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24 giugno
VENEZIA Tra gli ambulanti
senegalesi «cacciati»
«Perché
colpiscono noi e non chi ci sfrutta?»
Orsola Casagrande
«Comunque sai qual è il problema maggiore
per noi? Che non stiamo lavorando e questo è un casino. Vuol dire niente
soldi per l'affitto, niente soldi per le bollette, niente soldi per
mangiare». «E non solo questo. Quelli da cui prendiamo le robe da
vendere non sono contenti perché per loro non siamo più utili, non
facciamo guadagni». «Semplice dire che questo è un lavoro facile, un
modo per non lavorare. La gente non si rende conto di quello che stiamo
passando». Le voci si accavallano. Il dubbio che forse ci sarebbe stata
poca voglia di parlare tra i cittadini senegalesi sfrattati dalle calli
e dai campi di Venezia viene subito dissipato. Pap, Lamin, Burama e gli
altri hanno tante cose da dire. L'appuntamento è in un bar di Mestre,
non lontano da uno dei negozi da dove al mattino presto si vedono uscire
i ragazzi senegalesi con i loro borsoni blu carichi di mercanzia. Al bar
sono una decina. Di tutte le età. C'è Lamin che ha 18 anni e c'è Pap che
ne ha 32, c'è Mamadou che ne ha 48 e Burama che ne ha 26. Vengono da
varie zone del Senegal. Dakar, la Casamance.
Sono tutti in Italia da diverso tempo. Alcuni hanno, e lo esibiscono subito, il permesso di soggiorno. Altri no. «E' sempre più difficile avere il permesso di soggiorno - dice Burama - e anche se lavori rischi di perderlo». Qualcuno ha un passato di carcere, un altro di droga. «E' difficile vivere in questo paese - dice Zigou - è difficile sopravvivere, riuscire a rimanere fuori dalla depressione». Depressione è una parola che ricorre spesso in un questo incontro. «Sono in Italia dal 1990 - dice Mamadou - ho vissuto a Torino tanti anni, poi in Toscana e da qualche tempo sono qui a Venezia». In Senegal Mamadou faceva teatro. «Anche qui in Italia sono venuto per il teatro - dice e si mette a recitare in perfetto dialetto veneziano un pezzo delle "baruffe chiozzotte" di Goldoni - Il sogno comunque si è infranto presto. Non riuscivo a trovare lavoro, non sapevo da che parte girarmi. Vivevo con altri ragazzi senegalesi. Alla fine ho accettato di vendere roba. Ma ben presto ho cominciato a farmi - ammette imbarazzato - e ti assicuro che è stata dura uscire». Oggi Mamadou lavora per le calli veneziane, vendendo finte borse Prada. «E' umiliante anche per noi - dice - fare questa vita. E comunque se la prendono con noi che siamo l'ultimo anello della catena». Già, perché loro sono quelli che vendono la merce «che arriva da Napol - puntualizza Lamin - ma anche dalle campagne padane». I «magazzini» riforniscono i negozi che a loro volta consegnano la merce da vendere per strada ai cittadini migranti. «I vigili - dice Burama - ci stanno addosso. Ci insultano, ci minacciano. E noi scappiamo». «Sì certo - interviene Pap - le calli a Venezia sono strette, ma per favore non diciamo che siamo pericolosi. Il pericolo sono questi inseguimenti da Far West». Sono in tanti, lo confermano i ragazzi al bar, i senegalesi che hanno subito oltre alle minacce anche qualche violenza fisica. A Jesolo l'anno scorso sono finiti ai domiciliari due vigili urbani che, assieme ad altri due colleghi, avevano picchiato duramente due venditori ambulanti marocchini. «Storie come questa - dice Pap - le viviamo quotidianamente. Non sono tutti così i vigili - aggiunge - ma certi sono davvero razzisti, ci insultano e se riescono alzano anche le mani». I più esposti, concordano tutti, sono i ragazzi senza permesso di soggiorno. «E' difficile per loro - dice Mamadou - lavorare. Intanto non ti prendono neanche nei cantieri. E lo sai perché? Hai mai visto neri lavorare nei cantieri? Neri non ce ne sono ma lavoratori in nero sì, tanti. Ma i neri non li vogliono». Nelle fabbriche la situazione è diversa. «In fabbrica ti prendono - conferma Lamin - ma è più difficile entrare se non hai un permesso di soggiorno. Comunque io ho lavorato in una fabbrica vicino a Conegliano», dice mostrando la mano destra a cui mancano due dita. «Un ricordo dei sei mesi in fabbrica». I ragazzi del bar abitano tutti a Mestre o nei paesetti vicini. «Affittiamo casa da italiani - dice Pap - viviamo in sei e paghiamo settecento euro al mese». Ufficialmente ad affittare sono in due, «solitamente i due con permesso di soggiorno - dice Burama - e comunque non è facile trovare chi affitta ai neri». Quanto al lavoro come ambulanti, per tutti è «l'unica cosa da fare, se vuoi sopravvivere. E non credere - dice Mamadou - che si guadagna. A noi danno una piccola percentuale sul venduto, il grosso se lo prendono i capi, quelli che ci danno la merce. Mi chiedo perché non vanno mai a beccare i capi. Se la prendono con noi ma nessuno va a toccare gli interessi di quelli che questa merce la mettono in giro».
19 giugno
L'umanità
negata
Valentino Parlato
Quaranta cadaveri e un centinaio di dispersi, che non troveremo mai,
nel mare di Sicilia. Persone, esseri umani, che fuggono dai loro
paesi, raggiungono la costa meridionale del Mediterraneo. È una
storia di sterminio di massa che si ripete e continuerà. Di chi è la
responsabilità di questa strage continua? Nostra, della nostra
globalizzazione aperta a tutti i movimenti di capitali, ma chiusa -
fino all'omicidio di massa - alle persone, a quelli che non riescono
a vivere nei loro paesi e a rischio di morte tentano di sbarcare nel
nostro mondo ricco e benestante. Magari solo per mendicare, ma in un
paese ricco la mendicità può dare da vivere.
È una tragedia, ma essendo una tragedia di poveracci non diventa mai un nostro problema. Al massimo si cerca di eludere il problema con più vigilanza, con sbarramenti di motovedette e guardie. Questi disperati migranti non c'erano un tempo o il fenomeno era meno rilevante. Oggi queste popolazioni sono più povere, alla disperazione, perché nei loro paesi la popolazione è cresciuta e perché le loro produzioni sono state distrutte dalla nostra crescita di produttività. Perché la nostra globalizzazione è stata quella dei paesi benestanti, quasi il club dei signori. E - va detto - nei nostri paesi benestanti la globalizzazione finanziaria e mercantile ha accresciuto il distacco tra poveri e ricchi. E i nostri poveri, quelli che lavorano a salario a tempo determinato, o in nero, temono l'arrivo di altri poveri, ancora più poveri e più disposti a lasciarsi sfruttare per un tozzo di pane. Gli imperi coloniali non ci sono più, ma viene da dire che siamo andati al peggio. Non ci sono più le colonie, ma c'è la colonizzazione volontaria di tutti quelli che nei loro paesi non riescono più a vivere e tentano di farsi individualmente colonizzare nei nostri paesi ricchi. Questi movimenti migratori sono diventati una costante tragica dei nostri tempi e quel che sorprende è che non ci sia nessuna iniziativa non dico democratica, ma almeno umanitaria. Pensiamo solo a rafforzare le frontiere e basta. Tacciono i governi, tacciono anche i partiti di opposizione e qui da noi tace anche la Chiesa cattolica, quelli che tentano di arrivare mica sono cristiani! Questa tragedia degli emigranti - donne, bambini e uomini condannati ad affogare nel nostro bel Mediterraneo - non sembra toccare la sensibilità delle nostre società, dei nostri politici, dei nostri intellettuali. Un'insensibilità che segna il nostro grado di imbarbarimento. Guantanamo Spaghetti Un report accusa l'Italia di aver partecipato agli interrogatori nella prigione degli orrori
''Deposizioni non secretate, rilasciate da detenuti a Guantanamo
residenti in Italia, indicano che gruppi di agenti italiani si
sono recati a Guantanamo per interrogare prigionieri in almeno
tre occasioni diverse. Queste visite hanno avuto luogo nei primi
tre mesi dell'attività della prigione, cioè quando la tortura e
i trattamenti crudeli, inumani e degradanti erano all'ordine del
giorno''.
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Le responsabilità italiane nell'odissea di queste persone è
diretta. Reprieve, infatti, dimostra come tutti loro
sono stati catturati in Pakistan o in Afghanistan su
informazioni, rivelatesi infondate, delle forze di polizia o
d'intelligence italiane. Tutti e sette, adesso, sono stati
scagionati da qualsiasi accusa e sono in sostanza liberi di
tornare a casa. Ma qui sta il punto: la Tunisia, per unanime
parere delle priincipali organizzazioni internazionali, è un
Paese nel quale viene praticata sistematicamente la tortura. Non
possono essere rispediti in patria dunque, dove nel frattempo (e
sempre partendo dalla responsabilità oggettiva degli italiani)
in contumacia sono stati condannati a pene dai dieci ai quaranta
anni. Per non aver fatto nulla. Queste sette persone, dunque, si
ritrovano in un limbo giuridico. Riconosciuti innocenti, non
possono essere rimpatriati in Tunisia. L'unica soluzione sarebbe
che l'Italia si facesse carico delle sue responsabilità e
permettesse loro di tornare in Italia. Nonostante sia
l'esecutivo Berlusconi che quello Prodi, come ricorda il report
di Reprieve, si siano dichiarati contrari a Guantanamo,
nessuno ha mosso un dito per queste persone, alcune delle quali
erano in possesso di un regolare permesso di soggiorno in
Italia, dove hanno ancora la famiglia, quando vennero arrestati.
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Il report di Reprieve, nelle conclusioni, chiede
all'Italia di mettere a disposizione degli avvocati difensori
dei detenuti tutte le informazioni in suo possesso per preparare
un'adeguata difesa dei loro assistiti, di proteggere queste
persone che risiedevano in Italia, evitandogli il ritorno in
Tunisia dove verrebbero torturati, e di favorire il
ricongiungimento con le loro famiglie residenti in Italia.
Il documento non aggiunge che, dopo tutto, è il minimo che
l'Italia possa fare per questi sette innocenti.
La
terra promessa
Militari a go go
Il governo aumenta di 500 unità
il contingente di soldati da utilizzare in funzione di ordine
pubblico. È quanto prevede un emendamento al decreto sulla
sicurezza. Intanto l'eurocommissario alla Giustizia Jacques Barrot
critica l'aggravante di clandestinità
Carlo Lania
ROMA
L'aggravante di clandestinità, prevista
dal governo italiano nel decreto sicurezza, non piace al parlamento
europeo, tanto da provocare le critiche del commissario alla
Giustizia Jacques Barrot. Intanto un emendamento allo stesso
decreto, presentato ieri da palazzo Chigi, aumenta da 2.500 a 3.000
il numero dei soldati che verranno impegnati in operazioni di ordine
pubblico. Le 500 unità in più, perlopiù carabinieri attualmente in
servizio presso il ministero della Difesa, si spiegano con un
aumento dei compiti ai quali dovranno far fronte: oltre a
pattugliare le strade, i militari verranno infatti utilizzati anche
per la vigilanza di siti considerati a rischio di attentati. E ieri
lo stesso ministro della Difesa Ignazio La Russa si è recato al
Quirinale per illustrare l'emendamento al presidente della
Repubblica Giorgio Napolitano, che avrebbe chiesto al governo di
garantire sul testo la più ampia discussione parlamentare.
Strasburgo. L'aggravante di clandestinità - dice Barrot rispondendo a una domanda dell'europarlamentare del Prc Giusto Catania - «è contraria al diritto europeo». «Non è possibile - prosegue - aggravare una pena in presenza delle condizioni di immigrazione illegale: è contrario al diritto europeo». Un giudizio netto, che Barrot esprime parlando all'Europarlamento e sul quale torna anche più tardi, ragionando sulle differenze di applicazione tra cittadini europei e non. «L'applicazione di tale principio di aggravante per delitti commessi d cittadini dell'Unione - spiega - sarebbe infatti contraria al principio di non discriminazione e di proporzionalità. Per quanto riguarda i cittadini non europei, - prosegue Barrot - l'introduzione di un'aggravante di pena legata alla clandestinità dovrebbe essere oggetto di un esame approfondito alla luce dei diritti fondamentali». Niente però, prosegue il commissario alla Giustizia, impedisce «che alla pena inflitta a causa di un reato venga aggiunta un'altra pena distinta, inflitta a causa della presenza illegale sul territorio di uno stato straniero». Barrot sa che in alcuni paesi dell'Ue la clandestinità è già considerata un reato e per questo sta bene attento a sottolineare come ad essere messa in dubbio è la possibilità - prevista nel decreto legge del governo Berlusconi - di aumentare la pena fino a un terzo se a commettere un reato è un clandestino. I soldati. Sulla possibilità di utilizzare i soldato per compiti d ordine pubblico, il governo ha deciso di proseguire sulla strada del decreto legge. L'impiego dei militari è infatti inserito in un emendamento al decreto sulla sicurezza in discussione al Senato e che tra l'altro aumenta da 2.500 a 3.000 il numero dei soldati che Viminale e ministero della Difesa potranno utilizzare ogni volta individueranno «un'emergenza sicurezza». L'esperimento, come lo ha chiamato La Russa, durerà sei mesi e sarà rinnovabile solo una volta. Una novità di cui La Russa ieri ha parlato con il presidente della Repubblica, che nei giorni scorsi avrebbe espresso più di una perplessità sulla misura, vista l'assenza dei requisiti di urgenza previsti per il decreto. Le perplessità del Colle, però, sarebbero cadute di fronte alla decisione di introdurre l'uso dei militari attraverso un emendamento, sottoposto alla discussione delle Camere. Se Napolitano manterrà i suoi dubbi, a questo punto potrà esprimerli solo in fase di controfirma del provvedimento, quando dovrà giudicarne il rispetto formale a quanto previsto dalla Costituzione. La Russa, e con lui An - che sulla sicurezza hanno impostato tutta la campagna elettorale - portano quindi a casa un risultato che farà piacere al proprio elettorato. A scapito della Lega che avrebbe preferito dare il via libera ai soldati con un emendamento al disegno di legge e non al decreto sulla sicurezza. Proprio su questo punto sarebbe stato risolto in un incontro a quattr'occhi avvenuto ieri tra La Russa e il collega degli Interni Maroni. Le nuove unità da impiegare in compiti di supporto alle forze dell'ordine - ha spiegato La Russa - saranno scelte «preferibilmente tra i carabinieri già impiegati in compiti militari o tra i volontari delle forze armate» già addestrati ai nuovi compiti. Ma, ha proseguito il ministro «potremmo utilizzare anche i carabinieri del Tuscania e quelli impegnati nel turn over delle missioni militari all'estero». Non è neanche escluso comunque che il governo possa attingere tra chi tra le forze armate - e sarebbero migliaia - ha già superato il concordo per entrare a far parte di polizia, carabinieri e Guardia di finanza e per vari motivi non è ancora stato immesso in ruolo. Sempre La Russa ieri ha illustrato l'emendamento anche ai ministri ombra del Pd Fassino e Pinotti (rispettivamente Esteri e Difesa), senza però convincere l'opposizione. Domani il decreto potrebbe essere votato dall'aula del Senato.
17 giugno
Cessate il fuoco Il bollettino settimanale delle guerre e dei conflitti in corso n. 22 - 2008 dal 06/06/2008 al 12/06/2008
Nell'ultima settimana, in tutti i Paesi
in guerra, sono morte almeno 735 persone
Iraq
Nell'ultima settimana sono morte almeno
163 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno
7.037
Israele e
Palestina
Nell'ultima settimana sono morte almeno 13
persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati
almeno 358
Algeria
Nell'ultima settimana sono morte almeno
11 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati
almeno 111
Sri
Lanka
Nell'ultima settimana sono morte almeno
141 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati
almeno 4.573
Afghanistan
Nell'ultima settimana sono morte almeno
111 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati
almeno 1.882
Pakistan
talebani
Nell'ultima settimana sono morte almeno
22 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati
almeno 1.230
Nord Caucaso
Nell'ultima settimana sono morte almeno
15 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati
almeno 248
India
Nord-est
Nell'ultima settimana sono morte almeno
39 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati
almeno 281
India
Naxaliti
Nell'ultima settimana sono morte almeno
14 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati
almeno 279
India Kashmir
Nell'ultima settimana sono morte almeno 1 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati
almeno 204
Thailandia
del sud
Nell'ultima settimana sono morte almeno
13 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati
almeno 178
Filippine Npa
Nell'ultima settimana sono morte almeno
10 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati
almeno 102
Filippine Abu
Sayyaf
Nell'ultima settimana è morta almeno
1 persona
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati
almeno 64
Bangladesh
Nell'ultima settimana sono morte almeno
3 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati
almeno 19
Etiopia
Nell'ultima settimana sono morte
almeno 2 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono
stati almeno 60
Sudan
Nell'ultima settimana sono morte
almeno 20 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono
stati almeno 697
Somalia
Nell'ultima settimana sono morte
almeno 100 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono
stati almeno 633
Rep. Dem.
Congo
Nell'ultima settimana sono morte
almeno 9 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono
stati almeno 236
Gibuti
Nell'ultima settimana sono morte
almeno 2 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono
stati almeno 2
Mali
Nell'ultima settimana sono morte
almeno 20 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono
stati almeno 60
Repubblica Centrafricana
Nell'ultima settimana sono morte
almeno 19 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono
stati almeno 46
Turchia
Nell'ultima settimana sono morte almeno
4 persone.
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati
almeno 341
Colombia
Nell'ultima settimana sono morte almeno
2 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati
almeno 126
Ici, la pagano 70 mila case di lusso. Gara a occultare le dimore signorili di ALDO FONTANAROSA e ROSA SERRANO
ROMA - Un Paese antico e bellissimo,
città meravigliose, centri storici mozzafiato. A guardarle bene,
molte case di questa nostra Italia sono grandi, attrezzate, con
vista sul meraviglioso. Se però controlli quante abitazioni siano
classificate come "signorili" dai nostri Catasti e quante come
ville, i numeri sono bassi. Anzi ridicoli e inattendibili. L'Italia
ha 30 milioni 115.000 case, in tutto. Di queste appena 35 mila 751
sono accatastate come signorili (lo 0,11 percento) e 33 mila 870
come ville. Roma avrebbe 2 mila 124 abitazioni di pregio. Milano, un
migliaio. A Genova ci sarebbero più case belle di quante a Roma e
Milano messe insieme, e mille più che a Firenze.
Inferno notte di Riccardo Bocca Da Torino a Bari, da Padova a Napoli. In viaggio sulle Volanti della polizia. Tra insicurezza e impunità, esasperazione e ferocia, violenza e droga. Mentre l'immigrazione crea allarme anche nei centri di provincia. E il lavoro delle forze dell'ordine procede tra ostacoli e sfiducia
Torino, "Tossic Park"
Quello che rantola a quattro zampe nel
fango non è più un uomo. È un ammasso di stracci fradici che lotta
per non morire. Piove come non pioveva da anni, a Torino. Sono le
quattro di notte del 29 maggio. Valanghe di acqua gonfiano il Po e
la Dora. La città è occupata dalla Protezione civile. Giornali e
televisioni hanno lanciato l'allarme esondazione, ma l'eroinomane
che striscia tra le siringhe usate non si accorge di niente. Piange
a testa bassa; trema carponi puntando i pugni contro la terra zuppa.
Biascica con la voce roca di essere brasiliano, di venire da Belo
Horizonte. Dice di essersi infilato in vena roba tagliata con chissà
cosa: "Faccio schifo!", urla. "Andate via!". Poi torna a piangere, a
singhiozzare, nell'indifferenza degli altri disperati. Fusi come
lui, cadaveri come lui: ma non per questo amici.
Da Tossic Park alle botte selvagge
Basta poco, per verificarlo. Basta
aspettare l'una di notte, quando sotto il diluvio parte l'ennesimo
allarme dalla radio sulla Volante. C'è da correre al quartiere San
Donato, vicino al parco della Pellerina. Qui, a marzo, è stata
trovata morta una prostituta nigeriana in una cabina dell'Enel.
Stavolta è in corso una lite violenta tra italiani, al primo piano
di un vecchio condominio. Un uomo sta massacrando di botte una
donna. Non smette neanche quando in strada arrivano le sirene della
Polizia. "Non me ne frega un cazzo!", urla: "Mi faccio trent'anni di
galera ma ti infilo una coltellata!". C'è solo una cosa da fare: un
agente si precipita per le scale e preme il campanello. "Aiuto!",
strilla la donna, "vi prego, salvatemi...". "Sì, sì!", urla anche
l'uomo, "fai entrare chi ti pare! Non c'è problema! Falli entrare
che io ti sfondo lo stesso!".
La rivolta di via della Bussola
A fine turno, sono le sette, gli
agenti torinesi smontano. "Noi cerchiamo di fare bene il nostro
mestiere", si congedano: "Il resto tocca ad altri...". Le stesse
parole che ripetono tutti i poliziotti delle Volanti. Una specie di
mantra per non mollare. Un tentativo di sdrammatizzare, di
continuare a rischiare con la stessa voglia. Persino a Napoli è
così, dove il degrado ha il sapore del non ritorno, della condizione
definitiva. Qui la parola emergenza si è logorata, a furia di essere
spesa. È in grande spolvero l'emergenza rifiuti, la sera in cui
saliamo sulla Volante. In prima pagina c'è anche l'emergenza rom. E
naturalmente persiste l'altra emergenza, la solita: quella dei fiumi
di droga e prostituzione, abusivismo e scippi, truffe e violenza
attorno alla camorra. "Napoli non delude mai", allarga le braccia un
agente. E infatti. C'è l'imbarazzo dell'inquadratura, per
fotografare lo sfascio notturno. Si può partire, verso le dieci di
sera, dal rione Traiano e dal suo flusso di eroina e cocaina.
"Guardi là sopra", dice l'autista della Volante: "Al primo piano c'è
un appartamento in cui spacciano. Si sa da tempo. Sappiamo anche chi
ci bazzica, ma andarci sarebbe inutile. Il nostro ingresso nel
quartiere è già stato segnalato dalle vedette. Tutto è sempre pronto
per svanire nel nulla".
L'impunità di Mister Tremila Auto
C'è una storia di sprechi minori, se
si considera l'importo economico, ma forse ancora più grave per il
danno alla credibilità della giustizia. È quella di un cittadino
romeno di soli ventuno anni a cui sono intestate 2.876 automobili.
Ovviamente non le usa lui, ma molti rom - di cittadinanza italiana o
straniera, ma comunque comunitaria - in tutta Europa. Lui non
risulta avere fissa dimora: impossibile notificargli multe o
provvedimenti legati al suo sterminato garage. La scorsa settimana
durante un controllo di routine gli agenti della polizia ferroviaria
lo hanno individuato su un treno a Novi Ligure: ha fornito un nome
falso ed è stato portato al comando per controlli.
Zimbabwe, la mano pesante del regime I veterani a Mugabe: pronti a prendere le armi
Continua a salire la tensione in
Zimbabwe a quindici giorni dal ballottaggio che vedrà fronteggiarsi
il presidente Robert Mugabe, al potere da 28 anni, e il candidato
dell'opposizione Morgan Tsvangirai del Movement for Democratic
Change. Quest'ultimo è stato rilasciato oggi dopo l'ennesimo arresto
mentre viaggiava assieme al convoglio della sua campagna elettorale.
Luca Galassi
12 giugno
La sicurezza calpestata
di
GAD LERNER
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La Robin Hood tax di Obama
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Il candidato democratico alla Casa Bianca vuole tassare i profitti record delle compagnie petrolifere |
Con il prezzo del carburante quasi raddoppiato in
meno di un anno e mezzo, la sfida elettorale tra Barack Obama e
John McCain non poteva che iniziare col parlare di petrolio. E
sull'argomento, il primo candidato afro-americano alla Casa
Bianca ha calato subito sul tavolo una carta che di solito negli
Usa i politici preferiscono evitare, ma che in tempi di benzina
a quattro dollari al gallone potrebbe pagare: una tassa sui
profitti delle compagnie petrolifere, a livelli record grazie
all'impennata del prezzo del petrolio negli ultimi mesi.
Dall'altra parte McCain non ci sta e propone invece di eliminare
le accise per il periodo estivo, con l'obiettivo di portare un
po' di sollievo ai consumatori.
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Un argomento delicato.
L'idea di introdurre nuove tasse – per
espandere il ruolo dello Stato – viene di solito evitata
come un pericolo mortale da un candidato presidente negli
Usa, e Obama sa che questi argomenti potrebbero costargli
importanti voti. Ma evidentemente calcola che il malcontento
popolare dato dalla crisi economica e dal contemporaneo
aumento dell'inflazione possa cambiare la risposta degli
elettori. Il petrolio alle stelle ha fatto aumentare il
prezzo della benzina in tutto il mondo, ma negli Usa – dove
le tasse sul carburante sono minime – il costo alla pompa è
salito proporzionalmente di più. Nel febbraio 2007, per un
gallone si pagava poco meno di 2,20 dollari; oggi bisogna
spendere più di 4. Al cambio attuale rimane un prezzo di
circa 70 centesimi di euro, circa la metà di quanto si paga
in molti Stati europei: ma per la psicologia del consumatore
statunitense si tratta di una botta che ricorda lo shock
petrolifero degli anni Settanta.
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La medicina degli affari
10 giugno
Zimbabwe, intimidazione senza fine
Sospese le attività delle ong. Tsvangirai fermato di nuovo
Il governo dello Zimbabwe ha
ordinato la cessazione di tutte le attività delle agenzie umanitarie nel Paese.
La decisione è stata presa dal ministro del Welfare, Nicholas Goche, in un clima
carico di tensione, a due settimane dal ballottaggio che vedrà fronteggiarsi, il
27 giugno, Robert Mugabe, presidente in carica, e Morgan Tsvangirai, del partito
di opposizione Movement for Democratic Change (Mdc). Fino a quella data, a tutte
le ong e le agenzie umanitarie presenti in Zimbabwe sarà vietato portare avanti
missioni e progetti, soprattutto quelli di sostegno alimentare alla popolazione,
a meno che non si accreditino di nuovo con la promessa di "non immischiarsi di
politica nazionale". La preoccupazione degli operatori umanitari è che la grave
situazione di crisi economica in cui versa il Paese, unita ai raccolti
insufficienti, possa diventare disperata per i quattro milioni di persone che
fanno affidamento sugli aiuti alimentari.
Violenze e omicidi. Secondo alcune organizzazioni, come Christian Aid,
con tale decisione il governo vorrebbe evitare che la presenza di funzionari
stranieri, soprattutto nelle aree rurali, possa interferire con la campagna di
intimidazione e violenza politica attuata da Mugabe ai danni delle opposizioni.
Poche ore fa, il leader del Mdc, Morgan Tsvangirai, è stato nuovamente fermato a
un posto di blocco della polizia mentre si recava a una manifestazione di
partito nella seconda città del Paese, Bulawayo, ed è stato costretto a cambiare
tragitto, rimandando la sua partecipazione all'evento. Mercoledì scorso lo
stesso Tsvangirai aveva trascorso dieci ore in carcere per essere interrogato e
rilasciato senza accuse a suo carico. Per il suo rilascio era intervenuto
direttamente il presidente sudafricano Thabo Mbeki, principale mediatore tra
governo e opposizione. La notizia dell'arresto ha scatenato una valanga di
critiche da parte della comunità internazionale, prima fra tutte quella del
responsabile per la politica estera dell'Unione Europea, Javier Solana, che ha
dichiarato che l'atteggiamento di Mugabe "aggrava pesantemente le preoccupazioni
per il ballottaggio del 27 giugno". Nonostante il presidente, da trent'anni al
potere, abbia dichiarato che si dimetterà in caso di sconfitta, la strada verso
il ballottaggio si sta svolgendo in un clima sempre più caratterizzato da
violenze, abusi e repressione contro il Movement for Democratic Change, che ha
denunciato l'omicidio di 65 dei suoi membri, dalle elezioni del marzo scorso.
Diplomatici fermati. Un altro motivo di tensione si è verificato ieri,
quando la polizia ha fermato una delegazione di diplomatici britannici e
statunitensi che stava indagando nella zona di Bindura, ad un centinaio di
chilometri da Harare, su episodi di violenza contro i sostenitori del Mdc. Di
fronte al rifiuto dei rappresentanti stranieri di seguire gli agenti al posto di
polizia dove sarebbero stati fermati - in violazione della loro immunità
diplomatica - la polizia ha squarciato le gomme delle automobili a bordo delle
quali viaggiavano i diplomatici ed una folla di veterani di guerra ha minacciato
di dare fuoco ai veicoli con gli occupanti a bordo. Dopo che i diplomatici sono
stati fatti passare, e che l'ambasciatore statunitense James Mgee ha condannato
con forza l'episodio, è arrivata oggi la motivazione 'ufficiale' del fermo, resa
nota dal commissario di polizia Wayne Bvudzijenaì: "I diplomatici - ha detto il
poliziotto - si erano rifiutati di identificarsi nel momento in cui sono stati
fermati, ed hanno pure tentato di fuggire, quasi investendo gli ufficiali di
polizia".
Luca Galassi
Questione di priorità |
I quartieri poveri di Lima avranno il telefono wireless. Ma in migliaia non hanno ancora l'acqua potabile |
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Il presidente peruviano Alan
García ha annunciato oggi che inaugurerà una linea telefonica
senza fili. Sarà la prima delle cinquecentomila che verranno
installate in sei mesi nei quartieri periferici più poveri di
Lima. Abbonarsi costerà un prezzo dal presidente definito
imbattibile: 30 soles, circa sette euro, per sessanta minuti di
comunicazione al mese e una casella di messaggi. Ma è proprio di
questo che hanno bisogno gli abitanti dei quartieri poveri di
Lima?
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“La verità è che abbiamo altre
necessità ben più importanti in questo momento – ha commentato
Rudy Aliaga, segretario generale della comunità autogestita di
Huyacan, un immenso centro di 150mila abitanti, ubicato a est di
Lima, che sarà uno dei primi beneficiari delle nuove linee a
basso prezzo – La sicurezza, il trasporto, dotare di acqua le
famiglie”. Oltre ottomila case del quartiere, infatti, ancora
non usufruiscono della rete d'acqua potabile, dato che lo
sventolato programma Acqua per tutti taglia tuttora fuori
un'ampia fetta di popolazione.
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in età pensionabile non avrà
accesso a una pensione né ad alcuna copertura sanitaria;
l'acqua, la corrente elettrica, un'istruzione decente,
infrastrutture". Secondo Morbello, la copertura telefonica viene
solo dopo, dato che chi potrà permettersi il canone si è anche
già potuto comprare un cellulare. "La maggior parte, invece, non
avrà né quello né il senza fili, oppure sarà obbligato a
indebitarsi, visto che dovrà pagare ogni mese 30 soles,
l'equivalente dell'8 percento del reddito mensile complessivo
dei più".
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Mafia gialla
di Angela Camuso e Emiliano Fittipaldi
Traffico di rifiuti. Sigarette contraffatte. Prostituzione. Riciclaggio. Sono i business criminali dei clan cinesi. Che usano l'Italia come avamposto delle loro attività illecite nei mercati europei. E si muovono con la ferocia e la spregiudicatezza di mafia e camorra
I più cattivi e i boss senza scrupoli
vengono tutti da Wenzhou. Una città da un milione di anime
affacciata sul mar Giallo, dedita da sempre al commercio aggressivo
e ai traffici più o meno leciti. I buoni, o meglio gli schiavi,
arrivano da Wuyun e Xianju. Paesoni vicini dell'entroterra, zone di
campagna da cui le Triadi e altre organizzazioni criminali arruolano
manodopera da spedire in Occidente.
Una specie di supermarket umano da cui prelevare contadini che,
sperando in una vita decente a Milano, Firenze e Roma, si tramutano
alla fine del viaggio negli operai al nero delle migliaia di
fabbrichette illegali disseminate nelle nostre periferie. Senza
contare gli irregolari: la comunità cinese in Italia sfiora ormai
quota 150 mila. E la maggioranza viene proprio da Wenzhou,
prefettura dello Zehjiang. Dal 2000 gli ingressi sono quasi
raddoppiati: non è un caso che gli investigatori abbiano iniziato a
interessarsi, investendo uomini e mezzi, delle complicate dinamiche
di una comunità ad alto rischio di infiltrazioni malavitose.
Cosche con enormi interessi nel settore economico e finanziario del
nostro Paese, considerato uno degli avamposti perfetti per la
conquista dei ricchi mercati occidentali: per loro l'Italia è la
nazione della corruzione, con sistema giudiziario che commina
punizioni non proporzionate alle colpe commesse. "Testa di tigre e
coda di serpente", ironizzano. I clan asiatici sono talmente potenti
da essere diventati la quinta mafia, come si legge nei dossier
inediti della Dia e dello Scico, il reparto specializzato contro il
crimine organizzato della Guardia di finanza. Un dragone (questo il
simbolo delle Triadi) che sta allargando il campo d'azione e
allungando gli artigli su business un tempo esclusivo appannaggio di
Cosa nostra e camorra: dalle estorsioni e lo sfruttamento
dell'immigrazione clandestina i cinesi sono passati al riciclaggio
di denaro sporco e al business immobiliare, alla contraffazione di
sigarette, al traffico di rifiuti tossici, alle bische fino alla
prostituzione e ai reati finanziari. Per
un giro d'affari che vale ormai miliardi di euro l'anno.
SIGARETTE AL MONOSSIDO
I finanzieri di Napoli l'hanno capito solo leggendo la bolla. Il
comandante che ha visto i documenti ha fatto una smorfia e ha
chiesto di aprire il carico. Le scarpe erano destinate a una ditta
di abbigliamento di Grumo Nevano, in provincia di Napoli.
Un'azienda, però, in liquidazione. Se il destinatario non fosse
stato così anomalo, le 40 mila stecche di Marlboro e Marlboro light,
otto milioni di sigarette in tutto, sarebbero finite sugli scaffali
di tabaccai e bar di mezz'Italia.
Prodotti completamente falsi, dal filtro alla cartina, passando per
il tabacco e la colla. Tutto made in China, tutto (probabilmente)
assai nocivo. A prima vista le sigarette cinesi sono perfette:
marchio Philip Morris, cellophane d'ordinanza, scritte in italiano,
'nuoce gravemente alla salute', bollo dei Monopoli. Peccato che di
tabacco Virginia, Oriental o Burley non ce ne sia nemmeno un
milligrammo. L'operazione della Gdf napoletana di inizio maggio è
solo l'ultima contro una truffa di dimensioni colossali, che rende
ai criminali cinesi, spesso in accordo con le mafie italiane,
centinaia di milioni di euro.
Ormai circa il 65 per cento delle sigarette di contrabbando (dati
Olaf) sono false. Oltre la metà, secondo l'Organizzazione mondiale
delle dogane, sono prodotte nel colosso asiatico. In Italia arrivano
via mare: negli ultimi tre anni sono state scovate 469 tonnellate di
bionde irregolari, oltre a 60 tonnellate di tabacchi contraffatti
bloccati nei porti di Gioia Tauro e Taranto. Nascosti dietro carichi
di copertura di ogni tipo, da sedie a camicette, in Sicilia negli
ultimi sei mesi sono arrivati 20 milioni di sigarette cinesi. Lo
scorso novembre polizia e Scico hanno scovato nel porto di Ancona,
uno degli snodi principali dell'affare, altre 40 tonnellate, due
milioni di pacchetti con "percentuali elevatissime di catrame,
nicotina e monossido", come si legge in un dossier della Gdf.
Rispetto alla camorra e alla mafia albanese, il salto di qualità è
enorme. "Negli anni '80 e '90 si trafficavano pacchetti originali e
si guadagnava evadendo le imposte. Qui invece parliamo di sigarette
che contengono qualsiasi sostanza. In Inghilterra in prodotti simili
hanno riscontrato quantità di catrame superiori del 75 per cento a
quelle originali, oltre a sabbia e pezzi di plastica", spiega il
comandante dello Scico Ignazio Gibilaro: "Le stecche finiscono in
mezza Europa, ma molte rimangono da noi: la contraffazione del bollo
dei Monopoli indica che la destinazione finale è l'Italia". Il
prezzo al dettaglio è identico a quello del listino, altrimenti i
fumatori si insospettirebbero. E il profitto enorme.
Così i container sono spuntati ovunque: a Cagliari lo scorso
dicembre i funzionari doganali hanno trovato sigarette per 5 milioni
di euro destinate al Togo e al Benin; a Genova l'operazione 'Dana'
ha smascherato un'associazione a delinquere che commerciava Marlboro
cinesi. I capi finiti sott'inchiesta sono quattro, tutti di Wenzhou,
ma sono stati indagati anche 11 italiani: le Triadi nazionali sono
organizzazioni sempre più connesse con l'economia e la società
autoctona, e gli intrecci con camorra e 'ndrangheta molto più
stretti che in passato.
VELENI A SHANGHAI
"Tratto rifiuti, la ricchezza del futuro. E li mando in giro per
il mondo", dice Nicola Schiavone, titolare pugliese di un'azienda
per lo smaltimento intercettato dai carabinieri del Noe. Omonimo dei
boss di Casal di Principe, l'imprenditore non ha nulla a che fare
con Sandokan e i casalesi, ma ha capito anche lui che la Cina è il
nuovo Eden dello smaltimento illegale. Le cave della Campania sono
piene come un uovo, la soglia d'attenzione nel Mezzogiorno dopo gli
scempi dello scorso decennio è aumentata: la Cina è l'alternativa
naturale. Un territorio sconfinato che aspetta solo di essere
riempito da montagne di monnezza tossica. Se va bene, i materiali
vengono addirittura riciclati: Schiavone mandava di tutto, da
plastica a rifiuti ospedalieri, e il materiale veniva riusato per
fabbricare giocattoli e occhiali.Da rivendere, nuovamente, sulle
bancarelle italiane.
Una strategia consolidata: la Dia sta lavorando da mesi a
un'inchiesta (con perquisizioni e sequestri a Roma, Frosinone,
Napoli, Pescara, Catania e Milano) che ipotizza lo stesso circuito:
centinaia di tonnellate di rifiuti mandati sotto la Muraglia,
lavorati e reintrodotti in Italia, destinati a fabbriche di materie
plastiche. Mafia cinese, camorra e 'ndrangheta hanno messo in piedi
una rete che si basa, ancora una volta, sul nostro sistema portuale.
Gioia Tauro e Taranto fanno la parte del leone, ma rifiuti speciali
in partenza per l'Asia sono stati trovati anche a Salerno, Napoli,
Venezia, Trieste e Ancona.
Nel 2006, secondo i calcoli dell'Agenzia delle Dogane, sono state
sequestrate 9 mila tonnellate di rifiuti tossici destinati
all'esportazione, la maggior parte diretti verso la Repubblica
popolare. "I ricavi", spiega uno studio Scico, "sono elevati:
Legambiente ha stimato che lo smaltimento legale di un container di
15 tonnellate pieno di materiale pericoloso ha un costo medio di 60
mila euro. Lo smaltimento illegale, per la stessa quantità, riesce
ad abbattere il costo del 90 per cento". Risparmi che giovano alle
imprese del Nord e alle casse della mala. Le dimensioni del fenomeno
sono diventate gigantesche in un battibaleno: l'operazione 'Grande
Muraglia' del Noe di Reggio Calabria ha intercettato 135 container
con 750 tonnellate di plastica, 1.570 di metalli, 150 di contatori
elettrici, 700 di carta, dieci di auto usate e gomme. Le aziende
italiane coinvolte sono 23.
I mercanti di rifiuti sono cinesi che parlano bene italiano,
intermediari in giacca e cravatta che mettono in contatto, con il
beneplacet della mafia tricolore, gli interessi nostrani con quelli
della madrepatria: i trafficanti alla Borsa della monnezza comprano
di tutto. Il campo di gioco si è ampliato nell'ultimo lustro, e le
rotte del veleno toccano ormai quasi tutte le regioni. L'operazione
'Mesopotamia' della Procura di Udine ha scopertocentri di stoccaggio
per 12 mila metri quadri, e rapporti criminali strettissimi tra
imprenditori locali e mafiosi cinesi. A Salerno e Napoli tra il 2005
e il 2007 i container sequestrati diretti a Hong Kong e Shanghai
sono una ventina, mentre migliaia di residui tossici di pellami e
altri materiali pericolosi sono stati bloccati a Mestre, Trieste,
Livorno e Catania.
LA PACE MAFIOSA
Se rapimenti, estorsioni e investimenti in ristoranti sono business
che le Triadi gestiscono all'interno della comunità senza
'infastidire' nessuno, i nuovi interessi del dragone confinano
spesso con quelli di camorristi, 'ndrine e famiglie siciliane. I
cinesi hanno accuratamente evitato la strategia dello scontro,
preferendo venire a patti e iniziando ad agire, come scrive la Dia
in un rapporto riservato, "secondo le dinamiche e le metodologie
tipiche" dei criminali italiani. Non stupisce che i legami si stiano
facendo sempre più intensi. Se è noto il rapporto tra napoletani e
cinesi per dividersi i proventi del made in Italy contraffatto, la
direzione investigativa antimafia ha lavorato sulla liaison tra
camorra e mafia gialla nel settore miliardario dell'import-export.
Salvatore Giuliano, il vecchio boss di Forcella, è stato il primo ad
ammettere di aver stretto accordi con i mammasantissima
dell'Esquilino.
Durante un interrogatorio ha riconosciuto in foto Sun Shengde,
ristoratore e commerciante di successo, attualmente membro della
Camera di Commercio Europa-Asia. La moglie gestisce alcuni capannoni
di Commercity, un centro di stoccaggio sulla Portuense che raccoglie
il 70 per cento delle merci cinesi sbarcate nei porti di Napoli,
Bari e Civitavecchia: per la Dia parte dei containar del Golfo
venivano trasportati dai fratelli Ruoppo, già pregiudicati per
associazione a delinquere e contrabbando. Shengde esce presto dalle
indagini: sull'imprenditore, amico dell'ambasciatore italiano a
Pechino, in contatto con consoli e politici italiani, non ci sono
prove. Ma altri personaggi rischiano di finire presto agli arresti:
sarebbe il primo blitz contro l'alleanza tra le due mafie. Lo
scambio è semplice: la camorra impone il prezzo finale sulla vendita
della merce e condiziona le attività commerciali, i cinesi sfruttano
i servizi che gli affiliati al Sistema possono offrire per aggirare
dogane, importazioni illecite, gabelle e controlli. Così il
matrimonio diventa anche societario: i cinesi hanno fatto entrare
nel capitale di aziende di spedizione gente come Giovanni Lucignanno
e Nicola Diana, vicino ai Casalesi, e altri boss delle famiglie
campane.
Ridotte in schiavitù, le prostitute
cinesi in Italia
raramente lavorano sul marciapiede
MEGLIO LE GIAPPONESI
La mafia cinese falsifica documenti, borsette, bolle di
accompagnamento, giochi e Ferrari. Persino le prostitute cinesi si
spacciano per squillo giapponesi. 'Giapponese, bella, ventenne' è
l'annuncio pubblicato sui giornali con cui un bordello di Pescara
adescava i clienti. Stessa strategia in Lombardia e Veneto:
professionisti e industrialotti escono pazzi per gli occhi a
mandorla, ma Tokyo resta nell'immaginario più sexy di Pechino. I
commercianti di carne lo sanno, e danno ai clienti quello che
vogliono: nessuno chiede il passaporto a fine prestazione. La
prostituzione cinese, da sempre settore poco redditizio della mafia
gialla, ha cambiato improvvisamente marcia, moltiplicando la platea:
prima le schiave e le baby-lucciole erano destinate a soddisfare
esclusivamente i cinesi; da qualche mese carabinieri e Polizia hanno
scoperto centri-massaggi, retrobottega di negozietti e appartamenti
aperti a tutti.
"Una piccola rivoluzione: mettere in contatto le due comunità è
sempre stato considerato rischioso", dice il comandante Gibilaro. Ma
l'affare è grosso, e le operaie del sesso possono fruttare molto più
di quelle piazzate davanti alle macchine per confezionare vestiti.
Lo scorso aprile all'Esquilino la polizia ha arrestato tre cinesi
responsabili di'riduzione in schiavitù' finalizzata allo
sfruttamento della prostituzione, scoprendo un giro di case
d'appuntamento in cui lavoravano decine di ragazze. Listino salato
per gli avventori: tra 100 e 300 euro a prestazione, con un introito
giornaliero di circa 3 mila euro a testa. Stessi prezzi stabiliti da
una banda italo-cinese di Nimis, in provincia di Udine, che
reclutava clienti (in genere milanesi) attraverso call center sotto
la Madonnina.
La retata più grossa è dello scorso settembre: otto arresti e sette
denunce a La Spezia, Genova, Prato, Firenze e Montecatini. "A
differenza di albanesi e nigeriane, le cinesi non lavorano mai sul
marciapiede, ma in appartamenti di facile accesso: in genere al
primo piano, in palazzi senza portiere, con ingresso indipendente",
racconta Giulio Sanarighi, capo ufficio analisi dello Scico: "Sono
tutte costrette a orari massacranti, e vengono sostituite ogni due
settimane. Vivono un incubo, vengono liberate solo se riescono a
pagare il debito che hanno maturato per entrare in Italia". Una
condizione che riguarda tutti gli schiavi. L'organizzazione può
rifarsi anche sui parenti rimasti a casa. Qualcuno ha dichiarato che
nemmeno il suicidio sarebbe una via d'uscita: la condizione
debitoria della famiglia non cambierebbe.
SOLDI SPORCHI
Gli esperti dello Scico non usano giri di parole. "In molti ci
chiedono come fanno a sopravvivere quei negozi che vendono vestiti
non esattamente all'ultima moda. Alcuni sono regolari. Ma molti sono
solo un paravento per altre attività. Dalla 'ndrangheta i cinesi
hanno copiato l'idea di collezionare esercizi per poter emettere
scontrini, in modo da giustificare i redditi guadagnati con le vere
attività redditizie, quelle illecite. Grazie a negozi e
appartamenti, comprati in contanti e a prezzi fuori mercato,si
ricicla anche denaro sporco. In ultimo, le vetrine fungono come una
sorta di catalogo: vestiti e pantaloni non si vendono al dettaglio,
ma i grossisti possono scegliere i capi per poi andarli a prendere
nei magazzini fuori città".
Tra attività lecite e commerci da codice penale è indubbio che la
comunità cinese si sia rapidamente arricchita. Nel centro di Roma lo
stile di vita della borghesia rivaleggia con quello dei residenti
romani: Suv, cellulari costosissimi, scuole private e ristoranti da
100 euro a persona. Stesse abitudini a Prato, a Vicenza, nel Pratese,
a Firenze. Da dove vengono i soldi? Le rimesse verso Wenzhou e lo
Zehjiang toccano livelli monstre, e la Guardia di finanza ha
iniziato a indagare sugli 'anomali' sistemi di trasferimento.
Effettuati quasi solo con il money transfer, nonostante le agenzie
facciano pagare commissioni ben più alte rispetto a quelle praticate
dalle banche.
"Le operazioni", spiega il comandante della Gdf di Prato Marco
Defila, "sono sempre in contanti, con importi compresi tra i 12 mila
e i 12.500 euro, in modo da aggirare i controlli previsti dalla
legge antiriciclaggio. Una delle agenzie controllate, solo nel 2007
ha spedito mezzo miliardo di euro". Una rete su cui viaggia un
tesoro da capogiro. Difficile affermare che siano tutti soldi
sporchi, ma i sospetti sono molti. A gennaio la polizia valutaria ha
denunciato 12 italiani e sei cinesi residenti a Roma, Milano,
Firenze e Prato, creatori di una banca illegale composta da vari 'sportelli'.
Ognuno movimentava oltre un milione di euro al giorno. I clienti
identificati hanno la fedina sporcata da condanne per
contraffazione, contrabbando e crimini tributari. "Per combattere la
mafia cinese dobbiamo partire da qui: i reati finanziari comprendono
i profitti delle altre attività illegali, e possono raccontare un
intero sistema criminale", chiosa Gibilaro: "Per vincere dragoni e
organizzazioni affini servono competenze e strumenti particolari:
perché il nemico è scaltro, impermeabile, potente e molto
determinato".
La storia dei traffici illeciti dal Nord al Sud è documentata dagli atti delle Commissioni e fu denunciata nel 1995 da manager e parlamentari
"Bolle false e finti trattamenti, così camuffiamo i veleni"
Parla un broker della monnezza: questa truffa è nota a tutti
di CARLO BONINI
Ci sono ancora tonnellate di rifiuti nelle strade di Napoli
ROMA
- "Il presidente della Repubblica ha ragione. La Campania è stata
per molti anni la pattumiera del nord. E dico anche, mi scuseranno i
napoletani, che come questo sia stato possibile è ormai il segreto
di Pulcinella". L'uomo ha l'accento marcato delle valli lombarde. Ha
meno di 40 anni e da più di 15 sposta e spinge rifiuti da un estremo
all'altro del Paese. Chiede l'anonimato, perché qualche problema di
giustizia lo ha già avuto e non intende averne altri. Perché di "monnezza",
pericolosa o innocua che sia, speciale o meno che sia, ci campa.
Gli imprenditori come lui li chiamano "broker". Intermediano tra il
rifiuto che caricano e la discarica in cui lo sversano. Al
committente, pubblico o privato, offrono un servizio chiavi in mano:
trasporto, conferimento e smaltimento. Formalmente, "clean", pulito,
proprio come vuole la battuta di Toni Servillo nel film "Gomorra".
Ma che lo sia davvero, "clean", questo dipende solo da loro. Perché
l'industriale che firma per lo smaltimento di fanghi, vernici, acidi
o altri residui di lavorazioni tossiche non vuole e non deve sapere
che fine quei rifiuti faranno. Perché non vuole e non deve portarne
la responsabilità per eventuali danni alle persone e all'ambiente.
Dal sistema ci guadagnano o quantomeno ci hanno guadagnato tutti i
protagonisti del ciclo. L'imprenditore che dimezza il costo di
smaltimento. Il broker che ricarica sui costi fino al cinquanta per
cento. La discarica non autorizzata che interra i veleni.
Di aziende di "intermediazione rifiuti" in Italia ce ne sono almeno
un migliaio. "Di fatto - spiega il nostro broker lombardo - parliamo
sempre delle stesse cinquanta persone cui quelle società, in un modo
o in un altro, fanno capo". La storia dei traffici illeciti di
rifiuti nord-sud documentata dagli atti parlamentari delle diverse
commissioni di inchiesta è quella di indagini a loro modo esemplari
come "Re Mida" o "Eldorado". E' quella che, a partire dal 1995,
denunciarono con forza e nel completo disinteresse parlamentari come
Massimo Scalia (presidente della prima commissione di inchiesta sui
rifiuti) e quindi manager coraggiosi come Roberto Cetera e Lorenzo
Miracle di "Ecolog" (la società del gruppo Fs che in sette anni di
emergenza ha smaltito circa due milioni di tonnellate di rifiuti in
Germania), oggi costretti agli arresti domiciliari dall'accusa della
procura di Napoli di aver commesso ciò contro cui hanno
pubblicamente combattuto in solitudine per anni (traffico illecito
di rifiuti), a cominciare dalla denuncia del ruolo opaco dei centri
di stoccaggio e trasformazione umbri, per finire alle società di
trasporti campane.
Il broker lombardo sorride. "Il Sistema del traffico illecito dei
rifiuti ha sempre camminato su due gambe. Il trasporto su gomma e
l'intermediazione fasulla dei centri di stoccaggio e trasformazione.
Da questo punto di vista, ovviamente i treni per la Germania sono
sempre stati visti come fumo negli occhi. Detto questo, il Sistema
non ha funzionato sempre nello stesso modo. E' andato affinandosi
con il tempo. Cambiavano le leggi in senso restrittivo, si trovavano
nuovi mezzi per aggirarle".
In principio - correvano i primi anni '90 - fu davvero "l'età
dell'oro". Nessun controllo, libera circolazione dei mezzi lungo l'Autosole.
"Per un chilo di rifiuti tossici, l'industriale del nord arrivava a
pagare anche 600 lire. Il costo effettivo per lo smaltimento nelle
discariche campane era tra le 20 e le 30 lire. L'utile, dunque, di
circa il 90 per cento". A Pianura finirono i fanghi venefici dell'Acna
di Cengio e Dio solo sa cos'altro, se è vero come è vero, racconta
l'uomo, che "in una discarica di Giugliano venivano interrati
direttamente i cassoni dei camion che arrivavano dalla Lombardia,
dal Veneto, dal Piemonte".
Poi venne approvato il decreto Ronchi, cominciò l'emergenza campana
e le cose, almeno apparentemente, si complicarono. Ai rifiuti (quale
che ne fosse la natura) venne attribuito un codice di
identificazione che avrebbe dovuto consentire di tracciarne il
percorso dalla sorgente alla foce. Per impedire ai committenti di
dichiarare in partenza rifiuti diversi da quelli che venivano
caricati e alla discarica di accettare monnezza per la quale non era
autorizzata allo smaltimento.
Il Sistema si adeguò. "I trucchi erano e restano a tutt'oggi due. Il
primo si chiama "girobolla". Il secondo, che ne è una variante, è lo
"scarico di conferimento"".
Il girobolla funziona come il gioco delle tre carte. "Il rifiuto
pericoloso esce dalla fabbrica del nord con un codice e una
destinazione finale. Diciamo in Campania. Lungo la strada si ferma
almeno due o tre volte in altrettanti impianti di stoccaggio e
trasformazione, che sono per lo più concentrati tra Toscana e
Umbria. In questi centri, al trasportatore viene consegnata una
nuova bolla di accompagnamento che non è più quella originaria, ma
un documento di trasporto che certifica, in modo falso, che il
carico di rifiuti è stato trattato e trasformato in innocuo
materiale di recupero. In realtà, l'immondizia non è mai scesa dal
camion. Ma quando arriva in discarica può essere accolta perché
risulta essere altro da ciò che è".
L'industriale a monte è libero da ogni sospetto o seccatura perché
avrà da mostrare un documento che attesta il trattamento intermedio
di quei rifiuti e per la stessa ragione lo saranno il broker e la
discarica che quei rifiuti ha interrato. Lo "scarico di
conferimento" è ancora più semplice. Nel centro di stoccaggio e
trasformazione il carico di rifiuti cambia di mano. "Il camion che
ha fatto la prima tratta se ne torna indietro e la responsabilità
dello smaltimento diventa del centro di stoccaggio. A questo punto
arrivano i camion dal sud. Caricano e sversano dove solo loro sanno.
In Campania o anche in regioni limitrofe".
Il finto declassamento dei rifiuti o il loro passaggio di mano
rendono di fatto irrintracciabile la reale origine del carico e la
sua effettiva destinazione. Fanno da diga tra chi i veleni li
produce e chi li interra. Dice l'uomo: "Faccio un esempio per far
capire come andassero le cose ancora nel 2003. Milano era in piena
emergenza e l'Amsa conferiva i suoi rifiuti solidi urbani, dunque
non nocivi, in Campania, dove però era scoppiata a sua volta
l'emergenza. A Napoli, l'allora commissario straordinario vietò
l'importazione di rifiuti da altre regioni, ma con il meccanismo del
conferimento dei rifiuti a centri di stoccaggio intermedi i rifiuti
milanesi continuarono ad affluire nella discarica di Trentola
Ducenta, in provincia di Caserta".
Tutti sapevano. Tutti sanno. Compresi, evidentemente, chi i carichi
velenosi li trasporta. "Loro sono davvero le ultime ruote del carro.
Lo fanno per mangiare. I camion fanno una prima tratta da sud a nord
trasportando merci regolari e per non tornare indietro vuoti
caricano immondizia. Quale che sia". Del resto, i controlli lungo il
tragitto pare non spaventino proprio nessuno. "Un conto è essere
bloccati dalla Forestale o dai carabinieri del Nucleo di tutela
ambientale. Ma questo succede soltanto quando si è finiti in
un'indagine, magari si è stati intercettati e si sa quale è il
camion da fermare. Un altro conto è essere controllati dalla polizia
stradale. Il camion viaggia chiuso e se i pesi sono rispettati e le
bolle di accompagnamento sono a posto, nessuno andrà ad aprire i
cassoni per vedere se davvero ciò che c'è dentro è o meno materiale
nocivo. E il gioco è fatto".
3 giugno
Ho comprato un clandestino
di Fabrizio Gatti
Bastano
30 euro al giorno. Dall'industria all'agricoltura, da nord a
sud, lo sfruttamento dei lavoratori in nero è una piaga nazionale.
In crescita. Intanto il pugno di ferro del governo lascia impuniti
imprenditori e aziende Operai immigrati in una fabbrica di VicenzaHo
appena comprato un clandestino. Roy, 31 anni, arrivato cinque anni
fa come turista dal Bangladesh, costa meno di un pieno di benzina.
Chiede 30 euro a giornata per lavorare come muratore. Anche
quattordici ore al giorno, dall'alba a sera tardi. Fanno due euro e
14 centesimi di paga l'ora. Una stretta di mano conclude l'accordo.
Senza che lui sappia molto di me né io di lui. Ogni mattina presto
Roy appare in piazzale Roma, l'ultimo brandello di strada davanti
alla laguna di Venezia.
E se nessuno lo chiama nella città d'arte, torna ad aspettare alla stazione di Mestre. Alla fine dei lavori potrei anche non pagarlo. Potrei prenderlo a schiaffi: se lui fosse così pazzo da chiamare la polizia e beccarsi l'espulsione, rischierei al massimo sei mesi di reclusione. Potrei rubargli il portafoglio: ammesso che mi voglia denunciare, il furto è punito da sei mesi a tre anni. Potrei fargli credere che gli procurerò un permesso di soggiorno in cambio dei suoi risparmi e truffarlo: non rischierei più di tre anni. Potrei essere lo sgherro di un'associazione a delinquere e sfruttarlo: la mia condanna partirebbe comunque da un anno. Sempre meno di quanto rischierà Roy quando verrà approvato il disegno di legge sul reato di immigrazione clandestina: fino a quattro anni di carcere, per essere semplicemente un muratore.
Perfino una parte autorevole dei vertici di carabinieri e polizia sostiene che è anche colpa della legge firmata nel 2002 da Umberto Bossi e Gianfranco Fini, se in Italia ci sono tanti clandestini: perché restringe all'infinito le possibilità di ingresso, punisce i lavoratori stranieri non in regola e garantisce sempre una via d'uscita indolore ai datori di lavoro che li sfruttano. È tutto scritto in un rapporto riservato, consegnato al ministero dell'Interno nell'ottobre 2006, all'indomani dell'inchiesta de 'L'espresso' sulla schiavitù e il caporalato in Puglia. L'analisi riguarda le condizioni degli stranieri in tutta Italia. "Sono gli imprenditori, che si avvalgono dell'intermediazione abusiva, i soggetti principali che avviano questo sistema di illegalità", denuncia il rapporto, "incentivati sia dai maggiori profitti derivanti dal lavoro nero, e dunque dalla mancata regolarizzazione delle posizioni lavorative, sia dalla celerità e dalla flessibilità con le quali possono essere soddisfatte le richieste di manodopera".
Lo studio suggerisce di introdurre sanzioni per i datori di lavoro, oltre che per intermediari e caporali. È firmato dall'allora vicecapo della polizia, Alessandro Pansa, diventato poi prefetto a Napoli, che presiedeva la commissione formata anche dal generale di brigata dei carabinieri, Salvatore Scoppa, e dal colonnello Luciano Annichiarico, responsabile del comando carabinieri per la tutela del lavoro. Il dossier è puntualmente scomparso in un cassetto. Prima per l'instabilità del governo di Romano Prodi. Ora per le decisioni diametralmente opposte annunciate da Silvio Berlusconi e dal ministro dell'Interno, Roberto Maroni.
Altro che badanti da salvare. La visione coloniale, secondo cui l'immigrazione da regolarizzare è soltanto la servitù di casa, esclude dalla legalità una parte importante dell'economia italiana. Lavoratori che, pur non essendo in regola con i documenti, partecipano attivamente al nostro prodotto interno lordo. Dati di Unioncamere: il 9,2 per cento del Pil italiano deriva dal lavoro degli stranieri, regolari e irregolari. L'agricoltura che riempie le nostre tavole di frutta e verdura ne è un esempio: il 95 per cento dei braccianti stranieri in Sicilia, Calabria, Campania, Puglia e Lazio è ingaggiato senza contratto di lavoro e più dell'80 per cento è senza permesso di soggiorno. Lo denuncia il dossier 'Una stagione all'inferno' presentato a metà maggio dalla missione in Italia di Medici senza frontiere.
È l'aggiornamento di un'inchiesta pubblicata nel 2005 sull'agricoltura al Sud. "Dopo tre anni", spiega Loris De Filippi, responsabile delle operazioni di Msf, "abbiamo constatato che nulla è cambiato". Pochi giorni fa l'Istituto nazionale di economia agraria, ente di ricerca del ministero per le Politiche agricole, ha quantificato il numero di lavoratori stranieri nel settore: 150 mila, di cui 70 mila al Nord. Nel 1995 erano 30 mila in tutta Italia. Non esistono censimenti sui clandestini e solo queste cifre permettono di stimare il numero di lavoratori non in regola sfruttati nell'agricoltura. Secondo i dati consegnati dai carabinieri al ministero, sui 22 mila 295 stranieri occupati nelle aziende agricole controllate in Italia nel primo semestre 2006, il 24,21 per cento era senza permesso di soggiorno: significa che dalla Sicilia al Friuli i clandestini ingaggiati come braccianti sono più di 36 mila. Così se un giorno il governo volesse eliminare il lavoro irregolare in agricoltura attraverso il reato di immigrazione clandestina, dovrebbe far arrestare 36 mila lavoratori. E trovar loro posto nelle carceri già affollate da 48.600 persone. Senza contare il costo della detenzione e delle espulsioni: servirebbero almeno 103 voli a pieno carico di Boeing 747 per riportare tutti ai Paesi d'origine.
Dovremmo poi dire addio più o meno al 24 per cento della produzione agricola italiana. Pomodori e uva marcirebbero sulle piante, i prezzi di vino, formaggi e verdure correrebbero più del petrolio. La carta e l'inchiostro per stampare i permessi di soggiorno costerebbero sicuramente molto meno. "Ma gli imprenditori non rinunceranno alle braccia a basso costo", spiega l'avvocato di Milano, Domenico Tambasco, esperto di diritto dell'immigrazione: "L'economia sostituirebbe gli espulsi con altri lavoratori irregolari. Altri migranti passerebbero le frontiere lungo le rotte più pericolose. E poiché è impensabile l'espulsione di decine di migliaia di persone, la nuova legge spingerebbe i lavoratori a vivere da latitanti, a nascondersi. A essere ancora più schiavi. Ci vorrebbe uno sciopero di tutti gli immigrati: solo così emergerebbe il vero peso dell'immigrazione nel sistema economico nazionale". Il carcere non è comunque una novità: la legge già prevede la detenzione fino a quattro anni per i clandestini sorpresi una seconda volta. "Prima dell'indulto", ricorda l'avvocato di Padova, Marco Paggi, "il 25 per cento della popolazione penitenziaria era composto da stranieri detenuti unicamente per non aver rispettato il decreto di espulsione".
L'edilizia è un altro settore di grande sfruttamento. Il rapporto di polizia e carabinieri consegnato al ministero dell'Interno rivela che su 2943 imprese controllate in Italia nel 2006, ben 2004 avevano violato le norme di assunzione del personale straniero e 45 erano completamente sommerse. Perfino nel Nord-Est, modello dell'economia rampante e xenofoba che piace alla destra nazionale, i clandestini hanno ormai una funzione insostituibile. "La presenza di lavoratori irregolari", spiega Stefania Bragato, del Consorzio per la ricerca e la formazione, "varia dal 24 per cento della provincia di Rovigo, al 22 della provincia di Venezia, al 20 di Verona, scendendo al 15 di Treviso. Una media intorno al 18 per cento".
Certo, colpire i datori di lavoro vorrebbe dire essere disposti ad arrestare decine di industriali nel Veneto leghista dove, secondo dati raccolti anche dalla Cgil, l'impiego di clandestini nella filiera produttiva del tessile sale al 27 per cento. Oppure ammanettare le migliaia di casalinghe anziane che, alla ricerca di una badante, una colf o un muratore per piccoli lavori, non ne vogliono sapere di pagare uno straniero a posto con documenti, assicurazione e bollettini. "Il paradosso è che un clandestino trova lavoro più facilmente di un regolare. Vengono perfino qui a chiedere come fare", dice Leonardo Menegotto, responsabile immigrazione della Cgil di Mestre: "Rifiutano i regolari perché, dicono, vogliono essere messi a contratto. Io rispondo che queste informazioni non le diamo".
La denuncia nel rapporto riservato di polizia e carabinieri è un'accusa senza alibi: "Il lavoro nero e l'economia irregolare, per dimensioni e pervasività, hanno assunto la configurazione di una componente strutturale del sistema produttivo nazionale... Le sanzioni previste dalla legge Biagi sono inadeguate a fronteggiare il fenomeno nel suo complesso... Il ricorso diffuso al lavoro nero rende scarsamente efficaci anche i meccanismi sanciti dalla normativa prevista per i flussi di ingresso di stranieri". Da sempre le quote non rispondono alle esigenze dell'economia. Ma nessun governo, nemmeno di centrosinistra, si è adeguato. Così quest'anno si è toccato un altro record: 758 mila dichiarazioni di assunzione per appena 170 mila permessi stabiliti dal decreto flussi.
Il risultato è catastrofico. Soprattutto al Sud dove la paura e l'insicurezza sono sentimenti quotidiani per migliaia di braccianti. Il 64 per cento vive in case abbandonate senza acqua. Il 62 senza servizi igienici. Il 92 per cento senza riscaldamento. Ad Alcamo, in Sicilia, il Comune ha allestito un dormitorio per i lavoratori stagionali stranieri. Ma la legge impedisce di accogliere clandestini. Mentre gli agricoltori del posto vogliono soprattutto clandestini. "Lo scenario è dei più impressionanti", è scritto nel rapporto di Medici senza frontiere, "il 39 per cento dei lavoratori dorme per le strade cittadine, il 27 in case abbandonate, il resto arrangiato in tende nei campi limitrofi". Una sera di ottobre a Gioia Tauro, in Calabria, viene investito Mamadou, 18 anni, bracciante emigrato dal Mali: dopo un mese con una ferita infetta alla coscia sinistra "al pronto soccorso gli operatori sanitari dichiarano di curarlo a titolo di favore. L'ortopedico non è presente, la gamba è dolorante e gonfia. Il paziente viene dimesso senza aver consultato lo specialista, senza bendatura di supporto e senza terapia".
L'Italia è spietata e cinica anche con chi è in regola. Abdou, 32 anni, laurea in lettere presa in Senegal, parla italiano, francese, inglese e capisce lo spagnolo. Lavora come assistente del direttore commerciale in un ditta a Pordenone. Potrebbe girare il mondo e fare carriera. Nell'aprile 2007 ha chiesto il rinnovo del suo permesso di soggiorno. Data dell'appuntamento in questura, per la foto segnaletica come fosse un delinquente: febbraio 2009. Il permesso lo riceverà dopo altri quattro mesi di attesa: "Spero", sorride, "intanto non posso uscire dall'Italia. Questa è una discriminazione". Abdou chiede di non rivelare il suo cognome. Per paura.
Ogni settimana 22 mila stranieri presentano alle poste la richiesta di rinnovo del soggiorno. E aspettano la convocazione in questura: "Qui a Treviso non rispondono nemmeno perché il sistema informatico non è tarato per fissare appuntamenti nel 2010", avvertono agli sportelli immigrazione in città. Proprio in questi mesi stanno entrando in Italia gli stranieri del decreto flussi 2006. Dopo due anni molti trovano che i loro datori di lavoro sono nel frattempo falliti, si sono trasferiti o sono morti. A loro le prefetture concedono permessi provvisori di sei mesi: verranno convocati tra un anno e mezzo, per ritirare un documento già scaduto da un anno.
Roy, il muratore bengalese, confessa che adesso ha paura di essere buttato fuori di casa. Ha saputo del decreto che da lunedì prevede la confisca degli appartamenti affittati agli stranieri senza permesso di soggiorno: "Dormo con quattro connazionali in regola. Mi hanno detto che devo trovarmi un altro posto". Può essere l'inizio di un assalto che porterà gli squali immobiliari a riappropriarsi a prezzi stracciati di interi quartieri storici. Il decreto non sembra così innocente: negli uffici dei broker di Milano si parla di appartamenti di cinesi, egiziani e peruviani che saranno confiscati e messi all'asta. Mentre migliaia di lavoratori clandestini già si chiedono dove andranno a dormire il prossimo inverno.