Archivio Controinformazione

Febbraio 2008

28 febbraio

In lieve ripresa il tasso di occupazione. I risultati dell'indagine di AlmaLaurea

L'Italia immobile dei laureati
i figli degli operai guadagnano meno

La società è ferma: a 5 anni dalla laurea i ragazzi provenienti
da classi agiate guadagnano duecento euro al mese in più
di FEDERICO PACE

<B>L'Italia immobile dei laureati<br>i figli degli operai guadagnano meno</B>
Figli di dirigenti che diventano dirigenti e figli d'impiegati che diventano impiegati. Paghe che si fanno sempre più esili, occupazioni persistentemente precarie e disparità di genere e geografiche che permangono nella loro gravità. Una società priva di dinamismo sociale ed economico. Sono tutt'altro che liete le scoperte che quest'anno gli oltre trecentomila neolaureati, la cui truppa di anno in anno andrà facendosi più esigua per ragioni demografiche, hanno fatto al momento di approdare nel frastagliato mondo del lavoro.
       
Quest'anno un neolaureato si è ritrovato nella propria busta paga 1.040 euro. Una cifra che, in termini di potere di acquisto, vale il 92,9 per cento di quello che guadagnava un neolaureato del 2001. E seppure aumenta lievemente il tasso di occupazione, il 48 per cento si ritrova ancora a fare i conti con un tipo di lavoro dalla natura precaria.

I dati sono quelli del X Rapporto sulla condizione occupazionale dei laureati italiani presentato oggi a Catania da AlmaLaurea, il consorzio che riunisce cinquantuno università italiane e che ha raccolto la testimonianza di 92 mila laureati.

Partiamo però dal lieve miglioramento occupazionale. Quest'anno ha trovato lavoro, a un anno dalla laurea, il 53 per cento dei giovani, ovvero poco più di mezzo punto percentuale in più rispetto all'anno scorso. Anche la disoccupazione ha segnato una parziale battuta d'arresto pari allo 0,5 per cento. Rimangono però evidenti le disparità tra uomini e donne. Lavora il 57 per cento dei primi contro il 50 per cento delle seconde. Così come al Mezzogiorno il tasso di occupazione è ancora inferiore a oltre venti punti percentuali di quello dei loro coetanei residenti al Nord.

Quanto alla precarietà le cose non sembrano migliorare significativamente. Dal 2000 a oggi il lavoro stabile ha subito una contrazione in termini percentuali che lo ha visto passare dal 46 per cento al 39 per cento, mentre il lavoro atipico ha registrato, nello stesso intervallo di tempo, un aumento di dieci punti percentuali. Nell'ultimo anno la proporzione di persone con un lavoro stabile, ad un anno dalla laurea, è aumentato lievemente ma di fatto i due insiemi sembrano avere invertito, almeno per i primi anni lavorativi, il peso all'interno di un'occupazione che è divenuta più marcatamente precaria. Solo dopo cinque anni dalla laurea, la gran parte (il 70 per cento) dei laureati riesce ad ottenere un impiego stabile.

Ma veniamo alla paga. Seppure i laureati hanno avuto a disposizione lungo tutto l'arco della vita uno stipendio significativamente superiore a quello dei loro coetanei diplomati, la laurea ora non sembra essere più così premiante. Quest'anno la paga media è stata di poco superiore a mille euro e inferiore, in termini di potere d'acquisto, a quella del 2001. Ad essere penalizzate sono sempre le donne che quest'anno portano a casa solo 925 euro rispetto ai 1.186 dei loro coetanei uomini. Dopo cinque anni la paga sale in media a 1.342 euro con costanti disparità territoriali: al Nord si toccano i 1.382 euro, al Centro i 1.288 mentre al Sud si rimane fermi a 1.195 euro.

Che i giovani di oggi fossero destinati a un futuro meno roseo dei loro genitori lo si era cominciato a capire da tempo. Ma arrivano sempre più conferme di quello che sta accadendo. Qualche mese fa, uno studio di alcuni ricercatori della Banca d'Italia aveva mostrato come negli anni Novanta la retribuzione dei giovani avesse subito una riduzione significativa rispetto a quella dei loro colleghi più maturi, e come alla misera paga d'ingresso, si era andata sovrapponendo una carriera molto meno dinamica e quindi incapace di assicurare una crescita retributiva che compensasse una partenza così fiacca.

A questo si aggiunga la scarsa mobilità sociale. Secondo i dati di AlmaLaurea, a cinque anni dal conseguimento del titolo un giovane laureato figlio di operai guadagna 1.238 euro al mese, mentre un ragazzo con lo stesso titolo di laurea ma che proviene da una classe più agiata riesce a portare a casa 1.437 euro: ovvero 200 euro in più ogni trenta giorni. E queste differenze si notano in tutte le facoltà. Per chi esce da economia e statistica diventano anche più acute: 1.276 euro ai figli di operai e 1.519 euro ai figli di chi sta più in alto nella gerarchia sociale. Tra gli ingegneri la differenza è di poco inferiore ai 200 euro (1.574 euro contro i 1.759 euro), tra i giuristi e i laureati del gruppo politico sociale siamo sempre sopra ai cento euro al mese.

Insomma di padre in figlio. Se ne può trovare conferma anche se si va ad analizzare il titolo di studio di laurea del genitore e quello della prole. Si scopre che buona parte dei padri architetti (il 44 per cento) ha un figlio laureato in architettura, quattro giuristi su dieci hanno un figlio laureato in giurisprudenza e lo stesso accade agli ingegneri, ai farmacisti e ai medici. Con evidenti ricadute sui percorsi occupazionali. Tanto che il 16 per cento dei figli di dirigenti arriva, dopo solo cinque anni dal titolo di laurea, a ricoprire la carica d funzionario o dirigente mentre a più del quaranta per cento dei figli di impiegati succede di ripercorrere il sentiero professionale del padre.
Tutto il fragore degli anni degli studi universitari, tutti quei giorni in cui si avvicendano entusiasmi e fatiche, una volta arrivato il tempo dell'occupazione pare dissolversi per venire sostituito dalla constatazione che la società italiana si è avvitata su se stessa relegando la mobilità sociale allo status di chimera. Se si vuole davvero rilanciare l'economia italiana, si dovrà fare qualcosa.
Al Governo futuro, Andrea Cammelli, direttore di AlmaLaurea manda la raccomandazione di aiutare le piccole e medie aziende a "compiere innovazioni di processo e di prodotto e a dotarsi di capitale umano qualificato favorendo la formazione di studi associati" perché la ripresa, ha concluso Cammelli, "passa attraverso la valorizzazione delle risorse migliori che abbiamo: i tanti talenti che escono dalle università, forse più numerosi e migliori di quanto non siamo in grado di formare nelle nostre aule".
 

27 febbraio

Allarme rosso: più del 40 per cento delle acque del pianeta
è in una situazione che è considerata grave o molto grave

La prima mappa degli oceani malati
per colpa dell'uomo distruttore

Il lavoro ha utilizzato un enorme numero di dati provenienti
dai satelliti, dalle navi e da altre ricerche marine e sottomarine
di LUIGI BIGNAMI

<B>La prima mappa degli oceani malati<br>per colpa dell'uomo distruttore</B>
QUASI ogni angolo degli oceani della Terra è stato alterato dall'impronta distruttiva dell'uomo. Il quadro della situazione è stato tratteggiato per la prima volta in una mappa degli oceani che mostra di quanto la mano dell'uomo è intervenuta. Per fare danni. Gli scienziati hanno realizzato una scala che prevede 17 differenti situazioni di attività dell'uomo laddove i valori dall'1 al 17 indicano condizioni del mare via via sempre più gravi. Da questo lavoro si scopre come più del 40 per cento dei mari e degli oceani del pianeta è in una situazione che è considerata grave o molto grave. Per un 5 per cento questo malessere è quasi irreversibile. Il lavoro, che è stato realizzato dal National Science Foundation americano, ha utilizzato un enorme numero di dati provenienti dai satelliti, dalle navi per la ricerca oceanica e da altre ricerche marine e sottomarine.
Le acque dove le condizioni sono peggiori rispetto ad altri luoghi si trovano in prossimità del Mare del Nord, noto per le importanti estrazioni di petrolio, nei mari del Sud ed Est della Cina, fortemente inquinati dalla crescente attività industriale del Paese, nei mari che circondano i Caraibi, lungo le coste orientali del Nord America, il Mediterraneo in seguito alla enorme crescita di popolazione che le sue coste hanno visto in questi ultimi decenni, il Mar rosso, lo Stretto di Bering, parte del Pacifico occidentale e del Golfo Persico.
"La ricerca riporta un quadro davvero inaspettato. E' peggiore di quella che la maggior parte della gente si aspetterebbe. Adesso il lavoro che abbiamo realizzato deve essere utilizzato per iniziare una reale protezione dei nostri oceani e per cercare di recuperare le aree marine che ora si trovano in situazioni quasi disperate", ha spiegato Ben Halpen dell'Unversità della California a Santa Barbara che ha guidato il team di 19 ricercatori appartenenti a 16 diversi centri di ricerca.
Gli ecosistemi che stanno soffrendo maggiormente sono senza dubbio le barriere coralline, delle quali circa la metà si trova in uno stato gravemente danneggiato, ma anche le foreste di mangrovie vicino ai delta dei fiumi sono fortemente compromesse, così come l'ecosistema di molte catene sottomarine, chiamate seamount, e di molte piattaforme marine che si trovano al largo di aree densamente popolate del pianeta. Non va dimenticata, poi, la profonda alterazione del Polo Nord, dove mai come in questi ultimi anni si è visto un così marcato ritiro dei ghiacci.

Fino ad oggi le ricerche si limitavano a considerare uno o due fattori dell'impatto umano sul mare, quali, ad esempio, l'inquinamento da idrocarburi o la pesca intensiva. Il lavoro della National Science Foundation invece, considera ciò che può impattare sull'ecosistema marino, comprendendo anche l'aumento della temperatura dell'acqua, le variazioni di salinità e l'arrivo in mare dei pesticidi o dei concimi. Il lavoro ha raggiunto un dettaglio senza precedenti, in quanto la carta permette di valutare la situazione delle singole aree con una risoluzione di soli 4 chilometri.

Delinquenti senza frontiere

Uno studio in California rivela: gli immigrati commettono meno reati di chi è nato negli States
Ruberanno il lavoro agli americani e magari anche le loro donne, ma un altro luogo comune gli immigrati negli Stati Uniti possono dire di averlo sfatato: non commettono più crimini dei cittadini statunitensi, anzi. Una ricerca di un istituto di San Francisco ha mostrato come, in California, gli immigrati delinquono meno di chi è nato nel Golden State, e lo dimostra anche la percentuale di stranieri nelle prigioni californiane. Qualsiasi dibattito venga sviluppato sulla questione negli Usa, insomma, l'equazione “più immigrati, più reati” sembra ingiustificata.
 
I dati. Il rapporto, elaborato dal Public Policy Institute of California senza distinzione tra immigrati clandestini o regolari, ha scoperto che la popolazione carceraria dello stato è composta solo al 17 percento da persone nate al di fuori degli Stati Uniti, che però rappresentano il 35 percento della popolazione californiana. Analizzando i numeri, inoltre, la ricerca mostra che gli adulti nati negli Stati Uniti sono incarcerati a un tasso due volte e mezzo più alto degli adulti nati all'estero. Nella fascia tra i 18 e i 40 anni di età, i nati in America finiscono dietro le sbarre 10 volte più spesso degli stranieri, in particolare 8 volte più dei messicani.
 
Le conclusioni. “La nostra ricerca indica che limitare l'immigrazione, richiedendo più alti livelli di istruzione per ottenere un visto, o aumentando la spesa per imporre punizioni più dure contro immigrati che commettono reati, ha un impatto limitato sulla sicurezza pubblica”, ha scritto Kristin Butcher, una delle autrici della ricerca. Il rapporto ammette però che i risultati potrebbero essere influenzati dall'attuale politica Usa sull'immigrazione, che prevede pene maggiorate per i reati commessi da cittadini stranieri. Dato che gli immigrati in California tendono ad essere giovani e con un basso livello di istruzione – due caratteristiche di solito associate ad alti tassi di criminalità – le scoperte del rapporto “colpiscono” secondo gli stessi autori.
 
Il dibattito sull'immigrazione. Negli Stati Uniti, al momento, la questione dell'immigrazione è però ferma. Due anni fa il presidente Bush aveva sostenuto una riforma del settore, intensificando i controlli al confine ed estendendo di oltre mille chilometri un vero e proprio muro tra Stati Uniti e Messico, ma al contempo offrendo un percorso verso la cittadinanza ai circa 12 milioni di immigrati clandestini che si calcola vivano negli Usa. Il piano è però naufragato al Congresso, e non si prevede che la questione venga riaperta prima delle elezioni presidenziali di novembre.
 

 

26 febbraio

Si lavora senza nessun tipo di protezione in capannoni senza riscaldamento
a contatto diretto con veleni di ogni tipo per turni di 12-15 ore al giorno

Gli schiavi delle 'Smart' cinesi
Viaggio nelle fabbriche lager

di VINCENZO BORGOMEO


Un operaio della Shandong Xin Ming Glass Fibre Manufacture Co. Ltd


Il viaggio fra gli schiavi cinesi che costruiscono le copie della Smart supera l'immaginazione: si lavora a temperature vicino agli zero gradi, in capannoni senza riscaldamento, senza guanti, senza mascherina, senza nessun tipo di protezione a contatto diretto con veleni di ogni tipo. I turni sono di 12-15 ore al giorno e non si fanno distinzioni fra giovani, vecchi o donne. Tutti, in ogni caso, dormono ammassati su letti a castello in fabbrica. Le foto che siamo in grado di anticipare parlano da sole. E fanno parte di un lungo reportage che il collega di AutoBild, Claudius Maintz, ha appena compiuto e che mercoledì sarà in edicola anche in Italia su AutoOggi.

Di fabbriche clandestine che copiano senza pudore la Smart in Cina ce ne sono una ventina. Tutte piccole e tutte piene di schiavi-operai che senza nessuna preparazione (il mestiere lo hanno imparato sul campo) lavorano per un pugno di monete con rischi di ogni genere. La paga? Secondo Zhang Yinshun, direttore vendite della "Shandong Xin Ming Glass Fibre Manufacture Co. Ltd" l'equivalente di 180 euro al mese.

Ma si tratta, evidentemente, di una balla: in Cina chi monta un iPod riceve uno stipendio di 40 euro e anche se il "manager" si appresta a dire che "la paga è molto alta perché questo è un lavoro pericoloso che altrimenti non farebbe nessuno", è impossibile credergli, anche perché lui stesso ha poi dichiarato che la "I tedeschi della Mercedes sono stati qui: vogliono collaborare affinché produciamo vetture per loro". Qui in Cina si mente su tutto: sulle prestazioni delle auto, sulla durata della carica delle batterie, sul prezzo finale, dichiarato in 3700 euro... Impossibile conoscere la verità.

In fatto di stipendi il discorso è relativo: noi europei non siamo da meno visto che anche nell'Europa dell'Est i "nostri" operai ricevono stipendi da fame. Ossia 380 euro al mese per i polacchi che costruiscono una Fiat 500, 270 per gli slovacchi che assembrano Toyota Aygò, Peugeot 107, Citroen C1 o la nuova Renault Twingo e appena 166 euro per gli ungheresi che fanno nascere la Opel Agila e la Suzuki Splash. Ma questo è un altro discorso: qui ci sono controlli di sicurezza, straordinari e condizioni di lavoro moderne. In Cina no.

E il discorso va oltre: al comparire delle prime auto cinesi ci siamo subito preoccupati delle prove di crash (che i costruttori hanno aggirato immatricolando i propri Suv come veicoli commerciali) ma a giudicare da queste foto ci sono evidenti problemi di affidabilità: nelle immagini si vedono impianti elettrici avvitati sulla carrozzerie di vetroresina con lo stesso criterio con cui si mettono i fili di luci sugli alberi di Natale, connessioni fatte con nastro adesivo e saldature approssimative: una macchina del genere probabilmente è sicurissima: fra guasti e noie tecniche è condannata a rimanere quasi sempre ferma...

Certo, è bene non generalizzare: una cosa sono i piccoli costruttori che copiano le Smart, altra la China Brilliance, la Great Wall e altri "big" dell'auto cinese. Ma a questo punto vorremmo vedere le foto dei loro stabilimenti visto che fino a oggi nessun giornalista è mai stato ammesso ai reparti produzione...

Torniamo però alle fabbriche della vergogna che copiano le Smart? Alcune in luoghi sconosciuti, altre invece hanno almeno un luogo preciso: quella di cui parlavamo, la "Shandong Xin Ming Glass Fibre Manufacture Co. Ltd" è a Dezhou (città della regione di Shandong a circa 600 km da Pechino). Poi c'è la "Flybo" che opera a Jinan, il capoluogo della provincia, città da 6 milioni di abitanti, la "Shandong Huoyun Electric Cars" di Linzi, a circa quattro ore di automobile da Dezhou e la "Zibo Future Electric Vehicle Co." Di Zibo, una città con 4,1 milioni di abitanti. La maggior parte dei laboratori che fabbricano falsi in tutti i casi sono concentrati nella provincia di Shandong e la cosa più incredibile è che il gruppo Mercedes non sia ancora riuscito a bloccare questi falsi. Che, ironia della sorte, finiscono tutti negli Usa, i Canada e in Europa, si stima al ritmo di 100 esemplari al giorno. Motivo? In Cina, per legge, le auto elettriche possono avere solo tre ruote: queste ne hanno quattro, quindi...
 

 

I mezzi fantasma della differenziata di Napoli

Foto_vert_220a È uno scandalo nello scandalo, che nessuno riesce a spiegare. Un'enigma partenopeo, la cui soluzione è sepolta da montagne di spazzatura e malaffare. Nel 2000 in Campania sono stati spesi ottanta milioni di euro per acquistare mezzi destinati alla raccolta differenziata: strumenti fondamentali per sconfiggere il mal di rifiuti che già allora aggrediva la regione. Questa armata di camion compattatori e veicoli speciali però è letteralmente sparita nel nulla: non si riesce a capire dove siano finiti i mezzi. Forse sono stati sabotati e distrutti. Forse sono stati consegnati alle aziende private a cui è stata appaltata la gestione della nettezza urbana in provincia grazie al famigerato sistema dei "consorzi di bonifica". Forse sono stati sottratti e vengono utilizzati con profitto dalle ditte campane che tengono lindi molti comuni del resto d'Italia. Ma di sicuro non compiono la missione strategica a cui erano assegnati.

Dei mezzi fantasma si discute dal 2004: risale ad allora la prima denuncia del Commissario Catenacci sul mistero napoletano. Dopo soli quattro anni la flotta degli ottanta milioni era già svanita. Catenacci spiegò alla Commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti: «Ho la sensazione che molti di quei veicoli non siano mai stati usati, che abbiano preso una strada sbagliata«. Nemmeno il prefetto Bertolaso ha risolto il giallo: eppure non è semplice dissolvere tanti veicoli tutti insieme. Adesso c'è una triplice inchiesta in corso. Indagano procura, ispettori della Protezione civile e 007 del Tesoro: basteranno per ricostruire la rotta dei camion? Finora ci è sembrato di rivedere quella scena dell'adattamento cinematografico de "La pelle" di Curzio Malaparte: un carro armato americano che nel 1943  viene portato in un cortile di Napoli e fatto sparire in un lampo smontandolo fino all'ultimo bullone. Che anche i compattatori della differenziata abbiano subìto la stessa sorte?
 

21 febbraio

Nuovo look nel braccio della morte

Guatemala, prima la firma per la moratoria contro la pena di morte, poi un clamoroso retromarcia.

Scritto da Maurizio Campisi
Tolleranza zero verso la delinquenza: Álvaro Colom lo aveva annunciato durante la campagna elettorale, ma pochi allora avevano pensato che il nuovo presidente guatemalteco potesse spingere la sua promessa fino a ripristinare la pena di morte.

Nel braccio della morteI fatti. L’annuncio è arrivato dopo il via libera ottenuto dal Congresso, che ha delegato a larghissima maggioranza (140 voti su 158) i poteri di decisione inerenti la grazia proprio al Presidente della repubblica. Colom ha subito dichiarato di voler rendere effettiva la pena di morte, ristabilita sotto la presidenza di Arzú e poi di fatto inutilizzata dal 2000. Gli stessi 42 prigionieri del braccio della morte del carcere di Pavón hanno lavorato nei giorni scorsi per ristrutturare il loro funesto padiglione, mentre Colom ha fatto sapere che chiedere la grazia sarà tempo perso, poichè non ne concederà alcuna. Le esecuzioni saranno effettuate per mezzo di un’iniezione letale. Le ultime esecuzioni in Guatemala risalgono al 2000, quando vennero giustiziati Luis Amilcar Cetín e Tomás Cerrate, autori del rapimento e uccisione di Isabel Bonifaci de Botrán, ereditiera della dinastia della distilleria Botrán.
 
In rosso i Paesi che applicano la pena di mortePrima la firma, poi...La notizia ha stupito tutti, dal momento che il Guatemala due mesi fa aveva posto la propria firma sulla moratoria voluta dall’Onu sulla pena di morte. Colom, inoltre, aveva promesso un governo socialdemocratico sul tipo di quelli europei, con una particolare attenzione ai temi sociali. Per inquadrare il Guatemala sulla via dello sviluppo, Colom ha però centrato i primi cento giorni della sua presidenza nello sfidare la criminalità, che ha fatto del paese centroamericano una delle regioni più pericolose del mondo, con quasi 50 omicidi ogni centomila abitanti.
Le parole di Colom sono state subito prese come una dichiarazione di guerra da parte delle bande di pandilleros, che hanno scatenato un’offensiva senza quartiere, sfociata in una serie di omicidi indiscriminati. A essere presi di mira sono stati gli autobus ed i loro passeggeri: in una settimana sono stati uccisi sette autisti di bus (undici in tutto il mese di febbraio) per rapine di poco conto. Per contrastare l’offensiva della criminalità il governo ha messo in atto il Plan Cuadrante, un’operazione di polizia che ha schierato nelle strade 2800 poliziotti e tremila soldati, dislocati non solo nei punti nevralgici della capitale, ma anche sui bus e nelle periferie, per permettere il regolare funzionamento del trasporto urbano e la sicurezza dei cittadini. Lo stesso piano verrà disposto nei prossimi giorni anche nella città turistica di Antigua.

 
Colom, presidente del GuatemalaLa discussione è aperta. Le misure adottate da Colom fanno discutere, ma hanno trovato il favore della maggioranza della popolazione, da tempo ostaggio di una violenza cieca. Le pandillas, infatti, attaccano tutto e tutti, estorcendo denaro alle famiglie che vivono nei sobborghi in cambio di protezione. Si tratta di un sistema mafioso che ha alterato la maniera di vita nella società guatemalteca e che impedisce lo sviluppo di piani di intervento da parte dello Stato, da tempo relegato a semplice osservatore di una situazione che va degenerando di giorno in giorno.
I mareros uccidono chi non si piega a questa logica, assassinano gli autisti di bus che si rifiutano di consegnare l’incasso giornaliero, costringono i bambini a entrare nel circolo della banda per farne i futuri soldati che lotteranno contro tutto quello che significa legalità.
Colom sulla pena di morte è stato chiaro: ”Chi è nel braccio della morte non è un angelo. Ha commesso delitti atroci. Non ci sarà nessun indulto: io penso agli orfani, alle vedove che questi individui hanno lasciato”.
Rimane da verificare se il presidente metterà in atto la promessa, attirandosi la condanna degli organismi internazionali proprio nell’anno in cui si era voluto porre uno stop alle esecuzioni. I sondaggi, però, parlano chiaro: l’80 percento degli intervistati è d’accordo con Colom. È su queste basi che, per il momento, il braccio della morte si rifà il look: i pavimenti sono stati messi a lucido e le mura pitturate a nuovo. Stando così le cose, sarà solo questione di tempo perchè venga indicato il primo ospite.

 

Il banchiere, la diga e i curdi

Antonio Tricarico

Nella fredda mattina di ieri, nella capitale turca Ankara, un nutrito gruppo di cittadini della città di Hasankeyf si è presentato di fronte alle ambasciate di Germania, Svizzera e Austria: protestavano contro la costruzione della diga di Ilisu sulle acque del fiume Tigri, nel sud-est della Turchia - ovvero in Kurdistan, a circa 80 chilometri dal confine iracheno. Per far posto alla diga, opera centrale di un mega-programma infrastrutturale chiamato Gap, promosso dal governo turco nella regione curda sin dagli anni '60, decine di migliaia di contadini curdi stanno perdendo le loro terre, ricevendo scarsi risarcimenti, in un contesto di tensione alle stelle a causa della vicina guerra in Iraq e delle incursioni turche oltre confine. La diga sarà costruita da un consorzio guidato dalla VATech-Siemen e i cittadini di Hasankeyf, sito archeologico di importanza mondiale e simbolo culturale di tutti i curdi che andrebbe sommerso a causa dell'opera, minacciano i tre governi europei che hanno assicurato il finanziamento per il progetto tramite le proprie agenzie di credito all'esportazione: se non potranno più sopravvivere in Turchia, chiederanno in massa asilo politico in Europa. Parliamo potenzialmente di 55.000 curdi. È solo l'ennesimo gesto eclatante di una protesta ormai annosa, e che si riaccende in vista del prossimo capodanno curdo, il Newroz, nella terza decade di marzo.
Ma non è solo un affare tra governi quello della diga di Ilisu. A finanziare il consorzio vi sono alcune banche private, tra cui l'italiana Unicredit, guidata da Alessandro Profumo, banchiere di spicco nella finanza europea dopo la serie di mirabili acquisizioni di banche del vecchio continente. Nello shopping mitteleuropeo Profumo si è imbattuto in Bank of Austria. Con 260 milioni di euro di prestito tramite la controllata austriaca, Profumo si rende responsabile del sostegno ad un'opera molto discussa anche in Italia. Sette anni fa, infatti, dopo le insistenze dei gruppi curdi e di numerose organizzazioni europee, il governo Blair e quello italiano riconobbero gli enormi rischi associati al progetto, rinunciando al finanziamento della diga. Attualmente rimangono le stesse preoccupazioni. E poi la diga ridurrà significativamente il flusso delle acque del Tigri, a discapito delle popolazioni che vivono a valle in Siria e soprattutto in Iraq. Il governo di Baghdad ha già protestato nei confronti di Ankara, rimanendo però inascoltato. In Europa è sorta una campagna per la salvezza dello storico sito di Hasankeyf che trova ampio sostegno anche nella comunità di archeologi. Ad aprile, nonostante l'opposizione del governo centrale, sarà aperto un ufficio turistico nella cittadina che ha richiesto di diventare World Heritage Site dell'Unesco. Ma quello che allarma oggi gran parte dei curdi sono i reinsediamenti forzati di migliaia di famiglie, costrette a negoziare un prezzo per la propria terra in un contesto militarizzato e secondo una legge turca decisamente inadeguata. Insomma, Ilisu non è soltanto l'ennesima mega-diga dagli impatti devastanti, ma il primo passo per una resa dei conti finale contro i curdi nella regione. Per questo in migliaia si recheranno a Hasankeyf nei giorni del Newroz.
Fino a oggi Unicredit si è difesa dicendo che le agenzie di credito europee hanno commissionato un monitoraggio indipendente, che dovrebbe essere reso pubblico a breve, sull'attuazione delle ben 150 condizioni che queste hanno imposto all'ultimo momento per mitigare gli impatti. Troppo comodo per il banchiere di piazza Cordusio, aspettare l'ennesimo rapporto degli esperti. Qui non si tratta di un'opposizione «Nimby» né qualche impatto in più da mitigare; ad Hasankeyf è in ballo la dignità di un intero popolo da sempre represso nella regione. Un banchiere che si professa di centro-sinistra andrebbe di persona a vedere che cosa succede ad Hasankeyf, a parlare con i contadini curdi sotto lo sguardo violento dei servizi di sicurezza turchi. Altrimenti rimarrebbe un banchiere come gli altri.

L'arsenico uccide i fiumi del Messico

Antonio Graziano

Miguel �?ngel López Rocha è morto lo scorso 13 febbraio dopo 19 giorni di agonia per aver ingerito incidentalmente una notevole quantità di arsenico. Aveva 8 anni e il 26 gennaio era caduto nelle acque del rio Santiago, fiume messicano dell'immenso bacino Lerma-Chapala-Santiago-Pacifico. La vita di Miguel Angel è passata in un attimo dal gioco alla tragedia. Dopo poche ore è stato portato all'ospedale di Guadalajara, dove è rimasto in coma fino alla fine della sua breve vita.
Il Rio Santiago è uno dei fiumi più contaminati del Messico. Nel 2004 uno studio dell'Università di Guadalajara confermava la presenza di metalli pesanti (piombo, cromo, cobalto, mercurio, arsenico) nei suoi sedimenti. Il fiume riceve 815 litri al secondo di acque reflue prive di trattamento da Guadalajara, la seconda città più grande del paese, e gli scarichi di 250 industrie della zona, alcune delle quali appartengono a imprese multinazionali come Ibm, Roche e Nestlè.
Pochi giorni prima della morte Miguel Angel presentava tracce di arsenico dell'organismo 400 volte superiori ai valori normali. Secondo la dottoressa Luz Maria Cueto, del Collegio di Tossicologia dello stato di Jalisco, che ha analizzato i residui di arsenico nelle orine del bambino, le principali fonti di questo metallo sono l'industria conciaria, le fabbriche di vetro e le industrie di lavorazione dei metalli che rilasciano gli scarichi della lavorazione direttamente nel rio Santiago, senza trattamento.
E' dunque una tragedia annunciata quella di Miguel Angel, che vivena nella colonia di Azucena, frazione di El Salto, cittadina fluviale i cui abitanti, insieme al quelli di Juanacatlán, da oltre 5 anni denunziano alle autorità lo stato di inquinamento del fiume e i danni per la salute. La contaminazione del rio Santiago mette a rischio una popolazione di 150.000 persone che vivono ai margini di quello che era conosciuto come il «Niagara Messicano», un salto di 20 metri tra i due villaggi: ma la cascata ha ormai perso la sua spettacolare bellezza per diventare una fonte di gas tossici derivanti dalla decomposizione delle acque. Malattie respiratori e dell'epidermide, dolori di testa, affaticamento e insonnia sono i mali più frequenti per chi vive nei pressi del fiume.
Nonostante l'accaduto Emilio González Márquez, governatore dello Jalisco ha confermato la costruzione della diga di Arcediano a valle del rio Santiago, una mega opera che darà acqua «potabile» ai 3 milioni di persone della città di Guadalajara. E dire che un rapporto dell'Organizzazione Panamericana della Salute nel marzo del 2007 aveva denunciato la presenza di rischi per la popolazione infantile della zona proprio a causa delle concentrazione di arsenico e cadmio nelle acque. Intanto il sistema di trattamento delle acque reflue, che doveva essere pronto da anni, non ha ancora visto la luce, nonostante le promesse delle autorità.
Sempre nel 2007 il tribunale latinoamericano per l'acqua (un organismo internazionale autonomo che rappresenta i movimenti sociali) aveva dichiarato colpevoli il ministero della sanità, il ministero dell'ambiente e l'autorità di bacino Lerma-Santiago-Pacifico (da cui si approvvigiona anche parte di Città del Messico) in quanto responsabili degli elevati livelli di tossicità delle acque.
Il Messico dunque affronta una nuova guerra, quella per il diritto all'acqua, che si somma a quelle degli indigeni contro la repressione, e quelle di lavoratori e campesinos alle prese con gli effetti avversi del Nafta (il trattato di libero scambio nordamericano) dal Chiapas allo stato di Guerrero. Nel 2006 Città del Messico aveva ospitato il 3° Foro Mondiale dell'Acqua, una mega fiera a cui hanno partecipato governi, agenzie delle Nazioni Unite e imprese, con la benedizione di aziende multinazionali che con l'acqua stanno già facendo grandi affari anche in America Latina, come la francese Suez e la nordamericana Bechtel.

 

20 febbraio

Gli agricoltori: il freddo di questi giorni non giustifica rincari a breve
«Prezzi, attenti agli aumenti»
 
Le associazioni degli agricoltori mettono le mani avanti: nonostante il freddo di questi giorni, eventuali aumenti di prezzi di frutta e ortaggi che si potrebbero verificare nell'immediato sarebbero ingiustificati e quindi riconducibili solo a speculazioni che avverrebbero nel mercato all'ingrosso.
La Confederazione italiana agricoltori ha spiegato ieri che il freddo non ha alcuna influenza né sulla frutta, che è già stata raccolta, né sulla verdura di stagione, dato che le temperature attuali sono perfettamente compatibili con le coltivazioni invernali (broccoli, spinaci e indivie). Eventuali aumenti a causa del freddo potrebbero invece verificarsi in forma lieve, a causa dell'aumento dei costi per il riscaldamento, nei prezzi degli ortaggi coltivati in serra. A risentire di più delle temperature rigide sarebbero invece le coltivazioni primaverili ed estive, anche se gli effetti sui prezzi potranno essere valutati solamente nei prossimi mesi.
Nel caso in cui si verificassero «ritocchi lampo» dei prezzi nei mercati, sarebbe quindi a causa di speculazioni dei grossisti, che «sconterebbero», in modo del tutto ingiustificato, eventuali aumenti di prezzo nelle produzioni future con un aumento nell'immediato. La prospettiva preoccupante, secondo la Cia, sarebbe il ripetersi di quanto già avvenuto in passato, ovvero l'aumento, in seguito ad analoghe condizioni climatiche, tra il 20 e il 40% dei prezzi di frutta e verdura.
Anche la Coldiretti si preoccupa di tutelare l'immagine dell'agricoltore, specie in un mercato in cui i prezzi di frutta e verdura «aumentano del 300% dal campo alla tavola». Occorrerebbe quindi «vigilare affinché l'ondata di maltempo con l'arrivo del gelo non diventi la miccia per far esplodere il fenomeno della speculazione».
I prezzi tuttavia non starebbero aumentando, almeno secondo quanto dichiarato dal top manager della società di gestione del Centro agroalimentare di Roma. Fino ad oggi infatti, gli effetti del gelo non avrebbero prodotto rincari nei listini dei prodotti, che comunque rimarrebbero «bassi e assai inferiori alle medie degli anni scorsi».

 
Palestre, piscine e fitness: il precariato degli invisibili
Ben 600 mila istruttori, ma solo il 10% è coperto dal contratto. Il resto ha salari bassi e tutele a zero. L'indagine del Nidil
Antonio Sciotto
 
E' uno dei settori più selvaggi e con il maggior sfruttamento: basti pensare che neanche il 10% degli addetti è inquadrato con il contratto nazionale, e il resto naviga nel mare magnum della precarietà e del lavoro nero. Sono gli operatori dello sport, gli istruttori delle palestre, delle piscine e dei sempre più numerosi centri di fitness/wellness che fioriscono nella penisola. Si calcola che sono circa 600 mila gli addetti in Italia, ma il contratto nazionale ne copre a stento 50 mila. La Cgil - in particolare il Nidil - ha diffuso oltre 500 questionari tra gli operatori, a partire dalla fiera del Wellness di Rimini, dello scorso maggio, e poi cercando contatti nei centri sportivi: ma già far emergere le storie sommerse è complicato, e la consapevolezza dei propri diritti tra questi «nuovi operai» è minima. Fa impressione che ben il 62% degli intervistati ha dichiarato di non sapere che il sindacato può lavorare per la loro tutela.
Non solo le retribuzioni risultano basse, ma per un combinato di varie leggi, i tanti precari dello sport spesso non sono coperti neppure sul fronte dei contributi, all'Inps e all'Inail, e dunque non si stanno formando una pensione né si tutelano contro gli infortuni (a parte quei pochi che stipulano un'assicurazione privata).
Quanto ai contratti, solo il 16% degli intervistati ha un tempo indeterminato, il 47% è precario (a termine, in collaborazione, in partita Iva, in apprendistato), e addirittura il 37% non ha contratto, dunque è in nero. Sette precari su 10 dichiarano di non aver scelto la propria condizione, e ben il 75% è precario o in nero addirittura da dieci anni. Grave il dato sugli over 40: ben il 64% è ancora precario. E dire che hanno un'alta professionalità: l'84% ha una qualifica riconosciuta, dalla laurea Isef ai titoli Coni.
Il lavoro nello sport non è un «lavoretto» o un hobby: sette operatori su dieci (67%) lo svolgono per trarne la prima fonte di reddito, e solo per il 24% è un'attività secondaria (appena l'8% lo fa per passione e non per lavoro). Il 73% lavora con lo stesso committente da più di un anno. Per la maggior parte dei casi (oltre l'80%) il reddito è inferiore ai 15 mila euro annui: in particolare, oltre il 30%b percepisce meno di 5 mila euro annui, e un buon 20% si trova tra 5 mila e 7500. Vuol dire insomma che un «salario» mensile, almeno quello dichiarato, va dai 400 ai 600 euro.
Il lavoro nero è incentivato dalle stesse leggi (la 342/2000 e la 289/2002, che allarga il principio ai cococò addetti a compiti amministrativo-gestionali). Queste norme assimilano i compensi degli addetti dello sport ai «redditi diversi da quelli da lavoro dipendente», agevolando fiscalmente chi sta sotto i 7500 euro annui: il lavoratore non paga l'Irpef, e i datori di lavoro sono esentati dal pagamento di contributi a Inpse e Inail. Si invogliano dunque le imprese a non contrattualizzare gli addetti come dipendenti, facendo figurare che stanno sotto i 7500 euro (non a caso il 55% dichiara redditi inferiori) e pagando eventuali altre ore in nero. Ma il risultato è che il lavoratore non si iscrive mai a Inps e Inail.
E non è che gli infortuni siano bassi: un lavoratore su tre (31%) si è infortunato sul lavoro, e oltre la metà (il 54%) ha dovuto recarsi al lavoro nonostante una malattia o infortunio. Ben il 29% non ha neanche un'assicurazione privata.
Ultima a intervenire è stata la legge 30 (276/2003), che, come per i giornalisti, ha confermato l'uso dei cococò nel settore, ed escluso i contratti a progetto. Dunque non c'è neanche il pensiero di giustificare un progetto. «Al legislatore - spiega Roberto D'Andrea, segretario nazionale Nidil Cgil - chiediamo di eliminare il regime di favore sotto i 7500 euro, in modo da indirizzare i lavoratori verso il contratto». Quanto alle controparti, la Slc Cgil ha chiesto a Confcommercio un tavolo per il rinnovo già a dicembre, ma non ha mai ricevuto risposte.
 

Lavoro Killer

di Fabrizio Gatti
Ritmi infernali. Subappalti selvaggi. Incidenti nascosti. Norme di sicurezza ignorata. Così al Nord-est le imprese mettono a rischio la vita degli operai. Dalle multinazionali all'industria di Stato
 
La Fincantieri di Marghera
Quando le fabbriche si sfidano, bisogna obbedire e vincere. Gli operai muoiono anche così. Vittime collaterali di gare decise da manager con l'ansia di prestazione. Prendete il comunicato interno dell'Alcoa di Marghera, lo stabilimento veneziano della multinazionale americana dell'alluminio. È il messaggio finale, dopo 30 giorni con i nervi a fior di pelle. Titolo: "Diario di bordo - ultimo atto". Scrive un alto dirigente: "Vittoria! Abbiamo ottenuto il nostro primo obiettivo, da un mese sognavo di poter intitolare così il pezzo dell'ultimo giorno di competizione. Si tratta di una vittoria nostra prima di tutto perché abbiamo fatto un mese da incorniciare, e questo fa bene a noi e al nostro business: 0 infortuni, 7.919 tonnellate, 264 tonnellate al giorno... Record assoluto di tutti i tempi".

È una gara tra laminatoi, lanciati come camion sull'autostrada. Lo stabilimento veneto si piazza terzo fra tutti gli impianti Alcoa nel mondo. Solo che gli autisti di camion che corrono troppo vengono fermati dalla polizia. Non i manager di una multinazionale. Così va l'Italia della produzione senza limiti. Così va Marghera, fucina simbolo del Nord-est, tre morti e un operaio sfigurato dall'acido solforico in sette giorni, contributo locale al bollettino nazionale di 123 vittime del lavoro, 123 mila 494 feriti e 3.087 invalidi da inizio 2008. Quello che pesa non sono solo i numeri dell'ecatombe, ma il modello di eccellenza, così lo chiamano, che tutti devono seguire. Tutti: dagli scaricatori del porto ai carpentieri di Fincantieri, l'ultimo colosso di Stato dove lunedì 11 febbraio un elettricista è rimasto folgorato e quasi tutte le imprese di appalto fanno assunzioni fuorilegge.

Il comunicato interno dell'alto dirigente di Alcoa è euforico: "Vi assicuro che il clima che si respirava in questi giorni e soprattutto la macchina che girava come un orologio erano straordinari... Essere terzi in Alcoa non è poco. Nel calcio sarebbe come arrivare terzi nella Premier league inglese, nella Liga spagnola, nel campionato di serie A italiano o ancora nella Bundesliga tedesca, ovvero
 
essere in grado di competere per sicurezza, produttività, qualità e affidabilità con i migliori al mondo... C'è da esserne orgogliosi". È lunedì 2 luglio, l'estate scorsa, quando il dirigente scrive tutto questo. Giovedì 5 luglio i manager ne parlano ancora. Lo stabilimento continua a filare come una macchina da corsa. Centra obiettivi come una corazzata nel pieno della battaglia.

Quel giovedì i passi di Mauro Calzavara, 46 anni, di San Donà di Piave, operaio del reparto collaudo, e la folle galoppata di Alcoa si incrociano. Dieci anni fa, raccontano i suoi colleghi chiedendo l'anonimato, le bobine di alluminio passavano per sicurezza all'esterno. Oggi, per guadagnare qualche minuto, i rotoli a 200 gradi vengono fatti raffreddare nei capannoni, in spazi ristretti: "Con tempi da Formula uno". In dieci anni la produzione non è cambiata: 80 mila tonnellate di alluminio all'anno. Ma è quasi raddoppiata la produttività degli operai: perché da 980 dipendenti l'Alcoa di Marghera è scesa a 530. Il bando per partecipare alla gara tra laminatoi forniva anche la formula per misurare la loro affidabilità: 'tempo di orologio' meno 'tutti i tempi di inattività' diviso 'tempo di orologio' meno 'tempo di inattività programmato' meno 'tempo di inattività per mancanza di ordini'.

Quel giovedì, appena tre giorni dopo la fine della gara, Mauro Calzavara, operaio e sindacalista della Uil, cade travolto da una bobina di alluminio rovente e viene schiacciato dal carrello che la sta trasportando. Nello stabilimento di Marghera è il secondo dipendente ucciso in un anno e mezzo. Quasi allo stesso modo. Ma per l'inchiesta non c'è nessuna relazione tra la morte del sindacalista e la corsa tra laminatoi organizzata dai dirigenti. Della gara di produzione sparata sul filo delle 11 tonnellate di alluminio all'ora semplicemente non si parla.

Gli imprenditori del Nord-est sanno trovare una ragione a tutto. Anche ai loro operai ammazzati. Questo è Giorgio Guerrini, presidente di Confartigianato, pochi giorni dopo i funerali delle prime due vittime dell'anno a Marghera: "Gli eccessi in discoteca sono un fenomeno reale che incide sui livelli di attenzione dei lavoratori". Guerrini ripete quello che hanno detto i presidenti di Confartigianato di Treviso e Padova, Mario Pozza e Walter Dalla Costa. Insieme, rappresentano le imprese di tre tra le province più aggressive del Nord-est. "La stanchezza dopo le notti a ballare può fare brutti scherzi", sostiene Pozza. Le segreterie venete di Cgil, Cisl e Uil protestano: "Parole vergognose". Paolo Ferrara e Denis Zanon non sono ragazzi da discoteca quando muoiono asfissiati nella stiva della World Trader il 18 gennaio a Porto Marghera: hanno 47 e 39 anni e quella notte, prima dell'incidente, non sono andati a ballare, ma direttamente al lavoro. Dimitrios Lenis, il marinaio greco schiacciato da un Tir su un traghetto il 25 gennaio, ha 33 anni e l'ultima notte l'ha passata a bordo.

 
 
Stabilimenti Fincantieri
Nemmeno Vincenzo Castellano, 31 anni, di Napoli, era andato a divertirsi la notte tra il 9 e il 10 maggio 2002. La sera prima lui e i colleghi Ditran Cano e Biagio Basile entrano nel grande stabilimento di Fincantieri a Marghera e non escono fino al giorno dopo. Non c'è nessuno oltre a loro. Perché la notte Fincantieri ufficialmente non lavora. Per fare in fretta, i tre operai vengono mandati a saldare fuori orario i profili in ferro nel corridoio di una nave in costruzione. I tre non sono mai stati lì prima. Lavorano per la Montaggi e carpenterie industriali sas, una piccola ditta di Ottaviano, in provincia di Napoli. È un subappalto commissionato dalla Meccanonavale srl, una delle società che con regolarità si aggiudicano i contratti di Fincantieri.Nessuno ha mai capito come funzioni. Perché nel maggio 2002 Meccanonavale è presente in Fincantieri con appena quattro operai e due responsabili.

La domanda è da qualche milione di euro, il valore degli appalti affidati a Meccanonavale nel giro di qualche anno: come può una società con solo quattro operai e due responsabili in cantiere garantire la costruzione di sezioni di nave? Infatti non può ed è per questo che i tre dipendenti della ditta di Ottaviano sono lì. L'unico avviso che ricevono riguarda la pulizia dalle scorie di saldatura. Nessuno invece indica i pericoli del posto. Così quando Vincenzo Castellano perde l'equilibrio sulla scala, è normale per lui appoggiarsi al telo che ricopre la parete. Il telo cede e si apre sulla condotta di ventilazione che nascondeva.

Questi incidenti a Marghera di solito finiscono con un funerale e l'archiviazione come fatalità. Ma Castellano si salva. Per modo di dire. "Dopo dieci minuti abbiamo cominciato a sentire delle lamentele", racconta Dritan Cano al processo, "però non sapevamo il punto esatto dove era finito. Io ho fatto quasi 50 volte su e giù, 20 piani della nave". Vincenzo Castellano ora abita con la madre e i fratelli che, per lui, si sono trasferiti da Napoli a Imola. "Per essere sottratto da quella buca", dice a 'L'espresso' la mamma, Carmela Volpe, "Vincenzo ha dovuto aspettare dalle 5,45 alle 8,45. Non sapevano dove fosse perché nessuno aveva lo schema della nave". Vincenzo Castellano è sul pavimento della sala macchine. Le ossa frantumate in fondo a un volo di 30 metri. Anche lui vittima di una gara. Dovevano correre: per completare un lavoro lasciato a metà da Meccanonavale. Fincantieri aveva chiesto una pausa per pulire le condotte della nave e voleva recuperare il tempo perso.

Oggi Vincenzo Castellano è paralizzato dal torace in giù. Quasi ogni notte cade nei suoi incubi e chiede alla madre di aiutarlo a morire. Eppure per Fincantieri resta uno sconosciuto. Il direttore di Marghera, Carlo De Marco, e i suoi dirigenti non si presentano nemmeno al processo in cui sono imputati per lesioni gravi. Tengono duro. I loro legali ritardano il più possibile il risarcimento. A fine novembre l'industria rischia addirittura la figuraccia davanti al premier Romano Prodi e agli armatori della Carnival il giorno della consegna della Queen Victoria che ha come madrina Camilla Parker Bowles. L'avvocato di Castellano chiede il pignoramento della gigantesca nave da crociera. Fincantieri deposita a garanzia un assegno da 2 milioni e mezzo di euro, che poi sono soldi dello Stato. E proprio questo è il punto. Perché Fincantieri appartiene allo Stato. E la sua filiera di produzione è un modello non solo nel Nord-est, ma in tutta Italia.
 
 
Assemblea dei portuali di Marghera
Come funziona lo spiega il giudice del Tribunale di Venezia, Carla Ilaria Bitozzi, nelle motivazioni della sentenza depositate l'11 ottobre scorso sul caso Castellano: "Al riguardo è ampiamente provato che nel cantiere navale di Marghera la maggioranza delle lavorazioni sono svolte da operai di imprese terze mediante appalti reali o mere prestazioni di manodopera... i dipendenti delle imprese terze costituiscono quasi il 75-80 per cento della forza lavoro presente in Fincantieri". Secondo il giudice, la ditta che aveva assunto i tre operai costituiva una sorta di caporalato industriale: il titolare "fungeva solo da intermediario, per il quale percepiva un compenso a percentuale sul monte ore di impiego dei suoi operai".

Alla fine il direttore di Marghera, Carlo De Marco, gli altri responsabili di Fincantieri, di Meccanonavale e della srl di Ottaviano vengono condannati in primo grado a due mesi di reclusione, assorbiti dall'indulto. E al risarcimento dei danni, 2 milioni di euro più o meno. Per Vincenzo Castellano i soldi che gli serviranno a curarsi arrivano soltanto il 9 gennaio di quest'anno. Quasi sei anni dopo l'incidente. Nel frattempo De Marco è stato promosso a dirigere il cantiere più grande, a Monfalcone. E ancora nel 2007 Meccanonavale è tra le società sempre scelte da Fincantieri.

La sentenza veneziana è il riconoscimento della complicità dell'industria di Stato come committente nella filiera di subappalti. Ed è quanto da anni denuncia a prefetto e Asl lo staff di Giorgio Molin, segretario generale della Fiom Cgil di Venezia. Inutile dire che dal 2002 a oggi, a parte un protocollo formale sulla legalità, non ci sono state ispezioni in Fincantieri in grado di smascherare la rete di subappalti. Nemmeno dopo la scoperta a Trieste dell'infiltrazione negli affari di piccole società in odore di 'ndrangheta. E l'arresto di due dipendenti a Monfalcone per contratti gonfiati.

Bisogna venire a Marghera e guardare per giorni da vicino i blocchi delle navi appesi alle gru, per capire quanto sia pericolosa la disorganizzazione in un grande cantiere come questo. Solo una minoranza tra gli operai indossa i caschi di protezione. A volte vedi saldatori bengalesi abbracciati alle ringhiere della Eurodam, la nave della Holland America Cruise Line in consegna quest'anno. Attorcigliano come funamboli le gambe alle sbarre di ferro, perché le mani sono impegnate: in una stringono il piccolo vetro di protezione, nell'altra il cannello della saldatrice. Niente occhiali, niente maschere, niente imbragatura per loro. I dipendenti di Fincantieri a Marghera sono 1.200. Gli addetti alla produzione poco più di 400, praticamente gli unici operai con garanzie sindacali, ferie e malattia. Nel 2006, 170 di loro (il 42,5 per cento) ha subito infortuni con prognosi superiore a tre giorni. Fino ad agosto 2007, sono 92 i feriti (il 23 per cento).

Quattrocento persone non possono costruire una nave. Per questo nel 2007 hanno lavorato in Fincantieri 2.215 operai esterni. Sono distribuiti su 478 ditte di subappalto con uno, dieci, raramente più di 20 dipendenti. Piccole srl che nascono e svaniscono nel giro di due anni, con sedi in Campania, Calabria e Sicilia dove i controlli dell'Inps non esistono. Società paravento a loro volta ingaggiate dalle 64 imprese chiamate da Fincantieri. Sono queste a dividersi il grosso dei guadagni sull'allestimento di condotte di ventilazione e arredi. È il vero affare: le grandi navi da crociera, di cui Fincantieri ha conquistato il 43 per cento della produzione mondiale, costano 500 milioni di euro. Soldi che si incassano nel giro di un anno e mezzo: dalla prima lamiera posata alla consegna.L'importante è abbassare il costo del lavoro. Non tanto per competere con la Cina. Soprattutto per far guadagnare il massimo alle imprese appena sotto Fincantieri.

È per questo che la grande maggioranza degli operai esterni, italiani o stranieri, è ingaggiata a paga globale. Sono contratti fuorilegge che permettono l'evasione di fisco e contributi Inps. Dieci, 12 ore di cantiere al giorno. Senza ferie, tredicesima, malattia, liquidazione: uno sconto quantificato dalla Cgil in almeno tre mesi all'anno. Gli imprenditori più spregiudicati tengono per sé perfino gli assegni familiari e mettono in busta paga 40 ore al mese. Il resto, tra le 160 e le 220, lo pagano in nero. A volte con un assegno. Fa parte del ricatto. Ogni lavoratore firma un foglio in bianco. Se mai decidesse un giorno di denunciare lo sfruttamento o iscriversi al sindacato, si troverebbe con la lettera di dimissioni già firmata. Ma se è stato pagato con l'assegno, il foglio in bianco potrebbe diventare il contratto di un prestito da restituire. Dipende da come viene compilato.

Impossibile conoscere il numero dei feriti, se dipendono da ditte esterne. Solo i casi più gravi vengono scoperti. Come quello di Diego Pietrobon, 36 anni, dieci in Fincantieri, sposato, una bimba e una casa pignorata dopo l'infortunio: è invalido dal 2003, quando è stato investito dal crollo di una sezione di nave, e solo l'11 marzo ci sarà la prima udienza per la sua causa. Intanto la ditta Omega che l'aveva ingaggiato a paga globale è scomparsa.

L'ultimo ferito grave è Massimo Volpe, 32 anni, elettricista di una ditta di subappalto. Verso le due del pomeriggio di lunedì 11 febbraio viene colpito da una scarica a 690 volt. "Una cosa è certa", dice il comunicato delle segreterie veneziane di Cgil, Cisl e Uil, "l'impianto della nave su cui lavorava era sotto tensione mentre non doveva esserlo".È il risultato del frazionamento degli appalti. Nessun operaio sa cosa stiano facendo i colleghi accanto. Sempre lunedì un blocco da 380 tonnellate cade per lo strappo dei golfari, i ganci di sollevamento: erano stati saldati male alla struttura. L'elenco degli incidenti con o senza feriti, ma potenzialmente mortali, è un brivido quasi settimanale.

'L'espresso' ha potuto leggere i rapporti interni. Gigantesche ruote di gru da 300 chili che cadono dal cielo. Manutenzioni e imbragature fatte da personale non specializzato. Carrelli che si ribaltano. Bilancieri dei carri ponte nelle officine usati per sollevare pesi eccessivi per le loro dimensioni. A volte le prove vengono occultate. Come sarebbe successo il 16 aprile 2007 dopo il ferimento di un operaio croato, Milenko Libic, 40 anni, della ditta Sonda, un subappalto: gli era stato ordinato di sollevare una lamiera con due pinze inadatte. "Se te lo ordinano i capi, lo devi fare", racconta un operaio a paga globale, "altrimenti ti dicono: da domani stai a casa".

Più che capi, qualcuno di loro ricorda Kilgore, il colonnello del film 'Apocalypse Now' che faceva rischiare la vita ai suoi soldati per un'uscita in surf dopo la battaglia. Il paragone non è esagerato. Secondo Eurispes, sono morti più operai, muratori e agricoltori in Italia (5.252 dal 2003 al 2006) che militari della coalizione nella guerra in Iraq (3.520). In fondo la salute di un lavoratore a paga globale, in base alle tabelle applicate dai tribunali del Nord-est, costa poco: 44 euro al giorno per un'invalidità totale. Molto meno di un buon paio di scarponi da cantiere

 

Il ricatto si chiama paga globale

 
Parla un lavoratore con salario in nero. E senza garanzie
 
Lavorare senza ferie. Senza tredicesima. Senza malattia. Senza liquidazione. Senza scarponi antinfortunio, senza indumenti appropriati, senza pause. Il contratto di Antonio C., 33 anni, saldatore napoletano, e di migliaia di operai italiani e stranieri che negli ultimi anni hanno costruito le navi di Fincantieri si chiama 'paga globale'. Ufficialmente è un contratto che non esiste: è fuorilegge. Un accordo 'a voce': un terzo, il minimo possibile, in busta paga, due terzi in nero. Antonio C. prende 9 euro l'ora netti. I suoi colleghi bengalesi e romeni scendono a 6 o 7.

Perché si accetta la paga globale?
"Perché se sei napoletano non hai alternative. Devi competere al ribasso con gli stranieri. E anche perché solo così puoi guadagnare duemila euro al mese. Se no, come vivi? Con la paga sindacale avrei più garanzie. Ma non prenderei più di mille duecento euro".

Quanto ha in busta paga?
"Ottocento, novecento euro al mese. Fanno figurare 40 ore di lavoro, al massimo 150. Contributi, ferie, permessi sono tutti fittizi. Il resto, fino a duecento ore, è in nero".

Da quanti anni lavora in Fincantieri?
"Una decina. Ma sono dipendente di una ditta terza che ha preso in appalto il lavoro di allestimento delle navi".

Da dieci anni lavora per la stessa ditta?
"No, queste ditte non durano più di uno o due anni. Cambiano nome. Cambiano soci. E se un operaio si fa male, vengono sciolte. Spariscono. Per sfuggire al fisco, ai controlli, ai risarcimenti".

I dirigenti di Fincantieri conoscono la situazione?
"Se una ditta non ci paga il dovuto, per prima cosa andiamo a segnalarlo all'ufficio personale di Fincantieri. E loro intervengono perché in cantiere non ci sia casino. Sicuramente i dirigenti sanno".

L'ultima volta che è andato in ferie?
'Tre estati fa, a Napoli, dai miei. Se vai in ferie sei a paga zero".

 

Vita da talibé

Sono almeno 100 mila i bambini mendicanti che vivono per le strade di Dakar

scritto da Federico Frigerio

In arabo, tâlib significa “colui che cerca e che chiede”: il tâlib è l'allievo di un marabutto, studente dei precetti dell’Islam. Per far diventare i propri figli degli adulti responsabili e dei ferventi fedeli, una pratica molto diffusa in un paese islamico come il Senegal è quella di far frequentare loro le numerose scuole coraniche (daraas), gratuite purché i discepoli siano disposti a svolgere piccoli lavori nella scuola. Molte famiglie indigenti “regalano” ai marabutti i figli a cui non riescono a badare: nelle daraas della capitale Dakar, un terzo dei bambini ha meno di 10 anni. Ogni mattina, i giovani discepoli si alzano alle 5 e, dopo le preghiere mattutine, prendono i loro barattoli di latta, vagando per le strade di Dakar in cerca di elemosine.

E' questa la vita dei talibés, dipendenti in tutto e per tutto dal marabutto e dalle sue richieste. Ogni momento diventa buono per chiedere qualche spicciolo ai passanti. La quota per non essere cacciati dalla scuola e per non essere molestati è di 350 franchi cfa (50 centesimi di euro) al giorno: una somma notevole, se si considera che il 70 percento della popolazione del Senegal vive con meno di due dollari al giorno. I principi dell’Islam contemplano la raccolta dell’elemosina come attività utile per apprendere la virtù dell’umiltà, ma “se all’inizio i giovani mendicavano per apprendere valori fondamentali per la religione musulmana, oggi lo fanno per conto di un marabutto, dando vita a quello che può essere definito – secondo un rapporto del 2004 dell’Afp - il mercato delle elemosine”. Sette giorni su sette, delle volte perfino di notte, malnutriti, a piedi scalzi, vestiti di stracci, l’unico bene che posseggono è il loro barattolo di latta. Molti talibés nemmeno imparano a leggere il Corano. Mouhamed Chérif Diop, coordinatore di una Ong locale, tira amaramente le conclusioni: “Molte persone guadagnano attraverso l’elemosina dei bambini più soldi che se facessero un lavoro normale”.

“Lo stato non vuole impegnarsi nel risolvere il problema delle elemosine, perché è una faccenda che riguarda la religione” dichiara Amadou Camara, portavoce del ministro della Solidarietà. La figura del marabutto gode di un’autorità inviolabile nella società senegalese: molte famiglie consultano le scuole coraniche per risolvere affari familiari, questioni monetarie e perfino per consigli elettorali. Marie Julie Gagnon, giornalista canadese, sintetizza così il primato dei marabutti: “In Senegal hanno più autorità dei rappresentanti politici”. Il tessuto sociale delle comunità rurali senegalesi riconosce da secoli l’importanza del ruolo del marabutto: le famiglie più povere mandavano i propri figli a lavorare nei campi del marabutto locale in cambio di un’educazione religiosa.

L'urbanizzazione, sempre più consistente a partire dagli anni '80, ha portato molti marabutti a trasferirsi nelle grandi città facendo diventare abituale la pratica dei talibés. Formalmente, il Senegal ha adottato delle leggi per limitare l’apertura di nuove scuole coraniche, ma in realtà non serve alcuna documentazione per crearne una. Camara ritiene molto delicato provare a disinnescare questa pratica: “In ogni grande città c’è un leader religioso che ha dei discepoli nelle sfere dell’amministrazione sociale”. Il governo senegalese ha stanziato fondi per sostenere 100 moschee, così da indurre i marabutti a non mandare i giovani per le strade. Ai numerosi critici di questo ambiguo provvedimento Camara risponde pragmaticamente: “Se non fornissimo nessun tipo di aiuto, per i talibés sarebbe molto peggio”.

 

Cina, i lazzaretti dell’Aids

Nella provincia rurale dello Henan l’Hiv è una piaga endemica. E nascosta

Scritto da Marzia De Giuli

All’inizio di gennaio, alcuni malati di Aids hanno occupato abusivamente due case. Poi, entrati in un vicino supermercato, hanno rubato oggetti di uso quotidiano, generando il panico generale fino a ostacolare l’intervento delle forze dell’ordine.
L’episodio, riportato dal sito Henannews, è avvenuto nel villaggio di Zhengzhou, provincia Henan, la più popolata della Cina - quasi 100milioni di abitanti - e considerata tradizionalmente la culla della civiltà cinese. I suoi villaggi sono conosciuti con il triste appellativo di “lazzaretti dell’Aids”.

Tremila nuovi casi ogni mese. Negli anni ’80 e ’90 decine di migliaia di contadini della provincia hanno contratto il virus dell’Hiv a causa delle precarie condizioni igieniche dei centri in cui erano costretti a vendere il proprio sangue come unico mezzo di sopravvivenza da uomini d’affari senza scrupoli.
Dal 1998 il governo è corso ai ripari inasprendo le misure punitive. Fin quando, lo scorso 30 novembre, in occasione della giornata mondiale dell’Aids, il premier Wen Jibao ha visitato il villaggio di Wenlou facendosi fotografare circondato da piccoli pazienti orfani. Nonostante oggi le autorità sanitarie offrano test dell’Hiv per tutti e cure gratuite per i malati più poveri, la situazione rimane tragica. La corruzione, la malasanità e la scarsa preparazione del personale medico locale hanno favorito la diffusione dell’Aids a ritmi sbalorditivi. Le ultime statistiche ufficiali indicano oltre tremila nuovi casi al mese. In alcune località della contea Shangcai – dove si concentrano ventidue dei trentotto villaggi più colpiti dello Henan – il tasso dei contagi è così alto che quasi in ogni famiglia c’è un malato. Impossibile contare il numero dei sieropositivi: i villaggi sono praticamente blindati e alla maggior parte dei giornalisti è impedito l’accesso.

Chi denuncia l’emergenza viene zittito. Chi ha avuto il coraggio di denunciare abusi e ingiustizie è stato duramente ostacolato. Come l’attivista Hu Jia, più volte costretto agli arresti domiciliari per avere denunciato i delicati retroscena di questa piaga che ha riflessi drammatici nella società soprattutto per l’ignoranza della popolazione sulla malattia, per anni taciuta e negata dal governo.
Secondo l’ultima denuncia del dissidente, riportata dal quotidiano online Boxun, pochi giorni fa circa venti malati di Aids provenienti dai villaggi Xinzheng e Shangqiu sarebbero arrivati a Pechino con un viaggio di fortuna per chiedere al governo di rimediare agli errori commessi nel passato e aumentare gli stanziamenti per le famiglie dei malati. Almeno sette di loro sarebbero stati fermati dalle forze dell’ordine mentre manifestavano di fronte al dipartimento sanitario. In seguito all’episodio, le autorità della provincia Henan avrebbero predisposto un maggiore impiego di risorse per incrementare i controlli sui tour operator con l’obiettivo di evitare altre pericolose ‘usicite’. Sono invece inarrestabili i sempre più frequenti appelli sui blog e siti non ufficiali, come quello apparso su Village of Aids, firmato da un “anonimo contadino della provincia Henan”: “Migliaia di miei concittadini vanno verso la morte ma non importa a nessuno. E io non posso fare niente per salvarli”.
 

19 febbraio

Cina, miniere come porcili
Muoiono 24 minatori, 5 all'ospedale in una cava clandestina al nord, camuffata da porcile. Al giorno muoiono in media 13 minatori
Ennesimo incidente in miniera in Cina; morti 24 lavoratori. Altri cinque all'ospedale, gravi. Domenica scorsa nella provincia settentrionale di Hebei, vicino la città di Wuhan, un ordigno è brillato all'ingresso di una cava di carbone, dissimilata daporcile abbandonato. L'agenzia governativa, Xinhua, riferisce che gli ispettori del lavoro locali non hanno saputo della tragedia fino al lunedì, quando hanno avvisato il ministero.
 
miniera di carboneTunnel e truogoli Trenta lavoratori erano stati intrappolati dall'esplosione, ma mezza dozzina si sono salvati; cinque in condizioni gravi ma stabili all'ospedale di Wuhan, capoluogo di quella che viene chiamata 'Rust Belt', la Fascia della ruggine, dai sinologi: un vasto territorio a nord di Pechino, verso il confine coreano, dove si concentrano le miniere di carbone e le industrie pesanti degli anni '70 in via di smantellamento. Terre di alta disoccupazione, fabbriche che chiudono e povertà diffusa, al contrario del caotico sviluppo che avvolge la fascia costiera più a meridione, da Shangai a Canton. Il ministero del lavoro ha aperto un'inchiesta; il proprietario della miniera, abusiva, si è dato alla macchia. Pare che la miniera fosse veramente nascosta dietro una cava in cui era stato installato un porcile, per non dare nell'occhio. Gli ingressi dei tunnel sembra fossero nascosti dietro enormi truogoli Un nuovo incidente in una industria che finora, secondo il ministero del Lavoro, uccide in media 13 lavoratori ogni giorno; circa 4.700 morti l'anno. Ma l'organizzazione internazionale del Lavoro – agenzia Onu – in ottobre aveva emanato un comunicato per dire che si teme come “i morti possano essere almeno il triplo”.
 

 

 
una miniera in sicurezzaQuattro o 15mila Domenica il ministero dell'Industria aveva annunciato la creazione di una agenzia con un budget annuale di 280 milioni di euro, per ridurre la mortalità nelle miniere. Le accuse colpiscono per la mancata sicurezza i proprietari che non installano dispositivi anti incendio, uscite in sicurezza e ventilazione, contro le fuoruscite di grisou. Mentre i funzionari presentavano questa agenzia, 18 minatori morivano schiacciati da un tunnel a Chong Qing, vicino la Diga delle tre gole, per una esplosione. Intanto la domanda di carbone sale, sia per i prezzi del petrolio, sia per le temperature insolitamente rigide, anche al sud, dove il consumo di carbone serve al riscaldamento domestico. Nel nord il carbone costituisce primaria fonte di energia elettrica. A dicembre Pechino ha lanciato un piano per l'approvvigionamento energetico: per i prossimi tre anni si creerà una centrale a carbone. Ogni settimana. Intanto, la nuova agenzia rivalutava il totale di morti annuali: 6mila. Secondo siti indipendenti sarebbero almeno 15mila. Secondo l'agenzia per la sicurezza, l'ammodernamento delle miniere non è ritardabile, perché la domanda è cresciuta enormemente in queste settimana, soprattutto dalle aree bloccate dalla neve alta. Il rischio, dopo che l'80 percento delle miniere cinesi è rimasto chiuso a gennaio e febbraio, è che alla riapertura ci siano decine di inondazioni dei tunnel.
 
miniere in sicurezzaAl lavoro! Intanto il ministero dell'Energia ha chiesto che quasi tutte le miniere tornino a lavorare a pieno regime, per rifornire le centrali. “Abbiamo riportato l'energia nelle case di 23 milioni di cinesi, il 90 percento delle case colpite da blackout durante la crisi energetica”, recita il comunicato. Ma già si contano 600 casi di miniere inondate (non si sa di eventuali morti) e di 1.800 miniere chiuse per esondazioni di gas tra il Sud e il centro, dallo Yunnan a Jiangxi, Hunan e Guizhou. Per ora i danni provocati dal maltempo fin dalle vacanze del Capodanno lunare ammontano a 15 miliardi di dollari
 
Mutuo soccorso

Un trucco per aggirare la crisi dei subprime

                                                                                          
Tradeline solutions. Esplode la bolla suprime, le banche cercano di tamponare e i cittadini non arrivano alla fine del mese. Il rischio è quello di trovare i mobili sul marciapiede e la casa confiscata, pratica che, nell’ultimo mese, è all’ordine del giorno anche a Miami Beach. Ma, dall’altra costa, Ted Stearns offre una soluzione “approfittando di una falla del sistema”. La sua società, Tradeline Solutions, propone un metodo per gonfiare il proprio punteggio di credito (sotto 700 punti gli istituti di credito chiedono tassi astronomici) e ottenere nuovi finanziamenti dalle banche. Nel sito, al telefono e in numerose conferenze stampa, Stearns e collaboratori spiegano come procedere per aprire un Seasoned Primay Account. L’americano A, che ha bisogno di liquidità e non ha garanzie da offrire, versa 1.199 dollari alla Tradeline, che da quel momento diventa una sorta di broker. Cerca, cioè, nel suo database, un americano B con alle spalle almeno due anni di storia creditizia ineccepibile. In 60 giorni, promette Tradeline, l’americano A sarà, agli occhi delle banche, solvente e affidabile come B perché diventerà cointestatario del suo conto corrente. B, per convincersi, riceverà circa il 10 percento di quanto versato da A a Stears, circa 100 dollari, mentre alla compagnia ne rimangono circa 1000, la maggior parte delle volte in contanti. Per 120 giorni il cittadino A diventerà un correntista modello, avrà accesso a prestiti a tasso di mercato e coltiverà la speranza di dare vita ad un circolo virtuoso. B porterà a cena la moglie con i 100 dollari di Stearns e sarà dirottato su un alto conto corrente. Scaduti i 120 giorni B giorni chiuderà il conto originario e continuerà a versare lo stipendio nel secondo, con la coscienza di aver aiutato un connazionale in difficoltà.
 

Legalità labile. La linea di credito che si viene a creare tra A e B è torbida e diventa impossibile distinguere un correntista solvente da uno che, invece, ne ha solo comprato l’apparenza. Secondo un rappresentante della Federal Trade Commission (Ftc), l’agenzia Usa che si occupa della protezione dei consumatori, “il meccanismo sembra entrare nell’ambito della legalità, ma questo non significa che il sistema sia legale”. Più netto, invece, il giudizio di Fair Isaac, la società che ha inventato il sistema di “credito a punti” (FICO score) adottato negli Stati Uniti: dalla fine del 2007 ha deciso che verranno declassati tutti i conti correnti in cui chi richiede il prestito è un “utilizzatore autorizzato”. Questo penalizzerà i padri che vogliono cointestare il conto al figlio ma, almeno, prova a mettere un argine alla bolla di Stearns che aumenta esponenzialmente il rischio delle banche: di solito, il correntista insolvente tende a rimanere tale.
 

Chi c’è passato. “Sono orgoglioso di poter offrire una soluzione rapida ed efficiente – ha detto Stearns – una persona viene da noi il lunedì con 550 punti di credito e, già il venerdì, può entrare in banca e ottenere un prestito”. Rodney, americano della Florida, ha però un'altra versione. Parte da 675 punti (una situazione non grave) e, per 2.198 dollari, ottiene da Tradeline di diventare “utilizzatore autorizzato” di altri quattro conti correnti. Dopo 35 giorni, però, non ha accesso a nessun altro conto. Protesta, gli dicono di aspettare 60 giorni, “può succedere”. Dopo 64 giorni ancora nulla, Stearns è irreperibile e la sua assistente gli fa notare che “nel contratto si parla di 120 giorni” di potenziale attesa. In effetti, passate altre due settimane, diventa “utilizzatore autorizzato” di due conti correnti che, però, si rivelano chiusi. Il punteggio di Rodney, allora, da 675 passa a 647, gli viene il dubbio che Tradeline abbia venduto i suoi dati per massimizzare i profitti e denuncia all’Fbi la “frode legale” di Stearns. Subito dopo, la Ftc ha aperto un fascicolo a suo carico.                                                                                    Veronica Fernandes
 

Cessate il fuoco
Il bollettino settimanale delle guerre e dei conflitti in corso n. 06 - 2008 dal 07/02/2008 al 13/02/2008
Questa settimana, in tutti i Paesi in guerra, sono morte almeno 922 persone

Sri Lanka
Questa settimana sono morte almeno 321 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 1414

Iraq

Questa settimana sono morte almeno 311 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 1901

Sudan (Darfur)
Questa settimana sono morte almeno 77 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 143

Ciad 
Questa settimana sono morte almeno 33 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 193

 
Afghanistan
Questa settimana sono morte almeno 28 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 297

 
Algeria
Questa settimana sono morte almeno 24 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 59

 
India Nordest
Questa settimana sono morte almeno 23 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 112

Pakistan talebani 

Questa settimana sono morte almeno 21 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 737

Israele e Palestina
Questa settimana sono morte almeno 15 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 88

Somalia

Questa settimana sono morte almeno 13 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 129 

 
Filippine Abusayyaf 
Questa settimana sono morte almeno 13 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 46

 
India-Kashmir
Questa settimana sono morte almeno 10 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 75

R.D.Congo
Questa settimana sono morte almeno 9 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 77 

Nord Caucaso
Questa settimana sono morte almeno 5 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 70

Thailandia del Sud
Questa settimana sono morte almeno 5 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 60 

Pakistan Balucistan
Questa settimana sono morte almeno 3 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 15

 
Filippine Npa
Questa settimana sono morte almeno 3 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 20

 
Nepal
Questa settimana sono morte almeno 3 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 9

 
India Naxaliti 
Questa settimana sono morte almeno 2 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 61

Nigeria
Questa settimana sono morte almeno 2 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 9
 
Bangladesh comunisti
Questa settimana è morta almeno 1 persona
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 4
 
 
dati del ministero per il prossimo anno: travaso di 42mila alunni
tra le due parti del Paese. In 10 anni il meridione ha perso 278mila studenti

Scuola, il Mezzogiorno si spopola
e al Nord classi sempre più piene

di SALVO INTRAVAIA


Sempre meno alunni al Sud mentre al Nord, grazie agli immigrati, le classi si riempiono. E' il trend delineato dalle previsioni ministeriali legate agli organici per il prossimo anno scolastico. Per effetto dell'invecchiamento della popolazione, le scuole delle regioni meridionali si stanno svuotando rapidamente. Al contrario, nelle regioni settentrionali e dell'Italia centrale la cosiddetta popolazione scolastica è in continuo aumento.
Un fenomeno che - inoltre - sta creando un progressivo spostamento delle cattedre e delle opportunità d'insegnamento verso le regioni del Centro-nord, dove i precari scarseggiano e le scuole cominciano ad avere difficoltà a trovare gli insegnanti. Il tutto proprio quando la maggior parte degli supplenti meridionali ha deciso di ritornare a casa. Ecco il quadro dell'Italia che viaggia a due velocità anche in campo scolastico.

Il prossimo anno. Secondo le previsioni formulate dai tecnici di viale Trastevere, nel 2008/2009 le scuole del Paese ospiteranno 10 mila alunni in più rispetto all'anno in corso. Ma la crescita della popolazione scolastica non sarà affatto distribuita in modo uniforme. Gli istituti delle regioni settentrionali dovranno organizzarsi per trovare posto circa 42 mila bambini e ragazzi in più, al Centro saranno 11 mila i posti da raggranellare mentre al Sud le classi si svuoteranno perdendo oltre 42 mila alunni. In dieci anni, dal 1998/1999 al 2008/2009, il meridione d'Italia ha perso 278 mila alunni. Nello stesso periodo, al Nord la popolazione scolastica è cresciuta di 338 mila unità. Due le principali cause di questa migrazione verso le regioni settentrionali: gli alunni immigrati e il trend demografico.

Gli immigrati. In un decennio, le aule scolastiche italiane sono rapidamente diventate multietniche. Nelle scuole statali, quest'anno, studiano quasi 500 mila stranieri. Nel 1998/1999 erano appena 85 mila. Il grosso degli alunni con cittadinanza non italiana è, tuttavia, concentrato nelle sei regioni del Nord, che a settembre ne accoglierà circa due terzi del totale. In Piemonte, Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Veneto, Emilia Romagna e Liguria il prossimo anno saranno circa 368 mila. Nelle otto regioni meridionali se ne conteranno appena 56 mila.

I giovani. Grazie agli immigrati e alla ripresa delle nascite, al Nord la popolazione è più giovane di dieci anni fa. Al Sud è, invece, sempre più anziana. Secondo le ultime rilevazioni demografiche condotte dall'Istat, nel settentrione i cittadini di età compresa fra 3 e 18 anni, in due lustri, si sono incrementati del 9 per cento. Trend opposto da Roma in giù: meno 500 mila giovani, pari a un decremento del 12 per cento.

Le cattedre e i tagli. La migrazione degli alunni e il taglio alle cattedre, imposto dalle ultime manovre economiche, ha spostato migliaia di posti. In appena tre anni, il Centro-sud ha dovuto sacrificare sull'altare del risanamento dei conti pubblici ben 24 mila cattedre. Solo al Nord il consistente incremento di alunni ha consentito una leggera espansione degli organici: più 3.500 posti. Il tutto, proprio mentre l'ultimo aggiornamento delle graduatorie dei precari ha visto ritornare al Sud migliaia di precari meridionali che in passato hanno tentato la fortuna al Nord. Così, oggi, nelle regioni settentrionali le possibilità di essere assunti si moltiplicano mentre al Sud tutto si complica.

 

14 febbraio

Udeur, dalla Giustizia agli arresti in tre regioni

E tre. Esponenti chiave dell'Udeur finiscono sotto inchiesta per gravi reati anche in una terza regione. Dopo Lazio e Campania, adesso tocca alla Calabria. Pasquale Tripodi, assessore regionale al Turismo, è stato arrestato dai carabinieri per associazione mafiosa.
Foto_exp_web_1Esattamente un anno fa, la copertina de L'espresso era dedicata alla "Cupola delle tangenti" della Regione Lazio. Descriveva anche le indagini sul primo leader del partito di Clemente Mastella finito nei guai: Marco Verzaschi. Verzaschi, ex assessore alla sanità del Lazio con la giunta Storace e sottosegretario alla Difesa del governo Prodi, all'epoca era accusato da Lady Asl, protagonista del più incredibile scandalo negli appalti sanitari del Lazio, per una mazzetta da 200 mila euro. A dicembre un secondo imprenditore ha chiamato in causa Verzaschi, descrivendo la consegna di altri 200 mila euro: in questo caso il denaro sarebbe stato addirittura estorto.

Verzaschi si è dimesso a dicembre, alla vigilia dell'arresto, respingendo le accuse. Il Tribunale della Libertà ha poi revocato la custodia domiciliare, riconoscendo però la validità del quadro accusatorio. Dopo il Lazio è stata la volta dell'Udeur campano, con l'arresto di due assessori e di Sandra Lonardo Mastella, presidente del consiglio regionale e moglie del ministro. Ma prima ancora c'era stata l'inchiesta per camorra contro Vittorio Insigne, consigliere regionale Udeur, processato e assolto in primo grado per i rapporti con i boss dei casalesi.
La presunzione di innocenza vale fino a sentenza definitiva. Ma  l'elenco delle indagini contro esponenti Udeur mette in una luce singolare la scelta che venne fatta nella formazione del governo Prodi. Mastella alla Giustizia, Verzaschi sottosegretario alla Difesa con delega ai carabinieri ossia al corpo che ha condotto tutte le indagini sul partito del Campanile.

 

Mimmo, Mary, Totò e Graziella hanno girato un video che è andato su YouTube. Protesta a Montecitorio

Disabili? Niente casa in affitto

Dieci agenzie dicono no

"Perché siamo in carrozzina alcuni venditori non ci hanno fatto neanche entrare"

di RORY CAPPELLI ANNA MARIA LIGUORI

 

<B>Disabili? Niente casa in affitto  </B><br><B>Dieci agenzie dicono no   </B>
Dieci agenzie immobiliari, una dopo l'altra, hanno detto no. In alcune non sono neanche riusciti ad entrare, tenuti sulla porta quasi fossero una vergogna. Perché sono costretti in carrozzina. Perché parlano e si muovono con difficoltà. Perché non sono "normali". Per Mimmo, Mary, Totò e Graziella, quattro ragazzi che stanno per laurearsi alla Sapienza e che perciò dovranno lasciare la Casa dello Studente di via Cesare De Lollis, da mesi cercano casa.

Già il 5 dicembre Mimmo e i suoi colleghi - dopo vari no di privati e agenzie - avevano organizzato una protesta davanti a Montecitorio. Volevano sensibilizzare deputati, presidente del Consiglio, sindaco. Far sapere che nonostante le giornate del disabile e le "pubblicità sociali" strappalacrime il pregiudizio impera. Che ancora le barriere mentali, come dice Totò, si ergono e svettano sulla vita della gente. Non sono stati ascoltati. Non è cambiato nulla. Così, aiutati da Francesco Palese della streaming tv Retesole, hanno filmato i rifiuti che uno di loro, Mimmo, riceveva dalla stessa agenzia che solo cinque minuti prima offriva al ragazzo "normale" "appartamenti con camino", "bilocale con terrazza", "guardi, questo ha tre stanze da letto, ci potete stare anche in cinque".

Ne è uscito fuori un documentario di quindici minuti che si può vedere su YouTube (al link: www. youtube. com/watch? v=Kw5xTOGLA8M)

"Quando Mimmo, Mary, Totò e Graziella mi raccontavano dei rifiuti delle agenzie, mi domandavo: ma sarà vero?" racconta Francesco Palese. "Pensavo che fosse un'esagerazione. Poi li ho accompagnati. Ancora non riesco a credere a quello che è venuto fuori". "È incredibile" dice Mimmo, al secolo Domenico Vetere, 29 anni, studente di Scienze Politiche, che ha il sogno di lavorare in un'ambasciata. "È successo con le agenzie, ma anche con i privati. Appena mi vedevano cambiavano faccia, neanche fossi un mostro. Sono solo un ragazzo che cerca un appartamento. Tutto qua".

 

13 febbraio

Indagine sui prodotti che ogni giorno compriamo al supermercato per scoprire le piccole e grandi bugie dell'industria alimentare

Nella giungla delle etichette. Un carrello pieno di trappole

di JENNER MELETTI

<B>Nella giungla delle etichette<br>Un carrello pieno di trappole</B>

ROMA - Consiglio per gli acquisti: una lente di ingrandimento. Solo con questo strumento, fra le corsie di un supermercato, è possibile sapere cosa si compra per la propria tavola. Ecco, ad esempio, i "Cappelletti al prosciutto crudo" dei Freschi Buitoni, mezzo chilo, euro 1,99. Sulla confezione, l'immagine di una bella fetta di prosciutto. Sembra di sentirne il profumo. Con una vista da aquila - o con una buona lente - si scopre che per fare i cappelletti, oltre a farina, uova, sale non è stata usata solo la coscia stagionata del maiale. Si legge infatti che "il prodotto contiene carne di suino cotta, pangrattato, mortadella (carne di suino, grasso di suino, cuori di suino, trippini di suino), prosciutto crudo stagionato: 9,5% del ripieno".

Tutto in regola, ovviamente. Certo, se sulla busta fosse scritto in grande "cappelletti al grasso e cuore di suino" davanti allo scaffale non ci sarebbe la fila. Ma chi ha tempo di leggere? Qui, al supermercato Sma di via Laterani 39/41, è ormai ora di cena. Il pensiero è rivolto al frigo di casa, per ricordare cosa manca. Gli occhi servono solo per guardare i prezzi, per non spendere più di quanto c'è nel portafogli. "Mi lascia passare? Ho solo tre pezzi. I figli aspettano".

Oltre alla lente, meglio portarsi un esperto. Stefano Masini, docente di diritto alimentare a Scienze della nutrizione dell'università di Tor Vergata, è anche responsabile consumi della Coldiretti. Proprio nei giorni scorsi la Commissione europea ha stabilito che le etichette debbono cambiare, per fare sì che "i consumatori dispongano, in modo leggibile e comprensibile, delle informazioni essenziali per fare scelte consapevoli". Il professor Masini non è entusiasta.

"Già il regolamento europeo numero 178 del 2002 recitava che "etichettatura, pubblicità, presentazione, compresi forma, aspetto, confezionamento e informazioni non debbono trarre in inganno il consumatore".

Ma la confusione è ancora grande. E anche questa nuova normativa ha un difetto pesante. I consumatori chiedevano di conoscere l'origine dei prodotti agricoli contenuti negli alimenti, con l'obbligo dell'etichetta di provenienza, e la Commissione ha risposto che questa etichetta è un elemento volontario".

"Qui in Italia le decisioni vengono prese solo dopo le emergenze. Dopo mucca pazza, oggi è possibile sapere dove è nato il bovino, dove è cresciuto, dove è stato macellato. Dopo l'aviaria, c'è anche la tracciabilità del pollo, ma solo transitoriamente: l'Unione ha infatti avviato una procedura di infrazione, perché dire che il pollo è italiano sarebbe una sorta di barriera non tariffaria. Nessuna tracciabilità, invece, per il coniglio, il maiale, l'agnello. Sull'olio extravergine di oliva si è discusso dieci anni. Noi ne produciamo 500.000 tonnellate all'anno e ne importiamo 400.000. E' facile mescolare. Dal 16 gennaio 2007 sulle etichette dovrebbe essere specificata la zona di origine delle olive, il paese di raccolta e quello del frantoio".

Il carrello è pronto, si può cominciare la spesa. Una bottiglia di olio extravergine di oliva Olitalia, euro 5,10. "Uno vede scritto Olitalia, traduce immediatamente olio d'Italia e pensa di comprare olio italiano. Ma non si sa. Non c'è scritto da nessuna parte dove le olive siano state coltivate e portate al frantoio. Ecco, questo è un caso che può essere segnalato all'Autorità garante della concorrenza e del mercato, per ingannevolezza del messaggio". Un tubetto di Star sugo Lampo, euro 0,70. "Dopo tante battaglie con la Cina, sulle scatole di pelati è specificata l'origine dei pomodori. Ma per le salse non vale". Chi voglia sapere di più, sulle origini del pomodoro finito nel tubetto Lampo, prodotto a Busseto di Parma, dovrebbe telefonare al numero verde 800274094. Un pacchetto di mais Mon Ami, euro 0,99.

"E anche questo, da dove arriva? Mais, soia, cotone e tabacco sono spesso Ogm, prodotti in Argentina, Stati Uniti, Canada e Brasile. Sarebbe meglio precisare l'origine, così si è più tranquilli. L'etichettatura sugli Ogm è molto complessa. Da una parte c'è l'obbligo di scrivere Ogm quando la percentuale supera lo 0,9%. Sono solo tracce, provocate da una non netta separazione fra produzioni Ogm e non Ogm. La disciplina che si sta discutendo è precisa: non ci deve essere contatto fra una produzione e l'altra, addirittura anche i mezzi agricoli debbono essere separati. Ma ci sono incongruenze: una vacca può essere alimentata con Ogm e chi beve il latte non ha il diritto di essere informato".

Benedetta sia la lente di ingrandimento. Compri il wurstel Fiorucci Suillo classico, euro 1,90, con la scritta grande che annuncia "100% puro suino" e scopri che dentro c'è "carne di suino, 80%". Passi davanti a un espositore che offre "Burn Energy drink, Now estra Potent", una lattina scura, euro 1,45. "Lo può comprare anche un bambino, perché pensa di avere più scatto nella partita di pallone. Ma in piccolo c'è scritto: "Questo prodotto non è adatto ai minori di 16 anni, a gestanti, a persone sensibili alla caffeina"". Ingredienti: caffeina e taurina. Le etichette della carne sono precise. "Nato: Italia. Macellato: Italia.

Sezionato: Italia", è scritto sulla confezione di cotolette di pollo Aia. Scopri che il tacchino Rovagnati, trasformato in fette di arrosto, grammi 120, euro 2,99, ha fatto un lungo viaggio: "Provenienza: Brasile", annuncia l'etichetta. "L'importante - dice Stefano Masini - che l'informazione sia chiara, poi ciascuno fa le proprie scelte. Certo, per fare bene la spesa al supermercato, non basterebbe un corso universitario. Prendiamo, ad esempio, il cioccolato. In Italia c'era una legge che diceva: si chiama Cioccolato solo quello fatto con cacao e burro. Quello con la margarina si chiamava Surrogato. Ma gli altri Paesi europei produttori di margarina hanno fatto ricorso alla Corte di giustizia della Comunità, che ci ha condannato. Ora si è fatto un compromesso. Quello con il burro lo chiamiamo Cioccolato puro, quello con la margarina, l'ex Surrogato, Cioccolato e basta".

Due sporte di spesa, euro 50,31 e un breve viaggio all'università di Tor Vergata, nello studio del professor Giuseppe Rotilio, docente di biochimica della nutrizione, preside del corso di laurea in Scienza della nutrizione umana. La scrivania viene invasa da confezioni, pacchi, barattoli. "Basta una prima occhiata - dice il professore - per capire che lei spende male i suoi soldi. Troppe calorie, troppi zuccheri. Il problema principale sono appunto gli zuccheri semplici, che assieme ai carboidrati servono per l'energia ma oggi sono assunti in modo esagerato. Si mangia come se tutti fossimo maratoneti o operai da fatica e invece stiamo seduti a una scrivania". Primo esame: un bel pacco di merendine, le Trecce Auchan. L'etichetta racconta che 100 grammi portano 470 calorie, con 53,9 grammi di carboidrati e 25,5 di grassi.

"Non c'è scritta la percentuale di zuccheri semplici. Anzi no: si dice che in superficie sono il 7%. Ma dentro la pasta? Ci sono arancia candita, sciroppo di glucosio e fruttosio, emulsionante, burro, lievito di birra. Ecco, una merendina di queste è già un pranzo. E' un cibo troppo ricco, per la nostra generazione. Quando si compra, la prima cosa da guardare sono gli zuccheri semplici, che entrano rapidamente nel sangue ed alzano l'indice glicemico. Provocano l'accumulo di grasso e il tessuto adiposo è resistente all'insulina: alla fine si va verso il diabete".

Il professore non è nostalgico del passato. "O lei riesce a nutrirsi con l'insalata coltivata in un orto non concimato o deve fare i conti con l'industria alimentare. Non demonizzo: in fine dei conti, da quando esiste, noi uomini viviamo di più e meglio. Ma bisogna stare attenti agli eccessi". Nel tacchino arrosto Rovagnati c'è il destrosio, glucosio di sintesi. Zucchero anche nelle lasagne al pesto e mozzarella. Nella cotoletta Aia, "saporita e croccante", ci sono sia saccarosio che destrosio. "Dovrebbero precisare la percentuale. Ma io mi chiedo? Perché aggiungere questo zucchero? Il bambino che si abitua a questi sapori, quando la mamma prepara la semplice bistecca, si lamenta perché è sciapa. Lo zucchero è un additivo pericoloso perché aumenta le calorie e cambia il gusto naturale. Se mangio una coscia di maiale mi aspetto grassi e proteine, non zuccheri. In compenso, il grasso viene demonizzato. E' vero, ha molte calorie ma queste vengono liberate gradualmente e, se non sono combinate con lo zucchero, non si accumulano. Il grasso - lo spiego agli studenti - di per sé non ingrassa".

Tanti i prodotti che si presentano come paladini della salute. Il Danacol della Danone (confezione da quattro, euro 3,98) è "il tuo alleato contro il colesterolo". "Solo 1,1% di grassi - dice il professor Rotilio - mi sembra buono. E' per adulti che hanno problemi di colesterolo e non vogliono prendere medicine". Scritta in piccolo, un'avvertenza. "Nel caso si stia seguendo una cura contro il colesterolo, consumare il prodotto solo sotto controllo medico". Il professor Stefano Masini, il Virgilio del supermercato, ha invece molti dubbi. "Un negozio alimentare non è una farmacia. Qui prendi, paghi e porti a casa, senza nessuno che ti dia consiglio. Una cosa si potrebbe fare subito. Per prodotti come questo, o quel Burn Energy drink con caffeina e taurina, si scrivano cartelli grandi con le giuste avvertenze. "Vietato ai minori di 16 anni", ad esempio.

"Solo sotto controllo medico". Ma i produttori hanno un solo obiettivo: vendere".

 

La crudeltà dell'ideologia

di FRANCESCO MERLO


Cosa avrebbero fatto i sette agenti di polizia se in quell'ospedale di Napoli fossero arrivati durante l'operazione e non subito dopo? Avrebbero rimesso il feto dentro la donna? "Fermi tutti, in nome della legge: controabortisca o sparo!".

Davvero la polizia che a Napoli irrompe in sala operatoria e sequestra un feto malformato è roba da teatro del grottesco e della crudeltà, da dramma di Artaud. Sembra un episodio inventato per dimostrare la stupidità dei fanatici della vita ad oltranza, per far vedere a quale ferocia si può arrivare in nome di un principio nobile e astratto ridotto ad ossessione e sventolato come un'ideologia, persino elettorale.

È difficile anche ragionare dinanzi a questa violenza che è stata commessa a Napoli. Una violenza contro la legge, innanzitutto, perché l'aborto era terapeutico e quindi legittimo, nel pieno rispetto della 194. Anche se va detto forte e chiaro che l'oscenità dell'irruzione non sarebbe cambiata di molto se quell'aborto fosse stato ai limiti della legge o persino fuorilegge, come si era arrogato il diritto di credere il giudice napoletano, informato - nientemeno! - da una telefonata anonima.

Ed ecco la domanda che giriamo ai lettori: perché un giudice, che ha studiato il Diritto laico e che sa che la giustizia mai dovrebbe muoversi in base ad una qualsiasi convinzione religiosa; perché un giudice che si è formato in un'Italia civile e tollerante non capisce che ci sono ambiti delicatissimi nei quali comunque non si interviene con i blitz, con le sirene, con le manette e con le pistole? Amareggia e addolora che questo signor giudice di Napoli si sia comportato come il burocrate di quella ferocia ideologica che si sta diffondendo in Italia su temi sensibili - e l'aborto è fra questi - che invece richiedono silenzio, rispetto, solidarietà. È come se un diavolo collettivo, un diavolo arrogante che presume di incarnare la morale pubblica, avesse spinto giudice e poliziotti a trattare un'intera struttura ospedaliera - dagli amministratori ai medici, dagli anestesisti agli infermieri - come un covo sordido di mammane abortiste.

Solo il fanatismo, che come sempre nasce da un'intenzione apparentemente buona, può fare credere che i medici di Napoli non siano persone per bene ma stregoni sadici, allegri assassini di nascituri. Il signor giudice, mandando la polizia in sala operatoria, ha trasformato un luogo di lenimento della sofferenza in un quadro di Bosch. E alla fine invece di mostrare il presunto orrore della professione medica, ha mostrato tutta l'asfissia di un'altra professione, della sua professione.

Quante telefonate anonime riceve un giudice a Napoli? Davvero ad ogni telefonata ordina un blitz in tempo reale? E come ha misurato l'urgenza dell'intervento? E quali rei stava cercando? La mamma? Il papà? I medici e gli anestesisti? Cosa voleva mettere sotto sequestro preventivo: l'utero di quella donna? Adesso, a quella signora che, appena uscita dalla sala operatoria, è stata sottoposta ad un incredibile interrogatorio, bisognerebbe che lo Stato chiedesse scusa. L'hanno trattata come un'omicida, come una snaturata che si vuole sbarazzare di un feto alla ventunesima settimana. Hanno inventato per lei il reato di feticidio, hanno applicato contro di lei il loro stupido estremismo che inutilmente vorrebbe deformare e deturpare il buon cattolicesimo italiano in schemi da sermoneggiatori fondamentalisti, con tutto questo parlare di Dio e dividersi su Dio.

La polizia non ha sorpreso una gang di infanticidi ma una donna provata da un terribile dramma personale, costretta ad abortire per non mettere al mondo, nel migliore dei casi, un infelice menomato. Per questa signora come per tutti gli italiani, di destra e di sinistra, l'aborto è, qualche volta, una disgrazia necessaria. Perché il diritto all'aborto, in questo caso terapeutico, risponde sempre e comunque a una legislazione d'eccezione. Speriamo dunque che serva questo orribile episodio di Napoli a mostrare tutta la miseria di un'idea che attribuisce alla sinistra di questo infelice paese la voglia matta di abortire e alla destra invece la difesa della vita. Non è così. Non ci sono in Italia da un lato gli abortisti che ballano attorno ai feti e dall'altro gli antiabortisti che si organizzano in squadre di polizia. In questo paese per tutti, e anche per la legge, l'aborto è sempre una tragedia.

Ecco perché, prima che il clima diventi infernale, ci permettiamo una volta tanto nella vita di esser d'accordo con Silvio Berlusconi che ha sconsigliato a Giuliano Ferrara di presentare una lista elettorale "per la vita". C'è forse in Italia qualcuno "per la morte"?
Berlusconi ha aggiunto ieri che secondo lui il dibattito sull'aborto andrebbe tenuto lontano dalla campagna elettorale. Ha ragione. E non perché il dibattito non meriti l'attenzione e il rispetto che anche Ferrara merita.

È stato Ferrara a dichiarare al "Corriere" che mai egli vorrebbe incriminare una donna che ha abortito, e che non è a cambiare la legge 194 che aspira con la sua battaglia. Chi allora, secondo lui, ha armato di ferocia l'interventismo del giudice e dei poliziotti di Napoli? Si sa che i cattolici sostengono che la vita va protetta sin dal concepimento, col risultato estremo di giudicare ogni aborto come una violazione del quinto comandamento. I protestanti invece considerano la nascita come la soglia decisiva senza tuttavia negare che la morte del feto sia un danno per i genitori. Per gli ebrei lo statuto del feto è una questione controversa perché un feto nel ventre della madre è un progetto di vita in corso d'opera. Per i musulmani il feto diventa un persona umana a quattro mesi dal concepimento anche se si tratta di "una persona umana allo stato vegetativo".

Come si vede - e ci scusiamo per il necessario schematismo - le religioni si dividono. E anche la scienza si divide. Ma nessuno stato laico, nessun legislatore laico può risolvere per legge questa disputa e nessuna sentenza di qualche Cassazione può fissare il momento in cui il nascituro diventa un individuo da proteggere giuridicamente. Senza arroganza dunque lo stato laico ha stabilito quel giorno e quell'ora nell'atto di nascita. Prima, il feto e la donna che lo porta in grembo vengono tutelate da un legge che, per quanto carente, è una buona legge, che ha fatto progressivamente diminuire il numero degli aborti, ha insegnato alle italiane che il diritto all'aborto è una drammatica conquista, un'angosciosa soluzione d'eccezione, e che la destra e la sinistra per una volta non c'entrano nulla.

 

Un oscuro scrutare
 
Matteo Bartocci

In un paese in cui i partiti lottizzano allegramente consigli di amministrazione, primari ospedalieri e attricette di telenovelas il vecchio «manuale Cencelli» non si ferma nemmeno alle porte della cabina elettorale. Dopo i ginecologi di partito ecco gli scrutatori di partito. Spigolando le «porcatine» dispensate qua e là nella legge elettorale, spicca l'articolo 9, una norma formulata nel 2005 dal deputato azzurro Gregorio Fontana e approvata praticamente senza dibattito parlamentare che affida direttamente ai consigli comunali la nomina degli scrutatori per le elezioni politiche. Il nuovo testo cancella i sorteggi del computer usati dal 1989 e affida la scelta dei controllori-scrutatori ai controllati-partiti. Chi meglio degli «amici degli amici» può difendere la legittimità del voto? Come una vecchia recita in famiglia, la legge auspica che all'indicazione nominativa degli scrutatori si proceda in spirito bipartisan (cioè un tot a me, un tot a te) ma in caso di disaccordo è perfino prevista una procedura con cui i tre membri della commissione elettorale comunale «votano» a maggioranza gli scrutatori più adatti alle «operazioni di voto». Nulla è lasciato al caso. Nel 2006 molti comuni hanno mandato a vari partiti l'albo ufficiale degli scrutatori. Tra decine di migliaia di nomi ogni forza politica ha segnalato i suoi «controllori» migliori e alla fine la commissione ha fatto la squadra (in genere due terzi alla maggioranza e un terzo all'opposizione). Berlusconi è pronto da tempo: «Presto arruoleremo 120mila difensori del voto. Le ultime elezioni hanno dimostrato che è assolutamente necessario presidiare le sezioni elettorali», ha dichiarato fin da ottobre. Forse però le urne sono state presidiate pure troppo. Due anni fa le schede bianche per la prima volta nella storia della Repubblica sono quasi scomparse: da più di un milione e mezzo a circa 430mila (un record assoluto). Con sondaggi ed exit poll clamorosamente smentiti dai fatti e accuse di brogli mai sopite. Nel segreto dell'urna il partito ci vede sempre benissimo.
 
Sri Lanka, il massacro invisibile
La guerra infuria: 200 morti in quattro giorni. Ma nessuno ne parla
Nell’indifferenza generale dei media e della diplomazia internazionale, la guerra in Sri Lanka tra indipendentisti tamil e forze governative diventa sempre più furiosa.
 
Soldato srilankeseBattaglia a Mannar. Ieri la città insulare di Mannar, in mano all’esercito ma vicina ai territori controllati dai ribelli, è stata teatro di un lungo duello di artiglieria. La battaglia è iniziata al mattino, quando i guerriglieri delle Tigri per la Liberazione della Patria Tamil (Ltte) hanno lanciato una pioggia di granate contro una base dell’esercito nel centro della città, uccidendo almeno sei soldati e danneggiando una chiesa adiacente alla guarnigione militare. Tutte le postazioni d’artiglieria governative della zona hanno iniziato un fuoco di sbarramento che ha fatto tremare la città per ore, mentre le truppe hanno sferrato un contrattacco che, secondo l’Ltte, sarebbe stato respinto uccidendo altri trentasei soldati e perdendo quattro guerriglieri. Un bilancio non confermato dai comandi militari.
Negli ultimi giorni, l’intensità dei combattimenti è stata tale che è diventato quasi impossibile tenere la conta dei morti. Ma merita provarci, solo per dare un’idea della virulenza di questo conflitto dimenticato che ha causato circa 1.200 morti dall’inizio dell’anno, almeno 72mila morti dal suo inizio nel 1983.
 
Sri LankaUn weekend di sangue. Lunedì 11 febbraio: 69 morti. Sette guerriglieri sono morti negli scontri avvenuti nel distretto di Jaffna, nei pressi dell’autostrada A-9. Due poliziotti sono morti nell’esplosione di una mina a Irattaperiyakulam, nel distretto di Vavuniya. Un ragazzino di 14 anni è morto durante uno scontro a fuoco tra esercito e ribelli nel distretto di Ampara. Diciassette ribelli e undici soldati sono morti in una violenta battaglia nel distretto di Welioya. Ventisette guerriglieri e quattro soldati sono rimasti uccisi nel corso degli scontri verificatisi nel distretto di Mananr.
Domenica 10 febbraio: 35 morti. Diciassette ribelli dell’Ltte sono stati uccisi negli scontri avvenuti nel distretto di Mannar, dove l’esercito ha sfondato le linee tamil nella zona di Mullikulam. Altri quattordici guerriglieri e un soldato sono morti nell’attacco delle forze governative contro due bunker dell’Ltte nel distretto di Vavuniya. Nella stessa zona, i militari hanno aperto il fuoco contro un trattore uccidendo tre persone: ribelli secondo il governo.  
Sabato 9 febbraio, 46 morti. In una battaglia nel distretto di Mannar sono morti undici guerriglieri e due soldati; nella zona di Vavuniya sono rimasti uccisi diciannove ribelli e tre soldati. Sette miliziani dell'Ltte e un soldato sono invece morti nel distretto di Jaffna e altri tre guerriglieri in quello di Polonnaruwa.
 

Prigionieri del lavoro

Migliaia di lavoratori stranieri, trattati come schiavi, in sciopero in Bahrain
Almeno mille lavoratori, da due giorni, sono stati chiusi all'interno del cantiere nel quale lavorano per aver osato scioperare. Senza acqua, senza cibo. Sono gli operai che, per una paga da fame, lavorano alla costruzione dell'isola artificiale , mega progetto della monarchia del Golfo Persico del valore di 6 miliardi di dollari.

 
lavoratori stranieri in bahrainCome schiavi. Il consorzio che gestisce l'opera, compartecipato dallo stesso governo del Bahrain e da grandi aziende europee e nord americane del settore edilizio, ha risposto alle richieste di aumenti salariali e migliorie nella vita degli operai serrando il cantiere. Con gli stessi operai dentro. Volevano acqua calda, servizi igienici ed elettricità negli alloggi, mentre adesso rischiano di morire di fame.
Come è accaduto negli Emirati Arabi Uniti, però, anche in Bahrain il seme della rivolta si diffonde rapido tra i lavoratori del settore edile, in massima parte emigrati dal sud est asiatico.
Così, in base alle stesse rivendicazioni, sono entrati in sciopero anche 250 impiegati della società di costruzioni Moshin Haji Ali Group, altro colosso dell'edilizia che impiega per lo più manodopera indiana.
Il boom dell'edilizia, che è arrivato anche in Bahrain come nelle altre ricche petromonarchie del Golfo Persico, sta ridisegnando il volto del paese.
 
il layout del Durrant al-BahrainL'altra faccia della medaglia. I miliardi di dollari di liquidità garantiti alle casse statali dal prezzo del greggio, sono stati investiti in massima parte in joint venture con le aziende specializzate occidentali per costruire gioielli dell'architettura che ricalcano il successo mondiale ottenuto dalle recenti costruzioni negli Emirati Arabi Uniti.
Solo che, come avviene a Dubai e ad Abu Dhabi, gran parte del margine di guadagno di queste operazioni faraoniche è garantito dalle paghe da fame degli operai immigrati.
Nei giorni scorsi il governo indiano, sollecitato dalle migliaia di connazionali che si recavano all'ambasciata in Bahrain a raccontare storie di moderna schiavitù, ha chiesto che la paga minima per i suoi cittadini in Bahrain sia di 262 dollari al mese.
I lavoratori stranieri nel paese sono circa 50mila e rappresentano il 55 percento della forza lavoro.
Il Bahrain, in ritardo rispetto agli altri paesi del Golfo Persico, ha abbassato le quote di cittadini da assumere per un'impresa straniera, ma rispetto allo sfruttamento brutale non ha nulla da imparare dagli Emirati Arabi Uniti. 
 
Ch.E. 

 

7 febbraio

I  buchi di Bush
Gli Usa presentano il bilancio per il 2008, con le spese militari più alte di sempre
In attesa di vedere chi si insedierà alla Casa Bianca dal prossimo gennaio, l'ultimo anno fiscale gestito dall'amministrazione Bush sarà anche quello con le più alte spese militari di sempre: 515 miliardi di dollari, l'8 per cento in più rispetto al 2008, solo per far funzionare la grande macchina che fa capo al Pentagono. Per le guerre in Iraq e in Afghanistan ci sono spese ulteriori, per il momento fissate in 70 miliardi di dollari solo per la prima parte dell'anno fiscale 2009, che inizia il prossimo ottobre: è scontato che cresceranno. Tenendo conto dell'inflazione, la richiesta dell'amministrazione al Congresso è la più alta dai tempi della Seconda guerra mondiale.

Soldati Usa in IraqDeficit alle stelle. Combinato con altre spese pubbliche, il bilancio proposto dall'amministrazione Bush ammonta a 3.100 miliardi e farà crescere il deficit fino a 410 miliardi per quest'anno e 407 miliardi nel 2009, di poco sotto il record di 413 miliardi di quattro anni fa. Otto anni fa, la situazione era completamente diversa: l'allora amministrazione Clinton si chiedeva come impiegare il surplus di bilancio garantito dal boom economico degli anni Novanta, si parlava di ridurre le spese militari. Oggi, il presidente Bush continua a prevedere un avanzo di bilancio di 48 miliardi di dollari nel 2012, una promessa fatta due anni fa. Ma secondo gli analisti, mantenerla sarà difficile: l'economia degli Stati Uniti, se non sta entrando in recessione, sta sicuramente rallentando e il bilancio di quest'anno è appesantito anche dal pacchetto di 150 miliardi di dollari promesso dal presidente per stimolare la ripresa dell'economia. Molto dipenderà anche dalla conferma o meno dei tagli fiscali voluti all'inizio del primo mandato di Bush, che scadono nel 2010: questa sarà la patata bollente che si ritroverà tra le mani il suo successore.

Un militare Usa in IraqIl confronto con altri periodi. Tornando alle spese militari, all'aumento contribuisce la creazione del Comando africano, il nuovo centro militare statunitense per un continente finora trascurato, ma che nell'ambito della guerra al terrorismo viene ora visto con occhi diversi dal Pentagono. Altri 21 miliardi saranno destinati all'aumento delle retribuzioni per membri dell'Esercito e ai Marines. In complesso, in otto anni di amministrazione Bush le spese militari sono aumentate del 30 percento, seguendo di pari passo la crescita dell'economia nazionale. Se è vero che gli Stati Uniti spendono circa il 50 percento del budget mondiale per le operazioni militari, il dipartimento della Difesa minimizza facendo notare che la quota del Prodotto interno lordo statunitense destinata alle spese militari è del 3,4 percento (circa il 4 percento se si contano anche le richieste extra per i conflitti in corso); in Europa la media si aggira intorno al 2 percento, l'Italia spende l'1,3 percento. E pur con i fronti di Iraq e Afghanistan ancora attivi, il confronto con altri periodi storici in cui gli Stati Uniti erano in guerra mostra che all'epoca del conflitto in Corea le spese militari costituivano il 14 percento del Pil, mentre in Vietnam erano del 9 percento.
 
Spagna - 06.2.2008
Ceuta, minori rimpatriati come immondizia
L'enclave spagnola in Marocco è la porta per il traffico di esseri umani e droga
scritto  da
Giovanni Vegezzi
 Ieri, il 5 febbraio 2008, è iniziato il processo all'ex prefetto della città Luis Vicente Moro, implicato nel rimpatrio illegale di minori.
la barriera al confine tra ceuta e il marocco - foto di c.eliaUn furgone anonimo, come quelli che il comune usa per il trasporto dell'immondizia, si ferma in mezzo ad una via. Alcuni poliziotti scendono, e iniziano a identificare i ragazzini che si trovano per la strada in quel momento. Sono immigrati e molti di loro non hanno documenti. I poliziotti aprono le porte e li caricano a bordo: la destinazione probabilmente la immaginano, tornano dall'altro lato della frontiera, in Marocco. E' la fine degli anni '90 e siamo a Ceuta, con Melilla una delle due enclavi che Madrid possiede ancora in terra marocchina. Ceuta non è esattamente un pezzo di Spagna trapiantato sull'altra sponda del Mediterraneo, è qualcosa di diverso, è qualcosa di più. La città autonoma è soprattutto la porta di ingresso per i flussi migratori e per la droga proveniente dal Nord Africa. La criminalità è così importante nell'economia locale, che secondo quanto si racconta in città, quando in passato sono avvenuti arresti importanti di narcotrafficanti, i gioiellieri si sono lamentati per la perdita di clienti.
Gli abusi e i rimpatri illegali di minorenni sono uno dei metodi con cui in quegli anni viene gestito l'ordine pubblico in città, sotto il controllo del prefetto Luis Vicente Moro e delle forze speciali di polizia alle sue dipendenze, i "cachorros de Moro", i cuccioli del prefetto.

due donne marocchine per le strade di ceuta - foto di c.eliaE' il 1998 e Moro è inviato dal Governo per porre un freno alla criminalità. A Ceuta in quegli anni il narcotraffico dilaga e la città è governata da politici collusi con la malavita. Se lo scenario è da serie poliziesca, le maniere di Moro non sono da meno. La sua mano dura si scontra fin da subito con le proteste delle associazioni per i diritti umani. L'Associazione Andalusa per i Diritti Umani (Apdha) denuncia subito i maltrattamenti nei confronti dei minori marocchini. Rafael Lara, presidente dell'associazione, ci racconta di come vengono alla luce gli abusi. Alcuni poliziotti, che non si adeguano ai nuovi metodi imposti da Moro, iniziano a denunciare i rimpatri illegali e i maltrattamenti ai danni di minori marocchini. Ma il sistema di potere messo in piedi dal prefetto è molto forte e chi sporge denuncia riceve intimidazioni e viene sospeso dal servizio. Ostacoli di ogni tipo vengono posti anche alle associazioni per i diritti umani, quando cercano di portare avanti denunce contro gli atteggiamenti della polizia. Un giudice, Francisco Tesòn, raccoglie queste accuse e inizia ad indagare sugli abusi. Il prefetto però non sembra gradire. Fa confezionare delle prove false, da cui emerge che Tesòn ha contatti con narcotrafficanti, le fa diffondere dalla polizia e riesce a far pubblicare la notizia sul quotidiano spagnolo più diffuso, El Paìs. Sono passati quasi dieci anni e l'attacco contro il giudice ora si è dimostrato un boomerang. Un tribunale ha dato ragione a Tesòn, che aveva querelato il prefetto: nello scorso ottobre Luis Vicente Moro è stato condannato a due anni per calunnie, insieme ad altri funzionari di polizia suoi complici. Questo potrebbe essere solo il primo passo. Il 5 febbraio è iniziato a Ceuta il processo che si pronuncerà sui maltrattamenti e le espulsioni illegali di minorenni. Grazie alle denunce delle associazioni per i diritti umani e al lavoro della magistratura iniziano ad apparire i tasselli del sistema di potere messo in piedi da Luis Vicente Moro, gli abusi commessi dalla sua gestione dell'ordine pubblico e l'uso arbitrario delle forze di polizia. Ora dalla giustizia si attende una parola definitiva sul prefetto che, inviato a combattere la criminalità, rimpatriava minori a bordo di furgoni dell'immondizia. 
Emergenza redditi
Giorgio Lunghini

 
Che i salari siano bassi è stato reso evidente dalla ripresa dell'inflazione annunciata ieri dall'Istat. Ma è un fatto da tutti risaputo, in primo luogo dai diretti interessati, i lavoratori. È importante che lo abbia detto anche il governatore di Bankitalia, con certificazione del suo servizio studi, e che lo abbiano ammesso alcuni imprenditori con le loro «mance contrattuali». I salari sono però soltanto una parte del reddito nazionale. Le altre due parti sono le rendite e i profitti. Se la quota dei salari è piccola, grandi sono le quote dei profitti e delle rendite. Ciò capisce anche un bambino, e ciò insegna la buona teoria economica. La questione salariale è dunque un problema di dimensioni del reddito da distribuire e di distribuzione di questo reddito tra rendite, profitti e salari. Ed è il vero problema «politico» del paese.
Una volta che i percettori di rendite le hanno incassate, il salario (che è una variabile dipendente) dipenderà da quanto è rimasto del reddito nazionale e da quanto prende la forma di profitti. Tra rendite, profitti e salari ci sono molti intrecci, che statistici e sociologi hanno studiato; tuttavia è meglio non lasciarsi distrarre dalla sostanza della questione, economica e perciò politica.
La questione salariale può essere medicata in tre modi. Uno, oggi difficile da praticare, è che i lavoratori salariati conquistino una maggiore forza contrattuale nella distribuzione del reddito nazionale. Il secondo è che il reddito nazionale cresca tanto da consentire un aumento di tutte e tre le quote, senza inasprire il conflitto sociale: una prospettiva oggi improbabile. Il terzo modo è l'unico del quale disporrebbe un governo che prenda sul serio la questione: una redistribuzione del reddito, per via fiscale, dai percettori di redditi elevati ai percettori di redditi bassi - senza tagli della spesa pubblica.
Ci sono due ragioni che consigliano questa strada. La prima è ovvia: l'attuale diseguaglianza nella distribuzione del reddito e della ricchezza è arbitraria e iniqua. La seconda è un po' più complicata ma non meno importante. La spesa in consumi dei più ricchi, in percentuale del loro reddito, è minore di quella dei più poveri. Dunque uno spostamento di potere d'acquisto dai più ricchi ai più poveri farebbe aumentare la domanda per consumi e per questa via lo stesso reddito nazionale. Così come dovrebbero sapere quanti invece amano separare la funzione e il costo dei cittadini in quanto lavoratori, dalla loro funzione e dal loro potere d'acquisto in quanto consumatori.
La clausola «senza tagli della spesa pubblica» è cruciale. I servizi pubblici sono una parte importante del reddito reale dei cittadini più poveri. Se il loro maggior reddito monetario venisse finanziato mediante una minore spesa pubblica, anziché mediante una redistribuzione del reddito nazionale, la manovra sarebbe pura propaganda elettorale. Un concetto da ricordare mentre parte la corsa verso le urne.

L'ospedale che regala milioni ai fornitori

Marrazzo1 Un ospedale che regala soldi. L'incredibile diventa realtà nella sanità romana, feudo di scandali antichi. Ma la notizia che il San Giovanni avrebbe riconosciuto ai fornitori 5 milioni e 700 mila euro più del dovuto,  pare destinata a segnare una nuova frontiera dell'Italia sprecona. Dal 2002 al 2006, l'azienda pubblica avrebbe continuato a pagare molto più di quanto previsto dagli appalti, arricchendo le due ditte che fornivano pasti e servizio lavanderia. Adesso il direttore generale sta cercando di fermare i fondi stanziati per il 2005-6 e studiando un modo per recuperare i tre milioni di troppo versati negli anni precedenti. La colpa? È del computer, di un sistema informatico così generoso da regalare pacchi di euro: un virus nel software avrebbe cominciato a buttare via i soldi. Dopo il millenium bug, ecco il "magna-magna bug" che elargisce denaro a go-go: un'infezione ospedaliera che contagia il database e toglie al pubblico per arricchiere il privato. Che dire? La versione ufficiale è difficile da digerire. Anche perché a scoprire la moltiplicazione dei piatti e dei lenzuoli non sono stati gli organismi di controllo della Asl o quelli della Regione, ma la commissione d'inchiesta del Senato. Nessuno si era accorto dei 5 milioni e 700 mila euro, forse perché sono una cifra infima rispetto al deficit mostruoso della sanità laziale, nato con le giunte di destra guidate da Francesco Storace e sopravvissuto ai piani di rientro evocati dal centrosinistra di Piero Marrazzo: 1.880 milioni nel 2006, un miliardo nel 2007 mentre per il 2008 si spera di contenerlo in mezzo miliardo di euro. Cosa volete che siano 5,7 milioni di euro rispetto a questa voragine?
 

5 febbraio 

La guerra non va in crisi

La crisi di governo non compromette il rifinanziamento della missione in Afghanistan. Anzi

Venerdì 25 gennaio, all’indomani della caduta del governo Prodi, il Consiglio dei Ministri approvava il decreto legge di rifinanziamento in blocco di tutte le missioni militari italiane all’estero, compresa la missione di guerra in Afghanistan (350 milioni di euro fino a fine anno).
Essendo ormai venuto meno ogni vincolo di coalizione, i quattro ministri di sinistra, Alessandro Bianchi (Pdci), Paolo Ferrero (Prc), Fabio Mussi (Sd) e Alfonso Pecoraro Scanio (Verdi) non hanno partecipato alla votazione.
 
Forze speciali italianeVoto in Parlamento entro fine marzo. Il decreto, automaticamente entrato in vigore con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, deve però essere convertito in legge dal Parlamento entro la fine di marzo, pena il suo decadimento retroattivo.
La Sinistra Arcobaleno (Rifondazione, Comunisti Italiani, Verdi e Sinistra Democratica) annuncia battaglia, chiedendo il cosiddetto ‘spacchettamento’, ovvero la possibilità di stralciare la missione afgana dal decreto, così da poterla discutere e votare separatamente dalle altre missioni (Libano, Kosovo, Iraq, Sudan e Somalia). Un voto che, da parte della sinistra, si preannuncia negativo per lo stesso motivo di cui sopra (la fine del vincolo di coalizione), ma che sarà del tutto simbolico, visto che non comprometterà l’approvazione del decreto, destinato a ricevere i voti favorevoli di tutti gli altri partiti, dal Partito Democratico alla Fiamma Tricolore.
 
Carro Dardo italianoLa sinistra annuncia voto contrario. “Ritengo che i gruppi parlamentari di Rifondazione comunista e dell’intera Sinistra Arcobaleno non voteranno a favore del rifinanziamento delle missioni militari all’estero”, ha dichiarato nei giorni scorsi il ministro Paolo Ferrero. “Chiederemo di discutere missione per missione”.
“Il Pdci voterà contro il rinnovo della missione militare in Afghanistan”, ha detto Jacopo Venier, il responsabile Esteri del partito di Diliberto. E ha aggiunto: “La caduta del governo Prodi ci impone oggi di manifestare anche con il voto in Parlamento la nostra contrarietà di fondo al coinvolgimento dell'Italia nel conflitto in Afghanistan: non c’è più alcuna garanzia che in futuro le nostre truppe conservino i limiti territoriali e di ingaggio che il governo Prodi ha garantito”.
Anche la Sinistra Democratica di Fabio Mussi e Cesare Salvi annuncia il suo voto contrario per bocca di Silvana Pisa: “Noi partecipiamo attivamente ai combattimenti, contrariamente a quanto stabilito perché, anche all’interno della missione Nato, non dovremmo essere operativi negli attacchi. Per questo siamo indisponibili a votare un disegno di legge che rifinanzi tutte le missioni”.
 
Nessuna risposta all’interrogazione parlamentare. Il 16 gennaio, i senatori di Rifondazione Lidia Menapace, Francesco Martone e José Luiz Del Roio avevano presentaItaliani in Afghanistanto al ministro della Difesa Arturo Parisi un’interrogazione parlamentare a risposta scritta dal titolo “Afghanistan, Peacereporter, italiani in missione di guerra?”. La richiesta ufficiale di spiegazioni sull’impiego bellico delle nostre forze speciali in Afghanistan, firmata da altri ventinove senatori della Repubblica, non ha ancora ricevuto risposta.
Senza risposta, a parte quella di Antonio Di Pietro, è rimasto anche il dossier sull’operazione segreta ‘Sarissa’ che PeaceReporter aveva precedentemente inviato a tutti i segretari di partito italiani.

Nel periodo tra il 1995 e il 2004 riduzione del 25,4 per cento. Nel resto d'Europa
flessione di quasi il 30%. 200 mila infortuni non denunciati

 

Morti bianche, primato scandalo
siamo il Paese con più incidenti


Il Rapporto dell'Anmil: oltre mille vittime l'anno
"Effetto perverso legato al modello di produzione".

 

ROMA - Resta all'Italia il non invidiabile primato delle vittime sul lavoro in Europa. Nel nostro paese il numero delle "morti bianche", seppure in calo rispetto agli anni scorsi, è infatti diminuito meno che nel resto d'Europa. Negli ultimi dieci anni, nel periodo compreso tra il 1995 e il 2004, da noi il calo registrato è stato pari al 25,49 per cento mentre nella media europea la flessione è stata pari al 29,41 per cento.

La riduzione è stata ancora più accentuata in Germania, dove il numero di vittime si è quasi dimezzato (-48,3 per cento), e in Spagna dove si è registrato un decremento del 33,64 per cento. Sono questi alcuni dei risultati resi noti nel secondo rapporto sulla ''Tutela e condizione delle vittime del lavoro tra leggi inapliccate e diritti negati'' presentato dall'Anmil, Associazione nazionale mutilati e invalidi del lavoro, al Capo dello Stato Giorgio Napolitano.

Nelle cifre ufficiali, seppure meno allarmanti di quelle relative alle vittime, non sono compresi gli incidenti che non vengono denunciati da chi è impiegato nell'ambito del lavoro nero dove, secondo l'Inail, si verificherebbero almeno 200 mila casi.

Nel complesso gli incidenti sul lavoro sono circa un milione l'anno e i morti più di mille. In Germania nel 1995 le vittime erano state 1500, duecento più di quelle italiane. Oggi sono scese a 804 unità, un numero ben inferiore al nostro. Questi numeri, dicono dall'Amnil, mostrano come non si tratti di un fenomeno occasionale e relegato a situazioni straordinarie ma piuttosto "un effetto perverso che sembra profondamente innervato nel modo di produzione".

L'indennizzo ridotto
Al danno sembrerebbe aggiungersi anche la beffa. La riforma realizzata con il decreto legislativo 38/2000 che ha introdotto, in via sperimentale, la copertura del danno biologico, di fatto, dicono dall'Anmil, ha comportato un "netto ridimensionamento del livello delle prestazioni in rendita se non addirittura la trasformazione dell'indennizzo da rendita, a capitale liquidato una tantum".
Se un lavoratore infortunato che perde un piede ha una moglie e un figlio a carico e una retribuzione media, si ritrova oggi a percepire dall'Inail il 13,39% di rendita in meno (ovvero 963 euro l'anno) ripetto a quanto previsto del regime precedente al Decreto 38/2000. La perdita in termini di risarcimento in sede civile sarebbe poi pari a circa 45 mila euro.

Passi troppo timidi
La rinnovata consapevolezza della gravità del fenomeno, cresciuta anche in ragione dei numerosi interventi del Presidente della Repubblica sul tema, sembra non essere riuscita a produrre ancora una significativa inversione di tendenza. Gli autori del rapporto sottolineano come a cinque mesi dall'entrata in vigore della legge 123/07, che ha stabilito nuove norme in materia di sicurezza sul lavoro, i coordinamenti provinciali delle attività ispettive stanno appena muovendo i primi passi mentre il personale impegnato nella prevenzione infortuni, al ritmo attuale, impiegherebbe 23 anni a controllare tutte le aziende. L'Anmil inoltre sottolinea anche come si intervenga quasi sempre a cose fatte e molto raramente a livello di prevenzione.

Le cose da fare
Tra i rimedi necessari indicati dall'Anmil ci sono un maggiore investimento sulle attività di prevenzione e controllo, l'introduzione di sanzioni adeguate alla gravità ed alle conseguenze dei comportamenti, l'organizzazione di un apparato amministrativo e giudiziario che assicuri l'applicazione certa e rapida delle sanzioni e la promozinoe di iniziative informative, formative e cultura
li che sviluppino nel medio-lungo periodo una maggiore attenzione alla prevenzione.


 

Cessate il fuoco

Il bollettino settimanale delle guerre e dei conflitti in corso n. 04 - 2008 dal 24/01/2008 al 30/01/2008

Questa settimana, in tutti i Paesi in guerra, sono morte almeno 876 persone
Sri Lanka
Questa settimana sono morte almeno 259 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 870
Iraq
Questa settimana sono morte almeno 229 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 1212
Pakistan talebani
Questa settimana sono morte almeno 196 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 698
Afghanistan
Questa settimana sono morte almeno 30 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 222
Somalia
Questa settimana sono morte almeno 23 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 88
Sudan (Darfur)
Questa settimana sono morte almeno 21 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 60
Nord Caucaso
Questa settimana sono morte almeno 18 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 58
Thailandia del Sud
Questa settimana sono morte almeno 16 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 50
Algeria
Questa settimana sono morte almeno 14 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 30
Israele e Palestina
Questa settimana sono morte almeno 10 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 66
R.D.Congo
Questa settimana sono morte almeno 10 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 57
Colombia
Questa settimana sono morte almeno 10 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 34
Filippine Npa
Questa settimana sono morte almeno 10 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 15
India Nordest
Questa settimana sono morte almeno 7 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 80
India Kashmir
Questa settimana sono morte almeno 6 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 53
India Naxaliti
Questa settimana sono morte almeno 5 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 54
Filippine Abusayyaf
Questa settimana sono morte almeno 5 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 23
Nepal
Questa settimana sono morte almeno 4 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno sei
Pakistan Balucistan
Questa settimana sono morte almeno 2 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 9
Bangladesh comunisti
Questa settimana è morta almeno una persona
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno tre

Battaglione Rommel
 

di Gianluca Di Feo

 

Le immagini di un mezzo corazzato dell'esercito italiano colpito da una mina nel deserto dell'Afghanistan svelano un particolare inquieta
nte: i nostri soldati vanno in missione con la palma dell’Afrika Korps hitleriano dipinta sulle jeep
 

In Afghanistan sognando El Alamein. Perché sembra proprio che i commandos delle forze speciali italiane vadano in missione con la palma dell'Afrika Korps dipinta sulle jeep. Sì, il simbolo inconfondibile dei reparti di Rommel che portarono la bandiera hitleriana alle porte del Cairo. E poi si ritirarono mollando proprio i parà italiani a coprirgli le spalle. Ora alcune foto di un attentato talebano contro le forze Nato hanno fatto nascere il giallo. Le immagini riguardano una jeep corazzata italiana e un blindato spagnolo colpiti da mine nel deserto afghano verso il confine iraniano. Sono foto sfuggite alla censura del nostro Stato maggiore, finendo sui siti web di Madrid e da lì nel forum di "Pagine di Difesa", la più attenta rivista telematica del settore. La buona notizia è che il veicolo blindato dell'Esercito, una delle nuove jeep speciali Iveco Vtlm, ha funzionato, salvando la vita dell'equipaggio. Il mezzo, progettato proprio per  sopravvivere agli agguanti con ordigni nascosti nel terreno, sta venendo adottato da molte nazioni.
La cattiva notizia è quella palma dipinta sulla fiancata, che riproduce esattamente il simbolo dell'Afrika Korps: è stata omessa solo la svastica. Un'iniziativa di pessimo gusto: estanea alla tradizione militare italiana, ma soprattutto lontana da quei principi democratici che dovrebbero ispirare le missioni all'estero. Gli scatti non permettono di identificare a quale reparto appartenga il veicolo coinvolto nell'attentato: nella zona operano squadre di parà del Col Moschin e di incursori di marina del Comsubin. Nell'autunno 2006 i soldati tedeschi in servizio in Afghanistan vennero fotografati con un simbolo praticamente identico dipinto sulle loro jeep. Le immagini pubblicate sul settimale Stern spinse il ministero della Difesa ad aprire un'inchiesta e sospendere dal servizio sei militari.

 

La nemesi storica del Cavaliere

di GIOVANNI VALENTINI


SARA' una coincidenza o magari una nemesi storica, per dire una vendetta ordita da un destino beffardo. Ma la decisione della Corte di Giustizia europea arriva nel momento in cui Silvio Berlusconi si accinge a raccogliere i frutti dell'opposizione e a ritornare verosimilmente al governo.

Per un tycoon televisivo che in questi ultimi quindici anni s'è reincarnato prodigiosamente in un leader politico, può essere un colpo o un colpo di fortuna. Un colpo, perché il verdetto europeo rappresenta un intralcio sulla strada per palazzo Chigi; un colpo di fortuna, perché dalle stanze del potere quell'intralcio si può rimuovere o comunque aggirare più agevolmente. Proprio com'è accaduto ieri retroattivamente per il caso Sme, dove Berlusconi è stato assolto per il semplice motivo che il suo precedente governo aveva provveduto ad abolire il reato di falso in bilancio.

Con buona pace di tutti i pontieri, dunque, la "questione televisiva" torna prepotentemente all'ordine del giorno, come una maledizione biblica, un incubo, un'ipoteca sulla vita politica nazionale. E questa volta, non c'è un complotto delle "toghe rosse" da denunciare, una macchinazione o una persecuzione giudiziaria, ai danni del Cavaliere e della sua azienda. C'è una sentenza emessa dalla Corte del Lussemburgo che convalida le riserve già espresse dal nostro Consiglio di Stato e impone all'Italia di correggere l'assetto della tv.

Sono passati ormai dieci anni da quando "Europa 7", l'emittente-fantasma che fa capo all'imprenditore Francesco Di Stefano, ottenne formalmente una concessione nazionale senza mai ricevere tuttavia le frequenze per trasmettere. Un'ingiustizia o un sopruso da imputare anche ai governi di centrosinistra che nel frattempo si sono alternati a quelli di centrodestra.

Ora quelle frequenze, indebitamente occupate da Retequattro in virtù di autorizzazioni compiacenti rilasciate "in via transitoria", dovranno essere assegnate al legittimo titolare: altrimenti, l'Italia rischia di essere condannata a pagare una maxi-multa che può arrivare fino a 400 mila euro al giorno.

Non è certamente un viatico né tantomeno un buon auspicio per il futuro Berlusconi III. Entrato in politica per difendere le sue reti televisive, adesso il Cavaliere deve riprendere a tutti i costi il governo per cercare di conservarne l'integrità. Forse riuscirà anche a sottoscrivere le "larghe intese" per fare le riforme bipartisan, ma difficilmente accetterà quella televisiva che ormai reclama anche la Corte di Giustizia europea.

 

 
Paghe da fame, nessuna tutela, povertà estrema e condizioni sanitarie inaccettabili
La denuncia dell'organizzazione sui lavoratori stranieri: "Nessun progresso dal 2004"

Immigrati stagionali al Sud

Il rapporto MSF: "Vita di inferno"

di ALESSIA MANFREDI

<B>Immigrati stagionali al Sud<br>Il rapporto MSF: "Vita di inferno" </B>

 Condizioni di lavoro estreme, senza alcuna tutela. Giornate infinite che iniziano quando è ancora notte e finiscono in luoghi squallidi, in condizioni igieniche più che precarie. Assistenza medica inesistente, paghe da fame. Una vita da paria, socialmente nulla. E se si prova a protestare, botte. Punizioni esemplari, per educare anche gli altri. Un inferno, insomma: è così, senza troppi giri di parole, che Medici Senza Frontiere definisce la condizione degli immigrati stagionali che lavorano nel sud Italia nell'agricoltura.


Un'inchiesta di Fabrizio Gatti per l'Espresso aveva già portato alla luce questo inferno, svelandolo in tutti i suoi dettagli. Oggi il rapporto presentato dalla missione italiana dell'organizzazione umanitaria internazionale di soccorso medico dà un quadro altrettando oscuro, disperante, in cui rispetto all'indagine-denuncia analoga di quattro anni fa, non è cambiato quasi nulla.

Da luglio a novembre, un'équipe itinerante di MSF ha condotto un'analisi sulle condizioni di salute, di vita e di lavoro degli stranieri impiegati come stagionali per la raccolta della frutta e della verdura nelle regioni meridionali. Seicento questionari compilati per realtà diverse, ma sempre uguali: dalla piana del Sele al Foggiano, dalla Valle del Belice alla piana di Gioia Tauro.

La fotografia che emerge è di totale sfruttamento: il 90 per cento del campione intervistato non ha un contratto di lavoro e quindi nessuna tutela giuridica per retribuzione, infortuni o previdenza. Lavora in media quattro giorni a settimana per otto-dieci ore al giorno. La metà guadagna tra i 26 e i 40 euro al giorno, ma un terzo 25 euro o anche meno. Il che significa, ad esempio nel foggiano, che la paga per raccogliere un cassone di pomodori da 350 chili è di quattro-sei euro, cui va tolta poi la "tara" di tre-cinque euro giornalieri destinati ai caporali.

Si accetta per non morire di fame, perché alternative non ne esistono. E se una spinta viene dalla speranza di mandare soldi alla famiglia rimasta nel proprio paese d'origine - soprattutto Africa subsahariana, Maghreb, Sud-Est Asiatico, Bulgaria e Romania - il sogno si infrange per il 38 per cento degli intervistati, che non riesce a mettere da parte neppure un euro. "Una situazione drammatica e vergognosa per uno stato di diritto e membro dell'Unione Europea, su cui il silenzio è assordante" commenta Antonio Virgilio, responsabile dei progetti italiani di Medici Senza Frontiere.

Questo esercito silenzioso di schiavi - il 97 per cento sono uomini e hanno tra i 20 e i 40 anni, rarissime le donne - si muove nell'ombra. Il 72 per cento non ha permesso di soggiorno, vive ai margini e in maggioranza si sposta seguendo le stagioni della raccolta. Finita la giornata, la sera si rifugia in squallidi tuguri, soprattutto strutture abbandonate, il 5 per cento addirittura per strada. Il 62 per cento delle sistemazioni non ha servizi igienici, nel 64 per cento manca l'acqua. La quasi totalità non ha riscaldamento. Non solo. Sono sempre più frequenti gli episodi di intolleranza e violenza, denunciati dal 16 per cento degli intervistati.

Gli stagionali fantasma arrivano in Italia in buone condizioni fisiche ma in molti poi si ammalano: per il 72 per cento dei lavoratori visitati da MSF è stato formulato un sospetto diagnostico che poi nel 73 per cento dei casi è risultato in una malattia cronica: patologie osteomuscolari, associate a movimenti ripetitivi e al sollevamento di pesi (22 per cento), o malattie dermatologiche (15 per cento) frequenti in condizioni di scarsa igiene, sovraffollamento e nel lavoro in campagna, in cui si viene a contatto con agenti irritanti e infettivi, che provocano allergie. Poi ci sono le malattie respiratorie (13 per cento) e gastroenteriche (12 per cento), comuni in condizioni di sovraffollamento e di scarsa igiene. E poi carie, patologie del cavo orale, malattie infettive.

Se è vero che la legge garantisce l'accesso alle cure per tutti gli stranieri, regolari e irregolari, la maggioranza non lo sa: il 71 per cento non ha la tessera sanitaria e a distanza di due anni dall'arrivo in Italia, il 59 per cento non ha neppure quella provvisoria, la STP; e il 47 per cento degli immigrati regolari non è iscritto al servizio sanitario nazionale.

Un panorama desolante, che molti ignorano e troppi fanno finta di non vedere, denuncia MSF: dai sindaci alle forze dello stato, dalle associazioni di categoria ai ministeri, agli ispettorati del lavoro, che contribuiscono così a considerare la mostruosità come necessaria per sostenere le economie locali. "Nonostante il cambiamento del panorama politico e le reiterate promesse da parte delle istituzioni nazionali e regionali, MSF non ha potuto riscontrare cambiamenti sostanziali nelle inaccettabili condizioni degli stranieri stagionali" si legge nelle conclusioni del rapporto.

"Non solo non è cambiato nulla" ammette Virgilio. "Le cose sono addirittura peggiorate, come nel caso di Alcamo, in Sicilia, dove, dopo anni di indifferenza sono stati finalmente allestiti centri di accoglienza per gli immigrati, ma solo per quelli regolari, seguendo così una logica di ulteriore discriminazione nella discriminazione, sulla base dello status giuridico". Per MSF quello che serve sono criteri minimi di accoglienza per gli stagionali, per far fronte almeno alle emergenze primarie. Nel frattempo l'inferno continua.

 

 

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