con un lenzuolo scuro altri ancora vivi ma gravamente feriti, grida e insulti è questo lo scenario che offriva “il campo di battaglia” a pochi minuti dalla fine, immagini crudeli, atroci, simbolo di una lotta o di una guerra incivile. “Eravamo nella sede del nostro partito quando verso le 11 di mattina un centinaio di miliziani del movimento Mostaqbal di Hariri”, ha cominciato a raggrupparsi attorno al nostro ufficio”, racconta Sami. “Hanno tentato di entrare con colpi di armi e spranghe ma noi ci siamo difesi. Dopo sette ore di combattimenti tramite la mediazione di qualche sheikh del villaggio siamo giunti ad un patto: noi saremmo usciti senza armi e l’esercito avrebbe preso il controllo del nostro ufficio. Siamo usciti fuori e mentre aspettavamo che l’esercito arrivasse hanno cominciato a sparare. Eravamo senza armi non potevamo difenderci. Mio fratello Fadi di 28 anni è morto”. Il tragico bilancio dello scontro è di undici morti e otto feriti, uno dei quali, a sentire un’attivista del SSNP, sarebbe deceduto mentre veniva trasportato in ospedale. Gli avevano stato sparato davanti a un medico.

Al telefono Ali Kanso, segretario generale del partito SSNP commenta: “Questa è la conseguenza delle decisioni del 14 marzo di combattere la resistenza in tutte le regioni. Questi attacchi sono di tipo confessionale. E’ il governo Seniora ad essere responsabile di questo massacro. Chiedo che gli autori siano consegnati alla giustizia. Hanno attaccato questa sede perché è di un partito laico che da sempre lotta contro il regime confessionale in Libano”. A notte fonda alcuni attivisti del movimento Moustaqbal di Hariri avrebbero anche attaccato alcune case di persone pro-opposizione, si legge sul giornale As-Safir. “Hanno sfondato le porte di casa mia e mi hanno distrutto tutto, questo è lo Stato che abbiamo? LA gente muore a causa di una confessione?, dice Alia, 55 anni, piangendo. “Sono costretto a prendere le armi e a combattere”, dice Hani, 25 anni, altrimenti rubano il mio paese, non ho altra scelta”. “Tutti qui hanno delle armi, anche partiti di quella maggioranza al governo che vuole il disarmo di “altre milizie”, dice Samia, una donna di Halba di 49 anni.

Il ricordo di un Libano unito e solidale così come si era manifestato durante e dopo la guerra dell’estate 2006 sembra davvero essere sparito.

 

Andijan, la strage dimenticata

Il 13 maggio 2005 in Uzbekistan la peggior mattanza di piazza dopo Tienanmen

Scritto da Barbara Carcone

Ricorre oggi il terzo anniversario del massacro di Andijan. Human Rights Watch pubblica un rapporto sul perpetrarsi della repressione governativa contro i presunti responsabili della strage. “Proteggendo i loro segreti. Il governo e la repressione ad Andijan” è il titolo del fascicolo di 45 pagine, reso noto ieri dall'organizzazione per i diritti umani, a ricordare che questo capitolo nero della storia uzbeca non si è chiuso, e ad auspicare, di fronte all'ostinazione delle autorità di Tashkent, una maggiore pressione internazionale per far luce sui fatti.

Andijan, 13 maggio 2005. "Interrogatori, sorveglianza costante, ostracismo e minacce continuano a spingere la popolazione a fuggire da Andijan - si legge nel rapporto - per la seconda volta dal 13 maggio 2005". In quella data, si consumò la strage di piazza più efferata dopo Tienanmen: la mattina presto alcuni uomini avevano attaccato edifici governativi, uccidendo alcuni ufficiali di sicurezza. Avevano fatto irruzione nel carcere della città, prendendo alcuni ostaggi. Motivo dell'attacco: l’arresto di 23 uomini d'affari locali, accusati di essere estremisti islamici. Accusa considerata ingiusta dalla popolazione, che si era radunata per protesta contro il governo nelle strade di Andijan. Le vie e le piazze principali, gremite di uomini, donne e bambini, vennero circondate dall'esercito, con mezzi, anche blindati, cordoni di soldati e trincee di sacchi di sabbia. Una trappola dalla quale in pochi riuscirono a scappare quando il fuoco venne aperto senza alcun preavviso su una folla perlopiù inerme. Il governo ha sempre negato ogni responsabilità in merito all'accaduto, ammettendo la morte di 187 persone, la maggior parte delle quali "banditi" e "terroristi". I supposti 60 civili uccisi, sarebbero caduti invece sotto il fuoco degli insorti. Il tutto era stato frettolosamente liquidato con un processo farsa nel novembre 2005.

Dopo il massacro, la persecuzione. In verità, non si sa quante persone siano realmente morte quel giorno ad Andijan, e probabilmente non si saprà mai. Si parla di alcune centinaia, o migliaia. Seppelliti in fosse comuni, in luoghi segreti, secondo alcuni testimoni. Tante le bocche da cucire, le verità da soffocare, i colpevoli da inventare: nei giorni successivi alla carneficina la dittatura di Karimov ha iniziato i rastrellamenti di massa tra gli ipotetici responsabili della protesta. Centinaia di persone sono fuggite nelle repubbliche limitrofe, molte in Kyrgyzstan, per le quali Tashkent tenta di ottenere il rimpatrio forzato. La dittatura ci prova anche con le buone a far tornare a casa i rifugiati, promettendo che saranno "perdonati". Ma Hrw avverte: "Hanno tutte le ragioni di temere per la loro sicurezza". Grazie anche al deprecabile comportamento dei Paesi vicini che li ospitano: "Kyrgyzstan, Kazakhstan, Ucraina e Russia hanno disatteso gli obblighi internazionali - accusa Hrw - procedendo con il rimpatrio forzato in Uzbekistan dei richiedenti asilo". Chi è rimasto nel Paese, non se la passa meglio: ondate di arresti, minacce, torture e violenze hanno costretto i "sospetti" a firmare confessioni e versioni dei fatti fornite dalle autorità. Testimoni e giornalisti che hanno tentato di fornire versioni diverse da quella ufficiale sono stati messi sotto silenzio. L'attività di Ong locali e nazionali è stata sospesa, e almeno 12 attivisti per i diritti umani arrestati all'epoca sono ancora in carcere. Ritorsioni di vario genere sono state applicate anche alle donne di Andijan, cui sono stati negati servizi assistenziali, e persino ai bambini, sottoposti a umiliazioni e misure disciplinari dalle amministrazioni scolastiche.

Il silenzio dell’Occidente. Con le rilevanti eccezioni di Cina e Russia, la comunità internazionale aveva condannato all'unanimità il comportamento del governo uzbeco. Tuttavia, sia Unione europea che Stati Uniti hanno tenuto una condotta ambigua a riguardo. La prima, dopo essersi vista rifiutare ripetutamente da Karimov la richiesta di una commissione d'indagine, aveva imposto una serie di sanzioni e bloccato i visti per alcuni funzionari governativi giudicati responsabili; decisione, questa, revocata e confermata periodicamente, ma comunque progressivamente attenuata. A Washington la condanna era costata il ritiro delle truppe Usa dalla base di Karshi-Khanabad. Ma dal marzo scorso i soldati a stelle strisce sono tornati in quello che è il loro principale avamposto in Asia centrale, e le relazioni della repubblica ex-sovietica sia con l'Europa che con gli Usa sono riprese. Al di là delle vane esortazioni alla trasparenza e all'autocritica dirette al governo uzbeco, l'appello che Hrw rivolge oggi alla comunità internazionale è quello di mantenere sempre presenti i fatti di Andijan nelle relazioni con Tashkent.

 

13 maggio

Intrighi americani

Hugo Chavez accusa la Colombia di voler provocare una guerra regionale che giustifichi l'intervento Usa
“Il computer di Raul Reyes è come se servisse per orchestrare un'opera umoristica in teatro. Ce n'è per tutti e adesso l'Interpol prepara lo show, usata dal governo Usa che purtroppo manipola anche quello colombiano”. Hugo Chavez spara a zero sull'ultima uscita di Washington che ha chiesto a Bogotà di sottoporre il computer, presumibilmente appartenuto al numero due delle Farc ucciso il primo marzo in Ecuador dall'esercito colombiano, al vaglio dell'Interpol. Una mossa, secondo il capo di stato venezuelano che l'ha denunciata nel suo programma domenicale "Alò Presidente", che rientrerebbe nel “plan del imperio” per scatenare una guerra in America Latina e riprenderne il controllo perduto. “L'Interpol dirà che ha revisionato il pc e che non ci sono state manipolazioni di sorta. Come avrebbero potuto mettere tutte queste informazioni? Figurarsi! È una ridicolezza! Ma attenzione alle ridicolezze! Perché così come Bush ha inventato le armi distruzione di massa (in Iraq), ora un altro computer dice che noi stiamo appoggiando il terrorismo, che diamo soldi e armi alle Farc, il tutto per cercare una scusa per eliminare Chavez”, ha spiegato il presidente, mettendo in guardia l'intera nazione e le Forze Armate. La situazione nella regione latinoamericana si fa dunque sempre più tesa: mentre la Cia non perde occasione per sottolineare la pericolosità di un Venezuela accusato di tenere rapporti dubbi con Farc e Iran, a largo delle coste argentine gli Stati Uniti scaldano i motori di una flotta militare in disuso da 58 anni e che perlustrerà i mari del continente.

Hugo ChavezDa più fronti. Gli attacchi a Chavez non arrivano soltanto dagli Usa, anzi, un fuoco incrociato si sta levando contro Caracas. Se da Palazzo Narino, a Bogotà, sin dal giorno dopo l'uccisione di Reyes si andava dicendo che i documenti ritrovati in quell'accampamento inchiodavano il Venezuela a pesanti responsabilità di filo-terrorismo, con  tanto di fughe di notizie finite su importanti settimanali come Semana, (che pubblicarono parte dei contenuti scottanti in edizioni speciali), adesso a rincarare la dose ci pensa la stampa Usa. Il Wall Street Journal ha già scritto che fonti di intelligence considerano veritieri gli archivi dell'ormai famigerato pc e quindi tutte le insinuazioni contro Caracas. E non solo.
 
Questi archivi descriverebbero riunioni fra comandanti della guerriglia e autorità venezuelane ed ecuadoriane, includendo Chavez, inchiodato in più di cento documenti.
Ma gravi frecciate contro il Venezuela vengono anche dalla Spagna. Il quotidiano El Pais ha cominciato a pubblicare da sabato una serie di articoli  a quanto pare basati sui file di Reyes, che sostengono la tesi che Chavez avrebbe rifornito di armi le Farc attraverso la mediazione della Bielorussia.

alvaro uribeLe accuse di Chavez. Ma il carismatico presidente venezuelano non ci sta e passa al contrattacco. “Il governo colombiano sì che ha seri problemi, perché lì ci sono gli assassinati. Lì stanno le prove dell'invasione dell'Ecuador, delle bugie del presidente Uribe”, ha detto, aggiungendo che il computer di Reyes si chiama "Geroge W.-Uribe". Quindi si è rivolto direttamente ai suoi cittadini: “Allerto il popolo venezuelano e le Forze Armate sull'intenzione del governo della Colombia di provocarci”, di scatenare una guerra per giustificare l'intervento armato Usa, in particolare insistendo in manovre sotterranee negli stati di Zulia e Tachira, sul confine colombiano. In particolare nel ricco Zulia, governato dal leader dell'opposizione venezuelana Manuel Rosales, gli Usa starebbero finanziando intenti secessionisti.
Poi è passato al tema "Alvaro Uribe", che ormai non avrebbe più uno straccio di credibilità a causa dei legami con il paramilitarismo. “Nemmeno Bush crede alle bugie”, ha dichiarato Chavez, visto che gli Usa non hanno rinnovato il Tlc con la Colombia. Sul caso Reyes dice: “La Colombia non ha la tecnologia aerea per sostenere un bombardamento simile” a quello avvenuto sull'accampamento Farc, assicurando che questa operazione ha per forza ricecvuto l'appoggio delle forze Usa. Ma Uribe continua a nascondere la verità e che non ha rispettato l'Ecuador e il suo presidente, quindi non si merita che i paesi abbiano relazioni diplomatiche costruttive con lui. “Uribe è molto pericoloso, era amico di Pablo Escobar Gaviria, ci sono molti libri che lo provano”, ha incalzato. “Presidente Uribe, pensi bene fin dove è capace di arrivare lei. La chiamo a riflettere pubblicamente in nome dei governi sudamericani”, ha incalzato Chavez, dichiarando pubblicamente che la Colombia avrebbe inviato 200 paramilitari per ucciderlo.

Soldati UsaGrandi manovre. E mentre gli animi si scaldano, gli Usa fanno le prove generali. Dopo 58 anni, ripristinano la Quarta Flotta, disattivata dopo la Seconda guerra mondiale. Dal primo luglio di quest'anno, dunque, l'Armata Usa tornerà ad avere un comando di alto livello specificamente dedicato a supervisionare il lavoro delle sue unità in America Latina e nei Caraibi. Un portavoce militare statunitense ha assicurato però a Bbc Mundo che questo non implicherà un aumento della presenza militare statunitense nella regione. Ma per molti osservatori, siamo di fronte a una mossa molto simbolica, con la quale la Casa Bianca intende far la voce grossa con i vari governi anti-Usa nati ultimamente in Sudamerica. Si tratterebbe più di una decisione politica che militare, dunque, dovuta al fatto che a causa dell'imponente impegno in Afghanistan e Iraq, gli Stati Uniti hanno dovuto lasciar perdere il controllo da sempre avuto sul continente americano, che di conseguenza si è sganciato dalla sua influenza. E adesso corrono ai ripiari, mostrando i muscoli. “Anche se i vari paesi del Sudamerica sono impegnati in una corsa agli armamenti, nessuno potrà mai rappresentare una minaccia militare per gli Stati Uniti”, ha spiegato a Bbc Mundo Alejandro Sanchez, analista associato al Consiglio sugli affari emisferici. E a futura memoria dell'onnipotenza Usa, da ora in poi ci saranno anche le navi militari a stelle e strisce che solcheranno in lungo e in largo i mari del sud. Non bastava la miriade di basi sparse nel continente.

 

7 maggio

 

Natural born nazi

Gianfranco Bettin
 
Hanno allevato la bestia per anni, l'hanno nutrita di odio, aizzata con parole e metafore, facendo i finti tonti sul nesso tra parole e fatti, tra metafore e gesti. L'hanno allevata così, chiudendo occhi e orecchi quando mordeva gli «altri». Ora che, a morte, ha colpito «uno di noi», ora che la bestia è uscita dal recinto in cui si poteva tollerarla e magari utilizzarla - con le sue prepotenze, le sue aggressioni squadristiche, la sua presunzione d'impunità - ora che sul «suolo natio» ha sparso il «sangue nostro», nessuno la conosce più come figlia propria.
Il retaggio di questa intima conoscenza, tuttavia, si rivela, nitido, in molti commenti della destra veronese e veneta, nel tentativo di ridurre l'aggressione omicida a ragazzata finita male o a mera bravata di deficienti o a effetto di un vuoto di valori. Cazzate, o, appunto, istintiva, se non cosciente, volontà di sradicare l'accaduto dal suo autentico terreno di maturazione. Questi giovani sono tutt'altro che vuoti di valori. Ne sono invece pieni: danno valore alla forza, alla violenza celebrata e praticata, all'onore che deriva dalla sua cameratesca condivisione, ai miti pagani e/o cristiani o al ciarpame che gli spacciano per tali, all'ordine gerarchico e allo spazio vitale di cui si sentono guardiani. È una predicazione attiva quella di cui sono stati bersaglio, a Verona come sulla scena nazionale, dove questi stessi «valori» vengono correntemente spacciati e dove il linguaggio delle armi «nostrane» e dello stigma da imprimere agli «altri» è corrente, anche da scranni istituzionali. Una predicazione che li ha raggiunti fin dai primissimi anni, fino a fargli sentire come naturale e legittimo questo modo di essere, certo rielaborato a modo proprio e portato all'estremo, ma niente affatto alieno dal contesto. Alieni sono gli altri, quelli da cacciare.
«Natural born nazi», checché ne dica Fini, che non vede in loro contenuti ideologici e antisemiti e per questo sembra reputare più gravi dei fatti di Verona quelli di Torino in cui sono state bruciate le bandiere israeliana e americana. E nemmeno «deficienti», ma perfettamente integrati nella società locale: un bravo pargolo di buona famiglia, un metalmeccanico, un promotore finanziario, ad esempio, come quelli che hanno aggredito e ucciso Nicola. C'è da scommettere che, a parte che erano nazistoidi, e che andavano in curva con gli ultras veronesi, a parte che avevano accumulato una ricca esperienza di violenze e prepotenze, a parte questo, c'è da scommettere che per tutti erano dei «bravi ragazzi» e che nessuno «l'avrebbe mai detto».
C'è da stare sicuri che un sacco di gente sapeva benissimo che cosa combinavano in curva a danno di immigrati e di avversari politici, e che cosa poteva costare incrociarli nelle zone che consideravano territori propri. Lo sapevano, ma non gli creava problemi. Non era ancora morto nessuno, e per di più si trattava di vittime «aliene». Non contavano.
Dicono, da destra, che l'aggressione omicida non aveva contenuto politico: in un certo senso è vero, ma ciò la rende ancora più inquietante. Perché gratuita espressione di un puro odio cresciuto così tanto da farsi indiscriminato: vomita addosso a chiunque il veleno diffuso per anni nell'aria, e conferma l'antica terribile legge per cui chi offende e perseguita i diversi, i deboli, gli «altri», prima o poi offenderà e perseguiterà tutti.
L'unica certezza è che fino a oggi il partito democratico ha fatto il possibile per perdere: ce l'ha messa proprio tutta. Vi ricorda forse qualcosa? Anche se il ricordo che ricordate non è l'elezione del presidente degli Stati uniti, anche e se le ragioni di questo ricordo sono del tutto diverse sulle due sponde dell'Atlantico.
In un anno infatti in cui tutto sembrava congiurare per garantire che il nuovo inquilino della Casa bianca sarebbe stato democratico, la dinamica delle primarie sta dando nuovo fiato e nuove speranze al candidato repubblicano, il senatore dell'Arizona John McCain. A favore dei democratici giocavano fattori pesantissimi: la pesante crisi economica accresce lo scontento degli statunitensi nei confronti dell'amministrazione Bush; la guerra irachena continua a lasciare la sua stanca, ma micidiale scia di morti e distruzioni; l'indice di gradimento è uno dei più bassi dell'ultimo secolo per un George W. Bush considerato quasi all'unanimità il peggiore presidente della storia degli Usa; una lunga serie di scandali ha colpito deputati e senatori repubblicani, facendo svanire il sostegno dei cristiani conservatori.
Questo faceva sì che una presidenza democratica veniva data a 60 contro 40. Ma fin dall'indomani dell'Iowa, ogni volta il tanto atteso colpo da Ko da parte di Obama non è arrivato. Dopo che il senatore dell'Illinois ha stravinto in South Carolina, i grandi stati come New York, California, Massachusettes hanno risollevato le sorti della combattiva senatrice. Obama avrebbe potuto chiudere la partita in Texas e Ohio a inizio marzo, e invece questi due stati nevralgici sono andati alla Clinton. Altra chance ad aprile in Pennsylvania, ma anche lì ha vinto la Clinton.
Oggi siamo nella stessa identica situazione. Se Obama vince in Indiana e North Carolina, Hillary dovrà per forza gettare la spugna. Se invece - ed è il risultato più probabile - Obama vince in North Carolina (stato con una forte presenza nera), ma perde invece in Indiana (classe operaia bianca), allora il tormentone continuerà fino alla Convention nazionale di agosto a Denver (Colorado). L'esito in Indiana è particolarmente interessante perché questo stato è di fatto una dépendence dell'Illinois (di cui Obama è senatore) e la sua grande città industriale, Gary, sull'estremo sud del lago Michigan, è di fatto una periferia di Chicago.
Il paradosso di questo scontro tra una donna e un nero è che ha finito per rafforzare la centralità elettorale del maschio bianco nell'arena politica statunitense. All'inizio la forza di Obama era stata di aver presentato la sua candidatura come «postrazziale»: candidato nero sì, ma non candidato dei neri. E stati a stragrande maggioranza bianca come Iowa, Vermont, Idaho, Nebraska gli hanno dato ragione regalandogli folgoranti vittorie. Ma la lunghezza della competizione, la sua asprezza, e - in una certa misura - gli stessi successi di Obama negli stati a forte densità nera, hanno finito per logorare in modo forse irreparabile quest'immagine «postrazziale». Le affermazioni «estremiste» del pastore nero Jeremiah Wright sono state solo uno dei fattori che hanno contribuito al «disincanto» degli elettori bianchi. Non basta: in nome del «nuovo», del «cambiamento» e del «superamento dei vecchi steccati», Obama si era presentato come candidato capace di attirare gli elettori indipendenti e i repubblicani insoddisfatti. Ma la stessa dinamica della campagna lo ha costretto a contare sempre di più sul proprio nucleo di attivisti attestati su posizioni assai più radicali e liberal. Grazie anche ad alcune sue affermazioni, l'aura bipartisan e messianica si è dissolta fino a restituirlo a una dimensione più convenzionale. I propagandisti repubblicani lo ritraggono ormai come «il solito liberal» (sottintendendo che sarà possibile affondarlo con le solite tecniche propagandistiche già usate per Gary Hart, Michael Dukakis, John Kerry). Il logoramento di Obama è apparso anche questo sabato nel caucus di Guam, che il senatore dell'llinois prevedeva di conquistare alla grande, ma che ha vinto per pochi voti: fino a sabato ovunque si era votato col metodo del caucus (cioè a voto assembleare palese), Obama aveva sempre stracciato Hillary: è un segnale preoccupante. Così i famosi 750 superdelegati - che di fatto sono l'ago della bilancia nella Convention democratica - ci stiano ora seriamente ripensando, dopo che da febbraio a marzo si erano spostati in modo massiccio dalla Clinton a Obama. Si sono diradati, anzi sono quasi scomparsi, gli inviti alla Clinton. ancora poco fa pressanti, perché si ritirasse.
Il problema politico che si pone ai superdelegati è duplice: il primo riguarda lo zoccolo duro democratico, il secondo quegli elettori repubblicani che è necessario attrarre per poter vincere la Casa bianca. Sul primo versante, la lotta tra i due si è tanto inasprita da lasciare fratture e veleni difficilmente riassorbibili. Secondo sondaggi recenti, il 40% di chi nelle primarie ha votato per Hillary dice che a novembre non andrà a votare per Obama (in misura minore, avviene anche il viceversa). E come si sa l'astensionismo è il fattore decisivo nelle presidenziali Usa. Dall'altro lato il tema razziale - che già tanto sta pesando - influisce infinitamente meno tra gli attivisti democratici che fin quei si sono espressi, di quanto pesi sull'elettorato generale e sui repubblicani indecisi. Né una candidatura Clinton risolverebbe la questione, poiché la senatrice di Newe York, proprio nel suo ruolo di ex first lady di Bill Clinton, suscita odi scatenati tra i repubblicani ed è capace di spingere al voto quei conservatori cristiani che invece la candidatura di John MacCain inviterebbe a disertare le urne: l'uomo bianco repubblicano è un problema gravissimo anche per lei. Con un'aggravante: per sopravvivere in questa lunga guerra di logoramento, la Clinton ha dovuto sempre più giocare lei stessa (facendo finta di non farlo) sul fattore razziale, ha dovuto stimolare la «diffidenza bianca» per il candidato nero, coniugandola per con la diffidenza operaia verso un liberal che esce da Harvard (anche se lei esce da Yale). Con il risultato che la sua campagna sta diventando sempre più respingente. Insomma, il rischio vero per i democratici è che si stanno rinchiudendo all'angolo, in una posizione loose-loose: di accrescere il rischio di perdere qualunque dei due candidati essi scelgano alla fine. Eppur dovranno scegliere.

Morire di carcere in Italia

Come si perde la vita in silenzio nelle prigioni del Bel Paese

scritto da
Barbara Carcone
 Dall'inizio dell'anno più di trenta detenuti sono morti nei penitenziari italiani. Di questi, undici si sono suicidati. Sono i dati raccolti nell'ambito del monitoraggio "Morire di carcere", consultabile sul sito internet www.ristretti.it. Aggiornate al mese di aprile, queste stime si basano su informazioni raccolte dai giornali e agenzie di stampa, ma più spesso da comunicazioni di volontari e parenti dei detenuti. Informazioni faticosamente costruite, non ufficiali, né certamente complete. I decessi dei detenuti  tendono a sfuggire all'attenzione pubblica e, non di rado, vengono trascurate più o meno distrattamente dalle autorità competenti.

detenuto in cellaI detenuti nelle carceri italiane sono 50milaSandro di Niso è morto in cella all'età di 35 anni, secondo il medico legale, per "errore" mentre si drogava.  E' svenuto con la testa in un sacchetto di plastica senza riuscire a riprendersi dopo aver sniffato gas da un fornelletto per riscaldare le vivande. Una pratica usuale tra i tossicodipendenti internati. Orazio I. è morto nel reparto di isolamento del carcere di Frosinone per arresto cardiaco. Lo stesso è accaduto nel carcere di Regina Coeli a Stefano M. , deceduto nella notte tra il 22 e il 23 aprile. Entrambi erano in condizioni di invalidità psichica grave. Aldo Bianzino è stato trovato morto nella sua cella di isolamento del carcere di Perugia: un'inchiesta in corso sta verificando le responsabilità della morte, che pare essere stata causata da un pestaggio da parte dei carcerieri.

Overdose, scioperi della fame, violenze, pestaggi, malattie curate male o non curate affatto, stati di degenza mentale e fisica: così si muore nelle prigioni italiane per "cause  naturali". Oppure ci si impicca con un lenzuolo. I decessi in carcere sono per buona parte suicidi, quelli che Adriano Sofri ha descritto come la "forma di evasione più diffusa e subdola": un terzo dei 1.200 casi di decesso rilevati dal dossier "Morire di carcere" dal 2000 ad oggi.
 
L'apparato medico sanitario e le strutture assistenziali che si occupano dei detenuti lasciano molto a desiderare, così come le indagini giudiziarie che dovrebbero chiarire le circostanze di morte nelle prigioni. Spesso messi a tacere o soffocati dall'indifferenza dei media, questi decessi rivelano la presenza di realtà taciute e responsabilità mancate, di chi è colpevole direttamente o comunque non fa abbastanza per impedirle.

Dietro le sbarreIn base al Decreto Legislativo 230/99, i diritti di assistenza sanitaria e cure mediche dei detenuti avrebbero dovuto essere equiparati a quelli dei cittadini in stato di libertà, passando dalla responsabilità del ministero di Giustizia a quello della Sanità. Tuttavia in nove anni poco è cambiato e il numero dei decessi per cause di salute sono aumentati progressivamente.  "I cittadini privati della libertà sono sotto la responsabilità e la tutela dello Stato ancora di più dei cittadini in libertà", spiega il sottosegretario di Stato alla Giustizia per le carceri, Luigi Manconi. Le morti classificate per 'cause naturali', spesso per arresto cardiaco, sottintendono situazioni in cui i soggetti in questione verserebbero in condizioni psico-fisiche tali, da concludere che il carcere forse non è il luogo dove dovrebbero trovarsi:  "il numero dei soggetti che teoricamente sarebbero 'adatti' alla vita in carcere è ridottissimo: si tratta dei soggetti di comprovata pericolosità sociale. Tutti gli altri, che soffrono di squilibri psichici o patologie fisico mentali più o meno gravi, e più in generale tutti coloro che non recherebbero danno alla società, non dovrebbero essere internati in istituti di detenzione. Nei fatti il sistema penitenziario accoglie molte più persone di quante possa prendersi cura."

Manconi smentisce tuttavia la trascuratezza nelle indagini giudiziarie per chiarire le morti in circostanze controverse,  rilevando una volontà precisa delle autorità in tal senso. A tal proposito porta in esempio la vicenda di Bianzino: "in questo caso specifico, che ho seguito personalmente,  le indagini non sono state né frettolose né superficiali. Anche se l'esito non è prevedibile, e le responsabilità penali sono ancora da definire,  si evidenziano una serie di comportamenti superficiali e sbrigativi. Questi sono dati di fatto, per fare luce sui quali, gli uffici amministrativi e giudiziari competenti hanno avviato una inchiesta seria".

 

6 maggio

 

Alla corte dei privilegi

di Primo Di Nicola
Uno stipendio doppio di quello del capo dello Stato. Appartamento di servizio. Assistenti. Liquidazioni da favola. Auto con chauffeur anche dopo la fine del mandato. La vita dorata dei giudici costituzionali
 
 La carica di giudice costituzionale è molto ambita. Non a caso per scegliere quelli di nomina parlamentare i partiti si azzuffano per anni. A causa certo della delicatezza del ruolo, visto che la Consulta è chiamata a pronunciarsi sulla costituzionalità delle leggi, a decidere sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato, ad ammettere o respingere le richieste di referendum. Ma anche per la grande appetibilità dell'incarico, per il quale scendono in pista parlamentari di grido, docenti di chiara fama, illustri giuristi e principi del foro. Tutti desiderosi di scalare il colle del Quirinale dove ha sede la Consulta e di conquistare lo scranno. Che non significa solo indossare la toga suprema tra le alte magistrature della Repubblica, ma anche aggiudicarsi appannaggi e benefits principeschi. A cominciare dallo stipendio.
 
Quanto guadagnano i designati? 416 mila euro lordi nel caso del semplice giudice, addirittura 500 mila il presidente. Una cifra che fa impallidire il compenso del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, inchiodato a 218 mila euro e umilia quello del presidente del Consiglio uscente Romano Prodi che, sommando indennità parlamentare (146 mila euro), stipendio da premier (altri 55 mila) e indennità di funzione (poco più di 11 mila) è riuscito a malapena a superare i 210 mila euro l'anno. Ma alla Corte costituzionale gli alti livelli retributivi non portano benefici solo per i nove anni previsti dal mandato. Scaricano effetti miracolosi anche sulla liquidazione e il trattamento pensionistico dei magistrati. Anche nei casi di cessazione anticipata dall'incarico.
 
L'esempio più eclatante è quello di Romano Vaccarella. Professore di diritto processuale civile e difensore in vari processi di Silvio Berlusconi, proprio grazie al sostegno del Cavaliere era stato eletto dal Parlamento alla Corte nell'aprile 2002. Sarebbe dovuto restare in carica fino al 2011, ma lo scorso anno, polemizzando con il governo Prodi, si è dimesso. Con quali risultati? Ricongiungendo alla stregua di qualsiasi dipendente pubblico i suoi periodi lavorativi all'università con le annualità della Consulta, Vaccarella è riuscito ad arrivare a 46 anni di anzianità lavorativa. Circostanza che gli ha permesso di riscuotere una superliquidazione di 1 milione 200 mila euro lordi (circa 850 mila netti) che si sarebbe solo sognato se fosse rimasto semplice professore. Un vero record, ma non isolato. Trattamenti di questo livello sono una regola per i giudici. E si allineano alle altre ricche dotazioni garantite dalla Corte: un folto staff di assistenti-portaborse, appartamenti di servizio, auto gratis e autisti ad personam praticamente a vita. Ma quanto ci costano questi giudici? Com'è regolato il loro trattamento economico?
 
Di quali benefits godono esattamente? La Corte costituzionale costa ogni anno circa 50 milioni di euro. A parte la modesta entrata legata alla vendita di sue pubblicazioni (7 mila 800 euro), tra le voci attive di bilancio ci sono solo le ritenute del trattamento di quiescenza sulle retribuzioni del personale (900 mila euro) e quelle dei giudici (450 mila). Per il resto si regge completamente sul contributo dello Stato che per il 2007 è stato di circa 46 milioni di euro (47 milioni nel 2008).

Di queste risorse per i giudici si spendono circa 6 milioni per le retribuzioni e 4 per le loro pensioni (i trattamenti in corso sono 24, vedove comprese). Come organo costituzionale, al pari di Camera, Senato e presidenza della Repubblica, la Consulta organizza autonomamente attraverso l'Ufficio di presidenza (tre giudici più il segretario generale) le sue attività e dispone a proprio piacimento delle risorse economiche (il 90 per cento se ne vanno in spese fisse), senza la minima interferenza esterna. La struttura amministrativa (circa 220 persone) è divisa in vari servizi (studi, gestione del personale, ragioneria, eccetera) che supportano l'attività della Corte ed è guidata da un segretario generale, nominato dalla presidenza con incarico temporaneo tra alti magistrati o esperti. Quello attuale, Giuseppe Troccoli, magistrato della Corte dei conti, guadagna circa 230 mila euro lordi l'anno. In questo universo burocratico approdano i giudici al momento della nomina. In carica per nove anni, i fortunati vengono per un terzo designati dalle tre magistrature superiori (Cassazione, Corte dei conti, Consiglio di Stato), per un altro terzo dal Parlamento in seduta comune e per il resto scelti direttamente dal presidente della Repubblica. Si insediano cominciando a contare sulla ricca retribuzione che per legge è equiparata a quella del primo presidente della Corte di Cassazione aumentata però della metà. In totale, fanno appunto 416 mila euro. Un premio aggiuntivo va poi al presidente, al quale viene riconosciuta una indennità di rappresentanza pari a un quinto della retribuzione del giudice: sono altri 80 mila euro circa, che fanno lievitare la retribuzione a quasi 500 mila. A chi non piacerebbe riscuotere un simile appannaggio?
 
 
Antonio Baldassarre
Alla Consulta gran parte dei giudici ci riescono perché, tranne poche eccezioni, quasi tutti riescono a scalare il supremo scranno. Il presidente non viene infatti scelto dai membri della Corte in base ai meriti, ma tenendo conto dell'anzianità di carica. Per questo si continua ad assistere a un tourbillon di nomine, anche per brevissimi periodi. Qualche esempio: per soli otto mesi sono stati presidenti Annibale Marini, Piero Alberto Capotosti e Gustavo Zagrebelsky; per 4 mesi Valerio Onida; per 3 mesi Giuliano Vassali e Francesco Paolo Casavola; addirittura per appena 44 giorni Vincenzo Caianiello, presidente dal 9 settembre al 23 ottobre del 1995. Pochi giorni, ma poco importa. L'essenziale è che lo stipendio corra. Naturalmente accompagnato dagli altri appannaggi. A cominciare dallo staff. Il giudice può contare su una segreteria composta di tre persone, una delle quali assunta anche dall'esterno. Tutto qui? No, perché l'eletto ha poi diritto ai cosiddetti assistenti di studio, da lui scelti fiduciariamente. Si tratta di persone specializzate, professori universitari e magistrati (attualmente i distaccati dal Csm sono una quarantina) che fanno ricerche e allestiscono fascicoli sulle delicate questioni che la Corte è poi chiamata a dirimere. In origine questi assistenti erano quattro e per tutti e 15 i magistrati della Consulta. Ma con gli anni i loro ranghi si sono infoltiti: nel 1961 sono diventati uno per ciascun giudice; dall'84, anno in cui si è registrato un vero boom, i magistrati si sono autoassegnati ciascuno addirittura tre assistenti che, oltre a continuare a riscuotere lo stipendio dell'amministrazione di provenienza, incassano pure una discreta indennità dalla Corte: 33 mila 690 euro l'anno (oltre il cellulare gratis) se lavorano a tempo pieno, più di 25 mila se impiegati a tempo parziale. Questi assistenti dovrebbero restare alla Corte al massimo nove anni, quelli del mandato del giudice che li chiama. Ma lasciare il palazzo e i suoi privilegi non è facile, così scaduto il novennio molti fanno di tutto per restare accettando persino una ricollocazione nel cosiddetto "ossario", termine con il quale viene ormai definito l'ufficio studi.

Come mai questo andazzo? Perché prestigio a parte, l'impegno alla Consulta non è poi così massacrante. I giudici infatti lavorano a settimane alterne (senza contare che per tutto il mese di luglio e fino al 20 settembre di regola si fermano del tutto). In quella in cui sono impegnati (l'altra viene definita manco a dirlo "settimana libera") arrivano in sede il lunedì pomeriggio per la camera di consiglio, il martedì fanno udienza pubblica, dalla mattina seguente discutono le cause e scrivono sentenze. Il giovedì alle 13 finisce tutto, raramente i lavori si trascinano nel pomeriggio. Ma se accade niente paura, i giudici possono tranquillamente ritirarsi e fare la siesta nei confortevoli pied-à-terre, 2-3 stanze con bagno e angolo cottura, di cui sono dotati (anche quelli residenti a Roma) al quinto piano della Consulta o nel vicino palazzo di via della Cordonata. Un punto d'appoggio che consente di evitare strapazzi e soprattutto di risparmiare soldi per l'albergo o l'affitto di un appartamento. Come stabilito dall'ufficio di presidenza i giudici costituzionali hanno poi diritto a una carta di libera circolazione sulle ferrovie; al rimborso dei viaggi aerei e dei taxi; a una tessera Viacard e a un apparato telepass per la libera circolazione sulle autostrade. Non potevano poi certo mancare il cellulare e il computer e nemmeno il telefax, anche a casa e a spese della Corte, come l'utenza telefonica fissa dell'abitazione privata. Poi c'è il capitolo autovettura. Ai giudici è riconosciuto il rango di ministro. E come quest'ultimo hanno diritto a una macchina di servizio con ben due autisti personali, a disposizione sia a Roma che nella città di residenza. Ma mentre il ministro perde il privilegio una volta cessato dall'incarico, il giudice costituzionale conserva l'auto (solitamente di grossa cilindrata, Audi, Lancia e Alfa Romeo) e il diritto ai servizi di uno chauffeur anche quando va in pensione, sia che abiti o lavori a Roma come Leopoldo Elia (cessato dalla carica di presidente nel lontano maggio del 1985) e Antonio Baldassarre (ex presidente della Rai, titolare di un avviatissimo studio legale, recentemente indagato nell'indagine sulla cordata da lui rappresentata per l'acquisizione di Alitalia), sia che risieda fuori dalla capitale. In situazioni come questa o l'autista viene distaccato in loco (è il caso di Gustavo Zagrebelsky che vive in Piemonte) o raggiunge l'emerito in auto dalla capitale (succede con Valerio Onida a Milano).

 
 
Giudici costituzionali
Insomma, un servizio completo, con qualche ulteriore stonatura. Come nel caso di Francesco Paolo Casavola, presidente in pensione dal 1995 e da allora dotato dalla Consulta della sua brava vettura con autista. Solo che Casavola cumula: dal 1998, come presidente della Treccani, dispone anche di un'altra macchina di servizio. Interessanti anche le clausole fissate dalla Consulta per l'utilizzo delle auto. Ciascun giudice ha diritto a una dotazione di carburante: 405 litri mensili per quelli in carica, 360 per gli emeriti. Con la Corte che si fa carico di tutte le altre spese, a cominciare da quelle per il garage e per un servizio di manutenzione mensile, per la tassa di circolazione, l'assicurazione, il furto, l'incendio, il soccorso stradale e persino il rinnovo delle patenti degli autisti in servizio. Infine, il ricco capitolo delle liquidazioni e delle pensioni. Il periodo durante il quale il giudice ha ricoperto la carica, sia svolgendo il mandato pieno di nove anni che quello ridotto in conseguenza di una cessazione anticipata, è utile alla pensione. Il mandato del giudice costituzionale è assimilato infatti a un rapporto di pubblico impiego e, ai fini pensionistici, è ricongiungibile, secondo la normativa fissata per i pubblici dipendenti, con i servizi prestati presso lo Stato o con ogni altro periodo di lavoro subordinato.
 
È proprio grazie a queste ricongiunzioni e agli alti livelli retributivi concessi a giudici e presidenti che si registrano alla Corte i casi di superliquidazione (la buonuscita viene calcolata sulla base dell'ultimo stipendio moltiplicato il numero degli anni di lavoro) come quello di Vaccarella.
Un caso non isolato: Gustavo Zagrebelsky, giudice dal settembre del 1995 e presidente della Consulta dal 28 gennaio al 13 settembre 2004, per esempio, ricongiungendo gli anni della carriera universitaria come professore ordinario con i nove di Corte ha alla fine accumulato 38 anni di anzianità lavorativa. Circostanza che gli ha permesso di riscuotere una liquidazione di 907 mila euro lordi, al netto ben 635 mila. E i giudici che vengono dal libero foro e che facendo semplicemente i liberi professionisti non hanno mai lavorato per lo Stato e non hanno altri periodi di lavoro dipendente da ricongiungere, come vengono liquidati?

È il caso di Fernanda Contri, giudice dal 1996 al 2005: la sua liquidazione, calcolata solo per il periodo trascorso alla Consulta, le ha fruttato circa 222 mila euro lordi. Davvero ragguardevole considerando che si tratta solo di nove anni di lavoro. Quanto alle pensioni, anche su di esse le ricche retribuzioni fanno sentire effetti portentosi. Romano Vaccarella, ricongiungendo gli anni di università con quelli alla Consulta, può riscuotere 25.097 euro lordi mensili (pari a 14.288 euro netti); Zagrebelsky 21.332 euro lordi (12.267 euro netti), mentre Fernanda Contri si porta a casa ogni mese un assegno di 10.934 euro lordi (netti: 6.463) che per soli nove anni di mandato fanno impallidire persino le vituperate pensioni dei parlamentari che, con un periodo di anzianità identico, riuscuotono "appena" 4.351 euro mensili. Davvero una grande performance quella della Contri. E nemmeno l'unica. Con soli nove anni di anzianità lavorativa alla Corte, essendo equiparata a un pubblico dipendente, l'avvocato-giudice nemmeno avrebbe avuto diritto alla pensione. Il minimo di anni richiesto a uno statale per riscuotere l'assegno dopo le riforme degli anni Novanta è stato infatti portato a 20 anni. Come ha fatto allora a spuntare l'appannaggio? Per la Contri è stata applicata un'apposita leggina che ha portato il requisito dell'anzianità minima per la pensione richiesta ai giudici costituzionali provenienti dal libero foro solo a nove anni. Guardacaso, proprio quello che a lei serviva.

 

4 maggio

Ricchi e sconfitti

Il portafoglio dei perdenti è molto ricco. Dal numero de L'espresso in edicola questa settimana ecco uno stralcio del testo di Francesca Schianchi sulle indennità che consoleranno, a spese dei contribuenti, i parlamentari sconfitti di destra, sinistra e centro.

Pensione e liquidazione. Oltre 6 mila euro al mese più altri 131.068 una tantum: sono il vitalizio e il tfr del rifondarolo Fausto Bertinotti che, lasciato lo scranno più alto di Montecitorio, si consola con un bell’ufficio e il diritto a quattro collaboratori e in più la presidenza della Fondazione Camera dei deputati (senza stipendio). Generosi vitalizi e assegni di fine mandato (“reinserimento nella vita sociale”) sono però la consolazione anche di altri illustri esclusi. Come Ciriaco De Mita: per 43 anni di Parlamento (prima con la Dc, poi con la Margherita, infine candidato ma non eletto con l’Udc) 9.947 euro al mese di pensione e 112.344 di tfr, solo per gli ultimi 12 anni consecutivamente in carica. Stessa pensione per Angelo Sanza (anche lui ex Dc, Fi, non rieletto con l’Udc), 36 anni tra i banchi e buonuscita di 337.032 euro. Ottomila 828 euro al mese per Francesco D’Onofrio (22 anni, prima con la Dc poi con l’Udc) e fine mandato di 168.516 euro, solo per gli ultimi 18 anni. Per Gavino Angius (ex Ds, non rieletto con i socialisti), 21 anni, vitalizio di 8.641 e liquidazione di 196.602. Sedici anni di carriera per Alfonso Pecoraro Scanio (Verdi) e Teodoro Buontempo (La Destra): 6.963 euro di pensione e 149.792 di liquidazione. Stesso assegno mensile per Cesare Salvi (Sinistra democratica) e 153.664 euro di tfr. Con 14 anni Oliviero Diliberto (Pdci) ed Enrico Boselli (partito Socialista) hanno diritto a 6.217 euro al mese e 131.068 di fine mandato, come Bertinotti.

Per Franco Giordano (Prc) e Paolo Cento (Verdi) 12 anni di Montecitorio significano 5.471 euro di vitalizio e 112.344 di buonuscita. Otto anni per Francesco Storace (La Destra): 3.978 euro e 19.208 di fine mandato, per gli ultimi due anni. Infine, Daniela Santanché (candidata premier per La Destra) che, con sette anni, accumula 3.605 euro di pensione e 65.534 di tfr.

La Zona d'ombra

I piani degli Usa per sviluppare una città di lusso nel cuore di Baghdad

Ora ci sono colpi di mortaio, edifici murati per protezione, un sistema fognario inesistente e generatori di corrente ronzanti tutto il giorno. E rimane un'oasi tranquilla, nell'inferno che è Baghdad dal 2003. Ma tra cinque anni, la Zona Verde della capitale irachena potrebbe ospitare hotel a cinque stelle, complessi residenziali, un centro commerciale, uno stadio e persino un campo da golf. Almeno, così è in un piano di sviluppo che ha l'approvazione del Pentagono, anche se in molti dubitano che vedrà mai veramente la luce.

Scopo del progetto, che dovrebbe costare cinque miliardi di dollari, è quello di creare una “zona di influenza” attorno alla mega-ambasciata che gli Stati Uniti stanno costruendo all'interno della Zona Verde, la loro più grande sede diplomatica al mondo. “Quando hai un miliardo di dollari (il costo di costruzione del complesso, ndr) in sospeso e mille manovali impiegati, vuoi sapere chi sono i tuoi vicini, e avere voce in quello che capita nel tuo vicinato nel corso degli anni”, ha detto il capitano della Marina Thomas Karnowski, a capo del gruppo che ha la supervisione del piano. Secondo Karnowski, c'è già un accordo firmato con la catena Marriott per la costruzione di un loro hotel. Altre società sono interessate alla costruzione di complessi residenziali e di un parco di divertimenti: la prima parte di quest'ultimo, una pista per lo skateboard, dovrebbe aprire entro questa estate.

Le condizioni della sicurezza all'interno della Green Zone, un conglomerato di 13 chilometri quadrati protetto da mura alte quasi cinque metri e posti di blocco ai pochi varchi, al momento però non consentono grandi sogni di gloria. La roccaforte Usa al centro di Baghdad, dove hanno sede anche le maggiori istituzioni irachene, è oggetto di attacchi quasi quotidiani. Che sono ancora più frequenti dallo scorso marzo, dopo il giro di vite contro la guerriglia sciita a opera dell'esercito iracheno e statunitense. Nonostante il perenne clima da assedio, le quotazioni immobiliari nella Zona Verde stanno però salendo velocemente. Qualche anno fa il prezzo di un metro quadro si aggirava sui 60 dollari, mentre ora per la stessa superficie ci si sente chiedere anche 1.000 dollari.

Un'ulteriore complicazione per la realizzazione del piano è il fatto che nella Zona Verde, dai tempi di Saddam, vige il principio del “chi prima arriva prima alloggia”. Il concetto di proprietà è fumoso, in una specie di Far West mediorientale. In più, c'è anche l'ostilità verso il progetto da parte di molti funzionari iracheni, anche se il governo di Baghdad non ha escluso piani di sviluppo della zona a priori. Forse perché due colpi al “Tigris Woods Golf and Country Club”, come dovrebbe essere chiamato il complesso golfistico in riva al Tigri in un gioco di parole col campionissimo Tiger, li tirerebbero volentieri.

 

Secondo la Confcommercio si conferma "il permanere di una crisi profonda e strutturale della domanda interna"

Consumi in calo a marzo: -1,7%. "Dal 2005 dati mai così negativi"

ROMA - Crollo dei consumi a marzo con una flessione dell'1,7%. Stando alla Confcommercio si tratta del dato peggiore degli ultimi tre anni e conferma il "permanere di una crisi profonda e strutturale della domanda interna". Nel primo trimestre dell'anno, il calo è stato invece dello 0,7% (+0,3% nello stesso periodo del 2007).

Il rallentamento della domanda fa sentire le sue conseguenze sulle dinamiche produttive interne. Ad aprile, secondo le prime stime di Confindustria, la produzione industriale è tornata a registrare una riduzione in termini congiunturali (-1,0%). Il dato di marzo continua a riflettere un'evoluzione negativa della domanda di beni (-3,4% in quantità rispetto all'analogo mese del 2007) a cui si contrappone una crescita per i servizi (+2,3%).

"Il dato di marzo riflette la consistente tendenza al ridimensionamento della domanda per beni e servizi per la mobilità - continua la Confcommercio - Gli unici settori della domanda che sembrano non risentire della crisi sono i beni e servizi per le comunicazioni e, in misura più contenuta, i beni e servizi per la cura della persona".

In flessione accentuata, la domanda di beni e servizi ricreativi che continua a registrare un segno meno e che a marzo si assesta al -3,8%. A questa tendenza sembrano fare eccezione solo la domanda per spettacoli e per l'acquisto di cd e audiovisivi. Sempre a marzo, i servizi di ristorazione e di alloggio mostrano una contenuta ripresa sul versante dei consumi delle famiglie (1,3% in termini tendenziali), evoluzione che riflette in larga parte gli effetti della Pasqua.

Per quanto riguarda la domanda per i servizi di ristorazione e di alloggio si registra una contenuta ripresa dei consumi delle famiglie (1,3% in termini tendenziali). "Particolarmente consistente" è risultata a marzo la riduzione registrata dalla domanda per beni e servizi per la mobilità (-14,8% rispetto all'analogo mese del 2007), conseguenza di una elevata contrazione degli acquisti per autoveicoli e motocicli a cui si è associata una flessione dei consumi di carburanti".

In controtendenza rispetto agli scorsi mesi, gli articoli di abbigliamento e calzature: la domanda ha registrato, rispetto all'analogo mese dello scorso anno, una contenuta crescita (0,3%).

Su base congiunturale, e cioè rispetto a febbraio, a marzo i consumi hanno mostrato una riduzione dello 0,8%: i beni e servizi per la mobilità hanno fatto registrare un calo del 7%, gli alimentari invece hanno confermato il momento di stagnazione con il +0,3%.

 

Fame di profitto

La speculazione finanziaria dietro il boom dei prezzi agricoli

Il boom dei prezzi dei generi alimentari rischia di far morire di fame mezzo mondo e crea forti disagi all’altra metà. L’Onu ha parlato di una catastrofe paragonabile allo tsunami. Che però è un fenomeno naturale e in quanto tale inevitabile. Mentre quello che sta accendo, nonostante quello che ci vogliono far credere, non lo è affatto.

Le cause note. Ci hanno detto che la principale causa di questo drammatico fenomeno sono le inesorabili leggi del mercato: troppa domanda rispetto all’offerta. Ma come! Se fino a l’altro ieri tutti gli esperti mondiali continuavano a dire che oggigiorno si produce abbastanza cibo per sfamare l'intera popolazione del pianeta! Possibile che questa situazione sia mutata nel giro di pochi mesi a causa dell’incremento del fabbisogno alimentare dei cinesi e degli indiani? O dei raccolti andati distrutti da siccità e inondazioni causate dai cambiamenti climatici? Evidentemente no. Ci hanno quindi spiegato che le cause principali vanno ricercate nel crollo della produzione agroalimentare causata dal recente boom delle coltivazioni agricole destinate alla produzione di biocombustibili. Inoltre, sostengono gli esperti, l’aumento dei prezzi dei prodotti agricoli è strettamente collegato al caropetrolio, visto che i fertilizzanti e pesticidi usati in agricoltura derivano da prodotti petrolchimici.

Le cause nascoste. Quello che non viene detto, ma che sta iniziando a emergere da alcune dichiarazioni poco evidenziate dai mass media, è che i prezzi sono aumentati così tanto e così rapidamente a causa della cinica speculazione finanziaria privata.
“Abbiamo cibo sufficiente per sfamare tutti gli abitanti di questo pianeta”, ha ribadito Achim Steiner, direttore del Programma Ambientale dell’Onu. “Ma l’accesso al cibo è distorto dai mercati”. Parole sibilline, parzialmente chiarite dal suo collega Jean Ziegler, Relatore speciale sul diritto all'alimentazione per la Commissione sui diritti dell'uomo delle Nazioni Unite: “La situazione è degenerata a causa dalle compagnie che fanno investimenti di private equity nel mercato alimentare approfittando del prevedibile andamento dei prezzi”.
Più esplicita la spiegazione di Anthony Costello, direttore dell’Institute for Global Health di Londra: “La ragione principale dell’aumento dei prezzi agricoli è la speculazione che sta investendo tutti i beni essenziali: petrolio, oro e metalli. Le risorse alimentari andrebbero messe al riparo dalle speculazioni degli hedge funds che traggono profitto dall’innalzamento dei prezzi a spese della vita di migliaia di esseri umani”.

“Attacco speculativo”. José Graziano de Silva, rappresentante della Fao per l’America Latina, durante una conferenza tenutasi a Brasilia a metà aprile ha parlato senza mezzi termini di un’ “attacco speculativo” come causa principale dell’inflazione agricola. Un attacco che, secondo de Silva, è iniziato nel 2007, dopo cinque anni di lento ma costante aumento dei prezzi in questo settore dovuto ai fattori citati all’inizio. Certi che il trend sarebbe continuato, gli speculatori hanno iniziato a investire con al sicurezza di ricavare profitti dalle future vendite.
Dello stesso parere sono altri esperti del settore.
Secondo Ricardo Cota, dirigente della Confederazione agricola brasiliana (Cna), “i prezzi dei prodotti agricoli non sono più determinati dalla legge della domanda e dell’offerta: tutto è distorto dalla massiccia entrata dei fondi d’investimento nel mercato agroalimentare mondiale”.
Un altro brasiliano, Fernando Muraro, analista della AgRural, afferma che “la colpa è della finanziarizzazione dei mercati agricoli” provocata da “forze speculative alla ricerca di profitti facili e garantiti”.

La mano visibile. A tutto questo si aggiunge un altro fattore poco pubblicizzato e strettamente collegato alle speculazioni finanziarie: il controllo del mercato agroalimentre mondiale da parte di poche potentissime multinazionali. Cargill, Continental, Louis Dreyfus, Bunge&Born e Toepfer controllano il 90 percento del mercato cerealicolo globale. E’ a loro vantaggio che Usa, Ue, Wto e Fmi hanno imposto ai paesi produttori scellerate politiche agricole basate sulla produzione per l’esportazione invece che per il consumo interno. La mano invisibile, a volte, si vede benissimo.

Enrico Piovesana

La caduta dell'impero romano

di Edmondo Berselli

Non solo l'addio al Campidoglio. Il voto di Roma segna la sconfitta della strategia di Veltroni. E il Pd ora rischia la disintegrazione della sua classe dirigente

Il borgataro si stacca dalla festa in Campidoglio per Gianni Alemanno, stappa una birra e ti punta il dito nel costato: "Ahò, lo volevate er nuovo conio, mò beccatevelo". Per il Partito democratico, per Francesco Rutelli, per Walter Veltroni la serata romana di lunedì è il segno di una disfatta spaventosamente incomprensibile. È come se la capitale avesse deciso di sferrare un uppercut micidiale all'idea democratica, al progetto stesso del Pd: già, perché lo sconfitto è Rutelli, ma la batosta romana si ripercuoterà sul partito, sui suoi equilibri, forse sulla sua stessa esistenza.

Per il momento c'è lo choc tremendo di uno schianto politico inatteso anche nelle dimensioni, il rovesciamento clamoroso del risultato del primo turno, ma soprattutto un urto che fra molti saluti romani, clacson di tassisti entusiasti, cori di ultras, spazza via 15 anni di egemonia del centrosinistra, cominciati nella dura campagna elettorale del 1993, quella che aveva sdoganato Gianfranco Fini, e fa a pezzi il 'modello Roma', l'invenzione di Goffredo Bettini portata all'eccellenza mondana e planetaria da Veltroni, liquidando la Roma piaciona che aveva egemonizzato il gusto e anche il conformismo in società.

Il caos non è proprio calmo. La tranvata, sostiene immediatamente l'ala hard del Pd, i dalemiani che non hanno mai creduto ai lustrini, dimostra quanto fosse fragile la struttura del consenso raccolta dal sindaco uscente, quanto volatile la popolarità, quanto effimero il radicamento sociale, e alla fine quanto leggero e alla lunga irrilevante il clima capitolino fatto di attori, scrittori, registi, notti bianche, festival, intrattenimento, morettismi. Altrimenti non si spiegherebbe come mai in due anni sono evaporati oltre 20 punti di vantaggio, contraddicendo anche la tendenza generale del Pd, che alle politiche si è mostrato più competitivo nelle città e negli aggregati metropolitani.

Eppure, per restare al caso romano, la politica "lieve" e colorata di Veltroni era forse l'unico strumento capace di tenere insieme l'establishment e le periferie; non appena si è assistito al ritorno in campo di un candidato come Rutelli, interpretato come un uomo dell'establishment, anzi della 'casta' politica, è scattato il cortocircuito. Con distorsioni che devono essere ancora interpretate, e possono portare a vendette e regolamenti di conti, ma che per il momento rappresentano concretamente un attrito ineluttabile della scelta di Veltroni di rompere con la Sinistra Arcobaleno alle politiche: accanto al fallimento di Rutelli, il successo conquistato alla Provincia di Roma dal candidato Zingaretti, con un numero di voti nelle sezioni elettorali della capitale che fanno subito sospettare un paradossale esercizio del voto 'disgiunto', Zingaretti alla Provincia e Alemanno al Comune ("Ipotesi che fa ribrezzo", scrive 'l'Unità', ma tant'è).

Una modalità quasi dadaista per praticare la vendetta della sinistra radicale contro la leadership del Pd, responsabile della scelta di 'correre da soli' (nei centri sociali l'idea di punire Veltroni votando Alemanno era stata sostenuta ripetutamente). Un colossale 'tié', magari con il gesto dell'ombrello, rivolto a 'Franciasco', l'uomo dei vescovi, l'amico della Binetti, il cattolico delle alleanze "di nuovo conio". E che esalta la capacità di Alemanno di unire le 'due Rome', da un lato la città centrale della borghesia, i Parioli, i circoli tiberini, il generone scettico che si era prestato all'unanimismo veltroniano, e dall'altro le borgate e gli outsider. La destra 'sociale' del genero di Pino Rauti promette infatti misure di sicurezza alla borghesia spaventata dai comportamenti irregolari dei clandestini, e offre rappresentanza all'universo marginale nelle periferie (laboratorio sociale e politico tutto da analizzare, che sembra essere stato messo a fuoco soltanto dalla percezione letteraria di Walter Siti, autore di un recente e impressionante libro postpasoliniano, 'Il contagio', che esplora l'antropologia degradata e mutante della Roma periferica). Mentre anche dalle borgate salgono slogan che scandiscono "via gli albanesi, via i romeni", Alemanno seleziona utilmente aspettative differenziate anche nella Roma del degrado, prospettando criteri che etichettano i clandestini come il nemico interno da colpire con spettacolari misure di polizia.

Ora, è vero che il trionfo capitolino ha un impatto anche sul Pdl e nel rapporto con la Lega, con un politico meridionale che fa il salto di qualità, comincia a oscurare Gianfranco Fini in procinto di sedersi sullo strapuntino della Camera, e in qualche misura riequilibra il successo di Umberto Bossi al Nord. Ma è fuor di dubbio che il crollo a Roma rappresenta un macigno sulla strada del Pd, e in particolare del Pd veltroniano. Finora, dopo il risultato del 13-14 aprile, si poteva sostenere che il 33,1 per cento, pur nella sconfitta, rappresentava la costituzione del 'motore riformista', un partito in grado di diventare competitivo nel medio periodo, e che risultava capace di mobilitare le città, i ceti culturalmente più elevati, il lavoro dipendente qualificato, la società italiana più moderna e creativa.

Prima del 'voto di pancia' e della voglia di discontinuità, prima del sacco di Roma da parte delle 'truppe alemanne', Veltroni poteva accampare una serie di giustificazioni credibili. A gravare sul Pd c'era l'impopolarità di Prodi, nel Nord industriale lo sfondamento della Lega nelle fasce operaie, al Sud l'effetto desolante dell'emergenza rifiuti. C'era da mettere a fuoco il progetto berlusconiano di 'modernizzazione reazionaria', o anche semplicemente conservatrice, fondato sulla sintesi del secessionismo leghista con il protezionismo tremontiano e il clientelismo dell'Mpa di Raffaele Lombardo. A cui adesso si aggiunge il successo 'missino' di Alemanno, prefigurando una destra complessivamente nazionalcorporativa, aggregatrice di interessi parziali.

Non conviene naturalmente ai 'democrat' cercare pallide rivincite di tipo culturale, stigmatizzando un modello politico a sfondo peronista. Ma intanto, prima di procedere alle ritorsioni interne inevitabili nelle sconfitte, ci sono da mettere a fuoco alcuni aspetti problematici, che la leadership del Pd dovrà affrontare. In primo luogo, l'esaurirsi empirico della pregiudiziale antifascista e resistenziale, cioè l'esito fisiologico di un processo socioculturale per molti versi inevitabile (ma che toglie valore alle richieste di "lealtà costituzionale" che Veltroni aveva inviato a Berlusconi negli ultimi giorni della campagna elettorale del 13 aprile, ricevendone in cambio un'alzata di spalle). In futuro sarà difficile esibire una sorta di superiorità etico-repubblicana come risorsa politica spendibile, così come sarà inutile puntare sui simboli se in gioco ci sono gli interessi. Insomma se ne va fuori dalla simbologia politica il ditino alzato dell'ideologismo targato Fgci, se è vero che il 'capobranco missino' Alemanno sbanca il Campidoglio con una campagna sinceramente populista, in una fragranza tutt'intorno di umori autenticamente fascisti.

In secondo luogo, se il Pd riuscirà a sopravvivere al contraccolpo della sconfitta alle politiche e alla caduta di Roma, dovrà uscire dalla sindrome di un partito che per una settimana, aspettando l'apertura del Parlamento, ha discusso esclusivamente della questione epocale di chi dovevano essere i capigruppo alle Camere. Andrebbe tenuta a mente come uno scongiuro la battuta di Giancarlo Pajetta dopo i funerali del 'Migliore': "Con la morte di Togliatti nel Pci si chiude una fase e non se ne apre nessun'altra".

Per evitare una dinamica dissolutiva, il Pd deve provare a ripartire. Deve avere la consapevolezza che la propria classe dirigente è particolarmente logora e che niente come le sconfitte richiama le sconfitte. Occorre quindi mettere in rete gli amministratori locali più capaci, dal sindaco di Torino Sergio Chiamparino al sindaco di Salerno Vincenzo De Luca, e individuare una strategia di azione sul territorio. È la fase in cui le posizioni di rendita stanno smottando, e in momenti come questo devono uscire allo scoperto le energie meno consumate. Innanzitutto la coppia composta da Pier Luigi Bersani ed Enrico Letta, per ricominciare dal territorio. E poi, occorre inquadrare le prossime sfide: ci sono alle viste le elezioni europee del 2009 (un incubo, dato che con la proporzionale non c'è voto utile che tenga) e il referendum elettorale. Ci vuole una strategia. Altrimenti, le spinte alla disintegrazione non le fermerà nessuno, e il tutti a casa sarà inevitabile.

 

 

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