Lo sapevate che...

 

31 ottobre

Le forze dell'ordine hanno attaccato i manifestanti a Oaxaca
I docenti chiedono aumenti salariali. E la lotta si è allargata ad altre categorie
Messico, la Polizia spara sugli insegnanti
due vittime dopo cinque mesi di proteste

Il subcomandante Marcos ha inviato un messaggio
di solidarietà ai manifestanti: "Non siete soli

<B>Messico, la Polizia spara sugli insegnanti<br>due vittime dopo cinque mesi di proteste </B>
CITTA' DEL MESSICO - E' finita con due morti, decine di feriti, 50 arresti e 36 persone sequestrate dai manifestanti, la carica della Polizia Federale preventiva (Pfp) messicana che ieri ha occupato la piazza centrale (Zocalo) di Oaxaca, capitale dell'omonimo stato per interrompere la protesta, durata più di 160 giorni, degli insegnanti messicani.

Il 22 maggio 70.000 maestri sono scesi in sciopero per chiedere aumenti salariali ma, di fronte all'intransigenza del governatore Ulises Ruiz, il movimento si è generalizzato coinvolgendo l'Assemblea del popolo di Oaxaca (Appo) che ha tenuto a lungo testa alle forze dell'ordine.

Permanendo una impasse che rischiava di paralizzare economicamente Oaxaca, il presidente uscente, Vicente Fox ha deciso di inviare reparti della polizia federale che sono entrati in azione ieri.

Per risolvere la crisi sono così intervenuti 3.800 agenti, appoggiati logisticamente da 5.000 uomini dell'esercito, che hanno rimosso, fin dal mattino, con l'appoggio di mezzi blindati ed elicotteri le barricate, scontrandosi più volte con i manifestanti. Gli insegnanti hanno risposto al blitz della polizia con azioni nonviolente, ma a tratti anche con pietre e bastoni, agli idranti e ai lacrimogeni.

L'operazione ha permesso di recuperare gli edifici pubblici occupati ed ha sospeso le trasmissioni di Radio Universidad, che per tutta la giornata era servita da coordinamento per la resistenza civile.

Dall'inizio dei disordini sono almeno 13 le persone, per lo più maestri elementari, morte per mano di cecchini paramilitari. Venerdì è caduto sotto i colpi d'arma da fuoco anche un cameraman statunitense. Secondo la Appo le ultime due vittime sono Roberto Lopez, un impiegato della previdenza sociale, e Jorge Alberto Beltran, un infermiere.

Nel momento di maggiore intensità degli scontri di ieri, il subcomandante zapatista Marcos ha inviato un messaggio di solidarietà ai manifestanti di Oaxaca: "Le strade sono bloccate dalla polizia - ha detto il leader dell'Esercito zapatista di liberazione nazionale (Ezln) parlando a Chihuahua, nel Messico settentrionale - nell'aria non volano uccelli ma aerei dell'esercito. Il popolo è circondato e sente di essere solo, ma noi diciamo che non è solo, che lo appoggiamo".

Anche il leader del Partito della rivoluzione democratica (Prd) ed ex candidato sconfitto di misura alle recenti elezioni presidenziali, Andres Manuel Lopez Obrador, si è schierato con i manifestanti della Appo sostenendo "inaccettabile e indegno" che il governo del presidente Fox continui a sostenere il governatore Ruiz, bollato di "antipopolare, sinistro e repressore".

 

A 10 anni dalla dichiarazione di Roma, che impegnava i governi
a dimezzare i sottoalimentati nel mondo le cifre sono allarmanti
La Fao ammette il fallimento
"La fame nel mondo aumenta"

L'obiettivo fissato nel 1996 è praticamente irraggiungibile
Nell'Africa sub-sahariana 40 milioni di malnutriti in più
di CRISTINA NADOTTI

<B>La Fao ammette il fallimento<br>"La fame nel mondo aumenta"</B>
ROMA - L'obiettivo di dimezzare il numero di persone che soffrono la fame entro il 2015 è lontano, sempre più lontano, praticamente irraggiungibile. Il Rapporto annuale sullo Stato di insicurezza alimentare nel mondo (Sofi), diffuso oggi dalla Fao, ammette: "In dieci anni, in pratica, non è stato fatto alcun progresso verso l'obiettivo di dimezzare il numero di sottoalimentati nel mondo". Già in occasione della "Giornata mondiale dell'alimentazione", lo scorso 16 ottobre, il direttore generale dell'organizzazione, Jacques Diouf, aveva reso note alcune cifre allarmanti, ma i risultati del Sofi mostrano come in alcune zone - tra queste l'Africa - la situazione non solo non è migliorata, ma è in peggioramento.

I dati. Al mondo ci sono 854 milioni di persone che soffrono la fame e il numero non è mai calato dal 1990-92. Fare riferimento a questa data è importante perché nel 1996 oltre 180 capi di Stato e di governo si erano riuniti a Roma per il Vertice mondiale sull'alimentazione e avevano firmato una Dichiarazione con la quale si impegnavano a dimezzare il numero degli affamati entro il 2015 e portarlo a 412 milioni. Per onorare l'impegno preso al vertice si dovrebbe ridurre il numero dei sottonutriti di 31 milioni l'anno da oggi sino al 2015, mentre il trend attuale è al contrario di un aumento al ritmo di quattro milioni l'anno.

Le ultime rilevazioni della Fao si riferiscono al periodo 2001-2003: le persone sottoalimentate sono ancora 854 milioni, tra queste 820 milioni vivono nei paesi in via di sviluppo, 25 milioni nei Paesi in transizione e nove milioni nei Paesi industrializzati. Il rapporto sottolinea che ci sono alcuni dati confortanti e riguardano i Paesi in via di sviluppo, nei quali il numero di sottoalimentati si è ridotto del 3% rispetto al 1990, e potrebbe dimezzarsi entro il 2015. Ma a fronte di queste buone notizie si evidenzia un divario sempre più ampio con i Paesi più poveri, nei quali le cifre parlano di un aumento netto della povertà. E' esemplare il caso dell'Africa sub-sahariana: la Fao stima che entro il 2015 il 30% di sottoalimentati sarà concentrato in quella regione.

Il caso africano. Nell'Africa sub-sahariana il numero di persone sottoalimentate è passato da 169 milioni nel 1990-92 a 206,2 milioni nel 2001-03. Tra le cause di questo incremento l'Aids, le guerre e le catastrofi naturali, in particolare nel Burundi, in Eritrea, in Liberia, in Sierra Leone e nella Repubblica democratica del Congo. E' proprio questo il Paese per cui si registrano le maggiori preoccupazioni della Fao poiché, a causa anche della guerra del 1998-2002, il numero di affamati è triplicato passando da 12 a 37 milioni di persone, cioè il 72% della popolazione. La Repubblica Democratica del Congo è un caso emblematico se si considera che si tratta di una delle regioni della terra con le maggiori risorse naturali. Per dirla con le parole del Sofi "ciò che manca è la volontà politica per mobilitare quelle risorse a beneficio degli affamati".

Le politiche contraddittorie. Il rapporto della Fao indica chiaramente che per ridurre il numero di sottoalimentati è fondamentale lo sviluppo rurale, almeno nei Paesi nei quali la situazione è peggiore. "Nonostante ciò i Paesi donatori hanno ridotto in modo consistente gli aiuti al settore agricolo - sottolinea Francisco Sarmento di Action Aid International, una delle organizzazioni invitate dalla Fao a discutere della revisione del piano d'azione - Nell'84 i Paesi donatori hanno versato quasi otto miliardi di dollari per il sostegno dei programmi agricoli, ma nel 2002 la cifra si è ridotta a circa tre miliardi. Inoltre i Paesi del Nord del mondo adottano tutta una serie di azioni economiche che frenano la produzione agricola dei Paesi sottosviluppati e l'esportazione dei loro prodotti. E' un po' come dire che si individua l'agricoltura come il motore principale per la ripresa dei Paesi sottosviluppati, ma poi questo motore lo si frena in tutti i modi".

Gli impegni. Il rapporto della Fao fa notare che l'obiettivo è ancora raggiungibile, ma solo se si interverrà concretamente e in modo concertato, con un'azione diretta contro la fame contemporaneamente a interventi mirati allo sviluppo agricolo e rurale. Tra le altre misure elencate dal Sofi ci sono: indirizzare i programmi e gli investimenti verso le "zone più critiche" di povertà e sottonutrizione; rafforzare la produttività a livello di piccoli produttori; creare condizioni idonee per gli investimenti privati, e questo implica tra l'altro trasparenza e buon governo; far sì che il commercio mondiale funzioni anche per i poveri, con l'istituzione di meccanismi di protezione per i gruppi più vulnerabili; un immediato incremento del livello degli Aiuti Pubblici allo Sviluppo (APS) per arrivare a raggiungere lo 0,7% del Pil, come promesso.

Che state a Fao? Da oggi fino al 4 novembre nel palazzo della Fao, a Roma, si tengono gli incontri per la revisione del piano d'azione del Vertice mondiale dell'alimentazione. All'evento partecipano i ministri di alcuni tra i Paesi più ricchi e più poveri del mondo e la Fao ha invitato organizzazioni non governative ed esponenti della società civile per discutere quali misure adottare per non fallire l'obiettivo del 2015.

Action Aid International ha lanciato in contemporanea la campagna "Che state a Fao?" per denunciare l'insufficiente impegno politico e finanziario degli ultimi dieci anni da parte dei governi e della comunità internazionale. Per informarsi sulle iniziative portate avanti dalla ong si può visitare il sito.
 

30 ottobre

La storia
Così si licenziano i dipendenti municipali
Lauro, comune pilota nelle «ristrutturazioni» del settore pubblico. Fuori i lavoratori iscritti alla Fp Cgil, dentro nuovi assunti senza concorso. E intanto mancano le strutture: gli ospiti devono sedere sui banchi dell'asilo
Francesca Pilla
Lauro (Avellino)
Sedici dipendenti pubblici da licenziare per far posto a 32 nuovi assunti senza concorso. A Lauro - comune di 3 mila abitanti alle porte di Nola ma in provincia di Avellino - si può. Protagonista la giunta comunale guidata dal sindaco Vito Bossone (Udeur), succeduto al cugino Antonio da tre anni, che ha prima deciso di portare l'organico a 80 dipendenti - un numero altissimo per un piccolo comune - quindi di mettere in mobilità quelli sgraditi, cinque di questi iscritti alla Fp-Cgil. La motivazione del provvedimento? Un eccessivo costo per la pubblica amministrazione. Anche se quelle spese sono state «autoprodotte», fuori i vecchi - tra cui il comandante dei vigili urbani, alcuni assistenti tecnici e operatori ecologici - dentro i nuovi.
Il provvedimento è stato impugnato dal sindacato che la scorsa settimana è riuscito a ottenere il reintegro dei lavoratori dal prossimo primo novembre. Ma l'amministrazione non si è data per vinta e alcuni giorni fa ha deciso unilateralmente il part time per questi impiegati. «Un'operazione illegale dato che secondo il contratto nazionale per poter applicare il part time si deve prima concordarlo con i dipendenti - spiega Luigi Mauro, della segreteria Fp-Cgil di Avellino - Si tratta di un ennesimo abuso che si aggiunge a cinque anni di violazioni di norme e regole nell'organizzazione del lavoro».
Attualmente l'ente è sull'orlo del tracollo per i troppi sprechi, da settembre i lavoratori non percepiscono lo stipendio e ieri la situazione, ormai non più sopportabile, è stata anche denunciata in un'assemblea dei lavoratori dal segretario nazionale della Fp-Cgil Mauro Breschi. Il sindaco non vuole nessun tipo di confronto a riprova anche «l'accoglienza» riservata all'assemblea: «Una sala malsana e senza sedie, con lavoratori e giornalisti costretti a sedere sui banchi dell'asilo infantile», ha raccontato Marco D'Acunto, segretario provinciale. «La pianta organica è stata gonfiata a dismisura mediante assunzioni di dubbia legittimità che hanno portato al raddoppio dei dipendenti nel giro di un anno e mezzo - continua D'Acunto - dal mese di settembre i lavoratori non solo sono senza stipendio, ma non hanno ancora avuto gli arretrati contrattuali approvati col contratto nazionale dello scorso maggio. Su queste basi si arriverà a uno scontro». E la vicenda di un piccolo paesino, a causa delle continue violazioni, potrebbe anche diventare di interesse nazionale.
I parlamentari Raffaele Aurisicchio e Tommaso Sodano nelle scorse settimane hanno già prodotto tre interrogazioni parlamentari sul «caso Lauro». Così Beschi ha rincarato la dose: «L'azione dei lavoratori del comune di Lauro - ha detto chiudendo l'assemblea - ci aiuta anche a livello nazionale per portare avanti la battaglia che conduciamo sull'importanza del ruolo del pubblico impiego e sulla necessità che esso sia organizzato e gestito sulle esigenze dei cittadini e non sul volere degli amministratori, che seppure eletti dal popolo sono tenuti al rispetto delle leggi e dei contratti».


 
 Legge sulle armi, uno solo dice no
L'assemblea generale dell'Onu ha approvato la proposta di redigere un trattato per limitare la vendita di armamenti. Con un solo voto contrario, quello di Washington, il principale esportatore di armi del mondo: 18,5 miliardi di dollari l'anno
Gabriele Carchella*
Questa volta gli Stati uniti sono proprio soli. Soli di fronte al resto del mondo, che ha deciso di mettere nero su bianco le nuove regole sul commercio delle armi. Non ci sono neanche i cugini britannici a dar man forte all'alleato d'oltreoceano: giovedì sera, quando il comitato dell'Onu ha messo ai voti la proposta di redigere un trattato sulla compravendita di armi, Londra ha risposto sì. Lo stesso i francesi, che in tema di armamenti hanno sempre fatto la voce grossa. Persino la grande Russia e il gigante cinese hanno preferito non opporsi, scegliendo la via più prudente dell'astensione. Due produttori emergenti dell'ex blocco sovietico, Ucraina e Bulgaria, hanno invece espresso parere positivo. Riassumendo: 139 sì, 26 astensioni (tra cui India e Pakistan) e un solo no. Quello degli Stati uniti. L'unilateralismo della super potenza, insomma, assomiglia sempre di più a una malattia irreversibile. Di fronte all'isolamento internazionale, Washington risponde che i trattati già in vigore sono più che sufficienti. Diverso il parere dei britannici, che salutano il voto all'Onu come un grande traguardo: «Tutti i paesi dovrebbero sostenere un trattato come questo, perché offre la speranza di un mondo più sicuro in cui i bambini non debbano aver paura di andare a scuola», ha dichiarato il ministro per lo Sviluppo internazionale di sua maestà Gareth Thomas. Le organizzazioni per i diritti umani applaudono. Per Amnesty International, si tratta di «un'opportunità storica» per redigere un trattato credibile, che metta fuorilegge i trasferimenti di armi, causa di «sistematici omicidi, stupri, torture».
Il voto del primo comitato dell'Assemblea generale dell'Onu è frutto di un lungo lavoro. Negli ultimi tre anni, la campagna «Control Arms» - promossa da Amnesty, Oxfam International e dalla Rete internazionale d'azione sulle armi leggere (Iansa) - ha raccolto un milione di adesioni in 170 paesi. Nella lista dei sostenitori spiccano i nomi di 15 premi Nobel per la pace, tra cui l'arcivescovo sudafricano Desmond Tutu e il Dalai Lama. «Questa decisione deve tradursi in un trattato forte, basato sugli impegni di diritto internazionale assunti dagli stati», ha detto Rebecca Peters, direttrice di Iansa.
Ma perché i trattati in vigore non sono efficaci? La globalizzazione ha reso i controlli attuali inadeguati, spiegano i promotori di «Control Arms». Per le grandi industrie di armamenti, infatti, è semplice sfuggire ai controlli. Se in un paese le regole sono rigide, basta trasferire i centri di produzione dove le leggi sono più permissive. Il voto all'Onu, comunque, è solo un primo passo. Il segretario generale dell'Onu (dal primo gennaio Ban Ki-Moon) ha un anno di tempo per ascoltare i pareri di tutti gli stati membri delle Nazioni unite. Terminate le consultazioni, riferirà alla fine del 2007 all'Assemblea generale. La parola passerà poi a un gruppo di esperti governativi, che a sua volta sarà ascoltato dall'Assemblea nel 2008. Insomma, prima di vedere la bozza del trattato ci vorranno anni. Proprio per questo colpisce il voto contrario degli Usa, che hanno detto no prima ancora di conoscere i principi guida del possibile trattato. In America latina e Africa, al contrario, l'idea ha suscitato molto interesse. Soprattutto tra i paesi che hanno sofferto gli effetti del traffico incontrollato di armi, come Colombia, Haiti, Liberia e Rwanda.
L'idea piace meno all'industria bellica, per la quale ogni anno si spendono nel mondo più di mille miliardi di dollari. Al primo posto tra i paesi esportatori ci sono gli Stati uniti. Secondo le stime del londinese Institute for Strategic Studies, nel 2004 gli Usa hanno esportato armi per un valore di 18,5 miliardi di dollari Seguono molto distanziate Russia (4,6 miliardi), Francia (4,4), Regno unito (1,9) e Germania (0,9). Nella classifica degli acquirenti, considerando solo i paesi in via di sviluppo, il primo posto spetta agli Emirati arabi uniti (3,6 miliardi di dollari spesi nel 2004), seguiti da Arabia saudita (3,2 miliardi), Cina (2,7) e India (1,7). Di sicuro non sarà facile mettere tutti d'accordo su un trattato internazionale. Oltre al no degli Usa, pesano le astensioni di Russia e Cina, che faranno di tutto per evitare danni alle loro industrie belliche.

Interrogatori «robusti»? Sì, se permettono di ottenere informazioni. Parola di vicepresidente


Usa, torturare un po' va bene
In un'intervista messa sul sito della Casa Bianca il vice di Bush, Dick Cheney, assolve il «water-boarding», che consiste nel legare un detenuto a una tavola e portarlo quasi all'annegamento: «Se serve a salvare vite umane è sciocco perfino parlarne»
Franco Pantarelli
New York
Dick Cheney, il vice di George Bush, parla poco ma quando apre bocca colpisce duro. Nell'ultima sua uscita, in un'intervista radiofonica dell'altro ieri, ha detto che il «waterboarding» - cioè il trattamento che fa sentire quelli che vi vengono sottoposti sull'orlo di annegare - va benissimo e non costituisce tortura. Anzi, se deve servire a salvare vite umane è un «no-brainer», cioè una cosa ovvia che non costituisce neanche un grattacapo. Si fa e basta.
Immediata reazione delle associazioni per la difesa dei diritti umani e domande a ripetizione, durante il briefing quotidiano della Casa bianca, al portavoce ufficiale Tony Snow, che naturalmente ha negato tutto. Il vice presidnte, ha detto Snow, «non parla del waterboarding. Non lo farebbe mai, non lo fa mai e mai lo farà». Ma il testo dell'intervista, che è stato posto perfino nel sito ufficiale della Casa bianca, dice esattamente il contrario. L'intervistatore Scott Hennen, «stella» di una radio del Minnesota (una delle tante di di cui la destra dispone, le sole con cui parla Dick Cheney) gli chiede se non sia d'accordo nel considerare il gran discutere sul waterboarding, diventato una sorta di simbolo, non sia per l'appunto una schiocchezza e lui risposnde tranquillamente: «Sono d'accordo», anche se poi - come al solito infischiadosene della logica - ribadisce che «noi non torturiamo, noi rispettiamo gli impegni che ci vengono dai trattati internazionali e dalle nostre stesse leggi».
Il riferimento è ovviamente alla Convenzione di Ginevra e alla nuova legge sulle «commissioni militari», cioè quella che conferisce al presidente il potere di decidere a suo insindacabile giudizio di stabilire cosa è permesso dalla Convenzione di Ginevra e cosa no. Fra le varie nefandezze di quella legge c'è anche quella di consentire che - quando i detenuti di Guantanamo e quelli finora tenuti nelle prigioni segrete della Cia compariranno di fronte alle commissioni militari per il processo - a loro carico potranno anche essere presentate testimonianze ottenute con «trattamenti coercitivi». Dove passa il confine fra tortura e trattamenti coercitivi?. I giornalisti hanno preso a chiederlo a qualunque membro dell'amministrazione che capitasse loro a tiro, ma nessuno rispondeva. Hanno cambiato tattica, chiedendo esplicitamente se fra i trattamenti coercitivi consentiti ci fosse anche il waterboarding, ma ugualmente nessuno rispondeva.
Ora la risposta l'ha data Cheney, spiegando tranquillamente che, sì, quella tecnica si può usare. Il waterboarding consiste nello stendere il detenuto su una tavola inclinata in modo che la sua testa sia più in basso dei piedi, nel coprirgli il viso con un foglio di plastica e nel gettarvi acqua sopra. Il risultato è che il poveraccio sente che sta per annegare e si dichiara pronto a dire tutto ciò che da lui si vuole sapere. Cheney ha fatto il nome di almeno un detenuto che è stato sottoposto a quel trattamento - il famoso Khaled Sheikh Mohammed, considerato il cervello dell'attacco contro le Torri Gemelle - per dire che lui ha fornito «informazioni di enorme valore sul numero dei militanti di Al Qaeda, su come loro preparano i loro piani, su come funzionano i loro addestramenti e così via». A quel punto l'intervistatore, mostrandosi molto impressionato da quella spiegazione che «ci fa sentire più sicuri», chiede a Cheney se non sia d'accordo che il dibattito sul waterboarding non sia «un po' sciocco» e il vicepresidente si dice «del tutto d'accordo».
Del resto lo scopo dell'intervista era di far rientrare la «paura del terrorismo» nel dibattito elettorale, ormai completamente monopolizzata dal disastro iracheno e quindi molto pericoloso per le fortune del partito repubblicano. Se davvero Cheney e la sua «spalla» Scott Hennen siano riusciti nell'impresa è dubbio. Di sicuro il vice presidente è riuscito a riaffermare la sua figura come la più sinistra - ma in qualche modo la più schietta - di questa amministrazione. Ma c'è una cosa che va ricordata, e cioè che il dibattito e le decisioni prese sulla pratica della tortura non era centrato sull'elemento «salvare vite umane», che sembra fatto apposta per evocare una situazione in cui si sa che sta per scattare un'azione terroristica ma non si sa esattamente cosa verrà colpito, dove e quando e l'unico modo per saperlo e quindi salvare vite umane è torturare chi «si è sicuri che lo sa», tipo uno di quelli impegnati nell'azione. No, la legge che consente la tortura Bush l'ha voluta per «sanare» la situazione che si è venuta a creare con i detenuti di Guantanamo e altrove, che - stante che le vecchie leggi che non consentivano la tortura - non si potevano processare perché sarebbero stati tutti assolti. Non potendo confessare di aver portato nella prigione di Cuba gente che in gran parte col terrorismo non c'entra nulla (il 90 per cento di quei detenuti non sono stati catturati dai soldati americani ma consegnati da gente che cercava solo le loro laute ricompense), Bush ha voluto una legge ad hoc che consentisse di processarli e condannarli usando le confessioni estorte con la tortura, in modo che tutto alla fine il processo appaia legittimo. I parlamentari repubblicani gli hanno fato questo regalo e dovrebbe bastare questo a indurre gli elettori del prossimno 7 novemnbre a ripudiarli. Ma è più probabile che siano sconfitti per la guerra in Iraq. Per ora, la bruttura di Bush che il pubblico americano ha individuato è solo questa.

Duemila euro di tasse in più Tanto ci costano gli evasori
La ricerca di Fiscooggi quantifica in 250 miliardi di euro il Pil che sfugge alle rilevazioni tributarie
Michele Simeone
Dopo tante chiacchiere, volete sapere quanti soldi gli evasori sottraggono ogni anno dal vostro portafoglio? Ben 2 mila euro, che ogni abitante di questa nazione versa in più per non «dare disturbo» a quelle persone che di pagare le tasse proprio non ne vogliono sapere. Nel complesso la stratosferica cifra sottratta alla contabilità nazionale ammonta a 250 miliardi di euro annui, il 7% del Pil nazionale. Il dato è stato fornito da un'inchiesta della rivista telematica dell'Agenzia delle Entrate, FISCOoggi. La cifra è il reddito totale ignoto al fisco. Nelle casse dello stato dovrebbe andare il 40% di quei 250 miliardi di euro, per un importo che si aggira intorno a 100 miliardi, 2 finanziarie attuali e mezzo. «La cifra stimata», si sottolinea, « è una via di mezzo» tra le varie stime che sono state registrare negli ultimi anni. Nel 2004 il Censis, valutò in 200 miliardi di euro «l'imponibile del sommerso che riguardava il lavoro nero». Un dato che comprendeva solo una parte dell'evasione fiscale. La Banca mondiale, di recente, «ha stimato che l'imponibile sconosciuto al fisco» nel nostro bel paese «si avvicina ai 300 miliardi di euro». FISCOoggi ricorda che a questi numeri «occorre aggiungere le pratiche evasive ed elusive di chi conduce una regolare attività». La rivista dell'Agenzia delle Entrate riporta anche i dati della «nazione modello» per antonomasia del capitalismo, gli Stati uniti d'America, dove l'«Internal Revenue Service» (l'agenzia delle entrate americana) stima in 345 miliardi di dollari la differenza media annua tra le entrate tributarie attese e il gettito effettivo delle imposte federali». Una cifra che, trasformata in euro, si aggira verso i 270 miliardi, simile all'imponibile evaso in Italia. Ma i conti non tornano, perché in America la popolazione è di 300 milioni e in Italia di quasi 60 milioni; senza contare il fatto che la differenza tra le due economie va ben al di là della semplice differenza di popolazione. Inoltre, mentre in Italia vantarsi di «non voler pagare le tasse» è quasi diventato uno sport nazionale, «88 cittadini americani su 100 considerano inaccettabile la pratica di non pagarle». E giustamente FISCOoggi registra anche questo. In paesi come la Gran Bretagna è entrato in funzione il sistema del «Tax Robot» uno strumento avanzato che « individua, filtra e seleziona» i siti web che alimentano il business dell'e-commerce e che vengono utilizzati per evadere l'Iva. In questo modo il sistema fiscale inglese è riuscito a recuperare - nel 2005 - ben 1,5 miliardi di euro. Se proprio piace tanto far riferimento all'America e alla Gran Bretagna per il «libero mercato», sarebbe coerente che i nostri neoliberisti li prendessero ad esempio anche per la loro capacità di scoprire gli evasori e stangarli.

 


Reesom, le torture non bastano
per ottenere l'asilo politico

I pigri cliché della comunicazione sono più forti dei principi della Costituzione. Così, testardi come muli e ciechi come pipistrelli, innumerevoli giornali e televisioni continuano a definire in blocco "clandestini" gli immigrati che arrivano in Italia via mare. L'ultimo comma dell'articolo 10 della nostra carta fondamentale ("lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge") sembra essere stato abrogato dalle antenne e dalle rotative. Eppure sono ormai anni che associazioni umanitarie, singoli volenterosi, docenti di diritto e anche qualche maestro elementare (perché il concetto è alla portata di un bambino) spiegano che circa la metà del carico umano delle "carrette del mare" è costituito da persone che si trovano proprio nelle condizioni descritte dall'articolo 10. Definirli a priori "clandestini" è come chiamare "hooligans" tutti quelli che vanno allo stadio.

Ma va detto che i mezzi di comunicazione di massa non sono gli unici responsabili di questa quotidiana manifestazione di analfabetismo civile. A consolidare l'errore contribuiscono in modo determinante le modalità di attuazione del principio del diritto d'asilo. Il caso dell'eritreo Reesom ne è un esempio da manuale.

Bisogna sapere che esiste una via di mezzo tra la decisione di accordare l'asilo politico e quella di negarlo. Questa via di mezzo ha un nome soave: "protezione umanitaria". In pratica, se si ritiene che il richiedente non abbia subito una vera e propria "persecuzione individuale" ma che, comunque, sia impossibilitato a rientrare nel suo paese di origine, gli si dà questa protezione che si traduce in un permesso di soggiorno valido per un anno. Mentre chi ha avuto l'asilo può, per esempio, fare il ricongiungimento familiare, il titolare della protezione umanitaria vive in una specie di limbo, con l'incubo che, scaduto l'anno, lo stato ospitante decida di espellerlo.

Reesom vive questo incubo da fine settembre. Per convincere la commissione territoriale che era rimasto vittima di una "persecuzione individuale" non sono stati sufficienti i segni delle torture subite nel carcere eritreo da dove è entrato e uscito per anni, accusato di essere un oppositore politico, prima come studente universitario che organizzava manifestazioni contro il regime, poi come militare obbligato a un servizio di leva di cui non si conosce la fine. Non è bastato che dimostrasse d'essere un membro del partito di opposizione al regime, né il fatto che il suo fratello minore (altra pratica diffusa in Eritrea) sia stato arrestato per ritorsione alla sua fuga. Reesom, per agevolare i suoi esaminatori, aveva preparato un appunto dove illustrava nei dettagli le persecuzioni subite. Ma nel verbale della commissione per la concessione dell'asilo, compare solo metà del racconto. L'altra metà è rimasta nel notes di Reesom. Gli esaminatori non hanno ritenuto necessario ascoltarla. Ma hanno stabilito che le persecuzioni non potevano essere considerate "individuali" (evidentemente i segni di tortura erano stati provocati dall'aria di Asmara) e gli hanno accordato la "protezione umanitaria".

Se l'ovvio ricorso non sarà accolto, se ne riparlerà tra un anno. Non è escluso che qualche funzionario di polizia decida che Reesom può tornare a casa, gli neghi il rinnovo del permesso di soggiorno e lo trasformi in un vero e proprio "clandestino". O, in alternativa, se sarà espulso e riconsegnato ai suoi carnefici, in un cadavere

 

Non toccate le bambine

di Fabrizio Gatti
Sono minorenni. Arrivano dall'Europa dell'Est o dall'Africa. Ridotte in schiavitù e costrette a vendersi. Non possono essere espulse. E l'Italia diventa il loro inferno
 
Quanto vale una ragazza di 18 anni o forse meno? L'offerta è stata buttata lì qualche sera fa, nel dopocena sul tavolo di una pizzeria alle porte di Torino. "Se hai 15 mila euro, diventa tua. Pagamento in tre mesi". Pochi minuti per decidere, tra il caffè e un bicchiere di grappa: "Guardala, è un affare. Te la porti a vivere con te...". Alla fine il ricatto: "Se non trova 15 mila euro in tre mesi, dovrà pagarne 50 mila all'organizzazione che l'ha fatta arrivare in Italia. E sai cosa vuol dire? Che se non l'aiuti, la manderanno a battere sulla strada". Paolo G., 41 anni, single, non si aspettava di concludere la serata con un profondo senso di colpa. Una risposta la doveva pur dare a quell'amico di mezza età che l'aveva invitato a cena. L'amico è un imprenditore piemontese con l'azienda che va così così e la testa piena di Viagra: dopo aver lanciato la proposta, ha aspettato seduto tra la nuova moglie nigeriana di vent'anni più giovane e la teenager in vendita, sorella di lei. "Gli ho risposto che avrei immediatamente portato la ragazza alla comunità del Gruppo Abele", racconta Paolo G., "ma lui, che bazzica le chiese pentecostali, mi ha fatto un discorso sul valore del debito e della promessa data. Insomma, dopo il mio rifiuto avrà provato a vendere sua cognata a qualcun altro in cerca di moglie. Oppure l'avrà mandata sulla strada. Se no, come trova quei soldi?".

Nell'Italia marchettara dove tutto si può comprare, anche la prostituzione si è inventata nuove strade. Compreso il fai-da-te di famiglia. Non importa se il contratto è per la vita o per dieci minuti sul sedile ribaltabile di una macchina. Cambia solo il costo. Eravamo il Paese dei latin lover. Siamo un popolo di clienti. Così le bande di trafficanti si adeguano. La domanda di sesso a pagamento aumenta? Loro procurano l'offerta. Con ragazze sempre più giovani. Fino alle baby-squillo, insulto un po' cinematografico per indicare ragazzine strappate dai banchi di scuola e mandate in tanga e canottiera a vendersi sui viali. Alla periferia di Roma le fanno dormire nelle grotte. La via Salaria è un postribolo di minorenni al chiaro dei lampioni e spesso anche alla luce del pomeriggio. Lo stesso, dopo le 11 di sera, diventa via Cristoforo Colombo, l'arteria che porta al mare e all'aeroporto di Fiumicino. A Milano non occorre uscire dalla città: ragazze europee e africane sono tornate a occupare piazzale Loreto, viale Abruzzi, la Circonvallazione fin dentro i quartieri semicentrali come i Navigli e il parco Ravizza. Dalle parti di Perugia hanno scoperto una gang di moldavi che legava le adolescenti alle pareti di una stalla abbandonata. Ma la distribuzione di ragazze è capillare su tutta la Penisola. Raggiunge le campagne sperdute, perché lì la domanda dei clienti su camion e trattori è altrettanto forte. Come lungo la statale 16, tra Foggia e San Severo, dove non esistono altro che campi di pomodoro e vigne. La notte le nigeriane bruciano i copertoni per farsi vedere, di giorno vanno a dormire nell'ex zuccherificio a Rignano Garganico. Oppure la statale Adriatica da Rimini a San Benedetto del Tronto. E ancora Bari, Catania, Cremona, Prato, Aosta, Treviso. Al di fuori dei confini dell'Unione europea il mondo è pieno di famiglie ridotte alla fame. I trafficanti non fanno altro che portare le figlie di quelle famiglie là dove clienti ricchi possono mantenere loro e i loro sfruttatori.

Nessuno conosce quante siano le prostitute in Italia. C'è soltanto una stima: tra 50 mila e 70 mila persone e non tutte sottoposte a un controllo violento. Il giro d'affari è mostruoso: ipotizzando un guadagno a testa di 2 mila euro a settimana, fa un incasso settimanale di 140 milioni di euro. Ma secondo Transcrime, l'osservatorio dell'Università di Trento, in quel totale il numero delle donne prigioniere del traffico di esseri umani e dello sfruttamento sessuale è in continua crescita. Le statistiche danno un minimo annuale di vittime (che a volte può coincidere con l'inverno) e un massimo (l'estate): dalla stima di 17.550-35.500 ragazze nel 2001 si passa a 19.710-39.420 nel 2004. Un altro istituto di ricerca e assistenza, il Parsec di Roma, fornisce cifre più caute. Ma comunque spaventose: quasi 23 mila donne sfruttate. E non c'è solo la prostituzione di strada. Perché la forma più temuta dalle ragazze resta quella invisibile tra le mura di night-club e appartamenti. In confronto all'Europa, l'Italia ha il record: le donne 'vittime della tratta a scopo di sfruttamento sessuale' sono 115 ogni 100 mila abitanti maschi con più di 15 anni. Al secondo posto l'Austria con 84 vittime. L'Olanda è ferma a 76. La Spagna a 54. La Germania a 45. La Francia a 27.

Al ministero dell'Interno, un ufficio sta analizzando i dati per indirizzare le strategie. "L'arrivo di minorenni prima di tutto: purtroppo è un effetto indotto involontariamente da noi", ammette un ricercatore della polizia: "Gli organismi investigativi negli ultimi anni hanno snobbato le indagini sullo sfruttamento. Per contrastare il fenomeno le questure hanno scelto la via più veloce dei rimpatri. Come azione preventiva sono state espulse le donne. Questo ha fatto crescere l'arrivo di minorenni: perché i minori non possono essere espulsi. Le organizzazioni hanno poi cambiato politica. Ora alle ragazze lasciano anche il 30 o il 50 per cento dell'incasso. Ed evitano di sottoporle a violenze, rapimenti e stupri. Così le ragazze non scappano, non denunciano e hanno più incentivi a rimanere nel giro. L'altro aspetto nuovo è la mobilità delle prostitute. Le fanno spostare in continuazione: una settimana sulla Salaria, poi sulla Domiziana, poi le ritrovi sulla Romea. Lo spostamento impedisce eventuali legami affettivi con i clienti. Ma questo nasconde un dato preoccupante che dobbiamo approfondire: l'esistenza di una rete comune di contatti tra le squadre di sfruttatori. Che sulla strada sono quasi sempre romeni o albanesi".

Treviso è una città molto severa con gli stranieri. Grazie a Giancarlo Gentilini, vicesindaco della Lega, sono state perfino tolte le panchine nei parchi. Così gli immigrati non si possono sedere. Ma dopo le 22, lungo le vie intorno alla città, con le immigrate gli abitanti della provincia possono fare di tutto. Dalla strada del Terraglio alla Pontebbana. Due ragazze ogni 50-100 metri. Trenta euro per dieci minuti le europee, 20 le africane. Gentilini, quando era sindaco rottweiler e difensore della razza Piave, le aveva protette: "Sono contro gli immigrati", aveva detto, "ma non contro le prostitute straniere. Che volete? Le prostitute sono le navi scuola dei giovani". Anche le forze dell'ordine locali hanno i loro benefici. Quando non sanno come aumentare la statistica di espulsioni e arresti, pure loro prendono di mira le prostitute: c'è sempre qualche ragazza clandestina da rimpatriare o da sbattere in carcere per non aver rispettato la Bossi-Fini.

Giulia, moldava, ex atleta della Nazionale giovanile di pallamano, si offre a ragazzi, single e mariti della provincia di Treviso e Venezia. Da quasi due anni si prostituisce sulla strada del Terraglio. Di solito davanti al comando della polizia municipale di Mogliano Veneto. Quando la sera chiudono gli uffici, arriva lei. L'insegna blu e bianca le dà sicurezza. Giulia ha quell'età indefinita acqua e sapone, tra i 16 e i 18 anni. Se vigili, poliziotti o carabinieri le chiedono quanti anni ha, lei è pronta a rispondere 17: per evitare il rimpatrio. Se invece a domandarle l'età sono clienti preoccupati di finire in galera, dice 19. Così le hanno insegnato i protettori. Quando ha lasciato la Moldavia, sapeva cosa avrebbe fatto in Italia? "Sì, l'ho scelto io", risponde. Ha mai avuto ripensamenti? "Sicuro che non mi piace. Ogni cliente potrebbe essere quello che mi violenta o mi ammazza. Ma io sono moldava: o fai questo o fai la fame". Che immagine ha degli italiani? "Un corpo addosso con le braghe abbassate e il portafoglio in mano". Il portafoglio in mano? "Sì, la gente di qui è molto legata ai soldi. Tengono il portafoglio in mano anche quando fanno sesso. Hanno paura che glielo freghi".

Se passeranno le proposte proibizioniste presentate in Parlamento, le ragazze come Giulia finiranno in carcere. La logica è piuttosto singolare: è come se nella lotta al contrabbando, lo Stato invece di prendere i contrabbandieri avesse arrestato le stecche di sigarette. È la tipica morale italica: si sfrutti pure, ma non si deve vedere. L'esempio più famoso è quel consigliere comunale del centrodestra a Milano. Ha conquistato i voti dei comitati di quartiere scatenando violente campagne, retate ed espulsioni contro le prostitute straniere: una notte la polizia l'ha pizzicato in macchina con un travestito.

Ma come si potrebbe identificare il reato di prostituzione? Nell'atto sessuale? Nel pagamento? Nella lunghezza della minigonna? La questione preoccupa sociologi e consulenti dei Comuni più sensibili. "Un provvedimento del genere", osserva Lorenza Maluccelli, ricercatrice dell'Università di Ferrara e autrice di saggi, "spingerebbe le ragazze in circuiti ancor meno visibili e più pericolosi. Quante sono le donne violentate nel silenzio? Quelle uccise? Eppure non c'è indignazione perché, per la cultura morale, se sono prostitute se la sono cercata. Gli uomini invece dovrebbero cominciare a interrogarsi sulla loro sessualità. Si dice che in Italia ci siano 9 milioni di clienti. C'è una segregazione mondiale del lavoro delle donne. Dai Paesi più poveri l'Italia prende prostitute e badanti. Due forme di servizi alla persona. E non è un caso che in tutti e due i settori lo sfruttamento di immigrate e clandestine sia largamente diffuso". A volte le prostitute hanno un lavoro regolare proprio come badanti. "Ma quando la questura lo scopre", denuncia Alessandra Ballerini, avvocato della Cgil a Genova, "il permesso di soggiorno può essere negato. Anche se la prostituzione non è vietata dalla legge".

Un progetto riuscito di mediazione tra le proteste degli abitanti e l'andirivieni di clienti l'ha inventato il Comune di Mestre. Qui le prostitute sono state invitate a trasferirsi in 'zone informali' meno abitate. Il potenziamento dell'illuminazione stradale, l'assistenza di unità di strada e la sorveglianza discreta dei vigili urbani ha convinto ragazze e travestiti a spostarsi nelle aree indicate. "L'approccio è pragmatico, puntiamo alla riduzione del danno", spiega il coordinatore, Claudio Donadel: "E ha sicuramente portato a una migliore convivenza e a un forte contrasto delle reti criminali. Dal '99, 172 ragazze sono uscite dallo sfruttamento e più di 680 persone sono state arrestate e condannate. Ora il progetto sarà esteso al Veneto. Partecipano tutti. Tranne, ovviamente, Treviso. E Belluno, dove la prostituzione è meno visibile".

Dal Veneto al Piemonte si muovono i trafficanti della mafia nigeriana. Uno di loro è famoso a Torino come pastore pentecostale. E a Verona, in un bar di Veronetta dove lavora, come basista del racket. Fa parte della rete che costringe migliaia di ragazze africane a saldare il prezzo della loro schiavitù, vendendosi sulle strade. Alcuni pastori nigeriani hanno un ruolo fondamentale. Spesso hanno di fronte giovani spaventate e analfabete. E durante le prediche le minacciano con le peggiori pene dell'inferno se non onorano il debito con l'organizzazione. A volte gli avvertimenti si trasformano in aggressioni ai familiari in Nigeria. Così l'unica via d'uscita dallo sfruttamento è l'aiuto dei clienti. "Il 90 per cento delle ragazze nigeriane", spiega Claudio Magnabosco, fondatore del progetto La ragazza di Benin City, "esce dalla tratta accompagnato da un uomo, cliente o ex cliente che è diventato amico, fidanzato o marito". Il progetto punta alla sensibilizzazione dei 'consumatori': "I clienti, se informati, possono diventare una risorsa. Vogliono multarli? Facciano pure, ma chi aiuterà le ragazze segregate?". Una delle vittime della tratta, Isoke Aikpitanyi, è oggi moglie di Claudio Magnabosco: "Per uscire", racconta Isoke, "basterebbe darci una opportunità, un permesso di soggiorno anche breve, sei mesi, per cercare un lavoro vero. In cambio dei documenti, invece, le autorità pretendono che denunci qualcuno. Dobbiamo far sapere quello che succede. Le 200 nigeriane assassinate in Italia. Le stuprate. Le madri alle quali le maman prendono i figli per ricattarle. I black boy che spacciano droga. Le famiglie che spingono le figlie minorenni a venire in Europa. La corruzione che favorisce i trafficanti. Le mutilazioni sessuali, il debito da pagare che non finisce mai, i pastori cristiani che collaborano con il racket, le ragazze che muoiono attraversando il deserto. Questa è la tratta. Davvero pensate che il problema sia la prostituzione?".

 

Dopo l'accordo tra governo e parti sociali, 6 mesi per scegliere
dall'inizio del 2007. Un vademecum per capire cosa conviene fare
 

Fondi pensione o vecchie liquidazioni
che fine farà il Tfr degli italiani

Obiettivo: recuperare almeno una parte del pesante gap futuro
tra attuale stipendio e pensione. I diversi rendimenti a confronto
di ROSARIA AMATO

<B>Fondi pensione o vecchie liquidazioni<br>che fine farà il Tfr degli italiani</B>
La firma dell'intesa governo-parti sociali sul Tfr

ROMA - Tfr o fondi pensione? L'idea di "trasformare" in una rendita vitalizia la liquidazione (trattamento di fine rapporto), che per decenni è stata il coronamento di una vita di lavoro, il modo per offrirsi un lusso e comunque per "stare tranquilli", per acquistare una casa o comprarla ai propri figli, ha spiazzato molti lavoratori, che adesso devono fare i conti nel giro di pochi mesi, e scegliere.

Con l'accordo tra governo e parti sociali siglato, dopo molte polemiche il 23 ottobre, si è anticipata di un anno la riforma Maroni che prevede l'opzione tra il mantenimento del regime attuale del Tfr (non senza alcune importanti modifiche) e il conferimento della liquidazione ai fondi pensione. Nelle ultime settimane si è parlato molto della destinazione delle liquidazioni (aziende, Inps, fondi) ma, forse, non abbastanza di quanto e come tutto questo inciderà nelle tasche dei lavoratori. Vediamo.

Sei mesi per decidere. Dall'1 gennaio 2007 decorre il termine dei sei mesi entro i quali tutti i lavoratori dipendenti dovranno scegliere (col meccanismo del silenzio-assenso) se destinare la parte futura di Tfr ai fondi pensione. Nel caso in cui il dipendente di un'azienda superiore ai 50 dipendenti non scelga i fondi, il Tfr "inoptato" andrà al fondo della Tesoreria istituito presso l'Inps. Rimarrà, invece al datore di lavoro nelle aziende sotto i 50 dipendenti. Ciò significa che, date le prevalenti dimensioni modeste delle imprese italiane, il 99,5% delle aziende non dovrà trasferire nulla all'Inps. La scelta è reversibile: in che misura e con quali modalità dovrà però stabilirlo un successivo decreto.
Necessario integrare la pensione. La scelta, diretta o indiretta, ha naturalmente delle conseguenze serie sui lavoratori. L'anticipo della riforma Maroni, la cui entrata in vigore era stata fissata al 1° gennaio 2008, è stato determinato soprattutto dall'intento di dare ai lavoratori la possibilità di costruirsi un'entrata da affiancare alla pensione. Per effetto delle ultime riforme, infatti, e il graduale passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo, la previdenza degli italiani sarà sempre meno consistente.

Un "buco" pensionistico dai 45 anni in giù. "Secondo i nostri calcoli - spiega la professoressa Agar Brugiavini, ordinario di Economia all'Università Ca' Foscari di Venezia e redattore del sito Lavoce.info - se nei prossimi dieci anni ci saranno ancora tassi di rimpiazzo (il tasso di rimpiazzo è il rapporto tra la prima pensione e l'ultimo stipendio, ndr) tra il 60 e il 70 per cento, già per la generazione successiva, quella che adesso ha tra i 40 e i 45 anni, si troverà con tassi di rimpiazzo al 30-40 per cento. L'unica via per coprire questo buco pensionistico è garantire, specialmente ai giovani, rendimenti più elevati all'accantonamento ora versato al trattamento di fine rapporto".

Rendimenti: confronto tra Tfr e fondi pensione. Attualmente il tasso di rivalutazione del Tfr è fissato dall'articolo 2120 del codice civile, e si ottiene sommando il 75% dell'aumento del costo della vita per gli operai e gli impiegati (Istat) nel mese in esame rispetto al mese di dicembre dell'anno precedente, a un tasso fisso pari all'1,5% su base annua.
 
<B>Fondi pensione o vecchie liquidazioni<br>che fine farà il Tfr degli italiani</B>
Cesare Damiano, ministro del lavoro

L'anno scorso il rendimento del Tfr (calcolato nel modo appena detto) è stato solo del 2,6%. I fondi pensione di nuova istituzione sono andati molto meglio con un rendimento dell'8,5%. Quest'anno le cose però stanno andando diversamente: "Nei primi nove mesi del 2006 - ha detto il presidente della Covip (l'organismo di vigilanza sui fondi pensione, ndr) Luigi Scimia a un recente convegno bancario - il rendimento generale netto stimato dei fondi pensione di nuova istitutizione, pari al 2,4%, è stato leggermente superiore alla rivalutazione netta del Tfr che, nello stesso periodo, si è attestata a poco più del 2%. I fondi pensione negoziali (aziendali, ndr) hanno conseguito un rendimento medio del 2,5% mentre il rendimento medio dei fondi pensione aperti (quelli privati offerti dalle compagnie assicurative, ndr) è stato del 2,1%".

Rendimenti, una simulazione 'retrospettiva'. Tuttavia il rendimento medio dei fondi pensione, spiegano gli economisti, non va valutato e raffrontato al Tfr anno per anno, ma su periodi lunghi. In Italia l'istituzione e il decollo dei fondi pensione sono piuttosto recenti, tuttavia la Covip ha effettuato una simulazione 'retrospettiva', calcolando "il rendimento teorico che i fondi pensione avrebbero conseguito in periodi passati sulla base di una composizione media di portafoglio tipicamente prudenziale, con una percentuale di investimento azionario dell'ordine del 25-30%". E' risultato che tra il maggio 1982 e la fine del 2005 "il rendimento reale annuo composto dei fondi pensione, pari a circa il 5%, avrebbe abbondantemente superato il tasso annuo di rivalutazione reale del Tfr, pari allo 0,2%".

I pro e i contro/1. A questo punto la scelta sembrerebbe praticamente obbligata. Perchè lasciare il Tfr all'Inps o al datore di lavoro quando si può ottenere un rendimento ben più cospicuo dai fondi pensione? Per scegliere però bisogna tenere conto anche di altri fattori. "Resta confermato che i lavoratori conservano tutti i diritti previsti da leggi e accordi collettivi in materia di rivalutazione, liquidazione e anticipazione del Tfr", si legge nell'accordo sottoscritto il 23 tra governo e parti sociali. Il che significa che i lavoratori avranno comunque diritto a ottenere un anticipo del Tfr alle stesse condizioni attuali (per esempio per l'acquisto della prima casa nella misura del 75% purchè si sia dipendenti da almeno otto anni, per esempio). Però le cose non stanno esattamente così.

I pro e i contro/2. "Chi sceglie un fondo pensione è vincolato per un certo numero di anni, di solito cinque o sei", ricorda Agar Brugiavini. E questo incide sulla possibilità di chiedere anticipi. C'è anche poi una differenza rispetto alla possibilità di avere parte del Tfr nel corso della propria vita lavorativa in seguito a interruzione del rapporto di lavoro. Infatti alla fine di un contratto a termine, o quando un rapporto di lavoro si interrompe, il lavoratore ha sempre ricevuto finora la parte di Tfr corrispondente al periodo di lavoro effettuato. Sarà così anche in futuro per i lavoratori che lasceranno il Tfr in azienda o lo destineranno all'Inps. "Per chi ha optato per i fondi pensione invece le possibilità sono due - spiega Giovanni Pollastrini, consigliere del ministro del Lavoro - nel caso in cui una persona cambi lavoro, potrà chiedere il trasferimento del Tfr nel fondo negoziale che fa capo alla nuova azienda. Nel caso in cui perda il lavoro, e rimanga disoccupato o in cassa integrazione, il lavoratore deve aspettare 12 mesi per riscattare il 50% del Tfr dal fondo presso il quale lo aveva collocato. Per ottenere il rimanente 50% bisogna aspettare che passino 48 mesi durante i quali permanga la situazione di disoccupazione".

I pro e i contro/3. Naturalmente le conseguenze della scelta tra Inps e fondo pensione pesano anche arrivati alla fine della carriera lavorativa. Infatti chi ha effettuato la prima scelta si vedrà consegnare un certo ammontare di liquidità, rivalutato secondo la paramentrazione stabilita dalla legge. Gli altri potranno optare tra una rendita che venga calcolata sull'intera cifra, oppure sulla metà del Tfr rivalutato secondo i rendimenti del fondo, e chiedere la liquidazione del rimanente 50% in contanti. La rendita dei fondi pensione è tendenzialmente vitalizia, ma in qualche caso può essere reversibile. "La reversibilità ha però un prezzo, e incide sul calcolo della rata corrisposta", ricorda il consulente della Uil Giuseppe De Nardo.

Fondi chiusi e fondi aperti. Quanto alla scelta tra fondi chiusi e fondi aperti, che al momento non è possibile (possono optare per i fondi solo coloro rispetto ai quali è stato attivato un fondo negoziale di categoria), anche questa presenta pro e contro. I sindacati caldeggiano i fondi negoziali, ritenendo che offrano più garanzie: "Sono controllati da un'assemblea dei delegati - ricorda De Nardo - c'è un collegio sindacale, mentre i fondi aperti hanno semplicemente un responsabile". Inoltre al momento è previsto un contributo del datore di lavoro solo per i fondi aziendali, non per quelli aperti (anche se in futuro dovrebbe esserci un'equiparazione anche sotto questo profilo). Al momento inoltre i fondi aperti sono più costosi, anche per quanto riguarda la gestione. Ma in futuro, a parità di condizioni, potrebbero risultare più appetibili per quelle categorie di lavoratori che sono più propensi a investimenti più rischiosi ma a più alta remunerazione.

Le garanzie dei fondi pensione. In ogni caso i fondi pensione costituiscono una forma di collocazione "sicura": "A breve dovrebbe essere costituito un fondo di garanzia, che si affiancherà a quello già previsto per le imprese", dice la professoressa Brugiavini. "In ogni caso un fondo non può fallire, è escluso dalle procedure concorsuali", ricorda De Nardo. Senza contare tutti i limiti stabiliti per legge rispetto al tipo di investimento: non si possono comunque scegliere prodotti ad alto rischio e bisogna rispettare rigidi criteri di bilanciamento.

 

Non fa una bella figura l'Italia in tribunale

Daniela Marchesi
Si è celebrata ieri la Giornata europea della giustizia civile e l’Italia ancora una volta si è presentata a testa bassa. All’inizio di ottobre il Consiglio d’Europa ha denunciato deficienze strutturali del sistema giudiziario italiano tali da minacciare lo Stato di diritto. Non è una novità, ormai da diversi anni l’Italia si posiziona nella visione di tutte le istituzioni internazionali nelle ultime posizioni per performance del settore giustizia. Non è solo la preservazione dello Stato di diritto a preoccupare: una giustizia civile troppo lenta ha un impatto negativo e rilevante sul grado di competitività del sistema economico.
L’inefficienza della giustizia civile italiana risiede in alcune carenze dal lato dell’offerta, ma anche in molte storture che interessano il lato della domanda. Cosa si sta facendo per correggere le distorsioni?

Dal lato dell’offerta

L’ultimo rapporto Cepej, pubblicato all’inizio di ottobre, mostra nuovamente che le risorse pubbliche impegnate nel settore giustizia in Italia non sono scarse, ma sono in linea con la media di altri paesi dell’Europa a 15, che hanno però tempi dei processi di molto inferiori. Non è quindi in una carenza di spesa la radice dell’inefficienza della nostra macchina giudiziaria. Questa affermazione appare in contrasto con l’esperienza comune: si porta spesso all’attenzione pubblica il fatto che i tribunali non hanno risorse, al punto da rendere critico anche lo svolgimento delle attività quotidiane. Le denunce di disagio non sono, tuttavia, in contrasto con l’evidenza di una destinazione di risorse non esigua al settore. Emerge dai dati che è la composizione della spesa a risultare differente da quella degli altri paesi: la componente incomprimibile per l’Italia è molto alta. Il 77 per cento del budget dei tribunali è assorbito dalle retribuzioni dei magistrati e del resto del personale. Per l’Austria questo rapporto è del 55 per cento, per la Francia del 54 per cento, per Germania e Svezia del 60 per cento.
Differenze importanti si riscontrano anche nel livello degli stipendi dei magistrati. Mentre all’inizio della carriera la retribuzione dei nostri giudici è del tutto in linea con quella degli altri paesi, non è così per i livelli più alti. Fatta eccezione per la Svezia, rappresentiamo il caso in cui la progressione di stipendio con l’avanzare della carriera (dal livello iniziale a quelli del grado più alto) è maggiore: 3,2 volte, contro, ad esempio, il 2,4 dell’Austria, il 2,2 della Germania e l’1,7 dei Pesi Bassi. Inoltre, il fatto che tale progressione avvenga in Italia per anzianità e non per incarichi svolti, fa sì che la platea di soggetti che ne fruisce sia ampia. Le soluzioni per incrementare l’efficienza dal lato dell’offerta vanno, perciò, cercate più in una razionalizzazione della spesa e dell’organizzazione generale del settore, che in un aumento della quantità di risorse da impegnare.

Cosa si sta facendo

Le disposizioni contenute nella Finanziaria che tagliano gli incrementi stipendiali legati all’anzianità, ovviamente, non sono di per sé una soluzione: gli scatti di carriera oggi sono legati soltanto all’anzianità e quindi un taglio generalizzato riduce la spesa, ma non seleziona in alcun modo in favore dell’efficienza del servizio. Tuttavia, ha il pregio di porre il focus su una questione che va risolta. La riforma dell’ordinamento giudiziario, sia per le tormentate vicende parlamentari che la interessano, sia per il contenuto dei progetti che si profilano, non sembra ancora trovare la strada dei rimedi efficaci a questo problema.
Alcuni segnali positivi vengono invece dal lato della riorganizzazione generale dei tribunali. Il ministero della Giustizia intende operare tagli e accorpamenti in modo che tutte le strutture giudiziarie contino su un organico minimo di 14 magistrati. Si tratta di un intervento necessario, ma contenuto nella misura, a dispetto della vivacità delle proteste che si sono sollevate. Da analisi econometriche della Commissione tecnica della spesa pubblica e dell’Isae, ad esempio, emerge che, per il sistema italiano, sarebbe ottimale un minimo di 20 magistrati per tribunale, che il 72 per cento dei tribunali è attualmente sottodimensionato e che le performance della giustizia sono in passato migliorate in occasione di riforme che hanno aumentato la dimensione media dei tribunali. La produttività dei magistrati risulta aumentare al crescere delle dimensioni del tribunale in cui operano, per effetto di economie di specializzazione.

La situazione dal lato della domanda

La situazione dal lato della domanda appare anche più problematica di quella relativa al lato dell’offerta.
La combinazione delle regole del processo civile, di quelle che interessano la formula di determinazione dell’onorario degli avvocati, la lentezza stessa della giustizia, generano una serie di incentivi di comportamento distorti il cui risultato finale è di indebolire ampiamente la forza contrattuale della parte che ha ragione. L’effetto è quello di gonfiare la componente patologica della domanda di giustizia civile e di intasare i tribunali producendo ulteriori allungamenti dei processi. Lo stato di debolezza contrattuale della parte che ha ragione pregiudica l’utilità di ricorrere a sistemi di incentivazione all’uso di forme di giustizia alternativa – le cosiddette Adr – che hanno avuto successo in altri paesi, ad esempio in Inghilterra. La riforma più efficace consisterebbe nel sostituire l’attuale formula di parcella degli avvocati, basata su un sistema a prestazione, in una forma di compenso a forfait, e di consentire al legale di percepire una quota rilevante del compenso nel caso in cui una transazione tra le parti si raggiunga nelle primissime fasi del processo, come avviene in Germania.
Siamo molto lontani da questa ipotesi. Anche le novità introdotte dal decreto Bersani, che seppure non risolutive avviavano la strada a una riforma dei compensi, rischiano di essere presto vanificate. Una proposta di riforma della professione forense, trasversale, presentata qualche giorno fa al Parlamento prevede che il sistema tariffario resti com’è, a prestazione, e che i minimi siano per molti casi ristabiliti.


27 ottobre

La verità velata
di Carlo Bertani

Viene quasi da piangere ad osservare i dibattiti televisivi: difatti, si cambia presto canale per non farsi inondare dalla noia più che dall’angoscia. Viene invece da sorridere nell’osservare l’esibizione di Bruno Vespa a mezzo busto e di Daniela Santanché a mezza coscia, con a fianco una giovane musulmana velata fino al midollo.
Cosa dobbiamo ancora sopportare?
Niente, del dibattito, merita d’essere ricordato: un tritatutto di facezie, di probabili citazioni coraniche, di profusioni d’illuminismo; come contorno qualche strillo e quelle che vorrebbero essere battute al vetriolo. Dotte citazioni, professori rampanti, giornalisti esimi, parlamentari “consapevoli”. Del nulla incombente.

Se potessimo riavvolgere il nastro del tempo, tutto questo non esisterebbe. Sarebbe bastato non desiderare fino in fondo al cuore che gli italiani diventassero degli azzimati britannici, grigi come la nebbia delle Midland, freddi come il vento delle Highlands.
Per decenni tutti ci hanno provato, ce lo hanno ripetuto: “L’Italia non potrà essere mai la Germania , perché ci sono gli italiani”. Il primo fu Mussolini. O forse no? Forse già Cavour – nella sua misantropia – disdegnava gli italici umori, al punto che plasmò un fazzoletto di terra sotto le Alpi come se fosse stato il Devonshire, poi lo proiettò alla conquista dello Stivale. Appena annessa Genova creò un Consiglio d’Ammiragliato: a Torino, ovviamente. Sailor’s only.

Nel dopoguerra tornarono a tuonare – da destra e da sinistra – che eravamo un popolo indisciplinato, credulone, trasformista. La metamorfosi dell’Italia in una potenza industriale doveva corrispondere in pieno alla rinascita degli italiani: non più visionari, fantasiosi, prolifici amanti bensì ordinati cittadini in cerca d’equilibrio, assennatezza, contenimento.
Ci sono riusciti, con il tempo e tanta ostinazione oggi siamo diventati un placido gregge che pascola ordinato fra uno steccato e l’altro del Bedfordshire, troppo “corretti” per alzare lo sguardo oltre la siepe ed osservare altri greggi.

Sta calando l’inverno ed il grigio – gli ostinati anti-orgoni di Reich – offuscano la vista alla mia finestra. Vorrei poter celebrare un rito di purificazione, sciamanico e selvaggio, per allontanare le nubi incombenti: una cerimonia, una Danza del Sole in cima ad un colle slabbrato dal vento e deriso dalla pioggia per disintegrare – io solo – il buio incombente. Follia.
Fra poche settimane le foglie oramai rosse e gialle si rassegneranno a staccarsi dai rami ed il paesaggio diventerà un’anonima scia di scheletri neri, impalati sui colli a testimoniare la nostra resistenza al gelo, la nostra ostinazione a non cedere un metro.

Nella Lucania del secolo scorso, uomini come noi, italiani, contadini, celebravano il rito del capro espiatorio, per allontanare – all’inizio dell’inverno – il timore del “vuoto vegetale”, ossia di quel deserto che rimaneva dopo i raccolti, dopo il fuoco del Sole sulla terra riarsa dell’estate. Folli.
Oggi siamo così sicuri del ritorno della primavera che non sentiamo il bisogno di corteggiarla con un rito, non avvertiamo la necessità d’evocarla per tacitare la nostra paura del vuoto e del buio invernale, del tetro avanzare del freddo che ci ricaccerà nei nostri cubicoli superbamente arredati – CD, DVD, CCD, DVX, DDT, ADSL, USB, DS, AIDS – con tutto quel che serve per fare spallucce al gelo dell’inverno.

Ma, siamo così certi che il nostro corpo lo sappia?

Nonostante la nostra modernità, s’ostina a prepararci il rito della purificazione per il prossimo Febbraio – Februarius, mese delle febbri – quella che oggi preferiamo chiamare “influenza”. E da chi? Chi ci “influenza”? Chi soffia – in flato, afflato – sui nostri corpi per costringerci a letto? Perché – ancora dopo secoli – serbiamo memoria della purificazione dopo il sabba di cacce dell’inverno, dopo il sangue delle prede sulla neve ed i fegati mangiati crudi per sopperire al bisogno (inconscio) di vitamine?
Aggrappati al termosifone saccentemente proclamiamo sentenze, scriviamo facezie, ridiamo di nulla: tous va bien, madama la Marchesa. Siamo diventati un po’ français, un poco anglais ed anche un tantino allemand per il piacere dei tanti, impotenti scialacquatori di cazzate che ci hanno imboniti per decenni.

La cosa ha funzionato al punto – curiosità! – che gli italiani non trombano quasi più: almeno, lo fanno più “correttamente”, “coscienziosamente”, “responsabilmente” e “consapevolmente”. Per meglio dire, con troppa “mente” e poco corpo, meno sudore e più docce, poca passione e tanto calcolo. “Posso invitarti a cena” è diventato quasi sinonimo di “forse, possiamo farci una scopata”: un tempo, queste cose si lasciavano al linguaggio non scritto dei corpi aggrappati nel ballo, attratti, sfregati dalla voglia e sfrenati nella passione.
Dal momento che, se si tromba poco o male non si fanno figli, gli italiani sono destinati nell’arco di un secolo all’estinzione: bene fanno le competenti autorità e l’esimia società “Dante Alighieri” – insieme ai Lincei ed alla Crusca – a difendere l’italico idioma, perché sarà la sola cosa che rimarrà della cosiddetta “Italia”, od “Ausonia”, oppure “Enotria” che dir si voglia.
Insieme alla pizza ed alla lupara, che diventeranno “patrimonio dell’umanità”.

«Ciò che è vuoto è destinato inevitabilmente a riempirsi, e ciò che è pieno a vuotarsi» affermava nella notte dei tempi Lao-Tze, forse mentre osservava l’acqua scorrere nelle risaie a terrazza dell’antica Cina, oppure mentre ascoltava fremere il corpo dell’amata.
Ci siamo riempiti le case di cazzate e le abbiamo svuotate di figli, di parenti, d’amici. Non sapremmo più vivere nelle vecchie case a ballatoio, con il cortile a fare da teatro per tutte le passioni e le miserie del caseggiato: avremmo paura. La privacy: ah già, più il tempo passa e più mi sembra sinonimo del fascista “me ne frego”.

Svuotati di passioni, privati di sentimenti, annegate persino le idee nel nome del “politically correct”, ci coaguliamo – statici – di fronte ad uno schermo di vetro dove scorrono gli stereotipi della nostra vita, l’ammaestramento che ci è necessario per continuare a morire di noia.
“La demografia italiana ne soffre” sussurrano dal più alto Colle fino all’ultima sacrestia dello Stivale: non ci sono più stuoli di ragazzini che riempiono gli oratori ed i campi di calcio – quelli “liberi”, ovviamente – perché quelli “targati” qualcosa – fosse anche la squadra del Ranuncolo Rampante – diventano subito il sogno dei genitori, quello di vedere trasformati i polpacci del proprio figlio in dobloni.
Con i quali comprare subito l’ultimo modello di cellulare che invia nell’etere anche frecce, chewing-gum e pannolini.

Cellulari e viaggi “last minute”, portatili dei quali useremo il 5% delle risorse e televisori in ogni angolo della casa: soldi, servono soldi, lavorare, mungere, sfruttare, vincere per avere altri cellulari, altri viaggi…
A questo ci siamo ridotti: via, non voltiamo il capo dall’altra parte.
E poi non si fanno figli?
Gli italiani sono civilmente divisi in due grandi squadre: la prima – quella dei “posso” – non fanno figli perché i figli – quando “puoi” – sono un ingombro. Come fai ad acchiappare l’ultima offerta di volo per Puerto Escondido se devi cambiare i pannolini ogni tre ore?
L’altra squadra – quella dei “vorrei, ma non posso” – in genere ha altri grattacapi cui pensare invece di fare figli: sono la popolazione più strapazzata d’Europa da tasse e gabelle, da circa quindici anni sono bersagliati da Finanziarie che tolgono anche l’aria. Sono diventati il tiro al bersaglio delle classi politiche: provate a fare figli quando vi tocca giocare la parte dell’orso nel tiro al bersaglio del Luna Park.
Scopate e fate “Booo” quando vi centrano: sincronizzati, mi raccomando.

Il risultato?
Ecco alcune risultanze sulla demografia italiana.
L’ISTAT ha comunicato nei giorni scorsi i dati sull’andamento demografico italiano aggiornati al 1/1/2006: si tratta di una rilevazione intermedia fra i due censimenti, quello del 2001 e quello che ci sarà nel 2011.
Un dato ha attratto la mia attenzione: non quello bruto sul numero degli abitanti, ma quello che si riferiva al saldo demografico della popolazione italiana (ossia dei cittadini d’origine italiana residenti in Italia) e quello degli immigrati.

Risultato: nel 2005, il saldo demografico per gli italiani è stato negativo per un -62.120, mentre quello degli immigrati è stato un +48.538. Questo non significa che la popolazione sia diminuita – in realtà rimane grosso modo stabile, perché sono cittadini comunitari anche polacchi, lituani, ecc – ma cambia, e in fretta, la composizione della società italiana.
Mancano all’appello circa 62.000 bambini italiani, ed al loro posto ne sono giunti più o meno 48.000 figli d’immigrati: oramai, il 10% circa delle nuove generazioni non è più figlia d’italiani.
Se le cifre possono apparire aride, riflettiamo che – ogni anno che passa – sparisce la popolazione italiana equivalente ad un piccolo capoluogo di provincia – Vercelli, Teramo o Savona – e nasce una cittadina di giovani africani ed asiatici di quasi pari grandezza.

Il fenomeno inizia ad apparire evidente perché svaniscono generazioni numerose, mentre i giovani italiani sono sempre più pochi. Il calo è iniziato in questi anni? No, il primo segno d’inversione demografica apparve intorno al 1970 quando – per la prima volta, ad eccezione degli eventi bellici – una generazione fu meno numerosa di quella precedente.

Popolazione italiana per età 2005

Popolazione italiana per età 2050

Intorno al 1970, ci fu la prima generazione che era minore della precedente – le persone che oggi hanno circa 35 anni – e dopo ci fu il crollo: intorno al 1995 si toccò il minimo, e dopo avvenne un modesto aumento. La ragione? Gli immigrati, la prima generazione dei figli degli immigrati nata in Italia.
Il primo grafico è riferito al 2005: si nota chiaramente il decremento di prolificità degli italiani, che con l’avvento della TV a tutto spiano, delle Finanziarie straccione, delle crisi economiche, delle classi politiche incapaci, delle legioni di corrotti – da Tangentopoli a Calciopoli – hanno smesso di credere nella vita, e non fanno più figli. Il grado di felicità e, soprattutto, di speranza nel futuro è direttamente proporzionale alla libido ed all’eros: vorrei sapere con quale serenità scopa chi non sa se il mese dopo avrà ancora un posto di lavoro, chi aspetta di sapere se la prossima Finanziaria gli toglierà il sussidio per l’affitto, chi sa di dover emigrare soltanto perché è nato dalla parte sbagliata.

L’altro grafico è invece lo scenario immaginato dall’ISTAT per il 2050, che già prevede un costante flusso migratorio! Senza di esso, l’Italia non esisterebbe praticamente più!
Come si può notare dal confronto fra i due grafici, la “base” del 2050 è assai più larga (in termini relativi) di quella del 2005, anche se in termini assoluti la popolazione è minore. Per riequilibrare la demografia italiana dobbiamo rendere più omogenei i “numeri” delle varie generazioni, altrimenti ci scontriamo con l’evidente squilibrio del grafico per il 2005. L’unico rimedio? Più immigrati.
Tutti lo raccontano e riconoscono che l’unico modo per risolvere il problema è l’arrivo di “carne fresca”, perché il nostro modello è oramai fottuto: siamo andati troppo oltre – sia quelli che partono per il Kenya sia coloro che sostano di fronte all’agenzia di lavoro interinale – e per noi, intesi come “razza italiana”, non c’è più speranza. 

“Il periodo critico economico inizia con il 2005 – sono presenti i molti nati negli anni 1945-'58 ormai verso la pensione (13 milioni che si assommeranno ai precedenti degli anni '30-'45, circa 7 milioni e ciò significa maggiori spese di previdenza e di assistenza) – più quelli altrettanto numerosi del 1960-'78 con poco reddito per il calo della produzione, dovuta alla contemporanea carenza di soggetti della fascia giovanile 1980-'99 (che sono i maggiori consumatori).
Nell'ambito della produzione si accavallano quindi due fenomeni fortemente negativi: sono presenti i morigerati consumatori della prima fascia demografica (quasi un terzo della popolazione in pensione) che non dispone di grandi mezzi economici per il consumismo, e contemporaneamente la presenza di una bassissima fascia giovanile nella misura del 50% in meno rispetto agli anni precedenti il 1980 (negli anni '60 e '70 nascevano circa 1.000.000 di italiani
(l’anno, n. d. A.), negli anni '90 la metà, 500.000, quindi in entrambe le due fasce (tanti vecchi – pochi giovani) ci sarà un numero bassissimo di consumatori, in particolare nei secondi (scuole, divertimenti, sport, vestiario, consumismo tipico delle fasce in piena vigoria fisica e antagonistica).”
(www.cronologia.it)

La situazione preoccupa anche i Giovani Industriali:
“Intanto nel nostro Paese cresce in modo esponenziale il “bisogno demografico” di immigrati.
I paesi europei sono tra i più vecchi al mondo e tra questi il primo posto spetta proprio all’Italia, dove già oggi il 24,5 per cento della popolazione è costituito da ultrasessantenni.”
E ancora:
“A determinare questa inversione della piramide demografica, in Italia, è – prima ancora che il rapido allungamento della vita media – il crollo della natalità degli ultimi decenni e quindi, negli ultimi anni, della popolazione in età lavorativa.”

Infine:
“Uno scenario del genere traccia un’unica strada per il mantenimento degli attuali livelli di benessere del nostro Paese: governo e integrazione dei flussi migratori.
Né si può riporre troppa fiducia in politiche tese a favorire la fecondità degli italiani, politiche che potrebbero solo rallentare il declino della popolazione giovane in età lavorativa.”[1][1]

Come si può notare, Confindustria non crede in un ribaltamento della natalità degli italiani – anche prevedendo misure economiche “ad hoc” – e non sposa affatto le teorie isolazioniste e xenofobe di certi ambienti politici nostrani: i grandi difensori della piccola e media impresa – con la Lega Nord in testa – sono sconfessati proprio da coloro che ritengono essere i loro referenti. Perché?
Perché lor signori pensano soltanto a salvare quel modello economico che si è rivelato perdente, al punto da condurre intere generazioni alla sterilità psicologica!

I consumi, per Dio! Non sia mai che crollino i consumi, altrimenti l’anno prossimo mi potrò solo sognare il trekking sulle Ande ed il safari fotografico in Kenya! La produzione, per Dio! Se non c’è nessuno che lavora, come produciamo per consumare?
E poi noi saremmo dei folli, soltanto perché predichiamo da anni che l’economia liberista non solo conduce al collasso ecologico del pianeta, ma ci sta uccidendo nella psiche e nel corpo?
Quale segnale attendere ancora, quale messaggio è più forte di una specie che non si riproduce più? Non basta riflettere che metà della popolazione – chi più e chi meno – fa uso di psicofarmaci?

Come delle serpi, ipnotizziamo le future prede che attraversano il mare su malferme barchette dopo aver morso l’esca fatta di talk-show e telefonini, oppure sospinte come branchi d’acciughe verso la rete dagli squadroni della morte che seminiamo nel mondo, dal Kurdistan al Sudan, dalla Colombia alla Cecenia.
Siamo i colonizzatori culturali del pianeta, ovvero coloro che predicano un modello vincente per l’accumulazione capitalista e perdente per la biologia dell’essere umano.
Che gran premi Nobel siamo.
Quando le nostre prede sono finalmente giunte da noi – perché senza di loro andremmo a fondo in mezzo secolo – vogliamo che acquisiscano – e in fretta! – i nostri usi e costumi, abbandonando immediatamente le loro tradizioni.

Così mandiamo in scena i mezzi busti e le mezze cosce per tentare l’ennesima operazione di colonizzazione culturale, deridendo chi ha un imprinting culturale diverso dal nostro. Migliore? Peggiore? Limitiamoci a ricordare che da mezzo millennio siamo noi che andiamo per il pianeta con le cannoniere, non gli africani e gli asiatici. Inoltre, ricordiamo che la parola “stupro” non esiste nei linguaggi primitivi del pianeta, ma solo nei cosiddetti paesi “civili”.
Proporrei per le prossime trasmissioni d’inserire, oltre ai mezzi busti ed alle mezze cosce, anche le “Veline” – ovviamente velate – per completare il tripudio di stupidità con il quale cerchiamo d’affrontare un problema semplice, ma serio, come quello dell’immigrazione.

Se ne abbiamo bisogno, perché fare tante storie?
Una volta stabiliti alcuni punti fermi: il viso scoperto, ed io aggiungerei la laicità della scuola, ciascuno potrà professare come meglio crede la propria fede, senza scatenare battaglie fra mezze cosce e mezzi veli.
Vorrei concludere con le parole di un grande giornalista italiano – Paolo Rumiz – che così sintetizzava ciò che avvenne in Bosnia – primo sentore della frattura dei due mondi, prima dell’11 settembre – quando fu distrutto il ponte di Mostar, simbolo e crocevia di più culture.

“Ripensando a quel crollo col senno di poi, vedi che il conflitto di civiltà nacque allora, e non fu uno scontro fra Cristianesimo e Islam. Non fu nemmeno una resa dei conti fra democrazia dell'Ovest e assolutismo dell'Est, moscovita o ottomano che fosse. Fu l'aggressione della modernità contro un mondo che si ostinava a credere nell'invisibile, la rabbia di una civiltà senza più miti e senza più fede contro un Oriente che condensava troppi simboli.”[2][2]

I figli, più che il prodotto del denaro, sono il frutto dei nostri sogni, oramai azzerati. A futura memoria.

 
Starbucks e l'Etiopia alla guerra del caffè

Appoggiato dall'ong Oxfam il governo di Addis Abeba lancia una campagna globale contro il gigante Usa:"Sfrutta i contadini"
di FRANCESCA CAFERRI

In uno qualunque degli oltre 10mila negozi Starbucks sparsi nel mondo, portarsi al tavolo o sulla scrivania dell'ufficio una tazza fumante di caffè Sidamo costa circa 2,20 dollari. In tazza non ci sono che pochi grammi dei chicchi neri che danno il nome alla bevanda: tanto che se fosse venduto al chilo il prezioso Sidamo costerebbe all'avventore la bellezza di 50 dollari. Eppure a chi quel chilo di caffè lo ha piantato, coltivato e raccolto in tasca non arrivano che 2,40 dollari. La vicenda sarebbe una delle tante storie di economia deviata dalla globalizzazione, se non coinvolgesse due dei più noti volti della globalizzazione stessa: Starbucks, la catena del caffè regina in America e nel mondo, passata alla storia anche perché riesce a vendere in tutto il mondo una bevanda dal nome di "frappuccino" facendola passare per una tipica specialità italiana, e Oxfam, una delle più vecchie e rispettate associazioni non governative del mondo, che da Londra ha fatto del suo marchio un sinonimo di "giusto e buono" riconosciuto in tutti i paesi.

La storia: Oxfam accusa Starbucks - che del corretto rapporto con i coltivatori e della sua politica commerciale etica ha fatto negli ultimi anni uno dei cavalli di battaglia della sua strategia di marketing - di aver bloccato, nascondendosi dietro alla National coffee association, di cui è uno dei più potenti membri, il tentativo dell'Etiopia di far registrare i nomi di tre delle sue più pregiate varietà di caffè - Sidamo, Harar e Yirgacheffe - presso l'ufficio americano dei brevetti, l'Uspto.

Addis Abeba ha presentato la domanda più di un anno fa ma la richiesta è bloccata dall'opposizione della Nca, che vuole che l'utilizzo dei nomi, e dei chicchi, resti libero da ogni copyright. Fra carte bollate e avvocati, tutto è fermo da mesi e la battaglia legale non sembra destinata a finire presto, con grande delusione dei coltivatori etiopi. Se la registrazione fosse approvata, chiunque utilizzasse chicchi di queste piante dovrebbe, oltre a garantire la loro origine, pagare un diritto di sfruttamento del marchio al governo di Addis Abeba: una mossa che porterebbe nelle casse del paese - uno dei più poveri del mondo, con un Pil pro-capite di 160 dollari l'anno e un'aspettativa di vita media di 47 anni - 88 milioni di dollari l'anno, un incremento sostanziale rispetto ai 156 milioni (dati 2002) che vengono ricavati dall'esportazione del caffè.

Starbucks nega decisamente di essere il regista dell'impasse: "Non ci siamo mai opposti alla registrazione del governo etiope, né abbiamo preteso di avere la proprietà di nessuno dei nomi regionali che usiamo per descrivere l'origine dei nostri caffè", spiega la società in un comunicato in cui si sottolinea anche come il gruppo abbia incrementato in quattro anni gli acquisti dall'Etiopia del 400%, con beneficio dei coltivatori a cui è stato pagato un prezzo di poco meno di 3 dollari al chilo, il 23% in più del prezzo di listino medio per quelle stesse qualità di caffè. "Il nostro approccio, fatto di investimenti in progetti di utilità sociale e di microprestiti alle popolazioni delle regioni di coltivazione sono stato riconosciuti per la loro leadership nell'industria del caffè", conclude la nota.

Ma le spiegazioni non sono bastate a Oxfam: sentitisi traditi da un vecchio alleato - Oxfam e Starbucks hanno collaborato per il 2004 in progetti di sviluppo rivolti proprio ai contadini etiopi - i responsabili dell'ong hanno portato a parlare con i giornalisti nel giorno del lancio della loro campagna Tadesse Maskela, capo di una cooperativa di coltivatori di caffè etiopici. La donna ha dato voce alla rabbia di 15 milioni di contadini del suo paese che sui ricavati della vendita dei chicchi neri basano la loro sopravvivenza. "Starbucks vende i caffè Sidamo e Harar a 26,29 dollari alla libbra (450 grammi) proprio a causa della particolare qualità dei chicchi - ha detto la donna - ma i contadini in Etiopia guadagnano fra i 30 e i 59 centesimi per la stessa quantità".

Un grido di disperazione che da solo non creerebbe molti preoccupazioni a Starbucks, ma che sposato alla potenza mediatica di Oxfam - già ieri la storia era su tutti i principali giornali europei - di danni potrebbe invece crearne parecchi, anche a un gigante globale come Starbucks.

 

26 ottobre

Tanti straordinari e poca paga
La funambolica vita dei collaboratori
 
Lavorano anche fino a 45 ore a settimana. Nel settore privato il 63% dei lavoratori con contratti atipici rimane al lavoro per più di 38 ore a settimana. Stagisti e tirocinanti più di tutti. Due collaboratori su tre nella stessa azienda da oltre due anni. I risultati dell'indagine Ires-Cgil. di FEDERICO PACE

La loro è una vita da funamboli. Tutta trascorsa, passo dopo passo, sopra l'esile filo del contratto a tempo che li difende dallo spazio vuoto che s’apre sotto di loro. Una vita “a tempo” pervasa dal timore di non riuscire ad arrivare dall’altra parte del filo. Così gli atipici vivono nelle aziende come se dovessero sempre dimostrare, ogni giorno, quel che valgono. Tanto che negli uffici rimangono sempre più tempo. Volenti o nolenti. Molti di loro possono arrivare a lavorare 45 ore per ciascuna settimana del loro impiego “a tempo”. Nel settore privato, più di sette stagisti e tirocinanti su dieci, lavorano per un tempo che supera costantemente le 38 ore a settimana. Ma è il complesso del mondo degli atipici che si misura con orari di lavoro lunghi o lunghissimi nonostante l’incertezza del posto, o proprio a causa di questo.

Sono questi alcuni dei risultati dell’indagine “Il lavoro para-subordinato a rischio di precarietà in Italia” dell’Ires (Istituto di ricerche economiche e sociali) che ha analizzato le condizioni di lavoro, i percorsi e le prospettive dei lavoratori e delle lavoratrici con contratto di collaborazione. La ricerca è stata presentata oggi a Roma in occasione dell'uscita del 1° Rapporto dell'Osservatorio permanente sul lavoro atipico in Italia ("I parasubordinati nel 2005. Analisi dei dati Inps gestione separata".)

Nel dedalo del contratto di collaborazione ci sono finiti un po’ di tutti. I traduttori, gli psicologi e i giornalisti. I geometri, i tecnici informatici e i webmaster. Ma anche, e soprattutto, gli operatori di call center, gli stagisti e i borsisti. Comunque sia, sta il fatto che tutti loro, spesso, hanno davvero poco dei collaboratori autonomi. Piuttosto sembrano avere molte delle caratteristiche dei dipendenti.

Otto su dieci svolgono un lavoro per un solo committente. Soprattutto se hanno un contratto di lavoro a progetto o un co.co.co. nel pubblico. Due su collaboratori su tre lavorano nella stessa azienda da oltre due anni. Questi elementi, dicono gli autori dell’indagine, “alludono a una dipendenza di fatto, almeno di natura economica, confermata dal fatto che, anche dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro, pressoché tutti i collaboratori intervistati hanno un rapporto di quasi dipendenza.” L’80% lavora presso la sede del committente, il 77% deve garantire un presenza quotidiana e il 71 per cento deve rispettare un orario di lavoro.

Il tutto senza una paga commisurata agli sforzi e con poche certezze riguardo le prospettive future. Il 31% di questa categoria di lavoratori guadagna meno di 800 euro netti al mese e un altro 26 per cento arriva a guadagnare mensilmente una cifra compresa tra 800 e mille euro. Solo uno su dieci di loro riesce a superare i 1.500 euro . E all’aumentare degli anni trascorsi nello stesso posto di lavoro, fanno notare gli autori della ricerca, “diminuisce la propensione a concepire quella come una esperienza transitoria destinata ad arricchire il proprio curriculum professionale mentre aumenta la rassegnazione a non avere affatto alcuna prospettiva professionale” .

Ma non solo. Le condizioni economiche e l’incertezza relativa ai percorsi e alle prospettive professionali sembrano avere un diretto impatto sulla possibilità di dare vita a un progetto familiare: il 51,2 per cento di chi ha più di 35 anni non ha figli e accade all’82% di tutti i collaboratori senza distinzioni di età.

C’è ancora tempo per fare qualcosa per ridurre l’ambiguità delle collaborazioni? “Non si può più aspettare - ci ha detto Giovanna Altieri , presidente dell’Ires e coordinatrice della ricerca realizzata da Eliana Como -. Sono dieci anni che studiamo questo fenomeno, e molti risultati assomigliano ai dati delle prime indagini. Non si tratta più di capire questo mondo, ma di dare delle risposte a questo mondo. Non si deve trascurare il fatto che le collaborazioni corrispondono a un modello di flessibilità basato sulla riduzione del costo del lavoro. Ma usare forza lavore in termini di riduzione di costi non aiuta il Sistema Italia. Le persone vanno intese come capitale sociale e come valore delle imprese.”

 

Televisione L'inchiesta di Report sulla piovra dei «cattivi consigli»
Gli uomini d'oro dei Cda pubblici
Riproponiamo ampi stralci del programma di Raitre dedicato ai compensi «eccellenti» dei consiglieri di amministrazione degli enti pubblici. Dalle autostrade alla Rai
Report - L'Enel Poste Italiane, L'Anas, Ferrovie Dello Stato, Alitalia, sono le più grandi aziende pubbliche italiane. Nei loro consigli d'amministrazione siedono i manager che fanno funzionare i servizi primari del paese. Il numero di membri minimo previsto dalla legge sarebbe 3. Alle poste i consiglieri sono 11. La Rai ne ha 9, il Poligrafico dello Stato 10. Alitalia e Ferrovie 5. Gestore della rete elettrica 7, all' Eni sono in 12, all'Enel 9.Quanto costa il consiglio di amministrazione di Enel?
Paolo Scaroni, vicentino, studi alla Bocconi e a New York, all'inizio degli anni '90 è Amministratore Delegato della Techint ma inciampa nell'inchiesta Mani Pulite e viene arrestato per aver pagato tangenti ai partiti per ottenere appalti da Enel. Patteggia la pena e va in esilio in Inghilterra dove si ricicla come manager della Pilkington. Poi torna in patria e il governo Berlusconi e lo nomina Amministratore Delegato proprio di Enel. Nei tre anni della sua gestione secondo i dati Istat la nostra bolletta è aumentata del 3,5 %. . Sulle fonti alternative però non abbiamo fatto nulla. Inoltre Scaroni ha venduto impianti, aziende ed immobili, in sostanza ha arricchito l'azionista e impoverito l'Enel. E questo sarebbe il miglioramento di gestione che spiega la milionaria buonuscita. Nel 2005 Scaroni va all'Eni, il suo stipendio è di 1 milione e mezzo di euro l'anno. Il consiglio di amministrazione costa 2milioni 600 mila euro l'anno ma, come all'Enel, la cifra sul bilancio è più alta perché comprende incentivi per gli amministratori e 9 milioni 649mila euro di liquidazione a Vittorio Mincato, il predecessore di Scaroni. Ed è vero che se Scaroni andasse via anche da ENI prenderebbe un'altra liquidazione di più o meno 8 milioni?
Roberto Ulissi, Direttore affari societari Eni - Queste previsioni sono contenute nel contratto.
Report - Il contratto dice che se il mandato non viene rinnovato saranno pagati altri 3 anni di stipendio. Scaroni decide lui di andare all' Eni ma esige comunque dall' Enel i 3 anni di buonuscita. Giancarlo Cimoli se ne andò da Ferrovie nel 2004. Il suo mandato era scaduto e non fu rinnovato. Ebbe una buonuscita di 6,7 milioni di euro. Lunardi lo manda a risanare Alitalia, gia' sommersa dai debiti: aveva previsto che il 2006 sarebbe stato l'anno del pareggio invece, dopo 2 anni dal suo arrivo, Alitalia è sull'orlo del fallimento.
Andrea Cavola, Sindacato Unitario Lavoratori Trasporti - La semestrale di quest'anno parla di 221 milioni di passivo, le previsioni a fine anno sembrerebbero 350 milioni di passivo, negli ultimi 2 anni oltre 3mila lavoratori hanno lasciato l'azienda, i nostri contratti sono bloccati da anni quindi il costo del lavoro è stato attaccato pesantemente ed è uno dei più bassi rispetto ai nostri competitor europei.Dati ufficiali iscritti a bilancio: l'Ad di Air France guadagna 30mila euro al mese, quello di KLM 45mila, quello di British 64mila e parliamo di 3 compagnie in attivo. Il nostro amministratore delegato prende 190.000 euro al mese.
Report - Il consiglio di Ferrovie costa circa 2 milioni di euro l'anno. L'amministratore delegato, Elio Catania, è stato costretto a dimettersi, e come prevede il contratto si è portato via il risarcimento. A quanto ammonta lo abbiamo chiesto all'azionista ma il Ministero del Tesoro ci ha scritto che non possono essere rese note per una clausola di riservatezza. Quel che è noto è che Catania era arrivato due anni fa, doveva far viaggiare le ferrovie e invece lascia Trenitalia con un buco di 1 miliardo e 700 milioni di euro.
Sergio D'Antoni, Sottosegretario allo Sviluppo Economico - Io non li avrei dati.
Report - Anche perché Catania ha lasciato un buco di 1 miliardo e 6?
Sergio D'Antoni - Sono contrario a dare soldi per fare andar via le persone assolutamente. Perché mi pare che questo sia un errore. è stato fatto: Amen.
Report - Ma chi stabilisce le regole d'ingaggio? Il consiglio d'amministrazione presieduto da loro stessi e quando una poltrona si sfila di solito ce n'è una pronta. L'Anas ha una rete stradale di 20.182 chilometri e oltre 6.000 dipendenti. è l'azienda che decide come fare una strada o un'autostrada. L' Anas è appunto la viabilità. Per ampliare e risanare le nostre infrastrutture il presidente del consiglio aveva promesso in diretta tv, l'8 maggio 2001, 158 miliardi di investimenti. E nel 2003 ribadiva l'impegno.Siamo a settembre 2006 e sulla tangenziale di Mestre ci sono i 4 chilometri di coda di sempre. Mestre era 1 delle grandi opere della legge obiettivo del 2001: il passante costa 750 milioni, ne abbiamo spesi 150 ma solo 63 per i lavori. E siamo fermi. Per le Grandi opere mancano più di 100 miliardi di euro e nemmeno il 30% risulta finanziato. Ci sono state anche finte inaugurazioni come la Palermo Messina. Secondo i magistrati gli ultimi 41 km non avevano i requisiti minimi di sicurezza: semafori, vie di fuga e così via. Gli indagati sono 8. Azionista unico di Anas è il Ministero del Tesoro che decide chi la deve dirigere insieme al Ministero delle Infrastrutture, con il nuovo governo Lunardi se ne va e arriva Di Pietro. Chiede la verifica dei conti e i conti non gli tornano. Non ci sono i soldi per andare avanti con i cantieri. Consegna i dati alla Procura e invita il Consiglio di Amministrazione dell' Anas ad andare a casa.
Antonio Di Pietro - Ministro delle Infrastrutture L'Anas ha cercato di moltiplicare pane e pesci per cercare di venire incontro alle persone politiche per fare le opere non avendo i soldi ha dato anticipi in relazione a opere non coperte completamente.
Report - Il cdao di Anas si è dimesso. Di Pietro dice che il buco è di 5 miliardi di euro e parla di consulenze e buonuscite per i manager e sospetta il falso in bilancio.
Mario Virano - Consigliere Anas fino al 2006 - Il falso in bilancio non esiste. Questi rilievi sono stati controdedotti dalla direzione generale, dal collegio sindacale, dalla Corte dei Conti e sono stati riassunti all'interno di un bilancio che è stato certificato dalla Kpmg senza riserve.
Antonio Di Pietro - A un certo punto è stato detto siccome quelle opere di cui ai residui passivi non si fanno più con quei soldi ci facciamo un'altra cosa. In realtà con quei soldi ci stavano già facendo la prima cosa. Sicché con gli stessi soldi ci hanno fatto due cose contemporaneamente, ma siccome i soldi erano sempre quelli ci siamo trovati con un debito. Con un indebitamento di 3 miliardi e mezzo di euro circa.
Report - Ma allora perché questo consiglio di amministrazione dell'Anas non ha detto prima non abbiamo i soldi?
Mario Virano - Nel momento in cui il governo impone con legge finanziaria un tetto di 1,9 miliardi di euro si sa che con quella somma lì si arriva poco più che a metà anno dopodichè ci si deve bloccare. Questo lo si sapeva al momento della promulgazione della legge finanziaria, è stato immediatamente segnalato all Presidente del Consiglio, al ministro Tremonti, al ministro Lunardi, cioè a tutto il governo.
Report- Quindi tutti zitti e al loro posti fino alle elezioni. Era andata così anche nel 2001, con l'arrivo di Lunardi tutti a casa, addirittura lui li paga molto più del dovuto perché lascino libere le poltrone. D'Angiolino, ex ufficiale della Gdf, era il presidente. Da contratto avrebbe dovuto restare altri 4 anni, ma Lunardi lo manda a casa. Lei ha una liquidazione di 2 miliardi e 800 milioni circa?
Giuseppe D'Angiolino- Presidente Anas fino al 2001 - Il contratto non è stato rispettato, io non ho ricevuto, gli importi che erano indicati sul contratto di risoluzione del rapporto di lavoro e dovrò chiedere conto a chi ha firmato il contratto con me: il ministro Lunardi.
Report - Lunardi li manda a casa in fretta in cambio di una buonuscita o risarcimento: 2 miliardi e 8 per il presidente, 650 milioni per ogni consigliere, in totale sono quasi 6 miliardi di lire. Le lettere arrivano sul tavolo di tutti i consiglieri il 19 ottobre 2001, la firma è di Pietro Lunardi. Si liquida un cda e si paga per intero intanto se ne assume un altro che si paga per intero. È una doppia spesa con soldi pubblici o sbaglio?
Ivan Cicconi - Consigliere Anas fino al 2001 - Esatto!
Report - Ma lei lo sa che il ministro che l'ha preceduta per mandare via il precedente consiglio d'amministrazione di Anas aveva dato più di 5 miliardi e mezzo di lire. Lei ha dato dei soldi a questi per andarsene?
Antonio Di Pietro - Manco una lira! Ho chiesto alla corte dei conti di valutare. Non so se mi spiego. Glielo ripeto: perché io ho l'impressione che questi soldi chi li ha presi li deve rimettere, quelli della scorsa amministrazione. Ho chiesto alla Corte dei Conti di farseli ridare.
Report - Da Lunardi che ha dato l'ordine come se fossero soldi suoi, da chi li ha incassati o dal ministero.
Ivan Cicconi - Personalmente dal ministro delle infrastrutture, dall'ing. Pietro Lunardi perché il cambiamento è avvenuto solo per un interesse personale del ministro Lunardi. Ce l'aveva a morte con D'Angiolino perché quando era Presidente Anas gli revocò degli incarichi.
Report - Per tutta la storia Rocksoil?
Ivan Cicconi - Si lui era consulente dell'Anas per un paio di gallerie e normalmente quando interveniva Lunardi i costi aumentavano a dismisura. Lui gli revocò un paio di incarichi e gliela teneva carica e appena è andato lì gli ha chiesto le dimissioni.
Report - La famiglia Lunardi ha una società che costruisce gallerie, è la rocksoil. Per eseguire i lavori occorre l'autorizzazione dell'anas. Secondo d'Angiolino, presidente di Anas, qualche progetto della Rocksoil è troppo caro e chiede a Lunardi di abbassare il preventivo.
Giuseppe D'Angiolino - Ricordo un progetto particolarmente costoso arrivato alla mia firma, la firma finale. L'avevo ritenuto eccessivamente costoso e non lo lasciai passare. Lo feci rivedere e il costo dell'opera venne abbastanza ridimensionato.
Report - Poi Pietro Lunardi diventa ministro e cede la Rocksoil ai figli Martina e Giuseppe. Interpellanze parlamentari, una era finita in procura: quella sugli appalti per un raccordo autostradale in Val d'Aosta. Un'altra riguardava una consulenza per la Torino-Lione. Lunardi fece sapere che quel rapporto era chiuso. Altre interpellanze, riguardano Ergotecna che fa progettazione e direzione. Il cugino di Lunardi, Giacomo Rozzi, ha il 65%. Invece la stone di Milano, che era dei Lunardi, viene venduta e da quando passa di mano diventa una delle più potenti società per i lavori in galleria. Il responsabile è Mario Cangiano, socio del cugino di Lunardi in ergotecna. Non conosciamo la versione di Lunardi sulla vicenda perché non accetta l'intervista.
Report - Lei come ci è entrato nel Cda dell'Anas?
Ivan Cicconi - Nominato dal ministro dei lavori pubblici Nerio Nesi.
Report - Poteva aspettarselo che se cambiava governo la mandavano via.
Ivan Cicconi - Potevo aspettarmelo però non c'erano i presupposti per un ministro che si fosse comportato rispettando la legge. Chiedere le dimissioni e obbligare alle dimissioni e pagare i dimissionari. Direi che è la prima volta che capita questo caso dell'Anas di 5 anni fa.
Report - Si considera deplorevole essere mandati a casa dietro compenso ma nessuno rifiuta di incassare. Anche con Di Pietro il CDA dell'Anas ha dovuto dimettersi senza però sborsare una lira. Ma quanto costa il consiglio di amministrazione dell'Anas? Il presidente Vincenzo Pozzi, appena uscito, nel 2005 ha dichiarato 438mila euro di reddito. Quanto prendeva invece D'Angiolino 4 anni prima? 350 milioni all'anno, ora siamo passati a 400 mila euro, lo stipendio del presidente è raddoppiato. Mentre l'Anas perdeva 496 milioni.
Ivan Cicconi - I consiglieri di amministrazione prendevano 150 milioni all'anno lordi. Era prevista una riunione ogni settimana.
Report - E voi quanto prendete?
Giovanbattista Papello, Consigliere Anas fino al 2006 - Il compenso diciamo era articolato e andava da 40.000 a 140.000 euro a seconda diciamo...
Report - 40.000 più 140.000 no?
Giovambattista Papello - 40mila più 140mila per le attività che si svolgevano sotto forma di delega o incarico.
Paolo Brutti - senatore DS - Il punto è che l'Anas è un organismo unitario, con tanto di strutture tecniche, direttore generale, direttori centrali. A che serve uno che tratta il personale quando c'è un direttore del personale? A che serve uno che tratta i lavori nel mezzogiorno quando c'è un direttore generale dei lavori del mezzogiorno?
Report - Una lettera all'ex Presidente Pozzi dell'allora Ministero dell'Economia dice che le deleghe non sono opportune. Dovete vigilare sui soldi e invece poi lavorate dentro. La delega dell'ing. Papello dice che deve coordinare e monitorare la direzione centrale dei lavori compresi quelli sulla Salerno- Reggio Calabria. E lui è calabrese.
Paolo Brutti - C'è una struttura centrale presso Anas che si occupa dei lavori relativi a questa infrastruttura. Non c'era nessun bisogno della nuova delega se non per dare un potere di intervento e avere un santo in paradiso come si dice...

Il testo integrale del programma  si può consultare sul sito internet www.report.rai.it

Report e la Banda Bassotti
Norma Rangeri
E non abbiamo avuto lo spazio sufficiente per deliziare il lettore con le pingui storielle di altri celebri Consigli di amministrazione, eccellenti in debiti e autopromozioni. Manca il gioiello di Sviluppo Italia, la società che avrebbe dovuto attirare finanziamenti dall'estero e che invece tratta affari per conto di onorevoli clientele. Manca la fotografia del Cda della società marchigiana Quadrilatero, che pensa alle opere pubbliche stradali, un doppione indecente di Anas. Mancano i consigli di amministrazioni zeppi di parlamentari di tutti i partiti, che anziché provvedere alle leggi amministrano e si fanno controllori di se stessi. Manca l'affresco del Cda della scuola di cinema, dove le relazioni pericolose seguono sceneggiature tutte politiche. Negli ampi stralci che sintetizzano una parte del programma di Milena Gabanelli non c'è nemmeno la perla del finale, dove l'autrice di Report cita il caso, altrettanto clamoroso del Cda della Rai, dove grazie al voto dei consiglieri di maggioranza (berlusconiana) pende sul servizio pubblico (cioè sulle nostre tasche) una multa milionaria per aver nominato un direttore generale, Alfredo Meocci, compatibile solo con gli accordi di sottogoverno. Niente di nuovo, ma l'inchiesta di Giovanna Boursier, mettendo in fila la catena delle sanguisughe, ha disegnato l'immagine di un paese senza dignità. Lo stesso che vede i partiti di ogni schieramento associarsi ogni volta che generose prebende si affacciano all'orizzonte. E neppure stupisce che questo o quel nome del firmamento dei consiglieri d'oro si risetna e dichiari alle agenzie tutto il suo sdegno. Del resto, di fronte all'inchiesta di Michele Santoro su mafia e politica in Calabria, si sono levate le proteste del presidente Loiero. Se uno indica la luna c'è sempre chi se la prende con il dito.

 


 

SALUTE|

Tumori al seno, nel mirino la chimica


 

In Italia aumentati del 29% i casi di cancro alla mammella. Lo studio della London University: «Meno della metà deriva da fattori genetici». Wwf: «Nel mirino i falsi ormoni» / PDF: La ricerca

I distruttori endocrini - alias "falsi ormoni" - presenti negli inquinanti chimici, sono sostanze di sintesi non prodotte dall'organismo umano in grado di mimare gli ormoni naturali. Sono questi i 'maggior indiziati' per l'aumento di casi di cancro al seno. È quanto emerge da uno studio commissionato dal Wwf Gran Bretagna alla London University. Contaminanti ambientali e cancro al seno: cresce l'allarme sulle sostanze chimiche con proprietà di distruttori endocrini - lo studio realizzato dal dott. Andreas Kortenkamp, responsabile del centro di Tossicologia della scuola di Farmacia della London University - mette in luce che meno della metà dei casi di cancro al seno può essere imputata a fattori legati allo stile di vita o alla genetica.

È proprio di questi giorni, tra l'altro, la notizia - diffusa dall'Istituto Superiore di Sanità – secondo cui i casi di tumori alla mammella sono aumentati nel nostro paese del 29%. Nel mirino potrebbero esserci i distruttori endocrini, prendendo in esame la loro azione in due scenari chiave: il primo è il cosiddetto "effetto cocktail" che si rileva quando c'è un'esposizione simultanea a diverse sostanze chimiche con proprietà estrogeniche (ossia che 'agiscono come estrogeni' - ormoni naturali prodotti dalle ovaie) e il secondo è l'esposizione ai contaminanti durante le fasi di maggiore sensibilità, vale a dire durante la pubertà e lo sviluppo intrauterino.

«Un recente studio condotto in Spagna - avverte il prof. Kortenkamp – ha dimostrato che è possibile associare il rischio di cancro al seno unicamente al carico di sostanze chimiche estrogeniche presenti nell'organismo, escludendo del tutto gli ormoni naturali. Questa è la prima prova del fatto che i contaminanti ambientali con proprietà estrogeniche 'accidentali', e non solo gli ormoni naturali o gli estrogeni farmaceutici, possono contribuire allo sviluppo del cancro al seno». Tali contaminanti hanno causato già gravi alterazioni negli ambienti naturali - specie nell'Artico - compromettendo le funzioni riproduttive e ormonali e aumentando i casi di tumore.

 

GRANDI OPERE|

Crepe nello Stivale

Diga Blufi
Diga Blufi
in costruzione

In Italia oltre un terzo delle dighe sorge in zone sismiche. Storie di sprechi e inefficienze intorno agli invasi della penisola, soprattutto al Sud / di ANTONIO PERGOLIZZI

Se la Cina è il paese che ha più dighe al mondo (più di 20mila), anche l’Italia non se la passa male: 8.350 invasi (dati ministero dell'Interno) con 13 miliardi di metri cubi d'acqua. Di grandi dighe (più alte di 15 metri o con oltre 3 milioni di metri cubi d'acqua) nel nostro Paese ce ne sono 552: 514 in funzione, 38 in costruzione. Oltre un terzo di queste sorge in zone classificate sismiche. Del totale delle dighe, secondo il Cnr, solo 800 sono controllate dal Servizio nazionale dighe (Snd), per le altre nessun controllo sistematico e quindi alta pericolosità. In sostanza, il sistema dighe italiano mostra gravi crepe, soffre di mali vecchi e nuovi: sprechi, inefficienze, malaffare e impunità. Una classica storia italiana. Nel nostro meridione, ad esempio, la vecchia Cassa del mezzogiorno ha finanziato la costruzione di dighe e acquedotti che più che portare acqua hanno portato soldi nelle tasche dei soliti noti, mafia compresa. In Sicilia, Calabria, Puglia, gli esempi abbondano. In Calabria, secondo gli ultimi dati risalenti al 2003, in più di cinquant’anni sono state progettate e avviate alla costruzione ben 36 dighe: peccato che solo 10 di queste sono attualmente in esercizio. Nel dettaglio: 7 sono utilizzate esclusivamente a fini idroelettrici e hanno un utilizzo plurimo (irriguo, potabile); 5 non sono mai state completate; 6 sono state completate ma non erogano acqua per mancanza delle opere di distribuzione; 15 sono soltanto progettate e molte di esse presentano appena lo studio di fattibilità.

Il discorso non cambia in Sicilia. La diga Rosamarina a Caccamo (PA) già inaugurata nel 1990 e che avrebbe dovuto raccogliere 80 milioni di metri cubi di acqua, finora ha raccolto solo soldi: a Palermo di quell’acqua nessuno ne ha mai visto una goccia. E poi la diga di Blufi, nel cuore delle Madonie. L’opera venne appaltata nel 1989 a trattativa privata per un importo di 180 miliardi di vecchie lire. Alla costruzione si opposero gli ambientalisti siciliani che già prevedevano ciò che di fatto avvenne: lo sfregio indelebile dell’area. L’assessore dell’epoca convinse tutti che la diga avrebbe dissetato per sempre le province di Enna, Caltanissetta ed Agrigento e che nel bacino artificiale ricavato si sarebbero pure organizzate gare di canottaggio e windsurf. Risultato: la diga non è mai stata completata, il suo costo è schizzato a ben 364 miliardi di vecchie lire e di acqua nelle case dei siciliani nemmeno l’ombra.

 

Canta il Lucherino
di Carlo Bertani –  (tratto da www.disinformazione.it)

Chissà come chiamavano i genitori – quand’era bambino – l’attuale “signor FIAT”, ossia Luca di Montezemolo? Luchino? No, c’era un altro Luchino – il regista Visconti – e non fosse mai che i due s’incontrassero. Luchetto? No, ricorda troppo un chiavistello…Lucherino? Può essere…in fondo si tratta di una specie di passerottino simpatico e grazioso, con un solo difetto: canta, canta sempre, anche quando gli altri uccelli tacciono.

Mentre il centro destra s’inventa le manifestazioni di piazza – a Vicenza! La prossima potrebbero farla al confine austriaco…a Lampedusa – per cercare di rendere un’impossibile pariglia a Prodi, ossia quando il centro destra governava ed il sindacato portava in piazza un milione di persone, il nostro Lucherino di Montezemolo è andato a gorgheggiare all’assemblea della Piccola Industria a Prato: grandi proclami per dieci piccoli indiani.

Quale romanza ha strimpellato il nostro cantore di fronte alla platea amica? Scendere in piazza con Berlusconi? Oh no, my God, non fa “tendenza” mettersi al fianco con quelli che strombazzano che “l’hanno duro”, non è roba da Lucherini ma da merli, corvi…insomma, uccellacci neri.
Meglio, invece, cinguettare di fronte ad una platea amica e – tutto sommato – soddisfatta: certo…si poteva ottenere di più…ed allora via con l’attacco alla Finanziaria! Tanto si sa, la Finanziaria è una diligenza che passa una sola volta l’anno: giochiamo un po’ al tiro a segno!

Al buon Lucherino non va giù che ci sia questa sinistra “estrema”, “massimalista” che frena l’espansione economica del paese, che pretende – quasi fossero loro a comandare! – salari più alti, niente pensioni a 65 anni…mio Dio che disgusto…quando avevo parlato con Romano m’era parso d’aver inteso un’altra musica…
I lucherini amano cibarsi di lombrichi e di briciole, ed il nostro Lucherino non ha considerato sufficienti quelle che il governo ha destinato loro dopo aver scosso la tovaglia sul balcone. Che affronto.
“Volevamo la Luna ”. Grazie, quella la vogliono tutti. “ La Finanziaria è vecchia, non procede al risanamento del Paese…”

Oh, finalmente uno che parla chiaro: volevamo di più dal taglio del cuneo fiscale, volevamo la gente in pensione a 65 anni, volevamo veder licenziati i dipendenti statali. Basta con gli sprechi in stipendi e pensioni! Pensiamo al futuro del Paese ed alle prossime generazioni (di Lucherini).
Ognuno canta la sua canzone, ma il signor FIAT avrebbe tante ragioni per trovare un sicuro nido in una grotta, starci il tempo necessario e riflettere su cosa va dicendo. Perché, se voleva la “macelleria sociale”, non si è rivolto a Berlusconi? Ovvio: sperava d’ottenere l’intero “piatto” da Prodi e il buon Romano – se avesse potuto – avrebbe accontentato lui e Goldman & Sachs, Standard & Poor, il FMI e la Banca Mondiale.

La vendetta per le aspettative mancate è giunta – in pieno stile mafioso – con un vano declassamento dell’Italia da parte delle agenzie di rating; no, Romano, così non va: possibile che non sai usare lo scudiscio con quella gente?
Tutti s’aspettavano di più dal buon Romano, ma il Prode bolognese ha imparato la lezione che Bertinotti gli diede nel 1998: la sinistra comunista non può giocarsi il suo elettorato per fare una Finanziaria che piaccia solo ai “poteri forti”. Almeno, si deve trovare un compromesso accettabile, bisogna salvare la faccia.
Ma il signor FIAT – prima d’accusare la sinistra massimalista d’essere la rovina della nazione – dovrebbe guardare dalle proprie parti, in senso politico e geografico, per verificare se sia stata solo la sinistra comunista ad affossare il paese.

C’era una volta una grande azienda di nome FIAT, che produceva automobili popolari, le quali valevano tanto quanto le consorelle europee: oddio, una Opel era più robusta di una “Millecento”, ma le differenze non erano abissali.
A quel tempo c’erano in Italia altre case automobilistiche e vigeva un regime di concorrenza; quando ci sono dei competitori si deve scegliere fra due strategie: competere nello stesso segmento di mercato oppure difendere un segmento e tralasciare gli altri.
Il signor FIAT dell’epoca – e non stiamo qui ad illustrare i mezzi, altrimenti ne uscirebbe un libro – scelse la terza via: quella di mangiarsele.

Anche in questo caso, però, non è detto che tutto il male venga per nuocere: Wolkswagen assorbì Skoda, ma entrambe campano tuttora abbastanza bene.
Il signor FIAT acchiappò prima la Lancia , storica casa che produceva auto lussuose e di prestigio: nell’estate del 1978 – quando da pochi anni la Lancia era diventata FIAT – nel centro di Londra campeggiavano enormi pubblicità della “Beta Montecarlo”, considerata dagli inglesi quasi un sogno proibito. Se non potevi permetterti Jaguar od MG, potevi sempre acquistare una “Beta Montecarlo” e non sentirti proprio un “signor nessuno”.

Il prestigio della Lancia era principalmente dovuto ai successi ottenuti dalle mitiche “Fulvia HF” nei campionati di rally, ma anche le “ammiraglie” – Aprilia, Aurelia (leggendario il “coupé”), Flaminia e Flavia – erano lo “status symbol” del successo economico.
Per chi occupava uno scalino più basso c’erano sempre le “Fulvia” (berlina e coupé), che erano in ogni modo delle signore automobili, invidiate anche all’estero.
La filosofia Lancia poggiava sulla qualità e la qualità ha dei costi: carrozzerie in alluminio, cambi ZF di derivazione sportiva, motori a prova di bomba. Il tutto costava, ma il risultato era all’altezza delle aspettative.

La buona borghesia italiana viaggiava in Lancia e pochi acquistavano lussuose auto straniere: c’era il timore di ricambi più costosi…di lunghi tempi d’attesa per riceverli…e poi, perché comprare all’estero quando le Lancia ci erano addirittura invidiate per la loro classe?
Appena il nuovo management FIAT s’insediò in Lancia sparirono le carrozzerie in alluminio dalle Fulvia Coupé – ma questa era solo la prima avvisaglia – perché bisognava pensare ad una nuova serie di “ammiraglie”.
Per la nuova Lancia Gamma – versione berlina e coupé – il management Lancia propose (e non rivelerò la mia fonte) una “rivisitazione” del motore 2500 cm3 della Flaminia, un ottimo propulsore per una vettura di quel livello. I nuovi padroni – analizzando i costi – iniziarono a storcere il naso: perché non equipaggiare le nuove “ammiraglie” con un motore più economico, di casa FIAT?

Le proteste della vecchia dirigenza Lancia furono inutili: un propulsore maggiorato rimaneva sempre un’incognita; come avrebbe reagito un motore, nato per vetture di una categoria inferiore, alle modifiche per “spremergli” qualche decina di cavalli in più?
La nuova Lancia Gamma fu equipaggiata con un “economico” motore FIAT e messa in vendita ad un prezzo “Lancia”, ossia ben superiore a quello delle grosse cilindrate FIAT: tutti gli affezionati clienti Lancia (la media ed alta borghesia italiana) acquistarono fiduciosi la nuova nata. Che colpaccio per i bilanci FIAT.

Come andò a finire?
Con i piazzali della Lancia colmi di “Gamma” restituite dai concessionari: la maggior parte di esse aveva il pessimo gusto di bucare i pistoni nei primi 1.000 Km di percorrenza. Fu il primo di una serie di colossali errori, e chi oggi vorrebbe santificare Gianni Agnelli come un gran capitano d’industria dovrebbe riflettere e contare almeno fino a venti. Un uomo arguto, colto e simpatico: un grande capitano d’industria? Beh…

A meno di credere che un capitano d’industria sia solamente un uomo che moltiplica per un certo periodo i profitti di un’azienda, non si può concedere quella patente agli Agnelli perché le vacche grasse durano appunto “per un certo periodo”, dopo svaniscono.
In quegli anni, avvenne la grande penetrazione dell’industria automobilistica tedesca nel mercato italiano: oggi, marchi come Audi, Mercedes e BMW sono praticamente sinonimi di vetture eleganti di grossa cilindrata, le ammiraglie, appunto. Le stesse che sapevamo produrre anche in Italia, e che per uno scherzetto da nulla – vendere alla miglior clientela delle ciofeche – ci è costato l’uscita dal segmento delle auto di lusso.

Oggi il marchio Lancia è praticamente limitato alle piccole cilindrate che sono il frutto di un’altra acquisizione – Autobianchi – poi confluita in Lancia: dalla Autobianchi A112 parte la linea evolutiva che conduce oggi alle attuali Lancia Y, ma questo non ha nulla a vedere con quello che era il punto “forte” del mercato Lancia, ossia soddisfare una clientela esigente con auto costose ma di gran valore. Berlino ringrazia.
Il rampante Lapo – grande amante, come il nonno, dello sci e delle “piste” – si lamentò perché la classe politica italiana snobbava le attuali ammiraglie Lancia: come, costruiamo dei gioielli e voi non li accogliete? Che Stato balzano è mai questo, che snobba la “crema” della produzione nazionale?

Difatti, le ammiraglie Lancia le vediamo solo più in televisione: le usano i politici e basta. Provate a circolare per Roma quando passa il codazzo urlante della polizia: in mezzo c’è la Lancia del ministro di turno. E poi gridano agli sprechi: provassero a viaggiare con una Punto, invece d’essere gli unici acquirenti dei “misteri” Lancia.
Dopo Lancia venne l’ora dell’Alfa Romeo – anche qui ci sarebbe da scrivere un bel romanzo nazionalpopolare – e lo Stato si ritirò dal mercato automobilistico cedendo tutto ai potenti signorotti torinesi.
Per quanto riguarda alcune produzioni d’elite, FIAT cercò di non cadere nel vecchi errore commesso con la Lancia , ma l’Alfa Romeo produceva in Campania una vetturetta popolare dal motore grintoso: la “Alfasud”.

Ebbene, con l’ingresso in FIAT, avvenne un fenomeno curioso: si raccontava che le auto partissero da Napoli e, giunte a Milano, già iniziassero a marcire.
Gli italiani sono anche patrioti, ma non sono fessi.
Anche le auto straniere erano preda della ruggine – solo negli anni ’90 la protezione divenne più efficace, grazie a nuove tecniche – ma una Renault od una Ford non lasciavano una scia di ruggine come le FIAT. Potevi portarti appresso una calamita e legarla al paraurti posteriore: a fine mese depositavi il tuo chiletto di metallo al demolitore e ci ricavavi qualcosa.
Niente da fare: nonostante tutte le cure, le verniciature, la copertura anche del minimo graffio, 128 ed Alfasud, 126 e furgoncini si scioglievano come se fossero stati a bagno nell’acido. Sembrava che la ruggine partisse dall’interno del metallo e non dagli agenti atmosferici esterni: come si spiegava un simile fenomeno?

Il risparmio è sempre stato il vero pallino degli Agnelli, sin dai tempi di Valletta: risparmi un centesimo il giorno e, siccome i giorni di una potente casata sono molti, alla fine si fanno i miliardi.
La Grecia vendeva il suo acciaio ad un prezzo stracciato? Eh sì, pagavano meno il personale…i greci sono gente paziente, che lavora per un pezzo di pane…saranno pure stati dei gran filosofi, ma oggi sono dei poveracci e – pur di lavorare – ci fanno ottimi prezzi.
Treni colmi di rotoli d’acciaio giungevano a Torino, sbarcati dalle navi giù rugginosi, rossi come le terre argillose del Monferrato che attraversavano prima di diventare portiere e parafanghi.

La Grecia – nazione così povera d’acqua – dove trovava l’enorme quantità di prezioso liquido per raffreddare le colate ed i laminatoi a caldo? Le raffreddavano con l’acqua di mare.
Qualcuno ha sentito parlare di NaCl, cloruro di sodio, il comune sale da cucina? Quale effetto pensate che generi se incluso nell’acciaio? Un bel risparmio.
Dopo essere stati presi in giro per alcuni decenni, gli italiani iniziarono a non farsi più incantare dalle sirene torinesi e volsero la loro attenzione altrove: iniziarono gli anni bui, ed i guai.
La FIAT perdeva contemporaneamente percentuali di mercato e miliardi ad ogni bilancio, che si traducevano in cassa integrazione e mobilità per i lavoratori FIAT, ed in semplici licenziamenti per le piccole fabbriche dell’indotto. A questo servono le piccole dimensioni di un’azienda: fungono da “polmone” per assorbire le crisi, che se le trovano tutte sul gobbo i lavoratori, mica i Lucherini.

Oggi l’azienda torinese è in ripresa – perché l’alternativa era soccombere – e si è messa a produrre un po’ meglio. Un po’. Gli altri, nel frattempo, sono andati avanti e presto arriveranno vetturette cinesi a prezzi stracciati: altri guai in vista per chi non sa lavorare sulla qualità. La soluzione FIAT? Una joint venture con la Tata indiana, andranno a costruire le Punto in India, come costruivano le “ 600” in Jugoslavia quando l’Europa era già zeppa di Golf.

E così la colpa del pessimo andazzo economico è dei lavoratori: la volete smettere di mangiare a colazione, pranzo e cena? Noi, affermano i Lucherini in coro, siamo la testa e voi il corpo – ricordate Menenio Agrippa? – e sappiamo solo pensare. S’è visto come.
Pare che la memoria sia il punto debole dei Lucherini: cantano senza spartito, e non ricordano mai che il costo del lavoro, in Italia, è uno dei più bassi d’Europa. Se quei lavoratori fossero utilizzati per produrre beni ad alto valore aggiunto – ma anche solo buone automobili, non quelle che un mese dopo l’acquisto devono già rientrare alle concessionarie per mille piccoli guai – quel lavoro produrrebbe più ricchezza e ci sarebbero più risorse, per tutti.

A chi tocca operare queste scelte? Perché in Italia si tagliano i fondi per la ricerca? Perché non si cerca d’entrare nel futuro delle nuove tecnologie in campo energetico, elettronico, informatico, biologico, elettromedicale? Che sia proprio vero – come affermano i napoletani – che “’O pesce fete da ‘a capa?”
Da tutte queste vicende, se vogliamo trovare un comune denominatore, non c’è tanto da scegliere: quando si guadagna sono per noi (Autostrade), quando si perde sono dello Stato (Ferrovie). Negli anni di vacche grasse FIAT è una grande azienda privata che compete sul mercato mondiale, in quelli di vacche magre diventa una “risorsa per la nazione”.

Ora, il Lucherino vorrebbe farci lavorare fino a 65 anni perché non ci sono i denari per pagare le pensioni. Domanda: dove sono finiti i versamenti del lavoratori?
Ah, già…i Lucherini sanno gorgheggiare a meraviglia ma hanno scarsa memoria: non ricordano mai il balcone dove si sono recati per fare incetta di briciole.
Dove sono stati presi i denari per pagare decenni di (doverosa) cassa integrazione ai lavoratori, quando la FIAT era una “risorsa per la nazione”? Dalle casse dell’INPS, perché in Italia non siamo nemmeno capaci di separare la Previdenza dall’Assistenza: almeno, questo è ciò che ci raccontano.

Se la Previdenza fosse destinata soltanto alle pensioni, per l’Assistenza bisognerebbe provvedere altrimenti: magari con la creazione d’appositi fondi che le aziende dovrebbero rifornire negli anni di vacche grasse. Niente di molto diverso da quanto facevano gli Egizi tremila anni or sono.
Purtroppo, non si riesce a separare la Previdenza dall’Assistenza…eh già, è un problema che ci trasciniamo da decenni…tutte le classi politiche ne sono responsabili, non una sola parte. Quando si presenta il problema ai politici, in genere parte questo pianto antico da coccodrilli: “tutti insieme appassionatamente” a denunciare le omissioni d’interi decenni, uno scaricabarile planetario.

Chissà cosa succederebbe se i soldi destinati alle pensioni fossero utilizzati per quello scopo, e le aziende dovessero accollarsi, almeno in parte – con la costituzione d’appositi fondi – i costi dei loro errori strategici?
Peccato davvero, perché sarebbe un interessante esperimento evoluzionista: osservare se i Lucherini – sbattendo la tovaglia in un diverso balcone ad ore alterne – ritroverebbero la memoria.
Purtroppo non si riesce proprio a portare a termine l’esperimento, ed i Lucherini continuano a becchettare dove trovano briciole, senza mai serbare memoria dei luoghi che visitano e, soprattutto, di chi rifornisce di preziose briciole quei balconi.

 

Sensazionale: Centrofondi declassa gli Usa!
Pierluigi Paoletti - www.centrofondi.it 

La notizia del giorno, strombazzata da tutti i mass media, è ovviamente il declassamento del nostro rating che oramai ci vede soli al penultimo posto in Europa davanti solo a Grecia e Polonia con una misera A+ al pari di Botswana, Corea del Sud, Kuwait, Malesia, Trinidad e pochi altri.
Dire che l’avevamo previsto da tempo (http://www.centrofondi.it/report/report_03_04_06.pdf e http://www.centrofondi.it/report/report_04_01_06.pdf ) sarebbe come sparare sulla croce rossa. Non siamo veggenti, solo abbiamo imparato a leggere le cose economiche con occhi disincantati per cui diventa facile prevedere le mosse scontate di chi manovra. Tranquilli, non siamo complottisti ad oltranza, non vogliamo vedere il marcio anche dove non c’è. Sono i fatti, per come si stanno svolgendo, che ci impongono almeno di farci qualche domanda.

Se diamo uno sguardo ai paesi che hanno la massima valutazione del rating (ovvero sono ottimi debitori) vediamo che ci sono tutti i paesi anglofoni come Stati Uniti, Australia, Inghilterra e sappiamo anche che il rating è un servizio per gli investitori che rivela il grado di affidabilità delle obbligazioni emesse da parte di uno stato. Non c’è anche nessun dubbio che noi abbiamo uno dei debiti pubblici più elevati tra i paesi occidentali ovvero, leggendo la cosa in termini di signoraggio, abbiamo chiesto denaro fresco alla Banca Centrale per un importo di poco superiore alla nostra produzione annuale ed a fronte di queste emissioni di nuovo denaro, che non ha, lo ribadiamo ancora una volta, alcuna copertura di oro o altra ricchezza alle spalle, la banca centrale ci ha chiesto in contropartita l’emissione di altrettante obbligazioni che poi vengono in parte rivendute dalle banche ai risparmiatori, privati o istituzionali, di tutto il mondo.

Bene, per semplificare riportiamo il classico esempio della tipografia ( la BC ) che invece di chiedere il pagamento dei costi più suo sacrosanto guadagno per la stampa dei biglietti della partita richiede, tramite l’emissione di obbligazioni (cambiali), l’intero valore facciale dei biglietti. La tipografia (sempre la BC ) poi vende (in tutto o in parte) le obbligazioni intascandosi il controvalore ed il cliente deve pagare gli interessi agli acquirenti finali delle obbligazioni.
Già qui appare chiaro che c’è qualcosa che non va nel meccanismo, o la tipografia e troppo furba o il cliente è troppo scemo oppure i due (BC e politici) si sono messi d’accordo per fare fesso un terzo che poi è quello che alla fine paga sempre (cioè tutti noi).

Il punto è che alla fin fine questo è un debito che non esiste se pensiamo che ci sono stati venduti “solo” dei pezzi di carta a fronte di ricchezza “vera”, pagati con varie finanziarie, tasse ecc. oltre naturalmente agli interessi che ogni anno ammontano ad oltre 60 mld di euro. L’attuale declassamento comporterà un maggior onere per gli interessi che serviranno per appetire i compratori dei nostri titoli e enormi sacrifici (e soprattutto ancora svendite del patrimonio pubblico) per ricondurre un debito che ormai, grazie agli interessi sugli interessi, è ormai fuori controllo.
Ora vediamo invece un altro tipo di debito che è quello che uno stato ha nei confronti di tutti gli altri, ovvero il deficit commerciale, quello che ai tempi di Bretton Woods veniva pagato in oro dai paesi debitori. Al contrario del debito pubblico di cui abbiamo visto sopra la natura, il deficit commerciale è scambio di ricchezza reale ovvero io stato importo beni e servizi in misura superiore a quanto riesco ad esportare.

Valutando questo gli Stati Uniti hanno 800 miliardi di dollari di debiti con l’estero (il 6% circa del PIL) in picchiata dagli anni ‘90, l’Australia idem contro appena l’1,8% dell’Italia.

L’Inghilterra, ma anche Usa e Australia hanno numeri simili, pur avendo un Pil di poco superiore al nostro, ha un indebitamento dei privati che secondo alcune stime arriva a valori impressionanti ovvero 2.000 miliardi di euro ovvero addirittura superiore al nostro debito pubblico che è intorno ai 1500 mld di euro.
Come si può spiegare allora il massimo rating dato a questi paesi?
Difficile da dire si può solo dire che tutte le società di rating sono società private, che FMI, Banca Mondiale, BCE, FED, BRI, Commissione europea ecc. sono tutti organi sovranazionali che fanno gli interessi esclusivi di chi li controlla e che nei confronti dell’Italia c’è un interesse speciale per le ricchezze che questo paese ancora può offrire ai nuovi
conquistadores e la nostra ipotesi di un nuovo 1992 alle porte vedrete che non è tanto campata in aria.

Nel nostro piccolo oggi facciamo un’azione sensazionale. Declassiamo Usa, Inghilterra e Australia da tripla A a un B--!
Credete che qualcuno ci stia a sentire?
Dal fronte dei dati macroeconomici intanto arrivano una raffica di dati che evidenziano una crisi incipiente dell’economia americana come i prezzi all'ingrosso a -1.6% sul mese scorso, la produzione industriale a -0.6% mese su mese mentre l'utilizzazione della capacità è calata anche questa inaspettatamente di uno 0.6%. Giorni fa erano usciti i consumi con il segno meno -0.4% e venerdì scorso gli occupati a 50mila invece di 120mila attesi. Tutto questo mentre gli indici azionari toccano i massimi di maggio o addirittura, è il caso del Djones, toccano i massimi di tutti i tempi.

Se le borse anticipano di circa sei mesi gli andamenti economici, allora o stanno guardando un altro film o sono proprio in ritardo (che centrino qualcosa le elezioni americane?).
Nel secondo caso è probabile che all’improvviso girino verso sud recuperando tutto il tempo perso e lasciando sul campo i corpi (per fortuna solo finanziari) dei soliti creduloni dell’ultim’ora.
C’è un’altra notizia che merita la nostra attenzione ed è la crescita del grano che da metà settembre ha avuto un’impennata dei prezzi

 

Quest’anno avremo la più bassa produzione di grano degli ultimi 25 anni http://www.ft.com/cms/s/0c021878-5a16-11db-8f16-0000779e2340.html e gli esperti già parlano di crisi
senza precedenti e sono seriamente preoccupati per i prossimi anni.
Purtroppo questo è il frutto della politica agricola suicida, dove si è cercato l’industrializzazione e la globalizzazione di un settore che NON PUO’ e NON DEVE essere industrializzato né tantomeno globalizzato.

E nel nostro piccolo rinnoviamo l’appello agli imprenditori agricoli a sganciarsi dalla folle politica agricola comunitaria per attuare nuove politiche imprenditoriali anche redditizie come quella da noi proposta http://www.centrofondi.it/sapore_cuore.htm per rivitalizzare l’agricoltura e le economie locali. Noi da parte nostra mettiamo tutta la nostra esperienza e siamo disponibili a dare il nostro aiuto e la nostra collaborazione a tutti coloro che vorranno attuare o proporre ad altri questo progetto.
Il futuro è solo nostro, solo noi possiamo decidere se vivere in un inferno o in un paradiso, ma bisogna scegliere…il tempo stringe.

Sul fronte valutario probabilmente il recupero del dollaro sull’euro ha le ore contate la volatilità in questa fase di sostanziale stallo dagli 1,25 a 1,3 è arrivata ai minimi dal 2001

 

Un suo aumento, come dimostra il passato, indicherebbe un nuovo apprezzamento dell’euro sul dollaro Dal fronte dell’oro sembrerebbe che questa volta il nuovo ciclo fosse partito

ed il superamento della trend line rossa ne sarebbe la conferma. Questo nuovo ciclo porterebbe l’oro a crescere fino a dicembre-gennaio dopodichè inizierà la fase discendente del ciclo annuale iniziato a giugno scorso.
Poiché qualcuno ha parlato di bolla speculativa dell’oro, vi mostriamo un grafico dell’oro dal 1971 in poi aggiustato con l’inflazione
 

Da questo grafico si vede come la corsa dell’oro dal 2000 sia solo un adeguamento dei prezzi all’inflazione, di bolla se ne potrà parlare (vi consigliamo di rileggervi il report sulla sequenza delle bolle speculative http://www.centrofondi.it/report/report_09_02_05.pdf) solo quando i prezzi saranno a ben altri livelli e comunque quando sentirete parlare di oro dal fornaio allora quello sarà uno dei sintomi della bolla sull’oro, non prima.
Per il lungo periodo lo vediamo ancora un buon investimento e badate bene che l’oro non dà nessun interesse, è da vedere solo come un qualcosa che mantiene il suo potere di acquisto nel tempo al contrario di tutte le altre cose che si svalutano in mano giorno dopo giorno
Naturalmente questo fino a quando non ci libereremo anche di questa convenzione (l’ultima) ed a quel punto ci potremo considerare uomini liberi, ma allora saremo ritornati al denaro non come riserva di valore, ma solo come mezzo di scambio, non avremo più timore del futuro e avremo tutti la ricchezza e l’abbondanza che ci meritiamo…ma questa è un’altra storia.
That’s all folks


25 ottobre

Stipendi, la quasi inarrestabile disfatta degli impiegati
Quest’anno gli impiegati si ritrovano in busta paga un quarto di quanto va ai dirigenti. 25 mila euro contro 100 mila euro l'anno. Nel 2001 il rapporto era un terzo. Peggiorato anche il rapporto con le retribuzioni dei quadri. I settori che pagano meglio. 

di FEDERICO PACE

Rappresentano una delle componenti più ampie della forza lavoro. A lungo sono stati il motore degli uffici. Eppure gli impiegati, in Italia, ma non solo, riescono a trarre sempre meno da quel che fanno sul lavoro. E’ come se per loro, le fette della torta della ricchezza dell’azienda si siano fatte sempre più piccole. Chi sta nel mezzo, viene da dire, è il primo a rimetterci.

Negli ultimi anni l’evoluzione è stata quasi inarrestabile. Secondo i dati elaborati dal 7° Rapporto sulle retribuzioni in Italia realizzato da OD&M, nei primi otto mesi del 2006 i dirigenti italiani hanno mostrato in media una retribuzione pari a quasi quattro volte quella di un impiegato. Più di quanto non fosse qualche anno fa. Nel 2001 la proporzione era di poco più di tre a uno (vedi tabella). La stessa evoluzione si è registrata anche in rapporto alle retribuzioni dei quadri. Se nel 2001 la paga di un impiegato era quasi il 60% di quella di un quadro ora è scesa a poco più alla metà. Insomma chi guadagnava più degli impiegati, oggi guadagna ancor di più.

“La difficoltà della situazione impiegatizia rimanda a tre fattori - ci ha detto Andrea Panzeri di OD&M (leggi intervista integrale) - Per prima cosa ci sono le trasformazioni tecnologiche e organizzative che hanno finito per impoverire il contenuto professionale di molte professioni. Collegato a questo c’è il rapporto tra l’offerta di lavoro e la domanda. In particolare siamo di fronte a un’offerta di lavoro sempre più scolarizzata e a una domanda che è relativa a profili non necessariamente qualificati. In fine ci sono gli effetti di quella che è stata la flessibilizzazione del mercato soprattutto in termini di ingresso.” Insomma si va verso una polarizzazione dell’occupazione e, di riflesso, delle retribuzioni e gli impiegati sono nel bel mezzo di un ciclone che rimette in discussione la loro stessa identità.

I dati del 7° Rapporto sulle retribuzione di Od&M consulting prendono in considerazione 1,5 milioni di profili retributivi di cui il 63,7 per cento è relativo agli impiegti, il 21% per cento di quadri, il 9,5 di dirigenti e il 6% di operai.

Le retribuzioni del 2006. Se si guarda ai valori espressi nei primi otto mesi del 2006 ci si accorge che un dirigente si ritrova in busta paga circa centomila euro lordi l’anno, un quadro arriva intorno ai 50 mila euro mentre gli impiegati superano di poco i 25 mila euro e agli operai spetta poco meno di 22 mila euro.

Rispetto all’anno scorso, quest’anno sono stati i dirigenti (vedi tabella) ad avere avuto il più elevato incremento. La loro retribuzione è infatti cresciuta in termini nominali del 6,7%. In leggera ripresa anche quella degli impiegati (+4,9 per cento) ovvero circa 1.239 euro in più in termini nominali che però in termini reali (al netto del costo della vita) valgono circa la metà, ovvero 661 euro. Dal 2001 a oggi (vedi tabella) è la prima volta che gli impiegati vedono crescere le proprie retribuzioni più di quanto non succede ai loro diretti superiori, ovvero i quadri.

I quadri nei primi mesi del 2006 si ritrovano in busta paga 2.227 euro in più (+4,7%) rispetto al 2005. In termini reali l’incremento è però di 1.126 euro (+2,4%). Dal 2001 a oggi lo stipendio annuo lordo è passato dai 40.885 euro ai 50.114 euro. Ovvero un incremento di quasi diecimila euro che in termini reali si riduce a 4.194 euro (vedi tabella). Le retribuzioni degli operai hanno registrato, rispetto al 2005, l’incremento meno elevato pari al 4,2% (vedi tabella).

I comparti. Per quanto riguarda i dirigenti il comparto che remunera meglio è quello delle banche e delle società finanziarie con una media di 123mila e 130 euro annui, seguono le imprese di telecomunicazioni dove la retribuzione annua arriva in media a 104.861 euro (vedi tabella). Gli stessi settori sono anche quelli dove i quadri trovano le migliori opportunità retributive (vedi tabella). Gli impiegati invece guadagnano lo stipendio più elevato nella fabbricazione di macchine e apparecchi meccanici (28 mila e 454 euro) seguiti da quelli che lavorano nell’alimentare (vedi tabella). Il comparto invece con i valori retributivi più bassi è quello degli studi professionali con 21mila e 540 euro.

Gap di genere. Si va riducendo invece, secondo i dati di OD&M il divario tra le retribuzioni degli uomini e quelle delle donne. Per quanto riguarda i dirigenti la differenza in termini assoluti passa da 6.187 euro a 5.233, per i quadri da 2.409 a 1.908, per gli impiegati da 3.182 a 2.843 e per gli operai da 1702 a 623.

Diversi studi confermano l’attuale evoluzione che mostra come in diversi paesi, come Germania, Regno Unito, Stati Uniti la polarizzazione delle retribuzioni stia crescendo incessantemente. Secondo i dati Ocse, l’Italia è tra i paesi in cui la disparità è cresciuta di più insieme a Regno Unito e Giappone. Secondo i dati Eurostat sono le metropoli le aree dove le retribuzioni tendono ad essere più elevate e dove si ampliano le distanze tra i "più ricchi" e i "più poveri". Il picco continentale si registra nell’area di Londra dove la retribuzione media del 10 per cento più ricco è pari a 104.034 euro mentre lo stipendio lordo medio di chi guadagna meno è di 16.931 euro con un rapporto che raggiunge il 6,1. Rapporto "meno equo" anche a Bruxelles (3,7), Madrid (4,5), Amburgo (4,2) e Parigi (3,9).

L’ineguaglianza, scriveva L’Economist a propostito della crescente disparità retributiva negli Stati Uniti, non è di per sé negativa ma per non esserlo deve soddisfare tre condizioni: la società nel complesso deve diventare più ricca; ci deve essere una rete di sicurezza per i più poveri; e terzo, ognuno, al di là della classe, etnia, credo o sesso, deve potere avere un’oppurtunità per migliorare la propria condizione.

 

Il rapporto sullo stato di salute della Terra indica un crollo
della biodiversità e la riduzione vertiginosa delle risorse

Allarme del Wwf: "Un pianeta non basta
Entro il 2050 risorse insufficienti"

"Bisogna cambiare, se non lo faremo conseguenze certe e terribili"

<B>Allarme del Wwf: "Un pianeta non basta<br>Entro il 2050 risorse insufficienti"</B>
ROMA - Gli ecosistemi naturali si stanno degradando a un ritmo impressionate, senza precedenti nella storia della specie umana e la conseguenza più immediata è la perdita di biodiversità. Le conseguenze di questi processi sono catastrofiche già nel medio periodo: entro il 2050 le risorse della Terra non saranno più sufficienti, se continueremo a sfruttarle a questi ritmi. Sono le conclusioni del "Living Planet Report 2006", l'ultimo rapporto del WWF, giunto alla sua sesta edizione, presentato oggi a livello mondiale proprio da uno dei paesi a più rapido sviluppo, la Cina. "Fare dei cambiamenti che migliorino i nostri standard di vita e riducano il nostro impatto sulla natura non sarà facile - ha detto il direttore generale di Wwf International, James Leape - ma se non agiamo subito le conseguenze sono certe e terribili".

L'uomo distruttore. Secondo il rapporto, che è stato redatto dopo due anni di studi, la perdita di biodiversità già segnalata nelle precedenti edizioni è sempre più marcata e il consumo di acqua, suolo fertile, risorse forestali e specie animali ha raggiunto livelli intollerabili per il pianeta. Il rapporto dimostra che in 33 anni (dal 1970 al 2003) le popolazioni di vertebrati hanno subito un 'tracollo' di almeno 1/3 e nello stesso tempo l'impronta ecologica dell'uomo - cioè quanto 'pesa' la domanda di risorse naturali da parte delle attività umane - è aumentata tanto che la Terra non è più capace di rigenerare ciò che viene consumato.

Il ruolo dell'Italia. Il consumo incontrollato riguarda tutti i paesi e l'Italia, sebbene dietro al resto dell'Europa, è al 29esimo posto nella classifica mondiale delle nazioni scialacquatrici. E' evidente, secondo il Wwf, che anche l'Italia deve cambiare rotta al più presto e imboccare la strada della sostenibilità del proprio sviluppo, integrando le politiche economiche con quelle ambientali.

Correre ai ripari. "Siamo in un debito ecologico estremamente preoccupante, considerato che i calcoli dell'impronta ecologica sono per difetto - ha spiegato Gianfranco Bologna, direttore scientifico del Wwf Italia - Consumiamo le risorse più velocemente di quanto la Terra sia capace di rigenerarle e di quanto la Terra sia capace di 'metabolizzare' i nostri scarti. E questo porta a conseguenze estreme ed anche molto imprevedibili".

Per questo, secondo Bologna, "è tempo di assumere scelte radicali per quanto riguarda il mutamento dei nostri modelli di produzione e consumo. Il nostro futuro dipenderà da come impostiamo oggi la costruzione delle città, da come affrontiamo la pianificazione energetica, da come costruiamo le nostre abitazioni e da come tuteliamo e ripristiniamo la biodiversità".

I dati. Il rapporto del Wwf ha analizzato in tutto 695 specie terrestri, 344 di acqua dolce e 274 specie marine. Negli oltre trent'anni presi in considerazione le specie terrestri si sono ridotte del 31%, quelle di acqua dolce del 28% e quelle marine del 27%. Il secondo indice, l'Impronta Ecologica, misura la domanda in termini di consumo di risorse naturali da parte dell'umanità. Il "peso" dell'impatto umano sulla Terra è più che triplicato nel periodo tra il 1961 e il 2003. Questo rapporto mostra che la nostra impronta ha già superato nel 2003 del 25% la capacità bioproduttiva dei sistemi naturali da noi utilizzati per il nostro sostentamento. Nel rapporto precedente era del 21%.

In particolare, l'impronta relativa alla CO2, derivante dall'uso di combustibili fossili, è stata quella con il maggiore ritmo di crescita dell'intera impronta globale: il nostro "contributo" di CO2 in atmosfera è cresciuto di nove volte dal 1961 al 2003. L'Italia ha un'impronta ecologica (sui dati 2003) di 4,2 ettari globali pro capite con una biocapacità di 1 ettaro globale pro capite, dimostrando quindi un deficit ecologico di 3,1 ettaro globale pro capite.

 

24 ottobre

La lezione di Gomorra

di Gianluca Di Feo

Dopo le minacce decisa la scorta a Roberto Saviano. Per il quale si è mobilitata tutta Italia. Ma ora bisogna colpire il sistema dei boss

Lo Stato ha fatto il primo passo: Roberto Saviano verrà protetto. Il Comitato per l'ordine e la sicurezza, guidato dal prefetto di Napoli Renato Profili, aveva aperto la procedura per la tutela armata dopo le minacce contro lo scrittore che ha sfidato i boss tre volte: con il suo libro, con i suoi articoli e con le sue parole. Ma l'eco internazionale che ha avuto l'articolo de 'L'espresso' con la descrizione delle intimidazioni ha spinto anche il ministro Giuliano Amato a intervenire in prima persona. E più della scorta, a garantire l'incolumità fisica dell'autore di 'Gomorra' provvederà il muro di solidarietà che è sorto intorno a lui. Si sono schierate al suo fianco le massime istituzioni campane, dal governatore Antonio Bassolino al cardinale Crescenzio Sepe. Si sono mobilitati tantissimi scrittori, che hanno aggiunto le loro parole all'appello lanciato da Sandrone Dazieri con le firme di Massimo Carlotto e Giancarlo De Cataldo. Umberto Eco in un'intervista al Tg1: "Il caso di Saviano si lega a Falcone e Borsellino. Perché in questi caso sappiamo da dove arriva la minaccia, sappiamo persino i nomi e i cognomi. Si tratta di intervenire preventivamente e pubblicamente su un fenomeno di cui si sa tutto". Ma soprattutto c'è stato un coro di sostegno a Saviano da Napoli e dagli altri centri della Campania, la sua terra: quella che lui ha raccontato nelle pagine di 'Gomorra' come vittima di un 'sistema' criminale che distrugge tutto: le persone, l'ambiente, l'economia.

Lo Stato ha fatto il primo passo. Ma adesso è necessario che vada avanti. Perché 'Gomorra' è diventato una denuncia nazionale, che mette sotto gli occhi di tutti l'inarrestabile ascesa della camorra campana e delle sue ramificazioni internazionali. Una denuncia che presto verrà tradotta e pubblicata in 20 paesi, dagli Stati Uniti alla Svezia, e che ha già conquistato le pagine dei quotidiani europei. Roberto Saviano ha scritto tutto quello che ha visto: integra con la sua testimonianza gli atti di centinaia di indagini che non sono quasi mai riuscite a raggiungere condanne definitive. O che sono state vanificate dall'indulto o da evasioni beffa, come quella del boss Lauro scomparso dopo la scarcerazione per un cavillo burocratico. 'Gomorra' ha dato voce a tutti i campani che non si arrendono allo strapotere della criminalità organizzata. Negli articoli de 'L'espresso' la sua denuncia si è allargata all'incapacità della classe politica di dare una risposta: di liberare i cittadini dalla camorra e dall'immondizia, il nuovo oro nero delle mafie. Poi, al fianco del presidente della Camera Fausto Bertinotti, nella piazza di Casal di Principe, la città che negli Novanta aveva il record mondiale di omicidi, si è rivolto direttamente ai padrini, invitandoli ad andarsene. Ecco quale deve essere il secondo passo. Partire da Casal di Principe e dal Casertano, nuovo polmone di capitali finanziari delle cosche che marciano su Roma. E da Secondigliano, periferia disumana diventata centro di traffici mondiali.

 

Banlieues un anno dopo

Parigi teme una nuova rivolta
Violenze nelle periferie. I Servizi: intatte le radici dell'odio

di BERNARDO VALLI

ALLE 18,12 DEL 27 ottobre 2005, a Clichy-sous-Bois, nella periferia parigina, due giovani, Bouna Traoré, 15 anni, e Zyed Benna, 17 anni, morivano fulminati nella cabina elettrica in cui si erano introdotti scavalcando una rete metallica. Muhittin Altun, 17 anni, sopravvissuto con gravi ferite, raccontava di essersi nascosto con i compagni nel trasformatore dell'EdF (Electricité de France) per sfuggire ai poliziotti dai quali pensava di essere inseguito.

La notizia ha scatenato sommosse nelle grandi banlieues del Paese per ventuno notti consecutive, durante le quali sono state incendiate novemila automobili, sono stati devastati o danneggiati numerosi edifici pubblici, in gran parte scuole, e sono state fermate più di tremila persone, per lo più adolescenti.

Per tre settimane la Francia ha assistito stupita, sconvolta a quella esplosione di collera ai margini delle metropoli.

Una collera che non traboccava mai dai quartieri popolari in quelli residenziali, o nei centri commerciali, come se fosse una rabbia rispettosa delle frontiere sociali, e osasse sfogarsi soltanto nella desolata intimità dei sobborghi slabbrati, riservati ai poveri. I quali hanno distrutto le automobili dei vicini di casa, spesso altrettanto sfortunati, e danneggiato le proprie scuole.

Prima i francesi hanno temuto che la protesta degenerasse e si macchiasse di sangue, poi hanno cominciato a interrogarsi sui motivi che spingevano i figli di immigrati, spesso nati in Francia e con la nazionalità francese, a lanciarsi in quella che i commentatori più precipitosi chiamavano un'"intifada alla francese", e che Jacques Chirac, uscito da un lungo silenzio, si decise a definire "une crise d'identité, de sens et de repères". Per il presidente quei giovani piromani avevano smarrito il senso della vita e non avevano un punto di riferimento. I sociologi lessero nella sommossa delle banlieues tre messaggi: una ribellione contro la polizia (considerata un nemico e colpevole di avere provocato la morte dei ragazzi di Clichy-sous-Bois); un sentimento di abbandono nei confronti della scuola; e il rifiuto della discriminazione subita dai figli degli immigrati quando cercano un lavoro.

Si accese inevitabilmente un dibattito sul modello di integrazione francese basato sull'assimilazione; e non furono in pochi a denunciarne il fallimento. La rivolta degli immigrati, in larga parte di origine africana, annunciava il prevalere del comunitarismo, specificità anglosassone considerata una degenerazione nella Repubblica giacobina. I difensori del modello francese sono subito insorti. Fallito? È falso.

Affermarlo equivale a un insulto. Quando è stato applicato quel modello ha funzionato. Esso si articolava in più capitoli tutti tesi all'assimilazione.

I principali erano: la scuola repubblicana; il servizio militare; la forza dei sindacati integratori; l'assenza di ghetti etnici. E ancora, naturalmente, il primato della lingua e dell'insegnamento della cultura francese su quelli dei paesi d'origine degli immigrati.

Ma quasi tutto è finito in un disordine e in una passività che hanno favorito il comunitarismo, tanto denunciato ma ormai solidamente installato.

Ci fu anche chi sostenne che la violenza dei giovani delle banlieues, in gran parte magrebini, era la prova di una reale integrazione, poiché con quella violenza si esigeva l'applicazione dei principi repubblicani anche ai figli degli immigrati, che si sentivano discriminati. Lo sostenne uno storico, Emmanuel Todd, il quale fu subito sommerso dalle critiche. I ragazzi delle periferie non erano dei ribelli, hanno sentenziato i censori più severi.

Erano degli esclusi, spesso autoghetizzatisi, diventati dei rivoltosi nihilisti. Senza patria e senza principi. Come i protagonisti del film (L'Odio) di Mathieu Kassovitz.

Un anno dopo i Renseignements Généraux, il servizio della polizia che segue gli avvenimenti politici e sociali, insomma "l'orecchio del governo", sostiene in un rapporto confidenziale (rivelato dal Figaro), che "la maggior parte delle condizioni dodici mesi fa all'origine dello scatenamento della violenza collettiva sono ancora presenti". Il documento è esplicito: nelle banlieues può esplodere una nuova rivolta. L'allarme riguarda soprattutto la regione parigina, dove tutto è cominciato nel 2005.

Il testo contrasta con la relativa fiducia manifestata pubblicamente dal ministro degli Interni, Nicolas Sarkozy, secondo il quale non ci sarebbero finora segnali allarmanti. I poliziotti fanno tuttavia confidenzialmente notare che basta molto poco per mettere in agitazione le borgate. In settembre sono avvenuti 7 mila 327 episodi di violenza urbana; un netto aumento rispetto al mese precedente; nei primi sei mesi dell'anno ce ne sono stati oltre 50 mila. Nelle ultime settimane dei poliziotti sono stati aggrediti da bande di giovani, in alcuni casi sono caduti in veri e propri agguati. Questi fatti, "non più spontanei ma strutturati", sono sottolineati nel rapporto dei Renseignements Généraux e presentati come indizi rivelatori di possibili imminenti disordini, questa volta organizzati.

L'allarmata analisi della polizia è condivisa da tutti i sindaci delle città in cui ci sono quartieri definiti "sensibili" dalla burocrazia. Ed entrambi, sindaci e poliziotti, sono d'accordo nel denunciare quello che per loro è l'eccessivo zelo dei giornalisti in questi giorni impegnati a sondare gli umori delle banlieues, un anno dopo la sommossa. L'insistente attenzione della stampa potrebbe sollecitare l'esibizionismo dei giovani e spingerli a diventare i protagonisti di una nuova rivolta. Ma cosa è cambiato, che cosa è stato fatto in questi dodici mesi per distogliere i rivoltosi del 2005 dal compiere gli stessi vandalismi nel 2006? Secondo Claude Dilain, sindaco socialista di Clichy-sous-Bois, i suoi amministrati "non hanno visto cambiare lo sguardo sprezzante che la società getta su di loro". In sostanza per lui non è cambiato nulla, o molto poco.

Il governo agisce in due direzioni. Da un lato il primo ministro Dominique de Villepin esalta l'azione dell'Associazione nazionale per la coesione sociale, dotata di mezzo miliardo di euro da spendere nel 2007; ed enumera altresì le "cento misure" prese per agevolare la vita nelle periferie più disastrate. Si tratta di iniziative che chiedono tempo prima di dare risultati. Come del resto il ribasso della disoccupazione sul piano nazionale non ha effetti immediati tra i giovani, il quaranta per cento dei quali in certe banlieues è senza lavoro, e non ha alcuna prospettiva di trovarne uno nel futuro scrutabile.

Quando il sindaco di Clichy-sous-Bois dice che "lo sguardo sprezzante" della società non è cambiato, significa che la discriminazione nei confronti dei figli degli immigrati africani è immutata.

Assai più vistose e publicizzate sono, sull'altro versante, le iniziative di Nicolas Sarkozy, il quale nella sua veste di ministro degli Interni critica i magistrati perché troppo clementi nell'esercitare la giustizia, minaccia provvedimenti più severi nei confronti di chi aggredisce la polizia, e dichiara che i minorenni recidivi devono essere giudicati come se fossero maggiorenni. Favorito dal clima elettorale (tra sei mesi si terranno le presidenziali), il problema della sicurezza trova, come è inevitabile, largo spazio nei discorsi degli uomini politici e nelle preoccupazioni della gente. E le banlieues interessano soprattutto sotto quell'aspetto.

 

Solo il 29% delle città ha piano aggiornato

Il territorio del Lazio è fragile

Otto comuni su dieci hanno case in aree pericolose. Legambiente e Protezione civile presentano il rapporto Ecosistema rischio. Maglia rosa a Latina, buono il voto di Roma, Rieti insufficiente

Il Lazio è ancora esposto a frane e alluvioni. Otto comuni su dieci hanno case in aree a rischio, e il 76% è in ritardo nella prevenzione. Solo il 29% dei comuni laziali ha un piano d’emergenza aggiornato. Latina è il comune più virtuoso contro le frane e le alluvioni, Roma si aggiudica un “buono” e Rieti non raggiunge neanche la sufficienza. Tra i comuni del Lazio a più alto pericolo di alluvioni e frane il 78% ha abitazioni in aree a rischio idrogeologico e il 29% presenta in tali aree addirittura interi quartieri. Tre su cinque vi vedono sorgere fabbricati industriali, che comportano in caso di alluvione, oltre al rischio per le vite dei dipendenti, anche lo sversamento di prodotti inquinanti nelle acque e nei terreni. A fronte di un territorio così marcatamente fragile soltanto il 20% dei comuni ha intrapreso delocalizzazioni di strutture presenti in zone a rischio e il 59% non svolge una manutenzione ordinaria dei corsi d’acqua e delle opere di difesa idraulica. Carente la situazione per quanto riguarda le attività locali di protezione civile per rispondere all’emergenza in corso. Solo il 59% dei comuni che si è dotato di un piano d’emergenza e appena il 29% lo ha aggiornato negli ultimi due anni. Complessivamente solo un comune su cinque svolge un positivo lavoro di prevenzione e mitigazione del rischio idrogeologico.

Questi sono solo alcuni dati di “Ecosistema Rischio 2006”, l’indagine inedita di Legambiente e Dipartimento della Protezione Civile presentati oggi a Rieti durante la conferenza stampa organizzata nel corso della tappa laziale di "Operazione Fiumi 2006". Con "Ecosistema rischio" Legambiente ha concentrato l’attività di monitoraggio proprio sui 366 comuni del Lazio, ben il 97% del totale, classificati a rischio da Ministero dell’Ambiente e UPI nel 2003, per verificare cosa facciano realmente le amministrazioni per prevenire il pericolo a cui sono esposti territorio e cittadini. «Sono ancora pochi i comuni del Lazio che complessivamente sembrano aver posto le tematiche di protezione civile tra le priorità del loro lavoro – spiega Daniel Noviello portavoce della campagna – i piani di emergenza che permettono alla popolazione di sapere cosa fare e dove andare in caso di alluvione e di organizzare soccorsi tempestivi sono pochi e troppo spesso datati. La nostra Regione paga un ritardo accumulato in passato rispetto ai nostri vicini su queste tematiche. Un ritardo su cui negli ultimi due anni – conclude Noviello – non vediamo segnali significativi di recupero».

È Latina il comune più meritorio della regione, che raggiunge la classe di merito d’eccellenza “ottimo lavoro svolto”. Dopo un’attenta verifica delle azioni che afferma di aver realizzato sarà premiata con la bandiera bosco sicuro da Legambiente e dal Dipartimento della Protezione Civile come riconoscimento del buon lavoro svolto. Tra gli altri capoluoghi Roma raggiunge un buono, con un 7,5 in pagella. Insufficiente il giudizio complessivo su Rieti. Maglia nera nel Lazio al comune di Ariccia (Rm) che, pur avendo industrie e quartieri in area a rischio, non ha svolto praticamente nessuna attività di prevenzione.

«La pesante eredità di un passato fatto di abusivismo e urbanizzazione delle aree a rischio idrogeologico con abitazioni, insediamenti industriali, attività agricole e zootecniche - spiega Lorenzo Parlati, presidente di Legambiente Lazio – rende preoccupante la fragilità del nostro territorio. Lo scorso anno il Tevere come il Marta nel viterbese hanno dimostrato come bastino semplici temporali per causare nel migliore dei casi allagamenti e disagi per la popolazione. Una fragilità cui si mette mano con troppa timidezza – conclude Parlati – non vediamo ancora all’orizzonte una decisa azione di abbattimento delle costruzioni abusive lungo i fiumi e la delocalizzazione dalle aree a rischio di quelle strutture che non possono essere messe in sicurezza, anzi ci sono amministrazioni che continuano ad approvare sanatorie o nuove costruzioni in queste aree».

 

23 ottobre

I dati forniti a un convegno nazionale sul tema organizzato dall'Associazione italiana di oncologia. Il primato degli sbagli in traumatologia e ortopedia

Sanità, gli errori dei medici provocano 90 morti al giorno

Oltre 14 mila decessi e 10 miliardi di euro di costi all'anno

ROMA - Provocano più vittime degli incidenti stradali, dell'infarto e di molti tumori. In Italia le cifre degli errori commessi dai medici o causati dalla cattiva organizzazione dei servizi sanitari sono da bollettino di guerra: tra 14 mila (secondo l'Associazione anestesisti rianimatori ospedalieri) e i 50 mila decessi all'anno, secondo Assinform. Il che signifuca circa 80-90 morti al giorno (il 50% dei quali evitabile), 320 mila le persone danneggiate. E con costi pari all'1% del pil: 10 miliardi di euro l'anno.

A fornire le cifre è L'Associazione italiana di Oncologia medica (Aiom), che in collaborazione con Dompé Biotec, ha organizzato un convegno nazionale proprio su questo tema. Che si tiene, oggi, all'Istituto dei Tumori di Milano. ''Il tema del rischio clinico - afferma il professor Emilio Bajetta, presidente nazionale dell'Aiom - si propone come un argomento di grande attualità, con un forte impatto socio-sanitario. Lo scopo è migliorare la prestazione sanitaria e garantire la sicurezza del paziente oncologico''.

Anche perché, nella speciale classifica delle specialità dove si commettono maggiori errori stilata dal Tribunale del Malato, l'oncologia con un 13% si colloca al secondo posto, preceduta solo dall'ortopedia e traumatologia con il 16,5%; seguono ostetricia (10,8%) e chirurgia (10,6%). A guidare invece la graduatoria dei reparti più a rischio c'è la sala operatoria (32%), seguita da dipartimento degenze (28%), dipartimento urgenza (22%) e ambulatorio (18%).

Riguardo specificamente al settore oncologico, prosegue Bajetta, "quelli relativi al farmaco e alla corretta esecuzione dei protocolli terapeutici sono fra gli errori più frequenti in oncologia. Dagli ultimi studi internazionali risulta però che, sempre in questo ambito, le controversie per errori medici sono in diminuzione. La cosa però non deve sollevare in alcun modo il clinico dai propri doveri e responsabilità: una maggiore chiarezza nel comunicare i limiti della medicina e gli eventuali errori non può che giovare al rapporto col paziente".

In ogni caso, c'è da registrare che il contenzioso in oncologia è in calo, con percentuali attualmente scese dal 13% al 10%. E il 90% dei medici o degli ospedali citati in giudizio viene assolta. Ma resta il problema dell'aumento esponenziale delle cause intentate ai medici e dei premi richiesti dalle assicurazioni agli ospedali (fino a due milioni di euro l'anno, per le strutture più grandi). Questo malgrado i progressi registrati in termini di sopravvivenza: più 7% negli ultimi dieci 10 anni.

I dati nazionali disponibili provengono da varie fonti (Anestesisti Ospedalieri, Assinform, Tribunale dei Diritti del Malato e altre): oppure sono proiezioni dalla letteratura internazionale (a partire dal rapporto Usa del 2000 "To err is human"); o ancora si riferiscono a studi e sperimentazioni condotti in grandi e piccoli centri di cura italiani.

 

Via comunale intitolata ad Alessandro Pavolini. E i comunisti insorgono

Mozione urgente al consiglio regionale del Lazio per bloccare l'iniziativa

Una strada al gerarca fascista. Bufera sul sindaco di Rieti

Anche i Ds si schierano contro. La difesa di An: "Era un intellettuale"

Alessandro Pavolini

RIETI - Il Comune di Rieti dedica una strada al gerarca fascista Alessandro Pavolini e scoppia la polemica. Con il Pdci che parte all'attacco presentando una mozione urgente al Consiglio regionale del Lazio per bloccare l'iniziativa. E i Ds pronti a dare battaglia.

Secondo il sindaco di Rieti, Giuseppe Emili, Pavolini è stato "comandante delle Brigate nere, capo del Minculpop, segretario del partito fascista di Salò, ma soprattutto intellettuale". Da qui la decisione di intitolargli una via.

Scelta che scatena la protesta del Pdci: "Una strada, nel Comune di Rieti dedicata ad Alessandro Pavolini - spiega il capogruppo dei Comunisti italiani alla Pisana, Maria Antonietta Grosso - è un'offesa alla nostra democrazia, alla sua Costituzione, alle migliaia di vittime innocenti che subirono la barbarie nazifascista, a tutti coloro che diedero la vita per una società libera".

Ecco perchè, aggiunge sempre Grosso, è un atto dovuto presentare una mozione urgente al consiglio regionale del Lazio al fine di evitare "che uno dei più grandi organizzatori dell'inganno di un popolo, un guerrafondaio, un uomo ammirato da Hitler, che a sua volta ammirava, il responsabile di tragedie inaudite che costarono la vita anche ai propri camerati, il numero due di un regime che ha riempito un ventennio di storia col sangue di tanti sinceri democratici, sia ricordato come 'uomo di cultura' e come persona con profondi legami con un territorio che ha visto gli eccidi nazi-fascisti di Leonessa, di Poggio Bustone, delle fosse reatine".

Il segretario regionale dei Comunisti Italiani Mario Michelangeli sottolinea poi che non si deve "valorizzare chi ha fatto del fanatismo e della menzogna, della guerra di sterminio e della ferocia la propria bandiera, sintetizzando l'agire di Alessandro Pavolini. Dedicare una strada ad un oscuro personaggio come Pavolini non è neppure mero revisionismo storico, al quale ci vorrebbero abituare, ma una vera e propria aberrazione, una spudorata buffonata".

Enzo Foschi, consigliere Ds-Ulivo alla regione Lazio, dichiara in una nota il suo appoggio alla mozione del Pdci: "Non è assolutamente pensabile che si possa calpestare la memoria di persone che hanno sacrificato la propria vita per la nostra libertà, intitolando una via di Rieti a una persona che fece del fascismo e della sua barbarie la sua vita".

Prende invece le difese del Comune Antonio Cicchetti, capogruppo regionale di An: "È giusto che la toponomastica rispetti e rispecchi la storia d'Italia, non una fazione ideologicamente armata di italiani di oggi. Non deve destare, pertanto, meraviglia che anche Alessandro Pavolini, intellettuale, operatore di cultura, ministro, caduto per le sue idee, abbia una sua strada".

Critiche alla decisione rietina vengono anche dall'assessore alla cultura della Provincia di Roma Vincenzo Vita convinto che sia "totalmente inopportuno riabilitare implicitamente, con l'intitolazione di una via, il fascismo e la repubblica di Salò". Riguardo poi la levatura intellettuale di Pavolini, Vita non vuole pronunciarsi ma, "senza comunque voler offendere nessuno", dichiara che "se si volesse intitolare una via a tutti gli intellettuali avremmo bisogno non di una, ma di più Italie'".

(23 ottobre 2006)

 

20 ottobre

Migliaia d'ordigni micidiali

Nei villaggi del sud, dove l'incubo delle cluster bomb durerà anni

Un milione di bombe a grappolo sul Libano, già una ventina di morti, agricoltura danneggiata. E Israele non fornisce all'Onu le mappe delle zone più colpite

Michele Giorgio, inviato a Deir Qanun

La sigla di colore rosso su un mattone sistemato a pochi centimetri da una scatoletta nera è inquietante. «CB», cluster bomb, bomba a grappolo. Due parole che sono diventate un incubo per decine di migliaia di libanesi che vivono nel sud del paese e che continueranno ad esserlo per anni. «Avevo sentito durante un programma televisivo che dobbiamo stare attenti a dove mettiamo i piedi, perché i nostri terreni sono pieni di queste cluster bomb sganciate dagli israeliani sul Libano (durante la guerra della scorsa estate, ndr) ma non mi aspettavo di trovarne una proprio nel mio giardino», racconta Hassan Remlawi, di Deir Qanun, indicando il mattone con la scritta «CB». «Qualche giorno fa, mentre ero seduto davanti casa, ho visto vicino all'albero un oggetto strano. Ho telefonato a mio fratello che mi ha detto di tenermi a distanza di sicurezza, perché probabilmente era una di quelle dannate bombe. Aveva ragione». Da allora Hassam Remlavi e la sua famiglia vivono nel timore che l'ordigno esploda all'improvviso, magari a causa del passaggio di un gatto o di un altro animale. Gli artificieri della «Mag» - un'organizzazione non governativa britannica che si occupa di sminamento in Libano del sud - hanno promesso che arriveranno al più presto. Ma sino a quel momento la famiglia Remlawi vivrà nell'ansia.
Gli specialisti della Mag vengono da vari paesi, in gran parte sono ex militari divenuti pacifisti, che hanno deciso di impegnarsi per salvare vite umane in Libano del sud. «È una corsa contro il tempo, perché ogni volta che scopriamo e facciamo brillare uno di questi ordigni sparsi dagli israeliani vuol dire che un essere umano, soprattutto un bambino, ha un pericolo in meno dal quale guardarsi», dice Alain, francese, giunto a Deir Qanun nelle scorse settimane, dopo aver trascorso 12 anni nello sminamento marino per conto di una società privata.
Chiuso nella sua tuta da lavoro protettiva, con la visiera del casco abbassata sul volto, Alain passa le giornate assieme ai suoi colleghi alla ricerca delle cluster bomb. «Sappiamo dove sono le concentrazioni maggiori di questi ordigni oppure ci chiamano gli abitanti - spiega -, per il momento ci stiamo impegnando nella bonifica di edifici e giardini pubblici, strade e case, i luoghi più popolati e frequentati. Questo lavoro richiederà anni, ma non ci perdiamo d'animo». Il cauto ottimismo di Alain non basta a placare la paura in decine di villaggi. Nel Libano meridionale infatti potrebbero trovarsi almeno un milione di bombe a grappolo israeliane e sino ad oggi lo Stato ebraico non ha acconsentito a fornire all'Onu informazioni dettagliate sulle incursioni nelle quali sono state utilizzate queste armi insidiose e letali. Dal cessate il fuoco del 14 agosto fino ad oggi gli ordigni hanno causato la morte di 20 persone, fra cui due bambini, e il ferimento di altre 120. Ad oltre 200mila sfollati è stato sconsigliato di rientrare subito nelle proprie abitazioni, perché sono a rischio. «Al momento sono stati identificati 770 siti sui quali sono state sganciate bombe a grappolo, e sono stati eliminati 30mila ordigni», ci dice accogliendoci nel suo ufficio di Tiro Dalia Farran, portavoce dell'Unmacc, l'agenzia dell'Onu che dal 2000 si occupa dello sminamento del Libano del sud. «Abbiamo dovuto interrompere il lavoro ordinario perché siamo in emergenza. Pensate che dal 2000 a oggi 30 libanesi sono stati uccisi delle mine antiuomo e ora in appena due mesi sono morte già 20 persone a causa delle bombe a grappolo - prosegue, sottolineando che oltre al milione di cluster bomb - in Libano del sud restano ancora 400mila mine antiuomo».
Le bombe a grappolo non sono proibite dalle leggi di guerra, sebbene la Convenzione di Ginevra ne sottolinei i rischi per la popolazione civile. Impiegabili sia dall'artiglieria che dall'aviazione, sono progettate per dividersi in volo. «Un proiettile di artiglieria è in grado di disperdere 88 cluster bomb in un'area di 20 km, un missile sganciato da un aereo ne sparge 644 in 50 km», continua Dalia Farran, mostrandoci una mappa del Libano del sud con una miriade di punti di colore rosso indicanti altrettante località dove sono state individuate le bombe. «Quando un essere umano finisce su uno di questi ordigni nel migliore dei casi perde un arto, altrimenti muore dilaniato». I bambini sono i più esposti al pericolo e proprio per tutelare i più piccoli e più in generale i civili, l'Unmacc ha più volte sollecitato Israele a fornire le mappe militari con l'indicazione delle aree dove sono state sganciate le bombe. «Ma da Tel Aviv non abbiamo ancora ricevuto risposte. Pensate solo di recente Israele ci ha fornito le informazioni su dove si trovano parte delle mine antiuomo. E non è da sottovalutare il fatto che gran parte delle cluster bomb siano state sganciate nelle ultime ore della guerra (della scorsa estate) prima che entrasse in vigore il cessate il fuoco con Hezbollah», conclude Farran. Alcuni sminatori che in passato sono stati impegnati in Kosovo, Sudan, Kuwait, Iraq, Bosnia e Afghanistan, hanno riferito di non aver mai operato in un'area tanto «contaminata» come il Libano del sud.
Per questa ragione gran parte delle attività agricole si sono dovute fermare. «Abbiamo già perduto la stagione del tabacco e ora perderemo quella della raccolta delle olive», dice Maher A-Surawi, un contadino di Yanur «ma non possiamo fare diversamente, abbiamo paura e tra quei pochi di noi che si sono avventurati nei campi, alcuni hanno perduto la vita». Un disastro per l'intero Libano del sud che dipende per il 70% dall'agricoltura ma anche per migliaia di manovali palestinesi dei campi profughi che vivono con la raccolta della frutta, uno dei pochi lavori che sono autorizzati a svolgere. Resta in silenzio la comunità internazionale che pure ha condannato con forza Hezbollah per gli oltre mila katiusha sparati contro i centri abitati (dove hanno fatto più di 30 morti civili). Le cluster bomb nei villaggi sudlibanesi invece non generano sdegno.

 

La città sotterranea

Guglielmo Ragozzino

Qualcuna delle duecento persone che contano in Italia (o anche delle mille che credono di contare) è mai scesa nella metropolitana di Roma? S'intende, non per un tragitto finto, per un'inaugurazione, con la vettura pulita e le hostess sorridenti, ma in una prima mattina vera, una qualsiasi; o anche tra le otto e le nove, evitando così l'alzataccia. Sarebbe un'esperienza senz'altro utile, per capire il mondo che si muove, i giovani e gli anziani, il commercio, la scuola, i sistemi di famiglia, i segni complessivi del progresso, del ritardo, del ristagno e anche un bel po' di globalizzazione. Un'esperienza che comunque i nostri vip non faranno. Ai funerali si va con le auto di servizio.
Alle otto, alle nove del mattino nella metro di Roma molti e molte vorrebbero leggere, se non altro il giornale. Si tratta per lo più di un giornale gratuito fatto per loro che si chiama appunto Metro. Molte donne leggono libri, quelle poche che sono riuscite a sedersi. Se ci riescono, la loro giornata andrà meglio. Molti uomini le guardano, pieni di curiosità. Lo spazio è così ridotto che non c'è problema per reggersi in piedi, sempre che non ci siano brusche frenate o brusche accelerazioni. Non è l'inferno, ma certo è molto scomodo, sporco, degradante. Perché mai la parte più viva della città debba essere tanto penalizzata, non è dato capire. A volte sembra poi che l'unica manutenzione sia fatta dai graffitari che amano lasciare memoria di sé rendendo oscuri i vetri e illeggibili i nomi delle stazioni nei cartelli sulle pareti.
Sulla linea arancio, contrassegnata dalla A - come dice con una punta di orgoglio la società comunale che svolge il servizio - salgono in media quattrocentocinquanta mila utenti al giorno. Sulla linea blu, indicata con la B sono trecento mila. E poi l'alfabeto, il più corto tra quelli in uso in qualsiasi capitale, è già finito. La metropolitana romana, così miserabile, così degradata è uno strumento essenziale per vivere e spostarsi in una città infestata dalle auto e dalle moto che provocano un inquinamento crescente, anche se i duecento vip e i loro adepti fingono di non conoscerlo o lo curano con palliativi domenicali. I tempi per allungare l'alfabeto, per avere una terza linea metropolitana, si dilatano continuamente; e i problemi di mobilità di abitanti e ospiti della città crescono, come anche i sacrifici e i tempi di percorrenza. Intanto il Comune, anche attraverso la società della metropolitana costruisce parcheggi sotterranei, e facendolo, non solo spreca la capacità tecnica e finanziaria disponibile che non è eccelsa, ma dà in prima persona un chiaro segnale in una direzione opposta: più auto, più traffico individuale in città.
Sarebbe un errore farne un caso solo romano. In Italia, in centri grandi e piccoli l'auto e la sua sorellina a due ruote stanno definitivamente espropriando le persone dalle loro vite. Strade come confini, ponti, cavalcavia, tunnel, autostrade a otto corsie, sono la nuova geografia, molto invadente. Le nuove rotaie servono solo per far correre i treni ad alta velocità, inutili, come sanno tutti, per ridurre il traffico delle automobili, quello vero, che consiste in spostamenti brevi, di cinquanta chilometri o poco più. O per girare come anime perse in città, alla ricerca di un parcheggio, in attesa che il Comune, che la società della metropolitana gliene crei uno.

 

Italia, tre milioni di famiglie escluse dal sistema finanziario

Il 14,1% delle famiglie italiane - quasi tre milioni - non è titolare neanche di un conto corrente bancario o postale. Questa la fotografia dell'esclusione finanziaria che emerge dall'ultima indagine della Banca d'Italia sui bilanci delle famiglie. Tra le categorie a maggior rischio di esclusione microimprese, lavoratori atipici, immigrati. Nel mondo il 90% della popolazione, soprattutto nei Paesi poveri a medio e basso reddito, non ha accesso al credito.

L'85,9% delle famiglie italiane è titolare, alla fine del 2002, di almeno una attività finanziaria. Ad esempio, il 77,9% ha un deposito bancario, il 16,9% un deposito postale, il 9,4% titoli di Stato, il 14% obbligazioni e quote di fondi comuni di investimento. Ma il restante 14,1% delle famiglie - quasi tre milioni su un totale di 21,2 milioni - non è titolare di nessuna attività, neanche nelle forme più semplici del conto corrente bancario o postale. Anche se non necessariamente povero, è escluso dal sistema finanziario.

I dati sono contenuti nel Supplemento al Bollettino Statistico della Banca d'Italia "I bilanci delle famiglie italiane nell'anno 2002", uscito quest'anno a marzo. Esaminando le caratteristiche riferite al "capofamiglia", cioè al maggior percettore di reddito all'interno della famiglia, otteniamo una vera e propria mappa dell'esclusione finanziaria in Italia. Ci riferiamo in particolare al più diffuso strumento finanziario, il deposito bancario, che in larga misura - per quasi i tre quarti del totale - è deposito in conto corrente. In qualche caso, come nei piccoli centri o nel Mezzogiorno, altre attività come i depositi postali sembrano attenuare l'effetto di esclusione. Viceversa, per le attività finanziarie più sofisticate le disuguaglianze tra gruppi sociali e territori appaiono più accentuate.

In primo luogo l'esclusione finanziaria riguarda le donne: il 30,1% di esse non possiede un deposito in banca contro il 18,7% di uomini. Le quote degli esclusi sono in aumento rispetto alla rilevazione precedente del 2000: allora non aveva un deposito bancario il 29,6% delle donne e il 17,9% degli uomini.

Sono maggiormente esclusi gli anziani: non possiede un deposito in banca il 38% degli ultrasessantacinquenni, mentre nelle altre fasce di età gli esclusi sono sempre sotto il 20%, con l'eccezione dei più giovani (fino a trent'anni) che vedono un 22,8% di loro senza conto in banca. L'esclusione, inoltre, cresce al diminuire del livello di istruzione: è privo di un deposito il 63,8% delle persone senza titolo di studio e il 36,1% di coloro che hanno la licenza elementare, mentre la quota si riduce sotto il 20% per chi ha concluso la scuola dell'obbligo, sotto il 10% per i diplomati e al 4,2% per i laureati.

Sono più escluse le famiglie a basso reddito: non ha depositi bancari il 67,7% di quelle con reddito fino a 10 mila euro annui e il 33% di quelle con reddito tra 10 mila e 20 mila euro. Sopra i 30 mila euro l'esclusione di riduce al 5%. Ci sono differenze anche tra i settori produttivi e le condizioni professionali. Il 21,2% dei capofamiglia contadini non ha un deposito bancario mentre nell'industria e nel terziario la quota scende sotto il 15% e nella pubblica amministrazione sotto il 10%.

Tra i lavoratori dipendenti sono maggiormente esclusi gli operai (23,2%) rispetto agli impiegati (7,5%). Tra i lavoratori autonomi, soprattutto di nuova generazione, è senza deposito in banca il 14,4% delle famiglie, mentre la quota scende a meno del 2% per imprenditori e liberi professionisti. Il dato dei pensionati - 32,5% di esclusione - conferma le difficoltà delle famiglie con persona di riferimento anziana.

Altre indicazioni riguardano la composizione del nucleo familiare e la localizzazione. Sono maggiormente escluse dal sistema finanziario due tipi di famiglie: quelle con 1 componente (non ha il conto il 35,7%) e le famiglie con 5 o più componenti (25,7% senza deposito). La mancanza di conto in banca è più frequente quando in famiglia c'è un solo reddito: 32,2% di esclusi.

L'esclusione è maggiore nei piccoli centri: è senza deposito il 23,9% delle famiglie che abitano in Comuni fino a 20 mila abitanti e il 23,1% di quelli dei Comuni fino a 40 mila abitanti. Sono maggiormente escluse le famiglie del sud e delle isole: il 44,9%, contro il 15% dell'Italia centrale e l'8,7% dell'Italia settentrionale.

Francesco Terreri - www.microfinanza.it

 

19 ottobre

Ma che state a Fao?

Il diritto al cibo è stato riconosciuto sin dai primi documenti elaborati dalle Nazioni unite, a partire dalla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948. Ma nell'opinione pubblica è ancora diffusa l'idea che se 852 milioni di persone soffrono la fame è a causa solo di carestie, disastri naturali, congiunture economiche sfavorevoli, cioè di condizioni non del tutto controllabili da chi detiene il potere. Invece oggi è possibile garantire a ogni abitante del pianeta un'adeguata alimentazione e se ciò non avviene è soprattutto per mancanza di impegno politico da parte di chi ha la possibilità e il dovere di combattere la fame alla radice. E i capi di stato e di governo lo sanno molto bene. Nel 1996 le delegazioni di 185 paesi più quella dell'Ue si riunirono a Roma per il World food summit e approvarono un Piano d'azione per dimezzare entro il 2015 il numero di persone che patiscono la fame. Nel 2000, riuniti nell'Assemblea dell'Onu, ribadirono questo impegno definendo gli Obiettivi del Millennio, anche se nel farlo abbassarono un po' il tiro, proponendosi di dimezzare - sempre entro il 2015 - non il numero assoluto bensì la percentuale di persone che non godono di un'alimentazione sufficiente. Ma gli impegni assunti sono rimasti in gran parte lettera morta, tant'è che il numero delle persone che persone vanno a dormire affamate è aumentato di 18 milioni.

Dal 30 ottobre al 4 novembre prossimi i delegati di 180 paesi si incontreranno nuovamente, ancora a Roma, nel palazzo della Fao. Per invertire la rotta dovranno affrontare seriamente alcuni problemi cruciali, tra cui quello delle insufficienti risorse che i paesi industrializzati destinano a quelli in via di sviluppo. Ma altre questioni sono non meno importanti, come il fatto che molti governi promuovano l'agricoltura su vasta scala a scapito delle esigenze dei piccoli agricoltori; oppure che sostengano la produzione di cibo ma non ne garantiscano un'adeguata distribuzione a tutti i cittadini. Naturalmente dovrebbero discutere anche del fatto che la Banca mondiale e il Fmi concedono prestiti ai paesi poveri spingendo i governi a tagliare i servizi alle comunità, con grave danno per i piccoli agricoltori, nonché delle regole del commercio internazionale: grazie ai sussidi dei loro governi, i contadini dei paesi più ricchi possono esportare e vendere a basso prezzo i loro prodotti in paesi in via di sviluppo, danneggiando seriamente gli agricoltori locali i cui prodotti non reggono la concorrenza di quelli importati. ActionAid International ha lanciato la campagna «Che state a Fao?», volta a sollevare l'attenzione dell'opinione pubblica sul vertice. Il ruolo giocato dai cittadini comuni è cruciale: dobbiamo chiedere a gran voce chiarezza sulle responsabilità dei governi, sulle promesse non rispettate, sul ruolo della Fao.

Marco de Ponte Segretario generale di Action Aid

 

La questione monetaria

Ing. Lino Rossi
1 – Messa al passivo delle “banconote in circolazione”
Estratto dal bilancio presentato dal governatore Mario Draghi il 31 maggio 2006.
http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/ricec/relann;internal&action=_framecontent.action&Target=_top

I - IL BILANCIO DELLA BANCA D'ITALIA
PASSIVO                                        importi in unità di euro
                                                            2005                              2004
1 BANCONOTE IN CIRCOLAZIONE          94.933.679.360          84.191.125.720

È la Banca d’Italia stessa che nella definizione delle “BANCONOTE IN CIRCOLAZIONE” ci racconta che esse sono REDDITO.1)
Nel momento in cui si pongono nelle passività i suddetti “redditi” succede che gli stessi vengono sottratti al CONTO ECONOMICO, così come definito dall’art. 2425 del C.C.. Significa due cose:
1) il reddito così trattato non viene sottoposto a nessun tipo di imposizione fiscale, né a nessun tipo di rientro nelle casse dello Stato;
2) lo stesso viene fatto sparire dalla contabilità per prendere la misteriosa via del “NERO”.
Il mondo accademico prova a correre in soccorso a bankitalia spiegando meglio la faccenda. Dal libro universitario di economia aziendale (Produzione e Mercato - A. Birolo G. Tattara - Ed. Il Mulino - 1991 - ISBN 88-15-02961-3): "Si osservi che il biglietto di banca rappresenta un debito della banca centrale nei confronti di chi lo possiede. Quando un biglietto torna alla banca centrale, il debito che esso rappresenta è automaticamente estinto; l'eliminazione del debito comporta dunque la distruzione della moneta".
Quindi è tutto chiaro!? Bankitalia si è sbagliata a definire le “banconote in circolazione” come “reddito” perché in realtà è un debito e quindi fa benissimo a mettere quelle somme nelle passività. La banconota che torna alla banca centrale viene distrutta.
Vengono spontanee alcune domande:
a) da quando in qua un soggetto percepisce gli interessi di un debito da esso stesso contratto?
b) quando un debito non viene richiesto da nessuno è ancora tale? Nessuno infatti ha titolo per andare alla Banca d’Italia ad esigere la restituzione di quel “debito”!
c) da quando in qua un debitore “distrugge” il credito altrui? Quelle banconote sono della collettività e servono per scambiare i beni che la collettività stessa produce. Ciò verrà spiegato in seguito.
Il mondo accademico in questo caso ha sicuramente svolto l’ingrato compito di “Avvocato delle cause perse”.
Vediamo di quali cifre stiamo parlando. Dai bilanci ufficiali presenti sul sito della nostra banca centrale troviamo:
 

anno

Banconote in circolazione [€]

1996

54.799.175.735

1997

58.914.304.307

1998

63.220.005.474

1999

70.614.050.000

2000

75.063.752.000

2001

64.675.772.000

2002

62.835.488.000

2003

73.807.446.000

2004

84.191.125.720

2005

94.933.679.360

2006*

100.000.000.000*

* stima

Si tratta quindi di circa il triplo della manovra finanziaria in esame questi giorni. Sottolineo la misteriosa forte contrazione degli anni 2001 e 2002. Si comprenderà meglio in seguito l’assurdità di questa stranezza.
Quando troviamo:
- nella seconda edizione di “Euroschiavi” di Marco Della Luna ed Antonio Miclavez, Arianna editore –
alle isole Cayman sono stati trovati i seguenti conti:
700 26891 A01 N BANCA D'ITALIA UFFICIO RISCONTRO VIA NAZIONALE, 91 I-00184 ROMA ITALIA
709 27154 A01 N BANCA D'ITALIA SERVIZIO RAPPORTI CON L'ESTERO, UFFICIO RISCONTRO 2484 VIA NAZIONALE, 91 I-00184 ROMA ITALIA;
- sul web - http://spazioinwind.libero.it/cobas/finanzaloro/bancaditalia.htm - La Banca d'Italia nel 1994, tramite l'Ufficio italiano cambi (Uic), è entrata - con 100 miliardi di dollari - in una società controllata dall'Hedge Fund Ltcm e costituita nel paradiso fiscale delle CAYMAN ISLAND dai soci promotori dello stesso Ltcm !!!
- nel Corsera del 26-10-95 il Financial Time ha scritto che per questo investimento la Banca d'Italia ha perso la sua "credibilità morale";
- ne Il Sole 24 Ore dell’ 8-10-98 - "E' assurdo utilizzare riserve nazionali per investire su un fondo come Ltcm, che era chiaramente speculativo", dichiara Edward Thorp, "padre" degli Hedge Fund americani;
- nel libro “Il Potere del denaro svuota le democrazie” di Giano Accame, ed. Settimo Sigillo – un esplicito riferimento alla presenza della Banca d’Italia alle isole Cayman.
COSA POSSIAMO PENSARE?
Possono essere informazioni vere o false; poco importa; andare a rintracciare i fondi neri è sempre un’impresa complessa. Ciò che conta è che quei soldi non sono dove dovrebbero essere, ovvero nelle casse dello Stato a lenire il nostro enorme debito pubblico.
Ma l’argomento del contendere è “solo” di 100 miliardi di euro?
Dal sito http://www.dt.tesoro.it/Aree-Docum/Debito-Pub/index.htm scopriamo che il debito pubblico nazionale il 31/12/2005 era pari a 1.511 miliardi di € dei quali l’80% sono titoli di Stato; oltre 1.200 miliardi di €.
http://www.dt.tesoro.it/Aree-Docum/Debito-Pub/Dati-Stati/Composizio/2005/Composizione-dei-Titoli-di-Stato-in-11.pdf
Quindi apparentemente lo Stato è indebitato con i Cittadini possessori di tutti questi titoli di debito pubblico. È questa solo una parte della verità. La verità completa è scritta fra le righe degli atti ufficiali.
Dalla sentenza con la quale il tribunale di Roma ha condannato il Prof. Giacinto Auriti per temerarietà, il 20 settembre 1994, apprendiamo: " .... la Banca d'Italia cede la proprietà dei biglietti, i quali, in tale momento, come circolante, vengono appostati al passivo nelle scritture contabili dell'Istituto di emissione, acquistando in contropartita, o ricevendo in pegno, altri beni o valori mobiliari (titoli, valute, ecc.) che vengono, invece, appostati nell'attivo. "
Della seduta della Camera dei Deputati tenutasi il 17/03/1995, il deputato Pasetto rivolse una interrogazione al Ministro del Tesoro per sapere se non intendesse promuovere una riforma legislativa diretta a definire la moneta un bene reale conferito, all'atto dell'emissione, a titolo originario di proprietà di tutti i cittadini appartenenti alla collettività nazionale italiana, con conseguente riforma dell'attuale sistema dell'emissione monetaria, che trasforma la banca centrale da semplice ente gestore ad ente proprietario dei valori monetari. Nel rispondere a tale interrogazione, il Sottosegretario di Stato per il Tesoro, Carlo Pace, ha affermato: è inesatto sostenere che la banca centrale è proprietaria dei valori monetari, avendo per legge il compito istituzionale di emettere moneta e quindi crearla e di immetterla in circolazione "mediante il trasferimento ad altri soggetti, normalmente verso il corrispettivo di titoli o valute estere, attraverso le operazioni a tal fine legislativamente previste (quali, ad esempio, quelle di risconto o di anticipazioni, disciplinate dagli articoli 27 - 30 del Regio Decreto 28 Aprile 1910, n. 204, e successive modificazioni)"; ciò premesso, "in sostanza, per tutta la durata della circolazione, la moneta rappresenta un debito una passività dell'Istituto di Emissione; e come tale è iscritta, nel suo Bilancio, fra le poste passive".
Proviamo a seguire la procedura vigente passo dopo passo. La collettività ha prodotto nuovi beni e servizi che non può immettere con successo sul mercato perchè manca la necessaria monetizzazione pari ad esempio a 5 miliardi di €. Lo Stato emette titoli di debito pubblico pari a 5 mld di € per il quale l’autorità monetaria emette nuova moneta.
Prima di questo istante ci trovavamo in questa configurazione:
- debito dello Stato: 1.500 mld di €;
- banconote in circolazione al passivo della situazione patrimoniale della Banca d’Italia: 100 mld di euro.
Dopo l’effettuazione dell’operazione ci troveremo in questa configurazione:
- debito dello Stato: 1.505 mld di €;
- banconote in circolazione al passivo della situazione patrimoniale della Banca d’Italia: 105 mld di euro;
- nuovi 5 mld di € di titoli di debito pubblico all’attivo della situazione patrimoniale della Banca d’Italia;
- nuovi 5 mld € virtuali monetizzano la società.
Qualora la Banca d'Italia decidesse o avesse la possibilità di trasferire ai risparmiatori quei nuovi titoli di debito pubblico in cambio di 5 mld di €, cosa succederebbe nella sua Contabilità in termini di situazione patrimoniale, conto economico e trattamento fiscale?
Succederebbe che la banca d'Italia incasserebbe 5 mld di € che stornerebbe dalle banconote in circolazione, così come pure stornerebbe dall'attivo i titoli di Stato.
Ma i 5 miliardi di € ricevuti dai risparmiatori che fine fanno? Essi sono annullati contabilmente dalla messa al passivo delle monete emesse a costi pressoché nulli nel passaggio precedente. La parola “Cayman” in questi casi risulta particolarmente sinistra per la collettività ed interessante per chi smaneggia quelle somme. Otterremmo quindi la seguente configurazione:
- debito dello Stato: 1.505 mld di €;
- banconote in circolazione al passivo della situazione patrimoniale della Banca d’Italia: 100 mld di euro;
- ritorno alla configurazione di partenza dei titoli di debito pubblico all’attivo della situazione patrimoniale della Banca d’Italia;
- 5 mld di € in nero da sistemare da qualche parte.
Il mondo accademico giura che quei 5 mld vengono distrutti, ma qualche dubbio appare lecito. Ipotizziamo che gli si creda e si creda anche alle tiepide ed incerte dimostrazioni presentate da bankitalia nei suoi bilanci. Otterremmo la seguente configurazione:
- debito dello Stato: 1.505 mld di €;
- banconote in circolazione al passivo della situazione patrimoniale della Banca d’Italia: 100 mld di euro.
Ma questo non è ciò che serve alla collettività; ad essa serve una monetizzazione di 5 mld di euro SENZA contrarre nessun indebitamento, perché è essa che ha prodotto quei nuovi beni e quindi quei 5 mld di € sono dello Stato che la rappresenta.
La procedura è identica anche nei paesi “comunisti”. Non è difficile ora comprendere la genesi del pressoché generalizzato indebitamento pubblico di tutti gli Stati.
Se invece lo Stato emettesse per proprio conto le monete oppure la banca centrale gli cedesse le monete emesse a costi tipografici e questi ne postasse l’importo all’attivo del proprio bilancio, la configurazione che si otterrebbe sarebbe la seguente:
- lo Stato non si indebiterebbe;
- il corpo sociale beneficerebbe dei 5 mld di € per effettuare le transazioni necessarie alla messa sul mercato dei nuovi beni prodotti da esso stesso.
È proprio questo ciò che serve alla collettività.
2 – Perché lo Stato ha delegato ad un organismo privato sovranazionale la gestione della moneta?
Il motivo “ufficiale” è che storicamente spesso è successo che il potere politico non ha operato ragionevolmente con le proprie monete, provocando fenomeni negativi quali gli aumenti dei prezzi determinati dalla produzione di troppa moneta.
In risposta a due interrogazioni del 3 novembre e 1° dicembre 1994, rispettivamente dei senatori Natali e Orlando (appartenenti il primo al gruppo di Alleanza Nazionale, ed il secondo al gruppo di Rifondazione Comunista), il Sottosegretario di Stato per il Tesoro, Vegas, ha ripetuto quale fosse il compito istituzionale dell'Istituto di Emissione ed ha ribadito che questo non fosse proprietario dei valori monetari e che per tutta la durata della circolazione la moneta rappresentasse un debito, come tale iscritto nel bilancio dell'istituto fra le poste passive.
Come ulteriore argomentazione il Sottosegretario Vegas ricordò come nella attuale dottrina economica e nelle opinioni pubbliche degli Stati europei fosse avvertita e radicata l'esigenza "di non concentrare nelle mani di uno stesso soggetto politico, quale potrebbe essere l'autorità di governo, il potere di creare moneta e quello di spenderla, onde impedire che la moneta diventi strumento di lotta politica"; e ricordò che tale esigenza aveva trovato esplicito riconoscimento giuridico nel Trattato di Maastricht, che "sancisce il principio cardine dell'autonomia delle banche centrali dalle autorità governative statali, affidando in via esclusiva alle prime le funzioni monetarie e lasciando invece alle seconde la cura della politica fiscale e di bilancio".
Infatti un sistema economico si ha:
 

P.I.L.

=

V

*

M

=

P

*

B

Dove:           P.I.L.  è il prodotto interno lordo, espresso in €/anno;

                   V        è la velocità della circolazione monetaria, espressa in utilizzi/anno;

                   M       è la massa monetaria presente sul mercato, compresi i risparmi correttamente impiegati negli investimenti ad esempio dal sistema bancario, espressa in €;

                   P        sono i prezzi dei beni e servizi prodotti e commercializzati in un anno, espressi in €;

                   B        sono i beni ed i servizi prodotti in un anno;

nel momento in cui uno Stato mette in circolazione troppa moneta, cedendo alle richieste sindacali e/o corporative e/o lobbistiche, “gonfiando” M, a parità di beni e servizi prodotti, succede automaticamente che i prezzi aumentano.

Ma è anche vero che se una collettività produce nuovi beni e servizi, deve disporre di una adeguata monetizzazione senza indebitamento, perché altrimenti l’equilibrio non verrà mai raggiunto (esattamente ciò che accade a noi).
Si aprono ora due scenari, quello attuale e quello che dovrebbe essere se si rispettasse la Costituzione ed il Diritto Naturale.

COME FUNZIONA OGGI
Lo Stato monetizza il sistema economico indebitandosi della necessaria nuova moneta, introducendo un grave elemento di instabilità progressiva: la MONETA DEBITO. La banca centrale di emissione in cambio di titoli di debito pubblico crea le banconote dal nulla a costi tipografici, posta al passivo il valore nominale delle suddette banconote ed aggrava perennemente e progressivamente la situazione finanziaria dello Stato. Non è dato conoscere la destinazione delle banconote ottenute dalla vendita dei titoli di debito pubblico ai risparmiatori, azzerate contabilmente dalla suddetta fittizia messa al passivo del loro valore facciale.

COME DOVREBBE FUNZIONARE
Lo Stato monetizza il sistema economico stampando la necessaria nuova moneta e ponendo il valore nominale delle stesse all’attivo della Sua contabilità: MONETA CREDITO.

ULTERIORI OSSERVAZIONI
Ipotizzando che sia corretto definire l’inflazione come l’aumento dei prezzi P, perché l’autorità monetaria agisce su di essa sempre restringendo l’accesso al credito, ovvero contenendo M, quando non è l’eccesso di M a cagionare l’inflazione stessa?
Quando i prezzi P aumentano a causa del rincaro di alcune materie prime importanti come ad esempio il petrolio, il rame, ecc. non abbiamo certamente la circolazione monetaria in eccesso; anzi, per avere l’equilibrio bisognerebbe aumentarla proporzionalmente senza indebitare nessuno. Gli attuali aumenti del TUS sono del tutto ingiustificati; determineranno un peggioramento del debito pubblico, con tutte le ricadute che conosciamo. L’emissione di “moneta credito” risolve agevolmente il problema ristabilendo il necessario equilibrio senza alcuna sorta di problema sociale.

Quando i prezzi P aumentano a causa di carenze strutturali come ad esempio la mancanza di un adeguato numero di punti vendita rispetto al fabbisogno (come in Italia negli anni ’70 ed ‘80), non abbiamo certamente la circolazione monetaria in eccesso; anzi, per avere l’equilibrio bisognerebbe aumentarla proporzionalmente senza indebitare nessuno. Gli aumenti di quegli anni del TUS erano del tutto ingiustificati; hanno drasticamente contribuito al peggioramento del debito pubblico. L’emissione di “moneta credito” risolve agevolmente il problema ristabilendo il necessario equilibrio senza alcuna sorta di problema sociale.

Quando i prezzi P aumentano a causa dell’aumento del debito pubblico, alimentato dalla spirale perversa della “moneta debito” (come in Italia negli anni ’70 ed ’80, ma soprattutto in America Latina ed in alcuni Paesi in via di sviluppo), non abbiamo certamente la circolazione monetaria in eccesso; anzi, per avere l’equilibrio bisognerebbe aumentarla proporzionalmente senza indebitare nessuno. Gli aumenti del TUS sono del tutto ingiustificati; contribuiscono tragicamente al peggioramento del debito pubblico ed al collasso sociale. L’emissione di “moneta credito” risolve agevolmente il problema ristabilendo il necessario equilibrio senza alcuna sorta di problema sociale.

Prima domanda per i negazionisti:
come si può monetizzare un sistema economico in stato di carenza monetaria, senza indebitarlo?

Per chi non è negazionista la risposta è immediata: lo Stato stampa la moneta necessaria al raggiungimento dell’equilibrio, postandone il valore facciale all’attivo.
La risposta dei negazionisti non è nota.

Seconda domanda per i negazionisti:
vista l'autonomia delle banche centrali dalle autorità governative statali, qual è l’autorità che valuta il comportamento delle banche centrali stesse? A chi rispondono del loro operato? Che senso ha parlare di democrazia se lo strumento fondamentale di gestione della cosa pubblica non è nelle mani dei rappresentanti del popolo?

Va sicuramente sottratta al potere politico la facoltà di violare il Diritto Naturale, ma non si ravvisano certamente nelle questioni monetarie gli estremi per effettuare questa sottrazione. La questione monetaria è un tutt’uno con la “res publica”.

Ing. Lino Rossi

NOTE

1) A pagina 441 del bilancio bankitalia 2005 infatti troviamo:

BANCONOTE IN CIRCOLAZIONE

La BCE e le dodici BCN dell’area dell’euro, che insieme compongono l’Eurosistema, emettono le banconote in euro dal 1° gennaio 2002 (Decisione BCE 6 dicembre 2001, n. 15 sulla emissione delle banconote in euro, in Gazzetta ufficiale delle Comunità europee L 337 del 20.12.2001, pp.52-54, e successive modifiche). Con riferimento all’ultimo giorno lavorativo di ciascun mese l’ammontare complessivo delle banconote in euro in circolazione viene redistribuito sulla base dei criteri di seguito indicati.

Dal 2002 alla BCE viene attribuita una quota pari all’8 per cento dell’ammontare totale delle banconote in circolazione, mentre il restante 92 per cento viene attribuito a ciascuna BCN in misura proporzionale alla rispettiva quota di partecipazione al capitale della BCE (quota capitale). La quota di banconote attribuita a ciascuna BCN è rappresentata nella voce di stato patrimoniale Banconote in circolazione. La differenza tra l’ammontare delle banconote attribuito a ciascuna BCN, sulla base della quota di allocazione, e quello delle banconote effettivamente messe in circolazione dalla BCN considerata, dà origine a saldi intra Eurosistema remunerati. Dal 2002 e sino al 2007 i saldi intra Eurosistema derivanti dalla allocazione delle banconote sono rettificati al fine di evitare un impatto eccessivo sulle situazioni reddituali delle BCN rispetto agli anni precedenti. Le correzioni sono apportate sulla base della differenza tra l’ammontare medio della circolazione di ciascuna BCN nel periodo compreso tra luglio 1999 e giugno 2001 e l’ammontare medio della circolazione che sarebbe risultato nello stesso periodo applicando il meccanismo di allocazione basato sulle quote capitale. Gli aggiustamenti verranno ridotti anno per anno fino alla fine del 2007, dopodiché il reddito relativo alle banconote verrà integralmente redistribuito in proporzione alle quote, versate, di partecipazione delle BCN al capitale della BCE (Decisione BCE 6 dicembre 2001, n. 16, sulla distribuzione del reddito monetario delle BCN degli Stati membri partecipanti a partire dall’esercizio 2002, in Gazzetta ufficiale delle Comunità europee L 337 del 20.12.2001, pp.55-61, e successive modifiche).

Gli interessi attivi e passivi maturati su questi saldi sono regolati attraverso i conti con la BCE e inclusi nella voce di conto economico interessi attivi netti.

Il Consiglio direttivo della BCE ha stabilito che il reddito da signoraggio della BCE, derivante dalla quota dell’8 per cento delle banconote a essa attribuite, venga riconosciuto separatamente alle BCN il secondo giorno lavorativo dell’anno successivo a quello di riferimento sotto forma di distribuzione provvisoria di utili (Decisione BCE 17 novembre 2005, n. 11, in Gazzetta ufficiale delle Comunità europee L 311 del 26.11.2005, pp.41-42). Tale distribuzione avverrà per l’intero ammontare del reddito da signoraggio, a meno che quest’ultimo non risulti superiore al profitto netto della BCE relativo all’anno considerato o che il Consiglio direttivo della BCE decida di ridurre il reddito da signoraggio a fronte di costi sostenuti per l’emissione e la detenzione di banconote. Il Consiglio direttivo della BCE può altresì decidere di accantonare l’intero reddito in discorso o parte di esso a un fondo destinato a fronteggiare i rischi di cambio, di tasso di interesse e di prezzo dell’oro. La distribuzione dell’acconto sugli utili da parte della BCE, corrispondente alla quota di reddito da signoraggio della BCE stessa riconosciuta all’Istituto, è registrata per competenza nell’esercizio cui tale reddito si riferisce, in deroga al criterio di cassa previsto in generale per i dividendi e gli utili da partecipazione.

Per l’esercizio 2005 il Consiglio direttivo della BCE ha deciso che l’intero ammontare del reddito da signoraggio resti attribuito alla BCE stessa.

 

18 ottobre

 

Assalto alla scuola

La finanziaria prevede tagli all'istruzione per 4,5 miliardi e 50.000 posti. I tecnici della Camera: la sentenza Ue sulla detraibilità Iva delle auto aziendali la farà salire a 40 miliardi

Francesco Piccioni

Il diavolo si nasconde nei dettagli. E proprio andando a spulciare nei meandri della «Relazione tecnica» che accompagna la legge finanziaria per il 2007 si scoprono alcuni dei (molti) rovesciamenti di segno tra annunci pubblici del governo e atti concreti. E si scopre che il Prodi «europeo» - quello che si fa intervistare da Repubblica al termine del vertice con Zapatero - è decisamente più sincero del Prodi «italiano», che quotidianamente ci tranquillizza con le sue dichiarazioni al cloroformio.
«Non abbiamo dato niente ai sindacati» - spiegava dalla Spagna - «onestamente, i più favoriti dal progetto di legge di bilancio sono la Confindustria, gli imprenditori». C'è poco da aggiungere: è proprio così. Ne avevamo avuto qualcosa più di un sospetto quando abbiamo titolato «Presi per il cuneo», ma è dalla «relazione tecnica» che arriva la conferma più clamorosa. Per la scuola si prevede un taglio degli organici di quasi 50.000 posti in tre anni, per un risparmio complessivo di circa 4,5 miliardi di euro.
Il lavorio di forbici previsto è complesso. Si parte dall'innalzamento dello 0,4% medio nel «rapporto alunni/classi». In pratica si punta ad aumentare il numero degli alunni presenti in ciascuna classe, con punte più elevate nelle elementari e nelle medie superiori. Tenuto conto che negli istituti superiori le prime classi sono già intorno alla media dei 30 ragazzi, si può immaginare cosa può accadere. Da questa «pensata» dovrebbero risultare in «esubero» 7.682 classi, per un totale di 19.032 insegnanti e 7.050 non docenti «risparmiati» (sono definiti proprio così).
Si prevede - ma non viene naturalmente messo nero su bianco - un peggioramento drastico della didattica. I 185.000 ripetenti annui sono sembrati decisamente troppi e «antieconomici»: si prevede di ridurli di un 10%. E come? Non certo tramite l'individualizzazione dell'insegnamento», visto che si deve peggiorare il rapporto docenti/alunni. Si dovrà perciò «promuovere di più», a prescindere dalla qualità della preparazione, per poter raggiungere il target di soli 166mila ripetenti. Inutile dire che una simile manovra cozza frontalmente contro la sbandierata necessità di accrescere lo standard medio di preparazione degli studenti italiani.
Nella stessa direzione vanno la riduzione delle ore di lezione nei professionali, quella degli insegnanti di inglese nella scuola primaria, la «riconversione» (industriale?) degli insegnanti «soprannumerari» e di quelli «di sostegno» (per «diversamente abili» e «casi difficili»).
La ratio è esclusivamente economica: sfoltire i ranghi per ridurre i costi. Anche il ringiovanimento della classe docente, tramite l'inserimento in ruolo di 150.000 precari - uno degli annunci che avevano sollevato più entusiasmo nei sindacati - si muove nella stessa direzione: i giovani costano meno degli anziani. Tra l'altro, fatti due conti, i neoassunti potrebbero essere soltanto la metà, perché il governo prevede che nei prossimi tre anni andranno in pensione rispettivamente 23, 24 e 27mila docenti. Come sia conciliabile questa «cura dimagrante» con l'innalzamento dell'obbligo scolastico ai sedici anni resta un mistero. Di certo c'è solo che anche l'entità delle assunzioni sarà «da verificare annualmente, di intesa col ministero dell'Economia». Ossia col placet di Tommaso Padoa Schioppa.
Sarebbe facile obiettare che una finanziaria fatta da un abile ragioniere rischia di sembrare indifferente alle conseguenze sociali, ma almeno aggiusta i conti. Nemmeno questo, però, è vero. Almeno secondo i tecnici del Dipartimento Bilancio del Servizio studi della Camera.
Il governo, infatti, ha stabilito un saldo finale per la manovra pari a 34,7 miliardi di euro; ma aveva anche deciso di non tener conto degli effetti finanziari della sentenza della Corte di giustizia Ue sulla detraibilità dell'Iva sui veicoli aziendali. Una sentenza con effetti retroattivi e che costringerà lo stato italiano a rimborsare le imprese interessate per un totale di 5,3 miliardi. Et voilà, il totale della manovra sale perciò a 40 miliardi.
Una differenza così sensibile comporta il ricalcolo di tutto il quadro delle entrate previste. Mentre i tecnici della Camera avanzano dubbi anche sugli effetti finanziari della rimodulazione delle aliquote Irpef, così come su quelli del trasferimento all'Inps del tfr «inoptato». La «relazione tecnica» stima infatti «entrate» - e già questo sarebbe tecnicamente opinabile, trattandosi in pratica di un «prestito forzoso» - pari a 5,5 miliardi. Una speranza, perché si basa su una previsione dei comportamenti dei lavoratori che andrà verificata «solo a consuntivo». Ovvero dopo che sarà avvenuta. Se i lavoratori, infatti, dovessero scegliere di trasferirlo alla previdenza complementare, potrebbe «determinarsi un peggioramento del quadro finanziario». Niente male, per un «tecnico della Bce» (Padoa Schioppa) prestato alla politica per trarla d'impaccio.

 

In 4 andarono nella prigione Usa a Cuba senza riferire ai pm. Almeno sei i detenuti fiurono sentiti dai carabinieri

'Andammo a Guantanamo per interrogatori'

La rivelazione di un agente dei Ros

MILANO - "Andammo in quattro a Guantanamo tutti del Ros, a interrogare i detenuti nel campo nel novembre 2002 su mandato del comando generale nella persona del generale Ganzer. Non riferimmo all'autorità giudiziaria nulla sulla nostra attività perché nessuna delle persone che sentimmo rispose alle domande. Comunque a Guantanamo venimmo a sapere che eravamo gli ultimi italiani a recarci in missione per svolgere attività investigativa". E' quanto riferisce un maresciallo dei Ros di Torino nell'aula della prima Corte d'assise di Milano, dove è in corso il processo nei confronti di tre algerini, tra i quali l'ex imam Abdel Vergout, accusati di terrorismo.

"Si trattava di colloqui informali, durante i quali prendevamo appunti e su cui abbiamo redatto dei report e durante i quali intendevamo capire se esistesse un rischio di attentati in Italia", ha affermato il teste rispondendo alle domande del pm Elio Ramondini, chiarendo poi che "nulla di quella attività fu riversato nel processo in corso". In seguito, il militare del Ros ha però ammesso che, "in via informale furono avvisati della spedizione a Guantanamo il dottor Tatangelo e il dottor Ausiello della Procura di Torino" che però, a detta del teste, "hanno fatto finta di non sapere".

Dando poi indicazioni più precise sui risultati dell'attività condotta a Guantanamo nel novembre del 2002, durante quella che fu "la prima e l'unica missione del Ros" presso la base americana in territorio cubano, il maresciallo ha chiarito che furono probabilmente sei le persone cui furono poste domande "senza la presenza di avvocati in quanto si trattava di colloqui informali". Di queste "solo una rispose, a proposito delle sue conoscenze a Bologna".

Tutte le altre decisero, invece, di non rispondere. Il testimone nel processo della prima corte d'assise di Milano ha spiegato di aver partecipato ai colloqui con due persone in particolare: il magrebino Ben Abdul Mabruk e un ragazzo di 18 anni che, a quanto poi ha appreso, sarebbe stato rilasciato dalle autorità americane e rimandato in Marocco, il suo paese d'origine. A quanto dichiarato in aula, il testimone aveva appreso a Guantanamo, dalle stesse forze americane, che i detenuti sentiti durante la 'spedizione' del Ros erano già stati ascoltati in precedenza da altre forze di polizia, probabilmente la stessa "polizia di Stato italiana" e alcuni investigatori "francesi, tedeschi, svizzeri e sicuramente spagnoli".

A proposito degli interrogatori svolti in precedenza da altre polizie, il militare ha riferito che il Ros aveva "inoltrato richiesta formale all'autorità statunitense allo scopo di acquisire i verbali di tali interrogatori", richiesta a cui "non fu mai data risposta se non che quel materiale era stato secretato".

 

17 ottobre

 

Smog e tosse nelle aule europee

Lo studio del Cnr in cinque città. Il 77% ed il 68% dei bambini esposto a livelli elevati di Pm10 e Co2. In Italia analisi a Siena e Udine. L'esperto: «Aumenta rischio malattie»

A scuola ci si ammala, perchè i virus passano di banco in banco fra i bambini ma anche perchè l’aria è cattiva e provoca tosse e riniti. È quanto emerge dallo studio di una ricercatrice dell'Ifc-Cnr, Marzia Simoni, che dopo aver messo sotto osservazione un gruppo di scolari di cinque paesi europei (Siena e Udine le città italiane coinvolte nel progetto) ha scoperto che più di due bambini su tre respirano fra i banchi di scuola elevate concentrazioni di anidride carbonica e di polveri sottili pm10, cui appunto si devono probabilmente buona parte dei loro malanni respiratori. Riguardo alle poveri sottili, la media riscontrata è più del doppio del limite massimo stabilito come pericoloso: 115 la misura consentita, con la città danese di Aarhus in testa (169, con una punta massima di 214), seguita da Udine (158), Siena (148), Reims (112), Oslo (54) e Uppsala (33).

L'anidride carbonica rilevata in aula supera invece il limite di quasi la metà e purtroppo indica un primato italiano: media di 1.467 ppm, con Siena a 1.954, Udine a 1.818 (qui la punta massima di 2.520), Reims a 1.660, Aahrus a 1.568, Oslo a 1.158 e Uppsala a 681. La conseguenza prevedibile, ma anche allarmante, di questa situazione è che – come spiega Simoni – «i bambini in aule scolastiche con elevati livelli di inquinamento riportano con maggior prevalenza sibili, tosse secca notturna e rinite, se paragonati ai bambini esposti a livelli bassi. In particolare, i bambini esposti ad elevati livelli di CO2 hanno un rischio superiore di circa 3,5 volte di riportare tosse secca notturna e di circa 2 volte maggiore di soffrire di rinite, rispetto a quelli esposti a bassi livelli.

Nei bambini esposti ad elevate concentrazioni di Pm10, invece, è stata misurata una pervietà nasale media (aree minime di sezione delle fosse nasali) significativamente inferiore, del 9% anteriormente e del 19% posteriormente, rispetto a bambini esposti a bassi livelli. Per effettuare la ricerca, sono state selezionate 4 scuole in ciascuno dei cinque paesi (Francia, Italia, Danimarca, Norvegia e Svezia) per un totale di 547 bambini (età media 10 anni). Le misurazioni degli inquinanti sono state effettuate durante la stagione fredda, quando il riscaldamento era in funzione.

Il 77% ed il 68% dei bambini è risultato rispettivamente esposto a livelli elevati di Pm10 (polveri con diametro minore o uguale a dieci micron) e CO2 (anidride carbonica). Sono state definite elevate , le concentrazioni superiori a 50 microgrammi per metro cubo di Pm10 ed a 1000 parti per milione di Co2 sulla base degli attuali Indoor Air Quality Standards statunitensi (Epa ed Ashrae). «È necessario – conclude la dott.ssa Simoni – promuovere la consapevolezza dell'impatto che l’aria può avere sulla salute dei nostri ragazzi, in modo da mettere in atto strategie volte a garantire loro il diritto di respirare aria pulita».

 

Michael Burda

Le ceneri di Angela

Il governo di Angela Merkel, in Germania, compie un anno. Con l’approssimarsi dell’anniversario in molti si sono chiesti: ne è valsa la pena? Per diversi mesi, i paesi della Vecchia Europa, e in particolare Italia e Francia, ma anche molti all’interno della Commissione europea, hanno guardato all’esperimento tedesco nella speranza che i gravi problemi economici e sociali potessero essere risolti da una "grande coalizione".

Le buone notizie

In teoria, ci sono due ragioni per dar vita a una grande coalizione: La prima è tecnica: non esiste una maggioranza per una coalizione guidata da un solo grande partito. L’altra è il riconoscimento che è necessario un cambiamento profondo e nessun governo espresso da un solo partito può sopravvivere all’assalto delle lobby e di un’opposizione opportunista. Era questa la speranza nella Germania di un anno fa: per avere un cambiamento duraturo, era necessario che "tutti fossero a bordo", altrimenti una parte politica avrebbe bloccato gli sforzi dell’altra, fino al punto di capovolgere la passata legislazione.
Quest’ultima condizione non sembra valere più nella Germania di oggi, e la grande coalizione sembra destinata a sciogliersi, probabilmente molto prima delle elezioni politiche del 2008.
All’inizio, le cose si muovevano in fretta, molto in fretta per gli standard tedeschi. Con un ministro delle Finanza socialdemocratico, il cancelliere Merkel ha abolito gli aiuti all’edilizia residenziale e tagliato gli sgravi fiscali per i pendolari: c’era un largo consenso che si trattasse della cosa giusta da fare. Ma la stagione dei tagli è finita presto: i sussidi continuano ad ammontare a circa 60 miliardi di euro l’anno di aiuti diretti e a 50 miliardi di sgravi fiscali.
La coalizione è riuscita a riformare il sistema di "federalismo", dando ai länder più autonomia in alcune aree, ma togliendo loro il diritto di veto in altre. Sfortunatamente, non è stata toccato l’aspetto fiscale, che avrebbe potuto contribuire a rendere più responsabili le politiche regionali. (Infatti, i länder hanno finito con l’avere più potere in molte materie). In nome dell’onestà fiscale, la coalizione ha alzato l’Iva di 3 punti percentuali a partire dal 2007. Com’era prevedibile questo ha stimolato la domanda corrente di beni durevoli di "scontrino alto", e di conseguenza tassi di crescita che non si vedevano dai tempi della riunificazione.
Per quanto riguarda il mercato del lavoro, la coalizione è rimasta ben salda sul tracciato delle leggi Hartz: la mia interpretazione delle recenti buone notizie dal mercato del lavoro è che queste riforme hanno spostato verso il basso il "tasso di equilibrio", proprio come avrebbe detto il premio Nobel 2006 per l’Economia, Edmund Phelps. Da sottolineare che la Spd ha resistito alla tentazione di abbandonare il campo anche quando l’Ufficio federale per l’impiego ha tagliato programmi di spesa inutili per il mercato del lavoro, arrivando a un considerevole surplus di 10 miliardi di euro, di cui un terzo è forse dovuto proprio a questi tagli. Così, Merkel e soci sono riusciti a mantenere le riforme proposte dal predecessore Gerhard Schröder. Un risultato che da solo ha creato un grande ottimismo nel mercato internazionale dei capitali sul fatto che le riforme non sono solo salde, ma irrevocabili.
Questo è tutto per quanto riguarda le buone notizie: dopo dodici mesi gli interventi facili sono finiti. I problemi difficili – sanità, riforme più profonde del mercato del lavoro, deregolamentazione del mercato dei prodotti e semplificazione del sistema fiscale – sono ancora sul tavolo, ma servirà una buona dose di energia, creatività, disciplina e capacità di resistenza per trattare con lobby agguerrite e campioni dello status-quo. Più importante ancora, è necessario arrivare a una diagnosi comune e concordata del problema. L’arte del compromesso, orgoglio dei politici tedeschi, non basterà.

Il test della riforma sanitaria

Prendiamo il test più importante che la grande coalizione ha dovuto affrontare finora: la riforma della sanità. Il sistema tedesco è difficile da spiegare e ancor più da riformare. È un insieme di fondi assicurativi garantiti dallo Stato, basati su contributi di aziende e lavoratori legati al salario, obbligatori per tutti fuorché i meglio pagati. Dopo un lungo dibattito, il governo ha proposto di introdurre forme di concorrenza tra le compagnie di assicurazione sanitaria creando un fondo comune per le contribuzioni, con cumulo dei rischi, e permettendo agli assicurati di cambiare fondo assicurativo. Frutto di un compromesso, la proposta evita il problema della redistribuzione: i lavoratori dovrebbero pagare per la sanità in rapporto al reddito (Spd) o indipendentemente da questo con una esplicita redistribuzione verso chi sta peggio (Cdu)? La coalizione è riuscita a trovare un accordo solo sulla creazione del fondo, uno scheletro burocratico che sarebbe comunque necessario in entrambi i casi. Mentre litiga praticamente su tutto il resto, compreso il controllo dei costi. I lobbisti hanno tratto vantaggio dalla confusione dei politici e ora sembra sempre più difficile che il compromesso raggiunto divenga una legge prima del 2009, comunque dopo le prossime elezioni politiche. I nemici di Merkel interni al suo partito potrebbero anche usare il compromesso sulla sanità come un’arma – e togliere il loro appoggio all’ultimo minuto: se Merkel dovesse essere costretta a ritirare la proposta, ne uscirebbe molto indebolita.
Non soltanto la grande coalizione non è riuscita a proporre una soluzione valida, ma grande è stato lo spreco di tempo ed energie, oltre che di attenzione e pazienza dell’opinione pubblica. Non c’è da meravigliarsi se i sondaggi danno Spd e Cdu ai livelli più bassi in decenni.

Perché non ha funzionato

La grande coalizione tedesca sta fallendo perché i politici non trovano un accordo sulla soluzione giusta ai problemi della Germania. Ma non è solo colpa loro. In fin dei conti, la Germania è una democrazia matura e si merita i governanti e i politici che ha. Wolfgang Münchau del Financial Times ha affermato di recente che i "tedeschi non credono più alle favole". Non è affatto vero: i tedeschi sono ancora disperatamente attaccati alla favola cara alla Vecchia Europa, secondo la quale le riforme dolorose si possono evitare seguendo la "terza via". Non sono pochi i politici, sindacalisti e lobbisti pronti a dire ai tedeschi che si può fare a meno delle riforme e delle riorganizzazioni viste negli Stati Uniti, nel Regno Unito o in Olanda così come nei paesi scandinavi. Era questo il messaggio del risultato ambiguo delle elezioni di settembre 2005: procediamo a piccoli passi e sarà meno doloroso. Vere riforme saranno ancora più difficili ora che la ripresa è arrivata. Non importa se la Germania ha perso più di un decennio di crescita degli standard di vita registrato nelle economie Ocse di punta. No, la Vecchia Europa non trarrà alcun beneficio da una grande coalizione finché non sarà soddisfatta la condizione necessaria che ne è il centro: un implicito consenso per un vero cambiamento diffuso nella popolazione in generale e nella classe politica. Sotto tutti i punti di vista, ne siamo ben lontani.

 

16 ottobre

 

Oggi la "Giornata modiale dell'alimentazione", celebrata in 150 Paesi
Il direttore generale della Fao, Diouf: "Occorre anche l'impegno dei privati"

La piaga della fame per 854 milioni di persone
"Servono più investimenti in agricoltura"

<B>La piaga della fame per 854 milioni di persone<br>"Servono più investimenti in agricoltura"</B>
ROMA - "Oggi nel mondo 854 milioni di persone non hanno cibo a sufficienza e hanno poche opportunità di lavorare e aumentare il proprio reddito". Con queste parole il direttore generale della Fao, Jacques Diouf, ha aperto a Roma la "Giornata mondiale dell'alimentazione 2006", celebrata in 150 Paesi.
La Giornata, dedicata quest'anno al tema "Investire in agricoltura per la sicurezza alimentare", segna il 61.mo anniversario della fondazione dell'agenzia Onu.

Quello della fame nel mondo è un vero e proprio problema che deve interessare tutti. Questo il messaggio del direttore generale della Fao che prosegue: "Vi è stata di recente una certa ripresa dei finanziamenti al settore agricolo, ma c'è ancora molto da fare. Non solo occorre aumentare il volume degli investimenti pubblici, ma questi devono essere accompagnati da quelli del settore privato".

Già nel 2002 la Fao aveva stimato che per raggiungere il primo obiettivo del Millennio, ovvero dimezzare il numero degli affamati nel mondo entro il 2015, occorreva un costo supplementare di investimenti pubblici di circa 19 miliardi di dollari da destinare alla crescita agricola e all'aumento delle produttività nelle aree rurali, e di altri 5 miliardi per gli interventi di emergenza che forniscono accesso immediato al cibo. Molto ancora è da fare.

Uno dei meccanismi concreti per diminuire gli affamati nel mondo è la cosiddetta Piattaforma globale dei donatori per lo sviluppo rurale, un consorzio di 26 agenzie per lo sviluppo, che, sempre secondo Diouf, "deve essere rafforzato e rilanciato insieme all'approccio cooperativo. E' questa l'unica via da seguire per far crescere i piccoli e medi agricoltori e ridare loro strumenti per sopravvivere e dignità".
Solo un "approccio cooperativo" che coinvolga tutti i soggetti interessati, i produttori, le industrie e i governi, secondo il direttore generale della Fao, "può garantire la sicurezza alimentare. Spetta a tutti questi soggetti coordinarsi per creare condizioni socio-politiche stabili, promuovere norme per l'accesso all'acqua e alla terra, applicare criteri di qualità e fornire infrastrutture rurali essenziali per promuovere partnership remunerative".

Uno dei prossimi obiettivi della Fao sarà quindi quello di attrarre investitori privati. Per farlo "occorre che i Governi si adoperino per fornire accesso a condizioni fiscali, almeno temporali, di vantaggio - ha dichiarato Claudio Gregorio, capo divisione centro per gli investimenti della Fao - perché il privato non deve e non può fare beneficenza".

L'agenzia Onu, in questo processo, svolge un ruolo di 'onest broker', cioè di intermediario imparziale fra i grandi investitori, come le banche di sviluppo e i governi, per sviluppare le cosiddette 'public private partnership' (Ppp).

Dal 1964 la Fao ha aiutato 165 Paesi membri ad ottenere finanziamenti per sostenere 1600 progetti per programmi agricoli. Si tratta di investimenti che ammontano a 800 miliardi di dollari.

 

Innocenti evasioni
in un clima di complicità

di ILVO DIAMANTI
L'ANNUNCIO del ministro Visco, che dichiara il proposito di "sradicare l'evasione fiscale nei prossimi cinque anni", è certamente sincero, oltre che da noi condiviso. Il ministro, d'altronde, impersona questa volontà come pochi altri. In modo quasi fisiognomico. Il centrosinistra, inoltre, ne ha fatto un obiettivo di bandiera. Tuttavia, al di là delle intenzioni, ci sembra lecito dubitare. Tante volte la lotta all'evasione fiscale è stata annunciata come una priorità di governo.

E altrettante è stata lasciata cadere. D'altra parte, è certamente difficile contrastare un fenomeno così esteso. Che non si limita a quelle zone, soprattutto (ma non solo) del Sud, controllate dalla criminalità organizzata, dove l'evasione fiscale e il lavoro nero costituiscono "patologie ambientali". Ma è diffuso, radicato un po' dovunque. Nel Nord della piccola impresa, per esempio, dove è stato usato, da sempre, come un "fattore" di flessibilità, oltre che di risparmio. Tuttavia, il problema maggiore è che la "pratica" si confonde con la "cultura". Presso ampi settori della società italiana, infatti, l'evasione costituisce una sorta di "abitudine" consolidata; un tratto del "carattere" nazionale.

L'Italia: un Paese di "innocenti" evasori. Dove non evade e non elude, soprattutto, anzitutto, chi non lo può fare. Quelli che non hanno possibilità di "fatturare" in nero almeno una parte degli introiti. Quelli che non possono "scaricare" le spese, reali o fittizie. In altri termini: i lavoratori dipendenti, il cui prelievo fiscale avviene alla fonte. Così succede che i liberi professionisti, i lavoratori autonomi, gli imprenditori - come dimostrano, da ultime, le statistiche relative alle denunce dei redditi 2005, pubblicate in questi giorni - continuino, in molti casi, a denunciare redditi inferiori agli operai, agli impiegati, ai pensionati. (E, per questo, vederli manifestare ieri a Treviso ci è sembrato un po' troppo).

Tuttavia, le occasioni per sottrarsi e sottrarre al fisco sono troppe e troppo frequenti, anche per i lavoratori dipendenti, per non finirvi impigliati. La prestazione dell'elettricista o dell'idraulico, la visita dal dentista, la messa in piega dalla parrucchiera, il lavoro di restauro affidato all'artigiano in pensione. La collaboratrice domestica, la badante. Figure retribuite, spesso (non osiamo dire "perlopiù"), in "nero". Mentre, parallelamente, molti lavoratori dipendenti e molti pensionati arrotondano la retribuzione, con altre attività. Condotte perlopiù in modo informale. Senza ricevute, senza contratti.

Certo, non possiamo porre sullo stesso piano chi è pagato e chi paga in nero una prestazione, sotto il ricatto dello "sconto". Né chi elude ed evade gran parte del reddito proveniente dalla sua remunerativa attività professionale con l'operaio o il pensionato, che integra il suo reddito limitato con qualche lavoretto.

Tuttavia, questa tela fitta di piccole e grandi evasioni produce un generale clima di complicità, condivisione. Rassegnazione. Con l'esito che l'evasione tende a non essere percepita, dai più, come un reato; né gli evasori come malfattori, ma neppure come "devianti". Al più, dei furbi. Specialisti dell'arte di arrangiarsi, ritenuta, dagli stessi italiani, la principale "virtù" nazionale.

I sondaggi fanno emergere indizi significativi, al proposito. Seppure dissimulati nella nebbia della reticenza. Perché tanto più è diffuso e condiviso, un atto illegale (o, almeno, irregolare), tanto più, nei discorsi della gente, viene "eluso". Trattato con una certa omertà (usiamo questo termine non per caso).

Tuttavia, la quota di persone che considera "legittimi" o comunque "giustificabili" alcuni comportamenti "illeciti", dal punto di vista fiscale, appare comunque ampia. Infatti, il 36% degli italiani (intervistati da Demos per "la Repubblica", dicembre 2004: campione nazionale rappresentativo di 1600 casi) ritiene lecito, almeno in alcune occasioni, "pagare meno tasse del dovuto" (in altri termini: evadere o eludere il fisco); il 25% "pagare in nero" una prestazione, per risparmiare. E una quota eguale "lavorare in nero".

La stessa indagine, inoltre, dimostra come l'atteggiamento permissivo nei confronti dell'evasione fiscale e del lavoro nero alimenti la sfiducia nello Stato e l'insoddisfazione riguardo ai servizi pubblici. E viceversa. L'evasione, quindi, sottolinea la distanza fra i cittadini, il pubblico e lo Stato. Ma anche l'ambiguità che ne caratterizza il rapporto. Visto che gli italiani sono insoddisfatti dei servizi pubblici, ma, al contempo, ne temono la privatizzazione. E vorrebbero che tornassero pubblici anche quelli privatizzati, come le autostrade (Demos-Centro Studi Confindustria, febbraio 2006).

Ciò suggerisce che all'origine dell'insofferenza nei confronti delle tasse ci sia la svalutazione del nostro welfare. Non solo perché produce risposte poco efficaci. Ma perché è considerato un diritto acquisito, piuttosto che una conquista di civiltà, da coltivare e mantenere. Un "bene comune"; quindi di tutti e di nessuno. Regolato da logiche assistenziali e particolaristiche, quanto condivise. Tanto che il 50% degli italiani (Demos, dicembre 2004) ritiene lecito ricorrere a raccomandazioni e ad amicizie, per poter ottenere, in fretta, una visita medica oppure un ricovero.

L'incertezza economica degli ultimi anni, peraltro, ha generato delusione nei confronti del privato, facendo crescere, in parallelo, la domanda, ma non la soddisfazione nei confronti del pubblico. Che resta molto bassa. Infelicità privata e insoddisfazione pubblica, così, si inseguono e si sommano, nel nostro Paese. Per cui le tasse continuano ad essere percepite non come il "prezzo della cittadinanza", necessario a garantire servizi e tutela ai cittadini. Ma, perlopiù, un balzello. Un vincolo, da subire, perché e quando tocca; a cui sottrarsi, quand'è possibile. D'altronde, lo stesso Berlusconi, da presidente del consiglio, aveva giustificato questa ideologia, che considera, nel caso italiano, l'evasione spesso una necessità e il lavoro informale un'opportunità.

Da ciò il paradosso del nostro sistema fiscale. La cui pressione, va detto, non è inferiore alla media europea. Al contrario, è di poco superiore. Ciò significa che gli italiani pagano le tasse. Non tutti nella giusta misura. Ma, nell'insieme, le pagano. In misura massiccia. Negli ultimi quindici anni hanno affrontato e sopportato finanziarie pesantissime. Nel 1992, nel 1993, nel 1996, nel 1997: hanno pagato decine e decine di migliaia di miliardi di vecchie lire. Senza inscenare rivolte. Solo qualche mugugno e poche proteste. Eppure vengono definiti e in parte si sentono: evasori. E dunque: evasori e tartassati al tempo stesso. Senza contraddizione e senza vergogna. Perché il sistema fiscale è fondato sulla reciproca sfiducia, fra i cittadini e lo Stato. Per cui lo Stato, il governo di turno, tiene alta la soglia della tassazione, e ricorre al prelievo fisso, alla tassazione indiretta, quando può, perché diffida dei cittadini. Sospetta che, per quanto è nelle loro possibilità, sfrutteranno ogni piega lecita e illecita, per limitare il "danno". Li ritiene "peccatori a prescindere". E per questo li invita, regolarmente, a chiedere il perdono, o meglio, il "condono", pagando una penale.

D'altro canto, i cittadini - quelli che possono, se possono - coerentemente si difendono dallo "Stato delle Tasse": eludendo, evadendo, sfruttando le opportunità formali e non, offerte dall'ambiente e dalle norme vigenti. Fino ad ammettere colpe talora non commesse. Pagando il periodico "condono di Natale". Così, per precauzione. Non a caso, l'Italia è diventata il paese con la più alta densità per chilometro quadrato di commercialisti, consulenti finanziari, fiscali e del lavoro.

Tutto ciò ci fa dubitare. Che davvero il ministro Visco riesca nel suo proposito (che noi condividiamo). Fin quando, almeno, l'evasione apparirà ai più un'azione innocente, un vizio minore, una virtù cinica. Fino a quando "combatterla" risulterà non tanto un'opera di giustizia, ma da giustiziere.


 

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