Archivio Aprile 2006
26
aprile
Per gli
ecologisti fu una strage. L'Onu: 4000 vittime
Le organizzazioni sanitarie: i casi di tumore aumentano
Cernobyl, la
guerra dei numeri "La nube fece 100 mila morti"
E' ancora un mistero il reale bilancio della tragedia nucleare
ucraina
dal nostro inviato
PIETRO DEL RE
Il ricordo di Cernobyl
MOSCA - Un mistero aleggia attorno alla ventennale ricorrenza
del più grande disastro nucleare civile della storia: quante furono
le vittime provocate dall'esplosione del reattore della quarta unità
di Cernobyl? E quante persone ancora moriranno per i veleni che
nella notte fra il 25 e il 26 aprile 1986 si sprigionarono
nell'atmosfera? Un rapporto Onu, pubblicato lo scorso settembre,
parla di quattromila decessi.
Pochi mesi dopo, il Centro internazionale della ricerca sul cancro
fornisce altri dati: i morti salgono a sedicimila. Ma secondo
recenti stime di associazioni ecologiste, il bilancio in vite umane,
passato e futuro, è molto più pesante. Per l'Accademia delle Scienze
di Mosca, solo in Bielorussia, verso cui la notte della tragedia i
venti spinsero enormi quantitativi di sostanze tossiche, si
registrerebbero attualmente 270mila casi di tumore attribuibili alle
radiazioni. Di questi, 93mila dovrebbero avere un esito fatale.
Sono cifre contrastanti, a volte contraddittorie, ma tutte
raccapriccianti. E' del resto impossibile fornire un computo preciso
di chi si è ammalato gravemente per via del disastro di Cernobyl, e
di chi per quel motivo ha già perso la vita o la perderà. "Ma le
cifre dell'Onu sono assolutamente false", dice Angelika Claussen,
che presiede l'associazione tedesca dei "Medici contro la guerra
nucleare". La Claussen esamina una per una le eventuali conseguenze
della diffusione nell'atmosfera di circa 45 milioni di curie di Xeno
133, di 7 milioni di curie di Iodio 131, e di un milione di curie di
Cesio 134 e 137. "L'Onu parla di 4000 casi di tumori alla tiroide:
ma secondo i nostri dati, sono già 10mila le persone colpite da
questo male e 50mila quelle che lo saranno tra breve".
Eppure, a sentire Leonid Bolshov, direttore dell'Istituto per
l'energia atomica russa, Cernobyl è stato soltanto un incidente
tecnico, di sicuro non una catastrofe. Dice lo scienziato: "I dati
parlano chiaro: 47 persone sono morte quasi sul colpo, e nove
bambini di tumore alla tiroide". Opposto è il parere di Viaceslav
Grishine, che in quei fatidici giorni lavorò allo spegnimento
dell'incendio della centrale: "Degli oltre 600mila "likvidatory",
ossia quei tecnici, pompieri e soldati che dall'Ucraina, Russia e
Bielorussia furono spediti a Cernobyl per tentare di arginare il
disastro, 45mila sono morti e quasi 120mila sono rimasti gravemente
invalidi".
Per la sezione russa di Greanpeace, lo scopo del rapporto Onu è
quello di sostenere il programma nucleare di Mosca che prevede la
costruzione di 40 nuovi reattori entro il 2030. Vladimir Ciuprov,
responsabile dell'organizzazione, cita i dati stilati da un centro
di ricerca dell'Accademia delle Scienze secondo cui, tra il 1990 e
il 2004, la nube radioattiva avrebbe ucciso 67mila persone solo in
Russia.
Come districarsi tra questi numeri, queste valutazioni discordanti,
queste nefaste previsioni? Bisognerebbe anzitutto poter paragonare i
casi di tumore nelle regioni contaminate prima e dopo la catastrofe.
Ma la maggior parte di quei dati sono oggi sotto chiave negli
archivi di Mosca che li considera segreti di Stato. E quindi
inaccessibili all'Ucraina, teatro della tragedia, che nel 1991
divenne indipendente.
25
aprile
Un ex
dirigente svela chi accreditò la montatura sulle armi di Saddam
Fu l'intelligence di Roma a fornire il rapporto che "accusava"
l'Iraq
La verità
sull'intelligence
di GIUSEPPE D'AVANZO
L'EX CAPO della Divisione Operazioni Coperte in Europa della Cia,
Tyler Drumheller, ammette ai microfoni della Cbs/60 minutes che
dietro il Nigergate c'è l'intelligence italiana, il Sismi. Da quando
questa storia è stata raccontata da Repubblica, è la prima volta che
un alto funzionario di Langley dichiara, senza proteggersi con
l'anonimato, che sono stati "gli Italiani" a consegnare, e
successivamente a confermare, a Washington i documenti falsi del
dossier che consente alla Casa Bianca di "vendere" la bubbola di una
minaccia nucleare irachena. È la prima volta che una spia di rango,
alla Cia per 26 anni, conferma pubblicamente quel che già i lettori
di Repubblica conoscono: alla base delle ormai sedici celebri parole
di Bush nel discorso sullo Stato dell'Unione (28 gennaio 2003, "...
il governo inglese ha appreso che Saddam Hussein ha recentemente
cercato di acquisire significative quantità di uranio
dall'Africa...") ci sono soltanto i documenti pasticciati da un
informatore del Sismi, da una fonte del Sismi, sotto il controllo di
alti funzionari del Sismi. Quelle sedici parole, si sa, valgono una
guerra. È il capolavoro di affermazioni misleading (ingannevoli),
con cui Bush si copre le spalle. In realtà, dice Tyler Drumheller,
gli inglesi hanno tra le mani la stessa robaccia distribuita dagli
Italiani.
Probabilmente il capo della Divisione Operazioni Coperte in Europa è
soltanto il primo degli alti funzionari della Cia che si preparano,
nei prossimi mesi, a vuotare il sacco su quanto di storto è accaduto
alla vigilia dell'invasione in Iraq, su quanto di truccato è stato
proposto all'opinione pubblica per "conquistare il cuore e la mente"
dell'Occidente. Si vedrà quel che ora accadrà negli Stati Uniti. Per
intanto è necessario chiedere che qualcosa accada anche da noi. Le
ammissioni pubbliche di Drumheller smentiscono una mezza dozzina di
comunicati diffusi da Palazzo Chigi e la maligna "operazione di
influenza" con cui il Sismi ha avvelenato l'informazione nazionale,
inquinato il dibattito parlamentare, azzittito il comitato di
controllo sui servizi segreti (il Copaco presieduto da Enzo Bianco).
Se il governo ha sempre escluso qualsiasi trasmissione di documenti
a Washington, infatti, l'intelligence di Nicolò Pollari ha negato di
aver allungato la sua "manina" nell'affare accusando con avventurosa
impudenza i francesi della "Direction Générale de la Sécurité
Extérieure" (Dgse). Entrambi, governo e Sismi, hanno mentito al
Parlamento per coprire il ruolo ancillare svolto dal nostro Paese,
subalterno ai metodi e alle opzioni politiche di Washington. È
questo il nocciolo della questione: il lavoro della nostra
intelligence è stato "politicizzato" e messo al servizio del
pensiero strategico degli Stati Uniti; il nostro controspionaggio si
è mosso nell'interesse del nostro alleato e lungo scelte di politica
estera (il regime change) mai discusse e approvate dal Parlamento e
non nell'interesse della sicurezza nazionale e dell'impegno alla
"non belligeranza" imposto dalla Costituzione. Nonostante la palese
grossolanità, in questo disegno è finita prigioniera anche la stampa
e soprattutto l'opposizione di centrosinistra: i suoi uomini nel
Copaco (Enzo Bianco e Massimo Brutti, soprattutto) sono apparsi
sordi, muti e ciechi anche di fronte alle evidenze. È vero che il
comitato parlamentare di controllo non ha poteri d'inchiesta, ma
purtroppo è altrettanto vero che, in assenza di ogni riscontro o
indagine, il Copaco - incapace di verificare ma disposto ad
assolvere - ha "benedetto" politicamente, senza un dubbio, senza un
"ma", senza una domanda decente, le frottole rovesciate a San Macuto
dal governo e dal direttore del Sismi.
Bisogna girare pagina e chiedersi finalmente che
cosa è accaduto alla vigilia della guerra in Iraq? Qual è stato il
ruolo della nostra intelligence? Quali sono stati gli indirizzi
politici imposti dal governo? Che cosa non ha funzionato nei
meccanismi di controllo parlamentare? Sono domande che, a tre anni
dall'invasione in Iraq, meritano una risposta inequivoca, per lo
meno un elenco condiviso di fatti. Tocca al nuovo Parlamento
mettersi al lavoro. La si può chiamare come si vuole - inchiesta,
indagine, rapporto conoscitivo o Filippo - ma è giunto il tempo che
una commissione parlamentare, "senza cedere alla tentazione di una
caccia di capri espiatori", racconti al Paese che cosa è accaduto in
questi anni così confusi per la nostra democrazia.
25 APRILE
Rappresaglie da talk show
«Via
Rasella la storia mistificata» di Rosario Bentivegna. Il carteggio del
comandante dei Gap con Bruno Vespa per ribattere le falsità che hanno
accompagnato quell'azione partigiana fatte proprie dal conduttore
televisivo. Un libro importante perché svela come la vulgata antipartigiana
venga eletta a verità storica per delegittimare la Resistenza e
l'opposizione al berlusconismo
ALESSANDRO PORTELLI
Mi diceva qualche anno fa Rosario Bentivegna, medico del
lavoro, gappista romano, protagonista della battaglia di via Rasella: «Dopo
la guerra, il partito disse sempre la verità su via Rasella e sulle Fosse
Ardeatine; quello che non fece, fu di confutare le menzogne e le
mistificazioni che erano state diffuse su quegli avvenimenti». Le menzogne e
le mistificazioni le sappiamo tutti: la falsa notizia secondo cui, dopo
l'azione partigiana in Roma occupata in cui morirono 33 componenti di un
battaglione di polizia aggregato alle SS, i tedeschi avrebbero messo
cartelli per tutta Roma invitando i «colpevoli» a consegnarsi per evitare la
rappresaglia. Sappiamo, o dovremmo sapere, che questa è pura invenzione:
persino il generale Kesselring, interrogato in tribunale, disse che non ci
avevano mai nemmeno pensato; la rappresaglia fu decisa subito, mai
condizionata alla resa dei partigiani, e fu comunicata alla popolazione solo
dopo che la strage era stata compiuta.
Una delle tante ragioni per ammirare Rosario Bentivegna è che, in assenza di
una chiara risposta politica e storiografica a queste menzogne, da più di
mezzo secolo si fa carico puntigliosamente di ristabilire la verità, di
confutare le mistificazioni, e di difendersi e reagire in ogni sede
(compresi i tribunali) alle demonizzazioni di cui lui e i suoi compagni sono
stati oggetto.
E' un lavoro di Sisifo, e ogni volta sembra che si deve ricominciare da
capo. Stavolta, la falsificazione proviene dal gran cerimoniere dei riti
televisivi, Bruno Vespa, che per qualche misteriosa ragione (o meglio: per
ragioni di cassetta e per ragioni di manipolazione ideologica) ha deciso di
improvvisarsi storico senza possedere neanche l'ombra dei requisiti minimi
del mestiere - ma, direi, senza possedere neanche l'ombra di quella
curiosità intellettuale e desiderio di verità che dovrebbe animare non solo
lo storico, ma almeno il giornalista serio. Quando Nicola Gallerano parlava
di «uso pubblico della storia» aveva in mente cose ben più serie che questi
bestseller di quart'ordine.
Un dialogo tra sordi
Così, nella sua Storia d'Italia da Mussolini a Berlusconi, Vespa
racconta per l'ennesima volta la vulgata antipartigiana su via Rasella senza
neanche prendersi la cura di informarsi sui fatti e di leggere la
bibliografia aggiornata. Perciò, ai vari errori sulla ricostruzione
dell'evento aggiunge la ripetizione della solita accusa a Bentivegna e
compagni di non essersi presentati in risposta ai manifesti fatti affiggere
dai nazisti che li invitavano a farlo. E anche stavolta, Bentivegna prende
la penna in mano e, instancabile, cortese e chiarissimo, spiega, precisa,
rettifica come ha fatto centinaia di volte nella sua vita. Comincia un
carteggio, prima privato poi pubblico (anche sulle pagine dell'Unità)
che adesso Bentivegna, con il consenso del suo interlocutore, ha trasformato
in un libro: Via Rasella la storia mistificata. Carteggio con Bruno Vespa
(manifestolibri, pp. 116, 15), con un'introduzione puntuta e puntuale di
Sergio Luzzatto, un'ennesima ricostruzione fattuale di che cosa veramente
successe e poi, irritante e soffocante, il dialogo mancato fra Bentivegna
che spiega e Vespa che fa finta di non capire. O forse non fa finta per
niente.
Sono anni che mi occupo di via Rasella e delle Fosse Ardeatine, e ogni volta
mi trovo davanti allo stesso meccanismo. E' un po' come la storia del lupo e
dell'agnello: c'è una conclusione precostituita e, se un argomento per
sostenerla viene meno («mi intorbidi l'acqua») se ne inventa un altro, più
specioso ancora («hai parlato male di me») e poi un altro e un altro e un
altro, all'infinito. Lo stesso vale per via Rasella, anche nel caso di
Vespa: costretto ad ammettere che i manifesti non ci furono, si inventa che
però i partigiani dovevano sapere che ci sarebbe stata la rappresaglia
perché i nazisti avevano preavvertito (e non è vero neanche questo, e
risulta dalle parole dello stesso Kappler), poi che i poveri poliziotti in
uniforme nazista erano in realtà degli italiani padri di famiglia (come se
vestire l'uniforme di un esercito occupante non fosse un'aggravante, per un
italiano; e come se l'età media dei poliziotti del Bozen non fosse in realtà
di 33 anni) e via arrampicandosi sugli specchi pur di non rinunciare
all'unica cosa che gli interessa: negare il significato dell'azione
partigiana e con essa di tutta la Resistenza. Per questo ha ragione Luzzatto
quando parla di «dialogo fra sordi». In realtà, Bentivegna ascolta e
replica, ma dall'altra parte c'è un sordo che non vuole sentire.
Qui infatti non si tratta solo di banale revisionismo, ma dell'idea di una
continuità storica in nome dell'«odio» e della «guerra civile» che accomuna
le leggi razziste, la guerra partigiana, gli anni di piombo e l'opposizione
a Berlusconi dentro un unico paradigma: sia i partigiani che attaccavano
militarmente i nazisti sia il centrosinistra che attacca politicamente
Berlusconi sarebbero mossi dagli stessi impulsi. Chiaro che in questa
continuità la Resistenza è una spezzatura: infangare la Resistenza, dunque,
non serve solo a erodere ulteriormente l'eredità dell'antifascismo ma
soprattutto a fare dell'opposizione a Berlusconi l'espressione di atavismi
profondi e irrazionali, il «fiume carsico» (scrive Vespa) di una guerra
civile ora esplosiva, ora strisciante. Come fa notare Luzzatto
nell'introduzione, elencando i titoli delle annuali strenne di Vespa: «presi
uno per uno, i titoli dei libri di Vespa scandiscono ogni volta un presunto
momento epocale, quando non suggeriscono un'emergenza nazionale o
addirittura una crisi rivoluzionaria. Presi in serie, viceversa, essi
alludono alla consolante evidenza per cui tutto cambia, più tutto è la
stessa cosa...»
Alla fine, Vespa non sa più che pesci prendere, e si limita a ripetere che
«l'attentato di via Rasella è un gravissimo errore». La risposta finale di
Bentivegna è tagliente: «Credo nella sua buonafede - concede - ma il
problema dei problemi è che lei ha dato una versione non corretta dei fatti,
condita di insinuazioni e ambiguità, perché aveva orecchiato le consuete
mistificazioni e le ha riportate senza la necessaria verifica».
Intelligentemente, Bentivegna non si limita a rettificare la versione con
corretta dei fatti, ma smaschera anche l'uso non corretto, strisciante, del
linguaggio: contesta il termine «rappresaglia» applicato alle Fosse
Ardeatine (e ha ragione, tecnicamente e giuridicamente: secondo il tribunale
militare italiano, non si trattò di rappresaglia bensì dio «omicidio
continuato»), coglie le implicazioni retoriche di espressioni come il
«gesto» che gli viene attribuito, come se non si fosse trattato di un'azione
di guerra ma dell'alzata di capo di un isolato irresponsabile, smaschera il
presupposto implicito secondo cui avrebbe dovuto «pentirsi» di quello che
aveva fatto. E d'altra parte, l'intera modalità comunicativa di Vespa, dal
linguaggio del corpo in Tv alla retorica dei suoi libri, reca nel degrado
del linguaggio il segno del danno profondo che arreca alla nostra cultura.
In questo senso, il lavoro di Bentivegna non è solo l'ennesima doverosa
puntualizzazione storica, ma anche un atto importante di resistenza, sia
pure con la minuscola, allo strapotere egemonico del discorso televisivo: i
libri di Vespa sono vangelo non perché siano attendibili ma perché il loro
autore sta in Tv. Qualche tempo fa, sulla metropolitana di Roma, c'era una
ragazza sprofondata nella lettura di uno dei tomi di Vespa, con tanto di
evidenziatore. Non sono riuscito a capire se quello che sottolineava fossero
gli sfondoni del libro, o quelle che lei scambiava per storiche verità o
perle di saggezza. Temo che sia buona la seconda.
Pagine responsabili
Il libro di Vespa sulla metropolitana è l'aggiornamento dei canali
attraverso cui si è formato il senso comune antipartigiano su via Rasella:
riviste da parrucchiere, pamphlet fascisti, dicerie incontrollate. Tutti
canali troppo a lungo considerati al disotto dell'attenzione degli storici
seri, e persino della politica seria; per questo, hanno potuto continuare a
diffondersi per decenni, navigando sotto il radar della vigilanza culturale
e del dibattito storiografico. Temo che Vespa sia la stessa cosa: troppo
poco serio perché gli storici seri si prendano la briga di smontarlo
pubblicamente come sarebbe loro dovere. Anzi, persino rispettabili
istituzioni romane hanno ritenuto opportuno allestire presentazioni e
dibattiti, come se questi libri fossero una cosa seria.
Per fortuna ci sono persone come Rosario Bentivegna. E per fortuna questo
suo libro è accompagnato, stavolta, dall'intervento di uno storico serio che
prende atto del rischio di una memoria storica affidata agli ignoranti e ai
manipolatori. Quella fra Vespa e Bentivegna non è una battaglia ad armi
pari, dato lo strapotere mediatico dell'uno e la sostanziale solitudine
dell'altro. Sarebbe il caso di dare una mano a Bentivegna, perché qui non è
in gioco solo la sua personale responsabilità, né la moralità della
resistenza, ma proprio la nostra capacità di rapportarci criticamente alla
storia e di usare responsabilmente il linguaggio. Scrive Luzzatto: «Lo scopo
del gioco (di Vespa, ma - aggiungerei io, di tutto quello che lui
rappresenta, n.d.r.) è la banalizzazione retrospettiva dei valori
e dei disvalori, dei meriti e delle bassezze, delle ragioni e dei torti. La
durata del gioco resta da determinare; ma finché uomini come Rosario
Bentivegna conserveranno la forza per opporvisi, uomini come Bruno Vespa
faranno bene a non sentirsi la vittoria in tasca».
SCUOLA
50 mila firme per abrogare la riforma Moratti
BRUNO MORETTO*
La proposta di legge popolare per una buona scuola della
Repubblica ha raggiunto le 50.000 firme necessarie alla presentazione. Dalla
proposta l'esigenza di una nuova stagione per la scuola pubblica. Io credo
che il prossimo Governo funzionerà se si libererà dalla sindrome Berlusconi,
se riuscirà ad esercitare il suo ruolo e se avrà dietro di sé il consenso e
lo stimolo della società reale, dei cittadini che vivono ogni giorno le
contraddizioni del presente.
Le preferenze di voto risentono di una molteplicità di influssi, la recente
campagna elettorale è stata certamente condizionata da quelli ideologici. La
scuola è una delle questioni che può fare uscire il prossimo Governo dalle
secche della contrapposizione degli apparati di potere.
Le riforme Moratti hanno visto svilupparsi un'ampia opposizione sociale
sicuramente maggioritaria nel paese. La sirena delle tre I si è scontrata
con la realtà del calo delle risorse e della decadenza della scuola
pubblica. Gli ultimi 5 anni sono stati devastanti: gli interventi del
precedente Governo hanno avuto come risultato quello di ridimensionare il
compito che la Costituzione assegna alla scuola statale di formare le nuove
generazioni in un luogo formativo laico e pluralista.
La politica indiscriminata di tagli alla scuola pubblica statale e l'aumento
dei finanziamenti alla scuola privata, l'introduzione di una riforma che
tende a ridurre l'istituzione scuola ad un servizio minimo di diretta
emanazione famigliare, hanno messo in gravi difficoltà le scuole e le
famiglie.
Genitori, insegnanti e studenti hanno manifestato in piazza e resistito
dentro le scuole. Ma hanno fatto molto di più: in questi mesi si è
sviluppata una proposta di riforma che ha lo scopo di rilanciare la scuola
statale come motore dello sviluppo sociale del paese. Sono sorti in tutta
Italia oltre 80 Comitati promotori di una legge di iniziativa popolare per
una buona scuola per la Repubblica. Tale legge si propone i seguenti
obiettivi: prima di tutto abrogare la controriforma Moratti per rimettere al
centro del sistema scolastico la scuola della Repubblica, statale, laica e
pluralista, con l'obbligo scolastico a 18 anni, con non più di 22 alunni per
classe, basata sull'integrazione e educazione interculturale, su programmi
moderni e condivisi, sull'unicità e pari dignità delle funzione docente,
sulla partecipazione alla gestione della scuola, sull'autovalutazione.
Perno della legge è il rispetto dell'art. 33 che vieta il finanziamento
pubblico alle scuole private onde garantire alla scuola statale risorse
certe e adeguate pari al 6% del Pil. La legge, inoltre, si propone di
garantire nidi d'infanzia e scuola dell'infanzia statale per tutti con
l'ultimo anno obbligatorio, il soddisfacimento delle richieste di tempo
pieno elementare con due insegnanti contitolari, il tempo prolungato nella
scuola media, un biennio superiore unitario con un triennio di indirizzo e
attività di laboratorio in tutte le discipline.
Solo una scuola riformata, che sappia tenere uniti il sapere e il saper fare
può affrontare il problema della dispersione scolastica che pone l'Italia
agli ultimi posti fra i paesi sviluppati per numero di diplomati e risultati
del processo di apprendimento.
E' quindi fondamentale l'abrogazione della legge 53 e l'avvio di una nuova
stagione di risorse condivise.
I Comitati promotori hanno già raccolto in un mese e mezzo le 50.000 firme
necessarie per presentare la proposta di legge, di cui oltre 10.000 a
Bologna.
Ma non si fermeranno consapevoli che solo la dimostrazione della grande
partecipazione e attenzione che hanno i cittadini per il futuro di una
scuola pubblica per tutti e di tutti può invertire la tendenza che si è
evidenziata negli ultimi 10 anni.
Il mondo della scuola ha preso in mano il suo futuro e non delegherà più a
nessuno il potere di intervenire dall'alto.
Sta nelle potenzialità di questo movimento superare le 100.000 firme. Il
movimento si aspetta molto dal nuovo Governo nazionale. Per esempio che si
volti pagina e che si rimetta al centro dell'azione pubblica i diritti dei
cittadini ad avere la disponibilità di una scuola statale di qualità, laica
e pluralista, basata sulla libertà di insegnamento, diffusa ed omogenea su
tutto il territorio nazionale.
Solo una scuola con queste caratteristiche potrà sviluppare una politica di
reale integrazione della nuova immigrazione, solo la scuola della Repubblica
potrà impedire lo sviluppo dei ghetti e delle barriere culturali fra i
cittadini.
Solo la scuola pubblica statale reinvestita del compito costituzionale di
formare le nuove generazioni perché siano in grado di diventare cittadini
consapevoli della società globale della conoscenza potrà permettere al
nostro paese di mantenere il ruolo che compete alla nostra storia e alla
nostra tradizione culturale.
*(segretario del Comitato bolognese Scuola e Costituzione)
Ilva di Taranto, morte infinita
Dopo l'operaio ucciso dalle
esalazioni, tre ustionati. Appello Fiom: «La Regione ci aiuti»
ANTONIO MASSARI
Un morto e tre feriti in una settimana. Più che una
fabbrica, l'Ilva di Taranto sembra un campo di battaglia. E i bollettini
medici sembrano quelli di una guerra permanente tra operai macchine e
azienda. A poche ore dalla morte di Antonio Mingolla, un operaio 47enne di
Mesagne, venerdì scorso tre lavoratori sono stati investiti da una fiammata
mentre curavano la manutenzione di una macchina. Un corto circuito che
poteva essere evitato. «Sulla macchina c'era ancora la tensione elettrica»,
denuncia Francesco Fiusco, responsabile Fiom. «Quando si interviene per la
manutenzione, infatti, la macchina va sezionata, in altri termini bisogna
togliere la tensione, proprio per evitare ciò che s'è realizzato, cioè il
corto circuito. La responsabilità dell'Ilva, in questo caso, mi sembra
evidente».
Dopo gli ultimi incidenti la Fiom ha deciso di continuare la sua battaglia:
«Convocheremo al più presto tutte le rsu per un'iniziativa sulla sicurezza»,
continua Fiusco, «e non ci riferiamo solo agli interni, ma anche a tutti gli
operai che lavorano nelle aziende in appalto. Poi decideremo se e quando
proseguire con gli scioperi». All'ultimo, organizzato la scorsa settimana e
durato ben 32 ore, ha aderito l'80% dei dipendenti. E' stata la prima,
immediata risposta alla morte di Antonio Mingolla, ucciso sul posto di
lavoro da una esalazione di gas. Asfissia da ossido di carbonio: questa la
diagnosi certificata dai medici legali dopo l'autopsia. L'operaio stava
effettuando la manutenzione su una condotta di gas che confluisce
nell'altoforno. Gli interrogativi, sui quali la magistratura tarantina dovrà
far luce, poiché è stata aperta un'inchiesta contro ignoti per omicidio
colposo, sono molti. Innanzitutto si dovrà verificare se Mingolla indossava
la mascherina di protezione, in secondo luogo se le misure di sicurezza
erano effettivamente operative e, infine, se non si sia verificata una
perdita di gas. «La magistratura dovrà fare chiarezza: c'è da capire come e
perché sia stato intossicato da questo gas, che peraltro è inodore.
Purtroppo bisogna ammettere che da noi la questione sicurezza è drammatica».
La Fiom punta il dito sui ritmi di produzione, ormai sempre più elevati, e
ricorda che non è facile reagire ai diktat dell'Ilva: «L'estate scorsa nove
lavoratori sono stati sospesi dall'azienda. Il motivo? Avevano scioperato
per questioni di sicurezza. Purtroppo dobbiamo prendere atto che l'Ilva,
invece di aprire e migliorare le relazioni con i sindacati, riduce
l'agibilità dei loro rappresentanti. L'Ilva mette in discussione gli accordi
presi, riducendo i diritti al minimo, e questo è un problema gravissimo: da
noi esistono 18 mila operai, dei quali ben 5 mila lavorano in appalto».
Per questo, sottolinea la Fiom, tutti devono fare il possibile perché
nell'Ilva la sicurezza diventi un fatto concreto. «Tutti devono impegnarsi
per frenare questa recrudescenza», prosegue Fiusco, «e mi riferisco
innanzitutto alla politica. La Regione, sulla sicurezza, ci può aiutare. Può
organizzare corsi, per esempio, e intervenire perché nasca un centro reale,
effettivo e rafforzato, per la prevenzione e la sicurezza dei lavoratori».
E contro l'Ilva, in questi giorni, si è schierata anche la Asl di Taranto:
«Nonostante esista il 118 - ha dichiarato il direttore generale Marco Urago
- l'Ilva non lo utilizza. Nel caso della morte dell'operaio, l'Ilva non ci
ha chiamati». Un'accusa pesantissima. «Se si muore o si registrano incidenti
gravi è perché non si è fatto molto per garantire la sicurezza - conclude
Mimmo Pantaleo, segretario regionale della Cgil - Bisogna innanzitutto "esternalizzare"
il problema: l'intera comunità pugliese prenda coscienza della necessità di
imporre alla famiglia Riva, proprietaria degli stabilimenti, di collaborare
sulla sicurezza. In secondo luogo dobbiamo aprire una grande vertenza
all'interno dell'azienda, che chiami in causa le responsabilità dei
proprietari: devono interloquire con le Asl, per esempio, in un'ottica di
prevenzione e cooperazione con i soggetti preposti alla sicurezza, come il
118, che in questo caso non è stato chiamato. Infine chiediamo al presidente
della Regione Vendola, che sta vagliando il piano industriale dell'Ilva, di
insistere nei rilievi che ha già fatto. Deve far comprendere a Riva che non
è il padrone assoluto della vita degli operai».
23
aprile
Nepal, incidenti
e scontri a fuoco. Tre vittime, centinaia di feriti
Il cronista racconta come è riuscito a salvarsi la vita
Con gli studenti di Katmandu
nella trappola dei soldati del Re
Sorrisi, slogan, bambini e donne in piazza: poi i lacrimogeni
Attacco alla folla studiato: le parole del sovrano non erano sincere
di RAIMONDO BULTRINI
Nepal, poliziotti con i
bastoni contro i manifestanti
KATMANDU - E' stata una trappola, una cinica tattica
anti-sommossa studiata a tavolino. I soldati del re messi alle corde
da manifestazioni di 200-300mila persone che chiedono il ripristino
della democrazia in Nepal ieri hanno cercato in tutti i modi il
massacro esemplare. Ne sono stato direttamente testimone e vittima
fortunata nel cuore storico della città, incastrato in un inferno di
corpi ammassati uno sull'altro dai quali sono riemerso al limite del
soffocamento. Altri hanno avuto costole, arti fratturati, e almeno
due sono morti a due passi da noi, schiacciati dalla folla che
cercava di sfuggire ai lacrimogeni e alle cariche della polizia.
Era il diciassettesimo giorno di sciopero generale, cominciato con
una serie di blocchi stradali lungo l'anello anulare che circonda il
centro della capitale Katmandu. Fin dalle nove di mattina giovani
dall'aspetto esaltato stavano bruciando copertoni di auto e
abbattendo a colpi di accetta decine di alberi alti fino a venti
metri per bloccare i veicoli della polizia e dell'esercito lungo la
delicata arteria che per diversi giorni ha costituito il perimetro
off limits del coprifuoco, oltre il quale non era permesso a nessun
corteo di entrare in città.
Ieri mattina era una data speciale, all'indomani del discorso di re
Gyanendra Shah che venerdì ha offerto di "rimettere al popolo " il
potere di primo ministro avocato un anno fa e richiesto ai sette
partiti costituzionali di indicare un nome per la poltrona di
premier. Ma il passo del re, applaudito da quasi tutti i paesi
stranieri inclusa l'Unione europea, invece di placare gli animi li
ha galvanizzati ancora di più. "Oggi arriveremo direttamente al
Palazzo del despota", ci aveva detto uno dei ragazzi che gridavano a
squarciagola ordini e slogan sempre più espliciti in favore
dell'abolizione della monarchia.
Mentre i giovani si preparavano al D-Day, determinati a sfidare in
massa l'ennesimo coprifuoco proclamato attorno a mezzogiorno, in
altre zone della città i sette partiti che formano la coalizione
chiamata Spa si riunivano prima da soli, poi tutti insieme nella
casa di uno degli ex primi ministri che guidano le rivolte,
l'ottantenne Girija Prasad Koirala. Come previsto i politici
estromessi da re Gyanendra già quattro anni fa con la dissoluzione
del Parlamento hanno rifiutato l'offerta del re. "Non corrisponde
alle aspettative e ai programmi del movimento per la democrazia",
hanno detto i sette alleati che vanno dai moderati del Nepali
Congress all'ala estrema del Partito marxista con l'appoggio dei
guerriglieri maoisti. Tutti sono stati d'accordo nel non cedere di
un millimetro dalle loro richieste: ricostituire il Parlamento
sciolto d'imperio dal re nel 2002, formare un governo provvisorio
dei partiti incaricato di trattare il futuro ingresso dei maoisti e
gestire le elezioni per un'Assemblea costituente che dovrà
riscrivere la costituzione, compreso il delicato passaggio sui
poteri reali, considerati "eccessivi " e ormai anacronistici.
Per timore di ritrovarsi con una corona simbolica in testa il
sovrano - salito al potere dopo l'ancora misterioso massacro della
famiglia di suo fratello - ha affidato all'esercito carta bianca per
sparare contro i dimostranti, lasciando sul selciato almeno 14
vittime in pochi giorni. Ma venerdì prima del suo discorso non
c'erano state sparatorie, e centinaia di migliaia di persone, oltre
il 70 per cento dei quali studenti e giovani lavoratori, avevano
superato i cordoni di polizia avvicinandosi alla città senza troppi
problemi. Per questo i ragazzi sull'anello anulare erano determinati
a raggiungere per la prima volta il cuore storico della città,
convinti che la sfida sarebbe stata facilmente vinta.
Quello che segue è il racconto di come abbiamo personalmente
constatato che si trattava di una pericolosa e drammatica illusione.
All'inizio del coprifuoco di mezzogiorno, annunciato come sempre
all'ultimo momento su tv e radio, eravamo determinati a restare in
albergo come gran parte dei turisti e dei trekker che ancora
continuano ad affollare pensioni e hotel della capitale. Ma il
clamore del corteo che stava attraversando le strade di Tamel
sembrava dimostrare che i ragazzi della Ring road avevano avuto
ragione. Nessuno li aveva fermati, e ora per la prima volta
dall'inizio dello sciopero generale il 6 aprile sciamavano tra
vicoli e piazzette intasati d'immondizia non raccolta da giorni, tra
ali di persone raccolte nelle strade laterali o dentro le centinaia
di negozi con le porte socchiuse che applaudivano al loro passaggio,
oppure offrivano frittelle e dolci, mentre dalle finestre in segno
di augurio venivano lanciati secchi d'acqua sui dimostranti.
Lungo il percorso in direzione di Durban Square - dov'è la sede
simbolica della dinastia Malla e Shah, alla quale appartiene
l'attuale regnante - i manifestanti invitavano la gente a unirsi e
molti hanno ingrossato le fila del corteo. L'aspetto pacifico della
manifestazione, i canti e le danze, la felicità e la solidarietà
della popolazione quasi intera ci aveva convinto che gli
organizzatori del corteo potessero avere avuto ragione a non temere
rappresaglie. Ovunque gli slogan contro il re e a favore della
democrazia risuonavano gridati addirittura da bambini di nove, dieci
anni, tra i quali parecchi "street boys", centinaia di senza
famiglia che sono cresciuti nei vicoli di Katmandu senza educazione
e senza la garanzia di un pasto quotidiano, sniffando colla e
rubacchiando qua e là per sopravvivere. Ma c'erano anche donne,
madri di famiglia, insegnanti, oltre a qualche anziano, a
commercianti, perfino impiegati dello Stato.
Nei templi disseminati quasi a ogni angolo del centro storico
considerato patrimonio dell'umanità, anche i devoti hindu e i
bramini interrompevano le loro preghiere per salutare il corteo
festante. La prima avvisaglia che non sarebbe andato tutto liscio
c'è stata quasi subito, con un repentino dietro front di alcune
dozzine di dimostranti davanti alla prima pattuglia dell'esercito in
tenuta anti-sommossa. Ma presto il flusso è ripreso e i soldati sono
rimasti coi fucili puntati a terra e gli sguardi assenti mentre
qualche coraggioso o incosciente li invitava a unirsi al corteo
contro il re.
Più avanti il primo vero blocco, formato da non più di una decina di
soldati che hanno impedito al corteo di raggiungere direttamente
Durga Square, dove oltre al palazzo dei Malla c'è la residenza della
Kumari, una bambina di dieci anni che incarna una venerata divinità
femminile fino a quando non avrà le prime mestruazioni e sarà
sostituita da un'altra. I soldati deviavano gentilmente il corteo
sorridendo e scherzando con qualcuno dei manifestanti. Anche noi ci
siamo infilati così nel reticolo di strade strette che attraversano
i magnifici palazzi dell'antica Katmandu.
L'ultimo tratto in direzione di Indra Chowk è lungo parecchie
centinaia di metri e largo meno di dieci. La folla aveva raggiunto
quasi il massimo della capienza e l'incombere dei palazzi senza una
traversa laterale e con tutti i negozi sbarrati sembrava un luogo
ideale per una trappola. Nemmeno il tempo di pensarlo, dal fondo
della strada il rumore e il fumo dei lacrimogeni gettava nel panico
tutti i manifestanti quasi stipati l'uno di fianco all'altro. Tutti
si sono messi a correre nella direzione contraria e, con un tempismo
che non può essere stato casuale, altri soldati hanno sparato
lacrimogeni all'imbocco opposto della strada rendendo l'aria
asfittica e la via di fuga bloccata.
Presto a decine gli indecisi sono caduti a terra travolti dai
fuggitivi e siamo inciampati anche noi finché una massa enorme di
corpi non si è accumulata in uno stesso tratto. Mentre ognuno
cercava una via di fuga e di salvezza ci siamo trovati con gli arti
incastrati e la pressione dei disperati dietro a noi sempre più
forte, più asfissiante del fumo dei lacrimogeni. Un momento durato
un tempo incalcolabile, immobilizzati e al limite del soffocamento,
mentre sotto di noi altri corpi sembravano giacere inerti sul
selciato protetti da qualche parente o amico che cercava di impedire
che venissero calpestati.
Quando la pressione è finita due delle persone che si trovavano
sotto al nostro fianco sono rimaste sul selciato immobili. Dopo
qualche inutile tentativo di rianimarli, qualcuno ha cominciato a
trascinarli per le braccia e rivoltare i loro volti terrei. Quando
l'esercito ci ha costretto ad allontanarci la folla copriva i due
corpi e non abbiamo saputo più nulla della loro sorte.
Tornati in albergo le notizie della tv e dei giornali nepalesi
online non riportavano nulla dell'incidente, che ha sicuramente
coinvolto altre centinaia di persone. Solo a sera un bollettino
semi-ufficiale degli ospedali parlava di oltre 300 feriti, colpiti
dai manganelli e dai proiettili oppure fratturati durante le
drammatiche fughe dai lacrimogeni e dalle cariche. Un medico portava
la cifra dei feriti ad oltre 500, ma questa notizia, come la voce
diffusa al termine dei cortei di tre morti tra i quali un bambino
lungo l'anello circolare, non ha trovato conferme ufficiali. Del
resto nemmeno la quasi certa morte dei due nepalesi che abbiamo
visto soffocare al nostro fianco troverà forse mai spazio nelle
cronache di questa rivoluzione che sembra avere preso la mano degli
stessi ideatori.
Ma la nostra testimonianza non è altro che un
tassello delle centinaia di denunce delle organizzazioni per i
diritti umani che parlano di corpi fatti sparire anche in questi
ultimi giorni di proteste. Nelle rivolte del '90 contro la dittatura
del precedente re furono del resto interrati in una fossa comune
centinaia di corpi. Il bilancio ufficiale è sempre rimasto però di
tre vittime.
21
aprile
Duro attacco del
quotidiano londinese al leader della Cdl
"E' un cattivo perdente, vuole destabilizzare Prodi"
Financial Times contro il Cavaliere
"Berlusconi ammetta la sconfitta"
Silvio Berlusconi
LONDRA - "Berlusconi è un cattivo perdente che tiene il
broncio e che per il bene dell'Italia dovrebbe ammettere la
sconfitta elettorale". E' severo il giudizio del Financial Times,
prestigioso quotidiano della city londinese, sull'atteggiamento del
leader del centrodestra in questa fase post elettorale. Un lungo
editoriale per criticare l'ostentazione con cui il Cavaliere si
rifiuta di riconoscere la vittoria del centrosinistra. "Bisogna
saper perdere con eleganza - si legge - Berlusconi a dispetto della
decisione della Cassazione", che ha confermato la vittoria della
coalizione di centrosinistra, "rifiuta ancora di ammettere la
sconfitta", come se alimentando dubbi intendesse "destabilizzare la
coalizione di Prodi sin dall'inizio, e così abbreviarne la durata.
Se così fosse starebbe dando prova di un disprezzo arrogante per il
verdetto delle urne".
Berlusconi, si legge ancora nell'editoriale, "sta alimentando le
preoccupazioni internazionali sulla stabilità politica dell'Italia".
E, "come ha già fatto in passato, sembra porre" gli interessi
personali "davanti a quelli del suo paese". Il Financial Times
sostiene inoltre che Berlusconi, "mettendo in dubbio il risultato",
mina il sistema stesso.
Infine l'editoriale sottolinea che quanto fatto dal governo
Berlusconi "lascia molto a desiderare" e ricorda come le difficoltà
ereditate da Prodi, leader di una coalizione di nove partiti,
rendano il suo compito di premier ancora "più scoraggiante". Anche
se proprio Prodi già in passato "ha tenuto insieme un governo di
anime diverse" ottenendo comunque l'entrata dell'Italia nell'euro".
Dunque, conclude il quotidiano della city, spetta a Prodi
"dimostrare che la sua è la voce dell'esperienza disinteressata, in
contrasto con la presa di posizione partigiana di Berlusconi".
Droghe, la Toscana si appella
Primi ricorsi alla Consulta contro la
legge Fini. Analoga inziativa dell'Emilia Romagna
C. L.
ROMA
Fermate quella legge. I primi ricorsi contro le nuove norme
Fini sulle droghe cominciano in questi giorni ad arrivare alla Consulta, alla
quale si chiede di stabilire l'eventuale incostituzionalità del testo approvato
in fretta e furia dal parlamento negli ultimi sgoccioli di legislatura. La prima
ad avanzare dubbi sulla legittimità del provvedimento che azzera ogni
distinzione tra droghe leggere e pesanti è stata, il 10 aprile scorso, la
regione Emilia Romagna ma, vista la coincidenza con le elezioni, per evitare
polemiche l'iniziativa non è stata pubblicizzata più di tanto. Ieri ad
appellarsi alla Consulta è stata invece la Giunta regionale della Toscana.
In attesa che il nuovo governo dell'Unione mantenga la promessa fatta agli
elettori di cancellare la legge che punisce soprattutto chi fuma spinelli, è
cominciata dunque la battaglia dei ricorsi. Quello presentato dalla Toscana
prende di mira in particolare tre punti della legge che contrasterebbero con la
Costituzione. Il primo riguarda la mancata consultazione delle Regioni da parte
del governo. Come si ricorderà, nella fretta di farlo approvare, la maggioranza
inserì il provvedimento in un decreto omnibus riguardante, tra l'altro, la
sicurezza delle Olimpiadi invernali di Torino. Una decisione che impedì al
parlamento di discutere la legge, già sottratta in precedenza a un esame delle
Regioni. «Lo Stato avrebbe dovuto acquisire obbligatoriamente l'intesa con le
Regioni», spiega invece il ricorso presentato dalla Toscana, almeno per quanto
riguarda la definizione dei Lea, i Livelli essenziali di assistenza, a cui si fa
riferimento nella nuova normativa. Questo invece non solo non è stato fatto,
denuncia sempre la Toscana, ma le nuove norme «interferiscono con materie
regionali e, segnatamente, con la materia della tutela della salute». Perdipiù
la mancata consultazione lede, si legge nel ricorso, il principio di «leale
collaborazione» che dovrebbe essere alla base del rapporto tra i vari livelli
dell'organizzazione statale.
Il secondo punto di cui si mette in dubbio la costituzionalità riguarda invece
l'equiparazione tra strutture pubbliche e private, a tutto vantaggio di quest'ultime
visto che la nuova legge assegna loro compiti che in precedenza erano di
competenza dei Sert. Tra questi la possibilità di poter accedere direttamente in
un struttura privata autorizzata e accredita senza che ci sia più il filtro di
un medico del servizio sanitario nazionale. I privati, inoltre, vengono
abilitati alla diagnosi dello stato di tossicodipendenza e alla definizione di
programmi riabilitativi senza alcun controllo da parte delle Asl. Tutte
opportunità, spiega il ricorso, che comportano «una palese violazione
dell'autonomia di spesa delle Regioni» che in questo modo si vedono da una parte
comprimere l'attività normativa e di programmazione per quanto riguarda
prevenzione, cura e riabilitazione delle tossicodipendenze, e dall'altra devono
pagare le spese di prestazioni decise dalle strutture private senza alcun filtro
né controllo da parte delle Asl. Una «subordinazione» vista anche nel terzo
punto preso in considerazione, e che prevede che la certificazione per ottenere
la sospensione dell'esecuzione della pena e l'affidamento in prova al servizio
sociale possa essere rilasciata anche dalle strutture private accreditate e non
esclusivamente dai Sert, come previsto finora.
D'accordo con il ricorso presentato dalla Toscana si è detto anche il
governatore dell'Emilia Romagna Vasco Errani che contesta la mancata
consultazione delle regioni da parte del governo. Già in passato, ricorda Errani,
la Consulta ha stabilito che «i livelli essenziali di assistenza sono
determinati di intesa tra regioni e governo e qui, in un altro contesto, ci
troviamo di fronte a una vera iniziativa unilaterale del governo». Consensi
anche da parte di Giuseppe Bortone, responsabile tossicodipendenze della Cgil,
per il quale con la legge Fini «non si vogliono riconoscere alle regioni le loro
competenze così come non si sono voluti ascoltare gli operatori, le forze
sociali e le associazioni di consumatori di sostanze sui temi della cura, della
prevenzione e dell'informazione: i risultati sono stati disastrosi - conclude
Bortone - ed è urgente e possibile a questo punto che si cominci a percorrere
una strada diversa».
Il risultato principale
che emerge dalle ultime elezioni politiche è la sostanziale parità dei due
schieramenti. In controtendenza, come è stato fatto notare, l'esito delle
votazioni degli italiani residenti all'estero che ha decretato una netta
vittoria del centro sinistra a discapito della Casa delle Libertà. Se ci
dovessimo chiedere quali potrebbero essere le ragioni dietro un risultato
così anomalo (se paragonato a quello nazionale) probabilmente dovremmo
prendere in considerazione una serie di fattori che non potrebbero
prescindere dalla storia individuale di ciascun paese ospite, dai flussi
immigratori recenti o passati e da considerazioni di carattere sociologico
proprie di ciascuna comunità italiana all'estero: un lavoro decisamente
impegnativo. Nell'immediato mi sembra di poter individuare tra i fattori che
contribuiscono a spiegare il diverso esito elettorale, il grado di libertà
d'informazione del paese ospitante. Passando in rassegna i dati
(praticamente definitivi) forniti dal Ministero degli Interni sembra infatti
potersi stabilire una correlazione tra il grado di libertà di espressione
(fa riferimento il rapporto 2005 di Reporter Sans Frontieres) dello stato
estero ospitante e le preferenze di voto emerse. Pur con le dovute eccezioni
si nota una generale tendenza che porta gli italiani residenti in paesi con
un elevato grado di libertà d'informazione a orientare la loro preferenza
verso lo schieramento di sinistra piuttosto che verso la destra. La tendenza
sembra gradualmente invertirsi allo scemare del grado di libertà
d'informazione del paese ospite.
EUROPA (totale voti 525.730)
In Europa l'Unione ha ottenuto il 52,871% a cui si deve aggiungere il
5,213% dell'Italia dei Valori e il 0,723% dell'UDEUR per un totale di
58,807%. I votanti risultano frammentati tra diversi paesi europei anche se,
nell'ordine, Svizzera, Germania, Francia, Belgio, Regno Unito, Spagna ne
raccolgono il maggior numero. Da notare che in alcuni paesi si sono avuti un
numero di voti nell'ordine della decina o di poche centinaia, pertanto non
li prenderò in considerazione sia per il limitato peso nell'assegnazione
finale dei seggi sia per l'esiguità del campione che non consente di trarre
conclusioni convincenti. Il limite (arbitrario) sarà fissato ad almeno 1000
voti. Tenendo presente che l'Italia si colloca al 42esimo posto della
classifica di Reporter Sans Frontieres ultima tra i paesi dell' Europa
Occidentale vediamo di passare in rassegna gli esiti delle votazioni
partendo dai paesi in cima alla classifica:
Posizione
nella Classifica
|
Paese
|
Votanti
|
Risultato
Centro Sinistra
|
1
|
Danimarca
|
1.160
|
67,586%
|
1
|
Irlanda
|
1.258
|
64,943%
|
1
|
Paesi Bassi
|
7.333
|
63,179%
|
1
|
Svizzera
|
163.379
|
62,227%
|
Tutti questi paesi sono
a pari merito in cima alla classifica con il massimo grado di libertà
d'informazione. Non ho preso in considerazione Norvegia che però sfiora i
mille voti (967 voti) in cui il centro sinistra esce vincitore ma con pochi
punti di vantaggio rispetto allo schieramento di destra. L'Islanda è stata
esclusa per lo scarso numero di votanti (21 appena) e delle Finlandia non
sono pervenuti i risultati. Scendendo nella classifica troviamo nell'ordine
i seguenti stati appartenenti alla circoscrizione Europa:
Posizione
nella Classifica
|
Paese
|
Votanti
|
Risultato
Centro Sinistra
|
9
|
Slovenia
|
1.032
|
71,994%
|
12
|
Svezia
|
1.899
|
69,14%
|
16
|
Austria
|
4.222
|
68,663%
|
18
|
Belgio
|
51.472
|
69,063%
|
18
|
Germania
|
135.443
|
50,198%
|
18
|
Grecia
|
3.785
|
65,15%
|
18
|
Regno Unito
|
38.585
|
48,263%
|
30
|
Francia
|
76.249
|
67,003%
|
40
|
Spagna
|
11.742
|
58.234%
|
Due sono forse i
risultati anomali o fuori dal coro: Germania e Regno Unito. In entrambi lo
schieramento di sinistra esce vincitore data la presenza di liste
indipendenti che sottraggono voti ad entrambe le due grandi coalizioni. In
Germania in centro destra totalizza il 44.599% mentre nel Regno Unito si
assesta al 45,211%. Nonostante la sconfitta i margini sono sensibilmente
ridotti rispetto alla tendenza generale e in particolare il Regno Unito
rappresenta un eccezione. Riguardo alla Spagna che si trova al quarantesimo
posto della classifica (2005) e precede di sole due posizioni l'Italia, va
fatto notare come tale posto (visti recenti sviluppi) non sia probabilmente
aderente alla realtà e non penso di sbagliarmi anticipando il miglioramento
di qualche posizione nel rapporto 2006. Per quanto riguarda stati con indice
di libertà di espressione inferiore a quello italiano, ne possiamo trovare
svariati nella sezione Europa ma solo tre, se non vado errato, superano i
1000 votanti. Nell'ordine Croazia, Serbia e Montenegro, Turchia. Ecco i
risultati per questi paesi:
Posizione
nella Classifica
|
Paese
|
Votanti
|
Risultato
Centro Sinistra
|
56
|
Croazia
|
4.130
|
47,481%
|
65
|
Serbia e
Montenegro
|
2.337
|
24,56%
|
98
|
Turchia
|
1.127
|
29,841%
|
Se in Croazia,
considerando le liste indipendenti non assimilabili a nessuno dei due
schieramenti, la destra si afferma con un 47.698% che mantiene il risultato
elettorale su un piano di sostanziale equilibrio non altrettanto si può dire
quando si scende ulteriormente nella scala della libertà d'informazione. In
Serbia e Montenegro Forza Italia da sola ha raccolto il 56,268% delle
preferenze. Notevole risultato anche in Turchia dove Forza Italia arriva al
54,835%. Nonostante il buon risultato della destra in Croazia, il vero
exploit non è tanto rappresentato da Forza Italia quanto dalla lista
Tremaglia che raggiunge un ragguardevole 26,319%. Pur con la dovuta cautela
va detto che in molti paesi il cui grado di libertà di informazione è
inferiore a quello italiano, la destra sembra raccogliere il maggior numero
di preferenze ma il numero di voti è inferiore al migliaio e il campione
risulta troppo ristretto per estrapolarne analisi, in generale, convincenti.
Tra questi paesi ricordo: Bulgaria (152 voti - 48 posto), Polonia (681 voti
- 53 posto), Albania (352 voti - 62 posto), Romania (783 voti - 70 posto).
AMERICA SETTENTRIONALE E CENTRALE (totale voti 87.291)
Il centro sinistra raccoglie il 38,897% delle preferenze e l'analisi del
voto risulta molto più semplice data la ridotta frammentazione dei voti: i
votanti negli Stati Uniti e nel Canada sono complessivamente 81.482:
praticamente la quasi totalità. Solo un altro paese supera di poco il
migliaio: la Repubblica Domenicana.
Posizione
nella Classifica
|
Paese
|
Votanti
|
Risultato
Centro Sinistra
|
21
|
Canada
|
35.576
|
48,122%
|
44
|
Stati Uniti
|
45.906
|
32,843%
|
51
|
Repubblica
Domenicana
|
1.270
|
24,251%
|
In Canada si registra
una sconfitta di misura della sinistra e una situazione di equilibrio:
48,122% per la sinistra contro un 48,962% per la destra. Scendendo nella
classifica, il centro destra si afferma chiaramente negli Stati Uniti e
nella Repubblica Domenicana. Anche in questo caso si nota come al diminuire
del grado di libertà d'informazione aumentino le preferenze per la destra.
AMERICA MERIDIONALE (voti 306.562) L'america meridionale presenta un quadro
abbastanza anomalo rispetto alle precedenti sezioni. L'Associazione Italiani
Sud America ha ottenuto il 33,526% delle preferenze risultando la prima
coalizione del Sud America. Questo ovviamente rende più difficile
l'interpretazione dei risultati spezzando il sostanziale bipolarismo
presente nelle altre sezioni. A questo si aggiungano alcune considerazioni
peculiari inerenti l'America Latina: gli italiani presenti nella zona sono
in prevalenza il risultato di flussi immigratori di un passato non più molto
recente e in quest'ottica il successo della lista indipendente
dell'Associazione Italiani Sud America potrebbe anche essere visto come il
desiderio di maggior considerazione da parte di un'Italia a volte troppo
assente e latitante, in particolare durante il periodo delle dittature che
tra gli anni '70 e '80 hanno insanguinato il paese. Il centro sinistra
ottiene complessivamente un 29,273% delle preferenze contro un 32,539% del
centro destra. Vediamo la ripartizione dei voti:
Posizione
nella Classifica
|
Paese
|
Votanti
|
Risultato
Centro Sinistra
|
Risultato
Centro Destra
|
46
|
Uruguay
|
29.129
|
27,141%
|
26.226%
|
50
|
Cile
|
5.260
|
24,908%
|
48,99%
|
59
|
Argentina
|
167.307
|
29,974%
|
32,028%
|
63
|
Brasile
|
62.599
|
30,383%
|
26.643%
|
69
|
Paraguay
|
1.300
|
12.922%
|
39,383%
|
87
|
Equador
|
1.500
|
42,266%
|
26.732%
|
90
|
Venezuela
|
24.903
|
30.818%
|
42.073%
|
116
|
Perù
|
7.271
|
11,978%
|
53.884%
|
128
|
Colombia
|
2.804
|
22.61%
|
35.892%
|
L'interpretazione dei
risultati lascia ancora intravedere un crescente grado di apprezzamento nei
confronti del centro destra allo scemare della libertà dei media ma la
tendenza non è così netta e inequivocabile come nelle precedenti sezioni.
L'unico minimo comune denominatore sembra essere l'ottimo risultato della
lista Associazione Italiani Sud America.
La Casa delle Libertà chiude con un buon risultato
complessivo ma risente di un certo squilibrio tra le preferenze accordate ai
partiti che la compongono. In Perù, pur risultando vincente, la lista
Tremaglia raccoglie il 35,414% contro circa la metà di Forza Italia. In
molti altri paesi (Argentina, Cile, Uruguay, ecc.) l'UDC di casini raccoglie
consensi abbondantemente sopra il 10% (il 16,064% in Cile) mentre in altri
si aggira attorno al 2-3%. In Argentina la destra esce vincitrice con un
paio di punti di vantaggio ma Forza Italia raccoglie un misero (e
decisamente sotto la media) 4,531%. Va considerato il fatto che in Argentina
la percentuale d'italiani è massiccia (con i suoi 167.307 voti supera la
metà del numero totali di votanti del Sud America) e integrata nel
territorio da lungo tempo. Durante gli anni della dittatura militare dei
generali, anche molti nostri connazionali furono vittime delle epurazioni e
il fatto che la loggia massonica P2 (di cui Berlusconi fece parte)
appoggiasse il regime argentino può forse spiegare questo risultato in
controtendenza.
ASIA-AFRICA-OCEANIA-ANTARTIDE (voti 55.401)
Il voto è frammentato tra i diversi paesi che compongono la sezione ma
solo quattro superano il migliaio di voti a l'Australia da sola raccoglie
più della metà dei voti totali. Il centro destra raccoglie il 52,474% delle
preferenze e supera di circa 5 punti il centro sinistra con il 47,526% dei
voti totali.
Posizione
nella Classifica
|
Paese
|
Votanti
|
Risultato
Centro Sinistra
|
31
|
Australia
|
30.918
|
56,035%
|
31
|
Sud Africa
|
6.366
|
19,195 %
|
47
|
Israele
|
1.388
|
30,907%
|
125
|
Afghanistan
|
1.546
|
16,235 %
|
157
|
Iraq
|
2.490
|
18,313%
|
159
|
Repubblica
Popolare Cinese
|
1.148
|
58,188%
|
Nonostante il numero di
voti rientri nei limiti fissati, eliminerei per diverse ragioni
l'Afghanistan, l'Iraq e
la Cina. Per quel che riguarda i primi due non mi risultano
significativi insediamenti italiani in questi due paesi e presumo che la
maggior parte dei voti in questione sia quella dei nostri militari presenti
sul territorio che verosimilmente non palano le lingue locali. La loro
preferenza di voto ci da un'idea della tendenza elettorale delle nostre
truppe all'estero ma non risulta il frutto dell'immagine del nostro paese
così come viene restituita dai media iracheni o afgani. Le nostre truppe non
seguono i notiziari o la stampa di questi due paesi e non dovrebbero perciò
esserne stati influenzati nel loro voto. Gli italiani in Cina, invece, non
sono il frutto di immigrazioni passate e la loro è una presenza recente sul
territorio, collegata all'altrettanto recente sviluppo economico. Anche in
questo caso il dato non mi sembra particolarmente significativo: è
verosimile che gli italiani in Cina abbiano conservato un forte cordone
ombelicale con l'Italia e in ogni caso mi pare improbabile che possano
essere influenzati, nel loro orientamento politico, dalle informazioni
inerenti il nostro paese filtrate dai media locali (complice anche il
linguaggio). Rimangono tre stati: L'Australia, Sud Africa e Israele. Il Sud
Africa in apparente controtendenza rispetto alla regolarità fin qui notata:
stesso grado di libertà dell'Australia ma netta preferenza allo schieramento
di destra. L'Australia è caratterizzata da una massiccia e storica presenza
di italiani sul territorio (il numero dei votanti parla chiaro) e questo si
potrebbe facilmente tradurre in una maggiore attenzione mediatica riservata
all'Italia. Il punto di vista degli italiani in Australia potrebbe quindi
essere stato in parte formato dai media locali più di quanto il punto di
vista degli italiani in Sud Africa sia stato modellato dai rispettivi media.
Ciononostante non mi sembra si possa trarre nessuna conclusione
significativa data l'esiguità dei dati disponibili. In particolare risulta
arduo capire se il Sud Africa possa costituire l'eccezione che conferma la
regola o un controesempio significativo alla medesima, almeno circoscritto a
questa sezione.
Note:
Tutti i dati sono stati raccolti dal sito del Ministero degli Interni (così
come pubblicati il 12/04/2006).
http://politiche.interno.it/politiche/
La classifica in base al grado di libertà d'informazione a cui si fa
riferimento è quella di Reporter Sans Frontieres pubblicata sul loro sito (www.rsf.org).
I dati presi in considerazione sono relativi alla sola elezione per la
camera dei deputati. In generale non ho trovato significative differenze con
gli analoghi risultati per il senato
13
Aprile
IL COMMENTO
Il veleno del caimano
di EDMONDO BERSELLI
Silvio Berlusconi
Ieri è tornato il Caimano. Il giorno prima era apparsa la
Salamandra, l'essere che passa indenne attraverso le fiamme. Domani
non si sa. Il premier Silvio Berlusconi è andato al Quirinale e ha
incontrato il presidente della Repubblica. Dopo le elezioni, e
soprattutto dopo un confronto elettorale condotto e finito allo
spasimo, non era un incontro di routine. Così come non era di
routine l'incontro che nella mattinata Carlo Azeglio Ciampi aveva
avuto con Romano Prodi, il capo dell'Unione e prossimo a ricevere
l'incarico di formare il nuovo governo.
Al termine della conversazione con il capo dello Stato, durata
un'ora e un quarto, Berlusconi ha realizzato uno dei suoi exploit
mediatico-populisti. Con un assolo formidabile, ha rivelato di avere
espresso al presidente della Repubblica i suoi dubbi sul risultato
elettorale. E ha denunciato che ci sarebbero un milione e centomila
schede sospette, che sono stati compiuti brogli "unidirezionali", e
che insomma il centrosinistra avrebbe rubato la sua strettissima
vittoria. Fuori dal Quirinale non ha espresso dubbi, bensì ha
manifestato certezze: "Il risultato cambierà", ha affermato, e ai
giornalisti ha mostrato il suo miglior sogghigno: "Credevate di
esservi liberati di me?".
Ciò che sta accadendo è grave. Il nostro paese non ha alle spalle
una storia politica basata sul furto di voti. Il ministro dll'Interno,
Giuseppe Pisanu, ha manifestato pubblicamente la sua soddisfazione
per il modo in cui si sono svolte le operazioni elettorali. Il capo
dello Stato si è compiaciuto per lo svolgimento "ordinato e
regolare" dell'esercizio democratico. Soltanto Berlusconi ha di
fatto impugnato l'esito del voto. Non si è preoccupato di mettere in
estrema difficoltà la massima carica dello Stato, resa partecipe di
un complotto mostruoso ordito dai nemici della libertà (e del
Cavaliere). Seppure appoggiato assai tiepidamente dai suoi alleati,
ha scatenato i suoi uomini in una battaglia virtuale che purtroppo
può avere pessime conseguenze reali.
Il milione e passa di schede della vergogna, evocate dalla fantasia
pubblicitaria di Berlusconi, esistono soltanto come ultima arma di
un uomo assediato che rifiuta la sconfitta. La legge nega la
possibilità di un nuovo conteggio, e consente soltanto
l'accertamento delle schede contestate. Si tratta di poco più di
quarantamila schede, che ragionevolmente si dividono con una certa
equità fra i due schieramenti, e che quindi non possono alterare il
risultato del voto popolare. In ogni caso, come ha dichiarato Marco
Follini, non è il caso di "soffiare sul fuoco", visto che "dal
Viminale alle Corti d'appello e alla Cassazione ci sono istituzioni
che garantiscono tutti".
Preso atto di tutto questo, sarà bene che le magistrature preposte
agli accertamenti concludano il loro lavoro prima possibile, per
spazzare via ogni dubbio e sospetto. La democrazia italiana non può
vivere sotto l'ombra di un risultato pasticciato. Ed è proprio
questo che Berlusconi sta facendo: sta creando una delle sue realtà
virtuali, un altro dei suoi "fattoidi", che scaraventa sulla
situazione politica e civile italiana provocando fibrillazioni e
inquietudine.
La risposta di Romano Prodi dalla festa di Bologna, "deve andare a
casa", è un esorcismo insufficiente. Se il Caimano ha deciso di
avvelenare il periodo post-elettorale, occorrono risposte ferme in
primo luogo dalle istituzioni. Dal ministro Pisanu, per esempio, che
dovrebbe dare un contributo ulteriore alla serenità dell'opinione
pubblica. Ma c'è un aspetto ulteriore che va considerato: il
marketing da guerriglia civile che Berlusconi ha inaugurato, rischia
di lasciare sull'Italia una macchia. Per salvare la sua leggenda di
invincibilità, il premier non esita a rovesciare il banco, o a
minacciare di farlo.
Tuttavia non è proprio il caso che sull'Italia evoluta e
disincantata del 2006 permanga un'ombra mitologica, per certi versi
simile a quella del referendum costituzionale del 1946. Di fronte a
un uomo che è incapace di perdere, che ha usato ogni strumento per
avvelenare i pozzi, che ha cambiato la legge elettorale per impedire
la vittoria degli "altri", i "comunisti", occorre che anche i suoi
alleati, i più ragionevoli, i più corretti istituzionalmente,
prendano posizione senza paure o esitazioni. Perdere le elezioni non
è un dramma. Ma il Caimano sta trasformando una sconfitta politica
in un evento sudamericano, ed è angosciante il pensiero della
lunghissima transizione all'insediamento del nuovo governo. C'è
qualcuno nella Casa delle libertà che voglia dare un contributo alla
sicurezza psicologica e civile del paese? In caso contrario qualcuno
dovrà assumersi la responsabilità di avere consentito che una
normale alternanza politica si stia trasformando nella battaglia
disperata e finale di un uomo non abituato a lasciare la presa sulla
"roba" che crede sua e solo sua.
11
Aprile
IL COMMENTO
Il crepuscolo
del Cavaliere
di MASSIMO GIANNINI
A DESTRA qualcuno sperava in un 25 luglio: conducator detronizzato,
gestione badogliana della crisi e rapida successione nella Cdl. A
sinistra tutti speravano in un 25 aprile: Paese liberato, fine del
re
gime ed inizio della nuova democrazia. Queste elezioni somigliano
piuttosto all'8 settembre. Un'Italia spaccata, divisa tra due metà
irriducibili e inconciliabili. Sul piano politico, culturale,
sociale. Nell'indecoroso autodafè dei sondaggi e degli exit poll, al
Senato la spunta il Polo per un seggio, alla Camera prevale l'Unione
dopo un testa a testa fino all'ultimo voto. Mai come stavolta, i
voti non solo si contano, ma si "pesano". La maggioranza del
centrosinistra
a Montecitorio è schiacciante, e spinge Prodi e i suoi alleati a
gridare: "Abbiamo vinto le elezioni". Ma la resistenza del
centrodestra a Palazzo Madama induce Berlusconi e i suoi partner a
urlare: "Di qui non passerete".
Ora la trappola è scattata. Ed è come l'aculeo avvelenato di uno
scorpione sulla carne viva del Paese che da oggi, forse, non potrà
avere un nuovo governo, ma non potrà neanche tenersi quello vecchio.
Metafora perfetta di questa Italia. Che non diventa prodiana, ma è
già post-berlusconiana. Non sarebbe giusto leggere questo esito
paradossale solo con la lente della "tecnica" elettorale. La
"porcata" candidamente ammessa da Calderoli, purtroppo, non spiega
tutto. Dietro al voto, com'è ovvio, c'è anche un segno politico, che
va decifrato.
Prodi ha vinto, ma non del tutto. Ha disarcionato il Cavaliere dal
governo, anche se non dalla scena politica. La forza tranquilla del
"curato" di Bologna ha neutralizzato in parte la campagna impetuosa
del Napoleone di Arcore. Forse per la prima volta nella storia
repubblicana, il centrosinistra centra la maggioranza assoluta dei
consensi. Ma questo non è sufficiente per governare. Il risultato
dei Ds sembra al di sotto delle attese, quello della Margherita
appare deludente. L'asse riformista dell'alleanza, incardinato
intorno alla lista dell'Ulivo colpevolmente presentata solo alla
Camera, pare attestata sulle stesse posizioni non proprio
entusiasmanti delle europee. L'apporto della Rosa nel Pugno c'è
stato, ma non risulta decisivo. Alla fine, le migliori performance
si possono attribuire alle componenti più antagoniste dell'Unione, a
partire da Rifondazione comunista. La domanda di cambiamento emersa
in tanta parte della società italiana, che c'è stata ed è stata
forte, non è stata tuttavia sufficiente a invertire con nettezza i
rapporti di forza tra gli schieramenti. Della Valle e Bertinotti
faticano a stare insieme: la promessa del taglio del cuneo fiscale,
che pure si inquadra in una logica di sostegno alla crescita e al
reddito, non basta a prefigurare una politica. Fassino e Bonino non
convincono: la battaglia di principio in difesa delle tasse come
strumento equo di redistribuzione del reddito, probabilmente, non
basta a fugare le paure ataviche di chi vota con il portafoglio.
L'equazione Luxuria-Mastella non sembra funzionare: la posizione
ambigua sui Pacs, le coppie di fatto e la bioetica, verosimilmente,
non è sufficiente a confortare i laici e neanche a rassicurare i
cattolici.
Pesa un esercizio troppo timido della leadership prodiana, che
troppo spesso si è limitata a giustapporre, molto più che a
sintetizzare. Pesa l'insopportabile ritardo nella realizzazione
dell'unico progetto politico che avrebbe potuto terremotare l'intero
sistema, cioè il partito democratico. Sta di fatto che lo stellone
di Prodi, benché illuminato dai 4 milioni di voti ottenuti alle
primarie, risulta oggi meno brillante di quanto non fu nel 1996.
Berlusconi ha perso, ma non del tutto. Dopo cinque anni di governo,
si gioca la maggioranza più cospicua che un governo aveva mai
ottenuto dal dopoguerra. Dilapida un capitale di consensi che nessun
capo del governo aveva mai avuto. Per usare la metafora cara a
George Lakoff nel suo "Non pensare all'elefante", non è stato né un
"padre severo" né un "genitore premuroso". Assumendo la sola
sembianza del "rivoluzionario istituzionale", ha generato solo
conflitto senza riforme. Ha stravolto i linguaggi che raffigurano la
politica nel circuito mediatico, ma non gli ingranaggi che la fanno
muovere dentro la società civile. Cinque anni fa, di questi tempi,
si discuteva se dopo il trionfo del 13 maggio 2001 avrebbe governato
per due o per tre legislature. I più propendevano per le tre. Oggi,
la sua unica legislatura si può considerare comunque finita.
Ha voluto trasformare anche queste elezioni su un referendum sulla
sua persona. Ha voluto ancora una volta che la sua biografia
personale coincidesse con il destino collettivo dell'intera nazione.
Questa pretesa, ostinata ordalia non lo ha premiato. Ma non lo ha
neanche condannato. La furia motivazionale degli ultimi giorni di
campagna elettorale ha mobilitato quote marginali di elettori
apatici. La mattana di Vicenza, l'appello al cielo sull'Ici e sulla
spazzatura, il calcio nei denti ai giudici, lo sberleffo
meta-politico sugli elettori-coglioni, insomma l'intero armamentario
di strumenti ideologico-propagandistici, ogni volta azionati con
l'unico scopo di creare uno stato d'assedio permanente: tutto
questo, alla fine, è servito. Ha evitato il collasso definitivo di
Forza Italia, che cede 9 punti rispetto al 2001 ma resta pur sempre
il primo partito del Paese, anche se perennemente sospettato di
essere solo un comitato elettorale di Berlusconi. Come che sia,
questo impasto di parossistico culto della personalità, di populismo
d'accatto e di politica come variante del marketing, resiste e
continua a far vibrare le corde di almeno mezza Italia. È anche
l'esito scontato del conflitto di interessi, incarnato
pervicacemente dal premier. In politica la televisione non è tutto,
ma qualcosa vorrà pur dire se nel 1987, in media, gli italiani
guardavano la tv 178 minuti al giorno, e nel 2002 questa quota è
raddoppiata al 235 minuti al giorno, con una prevalenza assoluta tra
gli anziani e le casalinghe.
Il sogno azzurro è già da tempo diventato un incubo. Ma
evidentemente ci sono molti elettori che non si vogliono svegliare.
Nella coalizione di centrodestra, infatti, con An che difende le
posizioni e la Lega che tiene ma non scatta per effetto della
malattia di Bossi, il solo partito che fa passi avanti sembra l'Udc.
Anche per questo si può dire che il Cavaliere non ha perso. Se
davvero nel 1994 è sceso in politica per salvare il suo impero
mediatico e finanziario e per mettersi al sicuro dai processi a suo
carico, si può davvero dire che la sua avventura si conclude con un
successo straordinario. Un paradosso nel paradosso.
Che succede a questo punto è difficile dire. Affiorano già,
mascherate da un tardivo "senso di responsabilità istituzionale" di
molti, le peggiori tentazioni, per lo più centriste e inciuciste.
Dal governo tecnico alla Grande Coalizione. Alla faccia del
beneamato bipolarismo, di cui Berlusconi è stato allo stesso tempo
l'alfa e l'omega. Il generatore naturale e poi il sabotatore finale.
Se non c'è una maggioranza pur che sia, che si assuma il rischio di
tirare a campare con un seggio di vantaggio al Senato, l'eventualità
più probabile è che si torni addirittura a votare entro un paio di
mesi. Si fa fatica a capire in quale spurgo di miasmi, e con quali
regole elettorali. Questo magari può piacere a chi si nutre della
"cafonaggine carismatica" del Caimano, si crogiola nel mito
dannunziano della "bella morte", si bea nei frizzi e i lazzi della
"politica divertente". Ma per questa Italia divisa, e sempre sospesa
tra l'orrore e il folclore, sarebbe un vero disastro. Speriamo in un
altro film.
Hanno torto e ragione in parti uguali. L'era di Prodi non si può
dire cominciata. Ma sicuramente si può considerare finita l'era
Berlusconi. Cero, potrebbe materializzarsi il peggiore degli scenari
possibili: il pareggio. Assicurato con efficacia geometrica dalla
sciagurata riforma elettorale voluta dal centrodestra, che produce
un solo sbocco: la piena, consapevole e perfetta ingovernabilità del
Paese. Se il Caimano non può vincere, che nessun altro vinca. Questa
era stata l'unica logica, e neanche tanto dissimulata, che aveva
ispirato quell'assurdo ritorno al proporzionale con premio di
governabilità su base regionale, votato alla vigilia di Natale.
Avevano lavorato in tanti, alla costruzione di questa trappola
elettorale. Non solo il Cavaliere, ma anche l'alacre Casini
e il convalescente Bossi. Nel silenzio ipocrita di Fini, alfiere
pentito del maggioritario.
Ecco la copertina della edizione europea (domani
in edicola) del prestigioso settimanale britannico. Sotto la scritta
"Basta", in italiano, l'invito in inglese agli italiani di "licenziare
Berlusconi". Sul settimanale, anche un lungo articolo, dal titolo: "Una triste
storia italiana". Per questo numero, che esce alla vigilia del voto, è stata
aumentata la tiratura per il mercato italiano
6
aprile
Uno su due
darebbe soldi in cambio di spazio per se stesso
Ma i giovani sono meno disposti a fare rinunce per il lavoro
Italiani senza tempo
libero
siamo gli ultimi in Europa
Inglesi e tedeschi hanno guadagnato oltre due ore a settimana
Tra lavoro e impegni restano meno di quattro ore al giorno
di MARIA NOVELLA DE LUCA
ROMA - Le più brave sono le donne, ma anche i maschi iniziano
ad ingegnarsi. Ritaglia, concentra, ruba, moltiplica, fraziona, alla
fine qualcosa salta fuori. Un qualcosa che si chiama tempo. Una
manciata di ore, uno scorcio di giornata, un pezzetto di vita senza
impegni, una frazione della quotidianità da dedicare a se stessi e a
chi si ama. Gli economisti lo definiscono "time-budget" e niente
indica meglio di questa frase idiomatica il senso contemporaneo
della parola tempo. Ossia valore, capitale, merce di scambio, un
bene per il quale almeno il 50% degli italiani sarebbero disposti a
barattare molto se non tutto, a cominciare dagli orari per finire
alla busta paga, in nome di quella "conciliazione" della vita e del
lavoro sempre citata nello statuto di ogni azienda e mai applicata.
I dati Istat dimostrano che dal 1988 ad oggi gli italiani hanno
"guadagnato" due minuti di tempo libero in più al giorno, passando
da 3 ore e 49 minuti a 3 ore e 51 minuti di spazio per sé. Una vera
miseria, rispetto al resto della media europea, soprattutto
Inghilterra e Germania, dove il guadagno è stato di almeno un paio
d'ore ogni sette giorni, per non parlare degli americani, che
secondo gli ultimi studi, avrebbero conquistato quasi venti ore
"off" al mese, mandando al macero tutti gli stereotipi degli
statunitensi "workaholic", ossia drogati di lavoro.
Una situazione, la nostra, molto simile a quella spagnola, così come
l'ha raccontata in una recente inchiesta dal titolo "La conquista
del tempo" il magazine de "Lavanguardia", elencando le acrobazie
quotidiane di uomini e donne per guadagnare scampoli di vita
privata. Rivoluzionando cioè ogni aspetto della quotidianità,
moltiplicando il telelavoro, abbattendo le distanze, concentrando
gli impegni domestici, tutto questo per ottimizzare il tempo libero
da dedicare ai figli, alla coppia, o semplicemente al famoso "ozio
creativo" toccasana di corpo e mente. Con il risultato che non
potendo dilatare le 24 ore, europei e americani dormono sempre meno,
e complice la tecnologia fanno più cose insieme (multitasking).
"Tutte le inchieste negli uffici e nelle aziende - spiega Patrizio
Di Nicola, docente di sociologia all'università La Sapienza di Roma
e uno dei massimi esperti di E-work in Italia - dimostrano che la
gran parte degli italiani si sente schiacciata dalla rigidità degli
orari, nel nostro paese il turno classico è ancora dalle 9 alle 5, e
soltanto il 40% dei dipendenti può usufruire di un'ora di
flessibilità, così ogni tipo di necessità domestica, finisce per
essere concentrata il sabato, quando molti uffici sono chiusi".
Insomma la famosa "conciliazione", prevista addirittura da una legge
illuminata (numero 53 del 2000) resta più un'aspirazione che una
realtà, e quando le aziende hanno provato ad applicarla, "questo
raramente si è tradotto in flessibilità di orari o telelavoro,
piuttosto si è preferito creare uffici dotati di asilo nido e di
fitness center, con addetti che vanno a sbrigare le commissioni per
i dipendenti".
In pratica il 60% degli italiani ha turni rigidi, mentre "il 35% dei
lavoratori che già utilizza come strumenti della professione
telefono e computer potrebbe - conclude Di Nicola - svolgere da casa
la propria professione".
Ci sono però alcuni spiragli anche da noi. "La voglia di liberare
tempo per sé è sempre più forte, riguarda tradizionalmente le donne
e adesso anche gli uomini - dice Linda Laura Sabbadini, direttore
centrale dell'Istat - ma la risposta non c'è, perché gli orari di
lavoro restano rigidi, i servizi sociali scarsi, e aumentano i tempi
degli spostamenti. Il vero cambiamento è invece nella vita
familiare, dove le donne hanno imparato a comprimere le ore dedicate
alle attività domestiche, e i maschi fanno qualcosa in più. Il tutto
a vantaggio dei figli, verso i quali, nonostante la crescita
dell'occupazione femminile, c'è una cura sempre maggiore. C'è però
una fascia d'età fortemente penalizzata, ed è quella delle coppie
tra i 25 e i 44 anni con i figli. Per loro sia la mobilità che i
tempi del lavoro, in casa e fuori, sono aumentati, e di conseguenza
è diminuito il tempo libero: 27 minuti in meno rispetto al 1988".
Si spinge ben al di là del concreto l'antropologo
Marino Niola, che vede in questo "movimento di liberazione del
tempo", una sorta di "crisi dell'Illuminismo e dell'idea della corsa
continua verso un progresso a cui bisogna sacrificare il tempo".
"C'è un fattore di decelerazione che accomuna le società ricche,
dove il time-budget è diventato il capitale più prezioso, l'unico
non moltiplicabile e non replicabile. Lo sanno bene i giovani, che
pur premendo per entrare nel mercato del lavoro difendono
risolutamente i loro spazi privati, le loro passioni, e anche il
loro modo di sprecare il tempo".
IL COMMENTO
Il Sovversivo
di EZIO MAURO
HA SENZ'ALTRO ragione il presidente del Consiglio a chiedere rispetto per la sua
carica e per la sua persona. Ma il rispetto Silvio Berlusconi deve
guadagnarselo, come tutti i personaggi pubblici in democrazia, giorno dopo
giorno. Martedì ha insultato volgarmente metà del Paese, colpevole di non
seguirlo e di ribellarsi alla sua leadership, votando a sinistra. Ieri ha
cercato di forzare ancora una volta le regole, organizzando in fretta e furia
nello spazio proprietario delle sue televisioni un finto confronto televisivo
con Prodi - non previsto e non concordato - in modo da poter comiziare davanti
ad una sedia vuota, sotto la luce domestica di Canale 5.
Proverò a spiegare perché questa condotta negli ultimi giorni di campagna
elettorale non è quella di un politico disperato (Berlusconi può ancora
rischiare di vincere) né quella di un leader estremista. No. Tecnicamente,
Berlusconi è il Sovversivo.
Potremmo dire che l'inizio e la fine dell'anomalia italiana abitano qui,
nell'insostenibile tensione a cui è sottoposto un sistema quando il capo
legittimo del governo è anche il Sovversivo. Avevamo avvertito che l'agonia
politica del berlusconismo sarebbe stata terribile. La realtà è peggio. Ma non
era difficile prevederlo. Sono i tratti culturali di questa destra e di questa
leadership - prima e più della dinamica politica - a determinare ciò che sta
accadendo e ciò che purtroppo accadrà nelle prossime settimane quando il
Cavaliere, se dovesse perdere, tenterà di delegittimare il risultato elettorale.
Se non partiamo da qui, è difficile capire come si sia arrivati fino a questo
punto estremo.
La concezione che il Cavaliere ha della sua avventura politica è - ancora una
volta in senso tecnico - schiettamente "rivoluzionaria". Non è entrato in
politica, come tutti: è "sceso in campo". Non l'ha fatto perché aveva un
progetto, ma perché "ama il suo Paese". Non proponeva un programma, ma una
biografia. Non indicava un obiettivo, ma un destino. Da quel momento, tutto si è
unito e tutto si è scomposto secondo un ordine epico, assumendo una dimensione
da paesaggio eroico, rendendo via via mitologica la realtà contemporanea.
Biografia privata e destino pubblico si sono confusi, per salvare l'amato Paese
dal male che incombeva ed ancora incombe, nonostante la forza e la virtù del
Capo, sacralizzato dal voto del popolo, dunque per sempre liberato da vincoli
normativi, contrappesi costituzionali, equilibri istituzionali, regole di
garanzia.
Il Capo si è trovato di fronte al popolo, il suo popolo, concepito fin dal primo
giorno e sempre più - in un vero istinto di destra - come una "comunità di
elezione", e lo rivela il giudizio sugli elettori di sinistra, "coglioni" perché
non tutelano i loro interessi, come se nel discorso pubblico e nella passione
politica non esistesse nient'altro che il portafoglio, simbolo subliminale del
berlusconismo. Tutto il resto è impaccio: le autorità garanti, gli altri poteri
dello Stato liberi ed autonomi, l'opposizione naturalmente, ma anche gli
alleati, se non si riducono a coro.
Per sollecitare ed eccitare continuamente quel popolo, diventato strumento
politico come la "folla" di Guglielmo Giannini, il Cavaliere ha bisogno di usare
la televisione, che in parte quel popolo ha creato, o almeno ha "educato". Ecco
perché la televisione nel mondo berlusconiano è ben più di un moderno balcone o
di un microfono, è qualcosa di diverso da uno strumento anche potente di
comunicazione: è il luogo segreto dell'anima berlusconiana, il giacimento
culturale della politica e dell'antipolitica, la riserva privata del potere.
Ed ecco perché, ancora, Berlusconi non concepisce le regole e disprezza la par
condicio: la sua natura politica e la natura televisiva coincidono e coabitano,
non sono separabili, fanno parte di quell'identità imprenditoriale che aiuta il
politico avvantaggiandolo, mentre lo soffoca.
Per il Cavaliere, è inconcepibile che avendo tre televisioni ed essendo
probabilmente in svantaggio nei sondaggi, non possa usarle per ribaltarli, come
vorrebbe la sua personale forza di gravità, come imporrebbe la sua natura, come
pretende tutta la sua storia. Per questo ha trovato normale, ieri, chiedere e
ottenere dalla sua rete ammiraglia un programma apparecchiato ad hoc, inventato
sulle sue esigenze del momento. È o non è il padrone? Ma attenzione: lo è o no
anche in politica? E allora perché stupirsi se salta il confine per lui
inconcepibile tra politica e tv, se il suo istinto proprietario stravolge la par
condicio, se si rivolge da proprietario addirittura agli elettori, insultando
chi non vuole capire e rifiuta di seguirlo?
Tutto questo travolge ogni regola, ogni giorno, estremizza il confronto,
sottopone il Paese a una pressione e a una tensione politica senza precedenti, e
senza giustificazione se non nel destino personale di Berlusconi. La spinta per
questa sovversione nasce ancora una volta dalla concezione eroica che il
Cavaliere ha di sé e che gli impedisce di accettare il declino. Ogni difficoltà
politica diventa così una congiura, ogni dissenso una manovra, ogni critica un
tradimento, ogni regola un complotto esoterico dei "poteri forti".
Perché, semplicemente, l'ideologia del berlusconismo non prevede che Berlusconi
possa perdere. La sconfitta non è contemplata, in una vicenda politica segnata
tutta dall'unzione sacra e votata alla redenzione del Paese dal male. Può venire
solo da una macchinazione oscura e ingiusta che inganna il popolo e che è
ripudiata in anticipo, e per sempre.
D'altra parte, è così fin dall'inizio. Tecnicamente rivoluzionaria, infatti, è
in Berlusconi anche la concezione della vittoria, che non è la conquista del
governo, ma la presa del potere, una sorta di anno zero, di nuovo inizio.
Sostenere che Berlusconi è il fondatore italiano dell'alternanza è la più grande
delle bugie compiacenti che lo circondano separandolo dalla realtà. Non solo la
legge elettorale voluta dalla destra ha ucciso il bipolarismo italiano, ma la
natura del Cavaliere non accetta l'insuccesso e la sconfitta, come dimostra la
riscrittura di comodo delle vicende del suo primo governo, con il fantasma del
"ribaltone" che maschera la sua incapacità di tenere insieme la maggioranza.
Dunque, ogni reazione è permessa, anzi è legittima, perché aiuta l'unico
legittimo potere a rimanere al suo posto: il resto è sopruso, abuso, errore.
Come per gli antichi imperi mitologici, il berlusconismo non ha ormai altra
finalità al di fuori del suo essere. Ma per continuare ad essere, è pronto ad
ogni cosa, anche perché il suo potere non si fonda sul patrimonio comune civico,
repubblicano e costituzionale, ma su un'alienità titanica audace e sprezzante,
propria di chi "non aspettandosi nulla dalla società, non vuole sacrificare
niente delle sue pulsioni più smodate e funeste".
Anzi qui, nelle difficoltà, viene alla luce il Sovversivo, con quel gusto di non
obbedire che nasce dal gusto di comandare: ciò che Caillois chiama "lo spirito
di dominazione". E con quella che Piero Gobetti, nel 1927, chiamava "la
compromettente e ineducata abitudine di pensare in pubblico".
È facile, anche se amaro, dire che il Sovversivo ha appena iniziato a mostrarsi
apertamente, uccidendo il Conservatore che pure aveva tentato il Cavaliere nei
primi anni, e che ha sedotto buona parte dei suoi elettori. Il conflitto di
interessi, invece che un impaccio anomalo e pericoloso, diventa così un'arma, se
il metodo è la sovversione di ogni regola. Lo ha dimostrato ieri Fedele
Confalonieri, usando tragicamente per la sua azienda le stesse esatte parole che
Berlusconi usava per il suo partito, con l'accusa alla sinistra di inscenare
"prove di regime" solo perché si era ribellata pubblicamente all'ultimo abuso
politico della televisione privata del Cavaliere.
A differenza di Confalonieri, che passava per moderato, io non ho mai parlato di
regime, in questi anni sventurati per il nostro Paese, perché credo
sufficientemente grave denunciare l'indebolimento della qualità della nostra
democrazia causato dall'anomalia berlusconiana; e anche perché penso che
l'Italia possa farcela, con l'arma del voto, a chiudere quest'avventura. Ma
l'epilogo rischia di essere peggiore del dramma. Da vero titano, il Cavaliere
può ancora danneggiare questo Paese, anche se sarà sconfitto.
IL COMMENTO
Il boomerang
del Cavaliere
di EUGENIO SCALFARI
CHI HA VINTO e chi ha perso nell'incontro-scontro tra Prodi e
Berlusconi è materia opinabile e soggettiva. Per me ha vinto Prodi e
di gran lunga, per altri ha vinto Berlusconi perché ha lanciato la
stoccata finale sull'abolizione dell'Ici sulla prima casa.
Per me l'annuncio sull'Ici è una bravata che può diventare un
boomerang contro il proponente; per i fautori ad oltranza
dell'effetto mediatico è invece un colpo da maestro, una sorpresa
che potrebbe indurre molti indecisi a decidersi. Per Giuliano
Ferrara, che alla politica chiede solo di esser divertente,
Berlusconi avrebbe anche dovuto dichiararsi favorevole alla pena di
morte; allora l'effetto mediatico sugli indecisi sarebbe stato
completo.
Chi la pensa così considera gli indecisi come una schiera di
imbecilli e di creduloni disposti a seguire chi le spara più grosse.
Un tempo si ragionava diversamente: si riteneva che gli indecisi
fossero il sale della democrazia.
Senza pregiudizi di parte avrebbero atteso di veder chiaro nei
programmi, di giudicare il governo uscente per ciò che aveva fatto o
non fatto e infine, su dati certi e valutazioni oggettive, avrebbero
bocciato o confermato. Evidentemente chi spera nell'effetto Ici in
favore di Berlusconi punta sull'imbecillità degli elettori in genere
e degli indecisi in particolare. Vediamo da vicino questa questione;
a cinque giorni dal voto ne vale la pena.
Per tutto il corso del dibattito televisivo di lunedì Berlusconi,
sebbene stimolato più volte dai due giornalisti interroganti sulle
fonti di copertura con cui avrebbe finanziato le promesse fatte agli
elettori, si è rifiutato di indicarle. Ha sempre cambiato discorso.
Si è limitato a dire che avrebbe tagliato gli sprechi e avrebbe
ottenuto "enormi" economie dall'informatizzazione della pubblica
amministrazione.
Il consuntivo dei suoi cinque anni di governo registra un aumento
della spesa pari a 2 punti e mezzo del Pil; in cifre assolute si
tratta di 30 miliardi di euro. Spese in gran parte improduttive
poiché nel frattempo l'economia è rimasta a crescita zero. Si spiega
in questo modo il fatto che tutte le altre grandezze del bilancio
sono saltate, il debito pubblico ha ricominciato ad aumentare,
l'attivo del bilancio è stato azzerato (si trattava di 60 miliardi
di euro, mica una bazzecola) e il rapporto deficit/Pil marcia verso
il 4 per cento (secondo alcuni esperti saremmo già al 4,5). Gli
economisti indipendenti hanno cifrato le promesse di Berlusconi per
i prossimi cinque anni e sono arrivati alla conclusione che
comportano un finanziamento di 37 miliardi.
Dove troverà queste risorse, a parte l'informatizzazione
dell'amministrazione pubblica, è un rebus che non ha avuto
soluzione: il presidente del Consiglio si è rifiutato di rispondere
e a Prodi che gli ripeteva la domanda fattagli dal direttore del
"Messaggero" ha risposto: "A lei, se avrà tempo, glielo spiegherò
quando usciremo di qui". Basterebbe questo passaggio del dibattito
per stabilire un esito da k.o.
E tuttavia, indifferente a queste "banali" considerazioni, il
presidente del Consiglio ha calato l'asso nell'appello finale agli
elettori quando, essendo lui l'ultimo a parlare, le sue parole non
potevano essere smentite o contestate. Studiato alla perfezione, con
geometrica potenza: "Abolirò l'Ici. Avete capito bene? Abolirò l'Ici".
Parole magiche, taumaturgiche, miracolistiche. Un sorriso radioso
sulla bocca. Una soddisfazione che invadeva tutto il volto, gli
occhi, la fronte, le arcate sopraccigliari. La felicità di chi vuole
essere amato da tutti e finalmente, attraverso il portafoglio, trova
la strada del cuore del prossimo. Sicuro che il prossimo sia una
congrega di allocchi, di allodole abbacinate da uno specchietto.
Personalmente, l'ho già detto, penso che il prossimo sia sveglio
quanto basta. Forse bisognoso di qualche elementare e semplice
spiegazione. Perciò provo a fornirla.
L'Ici complessivamente ha un gettito per i Comuni di 10 miliardi;
limitato alla prima casa ne produce 2 e mezzo. Non è una cifra
enorme anche se, aggiunta alle altre esigenze di cui sopra, alza il
totale a 40 miliardi, cioè 80 mila miliardi di vecchie lire.
Il sindaco di Lecce, Poli Bortone (Alleanza Nazionale) ha commentato
l'annuncio dicendo che supplirà al mancato introito eliminando gli
sprechi e rimpiazzandolo con gli introiti promessi dal governo per i
Comuni che collaboreranno a snidare gli evasori.
I sindaci di Roma, Bologna, Firenze, Bari, Torino (centrosinistra)
sostengono invece che l'effetto sarà il blocco totale delle spese
per asili, scuole comunali, viabilità comunale, trasporti comunali e
smaltimento dei rifiuti. Oppure imposizione di altre imposte
equivalenti in sostituzione. Questo è stato anche il commento di
Prodi e dei dirigenti di centrosinistra.
Tenuto presente che la promessa abolizione dell'Ici segue tre anni
di congelamento delle spese comunali e il taglio dei trasferimenti
dallo Stato ai Comuni, vediamo quali sono i motivi per i quali
Berlusconi ha scelto proprio l'Ici come parola magica.
E' chiarissimo:
1. E' un'imposta comunale. La sua abolizione farà mancare entrate ai
Comuni ma non allo Stato.
2. Gli effetti di questa decisione riguardano dunque i Comuni (in
gran maggioranza di sinistra) sia che l'effetto porti ad un taglio
dei servizi essenziali sia che venga colmato con altre imposte
comunali. L'eventuale impopolarità di tali provvedimenti ricadrà sui
sindaci e le giunte che li hanno dovuti prendere.
3. Il beneficio dell'abolizione cadrà a pioggia su un gran numero di
contribuenti, in cifre molto modeste per le modeste case "popolari"
e in cifre cospicue per le case lussuose dei ricchi e ricchissimi.
Ancora una volta quindi, come è già stato per la riduzione delle
aliquote Irpef, si tratta di provvedimenti socialmente regressivi
anziché progressivi, che premiano pochissimo i ceti disagiati e
molto-moltissimo quelli già dotati di ampie risorse.
4. Se, per effetto di questi provvedimenti promessi, il bilancio
pubblico peggiorasse, il debito pubblico e il deficit
aumenterebbero, i "rating" sugli interessi peggiorerebbero, la
competitività del sistema Italia continuerebbe ad andar giù.
Mi rendo conto che l'effetto-annuncio può
impressionare nelle prime ventiquattr'ore. Ma poi deprime ancora di
più la credibilità di chi l'ha fatto, che allo stato dei fatti già
rasenta lo zero.
4
aprile
La "middle class" afroamericana lascia New
York
Esodo verso Stati vicini dove il costo della vita è più basso
I
neri in fuga da Manhattan
"E' troppo costosa"
di VITTORIO ZUCCONI
Midtown Manhattan
TAKE the A Train, salite sulla linea A del metrò e correte subito verso
la collina dello zucchero a Harlem, attaccava l'orchestra di Duke Ellington.
Furono migliaia gli uomini con la pelle scura che ascoltarono lui, ed Ella
Fitzgerald, e corsero a fare di Manhattan e di Harlem, del Cotton Club, del
Savoy Ballroom, dell'Apollo Theatre il cuore dell'America nera e della sua
cultura negli anni '40 e '50. Ma ora i loro figli hanno avuto abbastanza degli
affitti, dei prezzi insensati della case, delle continue spallate del mercato
immobiliare che li stava spingendo sempre più a nord, schiacciandoli fra la
miseria e la ricchezza. Stanno lasciando la New York bianca che li voleva
espellere senza osare dirlo. Risalgono sull'A Train e se ne vanno da Harlem,
come prima di loro gli Ebrei dell'Est Europeo, gli Italiani, gli Ispanici e
hanno cominciato la loro piccola fuga da New York.
Racconta l'ultimo censimento metropolitano ufficiale, del 2004, che la Manhattan
di colore sta perdendo popolazione e si deve risalire alla Guerra Civile finita
nel 1865, assai prima che la metropolitana raggiungesse il fiume Harlem, quello
che taglia a nord l'isola più affollata del mondo, quando erano gli emigranti
dall'Europa a popolare i terreni e a cacciare via i contadini, per trovare un
calo nella percentuale di afro-americani residenti a New York.
Trentamila se ne sono andati in quattro anni verso i sobborghi degli stati
vicini, il Connecticut o il New Jersey, e molti sono tornati in quel Sud dal
quale vennero le nonne e i nonni per sfuggire alla segregazione, alle croci
infuocate del Ku Klux Klan, agli sceriffi da "calde notti" e per inseguire il
sogno della grande urbanizzazione.
Il volto di New York impallidisce, perde un pezzo della propria anima, e le
cifre del piccolo grande esodo hanno suggerito a un demografo citato dal New
York Times, William Frey delle Brookings Institutions, una parola pesante,
"evacuazione". Neppure l'esodo verso la suburbia e l'ancora più distante exurbia
delle classi medie bianche negli anni '70, dopo lo shock delle rivolte razziali,
aveva minacciato tanto il tessuto multiculturale di una città che della propria
diversità ha sempre fatto la propria magnificenza e la propria seduzione, ma che
sta perdendo, anche per i nuovi immigrati, il proprio magnetismo.
Fuggono da Manhattan, dove per la prima volta da mezzo secolo, la percentuale di
neri sulla popolazione complessiva dell%u2019isola è scesa sotto il 25%. La
marcia degli affitti e dei prezzi astronomici di vendita, misurati ormai in
migliaia di dollari per "piede quadrato", 0,09 metri quadrati, meno di un
decimo, ha risalito le grandi Avenues dalla punta di Manhattan, Park, Madison,
Lexington, la Quinta e ha oltrepassato il confine immaginario eppure reale della
centesima strada. La "gentryfication", la riconquista dell'isola da parte dei
bianchi che si possono permettere di viverci sopra, si è già scrollata di dosso
ogni postumo da 11 settembre, inghiotte la zona demilitarizzata fra bianchi e
neri, popolato dagli immigrati di lingua spagnola, e avvicina la Black Harlem.
Quando Bill Clinton affittò nel 2001, con i soldi dei contribuenti che pagano
anche i conti degli ex presidenti, una suite d%u2019uffici sulla 125esima strada
per 35 mila dollari all%u2019anno, in piena Harlem Nera, la sua scelta fu
salutata come un gesto politico di grande speranza, da parte di colui che la
poetessa Maya Angelou aveva definito "il primo presidente nero".
Soltanto pochi residenti manifestarono contro, temendo, e intuendo, che lui
sarebbe stato l'avanguardia di un'avanzata bianca ormai in atto.
Se ne vanno proprio le "middle class", coloro che possono permettersi di
traslocare oltre lo Harlem River a nord o l'Hudson a ovest, dunque sottraggono
la carne vitale che si era riformata attorno allo scheletro dei grandi
falansteri, i projects abbandonati alle gangs da strada, alla violenza e a
qualche campetto da basket con le reticelle di ferro ai canestri. Tolgono
popolazione importante a Manhattan, che oggi conta tanti abitanti (un milione e
mezzo) quanti ne aveva nel 1890, dopo la vetta a oltre due milioni prima della
Grande Guerra, nel 1910.
"E' stata una decisione difficilissima, ma dettata dal portafogli", spiega al
New York Times Jacqueline Dowell, una newyorker d'origine che ha scelto di
traslocare in North Carolina, proprio in quel profondo Sud dal quale la bisnonna
fuggì dopo l'emancipazione degli schiavi, per crescere la figlia.
"Semplicemente, non mi potevo più permettere Manhattan".
Molti, come lei, che guadagnava 70 mila dollari all'anno, assai più della media
metropolitana di 44 mila, tornano alle radici, in quegli stati sudisti, le due
Carolina, l%u2019Alabama, la Georgia, dove si è "neri esattamente come a New
York" racconta ironicamente Jack Washington, un musicista, ma "costa la metà
esserlo". Nella decade Novanta, New York era una delle "top 15" destinazioni
sognate dagli americani di colore, e l'isola crebbe di 115 mila residenti neri
nati negli Stati Uniti, dunque escludendo
Giamaicani, altri immigrati dal Caribe e
africani. Nei primi cinque anni del XXI secolo, 30 mila hanno fatto i bagagli,
riducendo dell'1,5% la quota dei neri.
E' la prima volta dalla guerra Civile che New York conosce
un'emorragia di persone di colore. Harlem, dove i grandi teatri e music-hall del
secolo scorso sono divenuti malinconicamente chiese, dove i "preacher men", i
predicatori e i pastori hanno rimpiazzato Ella e "The Duke" al Cotton Club che
un diciottenne Giovanni Agnelli bazzicava accompagnato dal pugile Joe Louis come
guardaspalle offerto dai Rockefeller, resiste attorno all'Apollo, l'ultimo
fortino della comicità e della musica nera. Per quanto ancora, è impossibile
dire, perché dalle carrozze dell'"A Train2, sulla Sugar Hill, non sbarcano più
favolosi jazzisti affamati, ma immobiliaristi insaziabili.
I salari italiani sono i più
piccoli d’Europa: 1.350 euro al mese. Lo dice l’Ocse
Lo sprofondare dei salari italiani, così come
emerge dall’ultima indagine dell’Ocse, come sindacalista mi fa vergognare.
Certo, è giusto arrabbiarsi con Berlusconi, il suo governo, la sua politica per
i ricchi, il suo incredibile negare la realtà di un generale diffuso
impoverimento. Questa rabbia si tradurrà, speriamo, in un voto che mandi a casa
il Presidente del Consiglio, anche per far respirare un po’ le nostre buste
paga.
Ma dai dati dell’Ocse emerge un quadro ben più grave di quello riconducibile
alle scelte di classe di questo governo. Sopra di noi stanno paesi che hanno
governi di centrosinistra, così come di centrodestra. Paesi di antica
industrializzazione, dal Belgio alla Germania, alla Francia, e paesi che ci
hanno scavalcato, dalla Spagna fino alla Corea del Sud. Le retribuzioni di
quest’ultimo paese, è bene ricordarlo, solo quindici anni fa venivano utilizzate
come spauracchio per i lavoratori italiani, così come oggi avviene per quelle
cinesi. Se andiamo avanti così tra una decina d’anni anche i salari cinesi
saranno sopra i nostri. Siamo a una catastrofe che viene da lontano.
I salari italiani non solo sono al 23esimo posto nella classifica tra i trenta
paesi più industrializzati, ma sono sotto di ben il 19% rispetto alla media dei
paesi dell’Euro. Nella sostanza, un lavoratore italiano medio perde più di due
mensilità all’anno rispetto ai colleghi francesi, tedeschi, inglesi, belgi. E
questa è una media, che nasconde il dramma dei salari dei precari, giovani o
anziani che siano, e lo scandaloso permanere di un differenziale negativo per le
donne, che a parità di lavoro prendono il 20% in meno dei maschi. A questi dati
non corrisponde alcunché di simile per le classi dirigenti. In questi anni gli
stipendi dei manager, grazie anche alle laute elargizioni di premi in azioni
quasi esentasse, hanno raggiunto i vertici delle retribuzioni mondiali. E’
sicuro che se un operaio è al 23esimo posto nella classifica Ocse, chi comanda
nella sua fabbrica si batte per il primo.
Anche la ricchezza finanziaria ha raggiunto in Italia un livello di
concentrazione tra i più alti del mondo, mentre la distribuzione del reddito è
tra le più sperequate. Insomma, mentre i salari dei lavoratori andavano giù, i
profitti, le rendite, i premi per i dirigenti, partivano verso le stelle.
Questa catastrofe sociale si è accompagnata al progressivo crollo della
competitività industriale ed economica del nostro paese. Peggio andavano i
salari, peggio andava la capacità dell’Italia di produrre, vendere, esportare.
Ci sarà un rapporto tra le due cose? Noi pensiamo di sì. Noi siamo convinti che
il progressivo declino dei salari, che erano il 60% del reddito nazionale negli
anni Settanta e che oggi sono sotto il 48%, sia una delle cause fondamentali
della stagnazione economica e sociale del paese. A forza di comprimere e
tagliare i salari, è venuta meno in Italia quella spinta fondamentale
all’innovazione, alla ricerca, alla crescita della qualità, che invece nel
passato aveva permesso la crescita. La politica della concertazione, dei patti
sociali, dello scambio tra moderazione salariale e sviluppo, non ha prodotto
risultati. Anzi, a 15 anni dall’abolizione della scala mobile e dalla scelta di
una politica salariale moderata, il bilancio economico e sociale è negativo. I
salari sono andati giù e la produttività e la competitività del sistema li ha
seguiti verso il basso.
Per queste ragioni, se è giusto incolpare Berlusconi per gli ultimi disastri, se
si vuole davvero cambiare, bisogna che la politica salariale del paese cambi
rotta. E’ pertanto necessaria una svolta di fondo nell’iniziativa sindacale.
Ci sono almeno tre punti fermi che è indispensabile affermare:
1. bisogna riconoscere il principio per cui la crescita dei salari è la leva
fondamentale per uno sviluppo più gusto del paese. Occorre un vero e proprio
ribaltamento della vecchia politica dei due tempi, che prometteva la giustizia
dopo la crescita e lo sviluppo. Bisogna far crescere qui ed ora i salari, e si
vedrà che in questo modo anche il paese riprenderà a svilupparsi.
2. la crescita dei salari non può avvenire solo con le scelte di politica
redistributiva dei governi, con il fisco o con lo stato sociale. E’ necessaria
una politica salariale offensiva da parte del sindacato. Bisogna abbandonare la
politica della moderazione salariale con l’obiettivo di recuperare almeno il
deficit del salario italiano rispetto alla media europea.
3. per ottenere questo occorre una nuova fase di conflitto sociale. Senza di
essa non si va da nessuna parte, perché né le imprese, né tutti coloro che si
sono arricchiti a discapito dei salari rinunceranno per bontà a quanto hanno
ottenuto.
Andiamo tra qualche giorno a votare per mandare via Berlusconi, ma poi, per
meglio difendere le nostre buste paga, presentiamoci in tanti ai banchetti ove
si raccolgono le firme per ripristinare la scala mobile.
di Giorgio Cremaschi
Vaticano, un documento segreto
per coprire i preti pedofili
Tratto dal libro di Cosimo Cellammare: “Al di là dei mulini a vento: crimini
compiuti in nome di Dio”
Il testo, datato 1962, pubblicato dal giornale
londinese Observer
Ai prelati venne ordinato di nascondere con ogni mezzo gli abusi
LONDRA - Un documento "confidenziale" scritto oltre 40 anni fa dal Vaticano
ordinava ai vescovi di tutto il mondo di coprire con ogni mezzo gli abusi
sessuali commessi dai religiosi. Il testo, 69 pagine tradotte in inglese, è
stato pubblicato oggi dal giornale londinese Observer.
Secondo quanto riferito dalla testata, il documento proviene dall'archivio
segreto del Vaticano. L'avvocato texano Daniel Shea, impegnato in un caso di
abusi sessuali all'interno della Chiesa americana, ne avrebbe ottenuto una copia
da un prete tedesco. Nel testo, datato 1962, si indicano “le procedure da
seguire in caso di crimini di istigazione". Cioè quelli in cui un religioso
tende "a sollecitare e provocare il penitente ad atti impuri ed osceni". “Il
peggiore dei crimini si legge - è quello costituito da azioni nei confronti di
giovani di ambo i sessi".
La Chiesa cattolica di Inghilterra e Galles ha confermato l'autenticità del
documento, che doveva "essere diligentemente conservato negli archivi segreti
della Curia, rimanendo rigidamente riservato". Un mese fa, il legale americano
che l'ha scoperto ha provveduto a consegnarne una copia alle autorità degli
Stati Uniti, dove da molto tempo la chiesa cattolica è al centro di uno scandalo
su abusi sessuali commessi nei confronti di adolescenti. Una vicenda che ha
coinvolto anche l'arcivescovo di Boston Bemard Law. Costretto a lasciare il
seggio per aver trasferito in massima segretezza i religiosi incriminati.
Nel documento segreto, scritto sotto il pontificato di Giovanni XXIII, il
Vaticano impone ai vescovi di mantenere la massima segretezza sulle accuse di
abusi. Si invita ad "ammonire, correggere e, se il caso lo richiedesse, a
sospendere" i sacerdoti messi sotto accusa. "Ma - si legge - tutti i prelati
devono gestire questi casi con la massima segretezza e vincolati al silenzio
perpetuo". Pena la scomunica.
"Questo prova - dichiara Daniel Shea - che vi era un complotto internazionale da
parte della Chiesa per coprire gli abusi sessuali. E un subdolo tentativo di
nascondere attività criminali". Secondo un portavoce del Vaticano, però, il
testo indica solo “le procedure disciplinari nel caso che un prete sia accusato
di aver sollecitato prestazioni sessuali durante la confessione". La segretezza
sarebbe dunque tesa "a proteggere gli accusati, come avviene anche nelle
procedure penali oggi. Ed è anche subordinata alla speciale natura segreta del
sacramento della confessione". In ogni caso, riferisce il giornale, non
proibisce alle vittime di presentare accuse civili.
E su questo punto insiste il reverendo Thomas Doyle, un cappellano dell'Air
Force statunitense in Germania. Secondo l'esperto di diritto ecclesiastico, il
documento non legittima l'ordine di silenzio imposto alle vittime. “Pur
confermando la patologica ossessione per la segretezza che affligge la Chiesa
cattolica - afferma Doyle - il testo non giustifica le intimidazioni al silenzio
subite dalle vittime degli abusi sessuali da parte esponenti della chiesa
americana". Per provare questo, conclude il sacerdote, "servono infatti prove
concrete".
(www.repubblica.it/2003/h/sezioni/esteri/observer/observer/obscrver.hftffl i (17
agosto 2003)
Riportiamo di seguito alcune delle 69 pagine del documento originale tradotto in
inglese dal giornale londinese Observer e alcuni articoli del testo evidenziati
dallo stesso giornale (il testo completo è riportato nel sito summenzionato).
Il colpo di coda del Cavaliere
di MASSIMO GIANNINI
Romano Prodi e Silvio
Berlusconi
Con l'ultimo, forsennato colpo di coda, il Caimano di Arcore
osa l'inosabile. Il faccia a faccia tv di ieri sera, l'ultimo e
decisivo prima del voto di domenica prossima, l'avrebbe vinto Romano
Prodi, come già gli era capitato nel primo confronto del 14 marzo.
Ma Silvio Berlusconi, con l'appello agli elettori, si è giocato
l'osso del collo. Con il tuffo estremo nel cerchio di fuoco
staraciano, il premier ha lanciato agli italiani la
promessa-fine-di-mondo: "Se ci voterete di nuovo, vi aboliremo l'Ici
sulla prima casa".
È la vera novità di questa sfida finale, che per il resto registra
la buona performance del Professore, sereno e determinato, contro un
Cavaliere irascibile ed esasperato. Ma è una novità destinata a
tenere banco, in questi cinque giorni che ancora ci separano dal
voto. Berlusconi torna al 2001. Torna alle tasse come arma vincente.
Torna a parlare a un popolo che immagina trasversale, fatto di
partite Iva e di "padroncini", ma anche di famiglie e di salariati a
reddito fisso, che spesso ostenta il cuore a sinistra, ma quasi
sempre conserva il portafogli a destra. Riconquista la scena, con
una proposta che è, insieme, seducente e inconsistente. È seducente,
perché ai quasi 20 milioni di italiani che possiedono una prima casa
non può non far piacere l'idea di non pagare più un'imposta che ogni
anno "costa" in media più di 500 euro per ciascuna famiglia. Ma è
anche inconsistente, perché ai circa 8 mila comuni che ogni anno
riscuotono questo tributo non può non far paura l'idea di dover
rinunciare, dall'oggi al domani, a un gettito pari a circa 9
miliardi 950 milioni di euro (quasi 20 mila miliardi delle vecchie
lire), che da soli rappresentano più del 50% delle entrate
complessive delle amministrazioni.
Come si potrebbe coprire questo buco colossale aperto nelle casse
dei sindaci? Come si finanzierebbero i servizi locali attualmente
sovvenzionati con i proventi dell'Ici? Come si concilierebbe questa
scelta marcatamente "centralista" dello Stato con la mitica
devolution imposta al Paese dai federalisti-secessionisti in camicia
verde?
A tutte queste domande, ovviamente, il Cavaliere non ha fornito
alcuna risposta. Così come non ne ha fornite sulla copertura di
quelle poche misure economiche contenute nel programma della Cdl
(dal taglio di 3 punti del cuneo fiscale al quoziente familiare,
dalla rioduzione dell'Irap al bonus bebè) che tuttavia valgono non
meno di 35 miliardi di euro. Ma non è questo che andava cercando, il
Cavaliere, in quest'ultima "chiamata" agli elettori. Ha buttato via
un'ora e passa di dibattito, spesa a ripetere la rituale alluvione
di cose fatte ma inverosimili e di cifre pirotecniche ma
inverificabili ("un goulash di fatti e di numeri", come l'Herald
Tribune di ieri aveva definito la prova del Cavaliere nel precedente
duello). Ha sprecato almeno due ottime opportunità per mettere in
difficoltà il suo avversario e parlare alle fasce elettorali in
questo momento più "sensibili" (i cattolici sul tema delle coppie di
fatto e dei Pacs, e le donne sul fronte delle quote rosa e del
sostegno alle carriere). Ha fatto ricorso per l'ennesima volta alla
sola forza delle emozioni negative (riproponendo la minestra
riscaldata dei comunisti e della sinistra che pensa solo a
massacrare i contribuenti e a ingrassare il Moloch statuale).
Di fronte a un Prodi insolitamente calmo e particolarmente lucido,
anche nella giungla infida delle aliquote e dei tetti di reddito che
gli stessi alleati di centrosinistra avevano masochisticamente
contribuito a ingarbugliare in queste ultime settimane, Berlusconi è
sembrato ancora una volta un leader ormai proiettato nell'irrealtà
mediatica, molto più che nella realtà politica. Fino a quei due
minuti finali, quando il Cavaliere ha ritrovato per un attimo lo
smalto dell'imbonitore televisivo e visionario, ed è tornato al
registro confidenziale, e vagamente onirico, del leggendario
"messaggio" sulla discesa in campo del 1994: "L'Italia è il Paese
che amo...". Con tutto quel che seguiva e che è seguito, in termini
di produzione del consenso, di innovazione del dibattito pubblico e
di distruzione del tessuto sociale e istituzionale.
Qui c'è stata un'inversione dei ruoli. Prodi, che ha menato la danza
per tutto il confronto, ha perso l'occasione. Il suo messaggio
finale è stato corretto, ma ripetitivo e persino banale. Il Caimano
di Arcore, al contrario, ha tentato di rompere la gabbia nel quale
l'hanno cacciato cinque anni di logorante legislatura, e due mesi di
disperata rincorsa pre-elettorale. La proposta di abolire l'Ici
risponde a questa esigenza. Raggiunge l'obiettivo di dettare
l'agenda di questi ultimissimi giorni di contesa elettorale. Di qui
a dire che questa mossa a sorpresa basterà a invertire una rotta che
i sondaggi danno per segnata per il centrodestra, ce ne corre. È
difficile misurare l'effettiva efficacia della sortita berlusconiana.
È anche probabile che non sposterà un solo voto in un elettorato che
va verso la stabilizzazione. Anche tra quei 4 milioni di indecisi
che, gradualmente, si stanno decidendo, ma a quanto pare
distribuendosi in modo equanime tra i due schieramenti, e dunque
senza apportare sostanziali modifiche alla forbice che tuttora
separa il centrosinistra in vantaggio dal centrodestra
all'inseguimento.
Il colpo di coda del Caimano fa un certo effetto.
Ma probabilmente arriva fuori tempo massimo. Dopo cinque anni di
impegni sostanzialmente mancati, le parole del Cavaliere, con tutto
il rispetto, ricordano sempre di più quelle di Cetto Laqualunque,
ringhioso "cacicco" meridionale messo in scena da Antonio Albanese,
che contro "l'opposizione caina e bastarda" riesce solo a gridare:
"Vi prometto le promesse". Credergli è sempre più difficile.
1
aprile
Berlusconi ha inferto al
nostro paese danni gravissimi, quasi separandolo dalla comunità europea,
presentandolo come il paese della pizza e dei mandolini
Finisce male, malissimo il Cavaliere. Disperato,
furente, solo contro tutti, contro la stampa, contro i giudici, contro l'Europa
contro la Confindustria, contro il capitalismo. Proprio lui, che ha cavalcato da
sempre il capitalismo selvaggio, adesso che il suo potere svanisce si inventa,
come il Mussolini di Salò, una congiura degli industriali ai suoi danni.
Tutto pensavamo di questo crepuscolo del piccolo duce dai tacchi alti e dai
capelli finti, fuor che si atteggiasse a nemico del capitale alla testa di una
'lotta di classe dentro la classe', come ha scritto il suo Bombacci, il
direttore del 'Foglio'. Sbigottiti e un po' vergognati assistiamo alla
rivelazione piena delle sue miserie, delle sue inaudite gaffes. Massima quella
riproposta da Enrico Deaglio nel suo impressionante documentario, la seduta del
Parlamento europeo in cui il presidente del Consiglio italiano ha dato del kapò,
dello sbirro nazista, a un deputato tedesco che gli aveva ricordato la sua
appartenenza alla P2 e la contiguità con personaggi condannati per concorso
mafioso.
Ed è vero che la stampa italiana ne parlò diffusamente, ma senza lo sdegno che
avrebbe meritato la vista di tutti i parlamentari in piedi a gridare contro l'italianuzzo
presuntuoso e villano che aveva violato tutte le regole della buona educazione,
e creduto di poter fare impunemente il suo numero strafottente al Parlamento
europeo. Un gaffeur colossale che canta canzoni napoletane assieme a un
posteggiatore, che recita in inglese una sviolinata agli Stati Uniti e al
presidente George Bush che lo guarda divertito, che va in giro con una bandana
bianca sul capo per coprire l'operazione di trapianto, che parla dell'Italia
come un operatore di una società di viaggi.
Il giorno della sua incredibile recita anticapitalistica, il 19 marzo scorso, i
quotidiani erano in sciopero tutti, meno quelli berlusconiani di destra. Che nel
silenzio della stampa che conta, che informa, che rappresenta la società
italiana riempirono le loro pagine di lodi sperticate per il Cavaliere, incapaci
di giustificare i suoi deliri di addio.
Perché una delle molte differenze fra il mussolinismo e il berlusconismo è che
il primo riuscì per qualche anno a farsi seguire anche dalla borghesia delle
scienze e delle arti, mentre l'altro non è andato oltre una cultura leghista e
qualunquista, faziosa, ricattatoria. E se ha imitato Mussolini, ha imitato solo
quello di Salò e dei trionfi di cartapesta.
Sbigottiti prendiamo atto di questo finale di regime, dei danni gravissimi che
il Cavaliere ha inferto al nostro paese quasi separandolo dalla comunità
europea, presentandolo come il paese dei mandolini e delle pizze con un
incancellabile profumo di fascismo perenne. Sbigottiti pensiamo che grazie a
questo ometto gli eredi di Salò si ripropongono come nostri governanti e sfilano
con gagliardetti, croci uncinate e manganelli nelle strade delle nostre città.
Avevamo previsto una campagna elettorale isterica, violenta, ma l'ometto vuole
congedarsi con una mischia confusa e umiliante e già ci sono gli ultimi custodi
della sua fiamma che si dicono pronti a seguirlo fino al martirio. Ma non
preoccupiamocene, li ritroveremo tutti a cercare prebende e protezioni
democratiche, i salti della quaglia ci riporteranno all'unanimismo di regime
che, in fondo, è la nostra scelta fatale.
Resta la solita domanda del perché delle follie sociali? Perché questo
personaggio sin troppo scoperto nelle sue megalomanie e nei suoi abissali vuoti
di cultura ha avuto un così grande seguito nel nostro paese? Il direttore del 'Foglio',
che conosce bene lui e noi, dice che ci è servito per sfuggire alla noia. Ma a
che prezzo!
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