24 giugno

 

Soldi buttati
Afghanistan, il fallimento dell’esercito ‘made in Usa’
Oltre sette milioni e mezzo di dollari – soldi prelevati dalle tasche dei cittadini statunitensi – sono stati spesi ogni giorno, per sei anni, dal loro governo per addestrare e armare le forze di sicurezza che devono combattere i talebani in Afghanistan. Con quale risultato? Nessuno! E’ questo il succo del lungo e dettagliato rapporto pubblicato mercoledì scorso dal Government Accountability Office (Gao), l’organo del parlamento statunitense che vigila su come il governo di Washington spende il denaro pubblico.
 
Reclute afganeEsercito e polizia afgani quasi inutilizzabili. Nel rapporto del Gao si legge che dal 2002 a oggi l’amministrazione Bush ha speso 16,5 miliardi di dollari per costruire in Afghanistan un esercito (10,3 miliardi) e una polizia (6,2 miliardi) che fossero in grado di combattere da soli la guerra contro i talebani entro il 2011-20012 e di garantire autonomamente la sicurezza e l’ordine nel Paese asiatico.
Il risultato, ad oggi, è che solo due unità dell’esercito afgano sulle centocinque esistenti sono in grado di operare in autonomia, una quarantina sono capaci di combattere solo in affiancamento alle forze Nato. Tutte le altre unità sono ancora completamente inutilizzabili.
Ancor più drammatica la situazione per le forze di polizia: nessuna delle 433 unità costituite è ancora pienamente in grado di lavorare autonomamente sul territorio, solo il sette percento lo è solo parzialmente e con il sostegno Nato. Il resto delle forze di polizia sono assolutamente non in grado di svolgere i loro compiti.   
 
Humvee per l'esercito afganoUna fregatura per molti, un affare per pochi. Il contribuente statunitense, che difficilmente leggerà mai questo rapporto – citato solo di striscio in un editoriale del New York Times di venerdì, non sarebbe certo felice si sapere che il suo governo da una parte taglia la spesa pubblica sanitaria e scolastica, dall’altra spende sette milioni e mezzo di suoi dollari al giorno per la guerra in Afghanistan alla voce ‘addestramento e armamento forze locali’.
Ma la vera domanda è: a chi vanno questi soldi? Agli afgani? No, vanno a chi viene pagato per addestrare e armare gli afgani, ovvero all’esercito Usa, alle aziende private Usa che collaborano con esso e chiaramente ai fabbricanti di armi e mezzi militari statunitensi. Un esempio: l’amministrazione Bush ha speso dal 2002 a oggi 3,7 miliardi di dollari (quasi due milioni di dollari al giorno) per equipaggiare l’esercito afgano. Guardacaso, le armi in questione (migliaia di fucili M-16, centinaia di blindati Humvee) sono tutti di fabbricazione Usa. Si sa: la guerra è una fregatura per molti e un grande affare per pochi.
 
Il nero non demorde
Scende il sommerso rispetto al Pil, ma aumentano gli autonomi irregolari
Mauro Ravarino

Diminuisce l'economia sommersa, cala il suo peso sul Pil, ma cresce il tasso di irregolarità tra i lavoratori indipendenti, in agricoltura e nei servizi. Lo rivela uno studio dell'Istat sul lavoro nero in Italia dal 2000 al 2006.
Il peso massimo del sommerso nel 2001 sfiorava il 20% del Pil; dal 2002, invece, il valore aggiunto prodotto nell'area del sommerso economico ha evidenziato una positiva contrazione. Nel 2006 il valore era compreso tra un minimo del 15,3% (227 miliardi) e un massimo del 16,9% (250 miliardi). Sei anni prima le percentuali erano rispettivamente del 18,2 (217 miliardi) e del 19,5% (228 miliardi). Per quale motivo si è verificata una progressiva riduzione? Secondo l'Istat, principale responsabile è la sanatoria rivolta ai lavoratori extracomunitari: 647 mila sono stati regolarizzati da famiglie o da imprese. Nel 2004 gli effetti della santoria sono cessati e il valore aggiunto del sommerso è rimasto per lo più stabile, intorno al 6,5% del Pil. Il trend di «regolarizzazioni» dopo il boom sembra essersi bloccato: sono, infatti, seppur in cifre più ridotte, aumentate di nuovo le occupazioni non regolari.
Se scomponiamo il «nero» prodotto nel 2006 notiamo che l'8,9% è dovuto alla sottodichiarazione del fatturato ottenuto con un'occupazione regolarmente iscritta nei libri paga, al rigonfiamento dei costi intermedi, all'attività edilizia abusiva e ai fitti in nero. Proprio a questi fattori l'Istat imputa il picco del 2001: insieme raggiungevano il 10,9% del Pil. Ritornando al 2006, il 6,4% del sommerso deriva espressamente dall'utilizzazione di lavoro non regolare e l'1,6% dalla riconciliazione delle stime dell'offerta di beni e servizi con quelle della domanda.
È interessante poi rilevare come il peso del valore aggiunto differisca a seconda dei vari settori. In agricoltura, dove l'attività produttiva è frammentaria e stagionale, il fenomeno del lavoro nero è in crescita. Aumentano i lavoratori temporanei pagati alla giornata. Nel 2006, nell'ipotesi massima, il valore aggiunto sommerso nel settore agricolo ha toccato il 31,4% (8.5 milioni di euro). Più marginale il dato dell'industria: 10,4% (42 milioni di euro). Nel terziario, dove il fenomeno lascia esente il settore pubblico, il valore aggiunto è del 20,9% (199 milioni di euro). Nei servizi il lavoro «nero» diventa davvero rilevante nel comparto relativo a commercio, alberghi e trasporti. È un panorama sostanzialmente diverso rispetto a sei anni prima quando in agricoltura risultava sommerso il 29,7%, nell'industria il 14% e nel terziario il 23,2%.
L'indagine definisce non regolari tutte le prestazioni lavorative svolte senza il rispetto della normativa vigente in materia fiscale e contributiva. L'Istat ha stimato che nel 2006, su un totale di 24 milioni e 826 mila di lavoratori, 2 milioni e 969 mila non erano regolari. Dal 2000 sono aumentati gli occupati regolari, infatti, all'inizio decennio quelli in «nero» erano 3 milioni e 111 mila su un totale di 23. 412 occupati. Si è verificata una diminuzione del 4,6%.
Il tasso d'irregolarità (calcolato come incidenza delle unità di lavoro non regolari sul totale elle unità di lavoro) si attesta intorno al 12% (13,3% nel 2000). Il tasso diminuisce tra le unità di lavoro dipendenti ma cresce tra quelle indipendenti dall'8,5% al 9,2%. E qui suona il primo campanello d'allarme, che risquilla quando si tratta di categorie di lavoratori. Aumentano, infatti, gli irregolari residenti (da 1,540 milioni nel 2000 a 1, 614 nel 2006), seppur diminuiscano gli stranieri irregolari non residenti: 352 mila nel 2006 (656 mila nel 2000). Infine, le attività plurime non dichiarate registrano un pericoloso ritmo di crescita: da 915 mila unità di lavoro nel 2000 sono passate a un milione nel 2006.

 

Salari a confronto
 
Inflazione alle stelle e salari alle stalle. Non in Spagna però, dove i salari hanno addirittura superato quasi di un punto l'aumento dei prezzi, registrando un aumento, nel primo trimestre dell'anno, del 5,3% (e con l'inflazione al 4,4%). A parità di «crisi» (che anzi in Spagna è persino più acuta), di richiami della locale Confindustria (salari legati alla produttività) e di scongiuri sulla moderazione salariale.

Cessate il fuoco
Il bollettino settimanale delle guerre e dei conflitti in corso n. 23 - 2008 dal 13/06/2008 al 19/06/2008
Nell'ultima settimana, in tutti i Paesi in guerra, sono morte almeno 808 persone
 
Iraq
Nell'ultima settimana sono morte almeno 180 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 7.404

 
Israele e Palestina
Nell'ultima settimana sono morte almeno 15 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 373

 
Algeria
Nell'ultima settimana sono morte almeno 3 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 114
 
Sri Lanka
Nell'ultima settimana sono morte almeno 111 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 4.684

 
Afghanistan
Nell'ultima settimana sono morte almeno 92 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 1.974

 
Pakistan talebani
Nell'ultima settimana sono morte almeno 24 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 1.254

 
Nord Caucaso
Nell'ultima settimana sono morte almeno 15 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 263

 
India Nord-est
Nell'ultima settimana sono morte almeno 23 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 304

 
India Naxaliti
Nell'ultima settimana sono morte almeno 7 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 286

 
India Kashmir
Nell'ultima settimana sono morte almeno 7 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 211

 
Thailandia del sud
Nell'ultima settimana sono morte almeno 6 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 184

 
Filippine Npa
Nell'ultima settimana sono morte almeno 11 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 113

 
Nepal 
Nell'ultima settimana è morta almeno 1 persona
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 43

 
Bangladesh
Nell'ultima settimana sono morte almeno 3 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 22
 
Sudan
Nell'ultima settimana sono morte almeno 92 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 789

 
Somalia
Nell'ultima settimana sono morte almeno 15 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 648

 
Ciad
Nell'ultima settimana sono morte almeno 161 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 373

Uganda
Nell'ultima settimana sono morte almeno 9 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 18
 
Nigeria
Nell'ultima settimana sono morte almeno 9 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 27
 
Turchia
Nell'ultima settimana sono morte almeno 24 persone.
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno

 

Guinea, scontri tra esercito e polizia
Proteste per aumenti salariali, nuove tensioni nel Paese
Non si placano a Conakry le proteste da parte della polizia guineana, in sciopero da lunedì per chiedere aumenti salariali. Le forze speciali dell'esercito guineano si sono scontrate ieri con gli agenti anti-sommossa. Almeno due soldati sono rimasti uccisi e, secondo testimonianze locali, anche i cadaveri di otto poliziotti sono rimasti sul terreno. I militari avrebbero saccheggiato la stazione di polizia,
nel distretto Camayenne della capitale, rubando frigoriferi e materassi. Durante il raid, i militari avrebbero arrestato decine di poliziotti, trasportandoli fuori dalla capitale.
 
Aumenti e paghe arretrate. I poliziotti guineani hanno cominciato la loro protesta lunedì scorso, scendendo in strada con i pick-up e sparando in aria, bloccando il traffico con tronchi d'albero e prendendo in ostaggio il capo della polizia per quasi tutta la giornata. L'agitazione prende le mosse da un'analoga protesta, lo scorso mese, da parte delle reclute dell'esercito, che hanno ottenuto promozioni e aumenti grazie a un rimpasto di potere verificatosi dopo che il presidente Lansana Conte ha nomninato un nuovo primo ministro, Ahmed Tidiane Souare. Questi avrebbe ceduto con eccessiva facilità alle richieste dei militari, concedendo loro aumenti di 700 euro ciascuno in paghe arretrate e promuovendo tutte le reclute dell'esercito.
L'ex Primo ministro, Lansana Kouyaté, aveva raggiunto un fragile accordo con i sindacati del Paese, che avevano guidato una protesta di massa contro Conte nel 2007, durante la quale 130 persone erano state uccise dalle forze di sicurezza dell'esercito. Il gesto di Souare rappresenta un affronto verso la popolazione guineana, che lo scorso anno era scesa in piazza per protestare contro l'aumento del costo della vita. Gli scioperi erano stati repressi nel sangue.
 
Instabilità. Si teme adesso che nuove tensioni possano percorrere la società guineana, tra le più povere dell'Africa, insoddisfatta e frustrata dalla politica di Conte, considerata inerte e oscillante. Nonostante sia malato da anni, guida formalmente il Paese dal 1984, ma la lotta intestina per il potere ha visto negli ultimi tempii fronteggiarsi diversi attori. Tra questi, il braccio destro di Conte, Fode Bangoura, che ha amministrato il Paese quando Conte era in Svizzera per cure mediche; Al Hajj Mamadou Sylla, l'uomo più ricco della Guinea, di etnia Soussou; Al Hajj Aboubacar Somparè, presidente del Parlamento, l'uomo che, secondo la Costituzione, dovrebbe succedere a Conte in caso di morte di quest'ultimo. Inoltre, frizioni etniche mai sopite condizionano la stabilità sociale del Paese. Anche nell'esercito, che nonostante le proteste degli ultimi 12 anni ha di fatto appoggiato il presidente, i militari sono divisi tra la minoranza Soussou, al potere, i Malinke e i Peul, etnia di maggioranza nel centro e nel nord della Guinea.

 

VENEZIA Tra gli ambulanti senegalesi «cacciati»
«Perché colpiscono noi e non chi ci sfrutta?»
Orsola Casagrande
 
«Comunque sai qual è il problema maggiore per noi? Che non stiamo lavorando e questo è un casino. Vuol dire niente soldi per l'affitto, niente soldi per le bollette, niente soldi per mangiare». «E non solo questo. Quelli da cui prendiamo le robe da vendere non sono contenti perché per loro non siamo più utili, non facciamo guadagni». «Semplice dire che questo è un lavoro facile, un modo per non lavorare. La gente non si rende conto di quello che stiamo passando». Le voci si accavallano. Il dubbio che forse ci sarebbe stata poca voglia di parlare tra i cittadini senegalesi sfrattati dalle calli e dai campi di Venezia viene subito dissipato. Pap, Lamin, Burama e gli altri hanno tante cose da dire. L'appuntamento è in un bar di Mestre, non lontano da uno dei negozi da dove al mattino presto si vedono uscire i ragazzi senegalesi con i loro borsoni blu carichi di mercanzia. Al bar sono una decina. Di tutte le età. C'è Lamin che ha 18 anni e c'è Pap che ne ha 32, c'è Mamadou che ne ha 48 e Burama che ne ha 26. Vengono da varie zone del Senegal. Dakar, la Casamance.
Sono tutti in Italia da diverso tempo. Alcuni hanno, e lo esibiscono subito, il permesso di soggiorno. Altri no. «E' sempre più difficile avere il permesso di soggiorno - dice Burama - e anche se lavori rischi di perderlo». Qualcuno ha un passato di carcere, un altro di droga. «E' difficile vivere in questo paese - dice Zigou - è difficile sopravvivere, riuscire a rimanere fuori dalla depressione». Depressione è una parola che ricorre spesso in un questo incontro. «Sono in Italia dal 1990 - dice Mamadou - ho vissuto a Torino tanti anni, poi in Toscana e da qualche tempo sono qui a Venezia». In Senegal Mamadou faceva teatro. «Anche qui in Italia sono venuto per il teatro - dice e si mette a recitare in perfetto dialetto veneziano un pezzo delle "baruffe chiozzotte" di Goldoni - Il sogno comunque si è infranto presto. Non riuscivo a trovare lavoro, non sapevo da che parte girarmi. Vivevo con altri ragazzi senegalesi. Alla fine ho accettato di vendere roba. Ma ben presto ho cominciato a farmi - ammette imbarazzato - e ti assicuro che è stata dura uscire». Oggi Mamadou lavora per le calli veneziane, vendendo finte borse Prada. «E' umiliante anche per noi - dice - fare questa vita. E comunque se la prendono con noi che siamo l'ultimo anello della catena». Già, perché loro sono quelli che vendono la merce «che arriva da Napol - puntualizza Lamin - ma anche dalle campagne padane». I «magazzini» riforniscono i negozi che a loro volta consegnano la merce da vendere per strada ai cittadini migranti. «I vigili - dice Burama - ci stanno addosso. Ci insultano, ci minacciano. E noi scappiamo». «Sì certo - interviene Pap - le calli a Venezia sono strette, ma per favore non diciamo che siamo pericolosi. Il pericolo sono questi inseguimenti da Far West».
Sono in tanti, lo confermano i ragazzi al bar, i senegalesi che hanno subito oltre alle minacce anche qualche violenza fisica. A Jesolo l'anno scorso sono finiti ai domiciliari due vigili urbani che, assieme ad altri due colleghi, avevano picchiato duramente due venditori ambulanti marocchini. «Storie come questa - dice Pap - le viviamo quotidianamente. Non sono tutti così i vigili - aggiunge - ma certi sono davvero razzisti, ci insultano e se riescono alzano anche le mani». I più esposti, concordano tutti, sono i ragazzi senza permesso di soggiorno. «E' difficile per loro - dice Mamadou - lavorare. Intanto non ti prendono neanche nei cantieri. E lo sai perché? Hai mai visto neri lavorare nei cantieri? Neri non ce ne sono ma lavoratori in nero sì, tanti. Ma i neri non li vogliono». Nelle fabbriche la situazione è diversa. «In fabbrica ti prendono - conferma Lamin - ma è più difficile entrare se non hai un permesso di soggiorno. Comunque io ho lavorato in una fabbrica vicino a Conegliano», dice mostrando la mano destra a cui mancano due dita. «Un ricordo dei sei mesi in fabbrica».
I ragazzi del bar abitano tutti a Mestre o nei paesetti vicini. «Affittiamo casa da italiani - dice Pap - viviamo in sei e paghiamo settecento euro al mese». Ufficialmente ad affittare sono in due, «solitamente i due con permesso di soggiorno - dice Burama - e comunque non è facile trovare chi affitta ai neri». Quanto al lavoro come ambulanti, per tutti è «l'unica cosa da fare, se vuoi sopravvivere. E non credere - dice Mamadou - che si guadagna. A noi danno una piccola percentuale sul venduto, il grosso se lo prendono i capi, quelli che ci danno la merce. Mi chiedo perché non vanno mai a beccare i capi. Se la prendono con noi ma nessuno va a toccare gli interessi di quelli che questa merce la mettono in giro».
 

 

Sudafrica, vorrei la pelle nera
L'Alta Corte riclassifica i cinesi come 'neri'
L'Alta Corte di Pretoria ha decretato che i sudafricani di origine cinese diventeranno 'neri'. Ciò che potrebbe suonare come una boutade è invece il risultato di una lunga battaglia condotta dalla comunità cinese per poter beneficiare delle stesse opportunità lavorative delle altre 'razze', secondo quanto prescritto dal Black Economic Empowerment (Bee).
 
Thabo Mbeki e Hu JintaoUguali opportunità. La legge fu emanata nel 1998 dal governo sudafricano per porre rimedio alle ineguaglianze dell'apartheid, dando a gruppi in precedenza svantaggiati (neri africani, razze miste, indiani) uguali opportunità economiche e sociali, prima fra tutte l'accesso al mondo del lavoro. Con la decisione del massimo tribunale sudafricano si chiude una campagna durata otto anni e guidata dell'Associazione cinese del sudafrica (Casa), che adesso può a buon diritto veder classificati i suoi membri come 'neri'. Prima del 1994, i cinesi sudafricani erano considerati come 'razza mista', ma nel Sudafrica del dopo-apartheid, il Bee non specificava se rientrassero nella categoria che poteva beneficiare della legge sulle razze svantaggiate.
 
Legge sulle uguali opportunitàDiscriminati. La tesi della Casa era che i circa 200 mila cinesi residenti in Sudafrica fossero costantemente discriminati , e che i suoi membri spesso non riuscivano a ottenere contratti commerciali, partecipazioni azioniarie e promozioni lavorative proprio a causa del fatto che molti li consideravano 'bianchi'. In un caso, citato all'Alta Corte, una compagnia petrolifera ha impedito al suo staff cinese di prendere parte a una grande operazione di consolidamento economico. In un altro, un cittadino cinese non ha potuto acquistare azioni alla Borsa di Johannesburg.
 
 
Uno slum a PretoriaUtopia. Paradossalmente la legge, con un eccesso di garantismo, appare a molti ancor più discriminatoria del passato, in quanto contraddice i principi di uguaglianza che l'hanno ispirata. I cittadini che cercano lavoro, indipendentemente dalla loro origine, sono obbligati a compilare un modulo scegliendo tra quattro possibilità: identità africana, bianca, indiana o mista. Nonostante questo, il riequilibrio delle condizioni di vita tra la minoranza bianca e maggioranza nera è ancora un'utopia. Quattordici anni dopo l'apartheid, un sudafricano bianco guadagna il 450 percento in più di un suo connazionale nero.

 

19 giugno

L'umanità negata
 

Valentino Parlato
 
Quaranta cadaveri e un centinaio di dispersi, che non troveremo mai, nel mare di Sicilia. Persone, esseri umani, che fuggono dai loro paesi, raggiungono la costa meridionale del Mediterraneo. È una storia di sterminio di massa che si ripete e continuerà. Di chi è la responsabilità di questa strage continua? Nostra, della nostra globalizzazione aperta a tutti i movimenti di capitali, ma chiusa - fino all'omicidio di massa - alle persone, a quelli che non riescono a vivere nei loro paesi e a rischio di morte tentano di sbarcare nel nostro mondo ricco e benestante. Magari solo per mendicare, ma in un paese ricco la mendicità può dare da vivere.
È una tragedia, ma essendo una tragedia di poveracci non diventa mai un nostro problema. Al massimo si cerca di eludere il problema con più vigilanza, con sbarramenti di motovedette e guardie.
Questi disperati migranti non c'erano un tempo o il fenomeno era meno rilevante. Oggi queste popolazioni sono più povere, alla disperazione, perché nei loro paesi la popolazione è cresciuta e perché le loro produzioni sono state distrutte dalla nostra crescita di produttività. Perché la nostra globalizzazione è stata quella dei paesi benestanti, quasi il club dei signori. E - va detto - nei nostri paesi benestanti la globalizzazione finanziaria e mercantile ha accresciuto il distacco tra poveri e ricchi. E i nostri poveri, quelli che lavorano a salario a tempo determinato, o in nero, temono l'arrivo di altri poveri, ancora più poveri e più disposti a lasciarsi sfruttare per un tozzo di pane.
Gli imperi coloniali non ci sono più, ma viene da dire che siamo andati al peggio. Non ci sono più le colonie, ma c'è la colonizzazione volontaria di tutti quelli che nei loro paesi non riescono più a vivere e tentano di farsi individualmente colonizzare nei nostri paesi ricchi.
Questi movimenti migratori sono diventati una costante tragica dei nostri tempi e quel che sorprende è che non ci sia nessuna iniziativa non dico democratica, ma almeno umanitaria. Pensiamo solo a rafforzare le frontiere e basta. Tacciono i governi, tacciono anche i partiti di opposizione e qui da noi tace anche la Chiesa cattolica, quelli che tentano di arrivare mica sono cristiani!
Questa tragedia degli emigranti - donne, bambini e uomini condannati ad affogare nel nostro bel Mediterraneo - non sembra toccare la sensibilità delle nostre società, dei nostri politici, dei nostri intellettuali. Un'insensibilità che segna il nostro grado di imbarbarimento.
 

Guantanamo Spaghetti

Un report accusa l'Italia di aver partecipato agli interrogatori nella prigione degli orrori

''Deposizioni non secretate, rilasciate da detenuti a Guantanamo residenti in Italia, indicano che gruppi di agenti italiani si sono recati a Guantanamo per interrogare prigionieri in almeno tre occasioni diverse. Queste visite hanno avuto luogo nei primi tre mesi dell'attività della prigione, cioè quando la tortura e i trattamenti crudeli, inumani e degradanti erano all'ordine del giorno''.
 
Il coinvolgimento dell'Italia. Questa l'accusa, supportata da testimonianze e verifiche, che Reprieve, un'organizzazione non governativa con sede a Londra che si occupa di assistenza legale alle persone coinvolte nella 'guerra al terrorismo' delle quali siano stati violati i diritti inalienabili, lancia all'Italia. In particolare sono sette i casi in esame, tutti di cittadini tunisini residenti in Italia all'epoca dell'arresto che gli è costata la detenzione a Guantanamo. Lofti bin Alì, Saleh Sassi, Adel Ben Mabrouk, Lofti bin Swei Lagha, Hedi Hamamy, Adel al-Hakeemy e Hisham Sliti.
Le responsabilità italiane nell'odissea di queste persone è diretta. Reprieve, infatti, dimostra come tutti loro sono stati catturati in Pakistan o in Afghanistan su informazioni, rivelatesi infondate, delle forze di polizia o d'intelligence italiane. Tutti e sette, adesso, sono stati scagionati da qualsiasi accusa e sono in sostanza liberi di tornare a casa. Ma qui sta il punto: la Tunisia, per unanime parere delle priincipali organizzazioni internazionali, è un Paese nel quale viene praticata sistematicamente la tortura. Non possono essere rispediti in patria dunque, dove nel frattempo (e sempre partendo dalla responsabilità oggettiva degli italiani) in contumacia sono stati condannati a pene dai dieci ai quaranta anni. Per non aver fatto nulla. Queste sette persone, dunque, si ritrovano in un limbo giuridico. Riconosciuti innocenti, non possono essere rimpatriati in Tunisia. L'unica soluzione sarebbe che l'Italia si facesse carico delle sue responsabilità e permettesse loro di tornare in Italia. Nonostante sia l'esecutivo Berlusconi che quello Prodi, come ricorda il report di Reprieve, si siano dichiarati contrari a Guantanamo, nessuno ha mosso un dito per queste persone, alcune delle quali erano in possesso di un regolare permesso di soggiorno in Italia, dove hanno ancora la famiglia, quando vennero arrestati.

Assunzione di responsabilità. Una storia assurda, che mostra come nell'inferno di Guantanamo l'Italia è coinvolta. Come detto, grazie a informazioni (infondate) dell'intelligence italiana è stato attribuito a tutti e sette i cittadini tunisini quello status di 'nemico combattente', obbrobrio giuridico che permetteva alle autorità statunitensi di rinchiudere i sospetti a Guantanamo senza garantire loro il rispetto degli elementari diritti umani. La responsabilità italiana non finisce qui. Durante la detenzione, in almeno tre occasioni, ufficiali dei Carabinieri, della Polizia e del Sismi (il servizio segreto militare italiano) si sono recati a Guantanamo per interrogare i sette tunisini. Le loro testimonianze concordano nel riferire che a tutti gli agenti italiani venne chiaramente detto quali erano le terribili condizioni di detenzione e quali le torture subite. Inoltre, in tutti e sette i casi (ma Reprieve ne può documentare più di 680 in totale), l'Italia ha concesso il diritto di sorvolo agli aerei statunitensi che dal Pakistan o dall'Afghanistan portavano i detenuti sospetti a Guantanamo. Violando ancora la legge. Esiste già un precedente, peraltro, di come la responsabilità italiana verso quello che è accaduto a cittadini stranieri residenti sul suo territorio sia dimostrata. La Corte Suprema del Canada, nei giorni scorsi, ha accolto il ricorso di un ex detenuto di Guantanamo, che chiedeva di veder riconosciuta la responsabilità del Paese nordamericano nel quale risiedeva per la sua ingiusta detenzione.
Il report di Reprieve, nelle conclusioni, chiede all'Italia di mettere a disposizione degli avvocati difensori dei detenuti tutte le informazioni in suo possesso per preparare un'adeguata difesa dei loro assistiti, di proteggere queste persone che risiedevano in Italia, evitandogli il ritorno in Tunisia dove verrebbero torturati, e di favorire il ricongiungimento con le loro famiglie residenti in Italia.
Il documento non aggiunge che, dopo tutto, è il minimo che l'Italia possa fare per questi sette innocenti.
 

La terra promessa
 

Militari a go go
 
Il governo aumenta di 500 unità il contingente di soldati da utilizzare in funzione di ordine pubblico. È quanto prevede un emendamento al decreto sulla sicurezza. Intanto l'eurocommissario alla Giustizia Jacques Barrot critica l'aggravante di clandestinità
 
Carlo Lania
 
ROMA
 
L'aggravante di clandestinità, prevista dal governo italiano nel decreto sicurezza, non piace al parlamento europeo, tanto da provocare le critiche del commissario alla Giustizia Jacques Barrot. Intanto un emendamento allo stesso decreto, presentato ieri da palazzo Chigi, aumenta da 2.500 a 3.000 il numero dei soldati che verranno impegnati in operazioni di ordine pubblico. Le 500 unità in più, perlopiù carabinieri attualmente in servizio presso il ministero della Difesa, si spiegano con un aumento dei compiti ai quali dovranno far fronte: oltre a pattugliare le strade, i militari verranno infatti utilizzati anche per la vigilanza di siti considerati a rischio di attentati. E ieri lo stesso ministro della Difesa Ignazio La Russa si è recato al Quirinale per illustrare l'emendamento al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che avrebbe chiesto al governo di garantire sul testo la più ampia discussione parlamentare.
Strasburgo. L'aggravante di clandestinità - dice Barrot rispondendo a una domanda dell'europarlamentare del Prc Giusto Catania - «è contraria al diritto europeo». «Non è possibile - prosegue - aggravare una pena in presenza delle condizioni di immigrazione illegale: è contrario al diritto europeo». Un giudizio netto, che Barrot esprime parlando all'Europarlamento e sul quale torna anche più tardi, ragionando sulle differenze di applicazione tra cittadini europei e non. «L'applicazione di tale principio di aggravante per delitti commessi d cittadini dell'Unione - spiega - sarebbe infatti contraria al principio di non discriminazione e di proporzionalità. Per quanto riguarda i cittadini non europei, - prosegue Barrot - l'introduzione di un'aggravante di pena legata alla clandestinità dovrebbe essere oggetto di un esame approfondito alla luce dei diritti fondamentali». Niente però, prosegue il commissario alla Giustizia, impedisce «che alla pena inflitta a causa di un reato venga aggiunta un'altra pena distinta, inflitta a causa della presenza illegale sul territorio di uno stato straniero».
Barrot sa che in alcuni paesi dell'Ue la clandestinità è già considerata un reato e per questo sta bene attento a sottolineare come ad essere messa in dubbio è la possibilità - prevista nel decreto legge del governo Berlusconi - di aumentare la pena fino a un terzo se a commettere un reato è un clandestino.
I soldati. Sulla possibilità di utilizzare i soldato per compiti d ordine pubblico, il governo ha deciso di proseguire sulla strada del decreto legge. L'impiego dei militari è infatti inserito in un emendamento al decreto sulla sicurezza in discussione al Senato e che tra l'altro aumenta da 2.500 a 3.000 il numero dei soldati che Viminale e ministero della Difesa potranno utilizzare ogni volta individueranno «un'emergenza sicurezza». L'esperimento, come lo ha chiamato La Russa, durerà sei mesi e sarà rinnovabile solo una volta.
Una novità di cui La Russa ieri ha parlato con il presidente della Repubblica, che nei giorni scorsi avrebbe espresso più di una perplessità sulla misura, vista l'assenza dei requisiti di urgenza previsti per il decreto. Le perplessità del Colle, però, sarebbero cadute di fronte alla decisione di introdurre l'uso dei militari attraverso un emendamento, sottoposto alla discussione delle Camere. Se Napolitano manterrà i suoi dubbi, a questo punto potrà esprimerli solo in fase di controfirma del provvedimento, quando dovrà giudicarne il rispetto formale a quanto previsto dalla Costituzione.
La Russa, e con lui An - che sulla sicurezza hanno impostato tutta la campagna elettorale - portano quindi a casa un risultato che farà piacere al proprio elettorato. A scapito della Lega che avrebbe preferito dare il via libera ai soldati con un emendamento al disegno di legge e non al decreto sulla sicurezza. Proprio su questo punto sarebbe stato risolto in un incontro a quattr'occhi avvenuto ieri tra La Russa e il collega degli Interni Maroni.
Le nuove unità da impiegare in compiti di supporto alle forze dell'ordine - ha spiegato La Russa - saranno scelte «preferibilmente tra i carabinieri già impiegati in compiti militari o tra i volontari delle forze armate» già addestrati ai nuovi compiti. Ma, ha proseguito il ministro «potremmo utilizzare anche i carabinieri del Tuscania e quelli impegnati nel turn over delle missioni militari all'estero». Non è neanche escluso comunque che il governo possa attingere tra chi tra le forze armate - e sarebbero migliaia - ha già superato il concordo per entrare a far parte di polizia, carabinieri e Guardia di finanza e per vari motivi non è ancora stato immesso in ruolo.
Sempre La Russa ieri ha illustrato l'emendamento anche ai ministri ombra del Pd Fassino e Pinotti (rispettivamente Esteri e Difesa), senza però convincere l'opposizione. Domani il decreto potrebbe essere votato dall'aula del Senato.

 

17 giugno

Cessate il fuoco

Il bollettino settimanale delle guerre e dei conflitti in corso n. 22 - 2008 dal 06/06/2008 al 12/06/2008

Nell'ultima settimana, in tutti i Paesi in guerra, sono morte almeno 735 persone
 
Iraq
Nell'ultima settimana sono morte almeno 163 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 7.037

 
Israele e Palestina
Nell'ultima settimana sono morte almeno 13 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 358

 
Algeria
Nell'ultima settimana sono morte almeno 11 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 111
 
Sri Lanka
Nell'ultima settimana sono morte almeno 141 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 4.573

 
Afghanistan
Nell'ultima settimana sono morte almeno 111 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 1.882

 
Pakistan talebani
Nell'ultima settimana sono morte almeno 22 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 1.230

 
Nord Caucaso
Nell'ultima settimana sono morte almeno 15 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 248

 
India Nord-est
Nell'ultima settimana sono morte almeno 39 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 281

 
India Naxaliti
Nell'ultima settimana sono morte almeno 14 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 279

 
India Kashmir
Nell'ultima settimana sono morte almeno 1 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 204

 
Thailandia del sud
Nell'ultima settimana sono morte almeno 13 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 178

 
Filippine Npa
Nell'ultima settimana sono morte almeno 10 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 102

 
Filippine Abu Sayyaf
Nell'ultima settimana è morta almeno 1 persona
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 64

 
Bangladesh
Nell'ultima settimana sono morte almeno 3 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 19
 
Etiopia
Nell'ultima settimana sono morte almeno 2 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 60

 
Sudan
Nell'ultima settimana sono morte almeno 20 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 697

 
Somalia
Nell'ultima settimana sono morte almeno 100 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 633

 
Rep. Dem. Congo
Nell'ultima settimana sono morte almeno 9 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 236

 
Gibuti
Nell'ultima settimana sono morte almeno 2 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 2

 
Mali
Nell'ultima settimana sono morte almeno 20 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 60

 
Repubblica Centrafricana
Nell'ultima settimana sono morte almeno 19 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 46
 
Turchia
Nell'ultima settimana sono morte almeno 4 persone.
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 341

Colombia
Nell'ultima settimana sono morte almeno 2 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 126
 
  

Centosessantadue milioni di bambini costretti al lavoro

162 milioni di bambini sono costretti a lavorare. Queste le cifre diffuse nella Giornata mondiale contro il lavoro minorile
Centosessantadue milioni. Bambini, dai cinque anni, e adolescenti, fino ai quattordici. Sono le cifre drammatiche diffuse nella Giornata mondiale contro il lavoro minorile: ogni anno l'International Labour Organization (ILO) redige il rapporto con i dati raccolti in tutto il pianeta. L'onlus Save the Children ha diffuso un comunicato stampa in cui Fosca Nomis, responsabile dell'associazione, commenta il rapporto. La situazione è in leggero miglioramento e rispetto al 2002 si registra una diminuzione sensibile del fenomeno, soprattutto nel settore dei "lavori pericolosi" dove questo calo si quantifica in un 26%. Il 70% del lavoro minorile avviene nell'agricoltura, dove si rimane esposti all'inalazione di pesticidi. In una situazione più grave, se possibile, si trovano i bambini che vivono in riduzione di schiavitù: parliamo dei circa sei milioni di  forzati al lavoro per l'estinzione di un debito, dei due milioni coinvolti nel giro della pornografia e prostituzione, di un milione di bambini rapiti o venduti, dei 250.000 impiegati come bambini-soldato e infine di bambini rapiti per l'espianto e traffico di organi.
La causa principale è da ricercarsi nella estrema povertà e nelle politiche del mercato del lavoro imposto dalle grandi aziende: per l'ILO l'unico deterrente contro il lavoro minorile è la scolarizzazione, la prima grande vittima dello sfruttamento minorile. Non è solo Africa, Asia e America Latina: il fenomeno ora riguarda anche l'Europa. Quella dell'Est. PeaceReporter ha raccolto alcune storie e situazioni dalla complessa mappa dello sfruttamento globale dei minori.

mani che sorreggono il mondoAlbania. Sono più di 40mila i bambini-lavoratori in Albania che vengono sottratti alla scuola. A denunciare la piaga di un Paese che ancora stenta a rialzarsi dall'oscurantismo di una dittatura comunista, è un'associazione di insegnanti che invitano a mantenere alta l'attenzione sul problema e che non si esaurisca nella sola giornata di oggi. "Il problema è legato alle aziende di vestiario e di calzature che subappaltano e delocalizzano per risparmiare sulla manodopera", si legge nel rapporto redatto per la Giornata mondiale contro il lavoro minorile, che stigmatizza il comportamento delle multinazionali accusate di imporre prezzi bassissimi alle ditte albanesi costringendo queste ultime all'impiego dei bambini. Poi c'è il traffico di bambini albanesi: nello scorso anno ne sono scomparsi duemila e il terribile sospetto è che vengano portati in Grecia e sottoposti a interventi chirurgici per l'espianto di organi, oppure destinati all'industria dell'accattonaggio.

Brasile. “Sono nato e cresciuto nel Sertão, con i raggi inclementi del sole che mi colpivano le spalle. Ho visto tante infanzie perdute, forse di geni o artisti assassinati nella loro innocenza per ogni giorno di lavoro senza fine. Non sono mai riuscito a cancellare dai miei occhi la tristezza che ho provato in gioventù. Da adulto ho deciso di fotografare tutto”. Queste parole, pronunciate dal famoso fotografo brasiliano Sergio Pedreira, inquadrano appieno la tragedia che accomuna milioni di bambini lavoratori nel mondo, 600mila nel solo Brasile. Nato nel Nordeste, la regione più povera e arida del gigante sudamericano, ha scelto di non dimenticare e di lottare contro questa grande ingiustizia, che piega l'infanzia di troppi minori, schiavizzati e sfruttati. La sua lotta è chiara, la sua volontà è di informare il mondo sulle condizioni di lavoro dei piccoli, affinché questa realtà cambi.

Ecuador. “Io sono l'ottavo di dieci fratelli. Cinque maschi e cinque femmine. La mia famiglia vive sulle Ande, io qua, in una stanza con altri sei miei coetanei. E di giorno lustro le scarpe alla gente di Quito. È l'unica maniera per tirare avanti e per aiutare mia madre”. Questa storia ce la racconta Jorge, ecuadoriano delle Ande. Ha otto anni e da due passa l'intera settimana lontano migliaia di chilometri dalla sua famiglia, lavorando. Ha occhi neri lucenti, la faccia tonda e sorridente, e una pelle olivastra sporca del grasso che usa per pulire le scarpe dei passanti. “Cerco di risparmiare tutto quello che incasso – spiega – ma non è semplice. Per fortuna qui in città ci sono molte associazioni umanitarie che mi ospitano per il pranzo e la cena, così almeno quelli non devo spenderli. Stare lontano dai miei all'inizio è stata dura. Quell'amaro groppo in gola pensavo non mi dovesse abbandonare mai più. Ma adesso mi son fatto un po' di amici, ho i miei punti di riferimento e qualche volta qualcuno mi tratta pure bene. Non mi lamento insomma”. E la scuola? “Non ho tempo di andarci. Ci sono dei corsi che le Ong organizzano per noi la sera. Ma molto spesso sono talmente stanco che a fatica tengo il cucchiaio per mangiare la zuppa di Casa Italia”.

Bolivia. “Signore, fazzoletti? Arachidi? Costano solo pochi soldi”.  Juan è giovane e fisicamente minuto. Cammina per le strade di La Paz, capitale della Bolivia, con la speranza di vendere qualcosa e portare denaro frusciante a casa. Non è sfruttato da feroci criminali che del lavoro minorile fanno una bandiera, ma non importa. A quell'età, non supera i 7 anni, non si dovrebbe lavorare, nemmeno per aiutare in famiglia. Ma la realtà di alcune nazioni, coma le povera Bolivia, impone una vita di sacrifici. Scalzo e con gli abiti maleodoranti, Juan se la ride a vedere che c'è ancora gente interessata alla sua storia, uguale a quella di tanti altri bambini boliviani. “Non vado a scuola. Spero, però, di poterci andare un giorno. Abito lontano da La Paz e vivo con sei fratelli, mia mamma e mio papà. In casa, a parte le mie sorelle, lavoriamo tutti. Sono felice perché qualche turista mi lascia soldi in cambio di nulla. Io li metto in tasca e li porto alla mamma che li usa per comprare da mangiare. Non mi vergogno di quello che faccio. Mio papà dice che si deve fare, se si vuole mangiare. Da grande vorrei guadagnare tanti soldi e regalare alla mia famiglia una casa con il bagno nuovo”. 

Centro America. I bambini che lavorano, molto spesso, vanno a scuola al mattino, mentre al pomeriggio finiscono per alimentare il mercato del lavoro minorile. Ne sanno qualcosa a Panama dove le cifre ufficiali raccontano che nel Paese sarebbero più di 9mila i lavoratori (molti nelle case dei benestanti) sotto i 18 anni. Spesso, troppo spesso, i lavori a cui sono costretti bambini e adolescenti sono degradanti e pericolosi, e il regime di schiavitù a cui sono sottoposti è normalità. In Salvador, secondo alcune stime, sarebbero quasi 15mila i minori sfruttati. In Honduras oltre 20mila. In Nicaragua quasi 18mila e nella ricca Costa Rica poco meno di 13mila.
Stella Spinelli
Alessandro Grandi Nicola  Sessa
 
Fosse comuni scoperte per denaro
Gente senza scrupoli vende informazioni su fosse comuni ai familiari delle vittime
Per più di un decennio, il bosniaco Edo Ramulic ha cercato tracce del corpo di suo fratello e di altri familiari uccisi dalle forze militari serbe nel 1992 nella città di Prijedor, a nord ovest della Bosnia.
 
Un anno fa, un ragazzo gli ha offerto delle informazioni su una fossa comune nella quale sosteneva fossero sepolti trenta cadaveri di persone uccise a Prijedor, tra cui il fratello di Ramulic. Ma la soffiata aveva un prezzo molto alto.
''Voleva 10mila euro per quell’informazione'', ha detto Ramulic, ''gli ho detto che avrei provato a trovare i soldi, ma non mi ha più ricontattato''.
Ramulic non era affatto sorpreso nel ricevere una richiesta di ricompensa per avere informazioni sulla posizione di una fossa comune: ''È una pratica diffusa, in Bosnia''.
Aggiunge che è appena stata trovata una fossa comune con quaranta bosniaci uccisi vicino alla città di Bosanski Novi, nella regione di Prijedor, dopo che un uomo aveva richiesto un favore alle autorità per rivelare dove fosse il posto.
''L’uomo che ha fornito alle autorità bosniache le informazioni su questa fossa comune ha voluto in cambio la riparazione del tetto di casa, e la sua richiesta è stata soddisfatta'', dice Ramulic.
 
Le autorità bosniache sostengono che ci sono persone che vendono e comprano informazioni sui luoghi di sepoltura già dall'inizio della guerra del 1992-1995, e si può fare ben poco per fermarli.
''Poco dopo lo scoppio della guerra nel 1992, c'erano già individui che cercavano di fare soldi fornendo informazioni sui luoghi di prigionia di militari e civili'', dice Amor Masovic, ex presidente della Commissione Federale sulle persone scomparse, ''questa pratica è continuata dopo la guerra, solo che adesso gli informatori vendono soffiate sui luoghi di sepoltura di singole persone o sulle fosse comuni''. Dice che molte persone di tutti i gruppi etnici hanno contattato la Commissione cercando di vendere informazioni sulle fosse comuni, ''persino gente della stessa nazionalità di chi era sepolto nella fossa comune ha chiesto soldi per rivelare le informazioni''. Masovic sospetta addirittura che alcune di queste persone siano state coinvolte direttamente nella sepoltura dei corpi.
''Lo si può capire dalla conoscenza dei dettagli che hanno del posto''.
 
Altri informatori sembrano avere conoscenza solo di seconda o terza mano delle fosse comuni.
Secondo Masovic, gli informatori chiedono somme diverse per una soffiata, da pochi euro fino a un milione di euro.
''Alcuni hanno fatto richieste che non comprendevano i soldi: per esempio aiuto nell'ottenimento di un passaporto, di un visto o l'asilo politico all'estero. In un solo caso, l'informatore ha chiesto un milione di euro di ricompensa'', dice Masovic. ''Anche se non abbiamo né gli strumenti né i fondi per rispondere a queste richieste, in più di un'occasione, alcuni membri del mio staff hanno organizzato delle collette interne per ottenere queste informazioni sulle fosse comuni''.
Ramulic crede che nascondere informazioni sui crimini di guerra – incluso le informazioni sulle fosse comuni – sia esso stesso un crimine. Secondo lui chi rivela queste informazioni facendosi pagare dovrebbe essere punito, non ricompensato.
Comunque, molte famiglie di persone scomparse credono che questo sia l’unico modo per ritrovare i loro congiunti.
''Le famiglie delle vittime hanno bisogno di mettere la parola fine alle loro ricerche. È per questo che sono pronti a percorrere grandi distanze per trovare finalmente i corpi dei loro congiunti'', dice Seida Karabasic dell’Associazione Vittime di Prijedor.
''Sappiamo che, sfortunatamente, alcuni di loro hanno già pagato centinaia di euro per ogni corpo ritrovato, ma la nostra associazione non è mai stata coinvolta in questo genere di cose''.
Karabasic fa notare che le informazioni offerte, in diversi casi, hanno dimostrato di essere molto accurate e che i “venditori” sembravano essere della zona in cui i crimini sono stati commessi, infatti “conoscono bene la zona e possono identificare le vittime con nome e cognome”.

 
Le autorità della Repubblica Serba di Bosnia riportano le stesse problematiche in tema di fosse comuni.
Milan Bogdanic, ex presidente della Commissione della Repubblica Serba sulle Persone Scomparse, ritiene molto probabile che il commercio di informazioni sulle fosse comuni prosegua, finché numerose persone continueranno a rifiutarsi di diffondere volontariamente questa conoscenza. ''Sono poche le persone informate che ci forniranno informazioni per pura compassione o per liberare le loro coscienze. Mentre molte di quelle che potrebbero aiutarci a individuare i luoghi delle fosse hanno paura di essere implicati nei crimini commessi: è per questo che esitano a farsi avanti'', dice Bogdanic, ''questa è la ragione per cui vorremmo regolare la materia per legge e vorremmo anche che le istituzioni governative fossero maggiormente coinvolte nel processo, ma non tutte le famiglie delle vittime sono d'accordo su questo''.

 
Zana Kovacevic*
 
 
Chiusi a chiave
A Guantanamo due terzi dei detenuti sono a rischio di problemi mentali, sostiene Hrw
 
Detenuti senza un'accusa, senza un processo in vista, subendo abusi fisici e psicologici. Le condizioni nelle quali vengono tenuti prigionieri i “nemici combattenti” di Guantanamo sono state descritte nel dettaglio per sei anni, da quando il campo di detenzione nella base statunitense a Cuba ha iniziato ad accogliere presunti terroristi islamici. Ma ora, grazie a un nuovo rapporto di Human Rights Watch, emerge anche che oltre due terzi dei detenuti di Guantanamo sono a serio rischio di problemi mentali, perché tenuti prigionieri in condizioni disumane.
 
Il rapporto. L'organizzazione per i diritti umani sostiene che 185 detenuti sui 270 rimasti (erano oltre 700 all'inizio) sono costretti a vivere in celle piccole e isolate per 22 ore al giorno, senza aria fresca o luce naturale, e trascorrono le due ore di ricreazione da soli, spesso nel cuore della notte. Molti di loro non hanno mai potuto ricevere le visite dei familiari – cosa che viene permessa nelle prigioni di massima sicurezza negli Usa – e pochi hanno avuto la possibilità di chiamare a casa. Depressione e disturbi dovuti all'ansia, si legge nel rapporto, sono comuni.
 
Promesse. Secondo Hrw, alcuni ufficiali di Guantanamo hanno affermato di voler aumentare le ore d'aria dei detenuti, permettendo loro di incontrarsi, ma l'eventuale introduzione di questi miglioramenti non è stata ancora programmata con date certe. Il Pentagono aveva promesso da tempo che avrebbe permesso ai detenuti di telefonare a casa, ma per Hrw i prigionieri che hanno potuto chiamare i familiari sono meno di un quarto. Mentre sono aperti casi giudiziari per 19 detenuti, seppur di fronte ai tribunali militari istituiti dall'amministrazione Bush, un processo vero e proprio ancora non si è tenuto.
 
Il prossimo presidente. D'altronde, è improbabile che a breve qualcosa cambi davvero, a Guantanamo. Uno dei simboli dell'era Bush, il centro di detenzione per “nemici combattenti” in tempi di guerra al terrorismo dovrà probabilmente aspettare un nuovo presidente per vedere novità sostanziali. Sia Barack Obama sia John McCain hanno detto di volerlo chiudere. Il candidato repubblicano, che ha passato cinque anni e mezzo da prigioniero di guerra in Vietnam e ha subito torture, si è sempre battuto da senatore contro gli interrogatori che comportavano abusi ai sospetti terroristi. E Obama, il mese scorso, ha promesso di “fissare gli standard più alti nel mondo in materia di diritti umani e rispetto della legge, chiudendo Guantanamo e ripristinando l'habeas corpus”.

 
Complicazioni. Ma lasciarsi alle spalle il campo di prigionia più famoso del mondo potrebbe rivelarsi più difficile del previsto. Tre settimane fa il segretario alla Difesa Robert Gates, che sostiene di voler chiudere Guantanamo, ha spiegato davanti al Senato quanti problemi pratici sollevi questo tentativo. “La risposta franca e brutale è che siamo bloccati, e in vari modi”, ha detto il numero uno del Pentagono. Il problema principale è rappresentato, in particolare, da una settantina di detenuti che non vogliono essere presi in consegna dai loro Stati, o che potrebbero ritornare in libertà se rimandati in patria. Anche perché chi esce da Guantanamo può mostrarsi tutt'altro che pentito, come dimostra un attentato compiuto il mese scorso a Mosul da un ex detenuto.

 

Ici, la pagano 70 mila case di lusso. Gara a occultare le dimore signorili

di ALDO FONTANAROSA e ROSA SERRANO

ROMA - Un Paese antico e bellissimo, città meravigliose, centri storici mozzafiato. A guardarle bene, molte case di questa nostra Italia sono grandi, attrezzate, con vista sul meraviglioso. Se però controlli quante abitazioni siano classificate come "signorili" dai nostri Catasti e quante come ville, i numeri sono bassi. Anzi ridicoli e inattendibili. L'Italia ha 30 milioni 115.000 case, in tutto. Di queste appena 35 mila 751 sono accatastate come signorili (lo 0,11 percento) e 33 mila 870 come ville. Roma avrebbe 2 mila 124 abitazioni di pregio. Milano, un migliaio. A Genova ci sarebbero più case belle di quante a Roma e Milano messe insieme, e mille più che a Firenze.

Questi numeri vanno letti alla luce della riforma Ici che il governo Berlusconi ha approvato. Il provvedimento prevede che la tassa (la cui prima rata va in scadenza proprio oggi) debba essere versata solo dai proprietari di seconde case e da tutte le abitazioni e signorili. In base ai dati catastali, pagheranno l'Ici poco più di 70 mila ricchi (2360 occupano castelli o interi palazzetti artistici). Mentre centinaia di migliaia di altri ultrabenestanti la faranno franca neanche vivessero nell'ultima delle periferie. Le loro meravigliose abitazioni sono classificate per lo più come "civili". E non è affatto raro che il Catasto le consideri popolari o "ultrapopolari". A Torino, deliziose villette della precollina - con verde e posti auto - sono nella stessa categoria (A4) delle grigie dimore dei pensionati.

Ora che perdono milioni e milioni di entrate, effetto della riforma Berlusconi, i sindaci accelerano sulla riforma degli accatastamenti, tentata invano da anni. Il Comune di Torino, che fino alla riforma del centrodestra incassava 98,4 milioni dall'Ici, ha aperto il dossier. E così farà anche Milano. Fin dal 2005, il Comune di Milano si è accorto che le case del quartiere ticinese o di Porta Genova non rispondevano più all'immagine desolante che ne davano certi film del Dopoguerra, senza ascensori e bagno. Robuste e lussuose ristrutturazioni ne hanno cambiato il volto e il valore. Per questo, la commissione tributaria ha deciso spesso delle misure tampone aumentandone la rendita catastale. Ora l'amministrazione ne medita il passaggio dalla categoria A5 ("ultrapopolare", proprio così) quantomeno alla A3 ("economico").

Entro oggi, dunque, bisognerà pagare la prima rata dell'Ici (sulla base della tassazione 2007) oppure l'intero importo (sulla base della tassazione 2008).

Piccola guida. I contribuenti usufruiranno anche quest'anno della detrazione di 103,29 euro. Versano la prima rata - oltre ai 70 mila ricchi - i proprietari di seconde case, di appartamenti affittati ad altri oppure sfitti, di terreni agricoli e di aree fabbricabili. Non paga chi possiede un'abitazione assimilata alla prima casa da un regolamento comunale entrato in vigore prima del 29 maggio 2008: il beneficio interessa dunque gli immobili concessi in uso gratuito a parenti; e gli immobili di anziani o disabili residenti in istituti di ricovero. Condizione è che siano di proprietà o in usufrutto, e che non risultino affittati.

 

Inferno notte

di Riccardo Bocca

Da Torino a Bari, da Padova a Napoli. In viaggio sulle Volanti della polizia. Tra insicurezza e impunità, esasperazione e ferocia, violenza e droga. Mentre l'immigrazione crea allarme anche nei centri di provincia. E il lavoro delle forze dell'ordine procede tra ostacoli e sfiducia

Torino, "Tossic Park"

Quello che rantola a quattro zampe nel fango non è più un uomo. È un ammasso di stracci fradici che lotta per non morire. Piove come non pioveva da anni, a Torino. Sono le quattro di notte del 29 maggio. Valanghe di acqua gonfiano il Po e la Dora. La città è occupata dalla Protezione civile. Giornali e televisioni hanno lanciato l'allarme esondazione, ma l'eroinomane che striscia tra le siringhe usate non si accorge di niente. Piange a testa bassa; trema carponi puntando i pugni contro la terra zuppa. Biascica con la voce roca di essere brasiliano, di venire da Belo Horizonte. Dice di essersi infilato in vena roba tagliata con chissà cosa: "Faccio schifo!", urla. "Andate via!". Poi torna a piangere, a singhiozzare, nell'indifferenza degli altri disperati. Fusi come lui, cadaveri come lui: ma non per questo amici.

"Siamo al famoso parco Stura, quello che chiamano Tossic Park", dice un agente di Polizia. È appena sceso dalla Volante e punta la torcia su questo immenso outlet dello spaccio. La scena è lugubre. Decine di fantasmi vagano sui sentieri impantanati in cerca di cocaina ed eroina. Una dose costa cinque, massimo dieci euro. La vendono branchi di spacciatori neri, spesso nigeriani, padroni arroganti del territorio. A chi disturba lanciano insulti, pietre. Coltelli e liti sono abitudini, il resto è disperazione diffusa. Dei tossici, in fila ventiquattr'ore su ventiquattro per la dose. Ma anche dei residenti, che oppongono sbarre e cancellate all'invasione delle palazzine. "Siamo il simbolo dello sfascio", si lamenta un signore in pigiama e ombrello: "Abbiamo fatto il pieno di extracomunitari. Tossici e pusher ci assediano, ogni notte scende il terrore. Questo è un Paese che sta perdendo la sua dignità!".

Non è soltanto rabbia, lo sfogo di un momento. È la frontiera estrema di un'esasperazione collettiva. Un sentimento insidioso che si è diffuso nell'Italia del 2008. Per viverlo in presa diretta, abbiamo chiesto al ministero dell'Interno di salire la notte sulle Volanti della Polizia. Da Torino a Napoli, da Milano a Rimini, da Padova a Bari. Un modo per affrontare quella che politica e mass media hanno battezzato 'emergenza sicurezza'. Uno slogan legato solo in parte all'ultimo rapporto sulla criminalità del Viminale. Veri sono i 330 reati commessi ogni ora nel 2007, circa 143 mila in più rispetto al 2006. Innegabili sono i furti in casa aumentati del 17,2 per cento. Gli scippi saliti del 6,4. Le rapine cresciute dell'1,4, il più 9 per cento dei denunciati e il più 11,4 degli arrestati. Ma altrettanto vero è che, rispetto al 2006, il rapporto complessivo tra reati e cittadini è salito appena di un paio di decimi. Dunque, concordano i sociologi, non è il numero dei delitti a scatenare la grande allerta nazionale, quanto l'incapacità di risolvere i problemi sottintesi. Dal flusso dei clandestini alla violenza sulle donne, dalla questione rom alla micro criminalità. Propellente ideale per ronde e giustizia fai-da-te. 'BASTA!', hanno scritto su un muretto a Tossic Park. "E li capisco", dice un ispettore della Polizia: "Anche noi siamo stanchi. È uno spettacolo mesto, quello che vediamo dal tramonto all'alba. Non solo per clandestini e tossici. Il sistema sociale è al collasso e vengono travolti tutti, italiani e non".

Adesso c'è 'Gomorra', che vince il Gran Premio della Giuria a un festival snob qual è Cannes, e ancor prima di vincerlo ha già guadagnato in una settimana 5 milioni di euro, occupato 400 sale, raggiunto la cima dei Top Ten, morde ai fianchi il number one, che oltretutto è un colosso come 'Indiana Jones', e fa sperare a produttori e distributori di chiudere con oltre 10 milioni. Ora ecco in sala il 'Divo', che arriva dalla Croisette con analoga corona d'alloro, 350 copie in Italia, già venduto in Inghilterra, Grecia, Olanda, Belgio. E in Francia a un superdistributore come Studio Canal.
Da Torino a Napoli, da Milano a Rimini, da Padova a Bari. Un modo per affrontare quella che politica e mass media hanno battezzato 'emergenza sicurezza'. Uno slogan legato solo in parte all'ultimo rapporto sulla criminalità del Viminale. Veri sono i 330 reati commessi ogni ora nel 2007, circa 143 mila in più rispetto al 2006. Innegabili sono i furti in casa aumentati del 17,2 per cento. Gli scippi saliti del 6,4. Le rapine cresciute dell'1,4, il più 9 per cento dei denunciati e il più 11,4 degli arrestati. Ma altrettanto vero è che, rispetto al 2006, il rapporto complessivo tra reati e cittadini è salito appena di un paio di decimi. Dunque, concordano i sociologi, non è il numero dei delitti a scatenare la grande allerta nazionale, quanto l'incapacità di risolvere i problemi sottintesi. Dal flusso dei clandestini alla violenza sulle donne, dalla questione rom alla micro criminalità. Propellente ideale per ronde e giustizia fai-da-te. 'BASTA!', hanno scritto su un muretto a Tossic Park. "E li capisco", dice un ispettore della Polizia: "Anche noi siamo stanchi. È uno spettacolo mesto, quello che vediamo dal tramonto all'alba. Non solo per clandestini e tossici. Il sistema sociale è al collasso e vengono travolti tutti, italiani e non".

 

Da Tossic Park alle botte selvagge

Basta poco, per verificarlo. Basta aspettare l'una di notte, quando sotto il diluvio parte l'ennesimo allarme dalla radio sulla Volante. C'è da correre al quartiere San Donato, vicino al parco della Pellerina. Qui, a marzo, è stata trovata morta una prostituta nigeriana in una cabina dell'Enel. Stavolta è in corso una lite violenta tra italiani, al primo piano di un vecchio condominio. Un uomo sta massacrando di botte una donna. Non smette neanche quando in strada arrivano le sirene della Polizia. "Non me ne frega un cazzo!", urla: "Mi faccio trent'anni di galera ma ti infilo una coltellata!". C'è solo una cosa da fare: un agente si precipita per le scale e preme il campanello. "Aiuto!", strilla la donna, "vi prego, salvatemi...". "Sì, sì!", urla anche l'uomo, "fai entrare chi ti pare! Non c'è problema! Falli entrare che io ti sfondo lo stesso!".

Un istante dopo, la porta si spalanca e la violenza tracima. L'uomo, un ragazzo sulla trentina con un fisico poderoso, cerca di colpire il poliziotto. I due lottano nel minuscolo bilocale. Cercano di annullarsi nell'indifferenza di un vecchio Lassie accucciato. Finché l'agente ha la meglio: immobilizza il ragazzo e riesce ad ammanettarlo. Ma non è finita. Dopo le botte, c'è il penoso secondo atto. La donna, ultraquarantenne, difende il ragazzo che l'ha distrutta. Dice che è una brava persona, che ha perso il lavoro e deve mantenere una figlia di 12 anni. Non contano i lividi che le hanno trasformato occhi e braccia in gonfiori violacei. Non conta il labbro spaccato e tantomeno il fatto che la stessa persona l'abbia già pestata tempo prima. Archiviato il pericolo, prevale il timore della solitudine. L'angoscia di perdere l'amico con cui beve per dimenticare i problemi. A dire il vero non vorrebbe neppure essere visitata, la signora, ma i poliziotti insistono: la convincono a farsi medicare e la prognosi è di otto giorni.

"Non è un caso isolato", assicurano gli agenti. È la prassi. Ogni notte, o quasi, a Torino scoppia la crisi domestica. Le frustrazioni del giorno diventano mani addosso, minacce. Le frustrazioni dei poliziotti, invece, sono altre. Le stesse del loro capo, Antonio Manganelli, che ha denunciato l'assoluta incertezza della pena, l'impossibilità della Polizia di lavorare in simili condizioni. Loro annuiscono: "È vero: spesso arrestiamo le stesse persone. Entrano ed escono, rientrano e riescono. Un andazzo che si moltiplica nel caso dei clandestini". I pregiudizi non c'entrano. C'entra quanto succede poco dopo, quando parte un blitz verso Porta Palazzo, centrale critica dello spaccio. Un cittadino italiano ha segnalato pusher neri che urlano con i clienti. È esasperato, vuole che si intervenga e viene accontentato. Quattro Volanti si avvicinano alla strada segnalata. Strisciano sotto la pioggia senza sirene per non essere individuate dalle sentinelle dei clan. Poi si buttano a tenaglia sopra al marciapiede. Fermano due presunti spacciatori africani senza documenti. Un altro scavalca il muro della ferrovia e svanisce nel buio.

Ma è già abbastanza, per gli italiani che abitano in zona. Si affacciano alle finestre e accennano un ok con la mano. "A volte applaudono pure", racconta un poliziotto. Eppure è triste, la scena. Ed è una vittoria fragile, quella di stanotte come di tante altre notti. Alla vista della Polizia, infatti, i pusher inghiottono la droga. Dopodiché, in Centrale, sfoggiano il loro pezzo forte: i polpastrelli cancellati con l'acido. La garanzia dell'anonimato, un trampolino verso la libertà.

 

La rivolta di via della Bussola

A fine turno, sono le sette, gli agenti torinesi smontano. "Noi cerchiamo di fare bene il nostro mestiere", si congedano: "Il resto tocca ad altri...". Le stesse parole che ripetono tutti i poliziotti delle Volanti. Una specie di mantra per non mollare. Un tentativo di sdrammatizzare, di continuare a rischiare con la stessa voglia. Persino a Napoli è così, dove il degrado ha il sapore del non ritorno, della condizione definitiva. Qui la parola emergenza si è logorata, a furia di essere spesa. È in grande spolvero l'emergenza rifiuti, la sera in cui saliamo sulla Volante. In prima pagina c'è anche l'emergenza rom. E naturalmente persiste l'altra emergenza, la solita: quella dei fiumi di droga e prostituzione, abusivismo e scippi, truffe e violenza attorno alla camorra. "Napoli non delude mai", allarga le braccia un agente. E infatti. C'è l'imbarazzo dell'inquadratura, per fotografare lo sfascio notturno. Si può partire, verso le dieci di sera, dal rione Traiano e dal suo flusso di eroina e cocaina. "Guardi là sopra", dice l'autista della Volante: "Al primo piano c'è un appartamento in cui spacciano. Si sa da tempo. Sappiamo anche chi ci bazzica, ma andarci sarebbe inutile. Il nostro ingresso nel quartiere è già stato segnalato dalle vedette. Tutto è sempre pronto per svanire nel nulla".

Ancora più desolante, ore dopo, è raggiungere Scampia, il tempio storico dello scontro tra il clan Lauro e gli scissionisti. Il benvenuto è scritto sull'asfalto: 'Polizzziotti mmerde'. Sopra, le celebri Vele, quella gialla e quella rossa, palazzoni scarnificati dove resistono forme di vita segnalate da panni stesi e bagliori di televisori. Sono le quattro del mattino, ma non tutti dormono. Bambini in canottiera sbirciano con le mamme dai piani alti. Gli uomini non si vedono: non esistono per i poliziotti. Lasciano che gli agenti entrino al piano terra della Vela rossa e facciano da anfitrioni in una grotta infernale. Una stanza di quattro metri per quattro con due poltrone blu dove si buca mezzo Meridione. "Vengono dal resto della Campania, dalla Basilicata, dalla Calabria, dalla Puglia...", dice un ispettore: "Comprano droga a buon prezzo e si accomodano a consumare".

Controlli in strada
Difficile non vomitare. Le pareti sono un mosaico di sangue schizzato. Sotto, una serie di scritte in vernice azzurra: 'Chi non butta le proprie cose nei bidoni non butta la roba in vena'; 'Scampia, odiati e fieri'; 'Fate del bene, si aprono tante porte'; 'Un napoletano non sarà mai un uomo comune'. La domanda è ingenua: di giorno, qui, le Volanti si muovono con questa facilità? La risposta è che non esiste 'facilità', a Napoli. Non esiste logica condivisa. "Qualche giorno fa", racconta un agente, "abbiamo fermato un ragazzo che aveva sfondato il vetro di un'auto per rapinare il conducente. Aveva abiti griffati, l'aspetto pulito. Gli abbiamo chiesto perché facesse quella vita, e ha detto che non gli mancava niente. Però, ha aggiunto, gli piaceva troppo la faccia delle vittime quando gli puntava la pistola".

Di gente strana, nella notte napoletana, ne puoi incrociare parecchia. Come i ragazzi senza casco sui motorini, che quando arriva una Volante con la sirena, a folle velocità, non si scansano: si girano seccati.

 

L'impunità di Mister Tremila Auto

C'è una storia di sprechi minori, se si considera l'importo economico, ma forse ancora più grave per il danno alla credibilità della giustizia. È quella di un cittadino romeno di soli ventuno anni a cui sono intestate 2.876 automobili. Ovviamente non le usa lui, ma molti rom - di cittadinanza italiana o straniera, ma comunque comunitaria - in tutta Europa. Lui non risulta avere fissa dimora: impossibile notificargli multe o provvedimenti legati al suo sterminato garage. La scorsa settimana durante un controllo di routine gli agenti della polizia ferroviaria lo hanno individuato su un treno a Novi Ligure: ha fornito un nome falso ed è stato portato al comando per controlli.

Le impronte digitali hanno permesso di capire che lui era Mister Tremila Auto. A quel punto è stato prelevato dai carabinieri e trasferito in un'altra caserma: i militari gli hanno notificato un pacchetto di multe per un importo di 25 mila euro. È solo una piccola parte delle contravvenzioni emesse contro di lui in tutte le regioni. Che non verrano mai pagate. Mister Tremila Auto, come prevede la legge, è stato rilasciato ed è tornato libero. Poco importa se una delle vetture a lui intestate è stata usata in una rapina, un'altra in un furto, decine sono state coinvolte in incidenti stradali. Il caso più grave a Pasqua: l'utilitaria di una famiglia viene travolta, lei muore sul colpo, il marito rimane gravemente ferito. L'autista romeno è ubriaco, guida senza patente e la vettura non ha assicurazione. Il proprietario? Mister Tremila Auto. Che è stato infine scovato e poi rilasciato. Senza pagare multe, senza risarcire danni. Ma con uno spreco in più, quello delle ore di lavoro di agenti e carabinieri che lo hanno identificato e gli hanno notificato inutilmente quel cumulo di multe.

 

Zimbabwe, la mano pesante del regime

I veterani a Mugabe: pronti a prendere le armi

Continua a salire la tensione in Zimbabwe a quindici giorni dal ballottaggio che vedrà fronteggiarsi il presidente Robert Mugabe, al potere da 28 anni, e il candidato dell'opposizione Morgan Tsvangirai del Movement for Democratic Change. Quest'ultimo è stato rilasciato oggi dopo l'ennesimo arresto mentre viaggiava assieme al convoglio della sua campagna elettorale.

Tradimento. Il numero due del partito di opposizione, Tendai Biti, verrà formalmente incriminato di 'tradimento'. Arrestato anch'egli, all'aeroporto di Harare, di ritorno dall'esilio volontario in Sudafrica, è stato accusato di aver pubblicato un 'documento per una strategia di transizione poco prima dei risultati del 29 marzo scorso' e per aver proclamato la vittoria dell'Mdc quando i risultati non erano ancora stati resi noti. Biti ha trascorso la notte in carcere, senza che i suoi legali abbiano ancora avuto la possibilità di visitarlo.

I veterani si fanno avanti. Ieri la Bbc ha rivelato l'esistenza di documenti che provano come l'esercito stia orchestrando la campagna di Mugabe a colpi di intimidazioni, violenze, repressioni, omicidi. Dal marzo scorso, 60 persone sono state uccise, migliaia sono state oggetto di violenze fisiche e molte altre sfollate dalle proprie case, specialmente nelle zone rurali, dove più forte è il sostegno al Movement for Democratic Change. E' di oggi, invece, la notizia che i veterani della guerra d'indipendenza (combattuta contro gli inglesi, che hanno lasciato il Paese nel 1980) sono pronti a mobilitarsi per evitare che il Mdc vinca il ballottaggio. Secondo quanto riporta il quotidiano zimbabwese 'Herald', Mugabe avrebbe ricevuto una loro visita nel suo ufficio. "Il Paese è stato conquistato con il fucile - gli avrebbero detto -, dovremmo consegnarlo dopo solo un colpo di penna (riferendosi al voto, ndr)?". Mugabe, che ha riferito di aver 'declinato' l'offerta, ha detto che una vittoria del Mdc darebbe il Paese "in mano ai nostri ex oppressori, i bianchi".

Aree rurali a rischio. Si aggrava intanto l'emergenza umanitaria nel Paese, dove, secondo il World Food Programme, 600 mila persone necessitano con urgenza di aiuti alimentari. La scarsità dei raccolti di cereali come mais e grano, persistenti siccità, un tessuto agroindustriale obsoleto o malfunzionante, l'inflazione al 100 mila per cento, la disoccupazione all'80 percento, hanno reso milioni di persone dipendenti dalle agenzie internazionali, le cui attività sono state sospese dal governo. Larghe parti delle campagne sono diventate inaccessibili ai media, così come al Wfp e alle ong straniere operanti in Zimbabwe (Save the Children, Care International, Christian Aid, UsAid), tutte accusate di fare propaganda politica per il Movement of Democratic Change.

Appello a libere elezioni. Gli appelli della comunità internazionale continuano a moltiplicarsi. Gli Stati Uniti reclamano un intervento del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, "per impedire un ulteriore deterioramento della situazione umanitaria e di sicurezza nella regione". Una quarantina, tra i leader più autorevoli del continente (inclusi Kofi Annan e Desmond Tutu) hanno pubblicato una lettera aperta nella quale chiedono che le elezioni si svolgano in un clima "equo e libero".

Luca Galassi

 

12 giugno

La sicurezza calpestata

di GAD LERNER


QUANDO gli operai muoiono in troppi alla volta come ieri a Mineo, fulminati o asfissiati letteralmente nella melma, resi massa irriconoscibile dal colore del fango, allora l'Italia è costretta a ricordare. Benvenuto il clima nuovo che si respira nel Palazzo. Ma fuori, intorno? La società sregolata vede precipitare, insieme ai redditi da lavoro, anche le normative più elementari di una dignitosa convivenza. Si crepa di nuovo nelle stive, nelle autocisterne, nei depuratori, sulle impalcature, sulle linee di lavorazione a caldo, come un tempo si crepava nelle miniere.

Subiamo il contrasto scandaloso fra la retorica di una sicurezza ideologica, con cui viene drogata la politica, e poi la sicurezza effettiva sacrificata magari con la scusa che la produttività si migliori facendo senza gli scafandri, gli estintori, i respiratori, i caschi. L'umiliazione del lavoro manuale, la retrocessione della vita operaia a destino sfortunato, spesso vengono giustificate in nome di una virtuosa concordia interclassista, perché il conflitto fra legittimi interessi altro non sarebbe che "invidia sociale".

Venerdì scorso, nello stesso convegno dei giovani di Confindustria che suggeriva per la prima volta nel dopoguerra l'idea dei contratti di lavoro individuali, la relazione introduttiva lamentava "la fretta con cui il precedente governo ha licenziato il Testo Unico sulla sicurezza dei luoghi di lavoro".

In effetti, il 5 marzo scorso, all'indomani della morte di cinque operai alla Truckcenter di Molfetta, benché dimissionario il governo Prodi varò fra i suoi ultimi atti il decreto attuativo della legge 123 sull'antinfortunistica, a ciò sollecitato dallo stesso presidente Napolitano.

Lungi da me voler attribuire alla Confindustria una responsabilità morale nelle stragi che si susseguono, tanto più che a Mineo quattro delle sei vittime erano dipendenti pubblici. Ma come potremmo accettare l'obiezione avanzata a Santa Margherita? "Rendere ancora più complesse e difficili le norme che presidiano la sicurezza sul lavoro impone costi crescenti agli imprenditori che già seguono il dettato della legge mentre non sfiora neppure chi dell'illegalità fa una prassi".

Costi crescenti? Metteteli a bilancio per tempo, invece di stanziare oltre dieci milioni di euro per l'indennizzo delle vittime della ThissenKrupp, oltretutto ponendo la condizione vessatoria che rinuncino a costituirsi parte civile nel processo.

Chiediamoci perché la stessa Confindustria, che giustamente approva l'espulsione degli associati che pagano il pizzo, non disponga la medesima linea di severità nei confronti delle aziende inadempienti violano le normative sulla sicurezza. Riconoscerebbe così il principio etico secondo cui la salvaguardia dell'incolumità dei dipendenti - il primato della vita umana - va inderogabilmente considerato un bene superiore rispetto al profitto.

Le parti sociali si sono date un orizzonte di tre mesi per modernizzare le regole della contrattazione e affrontare una "questione salariale" riconosciuta come non più rinviabile, dopo dodici anni di costante diminuzione dei redditi da lavoro. Il pericolo che l'ideologia della deregulation, simboleggiata dalla provocazione dei "contratti individuali", apra nuove voragini di incuria nella tutela dei lavoratori, non può essere ignorato.

Perché l'Italia delle morti bianche sta ritornando all'antico. In troppe aziende i sindacati hanno già sopportato deroghe mortificanti, magari in nome della salvaguardia dell'occupazione. E un mondo del lavoro in cui divenga norma non scritta la rinuncia alla sicurezza, lungi dal rendere più competitiva la nostra economia, la condanna all'arretratezza strutturale che già in altre epoche storiche abbiamo sofferto.

Il lutto degli operai siciliani, piemontesi, veneti, liguri, pugliesi - il susseguirsi delle stragi al ritmo insopportabile di dieci morti in un solo giorno - rivela il tragitto di un paese nel quale i lavoratori tornano a essere plebe. Come tale indotta magari a ricercare protezioni clientelari, occasionali padrini politici, ma inadeguata a proporsi motore di uno sviluppo fondato sulla professionalità e sull'innovazione.

Il nostro rimpianto boom economico, al tempo della ricostruzione, scaturì dal concorso fra talento imprenditoriale e ritrovata dignità del lavoro, dall'orgoglio di una comunità nazionale capace di valorizzare anche la fatica fisica che oggi invece viene rimossa, imposta per bisogno, sopportata come vessazione.

Quei lavoratori di Mineo andati cinque metri sotto terra senza attrezzature e prevenzioni adeguate, rappresentano una quotidianità italiana vergognosa, l'abitudine dilagante al pressappochismo. Feriscono la coscienza di chi ce l'ha ancora. Promettono rabbia e violenza, altro che "clima nuovo".

 

11 giugno

Rapporto dell'Ilo (Onu), alla vigilia della giornata contro il lavoro minorile
Sono 218 milioni i lavoratori tra i 5 e i 17 anni. Ma nel 2000 erano 246 milioni

Nel mondo lavora un bimbo su sette
E il caro-cibo crea nuovi schiavi

Nelle nazioni industrializzate impiegati 2,5 milioni di ragazzi al di sotto dei 15 anni

<b>Nel mondo lavora un bimbo su sette<br/>E il caro-cibo crea nuovi schiavi</b>

Bambini impegnati nel ricamo in un laboratorio di Nuova Deli


ROMA - Nel mondo sono 218 milioni i ragazzi lavoratori tra i 5 e i 17 anni, una cifra enorme che riguarda anche i paesi industrializzati, ma in leggera diminuzione rispetto ai 246 milioni nel 2000. Un trend positivo che viene messo a rischio dall'aumento del prezzo del cibo. Le cifre sono state diffuse oggi a Roma, nel corso dell'incontro promosso dall'Organizzazione internazionale del lavoro, (Ilo) alla vigilia della giornata mondiale contro il lavoro minorile che dal 2002 si celebra il 12 giugno, quest'anno dedicata al tema dell'istruzione.

I dati. Sono circa 165 milioni, nel mondo, i bambini tra i 5 e i 14 anni che lavorano e di questi, 74 milioni sono coinvolti in attività considerate pericolose e il loro numero sale a 218 milioni se si considera la fascia di età tra i 5 e i 17 anni. E ancora, secondo i dati più recenti sul numero degli iscritti a scuola, sarebbero 72 milioni i bambini in età da scuola primaria non scolarizzati e le bambine hanno meno possibilità rispetto ai coetanei maschi di frequentare la scuola.

Secondo l'ultimo rapporto mondiale dell'Ilo sul lavoro minorile, che ai avvale di dati del 2004, nel mondo un minore su sette svolge una qualche attività: con 122,3 milioni di bambini economicamente attivi, l'Asia e il Pacifico rappresentano la regione con il più alto numero di minori lavoratori nel mondo (pari a quasi il 20%).

L'Africa sub-sahariana, con il 26% (circa 50 milioni di minori lavoratori), è invece la regione con la più alta incidenza di bambini che lavorano. Mentre l'America Latina e i Caraibi spiccano in termini di rapida riduzione del lavoro minorile: il numero dei minori lavoratori nella regione è sceso di due terzi tra il 2000 e il 2004, con appena il 5% (5,7 milioni) di minori di età compresa tra i 5 e i 14 anni ancora coinvolti nel lavoro minorile.


I Paesi industrializzati. Questa realtà, tuttavia, caratterizza non solo i Paesi in via di sviluppo, ma anche i Paesi industrializzati, dove nel 2000 lavoravano circa 2,5 milioni di minori al di sotto dei 15 anni. Il settore agricolo 'accoglie' la stragrande maggioranza dei minori lavoratori: 7 su 10. Il 22% dei bambini, invece, è impiegato nei servizi, mentre il 9% nell'industria, nelle miniere e nell'edilizia.

Numeri in diminuzione. Il numero di minori lavoratori, secondo i dati dell'Ilo, tra il 2000 e il 2004 è comunque sceso dell'11% e la diminuzione più importante (26%) si è avuta nei lavori pericolosi. Un risultato, secondo l'organizzazione, "frutto di una vera a propria mobilitazione politica di lavoratori, imprenditori e governi, organizzazioni non governative e del pubblico in generale".

L'aumento del cibo. L'economista ed esperto dell'Ilo, Furio Camillo Rosati, ha spiegato che il trend positivo che caratterizza il fenomeno del lavoro minorile, viene messo a rischio dall'aumento del prezzo del cibo. Nel breve periodo, ha sottolineato Rosati, lo 'shock' provocato dall'improvviso aumento della spesa familiare "ha senz'altro avuto un impatto immediato sulle condizioni di vita dei bambini, che in queste situazioni sono usati come una sorta di assicurazione: la famiglia si difende dalla povertà mandandoli a lavorare per avere un'entrata in più". Una condizione che, nel lungo periodo, può diventare "rischiosa", ha continuato l'esperto, "se i genitori trovassero più conveniente per il bilancio familiare mandare i figli a lavorare piuttosto che a scuola".

Istruzione gratuita ed obbligatoria. Per ridurre il fenomeno del lavoro minorile, sottolinea l'Ilo, è fondamentale estendere l'accesso ad un'istruzione gratuita ed obbligatoria. Uno studio dell'agenzia evidenzia infatti che l'eliminazione del lavoro minorile e la sua sostituzione con l'istruzione universale offrono enormi benefici dal punto di vista economico, oltre che sociale: globalmente, i benefici superano i costi in un rapporto 6 a 1 e ogni anno supplementare di scuola, fino all'età di 14 anni, genera per il futuro l'11% di reddito in più all'anno.

Occorrono 760 miliardi di dollari. L'agenzia Onu stima che, per la definitiva abolizione del fenomeno, servano 760 miliardi di dollari da utilizzare in un periodo di almeno 20 anni. I benefici in termini di istruzione e salute ammonterebbero ad oltre 4000 miliardi di dollari. Secondo l'ilo, "i benefici economici dovrebbero essere di almeno 6 volte superiori ai costi", cifre che non comprendono quelli che l'agenzia delle nazioni unite definisce "gli innumerevoli benefici sociali".

Insegnamento di qualità. Ma accanto a questo, anche l'insegnamento deve essere di qualità, osserva l'Ilo, ricordando che, secondo un recente rapporto dell'iniziativa Education for All (Efa), nel mondo c'è bisogno di 18 milioni di nuovi insegnanti nella scuola primaria se si vuole raggiungere l'obiettivo dell'istruzione primaria universale entro il 2015

 

La Robin Hood tax di Obama
Il candidato democratico alla Casa Bianca vuole tassare i profitti record delle compagnie petrolifere
 
Con il prezzo del carburante quasi raddoppiato in meno di un anno e mezzo, la sfida elettorale tra Barack Obama e John McCain non poteva che iniziare col parlare di petrolio. E sull'argomento, il primo candidato afro-americano alla Casa Bianca ha calato subito sul tavolo una carta che di solito negli Usa i politici preferiscono evitare, ma che in tempi di benzina a quattro dollari al gallone potrebbe pagare: una tassa sui profitti delle compagnie petrolifere, a livelli record grazie all'impennata del prezzo del petrolio negli ultimi mesi. Dall'altra parte McCain non ci sta e propone invece di eliminare le accise per il periodo estivo, con l'obiettivo di portare un po' di sollievo ai consumatori.
 
La posizione di Obama. “In un momento in cui stiamo combattendo due guerre, mentre milioni di americani non possono permettersi le cure mediche o un'istruzione... l'uomo che tuona contro i costi del governo vuole spendere 1,2 miliardi per uno sconto fiscale alla ExxonMobil”, ha detto ieri Obama in un comizio nel North Carolina. “Ciò non è solo irresponsabile, è scandaloso”. Il candidato democratico si riferisce alla volontà di McCain di estendere i tagli alle imposte sulle grandi aziende introdotti da Bush, un provvedimento a cui all'epoca il senatore dell'Arizona si era opposto. Ma che ora invece difende, favorendo – si calcola – circa 2.000 miliardi in detrazioni fiscali al grande business. Obama, invece, propone di lasciare scadere nel 2010 gli sconti fiscali voluti da Bush, aumentando le tasse sui redditi più alti, sui capital gain e sui dividendi.
 
Le accuse a McCain. Nella visione di Obama, una tassa sui profitti delle compagnie petrolifereora che il petrolio ha sfiorato i 140 dollari al barile, con un balzo di 10 dollari venerdì scorso – permetterebbe di “usare quei soldi per aiutare la famiglie a pagare i costi energetici ormai alle stelle, e altre bollette”. Accusando ripetutamente McCain di voler continuare le politiche di Bush, Obama ha aggiunto che “il nostro presidente sacrifica gli investimenti per cure sanitarie, istruzione, energia e infrastrutture sull'altare dei tagli fiscali per le grandi corporation e i ricchi amministratori delegati”.
 
Un argomento delicato. L'idea di introdurre nuove tasse – per espandere il ruolo dello Stato – viene di solito evitata come un pericolo mortale da un candidato presidente negli Usa, e Obama sa che questi argomenti potrebbero costargli importanti voti. Ma evidentemente calcola che il malcontento popolare dato dalla crisi economica e dal contemporaneo aumento dell'inflazione possa cambiare la risposta degli elettori. Il petrolio alle stelle ha fatto aumentare il prezzo della benzina in tutto il mondo, ma negli Usa – dove le tasse sul carburante sono minime – il costo alla pompa è salito proporzionalmente di più. Nel febbraio 2007, per un gallone si pagava poco meno di 2,20 dollari; oggi bisogna spendere più di 4. Al cambio attuale rimane un prezzo di circa 70 centesimi di euro, circa la metà di quanto si paga in molti Stati europei: ma per la psicologia del consumatore statunitense si tratta di una botta che ricorda lo shock petrolifero degli anni Settanta.
 
La proposta di McCain. Per lenirla, McCain ha una ricetta diversa: sospendere le accise già minime – 18 centesimi e mezzo per la benzina, 24 cents e mezzo per il gasolio – per tutta l'estate, il periodo in cui gli americani guidano di più. La soluzione è stata accolta con freddezza da diversi economisti. “Se si tagliano le tasse, il prezzo si alzerà per raggiungere il livello precedente al taglio. Il piano fiscale di McCain è una buonuscita alle compagnie petrolifere, travestita da regalo ai consumatori”, ha scritto Paul Krugman sul New York Times. Senza contare che contrasta con la disponibilità di McCain a lottare contro il riscaldamento globale, in questo caso stimolando la domanda di benzina. Ma intanto ci sono da vincere elezioni che saranno probabilmente più incerte del previsto.
 

La medicina degli affari

Guglielmo Ragozzino
 
Le accuse sono serie: omicidi crudeli, lesioni gravissime, truffe al Servizio sanitario nazionale. Alla clinica Santa Rita di Milano sono arrivati 14 ordinanze di custodia cautelare per medici primari e per il titolare, un facoltoso notaio. Ad agire è stata la guardia di finanza; e si è saputo che senza intercettazioni telefoniche non si sarebbe arrivati ad alcun risultato. Milano presenta di nuovo un doppio profilo: sono in gioco il diritto e la civiltà.
In primo luogo è messa in discussione la salute. Si direbbe che essa non sia più il fine di una clinica, chiedendo compensi esorbitanti che solo malati di famiglie abbienti possono sopportare. E curando alla meno peggio i non solventi. Oggi si cambia. Il giuramento di Ippocrate non vale per i ricchi né per i poveri. I primi avranno più televisione, camera singola, servizi a quattro stelle, conforto dei parenti. Le cure invece, spesso le anti-cure, saranno uguali per tutti. In quella clinica secondo le accuse, tutti i corpi sono oggetti, materia da trattare in modo conveniente, o da eliminare in termini economicamente vantaggiosi.
E' insomma invalso un atteggiamento ancora più avido di quello di un tempo. Il rapporto economico instaurato è ormai tra clinica e Servizio sanitario nazionale, tra clinica e assicurazioni. Si tratta di sfruttare al massimo i corpi e poi espellerli. Meglio vivi che morti, perché potranno servire un'altra volta, ma anche morti, va bene lo stesso, una volta esaurita la serie di esami costosi spesso inutili e di operazioni crudeli.
Sembra impossibile che tutto questo delirio sia messo in funzione per aumentare da 1.700 a 27.000 euro il compenso mensile dei medici. Le cifre sembrano incongrue entrambe: una troppo bassa, l'altra alta; ma cosa sappiamo davvero della medicina moderna? E poi, quale delirio? Dai tempi di Knock e del «Trionfo della medicina», il compito del medico non è quello di curare, ma di dare vita alla malattia, coltivandola sempre meglio, sempre più costosa.
Nel secolo scorso, negli anni del «Dottor Knock», questo testo - teatro o film - era considerato un crudele apologo ideato per mettere sul chi vive la società, affinché essa allontanasse i medici cattivi e imparasse di nuovo a curarsi. Ora invece quella corruzione appare del tutto possibile, forse generalizzata. La messa in vendita di tutto, ha investito anche i corpi umani, le vite delle persone più deboli; e tutti, prima o dopo, saremo deboli e bisognosi di cure. Tutto si vende, tutto ha un cartellino del prezzo. Un corpo vivo si può tagliare, ricucire, ritagliare; e lo stato paga. Oppure nel caso dei più benestanti, è l'assicurazione a pagare. La clinica incassa e se la malattia vince o se la malattia perde, non è poi così importante, tenendo conto di bilancio annuale e dividendo. Basta che a un certo punto qualcuno paghi la «cura». L'esito interessa al massimo qualche amico, qualche familiare di quel corpo in appalto. Le lacrime sono fuori corso.
C'è poi la questione delle intercettazioni. Il nostro timore è che i poveri corpi di questo Grand Guignol (lo splatter dei tempi di Knock) siano oltraggiati ancora una volta: presi a pretesto di una battaglia altrui.
TELECOM
Tagli sbagliati senza un piano industriale
Alessandro Genovesi *
 
La desione di Telecom di tagliare 5 mila unità (quasi il 10% della forza lavoro in Italia) è una decisione sbagliata, confusa, contraddittoria che comporterebbe un impoverimento, per di più traumatico, di professionalità in tutte le aree dall'azienda: dalla rete, al costumer, dal commerciale ai servizi di supporto, in contraddizione con la necessità di migliorare la qualità delle infrastrutture esistenti. Soprattutto le scelte annunciate lascerebbero incerto e indefinito il futuro di un'azienda strategica per il paese.
E' sbagliata industrialmente perché, in assenza di un piano di sviluppo in grado di aggredire i nodi di fondo di un mercato in trasformazione, rappresenta una mera operazione (forse la prima di una lunga serie) «di contenimento», esclusivamente centrata sul costo del lavoro. Ci sono, ineve, altri nodi che andrebbero sciolti: investimenti sui nuovi servizi (dalla trasmissione dati, all'audiovideo); possibili convergenze tecnologiche in relazione al mercato domestico; aumento della qualità dell'attuale rete in rame e della sua «permeabilità» con reti mobili; partecipazione ad un piano di sviluppo sinergico (in relazione alle decisioni dell' Agcom degli altri operatori e di nuovi possibili protagonisti) per l'aumento delle capacità trasmissive da qui ai prossimi anni; evoluzione delle competenze professionali e nuovi innesti di tecnici specializzati; strategie internazionali sui mercati emergenti. Solo se sarà chiaro lo scenario sarà possibile una discussione vera sul modello organizzativo. Solo chiarendo «dove si va», si potrà sviluppare un confronto sul »come» a cui il sindacato confederale non si è mai sottratto.
Se poi un confronto va aperto sui possibili risparmi, altri sono gli sprechi e le diseconomie (dall'alta percentuale di dirigenti e quadri ai circa 800 milioni di euro che l'azienda spende in più per servizi informatici che potrebbero essere assicurati internamente, fino alla qualità dei lavori dati in appalto e ai costi dei servizi esternalizzati, cresciuti a parità di volumi rispetto a quando erano interni). E' infine una scelta contradditoria rispetto alla volontà di rilanciare i servizi e la qualità della rete a fronte di uno scenario possibile fatto di diverse migliaia di operatori dalle aree operative in meno, migliaia di mobilità professionali (dalle aree di staff alle aree di intervento diretto) con un'ulteriore fase di assestamento (riqualificazione professionale), successivo dimagrimento delle aree collaterali alla gestione del cliente.
Per queste ragioni il sindacato non può essere disponibile ad affrontare una discussione sulla riorganizzazione Telecom fatta solo di gestione dell'ennesimo taglio occupazionale. Serve una discussione sul futuro del settore e delle reti, facendo uscire allo scoperto anche gli altri grandi operatori. Perché questo confronto si apra i lavoratori dovranno mobilitarsi, pretendendo certezze e le necessarie visibilità: per difendere l'occupazione che c'è ed il futuro di una delle più grandi aziende private del paese.
* Segretario Nazionale Slc-Cgil
 
INFORMATICA
Tramonta il sogno della Etna valley: alla StM in 800 rischiano il posto
La multinazionale italo-francese vuole chiudere l'impianto Ct6 dove si producono memorie a sei pollici
Alfredo Marsala

 
Il primo obiettivo dei sindacati è difendere il posto di lavoro degli 800 addetti dell'impianto Ct6 dove si producono le memorie a sei pollici, una struttura che presto sarà chiusa. Ma è solo l'inizio. La battaglia è più ampia: salvare l'intero polo tecnologico di Catania, per evitare che il sogno dell'Etna valley costruito con fondi pubblici si trasformi in incubo per quattromila persone, per altrettanti lavoratori dell'indotto che ruota attorno alla StMicroelectronics e per un'intera area industriale.
A Catania sono giorni di trepidazione. L'ultima riunione di pochi giorni fa al ministero delle Attività produttive ha segnato il cambio di rotta della multinazionale italo-francese che ha ufficializzato l'accantonamento del progetto dell'impianto M6, lo stabilimento che doveva sorgere a Catania per la produzione delle memoria a 12 pollici e proiettare la valle dell´hi-tech su scenari internazionali. Quella che rimane oggi è una cattedrale nel deserto per un piano da 2 miliardi di euro, di cui 500 milioni stanziati dall'accordo di programma, che sembra sfumato. Il management della Numonyx, la newco creata dalla joint-venture tra StM, l'americana Intel e il fondo di private equity Francisco Partners e gestore della spin-off delle memorie flash per le due compagnie, ha dato disponibilità a discutere di M6 solo nel 2010. Per la Fiom nei fatti significa l´accantonamento del piano voluto Giovanni Pistorio, ex a.d. di StM.
Per Catania significa la perdita di 600 nuovi posti lavoro, la necessità immediata di ricollocare gli 800 lavoratori del Ct6 che dovevano essere assorbiti nel M6 e lo stravolgimento delle strategie industriali. All´Etna valley non rimane altro che aggrapparsi al Modulo dove si producono le memorie a 8 pollici che, pur avendo ancora un mercato, non rappresentano sicuramente un prodotto ad alto valore aggiunto per Numonyx e Stm, che realizza i 12 pollici nel Sud-est asiatico, attraverso accordi di esternalizzazione. Non solo. Anche nella fabbrica di Agrate, StM, ha creato un centro dove si producono le memorie a dodici pollici, confermando l'interesse per il rilancio del sito milanese, sotto la spinta industriali e politiche locali, al cospetto del sonnacchioso e colpevole silenzio delle istituzioni e delle forze imprenditoriali siciliane. Per Giovanni Marano, segretario della Fiom siciliana «il ministero ha l'obbligo di monitorare quanto sta accadendo anche alla luce dell'accordo di programma. Allo stesso tempo sollecitiamo l'intervento del governo della regione: il presidente Raffaele Lombardo non può far passare il piano di ridimensionamento di StM». L'aria che si respira a Catania e' quella della crisi. Il 70% degli investimenti annunciati da Numonyx sono destinati ad Agrate, per Catania ci sono appena 13 milioni di euro. «Non capiamo a cosa servano queste risorse», dice Boris De Felice, Rsu Fiom alla StM di Catania.
Eppure la multinazionale italo-francese, tra i cui azionisti ci sono la Cassa Depositi e prestiti e Finmeccanica, negli ultimi anni ha rastrellato tutto ciò che poteva sul fronte degli incentivi e dei contributi: fondi comunitari, risorse del Por Sicilia, soldi dallo Stato sotto forma di credito d'imposta, legge 488. A Grenoble sono stati più furbi: lo Stato francese, attraverso la società Areva (azionista di StM) di cui detiene il 90%, ha imposto alla multinazionale di rilanciare il sito industriale, altrimenti avrebbe chiuso i rubinetti dei fondi pubblici, da cui il gruppo ha attinto risorse per appagare la sete di profitto.

 

 

10 giugno

 

Zimbabwe, intimidazione senza fine

Sospese le attività delle ong. Tsvangirai fermato di nuovo

Il governo dello Zimbabwe ha ordinato la cessazione di tutte le attività delle agenzie umanitarie nel Paese. La decisione è stata presa dal ministro del Welfare, Nicholas Goche, in un clima carico di tensione, a due settimane dal ballottaggio che vedrà fronteggiarsi, il 27 giugno, Robert Mugabe, presidente in carica, e Morgan Tsvangirai, del partito di opposizione Movement for Democratic Change (Mdc). Fino a quella data, a tutte le ong e le agenzie umanitarie presenti in Zimbabwe sarà vietato portare avanti missioni e progetti, soprattutto quelli di sostegno alimentare alla popolazione, a meno che non si accreditino di nuovo con la promessa di "non immischiarsi di politica nazionale". La preoccupazione degli operatori umanitari è che la grave situazione di crisi economica in cui versa il Paese, unita ai raccolti insufficienti, possa diventare disperata per i quattro milioni di persone che fanno affidamento sugli aiuti alimentari.

Violenze e omicidi. Secondo alcune organizzazioni, come Christian Aid, con tale decisione il governo vorrebbe evitare che la presenza di funzionari stranieri, soprattutto nelle aree rurali, possa interferire con la campagna di intimidazione e violenza politica attuata da Mugabe ai danni delle opposizioni. Poche ore fa, il leader del Mdc, Morgan Tsvangirai, è stato nuovamente fermato a un posto di blocco della polizia mentre si recava a una manifestazione di partito nella seconda città del Paese, Bulawayo, ed è stato costretto a cambiare tragitto, rimandando la sua partecipazione all'evento. Mercoledì scorso lo stesso Tsvangirai aveva trascorso dieci ore in carcere per essere interrogato e rilasciato senza accuse a suo carico. Per il suo rilascio era intervenuto direttamente il presidente sudafricano Thabo Mbeki, principale mediatore tra governo e opposizione. La notizia dell'arresto ha scatenato una valanga di critiche da parte della comunità internazionale, prima fra tutte quella del responsabile per la politica estera dell'Unione Europea, Javier Solana, che ha dichiarato che l'atteggiamento di Mugabe "aggrava pesantemente le preoccupazioni per il ballottaggio del 27 giugno". Nonostante il presidente, da trent'anni al potere, abbia dichiarato che si dimetterà in caso di sconfitta, la strada verso il ballottaggio si sta svolgendo in un clima sempre più caratterizzato da violenze, abusi e repressione contro il Movement for Democratic Change, che ha denunciato l'omicidio di 65 dei suoi membri, dalle elezioni del marzo scorso.

Diplomatici fermati. Un altro motivo di tensione si è verificato ieri, quando la polizia ha fermato una delegazione di diplomatici britannici e statunitensi che stava indagando nella zona di Bindura, ad un centinaio di chilometri da Harare, su episodi di violenza contro i sostenitori del Mdc. Di fronte al rifiuto dei rappresentanti stranieri di seguire gli agenti al posto di polizia dove sarebbero stati fermati - in violazione della loro immunità diplomatica - la polizia ha squarciato le gomme delle automobili a bordo delle quali viaggiavano i diplomatici ed una folla di veterani di guerra ha minacciato di dare fuoco ai veicoli con gli occupanti a bordo. Dopo che i diplomatici sono stati fatti passare, e che l'ambasciatore statunitense James Mgee ha condannato con forza l'episodio, è arrivata oggi la motivazione 'ufficiale' del fermo, resa nota dal commissario di polizia Wayne Bvudzijenaì: "I diplomatici - ha detto il poliziotto - si erano rifiutati di identificarsi nel momento in cui sono stati fermati, ed hanno pure tentato di fuggire, quasi investendo gli ufficiali di polizia".

Luca Galassi

 

Questione di priorità

I quartieri poveri di Lima avranno il telefono wireless. Ma in migliaia non hanno ancora l'acqua potabile
Il presidente peruviano Alan García ha annunciato oggi che inaugurerà una linea telefonica senza fili. Sarà la prima delle cinquecentomila che verranno installate in sei mesi nei quartieri periferici più poveri di Lima. Abbonarsi costerà un prezzo dal presidente definito imbattibile: 30 soles, circa sette euro, per sessanta minuti di comunicazione al mese e una casella di messaggi. Ma è proprio di questo che hanno bisogno gli abitanti dei quartieri poveri di Lima?

 
favelas“Nonostante sembri un miracolo è realtà”, ha dichiarato García entusiasta, invitando le oltre 400 mila famiglie povere che già beneficiano del programma Acqua per tutti ad approfittare dell'occasione, perché “con acqua potabile, fognature e telefono la vita cambia”. A fornire il servizio, Telefonica Móviles, che si è impegnata a fornire 1.200 milioni di linee in tutto il paese. Le settecentomila restanti, ubicate nel resto del paese, verrano installate entro i prossimi quattro anni. Meno del dieci percento della popolazione adesso ha un telefono fisso. In cambio, le linee per i cellulari sono 16,9 milioni, anche se la fascia più debole della popolazione a stento si permette anche quelli.

 
“La verità è che abbiamo altre necessità ben più importanti in questo momento – ha commentato Rudy Aliaga, segretario generale della comunità autogestita di Huyacan, un immenso centro di 150mila abitanti, ubicato a est di Lima, che sarà uno dei primi beneficiari delle nuove linee a basso prezzo – La sicurezza, il trasporto, dotare di acqua le famiglie”. Oltre ottomila case del quartiere, infatti, ancora non usufruiscono della rete d'acqua potabile, dato che lo sventolato programma Acqua per tutti taglia tuttora fuori un'ampia fetta di popolazione.

 
paru“Il cuore del problema è già tutto racchiuso nelle parole del leader di Huaycan - spiega a PeaceReporter Mauro Morbello, responsabile di Terre des Hommes Italia in Perù - Le necessità essenziali per la maggioranza della popolazione povera che vive in situazioni di marginalità urbana e per la quasi totalità di quella che vive in situazioni di marginalità rurale sono ben altre: l'accesso a un lavoro degno e degnamente retribuito, una rete di protezione sociale per scongiurare il calcolo catastrofico che prevede che tra 15 anni circa oltre il 65 percento della popolazione peruviana
in età pensionabile non avrà accesso a una pensione né ad alcuna copertura sanitaria; l'acqua, la corrente elettrica, un'istruzione decente, infrastrutture". Secondo Morbello, la copertura telefonica viene solo dopo, dato che chi potrà permettersi il canone si è anche già potuto comprare un cellulare. "La maggior parte, invece, non avrà né quello né il senza fili, oppure sarà obbligato a indebitarsi, visto che dovrà pagare ogni mese 30 soles, l'equivalente dell'8 percento del reddito mensile complessivo dei più".
 
slums“Dietro a tutto questo c'è purtroppo un mero interesse economico - aggiunge - Le imprese private alle quali, a partire dalla fine degli anni '80, è stata spesso svenduta la gestione della fornitura dei servizi, dall'acqua alla luce per finire al telefono, hanno tutto l'interesse ad ampliare le coperture, seguendo la filosofia della cosiddetta economia di scala. E, con l'appoggio dello Stato, procedono con gli allacciamenti. A nessuno interessa - incalza - se poi la gente delle zone urbane marginali spende oltre l`80 percento di tutto ciò che guadagna solo per sfamare la famiglia, e quindi non è in condizione di pagare agilmente il canone. Anzi, la maggioranza si troverà costretta a togliersi il pane di bocca per per pagare un servizio superfluo. Insomma, è il paradosso di sempre: il paradosso della povertà”.

 

Mafia gialla

di Angela Camuso e Emiliano Fittipaldi

Traffico di rifiuti. Sigarette contraffatte. Prostituzione. Riciclaggio. Sono i business criminali dei clan cinesi. Che usano l'Italia come avamposto delle loro attività illecite nei mercati europei. E si muovono con la ferocia e la spregiudicatezza di mafia e camorra

I più cattivi e i boss senza scrupoli vengono tutti da Wenzhou. Una città da un milione di anime affacciata sul mar Giallo, dedita da sempre al commercio aggressivo e ai traffici più o meno leciti. I buoni, o meglio gli schiavi, arrivano da Wuyun e Xianju. Paesoni vicini dell'entroterra, zone di campagna da cui le Triadi e altre organizzazioni criminali arruolano manodopera da spedire in Occidente.

Una specie di supermarket umano da cui prelevare contadini che, sperando in una vita decente a Milano, Firenze e Roma, si tramutano alla fine del viaggio negli operai al nero delle migliaia di fabbrichette illegali disseminate nelle nostre periferie. Senza contare gli irregolari: la comunità cinese in Italia sfiora ormai quota 150 mila. E la maggioranza viene proprio da Wenzhou, prefettura dello Zehjiang. Dal 2000 gli ingressi sono quasi raddoppiati: non è un caso che gli investigatori abbiano iniziato a interessarsi, investendo uomini e mezzi, delle complicate dinamiche di una comunità ad alto rischio di infiltrazioni malavitose.

Cosche con enormi interessi nel settore economico e finanziario del nostro Paese, considerato uno degli avamposti perfetti per la conquista dei ricchi mercati occidentali: per loro l'Italia è la nazione della corruzione, con sistema giudiziario che commina punizioni non proporzionate alle colpe commesse. "Testa di tigre e coda di serpente", ironizzano. I clan asiatici sono talmente potenti da essere diventati la quinta mafia, come si legge nei dossier inediti della Dia e dello Scico, il reparto specializzato contro il crimine organizzato della Guardia di finanza. Un dragone (questo il simbolo delle Triadi) che sta allargando il campo d'azione e allungando gli artigli su business un tempo esclusivo appannaggio di Cosa nostra e camorra: dalle estorsioni e lo sfruttamento dell'immigrazione clandestina i cinesi sono passati al riciclaggio di denaro sporco e al business immobiliare, alla contraffazione di sigarette, al traffico di rifiuti tossici, alle bische fino alla prostituzione e ai reati finanziari. Per
un giro d'affari che vale ormai miliardi di euro l'anno.

SIGARETTE AL MONOSSIDO
I finanzieri di Napoli l'hanno capito solo leggendo la bolla. Il comandante che ha visto i documenti ha fatto una smorfia e ha chiesto di aprire il carico. Le scarpe erano destinate a una ditta di abbigliamento di Grumo Nevano, in provincia di Napoli. Un'azienda, però, in liquidazione. Se il destinatario non fosse stato così anomalo, le 40 mila stecche di Marlboro e Marlboro light, otto milioni di sigarette in tutto, sarebbero finite sugli scaffali di tabaccai e bar di mezz'Italia.

Prodotti completamente falsi, dal filtro alla cartina, passando per il tabacco e la colla. Tutto made in China, tutto (probabilmente) assai nocivo. A prima vista le sigarette cinesi sono perfette: marchio Philip Morris, cellophane d'ordinanza, scritte in italiano, 'nuoce gravemente alla salute', bollo dei Monopoli. Peccato che di tabacco Virginia, Oriental o Burley non ce ne sia nemmeno un milligrammo. L'operazione della Gdf napoletana di inizio maggio è solo l'ultima contro una truffa di dimensioni colossali, che rende ai criminali cinesi, spesso in accordo con le mafie italiane, centinaia di milioni di euro.

Ormai circa il 65 per cento delle sigarette di contrabbando (dati Olaf) sono false. Oltre la metà, secondo l'Organizzazione mondiale delle dogane, sono prodotte nel colosso asiatico. In Italia arrivano via mare: negli ultimi tre anni sono state scovate 469 tonnellate di bionde irregolari, oltre a 60 tonnellate di tabacchi contraffatti bloccati nei porti di Gioia Tauro e Taranto. Nascosti dietro carichi di copertura di ogni tipo, da sedie a camicette, in Sicilia negli ultimi sei mesi sono arrivati 20 milioni di sigarette cinesi. Lo scorso novembre polizia e Scico hanno scovato nel porto di Ancona, uno degli snodi principali dell'affare, altre 40 tonnellate, due milioni di pacchetti con "percentuali elevatissime di catrame, nicotina e monossido", come si legge in un dossier della Gdf.

Rispetto alla camorra e alla mafia albanese, il salto di qualità è enorme. "Negli anni '80 e '90 si trafficavano pacchetti originali e si guadagnava evadendo le imposte. Qui invece parliamo di sigarette che contengono qualsiasi sostanza. In Inghilterra in prodotti simili hanno riscontrato quantità di catrame superiori del 75 per cento a quelle originali, oltre a sabbia e pezzi di plastica", spiega il comandante dello Scico Ignazio Gibilaro: "Le stecche finiscono in mezza Europa, ma molte rimangono da noi: la contraffazione del bollo dei Monopoli indica che la destinazione finale è l'Italia". Il prezzo al dettaglio è identico a quello del listino, altrimenti i fumatori si insospettirebbero. E il profitto enorme.

Così i container sono spuntati ovunque: a Cagliari lo scorso dicembre i funzionari doganali hanno trovato sigarette per 5 milioni di euro destinate al Togo e al Benin; a Genova l'operazione 'Dana' ha smascherato un'associazione a delinquere che commerciava Marlboro cinesi. I capi finiti sott'inchiesta sono quattro, tutti di Wenzhou, ma sono stati indagati anche 11 italiani: le Triadi nazionali sono organizzazioni sempre più connesse con l'economia e la società autoctona, e gli intrecci con camorra e 'ndrangheta molto più stretti che in passato.

VELENI A SHANGHAI
"Tratto rifiuti, la ricchezza del futuro. E li mando in giro per il mondo", dice Nicola Schiavone, titolare pugliese di un'azienda per lo smaltimento intercettato dai carabinieri del Noe. Omonimo dei boss di Casal di Principe, l'imprenditore non ha nulla a che fare con Sandokan e i casalesi, ma ha capito anche lui che la Cina è il nuovo Eden dello smaltimento illegale. Le cave della Campania sono piene come un uovo, la soglia d'attenzione nel Mezzogiorno dopo gli scempi dello scorso decennio è aumentata: la Cina è l'alternativa naturale. Un territorio sconfinato che aspetta solo di essere riempito da montagne di monnezza tossica. Se va bene, i materiali vengono addirittura riciclati: Schiavone mandava di tutto, da plastica a rifiuti ospedalieri, e il materiale veniva riusato per fabbricare giocattoli e occhiali.Da rivendere, nuovamente, sulle bancarelle italiane.

Una strategia consolidata: la Dia sta lavorando da mesi a un'inchiesta (con perquisizioni e sequestri a Roma, Frosinone, Napoli, Pescara, Catania e Milano) che ipotizza lo stesso circuito: centinaia di tonnellate di rifiuti mandati sotto la Muraglia, lavorati e reintrodotti in Italia, destinati a fabbriche di materie plastiche. Mafia cinese, camorra e 'ndrangheta hanno messo in piedi una rete che si basa, ancora una volta, sul nostro sistema portuale. Gioia Tauro e Taranto fanno la parte del leone, ma rifiuti speciali in partenza per l'Asia sono stati trovati anche a Salerno, Napoli, Venezia, Trieste e Ancona.

Nel 2006, secondo i calcoli dell'Agenzia delle Dogane, sono state sequestrate 9 mila tonnellate di rifiuti tossici destinati all'esportazione, la maggior parte diretti verso la Repubblica popolare. "I ricavi", spiega uno studio Scico, "sono elevati: Legambiente ha stimato che lo smaltimento legale di un container di 15 tonnellate pieno di materiale pericoloso ha un costo medio di 60 mila euro. Lo smaltimento illegale, per la stessa quantità, riesce ad abbattere il costo del 90 per cento". Risparmi che giovano alle imprese del Nord e alle casse della mala. Le dimensioni del fenomeno sono diventate gigantesche in un battibaleno: l'operazione 'Grande Muraglia' del Noe di Reggio Calabria ha intercettato 135 container con 750 tonnellate di plastica, 1.570 di metalli, 150 di contatori elettrici, 700 di carta, dieci di auto usate e gomme. Le aziende italiane coinvolte sono 23.

I mercanti di rifiuti sono cinesi che parlano bene italiano, intermediari in giacca e cravatta che mettono in contatto, con il beneplacet della mafia tricolore, gli interessi nostrani con quelli della madrepatria: i trafficanti alla Borsa della monnezza comprano di tutto. Il campo di gioco si è ampliato nell'ultimo lustro, e le rotte del veleno toccano ormai quasi tutte le regioni. L'operazione 'Mesopotamia' della Procura di Udine ha scopertocentri di stoccaggio per 12 mila metri quadri, e rapporti criminali strettissimi tra imprenditori locali e mafiosi cinesi. A Salerno e Napoli tra il 2005 e il 2007 i container sequestrati diretti a Hong Kong e Shanghai sono una ventina, mentre migliaia di residui tossici di pellami e altri materiali pericolosi sono stati bloccati a Mestre, Trieste, Livorno e Catania.

LA PACE MAFIOSA
Se rapimenti, estorsioni e investimenti in ristoranti sono business che le Triadi gestiscono all'interno della comunità senza 'infastidire' nessuno, i nuovi interessi del dragone confinano spesso con quelli di camorristi, 'ndrine e famiglie siciliane. I cinesi hanno accuratamente evitato la strategia dello scontro, preferendo venire a patti e iniziando ad agire, come scrive la Dia in un rapporto riservato, "secondo le dinamiche e le metodologie tipiche" dei criminali italiani. Non stupisce che i legami si stiano facendo sempre più intensi. Se è noto il rapporto tra napoletani e cinesi per dividersi i proventi del made in Italy contraffatto, la direzione investigativa antimafia ha lavorato sulla liaison tra camorra e mafia gialla nel settore miliardario dell'import-export. Salvatore Giuliano, il vecchio boss di Forcella, è stato il primo ad ammettere di aver stretto accordi con i mammasantissima dell'Esquilino.

Durante un interrogatorio ha riconosciuto in foto Sun Shengde, ristoratore e commerciante di successo, attualmente membro della Camera di Commercio Europa-Asia. La moglie gestisce alcuni capannoni di Commercity, un centro di stoccaggio sulla Portuense che raccoglie il 70 per cento delle merci cinesi sbarcate nei porti di Napoli, Bari e Civitavecchia: per la Dia parte dei containar del Golfo venivano trasportati dai fratelli Ruoppo, già pregiudicati per associazione a delinquere e contrabbando. Shengde esce presto dalle indagini: sull'imprenditore, amico dell'ambasciatore italiano a Pechino, in contatto con consoli e politici italiani, non ci sono prove. Ma altri personaggi rischiano di finire presto agli arresti: sarebbe il primo blitz contro l'alleanza tra le due mafie. Lo scambio è semplice: la camorra impone il prezzo finale sulla vendita della merce e condiziona le attività commerciali, i cinesi sfruttano i servizi che gli affiliati al Sistema possono offrire per aggirare dogane, importazioni illecite, gabelle e controlli. Così il matrimonio diventa anche societario: i cinesi hanno fatto entrare nel capitale di aziende di spedizione gente come Giovanni Lucignanno e Nicola Diana, vicino ai Casalesi, e altri boss delle famiglie campane.

Ridotte in schiavitù, le prostitute cinesi in Italia
raramente lavorano sul marciapiede

MEGLIO LE GIAPPONESI
La mafia cinese falsifica documenti, borsette, bolle di accompagnamento, giochi e Ferrari. Persino le prostitute cinesi si spacciano per squillo giapponesi. 'Giapponese, bella, ventenne' è l'annuncio pubblicato sui giornali con cui un bordello di Pescara adescava i clienti. Stessa strategia in Lombardia e Veneto: professionisti e industrialotti escono pazzi per gli occhi a mandorla, ma Tokyo resta nell'immaginario più sexy di Pechino. I commercianti di carne lo sanno, e danno ai clienti quello che vogliono: nessuno chiede il passaporto a fine prestazione. La prostituzione cinese, da sempre settore poco redditizio della mafia gialla, ha cambiato improvvisamente marcia, moltiplicando la platea: prima le schiave e le baby-lucciole erano destinate a soddisfare esclusivamente i cinesi; da qualche mese carabinieri e Polizia hanno scoperto centri-massaggi, retrobottega di negozietti e appartamenti aperti a tutti.

"Una piccola rivoluzione: mettere in contatto le due comunità è sempre stato considerato rischioso", dice il comandante Gibilaro. Ma l'affare è grosso, e le operaie del sesso possono fruttare molto più di quelle piazzate davanti alle macchine per confezionare vestiti. Lo scorso aprile all'Esquilino la polizia ha arrestato tre cinesi responsabili di'riduzione in schiavitù' finalizzata allo sfruttamento della prostituzione, scoprendo un giro di case d'appuntamento in cui lavoravano decine di ragazze. Listino salato per gli avventori: tra 100 e 300 euro a prestazione, con un introito giornaliero di circa 3 mila euro a testa. Stessi prezzi stabiliti da una banda italo-cinese di Nimis, in provincia di Udine, che reclutava clienti (in genere milanesi) attraverso call center sotto la Madonnina.

La retata più grossa è dello scorso settembre: otto arresti e sette denunce a La Spezia, Genova, Prato, Firenze e Montecatini. "A differenza di albanesi e nigeriane, le cinesi non lavorano mai sul marciapiede, ma in appartamenti di facile accesso: in genere al primo piano, in palazzi senza portiere, con ingresso indipendente", racconta Giulio Sanarighi, capo ufficio analisi dello Scico: "Sono tutte costrette a orari massacranti, e vengono sostituite ogni due settimane. Vivono un incubo, vengono liberate solo se riescono a pagare il debito che hanno maturato per entrare in Italia". Una condizione che riguarda tutti gli schiavi. L'organizzazione può rifarsi anche sui parenti rimasti a casa. Qualcuno ha dichiarato che nemmeno il suicidio sarebbe una via d'uscita: la condizione debitoria della famiglia non cambierebbe.

SOLDI SPORCHI
Gli esperti dello Scico non usano giri di parole. "In molti ci chiedono come fanno a sopravvivere quei negozi che vendono vestiti non esattamente all'ultima moda. Alcuni sono regolari. Ma molti sono solo un paravento per altre attività. Dalla 'ndrangheta i cinesi hanno copiato l'idea di collezionare esercizi per poter emettere scontrini, in modo da giustificare i redditi guadagnati con le vere attività redditizie, quelle illecite. Grazie a negozi e appartamenti, comprati in contanti e a prezzi fuori mercato,si ricicla anche denaro sporco. In ultimo, le vetrine fungono come una sorta di catalogo: vestiti e pantaloni non si vendono al dettaglio, ma i grossisti possono scegliere i capi per poi andarli a prendere nei magazzini fuori città".

Tra attività lecite e commerci da codice penale è indubbio che la comunità cinese si sia rapidamente arricchita. Nel centro di Roma lo stile di vita della borghesia rivaleggia con quello dei residenti romani: Suv, cellulari costosissimi, scuole private e ristoranti da 100 euro a persona. Stesse abitudini a Prato, a Vicenza, nel Pratese, a Firenze. Da dove vengono i soldi? Le rimesse verso Wenzhou e lo Zehjiang toccano livelli monstre, e la Guardia di finanza ha iniziato a indagare sugli 'anomali' sistemi di trasferimento. Effettuati quasi solo con il money transfer, nonostante le agenzie facciano pagare commissioni ben più alte rispetto a quelle praticate dalle banche.

"Le operazioni", spiega il comandante della Gdf di Prato Marco Defila, "sono sempre in contanti, con importi compresi tra i 12 mila e i 12.500 euro, in modo da aggirare i controlli previsti dalla legge antiriciclaggio. Una delle agenzie controllate, solo nel 2007 ha spedito mezzo miliardo di euro". Una rete su cui viaggia un tesoro da capogiro. Difficile affermare che siano tutti soldi sporchi, ma i sospetti sono molti. A gennaio la polizia valutaria ha denunciato 12 italiani e sei cinesi residenti a Roma, Milano, Firenze e Prato, creatori di una banca illegale composta da vari 'sportelli'. Ognuno movimentava oltre un milione di euro al giorno. I clienti identificati hanno la fedina sporcata da condanne per contraffazione, contrabbando e crimini tributari. "Per combattere la mafia cinese dobbiamo partire da qui: i reati finanziari comprendono i profitti delle altre attività illegali, e possono raccontare un intero sistema criminale", chiosa Gibilaro: "Per vincere dragoni e organizzazioni affini servono competenze e strumenti particolari: perché il nemico è scaltro, impermeabile, potente e molto determinato".

 

La storia dei traffici illeciti dal Nord al Sud è documentata dagli atti delle Commissioni e fu denunciata nel 1995 da manager e parlamentari

"Bolle false e finti trattamenti, così camuffiamo i veleni"

Parla un broker della monnezza: questa truffa è nota a tutti

di CARLO BONINI

Ci sono ancora tonnellate di rifiuti nelle strade di Napoli

ROMA - "Il presidente della Repubblica ha ragione. La Campania è stata per molti anni la pattumiera del nord. E dico anche, mi scuseranno i napoletani, che come questo sia stato possibile è ormai il segreto di Pulcinella". L'uomo ha l'accento marcato delle valli lombarde. Ha meno di 40 anni e da più di 15 sposta e spinge rifiuti da un estremo all'altro del Paese. Chiede l'anonimato, perché qualche problema di giustizia lo ha già avuto e non intende averne altri. Perché di "monnezza", pericolosa o innocua che sia, speciale o meno che sia, ci campa.

Gli imprenditori come lui li chiamano "broker". Intermediano tra il rifiuto che caricano e la discarica in cui lo sversano. Al committente, pubblico o privato, offrono un servizio chiavi in mano: trasporto, conferimento e smaltimento. Formalmente, "clean", pulito, proprio come vuole la battuta di Toni Servillo nel film "Gomorra". Ma che lo sia davvero, "clean", questo dipende solo da loro. Perché l'industriale che firma per lo smaltimento di fanghi, vernici, acidi o altri residui di lavorazioni tossiche non vuole e non deve sapere che fine quei rifiuti faranno. Perché non vuole e non deve portarne la responsabilità per eventuali danni alle persone e all'ambiente. Dal sistema ci guadagnano o quantomeno ci hanno guadagnato tutti i protagonisti del ciclo. L'imprenditore che dimezza il costo di smaltimento. Il broker che ricarica sui costi fino al cinquanta per cento. La discarica non autorizzata che interra i veleni.

Di aziende di "intermediazione rifiuti" in Italia ce ne sono almeno un migliaio. "Di fatto - spiega il nostro broker lombardo - parliamo sempre delle stesse cinquanta persone cui quelle società, in un modo o in un altro, fanno capo". La storia dei traffici illeciti di rifiuti nord-sud documentata dagli atti parlamentari delle diverse commissioni di inchiesta è quella di indagini a loro modo esemplari come "Re Mida" o "Eldorado". E' quella che, a partire dal 1995, denunciarono con forza e nel completo disinteresse parlamentari come Massimo Scalia (presidente della prima commissione di inchiesta sui rifiuti) e quindi manager coraggiosi come Roberto Cetera e Lorenzo Miracle di "Ecolog" (la società del gruppo Fs che in sette anni di emergenza ha smaltito circa due milioni di tonnellate di rifiuti in Germania), oggi costretti agli arresti domiciliari dall'accusa della procura di Napoli di aver commesso ciò contro cui hanno pubblicamente combattuto in solitudine per anni (traffico illecito di rifiuti), a cominciare dalla denuncia del ruolo opaco dei centri di stoccaggio e trasformazione umbri, per finire alle società di trasporti campane.

Il broker lombardo sorride. "Il Sistema del traffico illecito dei rifiuti ha sempre camminato su due gambe. Il trasporto su gomma e l'intermediazione fasulla dei centri di stoccaggio e trasformazione. Da questo punto di vista, ovviamente i treni per la Germania sono sempre stati visti come fumo negli occhi. Detto questo, il Sistema non ha funzionato sempre nello stesso modo. E' andato affinandosi con il tempo. Cambiavano le leggi in senso restrittivo, si trovavano nuovi mezzi per aggirarle".

In principio - correvano i primi anni '90 - fu davvero "l'età dell'oro". Nessun controllo, libera circolazione dei mezzi lungo l'Autosole. "Per un chilo di rifiuti tossici, l'industriale del nord arrivava a pagare anche 600 lire. Il costo effettivo per lo smaltimento nelle discariche campane era tra le 20 e le 30 lire. L'utile, dunque, di circa il 90 per cento". A Pianura finirono i fanghi venefici dell'Acna di Cengio e Dio solo sa cos'altro, se è vero come è vero, racconta l'uomo, che "in una discarica di Giugliano venivano interrati direttamente i cassoni dei camion che arrivavano dalla Lombardia, dal Veneto, dal Piemonte".

Poi venne approvato il decreto Ronchi, cominciò l'emergenza campana e le cose, almeno apparentemente, si complicarono. Ai rifiuti (quale che ne fosse la natura) venne attribuito un codice di identificazione che avrebbe dovuto consentire di tracciarne il percorso dalla sorgente alla foce. Per impedire ai committenti di dichiarare in partenza rifiuti diversi da quelli che venivano caricati e alla discarica di accettare monnezza per la quale non era autorizzata allo smaltimento.

Il Sistema si adeguò. "I trucchi erano e restano a tutt'oggi due. Il primo si chiama "girobolla". Il secondo, che ne è una variante, è lo "scarico di conferimento"".
Il girobolla funziona come il gioco delle tre carte. "Il rifiuto pericoloso esce dalla fabbrica del nord con un codice e una destinazione finale. Diciamo in Campania. Lungo la strada si ferma almeno due o tre volte in altrettanti impianti di stoccaggio e trasformazione, che sono per lo più concentrati tra Toscana e Umbria. In questi centri, al trasportatore viene consegnata una nuova bolla di accompagnamento che non è più quella originaria, ma un documento di trasporto che certifica, in modo falso, che il carico di rifiuti è stato trattato e trasformato in innocuo materiale di recupero. In realtà, l'immondizia non è mai scesa dal camion. Ma quando arriva in discarica può essere accolta perché risulta essere altro da ciò che è".

L'industriale a monte è libero da ogni sospetto o seccatura perché avrà da mostrare un documento che attesta il trattamento intermedio di quei rifiuti e per la stessa ragione lo saranno il broker e la discarica che quei rifiuti ha interrato. Lo "scarico di conferimento" è ancora più semplice. Nel centro di stoccaggio e trasformazione il carico di rifiuti cambia di mano. "Il camion che ha fatto la prima tratta se ne torna indietro e la responsabilità dello smaltimento diventa del centro di stoccaggio. A questo punto arrivano i camion dal sud. Caricano e sversano dove solo loro sanno. In Campania o anche in regioni limitrofe".

Il finto declassamento dei rifiuti o il loro passaggio di mano rendono di fatto irrintracciabile la reale origine del carico e la sua effettiva destinazione. Fanno da diga tra chi i veleni li produce e chi li interra. Dice l'uomo: "Faccio un esempio per far capire come andassero le cose ancora nel 2003. Milano era in piena emergenza e l'Amsa conferiva i suoi rifiuti solidi urbani, dunque non nocivi, in Campania, dove però era scoppiata a sua volta l'emergenza. A Napoli, l'allora commissario straordinario vietò l'importazione di rifiuti da altre regioni, ma con il meccanismo del conferimento dei rifiuti a centri di stoccaggio intermedi i rifiuti milanesi continuarono ad affluire nella discarica di Trentola Ducenta, in provincia di Caserta".

Tutti sapevano. Tutti sanno. Compresi, evidentemente, chi i carichi velenosi li trasporta. "Loro sono davvero le ultime ruote del carro. Lo fanno per mangiare. I camion fanno una prima tratta da sud a nord trasportando merci regolari e per non tornare indietro vuoti caricano immondizia. Quale che sia". Del resto, i controlli lungo il tragitto pare non spaventino proprio nessuno. "Un conto è essere bloccati dalla Forestale o dai carabinieri del Nucleo di tutela ambientale. Ma questo succede soltanto quando si è finiti in un'indagine, magari si è stati intercettati e si sa quale è il camion da fermare. Un altro conto è essere controllati dalla polizia stradale. Il camion viaggia chiuso e se i pesi sono rispettati e le bolle di accompagnamento sono a posto, nessuno andrà ad aprire i cassoni per vedere se davvero ciò che c'è dentro è o meno materiale nocivo. E il gioco è fatto".

 

3 giugno

 

Ho comprato un clandestino

di Fabrizio Gatti

Bastano 30 euro al giorno. Dall'industria all'agricoltura, da nord a sud, lo sfruttamento dei lavoratori in nero è una piaga nazionale. In crescita. Intanto il pugno di ferro del governo lascia impuniti imprenditori e aziende Operai immigrati in una fabbrica di VicenzaHo appena comprato un clandestino. Roy, 31 anni, arrivato cinque anni fa come turista dal Bangladesh, costa meno di un pieno di benzina. Chiede 30 euro a giornata per lavorare come muratore. Anche quattordici ore al giorno, dall'alba a sera tardi. Fanno due euro e 14 centesimi di paga l'ora. Una stretta di mano conclude l'accordo. Senza che lui sappia molto di me né io di lui. Ogni mattina presto Roy appare in piazzale Roma, l'ultimo brandello di strada davanti alla laguna di Venezia.

E se nessuno lo chiama nella città d'arte, torna ad aspettare alla stazione di Mestre. Alla fine dei lavori potrei anche non pagarlo. Potrei prenderlo a schiaffi: se lui fosse così pazzo da chiamare la polizia e beccarsi l'espulsione, rischierei al massimo sei mesi di reclusione. Potrei rubargli il portafoglio: ammesso che mi voglia denunciare, il furto è punito da sei mesi a tre anni. Potrei fargli credere che gli procurerò un permesso di soggiorno in cambio dei suoi risparmi e truffarlo: non rischierei più di tre anni. Potrei essere lo sgherro di un'associazione a delinquere e sfruttarlo: la mia condanna partirebbe comunque da un anno. Sempre meno di quanto rischierà Roy quando verrà approvato il disegno di legge sul reato di immigrazione clandestina: fino a quattro anni di carcere, per essere semplicemente un muratore.

Perfino una parte autorevole dei vertici di carabinieri e polizia sostiene che è anche colpa della legge firmata nel 2002 da Umberto Bossi e Gianfranco Fini, se in Italia ci sono tanti clandestini: perché restringe all'infinito le possibilità di ingresso, punisce i lavoratori stranieri non in regola e garantisce sempre una via d'uscita indolore ai datori di lavoro che li sfruttano. È tutto scritto in un rapporto riservato, consegnato al ministero dell'Interno nell'ottobre 2006, all'indomani dell'inchiesta de 'L'espresso' sulla schiavitù e il caporalato in Puglia. L'analisi riguarda le condizioni degli stranieri in tutta Italia. "Sono gli imprenditori, che si avvalgono dell'intermediazione abusiva, i soggetti principali che avviano questo sistema di illegalità", denuncia il rapporto, "incentivati sia dai maggiori profitti derivanti dal lavoro nero, e dunque dalla mancata regolarizzazione delle posizioni lavorative, sia dalla celerità e dalla flessibilità con le quali possono essere soddisfatte le richieste di manodopera".

Lo studio suggerisce di introdurre sanzioni per i datori di lavoro, oltre che per intermediari e caporali. È firmato dall'allora vicecapo della polizia, Alessandro Pansa, diventato poi prefetto a Napoli, che presiedeva la commissione formata anche dal generale di brigata dei carabinieri, Salvatore Scoppa, e dal colonnello Luciano Annichiarico, responsabile del comando carabinieri per la tutela del lavoro. Il dossier è puntualmente scomparso in un cassetto. Prima per l'instabilità del governo di Romano Prodi. Ora per le decisioni diametralmente opposte annunciate da Silvio Berlusconi e dal ministro dell'Interno, Roberto Maroni.

Altro che badanti da salvare. La visione coloniale, secondo cui l'immigrazione da regolarizzare è soltanto la servitù di casa, esclude dalla legalità una parte importante dell'economia italiana. Lavoratori che, pur non essendo in regola con i documenti, partecipano attivamente al nostro prodotto interno lordo. Dati di Unioncamere: il 9,2 per cento del Pil italiano deriva dal lavoro degli stranieri, regolari e irregolari. L'agricoltura che riempie le nostre tavole di frutta e verdura ne è un esempio: il 95 per cento dei braccianti stranieri in Sicilia, Calabria, Campania, Puglia e Lazio è ingaggiato senza contratto di lavoro e più dell'80 per cento è senza permesso di soggiorno. Lo denuncia il dossier 'Una stagione all'inferno' presentato a metà maggio dalla missione in Italia di Medici senza frontiere.

È l'aggiornamento di un'inchiesta pubblicata nel 2005 sull'agricoltura al Sud. "Dopo tre anni", spiega Loris De Filippi, responsabile delle operazioni di Msf, "abbiamo constatato che nulla è cambiato". Pochi giorni fa l'Istituto nazionale di economia agraria, ente di ricerca del ministero per le Politiche agricole, ha quantificato il numero di lavoratori stranieri nel settore: 150 mila, di cui 70 mila al Nord. Nel 1995 erano 30 mila in tutta Italia. Non esistono censimenti sui clandestini e solo queste cifre permettono di stimare il numero di lavoratori non in regola sfruttati nell'agricoltura. Secondo i dati consegnati dai carabinieri al ministero, sui 22 mila 295 stranieri occupati nelle aziende agricole controllate in Italia nel primo semestre 2006, il 24,21 per cento era senza permesso di soggiorno: significa che dalla Sicilia al Friuli i clandestini ingaggiati come braccianti sono più di 36 mila. Così se un giorno il governo volesse eliminare il lavoro irregolare in agricoltura attraverso il reato di immigrazione clandestina, dovrebbe far arrestare 36 mila lavoratori. E trovar loro posto nelle carceri già affollate da 48.600 persone. Senza contare il costo della detenzione e delle espulsioni: servirebbero almeno 103 voli a pieno carico di Boeing 747 per riportare tutti ai Paesi d'origine.

Dovremmo poi dire addio più o meno al 24 per cento della produzione agricola italiana. Pomodori e uva marcirebbero sulle piante, i prezzi di vino, formaggi e verdure correrebbero più del petrolio. La carta e l'inchiostro per stampare i permessi di soggiorno costerebbero sicuramente molto meno. "Ma gli imprenditori non rinunceranno alle braccia a basso costo", spiega l'avvocato di Milano, Domenico Tambasco, esperto di diritto dell'immigrazione: "L'economia sostituirebbe gli espulsi con altri lavoratori irregolari. Altri migranti passerebbero le frontiere lungo le rotte più pericolose. E poiché è impensabile l'espulsione di decine di migliaia di persone, la nuova legge spingerebbe i lavoratori a vivere da latitanti, a nascondersi. A essere ancora più schiavi. Ci vorrebbe uno sciopero di tutti gli immigrati: solo così emergerebbe il vero peso dell'immigrazione nel sistema economico nazionale". Il carcere non è comunque una novità: la legge già prevede la detenzione fino a quattro anni per i clandestini sorpresi una seconda volta. "Prima dell'indulto", ricorda l'avvocato di Padova, Marco Paggi, "il 25 per cento della popolazione penitenziaria era composto da stranieri detenuti unicamente per non aver rispettato il decreto di espulsione".

L'edilizia è un altro settore di grande sfruttamento. Il rapporto di polizia e carabinieri consegnato al ministero dell'Interno rivela che su 2943 imprese controllate in Italia nel 2006, ben 2004 avevano violato le norme di assunzione del personale straniero e 45 erano completamente sommerse. Perfino nel Nord-Est, modello dell'economia rampante e xenofoba che piace alla destra nazionale, i clandestini hanno ormai una funzione insostituibile. "La presenza di lavoratori irregolari", spiega Stefania Bragato, del Consorzio per la ricerca e la formazione, "varia dal 24 per cento della provincia di Rovigo, al 22 della provincia di Venezia, al 20 di Verona, scendendo al 15 di Treviso. Una media intorno al 18 per cento".

Certo, colpire i datori di lavoro vorrebbe dire essere disposti ad arrestare decine di industriali nel Veneto leghista dove, secondo dati raccolti anche dalla Cgil, l'impiego di clandestini nella filiera produttiva del tessile sale al 27 per cento. Oppure ammanettare le migliaia di casalinghe anziane che, alla ricerca di una badante, una colf o un muratore per piccoli lavori, non ne vogliono sapere di pagare uno straniero a posto con documenti, assicurazione e bollettini. "Il paradosso è che un clandestino trova lavoro più facilmente di un regolare. Vengono perfino qui a chiedere come fare", dice Leonardo Menegotto, responsabile immigrazione della Cgil di Mestre: "Rifiutano i regolari perché, dicono, vogliono essere messi a contratto. Io rispondo che queste informazioni non le diamo".

La denuncia nel rapporto riservato di polizia e carabinieri è un'accusa senza alibi: "Il lavoro nero e l'economia irregolare, per dimensioni e pervasività, hanno assunto la configurazione di una componente strutturale del sistema produttivo nazionale... Le sanzioni previste dalla legge Biagi sono inadeguate a fronteggiare il fenomeno nel suo complesso... Il ricorso diffuso al lavoro nero rende scarsamente efficaci anche i meccanismi sanciti dalla normativa prevista per i flussi di ingresso di stranieri". Da sempre le quote non rispondono alle esigenze dell'economia. Ma nessun governo, nemmeno di centrosinistra, si è adeguato. Così quest'anno si è toccato un altro record: 758 mila dichiarazioni di assunzione per appena 170 mila permessi stabiliti dal decreto flussi.

Il risultato è catastrofico. Soprattutto al Sud dove la paura e l'insicurezza sono sentimenti quotidiani per migliaia di braccianti. Il 64 per cento vive in case abbandonate senza acqua. Il 62 senza servizi igienici. Il 92 per cento senza riscaldamento. Ad Alcamo, in Sicilia, il Comune ha allestito un dormitorio per i lavoratori stagionali stranieri. Ma la legge impedisce di accogliere clandestini. Mentre gli agricoltori del posto vogliono soprattutto clandestini. "Lo scenario è dei più impressionanti", è scritto nel rapporto di Medici senza frontiere, "il 39 per cento dei lavoratori dorme per le strade cittadine, il 27 in case abbandonate, il resto arrangiato in tende nei campi limitrofi". Una sera di ottobre a Gioia Tauro, in Calabria, viene investito Mamadou, 18 anni, bracciante emigrato dal Mali: dopo un mese con una ferita infetta alla coscia sinistra "al pronto soccorso gli operatori sanitari dichiarano di curarlo a titolo di favore. L'ortopedico non è presente, la gamba è dolorante e gonfia. Il paziente viene dimesso senza aver consultato lo specialista, senza bendatura di supporto e senza terapia".

L'Italia è spietata e cinica anche con chi è in regola. Abdou, 32 anni, laurea in lettere presa in Senegal, parla italiano, francese, inglese e capisce lo spagnolo. Lavora come assistente del direttore commerciale in un ditta a Pordenone. Potrebbe girare il mondo e fare carriera. Nell'aprile 2007 ha chiesto il rinnovo del suo permesso di soggiorno. Data dell'appuntamento in questura, per la foto segnaletica come fosse un delinquente: febbraio 2009. Il permesso lo riceverà dopo altri quattro mesi di attesa: "Spero", sorride, "intanto non posso uscire dall'Italia. Questa è una discriminazione". Abdou chiede di non rivelare il suo cognome. Per paura.

Ogni settimana 22 mila stranieri presentano alle poste la richiesta di rinnovo del soggiorno. E aspettano la convocazione in questura: "Qui a Treviso non rispondono nemmeno perché il sistema informatico non è tarato per fissare appuntamenti nel 2010", avvertono agli sportelli immigrazione in città. Proprio in questi mesi stanno entrando in Italia gli stranieri del decreto flussi 2006. Dopo due anni molti trovano che i loro datori di lavoro sono nel frattempo falliti, si sono trasferiti o sono morti. A loro le prefetture concedono permessi provvisori di sei mesi: verranno convocati tra un anno e mezzo, per ritirare un documento già scaduto da un anno.

Roy, il muratore bengalese, confessa che adesso ha paura di essere buttato fuori di casa. Ha saputo del decreto che da lunedì prevede la confisca degli appartamenti affittati agli stranieri senza permesso di soggiorno: "Dormo con quattro connazionali in regola. Mi hanno detto che devo trovarmi un altro posto". Può essere l'inizio di un assalto che porterà gli squali immobiliari a riappropriarsi a prezzi stracciati di interi quartieri storici. Il decreto non sembra così innocente: negli uffici dei broker di Milano si parla di appartamenti di cinesi, egiziani e peruviani che saranno confiscati e messi all'asta. Mentre migliaia di lavoratori clandestini già si chiedono dove andranno a dormire il prossimo inverno.

 

 

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