Archivio Luglio 2006
28 luglio
Festeggiamenti nei principali istituti italiani, dall'Ucciardone
a Poggioreale
Le prime stime degli uffici penitenziari sul numero dei detenuti
in uscita
La Camera dice
sì all'indulto
e le carceri esplodono di gioia
L'Ucciardone
a Palermo
ROMA -
Il boato è stato simile a quello risuonato dopo il rigore di
Grosso. Ma questa volta a far "esplodere" alcuni istituti
penitenziari italiani non è stata la vittoria ai Mondiali bensì
l'approvazione
del disegno di legge sull'indulto, passato oggi alla Camera. L'Ucciardone
e Pagliarelli a Palermo, Poggioreale a Napoli, Lauro ad
Avellino, sono stati scossi dalle urla di felicità dei detenuti.
Intanto le stime dei singoli penitenziari formano il quadro di
quanti detenuti beneficeranno del provvedimento di clemenza.
Palermo. "Se non avessi saputo cosa stava accadendo -
dice Laura Brancato, direttore del carcere palermitano
Pagliarelli, in cui sono attualmente detenute 1300 persone -
avrei pensato che era scoppiata una rivolta". Secondo le stime
dell'Ufficio Matricola, solo al Pagliarelli l'approvazione
definitiva del disegno di legge aprirebbe le porte del carcere a
circa 350 persone. Mentre sarebbero 150 a lasciare l'Ucciardone,
dove attualmente sono detenute 700 persone.
Campania. L'indulto in Campania (che con 7800 detenuti è
la seconda regione d' Italia per numero di presenze nelle
carceri, dati del ministero dell'Interno) spalancherà le porte a
più di 2000 detenuti, di cui tra 250 e 350 attualmente ospiti a
Poggioreale (che conta 2357 presenze a fronte di una capienza
per 1387 detenuti). Festeggiamenti anche in altre carceri della
regione, come quello di Lauro, ad Avellino, istituto a custodia
attenuata dove hanno fatto festa i 70 detenuti per reati legati
alla tossicodipendenza, tutti destinati a uscire. Alta la
percentuale delle detenute del carcere femminile di Pozzuoli che
riacquistaranno la libertà: circa 90 sulle 170 recluse.
Roma. Vittorio Antonini, coordinatore dell'associazione
Papillon nata nel carcere romano di Rebibbia, osserva che solo a
Roma il provvedimento restituirà la libertà a circa mille
detenuti. Secondo Antonini, festeggiamenti negli istituti di
pena ci saranno solo quando arriverà l'ok definitivo dal Senato
"perché ci sono stati troppi rinvii e serpeggiava un po' di
sfiducia". Solo nella capitale torneranno liberi quasi mille
detenuti: circa 300 dei mille di Regna Coeli, più di 500 degli
oltre 1.600 reclusi nel nuovo complesso di Rebibbia e oltre 100
dei 400 di Rebibbia Penale.
Cagliari. Secondo Gianfranco Pala, direttore del carcere
cagliaritano di Buoncammino, degli attuali 476 detenuti ne
resterebbero circa 250, includendo nel calcolo anche i
trasferimenti alle colonie penali di Isili, Is Arenas e Mamone.
A uscire per effetto del provvedimento sarebbero almeno 150
detenuti: i primi saranno i piccoli spacciatori di stupefacenti,
i condannati per furto o rapina impropria, che costituiscono la
gran parte della popolazione di Buoncammino e ne determinano il
sovraffollamento.
Gli effetti indiretti del provvedimento. Oltre alle
scarcerazioni, sarà necessario accertare anche gli effetti
indiretti dell'indulto: molti detenuti, infatti, grazie allo
sconto di pena avranno diritto alle misure alternative alla
detenzione come l'affidamento ai servizi sociali o la
semilibertà. Un'enorme mole di lavoro, dunque, per gli uffici
penitenziari, che dopo l'input dell'autorità giudiziaria, che
ordinerà le liberazioni, dovrà valutare le singole posizioni
giuridiche.
27 luglio
Lavoro mortale
Cuneo: Davide
Galliano, 15 anni, precipita dentro un cantiere
Un ragazzo di 15 anni
è morto in provincia di Cuneo sabato scorso, cadendo da un muro di
contenimento di un cantiere stradale. Davide Galliano lavorava
insieme al fratello. «Questa morte silenziosa Davide ci preoccupa
più delle altre - dice Pietro Mercandelli (Anmil) - perché sapevamo
già che sul lavoro continuano a morire molti minorenni, ma non
eravamo pronti a pensare che si può anche cadere sul lavoro a 15
anni anni senza fare notizia, nell'indifferenza generale».
Simav
Pressioni sui
lavortori prima dello sciopero
La Fiom denuncia
«inaccettabili pressioni sui lavoratori in vista dello sciopero
indetto per la giornata di martedì 25 luglio». La Simav è un'Azienda
di servizi per l'industria attiva sul territorio napoletano. Martedì
25 luglio, si apprende dal comunicato, i lavoratori della Simav
«effettueranno 8 ore di sciopero» nell'ambito della vertenza
relativa all'accordo integrativo aziendale. Tale sciopero è stato
annunciato «con ampio preavviso» e, comunque, è stato indetto
«all'interno delle regole di normali relazioni sindacali». Il
comunicato qualifica quindi come «inaccettabile qualsiasi tipo di
intimidazione o di pressione nei confronti dei partecipanti alla
mobilitazione».
«Noi sahrawi
reietti del mondo»
Parla Aminatou Haidar,
militante storica del Sahara occidentale, ex desaparecida nelle
carceri marocchine. «L'Europa ci sta abbandonando per compiacere
Rabat»
Stefano Liberti
«Sono disposta a
passare anche 20 anni in carcere pur di lottare per il rispetto dei
diritti umani nel Sahara occidentale». Simbolo della resistenza del
popolo sahrawi, Aminatou Haidar ha uno sguardo dolce, sospeso tra la
mitezza della madre di famiglia e la fierezza dell'attivista che non
si piega, nonostante i lunghi anni di carcere, le torture,
l'esperienza della «scomparsa». Perché Aminatou è un'ex desaparecida;
aveva appena vent'anni quando, nel 1987, venne chiusa per tre anni e
mezzo in un centro di detenzione ad Al Aaiun - capitale del Sahara
occidentale occupato - all'insaputa della sua famiglia che la dava
per morta. Nessun processo; nessuna accusa. La sua unica colpa:
essere una donna sahrawi, fiera della propria identità.
La sua voce pacata
stride con il tenore del suo racconto. «Eravamo 364 detenuti,
ammassati in celle minuscole e insalubri. Spesso ci picchiavano.
Nessuno sapeva dove eravamo». Sono gli anni bui di Hassan II, il
monarca despota che aveva eretto la repressione a sistema di
governo. I militanti sahrawi sono arrestati in massa e fatti
scomparire in bagni penali segreti. Fuori, infuria la guerra tra il
Fronte Polisario, che lotta per l'indipendenza del Sahara
occidentale, e i militari di Rabat. Finché, nel 1991, viene firmata
una tregua: con la supervisione delle Nazioni unite, le due parti si
impegnano a sottoporre la sorte del'ex colonia di Madrid - occupata
dal Marocco nel 1975 - a un referendum. I detenuti sono liberati;
un'ondata di euforia si diffonde tra il popolo sahrawi; l'Onu
dispiega una missione per organizzare il voto. Ma è solo un fuoco di
paglia: presto si capisce che Rabat farà di tutto perché la
consultazione non abbia luogo. La colonizzazione del territorio
sahrawi prosegue: enormi fondi vengono destinati allo sviluppo delle
città del Sahara occidentale, segno che il Marocco è poco disposto
ad abbandonare i luoghi. I sahrawi aspettano, in un limbo che vede
le famiglie divise da un muro impenetrabile; alcuni sono rimasti
nella parte occupata, altri si sono rifugiati nei pressi di Tindouf,
in Algeria, ammassati in campi profughi privi di tutto.
L'attesa si fa lunga;
i malumori crescono. Fino al maggio 2005, quando improvvisa esplode
la rabbia di Al Aaiun. Inizia l'Intifada sahrawi; le manifestazioni
si susseguono. La repressione riprende il suo corso: ripartono le
torture, gli incarceramenti, le violenze; ad ottobre il militante
Lembarki Hamdi Salek è pestato a morte dai gendarmi marocchini.
Aminatou è ancora in prima linea, insieme a giovani attivisti nati
sotto l'occupazione marocchina. Finisce di nuovo in carcere;
sottoposta a un processo farsa, è condannata a sette mesi per
«costituzione di banda criminale».
Hassan II è morto; il
mondo è cambiato. I sahrawi sperano in una presa di posizione della
comunità internazionale. Nulla accade. Anzi: ansioso di ricucire i
rapporti con Rabat - deterioratisi durante l'«era Aznar» - il
governo Zapatero abbandona la tradizionale linea pro-sahrawi.
Auspica una soluzione negoziata; appoggia il progetto di Rabat di
una larga autonomia. «Dietro a questo voltafaccia ci sono precisi
interessi economici», denuncia Aminatou. «La Spagna ha interesse a
mantenere buoni i rapporti con il vicino per ottenere un comodo
accordo sulla pesca. Ha svenduto i sahrawi sul tavolo delle
opportunità, dimenticando le responsabilità giuridiche, morali e
politiche che ha verso il nostro popolo». Sullo sfondo c'è la
questione di Ceuta e Melilla, avamposti coloniali spagnoli in
territorio marocchino di cui Rabat rivendica la sovranità. E la
grande ossessione europea: l'immigrazione. Per convincere il Marocco
a svolgere l'ingrato compito di gendarme per conto di Schengen,
bisogna pur offrirgli qualcosa: l'Europa intera - su impulso
spagnolo e francese - chiude un occhio sulla repressione nel Sahara
occidentale.
«L'unica nostra
speranza è l'opinione pubblica europea. In Spagna, ma anche in
Italia, c'è un vasto movimento di simpatia nei nostri confronti.
Speriamo che riesca a smuovere i governi», continua la donna. Oggi
Aminatou è affetta da gravi mal di testa e da un'otite permanente,
lascito delle manganellate ricevute durante l'ultimo arresto, nel
giugno 2005. Quando tornerà a casa, dopo un periodo di cure in
Spagna, verrà probabilmente incarcerata di nuovo. Ma la cosa non
l'intimorisce: «Sono disposta a passare anche altri 20 anni in
prigione per ottenere il rispetto dei miei diritti. È una battaglia
troppo importante».
Madrid si toglie
i «punti neri»
La legge di Zapatero
sulla memoria ordina allo stato e «raccomanda» alla chiesa: via i
simboli del franchismo
Andrea De Benedetti
Trent'anni abbondanti
dopo la morte di Franco la memoria di Spagna è un enorme contenitore
grigio in cui, ben visibili, si possono ancora trovare tracce
consistenti di rifiuti non riciclabili che la storia non è ancora
riuscita a smaltire: statue, cippi, targhe, scritte, fotografie
distribuiti in ogni angolo del paese che commemorano generali e
generalissimi, uomini e donne caduti «dalla parte sbagliata», sogni
di imperi coloniali mai del tutto sopiti.
Censire tutti questi
monumenti alla dittatura è opera improba. Si sa solo che sono tanti
e ingombranti. Più di mille, dice qualcuno. In Rete esiste persino
un forum apposito (http://www.nodo50.org/foroporlamemoria/simbolos_franquistas.php),
dove volenterosi cittadini documentano con fotografie e
testimonianze personali la presenza ancora capillare di ricordi che
per metà del paese sono imbarazzanti e per l'altra metà decisamente
oltraggiosi.
Da anni, il paese
discute di che fare con questa spazzatura della storia: conservarla
a futura memoria, dismetterla o rimuoverla, nel senso psicanalitico
del termine? La transizione mai terminata, il lutto eternamente da
elaborare hanno spostato sempre più in là la data della resa dei
conti, una resa dei conti necessaria per suturare una ferita ancora
viva nel paese e che, nondimeno, secondo alcuni potrebbe
ricominciare a sanguinare non appena qualcuno osasse toccarla.
Persino Zapatero, coraggiosissimo su altre questioni, ha dimostrato
in questo terreno timidezza e disagio, come se avesse paura di
riesumare un corpo ancora vivo. E come lui, anche Felipe González,
che si era ben guardato, nei quattordici anni al potere, di scalfire
il tetro ologramma di simboli lasciato in eredità dalla dittatura.
Il «disegno di legge
sulla memoria storica» faceva comunque parte del programma di
Zapatero e la sua bozza è pronta da almeno un anno. Ancora a gennaio
il premier aveva promesso di approvarlo entro giugno. Invece il
progetto è ancora lì, chiuso in un cassetto, da cui uscirà nei
prossimi giorni, giusto in coincidenza con l'inizio delle vacanze,
come si conviene a tutti i provvedimenti socialmente più
controversi.
Per il momento, i
rapporti elaborati dal ministero degli interni e dalla
vicepresidenza del governo prospettano soluzioni leggermente
contraddittorie. Per quanto riguarda i simboli franchisti, il
governo spagnolo è giunto alla conclusione che non si può proibire a
nessuna amministrazione comunale di conservare, nella toponomastica
cittadina, le strade dedicate a militari golpisti. In cambio, solo
una generica raccomandazione alle autorità locali e regionali di
eliminare tutti i simboli e monumenti celebrativi dei militari
golpisti e che esaltino lo spirito del colpo di stato del 1936.
Tra i destinatari dell'esortazione, anche la Conferenza episcopale
spagnola e le sue chiese (che peraltro sono del tutto autonome
rispetto allo stato e non sono dunque tenute a rispettare le sue
raccomandazioni), dove figurano tuttora lastre commemorative
dedicate «ai caduti per Dio e per la Spagna» tra i falangisti.
Tale raccomandazione
avrà però carattere di ordine tassativo per quanto riguarda gli
organi statali, che dovranno rimuovere targhe, monoliti, busti e
quant'altro sia ricollegabile all'ideologia franchista.
Laddove l'interesse culturale o storico consigliasse di non
distruggere il monumento, come nel caso della Valle de los Caídos
(dove sono sepolti Franco e Primo de Rivera), la raccomandazione è
di collocare in un luogo ben visibile un testo dove si spieghi che
cosa sono state la dittatura e la repressione.
Altro punto chiave,
anch'esso risolto con un mezzo pastrocchio, è quello delle sentenze
sommarie dei tribunali franchisti, che causarono la morte di
migliaia di civili e militari. I condannati saranno riabilitati
civilmente e moralmente ma non sarà sancita la nullità dei processi,
come chiedevano Izquierda Unida, i catalanisti di sinistra di Erc, e
persino il procuratore generale Conde Pumpido.
Contrarissimo alla
legge, come era da prevedere, il Partido Popular, dalle cui file,
ormai da anni, si porta avanti un'operazione di oblio programmatico
che, in ultima istanza, avrebbe dovuto culminare in una ripartizione
fifty-fifty dei torti e delle ragioni. Non succederà, per fortuna.
Nelle strade seimila
tonnellate di rifiuti e colonne di immondizia alte 5 metri. Roghi e
rivolte
I prigionieri
della spazzatura
Napoli assediata dai
suoi rifiuti
Mancano le discariche.
Ma i Comuni non le vogliono nei loro territori
di ATTILIO BOLZONI
NAPOLI
- Per tre volte ha provato a infilarsi nella solita strada, quella
che porta alla tangenziale. E per tre volte il vigile urbano Nicola
Di Bonito è tornato indietro. "C'era una barriera alta quattro o
cinque metri e lunga venti, da lì non si poteva passare più, ho
preso un'altra strada contromano e così ce l'ho fatta a uscire da
casa", racconta mentre ci accompagna alla montagna che butta fumi e
veleni. Quelli come Nicola, qui li chiamano "i prigionieri della
monnezza". Qui è Napoli, Napoli che affoga nei suoi rifiuti.
Quella strada ormai è
a senso unico, è una corsia sola, l'altra è una striscia che scende
e sale da Pozzuoli a Toiano e poi ancora giù a Monterusciello,
quattro o cinque chilometri di sacchi che bruciano, ferraglia,
legni, lattine di pomodoro, copertoni, vetri, cassette di frutta,
cartoni, bottiglie, una fogna a cielo aperto che si arrampica fino
alla casa di Nicola e di altre trecento famiglie.
Erano tutti
intrappolati là sopra in via Cupa delle Fescine, accerchiati dalla
spazzatura, isolati da giorni. Poi qualcuno ha mandato le ruspe e
spostato la montagna di qualche metro per aprire un varco e farli
passare. Ma la "monnezza" l'hanno lasciata. È ancora lì, più alta e
puzzolente di prima, pressata, tutta schiacciata sui cancelli di un
cantiere. Forse verranno tra una settimana a spazzarla via, in
questa contrada segnata sulla mappe come "il parco dei fiori". O
forse verranno fra un mese, a caricarla sui camion e seppellirla da
qualche parte.
Siamo partiti dai
Campi Flegrei e siamo arrivati ai piedi del Vesuvio, quaranta
chilometri di roghi e di rivolte, una bidonville che si allunga come
un serpente, cinque o seimila tonnellate di immondizia che
marciscono nei vicoli e sulle piazze, la paura di epidemie, i vigili
del fuoco che corrono a spegnere gli incendi, blocchi stradali,
discariche che non ce la fanno più a sopportare gli avanzi della
grande Napoli.
È un tanfo che
soffoca, che copre l'odore del mare da Mergellina a Bagnoli. Auto
sprofondate tra buste fradice, garage sbarrati dai cassonetti in
fiamme, viali che sono gigantesche pattumiere. Una mattina li
svuotano e poi per settimane la "monnezza" resta ad appestare
l'aria, non passa nessuno a prenderla.
I camion da almeno
trenta giorni non vanno più in via Parini a Monterusciello, città
nata per accogliere i terremotati di Pozzuoli, quelli del bradisisma
dell'83. Ogni palazzo ha il suo albero dove scaricare, ogni
quartiere ha il suo inferno di odori, le sue mosche, la sua diossina
sprigionata dall'ultimo incendio. Sono gli abitanti che danno fuoco
alle montagne. Scendono per strada e lanciano l'assalto. "Lo
facciamo di media una volta ogni tre o quattro settimane, così
arriva la polizia e dopo qualche ora il Comune manda le pale per
raccogliere tutto", dice Alfredo Lettieri, uno dei disperati di via
Parini.
Se non c'è rivolta,
non c'è raccolta di rifiuti nella grande Napoli. Le donne di via
Parini mostrano le ricevute di pagamento della tassa
dell'immondizia: 196 euro l'anno per un appartamento di 67 metri
quadrati. Un salasso. Più cara che al centro di Roma. "Noi paghiamo
regolarmente ma loro vengono solo quando diamo fuoco a qualcosa",
urla Assunta Iaccarino al ventesimo giorno di attesa di una pala. A
Reginelle è anche peggio. Nemmeno con la rivolta ce le mandano là
sotto le ruspe e i camion.
All'inizio della
settimana hanno portato via qualche tonnellata di pattume a
Mergellina e pure a Fuorigrotta. A Scampia, c'è voluto il monito del
cardinale Crescienzio Sepe per vedere le strade sgombre. Nella
parrocchia del Buon Rimedio, il capo della chiesa napoletana ha
alzato la voce: "Questa città è un dono di Dio, si dovrebbe sentire
profumo di mare e invece giro per le strade e non è possibile vedere
quello che c'è... Puliamola all'esterno Napoli, se vogliamo che sia
pulita dentro". Il sindaco Rosa Iervolino gli ha dato ragione.
Sfidando le ire degli ambientalisti ha promesso un
termovalorizzatore, però non sa ancora in quale punto della città
potrebbero costruirlo. Non c'è più spazio a Napoli.
L'assessore comunale
alla Nettezza urbana Gennaro Mola ogni sera controlla tabelle, fa i
suoi conti. Ha calcolato che negli ultimi tre giorni la città è
stata liberata di quasi 5 mila tonnellate di rifiuti. Il capo della
Protezione civile Guido Bertolaso tornerà a Napoli venerdì, vuole
scoprire quando e se finirà l'"emergenza".
Ha già incontrato i
prefetti della Campania e il governatore Bassolino. Mancano le
discariche. Ma i Comuni non le vogliono nei loro territori. Si
ribellano. E così, in questa caldissima estate, sta ridiventando
tutta una discarica la grande Napoli. L'altro giorno ne è tornata
parlare la stampa estera. "Si cammina sui sacchetti neri", ha
scritto l'Irish Times la mattina dell'inaugurazione del volo diretto
Dublino-Napoli dell'Aer Lingus.
Per andare nei paesi
sotto il Vesuvio bisogna passare dalla marina. Se tira vento i
sacchetti di plastica galleggiano tra le onde, quando si arriva tra
Barra e Sant'Erasmo tutto rimane inesorabilmente a terra. Altre
montagne che bruciano. Cento metri di immondizia, cinquanta metri di
fetore e poi altri cento metri di cumuli. Un paesaggio urbano da
brividi. Fino a San Giovanni a Teduccio dove c'è l'autoparco C
dell'Asia, l'azienda speciale per l'igiene ambientale di Napoli. Ci
sono sempre camion fermi e stracolmi, gli autisti stanno per ore lì
ad aspettare un ordine, il via libera per rovesciare il loro carico
in qualche buca.
Ecco Ponticelli. Sopra
le sue case corre un'altra tangenziale. È un altro sfacelo. Via
Botteghelle, sotto i ponti non si passa più neanche a piedi, i
marciapiedi sono un tappeto di rifiuti, anche qui le strade hanno
una corsia sola. E dopo Ponticelli c'è Volla, dopo Volla c'è Cercola
e poi Terzigno. Sulla statale numero 268 c'è stato il fuoco più
grande. Dicono che era lungo 7 chilometri.
Dicono che ancora un po' e divorava anche Napoli.
Legambiente presenta
il dossier sullo stato di salute del mare
Nel 2005 crescono
abusivismo, inquinamento, pesca di frodo. Coste ferite da fogne e
cemento
Ecco il "Mare
Monstrum" d'Italia
ROMA - Cemento
illegale, scarichi fognari, violazione del codice di navigazione. La
lista di mali che affliggono il mare italiano parte da qui ed il
mare nostrum dell'impero romano diventa il "Mare Monstrum" descritto
dal rapporto annuale di Legambiente che si riferisce al 2005. E'
diminuito, rispetto al 2004, il numero complessivo delle infrazioni,
ma sono aumentati gli illeciti nel settore dell'inquinamento e della
depurazione, più che raddoppiati rispetto all'anno scorso (+63%).
I reati accertati da
carabinieri del Noe, Guardia di Finanza, Corpo forestale e
Capitanerie di porto continuano a seguire un andamento altalenante.
Dopo essere cresciuti tra 2003 e 2004, sono tornati a scendere nel
2005 (16.036), un calo, rispetto all'anno precedente, del 16,09%.
Quattro le voci esaminate da Legambiente: abusivismo costiero e
demaniale, inquinamento da scarichi illegali, pesca di frodo,
violazioni del codice della navigazione.
Preoccupante, secondo
l'associazione ambientalista, il trend di crescita degli illeciti
legati alla depurazione e agli scarichi fognari, che passano da
1.406 nel 2004 a 2.235 nel 2005. La regione capofila è sempre la
Sicilia, con 3.260 reati accertati (in flessione del 13,83% rispetto
ai 3.783 del 2004). A seguire Campania (2.574 infrazioni), che sale
dalla terza alla seconda posizione e la Puglia (2.375 infrazioni),
che passa dalla seconda alla terza posizione.
La classifica
regionale cambia considerando il rapporto tra infrazioni accertate e
chilometri di costa. Sul podio più alto la Campania, con 5,48
infrazioni per km, seguita dal Veneto con 6,43 infrazioni che passa
dal primo al secondo posto della lista nera. Al terzo il Molise
(4,12 reati per km).
Secondo Legabiante
muta anche il fenomeno dell'abusivismo edilizio: "Non ci sono più i
miseri rustici tirati su in una notte o appartamenti monofamiliari -
denuncia Sebastiano Venneri di Legambiente - la nuova frontiera è
l'abusivismo di lusso" e regina del fenomeno, secondo le
rilevazioni, si conferma la costiera amalfitana.
La notizia fornita a
"Gay Help Line" da una coppia di uomini che lavoravano insieme in un
centralissimo bar della capitale
Roma, la
denuncia di due gay "Licenziati perché omosessuali"
L'Arcigay: "L'episodio
è gravissimo, ma ancora più grave è che in Italia non ci sia nessuna
legge che tuteli i gay"
ROMA - "Licenziati
perchè gay". La denuncia è stata inoltrata a "Gay Help Line", da
Marco Carbonaro, direttore di un bar a Roma, e dal suo compagno,
Aldo Pinciroli, rimasti senza lavoro dall'oggi al domani, senza
"nessuna valida giustificazione".
Come spiega Marco
Carbonaro, la vicenda ha inizio quando viene assunto al bar a Roma,
in galleria Alberto Sordi, che "non aveva un direttore da oltre un
anno". Per questo, "il lavoro da fare è molto fin dall'inizio". I
primi risultati, però arrivano in fretta: "I commercianti della
galleria - racconta Carbonaro - oltre a complimentarsi per il lavoro
che stavo svolgendo, hanno anche ricominciato a frequentare il caffè
che, prima del mio arrivo era molto caotico".
Il lavoro nel bar in
galleria procede bene fino a qualche giorno fa, quando "il general
manager - dice Carbonaro - mi ha comunicato la necessità di assumere
altro personale, dato l'aumento di lavoro dell'ultimo periodo e io
gli ho proposto di fare un colloquio ad Aldo Pinciroli (il mio
compagno da oltre due anni). Che la scorsa settimana è stato assunto
come barman".
Così i due iniziano a
lavorare insieme nel bar e "in quest'ultima settimana - come precisa
Carbonaro - è stato per molti evidente l'esistenza della nostra
relazione, senza che ciò inficiasse il lavoro". Fino a ieri, quando,
aggiunge, "mi hanno comunicato che non sono in linea con la
filosofia del bar e che sono licenziato". E anche Aldo è stato
licenziato, senza "nessuna valida giustificazione".
"L'episodio denunciato
da Marco Carbonaro è gravissimo - ha dichiarato il presidente
dell'Arcigay di Roma, Fabrizio Marrazzo - ed è l'ennesima
dimostrazione di quante discriminazioni ci siano ancora nei
confronti degli omosessuali".
Ma l'Arcigay ritiene
ancor più grave "il fatto che in Italia non ci sia nessuna legge che
tuteli i gay da questo tipo di situazioni. In tema di diritti
omosessuali - aggiunge Marrazzo - siamo il fanalino di coda
dell'Europa e, laddove manca lo Stato, siamo costretti ad aiutarci
tra di noi".
Intanto, da quando è
stato attivata, quattro mesi fa, la GayHelpLine, il numero verde
nazionale di supporto e assistenza per le persone gay e lesbiche,
finanziato dal Comune e dalla Provincia di Roma, sono arrivate oltre
10mila telefonate di denuncia.
25 luglio
Denuncia di
Confesercenti nel rapporto 2006: "Ancora racket e usura insieme a
nuove attività". E nasce "il criminale dalla faccia pulita"
Fatturato da azienda
leader per la mafia, da commercio e imprese 200 milioni al giorno
Aumentano i
traffici dell'agromafia, guadagni per 7,5 miliardi l'anno
ROMA - Le mani della
mafia sul commercio e le attività imprenditoriali, per un giro
d'affari di 200 milioni di euro al giorno. Il rapporto 2006 della
Confesercenti, "Sos impresa", mette in luce i consistenti introiti
che vengono alla criminalità organizzata da attività all'apparenza
lecite, come commercio, turismo, ristorazione e grande ditribuzione.
"Ogni giorno 200 milioni di euro passano dalle mani degli
imprenditori a quelle dei mafiosi e di questi 80 milioni sono a
vario titolo sborsati dai commercianti italiani", si legge nel
rapporto, che evidenzia come la mafia abbia raggiunto un fatturato
di 75 miliardi di euro "pari a un colosso come l'Eni, doppio di
quello della Fiat e dell'Enel, dieci volte maggiore di quello della
Telecom".
L'usura e il racket
coprono quasi la metà di questo fatturato: la prima voce movimenta
denaro per 30 miliardi di euro e per i 150 mila commercianti colpiti
rappresenta costi per circa 12 miliardi; la seconda copre un giro di
dieci miliardi e riguarda 160 mila commercianti, costretti a
sborsare un totale di sei miliardi di euro.
Confesercenti
sottolinea con preoccupazione "la capacità delle cosche di
intervenire con proprie imprese nelle relazioni economiche,
stabilendo collegamenti collusivi con la politica e la burocrazia
soprattutto per il controllo del sistema degli appalti e dei servizi
pubblici". E' un'attività, spiegano gli analisti della Confesercenti,
che si sviluppa con la trasformazione della struttura stessa
dell'organizzazione criminale: "Emerge una 'borghesia mafiosa', una
'mafia dalla faccia pulita', costituita da gruppi di imprenditori,
professionisti , amministratori che, in cambio di favori, curano gli
interessi locali dei clan, il più delle volte prendendone le
redini".
Per prelevare denaro e
per reinvestirlo la mafia si infiltra soprattutto nel commercio e
nel turismo, ma la sua organizzazione tentacolare interessa anche
l'industria del divertimento, la ristorazione veloce, i
supermercati, gli autosaloni, i settori della moda e perfino dello
sport.
Sono drammatici i
numeri del rapporto di Confesercenti: in Sicilia, a Catania e
Palermo, pagano il pizzo l'80 per cento dei negozi; a Reggio
Calabria sono soggette all'estorsione il 70 per cento delle imprese,
in Campania è la provincia di Salerno quella dove il fenomeno del
pizzo tocca i livelli maggiori. Per riscuotere ed estorcere la mafia
assolda una manovalanza sempre più giovane e il rapporto sottolinea
come spessissimo ad imporre il pizzo siano minorenni.
E' aumentata inoltre
l'influenza delle associazioni a delinquere nei settori strategici
dell'agricoltura, del comparto ittico e delle carni. L'attività
dell'agromafia frutta alla malavita ogni anno oltre 7,5 miliardi di
euro, attraverso il controllo illecito delle vendite, che obbliga
gli agricoltori a cedere prodotti a prezzi stracciati.
Furbetti un anno
dopo
di Stefano Livadiotti
e Vittorio Malagutti
Fazio ha ancora l'auto
blu e un ufficio galattico. Consorte vuole la rivincita. Fiorani
invece punta ai servizi sociali. E Ricucci è molto dimagrito...
Baci, abbracci e tanta
commozione. Dall'apoteosi mondana giù giù fino alla vergogna del
carcere, la parabola triste di Stefano Ricucci, il furbetto per
antonomasia, si è conclusa così com'era cominciata: nelle braccia
della sua Anna. Cambia solo lo scenario. Il nove di luglio del 2005,
lo sfarzo di villa Feltrinelli all'Argentario aveva fatto da cornice
all'evento rosa dell'estate: le nozze Falchi-Ricucci, la modella e
il finanziere. A un anno di distanza, il 13 luglio scorso, la coppia
è tornata a riabbracciarsi dopo quasi tre mesi di lontananza
forzata. Ma questa volta a fare da testimoni all'evento non c'erano
invitati eccellenti. Il finanziere che tentò la scalata al 'Corriere
della Sera', è uscito dal carcere di Regina Coeli nascosto su un
furgone della Polizia penitenziaria per eludere la folla di reporter
e fotografi in attesa. Era un Ricucci smagrito e depresso, l'ombra
lontana dell'affarista guascone di tante interviste. Tocca a lui
raccogliere i cocci di una stagione di ordinaria follia, demolita a
suon di indagini e intercettazioni telefoniche.
Un anno fa, proprio a
metà luglio, la banda dei furbetti sembrava a un passo dalla meta.
Gianpiero Fiorani con la benedizione del governatore di Bankitalia,
Antonio Fazio, era lanciato alla conquista di Antonveneta. L'Unipol
guidata da Gianni Consorte era pronta all'Opa su Bnl. Ricucci, forte
di una quota del 20 per cento, guardava dall'alto in basso tutti gli
altri soci del 'Corriere', Mediobanca e Fiat comprese. Dietro di
loro una scia di amici e sodali con in prima fila il finanziere
bresciano Chicco Gnutti e l'allora presidente di Confcommercio,
Sergio Billè. Di lì a poco suonò il rompete le righe. Le indagini
dei pm, le dimissioni a raffica, il carcere per alcuni (Ricucci,
Fiorani e il suo braccio destro Gianfranco Boni), per tutti l'addio
forzato a ogni ambizione di potere. Un anno, però, non è passato
invano. Per mesi sottotraccia, schiacciati dall'incalzare delle
inchieste giudiziarie, adesso i furbetti cominciano a
riorganizzarsi. In ordine sparso, con strategie differenti l'uno
dall'altro, pensano al futuro.
Come passa per esempio
le giornate l'ex governatore, quello che fu il regista numero uno
dei furbetti? La sveglia di Mario Pasquini, autista della Banca
d'Italia, squilla ora un po' più tardi di un anno fa, visto che il
suo (tuttora) capo se la prende più comoda. Quasi mai Fazio arriva
prima delle 9 e 30 del mattino nel nuovo ufficio tutto marmi e
stucchi a villa Huffer (sempre in via Nazionale): ascensore
personale e due stanze con bagno privato. In tutto, circa 200 metri
quadrati, ricavati, secondo voci di corridoio, anche dalla
soppressione della sala riunioni degli archivisti dell'Istituto. Lo
Stregone di Alvito (copyright Diego Della Valle) ne dispone in base
a una delibera approvata alla fine dello scorso dicembre dal
consiglio superiore di Bankitalia (13 componenti, con ancora una
salda maggioranza fazista), che gli ha consentito di tenere con se
anche la storica segretaria Maria Antonietta Martini, detta la
zarina. La decisione non è passata inosservata: la Procura di Roma
ha aperto un fascicolo e un'istruttoria è stata avviata dai
magistrati della Corte dei Conti. Pare che lo stesso governatore
Mario Draghi, nella seduta del consiglio di fine giugno, non abbia
fatto granché per nascondere il suo disappunto per la situazione
ereditata.
Indagato dalla Procura
di Milano per aggiotaggio e da quella di Roma per abuso di atti
d'ufficio, Fazio riceve pochissimo. Prima delle elezioni lo andavano
a trovare i parlamentari amici, come Luigi Grillo e Ivo Tarolli, che
cercavano di convincerlo a candidarsi. Oggi, oltre naturalmente al
legale Franco Coppi, a via Nazionale si affacciano solo l'ex
fidatissimo segretario particolare del direttorio (carica abolita da
Draghi) Angelo De Mattia (ormai sull'orlo della pensione), l'ex
direttore della Vigilanza Francesco Maria Frasca e il membro anziano
del consiglio superiore Paolo Emilio Ferreri.
Tutto casa e chiesa,
il pio ex governatore, che nell'estate dei furbetti si lasciava
nottetempo baciare telefonicamente in fronte dall'allora banchiere
emergente Fiorani, ha mantenuto l'abitudine ai weekend nel paesello
natìo di Alvito, che raggiunge con l'auto blu e quella di scorta (la
cui assegnazione non dipende dalla Banca d'Italia, ma dal prefetto).
È li che, martedì 6 giugno, in occasione della festa del patrono San
Valerio Martire, è stato raggiunto dal cardinale Giovanni Battista
Re, prefetto della congregazione per i vescovi. Alcuni ne hanno
trovato la conferma a una voce che voleva Fazio candidato (in
alternativa all'ex governatore della Bundesbank, Hans Tietmeyer) al
vertice dello Ior, la banca vaticana che amministra un patrimonio
dell'ordine dei 5 miliardi e dove nell'estate del 1989 Angelo Caloia
ha preso il posto di Paul Marcinkus. Ma i boatos, forse messi in
giro ad arte per destabilizzare il vertice dell'Istituto (che dopo
tre conferme nell'incarico era in fase di prorogatio), hanno avuto
vita breve: nei giorni scorsi, dopo un colloquio di un'ora e mezzo
con il Papa, Caloia, ha avuto un nuovo mandato. E Fazio continuerà a
passare il tempo studiando i faldoni dei processi.
Chi ha deciso di usare
le maniere forti, nell'ambito delle inchieste giudiziarie aperte, è
Giovanni Consorte. L'ex capo dell'Unipol si è mosso, insieme al suo
(ex) vice Ivano Sacchetti, per ottenere dal Tribunale del Riesame i
43 milioni messi sotto sequestro su richiesta dei pm milanesi. Ma
martedì 18 luglio il sequestro è stato confermato. "Frutto di
normali consulenze a Gnutti per l'operazione Telecom del 2001",
dicono i due manager. "Appropriazione indebita", sostengono i
magistrati. Di più. Colui che fu l'uomo forte della finanza targata
Coop, annuncia rivincite, evoca complotti, contesta in toto le
accuse, trascorre ore ogni giorno per organizzare la sua difesa,
deciso a non arretrare di un passo di fronte alle contestazioni dei
pm. A ben guardare però, l'offensiva sembra diretta più verso gli ex
colleghi che contro le procure. Manager e amministratori ora al
comando della compagnia fino a pochi mesi fa approvavano plaudenti
le mosse del numero uno poi travolto dalle indagini. Difficile,
allora, voltare pagina sul serio. Consorte lo sa. Sa bene che la sua
eredità resta sospesa come un macigno sul nuovo corso di Unipol e
non vuole recitare la parte del capro espiatorio.
Tutto il contrario,
almeno in apparenza, del banchiere Fiorani. Anche lui per anni ha
fatto il bello e il cattivo tempo alla Popolare di Lodi, servito e
riverito da un pool di manager che in buona parte si trova ancora
nella prima linea dell'organigramma aziendale. L'ex pupillo di
Fazio, però, finito agli arresti a metà dicembre, ha alzato fin da
subito bandiera bianca di fronte ai pm. Ha dato disposizioni per far
rientrare il tesoretto accumulato all'estero, pari, si dice, a
un'ottantina di milioni e ha riempito centinaia di pagine di verbali
di interrogatorio. Così, adesso che il processo si avvicina, il più
padano dei banchieri cerca un'uscita di sicurezza. Vorrebbe
patteggiare una pena di tre anni e mezzo chiedendo l'affidamento ai
servizi sociali. La Cooperativa Bergognone di Lodi, che, tra
l'altro, offre assistenza ai disabili, sarebbe già pronta ad
accogliere il manager caduto dal piedistallo. E questa, alla fine,
potrebbe non essere l'unica soluzione. Già, perché nonostante lo
scandalo, le indagini e le perdite per centinaia di milioni subite
dalla banca, Fiorani per molti suoi concittadini resta poco meno di
un benefattore. E certo non ha fatto marcia indietro quel gruppo di
sodali, tutti lodigiani doc, che comprarono azioni Antonveneta per
centinaia di milioni di euro grazie ai crediti della ex Bpl, di cui
si prestarono a coprire le manovre occulte. Nessuno di loro ha tempo
per rimpiangere i bei tempi andati. Anche perché fanno tutti affari
esattamente come prima, soprattutto in campo immobiliare.
E il fraterno alleato
di Fiorani, il bresciano Emilio Gnutti? "Chicco si è fermato ai
box", raccontano gli amici a Brescia alludendo ai problemi di salute
(cuore), imprecando contro la mazzata giudiziaria che ne ha fiaccato
il morale. Spiegano che ormai è fuori dalla mischia. Un pensionato,
quasi. Proprio lui, il condottiero della razza padana che diede la
scalata a Telecom, la vecchia volpe della Borsa con una condanna e
un processo in corso per insider trading. In effetti, il 'Chicco
nazionale', soprannome coniato ai tempi d'oro dai suoi amici
furbetti, si è fatto da parte con una raffica di dimissioni. Ha
lasciato poltrone pesanti come quella di vicepresidente del Monte
dei Paschi di Siena, come anche le cariche nelle società di
famiglia, formalmente affidate al figlio Thomas. Per curare gli
affanni e gli acciacchi di una vita spesa in prima linea, l'ex
patron della finanziaria Hopa trascorre lunghi periodi in un centro
benessere sulle rive del Garda. In città, però, si fa vedere di
rado. Cura la sua collezione di auto di lusso (Ferrari, Bentley e
altre ancora), custodite, a decine, nei due piani di un garage
interrato nella prima periferia di Brescia. Studia progetti per far
crescere il suo Millenium, un centro fitness in verità già grande e
molto frequentato. Ha rinunciato perfino alla Mille Miglia, la gara
per auto d'epoca che è diventata un appuntamento fisso per
industriali, finanzieri e vipperia varia. Quest'anno Gnutti, da
sempre sponsor e concorrente, ha fatto solo una capatina il giorno
del via, a Brescia, l'11 di maggio. Poi più niente, nessuna
apparizione pubblica. Chicco tace. Non lancia proclami di rivincita
alla Gianni Consorte, altro reduce eccellente, e assai loquace,
della stagione delle scalate bancarie. A differenza degli ex sodali
Fiorani e Ricucci, allo scalatore di Telecom è stata evitata l'onta
del carcere. Lui, il problema giudiziario l'ha affrontato a passo di
carica. Si è infilato nel tunnel degli interrogatori a tutta
velocità, uscendone a tempo di record. Giusto un paio di apparizioni
alla procura di Milano, la vigilia di Natale e poi ai primi di
febbraio. Le indagini proseguono. I problemi restano, ma la scelta
del basso profilo offre vantaggi notevoli. Uno su tutti: Gnutti, a
dispetto dell'immagine da pensionato, può continuare a fare affari
in tutta tranquillità. La sua Gp finanziaria, la holding di
famiglia, ha chiuso in utile (9 milioni) il bilancio 2005,
nonostante il sequestro, da parte della procura di Milano, delle
plusvalenze realizzate con la scalata ad Antonveneta. E in
portafoglio ci sono titoli, per esempio oltre 100 milioni investiti
in azioni del Monte dei Paschi, in grado di garantire ottime
plusvalenze. I guai di Hopa, che ha pagato con una maxiperdita di
1,3 miliardi di euro la fine dell'avventura in Telecom, hanno finito
per ricadere soprattutto sui soci eccellenti della holding: Unipol,
Popolare Italiana (ex Lodi), ancora Monte dei Paschi. Ovvero i
compagni di avventure che per primi avevano scommesso su Gnutti
investendo centinaia di milioni. Chicco invece è arrivato a fine
corsa cavalcando i giganteschi profitti realizzati a titolo
personale negli anni degli affari a colpo sicuro, quelli dei giochi
di sponda, spesso finiti al centro delle indagini di Consob e
magistratura, sui titoli Telecom, Unipol, Antonveneta, Bnl. Adesso
la festa è finita (pare), ma il furbetto di Brescia, e con lui un
gruppetto di famiglie che lo seguono sin dai primi passi, può
permettersi di guardare l'atto finale dall'alto di una montagna di
quattrini. Resta da sistemare una partita immobiliare. Palazzi e
terreni sparsi per l'Italia, comprati l'anno scorso per una
settantina di milioni con la Gp finanziaria. Quasi tutti provengono
dal patrimonio della Popolare Italiana (gestione Fiorani) e adesso
Gnutti li ha messi sul mercato. Possibilmente guadagnandoci, tanto
per cambiare.
Sulle speculazioni
immobiliari, oltre che sulle scalate bancarie, i furbetti avevano
costruito la loro rete di affari. Da Consorte a Fiorani, da Gnutti a
Ricucci, tutti hanno fatto fortuna col mattone. Anche il presidente
della Confcommercio, Sergio Billè, inventore della Confimmobiliare
(destinata nei suoi piani a fare da contraltare all'Assoimmobiliare
di Confindustria) assieme ad alcuni immobiliaristi che hanno
occupato le pagine dei giornali l'estate scorsa, da Stefano Ricucci
a Danilo Coppola a Francesco Bellavista Caltagirone.
Rispetto a quei giorni
Billè, che il 10 febbraio è stato sostituito al vertice dei
commercianti, appare oggi dimagrito. Una scelta obbligata, la sua:
ora che non ha più l'auto blu a scorrazzarlo (la scorta, invece,
l'ha sempre rifiutata) Don Bigné, come lo chiamavano i tanti nemici
dai tempi della pasticceria di Messina, deve trovare il modo di
incastrarsi nella Smart della bionda compagna Cecilia.
Indagato per
appropriazione indebita (per la vicenda dell'acquisto a peso d'oro
di un palazzo romano dall'amico Ricucci, di cui è stato testimone di
nozze) e per distrazione dei fondi (per l'uso dei contributi
associativi), Billè s'è eclissato (non prima, però, di aver
impugnato la nomina del successore). Riservatissimo, del resto, lo è
sempre stato: la porta del suo ufficio di numero uno dei
commercianti, che veniva regolarmente setacciato dai bonificatori in
cerca di cimici, poteva aprirla solo lui dall'interno, premendo un
pulsante. Qualche mese fa, arrivato con Ricucci davanti al
ristorante romano di pesce La lampara, era andato in avanscoperta,
trovando attovagliati il direttore dell'agenzia APcom, Antonio
Calabrò, e il responsabile della comunicazione della Confindustria,
Roberto Ippolito. Lesto aveva girato sui tacchi. Mai più s'è visto
al Cnel, dove formalmente rappresenta ancora la Confcommercio (che
sta cercando il modo di scaricarlo). L'unica occasione pubblica in
cui ha fatto capolino è stato il funerale, lo scorso 30 maggio,
dell'amico Lorenzo Necci 'Il Magnifico'. Per il resto, solo rare
capatina al supermercato Dìperdì sotto casa. E qualche breve vacanza
con la compagna: sono stati avvistati alle terme di Fiuggi, a
Venezia e in Portogallo. Quasi sotto silenzio è passato anche il
matrimonio del figlio Andrea, il 29 giugno, con decine di invitati
(c'è chi dice 400) alla festa che si è tenuta dopo la cerimonia a
Villa Miani.
Billè, come altri
furbetti, va dicendo in giro che la sua unica occupazione attuale è
lo studio delle carte processuali. I maligni dicono che continua a
impicciarsi delle cose di Confcommercio attraverso i fedelissimi
Fabrizio Palenzona e Ferruccio Dardanello. Chi ancora lo frequenta
racconta che in realtà è stato tentato di mettere a frutto la lunga
esperienza di Confcommercio per creare una società di consulenza nel
settore del consumo. Idea subito tornata nel cassetto. Così come
sono state respinte al mittente alcune offerte di lavoro ritenute
non all'altezza.
Nessuno sa quante
delle 47 cariche che ricopriva nel mondo dei commercianti sia
riuscito a mantenere. Di certo ha conservato l'indirizzo: via dell'Aracoeli
numero 4. Nel palazzo dove abitano anche il musicista Ennio
Morricone e gli imprenditori Angelucci, Billè occupa un appartamento
di quasi 400 metri quadrati, tenuto in buon ordine da un domestico
peruviano. L'affitto, 110 mila euro l'anno, sostiene di averlo
pagato lui da sempre (la Confcommercio se ne sarebbe fatta carico
solo per i primi tre mesi della sua presidenza). Con la casa è
rimasta a Billè l'incredibile collezione di opere d'arte acquistata
in gran parte con i quattrini dei commercianti e poi ottenuta in
comodato gratuito: alla fine di dicembre del 2005 i finanzieri hanno
impiegato due giorni a catalogare oltre 400 tra mobili e quadri per
un valore complessivo vicino ai 2 milioni di euro. I beni sono stati
posti sotto sequestro e finora Confcommercio non ha potuto
riprenderseli. Billè non ha ancora deciso dove passerà le vacanze.
Ma sembra orientato a evitare una delle sue mete preferite negli
anni scorsi (anche d'inverno): l'isola di Turks and Caicos, ai
Caraibi, dove ha casa l'amico Bellavista Caltagirone. Oggi per il
barone di Montelupo è meglio il basso profilo delle Terme di Fiuggi.
24 luglio
Programma
d'evasione
"Bisogna innanzitutto
combattere la corruzione, fenomeno ancora vivo, come prova il 42°
posto che l'Italia ha ottenuto nel 2004 nella classifica di
Transparency International, l'autorevole Ong indipendente che si
batte contro i fenomeni di corruzione. Daremo maggiore attenzione
sia ai reati connessi all'attività amministrativa, come la
corruzione, sia alla criminalità economica, che falsa le condizioni
di concorrenza e di mercato. Il Codice Etico è uno strumento che
vuole garantire nella sottoscrizione di accordi commerciali il
rispetto dei diritti umani, sindacali. E la lotta alla corruzione,
quale percorso fondamentale in materia di responsabilità sociale
delle imprese e di dimensione sociale della globalizzazione" ("Per
il bene dell'Italia. Programma di governo 2006-2011" presentato
dall'Unione e sottoscritto da tutti i segretari di partito del
centrosinistra nell'aprile 2006).
"L'Ulivo decide di non
cambiare. La proposta di legge sull'indulto approvata
definitivamente in commissione Giustizia il 18 luglio non sarà
modificata in aula. Il provvedimento di clemenza di 3 anni
comprenderà anche i reati contro la Pubblica amministrazione, dalla
corruzione alla concussione all'abuso d'ufficio, e i reati
finanziari, societari e fiscali" (Ansa, 20 luglio 2006).
"Se non lasciamo nel
testo la possibilità di far beneficiare dell'indulto anche Cesare
Previti, Forza Italia non voterà con noi questo provvedimento. E
vorrei ricordare a tutti che il quorum per farlo passare è di due
terzi". (Pierluigi Mantini, capogruppo dell'Ulivo in commissione
Giustizia, Ansa, 20 luglio 2006).
Sahan, quattro
anni di attesa per tornare in famiglia
SE TUTTO andrà bene,
Sahan potrà tornare nella casa dei suoi genitori nell'autunno del
2008, dopo quattro anni e mezzo di attesa. Siccome oggi ha poco più
di due anni, i quattro anni e mezzo corrispondono alla sua intera
esistenza. La colpa di Sahan è essere nato nello Sri Lanka, che poi
è la terra di suo padre, Athula, e di sua madre, Marie Nilanka.
I genitori di Sahan
sono una coppia di immigrati cingalesi entrambi dotati di regolare
permesso di soggiorno: Marie Nilanka da tredici anni, Athula da
undici. Nella primavera del 2004 decisero di concedersi una vacanza
nel loro paese. Partirono assieme alla loro figlia maggiore, Amanda,
e si stabilirono nella casa dei nonni materni, a un'ottantina di
chilometri da Colombo. Marie Nilanka era incinta e nel maggio del
2004 mise al mondo Sahan.
Contavano di tornare
in Italia senza fretta. Ma un evento improvviso e doloroso li
obbligò a modificare bruscamente i loro programmi. Amanda non stava
bene. Rispetto ai bambini della sua età, cresceva meno, molto meno.
La portarono in un ospedale di Colombo e appresero che la loro
figlia maggiore aveva una grave malattia alla tiroide. I medici
parlarono chiaro: "La malattia è curabile, ma non qua. Se avete la
possibilità di trasferirvi in un paese europeo, fatelo subito".
Maria Nilanka e Athula
fecero quello che qualunque genitore avrebbe fatto: andarono di
corsa a un'agenzia di viaggi. In quel momento scoprirono che anche
Sahan era in un certo senso affetto da una malattia. Un morbo
causato dalla legge. Situazioni come la sua non sono previste. Sahan,
a dispetto dei suoi otto mesi d'età, e nonostante sia figlio di
persone che lavorano in Italia da anni, per trasferirsi in Italia
deve seguire l'intera pratica per il ricongiungimento familiare.
Nell'attesa è costretto a restare nello Sri Lanka a casa dei nonni.
La pratica è stata
avviata da Maria Nilanka e Athula il giorno dopo il rientro in
Italia. Prima di tutto hanno saputo che dovevano presentare tutti i
certificati anagrafici tradotti e convalidati sia dal ministero
dell'Interno srilankese, sia dalle nostre autorità diplomatiche.
L'appuntamento all'ambasciata italiana di Colombo, richiesto
nell'ottobre del 2005, è stato fissato per il mese di luglio del
2006.
L'intervento di
"Equatore Onlus", un'associazione della provincia di Mantova che
segue i problemi dell'immigrazione, ha chiarito sia al ministero
degli Esteri, sia all'ambasciata di Colombo, l'eccezionalità del
caso. Ma l'unico risultato è stato un anticipo dell'appuntamento di
pochi giorni. Intanto i documenti tradotti sono scaduti ed è stato
necessario rifarli. Lo scorso 21 giugno, giorno dell'appuntamento
all'ambasciata, l'impiegata addetta alla pratica ha spiegato ai
nonni di Sahan che nella documentazione c'era un errore formale. I
nonni l'hanno corretto, si sono ripresentati, e si è scoperto che
c'era un altro errore. Quindi un altro ancora. Alla terza visita era
finalmente tutto in regola.
Se tutto andrà bene, i
documenti saranno convalidati tra cinque-sei mesi. Poi torneranno in
Italia, in prefettura, e ci vorranno altri due mesi. Quindi si
tornerà a Colombo, alla nostra locale ambasciata, per l'ottenimento
del visto. Attualmente gli appuntamenti per la consegna del del
nulla osta vengono fissati con un anno di attesa e non si conoscono
i tempi per il rilascio del visto. Basta fare un po' di conti e si
arriva all'estate-autunno del 2008. Il ministero degli Esteri può
fare qualcosa?
Già ampiamente
superato il listino consigliato dal gruppo Api-Ip 1,4 euro. Il pieno
sale a oltre 70 euro. Maglia nera alla Campania, male la Liguria
Ischia, boom
della verde: 1,505
Mappa prezzi: più 11%
in un anno
di BRUNO PERSANO
I prezzi medi della
benzina sono aumentati dell'11% in un anno
ROMA - Chi l'ha detto
che la verde a 1,4 euro al litro è un record? Errore. A Ischia, la
benzina costa 1,505 euro, appena sotto il prezzo dell'Olanda, dove
la "verde" è più cara che in tutta l'Europa. A Napoli la soglia
storica dell'euro e 4 fu superata abbondantemente già tre mesi fa.
Come pure a Posillipo e a Mergellina. Stessa musica ad Imperia:
sulla riviera di ponente della Liguria la "verde" costa già 1,447
euro a litro.
Bersani: "Petrolieri
monitorati". Due giorni fa l'Api e l'Ip hanno consigliato di
aumentare ancora una volta il prezzo alla pompa e le associazioni
dei consumatori hanno gridato allo scandalo. Il ministro dello
Sviluppo Economico Pierluigi Bersani ha annunciato che inaugurerà al
più presto un osservatorio dei prezzi e ha ammesso che terrà sotto
osservazione stretta i petrolieri. L'associazione dei consumatori
Altroconsumo ha minacciato che affiggerà manifesti di condanna sui
distributori più cari, mentre il Codacons ha invocato
l'installazione dei "benzacartelloni" per suggerire agli
automobilisti gli indirizzi più convenienti.
Un pieno costa 70
euro. Rispetto ai prezzi medi pagati l'anno scorso, con l'aumento
suggerito dal gruppo Api-Ip, il prezzo di un pieno di un'auto di
media-grande cilindrata sale a oltre 70 euro, l'11% in più rispetto
allo scorso anno. "Ben venga quindi l'idea dell'osservatorio dei
prezzi", ha dichiarato Luca Squeri, presidente di Figisc
Confcommercio, l'associazione che riunisce i distributori - è
utilissimo un monitoraggio dei fattori fondamentali di formazione
del prezzo che si paga alla pompa".
Ancona il prezzo più
vantaggioso. Repubblica.it ha fatto qualche telefonata in giro per
l'Italia per tastare il prezzo della benzina nei distributori.
Niente di scientifico, ma sufficiente per capire come vanno
realmente le cose. A tutti abbiamo chiesto quanto costa la "verde
servita", cioè la benzina erogata dal benzinaio (quella al
self-service costa qualche centesimo in meno). In testa alla
classifica c'é l'isola d'Ischia; in fondo, con il prezzo inferiore,
Ancona. Tra la benzina più cara e quella più conveniente la
differenza è 0,106 centesimi, quasi un litro ogni dieci: un abisso.
Le differenze
geografiche. Come dicono i petrolieri, i prezzi consigliati
risentono delle "differenziali geografiche". Comprare benzina in
città difficilmente raggiungibili costa di più che nei capoluoghi di
provincia. E' una variabile che può incidere sul prezzo al consumo
anche di due centesimi e mezzo a litro. E poi c'è in sovrappresso
per le ore notturne e pure per le autostrade e le tangenziali.
D'altronde lo straordinario dei benzinai costa caro come pure il
pedaggio per raggiungere i distributori in autostrada. Senza
dimenticare che in tre regioni d'Italia, Campania, Molise e Liguria,
la verde costa di più perché le amminstrazioni locali hanno
aumentato le tasse di loro compentenza, le cosiddette accise, per
rimpinguare le entrate finanziarie.
La mappa dei listini.
Ecco perché la benzina costa diversamente da regione a regione; da
compagnia a compagnia; da gestore a gestore. L'Agip di Ischia batte
tutti: 1,505 euro a litro al distributore di via Asolino; poi c'é l'Agip
di lungomare Vespucci ad Imperia con 1,447 e infine l'Ip di via
Medaglie d'oro a Salerno con 1,433 euro a litro. La classifica di
Repubblica.it dei dieci distributori più cari prosegue con l'Agip di
piazza Tumminello a Palermo che vende la verde 1,423; con l'Agip di
Campobasso in via IV Novembre (1,421); con il distributore Agip di
via del Mare a Milano (1,419). Al settimo posto ancora un Agip,
quello di via Claudia Augusta a Bolzano (1,417); e poi l'Ip di Asti
in via dei Partigiani (1,409); l'Agip di via Cristoforo Colombo 34 a
Roma (1,404), e, infine, l'Agip di via Flaminia ad Ancona che, con
1,399 euro a litro, conquista la medaglia d'oro del distributore più
conveniente.
"Guadagniamo 30 euro
ogni mille litri". Per l'associazione dei consumatori Contribuenti.it,
a Napoli si venderebbe la benzina più cara d'Europa. Già tre mesi fa
due distributori in via Nuova Marina e in via de Gasperi, Erg e
Total, vendevano la "verde" a 1,439 euro a litro, ben più alto dello
storico 1,4 consigliato l'altro giorno dal gruppo Api-Ip. "Fanno
bene i clienti a lamentarsi - spiegò allora il gestore della Erg -
ma loro non sanno che il nostro guadagno si limita a 30 euro ogni
mille litri. Tutto il resto se ne va in tasse".
"Serve la benzina low
cost". Vittorio Carlomagno, presidente dell'associazione
Contribuenti Italiani lancia due proposte: "Introdurre subito la
benzina "low cost" a 1 euro e potenziare i controlli tra il prezzo
del venduto e quello consigliato dalle compagnie che di solito viene
irregolarmente annotato sui registri per pagare meno tasse".
20 luglio
Sul commercio
estero l'Italia resta indietro
Pesa l'importazione di
greggio, e il «made in Italy» non riesce più a compensare gli
squilibri che crea nella bilancia commericale
Negativi i dati
diffusi ieri dall'Istat sul «Commercio estero ed attività
internazionali per le imprese 2005». Il rapporto elaborato dall'Ice
(Istituto nazionale per il Commercio Estero) evidenzia un quadro
davvero poco brillante per l'Italia: rallenta la crescita delle
esportazioni (+4% contro il +7,5% del 2004), ma consumiamo anche di
meno, visto che frenano anche le importazioni (+7% contro l'8,4% del
2004). Soprattutto, peggiora sensibilmente il saldo della bilancia
commerciale (-10 miliardi di euro rispetto a -1,2 dello scorso
anno)ed è in diminuzione la quota di mercato estero detenuta dalle
nostre imprese.
Ad incidere
negativamente è l'alto costo dell'approvvigionamento energetico. Il
deterioramento del saldo del commercio estero segnato nel 2005 è,
infatti, integralmente imputabile all'ampliamento del disavanzo
energetico (il saldo del petrolio greggio e gas naturale registra un
peggioramento di circa 11 miliardi di euro). In particolare, la
fattura del petrolio è stata più cara del 41,4% rispetto al 2004,
mentre quella del gas è aumentata del 38%. Sono proprio i paesi
produttori di petrolio, accompagnati dell'immancabile Cina, a
guidare il gruppo dei nostri creditori: con l'Opec c'è uno
squilibrio da 15,1 miliardi di euro (8,3 nel 2004), mentre quello
verso il Celeste Impero raggiunge i 9,5 miliardi (7,4 nel 2004); si
riduce invece il deficit con i paesi dell'Unione europea (da -14,1 a
-12,2 miliardi di euro), mentre migliora l'attivo nei confronti
degli Stati uniti (da +12,4 a +13,2 miliardi di euro).
Petrolio a parte,
l'export italiano comunque «non tira». Calano le vendite dei
prodotti n cuoio (- 3,6%), quelle dei manifatturieri (- 4,4%) e
quelle di macchine e prodotti meccanici (- 1,6%). In controtendenza,
invece, i prodotti agricoli, alimentari e i derivati raffinati del
greggio, che hanno segnato incrementi della quota di esportazioni
sul complesso dei paesi dell'Unione monetaria.
A conti fatti, la
crescita delle esportazioni, che pur si è avuta nel 2005, è stata
inferiore a quella dei paesi concorrenti, cosa che ha determinato
l'assottigliamento della fetta di mercato internazionale per le
nostre industrie.
Secondo l'Ice, la
causa può «solo in parte essere spiegata dalla forza dei paesi
emergenti», proprio perché «il cedimento si è manifestato anche
rispetto agli altri paesi dell'area euro». E' probabile quindi che
il nostro modello tradizionale di esportazione, legato quasi
esclusivamente ai fasti del made in italy, debba essere accompagnato
da politiche che incoraggino l'innovazione e la produzione di beni
ad alta tecnologia. Non è un caso se le esportazioni di prodotti
high tech siano scese ai livelli più bassi dal 1994. A questo
proposito è chiaro l'avvertimento contenuto all'interno del
rapporto: non cadere nella «tentazione di aggirare i problemi
strutturali del sistema economico, cercando di limitarne l'apertura
alla concorrenza esterna». Il protezionismo», si legge, «sia nella
forma di restrizione sulle importazioni che del sostegno alle
esportazioni o delle svalutazioni competitive «sottrae stimoli
all'innovazione e alla crescita e inquina il clima delle relazioni
internazionali. Occorre sapervi resistere». Un po' il contrario di
quanto vanno chiedendo di solito gli imprenditori piccoli e medi,
che non a caso difficilmente fanno innovazione di prodotto.
Lasciano ben sperare,
invece, i «pochi dati disponibili» per il 2006 che «fanno
intravedere una ripresa delle esportazioni» oltre ad «un maggior
potere di mercato di alcune imprese italiane, basati su fattori
qualitativi di competitività». Altro elemento di ottimismo è
l'incremento del valore delle esportazioni del Mezzogiorno che
(trainato in particolare dalle vendite dei prodotti petroliferi
raffinati) cresce dell 11,3% a fronte di un incremento medio
nazionale del 4%.
Accampamento
Parigi
Nella capitale
aumentano i senza fissa dimora, alloggiati dal Comune in tende
montate lungo le strade. Un fenomeno reso più visibile dalle
manifestazioni estive
Anna Maria Merlo
Parigi. Giovedì 20
luglio apre di nuovo «Paris-Plages», un mese di spiaggie artificiali
con attività sportive, sedie a straio, bar e musica sulle rive della
Senna, quest'anno estese sulla rive gauche fino alla biblioteca
François Mitterrand dove è stata appena inaugurata (e subito chiusa,
ma dovrebbe riaprire domani) la nuova piscina all'aperto che
galleggia sulla Senna. Per installare l«Paris-Plages», il comune ha
dovuto però sloggiare gli abitanti abituali delle rive della Senna :
gli sdf (i senza tetto), sempre più numerosi. «I gruppi che sono in
contatto con gli sdf hanno chiesto loro di spostarsi» spiegano al
comune, senza precisare dove.
Chiunque prenda un
bateau-mouche sulla Senna, non può non vedere che tra la tour Eiffel
e Notre Dame, in un percorso dichiarato patrimonio mondiale dall'Unesco,
decine di persone vivono sotto le tende. Sono le canadesi della
marca Quechua che Médecins du Monde ha distribuito quest'inverno.
L'idea era di lanciare un allarme, fare un denuncia per scuotere
l'opinione pubblica, con un'operazione battezzata «igloo». Ma poco
per volta, la città si è abituata alle sue tende. Ce ne sono alle
Halles, davanti e dietro Beaubourg, lungo i canali Saint-Martin e
dell'Ourq, sui grandi boulevard. Médecins du Monde ne aveva
distribuite 300 all'inizio dell'inverno, oggi pare siano salite a
500. «Constatiamo un fenomeno di precarizzazione» afferma Mylène
Stambouli che al comune di Parigi è incaricata delle questioni
dell'esclusione. Gli sdf sono intorno ai 10mila a Parigi. Delle
persone che si arrangiano tra squat, giacigli di fortuna in strada,
alberghetti a basso prezzo, centri sociali. Il comune quest'anno ha
stanziato 50 milioni di euro per evitare la riduzione di mille posti
di accoglienza, come ad ogni estate. Il Secours catholique ha
lanciato una campagna con manifesti per le strade, per far fronte
alla précari-été (un gioco di parole tra précarité e été, estate).
L'operazione «igloo»
comincia ad essere criticata, perché da manifestazione di denuncia
si è trasformata in una soluzione stabile per molti. Secondo Xavier
Emmanuelli, fondatore del Samu social (pronto soccorso sociale),
«inchiodano l'sdf in strada. Un mese in strada, significa tre mesi
di lavoro per il reinserimento. Ma se si abituano, che fare ? ». Le
associazioni che gestiscono i centri di accoglienza segnalano un
calo delle domande. Come se abitare una tenda in strada fosse ormai
considerato una soluzione stabile. La Prefettura invoca la legge : «
Umanamente legittime, le tende pongono un problema di ordine
pubblico e di rispetto dell'ambiente. A Parigi, il camping è
proibito. Difficile tollerare il mantenimento di questo
dispositivo». Gli abitanti protestano, per i fastidi causati da
queste presenze.
Le tende dentro Parigi
sono la punta di un iceberg ben più consistente che si sta radicando
nella regione parigina e che riguarda non più le popolazioni
marginali, come gli Sdf, ma dei lavoratori, per lo più precari, che
con un salario intorno ai 1000-1200 euro non riescono ad ottenere un
appartamentino in affitto. « In cinque anni - denunciano alla
Fondazione Abbé Pierre - le situazioni bizzarre, abitazioni di
fortuna o camping utilizzati come alloggi, si sono considerevolmente
sviluppate». Un'altra associazione che si occupa delle popolazioni
povere, Coup de main, spiega che « dei francesi, integrati ma in
difficoltà, si insediano un po' dappertutto ». I poteri pubblici
fingono di ignorare il problema. Ma alcuni sindaci di comuni dove
sorgono dei camping trasformati in residenze fisse, cominciano a
sollevare la questione. « Ogni terreno aperto tutto l'anno accoglie
dei residenti permanenti» ha rilevato una urbanista, France Poulain,
che ha redatto una «Guida del camping caravanning» nella regione Ile
de France. Le persone che vivono tutto l'anno nei camping restano
nascoste, perché trasformare un luogo di vacanza temporanea in una
residenza stabile è proibito. Molti così hanno per esempio perso il
diritto al voto, perché non possono dare un indirizzo legale.
Secondo un primo censimento di questo tipo di residenza realizzato
dalle associazioni per il diritto alla casa, nel dipartimento 91,
alle porte di Parigi, 1700 vivrebbero in baracche di fortuna. Nel
dipartimento 77, più di 1500 famiglie si arrangiano, in capanne da
giardino o nei camper. In alcuni comuni, un terreno comunale è messo
a disposizione dei «campeggiatori involontari», in mancanza di case
popolari. A La Ferté-Alais, un comune della banlieue parigina, il
municipio ha comprato un camping per rinnovarlo e offrire alle
famiglie che non riescono più a pagare un affitto un alloggio più
decente. I proprietari dei camping mantengono il silenzio -
affittare uno spazio tutto l'anno è illegale - ma si sono buttati
sull'affare. La loro federazione ammette : «Certo, ci sono dei casi.
Nei dipartimenti 95, 78, 77. Provinciali, divorziati, giovani
coppie, famiglie: la maggior parte sono dei lavoratori dipendenti,
esclusi dal mercato degli affitti, perché mancano di garanzie da
fornire al proprietario ».
18 luglio
Terapia d'urto
in corsia
di Daniela Minerva e
Luca Carra
Ricoveri inutili.
Abuso di farmaci. Poi Tac e analisi a più non posso. Così lievita la
spesa e i malati stanno sempre peggio. Ma il sistema per tagliare
c'è. Eccolo
La signora Tita ha 81
anni e a ogni primavera inoltrata, quando a Palermo comincia a fare
caldo, si ricovera per una settimanella: un po' di esami, qualche
flebo, una rémise en forme che alla sua età è sempre opportuna prima
della grande calura estiva. È vero, la signora, ringraziando Dio,
sta benissimo, ma la figlia è infermiera e un letto al Policlinico
non glielo nega nessuno. Così, il suo è esattamente uno dei cinque
milioni di ricoveri 'inappropriati' che l'Agenzia per i servizi
sanitari regionali stima affollino inutilmente gli ospedali
italiani. Con un inutile esborso da parte del Servizio sanitario
nazionale di circa 5.700 milioni di euro l'anno, stando alle stime
della Ageing Society, l'istituto di ricerca diretto da Andrea
Monorchio.
Cinque miliardi di
euro spesi per ricoverare cittadini che non ne hanno nessun bisogno,
che potrebbero cavarsela con un intervento in day hospital, quando
non semplicemente con qualche accertamento diagnostico, e invece
finiscono a occupare un letto che costa circa 650 euro al giorno.
Una follia che le regioni più accorte hanno smascherato, chiedendosi
cosa si celasse dietro ragioni di ricovero del tipo 'alterazioni
dell'equilibrio' (50 mila nel 2003) , 'ipertensione' (110 mila),
'malattie dell'apparato digerente senza conseguenze' (283 mila), e
intervenendo sulle strutture ospedaliere di modo da abbatterle
drasticamente. Li chiamano i '43 Drg non appropriati', burocratese
per indicare che quel tipo di ricoveri non si deve fare. Questo è
avvenuto in Emilia Romagna, in Toscana, in Veneto, in Fiuli, in
Umbria e nelle Marche. Ma non nel Lazio, in Sicilia o in Campania.
Una prassi stigmatizzata dal Dpf di Tommaso Padoa-Schioppa quando
parla dell'"utilizzo improprio dei ricoveri ospedalieri" come uno
degli elementi di criticità che il servizio sanitario deve
correggere. Insieme all'"inappropriatezza di alcune prestazioni",
alla "carenza di servizi di assistenza domiciliare integrata;
l'esorbitante livello di spesa farmaceutica per abitante e
l'insufficiente qualità dei servizi sanitari in alcune Regioni".
Il Dpf così sintetizza
la profonda trasformazione che ha scosso le strutture sanitarie
italiane dal 2001 a oggi, sotto la doppia spinta della attribuzione
alle regioni della tutela della salute, e della necessità di porre
un tetto a una spesa che da anni cresceva all'impazzata e che supera
ormai i 95 miliardi di euro l'anno. Per colpa essenzialmente di tre
voci di bilancio: ospedali (che in media assorbono il 49 per cento
del budget), farmaci (circa il 13) e diagnostica (circa il 20), la
nuova bestia nera degli assessori perché sempre più costosa e ambita
dai cittadini che prendono molto sul serio i richiami a
controllarsi, controllarsi, controllarsi.
Le scelte messe in
campo dalle diverse regioni sono oggi una lente d'ingrandimento che
rivela impietosamente chi ha ragione e chi ha torto, chi ha vinto e
chi ha perso nella partita di tagliare le spese sanitarie
rispettando il mandato costituzionale di garantire a tutti i
cittadini pari diritti sanitari. Con un effetto paradosso assai
sorprendente: gli atlanti della mortalità e della frequenza delle
malattie in Italia mostrano che dove si spende meno si vive meglio e
più a lungo. L'eccellenza abita in Emilia, in Toscana, nelle Marche,
in Veneto. I cittadini soffrono nel Sud del paese, nelle campagne
lombarde e piemontesi.
Oggi, la montagna di
dati messi a disposizione dall'Agenzia per i servizi regionali
smentisce clamorosamente chi invoca generiche ragioni a sprechi e
inefficienze. Rivela perché esplode la spesa sanitaria e come la si
può controllare con una chiarezza cristallina. A partire dalla
favola dell'invecchiamento della popolazione che sarebbe la causa
ineluttabile dell'aumento dei costi, ma che nei fatti, commenta
Cesare Cislaghi, responsabile dell'Osservatorio di economia
dell'Agenzia sanitaria Toscana, "comincerà a incidere seriamente tra
diversi anni. Quello che ora ci fa saltare il banco è il consumismo
sanitario". Ovvero la passione degli italiani per la diagnostica
tanto tecnologicamente avanzata quanto costosa; la fame smisurata di
farmaci; ma soprattutto l'incapacità di molte regioni di
accompagnare le politiche di rigore alla cosiddetta 'territorializzazione',
ovvero la responsabilizzazione dei medici di base, la costruzione di
servizi a domicilio e il conseguente svuotarsi degli ospedali.
14 luglio
Nelle tre pagine
consegnate ai pubblici ministeri il funzionario racconta come
lavorava l'ufficio di via Nazionale
Il memoriale di Pio
Pompa
"Così
controllavamo la stampa"
"Archiviavamo tutto
per prevenire un nuovo Nigergate"
DI CARLO BONINI
ROMA - Non è vero che
Pio Pompa ha poco o nulla da dire. Non è vero che, in queste ore, il
funzionario del Sismi "orecchio di Nicolò Pollari" sappia soltanto
bofonchiare della natura innocua del suo rapporto con Renato Farina,
alias "fonte Betulla". Non è vero che l'ex impiegato Telecom
abruzzese sappia soltanto ripetere la sua "incapacità di spiegarsi"
l'accusa che gli muove la procura di Milano: aver controllato due
giornalisti di "Repubblica". Pio Pompa qualcosa in più l'ha detta.
Meglio, l'ha scritta.
Tre paginette
dattiloscritte, datate 7 luglio, indirizzate agli "illustrissimi
procuratori della Repubblica Ferdinando Pomarici e Armando Spataro",
per una storia che, all'osso, suona così. Il problema del Sismi
aveva un nome: "Repubblica". L'ossessione double-face di Nicolò
Pollari si chiamava "Abu Omar" e "Nigergate".
Per liberarsene, il
direttore del Servizio decide di non risparmiarsi. Viene messa al
lavoro la fabbrica della disinformazione e intossicazione di via
Nazionale 230, ufficio riservato del Direttore. Con un ordine:
raccattare ogni genere di informazione, anche spazzatura. Senza
alcuna distinzione o cernita tra il vero, il verosimile, il falso.
Il Sismi mobilita ogni risorsa. Sicuramente Renato Farina, alias
"fonte Betulla", e con lui "altri soggetti". Con un risultato.
Oggi, l'archivio di
via Nazionale, sequestrato il 5 luglio dalla procura di Milano, è un
pozzo nero la cui apertura toglie il sonno al Servizio.
Pio Pompa - è noto -
si è sin qui sottratto alle domande e alle contestazioni dei
pubblici ministeri esercitando il suo diritto al silenzio. Ma la sua
memoria (controfirmata dall'avvocato Titta Madia) ha indubbiamente
il pregio della chiarezza, lì dove sceglie di dar conto almeno di
una parte di ciò che è accaduto.
Leggiamo. "Lo
scrivente svolge funzioni di dirigente del Sismi con compiti di
analista "Osint" (fonti aperte) e con incarico di rapporti con
persone utili, sempre nel settore Osint". La sigla (Osint) dovrebbe
essere ormai familiare. Non più tardi di martedì, è fiorita sulle
labbra del sottosegretario alla Difesa Lorenzo Forcieri durante la
burocratica lettura che ha dato a Montecitorio di ciò che il Sismi
ha ritenuto di far sapere al Parlamento. Ma ciò che Forcieri non ha
detto o che a Forcieri non è stato detto, Pompa sceglie di scriverlo
con apparente candore.
"E' vero che il
giornalista Farina, come altri soggetti, mi informava in merito alle
notizie che essi legittimamente erano in grado di apprendere sulla
vicenda relativa al presunto rapimento di Abu Omar". E' vero,
dunque, che, quantomeno per Renato Farina, la nostra intelligence
politico-militare, per ordine del suo direttore Pollari, ha violato
la legge istitutiva dei Servizi, lì dove vieta il reclutamento di
"giornalisti". E' altrettanto vero che l'ufficio di via Nazionale
230 aveva avvicinato "altri soggetti", individuati dal Sismi come
fonti "utili a ottenere il massimo delle informazioni sugli sviluppi
della vicenda Abu Omar".
Bene. Ma perché
mettere in moto Farina e questi "altri soggetti"? Scrive Pompa: "Per
prevenire o comunque conoscere preventivamente indebiti attacchi sui
media, già in essere o potenziali, scaturenti da una sinergia tra la
doverosa iniziativa della magistratura e altri interessi perseguiti
da singoli organi di stampa".
La sintassi del
periodo è legnosa, ma ne è chiara la sostanza. Il Sismi aveva
urgenza di sapere cosa bolliva nella pentola delle redazioni e come
questo avrebbe incrociato il lavoro della magistratura. Il Servizio
non intendeva saperlo a giornali "chiusi" in tipografia. Ma a
giornali "aperti" in redazione. Il problema non era reagire alla
pubblicazione di ciò che al Servizio era sgradito, ma "conoscerne in
anticipo" il merito, per poterlo "prevenire".
Pollari voleva sapere
chi avrebbe stampato cosa, e quando, e attingendo a quali fonti.
Meglio: Pollari voleva conoscere innanzitutto le mosse di
"Repubblica". Pompa lo scrive: "Per circa tre anni, il Sismi è stato
al centro di attacchi mediatici insistenti, ingiustificati e
ingiusti per la questione del "Nigergate". E la questione,
emblematicamente grave per gli interessi nazionali coinvolti, rese
necessario elevare il livello di attenzione (...) L'indagine sul
sequestro di Abu Omar rivestiva una notevolissima importanza, perché
alcuni organi di stampa avevano insinuato, anche molto apertamente,
il coinvolgimento di istituzioni nazionali e del Sismi in
particolare".
"Nigergate" e "Abu
Omar", dunque. Leggi "Repubblica" e le sue inchieste. Leggi
soprattutto, che per il direttore del Servizio la misura era colma e
dunque "si rese necessario elevare il livello di attenzione". Ma
come?
Ramazzando ogni
brandello di informazione, la cui qualità è definita dal metodo con
cui quell'informazione veniva raccolta e che Pompa così descrive:
"Nella mia missione, sono obbligato ad acquisire, classificare,
custodire, tutte le informazioni che ottengo, senza distinzione di
genuinità, affidabilità, attendibilità. Si acquisiscono informazioni
utili ed inutili: ciò non significa che anche quelle inutili debbano
essere cestinate o non custodite".
L'archivio di via
Nazionale è dunque pieno di immondizia. Perché l'ordine era che
anche l'immondizia venisse conservata e con scrupolo classificata.
Pompa ci tiene a farlo sapere prima che qualcuno gliene chieda
conto. Ma soprattutto tiene a fare sapere che, fosse per lui quell'archivio
gli andrebbe restituito. Per due motivi. Il primo: "perché, salvo
qualche documento rispetto ai migliaia sequestrati, non riveste
rilevanza per l'indagine in corso".
Il secondo, ai suoi
occhi devastante: "perché la diffusione dell'archivio può nuocere
agli interessi perseguiti da un servizio di sicurezza militare". Ma
quali interessi? Quelli della sicurezza nazionale? O altri?
Annullate centinaia di
prove, duemila studenti spostati di sede. Nel mirino degli ispettori
del Miur gli istituti privati: in bilico 30 licenze di parità
Maturità, pugno
duro del Ministero
Prove annullate e
"private" bloccate
ROMA - Pugno di ferro
del Ministero della Pubblica Isruzione sugli esami di maturità, in
particolare per le scuole private: ventimila ispezioni, cinquanta
prove di maturità annullate, un centinaio di ragazzi ammessi con la
media dell'otto esclusi dagli esami e ben venti proposte di revoca
della parità ad istituti privati per irregolarità. I numeri del
gruppo ispettivo costituito presso il ministero dell'Istruzione
sull'esame di Stato parlano chiaro.
Per la prima volta,
dunque, il Ministero non ha usato mezzi termini nei confronti dei
noti "diplomifici" che, ogni anno, sfornavano studenti modello senza
che, a volte, ne avessero i requisiti.
La task force di 150
ispettori ha vagliato circa 20.000 istituti, ovvero, il 90% del
totale delle commissioni. Alcuni hanno assistito le prove dei
candidati ricoverati in ospedale (10 studenti interni, 7 di licei e
3 di istituti tecnici), altri hanno invece seguito i 15 maturandi
detenuti che hanno sostenuto gli esami nelle case circondariali.
Particolare attenzione
è stata rivolta ai candidati delle scuole private, 45mila nel 2006,
contro i 42mila di 12 mesi fa. Conti alla mano, il 7% in più in un
anno. I controlli hanno scandagliato i documenti prodotti dalle
scuole e i reali requisiti degli alunni per poter essere ammessi
agli esami. E' a questo punto che sono venute alla luce irregolarità
insanabili in 50 casi, per cui il Ministero ha subito proceduto
all'annullamento delle prove di esame.
"L'avvio di questa
operazione trasparenza - commenta il ministro dell'Istruzione
Giuseppe Fioroni - rende un servizio a tutta la scuola, soprattutto
alle scuole paritarie serie che si assumono oneri e onori per
garantire agli studenti e alle famiglie prestazioni di qualità. I
controlli, ovviamente, hanno riguardato tutte le scuole, paritarie e
non paritarie".
Vagliando invece le
residenze dei privatisti (in Italia oltre 10mila studenti, il 2% in
più rispetto al 2005), gli ispettori hanno imposto a circa 2.000
candidati lo spostamento in istituti statali o la riassegnazione ad
istituti delle località di provenienza. "Individuare e rimuovere chi
snatura la parità - ha aggiunto Fioroni - è l'unico modo per dare ai
ragazzi il diritto a un'istruzione di qualità che sia omogenea e
garantita su tutto il territorio nazionale".
Numerosi sono anche
gli studenti che, la notte prima degli esami, hanno rischiato di
dover rimandare la prova di un anno per la revoca della parità in 30
istituti. Il nodo è stato sciolto con il dirottamento dei candidati
in scuole statali della provincia di appertenenza ma non soltanto. I
vari Tar responsabili, dopo aver accolto il ricorso contro il
Ministero presentato dai gestori degli istituti, ne ha riabilitati
alcuni. In 20 casi, però, le irregolarità si sono rivelate così
gravi da indurre la squadra d'ispezione a formulare la proposta di
revoca della parità.
Un'altro fronte di
attenzione si è concentrato sulle prestazioni degli studenti che,
per merito, fanno più anni in uno. Si tratta dei cosiddetti
"saltatori", un fenomeno che negli istituti paritari, negli ultimi
tre anni, ha subito un grande incremento. Qui sono emersi i 100
candidati titolari di una media dell'otto, in realtà del tutto
fittizia che sono stati esclusi dagli esami di Stato.
"Una scuola aperta a
tutti, che vuole valorizzare l'autonomia, deve garantire prima di
tutto la valutazione degli standard di qualità e il controllo del
rispetto delle regole".
13 luglio
Mafia, in
manette deputato di Forza Italia
Giovanni Mercadante
era il medico del boss Bernardo Provenzano. È accusato di
«associazione mafiosa»
Massimo Giannetti
Palermo
Aveva schivato le
manette per ben due volte, in passato, il medico e deputato
regionale di Forza Italia Giovanni Mercadante. L'accusa che ieri
pomeriggio lo ha condotto in carcere è sempre la stessa, ma con
parecchie prove in più sui rapporti, a quanto pare strettissimi, che
il primario del servizio di radiologia dell'ospedale Civico di
Palermo - nipote del boss di Prizzi, Tommaso Cannella - avrebbe
avuto con la cupola di Cosa nostra. Prove che i magistrati della Dda
palermitana hanno raccolto nelle numerose intercettazioni
telefoniche che il mese scorso, nell'ambito dell'inchiesta
denominata Gotha, portarono in carcere una trentina di persone tra
boss e gregari, accusati di aver favorito la lunghissima latitanza
di Bernardo Provenzano. Nell'inchiesta era spuntato ancora una volta
il nome di Mercadante, raggiunto dall'avviso di garanzia che ieri si
è trasformato in ordine di arresto, firmato dal gip Maria Pino.
I magistrati accusano
il deputato azzurro di «aver fatto parte, unitamente ad altre
numerose persone (tra cui diversi boss in carcere o latitanti)
dell'associazione mafiosa Cosa nostra, e per essersi, insieme,
avvalsi della forza di intimidazione del vincolo associativo e della
condizione di assoggettamento e omertà che ne deriva, per commettere
delitti contro la vita, l'incolumità individuale, la libertà
personale e il patrimonio».
Il politico di Forza
Italia - avrebbe ideato anche un delitto d'onore - sarebbe stato
insomma «una creatura» dello stesso Provenzano, di cui sarebbe stato
medico di fiducia. In cambio delle prestazioni sanitarie fornite al
capo dei capi e ad altri boss latitanti nella sua clinica privata,
Mercandante avrebbe ricevuto l'appoggio elettorale di Cosa nostra.
Un sostegno iniziato sin dai primi anni '90, prima con l'elezione al
consiglio comunale di Prizzi, poi al comune di Palermo e nelle
ultime due legislatura al parlamento regionale.
A parlare per primi
della sua collusione con la mafia erano stati negli anni passati due
boss poi pentiti, Antonino Giuffrè e Angelo Siino. Ma in entrambi i
casi le indagini che ne seguirono furono archiviate su richiesta
della stessa procura. Pietro Grasso, procuratore nazionale antimafia
difende quella scelta: «Se Mercadante fosse stato arrestato prima
solo sulla base dei pentiti - dice - avremmo oggi un politico
trasformato in vittima del giustizialismo. Quando, però, gli
elementi sono stati suffragati da altre prove di colpevolezza i pm
non hanno dimostrato alcuna sudditanza e ne hanno chiesto
l'arresto».
L'arresto di
Mercadante, tra i primi degli eletti di Fi con oltre 10mila
preferenze, riapre il capitolo dell'intreccio politica e mafia a
Palazzo dei Normanni. Il governatore Cuffaro tace. E dal
centrosinistra solo amare constatazioni: «Dalle intercettazioni
dell'inchiesta Gotha - commenta Rita Borsellino, - è emerso subito
un sistema politico mafioso consolidato. L'arresto di oggi conferma
quanto sia radicato questo rapporto tra la mafia e certa politica».
Cile/Pinochet
«Si è arricchito
con la "coca nera"»
M.M.
Ha fatto i milioni (di
dollari) non solo rubando all'erario pubblico, contrabbandando armi
e succhiando tangenti. Ora sull'ex dittatore Augusto Pinochet
incombe anche il sospetto di essersi arricchito con il più classico
dei mezzi moderni: la droga. Domenica il quotidiano di Santiago La
Nacion ha pubblicato un servizio sull'ex generale Manuel Contreras,
il primo capo della Dina (la polizia segreta pinochettista) e per
lungo tempo anche il primo (e il solo) militare chiamato rispondere
con il carcere delle atrocità commesse nei 17 anni del regime
pinochettista. Contreras non ha mai perdonato al suo ex-capo di
averlo indicato come il più ovvio dei capri espiatori e quando
Pinochet, dopo il ritorno da Londra nel 2000 ha perso la sua
condizione di «intoccabile» e ha cercato di salvarsi dalla pioggia
d'accuse che cominciava a piovergli addosso scaricando tutte le
colpe sui suoi subordinati, gli mandò anche una lettera aperta
dandogli (con tutte le ragioni) del «fellone codardo» e sfidandolo
ad assumersi le sue responsabilità di capo.
Domenica il generale
Contreras, rimosso nel '77 quando la Dina si rifece un po' di
maquillage cambiando il suo nome in Cni, ha detto di avere
consegnato al giudice Claudio Pavez, che indaga sul misterioso
omicidio, nel febbraio '92 a Santiago, del colonnello dell'esercito
Gerardo Huber, un memoriale in cui sostiene che «gli attivi» di
Pinochet provenivano dal narco-traffico e che la loro
«distribuzione» e «lavaggio» erano maneggiati da membri del suo
entourage familiare. In primis dal figlio dell'ex-dittatore, Marco
Antonio Pinochet, che lavorava mano nella mano con l'imprenditore
cileno di origine siriana Eduardo Bathich e con l'ex biochimico
della Dina Eugenio Berrios. Insieme, sostiene Contreras, negli anni
80 misero a punto un tipo di cocaina, conosciuta come «coca nera»,
molto difficile da annusare per i cani dei servizi anti-droga e che
sarebbe stata prodotta addirittura nel Complesso chimico
dell'Esercito a Santiago. Come il colonnello Huber, anche il dottor
Berrios, che negli anni 70, aveva elaborato il gas sarin con cui la
Dina (e Pinochet) progettavano d'assassinare gli oppositori, fu
trovato cadavere nel '95, su una spiaggia uruguayana. Imbarazzati i
primi commenti del capo dell'Esercito, generale Oscar Izurieta, e
del presidente, Michelle Bachelet: non bastano i reportages sui
giornali, tocca alla giustizia accertare la verità e fare il suo
corso.
Argentina/Patagonia
Il Chubut
rifiuta il «regalo» di Benetton
Serena Corsi
Il governo del Chubut
ha respinto i 7000 ettari che Benetton aveva pomposamente regalato
alla provincia della Patagonia argentina nel novembre del 2005 per
cercare di migliorare l'immagine deteriorata dal conflitto col
popolo mapuche.
L'imprenditore
trevigiano aveva fatto sgomberare violentemente dalle loro terre
diverse comunità indie accusandole di «usurpazione» (e trovando
spesso giudici compiacenti al suo servizio) , dopo aver comprato
900.000 ettari dai governi che negli anni 90 privatizzarono
l'Argentina portandola al collasso del 2001. Nel 2004 il conflitto
forò il muro di silenzio con l'arrivo in Italia di una coppia
mapuche - Rosa e Atilio Curinanco- cacciati dalla propria terra con
l'intervento dell'esercito e dalle guardie private di Benetton. A
Roma, dopo averli incontrati e aver rifiutato qualsiasi accordo
scritto («la mia parola basta») Benetton annunciò «soluzioni al
problema» di cui poi riempì i giornali senza che nulla di concreto
giungesse mai alla porta di Rosa e Atilio.
Nel 2005, intuito che
non era facile piegare la tenacia dei mapuche, Benetton decise di
cambiare interlocutore e annunciò che avrebbe «donato» 7000 dei suoi
900.000 ettari al governo del Chubut, perché poi li distribuisse
agli indigeni. Sapeva che i mapuche avrebbero rifiutato l'offerta
perché «nessuno può regalare ciò che non gli appartiene». Ma non
poteva immaginare che l'istituzione a cui aveva deciso di rivolgersi
per far rimbalzare su tutti i media la propria filantropia decidesse
di guardare in bocca al caval donato, affidando un'indagine
approfondita all'istituto nazionale di tecnologia agricola. E
l'esito dell'indagine non giova all'immagine di Benetton: la terra
regalata è praticamente incoltivabile e per renderla produttiva
sarebbe necessario un investimento sproporzionato. Di tutto l'enorme
latifondo Benetton, la terra «regalata» è, per l'80%, quella con «le
condizioni climatiche più avverse, i venti più forti, le temperature
più estreme e la maggiore scarsità d'acqua utilizzabile per
coltivare».
Condizioni che rendono
impensabile non solo le coltivazioni ma anche l'allevamento.
Quindi, dopo i mapuche,
anche il governo del Chubut ha rimandato al mittente il «regalo».
Incontro urgente
Basta sacrifici
per i soliti noti I sindacati: «Prodi ci riceva»
Cgil, Cisl, Uil
chiedono al governo di essere ricevuti al più presto. La manovra
economica va ridiscussa. Servono altre priorità per evitare la
politica dei due tempi. Paghino i ricchi
Paolo Andruccioli
I sindacati
confederali, Cgil, Cisl e Uil, chiedono il conto al governo Prodi.
La disponibilità nell'accettare l'urgenza di una manovra correttiva
è completa, ma le segreterie confederali ribadiscono il loro secco
no alla politica dei due tempi, con un no chiaro e specifico alla
riproposizione della solita politica dei sacrifici richiesti alla
parte più debole del paese. Per questo, dopo una riunione unitaria
delle segreterie nazionali, ieri i sindacati hanno chiesto un
incontro urgente al presidente del consiglio, Romano Prodi.
L'urgenza dipende dalle decisioni da prendere in tema di politica
economica in vista della realizzazione del Dpef, il documento di
programmazione economica e finanziaria che sarà la base della
manovra per il 2007 e che è stato già varato da palazzo Chigi, senza
alcun tipo di concertazione. Ma l'urgenza della riunione chiesta
ieri dai sindacati è data soprattutto dalle anticipazioni che sono
trapelate in questi giorni sulle intenzioni del governo di
centrosinistra di recuperare risorse finanziarie attraverso tagli al
welfare e in particolare alle pensioni e alla sanità.
Cgil, Cisl, Uil
chiedono in sostanza a Prodi di presentare una proposta organica
dell'esecutivo sull'avvio di una nuova fase di concertazione, che
non deve essere una parola vuota o una formula buona per tutte le
stagioni. Vista la falsa partenza del nuovo modulo. «Bisogna partire
- ha detto Epifani - dalle politiche di sviluppo. Siamo disponibili
ad affrontare la difficile fase economica usando il metodo della
concertazione e dell'equità, che devono diventare la normalità della
pratica di governo: non come avvenuto in questa prima fase». Eppure
la disponibilità esiste. I segretari generali, Guglielmo Epifani,
Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti, hanno spiegato che già durante
l'incontro con il governo il 29 giugno scorso i sindacati avevano
dichiarato la loro disponibilità ad affrontare la delicata fase
economica, con tutti i problemi già sul tappeto. Sulla manovra bis
viene dunque dato un giudizio positivo. Stesso discorso sul decreto
sulle liberalizzazioni. Ma i sindacati confederali temono che la
disastrosa situazione dei conti pubblici determini un'inversione di
tendenza nelle linee guida scelti dall'Unione. Si teme in sostanza
che la necessità impellente di risanare la finanza pubblica metta in
secondo piano le politiche per lo sviluppo e per il rilancio
dell'economia italiana tuttora bloccata. Cgil, Cisl, Uil ribadiscono
in altre parole il loro no alla politica dei due tempi: prima i
conti, poi lo sviluppo.
Il segretario generale
della Uil, Luigi Angeletti, nel corso della conferenza stampa di
ieri, ha confermato la posizione unitaria dei tre sindacati. «C'è
un'idea comune - ha detto Angeletti - la difficoltà del paese è
legata principalmente alla scarsa crescita. Indebitamento e deficit
sono conseguenze e non cause di questa situazione». Anche il
segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, che nei giorni
scorsi aveva rilasciato dichiarazioni di fuoco contro i tagli
annunciati, ha confermato che i sindacati sono in questo momento
saldamente uniti. E che sulla concertazione il giudizio è comune.
C'è anche l'accordo sulla necessità di individuare «misure forti per
la ripresa che non possono essere finanziate tagliando la spesa
sociale, le pensioni, la scuola e il pubblico impiego». Dove trovare
dunque i soldi? Semplice, dicono i segretari di Cgil, Cisl, Uil,
bisogna andarli a recuperare tra quei cittadini che finora non hanno
pagato. Il riferimento è diretto prima di tutto agli evasori
fiscali. Gli esecutivi di Cgil, Cisl, Uil si sono dati appuntamento
per i primi giorni di settembre, mentre prima delle vacanze saranno
organizzate iniziative sul Mezzogiorno e il lavoro nero.
Sul Dpef e sulle
relazione tra istituzioni politiche e parti sociali interviene anche
il presidente della camera, Fausto Bertinotti, che critica il metodo
della maggioranza a cui egli stesso appartiene. «Il Dpef, il
documento di indirizzo della politica economica del paese - si è
chiesto ieri Bertinotti - esce da qualche nottata del consiglio dei
ministri, ma vi sembra ragionevole? non lo è affatto». Bertinotti,
che ha deciso di intervenire sul tema dopo la decisione del ministro
Ferrero di non votare il Dpef nella riunione del consiglio dei
ministri, ha anche spiegato, che il problema è anche il metodo. Sui
contenuti della manovra, fa intendere Bertinotti, forse non si
poteva fare diversamente.
Bossi e la Lega
sempre in bilico: tra l'eversione e il ridicolo
Ma sono in buona
compagnia
L’ultima trovata di
Umberto Bossi è la creazione del Lombardo-Veneto, la macroregione
ricavata dalla fusione della Lombardia con il Veneto, per farne la
locomotiva istituzionale del treno del Nord da trascinare e guidare
verso chissà quale meraviglioso traguardo ‘di libertà’. Come se la
Lombardia e il Veneto languissero sotto il tallone di una feroce
dittatura anziché essere le regioni più ricche d’Italia, dove la
gente è quindi non solo ovviamente libera, ma anche più libera che
in altre regioni. Il lato balordo di questa nuova trovata geniale di
Bossi è che fa a pugni proprio con il concetto di federalismo fin
qui predicato dalla stessa Lega Nord e dal suo grande capo. Bossi
infatti ha sempre predicato il federalismo delle singole regioni,
nello stesso numero in cui esistono oggi, oppure il federalismo
boutade dello scomparso Gianfranco Miglio, che voleva tre
macroregioni, quella del Nord, quella del Sud e quella del Centro da
chiamare Etruria (!). Oggi, con la trovata del Lombardo-Veneto, il
senatùr si dà la zappa sui piedi da solo. Il Lombardo-Veneto infatti
non è l’intero Nord Italia, e quindi dalle nozze delle due regioni
non nascerebbe affatto la macroregione del Nord. Non solo: fondere
due regioni contraddice anche il modello di federalismo tra singole
regioni fin qui proposto.
Il senatùr ha inoltre
abbassato le penne: prima venivano chiamati ‘lumbàrd’ tutti i
padani, compresi i veneti, che oltre a non essere affatto lumbàrd a
dire il vero non sono neppure padani. Se la Serenissima, cioè il
Veneto, è arrivato fino a Lodi, in piena Lombardia, Milano non è mai
arrivata neppure a Verona. Il vescovado milanese è arrivato a
comprendere parti dell’attuale Svizzera, ai tempi di S. Carlo
Borromeo, ma a Milano comandavano gli spagnoli e non i milanesi.
Oggi il senatùr è costretto a riconoscere pari dignità anche al
Veneto, anzi all’intero Nordest, che peraltro non ha solo a che
vedere col Veneto, ma anche con territori che parlando tedesco e
guardano a Vienna. Nella sua ignoranza della storia Bossi non sa che
al tempo che ora lui definisce beato, quando cioè nel
Lombardo-Veneto comandavano gli austriaci, tra il Veneto della
grande ex Serenissima e la Lombardia dell’eterno comando altrui
c’era una tale rivalità da dover creare due capitali anziché una
sola: e così Milano e Venezia erano ognuna capitale del
Lombardo-Veneto per sei mesi l’anno.
Bossi invoca la
fusione tra le due ricche regioni in base a quanto permette la
stessa Costituzione italiana. Ma come? Non si tratta più della
Costituzione di uno Stato ‘dittatoriale’ quale sarebbe l’Italia
comandata, sfruttata e corrotta dalla solita ‘Roma ladrona’? Come si
vede, nella Lega la logica non è una virtù diffusa...
Bossi aveva promesso
che se al referendum avesse vinto il No lui se ne sarebbe andato in
Svizzera. Pare invece abbia cambiato – ancora una volta – idea. Ed
ecco la nuova trovata, che dimostra come l’unica cosa che la Lega ha
di ‘duro’ è l’estrema ignoranza della storia, oltre che, ormai,
anche del senso del ridicolo. Quando Bossi invoca la ‘devolution’
sul modello irlandese o scozzese, ecc., mostra di non sapere un’acca
delle guerre che ci sono state, con devastazioni e decine di
migliaia di morti, tra i vari regni della Gran Bretagna prima di
giungere a quello che si chiama oggi, appunto e non a caso, Regno
Unito. Ispirarsi a Braveheart o a Robin Hood è semplicemente
ridicolo, perché in Italia non c’è mai stato niente di simile.
L’unico nostro irredentismo è stato quello contro il potere
straniero, spagnolo o austriaco o dello Stato pontificio, Stato che
ha contrastato in tutti i modi l’unità d’Italia a partire dalla
possibilità che la Penisola venisse unificata già dai Longobardi.
Ispirarsi al ‘modello
catalano’ è altrettanto penoso. Sia perché è penoso saltapicchiare
da un modello all’altro scimmiottando ora gli spagnoli e ora gli
inglesi o dando corda alle stranezze senili di Miglio, e sia perché
anche la faccenda catalana ha alle spalle cose ben diverse da quelle
nostrane, compresa un lingua che non è quella spagnola e non è
affatto solo un dialetto.
A dire il vero Bossi e
il suo zoccolo duro di camicie verdi non sono gli unici asini in
storia. E’ particolarmente divertente che il signor Vittorio
Emanuele di Savoia abbia offeso in blocco i sardi bollandoli tutti
come ‘inculatori di capre’, e pertanto puzzolenti, se solo si pensa
che la storia dell’unità d’Italia e il gran salto di qualità dei
Savoia sono nati entrambi in Sardegna. Per l’esattezza, sono nati
quando gli allora duchi di Savoia hanno comprato dalla Spagna la
Sardegna solo perché l’acquisto comportava il titolo di re, essendo
l’isola un reame. Grazie alla Sardegna, quelli che erano semplici
duchi, tra i tanti che inflazionavano il titolo in Europa, hanno
potuto diventare una dinastia reale. E quindi aspirare a contare di
più tra le corone del continente. Il resto della storia lo
conosciamo. Ma è sbalorditivo che questo inenarrabile erede dei
Savoia ignorasse il particolare e che lo ignorassero anche tutti i
politici e le ‘grandi firme’ giornalistiche: nessuno di costoro ha
infatti fatto rilevare la gaffe nella gaffe del ‘principe
puttaniere’.
Visto che siamo in
tema di volgarità estreme, riversate a valanga sui giornali dalle
intercettazioni telefoniche della nuova telenovela giudiziaria
italiana, nella puntata precedente del mio blog mi sono dimenticato
di far notare che la volgarità dell’eloquio è ormai un obbligo
imposto dalla televisione. Difficile ci sia un programma o un film
senza parolacce, perfino una trasmissione ben fatta e intelligente
come Zelig non sa resistere alla tentazione di sparare parolacce a
raffica come se portare in tv il linguaggio della strada, o meglio
del marciapiede, sia una conquista, un segno di modernità. Eppure il
turpiloquio in pubblico in Italia è un atto punito per legge. E così
arriviamo all’assurdo che al fregarcene della legge siamo spinti
dalla tv, in primis da quella di proprietà del cavaliere diventato
capo di partito e del governo, e a seguire anche dalla tv di Stato.
Salvatore Sottile, Vittorio Emanuele di Savoia e compagnia bella
parlano in modo orripilante anche perché questo è ormai il modello
di linguaggio cui ci siamo adattati grazie alla tv.
Come è dilagato il
turpiloquio - degno abito espressivo di una subcultura maschilista,
da caserma, cara soprattutto alla destra - così è dilagato il
malaffare e più in generale l’evasione dai doveri imposti dalle
leggi, a partire dall’evasione fiscale. Questo è il motivo per cui a
ogni scandalo, per quanto grave, i politici in blocco si preoccupano
più della privacy degli inquisiti, che essendo di solito personaggi
pubblici non hanno in definitiva lo stesso diritto alla privacy di
un privato cittadino, anziché preoccuparsi dei reati, sempre più di
massa, rivelati dalle inchieste giudiziarie e cercare di rendere
l’Italia più decente.
Un’altra specialità
tutta nostrana è il riflesso condizionato, da vero e proprio cane di
Pavlov, in base al quale ogni volta che la magistratura accusa
qualcuno, specie se potente, questo qualcuno, da Berlusconi a Moggi,
da Cesare Previti a Marcello Dell’Utri, da Bettino Craxi a Vittorio
Sgarbi, da Bossi ad Adriano Sofri fino ad Annamaria Franzoni, questo
qualcuno accusa allegramente la magistratura di avere ordito ‘un
complotto’ contro di lui! Questa accusa però, si badi bene, è una
vera e propria calunnia, dato che ogni volta si scopre che non
esiste – ovviamente – nessun ‘complotto’, ma solo una straordinaria
abbondanza di manigoldi dediti al malaffare o ai reati più svariati.
Si noti anche che la calunnia è un reato grave, da mandato di
cattura obbligatorio e perseguibile d’ufficio, senza cioè che ci sia
bisogno della denuncia del calunniato. Eppure, strano, ma la
magistratura subisce da anni passivamente le accuse più infami senza
mandare in galera o almeno sotto processo i molti che se lo meritano
a pieno titolo almeno per le folli accuse contro gli inquirenti.
La destra e i
forcaioli di varia estrazione invocano sempre ‘la certezza della
pena’, però appena finiscono nei guai i politici, i loro portaborse
o i potenti da vario tipo, scatta il reclamo inverso, e cioè la
richiesta a gran voce della certezza della mancanza di pena. Nei
giorni scorsi ho visto un documentario sulla Lega Nord messo assieme
dal giornalista Marco Barbieri. Vi si vedevano i parlamentari
leghisti Mario Borghezio e Roberto Calderoli comiziare in termini
davvero inammissibili, da codice penale. Il primo a un comizio si è
messo a inveire contro i ‘marocchini di merda’, senza che nessuno
gli presentasse almeno un decimo del conto giudiziario che gli
sarebbe stato presentato se avesse gridato ‘ebrei di merda’. Due
pesi e due misure, che però danno la dimensione del nostro razzismo.
Il secondo, l’ineffabile Calderoli, invocava anche lui a un comizio
l’uso delle forbici per castrare i pedofili e i violentatori di
vario genere. Per giustificare la sua richiesta Calderoli gridava
come un invasato: ‘Se stuprassero le vostre mogli o i vostri figli,
allora l’uso delle forbici non lo condannereste’. Giusto. Forse non
lo condannerei neppure io. Resta però il fatto che i processi non si
celebrano e le sentenze non si emettono in nome di un privato
cittadino, per quanto colpito da violenze e dolori grandissimi, ma
in nome di tutto il popolo italiano. La giustizia degradata a
vendetta privata propugnata da Calderoli&C dimostra che questi
personaggi sono fermi all’epoca della pietra, al feroce occhio per
occhio e dente per dente. Atro che modernità! Per questi amanti
della vendetta, e quindi della violenza camuffata da giustizia,
Cesare Beccaria non è mai esistito. Per loro cioè non esiste il
diritto. Ecco perché non appena finiscono nella merda i loro amici
alla Fiorani o i potenti alla Moggi e alla Vittorio Emanuele o i
piccoli potenti come Salvatore Sottile, si dimenticano di colpo sia
delle forbici che della certezza della pena. E passano invece a
scatenare un tifo da curva sud contro i magistrati.
Tornando alla Lega e
ai ‘padani’, non si capisce il perché della loro spocchia rispetto
il resto d’Italia. Nei giorni scorsi mi ha colpito il contrasto tra
la stazione Termini di Roma e la stazione centrale di Milano. Questa
è ancora un bivacco, sporco e inefficiente, mentre la stazione
Termini è stata trasformata da bivacco – quale in effetti era - in
un centro molto accogliente, dotato di molti servizi, insomma una
sorta di spazioso e luminoso centro commerciale affacciato su
binari. Ma oltre a quella di Milano, fanno pena anche le stazioni
ferroviarie delle altre città del ‘Lombardo-Veneto’, compresa la
stazione di Venezia. Forse servirebbero meno chiacchiere, meno
retorica, e più fatti concreti. Oltre che un maggiore studio: sia
della storia che della realtà. Si tratta infatti, e ben vedere, di
due cose tra loro collegate...
11 luglio
Al gran ballo delle nomine
di Stefano Livadiotti
Si comincia con l'Anas e le
Ferrovie. Poi toccherà ad Alitalia e Poste. Ecco azienda per azienda, tutti i
candidati in pole position
l dossier, riservatissimo, è da
qualche giorno sul tavolo di Carlo Malinconico. L'ufficio del nuovo segretario
generale di palazzo Chigi dovrà esercitarsi in un'interpretazione della legge
Frattini sullo spoils system. Romano Prodi vuole sapere se si può applicare alle
nomine fatte in zona Cesarini dal governo di Silvio Berlusconi. Nel mirino c'è
una dozzina di poltrone tra Enav e Grtn. Alla società per l'assistenza al volo
rischia di fare le valigie un navigatore di lungo corso come Guido Pugliesi (un
tempo con An, oggi sotto l'ala di Pier Ferdinando Casini, e domani chissà),
passato negli anni dalle telecomunicazioni alle assicurazioni, dalla sanità al
trasporto aereo. All'ente gestore della rete elettrica è in bilico Carlo Andrea
Bollino, l'uomo del blackout che lasciò l'Italia al buio il 28 settembre del
2003.
Nella grande partita che secondo i
calcoli del 'Sole 24 Ore' dovrebbe portare nelle prossime settimane
all'insediamento di un centinaio di nuovi manager pubblici potrebbero dunque
rientrare anche incarichi formalmente già assegnati. A gestire tutta
l'operazione è un terzetto che lavora molto sott'acqua. Il primo dei king maker
è l'imprenditore (ramo catering) Angelo Rovati, detto l'Angelo Custode, un
gigante che ha giocato nella Nazionale di basket e vanta una trentennale
amicizia con Prodi, al quale ha curato il fund raising. Nell'entourage prodiano
Rovati rappresenta l'ala più orientata al rinnovamento, quella che ha sostenuto
Antonello Perricone per la direzione generale della Rai e che è stata sconfitta,
con Claudio Cappon, dal cosiddetto 'partito dell'usato sicuro', che ha il suo
capofila nel sottosegretario alla Presidenza Francesco Micheli, manager di
scuola Iri.
Al fianco di Rovati, nel
triumvirato ci sono il rutelliano doc Renzo Lusetti e Maurizio Migliavacca,
plenipotenziario di Piero Fassino. I tre, con i quali si tiene in contatto il
colonnello dalemiano Nicola Latorre, non hanno una sede di incontro
istituzionale. Di più: non si sono mai riuniti. In genere procedono per
consultazioni bilaterali, com'è accaduto per le riconferme di Maurizio Prato in
Fintecna e di Giuseppe Bono in Fincantieri. Qualche volta, però, Rovati fa tutto
da solo. È successo quando è stato scelto Pierpaolo Dominedò per Patrimonio
dello Stato. Davanti alle proteste degli altri, Rovati ha allargato le possenti
braccia: "Così ha deciso Padoa-Schioppa".
In questi giorni il terzetto è
sotto assedio: man mano che il gioco entra nel vivo, cresce l'agitazione tra i
boiardi alla ricerca di una ricollocazione politica. Il più trafelato dei
questuanti, secondo le voci di corridoio, è Luigi Roth. Appoggiatissimo dal
Vaticano (è Gentiluomo di papa Benedetto XVI e Cavaliere di Grazia Magistrale in
obbedienza del Sovrano Ordine di Malta), il capo di Terna (nonché presidente del
collegio commissariale della Fondazione della Fiera di Milano e numero due della
Cassa Depositi e Prestiti) non rischia il posto, perché la sua azienda non
rientra nello spoils system. Semplicemente, vuole di più. Fa un pressing
asfissiante, girando come una trottola in tutti i salotti romani, anche l'ex
Fiat Roberto Testore, che sente traballare la sua poltrona di amministratore
delegato di Trenitalia. Pochi gli danno retta, come del resto accade al
martellante Bollino. E molto in ansia viene segnalato anche il consigliere
Fininvest e presidente dell'Eni, Roberto Poli. Il cambio della guardia al
vertice dell'ente petrolifero non è all'ordine del giorno per il 2006 (e il
discorso vale anche per Enel, Finmeccanica e Cassa Depositi e Prestiti), ma Poli
s'è premurato di far sapere a Prodi & C. che non sente Berlusconi da mesi. Le
grandi manovre, insomma, sono in pieno svolgimento. Ecco come stanno le cose,
azienda per azienda.
La cambiale Catania Per le Fs,
almeno in teoria, l'accordo c'è, sia pure con qualche mugugno della Margherita.
Prevede il nome di Mauro Moretti, considerato il miglior conoscitore della
macchina ferroviaria, nella casella di amministratore della holding. Ad
affiancare l'ex sindacalista della Cgil dovrebbe essere Paolo Baratta, ex
banchiere e poi ministro nei governi Amato, Ciampi e Dini, legatisssimo a Padoa-
Schioppa, di cui è stato compagno di studi. Alla controllata Trenitalia fuori
"l'esubero Fiat" (il copyright è del perfido battutista Giulio Tremonti) Testore
e dentro l'accoppiata Francesco Forlenza (capo del personale di Fs) come
presidente e Giancarlo Laguzzi (oggi alla Sita) come amministratore delegato.
Alla Rfi un altro interno: Michele Elia, braccio destro di Moretti.
C'è però un problema, grosso come una casa. Elio Catania, presidente e
amministratore delegato in quota Forza Italia, scade ad aprile del 2007. E, come
se il mezzo miliardo di perdite accumulato dall'azienda nel 2005 non fosse affar
suo, per togliere il disturbo pretende una buonuscita monstre da 10 milioni
tondi. La patata bollente è sul tavolo del sottosegretario all'Economia Massimo
Tononi, ex uomo Goldman Sachs, già assistente di Prodi, che non è disposto ad
andare oltre la metà della cifra richiesta. "Abbiamo appena aumentato le tasse
sulle stock-options, non possiamo dare 10 milioni a quello", sibilano nello
staff di Prodi. Ma la faccenda è complicata: a levare le deleghe a Catania, che
negli ultimi dieci anni s'è candidato a qualsiasi poltrona libera, potrebbe
essere solo il consiglio di amministrazione. Che però è controllato
dall'opposizione. Resta dunque l'ipotesi estrema: convocare l'assemblea e
sostituire i consiglieri. Oppure offrire a Catania di restare fino a scadenza
sulla poltrona di presidente. Ma difficilmente Padoa-Schioppa vorrà sacrificare
Baratta.
Le strade di Mengozzi Escluso un
improbabile commissariamento, all'Anas le prime candidature sono saltate come
birilli. Quella del dalemiano Antonio Bargone perché c'è già un ds come Moretti
in corsa per le Fs. Quella di Claudio Artusi, direttore generale fino a pochi
giorni fa, per l'opposizione del ministro Di Pietro. La quadratura del cerchio
era stata poi trovata su Andrea Monorchio. Ma l'ex ragioniere generale dello
Stato, che già aveva detto no alle Fs, ha declinato l'offerta. Così, ora i
prodiani (soprattutto quelli del partito di Micheli) puntano su Francesco
Mengozzi (capo del Bancoposta), che non incontrerebbe l'opposizione dei
dalemiani, o sull'ex commissario Enav, Massimo Varrazzani, manager del San
Paolo. Ma anche in questo caso il problema è come liberarsi dell'attuale numero
uno dell'Anas, Vincenzo Pozzi. Se lui non si dimette, restano due strade:
convocare il consiglio per revocarlo o riunire l'assemblea per cambiare lo
statuto e introdurre la figura dell'amministratore unico.
Nel fortino di Cimoli Con la
dipartita di Gaetano Gifuni, ha perso il sostegno del Quirinale. E ora il capo
di Alitalia non vorrebbe dover rinunciare anche a un appannaggio da 2 milioni e
786 mila euro l'anno. Così, il supertrasversale Giancarlo Cimoli cerca di
resistere. Prodi lo aveva mandato alle Fs, ma deve tenere conto dei sindacati,
che chiedono la testa del presidente e amministratore delegato responsabile di
un bilancio da profondo rosso. Così, mentre quella del numero uno dell'Enac ed
ex parlamentare Dc Vito Riggio è solo un'autocandidatura (la Margherita non lo
sostiene), continua a girare il nome di Gianni Sebastiani (ex Alitalia). E
quello di Giorgio Zappa, il direttore generale di Finmeccanica, in buoni
rapporti con i Ds, che non può sperare di crescere nella sua azienda, dove gli
fa da tappo Pier Francesco Guarguaglini. Tra i dalemiani si parla anche di
Maurizio Basile, artefice della privatizzazione di Eti, ora ad Aeroporti di
Roma. Ma, davanti alla débâcle dell'ex compagnia di bandiera, il governo sa di
dover tentare una mission impossible. Dalle parti della Margherita l'idea corre
a Corrado Passera, oggi amministratore di Banca Intesa. Tra i prodiani al capo
di Rcs, ed ex Vodafone, Vittorio Colao. Nell'entourage del premier riscuote
consenso anche Carlo Callieri, ex Fiat e Confindustria, tanto tosto da meritarsi
il soprannome di Ayatollah e i pubblici attestati di stima di D'Alema, mentre
qualche ds rispolvera Franco Tatò. Come risarcimento, a Cimoli potrebbe restare
una presidenza poco più che onoraria.
Un postino di nome Vito Il
tentativo di trovare protezione sotto l'ombrello di Franco Marini, è andato
buca. Il finiano Massimo Sarmi, che si vanta di trascorsi internazionali, ma ha
come intercalare il romanissimo 'cazzarola', viene segnalato in uscita dalle
Poste (dove Vittorio Mincato manterrà invece la presidenza). Al suo posto
dovrebbe arrivare il ruvido Vito Gamberale, stimato da D'Alema ma anche da
prodiani e Margherita. A meno che non prenda corpo il progetto di fondere le
Poste con la Cassa Depositi e Prestiti, per far nascere un grande gruppo
bancario nel quale magari sciogliere Sviluppo Italia, la cui soppressione è un
pallino di Prodi. In quel caso, potrebbe esere tentato Passera.
Grilli in silenzio La tornata di nomine investe anche l'alta burocrazia
ministeriale. Al vertice del ministero dell'Economia gli occhi sono puntati sul
direttore generale. Vittorio Grilli è circondato. Tononi gli ha sfilato le
competenze su partecipazioni e debito; la verifica dei conti pubblici e il Dpef
sono stati affidati a Riccardo Faini; il ragioniere generale Mario Canzio (ben
visto a Palazzo Chigi e protetto da Paolo De Ioanna, potente capo di gabinetto
di Padoa-Schioppa) si tiene stretta la contabilità; il coordinamento della
politica economica lo farà Fabio Gobbo. osì, qualcuno comincia a pensare che,
magari in autunno, Grilli possa mollare. Ed essere sostituito da Faini.
Ai piani più bassi, Massimo
Romano, silurato da Tremonti, sta per riprendere il timone dell'Agenzia delle
Entrate, al posto di Raffaele Ferrara (che passerà ad altro incarico). Al
ministero di Pierluigi Bersani risale Carlo Sappino, emarginato da Antonio
Marzano: guiderà il Dipartimento politiche dello sviluppo (i fondi comunitari).
Mentre alla Sogei, la società che gestisce l'anagrafe tributaria, fara la sua
rentrée Gilberto Ricci, già con Visco. A volte ritornano.
Che senso hanno queste
guerre che nessuno vincerà mai?
di Franco Berardi Bifo
Il dibattito che si sta svolgendo
in questi giorni sulla questione del rifinanziamento della missione in
Afghanistan non può esaurirsi con la decisione parlamentare condizionata dal
ricatto politico della destra, né ridursi al problema di ritirare le truppe
dall’Afghanistan, chiudendo gli occhi davanti alla catastrofe umanitaria che
venticinque anni di guerra hanno provocato.
Il problema che oggi si pone con
urgenza è quello di comprendere la natura della guerra iniziata dopo l’11
settembre del 2001 e di indicare una via d’uscita se questo è possibile.
Nella guerra afgana come in quella
irachena è contenuto un paradigma di devastazione originale rispetto alla storia
delle guerre moderne. Le guerre moderne erano decise, provocate e condotte da
stati nazionali o da coalizioni di stati che si proponevano di vincere per
imporre un nuovo ordine, di espandere il loro territorio e così via. Ora non è
più così. Quando il presidente americano dichiarò che la sua guerra aveva
carattere preventivo e infinito, intendeva che questa guerra non è combattuta
per vincere ma per rendere possibile una devastazione e una rapina illimitata
nello spazio e nel tempo.
Qui sta la novità della guerra
interminabile iniziata in Afghanistan e continuata in Iraq: essa non ha come
finalità la vittoria di uno Stato e la sconfitta di un altro, ma la devastazione
progressiva dell’intero pianeta.
Le agenzie che dirigono
effettivamente queste guerre sono corporation private il cui scopo non è la
vittoria politica né l’espansione territoriale, ma l’estorsione di immensi
profitti in cambio della fornitura di servizi militari (scadenti) e servizi
civili di ricostruzione di ciò che viene incessantemente distrutto.
Le agenzie tradizionali della
politica imperialista (gli stati nazionali, le coalizioni e gli organismi
internazionali) hanno avviato la procedura politica della guerra, ma il vero
soggetto dell’azione aggressiva sono corporation private come Halliburton Exxon,
Parson, Bechtel, che non hanno alcun interesse alla vittoria militare e politica
dell’Occidente, ma solo la finalità di sfruttare le risorse dei paesi aggrediti
e le commesse multimiliardarie pagate dai contribuenti degli stati occidentali.
Queste agenzie private sono state
incaricate di fornire servizi militari e civili di alta qualità al minimo costo.
In effetti hanno fornito servizi di bassa qualità al minimo costo, e questo
comincia ad apparire evidente, al punto che la stampa americana di ispirazione
nazionalista e democratica denuncia il sabotaggio della guerra al terrore da
parte di gente come Rumsfeld. Il problema è che Rumsfeld e compagnia non si sono
mai posti l’obiettivo di vincere questa guerra, ma solo di aprire una fase
infinita di devastazione e di appropriazione armata. A loro non importa nulla se
decine di migliaia di soldati americani e britannici tornano a casa mutilati e
distrutti, se decine di migliaia di civili irakeni muoiono sotto le bombe, e
neppure gli importa che l’Occidente perda l’egemonia strategica in Medio
Oriente, e che il terrorismo integralista moltiplichi le sue forze. Quel che
importa ai funzionari delle corporation è aumentare i loro profitti anche se per
ridurre i costi indeboliscono lo stesso fronte militare.
Il risultato è la più
straordinaria disfatta strategica dell’Occidente, il potenziamento del
terrorismo integralista, la proliferazione dell’armamento nucleare, e perfino il
declino strategico del capitalismo americano.
Il consenso politico e la crescita
economica o nazionale mondiale si fondano ormai sul terrore. L’utopia di
un’economia dell’intelligenza che aveva permesso negli anni ‘90 un’alleanza tra
capitale ricombinante e lavoro cognitivo ha lasciato il passo a un’economia
psicopatica la cui unica finalità è appropriarsi delle residue risorse del
pianeta escludendone la maggioranza dell’umanità.
E’ significativo a questo
proposito un documento della Halliburton che propone la creazione di servizi per
la difesa dell’elite internazionale in caso di crollo degli ecosistemi globali
(vedi http: //www. halliburtoncontracts. com/about/).
La presidenza Bush sarà ricordata
(ammesso che nel futuro ci sia qualcuno capace di ricordare), non solo per avere
distrutto l’eredità dell’universalismo illuminista borghese, le garanzie civili
e politiche di cui l’Occidente è stato a lungo l’alfiere, ma anche per aver
corroso le basi dell’egemonia politica degli Stati Uniti d’America aprendo la
strada al fascismo integralista islamico e al totalitarismo schiavista cinese,
due potenze emergenti che negano alla radice il patrimonio sociale e politico
del progresso della libertà e della solidarietà. Per il futuro della civiltà
umana queste due potenze rappresentano un pericolo paragonabile a quello che fu
il nazismo, ma purtroppo hanno una base sociale molte volte più estesa e una
radice storica ben più profonda.
Il patrimonio dell’universalismo
moderno è oggi smantellato sotto i nostri occhi: l’eredità che discende
dall’Umanesimo, dall’Illuminismo e dal socialismo, attivamente contrastata
dall’intolleranza integralista, ignorata dallo schiavismo totalitario cinese
sembra essere ormai abbandonata anche dall’occidente democratico.
L’Europa non può limitarsi a
difendere quel che resta di quel patrimonio e di quell’eredità. Occorre
ripensare entro condizioni tecniche culturali e produttive completamente mutate
il significato e la prospettiva dell’universalismo, occorre agire per sgretolare
l’alleanza paradossale di ultraliberismo integralismo e schiavismo che in questi
anni si va delineando.
L’alternativa è rassegnarsi alla
violenza generalizzata, allo schiavismo e alla barbarie, all’estinzione di ciò
che abbiamo imparato a considerare umano.
Questo mi pare il contenuto
profondo della discussione sul finanziamento della guerra in Afghanistan, al di
là dell’attuale scadenza parlamentare
7 luglio
In 150 pagine i programmi
economici e finanziari per 5 anni di governo
Riduzione degli sprechi ma anche
la stretta sui trasferimenti agli enti locali
Nel mirino pensioni e sanità
disavanzo azzerato nel 2011
Si discute anche di ticket
ospedalieri e previdenza degli statali, ma nella finanziaria 2007 ci sono anche
incentivi allo sviluppo
di ROBERTO PETRINI
ROMA - Italia 2011: il rapporto
deficit-Pil sarà azzerato (allo 0,1 per cento), il debito scenderà sotto il 100
per cento del Pil, l'avanzo primario (cioè la differenza tra entrate e uscite al
netto degli interessi) salirà al 4,9 per cento. La crescita, a differenza dei
"miracoli" annunciati a suo tempo da Berlusconi (che nel suo primo Dpef annunciò
una sfilza di 3 per cento) sarà un sobrio 1,7 per cento. E' questo il quadro che
il ministro dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, ha preparato per il Documento
di programmazione economica 2007-2011 che coprirà l'intero arco della
legislatura, quasi una traduzione del programma dell'Unione in cifre e tabelle.
Nessun "sogno" come ha detto
Padoa-Schioppa nei giorni scorsi ma la necessità di cambiare. Lo dice l'incipit
del documento, di circa 150 pagine, che il ministro ha voluto sottolineare con
una citazione di Immanuel Kant: "Coloro che dicono che il mondo andrà sempre
così come è andato finora contribuiranno a far sì che l'oggetto della loro
previsione si avveri".
Ma la cura che porterà al 2011 non
sarà facile. Quattro i settori nel mirino: pensioni, statali e pubblica
amministrazione, sanità, Comuni e Regioni. Nel documento ci sono solo
indicazioni generali, ma i temi sul tappeto sono noti: aumento dell'età
pensionabile che potrebbe scattare già dal 2007, ticket sulla degenza
ospedaliera, prepensionamento di 100 mila statali, nuovo patto con gli enti
territoriali e sostanziale stretta sui trasferimenti. La promessa del ministro è
che si agirà con razionalizzazioni all'interno dei settori cercando di eliminare
gli sprechi. Le cifre in autunno.
Si comincerà con la Finanziaria
del prossimo anno: che ammonterà a 35 miliardi, di questi 20 saranno risparmi e
nuove entrate, altri 15 andranno allo sviluppo (10 di cuneo fiscale e 5 di altri
interventi a cominciare dalle infrastrutture). Con i 7 miliardi anticipati nei
giorni scorsi con la manovra-bis, che produrranno i propri effetti nel 2007, si
arriverà ai 42 miliardi già annunciati dal governo.
Il 2007 rispetterà l'impegno con
l'Europa: il deficit-Pil del prossimo anno scenderà sotto il 3 per cento (per la
precisione al 2,8 per cento). Anche il debito, dopo due anni di crescita,
riprenderà a scendere e sarà fissato al 107,5 per cento del Pil, l'avanzo
primario, oggi al lumicino, riprenderà a salire fino al 2,1 per cento del Pil.
La crescita sarà ancora modesta: si ipotizza l'1,2 per cento.
Si chiude anche la partita del
2006. Il deficit 2006, come certificato dalla commissione Faini, viaggiava verso
il 4,5-4,6 per cento. Ma il dato contenuto nel Dpef terrà conto degli effetti
della maggiore crescita economica (il Pil sale dall'1,3 all'1,5 per cento),
delle conseguenti maggiori entrate e anche della manovra correttiva. Tutto ciò
consentirà di bloccare il deficit-Pil di quest'anno al 4-4,1 per cento.
6 luglio
«Un attacco
cieco ai diritti civili»
Anti terrorismo. Le
sue leggi draconiane sono «controproducenti e destinate alla
sconfitta». Parla Jago Russell che per Liberty si occupa della lotta
al terrorismo e dei suoi effetti sulla comunità musulmana
Mi.Co.
Inviato a Londra
Liberty è
l'associazione britannica in prima linea nella difesa dei diritti
civili contro le norme anti-terrorismo del new labour. Nell'ufficio
di Tabard street, nel centro di Londra, abbiamo discusso con Jago
Russell, che per l'organizzazione si occupa della legislazione
antiterrorismo e del suo effetto sulla comunità musulmana.
Il governo laburista
cercherà di innalzare a 90 gli attuali 28 giorni di detenzione,
senza accuse formali, per i «sospetti terroristi». Come valutate
questa mossa di Tony Blair?
Subito dopo gli
attentati del 7 luglio, l'esecutivo promise che non avrebbe varato
leggi scritte in fretta e furia, senza un'accurata riflessione sul
loro impatto sulla società. Si è verificato esattamente il
contrario. Ci ritroviamo già con 28 giorni di carcerazione senza
incriminazione, uno dei periodi più lunghi di tutta l'Europa
occidentale. Non ci sono motivi per giustificare la reclusione
«amministrativa» di un sospetto per tanto tempo. In un primo momento
hanno provato ad addurre problemi di comunicazione con persone che
spesso parlano arabo. Investano di più in traduttori invece di
violare i diritti civili! Nello stesso tempo credo che ci sarà una
grande battaglia quando la proposta approderà in parlamento, perché
la stessa Commissione che le ha dato il primo via libera ha
sottolineato che potrebbe avere un impatto negativo sulla comunità
musulmana.
Quali dei
provvedimenti varati contro l'emergenza terrorismo vi preoccupano di
più?
Siamo in presenza di
un attacco complessivo ai diritti civili in Gran Bretagna, dall'11
settembre, con l'entrata in vigore una serie di misure preoccupanti.
La prima fu la detenzione a tempo indeterminato - solo per i non
britannici - a danno dei «sospetti terroristi». Nel dicembre 2004
questa misura fu cancellata dalla House of Lords, perché giudicata
«discriminatoria» e «una violazione dei diritti dell'uomo». Poi fu
la volta dei cosiddetti control orders, che permettono a un ministro
d'infliggere arresti domiciliari a un sospetto terrorista, sulla
base di prove segrete. Il giudice Justice Sullivan ha recentemente
stabilito che anche questa norma «viola i diritti umani», ma è
tuttora in vigore in attesa che si pronuncino la Corte d'Appello e
la House of Lords. Siamo però ancora nell'ambito di decisioni che
colpiscono una cerchia ristretta, i «sospetti terroristi». Quello
che fa più paura è il reato di «glorificazione del terrorismo» - 10
anni di carcere massimo - che può colpire chiunque, ad esempio chi
sostiene che gli attentati suicidi dei palestinesi in Israele sono
giustificabili.
Ritenete fondate le
preoccupazioni della comunità musulmana britannica?
Certo, si sentono nel
mirino della legislazione anti-terrorismo e giustamente. I nuovi
poteri di fermare e perquisire dati alla polizia vengono usati
soprattutto contro di loro. E che dire dell'assalto a Forest gate?
Se fossi un islamico e avessi visto quello che è successo un mese fa
in quel quartiere di Londra avrei paura che una cosa del genere
potrebbe capitare anche a me. Ad essere colpiti sono la libertà
d'opinione e i principi del giusto processo. Restringendo la prima
non si fa altro che gettare nelle braccia degli estremisti chi
potrebbe essere recuperato attraverso la normale dialettica
democratica.
C'è un futuro per i
diritti civili nel contesto di una «guerra al terrorismo» che
pretende sempre meno limitazioni?
Sì. Credo che sia
sempre più necessario incoraggiare la popolazione a capire cosa sono
i diritti umani e i diritti civili e parallelamente dare battaglia
alle leggi draconiane che vengono di volta in volta proposte. Se la
lotta al terrorismo prosegue senza rispettare i diritti civili è
destinata senz'altro alla sconfitta.
Lopez Obrador: spariti
milioni di voti
Conta preventiva
Il candidato del centrosinistra: contro il verdetto darò battaglia
Roberto Zanini
Città del Messico
Non ci sta, il
candidato di centrosinistra Lopez Obrador: «Sono spariti tre milioni
di voti», dice, e si ferma a un passo dall'accusare le istituzioni
di frode. L'Istituto elettorale ha concluso la conta preventiva, e
contro tutti i sondaggi fatti negli ultimi sei mesi il candidato
della destra Felipe Calderon sta un punto sopra Obrador. Un punto
vuol dire circa 400mila voti, ma ci sono ottocentomila nulle, i tre
milioni di voti spariti («sono voti contestati, vedremo», spiega
l'Ife), e una massa di - chiamiamole - anomalie. Una la esibisce lo
stesso Obrador davanti alle tv: è la foto del registro finale di un
seggio, ci sono 188 voti per il Prd, ma sulla pagina internet
dell'istituto elettorale lo stesso seggio ne assegna solo 88 al
partito di centrosinistra. Qualcuno si è mangiato una cifra. Lo
chiamano «robo de hormigas», furto delle formiche: dieci voti qui,
cento lì e el peje, come chiamano l'uomo che ha guidato
l'opposizione, finisce fritto.
Appeso a questo punto
di differenza, alla leggera e poco credibile supremazia ufficiale di
Calderon, il Messico sprofonda in quello che un commentatore, Luis
Hernandez Navarro, definisce «colpo di stato tecnico». Una notte di
proiezioni elettorali drogate, strapotere delle televisioni tutte
orientate a destra, denaro pubblico versato su ordinazione,
efficiente campagna della paura e divisione verticale del paese, col
nord più ricco che vota a destra e il sud più povero che vota a
sinistra. Insomma un nuovo 1988, anno in cui il candidato di
sinistra Cardenas fu derubato da un provvidenzale blackout del
sistema elettorale.
Quella volta
Cuauthemoc Cardenas si arrese molto presto, per non portare il paese
- disse - alla guerra civile. Ma Lopez Obrador è molto diverso dal
figlio del vecchio generale Cardenas che nazionalizzò il petrolio.
E' un capopopolo, e gode di un apparato organizzativo che allora non
esisteva. Tocca a lui, se ne ha la forza, decidere se scegliere lo
scontro sociale o fermarsi a quello politico. E gia lo stratega del
partito, Camacho Solis, annuncia che si potrebbe ricorrere alla
piazza «se tutte le istanze istituzionali risultassero superate».
Il meccanismo
elettorale prevede che oggi l'Istituto elettorale cominci il
conteggio fisico dei voti, esaminando i registri seggio per seggio e
- se ci fossero contestazioni - scheda per scheda. Può metterci
giorni. I risultati si possono impugnare e lo saranno. Quindi
toccherà al Tribunale elettorale federale esaminare le impugnazioni.
Il tribunale parrebbe più decente dell'Istituto elettorale, che ha
giocato pesante per tutta la notte delle elezioni, ma le istituzioni
messicane non brillano per trasparenza.
Nel frattempo quel
monumento alla politica messicana che è il Partido revolucionario
istitucional ha smesso di contrattare il suo appoggio e ha deciso di
buttarsi a destra. Un pugno di governatori ha obbligato con le
cattive il candidato priista Madrazo a riconoscere pubblicamente «la
correttezza del processo elettorale e l'impossibilità che cambi il
risultato».
Vinca chi vinca, una
crisi di rappresentanza è già aperta. Calderon ha preso 14 milioni
di voti e Obrador 13 milioni e rotti più quelli che riuscirà a
ripescare in tribunale. Su 71 milioni di elettori. A governare la
decima economia del pianeta dovrebbe essere qualcosa di più che
circa un quinto dell'elettorato.
A Pisa
ricercatori e tute blu «Siamo precari, stessa lotta»
Tommaso Tintori
Pisa
Dopo il grande
successo ottenuto con i quesiti refendari (che avevano l'obiettivo
di far emergere le reali dimensioni della flessibilità e delle
politiche di reclutamento dell'Ateneo), i precari universitari
pisani sono riusciti ad aprire le trattative con l'università ed
ottenere un tavolo tecnico per l'istituzione permanente di
un'anagrafe di tutte le figure precarie che operano nella didattica
e nella ricerca. Una lotta di nuovo precariato che si è attirata le
simpatie operaie più classiche, tanto che le tute blu Fiom della
Piaggio di Pontedera hanno inviato una lettera di solidarietà.
E' di pochi giorni fa,
l'approvazione di uno schema di rilevazione storico-anagrafica nella
forma di un data-base aggiornabile per via telematica e consultabile
da tutti i membri del tavolo grazie alla collaborazione dell´ufficio
statistica d´ateneo. E' previsto, entro la prima decade di luglio,
il completamento della raccolta dati su tutte le figure «non
strutturate» che, a vario titolo, lavorano nell'Università. Sono
state inoltre impostate le linee-guida per l´indagine qualitativa,
ufficialmente affidata all´Assemblea dei precari.
La battaglia dei
precari universitari pisani si è inserita prepotentemente nelle
elezioni del rettore. Dopo una lotta serrata è stato rieletto Marco
Pasquali, rettore uscente, che resterà al governo dell'università di
Pisa fino al 2010. Pasquali dovrà cominciare a rispondere ai molti
problemi sollevati dai precari. In particolare, chiedono che adotti
un metodo più trasparente nella gestione e nelle scelte importanti,
facendo gli interessi di tutto l'ateneo. «Teniamo a ricordare -
afferma l'Assemblea dei precari - la rilevanza degli orientamenti
programmatici enunciati durante la scorsa campagna elettorale. Ci
riferiamo all'improcrastinabile necessità di agire tanto a livello
di politiche locali quanto nei rapporti con la Crui, la Conferenza
dei rettori delle università italiane, e col ministero per ottenere
un impegno straordinario in termini finanziari, da riservare
all'attivazione di nuovi posti a tempo indeterminato che pongano
fine alla proliferazione delle figure precarie. Inoltre,
sollecitiamo una riforma delle procedure di reclutamento che
garantisca accessi certi, brevi e selettivi alla carriera».
L'Assemblea, che dal
Rettore è stata riconosciuta pubblicamente e a pieno titolo quale
soggetto interlocutore, conta di allargare il tavolo di trattativa
fino a comprendere la questione dei diritti e delle mancate tutele
del personale non strutturato. «La prima tappa di questo percorso -
proseguono i precari - è reciprocamente identificata
nell'ultimazione del progetto dell'anagrafe di tutti i precari della
ricerca e della didattica, in vista della futura messa a punto di un
"contenitore" informatico unico, nel quale inserire dati, risultati
scientifici e impegno formativo, individuali e di gruppo, delle
attività effettivamente svolte».
Ha destato particolare
piacere la lettera delle Rsu Fiom della Piaggio: «Per i contenuti
della piattaforma rivendicativa, l'ampiezza della partecipazione,
gli effetti intuibili di presa di coscienza e di avvio di processi
organizzativi - è scritto - il referendum affronta con chiarezza e
determinazione i problemi del vostro settore e li pone lucidamente
all'interno della questione generale delle condizioni di lavoro e
dei diritti dei lavoratori, sottoposti negli ultimi anni a un
attacco senza precedenti. Dopo anni di pressione e di propaganda
sugli effetti positivi della flessibilità e precarietà - proseguono
le Rsu Fiom - si diffonde tra i lavoratori la consapevolezza che le
questioni del lavoro precario non sono un fatto di solidarietà, ma
un problema centrale e vitale per la difesa delle loro condizioni di
vita e di lavoro. La precarizzazione che dilaga in tutti i settori -
così si conclude la lettera - da un lato aumenta la dispersione dei
lavoratori e le difficoltà dell'azione sindacale, dall'altro pone le
premesse per una riunificazione di interessi che in passato sono
stati separati da condizioni di sfruttamento e di garanzie molto
diverse».
Un esamificio a
caro prezzo
Fino a tremila euro
per superare una prova all'università di Bari. Cinque funzionari
amministrativi indagati, una ventina i casi documentati
Antonio Massari
Quando si dice: i
crediti universitari. A Bari, nella facoltà di Economia e commercio,
era spuntato persino un tariffario: dai 2mila euro in su per un
esame di diritto commerciale o matematica, ritenuti tra i più
difficili, fino ai 600 euro per uno un po' più semplice. Tariffe
tagliate su misura, a volte persino sul passaporto, perché pare che
i prezzi mutassero a seconda della cittadinanza: che fosse barese,
della provincia o greco, per ogni studente c'era la possibilità di
trovare il «prezzo giusto». Bidelli e personale amministrativo, in
stretto legami con i docenti, facevano da contatto con gli studenti
che avevano bisogno di superare un esame.
Dopo aver creato
l'aggancio, il punto era trovare l'uomo al quale pagare. Non solo
per gli studenti, ma anche p i carabinieri guidati dalla procura di
Bari, per la precisione dal magistrato Francesca Romana Pirrelli,
che sul commercio degli esami aveva aperto da tempo un fascicolo
d'indagine. E ieri, per la seconda volta, è stato incastrato un ex
tecnico della facoltà, settantenne in pensione, incaricato - a
quanto pare - di incassare il denaro. Era nei pressi di un bar
vicino alla facoltà, in compagnia di una studentessa fuori corso,
che gli stava versando mille euro avvolti in un fazzoletto di carta.
La procura non ha dubbi: si tratterebbe della somma necessaria per
superare. Ora sull'ex tecnico, denunciato a piede libero, pende
l'accusa di concussione. La studentessa, per il momento, non è
invece indagata. Ma se gli inquirenti appurassero che lo scambio del
denaro era oggetto di un patto, l'accusa muterebbe, trasformandosi
in corruzione.
E in qualche maniera,
il tecnico in pensione, è una sorta di recidivo: era stato colto in
flagrante già venerdì scorso, mentre intascava 250 euro, all'interno
della facoltà. Non era più impiegato, e da ben 10 anni, ma l'uomo
continuava a frequentare spesso aule, corridoi, studenti e
professori. E infatti, per la procura, non si tratta di una scoperta
dell'ultima ora. L'inchiesta, al contrario, è partita circa due anni
fa.
Era il febbraio del
2005 quando il preside della facoltà, Carlo Cecchi, ora scomparso,
venne a sapere, da alcuni studenti, che esisteva un traffico
d'esami. Scrisse una lettera ai colleghi, chiedendo, nel caso in cui
la voce fosse risultata fondata, di denunciare al più presto. Nel
frattempo nacque una commissione d'inchiesta interna, che rilevò
«viziosità» e «incrostazioni di sottopotere». Gli inquirenti, nel
frattempo, erano già al lavoro, anche se dal quadro probatorio -
sebbene di un certo rilievo - non emergevano veri e propri illeciti.
Anzi, la procura ha avuto modo di verificare «comportamenti
omertosi». Una ritrosia che si poteva rinvenire nel «timore degli
studenti di vedere annullata la propria carriera universitaria». E a
collaborazione maggiore, sottolinea la procura di Bari, sarebbe
giunta più da alcuni docenti che dagli iscritti alla facoltà.
E nell'inchiesta in
corso, infatti, nata proprio sull'esame di matematica, sono indagati
proprio due professori. A quanto pare, si tratterebbe del professore
di matematica Pasquale Barile e di un cultore della materia, Massimo
Del Vecchio. In questi due anni l'indagine non s'è mai fermata;
intercettazioni ambientali e perquisizioni hanno portato i
magistrati a credere che nella vicenda, oltre il tecnico in pensione
e i due docenti, siano coinvolte altre sei persone tra bidelli,
addetti alle aule e personale amministrativo. Le perquisizioni,
inoltre, hanno portato al sequestro di diversi appunti con numeri di
telefono, statini d'esame e fatture, nonché vecchie tesi di laurea.
Anche queste ultime, infatti, pare che fossero oggetto di un
traffico intenso: erano prima scannerizzate, poi clonate, e infine
rivendute cambiando il titolo e il nome dei relatori. Tariffa base:
3mila euro per ogni tesi. Insomma, dall'esame alla laurea, nella
facoltà di Economia di Bari, tutto era acquistabile. Un mercato
intenso, con persone che, secondo gli inquirenti, avrebbero fatto
ella compravendita degli esami la propria «attività principale».
Insomma, più che una facoltà d'economia, era una facoltà di
commercio. Ma gli inquirenti avvertono: «L'inchiesta ora rischia di
allargarsi anche ad altre facoltà».
4 luglio

3 luglio
Il caso, che coinvolge
3500 scuole elementari, scatena le reazioni di genitori e
associazioni
in difesa della
privacy: "Altro che accelerare le procedure, è solo un modo per
raccogliere dati privati"
Gb, impronte
digitali in biblioteca, schedati settecentomila bambini
di CRISTINA NADOTTI
LONDRA - Lo scopo è
quello di accelerare le procedure per il prestito nelle biblioteche
scolastiche, ma c'è chi teme che sia invece una schedatura di massa,
che coinvolge almeno 700 mila bambini. In Gran Bretagna è allarme
per il sistema con cui 3500 scuole elementari concedono libri in
prestito ai propri alunni. Invece che usare una scheda cartacea
sulla quale annotare i dati dell'utente e dei libri prelevati dalla
biblioteca, scrive l'edizione online del Mirror, si è passati alla
scannerizzazione delle impronte digitali.
L'organizzazione
NO2ID, che si oppone all'introduzione delle carte di identità con
microchip e all'istituzione del registro nazionale per l'identità,
ha lanciato l'allarme, sostenendo che si tratti di un altro sistema
per raccogliere più informazioni possibile sui cittadini, fin da
piccoli, e di un altro passo verso la registrazione obbligatoria di
dati biometrici, sulla quale si è aperta nel Paese una accesa
polemica. Le nuove carte di identità prevedono infatti la raccolta
di tutti i dati in un database centralizzato, che secondo le
organizzazioni che si occupano di difesa della privacy costituirebbe
una aperta violazione della tutela dei dati personali.
"Stiamo mandando i
nostri bambini a scuola o in prigione? - chiede Phil Booth,
coordinatore nazionale di NO2ID - Non accetteremmo mai che venissero
prese le impronte a degli adulti senza un consenso informato, perciò
mi sembra davvero scandaloso che si schedino bambini di cinque
anni". Il direttore del Micro Librarian Systems, che ha avviato il
sistema di raccolta di impronte digitali, ribatte che non c'è niente
di spaventoso nell'utilizzare le nuove tecnologie: "Alla fine si
tratta di una scelta - dice Andy O'Brien - se i genitori sono
contrari all'utilizzo di tecnologie biometriche possono chiedere che
il proprio figlio continui a usare la scheda cartacea".
Si tratta solo
dell'ultimo fronte aperto in Gran Bretagna nel dibattito sulla
tutela della privacy. Qualche tempo fa le organizzazioni che si
occupano di tutela della privacy denunciarono i sistemi di
identificazione adottati da alcuni scuole, che richiedono ai propri
studenti di essere identificati tramite impronte digitali per
accedere ai locali scolastici e alle mense. A livello nazionale, il
governo giustifica l'uso di tecnologie biometriche e la raccolta
dati con la necessità di avere procedure più rapide e un maggiore
controllo su potenziali terroristi. Le associazioni mettono in
guardia contro il pericolo di scambio di milioni di dati personali
tra più settori, sia pubblici, sia privati e sul potere di controllo
sui cittadini che il possesso di questi dati darebbe allo Stato.
1 luglio
Il check up si fa da
Daniela
di Vittorio Malagutti
Bankitalia, Enel e Poste: così
la clinica controllata da moglie e familiari di Fini puntava alle convenzioni
più ricche
Lavoravano con l'Enel.
Puntavano alle Poste. E nell'elenco dei clienti eccellenti spunta anche
Bankitalia. Sempre a caccia di nuovi contratti e affari, quelli della Panigea
finivano spesso per bussare alla porta degli enti pubblici. Sarà un caso, ma la
clinica controllata, tra gli altri, da moglie e cognata del leader di An,
Gianfranco Fini, nel corso degli ultimi anni è riuscita ad accreditarsi presso
istituzioni e grandi società a controllo statale. Non sempre è finita bene. L'Enel,
per esempio, nel 2003 troncò ogni rapporto con Panigea, rimuovendo dall'incarico
il funzionario che aveva promosso il contratto. "Venne considerata la
marginalità economica dell'operazione e i possibili rischi di immagine che
comportava", spiegano adesso al gruppo elettrico.
Alle Poste invece devono aver
fatto altre considerazioni. E così l'anno scorso hanno trattato a lungo per
stipulare una convenzione con la clinica targata Fini. In base agli accordi
discussi, i dirigenti del gruppo guidato dall'amministratore delegato Massimo
Sarmi verrebbero indirizzati a Panigea per svolgere particolari test e
accertamenti medici. Alle Poste confermano che la trattativa si è effettivamente
svolta, ma negano che sia stata formalizzata una convenzione. Lo schema
dell'accordo con le Poste ricalca quello siglato nel 2004 con la Banca d'Italia.
I dipendenti dell'area romana dell'istituto centrale possono rivolgersi a
Panigea per "check up mirati", secondo quanto si legge in un documento
pubblicato sulla 'Gazzetta Ufficiale' dell'Unione europea, sezione appalti. I
costi degli esami clinici vengono in gran parte pagati da Banca d'Italia, con
una quota minima a carico dei dipendenti, che godono anche di sconti (il 25 per
cento) su una serie di prestazioni non coperte dal Servizio sanitario nazionale.
Le convenzioni con enti e
società pubbliche garantiscono pazienti e fatturato. Per ottenerle, a volte il
corteggiamento partiva da lontano. Con le Poste, per esempio, Panigea aveva
cominciato a negoziare almeno tre anni fa. Il grande poliambulatorio romano
puntava a ottenere incarichi nel campo della medicina del lavoro. C'è una
coincidenza che va segnalata. A quell'epoca il cosiddetto 'medico competente
centrale' del gruppo Poste Italiane era Antonio Bergamaschi, professore di
medicina del lavoro all'università romana di Tor Vergata. Bergamaschi è in
ottimi rapporti con Massimo Fini, il fratello dell' ex ministro, anche lui
docente di medicina del lavoro proprio a Tor Vergata. L'operazione comunque non
andò a buon fine. "Panigea ci prospettò un accordo", spiega una fonte interna
alle Poste, "ma non se ne fece niente". Un caso davvero singolare. Per due
volte, nel giro di un paio di anni le Poste trattano con Panigea, ma alla fine
non viene formalizzato nulla. Nel frattempo, comunque, Panigea ha fatto strada.
La Regione Lazio, ai tempi in cui era guidata da Francesco Storace, garantì una
convenzione per esami clinici come Tac e risonanza magnetica. Il via libera
arrivò a tempo di record. Tra la richiesta di accreditamento da parte della
clinica e la delibera votata dalla giunta regionale trascorsero solo sette
giorni: dall'11 al 18 febbraio 2005.
Ben altro esito hanno avuto i
ricorsi presentati da un'altra clinica romana, lo Studio Specialistico Nomentano
che, a suo tempo, si era visto negare l'accreditamento. In questo caso la
burocrazia regionale si è messa di traverso. C'è un'ordinanza del Tar del Lazio
dell'ottobre 2005 che impone alla Regione di depositare in giudizio gli atti di
accreditamento a favore di una serie di centri medici tra cui anche Panigea. Ma
a quasi nove mesi di distanza da quella sentenza gli atti non sono ancora stati
prodotti. Ironia della sorte, lo studio Specialistico Nomentano è difeso
dall'avvocato Augusto Sinagra, già esponente di spicco di Alleanza nazionale, di
cui fu uno dei fondatori, e poi passato nelle fila di Alternativa sociale con
Alessandra Mussolini.
Daniela Di Sotto, nome da
nubile della moglie di Fini, a modo suo ha dato una conferma dei nuovi affari in
corso. Intercettata dalla Polizia di Potenza per conto del pm Henry John
Woodcock la signora Fini racconta di essere andata "a sbattere il culo con
Storace". In quell'occasione (la telefonata è dell'aprile 2005) il suo
interlocutore era Francesco Proietti Cosimi, segretario di Gianfranco Fini e ora
deputato di Alleanza nazionale. Anche Proietti ha interessi nella
Poliambulatorio cave, la società a responsabilità limitata che controlla Panigea.
Tra l'altro suo figlio Luigi possiede il 10 per cento del capitale della
Poliambulatorio. L'acquisto è relativamente recente. Risale al giugno del 2005,
quando la società Da.vir srl e Luigi Proietti Cosimi siglano il contratto con
cui comprano ciascuno il 10 per cento di Poliambulatorio cave. Da.vir, che ha un
capitale intestato a due fiduciarie, farebbe riferimento a Daniela Fini. A
vendere i titoli è l'allora socio di maggioranza Patrizia Pescatori, ovvero la
moglie di Massimo Fini, fratello, come detto, del più noto Gianfranco. In base
al contratto depositato in Camera di commercio l'operazione viene conclusa a un
prezzo di 10 mila euro per ciascuna quota del 10 per cento. Una somma che appare
davvero esigua, se si considera che all'epoca Panigea vantava ricavi annui ben
superiori ai 2 milioni di euro. Eppure, stando al contratto, la cognata di Fini
si accontentò di pochi spiccioli per vendere il 20 per cento della clinica.
Eppure, a giudicare dalle
telefonate intercettate dalla procura di Potenza, le due cognate Daniela e
Patrizia litigavano a più non posso. Con la consorte dell'ex vicepresidente del
Consiglio che pretendeva più soldi e più potere in azienda. A quanto pare quel
giugno del 2005 fu un periodo molto intenso sul fronte affaristico per la
famiglia Fini. Patrizia Pescatori, dopo aver venduto una parte delle sue quote
nella Poliambulatorio cave (di cui restava comunque il socio più importante),
fondò con un paio di soci un'altra azienda in campo salutistico e affini: la
Desiderio di benessere srl. In quelle stesse settimane la cognata di Fini si
defilò dall'azionariato del centro fisioterapico Emmerre 3000. Chi ha comprato?
Per l'occasione scende in campo ancora una volta la Da.vir srl, cioè Daniela
Fini, affiancata dal giovane Luigi Proietti Cosimi. I due acquirenti rilevano in
totale il 57,5 per cento della società. La quota più importante, il 44,4 per
cento, passa alla Da.vir..
A giochi fatti, nel capitale
resta un altro socio di rilievo. È un nome che suona familiare. Una quota del
31,2 per cento risulta infatti intestata a Francesca Maria Proietti Cosimi, 30
anni, sorella maggiore di Luigi. Quel centro fisioterapico era un investimento a
colpo sicuro. Nel giugno del 2005 gli affari avevano già preso il volo da un
pezzo. Merito anche dell'accreditamento garantito nel marzo 2003 dalla giunta
Storace.
Cieli fuori controllo
di Gianluca Di Feo
Ispettori precari, fondi azzerati, nessuna multa. Ecco perché la sicurezza dei
voli in Italia è stata bocciata
Sono un pugno di precari, il cui contratto viene rinnovato di trimestre in
trimestre. E non hanno nemmeno il potere di fare multe: contano meno degli
ausiliari del traffico. Eppure questi ispettori a tempo determinato devono
occuparsi di un traffico molto più complicato: quello che avviene nei nostri
cieli. La sicurezza di oltre 100 milioni di viaggiatori dipende infatti da una
manciata di ispettori con contratto a termine: sono solo in trentasei, mentre le
compagnie aeree continuano a spuntare come funghi e sempre nuovi scali vengono
ad aggravare una situazione già congestionata. In realtà di ispettori dovrebbero
essercene 48, come prevede l'organico dell'Enac, l'Ente nazionale aviazione
civile. E dovrebbero essere tutti iperqualificati: ingegneri e piloti veterani.
Ma l'ultimo rapporto della Corte dei Conti elenca una situazione
raccapricciante: "Posti previsti 48, posti coperti 0". In realtà, persino i
supervisori precari sono già scaduti: da maggio un terzo di loro tira avanti con
le proroghe. Possibile che l'Italia, una delle capitali mondiali del turismo e
crocevia delle rotte aeree, non trovi i fondi per assumere in pianta stabile
degli ingegneri a cui affidare le verifiche su mezzo milione di aerei? Possibile
che la terribile lezione del disastro di Linate, il più grave incidente in
Europa degli ultimi anni con 118 morti, sia già stata dimenticata?
È la stessa domanda che si sono posti gli inviati dell'Icao, l'organismo
mondiale dell'aviazione civile. Senza riuscire a trovare risposte. A fine maggio
una delegazione internazionale ha fatto il check up del nostro sistema
aeronautico e ha bocciato la rete dei controlli. "Troppe poche persone e fondi
troppo scarsi per vigilare su così tanti aeroporti e così tanti voli", hanno
anticipato gli esperti dell'Icao nel briefing conclusivo a cui seguirà una
contestazione formale. Con un altro rilievo sorprendente: perché in Italia non
sono previste multe per chi non è in regola? Se una persona viaggia in auto con
le gomme lisce si becca una sanzione salata, ma se ad essere lisci sono i
pneumatici di un Airbus non si rischia nulla. Gli ispettori possono ordinare di
sostituirli, cosa che comunque prima o poi sarebbe stato necessario fare. Ma
niente punizioni, né pecuniarie, né tantomeno penali. Ammesso che i difetti
vengano scoperti: come ha potuto verificare 'L'espresso' in un terminal del
Nord, ogni ispezione su un aereo straniero dura circa 20 minuti. I poteri sono
minimi: il supervisore può solo esaminare i documenti dei piloti, accertare la
presenza dei manuali di bordo e giudicare 'le condizioni apparenti del mezzo'.
Se c'è qualcosa che non va, si intima di metterla a posto e tanti saluti. Di
questi 'controlli di carta' nel 2005 l'Enac ne ha fatti 880, quest'anno prima
dei tagli si voleva arrivare a mille. Ma servono a qualcosa? Fanno paura ai
vettori seri, che temono la pubblicità negativa. Oggi però i cieli pullulano di
charter improvvisati e di low cost dell'ultima ora, spesso basati all'Est,
spesso senza nemmeno un jet di proprietà: padroncini dell'aviazione e compagnie
di ventura, che nascono e spariscono nel giro di pochi anni. Negli hangar poi
prospera il mercato dei 'ricambi sospetti': pezzi di seconda mano o prodotti con
materiali di poco conto copiando gli originali. Un business tanto ricco quanto
pericoloso per la sicurezza, che in Italia rischia di avere trovato il suo
paradiso: oggi negli Stati Uniti chi installa questi apparati inaffidabili
rischia l'ergastolo, nel nostro paese i gestori del più grande traffico di parti
taroccate se la sono cavata con una condanna a pochi mesi.
Insomma, ci sono tutte le premesse perché l'estate 2006 si trasformi in un
periodo caldissimo per i cieli italiani: giugno con l'aumento dei decolli ha già
imposto una serie di emergenze, con Boeing che perdono le ruote e altri che
finiscono la benzina a metà strada. Ma senza interventi urgenti, c'è il rischio
che il nostro paese diventi il far west dell'aviazione commerciale. L'ultimatum
dell'Icao non lascia dubbi: dal momento del rapporto formale l'Italia avrà sei
mesi per ristrutturare il sistema dei controlli.
Controllori low cost Il documento più impressionante è stato redatto
dall'Agenzia nazionale per la sicurezza del volo, Ansv, che si occupa di
indagare sugli incidenti e dare indicazioni per la prevenzione. Quanti soldi ha
per fare questo lavoro? Meno di 4 milioni per tutto il 2006, con una sola parola
d'ordine: tagliare, tagliare, tagliare. Bloccate le assunzioni, persino i
contratti a termine sono stati ridimensionati. Risultato? L'area operativa,
quella che accerta cause e responsabilità di tutti i problemi, dalle collisioni
in volo ai disastri, conta soltanto sette tecnici contro i 27 previsti. Nel 2005
erano nove e si sono ritrovati sul tavolo 783 segnalazioni su allarmi nei voli e
negli scali. All'Enac, l'ente nazionale dell'aviazione civile, la musica non
cambia: tagli, tagli, tagli. L'Enac deve certificare la sicurezza degli
aeroporti, quella delle compagnie e degli aerei immatricolati in Italia. Inoltre
deve compiere le ispezioni sugli apparecchi stranieri. Il tutto grazie al
manipolo di precari: il concorso per arruolare 20 ingegneri in pianta stabile è
fermo da mesi. Così ad arbitrare sugli hangar di compagnie multimiliardarie ci
sono tecnici con lo stipendio minimo e nessuna garanzia sul futuro. Spiega Vito
Riggio, presidente Enac: "La finanziaria 2006 ha ridotto drasticamente le
risorse a nostra disposizione: abbiamo un solo capitolo di bilancio che è stato
decurtato del 70 per cento, ossia 40 milioni in meno".
Rotta di collisione A fronte di
questi controlli ridotti all'osso, cosa succede sopra la nostra testa? Una lunga
catena di problemi, almeno a leggere il dossier Ansv. In pista o ad alta quota
c'è poco da stare tranquilli. Nei cieli sono stati registrati almeno 25 episodi
di una certa serietà. A Brindisi, uno snodo delle rotte mediterranee, tre jet
carichi di passeggeri si sono trovati a convergere sulla stessa rotta. E il
rischio di impatto si è ripetuto per ben due volte in una settimana: il 25
settembre e il 2 ottobre ci sono stati più Boeing incanalati sullo stesso
corridoio tra le nuvole. Ancora più preoccupante è la situazione negli
aeroporti, dove sembra che la strage di Linate non sia servita a nulla. Da
allora l'Enac ha impartito direttive severe sui movimenti a terra degli aerei.
Che spesso sono rimaste lettera morta: lo scorso anno per 31 volte dei velivoli
hanno rischiato la collisione in pista, con sei casi molto gravi. Scrive l'Ansv:
"In molti scali mancano sistemi anti-intrusione, cioè quelli che servono a
impedire che due aerei si trovino sulla stessa pista". C'è poi una questione,
che può apparire banale, ma invece è determinante: "L'Agenzia ha rilevato
l'esistenza di problemi di comunicabilità in occasione della gestione di
situazioni anomale o di emergenza. In particolare, piloti e controllori del
traffico aereo oltre a non ricorrere alla fraseologia standard prevista per le
circostanze, hanno a volte dimostrato una inadeguata conoscenza della lingua
inglese. Parrebbe quindi opportuno incrementare il livello minimo di conoscenza
della lingua inglese per le varie figure che professionalmente operano nel
trasporto aereo".
Cattive compagnie A complicare
questo panorama contribuisce il moltiplicarsi dei vettori, italiani e stranieri,
con una prevalenza di compagnie dell'Est. Dove può anche accadere che a bordo ci
sia una vera Babilonia di lingue diverse e non riescano a capirsi nemmeno in
cabina: "L'apertura del mercato del lavoro a piloti di varie nazionalità ha
innescato a livello di cabina, problemi di comunicabilità tra i membri
dell'equipaggio, a causa di una conoscenza non sempre ottimale o per una non
ottimale conoscenza della lingua nazionale dell'esercente". Oggi in Italia
operano una miriade di queste nuove frecce d'Oriente. Ci sono due low cost
ceche, due polacche, una romena, una bulgara e persino una albanese. Quest'ultima
compagnia, tra l'altro, non possiede aerei: ha noleggiato un Fokker 100 dell'Air
Adriatic croata, vecchia gloria dei charter adriatici. Lo scorso anno decollava
per conto della Myair, finché i disservizi non hanno costretto la compagnia a
basso prezzo nostrana a 'licenziarla'. Pochi mesi dopo, ed ecco lo stesso jet
ripresentarsi sulle stesse piste, anche se con colori diversi. Viene citato poi
l'esempio della Hemus, linea privata bulgara: un anno fa è stata bandita dalla
Svizzera, ma è sempre rimasta benvenuta in Italia, con voli propri o altri per
conto terzi. Proprio questi subappalti, detti Wet Lease, creano grande allarme e
proteste dei viaggiatori, che al posto della compagnia prescelta si ritrovano a
bordo di charter dell'Europa orientale. Nel 2004 l'Ansv ha chiesto controlli più
severi su questi contratti "che potrebbero prestarsi a elusione delle
disposizioni sugli aeromobili nazionali".
Vecchie signore L'allarme sui
padroncini dei cieli non riguarda solo l'Est Europa. Anche in Italia i vettori
aumentano: 18 autorizzati al volo di linea; almeno altri cinque che fanno solo
charter, salvo inserirsi nei subappalti. Il problema drammatico è l'età della
flotta: anche i marchi più noti sono delle vecchie signore. I jet Meridiana in
media sono in servizio da 15 anni; quelli di Airone da 14 e solo da settembre
saranno rimpiazzati con Airbus nuovi. Alitalia si aggira sugli 11 anni anche se
gli Md80, ossia il 40 per cento degli aerei, hanno festeggiato 15 compleanni:
può capitare di decollare sul ventiduenne Ancona. Fa sorridere l'idea che
l'ultima nata, l'abruzzese Itali, in realtà schieri tre jet ventennali ex
Alitalia. L'Enac ha segnalato anche al governo la situazione, ma Vito Riggio
ostenta tranquillità: "La rete di controlli sulle aziende italiane è veramente
difficile da superare, e ogni volta che qualche compagnia sbaglia, il riflesso è
talmente negativo che i responsabili corrono ai ripari. Nel caso di Alpieagles,
dopo tutta una serie di eccezioni che abbiamo sollevato, la compagnia ha
provveduto a rinnovare il parco vettori. E così è stato per Windjet. Anche
Alitalia ci ha messo di fronte ad alcune criticità, che si sono verificate
quando ha ceduto all'esterno la manutenzione. Tanto è vero che la compagnia è
stata sottoposta negli Usa alla procedura di 'special emphasis'. Problemi
comunque superati". Il caso di Alpieagles è forse il più inquietante. La scorsa
estate la compagnia è finita nel mirino: ci sono stati una serie di
avvertimenti, poi gli ispettori sono passati alla linea dura. Un jet brasiliano
ri-registrato in Francia è stato portato in officina e le sorprese non sono
mancate. La compagnia non ha risposto alle domande de 'L'espresso'. Leggiamo
quindi il comunicato dell'Enac: "È stata riscontrata la presenza di parti
aeronautiche di sospetta provenienza, installate senza la prevista
certificazione dal precedente proprietario brasiliano". A quel punto sono
intervenuti i francesi, responsabili della certificazione, che hanno "provveduto
alla sostituzione di decine e decine di parti". Multe? Non ne esistono. Si
arriva così al lieto fine: e tutti volarono felici e contenti. Fino al prossimo
allarme, sperando nella buona sorte.
Ha collaborato Piero Messina
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