31 gennaio

'Goulart venne ucciso'. Parola di 007

Il presidente brasiliano vittima del golpe militare del 1964, è stato ucciso da agenti uruguaiani

Stella Spinelli

“João Goulart, il presidente brasiliano vittima del golpe militare del 1964, è stato ucciso da agenti uruguaiani aiutati dalla Cia, su richiesta del Brasile”. Questa la rivelazione che ha diviso l'opinione pubblica brasiliana, rilasciata dall'agente dei servizi segreti del governo di Montevideo, Mario Neira Barreiro. Lui stesso, in carcere a Charqueadas per traffico di armi, furto e formazioni di bande armate, dice di aver avuto un ruolo di primo piano nell'operazione. La sua verità è che Goulart, detto Jango, morto ufficialmente per attacco cardiaco il 6 dicembre 1976 in Argentina, dove scontava l'esilio forzato, fu avvelenato nell'ambito dell'Operazione Scorpione. Un ordine, quello di ucciderlo, che sarebbe partito dal dittatore Ernesto Geisel e recapitato da Sérgio Paranhos Fleury, delegato dell'allora Dipartimento di Ordine politico e sociale di San Paolo e uomo chiave fra la dittatura brasiliana e l'intelligence uruguaiana. Secondo la spia uruguaiana, dietro a tutto ci sarebbe stato il supporto finanziario della Cia, che avrebbe anche sborsato una fortuna per ottenere informazioni sull'ex presidente, detronizzato dopo aver annunciato una riforma agraria con tanto di espropriazioni di terre. Per giustificare il ruolo dell'Uruguay, una spiegazione molto semplice: il paese era completamente dipendente dal Brasile.

João GoulartPareri. Una versione che però non convince. Pur non venendo scartata dagli studiosi, li divide. Per Jorge Luiz Ferreira, storico dell'Università federale Fluminense e autore di una biografia su Jango, è impossibile scartare questa tesi, ma non esiste la minima prova a suffragio. “L'Operazione Condor fu una realtà. Secondo gli studi, i militari del Cono Sud erano convinti che, con la politica estera di Jimmy Carter, i regimi militari avessero i giorni contati. Quindi, tutto indica che avevano necessità di fare pulizia, liberandosi dei politici d'opposizione”, ha dichiarato il professore al giornale Folha. Ma poi ribadisce che ha molti dubbi, derivanti anche dalle condizioni di salute dell'ex presidente. “E' utile ricordare i suoi trascorsi medici. Era un cardiopatico, nel suo ultimo anno di vita non saliva le scale senza avere il fiatone. In quell'epoca, nessuno teneva conto del colesterolo”. Lo storiografico descrive un Jango buona forchetta, bevitore di whisky e gran fumatore: “Il primo infarto gli venne quando era vice di Juscelino e stava andando in Messico”.
 

João Goulart e Juscelino KibitschekAltra visione. Lo storico Marco Antonio Villa, dell'Università federale di São Carlos e autore del libro “Jango, un profilo” (2004), dice che affermare che il presidente fu assassinato è un tentativo mal riuscito di riscrivere la sua biografia. Villa si appella al fatto che nel momento della morte l'ex presidente non avesse nessuna influenza politica e che quindi nessuno avrebbe guadagnato dalla sua morte. “Costruire una figura coinvolta nella resistenza alla dittatura e per questo assassinato è una versione inseguita da chi vuol trasformare Jango in un presidente riformista”, ha aggiunto. E spiega di credere tanto meno nel coinvolgimento del delegato Sérgio Fleury. A suo dire, Fleury non aveva nessun ruolo di leader nella repressione in Brasile.
 

immagini dei militari durante il golpe che inseguono un ragazzoTroppe coincidenze. Secondo Villa, la Commissione della Camera che investigò nel 2001 sulla morte di Jango non trovò nessun elemento che lo inducesse a pensare a un omicidio. Il deputato federale Miro Teixeira, relatore della Commissione, accennò a circostanze dubbiose, ma non poté dire se fosse stato ucciso o meno. L'unica “certezza assoluta” è che Goulart venne perseguitato. Serafim Jardim, segretario di Juscelino Kubitschek, presidente del Brasile dal 1956 al 1961, e autore di "Juscelino Kubitschek: Onde está a Verdade?", difende invece la tesi dell'omicidio e ribadisce che sia giusto investigare ancora sulle morti di Juscelino, Jango e Carlos Lacerda (membro dell'Unione democratica nazionale, deputato federale dal 1947 al 1955, e governatore del Guanabra dal '60 al '65): "Queste morti sono grandi coincidenze. Io ho convissuto con Juscelino e l'ho sentito molte volte dirmi: "Mi vogliono uccidere". E perché non hanno mai voluto riesumare i corpi?”. Una serie di cose non chiarite che secondo Jardim rendono tutto troppo nebuloso.

Nel tentativo di approfondire la questione, Folha ha cercato di contattare sia l'esercito, che l'ambasciata statunitense, senza ottenere nessuna informazione rilevante. L'Esercito ha risposto che nessuno oggi sarebbe in grado di ricostruire quanto avvenuto allora, e dall'ambasciata Usa fanno sapere che tutti i funzionari allora in servizio hanno lasciato il paese. Nulla di fatto perfino da Montevideo: “Se lo riterremo opportuno, chiariremo la questione dopo la pubblicazione dell'articolo”.

 

30 gennaio

Il Risiko di Washington

Guam sostituirà Okinawa come avamposto geostrategico Usa nel lontano Oriente

La 'pacifica invasione', come è stata ribattezzata dai vertici militari Usa, terminerà nel 2014. Entro quella data, la popolazione dell'isola di Guam, 14 mila chilometri di distanza dalle coste della California ma ufficialmente territorio statunitense sarà aumentata del 25 per cento. I nuovi finanziamenti predisposti dal Pentagono porteranno 13 miliardi di dollari e quarantamila uomini, tra marines, ausiliari e contractors, che scorrazzeranno su un territorio di 549 chilometri quadrati, aggiungendosi ai 173 mila residenti. Questi ultimi sono solo in parte soddisfatti della decisione di Washington di fare dell'isola l'avamposto Usa più avanzato, per mostrare i muscoli alla Cina. Nei prossimi 6 anni, approderanno sulle spiagge tropicali di Guam sommergibili Trident, una task force per il lancio di missili balistici, caccia F-22 e forze speciali della Marina. I bombardieri B-2 'Stealth' sono già in loco, così come i sottomarini nucleari d'attacco, e i lavori per preparare la base all'accesso alle portaerei sono in corso da un pezzo.

Lavori in corso. L'isola cambierà radicalmente, più di quanto non abbia già fatto nel corso degli ultimi anni. Afflitta da tifoni e tempeste tropicali, tormentata dai terremoti, intasata dal traffico e dalla spazzatura, invasa da serpenti che si sono mangiati tutti gli uccelli, l'isola attende l'arrivo dei marines come una maledizione, più che una manna dal cielo. E' vero che gli introiti dell'erario pubblico, che già riceve 500 milioni di dollari, saliranno a 700 con i nuovi contribuenti. E' anche vero che i lavori infrastrutturali per l'ammodernamento della base costeranno al Pentagono 13 miliardi di dollari. Ma, nonostante la legge preveda che le imposte sul reddito - anche dei militari - debbano essere reinvestite a Guam, i soldi arriveranno un bel po' di tempo dopo che i nuovi arrivati avranno già messo piede nell'isola. Prima di allora, serviranno nuove strade, nuovi porti, nuove scuole. E i guamiani dovranno anticiparli.

Una vita migliore? Lo sviluppo, per Guam, sarà inevitabile. Ma ai residenti - 45 percento di etnia 'chamorro', 25 percento filippini, il resto bianchi o altri asiatici - spetterà ben poco. A nulla vale che i guamiani siano un popolo straordinariamente patriottico, che ha sacrificato alla causa delle guerre americane molti più uomini - in percentuale alla popolazione, ovviamente - che la stessa madrepatria. "Siamo orgogliosi - ha detto Michael W. Cruz, colonnello della Guam National Army che ha combattuto in Iraq e attualmente è il 'coordinatore' loca del piano di espansione della base - di essere 'la punta dello sperone', ma vogliamo anche che il governo federale garantisca la stessa qualità della vita anche al di qua del recinto militare. Vogliamo che la nostra vita sia migliore dopo l'arrivo dei marines, non peggiore".

Come comportarsi. A Guam arriveranno i marines trasferiti (a spese anche del governo giapponese) da Okinawa. Tokyo ha siglato un accordo di 6 miliardi di dollari con gli Stati Uniti per liberarsi di una presenza durata 60 anni, e per niente fulgida sotto il profilo del comportamento. Nel 1996, tre marines e un marinaio Usa rapirono e stuprarono una dodicenne giapponese. Per evitare questo tipo di episodi, a ciascun militare che metterà piede sull'isola di Guam verrà fatto seguire uno specifico corso su come comportarsi. I nuovi arrivati saranno in maggioranza giovani, in maggioranza single, e in maggioranza guerrieri. Chissà se avranno tempo e inclinazione per dedicarsi al Galateo.
Luca Galassi

 

L'ombra del genocidio

Un migliaio di morti, nuove violenze: il Kenya sprofonda nella guerra civile

"Abbiamo avuto l'impressione che le violenze siano andate oltre la questione delle elezioni presidenziali, assumendo vita propria". La dichiarazione dell'ex Segretario dell'Onu, Kofi Annan, in visita ieri nella Rift Valley, teatro in questi giorni di ulteriori, più feroci violenze tra le due etnie in conflitto in Kenya, non brilla sicuramente per perspicacia. Da un mese esatto, il Paese è avvolto in una spirale di violenza inter-etnica, dopo che le elezioni presidenziali del 27 dicembre scorso hanno decretato la vittoria di Mwai Kibaki, a spese dell'oppositore Raila Odinga. Questi non ha riconosciuto i risultati ufficiali, confortato anche dalle denunce degli osservatori della Ue. Da allora, il Kenya si è trasformato da stabile economia che ha fatto del turismo il suo fiore all'occhiello, in un inferno.

Massacro preordinato? Le violenze hanno avuto come bersaglio l'etnia kikuyu del presidente Kibaki. I carnefici sono in maggioranza Kalenjin, o Luo, politicamente all'opposizione. Dopo la rielezione di Kibaki, la popolazione Kalenjin è insorta, scatenando disordini ferocemente repressi dalla polizia. Con il passare dei giorni, e l'aumentare dei morti (un migliaio in un mese), il movente politico ha progressivamente perso rilievo rispetto alla matrice sociale, etnica, tribale. Il copione è sin troppo familiare, nell'Africa post-coloniale del divide et impera: un'etnia si avvantaggia sull'altra, privandola di diritti, dell'accesso all'istruzione, all'economia, alla vita politica. Si arricchisce a sue spese, le confisca le terre o la costringe a venderle. La esclude dal godimento delle ricchezze del Paese, dai posti di lavoro, dai privilegi, dal potere. Per questo alcuni hanno avanzato l'ipotesi che il massacro sia stato preordinato, e che la persecuzione nei confronti dei kikuyu sia stata attuata con scientifica premeditazione. L'ampiezza della carneficina e le modalità di 'eliminazione' del nemico (assalito a colpi di machete, bruciato vivo, lapidato) alimentano sempre più lo spettro del genocidio, la cui ombra si staglia inquietante sul presente di un Paese sino ad ora tra i più solidi e stabili del continente.

Colloqui difficili. Nel fine settimana sono state almeno 65 le vittime delle violenze scoppiate nella Rift Valley. Tanti sono i cadaveri allineati all'obitorio di Nakuru, capoluogo della regione. Ma i morti sarebbero molti di più, secondo fonti locali. Non tutti i corpi, infatti, sono stati condotti nelle camere mortuarie di Nakuru. Ancora incerto il bilancio nella città di Naivasha, non lontana da Nakuru, dove solo ieri sarebbero state uccise oltre 30 persone. Gli sfollati in tutto il Paese sono oltre 250 mila, e il futuro del Kenya è oggi nelle mani del presidente Kibaki e del rivale Odinga. Ciascuno dovrà nominare tre negoziatori per i colloqui di pace, che si terranno entro una settimana. Almeno secondo quanto annunciato da Kofi Annan.

Luca Galassi

Indonesia, morto Suharto

Mohammed Suharto divenne generale trucidando gli autonomisti indonesiani. E presidente con il massacro di mezzo milione di comunisti

Mohammed Suharto era nato nel 1921 da una famiglia contadina a Kemusu, un villaggio della regione di Yogyakarta, seconda città dell'isola di Giava. E' nato quindi nella dominante e maggioritaria etnia giavanese, comprendente 150 dei 225 milioni di indonesiani. I suoi genitori si separarono mentre era in fasce, e venne cresciuto nelle diverse famiglie create dai secondi matrimoni della madre. Dopo aver lavorato in banca in un villaggio giavanese, si arruolò nell'esercito dei colonizzatori olandesi nel 1940. In due anni venne promosso sergente.

Con l'invasore Nel 1942 i giapponesi invadono il suo Paese, nell'offensiva che li porterà a controllare gran parte dell'Estremo oriente. Suharto si arruola quindi nell'esercito degli invasori. I suoi biografi ufficiali scriveranno in seguito “credeva che la cooperazione con l'invasore fosse la via più rapida per ottenere l'indipendenza indonesiana dagli olandesi”. Dopo la sconfitta nipponica, Giacarta si proclama indipendente. Le truppe batave tornano in massa, provando a riguadagnare il controllo militare dell'arcipelago; Suharto si arruolò finalmente nell'esercito locale e combatte la guerra indipendentista per cinque anni. Nel '47 gli olandesi hanno il controllo di Giava, inclusa Yogyakarta. Suharto riesce a condurre una divisione all'assalto del suo capoluogo provinciale e strapparlo ai colonizzatori nel 1949. Quello stesso anno gli olandesi si ritirano e accettano l'indipendenza del paese.

Repressore Dal 1950 fu incaricato di portare a termine i lavori sporchi di repressioni delle ribellioni locali o di settori pro colonialisti. Nel '57 divenne capo di stato maggiore. Nel 1960 generale di brigata. Dal 1962 venne mandato a cercare di strappare la Guinea occidentale agli olandesi, che si erano tenuti quell'estremità orientale dell'arcipelago; la provincia diventerà indonesiana col nome di Irian Jaya. Dal '63 divenne il capo del 'Comando strategico' un organo designato a intervenire d'urgenza per le ''emergenze nazionali''.

Con la Cia Quando nel 1965 i due maggiori centri di potere indonesiano vennero in conflitto, Suharto ne approfittò per sfilare la sedia presidenziale sotto a Sukarno, primo capo di stato dell'indonesia indipendente e promotore del movimento dei Paesi non allineati, dopo la conferenza mondiale convocata a Bandung in Sumatra nel 1955. A metà anni '60 esercito e Partai Komunis (il partito comunista d'Indonesia) erano le entità più influenti a Giacarta. Il partito comunista era il terzo al mondo, dopo quello russo e cinese: tre milioni di iscritti. Nell'ottobre '65 alcuni gruppi di militari dissidenti di esercito ed aviazione provarono un golpe; vennero sterminati da Suharto, che ne approfittò per diventare il militare più quotato nella capitale. Una inchiesta interna alle divise indicò il partito comunista come orditore del complotto. Suharto s'incaricò di sterminare i comunisti per rappresaglia. Il generale intratteneva da decenni proficui rapporti con i locali ufficiali Cia, come risulta da una deposizione collettiva resa dai responsabili dell'agenzia di Giacarta al congresso Usa negli anni '80.

Quasi Mezzo milione di trucidati Suharto ricevette dalle mani del responsabile Cia per l'indonesia, Joseph Lazarski, una lista di nomi eminenti del partito da 'disattivare'. Il calcolo esatto venne fissato tra i 5mila e i 6mila nomi. Man mano che venivano 'disattivati' i dirigenti indicati in una lista, Suharto ne chiedeva una nuova, dopo che Lazarski e il capo politico dell'ambasciataEdward Masters controllavano uno a uno che il compito fosse stato portato a termine. Tutti i nomi vennero 'disattivati' per sempre, salvo chi si trovava già a Mosca o in altri paesi del Blocco. Intanto gli uomini di Suharto rastrellavano città e campagne, razziando le sedi del partito comunista una ad una. Ci sono calcoli del partito comunista in esilio che parlano di oltre un milione200mila morti in quel semestre. Per il Washington Post nel 1966 i morti erano oltre 500mila, per la Cia nel '68 250mila, con il massacro descritto “la maggiore carneficina che storia ricordi”. Una commissione indipendente ha stabilito in 350mila il numero più attendibile per gli uccisi nella 'purga comunista'. Un numero pari al triplo delle vittime, dai due lati, dei 12 anni del conflitto del Vietnam. “Abbiamo dato una grossa mano a questi ragazzi nel loro lavoro” ha detto al 'Washington Post' nel 1997 Robert Martens, esperto dell'ufficio politico dell'ambasciata Usa nel 1965. Martens disse ai media di aver impiegato due anni a compilare le liste. “A nessuno interessava che venissero trucidati, visto che erano comunisti”, ha dichiarato ai media Howard Federspiel, allora esperto d'Indonesia al Dipartimento di stato, sezione intelligence. “Avevamo più informazioni sui dirigenti comunisti di quanto ne sapesse lo stesso governo indonesiano – ha detto Marshall Green, allora ambasciatore Usa – e anche delle organizzazioni femminile e giovanile, avevamo raccolto più informazioni di chiunque altro su quella organizzazione”.

Presidente poco alla volta Nel marzo 1966 Suharto era il favorito del generale Sukarno al potere. Lo convinse a farsi dare ''pieni poteri per garantire la restaurazione dell'ordine''. Nel 1967 si faceva nominare dal Parlamento ''presidente vicario''. La figlia di Sukarno (convinto socialista, ma contro la politica imperialista del blocco sovietico), Meghawati Sukarnoputri, ha sempre accusato Suharto di essere un ''traditore della fiducia di mio padre''. Nel 1968 l'elezione definitiva. Suharto ha concesso il bis altre 5 volte nel 1973, '78, '83, '88, '93 e per l'ultima volta nel '98. La sua presidenza ha mirato a sopprimere ogni spazio pubblico per i simpatizzanti comunisti, e a dare sempre maggiore attenzione a intellettuali manager e politici che si dichiarassero vicini alle esigenze dell'Islam. Venne dichiarato illegale il Partai komunis e le associazioni parallele, come la Società dei lavoratori, il centro delle Donne indonesiane, e l'associazione dei Giovani.

Pro occidente e guerrafondaio Suharto chiuse le relazioni diplomatiche con la Cina maoista e fece rientrare il paese nell'organizzazione delle Nazioni Unite, dopo il ritiro di Sukarno nel 1965. Normalizzò i rapporti con la Malesia (alla quale Sukarno aveva dichiarato guerra per il controllo del Borneo) per creare una federazione socialista di Filippine Malesia e Indonesia. Nel 1975 invase Timor est dopo il ritiro dei colonizzatori portoghesi e la vittoria del fronte locale Fretilin d'ispirazione comunista. L'indonesia si integrò nella organizzazione regionale di libero scambio Asean e attrasse investimenti stranieri, fino a beneficiare di un benessere economico mai raggiunto prima. Ma a Giacarta si era formata una casta di tecnocrati vicini al presidente che controllavano tutte le maggiori industrie nazionali. Ognuno degli 8 figli di Suharto aveva in mano un settore strategico, dai trasporti al petrolio alle auto alle banche. Nel 1997 la rupia indonesiana sofferse della crisi delle monete asiatiche; il valore declinò rapidamente, generando iper inflazione e, a seguire, disoccupazione elevata. Nel 1998 Suharto si fece rieleggere, escludendo ogni discorso sul suo successore. I dirigenti del Fondo monetario internazionale alla terza missione in un anno per un prestito speciale che salvasse la rupia, si dissero pubblicamente scettici di recuperare l'economia senza ''grossi cambiamenti''. Gli studenti universitari scesero in piazza. La polizia a inizio maggio sparò ad una manifestazione, uccidendone sei. Giacarta per una settimana venne razziata da scontri che portarono a oltre 500 morti. A giugno il vecchio dittatore democratico si arrese alle pressioni internazionali e dei suoi vecchi alleati interni, per passare il potere al suo vice, l'ammiraglio M. Habibie, che resse il potere fino al 2001.

 

Caucaso russo senza pace

Guerra senza sosta in Cecenia e Daghestan; militarizzata l'Inguscezia

“Entro al fine dell’inverno, tutti i ribelli di Dokka Umarov saranno eliminati”. Parola di Ramzan Kadyrov, presidente della Cecenia, secondo il quale i guerriglieri sono ormai ridotti a “un piccolo gruppo di banditi che si aggira sulle montagne” e a combatterli sono ormai solo “poliziotti ceceni”, non più truppe federali russe.

Combattimenti in Cecenia. Le notizie che filtrano dalla repubblica cecena però lo contraddicono. Basta dare un’occhiata a quelle degli ultimi giorni, che registrano un’intensa attività di guerriglia, e non solo sulle montagne.
Domenica 20 gennaio due soldati russi sono morti in una battaglia nei pressi del villaggio di Niki-Khita, nel distretto di Kurchaloi. Nelle stesse ore altre truppe federali erano impegnate in un combattimento vicino al villaggio di Benoi, nel distretto di Vedenò.
Mercoledì 23 nelle foreste vicino ad Avtury, nel distretto di Shali, i militari russi sono caduti in un’imboscata: diversi soldati sono rimasti feriti. Secondo la guerriglia alcuni sarebbero anche morti.
Il giorno dopo, giovedì 24, i guerriglieri hanno attaccato un mezzo della polizia cecena nel pieno centro di Grozny, nel quartiere di Zavod: un agente è morto.
I ribelli sostengono di aver attaccato, lo stesso giorno, anche un mezzo degli militari russi a Nozhay-Yurt, uccidendone due, ma la notizia non ha ancora ricevuto conferma.

Battaglie e operazioni militari in Dagehstan. Se in Cecenia i barbuti di Umarov sembrano tutt’altro che sconfitti, le cose non vanno meglio nelle confinanti repubbliche di Daghestan e Inguscezia.
Nel distretto daghestano di Kazbek, confinante con quello ceceno di Nozhay-Yurt, mercoledì le truppe russe hanno ingaggiato una dura battaglia con i ribelli, uccidendone almeno tre. Non sono state fornite notizie sulle perdite russe.
Nel vicino distretto di Untsukul prosegue intanto da oltre un mese l’occupazione del villaggio di Gimry da parte delle truppe federali russe: a metà gennaio i servizi segreti russi (Fsb) dichiararono ‘zona di operazione antiterrorismo’ di questo piccolo paesino di montagna, dove pochi giorni prima un parlamentare locale era stato ucciso in un agguato dalla guerriglia islamica, orinandone l’occupazione militare.

Inguscezia blindata contro le opposizioni. La stessa cosa, ma su più vasta scala e con inquietanti risvolti politici, sta accedendo nella repubblica d’Inguscezia. Venerdì 25 l’Fsb ha dichiarato le aree urbane di Nazran e Magas e i villaggi di Barsuki e Nesterovskaya ‘zone di operazione antiterrorismo’, dispiegando per le strade forze speciali e mezzi blindati dell’esercito per prevenire il “rischio attentati” in occasione delle manifestazioni dell’opposizione anti-putiniana previste per oggi. “Il regime vuole intimidire la gente per impedirle di scendere in strada e manifestare”, ha dichiarato alle agenzie Magomed Yevloev, uno dei leader dell’opposizione. “Se l’esercito interverrà per disperdere le manifestazioni, Nazran si trasformerà in un campo di battaglia”.
Le proteste riguardano i risultati locali delle elezioni dello scorso 2 dicembre: il partito di Putin avrebbe ottenuto il 99 per cento dei voti con un affluenza al 98 per cento, ma l’opposizione ha raccolto le firme di 88mila persone (il 55 per cento degli elettori) che non hanno nemmeno votato.

 

29 gennaio

Aumentano gli assassini
Omicidi di natura politica si stanno moltiplicando nel paese centroamericano. A farne le spese soprattutto sindaci e aderenti a organizzazioni sociali
Scritto per noi da  Claudia Pessina 
 

Il 9 gennaio Wilmer Moises Funes, sindaco di Alegria, e Zulma Jaqueline Rivera, responsabile della Uaci (Unidad de Adquisiciones y Contrataciones ), sono stati uccisi mentre si recavano per una visita in una comunità vicina. L’omicidio è probabilmente di natura politica.


Il cadavere del sindaco di AlegriaI fatti. Ad Alegria, piccola cittadina del municipio di Usulutàn conosciuta per la sua laguna verde, da due settimane aleggia un’aria di tristezza e incredulità per la morte di Wilmer Moises Funes, 30 anni, e Zulma Jaqueline Rivera, 22 anni: due innocenti che si impegnavano per la comunità e che la mattina del 9 gennaio vennero uccisi da un uomo incappucciato, che dopo aver fermato la loro auto per chiedere informazioni, ha sparato alcuni colpi d’arma da fuoco. Con loro c’era anche l’autista che è sopravvissuto all’omicidio e che ora è sotto protezione.

Wilmer Moises Funes, sindaco di Alegria e Zulma Jaqueline Rivera, responsabile della Uaci (Unidad de Adquisiciones y Contraciones ) stavano andando in una comunità vicina per visitare un progetto.

Nessuno di loro era armato, perché nessuno di loro si sarebbe aspettato di venir ucciso a sangue freddo.


Le continue minacce. Ma Funes avrebbe potuto forse prevederlo: all’inizio del suo mandato, nel maggio 2006, aveva ricevuto minacce per avere denunciato irregolarità nell’amministrazione precedente, rappresentata dal partito di destra Arena.

Questo però non dimostra che proprio il partito che governa El Salvador sia all’origine dell’omicidio. Nemmeno il partito di sinistra, l’Flmn (Frente Farabundo Martì para la Liberaciòn Nacional), del quale Funes faceva parte, ha voluto accusare il suo avversario politico, anche se ha chiesto alla polizia “un’inchiesta oggettiva, professionale, perché questo crimine, che ha colpito un funzionario politico che è anche il padre di 3 figli e una innocente di soli 22 anni, non resti impunito”. La polizia sostiene di aver fermato alcuni sospetti, ma il nome di un colpevole non è stato fatto. I parenti, gli amici e la popolazione di Alegria ora sono spaventati e indignati per il crescente aumento degli omicidi e della violenza, che troppo spesso restano impuniti.

L’assassinio di Alegria ha fatto tornare indietrocon la memoria al tentato omicidio del padre di Wilmer Moisés Funes, che sopravvisse un anno fa ad un’imboscata simile.

E proprio il padre, al funerale, ha dichiarato che quello che non sono riusciti a fare con lui, sono riusciti a farlo con suo figlio.

 

24 gennaio

Crisi finanziaria, lavoro a rischio nel mondo
Ilo: “Cinque milioni di disoccupati in più”

Nel 2008 l’incertezza economica può fare crescere al 6,1 per cento la quota dei "senza lavoro" del pianeta. L'allarme per l’occupazione mondiale nel Rapporto annuale dell’Organizzazione internazionale del lavoro. Sono un miliardo e 300 milioni i lavoratori con una paga giornaliera inferiore a 2 dollari. In Europa rimane alta la disoccupazione giovanile.

di FEDERICO PACE

Sarà un anno difficile per l'occupazione quello che è appena iniziato. La flessione economica, conseguente alla crisi dei mercati finanziari e al rialzo deciso del prezzo del barile di petrolio, rischia di creare cinque milioni di disoccupati in più. Con l'effetto che la percentuale mondiale dei senza lavoro salirà al 6,1 per cento. Ma non basta. I numeri potrebbero essere ancora più preoccupanti qualora la crescita economica globale del 2008 dovesse rivelarsi più bassa delle stime indicate dal Fondo Monetario al 4,8 per cento. A lanciare l’allarme è l’Organizzazione internazionale del lavoro in occasione della presentazione, avvenuta oggi a Ginevra, del Rapporto annuale “Tendenze Globali dell’Occupazione".

Il rapporto sottolinea come nel 2007 la robusta crescita dell’economia mondiale pari al 5,2 per cento, che ha creato 45 milioni nuovi posti di lavoro, non è però riuscita a ridurre la quota dei disoccupati. Inoltre, se l’anno appena concluso aveva però portato una stabilizzazione dei mercati del lavoro nel mondo, il 2008 rischia di essere un anno caratterizzato soprattutto da “contrasti e incertezze”. E seppure anche in quest’anno verranno creati milioni di posti di lavoro, secondo le parole di Juan Somavia, il direttore generale dell’Ilo, la “disoccupazione rimane troppo alta e rischia di salire ancora , anche fino a livelli mai visti prima d’ora” e seppure “il numero di persone occupate sia ai livelli più alti storicamente”, sono ancora troppe le persone anche occupate che “continuano a rimanere nel gruppo dei lavoratori più poveri, vulnerabili e sfortunati”.

Minore impatto postivo della crescita economica sulla creazione di posti di lavoro e incapacità dello sviluppo a creare nuovi posti di lavoro a condizioni dignitose. Le sfide che coinvolgono il mercato del lavoro mondiale sembrano essere immutate se non divenute ancor più ardue. Nel 2007 il numero dei senza lavoro è stato pari a 189,9 milioni, quasi tre milioni in più rispetto a quelli del 2006. Negli ultimi dieci anni c’è stato un incremento pari a 22,1 milioni con un tasso di crescita del 13 per cento. Ora il tasso di disoccupazione globale è del 6 per cento e rischia di salire ancora.

Complessivamente dal 1997 a oggi il tasso di occupazione si è ridotto di un punto percentuale e a rimetterci sono stati soprattutto gli “under 24” dove la riduzione è stata pari quasi a tre punti percentuali.

Vulnerabili e senza diritti
Ad ogni modo a destare più preoccupazione è la quota, ancora troppo elevata, di coloro che, anche se all’interno del segmento degli occupati, deve misurarsi con condizioni di lavoro estremamente svantaggiate. Secondo i dati resi noti dell’Ilo, una persona su due si ritrova ad essere vulnerabile e coinvolta in impieghi di bassa qualità, con un rischio elevato di non avere tutele mentre si è privi di previdenza sociale e di alcun diritto sul lavoro. Il fenomeno colpisce soprattutto l’Asia del Sud, l’Africa sub-Sahariana e l’Asia Orientale.

Poveri lavori
Quanto alle condizioni economiche non c’è uno scenario migliore. Gli autori dell’indagine avvertono che quattro lavoratori su dieci sono poveri e quasi un lavoratore su sei nel mondo, circa mezzo miliardo, non riesce a innalzare il tenore di vita oltre la misera soglia di un dollaro al giorno con un miliardo e trecento milioni di lavoratori che si ritrovano a vivere con una paga quotidiana che non supera i due dollari. Con percentuali che superano l’80 per cento nell’Africa sub-Sahariana e nell’Asia del Sud. Per uscire da questa situazione, ribadiscono dall’Ilo, è necessario ridurre la disoccupazione e la povertà attraverso la creazione di lavori dignitosi.

Stagnazione d'Europa
Nel Vecchio Continente e nei paesi sviluppati l’impatto della crisi dei mutui sembra avere già fatto sentire il suo effetto con una riduzione di 240 mila posti di lavoro. Complessivamente, fino ad ora, l’impatto è stato controbilanciato dalla forte crescita economica e del mercato del lavoro che si è registrata in Asia. Il mercato occupazionale nell’Unione europea tra il 2006 e il 2007 ha mostrato segni di stagnazione e il numero dei disoccupati è cresciuto di 600 mila unità con un tasso che è rimasto pressoché immutato al 6,4 per cento dal 2003 a oggi. Il tasso di occupazione è poi cresciuto (+0,4 per cento) ai valori minimi degli ultimi cinque anni. Seppure il tasso di disoccupazione dei giovani nell’Unione europea è cresciuto meno di quello complessivo, il segmento più giovane dei lavoratori rischia ancora di rimanere disoccupato 2,4 volte di più degli adulti.

Il sorpasso dei servizi
Nel 2007, infine, la quota degli occupati nel settore dei servizi ha raggiunto il 42,7 per cento dell’occupazione totale. Le persone oggi impiegate nell’agricoltura sono invece il 38,7 per cento mentre nell’industria, in leggera ripresa, è attivo il 22,4 per cento della forza lavoro mondiale.

Volontà di potenza
Esercitazioni aero-navali nell'Atlantico, si dispiega la propaganda russa
Mosca mostra i muscoli e lancia 'la più grande operazione aeronavale' dal crollo dell'Unione Sovietica. Da lunedì, al largo dell'Oceano Atlantico, è impegnata una task force composta dalla portaerei Kutsnezov ('la più grande nave da guerra mai costruita' in Unione Sovietica), due fregate e numerosi altri natanti, seguiti da due bombardieri strategici Tupolev e altri caccia. I due aerei hanno sorvolato ieri il Golfo di Biscaglia per condurre un lancio simulato di missili Cruise, affiancati da apparecchi anti-sottomarino e 'monitorati' a distanza da caccia norvegesi e francesi. L'esercitazione di fronte alle coste di due Paesi alleati della Nato è l'ultima dimostrazione di forza del Cremlino, giudicata da alcuni come mera propaganda politica in vista delle elezioni presidenziali del 2 marzo prossimo.
 
Portaerei KutsnezovControbilanciare l'espansione della Nato. Per anni, dal collasso dell'Unione Sovietica, i generali hanno lamentato una flotta aerea e navale incapace di prendere il largo o di volare per mancanza di carburante o di pezzi di ricambio. Durante i due mandati da presidente, Putin ha lavorato molto per ricostituire quello che un tempo era il vanto sovietico, in vista non solo delle elezioni, ma soprattutto della costruzione di uno scudo anti-missile che gli Stati Uniti stanno progettando nella Repubblica Ceca e in Polonia. Uno spettro, quest'ultimo - il Premier polacco deciderà a febbraio se dare l'ok alle richieste di Washington - che ha portato Putin alla decisione di ripristinare le missioni a lungo raggio dei bombardieri, ordinando l'aggiornamento dei mezzi a propulsione nucleare, necessario - secondo il presidente russo - per 'controbilanciare l'allargamento dell'Alleanza Atlantica nell'Europa dell'Est'.
 
Parata del Giorno della vittoriaEstetica della paura. Nell'ambito di tale sfoggio simbolico di potenza militare, le autorità russe hanno anche deciso di riprendere le parate militari nella Piazza Rossa, una consuetudine interrotta nel 1990. Nel prossimo anniversario del giorno della vittoria, che si celebra il 9 maggio, è prevista infatti una grande sfilata militare nella quale verranno esibiti anche gli armamenti più recenti, i carri armati T-90 e i missili balistici a lunga gittata Topol-M. L'ultima parata risale al 9 maggio 1995, quando soldati e mezzi militari sfilarono nella Prospettiva Kutuzovsky, anzichè nella Piazza Rossa. Un'attivista per i diritti umani citata dalla Bbc, Valeria Novodvorskaya, ha spiegato che tale operazione è in linea con l'ideologia e la filosofia sovietica. "Quali progressi mostrare - si chiede la Novodvorskaya - in una società semi-totalitaria? Poichè non si possono far sfilare oleodotti, si mostra al mondo la potenza militare, nel pieno rispetto di quella 'estetica della paura' tanto cara ai leader sovietici. E tuttavia, tale dimostrazione di forza non è che simbolica, in quanto si cerca di nascondere il fatto che non siamo più una superpotenza militare".
 
L'opinione è condivisa da alcuni analisti militari, come Alexander Golts, che spiega come la Russia stia compiendo sì alcuni passi, ma modesti, nel campo dell'ammodernamento militare. "In termini assoluti, le spese militari russe sono inferiori a quelle cinesi, francesi e britanniche, e solo un decimo rispetto a quelle statunitensi", spiega Golts, secondo il quale i progressi tecnologici vengono utilizzati come propaganda. "Una propaganda inappropriata, e per un consumo esclusivamente interno".

23 gennaio


 "I COMPLICI"

Di Luisa Morgantini*

 Articolo pubblicato su Liberazione oggi, 22 gennaio 2008, in versione ridotta.

 "PALESTINA, BISOGNA ROMPERE IL SILENZIO.

ITALIA E EUROPA AGISCANO QUI ED ORA"

Le reazioni tardive e titubanti dell'UE stanno aggravando l'isolamento e il dramma della popolazione nei Territori

 Oltre quaranta Palestinesi uccisi e centinaia di feriti in una sola settimana di massicci raid israeliani nella Striscia di Gaza ma anche in Cisgiordania: tra le ultime vittime anche una donna morta nell'attacco al ministero dell'Interno di Gaza City, bombardata a tappeto venerdì 18 gennaio, secondo i piani di guerra e punizione collettiva contro   "l'entità nemica "   in cui vivono un milione e mezzo di persone.   

In queste ore dovrebbero riaprirsi i valichi per carburante e medicinali, ma dopo che gli abitanti della Striscia sono di fatto rimasti per ore al buio e al freddo  in seguito al taglio del combustibile dovuto a quattro giorni consecutivi di assedio totale, deciso dal Ministro della Difesa, ma in realtà della guerra, Ehud Barak che ha sigillato tutti i posti di confine, impedendo anche il transito dei convogli umanitari delle Nazioni Unite in una Striscia  già soffocata da mesi di chiusura, con i pazienti degli ospedali che non possono ricevere le cure, i generatori e le pompe dell'acqua fermi, le lunghe code per il pane davanti ai i forni, e l'Unrwa che annuncia: "Se l'attuale situazione persiste entro giovedì o venerdì dovremo sospendere la distribuzione di cibo per 860mila persone". L'Agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dell'assistenza ai profughi palestinesi, però, queste parole di denuncia le ripete da mesi, forse sfiorando appena gli orecchi dei "mercanti della politica e della guerra" se ancora in questi giorni, secondo l'appello lanciato da Amnesty International insieme ad altre ONG Palestinesi, almeno 13 malati gravi di cancro e di altre malattie gravissime non possono recarsi negli ospedali fuori della Striscia per ottenere le cure di cui hanno bisogno, rischiando di morire nel silenzio come sono già morte per i mancati permessi almeno 62 persone dall'inizio dell'assedio e come stanno morendo in queste ore anche i feriti degli ultimi bombardamenti.  

E' difficile star dietro ai numeri dei morti che aumentano di ora in ora ad ogni check di agenzie, difficile far capire che dietro ogni cifra ci sono bambini, donne e uomini: "Abbiamo ucciso 810 Palestinesi- dice Diskin, capo dello Shin Bet e il comandante di brigata a Gaza,  il Colonello Ron Ashrov si congratula  per aver condotto un operazione con grande successo la settimana scorsa a Zeitun, di successo perchè ha ucciso in un solo giorno19 Palestinesi .

E non ci sono parole  di condanna dalla Comunità Internazionale e neanche dall'Unione Europea, a parte le dichiarazioni isolate del Commissario UE per le Relazioni Esterne, Benita Ferrero-Waldner -che ha chiesto ieri a Israele "di riprendere le forniture di nafta e di riaprire le frontiere" agli aiuti umanitari -  e le voci sparse e tardive dei Governi Italiano, Francese e Spagnolo che esprimono preoccupazione su una " situazione umanitaria già catastrofica". Nessuno comunque finora, aldilà delle condanne per l'aggravamento della crisi umanitaria e delle richieste di far entrare medicine e carburante, ha preteso con fermezza la riapertura dei valichi della Striscia al transito di persone e merci e la fine dell'embargo che strangola Gaza, che rappresenta l'unico modo per fermare anche i lanci di razzi Qassam sui civili israeliani da parte di estremisti palestinesi, esecrabili,  controproducenti e segno di impotenza e rabbia, non di resistenza. L'Unione Europea, invece, è rimasta sorda di fronte alla risoluzione votata lo scorso 11 ottobre dal Parlamento Europeo con cui si chiede al Governo Israeliano di porre fine all'assedio di Gaza, e ha dimostrato un'assoluta mancanza di un ruolo politico efficace per una presa di posizione immediata contro tutto quello a cui stiamo assistendo,  ignavi, sempre e comunque responsabili.

L'UE dovrebbe chiedere  in primo luogo scusa per non aver contribuito a porre fine all'occupazione militare israeliana ed alla formazione di due popoli e due stati; scusa per i morti nella Striscia, per non aver intimato immediatamente e con voce unanime lo stop ai raid dei caccia israeliani. Scusa, per non avere ora la forza di proporre subito l'interposizione di una forza internazionale che protegga entrambe le popolazioni civili, della Palestina occupata e di Israele, che garantisca loro quella legalità e quella sicurezza che 40 anni di occupazione militare israeliana hanno spazzato via insieme alle speranze di pace, nonostante le promesse non mantenute di Annapolis.   

 Una forza internazionale di protezione ai civili, "per creare sul campo le condizioni minime perché il negoziato possa svilupparsi nel modo migliore" è stata del resto richiesta, nell'intervista di ieri sull'Unità, dal Premier Salam Fayyad, che si è anche appellato al Governo italiano per "agire, insieme agli altri paesi europei, su Israele perché ponga fine alle punizioni collettive inflitte alla popolazione civile di Gaza (…)  "   . 

Invece la politica dell'UE e della Comunità Internazionale ha contribuito alla divisione del popolo palestinese e all'indebolimento della sua rappresentanza politica; sprecando  l'occasione di rafforzarne la coesione rifiutandosi   di sostenere un Governo di Unità Nazionale in cui tutte le forze politiche della Palestina erano sedute attorno ad un tavolo, concordi su una piattaforma politica comune che accettava la ripresa dei negoziati con Israele, il diritto di due Stati per due Popoli basati sui confini del 1967 e con Gerusalemme Capitale condivisa. Abbiamo contribuito a creare questa crisi e il terreno per una logica gradita alla politica Usa e  israeliana del "dividi et impera" lacerando un popolo già abbastanza esausto, occupato e assediato. Anche ora siamo complici di questa logica se non ci facciamo portatori del principio che solo una politica di inclusione può gettare solide basi per una pace giusta e duratura, se non ci adoperiamo concretamente per aiutare gli sforzi tenaci del Presidente Mahmoud Abbas e del Primo Ministro Salam Fayyad per l'unità del popolo e del territorio palestinese, se non rilanciamo infine messaggi positivi, seppur nella tragedia, come quello avvenuto pochi giorni fa quando una delegazione di membri di Fatah nella Striscia di Gaza si è recata in visita dal leader di Hamas ed ex ministro degli esteri palestinese Mahmoud Az-Zahhar, per esprimere le condoglianze in seguito all'uccisione del figlio Husam durante uno dei raid israeliani nella Striscia, martedì scorso, o come il messaggio di cordoglio del padre del soldato Shalit rapito da Hamas e che non viene rilasciato perchè il governo israeliano continua a non voler liberare prigionieri palestinesi.

Con tutto questo sangue, con tutte queste morti, nessuno può essere assolto per il proprio silenzio.

L'Unione Europea, così come la politica del Quartetto, sono responsabili e devono assumersi subito le proprie responsabilità: pretendere la fine dei bombardamenti e dell'assedio di Gaza -come chiesta in tutto il mondo dalla società civile riunita nella campagna End the Siege ( end.gaza.siege@gmail.com; www.end-gaza-siege.ps)- che il giorno 26 vedrà organizzazioni israeliane, palestinesi ed internazionali cercare di rompere l'assedio manifestando insieme al valico di Erez portando convogli di beni raccolti tra la popolazione israeliana, anche a Roma così come in altre città del mondo si chiederà la fine dell'assedio di Gaza. Ma si  muovano i governi, le Nazioni Unite per  assicurare una protezione internazionale della popolazione civile, lavorare per l'unità del popolo palestinese e per la fine dell'occupazione israeliana. E soprattutto, è tempo di fare pressioni sul Governo Olmert per il rispetto delle parole date per la ricerca di pace e sicurezza, a cominciare dalla fine dei raid a Gaza e dall'espansione di insediamenti illegali sulle terre dei palestinesi nella West Bank e a Gerusalemme Est: questa politica porta avanti atti di guerra, sparge violenza e incita alla vendetta, distruggendo ogni possibilità di pace e sicurezza per entrambi i popoli.

Bisogna rompere il silenzio e agire: l'Italia e l'Europa raccolgano l'appello di Fayyad per "salvare Gaza dal dolore", è il modo per fare cessare anche i rockets che piovono sulla città di Sderot e sostenere i molti Israeliani e la stragrande maggioranza di  Palestinesi che vogliono pace e diritti reciproci e che ancora trovano il coraggio di rifiutare e la tenacia di resistere nelle lotte popolari e non violente.

 *Vice Presidente del Parlamento Europeo

 www.luisamorgantini.net; luisa.morgantini@europarl.europa.eu

Reportage dalla "Striscia" stremata dalla violenza e strangolata
dalla mancanza di rifornimenti. Scontri al confine egiziano

Buio e poche speranze
per Gaza stremata dalla guerra

Commentatori israeliani accusano: esagerati gli effetti dell'embargo
Fogne spaccate, attrezzature mediche che non funzionano
dal nostro inviato ALBERTO STABILE

<B>Buio e poche speranze<br>per Gaza stremata dalla guerra</B>

Povertà e mancanza d'acqua a Gaza

GAZA - Le acque nere delle fogne sono tracimate sulle strade della città assediata. Bambini e adulti devono
farsi strada a piccoli passi in un mare di escrementi. È bastato un giorno di black-out perché si formasse una fetida palude ad insidiare le case di Zeitun, lo stesso quartiere in cui la scorsa settimana sono stati uccisi 14 miliziani di Hamas in una sola notte.

Per risospingere indietro la colata, il direttore dell'acquedotto costiero, l'ingegnere Monther Shoblak, ha dovuto fare il gioco delle tre carte spostando il poco carburante rimasto da una pompa all'altra, delle 37 ancora funzionanti su un totale di 132, riuscendo così ad evitare l'inondazione e la probabile epidemia. Ma non ha potuto impedire che trentamila tonnellate di liquami non trattati venissero scaricati direttamente a mare.
Situazioni come questa per i prossimi giorni dovrebbero essere scongiurate. Ai cancelli della Centrale elettrica di Nusseirat, costruita nel 2000 con la partecipazione della bancarottiera Enron e la benedizione della Casa Bianca, vediamo arrivare di buon mattino la prima autobotte di carburante con le insegne dell'Unione europea, che paga anche questa bolletta. La centrale venne bombardata nel giugno del 2006, dopo il sequestro del soldato Gilad Shalit da parte di Hamas, e i suoi sei trasformatori vennero distrutti. E tuttavia resta un bell'impianto, un'isola di decoro e di efficienza, anche se, stando lì ai cancelli, ho l'impressione che l'autobotte che fa la spola con il terminale di Karni, per portare il combustibile sia sempre la stessa.

La buona notizie per gli abitanti di Gaza è, infatti, che il ministro della Difesa, Ehud Barak, ha autorizzato l'invio di 700 tonnellate di carburante sufficiente a far funzionare le due turbine della centrale per un paio di giorni. Domani e dopo ne dovrebbe arrivare dell'altro per un totale di duemila tonnellate e mezzo, in pratica, il fabbisogno di una settimana. Ma il manager dell'impianto, Mohammed Shariff, formatosi all'ombra di grandi compagnie petrolifere in Libia e nel Golfo, ostenta uno scetticismo che lui definisce "frutto dell'esperienza": "Ci crederò soltanto quando lo vedrò con i miei occhi".
Shariff, un sessantenne dalla barba ben coltivata, avvolto in un cappotto doppiopetto, una rarità da queste parti, sembra un uomo tranquillo. Interpreta il suo lavoro come "una missione" e parla della corrente elettrica come di un diritto naturale, "come l'acqua che beviamo e l'aria che respiriamo". Ripete che la centrale è una zona sottratta all'influenza della politica, in parole povere: né con Hamas né con Fatah. Una compagnia privata, e basta. Ma cosa risponde a commentatori israeliani che l'hanno accusato d'aver esagerato gli effetti dell'embargo, decidendo arbitrariamente di spegnere la centrale?
"Dico che non avevamo più neanche una goccia di carburante, a meno di non gettare nelle turbine residui pericolosissimi e mandare tutto all'aria. Il rappresentante dell'Unione Europea è venuto a verificare di persona. Lo stesso ha fatto il rappresentante delle Nazioni Unite. Qui tutti sono benvenuti, anche gli israeliani, se volessero farci l'onore. A parte il fatto che ci sono i media e anche i satelliti".
Una scialba, inanimata tregua scenderà, dunque, sul popolo degli assediati. La luce tornerà nelle case. I panifici torneranno a lavorare. I responsabili dell'Ospedale Shifa non saranno costretti a scegliere se continuare le dialisi o far funzionare le incubatrici. E questo sarà tenuto nel debito conto al Palazzo di Vetro, dove il Consiglio di sicurezza dell'Onu, su iniziativa dei paesi arabi, dovrà pronunciarsi.
Ma le concessioni israeliane non riguardano né il gasolio, né la benzina. E bastava percorrere le strade di Gaza, ieri, per vedere una città ridotta alla paralisi. Le macchine saranno pure inquinanti, fastidiose e troppo dominanti sulle nostre vite. Ma cos'è una città di cinquecentomila abitanti senza ombra di traffico per le strade? Le stazioni di servizio chiuse, i meccanici seduti a gambe incrociate fuori dalle officine?
La città e la Striscia, poi, sono ormai diventate quasi un unico agglomerato, una sola entità spaziale chiusa in cui si muovono come animali in gabbia un milione e quattrocentomila persone senza alcuna possibilità di uscire. Da giorni migliaia di donne premono alla frontiera di Rafah, con l'Egitto. Alcune accompagnano malati bisognosi di cure. Niente, la frontiera resta chiusa. Tensione. Incidenti con i poliziotti egiziani. Risultato: una cinquantina di feriti soprattutto a causa del calpestio.
Per gli abitanti della Striscia, Gaza era un tempo non solo la capitale, ma anche la risorsa estrema dove c'è, o dovrebbe esserci, tutto quello che è essenziale per sopravvivere. Dal suk all'ospedale, dal mercato degli asini (il venerdì) a quello delle auto usate (il martedì). Oggi è soltanto il luogo della questua e del mercato nero con la farina che in pochi giorni è passata da 140 shekels a sacco (50 chili) a 170 shekels, da 40 a 45 dollari.
Come in una scena da film del dopoguerra, lungo il vialone di Jabalia, nella luce livida della mattinata piovosa, ecco una macchina che avanza schiacciata da nove sacchi di farina ammonticchiati sul tettuccio. Mustafà Mugat l'uomo alla guida viene da uno degli uffici dell'Unrwa che sfamano gratuitamente oltre 800 mila persone. "Questo - dice indicando il castello di sacchi - è quanto basta a cinque famiglie per una ventina di giorni. Facciamo il fuoco con la legna per riscaldarci e per cucinare. Le donne fanno il pane per noi e per i vicini che hanno bisogno".
Cinquant'anni, disoccupato, "nessuno lavora più a Gaza", dice Mustafà che fino allo scoppio della seconda Intifada, nel 2000, lavorava in Israele con piccoli subappalti. Una lontana, irripetibile età dell'oro: "Riuscivo a guadagnare cento dollari al giorno, avevo due automobili, mentre ora sono costretto a elemosinare un sacco di farina".
A ricordare che tutto questo fa parte di una guerra in corso, qualche centinaio di metri più in là, un altoparlante nascosto chissà dove, ma probabilmente, quello di un minareto, manda ordini secchi alla popolazione. "I civili sono invitati a lasciare le strade e ad andare a casa. Gli aerei israeliani stanno per bombardare". Naturalmente non succede ma, mi spiega un amico che questo è un capitolo della guerra dei nervi, oltre a quella con i Qassam (ieri ne sono sparati oltre venti sul Negev) che Hamas combatte contro Israele. L'esercito israeliano spesso, prima di colpire, invita gli abitanti di un certo caseggiato ad uscire per evitare che facciano da scudi umani a certi "terroristi". La security di Hamas, al contrario, invita la gente a entrare in casa per proteggere chissà quale obiettivo.

 

22 gennaio

La situazione più grave a Milano: ferme 200 tonnellate di corrispondenza

Tra le cause il progetto di riorganizzazione, gli scioperi e la mancanza di mezzi

Le Poste nel caos: milioni di lettere ferme nei depositi, distribuzione in tilt

di PAOLO BERIZZI

MILANO - Centinaia di tonnellate di posta arretrata, giacenti. Lettere e cartoline in agonia da ormai due mesi. Ma anche corrispondenza pregiata, raccomandate, atti giudiziari, cumuli di "prioritaria" ancora da spedire. Uffici postali e centri di smistamento ingolfati; molti addirittura al collasso. I benevoli dicono che le poste italiane hanno il fiato corto. I malevoli che stanno scoppiando. Sullo stato di salute, forse, la verità sta nel mezzo. Nei tempi difficili che, complici una serie di fattori - primo fra tutti, sostengono i sindacati, gli effetti della riorganizzazione del servizio di recapito avviata da Poste italiane - stanno rendendo la vita amara ai 43 mila portalettere distribuiti nel nostro Paese.

La crisi delle consegne si è acutizzata a novembre del 2007. E sta allungando le sue "criticità" in tutta Italia. Da Nord a Sud, in particolare tra dicembre e gennaio, i tempi di recapito si sono diluiti fino a diventare, in alcune zone, imbarazzanti. I disagi maggiori hanno colpito la Lombardia, soprattutto Milano e provincia con un tappo di 200 tonnellate di corrispondenza arretrata. Qui, quattro giorni fa, l'amministratore delegato di Poste italiane, Massimo Sarmi, ha inviato una task force di ispettori per verificare cosa sta accadendo e perché. Ma Piemonte, Emilia Romagna, Puglia, Sicilia e Campania non se la passano tanto meglio.

"Sono disagi che hanno riguardato in particolare Milano - dice Sarmi - e li stiamo risolvendo. La nuova impostazione del servizio di recapito è basata su un progetto all'avanguardia che stiamo calando su tutto il territorio. In alcune zone si sono creati dei piccoli problemi, è vero, ma di qui a poco tutto rientrerà nella normalità".

Mario Petitto, segretario generale della Cisl Poste, la vede un po' diversamente: "Il progetto di riorganizzazione ha rotto il vecchio sistema ma, purtroppo, non è ancora decollato. Chiederemo all'azienda di rivederlo, di aggiustare gli errori che porta con sé, altrimenti la posta non riesce più a recapitare in condizioni normali". (Cisl intanto ha annunciato un altro mese di sciopero degli straordinari, dal 28 gennaio al 26 febbraio, che segue la protesta durata dal 13 dicembre al 12 gennaio).

In sostanza, il nuovo sistema - che pure i sindacati confederali avevano sottoscritto il 15 settembre del 2006 - prevede tre tipi di servizi: quello classico detto "universale", che resta nelle mani del portalettere ordinario. Quello "dedicato", con postini muniti di furgoni che servono i "grandi utenti" (società, aziende, studi professionali, grossi condomìni); e quello "speciale" per servizi aggiuntivi tipo la consegna di atti giudiziari o di oggetti di pregio. Diversificando e implementando il servizio di recapito, e dunque ritenendolo più snello e efficiente, Poste italiane ha stabilito di poter tagliare 4000 zone di recapito (oggi sono 42 mila). In più ha ridistribuito le forze in campo: centinaia di portalettere anziani (10-12 anni di servizio) sono stati messi agli sportelli e sostituiti con nuovi assunti a tempo determinato e con anche una robusta infornata di "ricorsisti".

Tutto questo, secondo i lavoratori, ha portato a un travaso di personale e di esperienza. E a un caos generale: con mancanza di mezzi e strutture idonee a far partire il nuovo sistema di consegna. Così molte zone sono rimaste scoperte. Dai paesi dell'hinterland di Milano, Torino e Palermo, al caso di Armeno, piccolo comune montano in provincia di Novara: 2.200 abitanti e un solo postino. Che si è ammalato.

Risultato: quattro giorni senza posta. Realtà diffuse, come le centinaia di cittadini che a dicembre e gennaio si sono trovate il telefono, la luce e il gas tagliati perché "morosi" nel pagamento di bollette arrivate in ritardo o non ancora arrivate. E' accaduto a Boltiere, nella bergamasca. Le Procure di Bergamo e Legnano, di fronte a decine di denunce, indagano addirittura per interruzione di servizio pubblico.

 

16 gennaio

Censura di guerra

Il silenzio devastante sulla guerra in Afghanistan

Nessuno dice nulla, nessuno ne parla. Eppure i militari italiani hanno, dallo scorso 13 dicembre, il controllo (si fa per dire, ce lo hanno solo formalmente) della capitale Kabul. E ieri un commando talebano (non un attentatore suicida, un vero commando militare) ha colpito il cuore della capitale. Che non è il palazzo presidenziale di Karzai, quello non lo considera più nessuno, ma è l'Hotel Serena. Dove stanno i ministri stranieri in visita (quello norvegese è scappato dall'Afghanistan dopo l'attentato annullando tutti gli impegni) e i loro plenipotenziari. Dove stanno gli uomini d'affari che curano la ricostruzione lecita e illecita del Paese occupato dalle truppe straniere.

Eppure agli italiani, sempre dallo scorso 13 dicembre, è stato affidato l'avamposto di Surobi (o Sirobi, a seconda della traslitterazione), che sta sulla strada che dalla capitale porta al Pakistan, crocevia di tutte le incursioni talebane e teatro di centinaia di scontri armati.

Un accenno molto significativo e assai poco citato lo ha fatto il ministro degli Esteri D'Alema, nella trasmissione Chetempochefa, dopo una domanda (anche suggerita da noi) sulla situazione afgana. Il ministro D'Alema ha candidamente ammesso che, in effetti, la missione italiana è cambiata rispetto all'inizio, perché modificata è la situazione afgana.

E adesso, mettiamo le mani su una missione che doveva rimanere supersegreta, la missione Sarissa, che va avanti dal 2006. Altri ne avevano già accennato. Noi abbiamo trovato elementi, e persino il logo, da cui si evince che l'operazione militare non riguarda affatto la sola zona di Farah.

Abbiamo mandato il mini-dossier che oggi abbiamo pubblicato a tutti i segretari dei partiti rappresentati in parlamento, al ministro della Difesa, a quello degli Esteri al presidente del Consiglio Prodi e al presidente della Repubblica Napolitano, che è il garante della Costituzione Repubblicana.

Il silenzio che abbiamo avuto, per ora, come risposta è un urlo dirompente. Ma, anche di questo siamo abbastanza certi, se ne accorgeranno in pochi.

Nessuno parla più di exit strategy. Nessuno parla più di conferenze di pace. Nessuno parla di Afghanistan. Tipico, anche questo, di un paese in guerra. Perché quando si è in guerra, la censura è sempre attenta e vigile. Ma da noi la censura ufficiale, quella che fa vedere solo le foto dei nostri bravi militari che curano donne e bambini e anziani e non mostra le foto dei combattimenti, come racconta il bel libro di Gianandrea Gaiani, Iraq-Afghanistan, guerre di Pace italiane, (tutt'altro che un pacifista essendo lui un esperto di cose militari e se vogliamo utilizzare le categorie della politica, certamente più vicino alla destra che non alla sinistra) è aiutata dall'autocensura di troppi colleghi.

 

Operazione ‘Sarissa’. La guerra segreta degli italiani in Afghanistan

 

Entro la fine di gennaio il Parlamento voterà il rifinanziamento della missione militare italiana in Afghanistan. Abbiamo chiesto a tutti i segretari dei partiti rappresentati in Parlamento, al Presidente del Consiglio e ai ministri di Esteri e Difesa di esprimere la loro opinione in merito, alla luce di quanto segue.

Alpino in AfghanistanLa situazione in Afghanistan è drasticamente peggiorata nell’ultimo anno. Il 2007 (chiusosi con oltre 7mila morti, di cui almeno 1.400 civili uccisi in gran parte dai bombardamenti aerei della Nato) è stato l’anno più sanguinoso dalla caduta dei talebani (anche per la stessa Nato: 232 i soldati occidentali morti). Secondo un recente rapporto del Senlis Council intitolato ‘Afghanistan sull’orlo del precipizio’ i talebani controllano il 54 percento del territorio afgano, sono attivi in un altro 38 percento (compresa la provincia ‘italiana’ di Herat) e minacciano ormai la stessa capitale Kabul (la cui difesa è ora responsabilità dei soldati italiani).

In primavera è prevista un’offensiva talebana senza precedenti, in vista della quale Stati Uniti e Nato pretendono un maggiore impegno bellico da parte di tutti gli alleati, Italia compresa. Al vertice annuale della Nato (in aprile a Bucarest) all’Italia verrà perentoriamente chiesto di mandare i nostri soldati a combattere. Cosa che, seppur in maniera limitata, già avviene da un anno e mezzo all’insaputa del popolo italiano e in aperta violazione della nostra Costituzione.

Lo stemma dell'operazione Sarissa Dall’estate 2006, infatti, è operativa nell’ovest dell’Afghanistan la Task Force 45 (“la più grande unità di forze speciali mai messa in campo dall’Italia dai tempi dell’operazione Ibis in Somalia” secondo l’esperto militare Gianandrea Gaiani) comprendente i Ranger del 4° Alpini, gli incursori del Comsubin, il 9° Col Moschin e il 185° Rao della Folgore. In tutto circa duecento uomini, impegnati fin dal settembre 2006 nell’operazione segreta 'Sarissa' (la lancia delle falangi oplitiche macedoni) volta a combattere i talebani a fianco delle Delta Force statunitensi e delle Sas britanniche, in particolare nella provincia occidentale di Farah.

L’ultima battaglia a cui gli italiani hanno preso parte risale allo scorso novembre (riconquista del distretto del Gulistan), quando sono entrati in azione gli elicotteri da attacco italiani A-129 Mangusta e i cingolati da combattimento Vcc-80 Dardo in dotazione ai bersaglieri del 1° reggimento della brigata Garibaldi, giunti in Afghanistan lo scorso maggio. Data dalla quale la Tf-45 impegnata nell’operazione Sarissa può contare anche sull’appoggio dei nostri aerei spia Predator e degli elicotteri da trasporto e assalto Sh-3d.

Cingolati 'Dardo' Durante il governo Prodi l’impegno militare italiano in Afghanistan è costantemente aumentato sia numericamente (oggi l’Italia ha in quel Paese 2.350 soldati, 550 in più di quelli schierati durante il governo Berlusconi) che qualitativamente (truppe e mezzi da combattimento).
Nei giorni scorsi il sottosegretario alla Difesa, Lorenzo Forcieri, ha dichiarato che “non bisogna illudersi: dovremo restare in Afghanistan molto a lungo”.

Il governo italiano continua a parlare di un “ripensamento della strategia” della Nato in Afghanistan, auspicando un maggior coinvolgimento dell’Onu e una conferenza di pace. Anche secondo gli Stati Uniti è il momento di dare una svolta alla missione, ma in senso opposto: a dicembre il capo del Pentagono, Robert Gates, ha dichiarato che in Afghanistan “la Nato deve spostare la sua attenzione dall’obiettivo primario della ricostruzione a quello di condurre una classica controinsurrezione”.

Alla luce di tutto questo, quale sarà il comportamento Suo e del Suo partito al momento del voto sul rifinanziamento alla missione in Afghanistan?

 

Escalation afghana

Dal Pentagono arriva il sì all'invio di 3.200 Marines di rinforzo in Afghanistan. Manca solo la firma di Bush

Un militare Usa in AfghanistanIl cambiamento di strategia era nell'aria da tempo. Ora, sembra che dai vertici militari stia per arrivare il nulla osta che mancava per portare anche in Afghanistan la surge, l'aumento di truppe che gli Usa hanno già sperimentato quest'anno in Iraq: 3.200 Marines sono già stati messi in preallarme, per andare ad aggiungersi ai circa 27.000 militari statunitensi già impegnati nella guerra contro i talebani. L'ufficialità non c'è ancora, ma il segretario alla Difesa Robert Gates ha raccomandato l'invio dei Marines per dar man forte nell'attesa offensiva talebana di primavera.  Domani, mercoledì 16 gennaio, quando il presidente Bush tornerà negli Stati Uniti dal suo viaggio in Medio Oriente, è probabile che la questione sarà una delle prime che si troverà sulla scrivania.

Robert GatesI militari avevano chiesto più uomini. Se approvato, il dispiegamento sarebbe una “una tantum” di sette mesi, ha spiegato un portavoce del Pentagono. Mille uomini, appartenenti a un'unità di fanteria, sarebbero impiegati nell'addestramento delle forze afghane, mentre circa 2.200 membri sarebbero mandati direttamente al fronte. Ieri, la Cnn ha scoperto che i 3.200 Marines coinvolti hanno già ricevuto la notifica, un fatto che il ministero della Difesa non ha confermato. Funzionari vicini a Gates, che ha sotto mano la questione dallo scorso fine settimana, hanno fatto sapere che il numero uno del Pentagono attende il ritorno di Bush per avere la sua approvazione finale. Gli analisti militari statunitensi danno comunque per molto probabile che la surge si farà. Tuttavia, l'aumento di truppe non soddisferà completamente i comandanti sul campo, che avevano richiesto 7.500 uomini di rinforzo.

 Un bilancio contestato

 

I servizi israeliani divulgano la conta degli omicidi mirati, ma Haaretz e B'tselem contestano

Anche questa notte l'aviazione israeliana ha colpito nel nord della Stiscia di Gaza. Il bilancio dell'ultimo attacco è di tre morti e altrettanti feriti. Una delle vittime era di Fatah, un'altra dei Comitati di Resistenza Popolare, legati ad Hamas. I tre sono stati colpiti mentre viaggiavano a bordo di una jeep nel campo profughi di Shati, dove si trova anche l'abitazione del leader del partito islamico, Ismail Haniyeh. L'esercito israeliano sostiene che le vittime erano coinvolte nel lancio di razzi Qassam contro il territorio israeliano, e conferma che si è trattato di un omicidio mirato.

La scena dell'ultimo omicidio mirato a GazaCifre. Sempre oggi, Yuval Diskin, capo dello Shin Beth, il servizio segreto intetrno israeliano, ha divulgato alcuni dati sulle operazioni militari di Tsahal nella Striscia di Gaza negli ultimi due anni. Secondo Diskin, i palestinesi uccisi in omicidi mirati a Gaza, tra il 2006 e il 2007, sono stati 810, 200 dei quali non erano chiaramente legati a movimenti armati. Dunque erano probabilmente civili. Questi dati hanno però sollevato alcune obiezioni all'interno di Israele: questa mattina il quotidiano israeliano Haaretz ha pubblicato le proprie statistiche, secondo cui le vittime palestinesi sarebbero 816 invece che 810. Ma soprattutto, le vittime civili sarebbero 360 anziché 200.

Bambino ferito dall'artiglieria israelianaMinori. In disaccordo con lo Shin Beth anche l'organizzazione israeliana per i diritti umani B'Tselem, che ha replicato al rapporto dell'intelligence sostenendo che 152 delle vittime palestinesi degli attacchi nella Striscia di Gaza avevano meno di 18 anni, e altre 48 ne avevano meno di 14. Con ogni probabilità la maggioranza delle vittime minorenni è stata colpita per errore, sono vittime collaterali, conseguenza del fatto che i lanci di razzi e le ritorsioni dell'esercito avvengono in zone densamente abitate, alle porte dei campi profughi. Tuttavia bisogna anche ricordare che, secondo le direttive di Tsahal, i palestinesi di almeno 16 anni vengono considerati adulti, e i bambini palestinesi di almeno 14 anni devono essere processati da tribunali militari per adulti. Al di la delle contestazioni nel merito dei dati, il conteggio delle vittime degli omicidi mirati ai danni dei palestinesi non sembra essere vissuto con pudore dai leader israeliani: dopo la presentazione dello Shin beth, il ministro per la Sicurezza Interna, Avi Dichter, ha dichiarato con orgoglio che circa il 5percento dei miliziani della Striscia è stato ucciso. Secondo Dichter i miliziani palestinesi di Gaza sono in tutto 20mila.
 

Sicilia, i frutti amari della psicosi-rifiuti

Più che l’emergenza, le drammatiche immagini di queste tristi giornate napoletane suggeriscono l’idea del collasso, del crollo.

Non è questa la prima volta che una città decade e poi rinasce. Anche Napoli uscirà da tunnel, ma i segni dello sconquasso resteranno visibili a lungo.

Un tempo le città andavano in declino a causa di malattie endemiche o della loro sterilità economica o talvolta, come Roma imperiale, sotto il peso delle sue mollezze. Napoli, invece, sta crollando sotto il peso delle sue monnezze.

All’interno di questo squallido scenario, ciò che più preoccupa non sono le montagne di rifiuti che prima o poi saranno rimossi, ma la pervicace volontà dei responsabili politici e amministrativi di prendere atto del loro fallimento ed andarsene. In altri casi, per molto meno, sarebbe successo un quarantotto.

Ben vengano De Gennaro, l’esercito e la mano ferma del governo per fronteggiare la drammatica emergenza. E dopo? A Napoli è necessaria una strategia d'ampio respiro per ricostruire una  prospettiva generale, la stessa immagine della città, uscita a pezzi da questa terribile congiuntura.

E' assurdo pensare che un’opera così grande ed impegnativa possa essere affidata agli stessi responsabili del disastro.  E dispiace rilevare che chi di dovere non abbia colto questa elementare verità “procedurale”.

Ma, se a Napoli non viene avvertita, qualcuno da Roma la dovrebbe far valere. Pena la credibilità politica e di governo del PD e del centro sinistra, in Italia.

La vicenda di Napoli, per altro, sta provocando indirettamente una serie di contraccolpi negativi anche in Sicilia dove è arrivata l’onda emotiva originata da quell' esplosiva emergenza.

Molti siciliani temono che qualcosa di simile possa verificarsi nell’Isola, dove permane una situazione di stallo nel campo dello smaltimento dei rifiuti.

La Sicilia, infatti, si trova bloccata in mezzo ad un guado di un fiume periglioso. Dopo avere abbandonato su una sponda le discariche ora cerca d’approdare sulla sponda opposta dello smaltimento razionale ed ecocompatibile.

Perciò, invece di farsi prendere dal panico, bisogna ragionare e, soprattutto, operare per fare uscire la Sicilia dal pantano in cui è stata cacciata in tutti questi anni di gestione prima commissariale e, ora, dell’Agenzia regionale dei rifiuti.

Purtroppo, si sta alimentando, ad arte, una psicosi-rifiuti mirante a sorvolare su una serie di adempimenti per far partire la costruzione dei quattro termovalorizzatori della discordia che, a ben pensarci, sono la causa del paralizzante contrasto fra governo regionale e popolazioni e settori importanti dell’ambientalismo.

A quanto pare, la situazione potrebbe prendere una piega ben diversa se sono vere le notizie, di ieri, secondo cui Cuffaro, per smaltire in Sicilia una quota di rifiuti campani, ha chiesto in cambio (ed ottenuto da Prodi in persona) il via libera alla costruzione e al finanziamento dei quattro inceneritori. 

Ma non è questo il modo migliore di affrontare e risolvere il grave problema. Con la paura non si possono governare le situazioni difficili.

Semmai è necessario avviare una riflessione responsabile sull’intera materia e pervenire a soluzioni più appropriate, anche a parziale correzione di posizioni obiettivamente esasperate.

In questi giorni, bisogna lavorare, anche a livello governativo, per giungere ad un giusto compromesso capace di dare risposte ai problemi di questa pre-emergenza e a quelli, di più lunga prospettiva, di uno smaltimento eco-compatibile.

Certo, non sarà facile. Tuttavia, al momento, non s’intravedono altre vie praticabili per sbloccare la situazione e quindi scongiurare una previsione così infausta.

Lo scoglio più difficile è la rigida pretesa di voler realizzare ben quattro termovalorizzatori, da più parti ritenuti quantomeno eccessivi.

Su tale aspetto si scontrano due visioni antagoniste quanto irriducibili, anche se, eticamente, non sono da mettere sullo stesso piano.

Da un lato c’è la volontà cocciuta, dirigistica del governo regionale che ha rifiutato ogni dialogo (anche con le popolazioni interessate) e dall’altro lato quella di taluni settori dell’ambientalismo che hanno reagito al dirigismo cuffariano con un approccio un po’ ideologico.

Fra i due litiganti, il terzo (ossia la più parte delle forze politiche e sociali) si è sostanzialmente defilato, lasciando che due contrapposte minoranze imponessero alla stragrande maggioranza dei siciliani i loro discutibili punti di vista.  

Col risultato che oggi la Sicilia si ritrova con 4 termovalorizzatori appaltati sbrigativamente e bloccati per vizi procedurali, anche in ordine all’acquisizione dei pareri relativi all’impatto ambientale, col più basso indice europeo di raccolta differenziata e con ventisette (invece che nove) Ato rifiuti i quali, a parte rare eccezioni, producono soltanto disservizi, esose tariffe, assunzioni clientelari e perdite vistose.

Insomma, un altro disastro annunciato che nessuno si decide a fermare in tempo, facendo applicare, senza ulteriori rinvii, la legge regionale che impone il dimezzamento di questi carrozzoni al servizio del più becero nepotismo politico, come quello che sta emergendo dalle assunzioni fatte all’Ato Palermo 4 e non solo in quello.

Sulla questione-rifiuti bisogna cambiare registro. C’è ancora tempo per farlo, purché si abbandonino le sterili recriminazioni e gli interessi di parte, operando per modificare un dato più che discutibile che, a fronte del più basso indice di raccolta differenziata, fa registrare in Sicilia un’alta capacità programmata d’incenerimento.     

Un fatto anomalo, inspiegabile rispetto agli standard europei e nazionali.

Il ripensamento dovrebbe servire ad attivare un meccanismo virtuoso del ciclo dei rifiuti.

Fra raccolta differenziata e termovalorizzatori esiste un rapporto inversamente proporzionale che oggi è fortemente squilibrato a favore dell’incenerimento.

Se si dovesse giungere a un 50 o un 60% di differenziata (obiettivo possibile anche in breve tempo) non sarebbero più necessari 4 termovalorizzatori, ma ne basterebbero due e/o forse anche uno,  purché sia sempre tutelata la salute dei cittadini.

Agostino Spataro

 

 15 gennaio

 

La giungla dei biglietti tra intercity, regionali ed eurostar. Il paradosso: si paga di più per viaggiare più scomodi...

 

Treni, viaggio nella Babele dei prezzi 99 tariffe diverse per Bologna-Milano

 

di MICHELE SMARGIASSI

 

"FORSE potevate spendere meno": una trentina d'anni fa questo avviso accoglieva i passeggeri sui treni. Meno attente ai bilanci ma più paterne, le Ferrovie dello Stato si preoccupavano che il viaggiatore non avesse pagato per errore una tariffa eccessiva. E dire che trent'anni fa era quasi impossibile sbagliarsi: appena quattro categorie di treni (locale diretto espresso rapido), due sole tariffe (prima e seconda classe), un solo supplemento (per il rapido), pochissime riduzioni.

Quel premuroso cartello non c'è più: ma chi sale oggi su un treno Fs è quasi certo di aver speso più di quel che avrebbe potuto. Le ferrovie italiane sembrano in preda a una frenesia tariffaria. Non c'entra tanto lo stillicidio dei rincari ufficiali (l'ultimo, dallo scorso primo gennaio) alla rincorsa delle medie europee. Ad attirare il cliente nei tranelli di un prezziario impazzito sono gli aumenti "invisibili", che sotto le mentite spoglie dell'"offerta flessibile" ti precipitano in un labirinto fatale, dove centinaia di possibili combinazioni prezzo-treno creano una giungla in cui ogni trasparenza commerciale si perde.

Viaggiatori seduti uno accanto all'altro e diretti alla stessa stazione possono pagare tariffe differenti anche del 30 per cento, percorsi su treni locali possono costare più di viaggi identici su treni veloci. Un giovane viaggiatore che debba andare, che so, da Bologna a Milano, può scegliere tra 99 biglietti e 66 livelli diversi di prezzo che salgono dagli 8.90 euro ai 59.30 a scalini di poche decine di centesimi.

Attenzione però: la metastasi dell'offerta bigliettaia non è follia. E' razionale interesse aziendale. Con le mani legate dal lungo blocco governativo delle tariffe, i dirigenti di Trenitalia si sono sforzati negli ultimi anni di escogitare stratagemmi per aggirare il calmiere e aumentare in qualche modo gli introiti. Il risultato purtroppo è una moltiplicazione artificiosa di condizioni e prezzi a cui non corrisponde una reale diversificazione dei servizi offerti, ma solo un caos contabile in cui il viaggiatore è alla mercé dell'errore, sempre costoso, sempre tutto a suo carico.

La disinformazione colposa contribuisce a trasformare l'acquisto di un biglietto in un percorso pieno di assurdità e di trabocchetti, al termine del quale c'è spesso una multa saporita. I conti di Trenitalia vanno migliorando (perdite scese da 1121 a 279 milioni nel primo semestre 2007), merito senz'altro di una gestione più oculata; ma forse anche un po' del "tesoretto" accumulato grazie al disorientamento e agli errori involontari dei clienti. Proviamo a capire come.

Che biglietto compro? Sui binari d'Italia attualmente circolano una quindicina di treni dai nomi diversi, dal Regionale all'Alta Velocità, ciascuno con proprie regole d'ammissione e, in undici casi, prezziari differenti. Alcuni sono apparsi e scomparsi fulmineamente (come il TrenOk, vantato nel 2004 come il low-cost dei binari, abolito in sordina un anno fa perché "non economicamente sostenibile"); altri sono stati declassati per risparmiare personale (gli ex Interregionali, ora Regionali Veloci). Che possano esistere quindici qualità differenti di viaggio in treno è una palese assurdità. Scegliere quello giusto è un'impresa sovrumana.

Dove compro il biglietto? Rivolgersi allo sportello, come fanno ormai solo i passeggeri "deboli", occasionali, non abituati all'acquisto elettronico, non aiuta. Anzi, a volte è un'insidia. Trenitalia si è impegnata, con la Carta dei servizi, a "offrire sempre informazioni puntuali". Ma se chiedi solo "un biglietto per Milano" ti verrà quasi sempre consegnato senza altre domande il biglietto base, a tariffa regionale: salvo dover sborsare, a bordo, otto euro di sovrapprezzo, più la differenza, perché sei salito su un treno che va effettivamente a Milano, però è un Intercity.

Meglio Internet? Invece le macchinette o la vendita via telefono o Internet vogliono sapere, giustamente, quale treno prenderai. Ma se la fanno pagare bene, la loro precisione. Ordinare un ticketless per via telefonica costa: l'892021 è una linea a pagamento, 30 centesimi alla risposta più 54 al minuto; una prenotazione semplice rincara il biglietto di tre-quattro euro, una appena più laboriosa anche di sette-otto.

Spesso l'operatore del call center, sommariamente addestrato, non sa rispondere a richieste particolari (sconti, facilitazioni) e "deve chiedere", lasciando il cliente in attesa a sue spese: Trenitalia fa pagare ai viaggiatori i corsi di aggiornamento dei suoi operatori.

L'acquisto via Internet invece è gratuito, ma ingannevole. La prenotazione del posto (3 euro) è addebitata automaticamente anche quando non è obbligatoria (per non pagarla bisogna disattivarla da una finestra poco evidente). Le combinazioni proposte sono solamente le più veloci, ovvero le più costose. Chi ha tempo e vuole risparmiare potrebbe viaggiare su combinazioni di espressi e regionali, ma spesso non se le vede mostrare. Le trova invece sul formidabile sito Internet delle ferrovie tedesche, che conosce l'orario di quelle italiane meglio del sito di Trenitalia, visto che quasi sempre trova più proposte di viaggio.

Sono flessibile o rigido? In alternativa al biglietto standard, Trenitalia offre una tariffa più economica (Amica, meno 20%) e una più costosa (Flexi, più 20%). Ma l'Amica è poco amichevole (se perdi il treno niente rimborso), mentre la Flexi è poco più flessibile: di fatto, ti fa risparmiare gli 8 euro del cambio biglietto nell'eventualità che tu perda il treno; ma su un Milano-Roma in Eurostar la Flexi ti costa 11.20 euro in più: è l'unica assicurazione al mondo il cui massimale sia inferiore al costo della polizza.

E se tengo famiglia? Le nostre tariffe non sono sempre inferiori alla media europea. Se viaggi in famiglia, in Italia a volte spendi più che all'estero. In Germania, paese di grande civiltà ferroviaria, i ragazzi fino a 14 anni accompagnati dai genitori viaggiano gratis. In Italia invece hanno solo uno sconto, e solo fino a 12 anni. Così una famiglia di due genitori e due figli sui 13 anni sul treno più veloce da Berlino a Düsseldorf spende 194 euro, mentre sull'Eurostar Milano-Roma (distanza paragonabile) ne spende 224: trenta in più.

Con la tariffa Junior si può scendere al massimo a 202 euro: siamo ancora di qualche moneta più cari della Germania. Se hai figli più piccoli e un po' di fortuna (il numero di posti è limitato, ma non saprai quanto limitato finché non compri il biglietto) puoi chiedere le tariffa Familia 15% o quella più scontata Familia 25%. Quale differenza passi fra le due, un buon enigmista può scoprirlo, mentre il vostro cronista normodotato dopo un lungo confronto tra clausole s'è arreso.

Insomma quanto pago? Tre tariffe base (Standard, Amica, Flexi) e cinque riduzioni principali (due Junior, una Senior, due familiari), da moltiplicare per due classi e undici tipi di treno sono già un sistema spaventosamente barocco. Se poi l'itinerario richiede cambi di convoglio, il calcolo del prezzo diventa irrazionale: un viaggio scomodo (coincidenze a rischio, bagagli da scarrozzare) può costare quasi un terzo in più di uno comodo e diretto. Un esempio? Parma-Ancona, tutto su treni IC: senza cambio, 23 euro; con trasbordo a Bologna, 30 euro. Un altro? Brescia-Novara, su IC senza cambio euro 12.50, con trasbordo su treno locale (e 11 minuti in più), euro 13.10. Colpa di una norma del 2001 che, in caso di itinerario composto (dal 2006 anche fra treni di identica categoria), impone di comprare due biglietti diversi (e di pagare due prenotazioni).

Su che treno salgo? Prima di salire, risponderebbe Trenitalia ai multati inconsapevoli, avreste dovuto accertarvi che la categoria del treno corrispondesse al biglietto pagato. Ma dove s'accerta il viaggiatore medio? Le informazioni complete si trovano solo sui quadri gialli a stampa (accessibili a passeggeri con dodici diottrie), ma quando sei in stazione, se vuoi sapere su che binario e a che ora parte davvero il tuo treno, devi consultare i monitor o i tabelloni a palette ribaltabili. Peccato che questi, in molte stazioni, non possiedano simboli sufficienti a rincorrere la follia nomenclatoria di Trenitalia; cosicché il TBiz appare classificato come un normale Eurostar (ma guai a salirci con biglietto Eurostar), mentre IC e ICPlus sono identificati dalla stessa sigla, eppure sul secondo c'è la prenotazione obbligatoria (multa per chi non ce l'ha).

Non basta? Molti treni che sul fianco hanno scritto "ICPlus" in certi giorni viaggiano come Intercity comuni: non si paga il posto, ma chi lo sa? E se ti appare sul binario un treno sulla cui fiancata è scritto "Eurostar City", quale biglietto dovrai avere in tasca per salire, Eurostar o Intercity? (Aiutino: è la risposta meno probabile).

Posso cambiare treno? Sì, se paghi il doppio di un mese fa. E' la recentissima batosta del "bigliettino": per gli abbonati Intercity che vogliano prendere un Eurostar (su alcune tratte, come la Bologna-Firenze, è quasi obbligatorio) esiste il Ticket ammissione, che fino al 31 dicembre costava 1 euro a corsa; dal primo gennaio, 2 euro. Rincaro del 100%. L'inflazione è un treno ad altissima velocità sui binari Trenitalia.

Quando parte il mio treno? Tempo fa Trenitalia offrì, vantando la propria generosità, un utile servizio sul proprio disservizio: avvisi sui ritardi, a mezzo sms, gratuiti per tutti i pendolari. Ora sono a pagamento: 50 centesimi cadauno, più il costo dell'sms di richiesta. Insomma devi pagare un sovrapprezzo a Trenitalia per sapere quanto è scadente il servizio che ti sta facendo pagare per intero. C'è, è vero, il servizio gratuito online Viaggiatreno, molto efficiente: ma in viaggio è accessibile solo a chi possiede (e paga) connessioni Internet mobili.

Quando arrivo a destinazione? Pagare di più non significa per forza arrivare prima, o più comodi. L'impiegato di Novara che voglia prendere il sole a Sestri Levante può programmare un viaggio di 3 ore e 56 minuti pagando 10 euro; ma se non ha fretta e sceglie un viaggio da 4 ore e 25 minuti, pagherà 15.40 euro, cioè il 50% in più. Se invece smania di tuffarsi può farcela in 3 ore e 18, spendendo il triplo, 30.50 euro (oltre 20 euro in più per risparmiare solo 38 minuti), ma in compenso dovrà cambiare tre treni.

E se arrivo in ritardo? Trenitalia possiede orologi curiosi: considerano in orario qualsiasi corsa arrivi con 25 o 30 minuti di ritardo. Sopra quella quota, offre rimborsi parziali (50% sugli Eurostar, 30% sugli Intercity). In Spagna un ritardo di 5 minuti dà diritto al rimborso integrale in denaro del biglietto alta velocità. Trenitalia invece paga in buoni spendibili per un secondo viaggio. E se anche il secondo viaggio è in ritardo? Ciccia: i biglietti acquistati coi bonus non sono rimborsabili. Chi viene maltrattato due volte di seguito da Trenitalia perde ogni diritto (in quanto recidivo?).

Cumulare disservizi a Trenitalia conviene: si ha diritto a un bonus se il riscaldamento è rotto; ma se il treno gelido viaggia per giunta anche in grave ritardo, il bonus è sempre uno solo (quasi quasi, se il treno è in ritardo, è meglio spegnere il riscaldamento e risparmiare). Inoltre: Trenitalia, qualunque sia il ritardo, non rimborsa biglietti costati meno di 10 euro (equivalenti a viaggi Intercity di un'ora, tipo Rovigo-Bologna), ennesima assurdità: 40 minuti di ritardo su un viaggio di otto ore sono una seccatura (parzialmente rimborsata), su un viaggio di un'ora sono un sopruso (totalmente impunito).

I treni notturni infine possono ritardare fino a un'ora senza pagar pegno; dopo, rimborsano solo un quinto del prezzo delle sole cuccette (morale: chi dorme non piglia bonus). E se mi sbaglio io? Allora non c'è pietà. Paghi, e paghi caro. Trenitalia pratica generosi sconti sui propri errori, li trasforma addirittura in fonti di guadagno, ma non perdona quelli dei suoi clienti. Con un'operazione dal nome guevarista, Mai più senza biglietto, dal settembre 2007 la guerriglia ai portoghesi è diventata feroce: multe da 50 a 224 euro.

Il mancato rispetto del contratto di viaggio, a quanto pare, prevede sanzioni solo per uno dei due contraenti: quello più forte, quello che riesce perfino a far pagare le proprie inefficienze.

 

Cina, miraggi olimpici
 
Un giovane immigrato dalle campagne a Pechino racconta se stesso e il suo Paese
Scritto  da Mirko Misceano
 
Secondo le ultime stime, nella sola capitale cinese ce ne sarebbero più di quattro milioni. Vivono in stanze di due metri quadri nei sotterranei dei palazzi, lavorano tredici ore al giorno in condizioni disumane per dei salari da fame. Qui in Cina li chiamano ming-gong, contadini operai. Xiao Yue è uno di loro, uno dei tanti emigrati in città per inseguire il sogno di una vita migliore. Per loro la vita diventerà ancora più dura dopo la fine delle Olimpiadi, quando non ci sarà più bisogno di loro. Senza lavoro stabile e senza residenza (in Cina è impossibile ottenere la residenza nelle città senza un lavoro fisso), per questi disperati si prospetta un ritorno nelle campagne, dove non troveranno altro che il mondo da cui sono scappati.
 
Un risciò a PechinoLa storia di Xiao Yue: "uno, nessuno, centomila". Si chiama Xiao Yue, ha 18 anni, da circa due vive a Pechino. Per la gente di questa metropoli è solo uno dei tanti insignificanti guidatori di san-lun-che, letteralmente ‘veicolo a tre ruote’: la versione moderna del risciò. A 16 anni ha lasciato il suo villaggio nella provincia centrale dello Shanxi, per seguire un gruppo di compaesani ingaggiati da un impresa di costruzioni edilizie di Pechino. Da allora Xiao Yue ha smesso di essere un ragazzo di campagna, ed è diventato uno dei milioni di lavoratori senza volto e senza diritti che lavorano per fare di Pechino la città che ospiterà le prossime Olimpiadi. Dopo aver lavorato per circa un anno come operaio edile, per tredici ore al giorno, senza assistenza e assicurazione sanitaria di alcun tipo, in condizioni assolutamente inimmaginabili, ed esser riuscito a guadagnare 8mila yuan (circa 800 euro), gran parte dei quali ha spedito ai suoi genitori, ha deciso, come avrebbe fatto ogni persona al suo posto, di cambiare vita e trovare un lavoro con ritmi e condizioni più umane.
Ma Xiao Yue qui a Pechino non è una persona normale, qui lui non ha non ha nome non ha diritti, non è nemmeno più un contadino, ora che non ha più terra da arare, può solo contare sulla forza delle sue braccia e delle sue gambe. Ed è proprio facendo affidamento sulla forza delle sue gambe, che ha un giorno ha comprato per 300 Yuan (circa 30 euro) un risciò, ed ha cominciato la sua nuova professione. Ora, ogni mattina alle sei, Xiao Yue è lì d'avanti uno dei cancelli di un centro residenziale della moderna Pechino che apetta i suoi clienti. Per una tariffa che và dai 3 agli 8 Yuan ( pochi centesimi di Euro), pedalerà per trasportare il suo cliente fino a destinazione.
 
Operaio cinese al lavoro“Per la prima volta qualcuno parla con me”. Ho conosciuto Xiao Yue un giorno d'inverno, lui era in fila con altri "guidatori" di risciò, all’uscita del centro residenziale dove alloggiavo. Notai subito il suo aspetto molto giovane, e incominciai a fargli alcune domande sulla sua vita e sulla sua famiglia, mi accorsi con piacevole sorpresa, che Xiao Yue non solo aveva voglia di rispondermi, ma che era anche molto interessato alla mia vita e al motivo che mi aveva portato qui a Pechino. Da quel giorno diventai suo amico. Da allora io e lui abbiamo trascorso molto tempo a chiacchierare di fronte al cancello del centro residenziale o nella sua stanza di due metri quadri nel sotterraneo del palazzo dove abita. "Lo sai, questa è la prima volta che qualcuno parla veramente con me - mi disse un giorno sorprendendomi - la sola gente che conosco sono i clienti, che non parlano mai con me, e poi gli altri guidatori di risciò, ma con loro si parla solo di come far soldi".
 
Due chiacchiere con Xiao Yue.
Xiao Yue come mai sei venuto a lavorare qui a Pechino?
Non ho potuto continuare scuola perché non sono riuscito a passare gli esami di ammissione alla scuola superiore, così quando ho saputo che alcuni del villaggio stavano andando a lavorare a Pechino, mi sono unito a loro.
Perché propio la città, lì in campagna non si vive bene, non c’è lavoro?
In campagna ho cibo, vestiti e un tetto, questo è vero, ma lì per noi giovani non c’è nulla, solo campi da arare; qui in città invece, ci sono più possibilità.
Ei tuoi genitori? Non ti manca la tua famiglia? Loro cosa pensano della tua decisione di venire in città?
Certo che mi mancano i miei genitori. Ogni tanto ci parliamo per telefono, m Risciò a Pechinoa raramente; loro non hanno istruzione non riescono a capire molte cose.
Hai fratelli o sorelle? Anche loro sono in città che lavorano?
R: Ho una sorella maggiore, lei è nel Guang Dong ora, che lavora come operaia in un'industria di guanti, non ci sentiamo spesso.
Cosa pensi delle tue condizioni di vita? Sei soddisfatto?
R: No, Non sono soddisfatto, ma di certo le migliorerò. Ho intenzione di usare i soldi che ho guadagnato per prendere la patente e diventare autista di camion, così potrò guadagnare più soldi.
E dopo cosa farai? Hai intenzione di fare l'autista per sempre?
R: No, certo che no! Quando avrò raccolto, forse in 5 anni, 50.000 Yuan ( 5000 Euro),
Tornerò nel mio villaggio e aprirò un industria agricola per l'allevamento dei polli. Non voglio rimanere in città per sempre, qui per quelli come me non c’è posto.
Cosa pensi della situazione odierna tra campagna e città nel tuo paese? Sei soddisfatto?
Non sono soddisfatto, ma non c’è scelta, prendere o lasciare. Si può continuare a vivere in campagna come contadini, o rischiare tutto per venire in città e cercare una vita migliore. 
E il governo? Sei soddisfatto del governo?
Lo sai...non dovrei parlare di queste cose.( dopo un momento di esitazione ) Qui non c’è libertà, molta gente ha paura di esprimere le proprie idee, ancor più se sono contro il governo. Qui funziona così, il partito comunista ha in mano tutto il potere, se si protesta è la fine.
Com’è la tua vita a parte il lavoro? La tua vita sentimentale per esempio. Hai la ragazza?
Oltre il mio lavoro non ho null’altro. Le ragazze – dice sospirando – non mi guardano nemmeno, per loro sono solo un'altro come tanti portatori di risciò...io per loro non esisto, non sono un ragazzo. Lo sai, io qui nel cuore, ho come una sorta di amaro, non so come spiegarlo. 
Nota dell’autore: Xiao Yue, non ha voluto che pubblicassi sue foto, ha paura che qualcuno possa riconoscerlo e riportare alla polizia le sue parole sulle condizioni in cui vive, e sulla libertà di espressione. Qui a Pechino, specialmente ora che con l'avvento delle Olimpiadi si sono intensificati i controlli, parlare dei lavoratori delle campagne è un tabù per cui si rischia la galera.

 

E Mouloud il clandestino denunciò il suo truffatore

Ci sono buone probabilità che un giorno, quando l'Italia avrà compiuto il lento, faticoso ma ineluttabile processo dell'integrazione degli stranieri, Mouloud K. entri nella lista di quelle persone semplici che, con un atto di coraggio, hanno contribuito a migliorare la condizione di molti. Parliamo di quella lista dove, per esempio, dal 1955 compare il nome di Rosa Parks, la casalinga nera che nel 1955, in un autobus dell'Alabama, si rifiutò di cedere il suo posto a un bianco e divenne il simbolo del movimento statunitense per i diritti civili.

L'Italia del 2008, naturalmente, è molto diversa dall'Alabama del 1955. Abbiamo una Costituzione che stabilisce il principio di uguaglianza, abbiamo leggi ordinarie che, benché scarsamente applicate, vietano e puniscono l'incitamento all'odio razziale. Le discriminazioni agiscono in un modo più sottile, si insinuano nell'interpretazione delle leggi, nelle prassi amministrative. Quando poi queste leggi e queste prassi incrociano gli ambienti controllati dalla criminalità organizzata, la discriminazione procede col sostegno silenzioso della minaccia e della violenza.

Questo quadro ambientale rende ancor più significativo il semplice gesto che nei giorni scorsi è stato compiuto dall'immigrato irregolare Mouloud K.: ha firmato una denuncia, che sarà presentata alla procura della Repubblica di Salerno, per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e truffa aggravata. E' il primo caso. Il primo su migliaia.

Nella primavera del 2005, mentre si trovava in un bar del suo paese, Mouloud K. fu avvicinato da un giovane italiano vestito elegantemente il quale gli propose un affare: in cambio di seimila euro, gli avrebbe fatto avere un visto d'ingresso per l'Italia e un posto di lavoro in un'azienda agricola dove, oltre a uno stipendio di dieci volte superiore ai suoi magri guadagni marocchini, avrebbe avuto anche vitto e alloggio. Mouloud accettò la proposta, versò al giovane italiano un anticipo di mille euro per le prime spese e, un anno dopo, ottenne il regolare visto d'ingresso. Versò altri cinquemila euro a saldo e partì. Ma, giunto a destinazione (un indirizzo nelle campagne del salernitano) scoprì che l'azienda che l'aveva assunto non esisteva. Provò a contattare il suo "datore di lavoro", tale Giuseppe Bottiglieri, ma non riuscì a trovarlo. Il cellulare squillava a vuoto. Dopo otto giorni, non essendosi presentato allo Sportello unico per l'immigrazione per segnalare di aver cominciato a lavorare, divenne un clandestino. E venne a sapere che molti altri aveva subito la sua stessa sorte. Per la maggior parte erano rimasti in quella zona, a lavorare come schiavi alle dipendenze dei "caporali". Mouloud aveva degli amici nel nord Italia e decise di raggiungerli. Nell'autunno scorso, dopo un anno di clandestinità, di piccoli lavori precari, di miseria, si fece coraggio e accettò di raccontare la sua storia a "Repubblica". Pochi giorni fa il passo successivo: la denuncia del truffatore.

Se esistesse la class action per gli immigrati raggirati in questo modo, l'economia di molte zone agricole del Sud tremerebbe. La scorsa estate la Direzione provinciale del lavoro di Salerno, esaminando le domande di assunzione di immigrati in base al "decreto flussi", ha scoperto che quelle irregolari (presentate da aziende inesistenti o comunque prive dei requisiti) erano cinque sui sei. Una truffa da milioni di euro. Il marocchino Mouloud K. l'ha denunciata. In cambio chiede solo di non essere più chiamato "clandestino".
 

Precari nella giungla

di Roberta Carlini
La Pubblica amministrazione torna ad assumere. Ma si scopre che i posti sono già tutti occupati. In barba a concorsi ed effettive specializzazioni
Alla pubblica amministrazione si accede per concorso, diceva la Costituzione. E lo dice ancora, solo che nessuno se ne cura. Perché dopo quasi dieci anni di blocco delle assunzioni e di concorsi col contagocce, adesso che si riaprono le porte del pubblico impiego si scopre che quasi tutti i posti sono occupati: la prima emergenza è la stabilizzazione di un esercito di precari. Nei ministeri e nelle regioni, nelle Asl e nei vigili del fuoco; insegnanti e carabinieri, ricercatori e bidelli, ostetriche e psicologi; contratti a termine, interinali, cococo e lsu: ce n'è per tutti. In tre anni, dice la Finanziaria, devono diventare dipendenti pubblici a tempo indeterminato. 

MAI PIÚ FLESSIBILI
"All'inizio nel consultorio facevo la volontaria, poi il mio capo è stato promosso e mi ha chiesto di prendere il suo posto. Così ho aperto una partita Iva, abbiamo fatto un contratto di prestazione d'opera e ho cominciato". La storia di Anna Maria si svolge in una Asl pubblica di Ancona. Dove lei, psicologa, lavora dal 1997 con partita Iva: tiene i rapporti con il pubblico, fa le visite, gestisce i colloqui familiari per le adozioni. "Lavoriamo in otto, solo due sono strutturati", cioè regolarmente assunti. Gran parte della sanità e dei servizi sociali si mantiene in piedi così: sono 40-50 milale finte partite Iva che lavorano per la pubblica amministrazione, secondo una stima sindacale. Nei numeri ufficiali della Ragioneria dello Stato, infatti, non compaiono nemmeno.

Compaiono però tutte le altre forme di lavoro flessibile alle quali negli ultimi dieci anni lo Stato e i suoi satelliti hanno attinto a piene mani: i lavoratori a termine (oltre 130 mila, senza contare i supplenti della scuola che sono 250 mila e rotti), quelli in affitto (gli ex interinali, adesso 'somministrati', che sono quasi 10 mila), i vecchi e nuovi

lavoratori socialmente utili (lsu: 30.617 nel 2006). E infine, i contratti di collaborazione coordinata e continuativa (i cococo cancellati dalla legge Biagi nel privato ma sopravvissuti alla grande nel pubblico: 90.559 nel 2006). Per molti di loro, con la finanziaria 2008 è arrivata la promessa della stabilizzazione. Insieme a un altro impegno solenne dettato per legge: mai più lavoro flessibile nel settore pubblico. Da oggi, si assume solo a tempo indeterminato. Prima però, bisogna regolarizzare tutti i vecchi precari, districandosi tra le maglie dei requisiti per entrare: che, nel cammino parlamentare della legge, si sono via via allargate.

Le tavole della legge, per i precari pubblici d'Italia, sono in una sfilza di commi (dal 90 al 96) dell'enorme articolo 3 della Finanziaria. Che allarga ed estende l'opera iniziata con la Finanziaria dell'anno passato: nel 2007, si prevedeva la stabilizzazione dei dipendenti a termine che avessero lavorato per almeno tre anni negli ultimi cinque. Con la nuova legge, si proroga il termine e si estende la sanatoria agli altri precari. Per la prima volta, ci sono anche i cococo; per la loro sanatoria si chiede un contratto in essere al primo gennaio 2008, e di aver lavorato per tre anni negli ultimi cinque, anche spezzettati e anche in amministrazioni diverse. Non solo. Entro aprile arriverà, con decreto della presidenza del Consiglio, anche un piano per stabilizzare tutte le altre forme di lavoro flessibile: sicuramente ci saranno i somministrati, potrebbero rientrare anche le partite Iva.

In più, ci sono varie sorpresine sparse qua e là. I pompieri, per esempio: saranno assunti anche i volontari, basta che abbiano prestato servizio presso i vigili del fuoco per almeno 120 giorni negli ultimi cinque anni. I lavoratori socialmente utili: con emendamento bipartisan co-firmato dagli esponenti siciliani del Partito democratico e di Forza Italia, sono assunti in pianta stabile i 4.000 lsu del comune di Palermo. Infine, la finanziaria 'fa salve' tutte le intese territoriali già firmate a livello locale per stabilizzare i precari: così promuovendole, per evitare che - per carenza di fondi - restino solo sulla carta. Nell'insieme, un'infornata come non si vedeva da anni: dalla famosa legge 285 del '77 passata alla storia come la madre di tutti gli 'ope legis', l'ultimo grande esempio del clientelismo democristiano.

SELEZIONE NATURALE
Per il condono 2007-2008, sulla carta, ci sono molti più aspiranti che nel '77. La platea degli interessati supera i 250 mila, anche se poi nessuno ha contato con esattezza quanti tra loro hanno i requisiti per entrare. Di conseguenza, la copertura finanziaria è del tutto aleatoria. Certo è che i soldi sono pochini: si detta il principio della stabilizzazione, poi saranno le singole amministrazioni a cercarsi qua e là i soldi. Ma attenzione: finché non si completa la sanatoria, tutti i contratti in essere devono essere prorogati. Un diktat che preoccupa molto Francesco Verbaro, direttore del personale alla Funzione pubblica: "Così si vìolano le autonomie delle amministrazioni, che sono obbligate a prorogare i contratti. E per farlo potrebbero essere costrette a prendere soldi da altri capitoli, tagliare le spese per servizi".

Poi c'è il problema dei criteri di accesso. Dei titolari di contratti a termine, secondo stime della Funzione pubblica, un buon 70 per cento è stato selezionato in base ai titoli e a un colloquio, dunque non un pubblico concorso. Tutti gli altri, poi, sono contratti totalmente discrezionali, basati su rapporti ad personam con il singolo dirigente, o peggio con il politico di turno; oppure sono passati per agenzie interinali, alle quali molto spesso le liste delle persone da selezionare vengono date dalla stessa amministrazione; o ancora si basano sull'iscrizione a bandi e liste, per le quali bisogna aver presentato la domanda al momento giusto e nel luogo giusto.

Insomma: conoscenze, rapporti diretti, passaparola, casualità. Per salvare la faccia, la sanatoria prevede che l'assunzione di chi non ha fatto concorsi avvenga solo dopo una procedura di selezione: vale a dire, un concorso pro forma riservato ai precari da regolarizzare. "Così si trasforma un'ingiustizia a tempo determinato in un'ingiustizia a tempo indeterminato", ha scritto Bernardo Giorgio Mattarella, presidente dell'Istituto di ricerche sulla pubblica amministrazione.

Ma a dire il vero qualcuno il famoso concorso l'ha fatto, e l'ha anche vinto. Come Marta Ferretti, ventottenne romana, sesta classificata in un concorso da funzionario al ministero dell'Agricoltura nel 2006. È ancora a spasso: "Nella mia sessione di concorso i posti erano 17, finora ne sono entrati due. Non c'erano soldi per le assunzioni". Adesso Marta è preoccupata per la sanatoria: "Se i soldi sono sempre pochi, e viene data priorità alle stabilizzazioni, noi vincitori di concorso restiamo ancora fuori". Il paradosso di Marta non è un'eccezione e c'è anche chi ha subito una beffa peggiore: come quei ricercatori dell'Istat che, stanchi di contratti precari, hanno fatto nel 2004 un concorso per entrare con qualifiche inferiori, pur continuando a fare a tutti gli effetti i ricercatori. Oggi sono esclusi dalla sanatoria: infatti hanno già un lavoro a tempo indeterminato, da impiegati. 

SUPPLENTI A VITA
In una scuola media romana a settembre sono arrivati due professori nuovi di zecca: due insegnanti di informatica, regolarizzati nel 2007. Piccolo dettaglio: non sapevano usare il computer. E non era colpa loro, visto che facevano supplenze da una vita e tutto quel che lo scorrimento in graduatoria richiedeva era l'anzianità, non titoli o specializzazioni. La scuola è il regno storico del precariato. Qui nel 2007 c'è stato un primo grande afflusso di regolarizzati: 50 mila insegnanti, 10 mila impiegati e bidelli. Sono stati pescati dalle graduatorie permanenti, nelle quali erano entrati per i più vari motivi: un po' più della metà per regolare concorso (idonei, ma senza ruolo), tutti gli altri per vari rivoli che vanno dall'accumulo di supplenze al superamento di prove riservate ai supplenti stessi, fino alle scuole di specializzazione e ai corsi abilitanti. Dentro le graduatorie c'è di tutto, ma ilcriterio principale di progressione è l'anzianità di servizio. Con la stabilizzazione, si dovrebbero assorbire le graduatorie sospese, fino a quota 150 mila: dove però, si è scoperto, mancano quasi del tutto gli insegnanti di matematica e scienze, che invece servono come il pane. Delle due l'una, spiegano al ministero: o si fanno subito concorsi per gli insegnanti di matematica, o ricomincerà a formarsi una folla di supplenti precari.Il criterio unico dell'anzianità di servizio spesso comporta risultati paradossali, per un paese che a parole esalta il merito e le competenze. E invece poi, quando si tratta di assumere un ricercatore, non guarda i suoi titoli ma solo le date: da quanto tempo lavori e, a parità di anzianità di servizio, l'età anagrafica. È uno degli effetti della stabilizzazione nel mondo della ricerca, fitto di assegnisti, borsisti, tempi determinati, collaboratori. Negli enti pubblici di ricerca la prima stabilizzazione, quella del 2007, ha portato finora a definire 801 assunzioni di personale che prima era a tempo determinato. All'Istituto superiore di sanità, dove finora sono stati stabilizzati 180 precari, le liste da cui si pesca per l'assunzione si sono stratificate in 15-20 anni, a volte la stabilizzazione avviene in prossimità della pensione e ha poco a che fare con la qualità della ricerca.

 

Campania, il commissario alle bufale
 

Bufala Gianni De Gennaro sarà super-commissario, superando con il suo incarico per l'emergenza rifiuti tutte le altre deleghe. Ma in Campania i poteri commissariali sono una moda, che testimonia l'emergenza perenne e lo spreco di denaro pubblico. Su "L'espresso" si ricostruisce che sono in vigore anche per il risanamento della foce del Sarno, contro il traffico e l’emergenza parcheggi di Napoli, per l’attuazione dei piani d’insediamento produttivo, l’alluvione di Sarno e Quindici, il ripristino ambientale dei fondali di Baia, lo stoccaggio dei materiali radioattivi, il dissesto idrogeologico e quello del sottosuolo, gli insediamenti delle comunità nomadi. L’ultimo arrivato sembra una battuta: il commissario straordinario alle bufale. L’assessore regionale Andrea Cozzolino, fedelissimo del governatore Antonio Bassolino, dovrà occuparsi dei capi di bestiame produttori di mozzarella ma minacciati dalla brucellosi. Avrà un ufficio di 20 dipendenti e una dotazione (per ora) di 66 milioni di euro. Obiettivo: risanare le bufale campane, di cui almeno 30 mila unità sono a rischio-abbattimento.

 

L'anello debole
Nella crisi umanitaria della Striscia di Gaza le donne patiscono due volte
Scritto da Milena Nebbia  
Le donne palestinesi, il sesso veramente debole in una società a dominanza maschile, sono costrette a portare un doppio fardello: l’occupazione israeliana della loro terra e la sottomissione e la violenza cui sono sottoposte in una società autoritaria e patriarcale. Se questo è vero in generale per la Palestina, la donne risultano essere tanto più “vittime” nel territorio della Striscia, dove la violenza domestica assume aspetti di vera e propria piaga sociale. La ragione di ciò risiede nell’unicità della storia e dello sviluppo della società di questo territorio. La violenza sulle donne assume qui, infatti, forme particolari poiché combina aspetti economici, politici e culturali.

Donne palestinesi al lavoro. Foto di M. NebbiaL’assoggettamento della donna all’interno della famiglia e la sua estensione nel pubblico, si esprime in varie forme di discriminazione: salari più bassi per le lavoratrici, inique opportunità di promozione, di educazione, limitate possibilità di partecipare ad attività politiche e culturali. Tra queste forme discriminatorie, sicuramente quella che assume aspetti veramente drammatici è il delitto d’onore, ancora largamente diffuso nella Striscia. Anche se un numero crescente di palestinesi trova i delitti d’onore inaccettabili, la barbara pratica continua. "Nessuno conosce l'entità del fenomeno, perché nessuno ha condotto uno studio – dice Manal Awwad, presidente del Wep (Women’s Empowerment Project) -  le organizzazioni delle donne come la nostra sono mobilitate contro le uccisioni, ma purtroppo la pratica continua nonostante i divieti giuridici. La donna può essere uccisa anche solo perché sospettata di avere avuto rapporti sessuali fuori dal matrimonio, lo stesso dicasi per le vittime di stupri, il loro viene ritenuto un "crimine" che va punito, mentre l'uomo, che può aver violentato la sua vittima, è considerato un innocente e può passeggiare liberamente”.

Donne palestinesi al lavoro. Foto di M. Nebbia"L'onore di una famiglia è molto dipendente dalla donna, dalla sua verginità, una donna vergine è di proprietà degli uomini attorno a lei, prima di suo padre, dopo come dono per il marito, la verginità, quindi, come dote virtuale per il matrimonio. In questo contesto, la donna è una merce che deve essere protetta da una rete di membri della famiglia e della comunità. La donna è custodita esternamente dal suo codice di comportamento e di abbigliamento e internamente dal mantenimento della sua illibatezza”. “Naturalmente esistono anche i rapporti sessuali fuori del matrimonio – precisa Awwad - tra i giovani palestinesi, soprattutto nella comunità degli studenti, dove le donne  vivono lontano dall'occhio attento delle loro famiglie. Tuttavia, per la maggior parte delle donne, è considerato vergognoso essere viste solo con un maschio non membro della famiglia”. La fondatrice, Shaida El Saray, organizzò il Wep (Women’s Empowerment Project) nel 1995, con l’aiuto di donors svizzeri, dall’esperienza del Centro di salute mentale di Gaza, inizialmente  per le donne dei prigionieri che avevano problemi di disagio mentale e specializzandosi poi nell’aiuto alle donne che sono vittime di violenza domestica. Il Wep si fonda sull'idea che la terapia medica debba correre insieme alla riappropriazione, da parte delle donne, di spazi, tempi, istruzione e formazione, con il loro inserimento in un contesto sociale ed economico più solido di quello che ha dato origine ai loro problemi e con tutta una serie di strategie di approccio alle fonti inconsapevoli di quei problemi: la famiglia, la comunità, la scuola… Le donne che si rivolgono al Programma provengono per lo più dai campi profughi di Gaza, Khan Yunis e Rafah: molte di loro sono reduci da matrimoni precoci e maltrattamenti familiari; alcune sono state detenute o sono madri, mogli, sorelle, figlie di detenuti o hanno avuto mariti e figli uccisi.  

Donne palestinesi al lavoro. Foto di M. NebbiaIl Wep inserisce le giovani donne in contesti formativi e didattici per restituire loro il percorso educativo a volte mai iniziato, a volte bruscamente interrotto per ragioni diverse, quali il matrimonio in età scolare o la chiusura continuata delle scuole negli anni dell'Intifada. “Ora poi - prosegue la presidente - a tutti gli altri problemi si è aggiunto quello della gravissima crisi economica causata dall’assedio, quindi se per caso una donna decide di divorziare a causa della situazione familiare, fa fatica a trovare un lavoro, non può rientrare nella propria famiglia perché verrebbe considerata un peso e soprattutto rischia che non le sia consentito nemmeno vedere i suoi figli, quindi non le vengono lasciate molte via d’uscita”. “Rivolgersi al nostro centro, per la maggior parte delle donne è difficile perché lo devono fare di nascosto, in alcuni casi siamo noi andare da loro su segnalazione di altre persone. Vengono minacciate, devono sottostare al volere maschile, nostre stesse dipendenti ricevono regolarmente minacce telefoniche a causa del loro impegno per aiutare le donne vittime. Vengono accusate di ribellione nei confronti della tradizione e di corruzione della società”.
 

 

I superstiti della Thyssen un mese dopo il rogo
"Per la politica e il Paese non siamo mai esistiti"
 

Gli operai di Torino diventati invisibili

di EZIO MAURO


 
<B>Gli operai di Torino<br>diventati invisibili</B>
TORINO - "Turno di notte vuol dire che monti alle 22. Sono abituato. Quel mercoledì sera, il 5 dicembre, sono arrivato come sempre un quarto d'ora prima, ho posato la macchina, ho preso lo zainetto e sono entrato col mio tesserino: Pignalosa Giovanni, 37 anni, diplomato ragioniere, operaio alla Thyssen-Krupp, rimpiazzo, cioè jolly, reparto finitura. Salgo, guardo il lavoro che mi aspetta per la notte e vedo che ho solo un rotolo da fare".

"Allora vado prima a trovare quelli della linea 5, devo dire una cosa ad Antonio Boccuzzi, ma poi arrivano gli altri e si finisce per parlare tutti insieme del solito problema. Il 30 settembre la nostra fabbrica chiuderà, a febbraio si fermerà per prima proprio la 5, stiamo cercando lavoro e non sappiamo dove trovarlo. Duecento se ne sono già andati, i più esperti, i manutentori, molti alla Teksfor di Avigliana. Noi mandiamo il curriculum in giro, con le domande. L'azienda se ne frega, la città anche. Chiediamo agli amici, ai parenti operai che hanno un posto. Chi può cerca altre cose, Toni "Ragno" dice che ha la patente del camion e prova con le ditte di trasporti: gli piacerebbe, tanto ogni giorno fa già adesso 75 chilometri per arrivare all'acciaieria e 75 per tornare a casa. Bruno ha deciso, il 29 chiude con la fabbrica e apre un bar con Anna, Angelo ha provato a farsi trasferire alla Thyssen di Terni, la casa madre, ma poi è tornato indietro per la famiglia. Parliamo solo di questo, come tutte le notti, abbiamo il chiodo fisso. E' brutto essere giovani e arrivare per ultimi. La Thyssen qui in giro la chiamano la fabbrica dei ragazzi, perché dei 180 che siamo rimasti il 90 per cento ha meno di trent'anni. Ma questo vuol dire che quando tutt'attorno chiude la siderurgia e Torino non fa più un pezzo d'acciaio che è uno, chi ti prende se sai fare solo quello? Eppure siamo specializzati, superspecializzati, non puoi sostituirci con un operaio qualsiasi che non abbia fatto almeno 6 mesi di formazione per capire come si lavora l'acciaio. E infatti ci pagano di più, uno del quinto livello alla Fiat prende 1400 euro, qui con i turni disagiati, la maggiorazione festiva, il domenicale arrivi a 1700 anche 1800 senza straordinario. Non ti regalano niente, sia chiaro, perché lavori per sei giorni e ne fai due di riposo, quindi ti capitano un sabato e domenica liberi ogni sei settimane, non come a tutti i cristiani. Ma la siderurgia è così, lavoriamo divisi in squadre e quando smonta una monta l'altra perché le macchine non si fermano, 24 ore su 24, questo è l'acciaio. Che poi, se ci fermassimo noi si ferma l'Italia perché siamo i primi, senza l'acciaio non si vive, dai lavandini all'ascensore, alle monete, alle posate, siamo la base di tutta l'industria manifatturiera, dal tondino per l'edilizia alle lamiere per le fabbriche, agli acciai speciali. E quando parlo di acciaio intendo l'inox 18-10, cioè 18 di cromo e 10 di nichel, roba che a Torino si fa soltanto più qui da noi, che è come l'oro visto che il titanio viaggia a 35 euro al chilo e noi facciamo rotoli da sei, settemila chili. Eppure tutto questo finirà, sta proprio per finire, Torino resterà senza, siamo come le quote latte. E' chiaro che ne parliamo tutte le sere, come si fa? Comunque, a un certo punto, sarà mezzanotte e mezza, io saluto tutti, e dico che vado a fare quel rotolo che mi aspetta. Salgo, e lì sotto comincia l'inferno. E' una parola che si usa così, come un modo di dire. Ma avete un'idea di com'è davvero l'inferno"?

Se a Torino chiedi degli operai della Thyssen, ti indicano il cimitero. Bisogna prendere il viale centrale, passare davanti ai cubi con i nomi dei partigiani, andare oltre le tombe monumentali della "prima ampliazione", girare a sinistra dove ci sono i nuovi loculi. Lì in basso, come una catena di montaggio, hanno messo Antonio Schiavone, 36 anni (detto "Ragno" per un tatuaggio sul gomito), morto per primo la notte stessa, Angelo Laurino, 43 anni, morto il giorno dopo come Roberto Scola, 32 anni. Subito sotto, Rosario Rodinò, 26 anni, che è morto dopo 13 giorni con ustioni sul 95 per cento del corpo e Giuseppe Demasi, anche lui 26 anni, ultimo dei sette a morire il 30 dicembre dopo 4 interventi chirurgici, una tracheotomia, tre rimozioni di cute con innesti e una pelle nuova che doveva arrivare il 3 gennaio per il trapianto, ed era in coltura al Niguarda di Milano. Ci sono i biglietti dei bambini appesi con lo scotch, come quello di Noemi per Angelo, ci sono le sciarpe della Juve, mazzi di fiori piccoli col nailon appannato dall'umidità, un angelo azzurro disegnato da Sara per Roberto, quattro figure colorate di rosso da un bambino per Giuseppe, tre Gesù dorati, due lumini per terra. Attorno alle cinque tombe, una striscia azzurra tracciata dal Comune le separa dagli altri loculi. E' un'idea del sindaco Sergio Chiamparino e del suo vice Tom Dealessandri, una sera che ragionavano sulla tragedia della Thyssen. Se tra un anno, cinque, dieci, qualcuno vorrà ricordarla, parlarne, partire da quei morti per discutere sulla sicurezza nel lavoro, ci vuole un posto, e non ci sarà neppure più la fabbrica, non ci sarà più niente: mettiamoli insieme, quelli che non hanno una tomba di famiglia; hanno lavorato insieme e sono morti insieme. Quelle fotografie di ragazzi sono le uniche tra i loculi, le altre sono di vecchi e dove non c'è la foto c'è la data: 1923, 1925, 1935, 1919, anche 1912. Intorno, un telone nasconde lo scavo di una gru nel campo del cimitero, si sente solo il rumore in mezzo ai fiori, ma c'è lavoro in corso. Siamo a Torino, dice un guardiano, è la solita questione: lavoro, magari invisibile, ma lavoro.
 

"Dunque, ero da solo, con la gru in movimento. Il mio lavoro si può fare così. Alla linea 5 invece il turno montante era completo. Mancavano due operai, ma si sono fermati in straordinario Antonio Boccuzzi e Antonio Schiavone, anche se avevano già fatto il loro turno, dalle 14 alle 22. Quella tecnicamente è una linea tecnico-chimica per trattare l'acciaio, temprarlo e pulirlo per poi poterlo lavorare. Stiamo parlando di una bestia di forno a 1180 gradi, lungo 40-50 metri, alto come un vagone a due piani, e lì dentro l'acciaio viaggia a 25 metri al minuto se è spesso e a 60 metri se è sottile, per poi andare nella vasca dell'acido solforico e cloridrico che gli toglie l'ossido creato dalla cottura nel forno. La squadra di 5 operai sta nel pulpito, come lo chiamiamo noi, una stanzetta col vetro e i comandi. Ci sono anche il capoturno Rocco Marzo e Bruno Santino, addetto al trenino che porta il rullo da una campata dello stabilimento all'altra. Manca poco all'una. So com'è andata. Il nastro scorre a velocità bassa, sbanda, va contro la carpenteria, lancia scintille, l'olio e la carta fanno da innesco, c'è un principio di incendio. Loro pensano che sia controllabile, come altre volte. Escono dal pulpito, si avvicinano, provano con gli estintori, ma sono scarichi. Un flessibile pieno d'olio esplode in quel momento, passa sul fuoco come una lingua e sputa in avanti, orizzontale, è un lanciafiamme. Non li avvolge, li inghiotte. Boccuzzi è proprio dietro un carrello elevatore per prendere un manicotto, e quel muletto lo ripara salvandolo. Vede un'onda, sente la vampa di calore che lo brucia per irradiazione, ma si salva. Gli altri sono divorati mentre urlano e scappano. Piomba in finitura il gruista della terza campata, corri mi dice, corri, è scoppiata la 5, sono tutti morti. Non ci credo, ma si avvicina urlando, è bianco come uno straccio e sta piangendo. Corro, torno indietro, metto in sicurezza la gru, corro, non penso a niente, corro e li vedo".
 

I tre funerali sono diversi. Prima lo choc, il dolore, la paura. Poi la rabbia. Egla Scola, che ha vent'anni e due figli di 17 mesi e tre anni, in chiesa ha urlato verso la bara di Roberto: vieni a casa, adesso. La madre di Angelo Laurino gli ha detto: ora aspettami. Il padre di Bruno Santino, anche lui vecchio operaio Thyssen, l'abbiamo visto tutti in televisione gridare bastardi e assassini, con la foto del figlio in mano. Il giorno della sepoltura di Rocco Marzo, arriva la notizia che è morto Rosario Rodinò, dopo quasi due settimane di agonia. Ciro Argentino strappa la corona di fiori della Thyssen, i dirigenti dell'azienda entrano in chiesa dalla sacrestia, se ne vanno dalla stessa porta. Fuori ci sono soprattutto operai, in duomo come a Maria Regina della Pace in corso Giulio Cesare, come nella chiesa operaia del Santo Volto con la croce sopra la vecchia ciminiera trasformata in campanile.

Attorno, il fantasma della Torino operaia che fu. Qui dietro c'erano una volta la Michelin Dora, la Teksid, i 13 mila delle Ferriere Fiat dentro i capannoni della tragedia, poi venduti alla Finsider dell'Iri, che negli anni Novanta ha rivenduto alla Thyssen. Che adesso chiude. Sequestrata per la tragedia, con i cancelli chiusi e un albero trasformato in altare ("ciao, non siamo schiavi", ha scritto un operaio della carrozzeria Bertone), già adesso l'impianto della morte è uno scheletro vuoto, inutile, proprio dove la città finisce e comincia la tangenziale, con le montagne piene di neve dritte davanti. La gente conosce il posto perché lì c'è un autovelox famoso per sparare multe a raffica.
 

Ma non sa la storia della Thyssen. Ciro dice che un pezzo di Torino non sapeva nemmeno dei morti, e alla manifestazione c'erano trentamila persone, ma era la città operaia, e pochi altri. Come se fosse un lutto degli operai, non una tragedia nazionale. Anzi, uno scandalo della democrazia. Chi lavora l'acciaio sa di fare un mestiere pericoloso, dice Luciano Gallino, sociologo dell'industria, perché macchine e materiali che trasformano il metallo sovrastano ogni dimensione umana, con processi di fusione, forgiature a caldo, lamiere che scorrono, masse in movimento. C'è fatica, rumore, occhio, tecnica, esperienza, senso di rischio, concentrazione. E allora, spiega Gallino, proprio qui nell'acciaio non si possono lasciar invecchiare gli impianti e deperire le misure di sicurezza, non si può ricorrere allo straordinario con tre, quattro ore oltre le otto normali. Invece l'Asl dice oggi di aver accertato 116 violazioni alla Thyssen. Le assicurazioni Axa lo scorso anno avevano declassato la fabbrica proprio per mancanza di sicurezza, portando la franchigia da 30 a 100 milioni all'anno. Per tornare alla vecchia franchigia, bisognava fare interventi di prevenzione, tra cui un sistema antincendio automatico proprio sulla linea 5, dal costo di 800 milioni. From Turin, ha risposto l'azienda, dopo che Torino avrà chiuso.

"Il primo è Rocco Marzo, il capoturno, che aveva addosso la radio e il telefono interno, bruciati nel primo secondo. Appare all'improvviso, al passaggio tra la linea 4 e la 5. Non avevo mai visto un uomo così. Anzi sì: dal medico, quei tabelloni dov'è disegnato il corpo umano senza pelle, per mostrarti gli organi interni. La stessa cosa. Le fasce muscolari, i nervi, non so, tutto in vista. Occhi e orecchie, non parliamone. Non mi vede, non può vedere, ma sente la mia voce che lo chiama, si gira, barcolla, cerca la voce, mi riconosce. "Avvisa tu mia moglie, Giovanni, digli che mi hai visto, che sto in piedi, non li far preoccupare". Lo tocco, poi mi fermo, non devo. Ha la pelle, ma non è più pelle, come una cosa dura e sciolta. Un operatore di qualità continua a saltarmi attorno, cosa facciamo? Mando via tutti quelli che piangono, che urlano, che sono sotto choc e non servono, non aiutano. Dico di non toccare Rocco, di scortarlo con la voce fuori: gli chiedo se se la sente di seguire i compagni, di seguire la voce. Va via, lo guardo mentre dondola e sembra cadere a ogni passo, mi sembra di impazzire. Mi butto avanti, tutta la campata è piena di fumo nero, bruciano i cavi di gomma, i tubi con l'acido, i manicotti. Vedo Boccuzzi che corre in giro a cercare una pompa, mi vede e mi urla in faccia: "Li ho tirati fuori, li ho tirati fuori. Ma Antonio Schiavone è vivo e sta bruciando lì per terra". In quel momento Schiavone urla nel fuoco. Tre grida. E tutte e tre le volte Toni Boccuzzi cerca di gettarsi tra le fiamme e dobbiamo tenerlo, ma lui ripete come un matto: "Il fuoco lo sta mangiando". Dico di portarlo via, fuori. Mi volto, e mi sento chiamare: "Giovanni, Giovanni". Non ci credo, guardo meglio, non si vede niente. Sono Bruno Santino e Giuseppe Demasi, due fantasmi bruciati, consumati dal fuoco eppure in piedi. Non mi sentono più parlare, non sanno dove andare, in che direzione cercare, sono ciechi. Poi Demasi si muove, barcolla verso la linea 4 tenendosi le mani davanti, come se fosse preoccupato di essere nudo. Mi avvicino e lo chiamo, si volta, chiama Bruno. Guardo la loro pelle scivolata via, non so cosa dire e loro mi cercano: "Giovanni, sei qui vicino? Guardaci, guardaci la faccia: com'è? Cosa ci siamo fatti, Giovanni?"

Dicono gli operai che i sette, alla fine, sono morti perché da tempo erano diventati come invisibili. Si spiegano con le parole di Ciro Argentino e Peter Adamo, trent'anni: l'operaio ovviamente esiste, cazzo se esiste, manda avanti un pezzo di Paese, e soprattutto a Torino lo sanno tutti. Ma esiste in fabbrica e non fuori, nel lavoro e non nella testa della politica. Ma lo sapete voi, aggiunge Fabio Carletti della Fiom, che nell'assemblea del Pd appena eletta a Torino non c'è nemmeno un operaio? Che in tutto il Consiglio comunale ce n'è uno, perché il sindacato si è trasformato in lobby e ha minacciato di fare una lista operaia separata, supremo scandalo per la sinistra? Dice Peter che l'invisibilità la senti tutto il giorno, quando vai a comprare il pane, quando esci la sera. Per le storie veloci con le ragazze in discoteca, fai prima a dire che sei un rappresentante, vai più sul sicuro. Non è rifiuto o disprezzo, aggiunge Davide Provenzano, 26 anni, è che sei di un altro pianeta. Credono di poter fare a meno di te. Da bambino, spiega, vedevo con mio padre al telegiornale le notizie sul contratto dei metalmeccanici, "undici milioni di tute blu scendono in piazza", adesso, non si sa quanti siamo, un milione e sette, uno e otto? Il sindaco Chiamparino sa di chi è la colpa: quelli che pensano alla modernità come a una sostituzione, l'immateriale, l'effimero al posto del manifatturiero, mentre invece è moderno chi gestisce la complessità, la fine di una cosa con l'inizio dell'altra, sopravvivenze importanti e novità salutari. "Chiampa" dice che lui non potrebbe dimenticare gli operai, la sua famiglia viene dalla fabbrica, il figlio di suo fratello ha la stessa età e fa il lavoro dei ragazzi della Thyssen, però è vero che si lamenta perché i riformisti non usano più quella parola, operaio. E tuttavia non si può tornare agli anni Settanta.

E la città non è indifferente, non si può misurare il funerale operaio col metro del funerale dell'Avvocato, in quel caso la partecipazione era anche un modo di dire "io c'ero", mentre qui voleva dire "voi ci siete". E poi, pensiamo sempre a Mirafiori, dove cresceva l'erba sull'asfalto, tutto era abbandonato, e tutto è rinato. Il sindaco ha aiutato Marchionne, l'amministratore delegato Fiat ha aiutato Chiamparino. I due si vedono qualche sera per giocare a scopa col vicesindaco e un ufficiale dei carabinieri, ma in pubblico si danno del voi, perché questa è Torino. Anche se Marchionne voleva strappare, e andare al funerale operaio della Thyssen. Poi si è fermato, dice, per paura che la sua presenza diventasse una specie di comizio silenzioso. Ha radunato i suoi e ha detto: che non capiti mai qui. Un incidente può sempre scoppiare, ma non per incuria verso la tua gente e il suo lavoro. Mai, mettetemelo per scritto. Solo in Italia, spiega ancora Marchionne, operaio diventa una brutta parola, nel mondo indica quelli che fanno le cose, le producono.

E tuttavia, avverte il professor Marco Revelli, Torino è sempre più Moriana di Calvino, la città con un volto di marmo e di alabastro e uno di ferro e di cartone, e una faccia non vede più l'altra. Gli operai della Thyssen, anche per la loro età, non hanno riti separati, tradizioni private, fanno una vita perfettamente visibile nella sua normalità. Dopo la fabbrica si incontrano indifferentemente alla Fiom o al Mc Donald's di via Pianezza, Peter ha la moglie laureata e vede tutta gente del suo giro, ai funerali hanno messo musica dei Negramaro, hanno portato anche la maglia di Del Piero. Ma ti dicono che l'invisibilità sociale li rende deboli, la debolezza e la solitudine portano a scambiare straordinari per sicurezza, il Paese li convince di vivere in una geografia immaginaria, dove per dieci anni ha contato solo la cometa del Nordest, solo l'illusione del lavoro immateriale, solo il consumatore e non il produttore, e persino la parola lavoro è stata poco per volta sostituita da altre cose: saperi, competenze, professionalità. Questa fragilità - culturale? Politica? Sociale? - li espone. Il cardinal Poletto, che ha fatto l'operaio da ragazzo (il mattino in officina, il pomeriggio in canonica) ha detto ad ogni funerale cose semplici ma solide perché autentiche: la città ha reagito ma non basta, serve un sussulto, la ricerca sacrosanta del profitto non può danneggiare la sicurezza o addirittura la vita di chi lavora. La sinistra ha detto meno del cardinale.

"Nessuno sa cosa fare davanti a una cosa così. Due compagni di lavoro carbonizzati, e ancora vivi. Uno ha preso due giacconi, glieli ha buttati addosso. "Giovanni aiutaci - dicevano - portaci via". Ragazzi, ho provato a rassicurarli, l'importante è che siate in piedi, io non so se posso toccarvi, non posso prendervi per mano, ma vi portiamo fuori, vi facciamo da battistrada. Due passi, e trovo per terra Rosario Rodinò, Angelo Laurino e Roberto Scola. Statue di cera che si sciolgono, l'olio che frigge, non c'è più niente, i baffi di Rocco, i capelli di Robi, solo la voce. Mi accoccolo vicino a Laurino, gli parlo. Si volta: "Dimmi che starai vicino ai miei". Scola ripete che ha due figli piccoli, "non potete farmi morire". Rodinò sembra più calmo: "Non pensare a me, io sto meglio, occupati di loro". Poi, quando ritorno da lui mi chiede: "Come sono in faccia? Cosa vedi?" Arrivano i pompieri, poco per volta li portano via. Un vigile mi dice che stanno morendo, ma il fuoco gli ha mangiato le terminazioni nervose, per questo resistono al dolore. Non so se è vero, non capisco più niente, ho quei manichini davanti agli occhi. Prendo un pompiere per il bavero, e gli urlo che Schiavone è ancora a terra da qualche parte, devono salvarlo. Mi dice che lo hanno portato via e che devo andarmene, perché il fumo sta divorando anche me. Stacchiamo la tensione a tutta la linea, blocchiamo il flusso degli acidi, dei gas, dell'elettricità. Tutto si ferma alla ThyssenKrupp, probabilmente per sempre. Non ho più niente da fare".

Al cimitero hanno messo le sigarette sopra ogni tomba. Un pacchetto di Diana per Angelo, due sigarette sciolte vicino alla fotografia di Antonio, una sulla sciarpa di Roberto, le Marlboro per Giuseppe e per Rosario. Subito non capisco, poi sì. I ragazzi di oggi non comprano più le sigarette, ma i ragazzi operai sì, le hanno sempre in tasca. Metterle lì, tra i fiori dei morti, è un modo per riconoscerli, per renderli visibili.

 

L'altra faccia della Tata
L'indiana Tata presenta l'utilitaria più economica al mondo. Ottenuta con la cacciata di 14mila famiglie contadine
La Tata Motors ha presentato al salone dell'auto di Nuova Delhi l'utilitaria più economica del mondo: la Nano. Il veicolo verrà venduto a 100mila rupie, o 2.500 dollari Usa, e avrà cinque posti. Vuole diventare il mezzo di trasporto per le famiglie meno abbienti indiane e degli altri paesi in via di sviluppo: niente fronzoli. Né servosterzo, né alzacristalli elettrici o aria condizionata, con un motore da 600 cc per 33 cavalli di potenza, ma che garantisce 20 chilometri con un litro di benzina. Per adesso la produzione è stata prevista in 250mila esemplari annui, ma le previsioni sono di arrivare a un milione di pezzi.

 
ratan TataDove Durante la presentazione Ratan Tata, presidente del gruppo automobilistico e membro della dinastia economica più potente d'India, non ha fornito dettagli sulla fabbrica di produzione della vettura. Tuttavia da tempo viene ripetuto, senza smentite, che il principale sito di produzione della Nano sarà lo stabilimento di Singur, nel Bengala occidentale. Una fabbrica che ha attirato l'attenzione dei media per le lotte sindacali e civili degli abitanti di Singur, contro gli espropri di mille acri di terreno (circa 400 ettari) sui quali far sorgere l'impianto industriale. Il governo del Bengala Occidentale, da decenni prerogativa del partito comunista indiano marxista, ha invocato ragioni di “pubblica utilità” per l'esproprio dei terreni, che colpiscono circa 14mila nuclei familiari contadini. Ad autorizzare l'atto è stata invocata una legge del periodo coloniale britannico, il Land Acquisition Act del 1894. Ma la pubblica utilità non dovrebbe coincidere con gli interessi di un gruppo privato, che aveva originariamente annunciato di voler costruire a Singur “l'auto più economica del mondo”.

 
Come La rivolta contro la fabbrica di Singur ha già prodotto anche delle vittime, come Tapasi Malik, giovane attivista della lotta agli espropri, trovata carbonizzata in una fossa nell'area recintata dal cantiere di costruzione della fabbrica il 18 dicembre 2006. Per la polizia locale si tratta di un suicidio. Una autopsia ha appurato che le è stato dato fuoco da viva, dopo che la ragazza era stata seviziata e stuprata. I suoi compagni di lotta hanno incolpato senza esitazioni alcune squadre illegali che difendono gli interessi della Tata in zona, cercando di dissuadere i contadini espropriati dalle proteste con la violenza. Tapasi Malik, ormai ribattezzata 'la martire di Singur', è diventata il simbolo dei contadini che non vogliono rinunciare alla loro terra per 1.600 euro al massimo d'indennizzo.

 
la tata nanoQuando E se dovessero ricevere un indennizzo. La legge coloniale invocata dai marxisti del Bengala prevede che l'espropriato dia un assenso all'avocazione delle terre. Questo non perchè si abbia diritto a opporsi, ma solo per ottenere un risarcimento. Sono comunque in migliaia i contadini che sostengono di non aver firmato nessuna autorizzazione, o di essere stati costretti con la violenza dalla squadre illegali che imperversano in zona da quando si deve costruire lo stabilimento, o di averlo fatto con la promessa di un posto di lavoro nella nuova fabbrica. E la legge tutela i diritti di chi può provare il possesso del terreno. Che non è il caso di centinaia di vedove, dei tanti braccianti o fittavoli o mezzadri, o di tutti coloro che non sono stati registrati per una lacuna del catasto bengalese.

 
poliziotti del Bengala a protezione del cantiere Tata a SingurPerché Le proteste sono cresciute con l'ingresso in campo di alcuni oppositori del partito comunista marxista di Bhuddabeb Bhattacharji, come i naxaliti. I marxisti, che mirano da decenni all'instaurazione del socialismo in India, hanno protestato associando le lotte di Singur a quelle del distretto di Nandigram, contro un esproprio mirato a favorire una multinazionale chimica indonesiana. A loro si è aggiunta una scissione bengalese del partito del Congresso, il Trinamul Congress party. Proteste cresciute fino a manifestazioni durate giorni nel febbraio 2007, represse nel sangue dalla polizia bengalese con un morto e decine di feriti tra i sindacalisti. Ma il progresso industriale indiano non si può fermare: le esigenze dei contadini di ritornare in possesso delle terre di Singur, tanto fertili da dare cinque raccolti l'anno, stanno per essere dimenticate. La notizia del momento è “l'auto più economica del pianeta”.
 

 

10 gennaio

 

Guantanamo si è spostata in Afghanistan

'Camp Delta' si svuota mentre la prigione Usa di Bagram, vicino Kabul, straripa di detenuti

Anni di denunce e di battaglie condotte dalle organizzazioni per la difesa dei diritti umani di mezzo mondo hanno costretto l’amministrazione Bush a cedere sul lager di Guantanamo, ormai destinato alla chiusura e già oggi parzialmente svuotato. Una vittoria solo apparente, visto che lontano dai riflettori, in Afghanistan, il Pentagono ha nel frattempo ampliato quella che si può a buon titolo definire come ‘la madre di tutte le prigioni Usa della vergogna’: il centro di detenzione militare statunitense di Bagram, a nord di Kabul, dove nel 2002 vennero sperimentate le tecniche d’interrogatorio successivamente esportate ad Abu Ghraib e nella stessa Guantanamo.
Inizialmente usata come centro di detenzione temporanea dei prigionieri di guerra appena catturati in Afghanistan e Pakistan, in attesa del loro trasferimento oltreoceano a Guantanamo, Bagram, con la progressiva dismissione della prigione cubana, ha accumulato detenuti prendendo di fatto il posto del famigerato ‘Camp Delta’ come centro di detenzione Usa in via definitiva. Se i detenuti di Guantanamo sono scesi dai 775 iniziali ai 275 di oggi, gli ‘ospiti’ di Bagram sono progressivamente cresciuti fino agli attuali 630.

Torture e violenze sistematiche. Nei mesi scorsi, la Croce Rossa Internazionale (Icrc), unica organizzazione ad avere un limitato acceso a Bagram, ha denunciato che nella ‘nuova Guantanamo’ i detenuti vengono trattati peggio che nella vecchia, sottoposti a “trattamenti crudeli contrari alle Convenzioni di Ginevra”.
Già nel 2004, quando Bagram era ancora un piccola prigione, Human Rights Watch aveva denunciato le torture e le violenze, spesso letali, a cui i prigionieri vengono sottoposti in questo centro di detenzione: privazione del sonno, del cibo e della luce, isolamento completo dei detenuti, tenuti per giorni incappucciati, appesi per i polsi e violentemente picchiati a intervalli regolari. Emblematica la storia di Habibullah e Dilawar, 28 e 22 anni: il primo morì il 4 dicembre 2002, appeso al soffitto della sua cella, per un’embolia polmonare dovuta ai grumi di sangue provocati dalle percosse ricevute; il secondo morì sei giorni dopo in seguito a un infarto, anch’esso attribuito alle percosse.

Bagram, dove tutto è iniziato. A ideare questi sistemi ‘sperimentali’ di interrogatorio nel 2002 fu il capitano Carolyn Wood, una soldatessa di 34 anni, comandante del plotone d’interrogazione di Bagram, che nel gennaio 2003 venne premiata con una medaglia al valore per il suo “servizio eccezionalmente meritevole”. Nel luglio del 2003, la ‘signora delle torture’ e la sua squadra vennero trasferiti dall’Afghanistan all’Iraq con la missione di insegnare il ‘modello Bagram’ ai carcerieri della prigione militare di Abu Ghraib, dove la Wood fece affiggere un cartellone d’istruzioni che prescriveva in maniera dettagliata il ricorso alle tecniche sperimentate a Bagram, compresa la sospensione al soffitto e l’utilizzo dei cani. L’estate scorsa l’esercito Usa ha lasciato il carcere di Abu Ghraib in mano agli iracheni. Buona notizia, almeno per le coscienze degli statunitensi.
Ora il cerchio si chiude e tutto torna dove era iniziato, a Bagram, destinato a diventare il più grande lager statunitense del mondo.

Enrico Piovesana

 

Ricomincia la strage

Operazione dei corpi speciali algerini in Cabilia, dove sembra tornata la sporca guerra

''La situazione sta degenerando in maniera inquietante, la psicosi sta dilagando tra la popolazione. È necessario agire immediatamente''. A parlare è Mohamed Ikherbane, presidente della provincia di Tizi Ouzou, capoluogo della Cabilia, 100 chilometri a est di Algeri.

Fantasmi del passato. Il tono del funzionario governativo ricorda i tempi bui della guerra civile in Algeria, negli anni Novanta, quando almeno 150mila algerini persero la vita nei massacri perpetrati dall'esercito e dai miliziani fondamentalisti.
In effetti l'ultimo anno in Algeria è stato davvero duro: almeno 355 persone hanno perso la vita. Cifre che non si vedevano da anni. Ieri l'esercito algerino ha lanciato una vasta offensiva delle truppe speciali nella foresta di Jebel el-Ouehch (la montagna del mostro), vicino a Costantina, 400 chilometri a est di Algeri.
I militari hanno utilizzato anche elicotteri da combattimento appena acquistati per bombardare i presunti rifugi dei miliziani tra le montagne della zona.
Nell'operazione hanno perso la vita quattro guardie comunali e due militari, mentre sono almeno due i guerriglieri uccisi durante il rastrellamento. Lo riferisce oggi la stampa algerina, che riporta da giorni notizie di scontri nella zona, esplosi dopo il ritrovamento di quattro uomini sgozzati in un villaggio alla periferia della città, ma nessuna conferma è ancora arrivata dalle autorità.
Secondo il quotidiano El Watan, sarebbero state le segnalazioni degli abitanti della zona a spingere l'esercito all'inseguimento di un gruppo armato, composto da una ventina di uomini.
Il 2008 pare dunque iniziato come era finito il 2007: nel sangue. Il 2 gennaio a Naciria, in Cabilia, un'auto guidata da un attentatore suicida si è lanciata contro una caserma di polizia, uccidendo quattro persone e ferendone 25. L'attacco è stato rivendicato da al-Qaeda per il Maghreb islamico, la sigla che alla fine del 2006 ha preso il posto del Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento.

Terrore, da nord a sud. Il governo di Algeri è in fibrillazione e, ieri, esperti e specialisti del settore hanno partecipato al forum del quotidiano algerino El Moudjahid, interamente dedicato a questo tema. In particolare si è parlato dell'utilizzo di internet da parte delle organizzazioni terroristiche, non solo per comunicare tra loro, ma principalmente per reclutare nuovi adepti. ''Usiamo internet per tentare di rintracciare i terroristi che usano siti web per reclutare giovani, ma anche per comunicare tra loro, trasmettere comunicati al pubblico e ai governi'', ha dichiarato Moostefaiui Abdelkader, commissario di polizia, ''ma è quasi impossibile visto che la maggior parte dei siti usati dai terroristi sono creati all'estero''.
La presenza di gruppi armati legati ad al-Qaeda non riguarda solo la Cabilia, ma anche l'Algeria meridionale, al confine con Mali e Niger.
L'algerino Said Janit, responsabile per la Pace e la Sicurezza dell'Unione Africana, lo ha ricordato in una recente intervista, nella quale dava per certa la presenza di al-Qaeda in Africa.
Durante il Vertice panafricano, che si terrà alla fine del mese in Etiopia, verrà affrontato il controverso progetto statunitense Africom, che punta a istallare basi militari Usa nel continente e al quale molti paesi africani si oppongono.

 

Mondanità dell'aborto

Ida Dominijanni

Quanto sia sacra la vita umana, ultimativa la decisione di metterne o non metterne una al mondo (e abissalmente diversa da quella di sopprimerne un'altra per punirla di un delitto), impegnativa la cura per inserirla nell'umano consorzio, sono verità che ciascuna donna del pianeta, in qualunque latitudine, sotto qualunque dio e qualsivoglia regime, conosce assai meglio di qualunque papa, qualunque principe e qualsivoglia consigliere di papa e di principe. Papi, principi, aspiranti principi e zelanti consiglieri lo sanno benissimo, come sanno benissimo che una legge può riconoscere questa sapienza femminile e il potere sulla vita che ne deriva, ma nessuna legge può revocarli. Punto.
A capo. Che cosa muove dunque la mobilitazione permanente sulla questione dell'aborto che agita le democrazie occidentali, i loro angeli teodem e la cupola vaticana sopra di loro? Non certo il tentativo, perso in partenza, di sottrarre alle donne questo primato. Bensì quello di colpevolizzarlo, privatizzarlo, ricondurlo nell'ombra di quella dimensione «naturale» da cui la parola femminile lo strappò alcuni decenni fa per portarlo alla luce del sole, della politica, del diritto. Non è un conflitto sulla sacralità della vita. È un conflitto, nient'affatto sacro e tutto mondano, per il potere di parola sulla vita, un conflitto nel quale alcuni uomini si allineano al Dio creatore che dicono di adorare per alimentare il proprio desiderio di onnipotenza e rimuovere il limite imposto a questo desiderio dalla parola dell'Altra.
È un conflitto antico e ritornante, e non ci sarebbe niente di nuovo se la strumentalità del momento non ci mettesse, di volta in volta, il sale e il pepe di qualche macabra aggravante. Non si tratta solo dell'osceno paragone - più osceno nell'implicita versione papalina che in quella esplicita del direttore del Foglio - fra l'aborto e la pena di morte. C'è sotto un altrettanto torbido rimestio fra religione, scienza, politica, morale e diritto che confonde, piuttosto che rilanciare, il dibattito pubblico, e non solo in Italia. Anche negli Stati uniti, dove l'aborto è come sempre una delle issues centrali della competizione elettorale, la richiesta pressante di una «ridefinizione» morale, giuridica e politica della questione (e di altre, come l'omosessualità) passa - si veda il New York Times di domenica - attraverso il cambiamento dei paradigmi scientifici e dei protocolli medici e farmacologici. In una sequenza neo-deterministica in cui biologia, genetica, morale e religione si alleano a produrre un nuovo ordine «oggettivo» del discorso che fa fuori la soggettività delle donne e degli uomini in carne e ossa. L'unica tutt'ora in grado di avere la meglio su una politica laica balbettante, e su un'autorità religiosa evidentemente così incerta da appoggiarsi alle protesi che trova.

 

7 gennaio

Il ministero prevede 20mila studenti in più ma taglierà 10mila posti
"Ma correggeremo gli squilibri del sistema". Più colpite elementari e superiori

Gli alunni aumentano, le classi calano
sono in arrivo i tagli per la scuola

di SALVO INTRAVAIA

<B>Gli alunni aumentano, le classi calano<br>sono in arrivo i tagli per la scuola</B>
Nuvole nere sulla scuola italiana: gli alunni aumentano e le cattedre diminuiscono. Per il prossimo anno scolastico i tecnici del ministero hanno previsto un incremento di 20 mila alunni cui corrisponderà un taglio di 10 mila posti. Al di là di tutti gli interventi di architettura di "sistema" ipotizzati su docenti e classi dalle ultime due Finanziarie, l'ulteriore taglio di posti accrescerà la probabilità che, nel 2008/2009, gli alunni si ritrovino in aule sempre più affollate.
Del resto, che nelle scuole italiane ci siano classi con 30 o più alunni non è un segreto per nessuno. Lo ha confermato recentemente lo stesso ministero della Pubblica istruzione nel Quaderno bianco che sul tema conta di "operare le economie soltanto dove si verificano gli sprechi".

Ma andiamo con ordine. Le iscrizioni all'anno scolastico 2008/2009 scadono il prossimo 30 gennaio e la complessa macchina ministeriale è già in moto per farsi trovare pronta all'appuntamento. Il primo atto è proprio la predisposizione del cosiddetto organico di diritto, sulla base del quale si faranno le immissioni in ruolo a partire dal settembre 2008 e i trasferimenti degli insegnanti, per i quali ci sarà tempo fino al prossimo 5 febbraio. L'ennesimo colpo di scure sulla consistenza dei prof, già previsto in Finanziaria e accompagnato da un probabile calo delle classi, è emerso dal primo incontro tra sindacati e dirigenti di viale Trastevere, svoltosi lo scorso 3 gennaio.

Di fronte alla prospettiva dell'ennesimo "risparmio sull'istruzione", i rappresentanti di categoria hanno espresso tutto il loro disappunto per "tagli indiscriminati che perseguono esclusivamente un obiettivo di contenimento della spesa a discapito della qualità del servizio", dicono dalla Uil e dalla Cisl scuola.

"Il taglio stabilito nella Finanziaria 2007 - spiega Giuseppe Fiori, direttore generale per il personale - è stato rimodulato in quattro anni. Nel 2008/2009 dobbiamo tagliare 10 mila posti di insegnanti e mille di personale non docente. Per realizzare le economie, salvaguardando il sostegno e il tempo pieno alla scuola primaria, ci soffermeremo sugli sprechi esistenti ancora nel sistema". Per evitare le classi superaffollate i tecnici del ministero cercheranno di intervenire su quelle con pochi alunni. "Nella predisposizione degli organici occorrerà evitare prime classi con un numero di alunni troppo basso". In buona sostanza, "presidi e direttori scolastici dovranno fare la loro parte" evitando la formazione di classi con meno di 15 alunni. Ma c'è anche qualche elemento di novità. "A partire dal prossimo anno, in 10 province verrà attivato un organico sperimentale che si prefigge di assegnare ai territori quote di organico più aderenti alle esigenze delle scuole e mira ad una maggiore stabilità del personale". Basteranno questi interventi a portare in porto i risultati sperati?

Il taglio colpirà soprattutto la scuola elementare e il superiore. Nella scuola dell'infanzia il ministero prevede di confermare gli stessi insegnanti dell'anno in corso e nella scuola primaria, nonostante un incremento previsto di circa 7 mila alunni, salteranno 5 mila cattedre. Alla media che dovrebbe veder crescere la popolazione scolastica di 22 mila unità saranno assegnati mille posti in più e al superiore si prevede un taglio di 6 mila posti parzialmente giustificati da un calo di 9 mila alunni. L'unica buona notizia arriva dal sostegno. Sarà possibile attivare quasi 94 mila posti (5.600 in più dell'anno in corso) con la stabilizzazione di quasi 15 mila insegnanti.

Di fronte alle pressioni del ministero dell'Economia la scuola già quest'anno ha dato il suo contributo al risanamento dei conti pubblici. Nell'anno in corso a fronte di un incremento totale di 15 mila alunni, sono state tagliate poco più di 9 mila cattedre e oltre mille classi. In tutti e quattro i segmenti dell'istruzione italiana il rapporto alunni classi è cresciuto aumentando la probabilità per gli alunni di ritrovarsi in classi superaffollate. Nel 2005/2006, a fronte di un tetto massimo di 28 alunni stabilito dalle norme, il Quaderno bianco redatto da viale Trastevere dava conto di oltre 2 mila classi con 30 o più alunni.
 

 

L'Istat ha reso nota la stima preliminare sul mese di dicembre
Salgono benzina e gasolio ma anche pane, pasta e cereali

Inflazione al 2,6 ai massimi dal 2003
Aumentano carburanti e alimentari

<B>Inflazione al 2,6 ai massimi dal 2003<br>Aumentano carburanti e alimentari</B>

ROMA - Balzo dei prezzi a dicembre. L'inflazione è arrivata al 2,6%, dal 2,4% di novembre, salendo così ai massimi dall'ottobre del 2003. Lo comunica l'Istat nella stima preliminare precisando che su base mensile i prezzi sono aumentati dello 0,3%. Dai dati risulta che la ripresa del carovita si deve principalmente al comparto dei beni.

L'inflazione media annua nel 2007, invece, si è attestata all'1,8%. Secondo l'Istat si tratta del dato più basso dopo il 1999, quando fu pari all'1,7%. Nel 2006 fu del 2,1%.

Come detto, l'accelerazione di dicembre si deve prevalentemente ai carburanti e agli alimentari, in particolare pane e pasta. Il comparto energetico ha infatti registrato una crescita dell'1,1% congiunturale e del 6,5% tendenziale, dovuta per lo più ai carburanti. Tra i prezzi energetici, sono aumentati in particolare quelli della benzina dell'1,5% su mese e dell'11,6% su anno, quelli del gasolio rispettivamente del 3,7% e del 15,4% mentre i combustili per riscaldamento hanno messo a segno una crescita dell'1,1% e del 13% tendenziale. Nuovo balzo in avanti per prezzi di pane, cereali e pasta.

Un effetto di contenimento dell'inflazione è venuto dai medicinali, che scendono dello 0,1% congiunturale e del 2,7% sull'anno, e dagli apparecchi telefonici, con un calo dei prezzi del 2,9% su novembre e del 7% sull'anno.

Passando ai servizi, una spinta all'inflazione arriva invece dai prezzi di ristoranti e bar, saliti del 3,5% su base annua. Crescono del 4% tendenziale anche i servizi di manutenzione dei mezzi di trasporto e del 3,6% i servizi medici, mentre registrano un calo dell'1,7%, sempre su base annua, le tariffe aeree.


Odissea carcere

di Riccardo Bocca
Dopo un anno l'effetto indulto è già svanito. Spazi insufficienti, poco personale e leggi come la Bossi-Fini che continuano a spedire in prigione migliaia di extracomunitari. Così le carceri italiane scoppiano di nuovo
 
 
Detenuti appena scarcerati
dal penitenziario di San Vittore a Milano
 
 
Le carceri italiane crollano. Collassano sotto il peso di 49 mila 442 detenuti: 6 mila e 200 in più rispetto a quelli previsti dal regolamento. Per farsi un'idea, da ottobre a dicembre 2007 sono finite in cella oltre mille persone al mese. E il 2008 parte con l'allarme lanciato a 'L'espresso' da Ettore Ferrara, capo del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria): "La situazione sta diventando irrecuperabile", dice: "C'è un rubinetto aperto che allaga la casa, e tutti guardano senza intervenire".

Non è questione di Nord o Sud: il sovraffollamento è ovunque. Prendiamo San Vittore, a Milano: "Con due reparti chiusi per ristrutturazione, la capienza maschile è di 700 unità", racconta Luigi Pagano, responsabile dei penitenziari lombardi: "Invece gli uomini sono 1.187, senza contare le 97 donne e i 77 ricoverati del centro clinico". Ti sposti in Liguria, a Genova, e lo scenario è simile: la capienza limite, al carcere di Marassi, è di 450 posti. Ma il Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria, segnala la presenza di "oltre 600 detenuti", con una carenza stimata "di più di 120 agenti". Come in Sicilia, dove da agosto 2007 il tutto esaurito abbonda: nel carcere Piazza Lanza di Catania, ad esempio (399 detenuti contro i 245 previsti). Ma anche ad Agrigento (294 contro 253) e Barcellona Pozzo di Gotto (256 contro 216).

È una lunga storia: da sempre le nostre prigioni scoppiano. Già nel 2002 i reclusi erano 56 mila, e a luglio 2006 sfondavano quota 60 mila. Poi però è arrivato l'indulto, e all'improvviso 26 mila persone sono tornate libere. "Il primo impatto", dice Pagano, "è stato ottimo. Finalmente abbiamo tirato il fiato. E ragionato con tranquillità sull'impiego delle nostre forze". Peccato che, dall'estate scorsa a oggi, il 23,8 per cento degli indultati sia tornato in cella. E siano cresciute, in parallelo, le percentuali di reati come rapina, truffa e tentato omicidio. La sintesi di un provvedimento fallimentare, denuncia chi non l'ha votato (come An e Lega). Ma anche la principale causa del nuovo sovraffollamento, ormai a un passo dai livelli del 2005. Un'interpretazione contestata da Emilio Di Somma, vicecapo del Dap: "L'indulto c'entra poco con il fenomeno del sovraffollamento. Piuttosto, la percentuale media di recidiva, per gli ex detenuti, è attorno al 70 per cento. E chi esce di prigione viene aiutato poco, pochissimo. Dunque è inevitabile, nelle condizioni attuali, che le carceri si ingolfino. E che si attacchi l'indulto senza affrontare le vere cause".

A cosa si riferisce, è presto detto. Il primo punto scomodo è quello degli extracomunitari. Negli anni Novanta rappresentavano il 15 per cento della popolazione carceraria italiana. Oggi sono il 37 per cento, pari a 18 mila 454 persone provenienti da 144 paesi. "Un dato impressionante", commenta Ferrara, "che resterà tale se non si mette mano alla Bossi-Fini, aiutando gli stranieri a vivere in maniera dignitosa". L'altro punto scomodo è la divisione in carcere tra chi è stato condannato e chi è in attesa di giudizio. Su 49 mila 193 detenuti, ben 29 mila 137 rientrano nella categoria degli imputati, mentre 18 mila 569 sono i condannati e gli 1.487 internati (ossia ricoverati in ospedali psichiatrici giudiziari). Gran parte di chi è parcheggiato in cella, insomma, non conosce ancora il suo destino. E suo malgrado contribuisce al sovraffollamento. "Perché fino alla condanna", ricorda Di Somma, "i detenuti sono esclusi dai progetti di riabilitazione". Inoltre, aggiunge Vittorio Antonini, coordinatore a Rebibbia dell'associazione Papillon, "due terzi di coloro che hanno diritto alle misure di pena alternative se le vedono rifiutare". Il che, dice, autorizza un sospetto: che "sulle decisioni dei magistrati di sorveglianza, influisca la pressione delle campagne pubbliche in materia di sicurezza".

Il clima è questo: elettrico. Anche, anzi soprattutto, quando il discorso cambia, passando alla lunghezza assurda dei processi penali: la grande madre di tutti i sovraffollamenti.
Un disastro che il ministro della Giustizia,
 
Il carcere milanese di San Vittore
 
Clemente Mastella, affronta come può: schierandosi, ad esempio, per la creazione di nuovi carceri. Al momento, ha detto lo scorso autunno, "sono in via di realizzazione 5 mila 886 posti letto", ai quali se ne aggiungeranno "altri 800 nel corso del 2008". Da parte sua, il ministro delle InfrastruttureAntonio Di Pietro ha annunciato l'ampliamento di "alcuni penitenziari, in modo da recuperare 3 mila 300 posti": ai quali, ha detto, "se ne aggiungeranno 4 mila nel triennio 2007-2009". Un investimento da 70 milioni euro che non piace a tutti. "È sbagliato", sottolinea Di Somma, "credere che le nuove carceri aggiungano posti letto. Andranno invece, in linea di massima, a sostituire strutture fatiscenti. Inoltre, se parliamo di nuove prigioni, dobbiamo toccare un altro tema scivoloso: la mancanza di personale per gestirle e la carenza cronica di fondi".

Questioni ben note, a chi è costretto a vivere dentro una cella. "Nella stragrande maggioranza delle prigioni", scrivono i redattori-detenuti di 'Ristretti orizzonti', rivista nata dalla sinergia tra il penitenziario femminile della Giudecca (a Venezia) e quello di Padova, "il personale è endemicamente sotto organico, e costretto a turni di lavoro massacranti". Per non parlare degli altri operatori sociali. "Ad esempio", si legge, "a Padova ci sono soltanto due educatrici per oltre 700 detenuti, contro le dieci previste dalla normativa".

Un'altra faccia triste del sovraffollamento. Una delle tante. "A partire dai pericoli per la salute fisica e psichica dei detenuti", dice Luigi Pagano, "trascurata a volte per l'impossibilità oggettiva di seguire tutti quanti". Tra gli esiti più tragici, quelli catalogati sotto la voce 'suicidi': 52 nel solo 2007.

 

Policlinico un inferno dopo

di Fabrizio Gatti
A un anno dalla nostra denuncia siamo tornati all'Umberto I di Roma. Nonostante appelli e promesse nulla è cambiato. Incuria, sporcizia e gli stessi baroni
 
La premiata ditta Ubaldo Montaguti
 
Un progetto da 28 milioni di euro. È quanto verrà speso per ristrutturare i sotterranei del Policlinico Umberto I. A cominciare dallo smaltimento e la bonifica delle opere in amianto. Tempi di realizzazione: entro la primavera 2008. Il rischio che la tabella di marcia annunciata un anno fa non sia rispettata è ormai evidente. E si aggiunge un dubbio: vale la pena spendere così tanti soldi per i corridoi sotto terra ...
 
Si può cominciare come un anno fa. Dal corridoio di terapia intensiva della clinica pediatrica. L'attesa dei genitori su una panca. Il pianto lontano di un neonato. La stessa porta scorrevole che chiude la camera asettica dove i bimbi più gravi si aggrappano alla vita. E nove passi più avanti, ecco il pavimento ricoperto di mozziconi di sigaretta, i filtri aspirati fino all'ultimo tiro, le cicche gettate accese e lasciate bruciare a terra. Uomini e donne in camice bianco o azzurro si nascondono qui in qualche pausa strappata al lavoro. A volte l'odore di fumo arriva fino al reparto in cui i loro piccoli pazienti meriterebbero aria sempre pulita.

Esattamente come un anno fa. Nove passi non sono niente in un sotterraneo senza sbocchi né finestre. E come un anno fa si può andare a contare gli escrementi sul pavimento che porta ai laboratori di immunologia e ai ricoverati di malattie infettive: dopo cinque giorni e quattro notti lo schifo è sempre lì. L'anno scorso, più o meno dalle stesse parti, le cacche dei cani randagi erano due. Ora sono quattro. Nessuno pulisce, nessuno chiama l'impresa di pulizie. Unica differenza, giorno dopo giorno, le impronte delle ruote delle lettighe e degli zoccoli degli infermieri che prima o poi ci finiscono dentro.

Dodici mesi dopo l'inchiesta-denuncia de "L'espresso", il Policlinico Umberto I di Roma è ancora questo. Il risultato di un'infernale giostra di poteri intoccabili, di interessi personali. Soldi e carriere giocati sulla salute dei cittadini e sull'impegno di medici e infermieri che ancora credono nelle eccellenze e nell'ospedale dell'Università La Sapienza, il più grande d'Italia.

Adesso va perfino peggio. Il 18 ottobre un neonato è morto. Una tragedia passata sotto silenzio. La mamma era arrivata al dipartimento di scienze ginecologiche con una grave sofferenza fetale. In questi casi bisogna fare immediatamente un taglio cesareo. Lei ha dovuto aspettare quattro ore. Secondo più testimoni, il letto operatorio per le emergenze di ostetricia era occupato per un intervento non di emergenza all'intestino. Questo è un ospedale in cui, su cinque dipartimenti da poco ispezionati, nessuno compila le liste d'attesa delle operazioni e dei ricoveri nei registri ufficiali. La confusione e l'uso di quaderni e bigliettini volanti aiuta i medici a mandare avanti i pazienti raccomandati da cliniche e studi privati. Così non è stato difficile convincere i genitori che le condizioni del loro piccolo fossero già gravi e che il suo destino fosse comunque segnato. E il bimbo che ha dovuto aspettare quattro ore prima di nascere dopo qualche giorno ha smesso di respirare.
 
 
 
apparecchiature abbandonate
Nessuno si aspettava in un anno la ristrutturazione di tutto l'ospedale e dei suoi decrepiti corridoi sotterranei. Ma la buona gestione dei dipartimenti, il rispetto delle norme igieniche, la separazione dei percorsi tra pazienti e rifiuti dovrebbero sempre far parte dei servizi garantiti. Invece nemmeno le tante indagini sul Policlinico aperte nel 2007, amministrative e penali, sono state un deterrente. Lo studio più promettente l'aveva avviato in Senato la Commissione parlamentare di inchiesta sull'efficacia e l'efficienza del servizio sanitario nazionale. In 12 mesi non ha prodotto nulla, se non una corposa raccolta di resoconti in cui amministratori locali, medici e professori hanno messo a verbale la loro versione del mondo. Il viaggio per raccontare cosa non è mai cambiato nel più grande ospedale d'Italia può partire proprio dai banchi dei 21 senatori di maggioranza e opposizione guidati dal presidente di Forza Italia, Antonio Tomassini.

Il 7 novembre la commissione di inchiesta convoca il commissario per il contrasto della corruzione, Achille Serra. In ottobre gli agenti in borghese dell'Alto commissariato sono entrati nel Policlinico Umberto I. E in 16 giorni sono riusciti a vincere la diffidenza, tanto da mettere a verbale le testimonianze di alcuni medici, di infermieri e strumentisti. Sono le prime testimonianze spontanee sotto il coperchio di omertà che da anni consiglia al personale il silenzio per paura di ritorsioni professionali e fisiche. Il verbale della seduta è pubblico. Serra riassume le gravi irregolarità riscontrate in quattro dipartimenti di chirurgia e in quello di ginecologia. Ma sotto accusa, invece della gestione del Policlinico, finisce l'Alto commissariato. Le lamentele sono affidate al senatore di An, Cesare Cursi: "Vorrei ricordare a me stesso e ai presenti che le singole aziende ospedaliere e i policlinici sono di competenza regionale... Questa commissione doveva essere informata di un'indagine che, a mio parere, ha poco a che vedere con le funzioni di prevenzione e contrasto della corruzione e di altre forme d'illecito". Insomma, gli agenti anticorruzione non dovevano ficcare il naso nelle storie del Policlinico perché, tra l'altro, già lo stava facendo la commissione di inchiesta del Senato. E le pesanti testimonianze raccolte dall'Alto commissariato che nessuno altrimenti avrebbe conosciuto?

A leggere il verbale, nessun senatore sembra interessarsi. Il particolare non è di poco conto per il futuro dell'inchiesta parlamentare e per l'efficacia delle direttive che il Parlamento dovrebbe fornire. Perché Cesare Cursi è il relatore dell'indagine sul Policlinico e sugli altri ospedali universitari italiani. E il percorso che seguirà la commissione dipende soprattutto da lui che durante il governo Berlusconi è stato sottosegretario alla Salute. Un esperto di sanità con qualche problema di conflitto di interessi in casa, come ha scoperto "L'espresso". La moglie del senatore, Lia Viviani, possiede e dirige una casa editrice, la Viviani Editore, che infatti ha tra i suoi principali clienti colossi della farmaceutica come Baxter, Fondazione Pfizer e Serono. Le tre società sono tra i fornitori del Policlinico Umberto I. E proprio per la Baxter il Policlinico ha sperimentato l'efficacia dei suoi farmaci nell'oncologia pediatrica. In altre parole, la famiglia del senatore che indaga sul Policlinico è in affari, secondo il sito Internet della Viviani Editori, con società che in via teorica potrebbero essere penalizzate o favorite dall'inchiesta sulle spese e gli sprechi dell'ospedale universitario. Questo, va detto, non è assolutamente un reato. Secondo il galateo anglosassone della politica, però, il senatore Cursi avrebbe dovuto dichiararlo pubblicamente prima di assumere l'incarico dell'inchiesta. A Londra i ministri si dimettono per molto meno. Ma siamo al Policlinico di Roma. E ai commissari del Senato italiano evidentemente sta bene così.

 
 
Fili scoperti
Le testimonianze raccolte dall'Alto commissariato contro la corruzione sono state intanto inviate alla Procura di Roma e ai magistrati della Corte dei Conti. L'elenco delle irregolarità è ormai conosciuto. La mancanza di liste d'attesa ufficiali. La sostituzione di medici in sala operatoria con colleghi esterni, senza nessuna registrazione nelle cartelle cliniche, nelle note di intervento e nei documenti: un caso è stato accertato con l'attività non dichiarata al Policlinico di un primario del Campus Biomedico, l'università romana dell'Opus Dei. Fino all'occupazione dei posti letto senza giustificati motivi per un totale di 11 mila 500 giornate di degenza oltre la soglia. Ma nei verbali inviati alla Procura e alla Corte dei Conti c'è una parte segreta. La più pericolosa per gli interessi che a Roma legano medici e cliniche, sanità pubblica e affari privati.

Un professore racconta che, per aggirare le lunghissime liste d'attesa, i pazienti sono indirizzati ad altre strutture collegate a un direttore di dipartimento. I malati che possono permetterselo, dopo essere operati al Policlinico, vengono medicati negli studi privati. Altrimenti dovrebbero aspettare troppo tempo: l'inefficienza è diventata una forma di pressione per spingere i pazienti verso l'attività privata. Un altro medico rivela di aver curato persone trattate prima in clinica dai suoi superiori e poi ricoverate all'Umberto I senza transitare dai canali ordinari. Anzi, avrebbero dovuto ricoverarle in altri reparti con la specifica competenza e le attrezzature adeguate. Ma lì non avrebbero trovato il dottore che le aveva raccomandate. Alcuni dipendenti parlano delle presunte irregolarità nel dipartimento ostetrico-ginecologico. La divisione ha due letti operatori, di cui uno da utilizzare soltanto per le urgenze. Secondo la denuncia, però, la sala d'emergenza viene quotidianamente usata per operare pazienti senza urgenza. Spesso interventi oncologici di lunga durata. Così più volte si sono avuti casi di sofferenza fetale acuta perché il letto operatorio era occupato. L'ultimo episodio conosciuto, quello del 18 ottobre. Quattro ore di criminale attesa e la morte del neonato.

Ne parla anche il commissario anticorruzione davanti alla commissione di inchiesta: "Abbiamo verificato che i letti per l'urgenza non sempre erano occupati da chi doveva subire un intervento urgente, ma magari assegnati a chi doveva affrontare un intervento programmabile entro cinque o sei ore o addirittura tre o quattro giorni", spiega Achille Serra: "Da alcune audizioni abbiamo appreso della morte di un neonato, la cui concausa sarebbe proprio la mancanza del letto d'urgenza, occupato da chi invece non aveva urgenza di essere operato". Se fosse andata così, sarebbe un omicidio colposo. Quel giorno però i senatori della commissione sono più infastiditi dal fatto che l'Alto commissariato anticorruzione si sia occupato dell'Umberto I.

Non sempre gli agenti in borghese hanno trovato la collaborazione del personale del Policlinico. Il clima di cortesia e disponibilità in alcuni dipartimenti si è subito dissolto. E, davanti all'ispezione, un medico si è accasciato per un malore.

In un'azienda che funziona, se un dipendente commette un'irregolarità viene richiamato o sottoposto a provvedimento disciplinare. Non all'Umberto I. È il risultato della separazione di responsabilità tra l'ospedale e il personale medico, che dipende quasi totalmente dall'Università La Sapienza. Il direttore generale, Ubaldo Montaguti, l'ha più volte dichiarato: "Le contestazioni disciplinari finiscono regolarmente nel nulla: quando si tratta di personale universitario, la competenza passa all'Università che, da quando sono direttore generale, non ha mai dato seguito alle sanzioni disciplinari".

Sarà anche per questo che in novembre ricercatori e professori hanno rieletto con un plebiscito il preside di Medicina, il prorettore della Sapienza, Luigi Frati: 900 voti contro le 122 preferenze dell'unica sfidante, la prima in 18 anni. Frati è il Policlinico. Il suo è il settimo incarico consecutivo dal 1990 al vertice di Medicina. Indizio che allo staff universitario l'Umberto I piace così com'è. Non importa se sia l'unica università occidentale in cui i ricercatori vengono selezionati e assunti con il seguente giudizio: "Il curriculum scientifico non soddisfa... ma le prove hanno soddisfatto la commissione". In fondo gli elettori di Frati li paghiamo noi. A cominciare dai 202 stipendi da primario sui 148 previsti dall'atto aziendale che attende ancora la valutazione della Regione Lazio. Sono 54 dirigenti più del necessario. E quando manca il candidato con il dovuto curriculum professionale? Ci si arrangia. È per questo che due primariati di chirurgia sono andati a un cardiologo e a un fisiopatologo respiratorio.

Il peso dell'Università conta anche quando qualche medico del Policlinico finisce sotto inchiesta per omicidio colposo. Non si trova mai un consulente tra le facoltà di medicina di Roma che si metta contro La Sapienza. E quelli che accettano l'incarico di solito assolvono i loro colleghi. Proprio per questo la Procura da anni sta archiviando tutte le denunce per morte attribuita alla mancata somministrazione di farmaci contro l'embolia postoperatoria. A volte perfino di fronte a cartelle cliniche che definire poco chiare è un benevolo eufemismo.

Il costo di questi farmaci per il servizio sanitario nazionale è di 19 euro a confezione. La loro mancata somministrazione in Italia provoca una strage. Il presidente della commissione Sanità del Senato, Ignazio Marino, stima 15 mila morti l'anno per tromboembolismo venoso. Tanto da suggerire come in Gran Bretagna l'introduzione di protocolli uniformi sulla profilassi e l'adozione nei reparti della valutazione del rischio tromboembolico per ogni paziente. A Bologna, un urologo del Sant'Orsola che aveva tentato di aggiungere la terapia anticoagulante nella cartella clinica di una paziente morta in settembre per tromboembolia post operatoria, è stato arrestato. A Roma molto probabilmente sarebbe stato prosciolto.

Un anno fa, nel suo intervento su "L'espresso", il ministro della Salute, Livia Turco, aveva scritto queste parole: "Siamo pronti a mettere in gioco la nostra credibilità per riaffermare la fiducia e la partecipazione dei pazienti e degli operatori sanitari, quali requisiti fondamentali per un servizio sanitario realmente vicino ai cittadini e ai suoi bisogni". Il direttore generale, Ubaldo Montaguti, finito a sua volta sotto inchiesta per avere affidato un incarico alla moglie, medico di direzione sanitaria, aveva accusato la politica nazionale: "Sono andato da Micheli che è il sottosegretario di Prodi. Sono andato dal senatore Mazzucchelli che è sottosegretario del ministro della Salute, Livia Turco. Ho fatto informare il ministro Padoa-Schioppa e ho parlato con il suo capo di gabinetto...". Qualcosa nel frattempo è stato fatto. Il corridoio sotterraneo che porta a chirurgia 3 e a pediatria è stato chiuso per la ristrutturazione. Sono state rimosse le discariche abusive di rifiuti sotto il reparto di rianimazione. Tutti i locali sono stati inventariati e assegnati. L'ufficio tecnico ha lavorato. I frigoriferi soprattutto non se la passano male. Quelli pieni di provette contagiose vengono finalmente chiusi a chiave. E ne sono stati comprati di nuovi. Ma è la gestione di tutti i giorni che sorprende.

Così non resta che continuare il giro tra reparti e corridoi. Con la solita macchina fotografica e la telecamera. I mozziconi di sigaretta abbandonati accanto alla terapia intensiva pediatrica arrivano al massimo di 13 il 27 dicembre. Lo stesso giorno dell'anno scorso erano 32: ma solo perché da una settimana non li raccoglieva nessuno. I pazienti seminudi della rianimazione continuano a essere spinti in barella lungo lo stesso sotterraneo dello smaltimento rifiuti. E spesso agli stessi orari dei carrelli elettrici che trasportano l'immondizia ai camion. Il personale esce ed entra nei corridoi asettici senza cambiarsi gli zoccoli. I secchi per lavare il pavimento del pronto soccorso sono incrostati di nero. Lungo il percorso verso immunologia barelle e carozzelle vengono trascinate dentro un cunicolo basso da cui pendono cavi elettrici e tubi scrostati. Nei corridoi di reparto ci sono armadi non chiusi dove è possibile leggere le cartelle di centinaia di pazienti. Basta aprire a caso qualche porta dei sotterranei e si scoprono rottami, bombole di gas da cucina e di ossigeno vuote e arrugginite, vecchi mobili di legno e plastica in locali senza nessun sistema antincendio. E poi i cani randagi. La notte sono loro i padroni del corridoio sotto il reparto di malattie infettive. Di giorno restano gli escrementi. Passano medici e infermieri, qualche volta con i pazienti. Una pensionata protesta lungo tutto il percorso perché la sua mamma di 92 anni ora in carozzella l'hanno fatta aspettare sei ore su una panchina. Le ruote delle lettighe e delle biciclette usate per gli spostamenti interni hanno disseminato cacca per una decina di metri. Il personale in camice bianco guarda e tira dritto. Come se quello schifo non riguardasse il loro ospedale.

Pochi giorni prima di Natale su un muro appare un cartello con la freccia: "Endemol". È la casa di produzione, stanno girando un film. Fuori, davanti alle finestre di anestesiologia e rianimazione sembra il Grande raccordo anulare durante l'esodo d'agosto. Arrivano camion con luci e scenografie. I generatori diesel restano accesi ore, sotto nuvole di smog e rumore. Da un minibus scendono gli attori. Un letto al Policlinico non si nega a nessuno.

4 gennaio

Salari a terra: -10%
Persi dieci punti di potere di acquisto in 5 anni, i sindacati ribadiscono: giù le imposte sul lavoro o sarà sciopero. Damiano: detassare gli aumenti
Antonio Sciotto
Roma
 
E' un calcolo che sicuramente non giunge nuovo ai lavoratori italiani, ma sicuramente è l'ennesima conferma dello stato pietoso a cui siamo arrivati: in cinque anni i salari del nostro paese hanno perso il 10% del potere di acquisto. Lo studio è della OD&M, risultato ottenuto rielaborando i dati Istat. Giustamente i sindacati si sono pervicacemente concentrati sul tema, che non è certo peregrino, anche se la fissazione odierna si concentra tutta sulle tasse, e scende in secondo piano - purtroppo - il fatto che ormai gran parte dei salari è composta dalle buste paga di cococò e cocoprò, a compenso libero e dunque ancor più rosicchiate dall'inflazione ed escluse dalle statistiche ufficiali. E per i precari non pare esserci alcuna soluzione, dato che il Protocollo sul welfare li ha condannati a restare di serie B. In ogni caso, per chi resta coperto dai contratti collettivi nazionali, resta in piedi la minaccia dello sciopero generale, ribadita ieri dal segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani: ma è più nello sfondo, dato che comunque il premier Romano Prodi ha convocato le parti sociali per la settimana prossima (l'8), per un primo faccia a faccia.
Dal fronte governativo, ieri è arrivata anche una prima «apertura», da parte del sottosegretario all'Economia Alfiero Grandi: ha detto che «il governo si impegna a ridurre il carico fiscale sui lavoratori», aggiungendo che «anche le imprese però dovranno fare la loro parte per affrontare la questione dei salari». Ma, ha concluso, «il fisco non è in grado di sostituirsi agli incrementi salariali che devono venire dalle imprese, dunque dai rinnovi contrattuali e dalla contrattazione aziendale».
Sempre di detassazione si tratta, ma il riferimento lo ha fatto il ministro del lavoro Cesare Damiano agli aumenti del contratto nazionale: ieri ha aperto esplicitamente a una richiesta classica della sinistra cosiddetta «radicale», affermando di non essere «contrario» all'idea di detassare anche gli aumenti fissati con il contratto nazionale, però «tenendo conto delle compatibilità finanziarie». Dall'altro lato, Damiano ha aggiunto di essere favorevole a che i contratti arrivino ad avere «una vigenza triennale». Riferimento non casuale, dato che sul tavolo, a parte la questione fiscale, finirà probabilmente anche il tema della riforma dei modelli contrattuali.
A sinistra, d'altra parte, dopo la maxi-batosta del Protocollo, che ha allontanato ancora di più gli elettori dai partiti Rifondazione-Pdci-Verdi-Sinistra democratica, si tenta di mettere una nuova toppa rinviando la «rivincita» dei lavoratori alla cosiddetta «verifica» di gennaio. Quando si aprirà un nuovo tavolone governativo, che rischia però di essere un replay del vertice di Caserta: tanta fuffa mediatica e niente arrosto, con la situazione dei precari che rimane intatta e la Confindustria che resta salda al timone della maggioranza di governo. Ma tant'è: la prossima battaglia di Rifondazione è quella di tentare una nuova stretta sui contratti a termine, annunciava ieri il responsabile Lavoro Maurizio Zipponi. Questa volta chiudendo i contratti a termine a un massimo di tre anni, dopodiché scatterebbe l'assunzione a tempo indeterminato.
Intanto l'8 gennaio non sarà solo la data del tavolo governo-parti sociali: riprenderanno anche le trattative tra Fim, Fiom, Uilm e Federmeccanica per il rinnovo dei meccanici. Il direttore generale di Federmeccanica si dice fiducioso sull'esito, ma per aumenti più sostanziosi rispetto all'attuale offerta ipotizza un aumento della vigenza del contratto. Sono in tutto 6 milioni i lavoratori in attesa del contratto: gli animi sono sempre più pronti allo sciopero generale, tanto che l'incontro tra i direttivi unitari di Cgil, Cisl e Uil per fissare la data di un eventuale stop è previsto il 15 gennaio.
Maurizio Beretta di Confindustria però avverte il «sindacato»: la minaccia di sciopero è «inutile e dannosa, prosegua la concertazione».

 
Usura e truffe all'Ue, la cronaca che non sfonda sui media
Non c'è solo il caso Tassitani, ma anche un'inchiesta «stoppata» sulla Compagnia delle opere e una superbanca «abortita»
Alpi Eagles sull'orlo del fallimento e le mitiche biciclette Bottecchia che producono in Vietnam. L'altra faccia di un «miracolo» sfumato
Ernesto Milanesi
Padova
 
 L'ultimo Nordest non rimbalza in prima pagina. Occorre l'orribile morte di Iole Tassitani (la figlia del notaio rapita a Castelfranco e trovata a pezzi nel garage del falegname di Bassano del Grappa) per accorgersi del «primitivismo» che sta dietro l'apparente ricchezza. La cronaca, qui, non fatica a regalare altri episodi meno eclatanti che suonano da campanello d'allarme.
Padova è diventata la capitale delle truffe e dell'usura, «ramo d'azienda» della malavita che si adatta all'ambiente e ne sfrutta i punti deboli. Lo documenta il bel libro di Giampiero Beltotto e Giancarlo Giojelli (Nuovi poveri, Piemme, pagine 206, euro 12,90), prontamente rimosso dai cantori del «modello veneto».
Intanto, nella procura della Repubblica viene abilmente «stoppata» l'inchiesta della Guardia di Finanza sulla truffa milionaria dei fondi europei. Pronto il fascicolo che avrebbe messo spalle al muro i sei indagati (tutti appartenenti alla holding della Compagnia delle Opere), ma non si è potuto eseguire il provvedimento a causa di una formale interpretazione giuridica: gli uomini del Nucleo tributario, coordinato dal maggiore Antonio Manfredi, hanno dovuto ricominciare tutto da capo.
Sempre a Padova, capodanno con brindisi per i direttori generali dell'Azienda ospedaliera e dell'Usl 16: Adriano Cestrone e Fortunato Rao hanno ottenuto la conferma dal governatore Giancarlo Galan. La sanità è la «grande fabbrica», città nella città che tiene insieme servizio pubblico e potere accademico, ricerca d'eccellenza e appalti d'oro. Nella primavera 2004, un furto stupefacente: 44 chili di droga evaporati dalla camera blindata dell'Istituto di medicina legale. Nessuno ne ha più saputo niente. Ora si profila la costruzione del nuovo ospedale vicino allo «stadio delle tangenti», mentre si rattoppa il vecchio policlinico con un piano triennale di lavori che vale 151 milioni di euro (più il mega-bando da 60 milioni, di cui si ignora l'esito).
Una montagna di soldi pubblici alimenta anche i corsi di formazione, specialità delle stesse associazioni di categoria e sindacati d'impresa che sbraitano sul libero mercato e contro le tasse. Ogni sigla ha clonato la sua società di servizi per la gestione dei ricchi contributi che transitano dalla Regione. Soltanto Carlo Covi (eletto nelle liste Sdi) ha sollecitato una commissione d'inchiesta sul «portafoglio» affidato all'assessore Elena Donazzan di An. Nessuna risposta, finora, agli atti del consiglio regionale.
Schei sinonimo del Nordest che continua a mungere Roma e Bruxelles, anche se ha perso le sue banche. Ed è passata sotto silenzio l'abortita fusione concepita sull'asse Vicenza-Treviso, la linea pedemontana dove la Lega Nord strizza l'occhio agli industriali e amministra come la vecchia Dc dorotea. Banca Popolare Vicenza e Veneto Banca contavano di diventare, insieme, la nuova «cassaforte» del Veneto. La superbanca avrebbe dovuto mettere d'accordo Gianni Zonin e Flavio Trinca con Vincenzo Consoli (l'uomo del dopo Fiorani a Lodi) dietro la scrivania di amministratore delegato. E' saltato tutto sulla spartizione delle poltrone del consiglio di amministrazione: Vicenza ne pretendeva nove, Treviso non si accontentava di sette.
Un altro segnale che dovrebbe mettere i brividi arriva dal cielo sopra Tessera. Alpi Eagles, la compagnia aerea nata nel 1996 da una pattuglia acrobatica, è di fatto sull'orlo del fallimento. Simbolicamente, lo schianto delle ambizioni di un'imprenditoria che ha provato a spiccare il volo fuori dai confini regionali. Inutile l'aumento di capitale (6 milioni): ormai si sta trattando la vendita della società di Paolo Sinigaglia.
Ancora cronaca, ma dal mare. Una vicenda emblematica che racconta cos'è il «miracolo Nordest». Al porto di Venezia, da un container sono spuntati telai e forcelle per le mitiche biciclette Bottecchia. E' l'azienda trevigiana che sulle due ruote vanta una storia secolare, oltre all'invenzione della «Graziella». Un marchio di qualità internazionalmente riconosciuto. Peccato che le componenti metalliche delle famose biciclette arrivino via nave... dal Vietnam.

 

Neo gollismo e neo colonialismo

Le accuse di Sarkozy alla Siria portano alla rottura diplomatica. Sulla pelle del Libano

“La Siria ha deciso di porre fine alla cooperazione con la Francia per la soluzione della crisi libanese”. Walid al-Moallem, ministro degli Esteri siriano, si è fatto ieri portavoce del risentimento di Damasco verso il presidente francese Nicholas Sarkozy, incontrando il presidente Mubarak in Egitto, ha attaccato tre giorni fa il governo della Siria.

il ministro degli esteri siriano moallemRottura diplomatica. “La Francia non avrà più contatti con la Siria fin quando Damasco non avrà dato prova della sua volontà di lasciare che il Libano elegga in modo concordato un nuovo presidente”, ha dichiarato Sarkò, che da subito ha basato il suo appeal politico sulla fermezza e sull'allergia alle mezze misure.
Crisi diplomatica in atto, dunque, sull'asse Damasco – Parigi, anche se il tavolo della partita è il Libano, sempre più paralizzato dall'incapacità di eleggere un presidente della Repubblica.Il prossimo tentativo per trovare un accordo, che ormai in linea di massima pare raggiunto attorno alla figura del capo delle forze armate Michael Suleiman, andrà in scena al parlamento di Beirut l'11 gennaio prossimo, dopo 11 tentativi andati a vuoto e dopo che a fine novembre è scaduto il mandato di Emile Lahoud.
L'exploit di Sarkozy denota che la Francia ha perso la pazienza e che ritiene responsabile del blocco il fronte filo-siriano, vicino a Damasco come e quanto lo era prima che le truppe della Siria lasciassero il Libano nel 2005.
 
il presidente francese sarkozyPromesse e interessi. Non a caso, all'inizio di dicembre, Sarkozy aveva telefonato al presidente siriano Assad, chiedendo con chiarezza che Damasco la smettesse di interferire con la politica interna libanese. Il colloquio, considerate le dichiarazioni del primo cittadino di Francia, non deve essere andato per il meglio, anche se Moallem ha specificato ieri che era stato raggiunto un accordo tra i due presidenti.
Il nuovo presidente libanese sarebbe stato scelto con il consenso delle parti, dopo la formazione di un governo di unità nazionale, che avrebbe provveduto a una nuova legge elettorale. Per la Siria però, secondo quanto dichiarato ieri dal suo ministro degli Esteri, gli Stati Uniti remano contro, perché un accordo di questo genere non può prescindere dal consenso di Hezbollah. Gli Usa non vedono di buon occhio un coinvolgimento della milizia sciita filo-iraniana nei giochi di potere sul futuro del Libano, ma Hezbollah è una realtà della quale non è possibile non tener conto.
 
una seduta del parlamento libaneseNeo colonialismo. Lo screzio diplomatico, ancora una volta, ha sottolineato come esista ancora una forma invasiva da parte della grandi potenze d'intendere gli affari interni dei paesi ritenuti strategici. E il Libano non fa eccezione. Se infatti Sarkozy accusa la Siria di interferire nella vita libanese, tradisce allo stesso tempo l'assoluto coinvolgimento di Parigi nel destino di Beirut. La Francia, dopo la Prima Guerra mondiale e il dissolvimento dell'Impero Ottomano, governò il Libano fino al 1943, quando il 'paese dei cedri' ottenne l'indipendenza, anche se le truppe francesi abbandonarono il paese solo tre anni più tardi. Ma Beirut, non a caso chiamata la 'Parigi del Medio Oriente', restò il punto di riferimento della politica estera francese nel quadrante.
La Francia non è mai rimasta estranea alla politica interna libanese, anche durante gli anni della guerra civile (1975 – 1990), facendo spesso leva sui cristiani libanesi come elemento di garanzia dei propri interessi nel paese. Adesso Parigi ha anche rilevato il comando della missione Unifil, il contingente Onu inviato in Libano dopo la guerra tra Hezbollah e Israele del 2006.
L'atteggiamento neo gollista di Sarkozy lascia intravedere una Francia sempre più protagonista in politica estera, a cominciare dal Libano.
 

Un inciampo, una fatalità e tutto si trasforma, l'esistenza deraglia
Storie di senzatetto fra vecchie coperte distese sui marciapiedi e mille rimpianti

Vivere (e morire) da barbone
Quando la vita ti butta sulla strada

di FABRIZIO RAVELLI

 
<B>Vivere (e morire) da barbone<br>Quando la vita ti butta sulla strada</B>
GIANNI LA SCIARPA a disegni Burberry se l'arrotola bene intorno al collo, poi infila il cappotto blu che sarebbe anche elegante, blu anche il berretto di panno a visiera tipo lupo di mare. Ha due borse, una 48 ore nera e una sacca grigia. Scarpe nere moderne. La vestizione è alle cinque e mezza della mattina, nella sala d'aspetto della stazione ferroviaria di Greco-Pirelli. "Prima sistemo le mie cose. Ho i cartoni sotto, poi una coperta, e il sacco a pelo. Piego tutto, e metto dietro la panchina di fuori. Fanno tutti così, nessuno tocca niente. Se posso, faccio colazione, sennò salto". Poi si avvia verso la sua giornata, e sembra un viaggiatore in arrivo. "Certo io non mi sento un barbone. Non ho fatto questa scelta".

Diventare barbone è un attimo, un inciampo, una fatalità. Brutta parola barbone, ce ne sono di più corrette: va molto clochard, elegante, o senzacasa, senzadimora. Gianni ha 57 anni, nato a Ragusa. Da tre anni vive per strada. Non si sente un barbone, ma ha grande solidarietà e rispetto per i suoi compagni di vita. Il suo amico Daniele, per esempio, 51 anni, droga e galera alle spalle, senza casa da una vita. Magro, piccolo, e tossisce di continuo in questa mattinata di neve. "Daniele, bisogna che ti curi, che vai dal medico". L'altro scuote le spalle e tossisce. "Testa dura di un valtellinese, hai fatto la broncopolmonite anche l'anno scorso".

L'inciampo di Gianni, quello che l'ha fatto deragliare, è stata una malattia: "Epatite B, quando me l'hanno trovata ho perso il posto. Ero chef sulle navi da crociera della Festival Cruise, in Oriente". E poi un furto: "Sono tornato in Italia, e a Roma mi hanno rubato la 24 ore. Dentro c'era il mio passaporto, e c'era la protesi. Sì, la dentiera. Era il 2004. Siccome ero residente nelle Filippine, là avevo moglie e due figlie, ci hanno messo un anno per ridarmi il passaporto, un calvario. Da allora sto per strada. Senza dentiera, nessuno mi dà un lavoro. Lo vedi? Mi restano solo questi tre denti davanti. Ho fatto dieci colloqui, ma mi guardano in bocca e dicono di no".

Gianni parla sei lingue: "Quattro parlate e scritte: inglese, francese, tedesco, spagnolo. Due solo parlate: cinese e giapponese". Nel suo italiano c'è traccia di pronuncia inglese. Ha girato il mondo. In borsa ha un curriculum che comincia nel '63, scuola alberghiera Tre Stelle di Stresa e finisce sulla motonave Flamingo, Festival Cruise Line. In mezzo, quattro diplomi in Food and Beverage Management, e tredici posti di lavoro: hotel, ristoranti, navi, in tutto il mondo. Ha una domanda di impiego in inglese, ("applicazione", dice traducendo), con tanto di indirizzo e-mail e cellulare ("Usato, me l'ha regalato una suora amica mia"). Il suo indirizzo è quello del Centro Sos, comunità Exodus di don Mazzi: "Ci vado spesso, si possono vedere gli amici e fare quattro chiacchiere, e c'è da leggere". A cento metri dal Grand Hotel Gallia, dove Gianni è stato assistente chef nel '74-'75.

La sua giornata è questa: "Mi alzo alle cinque e mezza. C'è anche chi dorme fino alle sette, ma io lo faccio per rispetto dei viaggiatori. Dobbiamo liberare la sala. Adesso siamo otto singoli e due coppie. La sala è riscaldata, ci lasciano stare, e nessuno fa casino o si ubriaca". Prende su le sue borse, e si incammina verso la fermata dell'81. "Vedi, il mio segreto è questo: io faccio come se dovessi lavorare, come se avessi sempre un'occupazione. Vivo di espedienti, sì. Però non rubo, e non chiedo l'elemosina per strada. Per me è una questione di orgoglio personale". Si arrabatta: "Ho chiesto il sussidio del Comune, ma dicono sempre che si deve riunire la commissione. Conosco qualche prete e qualche vescovo, che a volte mi allungano dei soldi. Io non sono insistente, non assillo la gente. So stare al mondo, e sono gentile".

Con le sue borse, come un viaggiatore. Basta non sentirsi un barbone. "Per mangiare, faccio così. Per esempio: il mercoledì sera alle nove, davanti alla stazione di Porta Garibaldi, viene il furgone di Sant'Egidio con del cibo caldo. Io e Daniele prendiamo il treno delle 20,58 da Greco a Garibaldi". In borsa ha la guida della Comunità di Sant'Egidio "Milano, dove mangiare, dormire, lavarsi". C'è tutto, ci sono anche gli ambulatori dove Daniele non vuole andare. Lui non dorme in stazione: "Mai stato in un dormitorio. Voglio stare da solo. Poi c'è quello che puzza, quello che non ha rispetto. E io ho un cattivo carattere". Poi ci porta a vedere "casa sua". Non l'ha mai mostrata nemmeno a Gianni.

Sotto la neve, in mezzo a questa nuova Milano della Bicocca, il teatro degli Arcimboldi, l'università e i palazzoni disegnati da Gregotti, il "Caffè Harry's Scala". Daniele sta su un pianerottolo, al livello 2 del posteggio sotterraneo, aperto al gelo. Una coperta stesa in verticale a far da muro. Sacchi a pelo, coperte, borse, scarpe, tre lumini da camposanto: "Io qui non sento nemmeno l'umidità". E tossisce. Il suo amico Enzo, titolare del secondo sacco a pelo, è in giro. C'era Donatella, ora è a Bologna. Lì sotto il tunnel del tram c'è altra gente: "Come quei due ragazzi poveri, Antonio e Ludmilla, e i loro cani, vivono in una tenda". Casa sua Daniele la tiene mezza segreta, "perché mi hanno insegnato che si fa così, non si sa mai".

Daniele si arrabbia se lo chiamano barbone "con superiorità", ma ha una sua filosofia della strada: "Il vero barbone è quello che non chiede niente, che fruga nei cestini e fuma i muccetti". Lui, che ha un sussidio di 160 euro al mese dal Comune, non vede che strada nel suo futuro. Gianni è amico suo, divide con lui anche un pasto completo 6 euro alla trattoria di via Breda: "Gestiscono dei cinesi, sono gentili, e quando ho qualche soldo ci vado". Ma per lui la strada è provvisoria, dice: "C'è chi l'ha scelta e chi non l'ha scelta. Chi l'ha scelta è diverso da me. Io mi curo esteriormente e interiormente, per essere una persona normale. Su tanti argomenti ho cultura, so fare discorsi. Potrei lavorare ancora qualche anno, se trovassi".

Già, la dentiera, sempre lì torna. "Ho questo preventivo, fatto dal dentista di fiducia di un amico vescovo: 3.600 euro. E come faccio? Mi sono informato: in Ungheria costa meno. Il viaggio 580 e la protesi 1.300 circa". A questo pensa, marciando con le borse per la sua Milano di mense religiose, centri di assistenza, bagni pubblici: "Vado in quello di via Pucci, 50 centesimi e ti danno anche l'asciugamano". Su e giù da tram e autobus. A pranzo da suor Carmela in via Ponzio: "La 90 fino a piazza Piola, poi la 93". A cena dai francescani di viale Piave, oppure il tè e le brioche della Croce Rossa a Greco. Daniele prendeva anche l'Intercity, due fermate, per mangiare a Pavia: "Il primo potevi mangiarlo anche tre o quattro volte, roba buona. Ma era troppo uno sbattimento".

E Gianni, che non si sente un barbone, lo accudisce come un fratello maggiore. Poi dà una mano al dopolavoro ferrovieri, sportello d'ascolto sotto la massicciata della stazione Centrale: "Abbiamo appena organizzato il Capodanno della solidarietà, 1200 pasti". Mimmo Vastola, il responsabile, ha un solo sogno: "Che restiamo disoccupati, nel senso che non ci sono più emarginati da assistere. Ci vorrebbero soluzioni vere. E invece i senza casa aumentano". A Milano c'è un esercito di gente che si dedica a loro, fra laici e religiosi. In questi giorni di neve e gelo, distribuiscono anche coperte e sacchi a pelo.

Gianni aspetta solo che finisca, questa sua vita di strada: "Ho tre mesi, fino a marzo, per risolvere il problema della dentiera. Perché poi ci sono gli ingaggi sulle navi, sono pronto a partire per il mondo". Nelle Filippine ha due figlie, ospiti delle suore. La moglie è morta nell'alluvione del 2002. "Ogni tanto telefono, se ho abbastanza soldi". Intanto, c'è da badare a quegli altri: "Hassan il marocchino, anche lui dorme con me a Greco: bravo ragazzo, con un caffè lo fai felice. Al bar, ogni sera ci regalano quello che è avanzato: brioche o panini". Aspetta anche che finisca l'inverno: "D'estate vado in Toscana, ho degli amici che mi aiutano". Liscia il cappotto blu, sistema la sciarpa, saluta gli amici della "sala". Non sentirsi un barbone è già qualcosa. Se poi ci fosse anche una dentiera, per ricominciare la sua vita deragliata, sarebbe tutto a posto.


 
Petrolio a 100 dollari, ora è un'altra storia
In una sola seduta, il greggio aumenta di 4,02 dollari e sfonda «quota cento», per poi chiudere a 99,62. L'oro vola a 855 dollari l'oncia. Wall Street perde quasi il 2%, mentre l'euro ora vale 1,473 contro il biglietto verde
Maurizio Galvani
 
Per la prima volta nella storia il petrolio ha toccato, ieri, la mitica soglia dei 100 dollari a barile. Un aumento fulmineo, nella giornata, di 4,02 dollari. Lo scorso 21 novembre, il Light crude aveva raggiunto il precedente record: 99,29 dollari a barile, per poi decrescere fino ai 90. Anche il Brent, al mercato di Londra, ha segnato un nuovo massimo schizzando fino a quota 97,07.
La reazione di Wall Street è stata istantanea e nervosa, anche perché condizionata fin dall'apertura dalle pessime notizie sul fronte industriale: l'indice Ism, che monitora il comparto manifatturiero, è sceso a dicembre per il sesto mese consecutivo. Peggio ancora: è finito sotto «quota 50» (47,7), convenzionalmente ritenuta la porta di ingresso per la recessione. Il dato ha sorpreso, ovviamente in negativo. Tutte le previsioni erano infatti largamente superiori.
A risollevare il morale del mercato statunitense non poteva bastare la notizia del piccolo aumento - lo 0,1% - della spesa per l'edilizia. Gli investimenti sono stati indirizzati soprattutto alla costruzione di edifici pubblici e di istituti scolastici. E la sua dimensione non basta a far recuperarela flessione (-0,4%) registrata a novembre.
Sia l'indice Dow jones che il Nasdaq hanno accusato perciò perdite massicce, che a un certo punto superavano i due punti percentuali; per poi limitare i danni a -1,33% e -1,17% a un'ora dalla chiusura. A conferma dell'ondata di panico, i metalli preziosi - tradizionali beni rifugio - segnavano tutti un forte rialzo: l'oro toccava i massimi di 855 dollari l'oncia e, come non accadeva dal lontano 1980, il platino veniva scambiato a quota 1544 dollari; idem per il palladio, a 373.
In fibrillazione, di conseguenza, anche il mercato delle valute con l'euro che correva fino a 1,4731 contro il dollaro. Del resto, tutti i principali analisti danno per scontato che la Federal Reserve procederà a giorni a un nuovo taglio del tasso di interesse (portandolo perciò sotto l'attuale 4%). A sostenerlo non è servita neppure la rivalutazione dello yuan - la moneta cinese - che concorre in qualche misura a rendere meno drammatica la situazione della bilancia dei pagamenti con l'estero. Si è così delineato il leit motiv che potrebbe dominare lo scenario sui mercati internazionali nell'anno 2008. Salvo ovviamente che la debolezza dell'economia Usa non arrivi a manifestarsi con una palese recessione. Impressione confermata in serata dalla pubblicazione dei verbali dell'ultima riunione del comitato operativo della Fed (quella in cui è stato deciso di portare, secondo cui «le incertezze sull'andamento dell'economia sono crescenti» e «il tasso di sviluppo del 2008 sarà inferiore a quanto stimato in precedenza».
La corsa del petrolio ha quindi una motivazione monetaria (la debolezza del dollaro, sua unità di misura); ma è sostenuta anche da ragioni geopolitiche, oltre che da movimenti speculativi. Ieri hanno pesato gli attacchi portati dai guerriglieri del delta del Niger agli impianti petroliferi delle multinazionali (il paese è il quinto esportatore mondiale di petrolio) - 12 persone morte a Port Harcourt. Ma nei giorni scorsi aveva concorso alla stessa dinamica rialzista l'instabilità politica del Pakistan, che minaccia ormai l'intera regione. Ha un peso, anche se forse non decisivo, anche la situazione di guerra civile in Kenia.
Allo stesso tempo, la speculazione finanziaria sta già «anticipando» la stima sulle scorte strategiche statunitensi (date in diminuzione), così come la caduta produttiva degli impianti messicani. Ma si sa che la speculazione «annusa il sangue», avventandosi là dove ci sono difficoltà reali. Aggrava i problemi, insomma, ma non li causa.
Il superamento di «quota 100» ha comunque un'indubbia forza simbolica. Come spiegava diversi anni fa in un'intervista l'ex presidente dell'Eni, Franco Bernabè, «è finita l'era del petrolio facile». Ovvero a basso prezzo. Questo sta diventando ora evidente anche ai non addetti ai lavori. Ma non sembra che i «padroni del mondo» abbiano in mente di favorire cambiamenti di paradigma.

 

Un altro anno di sangue

Sono almeno 24mila i civili iracheni morti nel 2007. L'anno appena trascorso è stato anche quello con più vittime Usa: 899

''Le violenze in Iraq stanno diminuendo d'intensità, ma questo non toglie che per circa 24mila civili iracheni, per le loro famiglie e i loro amici, il 2007 sia stato un anno terribile''.
Questo il commento laconico che gli analisti di The Iraq Body Count (Ibc) hanno posto a margine del rapporto presentato ieri alla stampa.

 
Più di 80mila vittime civili. Ibc, un network di ricercatori universitari britannici e statunitensi, nato nel 2003 per calcolare l'impatto della guerra sui civili iracheni, monitora da quasi cinque anni il numero delle vittime non combattenti in Iraq. Restano quindi fuori dalle sue statistiche i miliziani armati, i militari della Coalizione e tutti coloro che, in qualche modo, sono parte in causa del conflitto iracheno. I ricercatori dell'Ibc si basano sulle testimonianze raccolte negli obitori, dalle organizzazioni non governative locali e da fonti giornalistiche in loco. E' evidente come il calcolo, che stima in almeno 87683 le vittime civili dall'inizio della guerra, nel marzo 2003, sia di gran lunga sottostimato.
Ma non per questo meno inquietante. Negli ultimi mesi, da più parti, si è sottolineato come il numero delle vittime e degli episodi di violenza sia calato grazie, secondo molti osservatori, a una migliore strategia di contenimento delle truppe straniere in Iraq. Per altri è invece un calo fisiologico della guerriglia ad aver ridotto il numero degli attacchi, mentre per altri ancora è l'innalzamento della qualità dell'addestramento di militari e poliziotti iracheni a portare dei buoni risultati.
 
Record di vittime militari Usa. La sostanza però, dopo cinque anni di guerra, quasi più della Seconda Guerra mondiale, è che in Iraq si continua a morire e altre 24mila vittime ne sono la testimonianza.
Stesso discorso per il fronte militare. Nei dati diffusi in occasione della fine del 2007, il comando militare Usa in Iraq ha reso noto che quello appena trascorso è stato l'annus horribilis per le truppe statunitensi in Iraq dall'invasione del paese nel 2003. Sono 899 i militari Usa morti negli ultimi dodici mesi, la cifra più alta dall'inizio della guerra.
Con loro, sale a 3904 il numero totale dei militari statunitensi che hanno perso la vita in Iraq dal 2003 a oggi, ai quali vanno sommati i militari di altri contingenti, che portano il numero delle vittime della Coalizione a 4211.
Più di 90mila morti dunque, senza contare tutti i guerriglieri dei quali nessuno tiene il conto. E senza contare che molti militari Usa sono stati dichiarati morti solo dopo un ultimo disperato volo verso gli ospedali militari statunitensi in Kuwait, in modo da non contabilizzarli nel conflitto in corso. Allo stesso modo restano esclusi dal conto tutti i civili morti che Ibc, per svariati motivi, non è riuscito a monitorare.

 
La guerra in casa. Ma non si muore solo al fronte. Secondo un'inchiesta del quotidiano statunitense Usa Today, pubblicata il 14 dicembre scorso, il 2007 è stato l'anno con il maggior numero di suicidi nelle forze armate Usa. Dall'inizio dell'anno al 27 novembre, sono 109 i soldati suicidi, secondo dati forniti dal Pentagono. Di questi sono 27 i suicidi avvenuti in Iraq e 4 quelli avvenuti in Afghanistan. Dal 1990, il maggior numero di suicidi (102) si era verificato nel 1992, dopo il primo conflitto in Iraq. La media del 2007 quindi, secondo la ricerca, è di 18,4 suicidi su 100mila, ed è la più alta da quando le forze armate hanno inaugurato questo tipo di statistica nel 1980. Tra i civili, la media è di 11 su 100mila (2004).
C'è davvero poco da festeggiare, anche perché nei discorsi di fine anno degli uomini più potenti della Terra, l'Iraq sembra finito in una sorta di dimenticatoio. Perfino nella corsa per le elezioni presidenziali negli Usa, l'Iraq non sembra più un argomento centrale.

3 gennaio

Oggi i sentimenti più cupi "abitano" a destra, proprio come due-tre anni fa erano a sinistra
Il privato unico rifugio di speranza. L'auspicio che i giovani salgano a posti-guida

Il Paese del disincanto
invoca il ritorno al futuro

di ILVO DIAMANTI

<B>Il Paese del disincanto<br>invoca il ritorno al futuro</B>
Il clima d'opinione di un'epoca è segnato dalle "parole". Formule, frasi, slogan, modi di dire, che scandiscono i nostri discorsi. Li ripetiamo all'infinito. Senza accorgercene. Influenzano la nostra visione delle cose, disegnano la realtà intorno a noi. Perché le parole non sono neutrali. Possono cambiare significato, in base all'uso che ne facciamo. Ma, al tempo stesso, il loro uso ripetuto cambia significato alle cose.

Oggi, ad esempio, noi siamo colmi di "sfiducia". E dei suoi derivati: delusione, insoddisfazione, risentimento, disagio, malessere. È il linguaggio del tempo. Ci induce ad essere aggressivi, per autodifesa. Dirsi "buoni" suscita sospetto; oppure sorrisi di comprensione. Perché è sinonimo di "ingenui". Persone perbene ma poco furbe. Mentre a dirsi soddisfatti e ottimisti, a predicare fiducia e benessere, si rischiano commenti e giudizi "storti". Come è capitato a Prodi e Napolitano. I quali, nei loro discorsi di fine anno, hanno parlato, in modo premeditato, di serenità, fiducia.

Elencando altre "virtù" indicibili. Non contenti, hanno ribadito, entrambi, che l'economia e la società italiana non sono in "declino". ("La Spagna", ha ribadito il premier, "non ci ha superato").

Prevedibili le ironie di testate e commentatori che della dissacrazione hanno fatto un brand. D'altronde, la sfiducia e il declino sono meccanismi di delegittimazione istituzionale efficaci. Erodono il consenso di chi governa, da quando l'Opinione Pubblica sovrana non vota più per "atto di fede". E neppure per soddisfazione. Ma, al contrario, per insoddisfazione. E, visto che è insoddisfatta e sfiduciata da una quindicina d'anni, a ogni elezione punisce, puntualmente, chi governa.

Per questo, il sondaggio Demos-Eurisko - dedicato a rilevare gli atteggiamenti degli italiani nel passaggio tra vecchio e nuovo anno - registra una gran dose di pessimismo. Distribuito e tarato, però, su basi rigorosamente "politiche". Il pessimismo, infatti, cresce esponenzialmente scivolando da sinistra a destra.

Dalla maggioranza all'opposizione. Su tutti i temi: dall'economia nazionale al reddito personale; dalla sicurezza alle tasse. Fino alla Politica: la Madre di Ogni Malessere. Certo, qualcuno potrebbe osservare che motivi per essere ottimisti e per "pensare positivo" non ve ne siano molti. Citando, a ragione, le difficoltà crescenti che condizionano la vita di una parte della società ben definita. I lavoratori dipendenti del privato a reddito fisso. Oltre agli intermittenti e agli atipici (in gran numero fra i giovani).

Ma è anche vero che il pessimismo più elevato affligge i lavoratori autonomi e i liberi professionisti più degli operai. Non "gli ultimi", dunque; ma almeno i "quartultimi". Inoltre, qualche sospetto può emergere di fronte a un'impronta politica così marcata. E così variabile. Se oggi il pessimismo abita prevalentemente a destra, due o tre anni fa gravitava esattamente sull'altro versante. A sinistra. Che, allora, stava all'opposizione. Se nuove elezioni rovesciassero l'attuale assetto, è, dunque, probabile che le parti si invertirebbero di nuovo. E la nuvola del pessimismo tornerebbe a oscurare il cielo del centrosinistra.

Tuttavia, al di là del pregiudizio politico che vizia il giudizio sulle cose che ci riguardano, resta l'ipoteca delle parole. Gli italiani, conferma il sondaggio Demos-Eurisko, continuano a dirsi "felici". Anche se in misura minore degli anni scorsi. Dal 90% di due anni fa si è scesi all'80% delle ultime settimane. Però, accettano di dirsi felici solo in "privato". Ma anche rispetto al loro "privato". Sono, dunque, disposti a scommettere che la loro vita "personale", perfino il loro "reddito familiare" possano migliorare, nel corso del 2008. Però, all'esterno, di fronte agli altri, non lo ammetteranno mai.

Invece, la definizione più adatta a descrivere gli italiani - secondo gli italiani - è, coerentemente: "arrabbiati". Seguita, a distanza, da "opportunisti". È probabile, a questo proposito, che gli intervistati ritengano se stessi "arrabbiati" e gli altri "opportunisti". Certo: riusciamo ancora a definirci "ingegnosi", "creativi" e perfino "generosi". Ma usiamo queste etichette con minore convinzione di un tempo. Mentre cresce la tentazione di dirsi "depressi" ed "egoisti".

Il mito degli "italiani brava gente", in altri termini, sembra definitivamente tramontato. Dissolto. Appartiene a un passato che è passato per sempre. Anche se si trattava, appunto, di un mito. Una leggenda, che non reggeva alla prova dei fatti. Un luogo comune; magari poco fondato, ma, appunto, "comune". Condiviso. Orientava la nostra immagine pubblica. Ma anche la nostra auto-immagine. E, di conseguenza, la nostra condotta. Ma oggi pochi italiani accetterebbero di venir chiamati "brava gente". Soprattutto all'estero. Si sentirebbero squalificati.

Imprigionati nell'antica iconografia: sole-pizza-mandolino. (E, tra parentesi, mafia). Oggi la "brava gente" sembra, invece, seriamente e sinceramente incazzata. Perché la criminalità ci insidia, le retribuzioni sono troppo basse, i prezzi continuano a crescere. Mentre i politici si interrogano e discutono a tempo pieno sulla "legge elettorale", che interessa al 4,5% dei cittadini. Nessuno, insomma.
Per questi motivi crediamo che ci si debba (pre) occupare maggiormente delle parole. Del linguaggio con cui esprimiamo la nostra vita quotidiana e il nostro mondo.

Non possiamo che essere "arrabbiati" se le parole di pace e dialogo sono bandite, inutilizzate, inutilizzabili e inutili. Se, quando vengono usate in tivù e nei giornali, noi giriamo pagina e cambiamo canale. Se, quando sono pronunciate da una figura pubblica, diamo per scontato che siano false. Menzogne pronunziate ad arte. Se, quando le sentiamo esprimere nella vita quotidiana, guardiamo chi le ha pronunciate come fosse un nane (dalle mie parti: un tonto). Se, infine, quando le diciamo noi, sentiamo il dovere di scusarci subito.

Il 2008 si inscrive a pieno titolo nell'Era degli Apoti, in cui siamo entrati da tanti anni. Apoti, per citare Giuseppe Prezzolini: quelli che non la bevono. I disincantati. Non i "delusi": ma i "disillusi". Quelli che sono "delusi" per cautela metodica. Per difesa preventiva. Quelli che, negli ultimi vent'anni, hanno visto cadere muri, sistemi politici, regimi, partiti e leader. E li hanno visti riemergere e risorgere. Magari con altri nomi. Per cui non la bevono più. Pronunciano ogni parola con sospetto. Quest'anno sono in allarme di fronte alle incombenti celebrazioni di un quarantennale pericoloso.

Il Sessantotto. Un altro mito rivoluzionario, che evoca sogni, movimenti e mutamenti. Invecchiati e contestati. Come molti dei suoi profeti. Figurarsi: nell'Anno degli Apoti. Meglio neppure pronunciarlo. Un'altra parola-da-non-dire.

Gli italiani, oggi, sono naturaliter arrabbiati. Tuttavia, stimolate, due persone su tre ammettono di pensare al futuro con "speranza". Speranza: una parola sopravvissuta a stento allo spirito (cinico) del tempo. Si associa all'auspicio maggiormente condiviso dalla popolazione, per il nuovo anno: "più giovani ai posti di comando". Immediatamente seguito da: "migliorare la scuola e l'università". E' il "futuro" che avanza.

Sopravvissuto alla revisione del nostro vocabolario. Impoverito dal senso cinico dominante. Non sappiamo per quanto tempo ancora. Perché, di questo passo, molto presto anche il futuro non avrà più un nome. Una parola per dirlo. Così, fra un anno, festeggeremo ancora il 2008.

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