27 gennaio
Il Rapporto Eurispes 2006 denuncia
l'immobilismo dell'economia
e il conseguente arretramento del Paese, in attesa di
'soluzioni'
L'Italia
spreca il talento e declina
tra Don Gesualdo, Cassano e debiti
Paese che si
mostra incapace di esprimere tutte le sue risorse
E si indebita: prestiti per mantenere il livello di vita
precedente
di ROSARIA AMATO
Le famiglie italiane
hanno sempre più difficoltà a sostenere lo stesso livello di
vita
ROMA - Un Paese che non riesce a trasformare la propria
potenza in energia. Che accumula 'robba' che non si traduce in
ricchezza collettiva. Che perde per strada, per incapacità di
valorizzarli, talenti propri e importati. Per spiegare il
declino dell'Italia l'Eurispes, nel Rapporto 2006, tira in ballo
la filosofia aristotelica, Mastro Don Gesualdo, protagonista
dell'ominimo romanzo di Giovanni Verga, e infine un personaggio
dei giorni nostri, Cassano.
Aristotele. Per declinare in questo modo la metafora: di
Aristotele si cita la fisica, la trasformazione dell'essere in
potenza ad un essere in atto. L'Italia, spiega il presidente
dell'Eurispes Gian Maria Fara, è "un Paese dalle grandi risorse
e dalle grandi potenzialità che non riesce ad esprimere e ad
affermare un progetto di crescita e di sviluppo. Che non riesce
ad individuare un percorso orginale al quale affidare il proprio
futuro".
Mastro Don Gesualdo. Per cui la ricchezza accumulata, non
traducendosi in benessere e progresso per il Paese, diventa
inutile come la 'robba' di Mastro Don Gesualdo, che avrebbe
dovuto garantire al personaggio verghiano la sognata elevazione
sociale, e invece rimane lì, pronta per essere dilapidata dal
genero nobile e squattrinato.
Cassano. E così anche quello che avrebbe pregio, che
meriterebbe di essere valorizzato diventa inutile, improduttivo.
Come il giocatore della Roma Cassano, ricorda l'Eurispes,
acquistato dalla Roma nel 2001 per 30 milioni di euro, un
talento poco o nulla valorizzato dalla squadra, alla quale alla
fine non rimane che venderlo.
Il declino. In opposizione all'ultimo
Rapporto Censis che nega che in atto ci sia un
declino del Paese, e che parla anzi di segnali, sia pur deboli,
di cambiamento, l'Eurispes afferma senza mezzi termini che
"l'Italia è già 'declinata'", almeno quella alla quale eravamo
abituati, e ne sta nascendo un'altra che gli osservatori
stranieri non vedono e non considerano". E alla quale, contesta
Fara, si applicano inutilmente "analisi a scoppio ritardato e
ricette politiche bipartisan ancora legate ai modelli della
tradizione economica, che hanno mostrato il loro sostanziale
fallimento nel corso degli ultimi cinquant'anni".
I segnali: l'indebitamento delle famiglie. I più ampi ed
espliciti segnali di declino sono naturalmente la stagnazione
economica, il cattivo andamento della produzione industriale, la
dimuzione delle esportazioni, il debito pubblico...Tutti dati
già ampiamente noti, mentre vale la pena di soffermarsi sulla
crisi dei bilanci familiari, e sul conseguente aumento
esponenziale dell'indebitamento delle famiglie stesse. Nel 2005,
si legge nel Rapporto Eurispes, il credito al consumo ha avuto
una crescita del 23,4%, pari quasi a 47 miliardi di euro. Ma
all'impennata dei debiti non ne corrisponde una analoga dei
consumi, cresciuti a malappena nello stesso periodo dell'1%.
Questo perché le famiglie vi fanno ricorso "solo per mantenere
il vecchio, dignitoso livello di vita".
Prestiti anche per i consumi alimentari. Negli ultimi
anni si registra inoltre un allungamento dei crediti al consumo:
quelli la cui restituzione è prevista entro i cinque anni sono
passati dai 5.802 milioni di euro del 2001 ai 17,5 miliardi del
2005, con un aumento del 200%. Le famiglie ricorrono al credito
"soprattutto per far fronte ai bisogni essenziali (cure mediche
e specialistiche, automobili, elettrodomestici, servizi per la
casa, ecc) piuttosto che per acquistare beni e servizi
voluttuari quali, ad esempio, viaggi e vacanze. Peraltro si sta
diffondendo sempre più la pratica di credito al consumo per
l'acquisto di beni di prima necessità come quelli alimentari".
Pertanto, prevede l'Eurispes, nel 2006 la percentuale delle
famiglie italiane che vi farà ricorso aumenterà dell'11,8%.
Più poveri, più ricchi. Come segnalato anche da altre
ricerche, l'arretramento dell'economia ha schiacciato la classe
media, aumentando il divario tra ricchi e poveri. Alle 2.674.000
famiglie (l'11,7 %) povere rilevate dall'Istat secondo l'Eurispes
ne vanno aggiunge due milioni e mezzo a rischio povertà. Si
ottengono così 5.200.000 nuclei familiari, il 23% del totale, in
situazioni di indigenza. Che hanno tagliato le spese per il
tempo libero (61,5%), viaggi e vacanze (64%), destinate ai
regali (72%) o ai pasti fuori casa (oltre il 66%).
Mentre i nuovi ricchi vanno cercati, rilevano gli autori del
Rapporto, "nei settori finanziario, assicurativo, immobiliare e
dei servizi alle imprese". E poi tra i "commercianti
all'ingrosso e al dettaglio, imprenditori nel settore
dell'edilizia, immobiliaristi e agenti immobiliari, produttori e
rivenditori di beni di lusso, titolari di centri estetici e
beauty farm". E ancora, tra le "diverse tipologie di liberi
professionisti come avvocati e consulenti legali dei settori
finanziario, assicurativo e immobiliare, medici specialisti e
dentisti, commercialisti e tributaristi", categorie che "hanno
potuto sfruttare il ciclo economico di elevata inflazione
adeguando verso l'alto in maniera pesante onorari, tariffe e
parcelle professionali". Mentre a perdere sono stati i piccoli
risparmiatori, i piccoli imprenditori, tra i quali gli
artigiani, gli impiegati a stipendio fisso.
Cala la fiducia nelle istituzioni. Nei vari sondaggi che
registrano la fiducia dei cittadini nelle istituzione il
presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi è quasi sempre
in testa alle preferenze, e infatti anche per l'Eurispes non fa
eccezione. E tuttavia, fa notare l'istituto di ricerca, anche la
credibilità personale del presidente rischia di venire travolta
dalla sempre più dilagante sfiducia degli italiani nei confronti
di chi li governa: infatti Ciampi passa dall'80% per dell'anno
scorso e di due anni fa al 65,6% attuale. Il 49,2% degli
intervistati è "meno fiducioso verso le istituzioni" rispetto
allo scorso anno. Dopo Ciampi registra i maggiori consensi la
magistratura (38,6%), seguita dal Parlamento e dal governo con,
rispettivamente, il 24,6 e il 23%. Anche queste ultime sono
percentuali in ribasso (l'anno scorso erano al 44, 34 e 32,9%).
L'Italia in potenza. Il Rapporto Eurispes dopo una
disamina impietosa del declino passa a parlare delle
potenzialità. A cominciare dal patrimonio culturale che, nelle
stime dell'Unesco, assomma al 60-70% di quello mondiale. E poi
il turismo, e il suo matrimonio fruttuoso con l'agricoltura. "La
via d'uscita dalla crisi è legata - afferma Fara - alla
riscoperta e alla valorizzazione delle peculiarità e delle vere
vocazioni del nostro Paese. Trasformare la potenza in atto
significa dunque realizzare il passaggio da un sistema
produttivo orientato alla produzione di beni di consumo
individuali, materiali o immateriali, verso la produzione di
'ben vivere collettivo' in termini di riqualificazione urbana;
energie pulite e rinnovabili; salvaguardia del territorio,
dell'acqua e dell'aria; salute e prevenzione sanitaria;
agricoltura e sicurezza alimentare; ristrutturazione della
mobilità dei passeggeri e delle merci; ristrutturazione
disinquinante dei processi produttivi e uso più efficiente delle
risorse".
La raccomandazione: esecrabile ma gradita.
In una situazione piuttosto nera nella quale le prospettive
lavorative più rosee sono quelle di un precariato a vita,
l'italiano medio, pur vedendo la raccomandazione come "una
pratica negativa e discutibile per entrare nel mondo del
lavoro", la considera, nel 65% dei casi "un'occasione
d'inserimento", che per il 67,4% (con punte del 73,4% tra i più
giovani) risulta "necessaria".
25 gennaio
Approvato in commissione Vigilanza il provvedimento
sulla neutralità dei conduttori. L'Unione abbandona
l'aula
Par condicio, la Cdl vota
l'emendamento anti-Santoro
Michele Santoro
ROMA - Un emendamento che impedisce a Michele
Santoro di condurre una trasmissione durante il
periodo della in campagna elettorale. Lo ha votato
la maggioranza compatta in commissione di Vigilanza
Rai, dichiarando che si tratta di un emendamento nel
segno "neutralità" dei conduttori. Il riferimento
Santoro non è esplicito ma si parla di "persone che
hanno ricoperto un ruolo politico nell'ultimo anno".
L'Unione ha abbandonato l'aula al momento del voto.
L'emendamento vieta, durante il periodo di campagna
elettorale, la presenza in video che non sia per
partecipare ai programmi dedicati ai rappresentanti
delle liste e delle coalizioni anche a tutte "le
persone chiaramente riconducibili ai partiti e alle
liste concorrenti per il ruolo che ricoprono o hanno
ricoperto nelle situazioni nell'ultimo anno".
"E' un emendamento mirato contro Santoro - spiega il
capogruppo Ds, Giuseppe Giulietti - un ad personam
fatto con criterio punitivo".
Replica da An Ignazio La Russa, ma tutta la Cdl è
favorevole: "Abbiamo discusso ieri tutti insieme
nella Cdl di questa norma che non è dedicata
all'uomo ma alle situazioni. Il problema è di
valutazione, che spetterà al Consiglio di
amministrazione della Rai leggendo ed interpretando
questa norma. E' un problema di interpretazione che
non spetta a noi altrimenti avremmo scritto
'parlamentari europei' e gli italiani che ci votano
avrebbero detto 'avete fatto bene'".
LA POLEMICA
Lo spot della Mondaini
"Cavaliere, uomo da amare"
di SEBASTIANO
MESSINA
L'AUTHORITY dice che la tv non deve
favorire nessuno? Ma certo.
L'opposizione invoca la par condicio?
Ma naturalmente. Confalonieri ha
promesso che Mediaset si comporterà
"in modo corretto"? Ma ci
mancherebbe. Poi uno accende Canale5
e trova un superspot per "l'amico
Silvio".
"Un uomo che bisogna conoscere per
poter amare", come assicura Sandra
Mondaini con il cuore in mano. Cose
che capitano alle cinque della sera,
lontano dai telegiornali, dai Porta
a porta e dai Matrix, in
trasmissioni dove tutto ti
aspetteresti tranne che di veder
germogliare d'un tratto un fioretto,
anzi un mazzolin di fiori per "il
nostro datore di lavoro", come lo
chiama con rispettoso trasporto la
Mondaini, ovvero "per il nostro
presidente del Consiglio" come
precisa con compita devozione la
bella Paola Perego.
Siamo a "Verissimo", trasmissione a
cavallo tra la cronaca e il gossip,
due milioni e mezzo di
telespettatori che di solito non
restano in piedi fino all'una di
notte per aspettare Vespa o Mentana,
e che magari non guardano neanche i
telegiornali. Un target polposo di
elettorato popolare, insomma. Cosa
c'entra Berlusconi con la cronaca
rosa o con i pettegolezzi?
Nulla, si capisce. Ma a casa
propria, sulle sue reti, ognuno è
padrone di fare come gli pare. E non
ci vuole poi tanto a montare una
bella telepromozione politica, uno
spottone mascherato, un consiglio
per le elezioni in formato famiglia.
Se poi uno è bravo, riesce pure a
mascherarlo da servizio
giornalistico o da duetto
improvvisato, sfuggendo a ogni
rilevamento, a ogni regola, a ogni
misurazione.
Si fa così. Si estrapolano da
un'intervista al premier "scevra di
domande" (come l'ha definita lo
stesso intervistatore, Paolo Bonolis)
tre brani strappacore. Quelli in cui
il presidente del Consiglio parla
della moglie conquistata "dopo un
colpo di fulmine", dei figli che
"sanno fare a memoria le divisioni a
più cifre e accompagnano i malati a
Lourdes" e di mamma Rosa, "una donna
da combattimento" che metteva in
fuga i nazisti. Quelli, insomma,
come spiega la conduttrice alla
Mondaini, "in cui non è il politico
che parla ma l'uomo: il tuo amico,
Sandra".
Poi, con gli occhi lucidi di
ammirazione, interviene la moglie di
Raimondo Vianello (indimenticato
protagonista, nel 1994, di uno spot
identico, quello in cui annunciava a
"Pressing" che avrebbe votato per
l'unico uomo politico che conosceva
personalmente: Berlusconi). E lei,
alla domanda sul "peggior difetto"
del suo amico Silvio, risponde così:
"Io ho dei punti fermi. Mio marito.
I miei figli. Il professor Veronesi.
E il signor Berlusconi. Siamo amici,
ecco. In trent'anni che ho vissuto a
Roma non ho mai voluto conoscere dei
politici, perché i politici non mi
piacciono. Ma ho avuto la disgrazia
di conoscere un signore, di volergli
bene: il mio datore di lavoro.
Gentile. Divertente. Simpatico.
Ottimista. Io mi sono molto
affezionata a lui. E' un uomo che
bisogna conoscere per poter amare. E
io, essendo in un paese libero, lo
dico: voglio molto bene a Berlusconi".
Quale bilancia dell'Authority, quale
par condicio, quale cronometro
arbitrale potrà mai stabilire il
valore aureo di una simile
dichiarazione di ardenti affetti
aziendali e di cieca fiducia
politica? E quale compensazione
potranno pretendere concorrenti e
avversari, quando l'esempio della
Mondaini sarà imitato - da qui al 9
aprile - dagli altri conduttori di
Cologno Monzese, esattamente come
accadde undici anni fa, quando
Vianello fu seguito a ruota da Mike
Bongiorno, da Iva Zanicchi, da Ambra
Angiolini, da Alberto Castagna, da
Patrizia Rossetti, da Gerry Scotti e
da tutte le star del firmamento
Mediaset? Se non stanno attenti,
Rutelli e Fassino rischiano di
essere ricompensati con la stessa
moneta che è toccata la settimana
scorsa a Romano Prodi, al quale il
Tg di Italia Uno ha dato spazio solo
per insinuare il dubbio che abbia
barato, partecipando alla maratona
di Reggio Emilia.
In fondo, è la solita regola delle
tv berlusconiane: quando il gioco si
fa duro, i divi cominciano a
giocare.
La
Cina ha le mani sulla
gola del dollaro
Di
Mike Whitney
Sito originale
www.informationclearinghouse.info
Scelto e tradotto per
www.comedonchisciotte.org
da VICHI
“E’ un colpo mortale
per il dollaro,” è
stato il commento di
Peter Grandich,
editore della
Grandich Letter.
Giovedì scorso, la Repubblica Popolare
cinese ha sparato la
prima salva in
quella che può
diventare una
Apocalisse
economica. Ha
annunciato che
inizierà a
diversificare le
proprie riserve
monetarie in
dollari.
Gulp!
Oggi la Cina ha in riserva 769
miliardi di dollari,
che costituiscono la
maggior parte delle
proprie riserve. E’
una cifra
esorbitante,
qualunque criterio
di misura si voglia
adottare, e
corrisponde al 30%
circa del PIL
cinese. Purtroppo le
spese pazze
dell’amministrazione
Bush hanno reso il
dollaro un cattivo
investimento a lungo
termine, per questo
motivo
la Cina
deve scegliere fra
cambiare strategia o
sostenere grosse
perdite. Si tratta
di una questione
spinosa che la Cina deve trattare con la
dovuta delicatezza
in quanto un
comportamento troppo
aggressivo può
scatenare una corsa
alla vendita del
dollaro con
conseguente
svalutazione.
E’ improbabile che
la Cina
si comporti
avventatamente ma il
solo annuncio del
suo cambiamento di
strategia ha messo
in subbuglio i
mercati finanziari.
I futuri sull’oro
sono già aumentati
del 4% in una
settimana dal
momento che i grandi
acquirenti
istituzionali hanno
riconosciuto che il
dollaro è destinato
a finire nella
spazzatura. Dalla
nomina di Bush l’oro
è passato da 200
dollari a 540
dollari, segno
sicuro che gli
investitori hanno
perso la speranza
che Washington sia
in grado di
controllare la
spesa.
Anche se la Cina non si mette a vendere i
propri dollari c’è
da aspettarsi una
considerevole
volatilità nei
mercati di lunedì.
La Federal Reserve
ha anticipato
l’azione della Cina.
Ecco perché il
comitato dei
direttori della
Federal Reserve ha
annunciato,
all’inizio
dell’anno, che non
renderanno più
pubblichi gli
aggregati monetari
M3 (che comprendono
i seguenti
componenti: depositi
a lunga scadenza,
accordi di
riacquisto, e
eurodollari). In
questo modo la Fed può stampare una quantità di carta moneta tale
da assorbire le onde
d’urto derivanti da
improvvise grosse
vendite di dollari,
senza che il
pubblico venga a
conoscenza di cosa
stia accadendo. Si
tratta di un bel
trucchetto capace di
espropriare gli
americani dei loro
sudati risparmi
mentre il dollaro
continua a scavare
la propria tomba.
Greenspan sapeva che
questo giorno
sarebbe arrivato,
ecco perché,
probabilmente, è
andato in pensione
in anticipo;
godendosela alle
Barbados mentre il
peggio sta per
arrivare. Ecco che
cosa ha riferito in
aprile al comitato
senatoriale del
bilancio:
“Il bilancio
federale si trova in
un sentiero
insostenibile,
perché i grossi
deficit provocano un
aumento dei tassi di
sconto i quali, a
loro volta,
provocano un aumento
dei pagamenti per
gli interessi, che
provocano ancora più
grossi deficit. Se
non si cambia strada
tutti questi deficit
provocheranno il
blocco o peggio
dell’economia.”
“Un sentiero
insostenibile”?!?
E’ stato proprio
Greenspan e Bush che
si sono incamminati
sul “sentiero
insostenibile”. E’
stato lui a
sostenere con
entusiasmo il taglio
delle tasse del
presidente, 450
miliardi annui,
andati a favore
dell’1% della
popolazione che
dovrebbe
rappresentare. Il
taglio delle tasse,
da solo, ha messo il
paese sulla strada
della catastrofe.
Con l’azione
congiunta di
Greenspan e Bush il
debito pubblico ha
raggiunto
l’incredibile cifra
di 3 mila miliardi
di dollari. Sempre
lui ha favorito
pratiche finanziarie
dubbie (mutui a
tasso variabile,
ratei a tasso zero,
prestiti con solo
gli interessi) che
hanno gonfiato la
bolla immobiliare
con una un onda di
acquisti speculativi
senza precedenti.
Mentre la Fed continua ad aumentare i tassi e a stringere i
cordoni dei
prestiti, la bolla
si sta lentamente
avviando verso
l’abisso portandosi
con sé il futuro
economico
dell’America.
Greenspan ha
anestetizzato il
paese con la
politica dei tassi a
basso interesse
mentre Bush e Co.
hanno fatto ricorso
al massimo del
credito possibile
caricando la nave
con tutto quello che
vi era nelle casse
pubbliche. Intanto
l’economia ha
cominciato ad
arrancare proprio
mentre Greenspan
teneva nascosti gli
effetti a lungo
termine dei grossi
deficit dietro una
montagna di denaro a
basso costo. Adesso
il pozzo è asciutto
e l’America si
troverà di fronte a
interessi sempre
crescenti, a una
economia stagnante e
a un dollaro in
caduta.
La mossa della Cina
ci segnala che
stiamo entrando in
un periodo di
instabilità
economica, nel quale
il futuro
dell’America si
troverà alla mercè
dei suoi creditori.
I tassi di interesse
sui mutui americani
verranno stabiliti
dalla politica
economica della
Cina.
Benvenuto nel nuovo
mondo, compagno.
La Fed
pensa di poter
gestire la cosa
manipolando
l’offerta di denaro
di nascosto della
pubblica opinione.
Si vedrà.
L’ultima volta che
Greenspan ha messo
in atto questo
trucco ha diminuito
i tassi di 12 volte
in un anno e mezzo
mentre la pressione
della borsa
diminuiva lasciando
l’economia col
salvagente.
Greenspan sa che gli
interessi bassi
(“soldi facili”) non
possono prevenire
sempre il disastro.
Se la Cina comincia a vendere i suoi dollari è la fine
per il biglietto
verde. Anche il
Giappone sarà
costretto a vendere,
con a poca distanza
anche
la Germania. Le
nazioni minori si
accoderanno alla
frenesia di vendita,
seguiti dai fondi
pensione e altro. Si
tratterà di una
passeggiata nella
Repubblica di Weimar
degli anni 30.
E allora?
Lunedì
la Fed
inietterà
“preventivamente”
miliardi di miliardi
nel sistema per far
aumentare la
liquidità e
soffocare sul
nascere una
possibile corsa al
dollaro. In questo
modo si può far
finta di una
apparente normalità
mentre quel poco di
ricchezza che è
rimasta ancora alla
classe media verrà
deviata nelle tasche
di flanella dei
banchieri centrali
grazie
all’inflazione.
Questo spingerà
l’economia americana
verso una
traiettoria
discendente con alla
fine una penuria da
terzo mondo.
L’America è sulla
strada di una
iperinflazione; che
farà a pezzi la
classe media, minerà
i programmi popolari
sociali, schiaccerà
i sindacati,
privatizzando tutte
le aree del governo
federale, si
“pareggeranno” i
posti di lavoro (per
usare la
terminologia di un
guru della
globalizzazione, Tom
Friedman) e gli
americani saranno
costretti a
competere con i
lavoratori meno
pagati del mondo.
Gli effetti dei
grossi deficit sono
ben noti. Alla fine
le galline
torneranno nel
pollaio mentre i
poveri e la classe
media soffriranno
terribilmente.
Stavolta non sarà
diverso.
24 gennaio
Il
Cavaliere e l'ultima trincea
di MASSIMO GIANNINI
SI AVVICINA l'epilogo della temeraria avventura
berlusconiana. E in un misto di arditismo e di
dannunzianesimo, il Cavaliere lancia la sua ultima
sfida. La più estrema, la più dissoluta. La lancia
contro l'uomo che, in questa legislatura vissuta
pericolosamente, ha saputo arginare con la sua
popolarità indiscussa il discutibile populismo del
premier. La lancia contro l'istituzione che, con una
sapiente strategia di contenimento, è riuscita ad
attenuare le spallate del "monarca repubblicano" di
Arcore. Con la sua minaccia sul possibile rinvio a
maggio della data delle elezioni, Berlusconi sfida a
viso aperto il capo dello Stato. Ciampi, il garante
della Costituzione e il simbolo dell'unità
nazionale. Il "presidente di tutti", del quale si
sono fidati i due Poli e nel quale si riconoscono
gli italiani.
Dunque, a poche settimane da un voto colpevolmente
declinato come "scontro di civiltà", il capo del
governo porta l'attacco al cuore delle istituzioni.
Un conflitto di questa portata non ha precedenti.
Non solo in questo tormentato quinquennio, ma
nell'intero arco della storia italiana del
dopoguerra. In un crescendo di falsità e di
forzature, il premier pretende che il suo governo, e
il Parlamento in cui domina la maggioranza che lo
sostiene, sopravvivano a se stessi. A dispetto
dell'inconcludenza degli organismi e
dell'intelligenza delle persone. "Ormai le riunioni
del Consiglio dei ministri - confessa uno dei membri
più autorevoli dell'esecutivo - sembrano sedute
spiritiche...".
Ancora una settimana. Meglio ancora due. Quella del
presidente del Consiglio è una pretesa
inaccettabile, perché basata sul tradimento di un
patto e politico e istituzionale.
Era stato lui stesso, alla conferenza di fine
d'anno, ad annunciare ufficialmente che la data di
scioglimento delle Camere era fissata al 29 gennaio.
Era stato lui stesso, nell'incontro al Quirinale di
domenica sera, a garantire al capo dello Stato che
"la data delle elezioni non è in discussione". È
stato lui stesso, ieri mattina ai microfoni di Radio
24, a ripetere che il governo "mantiene la data del
voto al 9 aprile". Poi, in serata, mentre era già in
corso la riunione dei capigruppo della Camera e
Casini si accingeva a salire sul Colle, è partito
l'affondo. O slitta al 15 febbraio lo scioglimento
delle Camere, o slitta a maggio la data delle
elezioni. Un finto revolver puntato alla tempia
degli alleati. Un vero ricatto recapitato sulla
scrivania di Ciampi.
È una pretesa irresponsabile, perché basata sulla
politica ad personam che contraddistingue l'intera
parabola berlusconiana. Nella visione disperata del
Cavaliere, due settimane in più di durata in carica
del Parlamento significano due settimane in meno di
vigenza dell'odiata par condicio. Cioè di quella
"legge liberticida" senza la quale - come sta
avvenendo in queste giornate surreali - il premier
può mandare quotidianamente in onda il suo Truman
show, dagli studi di Biscardi e Bonolis ai microfoni
di Isoradio e Radioanch'io. Sa che questa offensiva
mediatica non produce effetti sul piano dei
consensi. Non lo schioda nei sondaggi. Ma è "l'arte"
che gli è sempre piaciuta di più, e che gli riesce
meglio. Da uomo di governo ha fatto l'unico errore
che da uomo di azienda non avrebbe mai commesso: ha
provato a spacciare gli obiettivi per risultati. Ha
fallito. E dunque la manipolazione radiotelevisiva è
ormai anche l'unica arma che ha a disposizione. Se
non per sovvertire il risultato elettorale, quanto
meno per ridurne il danno.
Ma nella visione distorta del Cavaliere, due
settimane in più di durata in carica del Parlamento
significano anche la possibilità di imporre al
potere legislativo e a quello giudiziario l'ultimo
colpo di spugna sui suoi guai processuali. Con altri
quindici giorni a disposizione, diventa possibile
ripresentare il provvedimento sull'inappellabilità
delle sentenze, che proprio il Quirinale gli ha
appena respinto per "palese incostituzionalità".
Diventa possibile applicare alla legge Pecorella il
"metodo" già collaudato con la legge Gasparri: un
intervento formale di window dressing, che fa finta
di recepire i rilievi del Colle ma lascia invariato
l'impianto sostanziale delle norme. E che obbliga il
capo dello Stato a promulgare, inchiodato ai suoi
doveri dall'articolo 74 della Costituzione. Così, se
non può ottenere dal popolo il rinnovo definitivo
del suo "contratto" da premier, il Cavaliere può
almeno estorcere al Parlamento la cancellazione
preventiva delle sue sentenze di condanna.
Se c'è ancora una trincea, che
può respingere l'assedio, questa è di nuovo sul
Colle. La resistenza di Ciampi, in un momento così
delicato della transizione italiana, è la resistenza
di tutti i cittadini che hanno ancora a cuore i
destini del Paese. La gravità di questa "balcanizzazione"
dei rapporti politico-istituzionali, anche se non si
materializza nell'attentato alla Costituzione
formale e ai suoi dettami, rappresenta l'ultimo
sfregio alla costituzione materiale e alle sue
regole. Scioglimento delle Camere, decreto di
indizione dei comizi elettorali e data del voto sono
un tutt'uno, che serve a dare garanzie ai partiti e
certezze agli elettori. Spezzare l'unità di questo
circuito, per puro tornaconto personale o
processuale, è quasi un atto sedizioso. Lo è sotto
il profilo "tecnico", anche se non giuridico. Le
norme e le consuetudini costituzionali, per poter
innervare la vita democratica, presuppongono la
"leale collaborazione" tra le istituzioni. Sono
proprio questi i presupposti che Berlusconi ha
sistematicamente manomesso in questi cinque anni, e
che oggi si dichiara pronto a far saltare
definitivamente. "Le combattent supreme... maschera
gioiosa in situazione disperata, trucco pesante,
sguardo volitivo... si moltiplica sugli schermi come
una serigrafia di Andy Warhol. Chapeau, onorevole
presidente...". È l'epitaffio che gli ha dedicato
Giuliano Ferrara sul Foglio di venerdì scorso. Chi
vuole bene a questo Paese, come Ciampi e come tutti
noi, non trova una sola ragione al mondo per
condividerlo.
22 gennaio
Berlusconi a Palazzo Chigi
tra Masaniello e James Bond
di EUGENIO SCALFARI
Fin da quando fu
chiaro che il disincanto dell'opinione pubblica nei
confronti del governo Berlusconi aveva assunto
caratteristiche di massa il maggior timore che agitò
il mondo politico e istituzionale derivò dalle
reazioni che quel disincanto avrebbe potuto
provocare nell'anima e nei comportamenti del
presidente del Consiglio e della "falange" dei suoi
più stretti collaboratori. Si disse: farà il
possibile e l'impossibile per conservare il potere,
supererà i limiti del buon gusto, forzerà
l'interpretazione oltre che la lettera del diritto
pubblico e se tutto questo non basterà adotterà
pratiche di manipolazione del consenso deformando le
istituzioni, il costume e l'etica democratica.
Questi erano i timori, specie dopo la schiacciante
vittoria del centrosinistra nelle elezioni regionali
e questo si è ampiamente verificato dal 2004 ad
oggi. Restano ancora una dozzina di settimane al 9
aprile, giorno fissato per le elezioni. Una "via
crucis" abbastanza lunga che richiederà molta
attenzione affinché i continui colpi di scena ai
quali stiamo assistendo non si trasformino in
eversione strisciante di cui si hanno già i primi e
assai preoccupanti segnali.
Il primo segnale si è avuto con l'invasione
quotidiana delle trasmissioni radiofoniche e
televisive al ritmo di almeno due o tre volte al
giorno. Trasmissioni le più diverse, da quelle di
dibattito politico a quelle d'intrattenimento, dai
monologhi di fronte a conduttori conniventi o
ammutoliti ai contraddittori con esponenti politici,
da apparizioni concordate con i dirigenti di Rai e
di Mediaset a sortite inattese e non previste.
È
accaduto di tutto e ancora accadrà. Assisteremo anzi
ad un crescendo del fenomeno di sconvolgimento e
scompiglio dei palinsesti, nonostante gli appelli
reiterati del presidente della Repubblica che
continua a invocare il pluralismo, la moderazione
dei toni e il conflitto civile delle opinioni.
Avendo capito che una legge per abolire la par
condicio non è tecnicamente e politicamente
possibile, ora il governo pensa di prorogare di due
settimane o almeno di una la vita del Parlamento. Lo
scioglimento delle Camere, secondo le dichiarate
intenzioni di Palazzo Chigi, dovrebbe cioè avvenire
a metà febbraio anziché, come concordato con Ciampi
appena tre settimane fa, il 29 gennaio. La
motivazione reale è chiara: continuare l'occupazione
dei video e dei microfoni e restringere
l'applicazione della par condicio agli ultimi trenta
giorni anziché a quarantacinque.
E' possibile che l'effetto di questa inflazione
televisiva sia un rigetto dell'occupante e delle
tesi da lui sostenute, ma resta il fatto che non si
era mai visto un simile fenomeno di prevaricazione
sfrontata e di passiva rassegnazione da parte dei
dirigenti e dei conduttori delle varie trasmissioni,
fino all'assurdo dell'Isoradio che fornisce
all'utenza le informazioni sul traffico
automobilistico, anch'essa rallegrata dall'impetuosa
e improvvisa partecipazione del presidente del
Consiglio.
Ma l'aspetto di gran lunga più preoccupante di
questa campagna para-eversiva riguarda l'aggressione
in atto da molti giorni contro i Ds sulla vicenda
Unipol. Si fa strada l'ipotesi (di cui non mancano
seri indizi) che vi siano coinvolti addirittura
uomini dei vari servizi di sicurezza. Ipotesi molto
circostanziate, relative alla fuga di notizie e di
intercettazioni telefoniche disposte dalla Procura
ma utilizzate a sua insaputa da pubblici ufficiali
infedeli alle norme che presiedono al loro delicato
lavoro.
Si tratta, finora, di inchieste giornalistiche
ricche tuttavia di riscontri documentati e di
induzioni assai solide. Se ne trova ampio
riferimento negli articoli pubblicati da Repubblica
ma non soltanto. Del resto le deduzioni logiche sono
difficilmente controvertibili. La Procura di Milano
ha già dimostrato che la fuga di notizie e documenti
non può essere avvenuta dai suoi uffici. È dunque
evidente che sia avvenuta da uno o più operatori in
ascolto delle conversazioni intercettate. Tali
operatori sono militari della Guardia di Finanza.
I testi registrati e trasmessi al Giornale (di
proprietà della famiglia Berlusconi) a cominciare
dall'ormai famosa conversazione Consorte-Fassino,
provengono dunque da quelle fonti alle quali non
dovrebbe esser difficile dare un nome poiché si
conoscono le date e l'ora delle intercettazioni
dalle quali è automatico risalire al nome degli
operatori.
Si tratta come è evidente di ipotesi molto gravi
alle quali tuttavia non c'è alternativa poiché solo
da lì quei documenti possono essere usciti. Il
presidente del Consiglio sta giocando dunque col
fuoco e potrebbe bruciarsi non solo le dita ma la
mano intera.
Un altro segnale anch'esso molto preoccupante
proviene dall'insolita visita di Berlusconi alla
Procura di Roma. Ne avevamo già parlato la settimana
scorsa ma ancora non si conosceva l'esito di quella
sua "deposizione" e i problemi che ora stanno
dinanzi ai magistrati che l'hanno raccolta. "Non
aveva alcun contenuto giudiziariamente rilevante" ha
detto più volte lui e ha confermato l'avvocato che
l'aveva accompagnato. "Non era una denuncia" ha
aggiunto ancora il presidente del Consiglio e il suo
avvocato ha confermato.
Tuttavia il procuratore capo della Repubblica e i
suoi sostituti incaricati dell'inchiesta Unipol
hanno dato seguito a quella "non denuncia" che
faceva tuttavia i nomi di terze persone; per la
precisione di Prodi, Rutelli, Veltroni, D'Alema,
Bernehim e Tarak Ben Ammar, quest'ultimo socio in
affari di Berlusconi e da lui indicato come sua
fonte d'informazione.
Evidentemente i procuratori di Roma hanno trovato
che nella deposizione del presidente del Consiglio
qualche cosa di giudiziariamente rilevante c'era,
altrimenti perché avrebbero indicato a comparire
dinanzi a loro alcune di quelle persone sopra
indicate? Perché li avrebbero sottoposti a
interrogatorio?
Berlusconi ha anche aggiunto che le informazioni da
lui trasmesse ai magistrati avevano però un rilievo
politico. Se ne deve per caso dedurre che i
procuratori di Roma fossero interessati al rilievo
politico? E quindi si prestassero all'uso politico e
non giudiziario della deposizione del premier?
Sarebbe gravissimo se così fossero andate le cose,
ma tutto ci porta a escluderlo.
Resta comunque acclarato che i magistrati dettero
seguito alla deposizione del premier trasformando
così la non denuncia in una denuncia vera e propria.
Che cosa hanno accertato? Che gli incontri sono
avvenuti. Che furono promossi da Bernehim. Che oltre
a quelle persone Bernehim incontrò anche Berlusconi,
dopo Prodi e dopo D'Alema e prima di Rutelli e di
Veltroni. Che non avevano affatto parlato di Unipol,
salvo che con Berlusconi medesimo. Il tutto è stato
confermato da Tarak Ben Ammar, parola per parola,
con una mezza smentita al suo socio sulla questione
Unipol.
Tutto chiaro. "La questione per noi è chiusa" hanno
detto i procuratori. Chiusa? Non direi. Il
procuratore capo ed i suoi sostituti hanno compiuto
atti giudiziari rilevanti sulla base di una non
denuncia che si trasforma in denuncia da parte del
presidente del Consiglio. Non trovano niente di
penalmente rilevante, cioè in altre parole la
denuncia risulta sballata. Ma resta che era
calunniosa.
Politicamente calunniosa, su questo non c'è dubbio,
ma anche tecnicamente calunniosa. Quando si attiva
il magistrato, cioè la giurisdizione, ipotizzando
che un reato sia stato compiuto e risulta invece che
il reato non ci sia, si configura tecnicamente una
calunnia che i magistrati debbono perseguire
d'ufficio.
Perciò mi permetto di chiedere al procuratore della
Repubblica: è stato compiuto un reato di calunnia
dal presidente del Consiglio? Se così fosse, lei
dovrebbe iscriverlo nel registro degli indagati.
Oppure lei - inconsapevolmente certo - si è prestato
all'uso politico di una non denuncia, come si può
vedere dai giornali e dalle televisioni che hanno
aperto per molti giorni le prime pagine su questa
faccenda. Una risposta sarebbe non solo gradita ma
indispensabile.
Nella conferenza stampa di Tarak Ben Ammar dopo il
suo interrogatorio in Procura si dice anche che lui,
Tarak, non era la sola fonte e che sulla vicenda
Unipol "il presidente Berlusconi ha anche altre
fonti" del resto Berlusconi non lo nega affatto anzi
lo dichiara con orgoglio. Ha detto ai suoi
collaboratori: "Bisogna continuare su Unipol, tra
poco spero di saperne molto di più".
Ernesto Galli della Loggia ha scritto sul "Corriere
della Sera" che il presidente del Consiglio sta
reincarnando una versione moderna e mediatica di
Masaniello e il giornale l'ha messo anche nel titolo
di quell'articolo. Masaniello. Un populista e
demagogo che sollevò il popolo napoletano contro il
potere e poi si mise d'accordo col potere stesso.
Poi finì male.
Il paragone con Masaniello deriva dalla demagogia e
mi sembra perfettamente appropriato, ma ora si deve
aggiungere un altro paragone altrettanto
appropriato, quello con l'indimenticabile James Bond.
E' evidente che James Bond più Masaniello
costituiscono una miscela esplosiva, per di più
quando queste due figure beneficiano dei poteri e
delle prerogative del capo del potere esecutivo.
Voi capite che i timori che
derivano da questa situazione sono pienamente
giustificati.
19 gennaio
INTERVISTA
Un'altra Guantanamo. In Afghanistan
Sam Zarif di Human Rights
Watch parla della prigione di Pol-e-Charki, vicino a Kabul
PATRICIA LOMBROSO
La prigione di Pol-e-Charki, in Afghanistan si
appresta a diventare la seconda Guantanamo. Una volta terminata la
ristrutturazione del carcere di massima sicurezza, vi verranno
rinchiusi oltre 200 prigionieri afghani di Guantanamo. E' questo
l'accordo segreto firmato fra l'amministrazione degli Stati uniti e
il governo di Karzai. Sarà un altro "buco nero" del limbo giuridico
escogitato da Bush?Gravi e inquietanti timori di ulteriore impunità
in violazione dei diritti umani e dei trattati internazionali, di
abusi e torture vengono sollevati da Sam Zarif, dell'organizzazione
Human Rights Watch, tornato in questi giorni
dall'Afghanistan, nell'intervista a il manifesto alla vigilia
di un rapporto che anticipa un altro scandalo che potrebbe
abbattersi sui paesi membri dell'Unione europea in quanto
finanziarori della «riforme» della giustizia e del sistema penale
afghani.
Lei è un esperto di Human Rights Watch
per l'Afghanistan e ha visitato la «nuova Guantanamo». Che
impressione le ha fatto? La prigione di Pol-e-Charik è un carcere di
massima sicurezza. La più grande prigione afghana, a 15 miglia da
Kabul. Risale ai tempi sovietici, fatiscente, condizioni di
detenzione inenarrabili, paragonabili al carcere di Abu Ghraib, in
Iraq. Gli americani hanno già iniziato da mesi a ripulirla e
ristrutturarla con i finanziamenti dei paesi «donatori» dell'Unione
europea.
L'Italia figura tra i paesi «donatori» dell'Unione europea?
Una competenza attribuita all'Italia in Afghanistan è la
cooperazione alla riforma del sistema giudiziario e pertanto dei
diritti legali dei detenuti, ora inesistenti, previsti dai trattati
internazionali ma ignorati dagli Stati uniti. I dettagli del
programma non sono ancora pubblici, ritengo tuttavia chel'Italia sia
coinvolta nella ristrutturazione del carcere di massima sicurezza di
Pol-e-Charki.
E' riuscito ad accertare quando avverrà il trasferimento dei
detenuti afghani da Guantanamo?
Paradossalmente gli americani hanno stipulato un accordo bilaterale
con Karzai per cui pretendono dal governo di Kabul, prima del
rimpatrio degli afghani di Guantanamo, garanzie sul rispetto delle
norme a tutela dei diritti dei «presunti terroristi» catturati in
guerra.
Gli Stati uniti, non sono in violazione di tutti i trattati
internazionali e americani per le detenzioni e le torture a
Guantanamo ma non solo?
Certamente. Gli Stati uniti in pratica decidono sulla base dei loro
interessi politici quali dei trattati internazionali che hanno
firmato osservare o ignorare.
Dei 500 detenuti nella Guantanamo di Cuba quanti afghani verranno
trasferiti nella Guantanamo dell'Afghanistan?
Sono circa 200. Nella nuova Guantanamo gli americani vogliono
trasferire i prigionieri sotto loro controllo a Kandahar e nella
base aerea di Bagram.
Quanti sono?
Ufficialmente gli americani detengono senza processe e maltrattano
500 prigionieri. Ma a Bagram si sa che un numero di afghani mai
precisato ed impossibile da verificarei finisce poi in piccole
carceri segrete, inaccessibili a chiunque, persino alla Croce rossa
internazionale e all'Afghan Human Watch. Sono cittadini
qualunque arrestati e che scompaiono per settimane in mano alle
Forze speciali Usa che operano a Kabul, non tutti con uniforme
militare.
Quanti sono i «desaparecidos» afghani incarcerati?
Un numero imprecisato. Ho intervistato famiglie a Kabul disperate
perché dei loro congiunti sono stati arrestati e sono spariti.
Nessuno ne sa più nulla. Arrestati, interrogati per settimane,
torturati, senza neppure il pretesto di essere «presunti
terroristi». E poi gettati a Bagram.
Quante sono queste prigioni segrete Usa sparse lungo i confini a sud
dell'Afghanistan?
Sono 20 o 30 prigioni, inaccessibili, sotto esclusivo controllo
americano. Sono chiamate le Forward Operation Bases. Qui è la
prima tappa dove normali cittadini, e non «terroristi», vengono
rinchiusi. In quelle basi nessuno riesce a sapere chi è vivo, chi è
stato torturato, chi è morto durante la detenzione.
Questi centri di detenzione segreta non sono sotto il controllo
della Cia?
I centri segreti Cia di detenzione, denominati «salt Pit» o «dark
sites», sono di solito all'interno delle basi militari e lì
vengono interrogati e torturati i detenuti ritenuti «sospetti» e
utili per i servizi segreti. In queste 30 Forward Operation Bases
sparse in Afghanistan, le Forze speciali americane, con o senza
l'uniforme, portano i la gente non «sospetta» presa per strada.
Gente che scompare, le famiglie non sanno le ragioni, si rivolgono
alle autorità afghane per chiedere notizie, queste a loro volta
chiedono chiarimenti al comando americano, che rifiuta qualsiasi
informazione.
Quali i timori di Human Right Watch e cosa leggeremo nel
rapporto che pubblicherà?
Temiamo che l'accordo stipulato fra l'amministrazione Usa e il
governo afghano abbia l'obiettivo, con il consenso di Kabul, di
usare il carcere di Pol-e-Charki per i prigionieri, non
necessariamente ed esclusivamente afghani, mandati dagli Stati uniti
in quanto ritenuti a «rischio terrorismo». Senza prove di
colpevolezza, senza processo, né diritti legali. Detenuti trasferiti
da una Guantanamo all'altra. Una Guantanamo in Afghanistan lontana
dalla vista e pressione mondiali.
Quali i vostri timori per il coinvolgimento delle forze Nato in
Afghanistan?
I paesi Nato in Afghanistan non hanno la competenza né il diritto di
arrestare e tenere in prigione gente col pretesto di garantire la
sicurezza del paese. Anche in territorio afghano saranno sempre gli
americani a esercitare il controllo e dare l'imprimatur sulla
sicurezza.
18 gennaio
Il nonno di Bush
decorato dai nazionalsocialisti
Maurizio Blondet - 17/01/2006 -
www.effedieffe.com
Nel 1937 Adolf Hitler istituì l'ordine dell'Aquila Tedesca per
decorare gli «stranieri meritevoli». Uno degli americani decorati fu
il nonno dell'attuale presidente USA: il senatore Prescott Sh. Bush.
La motivazione: avere fortemente finanziato, con la sua banca, il
NDSAP, il partito nazionalsocialista. Il certificato di conferimento
dell'onorificenza è firmato da Hitler e dal suo segretario di Stato
Otto Meissner, e datato 7 marzo 1938. Il tutto è conservato negli
archivi del Dipartimento della Giustizia USA, insieme a
un'ingiunzione delle autorità americane a nonno Bush, datata 1942, a
cedere le azioni di una banca legata al Terzo Reich.
E' una storia istruttiva. Nato nel
1895 e scomparso nel 1972, Prescott Bush è stato membro della Skull
and Bones, la società segreta di Yale, necessario trampolino per
l'accesso ai «salotti buoni» e occulti dell'America che conta.
L'ascesa di Prescott Bush in questi ambienti avviene di colpo nel
1926, quando sposa Dorothy, figlia del banchiere George Herbert
Walzer. Il suocero lo introduce nella finanziaria («banca privata e
d'investimento») W.A. Harriman & Co., della nota famiglia Harriman:
e non dalla porta di servizio. Prescott Bush è assunto fin dal primo
giorno come vice-presidente.
La ditta cambiò presto nome in Brown
Brothers Harriman, e crebbe fino a diventare la prima banca d'affari
del pianeta.
Nonno Prescott crebbe con lei, fino a dirigere e guidare come
azionista principale una consociata, la Union Banking Corporation (UBC).
Averell Harriman in persona (1) aveva fondato la UBC nel 1924 come
per stringere un'alleanza d'affari con i Thyssen, la famiglia di
industriali tedeschi dell'acciaio che finanziava Hitler fin dagli
anni '20.
Una banca olandese dei Thyssen, la Bank voor Handel en Scheepvaart,
usò la UBC come prestanome per varie attività e imprese che
controllava in USA, ma in cui non voleva apparire; c'è il fondato
sospetto che questi affari fossero condotti a nome di, e a vantaggio
di, alcuni dei più alti gerarchi, Goebbels, Goering e Himmler.
Nell'alleanza di affari, gli Harriman e Prescott Bush (che era
direttore esecutivo della UBC) ebbero strette e cordiali relazioni
anche con Friedrich Flick, un altro magnate tedesco dell'acciaio che
sarebbe stato poi condannato a Norimberga.
Le varie ditte che facevano capo ad Harriman, a Bush e ai Thyssen
condividevano un unico lussuoso ufficio a Broadway, New York.
Gli affari col Terzo Reich proseguirono quasi per un anno dopo che
gli USA erano scesi in guerra contro la Germania.
E non furono Bush e Harriman a mettere fine al business, ma lo Stato
americano.
Il 31 luglio 1941 il Washington Post pubblicava un articolo dal
titolo: «Hitler's Angel has $ 3 million in US Bank».
L'angelo di Hitler era Fritz Thyssen, e la banca in questione era la
UBC.
M a il giornale non faceva i nomi di Bush e Harriman: intoccabili
come sempre.
In seguito all'articolo, Harriman e Bush si affrettarono a
nascondere i loro affari coi nazionalsocialisti in un insieme di
scatole finanziarie, in modo da celarne la reale proprietà.
Solo il 20 ottobre 1942 il Congresso, in base al «Trading with the
Enemy Act», sequestrò gli attivi della Union Banking Corporation,
che furono poi liquidati: gli atti relativi descrivevano Bush e
Harriman come «nominees», ossia prestanome del vero azionista di
maggioranza, Thyssen.
L'ordine di sequestro numero 248, firmato dall'«alien property
custodian» Leo T. Crowley è ancora negli archivi federali.
La decorazione nazista di nonno Bush era dunque ben meritata.
Tuttavia era solo una decorazione di terza classe.
Un altro americano ricevette l'Aquila Tedesca di prima classe (una
stella da appuntare sul petto): Thomas Watson.
Chi era costui? Thomas Watson (1874-1952) è il fondatore della
International Business Machines, ossia della IBM. Allora, i computer
erano di là da venire.
Ma Watson, nel 1937, fornì ai nazionalsocialisti un enorme sistema
di macchine contabili IBM a scheda perforata che servirono ai
censimenti, alla contabilità e ad altre operazioni del regime, fra
cui la schedatura di ebrei, comunisti e sospetti avversari interni
da parte della Gestapo.
Attraverso la sua sussidiaria tedesca Dehomag, la IBM continuò a
fornire i suoi servizi ai tedeschi fino al 1945, riuscendo a far
arrivare le parti di ricambio dei macchinari attraverso la Svizzera.
Dopo la guerra, Watson si giustificò con questo argomento: le leggi
nazionalsocialiste non gli avevano consentito di esportare i
profitti guadagnati dalla Dehomag-IBM tedesca, se non a prezzo di
«tassazioni confiscatorie». I profitti dovevano essere spesi in
Germania; sicchè Watson «non aveva avuto altra scelta» che
reinvestire tutto nella Dehomag e farla sempre più grande e
prospera.
Il Congresso capì.
Il terzo americano decorato dai nazisti è il più celebre: Charles A.
Lindbergh. Il primo a trasvolare l'Atlantico nel 1927.
Dopo il rapimento del figlioletto da parte di gangster in USA (il
bimbo fu ucciso), Lindbergh si stabilì in Europa, di cui era
innamorato. In Francia collaborò agli esperimenti di Alexis Carrel,
Nobel per la medicina e grande medico. L'uno e l'altro finirono per
simpatizzare con le dittature di destra europee. Le circostanze
della sua decorazione vanno sottolineate: fu l'ambasciatore
americano in Germania, Hugh Wilson, a invitare il celebre Lindbergh
a una cena ufficiale, a cui aveva invitato anche Hermann
Goering e Willy Messerschmitt.
In quell'occasione, Goering gli consegnò la medaglia Aquila Tedesca
per i suoi meriti di aviatore. Questa volta, la
decorazione provocò un grido di scandalo nella stampa americana:
Lindberg fu bollato di filo-nazista, e gli fu richiesto
pubblicamente di riconsegnarla ai tedeschi. Rifiutò dicendo che
sarebbe stato «un insulto gratuito» alla Germania. Fu subissato di
critiche.
Appena la guerra scoppiò, Lindbergh tornò - vero patriota - negli
Stati Uniti. Nessun giornale americano ha mai rimproverato a Watson
dell'IBM, né a Prescott Bush, le decorazioni naziste. Erano
intoccabili del salotto buono. Lindbergh no.
Maurizio Blondet
Note
1) Averell Harriman sarà più tardi consigliere ascoltatissimo di
Roosevelt e grande finanziatore di Stalin nello sforzo bellico
contro i
nazionalsocialisti. Nel giugno 1944, Stalin ammetterà ad Harriman,
allora nominata ambasciatore in URSS: «i due terzi delle nostre
industrie di base sono dovuti al vostro aiuto e alla vostra
assistenza tecnica». Nei «salotti buoni» di cui Harriman era
esponente, non si fa differenza tra destra e sinistra, comunismo e
nazionalsocialismo: li si usa e li si sfrutta. E' accaduto anche
oggi: Saddam Hussein è stato a lungo sostenuto da quei salotti che
poi lo hanno distrutto.
17 gennaio
L'antitaliano
di Giorgio Bocca
L'arrembaggio di
ladri e furbastri
Ma che cosa è oggi questa democrazia italiana dove gli onesti
passano per inetti, si sentono inetti, e pensano di vivere in un
paese che non è più il loro?
I misteri della morale, del credito, dei rapporti fra personale
e pubblico si infittiscono e tutti portano il segno del
berlusconismo.
Si può cominciare dalle consulenze. Che cosa sono? Sono un
sistema per coprire le corruzioni, i furti più giganteschi. Si
scopre che la famiglia Rovelli ha versato miliardi ad alcuni
avvocati corruttori di giudici. La magistratura li interroga,
cadono dalle nuvole: ma quei miliardi ci erano dovuti per
consulenze. Per fare il mestiere di avvocati? Decine di miliardi
per dare un consiglio? Esattamente, scusateci se vi abbiamo
importunato.
I soldi dei clienti delle banche sono a disposizione degli
amministratori: li trasferiscono sui loro conti all'estero,
incamerano quelli dei defunti, li passano ai loro compagni di
cordata, Fiorani finanzia Consorte che è socio di Ricucci e
amico di Statuto.
E la magistratura? Interroga per delle ore gli arrestati. Il
giudice Greco, che ha una casa a Courmayeur e ha la passione
dello sci, deve rinunciarci, deve stare a Milano nel tetro
palazzo di giustizia per scrivere migliaia di pagine di
interrogatori, proprio come hanno fatto i giudici degli scandali
Parmalat o Cirio in attesa che i grandi ladri prima vengano
mandati agli arresti domiciliari e poi assolti fra il giubilo e
lo sdegnato risentimento dei garantisti che li hanno difesi.
E tutti gli altri? Gli ufficiali della Guardia di finanza che
fanno il doppio gioco, i politici di destra e di sinistra che
approvano e favorivano le scalate? Discutono, scrivono articoli,
dibattono in televisione sui 'poteri forti' che vogliono
sottomettere i politici per uno dei loro complotti che trovano
d'accordo Cirino Pomicino e il presidente emerito Cossiga.
Nessuno, salvo Galli della Loggia o Panebianco, può pretendere
di capire chi mai siano questi poteri forti e cosa mai vogliono
ancora visto che sono già padroni di tutto: delle banche come
dei giornali, della giustizia come dei carabinieri.
Si chiedeva sulla 'Stampa' la Barbara Spinelli che cosa mai sia
questa democrazia in cui i diritti umani vengono tranquillamente
violati, le leggi disattese, i prepotenti rispettati, i deboli
presi a calci. La risposta è semplice. È una cosa morta o
moribonda, una apparenza in un periodo barbarico.
L'onorevole Loiero, governatore della Calabria, si è rivolto
direttamente ai mafiosi della sua regione per dirgli che non gli
conviene ucciderlo, gli conviene convivere con lo Stato debole e
con la polizia corrotta e fare affari in tranquillità. I
governanti non si rendono più conto di quel che dicono. Il
ministro Lunardi ha esortato a tener conto che la malavita
organizzata è un potere stabile nella nostra repubblica.
Di che discutono gli eredi del partito comunista? Se il loro
partito e le cooperative rosse abbiano o meno il diritto di fare
affari, cioè in pratica di speculare come tutti gli altri e la
gente che sa, i competenti, portano a esempio la democrazia
americana che gli affari li ha sempre fatti, basta dichiararli
non è vero?
La trasparenza signori, la trasparenza della Halliburton in
Iraq. Ma diciamocelo che cosa è oggi questa democrazia italiana?
Un governo che ha fatto decine di leggi ad personam, cioè mirate
a salvare dalla galera i furfanti e pregiudicati che siedono in
Parlamento e che notoriamente sono complici delle varie onorate
società mafiose; alcuni servizi dello Stato che sopravvivono a
stento alla marea del crimine che sale, alla voglia generale
travolgente di rubare, sicché gli onesti passano per inetti, si
sentono inetti, sentono di vivere in un paese che non è più il
loro, degli onesti, delle leggi, ma una accozzaglia di ladri e
di furbastri.
L'Italia che si mangia ...la salute.
Continuano le
contraffazioni del settore agroalimentare.
Ora la farina dei mulini Casillo sotto sequestro
Tratto da
www.asiac.info Agenzia
Stampa Indipendente Arti e Culture
Roma, 12 gennaio 2006 (da un articolo apparso sulla stampa
veneta). Parmalat, Cirio, uova marce ed ora grano
contaminato da sostanze cancerogene. Che legame con quest'ultimo
grande scandalo e i terremoti finanziari che hanno messo in
ginocchio migliaia di risparmiatori? Tutto e niente, anche
se un filo sottile sembra percorrere in maniera poco
piacevole il settore agroalimentare del nostro paese.
Diciamo pure che anche in tempi di crisi nessuno vuole
rinunciare al cibo ed è alla costante ricerca del migliore
rapporto qualità prezzo. Da una parte la corsa ai discount
per cercare di far pesare meno la borsa della spesa sui
conti di fine mese, dall'altra l'attenzione alla qualità,
alla marca, al made in Italy che nonostante tutto continua a
confortarci.
Ocratossina: è questa la sostanza fortemente nociva e
cancerogena contenuta in grano duro proveniente dal Canada e
sequestrato a settembre nel porto di Bari. Comincia da qui,
da questo sequestro, la vicenda che ieri ha portato
all'arresto in Puglia dell'imprenditore Francesco Casillo
con l'accusa di avvelenamento e adulterazione e
contraffazione di sostanze alimentari.
Delle 58.000 tonnellate di grano sequestrate sulla motonave
«Loch Alyn» giunta a settembre nel porto di Bari, 48.000
tonnellate, infatti, avevano come destinazione finale
l'azienda proprio di Casillo, l'imprenditore trentanovenne
di Corato, in provincia di Bari, arrestato ieri dai militari
del gruppo repressione frodi del nucleo regionale di polizia
tributaria della Guardia di Finanza su disposizione del gip
del Tribunale di Trani Michele Nardi e sulla base della
richiesta fatta dal sostituto procuratore della Repubblica
Antonio Savasta.
Casillo, definito dagli investigatori un vero e proprio «re
del grano», è amministratore e, di fatto, gestore
dell'azienda «Molino Casillo Francesco srl» di Corato,
azienda leader in Italia nella produzione di semola di grano
duro e tra i maggiori importatori mondiali di grano.
Dopo il sequestro a settembre, il grano è stato sottoposto
ad analisi da parte dei laboratori centrali dell'ispettorato
centrale repressione frodi del ministero delle politiche
agricole e forestali e i i risultati sono resi noti a
dicembre: hanno evidenziato la presenza nel grano di
ocratossina, contenuta in percentuale tre volte in più
rispetto ai limiti massimi consentiti dalla normativa
sanitaria comunitaria in materia di alimentazione umana.
Non solo: l'imprenditore - secondo quanto accertato - sapeva
della ocratossina sin dal momento dell'acquisto in Canada
del grano; ciò emerge da una certificazione della competente
autorità di controllo canadese che attestava la presenza,
seppur nei limiti previsti dalla normativa comunitaria, di
una contaminazione da ocratossina del prodotto da importare.
Dopo il sequestro del grano e mentre erano in corso
accertamenti nelle quattro società importatrici del carico
contaminato (la «Molino Casillo Francesco srl» di Corato, la
«Louis Dreyfus Italia spa» di Ravenna, la «Candeal Commercio
srl» di Foggia e «Agriviesti srl» di Altamura) e in altre
aziende ancora, l'imprenditore avrebbe cercato e ottenuto
certificazioni da parte di laboratori chimici indipendenti.
Con raggiri e false promesse di future commesse, Casillo ha
ottenuto così - secondo gli investigatori - una
certificazione della assoluta salubrità del cereale.
Presentata questa documentazione, Casillo ha quindi ottenuto
nei primi giorni del mese di ottobre 2005 il dissequestro da
parte della magistratura dell'intero carico contaminato: ha
così introdotto in commercio un prodotto acquistato a prezzi
di gran lunga inferiori a quelli tariffari, realizzando -
secondo la guardia di finanza - spregiudicati margini di
guadagno e, ritengono i militari, destabilizzando
l'equilibrio dell'intero settore.
Intanto gli investigatori fanno anche sapere che la Procura di Trani ha informato
l'assessorato alle politiche della salute della Regione
Puglia sull'esito delle analisi, «al fine di porre l'ente
nelle condizioni di avviare le eventuali procedure di
allerta previste per legge, sino a livello comunitario».
Si chiamano micotossine e
rappresentano uno dei killer più insidiosi che si annidano
nell'alimentazione.
Uno dei primi allarmi sugli effetti nocivi era arrivato dal
professor Umberto Veronesi ancora l'estate scorsa: sotto la
lente il latte e la polenta, possibili ricettacoli delle
aflatossine. Oggi si torna a parlare di un'altra micotossina,
l'ocratossina, altamente tossica. La "famiglia" delle
micotissine è vasta: alcune esplicano azione nefrotossica (ocratossine),
epatotossica (aflatossine), immunotossica (aflatossine,
ocratossine), mutagena (aflatossine), teratogena (ocratossine)
e cancerogena (aflatossine, ocratossine, fumonisine).
Fra i prodotti più esposti alla contaminazione sono i
cereali, contaminazione che è legata anche a fattori
ambientali quali quelli climatici e geografici, al tipo di
coltivazione e di conservazione. Attualmente, sono note più
di 300 micotossine, solo il 7 per cento di queste si
ritrovano negli alimenti a livelli significativamente
elevati tali da costituire un pericolo per la salute umana.
Più speficatamente le ocratossine sono prodotte da diverse
specie di Aspergillus e di Penicillium, e in particolare da
A. ochraccus e da P. viridicatum, si tratta di muffe che si
possono trovare in ogni luogo. Oltre ai cereali, le
ocratossine possono annidarsi anche in arachidi, fagioli,
legumi in generale, caffè, prodotti da forno (pane), mangimi
e alimenti diversi.
A dosi elevate è stato riscontrato che le ocratossine
possono provocare danni anche gravi al sistema immunitario e
possono avere effetto cancerogeno. Ed era proprio in questa
direzione che il professor Veronesi aveva lanciato
l'allarme, sollevando non poche proteste fra i fautori delle
coltivazioni biologiche.
È leader nella produzione di
semole in Italia l'azienda Molino Casillo, di Corato (Bari),
coinvolta nella vicenda che ha portato all'arresto di
Francesco Casillo, definito dalla guardia di finanza
amministratore e gestore di fatto dell'impresa. Francesco
Casillo è uno dei tre fratelli che dagli anni Novanta si
occupano della società e che, dallo stabilimento originario,
avviato alla fine degli anni Cinquanta, hanno realizzato
altri tre impianti a Corato. Secondo notizie fornite sul
sito internet di 'Molino Casillo', dal 1990 alla fine del 2003, l
'azienda ha investito oltre 40 miliardi in impianti,
tecnologie, servizi ed uomini. Il gruppo Molino Casillo -
informa sempre il sito internet - è collegato con altre tre
società molitorie, con le quali interagisce negli acquisti e
vendite e nello scambio di conoscenze, pur mantenendo
gestioni indipendenti. Secondo la stessa fonte, con il
titolo di primo utilizzatore privato di grano duro del mondo
(un milione di tonnellate) la Molino Casillo
rappresenta uno dei principali Market Maker mondiali del grano
duro e delle semole. L'acquisto del grano da parte della
Molino Casillo avviene infatti in tutto il mondo. L'acquisto
comincia a maggio con il grano prodotto in Sicilia e in
Spagna, a giugno col raccolto pugliese e lucano, a luglio in
Grecia e nell'Italia centrale. Ad agosto si completa il
monitoraggio dei raccolti europei con la Francia
e, «dopo un breve sguardo ai paesi dell'est (Turchia, Ungheria
e Kazakihstan)», si riparte a settembre col Canada e il Nord
Dakota. Tra novembre e dicembre si acquista in Australia, a
gennaio in Argentina. A marzo in India, a fine aprile in
Messico per il nuovo raccolto, «con successivo spostamento
in Arizona per il desert durum». La Molino Casillo - informa ancora
il sito - ha una capacità di stoccaggio di oltre 200.000
tonnellate e si avvale delle strutture portuali di Bari,
Barletta e Molfetta per i grani che arrivano via mare
11 gennaio
Chi pagherà il
conto della “guerra del gas”?
di Carlo Bertani, autore
del libro "Al
Qaeda: chi è, da dove viene, dove va"
Lo
scoppio improvviso della contesa per il gas fra Russia ed
Ucraina ha sorpreso – fra i politici e gli analisti
internazionali – solo chi faceva finta di non sapere: sono
anni, oramai, che le tensioni nelle aree orientali
dell’Europa s’accumulano, e la vicenda del gas russo
potrebbe diventare solo un insignificante casus belli
di una contesa dai confini più ampi.
Anzitutto gli attori della vicenda, che non sono soltanto
Mosca e Kiev, bensì almeno quattro: La Russia, l’Ucraina, la
Bielorussia (Belarus) e l’enclave russa di
Kaliningrad; ad essi possiamo aggiungere – sul piano
internazionale – L’Unione Europea e gli Stati Uniti. E le
sorprese non terminano qui, giacché entrano a pieno titolo
nella vicenda anche i Balcani ed il Terzo Reich tedesco.
Iniziamo dall’attore protagonista, ovvero la Russia, erede
della potente Unione Sovietica. Le attenzioni degli analisti
internazionali hanno quasi dimenticato – negli ultimi anni –
lo sterminato continente della grande Russia, ben 10 fusi
orari in una sola nazione.
All’indomani del crollo dell’URSS, nessuno cercò di capire
cos’era successo; semplicemente, si raccontò che era
“crollato il comunismo”, dimenticando due aspetti
essenziali: che quello di Mosca comunismo non era – bensì
capitalismo di stato – e che nulla crolla da solo, senza che
altri ci mettano lo zampino.
Il crollo dell’economia sovietica avvenne principalmente per
reggere la corsa agli armamenti con gli USA: a metà degli
anni ’80, gli USA investivano in armamenti il 6,5% del PIL,
mentre l’URSS destinava ai cannoni il 16,5%. In valori
assoluti, però, quel 6,5% voluto da Reagan per abbattere
“l’impero del male” era superiore ai corrispondenti
stanziamenti russi, mentre quel 16,5% del PIL, per l’URSS,
era diventata un’inarrestabile corsa all’indebitamento ed
all’inflazione che – in un paese che non ammetteva
deprezzamenti della moneta circolante – si tramutava
immediatamente in una carenza di beni.
Le
condizioni di vita dei sovietici peggiorarono in quegli
anni, e la colpa della situazione fu addossata – a torto od
a ragione – sulle spalle di Mikhail Gorbaciov, alla sua
perestroijka ed alla glasnost, la nuova politica
che riprendeva, in qualche modo, le istanze di rinnovamento
di Kruscev degli anni ’60.
Indebolito dalla sfiducia dei militari e del potente
apparato di polizia (soprattutto il KGB), Gorbaciov fu messo
alle strette: o ritornare alle vecchie abitudini di “nonno
Breznev”, oppure lasciare campo libero.
Gorbaciov – e questa rimarrà per sempre una sua grave
responsabilità storica – tentennò e non seppe scegliere:
all’indomani del grottesco putsch dell’agosto del 1991, un
populista Eltsin gli presentò il conto e l’ultimo zar
dell’URSS lasciò Mosca per andare in esilio nella dacia in
campagna in treno, senza scorta, come l’ultimo dei cittadini
sovietici.
La statura politica di Eltsin, però, lasciava alquanto a
desiderare: pur avendo percorso tutti gli scalini
dell’apparato di regime, rimaneva un modesto apparatcik,
un burocrate di regime privo delle capacità politiche
necessarie per governare il difficile momento.
In quegli
anni il prestigio internazionale della Russia giunse ai
minimi: una nazione ricchissima d’energia – per qualche
tempo – non ebbe kerosene per far volare la compagnia di
bandiera, l’Aeroflot, mentre corruzione ed abbandono
spadroneggiavano nell’immenso paese, che rischiava sempre di
più una deriva balcanica ed uno smembramento della
federazione.
Nel 1999
giunse al culmine la tensione nei Balcani, e la guerra del
Kossovo fu – per via indiretta – una guerra contro la
Russia, visto che la Serbia – pur ammettendo le “derive” di
Tito – era l’alleato storico di Mosca, che in quella breve
guerra perse un altro po’ del suo prestigio internazionale.
Nel 1999 qualcuno, a Mosca, decise che la misura era colma e
che non si poteva più perdere tempo: la prima guerra cecena
s’era rivelata una sconfitta, e serviva un vero statista al
Cremlino, non un “ammiratore” della vodka.
Il Delfino di Eltsin pareva essere Viktor Cernomirdyn –
potente patron di Gazprom, il colosso del gas russo –
che invece fu spedito come mediatore nei Balcani
(probabilmente per “bruciarlo” politicamente), e così fu:
allo scadere del mandato di Eltsin (2000) spuntò come un
fungo lo sconosciuto Vladimir Putin, ex colonnello del KGB
e, per anni, addetto d’ambasciata nella ex RDT.
La carriera politica di Putin non nacque dalla sua buona
stella, ma dal potente apparato ex sovietico che – pur
presentando all’estero la facciata della nuova Russia –
continuava a reggere le fila del potere nel paese. Un
piccolo particolare: nella nuova Russia, per anni gli
ufficiali hanno continuato a far giurare i cadetti con la
formula di rito, sicché i giovani ufficiali giuravano
fedeltà a Sovietskij Soyuz.
Stupirà
sapere che uno degli sponsor di Putin fu lo stesso Gorbaciov,
che lo definì “la nostra ultima speranza”: come ripagò, il
giovane judoka, la fiducia concessagli?
Anzitutto fece una “robusta” cura alla sua immagine, volando
per il paese su un cacciabombardiere militare SU-34 –
che si dice pilotasse personalmente – al posto del consueto
Iliuscyn, per confermare le attese di un “uomo forte”
al Cremlino: da sempre, dal feudalesimo al neo-capitalismo,
l’uomo che siede al Cremlino è uno zar, ed un condottiero
deve instillare un’idea di forza e di coraggio.
Politicamente, gli spazi internazionali della Russia erano
oramai ridotti al lumicino, ma il buon Vladimir non si perse
d’animo e tornò a bussare alla porta dei vecchi alleati:
Libia, Vietnam, Corea, ma anche in Cina ed in India, per
vendere l’unico bene tecnologico che l’URSS aveva lasciato
in eredità alla Russia, ovvero le armi.
Bisogna ricordare che il crollo del sistema sovietico non
intaccò profondamente l’apparato militare industriale della
Russia, l’unica nazione in grado di produrre tecnologia
aerospaziale a livello degli USA.
Grazie ad alcuni indovinati modelli (la serie dei caccia
SU-27, il semovente antiaereo Tunguska, ecc)
ripresero le forniture d’armi, e Putin non esitò a dirottare
le poche risorse disponibili per mantenere ad alto livello i
centri di ricerca. Non venivano più costruite larghe serie
di velivoli, ma pochi prototipi per non scadere troppo
rispetto al livello USA.
“Aiutati
che il ciel t’aiuta”, narra un noto proverbio, e dopo il
2000 il cielo iniziò proprio ad aiutare la disastrata
Russia, giacché il prezzo del petrolio iniziò a volare,
trascinandosi appresso anche gli altri combustibili fossili,
ovvero gas e carbone.
Per la Russia, l’aumento dei prezzi dell’energia fu manna
dal cielo: un paese che possiede il 15% del petrolio
mondiale, il 40% del gas e circa il 70% del carbone non
poteva attendersi nulla di meglio.
Grazie ai maggiori introiti dell’energia, nel 2003 Putin
aumentò del 50% le spese per la ricerca in campo militare: i
risultati furono il missile intercontinentale Topol-M,
che ha vanificato qualsiasi “scudo stellare” americano, gli
SS-26 Iskander venduti alla Siria, micidiali
missili a medio raggio che sono difficilmente intercettabili
ed i missili antinave Mosquit, con raggio d’azione di
200 Km, venduti all’Iran. Anche l’elettronica ha compiuto
passi in avanti, e gli unici radar in grado di scovare gli
aerei stealth americani (F-117, B1, B2) sono i russi
S-300 ed S-400.
L’Iran fu il nuovo acquisto della rinnovata “scuderia”
russa: oggi Mosca costruisce le centrali nucleari iraniane
ed ha ristrutturato completamente le forze armate di
Teheran, che è entrata nel “patto di Shangai”, un sodalizio
fra Russia, Cina e le repubbliche ex sovietiche dell’Asia
centrale.
Oggi
Mosca procede con incrementi del PIL pari al 7% annuo,
grazie all’energia ed alle armi, mentre la lotta agli
oligarchi dell’energia ha ricondotto sotto controllo statale
il fiume di denaro che esce dai giacimenti siberiani. Anche
la situazione finanziaria è abbastanza rosea: la Russia ha
pressoché estinto l’enorme debito estero ricevuto in eredità
dall’URSS, e nelle casse statali ci sono riserva in valuta
estera per ben 170 miliardi di dollari, più altri 50 che
sono immobilizzati in un “fondo di compensazione” per
sopperire alle oscillazioni dei prezzi.
Questa è la situazione russa sotto l’aspetto economico: e
gli aspetti strategici? Qui non sono tutte rose e fiori,
anzi.
Il grande timore russo è l’accerchiamento: a ben vedere, la
stessa paura dei sovietici e, ancor prima, degli zar.
L’accerchiamento ad est non preoccupa molto, giacché gli USA
possono appena resistere in Iraq, e per nuove avventure di
guerra nel pianeta mancano soldi e uomini. Ad ovest, invece,
la situazione è critica: dapprima gli USA finanziarono circa
300 ONG in Bielorussia, per cercare di piegare l’alleanza
con Mosca di Lukaschenko – il padre-padrone del paese – ma
non riuscirono nell’intento.
La seconda mossa – questa riuscita – è stata la rivoluzione
“arancione” in Ucraina, che ha condotto al potere il
filo-occidentale Yuschenko. La parola meno gradita da
pronunciare a Mosca è “NATO”, e proprio il ventilato
ingresso nella NATO dell’Ucraina (e, forse, nell’UE, ma
questo è un obiettivo assai più lontano) ha fatto scattare
l’allarme al Cremlino.
Mosca non
vuole e non può permettersi che gli USA s’installino negli
aeroporti ucraini, giacché ne risulterebbe compromessa la
stabilità della regione: perché? Poiché l’indipendenza della
Lituania dall’URSS e l’ingresso della Polonia e della stessa
Lituania nell’UE hanno portato all’accerchiamento
dell’enclave russa di Kaliningrad, un “pezzo” di Russia sul
basso Baltico che non ha più confini con la madrepatria.
La questione è seria, tanto che – nel 2005 – lo stesso Putin
(con Chirac e Schroeder al fianco) è intervenuto ai
festeggiamenti per un importante anniversario della città di
Kaliningrad (prima, quando era tedesca, si chiamava
Koenisberg), la città dove nacque Immanuel Kant.
Durante i festeggiamenti, Putin ha chiarito che la Russia
non accetterà mai nessuna “ridefinizione” dei confini o
qualsiasi accordo che preveda maggiori difficoltà per le
comunicazioni fra l’enclave e la madrepatria. C’è da
capirlo: quel fazzoletto di terra sul Baltico consente a
Mosca d’essere presente in un importante scacchiere, sia per
gli aspetti militari, sia per quelli energetici.
E’ evidente che altri non sono dello stesso parere, a
cominciare proprio dagli USA, che hanno messo a segno un
colpo da maestro con l’insediamento di Yushenko in Ucraina.
E
l’Ucraina? Il paese è estremamente povero e diviso:
all’ovest, la regione di Leopoli (L’viv) è ucraina
solo dal 1939 (ma a quel tempo era URSS), giacché la sua
cessione ai sovietici fece parte dello sciagurato patto fra
il ministro degli esteri di Hitler, von Ribbentrop, ed il
suo corrispondente sovietico, Molotov, ai danni della
Polonia.
Ad est, invece, verso Kharkov e Donets’k c’è una forte
componente russofona, che ha mal digerito l’ascesa di
Yushenko, giacché la deriva verso occidente viene vista come
un salto nel buio per popolazioni che – pur essendo ucraine
– guardano ancora a Mosca come punto di riferimento.
Noi occidentali incontriamo qualche difficoltà a comprendere
l’intrico geopolitico che, poco oltre la frontiera
triestina, giunge agli Urali: le popolazioni slave sono
abituate a salutare mostrando il numero tre con le dita
della mano destra, e questo gesto – di per sé soltanto
simbolico – ha invece profonde implicazioni.
Il “tre” non rappresenta la Trinità, bensì la comune
religione (ortodossa), la lingua (slava) ed il popolo
(slavi): in altre parole, lo slavo avverte un senso
d’appartenenza alla “nazione slava” sulla base di criteri
che non considerano in alcun modo la ragione illuminista, un
fenomeno che appartiene anche agli arabi. La stessa parola
Jugo-slavia significa semplicemente “Slavi del sud”.
Questa
premessa può chiarire meglio i complessi fenomeni culturali,
razziali, economici e politici che agitano l’est europeo:
molti ucraini – proprio in contrapposizione allo “slavismo”
– entrarono a far parte delle truppe del Terzo Reich, ed un
nutrito gruppo di ucraini con le mostrine tedesche fu preso
prigioniero dagli americani, nel maggio del ’45, nei pressi
di Venezia, dov’erano addetti all’artiglieria costiera.
Quegli uomini s’arresero soltanto dopo aver ricevuto ampie
assicurazioni che non sarebbero mai stati consegnati ai
sovietici.
Scorrendo molto rapidamente le pagine della storia, si può
capire come l’affermazione di Yuschenko – e la sua decisa
apertura all’Europa ed alla NATO – sia un elemento di
rottura, così come lo fu la completa “sovietizzazione”
dell’Ucraina. “Terre di mezzo”, verrebbe da dire, e mai
appellativo fu più indovinato: regioni che possono
sopravvivere senza troppi scossoni a patto di fare del
compromesso la ragion di stato.
Lo stesso Yushenko – ad appena un anno dalla sua elezione –
ha perduto gran parte dei consensi nella popolazione,
giacché la politica di contrapposizione alla Russia ha
provocato una repentina contrazione dell’economia, mentre
gli occidentali – alle prese con l’allargamento dell’Unione
e con l’Iraq – non sono stati certo prodighi d’aiuti. Per
alcuni aspetti, la vicenda populista di Yushenko assomiglia
a quella di Berlusconi: entrambi saliti al potere grazie al
denaro ed all’appoggio (profumatamente pagato) dei media, e
presto rivelatisi un bluff. Tanti proclami: miglioramenti
per la parte più ricca della popolazione e peggioramenti per
tutti gli altri.
Il primo
gennaio 2006 scatta la trappola di Putin che – come in un
piatto di poker – decide di vedere le carte dell’avversario.
L’indipendenza dal gas russo potrebbe diventare realtà, con
il passaggio al carbone per l’industria energetica ucraina,
ma la conversione richiederebbe molti anni, e Mosca non
sembra disposta a concedere altro tempo a Kiev. L’altra
alternativa è il nucleare, ma lo stato nel quale si trovano
le vecchie centrali sovietiche (Chernobyl…) non consentono
certo di guardare ad un futuro roseo e, soprattutto, sicuro.
La contesa ha sì contenuti economici – giacché il prezzo di
50$ per 1.000 m3 stabilito a suo tempo era un
prezzo politico, pari alla quarta parte di quello pagato in
Occidente, ed i russi non hanno interesse a favorire un ex
alleato che ha cambiato campo – ma qui è l’aspetto
strategico a prevalere.
Cosa possiamo attenderci? Nel lungo periodo la soluzione già
esiste: un nuovo gasdotto collegherà la Russia (via
Bielorussia, Polonia, Kaliningrad) alla Germania;
addirittura, la società che dovrà costruire la condotta è
russo-tedesca, con Gazprom a fare la parte del leone
e l’ex cancelliere tedesco Schroeder nel consiglio
d’amministrazione. Per l’Ucraina, il nuovo gasdotto potrebbe
rappresentare la fine del gas russo.
E nel
medio periodo?
Per gli anni a venire è stato siglato un accordo che ha
fatto tirare a tutti un sospiro di sollievo: finalmente,
dopo la guerra, la “pace” del gas. Gli ucraini pagheranno il
gas russo 95$ per 1.000 metri cubi, e questa sembrerebbe una
sconfitta russa, ma per Kiev significherà raddoppiare il
costo dell’energia: non si tratta certo del miglior viatico
per affrontare un anno elettorale, visto che i costi
dell’accordo verranno scaricati sulla popolazione.
Ovviamente, Mosca non “lavora” per Yuschenko.
Ed il minor introito russo? Niente paura, di vera pace si
tratta, giacché il vicepresidente di Gazprom, Medvedev – che
è in realtà il vero patron del gigante russo del gas
– verrà presto in Occidente per “rivedere” i prezzi, gli
accordi e le forniture. Da Mosca, però, ha già precisato che
il metano russo subirà un aumento del 10%: ecco chi pagherà
la “pace” del gas, ed ecco perché la presidenza di turno
austriaca dell’Unione ha invitato i paesi membri ad una
“profonda riflessione” sul futuro dell’approvvigionamento
energetico. Che, al primo accenno alle energie rinnovabili,
come sempre finirà a tarallucci e vino.
11 gennaio
LA POLEMICA
La maratona in tv di Berluscono
è in preda a una bulimia da video
di CURZIO MALTESE
IN PREDA a una bulimia da video ormai incontenibile,
lunedì sera Berlusconi, dopo aver monologato dal
dipendente Ferrara con la consueta eleganza ("Biagi e
Santoro si meritavano una bella pedata nel sedere"), è
corso al Processo di Biscardi. Si è presentato trafelato
e ha giurato: "Mi fermo soltanto due minuti, purtroppo
gli impegni...". È rimasto quasi un'ora e alla fine ha
avuto anche il coraggio di dire: "Ora devo scappare".
Stasera sarà a Porta a Porta, contro Bertinotti, per non
perdere l'abitudine. Il fido Vespa ha obbedito
all'ordine implicito di non invitare l'ospite naturale
per un confronto col premier, Romano Prodi.
Ha chiesto a Fassino, che gli ha indicato il capo
dell'opposizione ("Non è stato Berlusconi a dire che
voleva il duello con Romano?"). Poi ha chiesto a Rutelli
e ha ricevuto la stessa risposta. Allora, volendo andare
sul sicuro, ha telefonato a Bertinotti, il quale
naturalmente si è precipitato. La maratona settimanale
non è finita.
Domani Berlusconi sarà da Anna La Rosa, ad Alice, e
venerdì pomeriggio su Raiuno a Conferenza stampa. Non è
escluso che nel frattempo s'inventi altre partecipazioni
a sorpresa, come ha fatto in radio da Fiorello e da
Biscardi.
Potrebbe spuntare dalla De Filippi come da Giurato a Uno
Mattina o alle spalle di papa Ratznger durante l'omelia;
le incursioni mediatiche del premier hanno ormai la
cadenza ossessiva ma imprevedibile di un Gabriele
Paolini, il sedicente "profeta del condom".
Non perdiamo tempo a riferire i discorsi, gli attacchi,
le battute più o meno volontarie. Il repertorio
dell'ultimo Berlusconi ha la freschezza di un fossile
del Cretaceo. Più di che cosa dice, preoccupa "quanto"
lo dice.
L'Italia sta
sperimentando la campagna elettorale più scorretta della
storia recente delle democrazie. Berlusconi aveva
minacciato "andrò in tutte le trasmissioni" ed è il
genere di promessa, forse l'unica, che è capace di
mantenere. È dappertutto, a ogni ora, ogni giorno, ben
deciso a usare il suo personale potere televisivo, che
consiste anche nella facoltà di scegliersi i
giornalisti, si fa per dire, gli ospiti e gli avversari
di turno. È vero che con Diego Della Valle gli è andata
molto male. Ma si è trattato di un imprevisto, nessuno
poteva aspettarsi tanta sincerità da un vecchio amico,
né Berlusconi né il povero Vespa, che certo troverà il
modo di sdebitarsi con gli interessi. Anzi, ha già
cominciato.
Il potere sulle tv del premier comprende anche quello
che si potrebbe definire, con un'ardita perifrasi,
l'"uso criminoso" dei telegiornali.
L'intercettazione di Fassino ha avuto per esempio sul
Tg1 uno spazio di poco inferiore all'attacco delle Torri
Gemelle. Ora, dall'ormai celebre colloquio del
segretario Ds con Consorte si capivano al massimo un
paio di cose. Una è che Consorte non è galantuomo e
l'altro non glielo fa notare. L'altra è che Fassino
viene informato a cose fatte e quindi non è dell'affare,
non fa parte della "banda". Su questo fumo il Tg1 ha
aperto per almeno tre giorni i notiziari sul "caso
Fassino-Unipol", mentre nel mondo Sharon finiva in coma,
Ali Agca usciva dal carcere e l'influenza aviaria
avanzava verso l'Europa. Da qui al 9 aprile il premier
replicante ci farà vedere cose che noi umani non
potevamo neppure immaginare.
Servirà alla sua causa? I sondaggi, quelli seri,
continuano a indicare una vittoria del centrosinistra,
nonostante gli effetti dell'affare Unipol. Lo stesso
Berlusconi pare ammetterlo, quando annuncia che "il
vantaggio degli avversari è ridotto a un punto e mezzo".
L'ha detto ieri, in mezzo a tutto il resto. Ma un mese
fa aveva annunciato la parità fra destra e sinistra nei
sondaggi. L'obiettivo della lunga marcia mediatica è la
conquista di milioni d'incerti, secondo le ricerche i
più vulnerabili all'influenza della televisione.
Sarà in ogni caso una campagna
"contro". Contro Prodi, il centrosinistra, i
"comunisti". Berlusconi è sempre stato un leader più
"contro" che non propositivo, diversamente da quanto
narrano gli agiografi. Fin dal messaggio della "discesa
in campo", dove l'anticomunismo è preponderante rispetto
al "sogno del miracolo". Ma in questa campagna
elettorale è diventato l'unico tema. Fallito nel
ridicolo il tentativo di magnificare i risultati
economici del governo, il premier riesce a ritrovare
un'identità e un baricentro politico soltanto attaccando
gli avversari con il vittimismo dei violenti. Si
comporta come uno che ha già perso e dall'opposizione
lancia la sfida alla maggioranza in carica. In fondo è
un modo di riconoscere che al centro della scena oggi ci
sono Prodi e l'Unione. È l'errore di un grande
comunicatore imbolsito. Perfino il centrosinistra
potrebbe usarlo a proprio vantaggio, se soltanto si
decidesse davvero a occupare la scena della novità e del
futuro con la forza delle proposte. Per esempio con lo
scatto in avanti verso il Partito Democratico "subito e
ovunque", come scrive Prodi. Qui e ora e non dopo le
elezioni, e non nel medio periodo come insiste a dire
qualche leader dell'Unione. Keynes avrebbe risposto:
"Nel medio periodo saremo tutti morti".
|
L'EDITORIALE
Il conflitto del Cavaliere
di EZIO MAURO
Da luglio, questo giornale
chiede al partito dei Ds alcune cose chiare in merito alla
vicenda Unipol: accettare le regole del mercato fino in
fondo, dunque rinunciare alla tentazione pericolosa di
crearsi un capitalismo a propria immagine e somiglianza;
rompere le vecchie cinghie di trasmissione non perché debba
sparire la solidarietà e la vicinanza tra sinistra e
cooperazione, ma perché bisogna impedire che le Coop
diventino figlie di un dio maggiore, protette e benedette
nei loro affari da un grande partito; evitare che la
contiguità con quel mondo diventi un impeachment politico,
generando afasia - o peggio, ambiguità - nei giudizi che il
partito deve via via dare sugli errori del Governatore della
Banca d'Italia, sulla finanza di Zagarolo e sulle fortune
oscure dei suoi campioni, sul concerto para-criminale che si
era creato all'ombra di Fazio e Fiorani tra le scalate all'Antonveneta,
alla Rcs e, come ormai pare chiaro, alla Bnl. Infine, e non
ultimo, sulle ruberie personali.
Una risposta chiara e convincente è fino ad oggi mancata. Il
gruppo dirigente ds ha parlato tardi e male, come se fosse
frenato e trattenuto, non libero: il che in politica è la
cosa peggiore.
Soprattutto, non ha denunciato a chiare lettere il legame
contro natura tra Unipol e i furbetti del quartierino, la
complicità tra Consorte e Fiorani, i metodi disinvolti e
illegali usati per arricchimenti personali. Ci vuol tanto a
dire: abbiamo sostenuto il diritto di Unipol di fare l'opa
su Bnl, ma quello che è emerso dietro quell'opa è
sconcertante? Lo è per le alleanze, l'illegalità, la
contiguità con un mondo che con la sinistra non c'entra
nulla. Per questo, noi prendiamo le distanze da Consorte che
ci ha ingannati: la magistratura darà il suo giudizio
penale, ma ciò che è emerso è già sufficiente pare dare un
giudizio morale, che è di condanna totale.
Questa assunzione di responsabilità è indispensabile, per
dimostrare l'autonomia e la libertà del gruppo dirigente
diessino.
È obbligatoria, perché i cittadini di sinistra non tollerano
che la linea di un grande partito sia ostaggio di un pugno
di azioni Unipol. È urgente per uscire dalla trincea e
ricominciare a far politica a tutto campo, ripristinando la
verità sullo scandalo bancario di questi mesi e su tutti i
suoi attori: che non stanno solo a sinistra, ma anzi nascono
a destra, anche se tutti sembrano dimenticarlo.
Lo dimentica soprattutto il presidente del Consiglio
Berlusconi, che ieri è sceso in campo cercando di lucrare un
vantaggio elettorale dalla vicenda Unipol. Berlusconi non ha
parlato di opa, di istituzioni, di legge sul risparmio, di
Bankitalia, di regole, come vorrebbe il suo ruolo. Ha invece
inaugurato il suo anno elettorale usando l'unico argomento
che non può decentemente usare: "l'intreccio inaccettabile
tra politica e affari". Di quegli intrecci, purtroppo, il
nostro presidente del Consiglio è un campione, un monumento
vivente al conflitto di interessi e all'impasto quotidiano e
indecente tra partito e azienda, amministrazione pubblica e
business privato, soldi e politica. È inevitabile (e colpa
dei ritardi di cui abbiamo parlato) che Unipol diventi
oggetto della battaglia politica. Ma non è tollerabile che
il Cavaliere metta al centro di questa battaglia
l'"intreccio" tra politica e affari, in una sorta di
sdoppiamento identitario. Non solo. Se decide di affrontare
lo scandalo bancario (dopo silenzi e impacci che per il
professor Giavazzi si spiegano con qualcosa che c'è nelle
carte, e può venir fuori) Berlusconi ha il dovere di
chiarire alcune cose: come mai era "commosso" per l'opa di
Fiorani su Antonveneta, tanto da congratularsi col
banchiere, mentre cenava con il suo sodale Gnutti. Perché il
suo advisor di famiglia, Livolsi, curava la scalata di
Ricucci, la possibile opa sulla Rcs, il legame
politico-finanziario con Agag, il genero di Aznar grande
amico del Cavaliere. Infine, qual è stato il ruolo dei
parlamentari di Forza Italia (due sono sottosegretari del
governo Berlusconi) coinvolti nell'affare Fiorani.
Ecco il vero "intreccio", Cavaliere, per
lei familiare. Se la sinistra si deciderà a voltare pagina
sulla vicenda Unipol, allora finalmente comincerà a
chiederle conto di queste cose, invece di tacere.
Una quindicina i condoni del
ministro-commercialista Tremonti
Il presidente del Consiglio definì un "diritto" evadere le
imposte
Una lunga
stagione di sconti
per la galassia del Cavaliere
Berlusconi: "Mai
le mie aziende utilizeranno il condono"
Poi Mediaset ha risparmiato almeno 162 milioni di euro
di ALBERTO STATERA
Silvio Berlusconi e
Giulio Tremonti
"FARLA franca tra milioni di evasori, farla lunga con la lite,
farla fuori con poche lire di condono". Silvio Berlusconi "l'ha
fatta fuori" con pochi euro di condono, 1800 su decine di
milioni di evasione fiscale, nell'apoteosi del grottesco, tra la
grandiosità della rappresentazione e la parodia della stessa.
Anche perché il motto del "farla franca" e "farla fuori",
applicato dal premier e dalle sue aziende, si deve a Giulio
Tremonti, il commercialista di Sondrio che da ministro ha
partorito una raffica di una quindicina di condoni. Ma risale
alla sua ormai antica fase della "centralità etica", quella
contro le sanatorie, quando dalle colonne del "Manifesto",
citando vuoi Marx vuoi John Stuart Mill, ammoniva severo: " In
Sud America il condono fiscale si fa dopo il golpe. In Italia lo
si fa prima delle elezioni, ma è comunque una forma di prelievo
fuorilegge". Anzi, "un attentato alla Costituzione".
Gli "attentati alla Costituzione" firmati dal premier nell'arco
dei suoi due governi e dal suo ministro-commercialista non hanno
prodotto "meno tasse per tutti", come promesso, ma meno tasse
per pochi e soprattutto per l'onorevole Silvio Berlusconi che, a
quanto pare, si è avvalso del condono anche per i suoi redditi
personali, approfittando di un'opzione prevista nel 2002 per chi
adeguava anche in maniera simbolica la sua dichiarazione.
Forse, prima o poi, si riuscirà a fare il conto di quanto dodici
anni di politica e più di cinque di governo, considerando anche
il 1994, hanno reso a Berlusconi soltanto in termini di risparmi
fiscali. E allora crescerà lo scandalo postumo. Perché gli
italiani, così alieni dal percepire l'ostico concetto del
conflitto d'interessi, quando si tratta di tasse e balzelli che
non distinguono "tra forti e deboli" - come dovrebbe invece
prevedere la regola che da giovane raccomandava il ministro
Tremonti - si arrabbiano.
Allora coglieranno in pieno il devastante - per la democrazia -
cortocircuito conflittuale di un presidente del Consiglio, tra
gli uomini più ricchi dell'orbe terracqueo, che firma condoni di
cui approfitta a man salva per sé e per le sue aziende.
"Mai - aveva giurato il premier - le mie aziende utilizzeranno
il condono". Poi Mediaset naturalmente non se l'è fatto
scappare, risparmiando una cifra valutata in 162 milioni di
euro. L'evasione fiscale "è intollerabile" proclamò nel luglio
scorso, quando gli spiegarono che non solo le tasse non si
potevano ridurre, ma si dovevano aumentare. E qualche giorno fa
il tripudio del grottesco, commentando la scalata dell'Unipol
alla Bnl e le accuse rivolte ai diesse per gli intrighi di
Giovanni Consorte: " Inaccettabile l'intreccio tra affari e
politica. Io affari non ne ho mai fatti con la politica, anzi ho
perso e basta".
Ma se le bugie del premier vengono ormai accolte dagli elettori
- anche i suoi - con un'alzata di spalle, quelle sulla sua etica
di contribuente e di uomo d'affari suscitano un misto di rabbia
e ilarità, perché Berlusconi e i suoi più intimi sodali
incarnano nell'immaginario collettivo degli italiani avvertiti
diremmo proprio la specie antropologica dell'evasore fiscale.
Il premier cominciò a frequentare lo sport fin da giovane, come
è largamente documentato. Nel 1980, dopo una visita della
Guardia di Finanza al cantiere di Milano-2, il Berlusconi ancora
palazzinaro scrisse una lettera a Bettino Craxi, pubblicata nel
libro di memorie del fotografo personale del leader socialista,
Umberto Cicconi, nella quale chiedeva aiuto contro il fisco: "
Caro Bettino - si lagnava - come ti ho accennato verbalmente,
Radio Fante ha annunciato che (....) la Polizia Tributaria si
interesserà a me (...). Ti ringrazio per quello che crederai sia
giusto fare". Fu giusto bloccare l'ispezione, assumere il capo
della pattuglia Massimo Maria Berruti e poi farne un
parlamentare della Repubblica.
Del resto, nei rari momenti di sincerità, Berlusconi non ha mai
nascosto quel che realmente pensa del dovere fiscale: "Ieri - ha
raccontato una volta - sono stato dal mio dentista e ho visto
che paga il 63 per cento di imposte e allora non volete che chi
è sottoposto a un furto così non si ingegni? È legittima
difesa". Legittima difesa? No, di più: l'evasione è "un diritto
naturale che è nel cuore degli uomini". Anzi, un diritto
"moralmente autorizzato".
Un "intimo sentimento di moralità" nell'evadere il fisco
pervade, d'altra parte, non solo il leader, ma l'intero stretto
cotè berlusconiano. Il fratello Paolo ha patteggiato per vari
reati tra cui l'evasione fiscale; Marcello Dell'Utri è stato
condannato per fatture false e gonfiate di Publitalia; Cesare
Previti, poi, in uno dei processi che subisce in veste di
imputato, ha ammesso di aver frodato il fisco come se dicesse:
mbeh, che c è? Ho preso un cappuccino.
Chi poteva credere allora all'ultimo Berlusconi ligio
contribuente, così ligio da non approfittare dei condoni da lui
firmati e messi a punto, con occhio non distratto agli interessi
del leader, dal suo ministro, definito "un genio" e comunque, se
non proprio geniale, maestro di astuzie contabili e fiscali?
Il commercialista che viene da lontano ("From
Marx to market") e che quando militava con Segni definì
Berlusconi "l'uomo dai cialtroneschi programmi", per dare un
ultimo tocco al grande grottesco italiano, nel giorno in cui
veniva alla luce la farsa del condono berlusconiano da 1800
euro, in televisione ha fatto la morale alla sinistra per
l'affare Unipol. Ha detto che lui non sta con i banchieri, ma
con i risparmiatori. Poteva anche dire "il" risparmiatore e
farne il nome: Berlusconi Silvio.
Lavorare davanti al video e curare la vista
di
Rishi Giovanni Gatti - gennaio 2006
Come
conciliare la cura della vista e il lavoro davanti al
video: un problema molteplice che però ha soluzioni
semplici, da mettere in pratica intenzionalmente fino a
che non saranno diventate spontanee e automatiche.
Il problema più grosso che un qualsiasi praticante del
Sistema Originale di Bates per
la Cura della Vista mediante
auto-trattamento mentale si trova ad affrontare è il
lavoro al video del calcolatore elettronico. Oramai
questi schermi elettronici sono ubiquitari, e non
ostanti i passi avanti fatti dalla tecnologia, che ci
consegna ogni anno schermi sempre migliori, la
difficoltà di guardarli senza sforzare è sempre enorme,
specialmente per chi è all’inizio della cura ed ha da
poco abbandonato definitivamente e permanentemente l’uso
delle lenti correttive o dei dispositivi a foro
stenopeico.
Potremmo dire che le due attività, la cura della vista e
l’uso del videoterminale, siano due occupazioni che si
elidono a vicenda, nel senso che se si persegue l’una,
ciò è a detrimento dell’altra e vice versa. Infatti la
persona che ha una vista imperfetta sotto trattamento si
trova a dover fronteggiare un problema per certi versi
molteplice:
-
la
caratteristica peculiare delle cifre e delle lettere
generate sul video, come impulsi luminosi primari e non
come mero riflesso secondario di una fonte luminosa
terza, come quella della carta stampata dei libri di
testo;
-
la
carenza di luce naturale nell’ambiente di lavoro e la
insufficiente intensità del flusso della comune luce
artificiale, nonché la sua scarsa qualità;
-
la
preoccupazione di dover “essere produttivi”, perché si
ha poco tempo e si deve terminare il lavoro, e gli occhi
si ribellano e ci vedono sempre peggio essendo
sottoposti ad un conseguente e aumentato sforzo per
vedere.
Analizzando più nel dettaglio le varie condizioni
elencate, ci accorgiamo che alcuni rimedi esistono e si
possono attuare con grande beneficio. In particolare:
a) il video come la carta stampata
Che
le immagini video – lettere e cifre – siano costituite
da “pixel”, composti ciascuno da tre “sottopixel” con i
tre colori primari (rosso, verde e blu) in sintesi
additiva, e separati tra loro da un microscopico
contorno nero di sfondo, è una verità che pochi lettori
hanno realizzato. Prendere coscienza di questo fatto
avvicinandosi al video o prendendo una lente da
ingrandimento per capire bene il fenomeno è una conditio
sine qua non per attuare una strategia vincente di cura.
Se non si conosce il problema quale è, come è possibile
risolverlo, o dissolverlo? Il problema è che le lettere
e i numeri a video non sono reali, ma sono un semplice
accostarsi di punti in una matrice prefissata, che il
cervello si sforza di integrare, di rendere reale come
il carattere stampato su carta.
L’unico modo che il cervello ha per ovviare a questo
problema è sfocare leggermente l’occhio per creare una
lieve sovrapposizione tra i pixel sfocati in modo tale
che il carattere matriciale sembri costituito da un
tratto continuo, come il carattere stampato. Questo
meccanismo perverso si attiva inconsciamente e persiste
fino a che non viene ripristinata la “centrale
fissazione” dell’occhio, e cioè la capacità di
discernere il singolo pixel, o meglio ancora il singolo
sottopixel, che va a costituire insieme agli altri pixel
o sottopixel la matrice sulla quale si ricava il simbolo
a video.
A dire il vero, l’ideale sarebbe riuscire a discernere,
tramite centrale fissazione, una piccolissima parte
dell’interspazio nero che costituisce lo sfondo sul
quale i pixel si accendono per formare il simbolo a
video. Per farlo, è sufficiente immaginare, mentre si
usano gli occhi, questa piccolissima parte di
interspazio nero presente ovunque sotto ai pixel,
dimenticandosi di tutto il resto, e spostando lo sguardo
sulle lettere, ricordandosi che non si tratta di lettere
vere ma di pixel e sottopixel separati tra loro, e che è
assurdo cercare di vederli come un tratto continuo.
b) luci forti
La
differenza tra l’illuminamento che l’occhio umano
troverebbe normalmente all’aperto in una giornata serena
di sole primaverile e l’illuminamento di cui può godere
quando è all’interno di un ufficio davanti al video del
calcolatore è dell’ordine delle decine di migliaia di
lux. Cioè, stare al chiuso e stare all’aperto fa una
grande differenza per l’occhio, che si vede depauperato,
all’interno di una comune stanza, della quasi totalità
del suo nutrimento fisiologico, cioè la luce del sole.
Per rimediare occorre agire lungo due direzioni:
-
riabituarsi gradualmente alla luce diretta del sole,
imparando a guardarlo direttamente, nell’arco di qualche
mese di pratica quotidiana, usando anche la scorciatoia
della Lente Solare del Dott. Bates;
-
aumentare di pari passo il flusso luminoso che investe
gli occhi quando si è al lavoro davanti al video,
utilizzando lampade elettriche di vario tipo,
possibilmente ad ampio spettro (ad esempio quelle della
ditta Biosystem Life Lite®), alto rendimento e
temperatura colore di almeno 5.500 K; per la pratica
quotidiana con la
Tabella di Snellen sarebbe opportuno, qualora non si
possa usare la luce diretta del sole, utilizzare la
forte luce concentrata dei proiettori a ioduri metallici
e scarica di gas.
Nell’attuare queste due direttive bisogna sempre
ricordarsi che ogni individuo è un caso a sé, non tutti
vedono ugualmente bene nelle medesime condizioni
luminose, e magari una luce che qualcuno potrebbe
giudicare forte in realtà per qualcun altro è assai
debole. In tutti i casi, secondo il Dott. Bates, tutti
dovrebbero diventare capaci di poter guardare in alto il
sole senza provare alcun fastidio o disagio.
c) usare gli occhi razionalmente
Sono
due le trappole che costantemente il video del
calcolatore ci tende mentre lavoriamo con esso:
-
nello spostare il puntatore (la freccia sul video che
facciamo muovere spostando il mouse sulla scrivania),
siamo tentati di guardare fissamente il punto di arrivo,
l’oggetto su cui premere il pulsante, e seguire nel
campo eccentrico il movimento, in genere a scatti, che
il puntatore fa dietro nostro comando finché esso arriva
a destinazione;
-
una
volta dato un comando qualsiasi, siamo tentati, mentre
siamo in attesa della risposta del calcolatore, di
fissare lo sguardo nel vuoto, al centro dello schermo,
aspettando chissà che e perdendo tempo ed energia che
sono invero assai preziosi.
Queste due tentazioni sono infinitamente molto più
dannose per la vista di quelle elencate precedentemente
perché vanno a minare alle fondamenta il funzionamento
naturale della facoltà visiva. È perché usiamo gli occhi
così irrazionalmente che la mente va sotto sforzo e non
lavora con la dovuta efficienza. Una mente inefficiente
è una mente che non ha gli occhi sotto il normale
controllo, è una mente che genera preoccupazioni e
problemi, che a loro volta indeboliscono la vista e
rinforzano il circolo vizioso dal quale uscire diventa
sempre più impegnativo.
Fortunatamente il rimedio esiste:
-
seguire il puntatore immaginando che l’oggetto puntato
si muova verso di esso, mentre si immagina che tutto lo
sfondo, compreso l’oggetto verso il quale stiamo
dirigendo il puntatore, si muova in senso contrario al
movimento del puntatore;
-
chiudere gli occhi quando si è in attesa del responso
del calcolatore, e riaprirli per una frazione di secondo
ogni due o tre secondi, ripetendo il periodo di
rilassamento fino all’avvenuta risposta, per proseguire
poi con il lavoro.
Niente di più facile.
All’inizio, mettere in pratica questi suggerimenti
costerà molto in termini di produttività, ma è un
investimento che vale la pena intraprendere. Già nelle
prime ore si scoprirà che la visione sarà molto migliore
e la mente più rilassata e libera. Tenere nei pressi
dello schermo del calcolatore una
Tabella di Controllo di Snellen sulla quale lanciare
una rapida occhiata ogni tanto consentirà di verificare
i progressi minuto per minuto, oltre che essere una
ulteriore fonte di riposo per gli occhi. Nel corso dei
giorni o delle settimane, sarà possibile rimpicciolire i
caratteri comunemente usati a video e allontanare o
avvicinare lo schermo per verificare come le condizioni
che una volta erano assai sfavorevoli ora non lo sono
più così tanto, si sono trasformate in condizioni nelle
quali è più facile esercitarsi a vedere sempre meglio, e
a pensare e lavorare in modo sempre più riposato e
tranquillo.
3 gennaio
Il
dovere della Quercia
di MIRIAM MAFAI
DA SEI mesi ormai la vicenda Unipol-Bnl secerne i suoi veleni
sulla scena politica italiana. E tutto fa pensare che il
profluvio di intercettazioni, interviste, polemiche continuerà,
di qui alle elezioni, assumendo il carattere di una campagna nei
confronti dei Ds.
Ai Ds si rimprovera l'antico legame e la solidarietà, il
cosiddetto "collateralismo" nei confronti del movimento
cooperativo e delle sue operazioni finanziarie. Il "collateralismo"
è un dato di fatto che fa parte della storia del movimento
cooperativo e del movimento operaio. Il sostegno offerto dai Ds
al tentativo dell'Unipol di conquistare la Bnl si è manifestato,
nel corso degli ultimi mesi, in modo esplicito. E non può essere
considerato una colpa. A meno che tra Ds e Unipol non siano
rilevabili accordi occulti di carattere finanziario in
violazione delle regole del mercato.
Nulla di tutto questo è emerso finora. Tutte le telefonate rese
note fino a ieri provavano l'interessamento di Fassino per
l'operazione e per il suo successo. Niente di illegittimo e
niente di più. Ieri sono state rese pubbliche altre
intercettazioni di telefonate tra Fassino e Consorte, che
risalgono al luglio scorso. Non ci sembra che possano avere
alcuna rilevanza sul piano penale. Esse rivelano però la
esistenza di rapporti strettissimi tra il presidente dell'Unipol
e il segretario dei Ds. Così stretti che quest'ultimo a un certo
punto si fa sfuggire una espressione eccessiva di giubilo: "Ah,
allora, siamo padroni di una banca...". E Consorte di rimando:
"Sì, è chiusa, è fatta".
È inutile negarlo, o sottovalutarlo. C'è qualcosa di
profondamente sgradevole, di eccessivo, in questo scambio di
informazioni dettagliate, di complimenti reciproci. In questa
esultanza. In questo "siamo padroni" di una banca... Il padrone
chi sarà, l'Unipol o i Ds? Intendiamoci: il sostegno dei Ds all'Opa
su Bnl non è certo una novità. Sia D'Alema che Fassino, in prima
persona, si erano già espressi nel corso dell'estate in questo
senso. Forse, possiamo dire oggi, con un eccesso di entusiasmo.
Senza tener conto delle riserve che si erano già manifestate
anche all'interno del mondo cooperativo.
Ma, se le accuse nei suoi confronti saranno confermate, la
fiducia nei confronti di Consorte era mal riposta. Il patron
dell'Unipol, a quanto è risultato dalle successive indagini
della magistratura, si occupava con molto zelo degli interessi
della cooperazione, ma, per lo meno con altrettanto zelo dei
suoi interessi privati, in combutta con Fiorani, Gnutti e i
cosiddetti "furbetti del quartierino".
Sulla scena di questo scandalo che ha occupato le pagine di
tutti gli organi di informazione nel corso dell'estate si sono
mossi, da protagonisti non solo l'Unipol, ma personaggi quanto
mai ambigui, brasseurs d'affaires che si erano improvvisatisi
banchieri d'assalto, immobiliaristi dalle incerte e sospette
fortune, giocatori d'azzardo che inventavano cordate e scalate.
Il tutto sotto l'occhio compiacente e in qualche caso affettuoso
di un Governatore della Banca d'Italia costretto alla fine, ma
solo alla fine, a dare le dimissioni. E colpisce in tutta questa
vicenda l'ambigua familiarità che legava i protagonisti, quello
scambio di regali, persino di baci, di affettuosità, di
complimenti e, alla fine, di principesche percentuali incassate
dal presidente dell'Unipol per improbabili ma certamente
preziose consulenze.
Non siamo tra coloro che pensano che il danaro sia "lo sterco
del diavolo" ma siamo convinti che ci sono modi diversi di
trattarlo, di guadagnarlo e di scambiarlo. I "furbetti del
quartierino", coloro che giocano d'azzardo con il danaro, non
possono essere considerati alla stregua di coloro che rischiano,
producono e fanno profitto (o magari non ci riescono, come pure
accade).
Per questo è apparso per lo meno singolare e sgradevole che
alcuni dirigenti autorevoli dei Ds abbiano volutamente ignorato
questa differenza, quando nel corso di alcune interviste, si
sono chiesti ironicamente "Cos'ha Gnutti che non va?", "Cos'ha
Ricucci che non va?".
Si è visto nel corso di pochi mesi cosa non andava in quei
personaggi, nelle loro spericolate operazioni e nelle loro
sproporzionate ambizioni. E si spiega il disagio che oggi si
manifesta non solo all'interno del movimento cooperativo, ma
anche nei Ds. La vicenda, come dicevamo all'inizio, continua a
secernere i suoi veleni sulla scena politica e rischia di
trasformarsi in un boomerang per i Ds, un partito che ha fatto
giustamente della difesa dell'etica pubblica una delle sue più
nobili bandiere di fronte al dilagare della corruzione nella
vita pubblica e alla clamorosa compromissione tra politica e
interessi privati di cui è simbolo Berlusconi.
Ma si percepisce, tra i Ds, la difficoltà di definire una
credibile linea non solo di resistenza, ma di contrattacco. Il
disagio e l'incertezza nella definizione di questa linea sono
apparsi evidente anche nelle contrastanti dichiarazioni di
alcuni dirigenti. C'è ancora chi parla di "complotto", ma c'è
anche chi (lo ha fatto qualche giorno fa Giorgio Napolitano con
il tono misurato che gli è proprio) rivolge qualche critica a
Fassino e D'Alema per la fiducia eccessiva che questi avevano
manifestato nei confronti di Consorte. Una richiesta
irricevibile, ha protestato Luciano Violante, ricordando che "i
DS non hanno scheletri nell'armadio". Ma la questione non si
chiudeva ancora.
Perché il giorno dopo Vannino Chiti non esitava a dichiarare che
"è stato un errore aver fatto il tifo per l'Unipol nella scalata
alla Bnl". Una affermazione che sembra correggere precedenti
prese di posizione e, insieme, preannunciare un dibattito, nelle
sedi opportune, su quanto è avvenuto nei mesi scorsi, sui
comportamenti dei singoli, e sulla esigenza di definire un più
limpido rapporto tra politica e affari.
È quanto l'opinione pubblica si attende dal vertice Ds: un
giudizio netto e inequivocabile su un personaggio come Consorte,
regista di un'operazione opaca, insieme con personaggi
spregiudicati fino al limite dell'illegalità.
C'erano altre intenzioni in gioco, la volontà di colpire, con la
conquista della Bnl, altri poteri presenti nella finanza e
nell'editoria, la necessità di tutelare altri interessi e di
promuovere altre ambizioni? Sarebbe bene chiarirlo, prima che la
pubblicazione di nuove intercettazioni sparga altro veleno su
una campagna elettorale che già si preannuncia durissima.
Il regista di "Fahrenheit 9/11"
gira un nuovo documentario
sull'inefficienza e le connivenze politiche del sistema
sanitario
Usa,
tremano i giganti dei farmaci
"Attenti a Moore, ci rovinerà"
Alcune industrie
hanno diffuso un avviso interno via email
in cui si invita a fare attenzione alle interviste di
sconosciuti
Michael Moore
ROMA - Non lasciatevi ingannare da un cappellino da
baseball, non rispondete alle domande di chi lo indossa perché
sotto quella visiera si nasconde una delle teste più pericolose
della cinematografia indipendente americana. E' un avvertimento
a tutti gli effetti quello che alcune case farmaceutiche
americane hanno diffuso fra i dipendenti, quando hanno saputo
che Michael Moore sta girando Sicko, titolo provvisorio
di un nuovo film-documentario proprio sul sistema sanitario
degli Stati Uniti. Un panico amplificato dal silenzio totale del
temibile regista, il che alimenta congetture su quello che
potrebbe già avere per le mani.
Questa volta l'ex giornalista di Flint, Michigan, punta l'indice
su ospedali, agenzie di assicurazioni e soprattutto
sull'industria dei medicinali. Semplice l'interrogativo dal
quale prende le mosse: "Non capisco perché uno dei Paesi più
ricchi del mondo permetta che quattro milioni di cittadini, se
si ammalano, non vengano assistiti". Punto di partenza, la
storia di dieci persone "costrette" a morire dall'inefficacia
della sanità pubblica americana. Facile immaginare un nuovo
pugno nello stomaco, dopo le inchieste d'assalto sulla General
Motors (Roger&Me, 1989), sulla lobby delle armi (Bowling
a Columbine, 2002) e soprattutto dopo il clamore suscitato
da Fahrenheit 9/11.
Il film, distribuito da Bob e Harvey Weinstein (dal quale i due
fratelli fondatori della Miramax si aspettano grandi cose, tanto
che avrebbero già previsto un incasso di 40 milioni di dollari)
dovrebbe uscire nel prossimo autunno. Sulle riprese, si
diffondono voci incontrollate. Come quella che vorrebbe Moore
dimagrito e camuffato - baffi e capelli biondi - per non essere
riconosciuto e realizzare interviste senza problemi. In realtà,
come avvenuto per Fahrenheit 9/11, non mancheranno
volontari pronti a dispensare informazioni per realizzare un
film che ha sollevato polemiche e timori ancora prima del
concepimento.
Per questo, alcune importanti case farmaceutiche hanno invitato
i dipendenti a non cadere nei tranelli che il diabolico Moore
potrebbe tendere loro. La Pfizer Global Research, ad esempio, ha
inviato una email interna a tutti i dipendenti, con un
"identikit" del regista e il monito a fare attenzione. Lo stesso
hanno fatto la Glaxosmithkline (dopo l'"avvistamento" di Moore a
Philadelphia, quartier generale della società) e la AstraZeneca.
Il direttore della comunicazione di quest'ultima azienda, Rachel
Bloom, ha dichiarato che "i lavori del regista sono
evidentemente tendenziosi, anche questo sarà più una
docu-drammatizzazione che un film equilibrato".
Ma se i dipendenti delle case farmaceutiche non parlano, tanto
meno rilascia dichiarazioni il diretto interessato. Un cronista
di Variety - il magazine-Bibbia di Hollywood - ha cercato
di contattarlo ma racconta di non aver ricevuto alcuna risposta.
Sul sito
michaelmoore.com il riferimento più recente a Sicko
risale addirittura al 23 dicembre del 2004, con la citazione di
un articolo del Los Angeles Times che raccontava come,
già allora, un nervosismo crescente si stesse diffondendo fra le
industrie farmaceutiche americane.
2 gennaio
Il coraggio della giustizia
di Gian
Carlo Caselli
Come saranno state le feste dei ragazzi di Locri? Quelli con le
magliette «E adesso ammazzateci tutti»? Quelli che dopo
l'omicidio di Franco Fortugno hanno risvegliato - per qualche
giorno - le nostre coscienze, costringendoci ad occuparci della
Calabria? Immagino che siano state feste come quelle degli altri
ragazzi. Allegre e spensierate. Ma forse non solo. Forse i
ragazzi di Locri, oltre a divertirsi, hanno continuato a porsi
domande, alcune ineludibili alla luce delle cronache dei gravi
scandali economico-finanziari che affliggono il nostro Paese
(aggiungendosi ai problemi di sempre). Hanno constatato che
l’illegalità può anche assumere volti diversi dal sangue e dalle
stragi: corruzione, scambio politico-affaristico, spreco di
risorse, mancanza di controlli, inefficienza burocratica,
evasione fiscale, arricchimenti troppo facili alle spalle degli
onesti, raccomandazioni sistemiche, assistenzialismo
clientelare... Capiscono, i giovani, che se non si batte anche
questa illegalità, possiamo sconfiggere tutte le cosche che ci
pare, ma non avremo costruito quasi niente. Non avremo dato - ai
giovani che lo pretendono - un vero futuro, consentendo loro di
pensare al lavoro, in particolare, come a un diritto e non come
a un ricatto o una merce di scambio.
Alla fine i giovani di Locri si
saranno magari chiesti se sia proprio vero che la «questione
morale» è un ferrovecchio da accantonare o una «pruderie» di
benpensanti. Spero abbiano concluso che si tratta invece di
una grande questione democratica ed istituzionale: per la
decisiva ragione che un sistema intriso di malaffare, di
corruzione, o di rapporti con la mafia è l'emblema del
prevalere dell'interesse privato sull'interesse pubblico,
cioè di un sistema malato che non produrrà niente di buono
per il futuro dei giovani.
Non solo ai giovani di Locri,
ma a tutti i cittadini italiani, vorrei poi ricordare che
l'accantonamento della «questione morale» è
inestricabilmente intrecciato con la «questione giustizia».
Sappiamo tutti che il sistema giudiziario spesso non
funziona o funziona male. Eppure anche quel «poco» dà
fastidio. L'obiettivo di chi attacca la giurisdizione, ieri
come oggi, è avere meno, non più giustizia. Un esempio per
tutti. Quando un uomo politico viene indagato per corruzione
o collusioni con la mafia, prima o poi scatta - per il
magistrato che procede - l'accusa inesorabile di fare
politica. Accusa a senso unico, rivolta soltanto a chi
indaga senza sconti, mentre chi si defila viene gratificato
con gli applausi riservati al «giudice giusto» (il tutto,
ovviamente, a prescindere dalla fondatezza delle decisioni,
in un caso come nell'altro: ormai, gli interventi giudiziari
vengono valutati non in base alla correttezza e al rigore,
ma unicamente secondo la loro convenienza). L'accusa di
«politicizzazione» fa coppia fissa con quella di «giustizialismo»,
parola che ormai usano con disinvoltura anche coloro che
(non avendo interessi di bottega da difendere vomitando
insulti) dovrebbero meglio riflettere, a partire dalla
esemplarità della vicenda del termine. «Giustizialismo» è
parola sconosciuta nel nostro lessico, finchè qualcuno non
decide di inventarsela di sana pianta per poter più
facilmente archiviare il «pericoloso» consenso per la
legalità che aveva accompagnato le indagini di Tangentopoli
e la «seconda primavera» di Palermo.
Assolutamente privo di novità e
di senso sul piano dei contenuti, il neologismo ha avuto la
sola finalità mediatica di avallare l'idea di un uso
scorretto della giustizia da parte dei magistrati che
adempiono i loro doveri senza timidezze o compromessi, così
costringendo il dibattito a partire da verità rovesciate. Un
trucco che in questi giorni si ripresenta, posto che
l'accusa di «giustizialismo» torna ad inflazionare molti
commenti sugli attuali scandali finanziari e bancari. In
realtà, la politica con la «P» maiuscola (quella che voglia
esercitare davvero il suo incontestabile primato, che si
proponga di recuperare una dimensione etica della
convivenza) dovrebbe individuare un problema da affrontare e
risolvere, non da rimuovere o cancellare, tutte le volte che
l'intervento giudiziario accerti fatti gravissimi sul piano
politico-morale (indipendentemente dalla loro rilevanza sul
versante della responsabilità penale, vigendo al riguardo
regole ben diverse da quelle che presiedono alla
responsabilità politico-morale).
La conoscenza di questi fatti -
in un paese normale - dovrebbe innescare rigorosi percorsi
di «bonifica». Invece, pur in presenza di comportamenti
vergognosi accertati a loro carico, gli imputati vengono
regolarmente difesi «a prescindere» se non beatificati; ed i
magistrati che hanno scoperchiato la pentola maleodorante
sono cialtroni. Se ancora oggi prevale la cancellazione
della verità, occorre chiedersi il perché di questa
anomalia. Può darsi che la verità sia incompatibile con una
certa politica. Può darsi che una certa politica voglia
liberarsi da ogni responsabilità di ieri, di oggi e - perché
no? - anche di domani. Ma in questo modo la linea di
demarcazione fra lecito ed illecito, morale ed immorale
sfuma. E così non c'è paese civile al mondo (neppure il
nostro) che possa sopravvivere a lungo.
E dunque, non è un caso che
l'accantonamento della questione morale si presenti in
coppia con la richiesta alla giurisdizione (sempre
incombente: ieri come oggi) di fare un «passo indietro»; e
che le dimissioni da incarichi pubblici a seguito di
sottoposizione a processo penale, a differenza di quanto
accade nella maggior parte dei sistemi simili al nostro,
siano rarissime e non si registrino neppure a fronte di
sentenze definitive della Cassazione; non è un caso che nei
programmi elettorali, non solo della maggioranza ma anche
dell'opposizione, si stenti ad trovare un posto non soltanto
di facciata all'imbarazzante problema del rapporto tra etica
e politica. Il vecchio detto machiavellico secondo cui gli
Stati non si governano con i «pater noster» fa evidentemente
premio sul pensiero dei nostri «maggiori» - da Bobbio in poi
- secondo i quali il malaffare è sempre privo di
giustificazioni politiche e, come il tiranno resta tiranno,
così il corrotto, il disonesto, il colluso e lo
spregiudicato sovvertitore delle regole che valgono solo per
gli altri restano tali, a prescindere dalle loro capacità e
dai loro successi.
Sono sicuro che i ragazzi di
Locri sono scesi in strada anche perché tutte queste cose
cominciano ad intuirle e capirle sempre di più. Il mio
augurio per l'anno nuovo, allora, è che non si rassegnino.
Che insistano a pretendere legalità e giustizia, ovunque e
da tutti. Faranno del bene anche a noi. In particolare a
quelli fra noi che hanno più bisogno di scuotersi di dosso
apatia o cinismo, anticamera della voglia di non
distinguersi troppo da coloro che hanno prodotto strappi
alla giustizia e alla legalità, nel nostro Paese, che non è
possibile prevedere dove andranno a fermarsi. E che
potrebbero addirittura allargarsi - se la tendenza non
s'inverte - fino a ridurre a brandelli il nostro senso
morale
TERRA
TERRA
Surfin'
California, «made in China»
LUCA CELADA,
A Santa Monica, California, i surf shops
sono stati presi d'assalto. A Huntington Beach, Jack's
Surfboards, che in una buona giornata può vendere quattro tavole
da surf, in un giorno ne ha smerciate 20 malgrado le avesse
«maggiorate» di 100 dollari oltre il prezzo corrente di 550-600
dollari. Un altro storico negozio, Killer Dana di Dana Point, ha
esaurito le scorte in meno di mezza giornata e ha dovuto
respingere clienti che facevano la fila chiedendo di acquistarne
5-6 per volta. Un ondata di acquisti-panico provocata
dall'annuncio, piovuto come una doccia fredda sui surfisti che
galleggiano come boe nelle onde da San Diego a Ventura: la Clark
Foam di Laguna Niguel, cioè la più grande manifattura al mondo
di foam cores, ha chiuso i battenti dopo aver perso un
giudizio che l'ha giudicata «gravemente colpevole di inquinare
l'ambiente» disperdendovi illegalmente i materiali fortemente
tossici usati nella produzione. Per continuare a lavorare, la
manifattura avrebbe dovuto spendere 60 milioni di dollari per
miglioramenti ambientali e Rusty Clark, il titolare, l'uomo che
più di 40 anni fa aveva inventato il metodo di produzione
industriale delle tavole, ha preferito tirare i remi in barca.
Le tavole usate nello sport californiano per eccellenza, sono
composte di un'anima in poliuretano dall'approssimativa forma
ovale che viene successivamente plasmata e ricoperta da un
«guscio» di plastica dura e lucida dai singoli progettisti. Sono
costoro che modellano la forma finale della tavola, rifinendola
a mano al millimetro per massimizzarne le doti aerodinamiche -
in alcuni casi si tratta di vere star i cui segreti sono
riveriti e ricercati dai surfer alla ricerca dell'onda perfetta
e della tavola in grado di fornire la «cavalcata» migliore.
Nell'industria del surf - un fatturato annuo di 200 milioni di
dollari solo per le tavole e molto di più per accessori, mute,
abbigliamento, occhiali ecc. - la progettazione idrodinamica,
firmata spesso da grandi nomi del circuito professionisti, può
valere centinaia di dollari sul prezzo finale, che spesso si
avvicina ai mille dollari.
Tutto però comincia con stessa anima di poliuretano
grossolanamente formata, che è il cuore di ogni tavola poi
plasmata a piacimento: e fino alla scorsa settimana il 90% di
queste era prodotta dalla Clark.
La chiusura ha gettato nel caos l'industria di tavole «custom»,
improvvisamente a corto di materia prima per modellare assi su
misura, e ha aperto la porta all'importazione massiccia di
tavole preformate di polistirene e resina prodotte in Asia - un
anatema per gli intenditori, che provano orrore all'idea di
dover presto acquistare boards prefabbricate da Wal Mart.
«La fine di un'era», l'ha definita Izzy Tyhanil di Surf Diva, la
scuola e azienda di San Diego specializzata nel design di assi e
abbigliamento da surf a target principalmente femminile,
piangendo la fine del tocco artigiano: «I giorni in cui il
progettista poteva disegnare una tavola ottimizzata per lo stile
particolare di un singolo surfista sono ormai contati». Iniziano
invece presumibilmente quelli della standardizzazione e delle
assi prodotte in serie da fabbriche in Cina e altri paesi con
normative ambientali e di sicurezza sul lavoro più flessibili.
Un duro colpo cioè per il surf, sport dall'alone mistico degli
spiriti liberi e adepti new age dell'estate infinita. Anche il
surf si allinea insomma alle macrotendenze della globalizzazione:
alcune linee di tavole «firmate» vengono già prodotte sotto
licenza in Cina. Ora, oltre a rimpiangere la fine di un'era, i
surfisti, adepti di una cultura notoriamente insulare e
tradizionalista, oltreché ostentatamente ambientalista, si sono
beccati anche la reputazione di inquinatori.
Regalo di fine legislatura: Salò come la
Resistenza
di red.
Resta solo un mese a questa
legislatura. Troppo poco per fare molte cose utili. Quanto basta
per temere di veder approvata un’altra legge vergogna.
Non sono in gioco gli interessi
del premier, questa volta, ma quella smania di riscrivere la
storia d’Italia che anima troppo spesso lui stesso e i suoi
alleati. Nonostante mesi di polemiche, l’11 gennaio
approderà in aula al Senato il provvedimento che riconosce
ai repubblichini di Salò lo status di militari belligeranti.
Equiparandoli, per legge, a quanti combatterono per la
libertà.
Il voto finale è già previsto
per il 16 gennaio, in tempo per regalare una nota di
revanchismo storico alla campagna elettorale. Non in tempo,
fortunatamente, per arrivare all’approvazione finale della
Camera.
«Trovo aberrante che la
maggioranza del Senato abbia voluto iscrivere all'ordine del
giorno dell'Aula per i primi di gennaio la proposta
vergognosa di equiparare i reduci di Salò ai partigiani che
contribuirono a liberare l'Italia dall'occupazione tedesca e
dalla dittatura fascista», afferma il senatore Ds Walter
Vitali. Ma «evidentemente si prosegue nel voler marchiare
questa legislatura con l'infamia di un provvedimento del
genere approvato anche in un solo ramo del Parlamento come
pericoloso precedente per il futuro». Armando Cossutta,
presidente dei Comunisti italiani, incita l’Unione ad
impedire «l'ultimo oltraggio».
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