Archivio Aprile 2006

 

 

26 aprile

Per gli ecologisti fu una strage. L'Onu: 4000 vittime
Le organizzazioni sanitarie: i casi di tumore aumentano
 

Cernobyl, la guerra dei numeri "La nube fece 100 mila morti"

E' ancora un mistero il reale bilancio della tragedia nucleare ucraina
dal nostro inviato PIETRO DEL RE
 
<B>Cernobyl, la guerra dei numeri<br>"La nube fece 100 mila morti"</B>
Il ricordo di Cernobyl

MOSCA - Un mistero aleggia attorno alla ventennale ricorrenza del più grande disastro nucleare civile della storia: quante furono le vittime provocate dall'esplosione del reattore della quarta unità di Cernobyl? E quante persone ancora moriranno per i veleni che nella notte fra il 25 e il 26 aprile 1986 si sprigionarono nell'atmosfera? Un rapporto Onu, pubblicato lo scorso settembre, parla di quattromila decessi.

Pochi mesi dopo, il Centro internazionale della ricerca sul cancro fornisce altri dati: i morti salgono a sedicimila. Ma secondo recenti stime di associazioni ecologiste, il bilancio in vite umane, passato e futuro, è molto più pesante. Per l'Accademia delle Scienze di Mosca, solo in Bielorussia, verso cui la notte della tragedia i venti spinsero enormi quantitativi di sostanze tossiche, si registrerebbero attualmente 270mila casi di tumore attribuibili alle radiazioni. Di questi, 93mila dovrebbero avere un esito fatale.

Sono cifre contrastanti, a volte contraddittorie, ma tutte raccapriccianti. E' del resto impossibile fornire un computo preciso di chi si è ammalato gravemente per via del disastro di Cernobyl, e di chi per quel motivo ha già perso la vita o la perderà. "Ma le cifre dell'Onu sono assolutamente false", dice Angelika Claussen, che presiede l'associazione tedesca dei "Medici contro la guerra nucleare". La Claussen esamina una per una le eventuali conseguenze della diffusione nell'atmosfera di circa 45 milioni di curie di Xeno 133, di 7 milioni di curie di Iodio 131, e di un milione di curie di Cesio 134 e 137. "L'Onu parla di 4000 casi di tumori alla tiroide: ma secondo i nostri dati, sono già 10mila le persone colpite da questo male e 50mila quelle che lo saranno tra breve".

Eppure, a sentire Leonid Bolshov, direttore dell'Istituto per l'energia atomica russa, Cernobyl è stato soltanto un incidente tecnico, di sicuro non una catastrofe. Dice lo scienziato: "I dati parlano chiaro: 47 persone sono morte quasi sul colpo, e nove bambini di tumore alla tiroide". Opposto è il parere di Viaceslav Grishine, che in quei fatidici giorni lavorò allo spegnimento dell'incendio della centrale: "Degli oltre 600mila "likvidatory", ossia quei tecnici, pompieri e soldati che dall'Ucraina, Russia e Bielorussia furono spediti a Cernobyl per tentare di arginare il disastro, 45mila sono morti e quasi 120mila sono rimasti gravemente invalidi".

Per la sezione russa di Greanpeace, lo scopo del rapporto Onu è quello di sostenere il programma nucleare di Mosca che prevede la costruzione di 40 nuovi reattori entro il 2030. Vladimir Ciuprov, responsabile dell'organizzazione, cita i dati stilati da un centro di ricerca dell'Accademia delle Scienze secondo cui, tra il 1990 e il 2004, la nube radioattiva avrebbe ucciso 67mila persone solo in Russia.

Come districarsi tra questi numeri, queste valutazioni discordanti, queste nefaste previsioni? Bisognerebbe anzitutto poter paragonare i casi di tumore nelle regioni contaminate prima e dopo la catastrofe. Ma la maggior parte di quei dati sono oggi sotto chiave negli archivi di Mosca che li considera segreti di Stato. E quindi inaccessibili all'Ucraina, teatro della tragedia, che nel 1991 divenne indipendente.

25 aprile

Un ex dirigente svela chi accreditò la montatura sulle armi di Saddam
Fu l'intelligence di Roma a fornire il rapporto che "accusava" l'Iraq

 

 

25 APRILE
Rappresaglie da talk show
«Via Rasella la storia mistificata» di Rosario Bentivegna. Il carteggio del comandante dei Gap con Bruno Vespa per ribattere le falsità che hanno accompagnato quell'azione partigiana fatte proprie dal conduttore televisivo. Un libro importante perché svela come la vulgata antipartigiana venga eletta a verità storica per delegittimare la Resistenza e l'opposizione al berlusconismo
ALESSANDRO PORTELLI
Mi diceva qualche anno fa Rosario Bentivegna, medico del lavoro, gappista romano, protagonista della battaglia di via Rasella: «Dopo la guerra, il partito disse sempre la verità su via Rasella e sulle Fosse Ardeatine; quello che non fece, fu di confutare le menzogne e le mistificazioni che erano state diffuse su quegli avvenimenti». Le menzogne e le mistificazioni le sappiamo tutti: la falsa notizia secondo cui, dopo l'azione partigiana in Roma occupata in cui morirono 33 componenti di un battaglione di polizia aggregato alle SS, i tedeschi avrebbero messo cartelli per tutta Roma invitando i «colpevoli» a consegnarsi per evitare la rappresaglia. Sappiamo, o dovremmo sapere, che questa è pura invenzione: persino il generale Kesselring, interrogato in tribunale, disse che non ci avevano mai nemmeno pensato; la rappresaglia fu decisa subito, mai condizionata alla resa dei partigiani, e fu comunicata alla popolazione solo dopo che la strage era stata compiuta.
Una delle tante ragioni per ammirare Rosario Bentivegna è che, in assenza di una chiara risposta politica e storiografica a queste menzogne, da più di mezzo secolo si fa carico puntigliosamente di ristabilire la verità, di confutare le mistificazioni, e di difendersi e reagire in ogni sede (compresi i tribunali) alle demonizzazioni di cui lui e i suoi compagni sono stati oggetto.
E' un lavoro di Sisifo, e ogni volta sembra che si deve ricominciare da capo. Stavolta, la falsificazione proviene dal gran cerimoniere dei riti televisivi, Bruno Vespa, che per qualche misteriosa ragione (o meglio: per ragioni di cassetta e per ragioni di manipolazione ideologica) ha deciso di improvvisarsi storico senza possedere neanche l'ombra dei requisiti minimi del mestiere - ma, direi, senza possedere neanche l'ombra di quella curiosità intellettuale e desiderio di verità che dovrebbe animare non solo lo storico, ma almeno il giornalista serio. Quando Nicola Gallerano parlava di «uso pubblico della storia» aveva in mente cose ben più serie che questi bestseller di quart'ordine.
Un dialogo tra sordi
Così, nella sua Storia d'Italia da Mussolini a Berlusconi, Vespa racconta per l'ennesima volta la vulgata antipartigiana su via Rasella senza neanche prendersi la cura di informarsi sui fatti e di leggere la bibliografia aggiornata. Perciò, ai vari errori sulla ricostruzione dell'evento aggiunge la ripetizione della solita accusa a Bentivegna e compagni di non essersi presentati in risposta ai manifesti fatti affiggere dai nazisti che li invitavano a farlo. E anche stavolta, Bentivegna prende la penna in mano e, instancabile, cortese e chiarissimo, spiega, precisa, rettifica come ha fatto centinaia di volte nella sua vita. Comincia un carteggio, prima privato poi pubblico (anche sulle pagine dell'Unità) che adesso Bentivegna, con il consenso del suo interlocutore, ha trasformato in un libro: Via Rasella la storia mistificata. Carteggio con Bruno Vespa (manifestolibri, pp. 116, 15), con un'introduzione puntuta e puntuale di Sergio Luzzatto, un'ennesima ricostruzione fattuale di che cosa veramente successe e poi, irritante e soffocante, il dialogo mancato fra Bentivegna che spiega e Vespa che fa finta di non capire. O forse non fa finta per niente.
Sono anni che mi occupo di via Rasella e delle Fosse Ardeatine, e ogni volta mi trovo davanti allo stesso meccanismo. E' un po' come la storia del lupo e dell'agnello: c'è una conclusione precostituita e, se un argomento per sostenerla viene meno («mi intorbidi l'acqua») se ne inventa un altro, più specioso ancora («hai parlato male di me») e poi un altro e un altro e un altro, all'infinito. Lo stesso vale per via Rasella, anche nel caso di Vespa: costretto ad ammettere che i manifesti non ci furono, si inventa che però i partigiani dovevano sapere che ci sarebbe stata la rappresaglia perché i nazisti avevano preavvertito (e non è vero neanche questo, e risulta dalle parole dello stesso Kappler), poi che i poveri poliziotti in uniforme nazista erano in realtà degli italiani padri di famiglia (come se vestire l'uniforme di un esercito occupante non fosse un'aggravante, per un italiano; e come se l'età media dei poliziotti del Bozen non fosse in realtà di 33 anni) e via arrampicandosi sugli specchi pur di non rinunciare all'unica cosa che gli interessa: negare il significato dell'azione partigiana e con essa di tutta la Resistenza. Per questo ha ragione Luzzatto quando parla di «dialogo fra sordi». In realtà, Bentivegna ascolta e replica, ma dall'altra parte c'è un sordo che non vuole sentire.
Qui infatti non si tratta solo di banale revisionismo, ma dell'idea di una continuità storica in nome dell'«odio» e della «guerra civile» che accomuna le leggi razziste, la guerra partigiana, gli anni di piombo e l'opposizione a Berlusconi dentro un unico paradigma: sia i partigiani che attaccavano militarmente i nazisti sia il centrosinistra che attacca politicamente Berlusconi sarebbero mossi dagli stessi impulsi. Chiaro che in questa continuità la Resistenza è una spezzatura: infangare la Resistenza, dunque, non serve solo a erodere ulteriormente l'eredità dell'antifascismo ma soprattutto a fare dell'opposizione a Berlusconi l'espressione di atavismi profondi e irrazionali, il «fiume carsico» (scrive Vespa) di una guerra civile ora esplosiva, ora strisciante. Come fa notare Luzzatto nell'introduzione, elencando i titoli delle annuali strenne di Vespa: «presi uno per uno, i titoli dei libri di Vespa scandiscono ogni volta un presunto momento epocale, quando non suggeriscono un'emergenza nazionale o addirittura una crisi rivoluzionaria. Presi in serie, viceversa, essi alludono alla consolante evidenza per cui tutto cambia, più tutto è la stessa cosa...»
Alla fine, Vespa non sa più che pesci prendere, e si limita a ripetere che «l'attentato di via Rasella è un gravissimo errore». La risposta finale di Bentivegna è tagliente: «Credo nella sua buonafede - concede - ma il problema dei problemi è che lei ha dato una versione non corretta dei fatti, condita di insinuazioni e ambiguità, perché aveva orecchiato le consuete mistificazioni e le ha riportate senza la necessaria verifica».
Intelligentemente, Bentivegna non si limita a rettificare la versione con corretta dei fatti, ma smaschera anche l'uso non corretto, strisciante, del linguaggio: contesta il termine «rappresaglia» applicato alle Fosse Ardeatine (e ha ragione, tecnicamente e giuridicamente: secondo il tribunale militare italiano, non si trattò di rappresaglia bensì dio «omicidio continuato»), coglie le implicazioni retoriche di espressioni come il «gesto» che gli viene attribuito, come se non si fosse trattato di un'azione di guerra ma dell'alzata di capo di un isolato irresponsabile, smaschera il presupposto implicito secondo cui avrebbe dovuto «pentirsi» di quello che aveva fatto. E d'altra parte, l'intera modalità comunicativa di Vespa, dal linguaggio del corpo in Tv alla retorica dei suoi libri, reca nel degrado del linguaggio il segno del danno profondo che arreca alla nostra cultura. In questo senso, il lavoro di Bentivegna non è solo l'ennesima doverosa puntualizzazione storica, ma anche un atto importante di resistenza, sia pure con la minuscola, allo strapotere egemonico del discorso televisivo: i libri di Vespa sono vangelo non perché siano attendibili ma perché il loro autore sta in Tv. Qualche tempo fa, sulla metropolitana di Roma, c'era una ragazza sprofondata nella lettura di uno dei tomi di Vespa, con tanto di evidenziatore. Non sono riuscito a capire se quello che sottolineava fossero gli sfondoni del libro, o quelle che lei scambiava per storiche verità o perle di saggezza. Temo che sia buona la seconda.
Pagine responsabili
Il libro di Vespa sulla metropolitana è l'aggiornamento dei canali attraverso cui si è formato il senso comune antipartigiano su via Rasella: riviste da parrucchiere, pamphlet fascisti, dicerie incontrollate. Tutti canali troppo a lungo considerati al disotto dell'attenzione degli storici seri, e persino della politica seria; per questo, hanno potuto continuare a diffondersi per decenni, navigando sotto il radar della vigilanza culturale e del dibattito storiografico. Temo che Vespa sia la stessa cosa: troppo poco serio perché gli storici seri si prendano la briga di smontarlo pubblicamente come sarebbe loro dovere. Anzi, persino rispettabili istituzioni romane hanno ritenuto opportuno allestire presentazioni e dibattiti, come se questi libri fossero una cosa seria.
Per fortuna ci sono persone come Rosario Bentivegna. E per fortuna questo suo libro è accompagnato, stavolta, dall'intervento di uno storico serio che prende atto del rischio di una memoria storica affidata agli ignoranti e ai manipolatori. Quella fra Vespa e Bentivegna non è una battaglia ad armi pari, dato lo strapotere mediatico dell'uno e la sostanziale solitudine dell'altro. Sarebbe il caso di dare una mano a Bentivegna, perché qui non è in gioco solo la sua personale responsabilità, né la moralità della resistenza, ma proprio la nostra capacità di rapportarci criticamente alla storia e di usare responsabilmente il linguaggio. Scrive Luzzatto: «Lo scopo del gioco (di Vespa, ma - aggiungerei io, di tutto quello che lui rappresenta, n.d.r.) è la banalizzazione retrospettiva dei valori e dei disvalori, dei meriti e delle bassezze, delle ragioni e dei torti. La durata del gioco resta da determinare; ma finché uomini come Rosario Bentivegna conserveranno la forza per opporvisi, uomini come Bruno Vespa faranno bene a non sentirsi la vittoria in tasca».

 
 
 
SCUOLA
50 mila firme per abrogare la riforma Moratti
BRUNO MORETTO*
La proposta di legge popolare per una buona scuola della Repubblica ha raggiunto le 50.000 firme necessarie alla presentazione. Dalla proposta l'esigenza di una nuova stagione per la scuola pubblica. Io credo che il prossimo Governo funzionerà se si libererà dalla sindrome Berlusconi, se riuscirà ad esercitare il suo ruolo e se avrà dietro di sé il consenso e lo stimolo della società reale, dei cittadini che vivono ogni giorno le contraddizioni del presente.
Le preferenze di voto risentono di una molteplicità di influssi, la recente campagna elettorale è stata certamente condizionata da quelli ideologici. La scuola è una delle questioni che può fare uscire il prossimo Governo dalle secche della contrapposizione degli apparati di potere.
Le riforme Moratti hanno visto svilupparsi un'ampia opposizione sociale sicuramente maggioritaria nel paese. La sirena delle tre I si è scontrata con la realtà del calo delle risorse e della decadenza della scuola pubblica. Gli ultimi 5 anni sono stati devastanti: gli interventi del precedente Governo hanno avuto come risultato quello di ridimensionare il compito che la Costituzione assegna alla scuola statale di formare le nuove generazioni in un luogo formativo laico e pluralista.
La politica indiscriminata di tagli alla scuola pubblica statale e l'aumento dei finanziamenti alla scuola privata, l'introduzione di una riforma che tende a ridurre l'istituzione scuola ad un servizio minimo di diretta emanazione famigliare, hanno messo in gravi difficoltà le scuole e le famiglie.
Genitori, insegnanti e studenti hanno manifestato in piazza e resistito dentro le scuole. Ma hanno fatto molto di più: in questi mesi si è sviluppata una proposta di riforma che ha lo scopo di rilanciare la scuola statale come motore dello sviluppo sociale del paese. Sono sorti in tutta Italia oltre 80 Comitati promotori di una legge di iniziativa popolare per una buona scuola per la Repubblica. Tale legge si propone i seguenti obiettivi: prima di tutto abrogare la controriforma Moratti per rimettere al centro del sistema scolastico la scuola della Repubblica, statale, laica e pluralista, con l'obbligo scolastico a 18 anni, con non più di 22 alunni per classe, basata sull'integrazione e educazione interculturale, su programmi moderni e condivisi, sull'unicità e pari dignità delle funzione docente, sulla partecipazione alla gestione della scuola, sull'autovalutazione.
Perno della legge è il rispetto dell'art. 33 che vieta il finanziamento pubblico alle scuole private onde garantire alla scuola statale risorse certe e adeguate pari al 6% del Pil. La legge, inoltre, si propone di garantire nidi d'infanzia e scuola dell'infanzia statale per tutti con l'ultimo anno obbligatorio, il soddisfacimento delle richieste di tempo pieno elementare con due insegnanti contitolari, il tempo prolungato nella scuola media, un biennio superiore unitario con un triennio di indirizzo e attività di laboratorio in tutte le discipline.
Solo una scuola riformata, che sappia tenere uniti il sapere e il saper fare può affrontare il problema della dispersione scolastica che pone l'Italia agli ultimi posti fra i paesi sviluppati per numero di diplomati e risultati del processo di apprendimento.
E' quindi fondamentale l'abrogazione della legge 53 e l'avvio di una nuova stagione di risorse condivise.
I Comitati promotori hanno già raccolto in un mese e mezzo le 50.000 firme necessarie per presentare la proposta di legge, di cui oltre 10.000 a Bologna.
Ma non si fermeranno consapevoli che solo la dimostrazione della grande partecipazione e attenzione che hanno i cittadini per il futuro di una scuola pubblica per tutti e di tutti può invertire la tendenza che si è evidenziata negli ultimi 10 anni.
Il mondo della scuola ha preso in mano il suo futuro e non delegherà più a nessuno il potere di intervenire dall'alto.
Sta nelle potenzialità di questo movimento superare le 100.000 firme. Il movimento si aspetta molto dal nuovo Governo nazionale. Per esempio che si volti pagina e che si rimetta al centro dell'azione pubblica i diritti dei cittadini ad avere la disponibilità di una scuola statale di qualità, laica e pluralista, basata sulla libertà di insegnamento, diffusa ed omogenea su tutto il territorio nazionale.
Solo una scuola con queste caratteristiche potrà sviluppare una politica di reale integrazione della nuova immigrazione, solo la scuola della Repubblica potrà impedire lo sviluppo dei ghetti e delle barriere culturali fra i cittadini.
Solo la scuola pubblica statale reinvestita del compito costituzionale di formare le nuove generazioni perché siano in grado di diventare cittadini consapevoli della società globale della conoscenza potrà permettere al nostro paese di mantenere il ruolo che compete alla nostra storia e alla nostra tradizione culturale.
*(segretario del Comitato bolognese Scuola e Costituzione)


Ilva di Taranto, morte infinita
Dopo l'operaio ucciso dalle esalazioni, tre ustionati. Appello Fiom: «La Regione ci aiuti»
ANTONIO MASSARI
Un morto e tre feriti in una settimana. Più che una fabbrica, l'Ilva di Taranto sembra un campo di battaglia. E i bollettini medici sembrano quelli di una guerra permanente tra operai macchine e azienda. A poche ore dalla morte di Antonio Mingolla, un operaio 47enne di Mesagne, venerdì scorso tre lavoratori sono stati investiti da una fiammata mentre curavano la manutenzione di una macchina. Un corto circuito che poteva essere evitato. «Sulla macchina c'era ancora la tensione elettrica», denuncia Francesco Fiusco, responsabile Fiom. «Quando si interviene per la manutenzione, infatti, la macchina va sezionata, in altri termini bisogna togliere la tensione, proprio per evitare ciò che s'è realizzato, cioè il corto circuito. La responsabilità dell'Ilva, in questo caso, mi sembra evidente».
Dopo gli ultimi incidenti la Fiom ha deciso di continuare la sua battaglia: «Convocheremo al più presto tutte le rsu per un'iniziativa sulla sicurezza», continua Fiusco, «e non ci riferiamo solo agli interni, ma anche a tutti gli operai che lavorano nelle aziende in appalto. Poi decideremo se e quando proseguire con gli scioperi». All'ultimo, organizzato la scorsa settimana e durato ben 32 ore, ha aderito l'80% dei dipendenti. E' stata la prima, immediata risposta alla morte di Antonio Mingolla, ucciso sul posto di lavoro da una esalazione di gas. Asfissia da ossido di carbonio: questa la diagnosi certificata dai medici legali dopo l'autopsia. L'operaio stava effettuando la manutenzione su una condotta di gas che confluisce nell'altoforno. Gli interrogativi, sui quali la magistratura tarantina dovrà far luce, poiché è stata aperta un'inchiesta contro ignoti per omicidio colposo, sono molti. Innanzitutto si dovrà verificare se Mingolla indossava la mascherina di protezione, in secondo luogo se le misure di sicurezza erano effettivamente operative e, infine, se non si sia verificata una perdita di gas. «La magistratura dovrà fare chiarezza: c'è da capire come e perché sia stato intossicato da questo gas, che peraltro è inodore. Purtroppo bisogna ammettere che da noi la questione sicurezza è drammatica».
La Fiom punta il dito sui ritmi di produzione, ormai sempre più elevati, e ricorda che non è facile reagire ai diktat dell'Ilva: «L'estate scorsa nove lavoratori sono stati sospesi dall'azienda. Il motivo? Avevano scioperato per questioni di sicurezza. Purtroppo dobbiamo prendere atto che l'Ilva, invece di aprire e migliorare le relazioni con i sindacati, riduce l'agibilità dei loro rappresentanti. L'Ilva mette in discussione gli accordi presi, riducendo i diritti al minimo, e questo è un problema gravissimo: da noi esistono 18 mila operai, dei quali ben 5 mila lavorano in appalto».
Per questo, sottolinea la Fiom, tutti devono fare il possibile perché nell'Ilva la sicurezza diventi un fatto concreto. «Tutti devono impegnarsi per frenare questa recrudescenza», prosegue Fiusco, «e mi riferisco innanzitutto alla politica. La Regione, sulla sicurezza, ci può aiutare. Può organizzare corsi, per esempio, e intervenire perché nasca un centro reale, effettivo e rafforzato, per la prevenzione e la sicurezza dei lavoratori».
E contro l'Ilva, in questi giorni, si è schierata anche la Asl di Taranto: «Nonostante esista il 118 - ha dichiarato il direttore generale Marco Urago - l'Ilva non lo utilizza. Nel caso della morte dell'operaio, l'Ilva non ci ha chiamati». Un'accusa pesantissima. «Se si muore o si registrano incidenti gravi è perché non si è fatto molto per garantire la sicurezza - conclude Mimmo Pantaleo, segretario regionale della Cgil - Bisogna innanzitutto "esternalizzare" il problema: l'intera comunità pugliese prenda coscienza della necessità di imporre alla famiglia Riva, proprietaria degli stabilimenti, di collaborare sulla sicurezza. In secondo luogo dobbiamo aprire una grande vertenza all'interno dell'azienda, che chiami in causa le responsabilità dei proprietari: devono interloquire con le Asl, per esempio, in un'ottica di prevenzione e cooperazione con i soggetti preposti alla sicurezza, come il 118, che in questo caso non è stato chiamato. Infine chiediamo al presidente della Regione Vendola, che sta vagliando il piano industriale dell'Ilva, di insistere nei rilievi che ha già fatto. Deve far comprendere a Riva che non è il padrone assoluto della vita degli operai».

 

23 aprile

Nepal, incidenti e scontri a fuoco. Tre vittime, centinaia di feriti
Il cronista racconta come è riuscito a salvarsi la vita
 

Con gli studenti di Katmandu nella trappola dei soldati del Re

Sorrisi, slogan, bambini e donne in piazza: poi i lacrimogeni
Attacco alla folla studiato: le parole del sovrano non erano sincere
di RAIMONDO BULTRINI
 

<B>Con gli studenti di Katmandu  <br>nella trappola dei soldati del Re  </B>
Nepal, poliziotti con i bastoni contro i manifestanti

KATMANDU - E' stata una trappola, una cinica tattica anti-sommossa studiata a tavolino. I soldati del re messi alle corde da manifestazioni di 200-300mila persone che chiedono il ripristino della democrazia in Nepal ieri hanno cercato in tutti i modi il massacro esemplare. Ne sono stato direttamente testimone e vittima fortunata nel cuore storico della città, incastrato in un inferno di corpi ammassati uno sull'altro dai quali sono riemerso al limite del soffocamento. Altri hanno avuto costole, arti fratturati, e almeno due sono morti a due passi da noi, schiacciati dalla folla che cercava di sfuggire ai lacrimogeni e alle cariche della polizia.

Era il diciassettesimo giorno di sciopero generale, cominciato con una serie di blocchi stradali lungo l'anello anulare che circonda il centro della capitale Katmandu. Fin dalle nove di mattina giovani dall'aspetto esaltato stavano bruciando copertoni di auto e abbattendo a colpi di accetta decine di alberi alti fino a venti metri per bloccare i veicoli della polizia e dell'esercito lungo la delicata arteria che per diversi giorni ha costituito il perimetro off limits del coprifuoco, oltre il quale non era permesso a nessun corteo di entrare in città.

Ieri mattina era una data speciale, all'indomani del discorso di re Gyanendra Shah che venerdì ha offerto di "rimettere al popolo " il potere di primo ministro avocato un anno fa e richiesto ai sette partiti costituzionali di indicare un nome per la poltrona di premier. Ma il passo del re, applaudito da quasi tutti i paesi stranieri inclusa l'Unione europea, invece di placare gli animi li ha galvanizzati ancora di più. "Oggi arriveremo direttamente al Palazzo del despota", ci aveva detto uno dei ragazzi che gridavano a squarciagola ordini e slogan sempre più espliciti in favore dell'abolizione della monarchia.

Mentre i giovani si preparavano al D-Day, determinati a sfidare in massa l'ennesimo coprifuoco proclamato attorno a mezzogiorno, in altre zone della città i sette partiti che formano la coalizione chiamata Spa si riunivano prima da soli, poi tutti insieme nella casa di uno degli ex primi ministri che guidano le rivolte, l'ottantenne Girija Prasad Koirala. Come previsto i politici estromessi da re Gyanendra già quattro anni fa con la dissoluzione del Parlamento hanno rifiutato l'offerta del re. "Non corrisponde alle aspettative e ai programmi del movimento per la democrazia", hanno detto i sette alleati che vanno dai moderati del Nepali Congress all'ala estrema del Partito marxista con l'appoggio dei guerriglieri maoisti. Tutti sono stati d'accordo nel non cedere di un millimetro dalle loro richieste: ricostituire il Parlamento sciolto d'imperio dal re nel 2002, formare un governo provvisorio dei partiti incaricato di trattare il futuro ingresso dei maoisti e gestire le elezioni per un'Assemblea costituente che dovrà riscrivere la costituzione, compreso il delicato passaggio sui poteri reali, considerati "eccessivi " e ormai anacronistici.

Per timore di ritrovarsi con una corona simbolica in testa il sovrano - salito al potere dopo l'ancora misterioso massacro della famiglia di suo fratello - ha affidato all'esercito carta bianca per sparare contro i dimostranti, lasciando sul selciato almeno 14 vittime in pochi giorni. Ma venerdì prima del suo discorso non c'erano state sparatorie, e centinaia di migliaia di persone, oltre il 70 per cento dei quali studenti e giovani lavoratori, avevano superato i cordoni di polizia avvicinandosi alla città senza troppi problemi. Per questo i ragazzi sull'anello anulare erano determinati a raggiungere per la prima volta il cuore storico della città, convinti che la sfida sarebbe stata facilmente vinta.

Quello che segue è il racconto di come abbiamo personalmente constatato che si trattava di una pericolosa e drammatica illusione.

All'inizio del coprifuoco di mezzogiorno, annunciato come sempre all'ultimo momento su tv e radio, eravamo determinati a restare in albergo come gran parte dei turisti e dei trekker che ancora continuano ad affollare pensioni e hotel della capitale. Ma il clamore del corteo che stava attraversando le strade di Tamel sembrava dimostrare che i ragazzi della Ring road avevano avuto ragione. Nessuno li aveva fermati, e ora per la prima volta dall'inizio dello sciopero generale il 6 aprile sciamavano tra vicoli e piazzette intasati d'immondizia non raccolta da giorni, tra ali di persone raccolte nelle strade laterali o dentro le centinaia di negozi con le porte socchiuse che applaudivano al loro passaggio, oppure offrivano frittelle e dolci, mentre dalle finestre in segno di augurio venivano lanciati secchi d'acqua sui dimostranti.

Lungo il percorso in direzione di Durban Square - dov'è la sede simbolica della dinastia Malla e Shah, alla quale appartiene l'attuale regnante - i manifestanti invitavano la gente a unirsi e molti hanno ingrossato le fila del corteo. L'aspetto pacifico della manifestazione, i canti e le danze, la felicità e la solidarietà della popolazione quasi intera ci aveva convinto che gli organizzatori del corteo potessero avere avuto ragione a non temere rappresaglie. Ovunque gli slogan contro il re e a favore della democrazia risuonavano gridati addirittura da bambini di nove, dieci anni, tra i quali parecchi "street boys", centinaia di senza famiglia che sono cresciuti nei vicoli di Katmandu senza educazione e senza la garanzia di un pasto quotidiano, sniffando colla e rubacchiando qua e là per sopravvivere. Ma c'erano anche donne, madri di famiglia, insegnanti, oltre a qualche anziano, a commercianti, perfino impiegati dello Stato.

Nei templi disseminati quasi a ogni angolo del centro storico considerato patrimonio dell'umanità, anche i devoti hindu e i bramini interrompevano le loro preghiere per salutare il corteo festante. La prima avvisaglia che non sarebbe andato tutto liscio c'è stata quasi subito, con un repentino dietro front di alcune dozzine di dimostranti davanti alla prima pattuglia dell'esercito in tenuta anti-sommossa. Ma presto il flusso è ripreso e i soldati sono rimasti coi fucili puntati a terra e gli sguardi assenti mentre qualche coraggioso o incosciente li invitava a unirsi al corteo contro il re.

Più avanti il primo vero blocco, formato da non più di una decina di soldati che hanno impedito al corteo di raggiungere direttamente Durga Square, dove oltre al palazzo dei Malla c'è la residenza della Kumari, una bambina di dieci anni che incarna una venerata divinità femminile fino a quando non avrà le prime mestruazioni e sarà sostituita da un'altra. I soldati deviavano gentilmente il corteo sorridendo e scherzando con qualcuno dei manifestanti. Anche noi ci siamo infilati così nel reticolo di strade strette che attraversano i magnifici palazzi dell'antica Katmandu.

L'ultimo tratto in direzione di Indra Chowk è lungo parecchie centinaia di metri e largo meno di dieci. La folla aveva raggiunto quasi il massimo della capienza e l'incombere dei palazzi senza una traversa laterale e con tutti i negozi sbarrati sembrava un luogo ideale per una trappola. Nemmeno il tempo di pensarlo, dal fondo della strada il rumore e il fumo dei lacrimogeni gettava nel panico tutti i manifestanti quasi stipati l'uno di fianco all'altro. Tutti si sono messi a correre nella direzione contraria e, con un tempismo che non può essere stato casuale, altri soldati hanno sparato lacrimogeni all'imbocco opposto della strada rendendo l'aria asfittica e la via di fuga bloccata.

Presto a decine gli indecisi sono caduti a terra travolti dai fuggitivi e siamo inciampati anche noi finché una massa enorme di corpi non si è accumulata in uno stesso tratto. Mentre ognuno cercava una via di fuga e di salvezza ci siamo trovati con gli arti incastrati e la pressione dei disperati dietro a noi sempre più forte, più asfissiante del fumo dei lacrimogeni. Un momento durato un tempo incalcolabile, immobilizzati e al limite del soffocamento, mentre sotto di noi altri corpi sembravano giacere inerti sul selciato protetti da qualche parente o amico che cercava di impedire che venissero calpestati.

Quando la pressione è finita due delle persone che si trovavano sotto al nostro fianco sono rimaste sul selciato immobili. Dopo qualche inutile tentativo di rianimarli, qualcuno ha cominciato a trascinarli per le braccia e rivoltare i loro volti terrei. Quando l'esercito ci ha costretto ad allontanarci la folla copriva i due corpi e non abbiamo saputo più nulla della loro sorte.

Tornati in albergo le notizie della tv e dei giornali nepalesi online non riportavano nulla dell'incidente, che ha sicuramente coinvolto altre centinaia di persone. Solo a sera un bollettino semi-ufficiale degli ospedali parlava di oltre 300 feriti, colpiti dai manganelli e dai proiettili oppure fratturati durante le drammatiche fughe dai lacrimogeni e dalle cariche. Un medico portava la cifra dei feriti ad oltre 500, ma questa notizia, come la voce diffusa al termine dei cortei di tre morti tra i quali un bambino lungo l'anello circolare, non ha trovato conferme ufficiali. Del resto nemmeno la quasi certa morte dei due nepalesi che abbiamo visto soffocare al nostro fianco troverà forse mai spazio nelle cronache di questa rivoluzione che sembra avere preso la mano degli stessi ideatori.

Ma la nostra testimonianza non è altro che un tassello delle centinaia di denunce delle organizzazioni per i diritti umani che parlano di corpi fatti sparire anche in questi ultimi giorni di proteste. Nelle rivolte del '90 contro la dittatura del precedente re furono del resto interrati in una fossa comune centinaia di corpi. Il bilancio ufficiale è sempre rimasto però di tre vittime.

 

21 aprile

 

Duro attacco del quotidiano londinese al leader della Cdl
"E' un cattivo perdente, vuole destabilizzare Prodi"

Financial Times contro il Cavaliere
"Berlusconi ammetta la sconfitta"

 
<B>Financial Times contro il Cavaliere<br>"Berlusconi ammetta la sconfitta"</B>
Silvio Berlusconi

LONDRA - "Berlusconi è un cattivo perdente che tiene il broncio e che per il bene dell'Italia dovrebbe ammettere la sconfitta elettorale". E' severo il giudizio del Financial Times, prestigioso quotidiano della city londinese, sull'atteggiamento del leader del centrodestra in questa fase post elettorale. Un lungo editoriale per criticare l'ostentazione con cui il Cavaliere si rifiuta di riconoscere la vittoria del centrosinistra. "Bisogna saper perdere con eleganza - si legge - Berlusconi a dispetto della decisione della Cassazione", che ha confermato la vittoria della coalizione di centrosinistra, "rifiuta ancora di ammettere la sconfitta", come se alimentando dubbi intendesse "destabilizzare la coalizione di Prodi sin dall'inizio, e così abbreviarne la durata. Se così fosse starebbe dando prova di un disprezzo arrogante per il verdetto delle urne".

Berlusconi, si legge ancora nell'editoriale, "sta alimentando le preoccupazioni internazionali sulla stabilità politica dell'Italia". E, "come ha già fatto in passato, sembra porre" gli interessi personali "davanti a quelli del suo paese". Il Financial Times sostiene inoltre che Berlusconi, "mettendo in dubbio il risultato", mina il sistema stesso.

Infine l'editoriale sottolinea che quanto fatto dal governo Berlusconi "lascia molto a desiderare" e ricorda come le difficoltà ereditate da Prodi, leader di una coalizione di nove partiti, rendano il suo compito di premier ancora "più scoraggiante". Anche se proprio Prodi già in passato "ha tenuto insieme un governo di anime diverse" ottenendo comunque l'entrata dell'Italia nell'euro". Dunque, conclude il quotidiano della city, spetta a Prodi "dimostrare che la sua è la voce dell'esperienza disinteressata, in contrasto con la presa di posizione partigiana di Berlusconi".

 

Droghe, la Toscana si appella
Primi ricorsi alla Consulta contro la legge Fini. Analoga inziativa dell'Emilia Romagna
C. L.
ROMA
Fermate quella legge. I primi ricorsi contro le nuove norme Fini sulle droghe cominciano in questi giorni ad arrivare alla Consulta, alla quale si chiede di stabilire l'eventuale incostituzionalità del testo approvato in fretta e furia dal parlamento negli ultimi sgoccioli di legislatura. La prima ad avanzare dubbi sulla legittimità del provvedimento che azzera ogni distinzione tra droghe leggere e pesanti è stata, il 10 aprile scorso, la regione Emilia Romagna ma, vista la coincidenza con le elezioni, per evitare polemiche l'iniziativa non è stata pubblicizzata più di tanto. Ieri ad appellarsi alla Consulta è stata invece la Giunta regionale della Toscana.
In attesa che il nuovo governo dell'Unione mantenga la promessa fatta agli elettori di cancellare la legge che punisce soprattutto chi fuma spinelli, è cominciata dunque la battaglia dei ricorsi. Quello presentato dalla Toscana prende di mira in particolare tre punti della legge che contrasterebbero con la Costituzione. Il primo riguarda la mancata consultazione delle Regioni da parte del governo. Come si ricorderà, nella fretta di farlo approvare, la maggioranza inserì il provvedimento in un decreto omnibus riguardante, tra l'altro, la sicurezza delle Olimpiadi invernali di Torino. Una decisione che impedì al parlamento di discutere la legge, già sottratta in precedenza a un esame delle Regioni. «Lo Stato avrebbe dovuto acquisire obbligatoriamente l'intesa con le Regioni», spiega invece il ricorso presentato dalla Toscana, almeno per quanto riguarda la definizione dei Lea, i Livelli essenziali di assistenza, a cui si fa riferimento nella nuova normativa. Questo invece non solo non è stato fatto, denuncia sempre la Toscana, ma le nuove norme «interferiscono con materie regionali e, segnatamente, con la materia della tutela della salute». Perdipiù la mancata consultazione lede, si legge nel ricorso, il principio di «leale collaborazione» che dovrebbe essere alla base del rapporto tra i vari livelli dell'organizzazione statale.
Il secondo punto di cui si mette in dubbio la costituzionalità riguarda invece l'equiparazione tra strutture pubbliche e private, a tutto vantaggio di quest'ultime visto che la nuova legge assegna loro compiti che in precedenza erano di competenza dei Sert. Tra questi la possibilità di poter accedere direttamente in un struttura privata autorizzata e accredita senza che ci sia più il filtro di un medico del servizio sanitario nazionale. I privati, inoltre, vengono abilitati alla diagnosi dello stato di tossicodipendenza e alla definizione di programmi riabilitativi senza alcun controllo da parte delle Asl. Tutte opportunità, spiega il ricorso, che comportano «una palese violazione dell'autonomia di spesa delle Regioni» che in questo modo si vedono da una parte comprimere l'attività normativa e di programmazione per quanto riguarda prevenzione, cura e riabilitazione delle tossicodipendenze, e dall'altra devono pagare le spese di prestazioni decise dalle strutture private senza alcun filtro né controllo da parte delle Asl. Una «subordinazione» vista anche nel terzo punto preso in considerazione, e che prevede che la certificazione per ottenere la sospensione dell'esecuzione della pena e l'affidamento in prova al servizio sociale possa essere rilasciata anche dalle strutture private accreditate e non esclusivamente dai Sert, come previsto finora.
D'accordo con il ricorso presentato dalla Toscana si è detto anche il governatore dell'Emilia Romagna Vasco Errani che contesta la mancata consultazione delle regioni da parte del governo. Già in passato, ricorda Errani, la Consulta ha stabilito che «i livelli essenziali di assistenza sono determinati di intesa tra regioni e governo e qui, in un altro contesto, ci troviamo di fronte a una vera iniziativa unilaterale del governo». Consensi anche da parte di Giuseppe Bortone, responsabile tossicodipendenze della Cgil, per il quale con la legge Fini «non si vogliono riconoscere alle regioni le loro competenze così come non si sono voluti ascoltare gli operatori, le forze sociali e le associazioni di consumatori di sostanze sui temi della cura, della prevenzione e dell'informazione: i risultati sono stati disastrosi - conclude Bortone - ed è urgente e possibile a questo punto che si cominci a percorrere una strada diversa».

 

Il voto degli italiani all'estero: una proposta di analisi
Lorenzo tratto da http://asfalto_bagnato.blog.tiscali.it/pv2544063/ - 20/04/2006
 

Il risultato principale che emerge dalle ultime elezioni politiche è la sostanziale parità dei due schieramenti. In controtendenza, come è stato fatto notare, l'esito delle votazioni degli italiani residenti all'estero che ha decretato una netta vittoria del centro sinistra a discapito della Casa delle Libertà. Se ci dovessimo chiedere quali potrebbero essere le ragioni dietro un risultato così anomalo (se paragonato a quello nazionale) probabilmente dovremmo prendere in considerazione una serie di fattori che non potrebbero prescindere dalla storia individuale di ciascun paese ospite, dai flussi immigratori recenti o passati e da considerazioni di carattere sociologico proprie di ciascuna comunità italiana all'estero: un lavoro decisamente impegnativo. Nell'immediato mi sembra di poter individuare tra i fattori che contribuiscono a spiegare il diverso esito elettorale, il grado di libertà d'informazione del paese ospitante. Passando in rassegna i dati (praticamente definitivi) forniti dal Ministero degli Interni sembra infatti potersi stabilire una correlazione tra il grado di libertà di espressione (fa riferimento il rapporto 2005 di Reporter Sans Frontieres) dello stato estero ospitante e le preferenze di voto emerse. Pur con le dovute eccezioni si nota una generale tendenza che porta gli italiani residenti in paesi con un elevato grado di libertà d'informazione a orientare la loro preferenza verso lo schieramento di sinistra piuttosto che verso la destra. La tendenza sembra gradualmente invertirsi allo scemare del grado di libertà d'informazione del paese ospite.

EUROPA (totale voti 525.730)
In Europa l'Unione ha ottenuto il 52,871% a cui si deve aggiungere il 5,213% dell'Italia dei Valori e il 0,723% dell'UDEUR per un totale di 58,807%. I votanti risultano frammentati tra diversi paesi europei anche se, nell'ordine, Svizzera, Germania, Francia, Belgio, Regno Unito, Spagna ne raccolgono il maggior numero. Da notare che in alcuni paesi si sono avuti un numero di voti nell'ordine della decina o di poche centinaia, pertanto non li prenderò in considerazione sia per il limitato peso nell'assegnazione finale dei seggi sia per l'esiguità del campione che non consente di trarre conclusioni convincenti. Il limite (arbitrario) sarà fissato ad almeno 1000 voti. Tenendo presente che l'Italia si colloca al 42esimo posto della classifica di Reporter Sans Frontieres ultima tra i paesi dell' Europa Occidentale vediamo di passare in rassegna gli esiti delle votazioni partendo dai paesi in cima alla classifica:
Posizione nella Classifica
Paese
Votanti
Risultato Centro Sinistra
1
Danimarca
1.160
67,586%
1
Irlanda
1.258
64,943%
1
Paesi Bassi
7.333
63,179%
1
Svizzera
163.379
62,227%
Tutti questi paesi sono a pari merito in cima alla classifica con il massimo grado di libertà d'informazione. Non ho preso in considerazione Norvegia che però sfiora i mille voti (967 voti) in cui il centro sinistra esce vincitore ma con pochi punti di vantaggio rispetto allo schieramento di destra. L'Islanda è stata esclusa per lo scarso numero di votanti (21 appena) e delle Finlandia non sono pervenuti i risultati. Scendendo nella classifica troviamo nell'ordine i seguenti stati appartenenti alla circoscrizione Europa:
Posizione nella Classifica
Paese
Votanti
Risultato Centro Sinistra
9
Slovenia
1.032
71,994%
12
Svezia
1.899
69,14%
16
Austria
4.222
68,663%
18
Belgio
51.472
69,063%
18
Germania
135.443
50,198%
18
Grecia
3.785
65,15%
18
Regno Unito
38.585
48,263%
30
Francia
76.249
67,003%
40
Spagna
11.742
58.234%
Due sono forse i risultati anomali o fuori dal coro: Germania e Regno Unito. In entrambi lo schieramento di sinistra esce vincitore data la presenza di liste indipendenti che sottraggono voti ad entrambe le due grandi coalizioni. In Germania in centro destra totalizza il 44.599% mentre nel Regno Unito si assesta al 45,211%. Nonostante la sconfitta i margini sono sensibilmente ridotti rispetto alla tendenza generale e in particolare il Regno Unito rappresenta un eccezione. Riguardo alla Spagna che si trova al quarantesimo posto della classifica (2005) e precede di sole due posizioni l'Italia, va fatto notare come tale posto (visti recenti sviluppi) non sia probabilmente aderente alla realtà e non penso di sbagliarmi anticipando il miglioramento di qualche posizione nel rapporto 2006. Per quanto riguarda stati con indice di libertà di espressione inferiore a quello italiano, ne possiamo trovare svariati nella sezione Europa ma solo tre, se non vado errato, superano i 1000 votanti. Nell'ordine Croazia, Serbia e Montenegro, Turchia. Ecco i risultati per questi paesi:
Posizione nella Classifica
Paese
Votanti
Risultato Centro Sinistra
56
Croazia
4.130
47,481%
65
Serbia e Montenegro
2.337
24,56%
98
Turchia
1.127
29,841%
Se in Croazia, considerando le liste indipendenti non assimilabili a nessuno dei due schieramenti, la destra si afferma con un 47.698% che mantiene il risultato elettorale su un piano di sostanziale equilibrio non altrettanto si può dire quando si scende ulteriormente nella scala della libertà d'informazione. In Serbia e Montenegro Forza Italia da sola ha raccolto il 56,268% delle preferenze. Notevole risultato anche in Turchia dove Forza Italia arriva al 54,835%. Nonostante il buon risultato della destra in Croazia, il vero exploit non è tanto rappresentato da Forza Italia quanto dalla lista Tremaglia che raggiunge un ragguardevole 26,319%. Pur con la dovuta cautela va detto che in molti paesi il cui grado di libertà di informazione è inferiore a quello italiano, la destra sembra raccogliere il maggior numero di preferenze ma il numero di voti è inferiore al migliaio e il campione risulta troppo ristretto per estrapolarne analisi, in generale, convincenti. Tra questi paesi ricordo: Bulgaria (152 voti - 48 posto), Polonia (681 voti - 53 posto), Albania (352 voti - 62 posto), Romania (783 voti - 70 posto).

AMERICA SETTENTRIONALE E CENTRALE (totale voti 87.291)
Il centro sinistra raccoglie il 38,897% delle preferenze e l'analisi del voto risulta molto più semplice data la ridotta frammentazione dei voti: i votanti negli Stati Uniti e nel Canada sono complessivamente 81.482: praticamente la quasi totalità. Solo un altro paese supera di poco il migliaio: la Repubblica Domenicana.
Posizione nella Classifica
Paese
Votanti
Risultato Centro Sinistra
21
Canada
35.576
48,122%
44
Stati Uniti
45.906
32,843%
51
Repubblica Domenicana
1.270
24,251%
In Canada si registra una sconfitta di misura della sinistra e una situazione di equilibrio: 48,122% per la sinistra contro un 48,962% per la destra. Scendendo nella classifica, il centro destra si afferma chiaramente negli Stati Uniti e nella Repubblica Domenicana. Anche in questo caso si nota come al diminuire del grado di libertà d'informazione aumentino le preferenze per la destra. AMERICA MERIDIONALE (voti 306.562) L'america meridionale presenta un quadro abbastanza anomalo rispetto alle precedenti sezioni. L'Associazione Italiani Sud America ha ottenuto il 33,526% delle preferenze risultando la prima coalizione del Sud America. Questo ovviamente rende più difficile l'interpretazione dei risultati spezzando il sostanziale bipolarismo presente nelle altre sezioni. A questo si aggiungano alcune considerazioni peculiari inerenti l'America Latina: gli italiani presenti nella zona sono in prevalenza il risultato di flussi immigratori di un passato non più molto recente e in quest'ottica il successo della lista indipendente dell'Associazione Italiani Sud America potrebbe anche essere visto come il desiderio di maggior considerazione da parte di un'Italia a volte troppo assente e latitante, in particolare durante il periodo delle dittature che tra gli anni '70 e '80 hanno insanguinato il paese. Il centro sinistra ottiene complessivamente un 29,273% delle preferenze contro un 32,539% del centro destra. Vediamo la ripartizione dei voti:  
Posizione nella Classifica
Paese
Votanti
Risultato Centro Sinistra
Risultato Centro Destra
46
Uruguay
29.129
27,141%
26.226%
50
Cile
5.260
24,908%
48,99%
59
Argentina
167.307
29,974%
32,028%
63
Brasile
62.599
30,383%
26.643%
69
Paraguay
1.300
12.922%
39,383%
87
Equador
1.500
42,266%
26.732%
90
Venezuela
24.903
30.818%
42.073%
116
Perù
7.271
11,978%
53.884%
128
Colombia
2.804
22.61%
35.892%
L'interpretazione dei risultati lascia ancora intravedere un crescente grado di apprezzamento nei confronti del centro destra allo scemare della libertà dei media ma la tendenza non è così netta e inequivocabile come nelle precedenti sezioni. L'unico minimo comune denominatore sembra essere l'ottimo risultato della lista Associazione Italiani Sud America. La Casa delle Libertà chiude con un buon risultato complessivo ma risente di un certo squilibrio tra le preferenze accordate ai partiti che la compongono. In Perù, pur risultando vincente, la lista Tremaglia raccoglie il 35,414% contro circa la metà di Forza Italia. In molti altri paesi (Argentina, Cile, Uruguay, ecc.) l'UDC di casini raccoglie consensi abbondantemente sopra il 10% (il 16,064% in Cile) mentre in altri si aggira attorno al 2-3%. In Argentina la destra esce vincitrice con un paio di punti di vantaggio ma Forza Italia raccoglie un misero (e decisamente sotto la media) 4,531%. Va considerato il fatto che in Argentina la percentuale d'italiani è massiccia (con i suoi 167.307 voti supera la metà del numero totali di votanti del Sud America) e integrata nel territorio da lungo tempo. Durante gli anni della dittatura militare dei generali, anche molti nostri connazionali furono vittime delle epurazioni e il fatto che la loggia massonica P2 (di cui Berlusconi fece parte) appoggiasse il regime argentino può forse spiegare questo risultato in controtendenza.
ASIA-AFRICA-OCEANIA-ANTARTIDE (voti 55.401)
Il voto è frammentato tra i diversi paesi che compongono la sezione ma solo quattro superano il migliaio di voti a l'Australia da sola raccoglie più della metà dei voti totali. Il centro destra raccoglie il 52,474% delle preferenze e supera di circa 5 punti il centro sinistra con il 47,526% dei voti totali.
Posizione nella Classifica
Paese
Votanti
Risultato Centro Sinistra
31
Australia
30.918
56,035%
31
Sud Africa
6.366
19,195 %
47
Israele
1.388
30,907%
125
Afghanistan
1.546
16,235 %
157
Iraq
2.490
18,313%
159
Repubblica Popolare Cinese
1.148
58,188%
Nonostante il numero di voti rientri nei limiti fissati, eliminerei per diverse ragioni l'Afghanistan, l'Iraq e la Cina. Per quel che riguarda i primi due non mi risultano significativi insediamenti italiani in questi due paesi e presumo che la maggior parte dei voti in questione sia quella dei nostri militari presenti sul territorio che verosimilmente non palano le lingue locali. La loro preferenza di voto ci da un'idea della tendenza elettorale delle nostre truppe all'estero ma non risulta il frutto dell'immagine del nostro paese così come viene restituita dai media iracheni o afgani. Le nostre truppe non seguono i notiziari o la stampa di questi due paesi e non dovrebbero perciò esserne stati influenzati nel loro voto. Gli italiani in Cina, invece, non sono il frutto di immigrazioni passate e la loro è una presenza recente sul territorio, collegata all'altrettanto recente sviluppo economico. Anche in questo caso il dato non mi sembra particolarmente significativo: è verosimile che gli italiani in Cina abbiano conservato un forte cordone ombelicale con l'Italia e in ogni caso mi pare improbabile che possano essere influenzati, nel loro orientamento politico, dalle informazioni inerenti il nostro paese filtrate dai media locali (complice anche il linguaggio). Rimangono tre stati: L'Australia, Sud Africa e Israele. Il Sud Africa in apparente controtendenza rispetto alla regolarità fin qui notata: stesso grado di libertà dell'Australia ma netta preferenza allo schieramento di destra. L'Australia è caratterizzata da una massiccia e storica presenza di italiani sul territorio (il numero dei votanti parla chiaro) e questo si potrebbe facilmente tradurre in una maggiore attenzione mediatica riservata all'Italia. Il punto di vista degli italiani in Australia potrebbe quindi essere stato in parte formato dai media locali più di quanto il punto di vista degli italiani in Sud Africa sia stato modellato dai rispettivi media. Ciononostante non mi sembra si possa trarre nessuna conclusione significativa data l'esiguità dei dati disponibili. In particolare risulta arduo capire se il Sud Africa possa costituire l'eccezione che conferma la regola o un controesempio significativo alla medesima, almeno circoscritto a questa sezione.
Note:
Tutti i dati sono stati raccolti dal sito del Ministero degli Interni (così come pubblicati il 12/04/2006). http://politiche.interno.it/politiche/
La classifica in base al grado di libertà d'informazione a cui si fa riferimento è quella di Reporter Sans Frontieres pubblicata sul loro sito (www.rsf.org).
I dati presi in considerazione sono relativi alla sola elezione per la camera dei deputati. In generale non ho trovato significative differenze con gli analoghi risultati per il senato

 

13 Aprile

IL COMMENTO
Il veleno del caimano
di EDMONDO BERSELLI
 
<B>Il veleno del caimano</B>
Silvio Berlusconi

Ieri è tornato il Caimano. Il giorno prima era apparsa la Salamandra, l'essere che passa indenne attraverso le fiamme. Domani non si sa. Il premier Silvio Berlusconi è andato al Quirinale e ha incontrato il presidente della Repubblica. Dopo le elezioni, e soprattutto dopo un confronto elettorale condotto e finito allo spasimo, non era un incontro di routine. Così come non era di routine l'incontro che nella mattinata Carlo Azeglio Ciampi aveva avuto con Romano Prodi, il capo dell'Unione e prossimo a ricevere l'incarico di formare il nuovo governo.

Al termine della conversazione con il capo dello Stato, durata un'ora e un quarto, Berlusconi ha realizzato uno dei suoi exploit mediatico-populisti. Con un assolo formidabile, ha rivelato di avere espresso al presidente della Repubblica i suoi dubbi sul risultato elettorale. E ha denunciato che ci sarebbero un milione e centomila schede sospette, che sono stati compiuti brogli "unidirezionali", e che insomma il centrosinistra avrebbe rubato la sua strettissima vittoria. Fuori dal Quirinale non ha espresso dubbi, bensì ha manifestato certezze: "Il risultato cambierà", ha affermato, e ai giornalisti ha mostrato il suo miglior sogghigno: "Credevate di esservi liberati di me?".

Ciò che sta accadendo è grave. Il nostro paese non ha alle spalle una storia politica basata sul furto di voti. Il ministro dll'Interno, Giuseppe Pisanu, ha manifestato pubblicamente la sua soddisfazione per il modo in cui si sono svolte le operazioni elettorali. Il capo dello Stato si è compiaciuto per lo svolgimento "ordinato e regolare" dell'esercizio democratico. Soltanto Berlusconi ha di fatto impugnato l'esito del voto. Non si è preoccupato di mettere in estrema difficoltà la massima carica dello Stato, resa partecipe di un complotto mostruoso ordito dai nemici della libertà (e del Cavaliere). Seppure appoggiato assai tiepidamente dai suoi alleati, ha scatenato i suoi uomini in una battaglia virtuale che purtroppo può avere pessime conseguenze reali.

Il milione e passa di schede della vergogna, evocate dalla fantasia pubblicitaria di Berlusconi, esistono soltanto come ultima arma di un uomo assediato che rifiuta la sconfitta. La legge nega la possibilità di un nuovo conteggio, e consente soltanto l'accertamento delle schede contestate. Si tratta di poco più di quarantamila schede, che ragionevolmente si dividono con una certa equità fra i due schieramenti, e che quindi non possono alterare il risultato del voto popolare. In ogni caso, come ha dichiarato Marco Follini, non è il caso di "soffiare sul fuoco", visto che "dal Viminale alle Corti d'appello e alla Cassazione ci sono istituzioni che garantiscono tutti".

Preso atto di tutto questo, sarà bene che le magistrature preposte agli accertamenti concludano il loro lavoro prima possibile, per spazzare via ogni dubbio e sospetto. La democrazia italiana non può vivere sotto l'ombra di un risultato pasticciato. Ed è proprio questo che Berlusconi sta facendo: sta creando una delle sue realtà virtuali, un altro dei suoi "fattoidi", che scaraventa sulla situazione politica e civile italiana provocando fibrillazioni e inquietudine.
La risposta di Romano Prodi dalla festa di Bologna, "deve andare a casa", è un esorcismo insufficiente. Se il Caimano ha deciso di avvelenare il periodo post-elettorale, occorrono risposte ferme in primo luogo dalle istituzioni. Dal ministro Pisanu, per esempio, che dovrebbe dare un contributo ulteriore alla serenità dell'opinione pubblica. Ma c'è un aspetto ulteriore che va considerato: il marketing da guerriglia civile che Berlusconi ha inaugurato, rischia di lasciare sull'Italia una macchia. Per salvare la sua leggenda di invincibilità, il premier non esita a rovesciare il banco, o a minacciare di farlo.

Tuttavia non è proprio il caso che sull'Italia evoluta e disincantata del 2006 permanga un'ombra mitologica, per certi versi simile a quella del referendum costituzionale del 1946. Di fronte a un uomo che è incapace di perdere, che ha usato ogni strumento per avvelenare i pozzi, che ha cambiato la legge elettorale per impedire la vittoria degli "altri", i "comunisti", occorre che anche i suoi alleati, i più ragionevoli, i più corretti istituzionalmente, prendano posizione senza paure o esitazioni. Perdere le elezioni non è un dramma. Ma il Caimano sta trasformando una sconfitta politica in un evento sudamericano, ed è angosciante il pensiero della lunghissima transizione all'insediamento del nuovo governo. C'è qualcuno nella Casa delle libertà che voglia dare un contributo alla sicurezza psicologica e civile del paese? In caso contrario qualcuno dovrà assumersi la responsabilità di avere consentito che una normale alternanza politica si stia trasformando nella battaglia disperata e finale di un uomo non abituato a lasciare la presa sulla "roba" che crede sua e solo sua.



 

11 Aprile

IL COMMENTO
Il crepuscolo del Cavaliere
di MASSIMO GIANNINI

A DESTRA qualcuno sperava in un 25 luglio: conducator detronizzato, gestione badogliana della crisi e rapida successione nella Cdl. A sinistra tutti speravano in un 25 aprile: Paese liberato, fine del re
gime ed inizio della nuova democrazia. Queste elezioni somigliano piuttosto all'8 settembre. Un'Italia spaccata, divisa tra due metà irriducibili e inconciliabili. Sul piano politico, culturale, sociale. Nell'indecoroso autodafè dei sondaggi e degli exit poll, al Senato la spunta il Polo per un seggio, alla Camera prevale l'Unione dopo un testa a testa fino all'ultimo voto. Mai come stavolta, i voti non solo si contano, ma si "pesano". La maggioranza del centrosinistra
a Montecitorio è schiacciante, e spinge Prodi e i suoi alleati a gridare: "Abbiamo vinto le elezioni". Ma la resistenza del centrodestra a Palazzo Madama induce Berlusconi e i suoi partner a urlare: "Di qui non passerete".

Ora la trappola è scattata. Ed è come l'aculeo avvelenato di uno scorpione sulla carne viva del Paese che da oggi, forse, non potrà avere un nuovo governo, ma non potrà neanche tenersi quello vecchio. Metafora perfetta di questa Italia. Che non diventa prodiana, ma è già post-berlusconiana. Non sarebbe giusto leggere questo esito paradossale solo con la lente della "tecnica" elettorale. La "porcata" candidamente ammessa da Calderoli, purtroppo, non spiega tutto. Dietro al voto, com'è ovvio, c'è anche un segno politico, che va decifrato.

Prodi ha vinto, ma non del tutto. Ha disarcionato il Cavaliere dal governo, anche se non dalla scena politica. La forza tranquilla del "curato" di Bologna ha neutralizzato in parte la campagna impetuosa del Napoleone di Arcore. Forse per la prima volta nella storia repubblicana, il centrosinistra centra la maggioranza assoluta dei consensi. Ma questo non è sufficiente per governare. Il risultato dei Ds sembra al di sotto delle attese, quello della Margherita appare deludente. L'asse riformista dell'alleanza, incardinato intorno alla lista dell'Ulivo colpevolmente presentata solo alla Camera, pare attestata sulle stesse posizioni non proprio entusiasmanti delle europee. L'apporto della Rosa nel Pugno c'è stato, ma non risulta decisivo. Alla fine, le migliori performance si possono attribuire alle componenti più antagoniste dell'Unione, a partire da Rifondazione comunista. La domanda di cambiamento emersa in tanta parte della società italiana, che c'è stata ed è stata forte, non è stata tuttavia sufficiente a invertire con nettezza i rapporti di forza tra gli schieramenti. Della Valle e Bertinotti faticano a stare insieme: la promessa del taglio del cuneo fiscale, che pure si inquadra in una logica di sostegno alla crescita e al reddito, non basta a prefigurare una politica. Fassino e Bonino non convincono: la battaglia di principio in difesa delle tasse come strumento equo di redistribuzione del reddito, probabilmente, non basta a fugare le paure ataviche di chi vota con il portafoglio. L'equazione Luxuria-Mastella non sembra funzionare: la posizione ambigua sui Pacs, le coppie di fatto e la bioetica, verosimilmente, non è sufficiente a confortare i laici e neanche a rassicurare i cattolici.

Pesa un esercizio troppo timido della leadership prodiana, che troppo spesso si è limitata a giustapporre, molto più che a sintetizzare. Pesa l'insopportabile ritardo nella realizzazione dell'unico progetto politico che avrebbe potuto terremotare l'intero sistema, cioè il partito democratico. Sta di fatto che lo stellone di Prodi, benché illuminato dai 4 milioni di voti ottenuti alle primarie, risulta oggi meno brillante di quanto non fu nel 1996.

Berlusconi ha perso, ma non del tutto. Dopo cinque anni di governo, si gioca la maggioranza più cospicua che un governo aveva mai ottenuto dal dopoguerra. Dilapida un capitale di consensi che nessun capo del governo aveva mai avuto. Per usare la metafora cara a George Lakoff nel suo "Non pensare all'elefante", non è stato né un "padre severo" né un "genitore premuroso". Assumendo la sola sembianza del "rivoluzionario istituzionale", ha generato solo conflitto senza riforme. Ha stravolto i linguaggi che raffigurano la politica nel circuito mediatico, ma non gli ingranaggi che la fanno muovere dentro la società civile. Cinque anni fa, di questi tempi, si discuteva se dopo il trionfo del 13 maggio 2001 avrebbe governato per due o per tre legislature. I più propendevano per le tre. Oggi, la sua unica legislatura si può considerare comunque finita.

Ha voluto trasformare anche queste elezioni su un referendum sulla sua persona. Ha voluto ancora una volta che la sua biografia personale coincidesse con il destino collettivo dell'intera nazione. Questa pretesa, ostinata ordalia non lo ha premiato. Ma non lo ha neanche condannato. La furia motivazionale degli ultimi giorni di campagna elettorale ha mobilitato quote marginali di elettori apatici. La mattana di Vicenza, l'appello al cielo sull'Ici e sulla spazzatura, il calcio nei denti ai giudici, lo sberleffo meta-politico sugli elettori-coglioni, insomma l'intero armamentario di strumenti ideologico-propagandistici, ogni volta azionati con l'unico scopo di creare uno stato d'assedio permanente: tutto questo, alla fine, è servito. Ha evitato il collasso definitivo di Forza Italia, che cede 9 punti rispetto al 2001 ma resta pur sempre il primo partito del Paese, anche se perennemente sospettato di essere solo un comitato elettorale di Berlusconi. Come che sia, questo impasto di parossistico culto della personalità, di populismo d'accatto e di politica come variante del marketing, resiste e continua a far vibrare le corde di almeno mezza Italia. È anche l'esito scontato del conflitto di interessi, incarnato pervicacemente dal premier. In politica la televisione non è tutto, ma qualcosa vorrà pur dire se nel 1987, in media, gli italiani guardavano la tv 178 minuti al giorno, e nel 2002 questa quota è raddoppiata al 235 minuti al giorno, con una prevalenza assoluta tra gli anziani e le casalinghe.

Il sogno azzurro è già da tempo diventato un incubo. Ma evidentemente ci sono molti elettori che non si vogliono svegliare. Nella coalizione di centrodestra, infatti, con An che difende le posizioni e la Lega che tiene ma non scatta per effetto della malattia di Bossi, il solo partito che fa passi avanti sembra l'Udc. Anche per questo si può dire che il Cavaliere non ha perso. Se davvero nel 1994 è sceso in politica per salvare il suo impero mediatico e finanziario e per mettersi al sicuro dai processi a suo carico, si può davvero dire che la sua avventura si conclude con un successo straordinario. Un paradosso nel paradosso.

Che succede a questo punto è difficile dire. Affiorano già, mascherate da un tardivo "senso di responsabilità istituzionale" di molti, le peggiori tentazioni, per lo più centriste e inciuciste. Dal governo tecnico alla Grande Coalizione. Alla faccia del beneamato bipolarismo, di cui Berlusconi è stato allo stesso tempo l'alfa e l'omega. Il generatore naturale e poi il sabotatore finale. Se non c'è una maggioranza pur che sia, che si assuma il rischio di tirare a campare con un seggio di vantaggio al Senato, l'eventualità più probabile è che si torni addirittura a votare entro un paio di mesi. Si fa fatica a capire in quale spurgo di miasmi, e con quali regole elettorali. Questo magari può piacere a chi si nutre della "cafonaggine carismatica" del Caimano, si crogiola nel mito dannunziano della "bella morte", si bea nei frizzi e i lazzi della "politica divertente". Ma per questa Italia divisa, e sempre sospesa tra l'orrore e il folclore, sarebbe un vero disastro. Speriamo in un altro film.

Hanno torto e ragione in parti uguali. L'era di Prodi non si può dire cominciata. Ma sicuramente si può considerare finita l'era Berlusconi. Cero, potrebbe materializzarsi il peggiore degli scenari possibili: il pareggio. Assicurato con efficacia geometrica dalla sciagurata riforma elettorale voluta dal centrodestra, che produce un solo sbocco: la piena, consapevole e perfetta ingovernabilità del Paese. Se il Caimano non può vincere, che nessun altro vinca. Questa era stata l'unica logica, e neanche tanto dissimulata, che aveva ispirato quell'assurdo ritorno al proporzionale con premio di governabilità su base regionale, votato alla vigilia di Natale. Avevano lavorato in tanti, alla costruzione di questa trappola elettorale. Non solo il Cavaliere, ma anche l'alacre Casini e il convalescente Bossi. Nel silenzio ipocrita di Fini, alfiere pentito del maggioritario.


 

Ecco la copertina della edizione europea (domani in edicola) del prestigioso  settimanale britannico. Sotto la scritta "Basta", in italiano, l'invito in inglese agli italiani di "licenziare Berlusconi". Sul settimanale, anche un lungo articolo, dal titolo: "Una triste storia italiana". Per questo numero, che esce alla vigilia del voto, è stata aumentata la tiratura per il mercato italiano

 

6 aprile

Uno su due darebbe soldi in cambio di spazio per se stesso
Ma i giovani sono meno disposti a fare rinunce per il lavoro
Italiani senza tempo libero
siamo gli ultimi in Europa

Inglesi e tedeschi hanno guadagnato oltre due ore a settimana
Tra lavoro e impegni restano meno di quattro ore al giorno
di MARIA NOVELLA DE LUCA


ROMA - Le più brave sono le donne, ma anche i maschi iniziano ad ingegnarsi. Ritaglia, concentra, ruba, moltiplica, fraziona, alla fine qualcosa salta fuori. Un qualcosa che si chiama tempo. Una manciata di ore, uno scorcio di giornata, un pezzetto di vita senza impegni, una frazione della quotidianità da dedicare a se stessi e a chi si ama. Gli economisti lo definiscono "time-budget" e niente indica meglio di questa frase idiomatica il senso contemporaneo della parola tempo. Ossia valore, capitale, merce di scambio, un bene per il quale almeno il 50% degli italiani sarebbero disposti a barattare molto se non tutto, a cominciare dagli orari per finire alla busta paga, in nome di quella "conciliazione" della vita e del lavoro sempre citata nello statuto di ogni azienda e mai applicata.

I dati Istat dimostrano che dal 1988 ad oggi gli italiani hanno "guadagnato" due minuti di tempo libero in più al giorno, passando da 3 ore e 49 minuti a 3 ore e 51 minuti di spazio per sé. Una vera miseria, rispetto al resto della media europea, soprattutto Inghilterra e Germania, dove il guadagno è stato di almeno un paio d'ore ogni sette giorni, per non parlare degli americani, che secondo gli ultimi studi, avrebbero conquistato quasi venti ore "off" al mese, mandando al macero tutti gli stereotipi degli statunitensi "workaholic", ossia drogati di lavoro.

Una situazione, la nostra, molto simile a quella spagnola, così come l'ha raccontata in una recente inchiesta dal titolo "La conquista del tempo" il magazine de "Lavanguardia", elencando le acrobazie quotidiane di uomini e donne per guadagnare scampoli di vita privata. Rivoluzionando cioè ogni aspetto della quotidianità, moltiplicando il telelavoro, abbattendo le distanze, concentrando gli impegni domestici, tutto questo per ottimizzare il tempo libero da dedicare ai figli, alla coppia, o semplicemente al famoso "ozio creativo" toccasana di corpo e mente. Con il risultato che non potendo dilatare le 24 ore, europei e americani dormono sempre meno, e complice la tecnologia fanno più cose insieme (multitasking).

"Tutte le inchieste negli uffici e nelle aziende - spiega Patrizio Di Nicola, docente di sociologia all'università La Sapienza di Roma e uno dei massimi esperti di E-work in Italia - dimostrano che la gran parte degli italiani si sente schiacciata dalla rigidità degli orari, nel nostro paese il turno classico è ancora dalle 9 alle 5, e soltanto il 40% dei dipendenti può usufruire di un'ora di flessibilità, così ogni tipo di necessità domestica, finisce per essere concentrata il sabato, quando molti uffici sono chiusi".

Insomma la famosa "conciliazione", prevista addirittura da una legge illuminata (numero 53 del 2000) resta più un'aspirazione che una realtà, e quando le aziende hanno provato ad applicarla, "questo raramente si è tradotto in flessibilità di orari o telelavoro, piuttosto si è preferito creare uffici dotati di asilo nido e di fitness center, con addetti che vanno a sbrigare le commissioni per i dipendenti".

In pratica il 60% degli italiani ha turni rigidi, mentre "il 35% dei lavoratori che già utilizza come strumenti della professione telefono e computer potrebbe - conclude Di Nicola - svolgere da casa la propria professione".

Ci sono però alcuni spiragli anche da noi. "La voglia di liberare tempo per sé è sempre più forte, riguarda tradizionalmente le donne e adesso anche gli uomini - dice Linda Laura Sabbadini, direttore centrale dell'Istat - ma la risposta non c'è, perché gli orari di lavoro restano rigidi, i servizi sociali scarsi, e aumentano i tempi degli spostamenti. Il vero cambiamento è invece nella vita familiare, dove le donne hanno imparato a comprimere le ore dedicate alle attività domestiche, e i maschi fanno qualcosa in più. Il tutto a vantaggio dei figli, verso i quali, nonostante la crescita dell'occupazione femminile, c'è una cura sempre maggiore. C'è però una fascia d'età fortemente penalizzata, ed è quella delle coppie tra i 25 e i 44 anni con i figli. Per loro sia la mobilità che i tempi del lavoro, in casa e fuori, sono aumentati, e di conseguenza è diminuito il tempo libero: 27 minuti in meno rispetto al 1988".

Si spinge ben al di là del concreto l'antropologo Marino Niola, che vede in questo "movimento di liberazione del tempo", una sorta di "crisi dell'Illuminismo e dell'idea della corsa continua verso un progresso a cui bisogna sacrificare il tempo". "C'è un fattore di decelerazione che accomuna le società ricche, dove il time-budget è diventato il capitale più prezioso, l'unico non moltiplicabile e non replicabile. Lo sanno bene i giovani, che pur premendo per entrare nel mercato del lavoro difendono risolutamente i loro spazi privati, le loro passioni, e anche il loro modo di sprecare il tempo".


IL COMMENTO
Il Sovversivo
di EZIO MAURO

HA SENZ'ALTRO ragione il presidente del Consiglio a chiedere rispetto per la sua carica e per la sua persona. Ma il rispetto Silvio Berlusconi deve guadagnarselo, come tutti i personaggi pubblici in democrazia, giorno dopo giorno. Martedì ha insultato volgarmente metà del Paese, colpevole di non seguirlo e di ribellarsi alla sua leadership, votando a sinistra. Ieri ha cercato di forzare ancora una volta le regole, organizzando in fretta e furia nello spazio proprietario delle sue televisioni un finto confronto televisivo con Prodi - non previsto e non concordato - in modo da poter comiziare davanti ad una sedia vuota, sotto la luce domestica di Canale 5.

Proverò a spiegare perché questa condotta negli ultimi giorni di campagna elettorale non è quella di un politico disperato (Berlusconi può ancora rischiare di vincere) né quella di un leader estremista. No. Tecnicamente, Berlusconi è il Sovversivo.

Potremmo dire che l'inizio e la fine dell'anomalia italiana abitano qui, nell'insostenibile tensione a cui è sottoposto un sistema quando il capo legittimo del governo è anche il Sovversivo. Avevamo avvertito che l'agonia politica del berlusconismo sarebbe stata terribile. La realtà è peggio. Ma non era difficile prevederlo. Sono i tratti culturali di questa destra e di questa leadership - prima e più della dinamica politica - a determinare ciò che sta accadendo e ciò che purtroppo accadrà nelle prossime settimane quando il Cavaliere, se dovesse perdere, tenterà di delegittimare il risultato elettorale. Se non partiamo da qui, è difficile capire come si sia arrivati fino a questo punto estremo.

La concezione che il Cavaliere ha della sua avventura politica è - ancora una volta in senso tecnico - schiettamente "rivoluzionaria". Non è entrato in politica, come tutti: è "sceso in campo". Non l'ha fatto perché aveva un progetto, ma perché "ama il suo Paese". Non proponeva un programma, ma una biografia. Non indicava un obiettivo, ma un destino. Da quel momento, tutto si è unito e tutto si è scomposto secondo un ordine epico, assumendo una dimensione da paesaggio eroico, rendendo via via mitologica la realtà contemporanea.

Biografia privata e destino pubblico si sono confusi, per salvare l'amato Paese dal male che incombeva ed ancora incombe, nonostante la forza e la virtù del Capo, sacralizzato dal voto del popolo, dunque per sempre liberato da vincoli normativi, contrappesi costituzionali, equilibri istituzionali, regole di garanzia.

Il Capo si è trovato di fronte al popolo, il suo popolo, concepito fin dal primo giorno e sempre più - in un vero istinto di destra - come una "comunità di elezione", e lo rivela il giudizio sugli elettori di sinistra, "coglioni" perché non tutelano i loro interessi, come se nel discorso pubblico e nella passione politica non esistesse nient'altro che il portafoglio, simbolo subliminale del berlusconismo. Tutto il resto è impaccio: le autorità garanti, gli altri poteri dello Stato liberi ed autonomi, l'opposizione naturalmente, ma anche gli alleati, se non si riducono a coro.

Per sollecitare ed eccitare continuamente quel popolo, diventato strumento politico come la "folla" di Guglielmo Giannini, il Cavaliere ha bisogno di usare la televisione, che in parte quel popolo ha creato, o almeno ha "educato". Ecco perché la televisione nel mondo berlusconiano è ben più di un moderno balcone o di un microfono, è qualcosa di diverso da uno strumento anche potente di comunicazione: è il luogo segreto dell'anima berlusconiana, il giacimento culturale della politica e dell'antipolitica, la riserva privata del potere.

Ed ecco perché, ancora, Berlusconi non concepisce le regole e disprezza la par condicio: la sua natura politica e la natura televisiva coincidono e coabitano, non sono separabili, fanno parte di quell'identità imprenditoriale che aiuta il politico avvantaggiandolo, mentre lo soffoca.

Per il Cavaliere, è inconcepibile che avendo tre televisioni ed essendo probabilmente in svantaggio nei sondaggi, non possa usarle per ribaltarli, come vorrebbe la sua personale forza di gravità, come imporrebbe la sua natura, come pretende tutta la sua storia. Per questo ha trovato normale, ieri, chiedere e ottenere dalla sua rete ammiraglia un programma apparecchiato ad hoc, inventato sulle sue esigenze del momento. È o non è il padrone? Ma attenzione: lo è o no anche in politica? E allora perché stupirsi se salta il confine per lui inconcepibile tra politica e tv, se il suo istinto proprietario stravolge la par condicio, se si rivolge da proprietario addirittura agli elettori, insultando chi non vuole capire e rifiuta di seguirlo?

Tutto questo travolge ogni regola, ogni giorno, estremizza il confronto, sottopone il Paese a una pressione e a una tensione politica senza precedenti, e senza giustificazione se non nel destino personale di Berlusconi. La spinta per questa sovversione nasce ancora una volta dalla concezione eroica che il Cavaliere ha di sé e che gli impedisce di accettare il declino. Ogni difficoltà politica diventa così una congiura, ogni dissenso una manovra, ogni critica un tradimento, ogni regola un complotto esoterico dei "poteri forti".

Perché, semplicemente, l'ideologia del berlusconismo non prevede che Berlusconi possa perdere. La sconfitta non è contemplata, in una vicenda politica segnata tutta dall'unzione sacra e votata alla redenzione del Paese dal male. Può venire solo da una macchinazione oscura e ingiusta che inganna il popolo e che è ripudiata in anticipo, e per sempre.

D'altra parte, è così fin dall'inizio. Tecnicamente rivoluzionaria, infatti, è in Berlusconi anche la concezione della vittoria, che non è la conquista del governo, ma la presa del potere, una sorta di anno zero, di nuovo inizio. Sostenere che Berlusconi è il fondatore italiano dell'alternanza è la più grande delle bugie compiacenti che lo circondano separandolo dalla realtà. Non solo la legge elettorale voluta dalla destra ha ucciso il bipolarismo italiano, ma la natura del Cavaliere non accetta l'insuccesso e la sconfitta, come dimostra la riscrittura di comodo delle vicende del suo primo governo, con il fantasma del "ribaltone" che maschera la sua incapacità di tenere insieme la maggioranza.

Dunque, ogni reazione è permessa, anzi è legittima, perché aiuta l'unico legittimo potere a rimanere al suo posto: il resto è sopruso, abuso, errore. Come per gli antichi imperi mitologici, il berlusconismo non ha ormai altra finalità al di fuori del suo essere. Ma per continuare ad essere, è pronto ad ogni cosa, anche perché il suo potere non si fonda sul patrimonio comune civico, repubblicano e costituzionale, ma su un'alienità titanica audace e sprezzante, propria di chi "non aspettandosi nulla dalla società, non vuole sacrificare niente delle sue pulsioni più smodate e funeste".

Anzi qui, nelle difficoltà, viene alla luce il Sovversivo, con quel gusto di non obbedire che nasce dal gusto di comandare: ciò che Caillois chiama "lo spirito di dominazione". E con quella che Piero Gobetti, nel 1927, chiamava "la compromettente e ineducata abitudine di pensare in pubblico".

È facile, anche se amaro, dire che il Sovversivo ha appena iniziato a mostrarsi apertamente, uccidendo il Conservatore che pure aveva tentato il Cavaliere nei primi anni, e che ha sedotto buona parte dei suoi elettori. Il conflitto di interessi, invece che un impaccio anomalo e pericoloso, diventa così un'arma, se il metodo è la sovversione di ogni regola. Lo ha dimostrato ieri Fedele Confalonieri, usando tragicamente per la sua azienda le stesse esatte parole che Berlusconi usava per il suo partito, con l'accusa alla sinistra di inscenare "prove di regime" solo perché si era ribellata pubblicamente all'ultimo abuso politico della televisione privata del Cavaliere.

A differenza di Confalonieri, che passava per moderato, io non ho mai parlato di regime, in questi anni sventurati per il nostro Paese, perché credo sufficientemente grave denunciare l'indebolimento della qualità della nostra democrazia causato dall'anomalia berlusconiana; e anche perché penso che l'Italia possa farcela, con l'arma del voto, a chiudere quest'avventura. Ma l'epilogo rischia di essere peggiore del dramma. Da vero titano, il Cavaliere può ancora danneggiare questo Paese, anche se sarà sconfitto.

IL COMMENTO
Il boomerang del Cavaliere
di EUGENIO SCALFARI

CHI HA VINTO e chi ha perso nell'incontro-scontro tra Prodi e Berlusconi è materia opinabile e soggettiva. Per me ha vinto Prodi e di gran lunga, per altri ha vinto Berlusconi perché ha lanciato la stoccata finale sull'abolizione dell'Ici sulla prima casa.

Per me l'annuncio sull'Ici è una bravata che può diventare un boomerang contro il proponente; per i fautori ad oltranza dell'effetto mediatico è invece un colpo da maestro, una sorpresa che potrebbe indurre molti indecisi a decidersi. Per Giuliano Ferrara, che alla politica chiede solo di esser divertente, Berlusconi avrebbe anche dovuto dichiararsi favorevole alla pena di morte; allora l'effetto mediatico sugli indecisi sarebbe stato completo.

Chi la pensa così considera gli indecisi come una schiera di imbecilli e di creduloni disposti a seguire chi le spara più grosse. Un tempo si ragionava diversamente: si riteneva che gli indecisi fossero il sale della democrazia.

Senza pregiudizi di parte avrebbero atteso di veder chiaro nei programmi, di giudicare il governo uscente per ciò che aveva fatto o non fatto e infine, su dati certi e valutazioni oggettive, avrebbero bocciato o confermato. Evidentemente chi spera nell'effetto Ici in favore di Berlusconi punta sull'imbecillità degli elettori in genere e degli indecisi in particolare. Vediamo da vicino questa questione; a cinque giorni dal voto ne vale la pena.

Per tutto il corso del dibattito televisivo di lunedì Berlusconi, sebbene stimolato più volte dai due giornalisti interroganti sulle fonti di copertura con cui avrebbe finanziato le promesse fatte agli elettori, si è rifiutato di indicarle. Ha sempre cambiato discorso. Si è limitato a dire che avrebbe tagliato gli sprechi e avrebbe ottenuto "enormi" economie dall'informatizzazione della pubblica amministrazione.

Il consuntivo dei suoi cinque anni di governo registra un aumento della spesa pari a 2 punti e mezzo del Pil; in cifre assolute si tratta di 30 miliardi di euro. Spese in gran parte improduttive poiché nel frattempo l'economia è rimasta a crescita zero. Si spiega in questo modo il fatto che tutte le altre grandezze del bilancio sono saltate, il debito pubblico ha ricominciato ad aumentare, l'attivo del bilancio è stato azzerato (si trattava di 60 miliardi di euro, mica una bazzecola) e il rapporto deficit/Pil marcia verso il 4 per cento (secondo alcuni esperti saremmo già al 4,5). Gli economisti indipendenti hanno cifrato le promesse di Berlusconi per i prossimi cinque anni e sono arrivati alla conclusione che comportano un finanziamento di 37 miliardi.

Dove troverà queste risorse, a parte l'informatizzazione dell'amministrazione pubblica, è un rebus che non ha avuto soluzione: il presidente del Consiglio si è rifiutato di rispondere e a Prodi che gli ripeteva la domanda fattagli dal direttore del "Messaggero" ha risposto: "A lei, se avrà tempo, glielo spiegherò quando usciremo di qui". Basterebbe questo passaggio del dibattito per stabilire un esito da k.o.

E tuttavia, indifferente a queste "banali" considerazioni, il presidente del Consiglio ha calato l'asso nell'appello finale agli elettori quando, essendo lui l'ultimo a parlare, le sue parole non potevano essere smentite o contestate. Studiato alla perfezione, con geometrica potenza: "Abolirò l'Ici. Avete capito bene? Abolirò l'Ici".

Parole magiche, taumaturgiche, miracolistiche. Un sorriso radioso sulla bocca. Una soddisfazione che invadeva tutto il volto, gli occhi, la fronte, le arcate sopraccigliari. La felicità di chi vuole essere amato da tutti e finalmente, attraverso il portafoglio, trova la strada del cuore del prossimo. Sicuro che il prossimo sia una congrega di allocchi, di allodole abbacinate da uno specchietto.

Personalmente, l'ho già detto, penso che il prossimo sia sveglio quanto basta. Forse bisognoso di qualche elementare e semplice spiegazione. Perciò provo a fornirla.

L'Ici complessivamente ha un gettito per i Comuni di 10 miliardi; limitato alla prima casa ne produce 2 e mezzo. Non è una cifra enorme anche se, aggiunta alle altre esigenze di cui sopra, alza il totale a 40 miliardi, cioè 80 mila miliardi di vecchie lire.
Il sindaco di Lecce, Poli Bortone (Alleanza Nazionale) ha commentato l'annuncio dicendo che supplirà al mancato introito eliminando gli sprechi e rimpiazzandolo con gli introiti promessi dal governo per i Comuni che collaboreranno a snidare gli evasori.

I sindaci di Roma, Bologna, Firenze, Bari, Torino (centrosinistra) sostengono invece che l'effetto sarà il blocco totale delle spese per asili, scuole comunali, viabilità comunale, trasporti comunali e smaltimento dei rifiuti. Oppure imposizione di altre imposte equivalenti in sostituzione. Questo è stato anche il commento di Prodi e dei dirigenti di centrosinistra.
Tenuto presente che la promessa abolizione dell'Ici segue tre anni di congelamento delle spese comunali e il taglio dei trasferimenti dallo Stato ai Comuni, vediamo quali sono i motivi per i quali Berlusconi ha scelto proprio l'Ici come parola magica.

E' chiarissimo:
1. E' un'imposta comunale. La sua abolizione farà mancare entrate ai Comuni ma non allo Stato.
2. Gli effetti di questa decisione riguardano dunque i Comuni (in gran maggioranza di sinistra) sia che l'effetto porti ad un taglio dei servizi essenziali sia che venga colmato con altre imposte comunali. L'eventuale impopolarità di tali provvedimenti ricadrà sui sindaci e le giunte che li hanno dovuti prendere.
3. Il beneficio dell'abolizione cadrà a pioggia su un gran numero di contribuenti, in cifre molto modeste per le modeste case "popolari" e in cifre cospicue per le case lussuose dei ricchi e ricchissimi. Ancora una volta quindi, come è già stato per la riduzione delle aliquote Irpef, si tratta di provvedimenti socialmente regressivi anziché progressivi, che premiano pochissimo i ceti disagiati e molto-moltissimo quelli già dotati di ampie risorse.
4. Se, per effetto di questi provvedimenti promessi, il bilancio pubblico peggiorasse, il debito pubblico e il deficit aumenterebbero, i "rating" sugli interessi peggiorerebbero, la competitività del sistema Italia continuerebbe ad andar giù.

Mi rendo conto che l'effetto-annuncio può impressionare nelle prime ventiquattr'ore. Ma poi deprime ancora di più la credibilità di chi l'ha fatto, che allo stato dei fatti già rasenta lo zero.
 

4 aprile

La "middle class" afroamericana lascia New York
Esodo verso Stati vicini dove il costo della vita è più basso
I neri in fuga da Manhattan
"E' troppo costosa"

di VITTORIO ZUCCONI
<B>I neri in fuga da Manhattan<br>"E' troppo costosa"</B>
Midtown Manhattan

TAKE the A Train, salite sulla linea A del metrò e correte subito verso la collina dello zucchero a Harlem, attaccava l'orchestra di Duke Ellington. Furono migliaia gli uomini con la pelle scura che ascoltarono lui, ed Ella Fitzgerald, e corsero a fare di Manhattan e di Harlem, del Cotton Club, del Savoy Ballroom, dell'Apollo Theatre il cuore dell'America nera e della sua cultura negli anni '40 e '50. Ma ora i loro figli hanno avuto abbastanza degli affitti, dei prezzi insensati della case, delle continue spallate del mercato immobiliare che li stava spingendo sempre più a nord, schiacciandoli fra la miseria e la ricchezza. Stanno lasciando la New York bianca che li voleva espellere senza osare dirlo. Risalgono sull'A Train e se ne vanno da Harlem, come prima di loro gli Ebrei dell'Est Europeo, gli Italiani, gli Ispanici e hanno cominciato la loro piccola fuga da New York.

Racconta l'ultimo censimento metropolitano ufficiale, del 2004, che la Manhattan di colore sta perdendo popolazione e si deve risalire alla Guerra Civile finita nel 1865, assai prima che la metropolitana raggiungesse il fiume Harlem, quello che taglia a nord l'isola più affollata del mondo, quando erano gli emigranti dall'Europa a popolare i terreni e a cacciare via i contadini, per trovare un calo nella percentuale di afro-americani residenti a New York.

Trentamila se ne sono andati in quattro anni verso i sobborghi degli stati vicini, il Connecticut o il New Jersey, e molti sono tornati in quel Sud dal quale vennero le nonne e i nonni per sfuggire alla segregazione, alle croci infuocate del Ku Klux Klan, agli sceriffi da "calde notti" e per inseguire il sogno della grande urbanizzazione.

Il volto di New York impallidisce, perde un pezzo della propria anima, e le cifre del piccolo grande esodo hanno suggerito a un demografo citato dal New York Times, William Frey delle Brookings Institutions, una parola pesante, "evacuazione". Neppure l'esodo verso la suburbia e l'ancora più distante exurbia delle classi medie bianche negli anni '70, dopo lo shock delle rivolte razziali, aveva minacciato tanto il tessuto multiculturale di una città che della propria diversità ha sempre fatto la propria magnificenza e la propria seduzione, ma che sta perdendo, anche per i nuovi immigrati, il proprio magnetismo.

Fuggono da Manhattan, dove per la prima volta da mezzo secolo, la percentuale di neri sulla popolazione complessiva dell%u2019isola è scesa sotto il 25%. La marcia degli affitti e dei prezzi astronomici di vendita, misurati ormai in migliaia di dollari per "piede quadrato", 0,09 metri quadrati, meno di un decimo, ha risalito le grandi Avenues dalla punta di Manhattan, Park, Madison, Lexington, la Quinta e ha oltrepassato il confine immaginario eppure reale della centesima strada. La "gentryfication", la riconquista dell'isola da parte dei bianchi che si possono permettere di viverci sopra, si è già scrollata di dosso ogni postumo da 11 settembre, inghiotte la zona demilitarizzata fra bianchi e neri, popolato dagli immigrati di lingua spagnola, e avvicina la Black Harlem.

Quando Bill Clinton affittò nel 2001, con i soldi dei contribuenti che pagano anche i conti degli ex presidenti, una suite d%u2019uffici sulla 125esima strada per 35 mila dollari all%u2019anno, in piena Harlem Nera, la sua scelta fu salutata come un gesto politico di grande speranza, da parte di colui che la poetessa Maya Angelou aveva definito "il primo presidente nero".
Soltanto pochi residenti manifestarono contro, temendo, e intuendo, che lui sarebbe stato l'avanguardia di un'avanzata bianca ormai in atto.

Se ne vanno proprio le "middle class", coloro che possono permettersi di traslocare oltre lo Harlem River a nord o l'Hudson a ovest, dunque sottraggono la carne vitale che si era riformata attorno allo scheletro dei grandi falansteri, i projects abbandonati alle gangs da strada, alla violenza e a qualche campetto da basket con le reticelle di ferro ai canestri. Tolgono popolazione importante a Manhattan, che oggi conta tanti abitanti (un milione e mezzo) quanti ne aveva nel 1890, dopo la vetta a oltre due milioni prima della Grande Guerra, nel 1910.

"E' stata una decisione difficilissima, ma dettata dal portafogli", spiega al New York Times Jacqueline Dowell, una newyorker d'origine che ha scelto di traslocare in North Carolina, proprio in quel profondo Sud dal quale la bisnonna fuggì dopo l'emancipazione degli schiavi, per crescere la figlia. "Semplicemente, non mi potevo più permettere Manhattan".

Molti, come lei, che guadagnava 70 mila dollari all'anno, assai più della media metropolitana di 44 mila, tornano alle radici, in quegli stati sudisti, le due Carolina, l%u2019Alabama, la Georgia, dove si è "neri esattamente come a New York" racconta ironicamente Jack Washington, un musicista, ma "costa la metà esserlo". Nella decade Novanta, New York era una delle "top 15" destinazioni sognate dagli americani di colore, e l'isola crebbe di 115 mila residenti neri nati negli Stati Uniti, dunque escludendo

Giamaicani, altri immigrati dal Caribe e africani. Nei primi cinque anni del XXI secolo, 30 mila hanno fatto i bagagli, riducendo dell'1,5% la quota dei neri.

E' la prima volta dalla guerra Civile che New York conosce un'emorragia di persone di colore. Harlem, dove i grandi teatri e music-hall del secolo scorso sono divenuti malinconicamente chiese, dove i "preacher men", i predicatori e i pastori hanno rimpiazzato Ella e "The Duke" al Cotton Club che un diciottenne Giovanni Agnelli bazzicava accompagnato dal pugile Joe Louis come guardaspalle offerto dai Rockefeller, resiste attorno all'Apollo, l'ultimo fortino della comicità e della musica nera. Per quanto ancora, è impossibile dire, perché dalle carrozze dell'"A Train2, sulla Sugar Hill, non sbarcano più favolosi jazzisti affamati, ma immobiliaristi insaziabili.


 

I salari italiani sono i più piccoli d’Europa: 1.350 euro al mese. Lo dice l’Ocse

Lo sprofondare dei salari italiani, così come emerge dall’ultima indagine dell’Ocse, come sindacalista mi fa vergognare.
Certo, è giusto arrabbiarsi con Berlusconi, il suo governo, la sua politica per i ricchi, il suo incredibile negare la realtà di un generale diffuso impoverimento. Questa rabbia si tradurrà, speriamo, in un voto che mandi a casa il Presidente del Consiglio, anche per far respirare un po’ le nostre buste paga.
Ma dai dati dell’Ocse emerge un quadro ben più grave di quello riconducibile alle scelte di classe di questo governo. Sopra di noi stanno paesi che hanno governi di centrosinistra, così come di centrodestra. Paesi di antica industrializzazione, dal Belgio alla Germania, alla Francia, e paesi che ci hanno scavalcato, dalla Spagna fino alla Corea del Sud. Le retribuzioni di quest’ultimo paese, è bene ricordarlo, solo quindici anni fa venivano utilizzate come spauracchio per i lavoratori italiani, così come oggi avviene per quelle cinesi. Se andiamo avanti così tra una decina d’anni anche i salari cinesi saranno sopra i nostri. Siamo a una catastrofe che viene da lontano.
I salari italiani non solo sono al 23esimo posto nella classifica tra i trenta paesi più industrializzati, ma sono sotto di ben il 19% rispetto alla media dei paesi dell’Euro. Nella sostanza, un lavoratore italiano medio perde più di due mensilità all’anno rispetto ai colleghi francesi, tedeschi, inglesi, belgi. E questa è una media, che nasconde il dramma dei salari dei precari, giovani o anziani che siano, e lo scandaloso permanere di un differenziale negativo per le donne, che a parità di lavoro prendono il 20% in meno dei maschi. A questi dati non corrisponde alcunché di simile per le classi dirigenti. In questi anni gli stipendi dei manager, grazie anche alle laute elargizioni di premi in azioni quasi esentasse, hanno raggiunto i vertici delle retribuzioni mondiali. E’ sicuro che se un operaio è al 23esimo posto nella classifica Ocse, chi comanda nella sua fabbrica si batte per il primo.
Anche la ricchezza finanziaria ha raggiunto in Italia un livello di concentrazione tra i più alti del mondo, mentre la distribuzione del reddito è tra le più sperequate. Insomma, mentre i salari dei lavoratori andavano giù, i profitti, le rendite, i premi per i dirigenti, partivano verso le stelle.
Questa catastrofe sociale si è accompagnata al progressivo crollo della competitività industriale ed economica del nostro paese. Peggio andavano i salari, peggio andava la capacità dell’Italia di produrre, vendere, esportare. Ci sarà un rapporto tra le due cose? Noi pensiamo di sì. Noi siamo convinti che il progressivo declino dei salari, che erano il 60% del reddito nazionale negli anni Settanta e che oggi sono sotto il 48%, sia una delle cause fondamentali della stagnazione economica e sociale del paese. A forza di comprimere e tagliare i salari, è venuta meno in Italia quella spinta fondamentale all’innovazione, alla ricerca, alla crescita della qualità, che invece nel passato aveva permesso la crescita. La politica della concertazione, dei patti sociali, dello scambio tra moderazione salariale e sviluppo, non ha prodotto risultati. Anzi, a 15 anni dall’abolizione della scala mobile e dalla scelta di una politica salariale moderata, il bilancio economico e sociale è negativo. I salari sono andati giù e la produttività e la competitività del sistema li ha seguiti verso il basso.
Per queste ragioni, se è giusto incolpare Berlusconi per gli ultimi disastri, se si vuole davvero cambiare, bisogna che la politica salariale del paese cambi rotta. E’ pertanto necessaria una svolta di fondo nell’iniziativa sindacale.
Ci sono almeno tre punti fermi che è indispensabile affermare:
1. bisogna riconoscere il principio per cui la crescita dei salari è la leva fondamentale per uno sviluppo più gusto del paese. Occorre un vero e proprio ribaltamento della vecchia politica dei due tempi, che prometteva la giustizia dopo la crescita e lo sviluppo. Bisogna far crescere qui ed ora i salari, e si vedrà che in questo modo anche il paese riprenderà a svilupparsi.
2. la crescita dei salari non può avvenire solo con le scelte di politica redistributiva dei governi, con il fisco o con lo stato sociale. E’ necessaria una politica salariale offensiva da parte del sindacato. Bisogna abbandonare la politica della moderazione salariale con l’obiettivo di recuperare almeno il deficit del salario italiano rispetto alla media europea.
3. per ottenere questo occorre una nuova fase di conflitto sociale. Senza di essa non si va da nessuna parte, perché né le imprese, né tutti coloro che si sono arricchiti a discapito dei salari rinunceranno per bontà a quanto hanno ottenuto.
Andiamo tra qualche giorno a votare per mandare via Berlusconi, ma poi, per meglio difendere le nostre buste paga, presentiamoci in tanti ai banchetti ove si raccolgono le firme per ripristinare la scala mobile.
di Giorgio Cremaschi

Vaticano, un documento segreto per coprire i preti pedofili
Tratto dal libro di Cosimo Cellammare: “Al di là dei mulini a vento: crimini compiuti in nome di Dio”

Il testo, datato 1962, pubblicato dal giornale londinese Observer
Ai prelati venne ordinato di nascondere con ogni mezzo gli abusi

LONDRA - Un documento "confidenziale" scritto oltre 40 anni fa dal Vaticano ordinava ai vescovi di tutto il mondo di coprire con ogni mezzo gli abusi sessuali commessi dai religiosi. Il testo, 69 pagine tradotte in inglese, è stato pubblicato oggi dal giornale londinese Observer.
Secondo quanto riferito dalla testata, il documento proviene dall'archivio segreto del Vaticano. L'avvocato texano Daniel Shea, impegnato in un caso di abusi sessuali all'interno della Chiesa americana, ne avrebbe ottenuto una copia da un prete tedesco. Nel testo, datato 1962, si indicano “le procedure da seguire in caso di crimini di istigazione". Cioè quelli in cui un religioso tende "a sollecitare e provocare il penitente ad atti impuri ed osceni". “Il peggiore dei crimini si legge - è quello costituito da azioni nei confronti di giovani di ambo i sessi".
La Chiesa cattolica di Inghilterra e Galles ha confermato l'autenticità del documento, che doveva "essere diligentemente conservato negli archivi segreti della Curia, rimanendo rigidamente riservato". Un mese fa, il legale americano che l'ha scoperto ha provveduto a consegnarne una copia alle autorità degli Stati Uniti, dove da molto tempo la chiesa cattolica è al centro di uno scandalo su abusi sessuali commessi nei confronti di adolescenti. Una vicenda che ha coinvolto anche l'arcivescovo di Boston Bemard Law. Costretto a lasciare il seggio per aver trasferito in massima segretezza i religiosi incriminati.
Nel documento segreto, scritto sotto il pontificato di Giovanni XXIII, il Vaticano impone ai vescovi di mantenere la massima segretezza sulle accuse di abusi. Si invita ad "ammonire, correggere e, se il caso lo richiedesse, a sospendere" i sacerdoti messi sotto accusa. "Ma - si legge - tutti i prelati devono gestire questi casi con la massima segretezza e vincolati al silenzio perpetuo". Pena la scomunica.
"Questo prova - dichiara Daniel Shea - che vi era un complotto internazionale da parte della Chiesa per coprire gli abusi sessuali. E un subdolo tentativo di nascondere attività criminali". Secondo un portavoce del Vaticano, però, il testo indica solo “le procedure disciplinari nel caso che un prete sia accusato di aver sollecitato prestazioni sessuali durante la confessione". La segretezza sarebbe dunque tesa "a proteggere gli accusati, come avviene anche nelle procedure penali oggi. Ed è anche subordinata alla speciale natura segreta del sacramento della confessione". In ogni caso, riferisce il giornale, non proibisce alle vittime di presentare accuse civili.
E su questo punto insiste il reverendo Thomas Doyle, un cappellano dell'Air Force statunitense in Germania. Secondo l'esperto di diritto ecclesiastico, il documento non legittima l'ordine di silenzio imposto alle vittime. “Pur confermando la patologica ossessione per la segretezza che affligge la Chiesa cattolica - afferma Doyle - il testo non giustifica le intimidazioni al silenzio subite dalle vittime degli abusi sessuali da parte esponenti della chiesa americana". Per provare questo, conclude il sacerdote, "servono infatti prove concrete".
(www.repubblica.it/2003/h/sezioni/esteri/observer/observer/obscrver.hftffl i (17 agosto 2003)
Riportiamo di seguito alcune delle 69 pagine del documento originale tradotto in inglese dal giornale londinese Observer e alcuni articoli del testo evidenziati dallo stesso giornale (il testo completo è riportato nel sito summenzionato).

Il colpo di coda del Cavaliere
di MASSIMO GIANNINI
<B>Il colpo di coda<br>del Cavaliere</B>
Romano Prodi e Silvio Berlusconi

Con l'ultimo, forsennato colpo di coda, il Caimano di Arcore osa l'inosabile. Il faccia a faccia tv di ieri sera, l'ultimo e decisivo prima del voto di domenica prossima, l'avrebbe vinto Romano Prodi, come già gli era capitato nel primo confronto del 14 marzo. Ma Silvio Berlusconi, con l'appello agli elettori, si è giocato l'osso del collo. Con il tuffo estremo nel cerchio di fuoco staraciano, il premier ha lanciato agli italiani la promessa-fine-di-mondo: "Se ci voterete di nuovo, vi aboliremo l'Ici sulla prima casa".

È la vera novità di questa sfida finale, che per il resto registra la buona performance del Professore, sereno e determinato, contro un Cavaliere irascibile ed esasperato. Ma è una novità destinata a tenere banco, in questi cinque giorni che ancora ci separano dal voto. Berlusconi torna al 2001. Torna alle tasse come arma vincente. Torna a parlare a un popolo che immagina trasversale, fatto di partite Iva e di "padroncini", ma anche di famiglie e di salariati a reddito fisso, che spesso ostenta il cuore a sinistra, ma quasi sempre conserva il portafogli a destra. Riconquista la scena, con una proposta che è, insieme, seducente e inconsistente. È seducente, perché ai quasi 20 milioni di italiani che possiedono una prima casa non può non far piacere l'idea di non pagare più un'imposta che ogni anno "costa" in media più di 500 euro per ciascuna famiglia. Ma è anche inconsistente, perché ai circa 8 mila comuni che ogni anno riscuotono questo tributo non può non far paura l'idea di dover rinunciare, dall'oggi al domani, a un gettito pari a circa 9 miliardi 950 milioni di euro (quasi 20 mila miliardi delle vecchie lire), che da soli rappresentano più del 50% delle entrate complessive delle amministrazioni.

Come si potrebbe coprire questo buco colossale aperto nelle casse dei sindaci? Come si finanzierebbero i servizi locali attualmente sovvenzionati con i proventi dell'Ici? Come si concilierebbe questa scelta marcatamente "centralista" dello Stato con la mitica devolution imposta al Paese dai federalisti-secessionisti in camicia verde?

A tutte queste domande, ovviamente, il Cavaliere non ha fornito alcuna risposta. Così come non ne ha fornite sulla copertura di quelle poche misure economiche contenute nel programma della Cdl (dal taglio di 3 punti del cuneo fiscale al quoziente familiare, dalla rioduzione dell'Irap al bonus bebè) che tuttavia valgono non meno di 35 miliardi di euro. Ma non è questo che andava cercando, il Cavaliere, in quest'ultima "chiamata" agli elettori. Ha buttato via un'ora e passa di dibattito, spesa a ripetere la rituale alluvione di cose fatte ma inverosimili e di cifre pirotecniche ma inverificabili ("un goulash di fatti e di numeri", come l'Herald Tribune di ieri aveva definito la prova del Cavaliere nel precedente duello). Ha sprecato almeno due ottime opportunità per mettere in difficoltà il suo avversario e parlare alle fasce elettorali in questo momento più "sensibili" (i cattolici sul tema delle coppie di fatto e dei Pacs, e le donne sul fronte delle quote rosa e del sostegno alle carriere). Ha fatto ricorso per l'ennesima volta alla sola forza delle emozioni negative (riproponendo la minestra riscaldata dei comunisti e della sinistra che pensa solo a massacrare i contribuenti e a ingrassare il Moloch statuale).

Di fronte a un Prodi insolitamente calmo e particolarmente lucido, anche nella giungla infida delle aliquote e dei tetti di reddito che gli stessi alleati di centrosinistra avevano masochisticamente contribuito a ingarbugliare in queste ultime settimane, Berlusconi è sembrato ancora una volta un leader ormai proiettato nell'irrealtà mediatica, molto più che nella realtà politica. Fino a quei due minuti finali, quando il Cavaliere ha ritrovato per un attimo lo smalto dell'imbonitore televisivo e visionario, ed è tornato al registro confidenziale, e vagamente onirico, del leggendario "messaggio" sulla discesa in campo del 1994: "L'Italia è il Paese che amo...". Con tutto quel che seguiva e che è seguito, in termini di produzione del consenso, di innovazione del dibattito pubblico e di distruzione del tessuto sociale e istituzionale.

Qui c'è stata un'inversione dei ruoli. Prodi, che ha menato la danza per tutto il confronto, ha perso l'occasione. Il suo messaggio finale è stato corretto, ma ripetitivo e persino banale. Il Caimano di Arcore, al contrario, ha tentato di rompere la gabbia nel quale l'hanno cacciato cinque anni di logorante legislatura, e due mesi di disperata rincorsa pre-elettorale. La proposta di abolire l'Ici risponde a questa esigenza. Raggiunge l'obiettivo di dettare l'agenda di questi ultimissimi giorni di contesa elettorale. Di qui a dire che questa mossa a sorpresa basterà a invertire una rotta che i sondaggi danno per segnata per il centrodestra, ce ne corre. È difficile misurare l'effettiva efficacia della sortita berlusconiana. È anche probabile che non sposterà un solo voto in un elettorato che va verso la stabilizzazione. Anche tra quei 4 milioni di indecisi che, gradualmente, si stanno decidendo, ma a quanto pare distribuendosi in modo equanime tra i due schieramenti, e dunque senza apportare sostanziali modifiche alla forbice che tuttora separa il centrosinistra in vantaggio dal centrodestra all'inseguimento.

Il colpo di coda del Caimano fa un certo effetto. Ma probabilmente arriva fuori tempo massimo. Dopo cinque anni di impegni sostanzialmente mancati, le parole del Cavaliere, con tutto il rispetto, ricordano sempre di più quelle di Cetto Laqualunque, ringhioso "cacicco" meridionale messo in scena da Antonio Albanese, che contro "l'opposizione caina e bastarda" riesce solo a gridare: "Vi prometto le promesse". Credergli è sempre più difficile.


 

1 aprile

Berlusconi ha inferto al nostro paese danni gravissimi, quasi separandolo dalla comunità europea, presentandolo come il paese della pizza e dei mandolini
Finisce male, malissimo il Cavaliere. Disperato, furente, solo contro tutti, contro la stampa, contro i giudici, contro l'Europa contro la Confindustria, contro il capitalismo. Proprio lui, che ha cavalcato da sempre il capitalismo selvaggio, adesso che il suo potere svanisce si inventa, come il Mussolini di Salò, una congiura degli industriali ai suoi danni.

Tutto pensavamo di questo crepuscolo del piccolo duce dai tacchi alti e dai capelli finti, fuor che si atteggiasse a nemico del capitale alla testa di una 'lotta di classe dentro la classe', come ha scritto il suo Bombacci, il direttore del 'Foglio'. Sbigottiti e un po' vergognati assistiamo alla rivelazione piena delle sue miserie, delle sue inaudite gaffes. Massima quella riproposta da Enrico Deaglio nel suo impressionante documentario, la seduta del Parlamento europeo in cui il presidente del Consiglio italiano ha dato del kapò, dello sbirro nazista, a un deputato tedesco che gli aveva ricordato la sua appartenenza alla P2 e la contiguità con personaggi condannati per concorso mafioso.

Ed è vero che la stampa italiana ne parlò diffusamente, ma senza lo sdegno che avrebbe meritato la vista di tutti i parlamentari in piedi a gridare contro l'italianuzzo presuntuoso e villano che aveva violato tutte le regole della buona educazione, e creduto di poter fare impunemente il suo numero strafottente al Parlamento europeo. Un gaffeur colossale che canta canzoni napoletane assieme a un posteggiatore, che recita in inglese una sviolinata agli Stati Uniti e al presidente George Bush che lo guarda divertito, che va in giro con una bandana bianca sul capo per coprire l'operazione di trapianto, che parla dell'Italia come un operatore di una società di viaggi.

Il giorno della sua incredibile recita anticapitalistica, il 19 marzo scorso, i quotidiani erano in sciopero tutti, meno quelli berlusconiani di destra. Che nel silenzio della stampa che conta, che informa, che rappresenta la società italiana riempirono le loro pagine di lodi sperticate per il Cavaliere, incapaci di giustificare i suoi deliri di addio.

Perché una delle molte differenze fra il mussolinismo e il berlusconismo è che il primo riuscì per qualche anno a farsi seguire anche dalla borghesia delle scienze e delle arti, mentre l'altro non è andato oltre una cultura leghista e qualunquista, faziosa, ricattatoria. E se ha imitato Mussolini, ha imitato solo quello di Salò e dei trionfi di cartapesta.

Sbigottiti prendiamo atto di questo finale di regime, dei danni gravissimi che il Cavaliere ha inferto al nostro paese quasi separandolo dalla comunità europea, presentandolo come il paese dei mandolini e delle pizze con un incancellabile profumo di fascismo perenne. Sbigottiti pensiamo che grazie a questo ometto gli eredi di Salò si ripropongono come nostri governanti e sfilano con gagliardetti, croci uncinate e manganelli nelle strade delle nostre città.

Avevamo previsto una campagna elettorale isterica, violenta, ma l'ometto vuole congedarsi con una mischia confusa e umiliante e già ci sono gli ultimi custodi della sua fiamma che si dicono pronti a seguirlo fino al martirio. Ma non preoccupiamocene, li ritroveremo tutti a cercare prebende e protezioni democratiche, i salti della quaglia ci riporteranno all'unanimismo di regime che, in fondo, è la nostra scelta fatale.

Resta la solita domanda del perché delle follie sociali? Perché questo personaggio sin troppo scoperto nelle sue megalomanie e nei suoi abissali vuoti di cultura ha avuto un così grande seguito nel nostro paese? Il direttore del 'Foglio', che conosce bene lui e noi, dice che ci è servito per sfuggire alla noia. Ma a che prezzo!
 

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