Archivio gennaio 2006

 


27 gennaio

Il Rapporto Eurispes 2006 denuncia l'immobilismo dell'economia
e il conseguente arretramento del Paese, in attesa di 'soluzioni'
L'Italia spreca il talento e declina
tra Don Gesualdo, Cassano e debiti

Paese che si mostra incapace di esprimere tutte le sue risorse
E si indebita: prestiti per mantenere il livello di vita precedente
di ROSARIA AMATO

<B>L'Italia spreca il talento e declina<br>tra Don Gesualdo, Cassano e debiti</B>
Le famiglie italiane hanno sempre più difficoltà a sostenere lo stesso livello di vita

ROMA - Un Paese che non riesce a trasformare la propria potenza in energia. Che accumula 'robba' che non si traduce in ricchezza collettiva. Che perde per strada, per incapacità di valorizzarli, talenti propri e importati. Per spiegare il declino dell'Italia l'Eurispes, nel Rapporto 2006, tira in ballo la filosofia aristotelica, Mastro Don Gesualdo, protagonista dell'ominimo romanzo di Giovanni Verga, e infine un personaggio dei giorni nostri, Cassano.

Aristotele. Per declinare in questo modo la metafora: di Aristotele si cita la fisica, la trasformazione dell'essere in potenza ad un essere in atto. L'Italia, spiega il presidente dell'Eurispes Gian Maria Fara, è "un Paese dalle grandi risorse e dalle grandi potenzialità che non riesce ad esprimere e ad affermare un progetto di crescita e di sviluppo. Che non riesce ad individuare un percorso orginale al quale affidare il proprio futuro".

Mastro Don Gesualdo. Per cui la ricchezza accumulata, non traducendosi in benessere e progresso per il Paese, diventa inutile come la 'robba' di Mastro Don Gesualdo, che avrebbe dovuto garantire al personaggio verghiano la sognata elevazione sociale, e invece rimane lì, pronta per essere dilapidata dal genero nobile e squattrinato.

Cassano. E così anche quello che avrebbe pregio, che meriterebbe di essere valorizzato diventa inutile, improduttivo. Come il giocatore della Roma Cassano, ricorda l'Eurispes, acquistato dalla Roma nel 2001 per 30 milioni di euro, un talento poco o nulla valorizzato dalla squadra, alla quale alla fine non rimane che venderlo.

Il declino. In opposizione all'ultimo Rapporto Censis che nega che in atto ci sia un declino del Paese, e che parla anzi di segnali, sia pur deboli, di cambiamento, l'Eurispes afferma senza mezzi termini che "l'Italia è già 'declinata'", almeno quella alla quale eravamo abituati, e ne sta nascendo un'altra che gli osservatori stranieri non vedono e non considerano". E alla quale, contesta Fara, si applicano inutilmente "analisi a scoppio ritardato e ricette politiche bipartisan ancora legate ai modelli della tradizione economica, che hanno mostrato il loro sostanziale fallimento nel corso degli ultimi cinquant'anni".

I segnali: l'indebitamento delle famiglie. I più ampi ed espliciti segnali di declino sono naturalmente la stagnazione economica, il cattivo andamento della produzione industriale, la dimuzione delle esportazioni, il debito pubblico...Tutti dati già ampiamente noti, mentre vale la pena di soffermarsi sulla crisi dei bilanci familiari, e sul conseguente aumento esponenziale dell'indebitamento delle famiglie stesse. Nel 2005, si legge nel Rapporto Eurispes, il credito al consumo ha avuto una crescita del 23,4%, pari quasi a 47 miliardi di euro. Ma all'impennata dei debiti non ne corrisponde una analoga dei consumi, cresciuti a malappena nello stesso periodo dell'1%. Questo perché le famiglie vi fanno ricorso "solo per mantenere il vecchio, dignitoso livello di vita".

Prestiti anche per i consumi alimentari. Negli ultimi anni si registra inoltre un allungamento dei crediti al consumo: quelli la cui restituzione è prevista entro i cinque anni sono passati dai 5.802 milioni di euro del 2001 ai 17,5 miliardi del 2005, con un aumento del 200%. Le famiglie ricorrono al credito "soprattutto per far fronte ai bisogni essenziali (cure mediche e specialistiche, automobili, elettrodomestici, servizi per la casa, ecc) piuttosto che per acquistare beni e servizi voluttuari quali, ad esempio, viaggi e vacanze. Peraltro si sta diffondendo sempre più la pratica di credito al consumo per l'acquisto di beni di prima necessità come quelli alimentari". Pertanto, prevede l'Eurispes, nel 2006 la percentuale delle famiglie italiane che vi farà ricorso aumenterà dell'11,8%.

Più poveri, più ricchi. Come segnalato anche da altre ricerche, l'arretramento dell'economia ha schiacciato la classe media, aumentando il divario tra ricchi e poveri. Alle 2.674.000 famiglie (l'11,7 %) povere rilevate dall'Istat secondo l'Eurispes ne vanno aggiunge due milioni e mezzo a rischio povertà. Si ottengono così 5.200.000 nuclei familiari, il 23% del totale, in situazioni di indigenza. Che hanno tagliato le spese per il tempo libero (61,5%), viaggi e vacanze (64%), destinate ai regali (72%) o ai pasti fuori casa (oltre il 66%).

Mentre i nuovi ricchi vanno cercati, rilevano gli autori del Rapporto, "nei settori finanziario, assicurativo, immobiliare e dei servizi alle imprese". E poi tra i "commercianti all'ingrosso e al dettaglio, imprenditori nel settore dell'edilizia, immobiliaristi e agenti immobiliari, produttori e rivenditori di beni di lusso, titolari di centri estetici e beauty farm". E ancora, tra le "diverse tipologie di liberi professionisti come avvocati e consulenti legali dei settori finanziario, assicurativo e immobiliare, medici specialisti e dentisti, commercialisti e tributaristi", categorie che "hanno potuto sfruttare il ciclo economico di elevata inflazione adeguando verso l'alto in maniera pesante onorari, tariffe e parcelle professionali". Mentre a perdere sono stati i piccoli risparmiatori, i piccoli imprenditori, tra i quali gli artigiani, gli impiegati a stipendio fisso.

Cala la fiducia nelle istituzioni. Nei vari sondaggi che registrano la fiducia dei cittadini nelle istituzione il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi è quasi sempre in testa alle preferenze, e infatti anche per l'Eurispes non fa eccezione. E tuttavia, fa notare l'istituto di ricerca, anche la credibilità personale del presidente rischia di venire travolta dalla sempre più dilagante sfiducia degli italiani nei confronti di chi li governa: infatti Ciampi passa dall'80% per dell'anno scorso e di due anni fa al 65,6% attuale. Il 49,2% degli intervistati è "meno fiducioso verso le istituzioni" rispetto allo scorso anno. Dopo Ciampi registra i maggiori consensi la magistratura (38,6%), seguita dal Parlamento e dal governo con, rispettivamente, il 24,6 e il 23%. Anche queste ultime sono percentuali in ribasso (l'anno scorso erano al 44, 34 e 32,9%).

L'Italia in potenza. Il Rapporto Eurispes dopo una disamina impietosa del declino passa a parlare delle potenzialità. A cominciare dal patrimonio culturale che, nelle stime dell'Unesco, assomma al 60-70% di quello mondiale. E poi il turismo, e il suo matrimonio fruttuoso con l'agricoltura. "La via d'uscita dalla crisi è legata - afferma Fara - alla riscoperta e alla valorizzazione delle peculiarità e delle vere vocazioni del nostro Paese. Trasformare la potenza in atto significa dunque realizzare il passaggio da un sistema produttivo orientato alla produzione di beni di consumo individuali, materiali o immateriali, verso la produzione di 'ben vivere collettivo' in termini di riqualificazione urbana; energie pulite e rinnovabili; salvaguardia del territorio, dell'acqua e dell'aria; salute e prevenzione sanitaria; agricoltura e sicurezza alimentare; ristrutturazione della mobilità dei passeggeri e delle merci; ristrutturazione disinquinante dei processi produttivi e uso più efficiente delle risorse".

La raccomandazione: esecrabile ma gradita. In una situazione piuttosto nera nella quale le prospettive lavorative più rosee sono quelle di un precariato a vita, l'italiano medio, pur vedendo la raccomandazione come "una pratica negativa e discutibile per entrare nel mondo del lavoro", la considera, nel 65% dei casi "un'occasione d'inserimento", che per il 67,4% (con punte del 73,4% tra i più giovani) risulta "necessaria".

25 gennaio

Approvato in commissione Vigilanza il provvedimento
sulla neutralità dei conduttori. L'Unione abbandona l'aula

Par condicio, la Cdl vota l'emendamento anti-Santoro
 
<B>Par condicio, la Cdl vota<br>l'emendamento anti-Santoro</B>
Michele Santoro

ROMA - Un emendamento che impedisce a Michele Santoro di condurre una trasmissione durante il periodo della in campagna elettorale. Lo ha votato la maggioranza compatta in commissione di Vigilanza Rai, dichiarando che si tratta di un emendamento nel segno "neutralità" dei conduttori. Il riferimento Santoro non è esplicito ma si parla di "persone che hanno ricoperto un ruolo politico nell'ultimo anno". L'Unione ha abbandonato l'aula al momento del voto.

L'emendamento vieta, durante il periodo di campagna elettorale, la presenza in video che non sia per partecipare ai programmi dedicati ai rappresentanti delle liste e delle coalizioni anche a tutte "le persone chiaramente riconducibili ai partiti e alle liste concorrenti per il ruolo che ricoprono o hanno ricoperto nelle situazioni nell'ultimo anno".

"E' un emendamento mirato contro Santoro - spiega il capogruppo Ds, Giuseppe Giulietti - un ad personam fatto con criterio punitivo".

Replica da An Ignazio La Russa, ma tutta la Cdl è favorevole: "Abbiamo discusso ieri tutti insieme nella Cdl di questa norma che non è dedicata all'uomo ma alle situazioni. Il problema è di valutazione, che spetterà al Consiglio di amministrazione della Rai leggendo ed interpretando questa norma. E' un problema di interpretazione che non spetta a noi altrimenti avremmo scritto 'parlamentari europei' e gli italiani che ci votano avrebbero detto 'avete fatto bene'".

LA POLEMICA
Lo spot della Mondaini
"Cavaliere, uomo da amare"

di SEBASTIANO MESSINA

L'AUTHORITY dice che la tv non deve favorire nessuno? Ma certo. L'opposizione invoca la par condicio? Ma naturalmente. Confalonieri ha promesso che Mediaset si comporterà "in modo corretto"? Ma ci mancherebbe. Poi uno accende Canale5 e trova un superspot per "l'amico Silvio".

"Un uomo che bisogna conoscere per poter amare", come assicura Sandra Mondaini con il cuore in mano. Cose che capitano alle cinque della sera, lontano dai telegiornali, dai Porta a porta e dai Matrix, in trasmissioni dove tutto ti aspetteresti tranne che di veder germogliare d'un tratto un fioretto, anzi un mazzolin di fiori per "il nostro datore di lavoro", come lo chiama con rispettoso trasporto la Mondaini, ovvero "per il nostro presidente del Consiglio" come precisa con compita devozione la bella Paola Perego.

Siamo a "Verissimo", trasmissione a cavallo tra la cronaca e il gossip, due milioni e mezzo di telespettatori che di solito non restano in piedi fino all'una di notte per aspettare Vespa o Mentana, e che magari non guardano neanche i telegiornali. Un target polposo di elettorato popolare, insomma. Cosa c'entra Berlusconi con la cronaca rosa o con i pettegolezzi?

Nulla, si capisce. Ma a casa propria, sulle sue reti, ognuno è padrone di fare come gli pare. E non ci vuole poi tanto a montare una bella telepromozione politica, uno spottone mascherato, un consiglio per le elezioni in formato famiglia. Se poi uno è bravo, riesce pure a mascherarlo da servizio giornalistico o da duetto improvvisato, sfuggendo a ogni rilevamento, a ogni regola, a ogni misurazione.

Si fa così. Si estrapolano da un'intervista al premier "scevra di domande" (come l'ha definita lo stesso intervistatore, Paolo Bonolis) tre brani strappacore. Quelli in cui il presidente del Consiglio parla della moglie conquistata "dopo un colpo di fulmine", dei figli che "sanno fare a memoria le divisioni a più cifre e accompagnano i malati a Lourdes" e di mamma Rosa, "una donna da combattimento" che metteva in fuga i nazisti. Quelli, insomma, come spiega la conduttrice alla Mondaini, "in cui non è il politico che parla ma l'uomo: il tuo amico, Sandra".

Poi, con gli occhi lucidi di ammirazione, interviene la moglie di Raimondo Vianello (indimenticato protagonista, nel 1994, di uno spot identico, quello in cui annunciava a "Pressing" che avrebbe votato per l'unico uomo politico che conosceva personalmente: Berlusconi). E lei, alla domanda sul "peggior difetto" del suo amico Silvio, risponde così: "Io ho dei punti fermi. Mio marito. I miei figli. Il professor Veronesi. E il signor Berlusconi. Siamo amici, ecco. In trent'anni che ho vissuto a Roma non ho mai voluto conoscere dei politici, perché i politici non mi piacciono. Ma ho avuto la disgrazia di conoscere un signore, di volergli bene: il mio datore di lavoro. Gentile. Divertente. Simpatico. Ottimista. Io mi sono molto affezionata a lui. E' un uomo che bisogna conoscere per poter amare. E io, essendo in un paese libero, lo dico: voglio molto bene a Berlusconi".

Quale bilancia dell'Authority, quale par condicio, quale cronometro arbitrale potrà mai stabilire il valore aureo di una simile dichiarazione di ardenti affetti aziendali e di cieca fiducia politica? E quale compensazione potranno pretendere concorrenti e avversari, quando l'esempio della Mondaini sarà imitato - da qui al 9 aprile - dagli altri conduttori di Cologno Monzese, esattamente come accadde undici anni fa, quando Vianello fu seguito a ruota da Mike Bongiorno, da Iva Zanicchi, da Ambra Angiolini, da Alberto Castagna, da Patrizia Rossetti, da Gerry Scotti e da tutte le star del firmamento Mediaset? Se non stanno attenti, Rutelli e Fassino rischiano di essere ricompensati con la stessa moneta che è toccata la settimana scorsa a Romano Prodi, al quale il Tg di Italia Uno ha dato spazio solo per insinuare il dubbio che abbia barato, partecipando alla maratona di Reggio Emilia.

In fondo, è la solita regola delle tv berlusconiane: quando il gioco si fa duro, i divi cominciano a giocare.



 
La Cina ha le mani sulla gola del dollaro
Di Mike Whitney
Sito originale
www.informationclearinghouse.info
Scelto e tradotto per www.comedonchisciotte.org  da VICHI

“E’ un colpo mortale per il dollaro,” è stato il commento di Peter Grandich, editore della Grandich Letter. 
Giovedì scorso, la Repubblica Popolare cinese ha sparato la prima salva in quella che può diventare una Apocalisse economica. Ha annunciato che inizierà a diversificare le proprie riserve monetarie in dollari. 
Gulp!
Oggi la Cina ha in riserva 769 miliardi di dollari, che costituiscono la maggior parte delle proprie riserve. E’ una cifra esorbitante, qualunque criterio di misura si voglia adottare, e corrisponde al 30% circa del PIL cinese. Purtroppo le spese pazze dell’amministrazione Bush hanno reso il dollaro un cattivo investimento a lungo termine, per questo motivo la Cina deve scegliere fra cambiare strategia o sostenere grosse perdite. Si tratta di una questione spinosa che la Cina deve trattare con la dovuta delicatezza in quanto un comportamento troppo aggressivo può scatenare una corsa alla vendita del dollaro con conseguente svalutazione.
E’ improbabile che la Cina si comporti avventatamente ma il solo annuncio del suo cambiamento di strategia ha messo in subbuglio i mercati finanziari.
I futuri sull’oro sono già aumentati del 4% in una settimana dal momento che i grandi acquirenti istituzionali hanno riconosciuto che il dollaro è destinato a finire nella spazzatura. Dalla nomina di Bush l’oro è passato da 200 dollari a 540 dollari, segno sicuro che gli investitori hanno perso la speranza che Washington sia in grado di controllare la spesa. 
Anche se la Cina non si mette a vendere i propri dollari c’è da aspettarsi una considerevole volatilità nei mercati di lunedì. 
La Federal Reserve ha anticipato l’azione della Cina. Ecco perché il comitato dei direttori della Federal Reserve ha annunciato, all’inizio dell’anno, che non renderanno più pubblichi gli aggregati monetari M3 (che comprendono i seguenti componenti: depositi a lunga scadenza, accordi di riacquisto, e eurodollari). In questo modo la Fed può stampare una quantità di carta moneta tale da assorbire le onde d’urto derivanti da improvvise grosse vendite di dollari, senza che il pubblico venga a conoscenza di cosa stia accadendo. Si tratta di un bel trucchetto capace di espropriare gli americani dei loro sudati risparmi mentre il dollaro continua a scavare la propria tomba.
Greenspan sapeva che questo giorno sarebbe arrivato, ecco perché, probabilmente, è andato in pensione in anticipo; godendosela alle Barbados mentre il peggio sta per arrivare. Ecco che cosa ha riferito in aprile al comitato senatoriale del bilancio: 
“Il bilancio federale si trova in un sentiero insostenibile, perché i grossi deficit provocano un aumento dei tassi di sconto i quali, a loro volta, provocano un aumento dei pagamenti per gli interessi, che provocano ancora più grossi deficit. Se non si cambia strada tutti questi deficit provocheranno il blocco o peggio dell’economia.”
“Un sentiero insostenibile”?!? 
E’ stato proprio Greenspan e Bush che si sono incamminati sul “sentiero insostenibile”. E’ stato lui a sostenere con entusiasmo il taglio delle tasse del presidente, 450 miliardi annui, andati a favore dell’1% della popolazione che dovrebbe rappresentare. Il taglio delle tasse, da solo, ha messo il paese sulla strada della catastrofe. Con l’azione congiunta di Greenspan e Bush il debito pubblico ha raggiunto l’incredibile cifra di 3 mila miliardi di dollari. Sempre lui ha favorito pratiche finanziarie dubbie (mutui a tasso variabile, ratei a tasso zero, prestiti con solo gli interessi) che hanno gonfiato la bolla immobiliare con una un onda di acquisti speculativi senza precedenti. Mentre la Fed continua ad aumentare i tassi e a stringere i cordoni dei prestiti, la bolla si sta lentamente avviando verso l’abisso portandosi con sé il futuro economico dell’America.
Greenspan ha anestetizzato il paese con la politica dei tassi a basso interesse mentre Bush e Co. hanno fatto ricorso al massimo del credito possibile caricando la nave con tutto quello che vi era nelle casse pubbliche. Intanto l’economia ha cominciato ad arrancare proprio mentre Greenspan teneva nascosti gli effetti a lungo termine dei grossi deficit dietro una montagna di denaro a basso costo. Adesso il pozzo è asciutto e l’America si troverà di fronte a interessi sempre crescenti, a una economia stagnante e a un dollaro in caduta.
La mossa della Cina ci segnala che stiamo entrando in un periodo di instabilità economica, nel quale il futuro dell’America si troverà alla mercè dei suoi creditori. I tassi di interesse sui mutui americani verranno stabiliti dalla politica economica della Cina. 
Benvenuto nel nuovo mondo, compagno. 
La Fed pensa di poter gestire la cosa manipolando l’offerta di denaro di nascosto della pubblica opinione.
Si vedrà. 
L’ultima volta che Greenspan ha messo in atto questo trucco ha diminuito i tassi di 12 volte in un anno e mezzo mentre la pressione della borsa diminuiva lasciando l’economia col salvagente.
Greenspan sa che gli interessi bassi (“soldi facili”) non possono prevenire sempre il disastro. 
Se la Cina comincia a vendere i suoi dollari è la fine per il biglietto verde. Anche il Giappone sarà costretto a vendere, con a poca distanza anche la Germania. Le nazioni minori si accoderanno alla frenesia di vendita, seguiti dai fondi pensione e altro. Si tratterà di una passeggiata nella Repubblica di Weimar degli anni 30.
E allora? 
Lunedì la Fed inietterà “preventivamente” miliardi di miliardi nel sistema per far aumentare la liquidità e soffocare sul nascere una possibile corsa al dollaro. In questo modo si può far finta di una apparente normalità mentre quel poco di ricchezza che è rimasta ancora alla classe media verrà deviata nelle tasche di flanella dei banchieri centrali grazie all’inflazione. Questo spingerà l’economia americana verso una traiettoria discendente con alla fine una penuria da terzo mondo. 
L’America è sulla strada di una iperinflazione; che farà a pezzi la classe media, minerà i programmi popolari sociali, schiaccerà i sindacati, privatizzando tutte le aree del governo federale, si “pareggeranno” i posti di lavoro (per usare la terminologia di un guru della globalizzazione, Tom Friedman) e gli americani saranno costretti a competere con i lavoratori meno pagati del mondo. 
Gli effetti dei grossi deficit sono ben noti. Alla fine le galline torneranno nel pollaio mentre i poveri e la classe media soffriranno terribilmente. Stavolta non sarà diverso. 

24 gennaio

Il Cavaliere e l'ultima trincea
di MASSIMO GIANNINI

SI AVVICINA l'epilogo della temeraria avventura berlusconiana. E in un misto di arditismo e di dannunzianesimo, il Cavaliere lancia la sua ultima sfida. La più estrema, la più dissoluta. La lancia contro l'uomo che, in questa legislatura vissuta pericolosamente, ha saputo arginare con la sua popolarità indiscussa il discutibile populismo del premier. La lancia contro l'istituzione che, con una sapiente strategia di contenimento, è riuscita ad attenuare le spallate del "monarca repubblicano" di Arcore. Con la sua minaccia sul possibile rinvio a maggio della data delle elezioni, Berlusconi sfida a viso aperto il capo dello Stato. Ciampi, il garante della Costituzione e il simbolo dell'unità nazionale. Il "presidente di tutti", del quale si sono fidati i due Poli e nel quale si riconoscono gli italiani.

Dunque, a poche settimane da un voto colpevolmente declinato come "scontro di civiltà", il capo del governo porta l'attacco al cuore delle istituzioni. Un conflitto di questa portata non ha precedenti. Non solo in questo tormentato quinquennio, ma nell'intero arco della storia italiana del dopoguerra. In un crescendo di falsità e di forzature, il premier pretende che il suo governo, e il Parlamento in cui domina la maggioranza che lo sostiene, sopravvivano a se stessi. A dispetto dell'inconcludenza degli organismi e dell'intelligenza delle persone. "Ormai le riunioni del Consiglio dei ministri - confessa uno dei membri più autorevoli dell'esecutivo - sembrano sedute spiritiche...".

Ancora una settimana. Meglio ancora due. Quella del presidente del Consiglio è una pretesa inaccettabile, perché basata sul tradimento di un patto e politico e istituzionale.

Era stato lui stesso, alla conferenza di fine d'anno, ad annunciare ufficialmente che la data di scioglimento delle Camere era fissata al 29 gennaio. Era stato lui stesso, nell'incontro al Quirinale di domenica sera, a garantire al capo dello Stato che "la data delle elezioni non è in discussione". È stato lui stesso, ieri mattina ai microfoni di Radio 24, a ripetere che il governo "mantiene la data del voto al 9 aprile". Poi, in serata, mentre era già in corso la riunione dei capigruppo della Camera e Casini si accingeva a salire sul Colle, è partito l'affondo. O slitta al 15 febbraio lo scioglimento delle Camere, o slitta a maggio la data delle elezioni. Un finto revolver puntato alla tempia degli alleati. Un vero ricatto recapitato sulla scrivania di Ciampi.

È una pretesa irresponsabile, perché basata sulla politica ad personam che contraddistingue l'intera parabola berlusconiana. Nella visione disperata del Cavaliere, due settimane in più di durata in carica del Parlamento significano due settimane in meno di vigenza dell'odiata par condicio. Cioè di quella "legge liberticida" senza la quale - come sta avvenendo in queste giornate surreali - il premier può mandare quotidianamente in onda il suo Truman show, dagli studi di Biscardi e Bonolis ai microfoni di Isoradio e Radioanch'io. Sa che questa offensiva mediatica non produce effetti sul piano dei consensi. Non lo schioda nei sondaggi. Ma è "l'arte" che gli è sempre piaciuta di più, e che gli riesce meglio. Da uomo di governo ha fatto l'unico errore che da uomo di azienda non avrebbe mai commesso: ha provato a spacciare gli obiettivi per risultati. Ha fallito. E dunque la manipolazione radiotelevisiva è ormai anche l'unica arma che ha a disposizione. Se non per sovvertire il risultato elettorale, quanto meno per ridurne il danno.

Ma nella visione distorta del Cavaliere, due settimane in più di durata in carica del Parlamento significano anche la possibilità di imporre al potere legislativo e a quello giudiziario l'ultimo colpo di spugna sui suoi guai processuali. Con altri quindici giorni a disposizione, diventa possibile ripresentare il provvedimento sull'inappellabilità delle sentenze, che proprio il Quirinale gli ha appena respinto per "palese incostituzionalità". Diventa possibile applicare alla legge Pecorella il "metodo" già collaudato con la legge Gasparri: un intervento formale di window dressing, che fa finta di recepire i rilievi del Colle ma lascia invariato l'impianto sostanziale delle norme. E che obbliga il capo dello Stato a promulgare, inchiodato ai suoi doveri dall'articolo 74 della Costituzione. Così, se non può ottenere dal popolo il rinnovo definitivo del suo "contratto" da premier, il Cavaliere può almeno estorcere al Parlamento la cancellazione preventiva delle sue sentenze di condanna.

Se c'è ancora una trincea, che può respingere l'assedio, questa è di nuovo sul Colle. La resistenza di Ciampi, in un momento così delicato della transizione italiana, è la resistenza di tutti i cittadini che hanno ancora a cuore i destini del Paese. La gravità di questa "balcanizzazione" dei rapporti politico-istituzionali, anche se non si materializza nell'attentato alla Costituzione formale e ai suoi dettami, rappresenta l'ultimo sfregio alla costituzione materiale e alle sue regole. Scioglimento delle Camere, decreto di indizione dei comizi elettorali e data del voto sono un tutt'uno, che serve a dare garanzie ai partiti e certezze agli elettori. Spezzare l'unità di questo circuito, per puro tornaconto personale o processuale, è quasi un atto sedizioso. Lo è sotto il profilo "tecnico", anche se non giuridico. Le norme e le consuetudini costituzionali, per poter innervare la vita democratica, presuppongono la "leale collaborazione" tra le istituzioni. Sono proprio questi i presupposti che Berlusconi ha sistematicamente manomesso in questi cinque anni, e che oggi si dichiara pronto a far saltare definitivamente. "Le combattent supreme... maschera gioiosa in situazione disperata, trucco pesante, sguardo volitivo... si moltiplica sugli schermi come una serigrafia di Andy Warhol. Chapeau, onorevole presidente...". È l'epitaffio che gli ha dedicato Giuliano Ferrara sul Foglio di venerdì scorso. Chi vuole bene a questo Paese, come Ciampi e come tutti noi, non trova una sola ragione al mondo per condividerlo.
 

22 gennaio

Berlusconi a Palazzo Chigi
tra Masaniello e James Bond

di EUGENIO SCALFARI

Fin da quando fu chiaro che il disincanto dell'opinione pubblica nei confronti del governo Berlusconi aveva assunto caratteristiche di massa il maggior timore che agitò il mondo politico e istituzionale derivò dalle reazioni che quel disincanto avrebbe potuto provocare nell'anima e nei comportamenti del presidente del Consiglio e della "falange" dei suoi più stretti collaboratori. Si disse: farà il possibile e l'impossibile per conservare il potere, supererà i limiti del buon gusto, forzerà l'interpretazione oltre che la lettera del diritto pubblico e se tutto questo non basterà adotterà pratiche di manipolazione del consenso deformando le istituzioni, il costume e l'etica democratica.

Questi erano i timori, specie dopo la schiacciante vittoria del centrosinistra nelle elezioni regionali e questo si è ampiamente verificato dal 2004 ad oggi. Restano ancora una dozzina di settimane al 9 aprile, giorno fissato per le elezioni. Una "via crucis" abbastanza lunga che richiederà molta attenzione affinché i continui colpi di scena ai quali stiamo assistendo non si trasformino in eversione strisciante di cui si hanno già i primi e assai preoccupanti segnali.

Il primo segnale si è avuto con l'invasione quotidiana delle trasmissioni radiofoniche e televisive al ritmo di almeno due o tre volte al giorno. Trasmissioni le più diverse, da quelle di dibattito politico a quelle d'intrattenimento, dai monologhi di fronte a conduttori conniventi o ammutoliti ai contraddittori con esponenti politici, da apparizioni concordate con i dirigenti di Rai e di Mediaset a sortite inattese e non previste.
È accaduto di tutto e ancora accadrà. Assisteremo anzi ad un crescendo del fenomeno di sconvolgimento e scompiglio dei palinsesti, nonostante gli appelli reiterati del presidente della Repubblica che continua a invocare il pluralismo, la moderazione dei toni e il conflitto civile delle opinioni.

Avendo capito che una legge per abolire la par condicio non è tecnicamente e politicamente possibile, ora il governo pensa di prorogare di due settimane o almeno di una la vita del Parlamento. Lo scioglimento delle Camere, secondo le dichiarate intenzioni di Palazzo Chigi, dovrebbe cioè avvenire a metà febbraio anziché, come concordato con Ciampi appena tre settimane fa, il 29 gennaio. La motivazione reale è chiara: continuare l'occupazione dei video e dei microfoni e restringere l'applicazione della par condicio agli ultimi trenta giorni anziché a quarantacinque.

E' possibile che l'effetto di questa inflazione televisiva sia un rigetto dell'occupante e delle tesi da lui sostenute, ma resta il fatto che non si era mai visto un simile fenomeno di prevaricazione sfrontata e di passiva rassegnazione da parte dei dirigenti e dei conduttori delle varie trasmissioni, fino all'assurdo dell'Isoradio che fornisce all'utenza le informazioni sul traffico automobilistico, anch'essa rallegrata dall'impetuosa e improvvisa partecipazione del presidente del Consiglio.

Ma l'aspetto di gran lunga più preoccupante di questa campagna para-eversiva riguarda l'aggressione in atto da molti giorni contro i Ds sulla vicenda Unipol. Si fa strada l'ipotesi (di cui non mancano seri indizi) che vi siano coinvolti addirittura uomini dei vari servizi di sicurezza. Ipotesi molto circostanziate, relative alla fuga di notizie e di intercettazioni telefoniche disposte dalla Procura ma utilizzate a sua insaputa da pubblici ufficiali infedeli alle norme che presiedono al loro delicato lavoro.

Si tratta, finora, di inchieste giornalistiche ricche tuttavia di riscontri documentati e di induzioni assai solide. Se ne trova ampio riferimento negli articoli pubblicati da Repubblica ma non soltanto. Del resto le deduzioni logiche sono difficilmente controvertibili. La Procura di Milano ha già dimostrato che la fuga di notizie e documenti non può essere avvenuta dai suoi uffici. È dunque evidente che sia avvenuta da uno o più operatori in ascolto delle conversazioni intercettate. Tali operatori sono militari della Guardia di Finanza.

I testi registrati e trasmessi al Giornale (di proprietà della famiglia Berlusconi) a cominciare dall'ormai famosa conversazione Consorte-Fassino, provengono dunque da quelle fonti alle quali non dovrebbe esser difficile dare un nome poiché si conoscono le date e l'ora delle intercettazioni dalle quali è automatico risalire al nome degli operatori.
Si tratta come è evidente di ipotesi molto gravi alle quali tuttavia non c'è alternativa poiché solo da lì quei documenti possono essere usciti. Il presidente del Consiglio sta giocando dunque col fuoco e potrebbe bruciarsi non solo le dita ma la mano intera.

Un altro segnale anch'esso molto preoccupante proviene dall'insolita visita di Berlusconi alla Procura di Roma. Ne avevamo già parlato la settimana scorsa ma ancora non si conosceva l'esito di quella sua "deposizione" e i problemi che ora stanno dinanzi ai magistrati che l'hanno raccolta. "Non aveva alcun contenuto giudiziariamente rilevante" ha detto più volte lui e ha confermato l'avvocato che l'aveva accompagnato. "Non era una denuncia" ha aggiunto ancora il presidente del Consiglio e il suo avvocato ha confermato.

Tuttavia il procuratore capo della Repubblica e i suoi sostituti incaricati dell'inchiesta Unipol hanno dato seguito a quella "non denuncia" che faceva tuttavia i nomi di terze persone; per la precisione di Prodi, Rutelli, Veltroni, D'Alema, Bernehim e Tarak Ben Ammar, quest'ultimo socio in affari di Berlusconi e da lui indicato come sua fonte d'informazione.

Evidentemente i procuratori di Roma hanno trovato che nella deposizione del presidente del Consiglio qualche cosa di giudiziariamente rilevante c'era, altrimenti perché avrebbero indicato a comparire dinanzi a loro alcune di quelle persone sopra indicate? Perché li avrebbero sottoposti a interrogatorio?

Berlusconi ha anche aggiunto che le informazioni da lui trasmesse ai magistrati avevano però un rilievo politico. Se ne deve per caso dedurre che i procuratori di Roma fossero interessati al rilievo politico? E quindi si prestassero all'uso politico e non giudiziario della deposizione del premier? Sarebbe gravissimo se così fossero andate le cose, ma tutto ci porta a escluderlo.

Resta comunque acclarato che i magistrati dettero seguito alla deposizione del premier trasformando così la non denuncia in una denuncia vera e propria. Che cosa hanno accertato? Che gli incontri sono avvenuti. Che furono promossi da Bernehim. Che oltre a quelle persone Bernehim incontrò anche Berlusconi, dopo Prodi e dopo D'Alema e prima di Rutelli e di Veltroni. Che non avevano affatto parlato di Unipol, salvo che con Berlusconi medesimo. Il tutto è stato confermato da Tarak Ben Ammar, parola per parola, con una mezza smentita al suo socio sulla questione Unipol.

Tutto chiaro. "La questione per noi è chiusa" hanno detto i procuratori. Chiusa? Non direi. Il procuratore capo ed i suoi sostituti hanno compiuto atti giudiziari rilevanti sulla base di una non denuncia che si trasforma in denuncia da parte del presidente del Consiglio. Non trovano niente di penalmente rilevante, cioè in altre parole la denuncia risulta sballata. Ma resta che era calunniosa.

Politicamente calunniosa, su questo non c'è dubbio, ma anche tecnicamente calunniosa. Quando si attiva il magistrato, cioè la giurisdizione, ipotizzando che un reato sia stato compiuto e risulta invece che il reato non ci sia, si configura tecnicamente una calunnia che i magistrati debbono perseguire d'ufficio.

Perciò mi permetto di chiedere al procuratore della Repubblica: è stato compiuto un reato di calunnia dal presidente del Consiglio? Se così fosse, lei dovrebbe iscriverlo nel registro degli indagati. Oppure lei - inconsapevolmente certo - si è prestato all'uso politico di una non denuncia, come si può vedere dai giornali e dalle televisioni che hanno aperto per molti giorni le prime pagine su questa faccenda. Una risposta sarebbe non solo gradita ma indispensabile.

Nella conferenza stampa di Tarak Ben Ammar dopo il suo interrogatorio in Procura si dice anche che lui, Tarak, non era la sola fonte e che sulla vicenda Unipol "il presidente Berlusconi ha anche altre fonti" del resto Berlusconi non lo nega affatto anzi lo dichiara con orgoglio. Ha detto ai suoi collaboratori: "Bisogna continuare su Unipol, tra poco spero di saperne molto di più".

Ernesto Galli della Loggia ha scritto sul "Corriere della Sera" che il presidente del Consiglio sta reincarnando una versione moderna e mediatica di Masaniello e il giornale l'ha messo anche nel titolo di quell'articolo. Masaniello. Un populista e demagogo che sollevò il popolo napoletano contro il potere e poi si mise d'accordo col potere stesso. Poi finì male.

Il paragone con Masaniello deriva dalla demagogia e mi sembra perfettamente appropriato, ma ora si deve aggiungere un altro paragone altrettanto appropriato, quello con l'indimenticabile James Bond. E' evidente che James Bond più Masaniello costituiscono una miscela esplosiva, per di più quando queste due figure beneficiano dei poteri e delle prerogative del capo del potere esecutivo.

Voi capite che i timori che derivano da questa situazione sono pienamente giustificati.

19 gennaio

INTERVISTA
Un'altra Guantanamo. In Afghanistan
Sam Zarif di Human Rights Watch parla della prigione di Pol-e-Charki, vicino a Kabul
PATRICIA LOMBROSO
La prigione di Pol-e-Charki, in Afghanistan si appresta a diventare la seconda Guantanamo. Una volta terminata la ristrutturazione del carcere di massima sicurezza, vi verranno rinchiusi oltre 200 prigionieri afghani di Guantanamo. E' questo l'accordo segreto firmato fra l'amministrazione degli Stati uniti e il governo di Karzai. Sarà un altro "buco nero" del limbo giuridico escogitato da Bush?Gravi e inquietanti timori di ulteriore impunità in violazione dei diritti umani e dei trattati internazionali, di abusi e torture vengono sollevati da Sam Zarif, dell'organizzazione Human Rights Watch, tornato in questi giorni dall'Afghanistan, nell'intervista a il manifesto alla vigilia di un rapporto che anticipa un altro scandalo che potrebbe abbattersi sui paesi membri dell'Unione europea in quanto finanziarori della «riforme» della giustizia e del sistema penale afghani.
Lei è un esperto di Human Rights Watch per l'Afghanistan e ha visitato la «nuova Guantanamo». Che impressione le ha fatto? La prigione di Pol-e-Charik è un carcere di massima sicurezza. La più grande prigione afghana, a 15 miglia da Kabul. Risale ai tempi sovietici, fatiscente, condizioni di detenzione inenarrabili, paragonabili al carcere di Abu Ghraib, in Iraq. Gli americani hanno già iniziato da mesi a ripulirla e ristrutturarla con i finanziamenti dei paesi «donatori» dell'Unione europea.

L'Italia figura tra i paesi «donatori» dell'Unione europea?

Una competenza attribuita all'Italia in Afghanistan è la cooperazione alla riforma del sistema giudiziario e pertanto dei diritti legali dei detenuti, ora inesistenti, previsti dai trattati internazionali ma ignorati dagli Stati uniti. I dettagli del programma non sono ancora pubblici, ritengo tuttavia chel'Italia sia coinvolta nella ristrutturazione del carcere di massima sicurezza di Pol-e-Charki.

E' riuscito ad accertare quando avverrà il trasferimento dei detenuti afghani da Guantanamo?

Paradossalmente gli americani hanno stipulato un accordo bilaterale con Karzai per cui pretendono dal governo di Kabul, prima del rimpatrio degli afghani di Guantanamo, garanzie sul rispetto delle norme a tutela dei diritti dei «presunti terroristi» catturati in guerra.

Gli Stati uniti, non sono in violazione di tutti i trattati internazionali e americani per le detenzioni e le torture a Guantanamo ma non solo?

Certamente. Gli Stati uniti in pratica decidono sulla base dei loro interessi politici quali dei trattati internazionali che hanno firmato osservare o ignorare.

Dei 500 detenuti nella Guantanamo di Cuba quanti afghani verranno trasferiti nella Guantanamo dell'Afghanistan?

Sono circa 200. Nella nuova Guantanamo gli americani vogliono trasferire i prigionieri sotto loro controllo a Kandahar e nella base aerea di Bagram.

Quanti sono?

Ufficialmente gli americani detengono senza processe e maltrattano 500 prigionieri. Ma a Bagram si sa che un numero di afghani mai precisato ed impossibile da verificarei finisce poi in piccole carceri segrete, inaccessibili a chiunque, persino alla Croce rossa internazionale e all'Afghan Human Watch. Sono cittadini qualunque arrestati e che scompaiono per settimane in mano alle Forze speciali Usa che operano a Kabul, non tutti con uniforme militare.

Quanti sono i «desaparecidos» afghani incarcerati?

Un numero imprecisato. Ho intervistato famiglie a Kabul disperate perché dei loro congiunti sono stati arrestati e sono spariti. Nessuno ne sa più nulla. Arrestati, interrogati per settimane, torturati, senza neppure il pretesto di essere «presunti terroristi». E poi gettati a Bagram.

Quante sono queste prigioni segrete Usa sparse lungo i confini a sud dell'Afghanistan?

Sono 20 o 30 prigioni, inaccessibili, sotto esclusivo controllo americano. Sono chiamate le Forward Operation Bases. Qui è la prima tappa dove normali cittadini, e non «terroristi», vengono rinchiusi. In quelle basi nessuno riesce a sapere chi è vivo, chi è stato torturato, chi è morto durante la detenzione.

Questi centri di detenzione segreta non sono sotto il controllo della Cia?

I centri segreti Cia di detenzione, denominati «salt Pit» o «dark sites», sono di solito all'interno delle basi militari e lì vengono interrogati e torturati i detenuti ritenuti «sospetti» e utili per i servizi segreti. In queste 30 Forward Operation Bases sparse in Afghanistan, le Forze speciali americane, con o senza l'uniforme, portano i la gente non «sospetta» presa per strada. Gente che scompare, le famiglie non sanno le ragioni, si rivolgono alle autorità afghane per chiedere notizie, queste a loro volta chiedono chiarimenti al comando americano, che rifiuta qualsiasi informazione.

Quali i timori di Human Right Watch e cosa leggeremo nel rapporto che pubblicherà?

Temiamo che l'accordo stipulato fra l'amministrazione Usa e il governo afghano abbia l'obiettivo, con il consenso di Kabul, di usare il carcere di Pol-e-Charki per i prigionieri, non necessariamente ed esclusivamente afghani, mandati dagli Stati uniti in quanto ritenuti a «rischio terrorismo». Senza prove di colpevolezza, senza processo, né diritti legali. Detenuti trasferiti da una Guantanamo all'altra. Una Guantanamo in Afghanistan lontana dalla vista e pressione mondiali.

Quali i vostri timori per il coinvolgimento delle forze Nato in Afghanistan?

I paesi Nato in Afghanistan non hanno la competenza né il diritto di arrestare e tenere in prigione gente col pretesto di garantire la sicurezza del paese. Anche in territorio afghano saranno sempre gli americani a esercitare il controllo e dare l'imprimatur sulla sicurezza.


18 gennaio

Il nonno di Bush decorato dai nazionalsocialisti


Maurizio Blondet - 17/01/2006 - www.effedieffe.com

Nel 1937 Adolf Hitler istituì l'ordine dell'Aquila Tedesca per decorare gli «stranieri meritevoli». Uno degli americani decorati fu il nonno dell'attuale presidente USA: il senatore Prescott Sh. Bush. La motivazione: avere fortemente finanziato, con la sua banca, il NDSAP, il partito nazionalsocialista. Il certificato di conferimento dell'onorificenza è firmato da Hitler e dal suo segretario di Stato Otto Meissner, e datato 7 marzo 1938. Il tutto è conservato negli archivi del Dipartimento della Giustizia USA, insieme a un'ingiunzione delle autorità americane a nonno Bush, datata 1942, a cedere le azioni di una banca legata al Terzo Reich.

E' una storia istruttiva. Nato nel 1895 e scomparso nel 1972, Prescott Bush è stato membro della Skull and Bones, la società segreta di Yale, necessario trampolino per l'accesso ai «salotti buoni» e occulti dell'America che conta. L'ascesa di Prescott Bush in questi ambienti avviene di colpo nel 1926, quando sposa Dorothy, figlia del banchiere George Herbert Walzer. Il suocero lo introduce nella finanziaria («banca privata e d'investimento») W.A. Harriman & Co., della nota famiglia Harriman: e non dalla porta di servizio. Prescott Bush è assunto fin dal primo giorno come vice-presidente.

La ditta cambiò presto nome in Brown Brothers Harriman, e crebbe fino a diventare la prima banca d'affari del pianeta.
Nonno Prescott crebbe con lei, fino a dirigere e guidare come azionista principale una consociata, la Union Banking Corporation (UBC). Averell Harriman in persona (1) aveva fondato la UBC nel 1924 come per stringere un'alleanza d'affari con i Thyssen, la famiglia di industriali tedeschi dell'acciaio che finanziava Hitler fin dagli anni '20.
Una banca olandese dei Thyssen, la Bank voor Handel en Scheepvaart, usò la UBC come prestanome per varie attività e imprese che controllava in USA, ma in cui non voleva apparire; c'è il fondato sospetto che questi affari fossero condotti a nome di, e a vantaggio di, alcuni dei più alti gerarchi, Goebbels, Goering e Himmler.
Nell'alleanza di affari, gli Harriman e Prescott Bush (che era direttore esecutivo della UBC) ebbero strette e cordiali relazioni anche con Friedrich Flick, un altro magnate tedesco dell'acciaio che sarebbe stato poi condannato a Norimberga.
Le varie ditte che facevano capo ad Harriman, a Bush e ai Thyssen condividevano un unico lussuoso ufficio a Broadway, New York.
Gli affari col Terzo Reich proseguirono quasi per un anno dopo che gli USA erano scesi in guerra contro la Germania.
E non furono Bush e Harriman a mettere fine al business, ma lo Stato americano.
Il 31 luglio 1941 il Washington Post pubblicava un articolo dal titolo: «Hitler's Angel has $ 3 million in US Bank».
L'angelo di Hitler era Fritz Thyssen, e la banca in questione era la UBC.
M a il giornale non faceva i nomi di Bush e Harriman: intoccabili come sempre.
In seguito all'articolo, Harriman e Bush si affrettarono a nascondere i loro affari coi nazionalsocialisti in un insieme di scatole finanziarie, in modo da celarne la reale proprietà.
Solo il 20 ottobre 1942 il Congresso, in base al «Trading with the Enemy Act», sequestrò gli attivi della Union Banking Corporation, che furono poi liquidati: gli atti relativi descrivevano Bush e Harriman come «nominees», ossia prestanome del vero azionista di maggioranza, Thyssen.
L'ordine di sequestro numero 248, firmato dall'«alien property custodian» Leo T. Crowley è ancora negli archivi federali.
La decorazione nazista di nonno Bush era dunque ben meritata.
Tuttavia era solo una decorazione di terza classe.
Un altro americano ricevette l'Aquila Tedesca di prima classe (una stella da appuntare sul petto): Thomas Watson.
Chi era costui? Thomas Watson (1874-1952) è il fondatore della International Business Machines, ossia della IBM. Allora, i computer erano di là da venire.
Ma Watson, nel 1937, fornì ai nazionalsocialisti un enorme sistema di macchine contabili IBM a scheda perforata che servirono ai censimenti, alla contabilità e ad altre operazioni del regime, fra cui la schedatura di ebrei, comunisti e sospetti avversari interni da parte della Gestapo.
Attraverso la sua sussidiaria tedesca Dehomag, la IBM continuò a fornire i suoi servizi ai tedeschi fino al 1945, riuscendo a far arrivare le parti di ricambio dei macchinari attraverso la Svizzera. Dopo la guerra, Watson si giustificò con questo argomento: le leggi nazionalsocialiste non gli avevano consentito di esportare i profitti guadagnati dalla Dehomag-IBM tedesca, se non a prezzo di «tassazioni confiscatorie». I profitti dovevano essere spesi in Germania; sicchè Watson «non aveva avuto altra scelta» che reinvestire tutto nella Dehomag e farla sempre più grande e prospera.
Il Congresso capì.
Il terzo americano decorato dai nazisti è il più celebre: Charles A. Lindbergh.  Il primo a trasvolare l'Atlantico nel 1927.
Dopo il rapimento del figlioletto da parte di gangster in USA (il bimbo fu ucciso), Lindbergh si stabilì in Europa, di cui era innamorato. In Francia collaborò agli esperimenti di Alexis Carrel, Nobel per la medicina e grande medico. L'uno e l'altro finirono per simpatizzare con le dittature di destra europee. Le circostanze della sua decorazione vanno sottolineate: fu l'ambasciatore americano in Germania, Hugh Wilson, a invitare il celebre Lindbergh a una cena ufficiale, a cui aveva invitato anche Hermann
Goering e Willy Messerschmitt.
In quell'occasione, Goering gli consegnò la medaglia Aquila Tedesca per i suoi meriti di aviatore.   Questa volta, la decorazione provocò un grido di scandalo nella stampa americana: Lindberg fu bollato di filo-nazista, e gli fu richiesto pubblicamente di riconsegnarla ai tedeschi. Rifiutò dicendo che sarebbe stato «un insulto gratuito» alla Germania. Fu subissato di critiche.
Appena la guerra scoppiò, Lindbergh tornò - vero patriota -  negli Stati Uniti. Nessun giornale americano ha mai rimproverato a Watson dell'IBM, né a Prescott Bush, le decorazioni naziste. Erano intoccabili del salotto buono. Lindbergh no.

Maurizio Blondet

Note
1) Averell Harriman sarà più tardi consigliere ascoltatissimo di Roosevelt e grande finanziatore di Stalin nello sforzo bellico contro i
nazionalsocialisti. Nel giugno 1944, Stalin ammetterà ad Harriman, allora nominata ambasciatore in URSS: «i due terzi delle nostre industrie di base sono dovuti al vostro aiuto e alla vostra assistenza tecnica». Nei «salotti buoni» di cui Harriman era esponente, non si fa differenza tra destra e sinistra, comunismo e nazionalsocialismo: li si usa e li si sfrutta. E' accaduto anche oggi: Saddam Hussein è stato a lungo sostenuto da quei salotti che poi lo hanno distrutto.


17 gennaio

L'antitaliano di Giorgio Bocca
L'arrembaggio di ladri e furbastri

Ma che cosa è oggi questa democrazia italiana dove gli onesti passano per inetti, si sentono inetti, e pensano di vivere in un paese che non è più il loro?
I misteri della morale, del credito, dei rapporti fra personale e pubblico si infittiscono e tutti portano il segno del berlusconismo.

Si può cominciare dalle consulenze. Che cosa sono? Sono un sistema per coprire le corruzioni, i furti più giganteschi. Si scopre che la famiglia Rovelli ha versato miliardi ad alcuni avvocati corruttori di giudici. La magistratura li interroga, cadono dalle nuvole: ma quei miliardi ci erano dovuti per consulenze. Per fare il mestiere di avvocati? Decine di miliardi per dare un consiglio? Esattamente, scusateci se vi abbiamo importunato.

I soldi dei clienti delle banche sono a disposizione degli amministratori: li trasferiscono sui loro conti all'estero, incamerano quelli dei defunti, li passano ai loro compagni di cordata, Fiorani finanzia Consorte che è socio di Ricucci e amico di Statuto.

E la magistratura? Interroga per delle ore gli arrestati. Il giudice Greco, che ha una casa a Courmayeur e ha la passione dello sci, deve rinunciarci, deve stare a Milano nel tetro palazzo di giustizia per scrivere migliaia di pagine di interrogatori, proprio come hanno fatto i giudici degli scandali Parmalat o Cirio in attesa che i grandi ladri prima vengano mandati agli arresti domiciliari e poi assolti fra il giubilo e lo sdegnato risentimento dei garantisti che li hanno difesi.

E tutti gli altri? Gli ufficiali della Guardia di finanza che fanno il doppio gioco, i politici di destra e di sinistra che approvano e favorivano le scalate? Discutono, scrivono articoli, dibattono in televisione sui 'poteri forti' che vogliono sottomettere i politici per uno dei loro complotti che trovano d'accordo Cirino Pomicino e il presidente emerito Cossiga.

Nessuno, salvo Galli della Loggia o Panebianco, può pretendere di capire chi mai siano questi poteri forti e cosa mai vogliono ancora visto che sono già padroni di tutto: delle banche come dei giornali, della giustizia come dei carabinieri.

Si chiedeva sulla 'Stampa' la Barbara Spinelli che cosa mai sia questa democrazia in cui i diritti umani vengono tranquillamente violati, le leggi disattese, i prepotenti rispettati, i deboli presi a calci. La risposta è semplice. È una cosa morta o moribonda, una apparenza in un periodo barbarico.

L'onorevole Loiero, governatore della Calabria, si è rivolto direttamente ai mafiosi della sua regione per dirgli che non gli conviene ucciderlo, gli conviene convivere con lo Stato debole e con la polizia corrotta e fare affari in tranquillità. I governanti non si rendono più conto di quel che dicono. Il ministro Lunardi ha esortato a tener conto che la malavita organizzata è un potere stabile nella nostra repubblica.

Di che discutono gli eredi del partito comunista? Se il loro partito e le cooperative rosse abbiano o meno il diritto di fare affari, cioè in pratica di speculare come tutti gli altri e la gente che sa, i competenti, portano a esempio la democrazia americana che gli affari li ha sempre fatti, basta dichiararli non è vero?

La trasparenza signori, la trasparenza della Halliburton in Iraq. Ma diciamocelo che cosa è oggi questa democrazia italiana? Un governo che ha fatto decine di leggi ad personam, cioè mirate a salvare dalla galera i furfanti e pregiudicati che siedono in Parlamento e che notoriamente sono complici delle varie onorate società mafiose; alcuni servizi dello Stato che sopravvivono a stento alla marea del crimine che sale, alla voglia generale travolgente di rubare, sicché gli onesti passano per inetti, si sentono inetti, sentono di vivere in un paese che non è più il loro, degli onesti, delle leggi, ma una accozzaglia di ladri e di furbastri.


 

L'Italia che si mangia ...la salute. 
Continuano le contraffazioni del settore agroalimentare.
Ora la farina dei mulini Casillo sotto sequestro

Tratto da www.asiac.info Agenzia Stampa Indipendente Arti e Culture

Roma, 12 gennaio 2006 (da un articolo apparso sulla stampa veneta). Parmalat, Cirio, uova marce ed ora grano contaminato da sostanze cancerogene. Che legame con quest'ultimo grande scandalo e i terremoti finanziari che hanno messo in ginocchio migliaia di risparmiatori? Tutto e niente, anche se un filo sottile sembra percorrere in maniera poco piacevole il settore agroalimentare del nostro paese. Diciamo pure che anche in tempi di crisi nessuno vuole rinunciare al cibo ed è alla costante ricerca del migliore rapporto qualità prezzo. Da una parte la corsa ai discount per cercare di far pesare meno la borsa della spesa sui conti di fine mese, dall'altra l'attenzione alla qualità, alla marca, al made in Italy che nonostante tutto continua a confortarci.
Ocratossina: è questa la sostanza fortemente nociva e cancerogena contenuta in grano duro proveniente dal Canada e sequestrato a settembre nel porto di Bari. Comincia da qui, da questo sequestro, la vicenda che ieri ha portato all'arresto in Puglia dell'imprenditore Francesco Casillo con l'accusa di avvelenamento e adulterazione e contraffazione di sostanze alimentari.
Delle 58.000 tonnellate di grano sequestrate sulla motonave «Loch Alyn» giunta a settembre nel porto di Bari, 48.000 tonnellate, infatti, avevano come destinazione finale l'azienda proprio di Casillo, l'imprenditore trentanovenne di Corato, in provincia di Bari, arrestato ieri dai militari del gruppo repressione frodi del nucleo regionale di polizia tributaria della Guardia di Finanza su disposizione del gip del Tribunale di Trani Michele Nardi e sulla base della richiesta fatta dal sostituto procuratore della Repubblica Antonio Savasta.
Casillo, definito dagli investigatori un vero e proprio «re del grano», è amministratore e, di fatto, gestore dell'azienda «Molino Casillo Francesco srl» di Corato, azienda leader in Italia nella produzione di semola di grano duro e tra i maggiori importatori mondiali di grano.
Dopo il sequestro a settembre, il grano è stato sottoposto ad analisi da parte dei laboratori centrali dell'ispettorato centrale repressione frodi del ministero delle politiche agricole e forestali e i i risultati sono resi noti a dicembre: hanno evidenziato la presenza nel grano di ocratossina, contenuta in percentuale tre volte in più rispetto ai limiti massimi consentiti dalla normativa sanitaria comunitaria in materia di alimentazione umana.
Non solo: l'imprenditore - secondo quanto accertato - sapeva della ocratossina sin dal momento dell'acquisto in Canada del grano; ciò emerge da una certificazione della competente autorità di controllo canadese che attestava la presenza, seppur nei limiti previsti dalla normativa comunitaria, di una contaminazione da ocratossina del prodotto da importare.
Dopo il sequestro del grano e mentre erano in corso accertamenti nelle quattro società importatrici del carico contaminato (la «Molino Casillo Francesco srl» di Corato, la «Louis Dreyfus Italia spa» di Ravenna, la «Candeal Commercio srl» di Foggia e «Agriviesti srl» di Altamura) e in altre aziende ancora, l'imprenditore avrebbe cercato e ottenuto certificazioni da parte di laboratori chimici indipendenti.
Con raggiri e false promesse di future commesse, Casillo ha ottenuto così - secondo gli investigatori - una certificazione della assoluta salubrità del cereale. Presentata questa documentazione, Casillo ha quindi ottenuto nei primi giorni del mese di ottobre 2005 il dissequestro da parte della magistratura dell'intero carico contaminato: ha così introdotto in commercio un prodotto acquistato a prezzi di gran lunga inferiori a quelli tariffari, realizzando - secondo la guardia di finanza - spregiudicati margini di guadagno e, ritengono i militari, destabilizzando l'equilibrio dell'intero settore.
Intanto gli investigatori fanno anche sapere che la Procura di Trani ha informato l'assessorato alle politiche della salute della Regione Puglia sull'esito delle analisi, «al fine di porre l'ente nelle condizioni di avviare le eventuali procedure di allerta previste per legge, sino a livello comunitario».
Si chiamano micotossine e rappresentano uno dei killer più insidiosi che si annidano nell'alimentazione. Uno dei primi allarmi sugli effetti nocivi era arrivato dal professor Umberto Veronesi ancora l'estate scorsa: sotto la lente il latte e la polenta, possibili ricettacoli delle aflatossine. Oggi si torna a parlare di un'altra micotossina, l'ocratossina, altamente tossica. La "famiglia" delle micotissine è vasta: alcune esplicano azione nefrotossica (ocratossine), epatotossica (aflatossine), immunotossica (aflatossine, ocratossine), mutagena (aflatossine), teratogena (ocratossine) e cancerogena (aflatossine, ocratossine, fumonisine).
Fra i prodotti più esposti alla contaminazione sono i cereali, contaminazione che è legata anche a fattori ambientali quali quelli climatici e geografici, al tipo di coltivazione e di conservazione. Attualmente, sono note più di 300 micotossine, solo il 7 per cento di queste si ritrovano negli alimenti a livelli significativamente elevati tali da costituire un pericolo per la salute umana.
Più speficatamente le ocratossine sono prodotte da diverse specie di Aspergillus e di Penicillium, e in particolare da A. ochraccus e da P. viridicatum, si tratta di muffe che si possono trovare in ogni luogo. Oltre ai cereali, le ocratossine possono annidarsi anche in arachidi, fagioli, legumi in generale, caffè, prodotti da forno (pane), mangimi e alimenti diversi.
A dosi elevate è stato riscontrato che le ocratossine possono provocare danni anche gravi al sistema immunitario e possono avere effetto cancerogeno. Ed era proprio in questa direzione che il professor Veronesi aveva lanciato l'allarme, sollevando non poche proteste fra i fautori delle coltivazioni biologiche.
È leader nella produzione di semole in Italia l'azienda Molino Casillo, di Corato (Bari), coinvolta nella vicenda che ha portato all'arresto di Francesco Casillo, definito dalla guardia di finanza amministratore e gestore di fatto dell'impresa. Francesco Casillo è uno dei tre fratelli che dagli anni Novanta si occupano della società e che, dallo stabilimento originario, avviato alla fine degli anni Cinquanta, hanno realizzato altri tre impianti a Corato. Secondo notizie fornite sul sito internet di 'Molino Casillo', dal 1990 alla fine del 2003, l 'azienda ha investito oltre 40 miliardi in impianti, tecnologie, servizi ed uomini. Il gruppo Molino Casillo - informa sempre il sito internet - è collegato con altre tre società molitorie, con le quali interagisce negli acquisti e vendite e nello scambio di conoscenze, pur mantenendo gestioni indipendenti. Secondo la stessa fonte, con il titolo di primo utilizzatore privato di grano duro del mondo (un milione di tonnellate) la Molino Casillo rappresenta uno dei principali Market Maker mondiali del grano duro e delle semole. L'acquisto del grano da parte della Molino Casillo avviene infatti in tutto il mondo. L'acquisto comincia a maggio con il grano prodotto in Sicilia e in Spagna, a giugno col raccolto pugliese e lucano, a luglio in Grecia e nell'Italia centrale. Ad agosto si completa il monitoraggio dei raccolti europei con la Francia e, «dopo un breve sguardo ai paesi dell'est (Turchia, Ungheria e Kazakihstan)», si riparte a settembre col Canada e il Nord Dakota. Tra novembre e dicembre si acquista in Australia, a gennaio in Argentina. A marzo in India, a fine aprile in Messico per il nuovo raccolto, «con successivo spostamento in Arizona per il desert durum». La Molino Casillo - informa ancora il sito - ha una capacità di stoccaggio di oltre 200.000 tonnellate e si avvale delle strutture portuali di Bari, Barletta e Molfetta per i grani che arrivano via mare

11 gennaio

Chi pagherà il conto della “guerra del gas”?
di Carlo Bertani, autore del libro "Al Qaeda: chi è, da dove viene, dove va"
Lo scoppio improvviso della contesa per il gas fra Russia ed Ucraina ha sorpreso – fra i politici e gli analisti internazionali – solo chi faceva finta di non sapere: sono anni, oramai, che le tensioni nelle aree orientali dell’Europa s’accumulano, e la vicenda del gas russo potrebbe diventare solo un insignificante casus belli di una contesa dai confini più ampi.
Anzitutto gli attori della vicenda, che non sono soltanto Mosca e Kiev, bensì almeno quattro: La Russia, l’Ucraina, la Bielorussia (Belarus) e l’enclave russa di Kaliningrad; ad essi possiamo aggiungere – sul piano internazionale – L’Unione Europea e gli Stati Uniti. E le sorprese non terminano qui, giacché entrano a pieno titolo nella vicenda anche i Balcani ed il Terzo Reich tedesco.
Iniziamo dall’attore protagonista, ovvero la Russia, erede della potente Unione Sovietica. Le attenzioni degli analisti internazionali hanno quasi dimenticato – negli ultimi anni – lo sterminato continente della grande Russia, ben 10 fusi orari in una sola nazione.  
 
All’indomani del crollo dell’URSS, nessuno cercò di capire cos’era successo; semplicemente, si raccontò che era “crollato il comunismo”, dimenticando due aspetti essenziali: che quello di Mosca comunismo non era – bensì capitalismo di stato – e che nulla crolla da solo, senza che altri ci mettano lo zampino.
Il crollo dell’economia sovietica avvenne principalmente per reggere la corsa agli armamenti con gli USA: a metà degli anni ’80, gli USA investivano in armamenti il 6,5% del PIL, mentre l’URSS destinava ai cannoni il 16,5%. In valori assoluti, però, quel 6,5% voluto da Reagan per abbattere “l’impero del male” era superiore ai corrispondenti stanziamenti russi, mentre quel 16,5% del PIL, per l’URSS, era diventata un’inarrestabile corsa all’indebitamento ed all’inflazione che – in un paese che non ammetteva deprezzamenti della moneta circolante – si tramutava immediatamente in una carenza di beni.
 
Le condizioni di vita dei sovietici peggiorarono in quegli anni, e la colpa della situazione fu addossata – a torto od a ragione – sulle spalle di Mikhail Gorbaciov, alla sua perestroijka ed alla glasnost, la nuova politica che riprendeva, in qualche modo, le istanze di rinnovamento di Kruscev degli anni ’60.
Indebolito dalla sfiducia dei militari e del potente apparato di polizia (soprattutto il KGB), Gorbaciov fu messo alle strette: o ritornare alle vecchie abitudini di “nonno Breznev”, oppure lasciare campo libero.
Gorbaciov – e questa rimarrà per sempre una sua grave responsabilità storica – tentennò e non seppe scegliere: all’indomani del grottesco putsch dell’agosto del 1991, un populista Eltsin gli presentò il conto e l’ultimo zar dell’URSS lasciò Mosca per andare in esilio nella dacia in campagna in treno, senza scorta, come l’ultimo dei cittadini sovietici.
La statura politica di Eltsin, però, lasciava alquanto a desiderare: pur avendo percorso tutti gli scalini dell’apparato di regime, rimaneva un modesto apparatcik, un burocrate di regime privo delle capacità politiche necessarie per governare il difficile momento.
 
In quegli anni il prestigio internazionale della Russia giunse ai minimi: una nazione ricchissima d’energia – per qualche tempo – non ebbe kerosene per far volare la compagnia di bandiera, l’Aeroflot, mentre corruzione ed abbandono spadroneggiavano nell’immenso paese, che rischiava sempre di più una deriva balcanica ed uno smembramento della federazione.
Nel 1999 giunse al culmine la tensione nei Balcani, e la guerra del Kossovo fu – per via indiretta – una guerra contro la Russia, visto che la Serbia – pur ammettendo le “derive” di Tito – era l’alleato storico di Mosca, che in quella breve guerra perse un altro po’ del suo prestigio internazionale.
Nel 1999 qualcuno, a Mosca, decise che la misura era colma e che non si poteva più perdere tempo: la prima guerra cecena s’era rivelata una sconfitta, e serviva un vero statista al Cremlino, non un “ammiratore” della vodka.
Il Delfino di Eltsin pareva essere Viktor Cernomirdyn – potente patron di Gazprom, il colosso del gas russo – che invece fu spedito come mediatore nei Balcani (probabilmente per “bruciarlo” politicamente), e così fu: allo scadere del mandato di Eltsin (2000) spuntò come un fungo lo sconosciuto Vladimir Putin, ex colonnello del KGB e, per anni, addetto d’ambasciata nella ex RDT.
La carriera politica di Putin non nacque dalla sua buona stella, ma dal potente apparato ex sovietico che – pur presentando all’estero la facciata della nuova Russia – continuava a reggere le fila del potere nel paese. Un piccolo particolare: nella nuova Russia, per anni gli ufficiali hanno continuato a far giurare i cadetti con la formula di rito, sicché i giovani ufficiali giuravano fedeltà a Sovietskij Soyuz.  
 
Stupirà sapere che uno degli sponsor di Putin fu lo stesso Gorbaciov, che lo definì “la nostra ultima speranza”: come ripagò, il giovane judoka, la fiducia concessagli?
Anzitutto fece una “robusta” cura alla sua immagine, volando per il paese su un cacciabombardiere militare SU-34 – che si dice pilotasse personalmente – al posto del consueto Iliuscyn, per confermare le attese di un “uomo forte” al Cremlino: da sempre, dal feudalesimo al neo-capitalismo, l’uomo che siede al Cremlino è uno zar, ed un condottiero deve instillare un’idea di forza e di coraggio.
Politicamente, gli spazi internazionali della Russia erano oramai ridotti al lumicino, ma il buon Vladimir non si perse d’animo e tornò a bussare alla porta dei vecchi alleati: Libia, Vietnam, Corea, ma anche in Cina ed in India, per vendere l’unico bene tecnologico che l’URSS aveva lasciato in eredità alla Russia, ovvero le armi.
Bisogna ricordare che il crollo del sistema sovietico non intaccò profondamente l’apparato militare industriale della Russia, l’unica nazione in grado di produrre tecnologia aerospaziale a livello degli USA.
Grazie ad alcuni indovinati modelli (la serie dei caccia SU-27, il semovente antiaereo Tunguska, ecc) ripresero le forniture d’armi, e Putin non esitò a dirottare le poche risorse disponibili per mantenere ad alto livello i centri di ricerca. Non venivano più costruite larghe serie di velivoli, ma pochi prototipi per non scadere troppo rispetto al livello USA.
“Aiutati che il ciel t’aiuta”, narra un noto proverbio, e dopo il 2000 il cielo iniziò proprio ad aiutare la disastrata Russia, giacché il prezzo del petrolio iniziò a volare, trascinandosi appresso anche gli altri combustibili fossili, ovvero gas e carbone.

Per la Russia, l’aumento dei prezzi dell’energia fu manna dal cielo: un paese che possiede il 15% del petrolio mondiale, il 40% del gas e circa il 70% del carbone non poteva attendersi nulla di meglio.
Grazie ai maggiori introiti dell’energia, nel 2003 Putin aumentò del 50% le spese per la ricerca in campo militare: i risultati furono il missile intercontinentale Topol-M, che ha vanificato qualsiasi “scudo stellare” americano, gli SS-26 Iskander venduti alla Siria, micidiali missili a medio raggio che sono difficilmente intercettabili ed i missili antinave Mosquit, con raggio d’azione di 200 Km, venduti all’Iran. Anche l’elettronica ha compiuto passi in avanti, e gli unici radar in grado di scovare gli aerei stealth americani (F-117, B1, B2) sono i russi S-300 ed S-400.
L’Iran fu il nuovo acquisto della rinnovata “scuderia” russa: oggi Mosca costruisce le centrali nucleari iraniane ed ha ristrutturato completamente le forze armate di Teheran, che è entrata nel “patto di Shangai”, un sodalizio fra Russia, Cina e le repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale.
Oggi Mosca procede con incrementi del PIL pari al 7% annuo, grazie all’energia ed alle armi, mentre la lotta agli oligarchi dell’energia ha ricondotto sotto controllo statale il fiume di denaro che esce dai giacimenti siberiani. Anche la situazione finanziaria è abbastanza rosea: la Russia ha pressoché estinto l’enorme debito estero ricevuto in eredità dall’URSS, e nelle casse statali ci sono riserva in valuta estera per ben 170 miliardi di dollari, più altri 50 che sono immobilizzati in un “fondo di compensazione” per sopperire alle oscillazioni dei prezzi.
Questa è la situazione russa sotto l’aspetto economico: e gli aspetti strategici? Qui non sono tutte rose e fiori, anzi.

Il grande timore russo è l’accerchiamento: a ben vedere, la stessa paura dei sovietici e, ancor prima, degli zar. L’accerchiamento ad est non preoccupa molto, giacché gli USA possono appena resistere in Iraq, e per nuove avventure di guerra nel pianeta mancano soldi e uomini. Ad ovest, invece, la situazione è critica: dapprima gli USA finanziarono circa 300 ONG in Bielorussia, per cercare di piegare l’alleanza con Mosca di Lukaschenko – il padre-padrone del paese – ma non riuscirono nell’intento.
La seconda mossa – questa riuscita – è stata la rivoluzione “arancione” in Ucraina, che ha condotto al potere il filo-occidentale Yuschenko. La parola meno gradita da pronunciare a Mosca è “NATO”, e proprio il ventilato ingresso nella NATO dell’Ucraina (e, forse, nell’UE, ma questo è un obiettivo assai più lontano) ha fatto scattare l’allarme al Cremlino.
Mosca non vuole e non può permettersi che gli USA s’installino negli aeroporti ucraini, giacché ne risulterebbe compromessa la stabilità della regione: perché? Poiché l’indipendenza della Lituania dall’URSS e l’ingresso della Polonia e della stessa Lituania nell’UE hanno portato all’accerchiamento dell’enclave russa di Kaliningrad, un “pezzo” di Russia sul basso Baltico che non ha più confini con la madrepatria[1].
La questione è seria, tanto che – nel 2005 – lo stesso Putin (con Chirac e Schroeder al fianco) è intervenuto ai festeggiamenti per un importante anniversario della città di Kaliningrad (prima, quando era tedesca, si chiamava Koenisberg), la città dove nacque Immanuel Kant.  

Durante i festeggiamenti, Putin ha chiarito che la Russia non accetterà mai nessuna “ridefinizione” dei confini o qualsiasi accordo che preveda maggiori difficoltà per le comunicazioni fra l’enclave e la madrepatria. C’è da capirlo: quel fazzoletto di terra sul Baltico consente a Mosca d’essere presente in un importante scacchiere, sia per gli aspetti militari, sia per quelli energetici.
E’ evidente che altri non sono dello stesso parere, a cominciare proprio dagli USA, che hanno messo a segno un colpo da maestro con l’insediamento di Yushenko in Ucraina.
E l’Ucraina? Il paese è estremamente povero e diviso: all’ovest, la regione di Leopoli (L’viv) è ucraina solo dal 1939 (ma a quel tempo era URSS), giacché la sua cessione ai sovietici fece parte dello sciagurato patto fra il ministro degli esteri di Hitler, von Ribbentrop, ed il suo corrispondente sovietico, Molotov, ai danni della Polonia.
Ad est, invece, verso Kharkov e Donets’k c’è una forte componente russofona, che ha mal digerito l’ascesa di Yushenko, giacché la deriva verso occidente viene vista come un salto nel buio per popolazioni che – pur essendo ucraine – guardano ancora a Mosca come punto di riferimento.
Noi occidentali incontriamo qualche difficoltà a comprendere l’intrico geopolitico che, poco oltre la frontiera triestina, giunge agli Urali: le popolazioni slave sono abituate a salutare mostrando il numero tre con le dita della mano destra, e questo gesto – di per sé soltanto simbolico – ha invece profonde implicazioni.

Il “tre” non rappresenta la Trinità, bensì la comune religione (ortodossa), la lingua (slava) ed il popolo (slavi): in altre parole, lo slavo avverte un senso d’appartenenza alla “nazione slava” sulla base di criteri che non considerano in alcun modo la ragione illuminista, un fenomeno che appartiene anche agli arabi. La stessa parola Jugo-slavia significa semplicemente “Slavi del sud”.
Questa premessa può chiarire meglio i complessi fenomeni culturali, razziali, economici e politici che agitano l’est europeo: molti ucraini – proprio in contrapposizione allo “slavismo” – entrarono a far parte delle truppe del Terzo Reich, ed un nutrito gruppo di ucraini con le mostrine tedesche fu preso prigioniero dagli americani, nel maggio del ’45, nei pressi di Venezia, dov’erano addetti all’artiglieria costiera. Quegli uomini s’arresero soltanto dopo aver ricevuto ampie assicurazioni che non sarebbero mai stati consegnati ai sovietici.
Scorrendo molto rapidamente le pagine della storia, si può capire come l’affermazione di Yuschenko – e la sua decisa apertura all’Europa ed alla NATO – sia un elemento di rottura, così come lo fu la completa “sovietizzazione” dell’Ucraina. “Terre di mezzo”, verrebbe da dire, e mai appellativo fu più indovinato: regioni che possono sopravvivere senza troppi scossoni a patto di fare del compromesso la ragion di stato.
Lo stesso Yushenko – ad appena un anno dalla sua elezione – ha perduto gran parte dei consensi nella popolazione, giacché la politica di contrapposizione alla Russia ha provocato una repentina contrazione dell’economia, mentre gli occidentali – alle prese con l’allargamento dell’Unione e con l’Iraq – non sono stati certo prodighi d’aiuti. Per alcuni aspetti, la vicenda populista di Yushenko assomiglia a quella di Berlusconi: entrambi saliti al potere grazie al denaro ed all’appoggio (profumatamente pagato) dei media, e presto rivelatisi un bluff. Tanti proclami: miglioramenti per la parte più ricca della popolazione e peggioramenti per tutti gli altri.  
 
Il primo gennaio 2006 scatta la trappola di Putin che – come in un piatto di poker – decide di vedere le carte dell’avversario. L’indipendenza dal gas russo potrebbe diventare realtà, con il passaggio al carbone per l’industria energetica ucraina, ma la conversione richiederebbe molti anni, e Mosca non sembra disposta a concedere altro tempo a Kiev. L’altra alternativa è il nucleare, ma lo stato nel quale si trovano le vecchie centrali sovietiche (Chernobyl…) non consentono certo di guardare ad un futuro roseo e, soprattutto, sicuro.
La contesa ha sì contenuti economici – giacché il prezzo di 50$ per 1.000 m3 stabilito a suo tempo era un prezzo politico, pari alla quarta parte di quello pagato in Occidente, ed i russi non hanno interesse a favorire un ex alleato che ha cambiato campo – ma qui è l’aspetto strategico a prevalere.
Cosa possiamo attenderci? Nel lungo periodo la soluzione già esiste: un nuovo gasdotto collegherà la Russia (via Bielorussia, Polonia, Kaliningrad) alla Germania; addirittura, la società che dovrà costruire la condotta è russo-tedesca, con Gazprom a fare la parte del leone e l’ex cancelliere tedesco Schroeder nel consiglio d’amministrazione. Per l’Ucraina, il nuovo gasdotto potrebbe rappresentare la fine del gas russo.  
 
E nel medio periodo?
Per gli anni a venire è stato siglato un accordo che ha fatto tirare a tutti un sospiro di sollievo: finalmente, dopo la guerra, la “pace” del gas. Gli ucraini pagheranno il gas russo 95$ per 1.000 metri cubi, e questa sembrerebbe una sconfitta russa, ma per Kiev significherà raddoppiare il costo dell’energia: non si tratta certo del miglior viatico per affrontare un anno elettorale, visto che i costi dell’accordo verranno scaricati sulla popolazione. Ovviamente, Mosca non “lavora” per Yuschenko.
Ed il minor introito russo? Niente paura, di vera pace si tratta, giacché il vicepresidente di Gazprom, Medvedev – che è in realtà il vero patron del gigante russo del gas – verrà presto in Occidente per “rivedere” i prezzi, gli accordi e le forniture. Da Mosca, però, ha già precisato che il metano russo subirà un aumento del 10%: ecco chi pagherà la “pace” del gas, ed ecco perché la presidenza di turno austriaca dell’Unione ha invitato i paesi membri ad una “profonda riflessione” sul futuro dell’approvvigionamento energetico. Che, al primo accenno alle energie rinnovabili, come sempre finirà a tarallucci e vino.
Carlo Bertani    bertani137@libero.it    www.carlobertani.it
[1] La querelle sull’enclave russa di Kaliningrad, completamente separata dalla madrepatria, è forse il peggior ”regalo” che la caduta dell’URSS fece all’Europa, per alcuni versi paragonabile alla nota vicenda di Danzica prima della Seconda Guerra Mondiale. Ricordiamo che, nel 1939, i nazisti invocavano la guerra contro la Polonia per riaprire il “corridoio” verso la città, ed ai giovani tedeschi veniva chiesto di “morire per Danzica”. Cercai di spiegare più approfonditamente la questione nel libro che dedicai, nel 2003, ai nuovi equilibri transatlantici. Carlo Bertani – Europa svegliati! – Malatempora – Roma - 2003

 


11 gennaio

LA POLEMICA
La maratona in tv di Berluscono
è in preda a una bulimia da video

di CURZIO MALTESE

IN PREDA a una bulimia da video ormai incontenibile, lunedì sera Berlusconi, dopo aver monologato dal dipendente Ferrara con la consueta eleganza ("Biagi e Santoro si meritavano una bella pedata nel sedere"), è corso al Processo di Biscardi. Si è presentato trafelato e ha giurato: "Mi fermo soltanto due minuti, purtroppo gli impegni...". È rimasto quasi un'ora e alla fine ha avuto anche il coraggio di dire: "Ora devo scappare". Stasera sarà a Porta a Porta, contro Bertinotti, per non perdere l'abitudine. Il fido Vespa ha obbedito all'ordine implicito di non invitare l'ospite naturale per un confronto col premier, Romano Prodi.

Ha chiesto a Fassino, che gli ha indicato il capo dell'opposizione ("Non è stato Berlusconi a dire che voleva il duello con Romano?"). Poi ha chiesto a Rutelli e ha ricevuto la stessa risposta. Allora, volendo andare sul sicuro, ha telefonato a Bertinotti, il quale naturalmente si è precipitato. La maratona settimanale non è finita.

Domani Berlusconi sarà da Anna La Rosa, ad Alice, e venerdì pomeriggio su Raiuno a Conferenza stampa. Non è escluso che nel frattempo s'inventi altre partecipazioni a sorpresa, come ha fatto in radio da Fiorello e da Biscardi.

Potrebbe spuntare dalla De Filippi come da Giurato a Uno Mattina o alle spalle di papa Ratznger durante l'omelia; le incursioni mediatiche del premier hanno ormai la cadenza ossessiva ma imprevedibile di un Gabriele Paolini, il sedicente "profeta del condom".
Non perdiamo tempo a riferire i discorsi, gli attacchi, le battute più o meno volontarie. Il repertorio dell'ultimo Berlusconi ha la freschezza di un fossile del Cretaceo. Più di che cosa dice, preoccupa "quanto" lo dice.

L'Italia sta sperimentando la campagna elettorale più scorretta della storia recente delle democrazie. Berlusconi aveva minacciato "andrò in tutte le trasmissioni" ed è il genere di promessa, forse l'unica, che è capace di mantenere. È dappertutto, a ogni ora, ogni giorno, ben deciso a usare il suo personale potere televisivo, che consiste anche nella facoltà di scegliersi i giornalisti, si fa per dire, gli ospiti e gli avversari di turno. È vero che con Diego Della Valle gli è andata molto male. Ma si è trattato di un imprevisto, nessuno poteva aspettarsi tanta sincerità da un vecchio amico, né Berlusconi né il povero Vespa, che certo troverà il modo di sdebitarsi con gli interessi. Anzi, ha già cominciato.

Il potere sulle tv del premier comprende anche quello che si potrebbe definire, con un'ardita perifrasi, l'"uso criminoso" dei telegiornali.

L'intercettazione di Fassino ha avuto per esempio sul Tg1 uno spazio di poco inferiore all'attacco delle Torri Gemelle. Ora, dall'ormai celebre colloquio del segretario Ds con Consorte si capivano al massimo un paio di cose. Una è che Consorte non è galantuomo e l'altro non glielo fa notare. L'altra è che Fassino viene informato a cose fatte e quindi non è dell'affare, non fa parte della "banda". Su questo fumo il Tg1 ha aperto per almeno tre giorni i notiziari sul "caso Fassino-Unipol", mentre nel mondo Sharon finiva in coma, Ali Agca usciva dal carcere e l'influenza aviaria avanzava verso l'Europa. Da qui al 9 aprile il premier replicante ci farà vedere cose che noi umani non potevamo neppure immaginare.

Servirà alla sua causa? I sondaggi, quelli seri, continuano a indicare una vittoria del centrosinistra, nonostante gli effetti dell'affare Unipol. Lo stesso Berlusconi pare ammetterlo, quando annuncia che "il vantaggio degli avversari è ridotto a un punto e mezzo". L'ha detto ieri, in mezzo a tutto il resto. Ma un mese fa aveva annunciato la parità fra destra e sinistra nei sondaggi. L'obiettivo della lunga marcia mediatica è la conquista di milioni d'incerti, secondo le ricerche i più vulnerabili all'influenza della televisione.

Sarà in ogni caso una campagna "contro". Contro Prodi, il centrosinistra, i "comunisti". Berlusconi è sempre stato un leader più "contro" che non propositivo, diversamente da quanto narrano gli agiografi. Fin dal messaggio della "discesa in campo", dove l'anticomunismo è preponderante rispetto al "sogno del miracolo". Ma in questa campagna elettorale è diventato l'unico tema. Fallito nel ridicolo il tentativo di magnificare i risultati economici del governo, il premier riesce a ritrovare un'identità e un baricentro politico soltanto attaccando gli avversari con il vittimismo dei violenti. Si comporta come uno che ha già perso e dall'opposizione lancia la sfida alla maggioranza in carica. In fondo è un modo di riconoscere che al centro della scena oggi ci sono Prodi e l'Unione. È l'errore di un grande comunicatore imbolsito. Perfino il centrosinistra potrebbe usarlo a proprio vantaggio, se soltanto si decidesse davvero a occupare la scena della novità e del futuro con la forza delle proposte. Per esempio con lo scatto in avanti verso il Partito Democratico "subito e ovunque", come scrive Prodi. Qui e ora e non dopo le elezioni, e non nel medio periodo come insiste a dire qualche leader dell'Unione. Keynes avrebbe risposto: "Nel medio periodo saremo tutti morti".


 

10 gennaio
 

L'EDITORIALE
Il conflitto del Cavaliere
di EZIO MAURO

Da luglio, questo giornale chiede al partito dei Ds alcune cose chiare in merito alla vicenda Unipol: accettare le regole del mercato fino in fondo, dunque rinunciare alla tentazione pericolosa di crearsi un capitalismo a propria immagine e somiglianza; rompere le vecchie cinghie di trasmissione non perché debba sparire la solidarietà e la vicinanza tra sinistra e cooperazione, ma perché bisogna impedire che le Coop diventino figlie di un dio maggiore, protette e benedette nei loro affari da un grande partito; evitare che la contiguità con quel mondo diventi un impeachment politico, generando afasia - o peggio, ambiguità - nei giudizi che il partito deve via via dare sugli errori del Governatore della Banca d'Italia, sulla finanza di Zagarolo e sulle fortune oscure dei suoi campioni, sul concerto para-criminale che si era creato all'ombra di Fazio e Fiorani tra le scalate all'Antonveneta, alla Rcs e, come ormai pare chiaro, alla Bnl. Infine, e non ultimo, sulle ruberie personali.

Una risposta chiara e convincente è fino ad oggi mancata. Il gruppo dirigente ds ha parlato tardi e male, come se fosse frenato e trattenuto, non libero: il che in politica è la cosa peggiore.

Soprattutto, non ha denunciato a chiare lettere il legame contro natura tra Unipol e i furbetti del quartierino, la complicità tra Consorte e Fiorani, i metodi disinvolti e illegali usati per arricchimenti personali. Ci vuol tanto a dire: abbiamo sostenuto il diritto di Unipol di fare l'opa su Bnl, ma quello che è emerso dietro quell'opa è sconcertante? Lo è per le alleanze, l'illegalità, la contiguità con un mondo che con la sinistra non c'entra nulla. Per questo, noi prendiamo le distanze da Consorte che ci ha ingannati: la magistratura darà il suo giudizio penale, ma ciò che è emerso è già sufficiente pare dare un giudizio morale, che è di condanna totale.

Questa assunzione di responsabilità è indispensabile, per dimostrare l'autonomia e la libertà del gruppo dirigente diessino.

È obbligatoria, perché i cittadini di sinistra non tollerano che la linea di un grande partito sia ostaggio di un pugno di azioni Unipol. È urgente per uscire dalla trincea e ricominciare a far politica a tutto campo, ripristinando la verità sullo scandalo bancario di questi mesi e su tutti i suoi attori: che non stanno solo a sinistra, ma anzi nascono a destra, anche se tutti sembrano dimenticarlo.

Lo dimentica soprattutto il presidente del Consiglio Berlusconi, che ieri è sceso in campo cercando di lucrare un vantaggio elettorale dalla vicenda Unipol. Berlusconi non ha parlato di opa, di istituzioni, di legge sul risparmio, di Bankitalia, di regole, come vorrebbe il suo ruolo. Ha invece inaugurato il suo anno elettorale usando l'unico argomento che non può decentemente usare: "l'intreccio inaccettabile tra politica e affari". Di quegli intrecci, purtroppo, il nostro presidente del Consiglio è un campione, un monumento vivente al conflitto di interessi e all'impasto quotidiano e indecente tra partito e azienda, amministrazione pubblica e business privato, soldi e politica. È inevitabile (e colpa dei ritardi di cui abbiamo parlato) che Unipol diventi oggetto della battaglia politica. Ma non è tollerabile che il Cavaliere metta al centro di questa battaglia l'"intreccio" tra politica e affari, in una sorta di sdoppiamento identitario. Non solo. Se decide di affrontare lo scandalo bancario (dopo silenzi e impacci che per il professor Giavazzi si spiegano con qualcosa che c'è nelle carte, e può venir fuori) Berlusconi ha il dovere di chiarire alcune cose: come mai era "commosso" per l'opa di Fiorani su Antonveneta, tanto da congratularsi col banchiere, mentre cenava con il suo sodale Gnutti. Perché il suo advisor di famiglia, Livolsi, curava la scalata di Ricucci, la possibile opa sulla Rcs, il legame politico-finanziario con Agag, il genero di Aznar grande amico del Cavaliere. Infine, qual è stato il ruolo dei parlamentari di Forza Italia (due sono sottosegretari del governo Berlusconi) coinvolti nell'affare Fiorani.

Ecco il vero "intreccio", Cavaliere, per lei familiare. Se la sinistra si deciderà a voltare pagina sulla vicenda Unipol, allora finalmente comincerà a chiederle conto di queste cose, invece di tacere.
 

Una quindicina i condoni del ministro-commercialista Tremonti
Il presidente del Consiglio definì un "diritto" evadere le imposte
Una lunga stagione di sconti
per la galassia del Cavaliere

Berlusconi: "Mai le mie aziende utilizeranno il condono"
Poi Mediaset ha risparmiato almeno 162 milioni di euro
di ALBERTO STATERA

<B>Una lunga stagione di sconti<br>per la galassia del Cavaliere</B>
Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti

"FARLA franca tra milioni di evasori, farla lunga con la lite, farla fuori con poche lire di condono". Silvio Berlusconi "l'ha fatta fuori" con pochi euro di condono, 1800 su decine di milioni di evasione fiscale, nell'apoteosi del grottesco, tra la grandiosità della rappresentazione e la parodia della stessa.

Anche perché il motto del "farla franca" e "farla fuori", applicato dal premier e dalle sue aziende, si deve a Giulio Tremonti, il commercialista di Sondrio che da ministro ha partorito una raffica di una quindicina di condoni. Ma risale alla sua ormai antica fase della "centralità etica", quella contro le sanatorie, quando dalle colonne del "Manifesto", citando vuoi Marx vuoi John Stuart Mill, ammoniva severo: " In Sud America il condono fiscale si fa dopo il golpe. In Italia lo si fa prima delle elezioni, ma è comunque una forma di prelievo fuorilegge". Anzi, "un attentato alla Costituzione".

Gli "attentati alla Costituzione" firmati dal premier nell'arco dei suoi due governi e dal suo ministro-commercialista non hanno prodotto "meno tasse per tutti", come promesso, ma meno tasse per pochi e soprattutto per l'onorevole Silvio Berlusconi che, a quanto pare, si è avvalso del condono anche per i suoi redditi personali, approfittando di un'opzione prevista nel 2002 per chi adeguava anche in maniera simbolica la sua dichiarazione.

Forse, prima o poi, si riuscirà a fare il conto di quanto dodici anni di politica e più di cinque di governo, considerando anche il 1994, hanno reso a Berlusconi soltanto in termini di risparmi fiscali. E allora crescerà lo scandalo postumo. Perché gli italiani, così alieni dal percepire l'ostico concetto del conflitto d'interessi, quando si tratta di tasse e balzelli che non distinguono "tra forti e deboli" - come dovrebbe invece prevedere la regola che da giovane raccomandava il ministro Tremonti - si arrabbiano.

Allora coglieranno in pieno il devastante - per la democrazia - cortocircuito conflittuale di un presidente del Consiglio, tra gli uomini più ricchi dell'orbe terracqueo, che firma condoni di cui approfitta a man salva per sé e per le sue aziende.

"Mai - aveva giurato il premier - le mie aziende utilizzeranno il condono". Poi Mediaset naturalmente non se l'è fatto scappare, risparmiando una cifra valutata in 162 milioni di euro. L'evasione fiscale "è intollerabile" proclamò nel luglio scorso, quando gli spiegarono che non solo le tasse non si potevano ridurre, ma si dovevano aumentare. E qualche giorno fa il tripudio del grottesco, commentando la scalata dell'Unipol alla Bnl e le accuse rivolte ai diesse per gli intrighi di Giovanni Consorte: " Inaccettabile l'intreccio tra affari e politica. Io affari non ne ho mai fatti con la politica, anzi ho perso e basta".

Ma se le bugie del premier vengono ormai accolte dagli elettori - anche i suoi - con un'alzata di spalle, quelle sulla sua etica di contribuente e di uomo d'affari suscitano un misto di rabbia e ilarità, perché Berlusconi e i suoi più intimi sodali incarnano nell'immaginario collettivo degli italiani avvertiti diremmo proprio la specie antropologica dell'evasore fiscale.

Il premier cominciò a frequentare lo sport fin da giovane, come è largamente documentato. Nel 1980, dopo una visita della Guardia di Finanza al cantiere di Milano-2, il Berlusconi ancora palazzinaro scrisse una lettera a Bettino Craxi, pubblicata nel libro di memorie del fotografo personale del leader socialista, Umberto Cicconi, nella quale chiedeva aiuto contro il fisco: " Caro Bettino - si lagnava - come ti ho accennato verbalmente, Radio Fante ha annunciato che (....) la Polizia Tributaria si interesserà a me (...). Ti ringrazio per quello che crederai sia giusto fare". Fu giusto bloccare l'ispezione, assumere il capo della pattuglia Massimo Maria Berruti e poi farne un parlamentare della Repubblica.

Del resto, nei rari momenti di sincerità, Berlusconi non ha mai nascosto quel che realmente pensa del dovere fiscale: "Ieri - ha raccontato una volta - sono stato dal mio dentista e ho visto che paga il 63 per cento di imposte e allora non volete che chi è sottoposto a un furto così non si ingegni? È legittima difesa". Legittima difesa? No, di più: l'evasione è "un diritto naturale che è nel cuore degli uomini". Anzi, un diritto "moralmente autorizzato".

Un "intimo sentimento di moralità" nell'evadere il fisco pervade, d'altra parte, non solo il leader, ma l'intero stretto cotè berlusconiano. Il fratello Paolo ha patteggiato per vari reati tra cui l'evasione fiscale; Marcello Dell'Utri è stato condannato per fatture false e gonfiate di Publitalia; Cesare Previti, poi, in uno dei processi che subisce in veste di imputato, ha ammesso di aver frodato il fisco come se dicesse: mbeh, che c è? Ho preso un cappuccino.

Chi poteva credere allora all'ultimo Berlusconi ligio contribuente, così ligio da non approfittare dei condoni da lui firmati e messi a punto, con occhio non distratto agli interessi del leader, dal suo ministro, definito "un genio" e comunque, se non proprio geniale, maestro di astuzie contabili e fiscali?

Il commercialista che viene da lontano ("From Marx to market") e che quando militava con Segni definì Berlusconi "l'uomo dai cialtroneschi programmi", per dare un ultimo tocco al grande grottesco italiano, nel giorno in cui veniva alla luce la farsa del condono berlusconiano da 1800 euro, in televisione ha fatto la morale alla sinistra per l'affare Unipol. Ha detto che lui non sta con i banchieri, ma con i risparmiatori. Poteva anche dire "il" risparmiatore e farne il nome: Berlusconi Silvio.


 

Lavorare davanti al video e curare la vista
di Rishi Giovanni Gatti - gennaio 2006

Come conciliare la cura della vista e il lavoro davanti al video: un problema molteplice che però ha soluzioni semplici, da mettere in pratica intenzionalmente fino a che non saranno diventate spontanee e automatiche.
Il problema più grosso che un qualsiasi praticante del Sistema Originale di Bates per la Cura della Vista mediante auto-trattamento mentale si trova ad affrontare è il lavoro al video del calcolatore elettronico. Oramai questi schermi elettronici sono ubiquitari, e non ostanti i passi avanti fatti dalla tecnologia, che ci consegna ogni anno schermi sempre migliori, la difficoltà di guardarli senza sforzare è sempre enorme, specialmente per chi è all’inizio della cura ed ha da poco abbandonato definitivamente e permanentemente l’uso delle lenti correttive o dei dispositivi a foro stenopeico.
Potremmo dire che le due attività, la cura della vista e l’uso del videoterminale, siano due occupazioni che si elidono a vicenda, nel senso che se si persegue l’una, ciò è a detrimento dell’altra e vice versa. Infatti la persona che ha una vista imperfetta sotto trattamento si trova a dover fronteggiare un problema per certi versi molteplice:
  1. la caratteristica peculiare delle cifre e delle lettere generate sul video, come impulsi luminosi primari e non come mero riflesso secondario di una fonte luminosa terza, come quella della carta stampata dei libri di testo;
  2. la carenza di luce naturale nell’ambiente di lavoro e la insufficiente intensità del flusso della comune luce artificiale, nonché la sua scarsa qualità;
  3. la preoccupazione di dover “essere produttivi”, perché si ha poco tempo e si deve terminare il lavoro, e gli occhi si ribellano e ci vedono sempre peggio essendo sottoposti ad un conseguente e aumentato sforzo per vedere.
Analizzando più nel dettaglio le varie condizioni elencate, ci accorgiamo che alcuni rimedi esistono e si possono attuare con grande beneficio. In particolare:
a) il video come la carta stampata
Che le immagini video – lettere e cifre – siano costituite da “pixel”, composti ciascuno da tre “sottopixel” con i tre colori primari (rosso, verde e blu) in sintesi additiva, e separati tra loro da un microscopico contorno nero di sfondo, è una verità che pochi lettori hanno realizzato. Prendere coscienza di questo fatto avvicinandosi al video o prendendo una lente da ingrandimento per capire bene il fenomeno è una conditio sine qua non per attuare una strategia vincente di cura. Se non si conosce il problema quale è, come è possibile risolverlo, o dissolverlo? Il problema è che le lettere e i numeri a video non sono reali, ma sono un semplice accostarsi di punti in una matrice prefissata, che il cervello si sforza di integrare, di rendere reale come il carattere stampato su carta.
L’unico modo che il cervello ha per ovviare a questo problema è sfocare leggermente l’occhio per creare una lieve sovrapposizione tra i pixel sfocati in modo tale che il carattere matriciale sembri costituito da un tratto continuo, come il carattere stampato. Questo meccanismo perverso si attiva inconsciamente e persiste fino a che non viene ripristinata la “centrale fissazione” dell’occhio, e cioè la capacità di discernere il singolo pixel, o meglio ancora il singolo sottopixel, che va a costituire insieme agli altri pixel o sottopixel la matrice sulla quale si ricava il simbolo a video.
A dire il vero, l’ideale sarebbe riuscire a discernere, tramite centrale fissazione, una piccolissima parte dell’interspazio nero che costituisce lo sfondo sul quale i pixel si accendono per formare il simbolo a video. Per farlo, è sufficiente immaginare, mentre si usano gli occhi, questa piccolissima parte di interspazio nero presente ovunque sotto ai pixel, dimenticandosi di tutto il resto, e spostando lo sguardo sulle lettere, ricordandosi che non si tratta di lettere vere ma di pixel e sottopixel separati tra loro, e che è assurdo cercare di vederli come un tratto continuo.
b) luci forti
La differenza tra l’illuminamento che l’occhio umano troverebbe normalmente all’aperto in una giornata serena di sole primaverile e l’illuminamento di cui può godere quando è all’interno di un ufficio davanti al video del calcolatore è dell’ordine delle decine di migliaia di lux. Cioè, stare al chiuso e stare all’aperto fa una grande differenza per l’occhio, che si vede depauperato, all’interno di una comune stanza, della quasi totalità del suo nutrimento fisiologico, cioè la luce del sole.
Per rimediare occorre agire lungo due direzioni:
  1. riabituarsi gradualmente alla luce diretta del sole, imparando a guardarlo direttamente, nell’arco di qualche mese di pratica quotidiana, usando anche la scorciatoia della Lente Solare del Dott. Bates;
  2. aumentare di pari passo il flusso luminoso che investe gli occhi quando si è al lavoro davanti al video, utilizzando lampade elettriche di vario tipo, possibilmente ad ampio spettro (ad esempio quelle della ditta Biosystem Life Lite®), alto rendimento e temperatura colore di almeno 5.500 K; per la pratica quotidiana con la Tabella di Snellen sarebbe opportuno, qualora non si possa usare la luce diretta del sole, utilizzare la forte luce concentrata dei proiettori a ioduri metallici e scarica di gas.
Nell’attuare queste due direttive bisogna sempre ricordarsi che ogni individuo è un caso a sé, non tutti vedono ugualmente bene nelle medesime condizioni luminose, e magari una luce che qualcuno potrebbe giudicare forte in realtà per qualcun altro è assai debole. In tutti i casi, secondo il Dott. Bates, tutti dovrebbero diventare capaci di poter guardare in alto il sole senza provare alcun fastidio o disagio.
c) usare gli occhi razionalmente
Sono due le trappole che costantemente il video del calcolatore ci tende mentre lavoriamo con esso:
  1. nello spostare il puntatore (la freccia sul video che facciamo muovere spostando il mouse sulla scrivania), siamo tentati di guardare fissamente il punto di arrivo, l’oggetto su cui premere il pulsante, e seguire nel campo eccentrico il movimento, in genere a scatti, che il puntatore fa dietro nostro comando finché esso arriva a destinazione;
  2. una volta dato un comando qualsiasi, siamo tentati, mentre siamo in attesa della risposta del calcolatore, di fissare lo sguardo nel vuoto, al centro dello schermo, aspettando chissà che e perdendo tempo ed energia che sono invero assai preziosi.
Queste due tentazioni sono infinitamente molto più dannose per la vista di quelle elencate precedentemente perché vanno a minare alle fondamenta il funzionamento naturale della facoltà visiva. È perché usiamo gli occhi così irrazionalmente che la mente va sotto sforzo e non lavora con la dovuta efficienza. Una mente inefficiente è una mente che non ha gli occhi sotto il normale controllo, è una mente che genera preoccupazioni e problemi, che a loro volta indeboliscono la vista e rinforzano il circolo vizioso dal quale uscire diventa sempre più impegnativo.
Fortunatamente il rimedio esiste:
  1. seguire il puntatore immaginando che l’oggetto puntato si muova verso di esso, mentre si immagina che tutto lo sfondo, compreso l’oggetto verso il quale stiamo dirigendo il puntatore, si muova in senso contrario al movimento del puntatore;
  2. chiudere gli occhi quando si è in attesa del responso del calcolatore, e riaprirli per una frazione di secondo ogni due o tre secondi, ripetendo il periodo di rilassamento fino all’avvenuta risposta, per proseguire poi con il lavoro.
Niente di più facile.
All’inizio, mettere in pratica questi suggerimenti costerà molto in termini di produttività, ma è un investimento che vale la pena intraprendere. Già nelle prime ore si scoprirà che la visione sarà molto migliore e la mente più rilassata e libera. Tenere nei pressi dello schermo del calcolatore una Tabella di Controllo di Snellen sulla quale lanciare una rapida occhiata ogni tanto consentirà di verificare i progressi minuto per minuto, oltre che essere una ulteriore fonte di riposo per gli occhi. Nel corso dei giorni o delle settimane, sarà possibile rimpicciolire i caratteri comunemente usati a video e allontanare o avvicinare lo schermo per verificare come le condizioni che una volta erano assai sfavorevoli ora non lo sono più così tanto, si sono trasformate in condizioni nelle quali è più facile esercitarsi a vedere sempre meglio, e a pensare e lavorare in modo sempre più riposato e tranquillo.

 


3 gennaio

 

Il dovere della Quercia
di MIRIAM MAFAI

DA SEI mesi ormai la vicenda Unipol-Bnl secerne i suoi veleni sulla scena politica italiana. E tutto fa pensare che il profluvio di intercettazioni, interviste, polemiche continuerà, di qui alle elezioni, assumendo il carattere di una campagna nei confronti dei Ds.

Ai Ds si rimprovera l'antico legame e la solidarietà, il cosiddetto "collateralismo" nei confronti del movimento cooperativo e delle sue operazioni finanziarie. Il "collateralismo" è un dato di fatto che fa parte della storia del movimento cooperativo e del movimento operaio. Il sostegno offerto dai Ds al tentativo dell'Unipol di conquistare la Bnl si è manifestato, nel corso degli ultimi mesi, in modo esplicito. E non può essere considerato una colpa. A meno che tra Ds e Unipol non siano rilevabili accordi occulti di carattere finanziario in violazione delle regole del mercato.

Nulla di tutto questo è emerso finora. Tutte le telefonate rese note fino a ieri provavano l'interessamento di Fassino per l'operazione e per il suo successo. Niente di illegittimo e niente di più. Ieri sono state rese pubbliche altre intercettazioni di telefonate tra Fassino e Consorte, che risalgono al luglio scorso. Non ci sembra che possano avere alcuna rilevanza sul piano penale. Esse rivelano però la esistenza di rapporti strettissimi tra il presidente dell'Unipol e il segretario dei Ds. Così stretti che quest'ultimo a un certo punto si fa sfuggire una espressione eccessiva di giubilo: "Ah, allora, siamo padroni di una banca...". E Consorte di rimando: "Sì, è chiusa, è fatta".

È inutile negarlo, o sottovalutarlo. C'è qualcosa di profondamente sgradevole, di eccessivo, in questo scambio di informazioni dettagliate, di complimenti reciproci. In questa esultanza. In questo "siamo padroni" di una banca... Il padrone chi sarà, l'Unipol o i Ds? Intendiamoci: il sostegno dei Ds all'Opa su Bnl non è certo una novità. Sia D'Alema che Fassino, in prima persona, si erano già espressi nel corso dell'estate in questo senso. Forse, possiamo dire oggi, con un eccesso di entusiasmo. Senza tener conto delle riserve che si erano già manifestate anche all'interno del mondo cooperativo.

Ma, se le accuse nei suoi confronti saranno confermate, la fiducia nei confronti di Consorte era mal riposta. Il patron dell'Unipol, a quanto è risultato dalle successive indagini della magistratura, si occupava con molto zelo degli interessi della cooperazione, ma, per lo meno con altrettanto zelo dei suoi interessi privati, in combutta con Fiorani, Gnutti e i cosiddetti "furbetti del quartierino".

Sulla scena di questo scandalo che ha occupato le pagine di tutti gli organi di informazione nel corso dell'estate si sono mossi, da protagonisti non solo l'Unipol, ma personaggi quanto mai ambigui, brasseurs d'affaires che si erano improvvisatisi banchieri d'assalto, immobiliaristi dalle incerte e sospette fortune, giocatori d'azzardo che inventavano cordate e scalate.

Il tutto sotto l'occhio compiacente e in qualche caso affettuoso di un Governatore della Banca d'Italia costretto alla fine, ma solo alla fine, a dare le dimissioni. E colpisce in tutta questa vicenda l'ambigua familiarità che legava i protagonisti, quello scambio di regali, persino di baci, di affettuosità, di complimenti e, alla fine, di principesche percentuali incassate dal presidente dell'Unipol per improbabili ma certamente preziose consulenze.

Non siamo tra coloro che pensano che il danaro sia "lo sterco del diavolo" ma siamo convinti che ci sono modi diversi di trattarlo, di guadagnarlo e di scambiarlo. I "furbetti del quartierino", coloro che giocano d'azzardo con il danaro, non possono essere considerati alla stregua di coloro che rischiano, producono e fanno profitto (o magari non ci riescono, come pure accade).
Per questo è apparso per lo meno singolare e sgradevole che alcuni dirigenti autorevoli dei Ds abbiano volutamente ignorato questa differenza, quando nel corso di alcune interviste, si sono chiesti ironicamente "Cos'ha Gnutti che non va?", "Cos'ha Ricucci che non va?".

Si è visto nel corso di pochi mesi cosa non andava in quei personaggi, nelle loro spericolate operazioni e nelle loro sproporzionate ambizioni. E si spiega il disagio che oggi si manifesta non solo all'interno del movimento cooperativo, ma anche nei Ds. La vicenda, come dicevamo all'inizio, continua a secernere i suoi veleni sulla scena politica e rischia di trasformarsi in un boomerang per i Ds, un partito che ha fatto giustamente della difesa dell'etica pubblica una delle sue più nobili bandiere di fronte al dilagare della corruzione nella vita pubblica e alla clamorosa compromissione tra politica e interessi privati di cui è simbolo Berlusconi.

Ma si percepisce, tra i Ds, la difficoltà di definire una credibile linea non solo di resistenza, ma di contrattacco. Il disagio e l'incertezza nella definizione di questa linea sono apparsi evidente anche nelle contrastanti dichiarazioni di alcuni dirigenti. C'è ancora chi parla di "complotto", ma c'è anche chi (lo ha fatto qualche giorno fa Giorgio Napolitano con il tono misurato che gli è proprio) rivolge qualche critica a Fassino e D'Alema per la fiducia eccessiva che questi avevano manifestato nei confronti di Consorte. Una richiesta irricevibile, ha protestato Luciano Violante, ricordando che "i DS non hanno scheletri nell'armadio". Ma la questione non si chiudeva ancora.
Perché il giorno dopo Vannino Chiti non esitava a dichiarare che "è stato un errore aver fatto il tifo per l'Unipol nella scalata alla Bnl". Una affermazione che sembra correggere precedenti prese di posizione e, insieme, preannunciare un dibattito, nelle sedi opportune, su quanto è avvenuto nei mesi scorsi, sui comportamenti dei singoli, e sulla esigenza di definire un più limpido rapporto tra politica e affari.

È quanto l'opinione pubblica si attende dal vertice Ds: un giudizio netto e inequivocabile su un personaggio come Consorte, regista di un'operazione opaca, insieme con personaggi spregiudicati fino al limite dell'illegalità.

C'erano altre intenzioni in gioco, la volontà di colpire, con la conquista della Bnl, altri poteri presenti nella finanza e nell'editoria, la necessità di tutelare altri interessi e di promuovere altre ambizioni? Sarebbe bene chiarirlo, prima che la pubblicazione di nuove intercettazioni sparga altro veleno su una campagna elettorale che già si preannuncia durissima.


Il regista di "Fahrenheit 9/11" gira un nuovo documentario
sull'inefficienza e le connivenze politiche del sistema sanitario
Usa, tremano i giganti dei farmaci
"Attenti a Moore, ci rovinerà"

Alcune industrie hanno diffuso un avviso interno via email
in cui si invita a fare attenzione alle interviste di sconosciuti

<B>Usa, tremano i giganti dei farmaci<br>"Attenti a Moore, ci rovinerà"</B>
Michael Moore

ROMA - Non lasciatevi ingannare da un cappellino da baseball, non rispondete alle domande di chi lo indossa perché sotto quella visiera si nasconde una delle teste più pericolose della cinematografia indipendente americana. E' un avvertimento a tutti gli effetti quello che alcune case farmaceutiche americane hanno diffuso fra i dipendenti, quando hanno saputo che Michael Moore sta girando Sicko, titolo provvisorio di un nuovo film-documentario proprio sul sistema sanitario degli Stati Uniti. Un panico amplificato dal silenzio totale del temibile regista, il che alimenta congetture su quello che potrebbe già avere per le mani.

Questa volta l'ex giornalista di Flint, Michigan, punta l'indice su ospedali, agenzie di assicurazioni e soprattutto sull'industria dei medicinali. Semplice l'interrogativo dal quale prende le mosse: "Non capisco perché uno dei Paesi più ricchi del mondo permetta che quattro milioni di cittadini, se si ammalano, non vengano assistiti". Punto di partenza, la storia di dieci persone "costrette" a morire dall'inefficacia della sanità pubblica americana. Facile immaginare un nuovo pugno nello stomaco, dopo le inchieste d'assalto sulla General Motors (Roger&Me, 1989), sulla lobby delle armi (Bowling a Columbine, 2002) e soprattutto dopo il clamore suscitato da Fahrenheit 9/11.

Il film, distribuito da Bob e Harvey Weinstein (dal quale i due fratelli fondatori della Miramax si aspettano grandi cose, tanto che avrebbero già previsto un incasso di 40 milioni di dollari) dovrebbe uscire nel prossimo autunno. Sulle riprese, si diffondono voci incontrollate. Come quella che vorrebbe Moore dimagrito e camuffato - baffi e capelli biondi - per non essere riconosciuto e realizzare interviste senza problemi. In realtà, come avvenuto per Fahrenheit 9/11, non mancheranno volontari pronti a dispensare informazioni per realizzare un film che ha sollevato polemiche e timori ancora prima del concepimento.

Per questo, alcune importanti case farmaceutiche hanno invitato i dipendenti a non cadere nei tranelli che il diabolico Moore potrebbe tendere loro. La Pfizer Global Research, ad esempio, ha inviato una email interna a tutti i dipendenti, con un "identikit" del regista e il monito a fare attenzione. Lo stesso hanno fatto la Glaxosmithkline (dopo l'"avvistamento" di Moore a Philadelphia, quartier generale della società) e la AstraZeneca. Il direttore della comunicazione di quest'ultima azienda, Rachel Bloom, ha dichiarato che "i lavori del regista sono evidentemente tendenziosi, anche questo sarà più una docu-drammatizzazione che un film equilibrato".

Ma se i dipendenti delle case farmaceutiche non parlano, tanto meno rilascia dichiarazioni il diretto interessato. Un cronista di Variety - il magazine-Bibbia di Hollywood - ha cercato di contattarlo ma racconta di non aver ricevuto alcuna risposta. Sul sito michaelmoore.com il riferimento più recente a Sicko risale addirittura al 23 dicembre del 2004, con la citazione di un articolo del Los Angeles Times che raccontava come, già allora, un nervosismo crescente si stesse diffondendo fra le industrie farmaceutiche americane.

 

2 gennaio


Il coraggio della giustizia

di Gian Carlo Caselli

Come saranno state le feste dei ragazzi di Locri? Quelli con le magliette «E adesso ammazzateci tutti»? Quelli che dopo l'omicidio di Franco Fortugno hanno risvegliato - per qualche giorno - le nostre coscienze, costringendoci ad occuparci della Calabria? Immagino che siano state feste come quelle degli altri ragazzi. Allegre e spensierate. Ma forse non solo. Forse i ragazzi di Locri, oltre a divertirsi, hanno continuato a porsi domande, alcune ineludibili alla luce delle cronache dei gravi scandali economico-finanziari che affliggono il nostro Paese (aggiungendosi ai problemi di sempre). Hanno constatato che l’illegalità può anche assumere volti diversi dal sangue e dalle stragi: corruzione, scambio politico-affaristico, spreco di risorse, mancanza di controlli, inefficienza burocratica, evasione fiscale, arricchimenti troppo facili alle spalle degli onesti, raccomandazioni sistemiche, assistenzialismo clientelare... Capiscono, i giovani, che se non si batte anche questa illegalità, possiamo sconfiggere tutte le cosche che ci pare, ma non avremo costruito quasi niente. Non avremo dato - ai giovani che lo pretendono - un vero futuro, consentendo loro di pensare al lavoro, in particolare, come a un diritto e non come a un ricatto o una merce di scambio.

Alla fine i giovani di Locri si saranno magari chiesti se sia proprio vero che la «questione morale» è un ferrovecchio da accantonare o una «pruderie» di benpensanti. Spero abbiano concluso che si tratta invece di una grande questione democratica ed istituzionale: per la decisiva ragione che un sistema intriso di malaffare, di corruzione, o di rapporti con la mafia è l'emblema del prevalere dell'interesse privato sull'interesse pubblico, cioè di un sistema malato che non produrrà niente di buono per il futuro dei giovani.
Non solo ai giovani di Locri, ma a tutti i cittadini italiani, vorrei poi ricordare che l'accantonamento della «questione morale» è inestricabilmente intrecciato con la «questione giustizia». Sappiamo tutti che il sistema giudiziario spesso non funziona o funziona male. Eppure anche quel «poco» dà fastidio. L'obiettivo di chi attacca la giurisdizione, ieri come oggi, è avere meno, non più giustizia. Un esempio per tutti. Quando un uomo politico viene indagato per corruzione o collusioni con la mafia, prima o poi scatta - per il magistrato che procede - l'accusa inesorabile di fare politica. Accusa a senso unico, rivolta soltanto a chi indaga senza sconti, mentre chi si defila viene gratificato con gli applausi riservati al «giudice giusto» (il tutto, ovviamente, a prescindere dalla fondatezza delle decisioni, in un caso come nell'altro: ormai, gli interventi giudiziari vengono valutati non in base alla correttezza e al rigore, ma unicamente secondo la loro convenienza). L'accusa di «politicizzazione» fa coppia fissa con quella di «giustizialismo», parola che ormai usano con disinvoltura anche coloro che (non avendo interessi di bottega da difendere vomitando insulti) dovrebbero meglio riflettere, a partire dalla esemplarità della vicenda del termine. «Giustizialismo» è parola sconosciuta nel nostro lessico, finchè qualcuno non decide di inventarsela di sana pianta per poter più facilmente archiviare il «pericoloso» consenso per la legalità che aveva accompagnato le indagini di Tangentopoli e la «seconda primavera» di Palermo.
Assolutamente privo di novità e di senso sul piano dei contenuti, il neologismo ha avuto la sola finalità mediatica di avallare l'idea di un uso scorretto della giustizia da parte dei magistrati che adempiono i loro doveri senza timidezze o compromessi, così costringendo il dibattito a partire da verità rovesciate. Un trucco che in questi giorni si ripresenta, posto che l'accusa di «giustizialismo» torna ad inflazionare molti commenti sugli attuali scandali finanziari e bancari. In realtà, la politica con la «P» maiuscola (quella che voglia esercitare davvero il suo incontestabile primato, che si proponga di recuperare una dimensione etica della convivenza) dovrebbe individuare un problema da affrontare e risolvere, non da rimuovere o cancellare, tutte le volte che l'intervento giudiziario accerti fatti gravissimi sul piano politico-morale (indipendentemente dalla loro rilevanza sul versante della responsabilità penale, vigendo al riguardo regole ben diverse da quelle che presiedono alla responsabilità politico-morale).
La conoscenza di questi fatti - in un paese normale - dovrebbe innescare rigorosi percorsi di «bonifica». Invece, pur in presenza di comportamenti vergognosi accertati a loro carico, gli imputati vengono regolarmente difesi «a prescindere» se non beatificati; ed i magistrati che hanno scoperchiato la pentola maleodorante sono cialtroni. Se ancora oggi prevale la cancellazione della verità, occorre chiedersi il perché di questa anomalia. Può darsi che la verità sia incompatibile con una certa politica. Può darsi che una certa politica voglia liberarsi da ogni responsabilità di ieri, di oggi e - perché no? - anche di domani. Ma in questo modo la linea di demarcazione fra lecito ed illecito, morale ed immorale sfuma. E così non c'è paese civile al mondo (neppure il nostro) che possa sopravvivere a lungo.
E dunque, non è un caso che l'accantonamento della questione morale si presenti in coppia con la richiesta alla giurisdizione (sempre incombente: ieri come oggi) di fare un «passo indietro»; e che le dimissioni da incarichi pubblici a seguito di sottoposizione a processo penale, a differenza di quanto accade nella maggior parte dei sistemi simili al nostro, siano rarissime e non si registrino neppure a fronte di sentenze definitive della Cassazione; non è un caso che nei programmi elettorali, non solo della maggioranza ma anche dell'opposizione, si stenti ad trovare un posto non soltanto di facciata all'imbarazzante problema del rapporto tra etica e politica. Il vecchio detto machiavellico secondo cui gli Stati non si governano con i «pater noster» fa evidentemente premio sul pensiero dei nostri «maggiori» - da Bobbio in poi - secondo i quali il malaffare è sempre privo di giustificazioni politiche e, come il tiranno resta tiranno, così il corrotto, il disonesto, il colluso e lo spregiudicato sovvertitore delle regole che valgono solo per gli altri restano tali, a prescindere dalle loro capacità e dai loro successi.
Sono sicuro che i ragazzi di Locri sono scesi in strada anche perché tutte queste cose cominciano ad intuirle e capirle sempre di più. Il mio augurio per l'anno nuovo, allora, è che non si rassegnino. Che insistano a pretendere legalità e giustizia, ovunque e da tutti. Faranno del bene anche a noi. In particolare a quelli fra noi che hanno più bisogno di scuotersi di dosso apatia o cinismo, anticamera della voglia di non distinguersi troppo da coloro che hanno prodotto strappi alla giustizia e alla legalità, nel nostro Paese, che non è possibile prevedere dove andranno a fermarsi. E che potrebbero addirittura allargarsi - se la tendenza non s'inverte - fino a ridurre a brandelli il nostro senso morale

 

TERRA TERRA
Surfin' California, «made in China»
 
LUCA CELADA,
A Santa Monica, California, i surf shops sono stati presi d'assalto. A Huntington Beach, Jack's Surfboards, che in una buona giornata può vendere quattro tavole da surf, in un giorno ne ha smerciate 20 malgrado le avesse «maggiorate» di 100 dollari oltre il prezzo corrente di 550-600 dollari. Un altro storico negozio, Killer Dana di Dana Point, ha esaurito le scorte in meno di mezza giornata e ha dovuto respingere clienti che facevano la fila chiedendo di acquistarne 5-6 per volta. Un ondata di acquisti-panico provocata dall'annuncio, piovuto come una doccia fredda sui surfisti che galleggiano come boe nelle onde da San Diego a Ventura: la Clark Foam di Laguna Niguel, cioè la più grande manifattura al mondo di foam cores, ha chiuso i battenti dopo aver perso un giudizio che l'ha giudicata «gravemente colpevole di inquinare l'ambiente» disperdendovi illegalmente i materiali fortemente tossici usati nella produzione. Per continuare a lavorare, la manifattura avrebbe dovuto spendere 60 milioni di dollari per miglioramenti ambientali e Rusty Clark, il titolare, l'uomo che più di 40 anni fa aveva inventato il metodo di produzione industriale delle tavole, ha preferito tirare i remi in barca. Le tavole usate nello sport californiano per eccellenza, sono composte di un'anima in poliuretano dall'approssimativa forma ovale che viene successivamente plasmata e ricoperta da un «guscio» di plastica dura e lucida dai singoli progettisti. Sono costoro che modellano la forma finale della tavola, rifinendola a mano al millimetro per massimizzarne le doti aerodinamiche - in alcuni casi si tratta di vere star i cui segreti sono riveriti e ricercati dai surfer alla ricerca dell'onda perfetta e della tavola in grado di fornire la «cavalcata» migliore. Nell'industria del surf - un fatturato annuo di 200 milioni di dollari solo per le tavole e molto di più per accessori, mute, abbigliamento, occhiali ecc. - la progettazione idrodinamica, firmata spesso da grandi nomi del circuito professionisti, può valere centinaia di dollari sul prezzo finale, che spesso si avvicina ai mille dollari.

Tutto però comincia con stessa anima di poliuretano grossolanamente formata, che è il cuore di ogni tavola poi plasmata a piacimento: e fino alla scorsa settimana il 90% di queste era prodotta dalla Clark.

La chiusura ha gettato nel caos l'industria di tavole «custom», improvvisamente a corto di materia prima per modellare assi su misura, e ha aperto la porta all'importazione massiccia di tavole preformate di polistirene e resina prodotte in Asia - un anatema per gli intenditori, che provano orrore all'idea di dover presto acquistare boards prefabbricate da Wal Mart. «La fine di un'era», l'ha definita Izzy Tyhanil di Surf Diva, la scuola e azienda di San Diego specializzata nel design di assi e abbigliamento da surf a target principalmente femminile, piangendo la fine del tocco artigiano: «I giorni in cui il progettista poteva disegnare una tavola ottimizzata per lo stile particolare di un singolo surfista sono ormai contati». Iniziano invece presumibilmente quelli della standardizzazione e delle assi prodotte in serie da fabbriche in Cina e altri paesi con normative ambientali e di sicurezza sul lavoro più flessibili.

Un duro colpo cioè per il surf, sport dall'alone mistico degli spiriti liberi e adepti new age dell'estate infinita. Anche il surf si allinea insomma alle macrotendenze della globalizzazione: alcune linee di tavole «firmate» vengono già prodotte sotto licenza in Cina. Ora, oltre a rimpiangere la fine di un'era, i surfisti, adepti di una cultura notoriamente insulare e tradizionalista, oltreché ostentatamente ambientalista, si sono beccati anche la reputazione di inquinatori.

 
Regalo di fine legislatura: Salò come la Resistenza
di red.

Resta solo un mese a questa legislatura. Troppo poco per fare molte cose utili. Quanto basta per temere di veder approvata un’altra legge vergogna.
Non sono in gioco gli interessi del premier, questa volta, ma quella smania di riscrivere la storia d’Italia che anima troppo spesso lui stesso e i suoi alleati. Nonostante mesi di polemiche, l’11 gennaio approderà in aula al Senato il provvedimento che riconosce ai repubblichini di Salò lo status di militari belligeranti. Equiparandoli, per legge, a quanti combatterono per la libertà.
Il voto finale è già previsto per il 16 gennaio, in tempo per regalare una nota di revanchismo storico alla campagna elettorale. Non in tempo, fortunatamente, per arrivare all’approvazione finale della Camera.
«Trovo aberrante che la maggioranza del Senato abbia voluto iscrivere all'ordine del giorno dell'Aula per i primi di gennaio la proposta vergognosa di equiparare i reduci di Salò ai partigiani che contribuirono a liberare l'Italia dall'occupazione tedesca e dalla dittatura fascista», afferma il senatore Ds Walter Vitali. Ma «evidentemente si prosegue nel voler marchiare questa legislatura con l'infamia di un provvedimento del genere approvato anche in un solo ramo del Parlamento come pericoloso precedente per il futuro». Armando Cossutta, presidente dei Comunisti italiani, incita l’Unione ad impedire «l'ultimo oltraggio».
 

 

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