Archivio Luglio 2006

28 luglio

Festeggiamenti nei principali istituti italiani, dall'Ucciardone a Poggioreale
Le prime stime degli uffici penitenziari sul numero dei detenuti in uscita

La Camera dice sì all'indulto
e le carceri esplodono di gioia

<B>La Camera dice sì all'indulto<br>e le carceri esplodono di gioia</B>

L'Ucciardone a Palermo

ROMA - Il boato è stato simile a quello risuonato dopo il rigore di Grosso. Ma questa volta a far "esplodere" alcuni istituti penitenziari italiani non è stata la vittoria ai Mondiali bensì l'approvazione del disegno di legge sull'indulto, passato oggi alla Camera. L'Ucciardone e Pagliarelli a Palermo, Poggioreale a Napoli, Lauro ad Avellino, sono stati scossi dalle urla di felicità dei detenuti. Intanto le stime dei singoli penitenziari formano il quadro di quanti detenuti beneficeranno del provvedimento di clemenza.

Palermo. "Se non avessi saputo cosa stava accadendo - dice Laura Brancato, direttore del carcere palermitano Pagliarelli, in cui sono attualmente detenute 1300 persone - avrei pensato che era scoppiata una rivolta". Secondo le stime dell'Ufficio Matricola, solo al Pagliarelli l'approvazione definitiva del disegno di legge aprirebbe le porte del carcere a circa 350 persone. Mentre sarebbero 150 a lasciare l'Ucciardone, dove attualmente sono detenute 700 persone.

Campania. L'indulto in Campania (che con 7800 detenuti è la seconda regione d' Italia per numero di presenze nelle carceri, dati del ministero dell'Interno) spalancherà le porte a più di 2000 detenuti, di cui tra 250 e 350 attualmente ospiti a Poggioreale (che conta 2357 presenze a fronte di una capienza per 1387 detenuti). Festeggiamenti anche in altre carceri della regione, come quello di Lauro, ad Avellino, istituto a custodia attenuata dove hanno fatto festa i 70 detenuti per reati legati alla tossicodipendenza, tutti destinati a uscire. Alta la percentuale delle detenute del carcere femminile di Pozzuoli che riacquistaranno la libertà: circa 90 sulle 170 recluse.

Roma. Vittorio Antonini, coordinatore dell'associazione Papillon nata nel carcere romano di Rebibbia, osserva che solo a Roma il provvedimento restituirà la libertà a circa mille detenuti. Secondo Antonini, festeggiamenti negli istituti di pena ci saranno solo quando arriverà l'ok definitivo dal Senato "perché ci sono stati troppi rinvii e serpeggiava un po' di sfiducia". Solo nella capitale torneranno liberi quasi mille detenuti: circa 300 dei mille di Regna Coeli, più di 500 degli oltre 1.600 reclusi nel nuovo complesso di Rebibbia e oltre 100 dei 400 di Rebibbia Penale.

Cagliari. Secondo Gianfranco Pala, direttore del carcere cagliaritano di Buoncammino, degli attuali 476 detenuti ne resterebbero circa 250, includendo nel calcolo anche i trasferimenti alle colonie penali di Isili, Is Arenas e Mamone. A uscire per effetto del provvedimento sarebbero almeno 150 detenuti: i primi saranno i piccoli spacciatori di stupefacenti, i condannati per furto o rapina impropria, che costituiscono la gran parte della popolazione di Buoncammino e ne determinano il sovraffollamento.

Gli effetti indiretti del provvedimento. Oltre alle scarcerazioni, sarà necessario accertare anche gli effetti indiretti dell'indulto: molti detenuti, infatti, grazie allo sconto di pena avranno diritto alle misure alternative alla detenzione come l'affidamento ai servizi sociali o la semilibertà. Un'enorme mole di lavoro, dunque, per gli uffici penitenziari, che dopo l'input dell'autorità giudiziaria, che ordinerà le liberazioni, dovrà valutare le singole posizioni giuridiche.

 

27 luglio

Lavoro mortale

Cuneo: Davide Galliano, 15 anni, precipita dentro un cantiere

Un ragazzo di 15 anni è morto in provincia di Cuneo sabato scorso, cadendo da un muro di contenimento di un cantiere stradale. Davide Galliano lavorava insieme al fratello. «Questa morte silenziosa Davide ci preoccupa più delle altre - dice Pietro Mercandelli (Anmil) - perché sapevamo già che sul lavoro continuano a morire molti minorenni, ma non eravamo pronti a pensare che si può anche cadere sul lavoro a 15 anni anni senza fare notizia, nell'indifferenza generale».

Simav

Pressioni sui lavortori prima dello sciopero

La Fiom denuncia «inaccettabili pressioni sui lavoratori in vista dello sciopero indetto per la giornata di martedì 25 luglio». La Simav è un'Azienda di servizi per l'industria attiva sul territorio napoletano. Martedì 25 luglio, si apprende dal comunicato, i lavoratori della Simav «effettueranno 8 ore di sciopero» nell'ambito della vertenza relativa all'accordo integrativo aziendale. Tale sciopero è stato annunciato «con ampio preavviso» e, comunque, è stato indetto «all'interno delle regole di normali relazioni sindacali». Il comunicato qualifica quindi come «inaccettabile qualsiasi tipo di intimidazione o di pressione nei confronti dei partecipanti alla mobilitazione».

«Noi sahrawi reietti del mondo»

Parla Aminatou Haidar, militante storica del Sahara occidentale, ex desaparecida nelle carceri marocchine. «L'Europa ci sta abbandonando per compiacere Rabat»

Stefano Liberti

«Sono disposta a passare anche 20 anni in carcere pur di lottare per il rispetto dei diritti umani nel Sahara occidentale». Simbolo della resistenza del popolo sahrawi, Aminatou Haidar ha uno sguardo dolce, sospeso tra la mitezza della madre di famiglia e la fierezza dell'attivista che non si piega, nonostante i lunghi anni di carcere, le torture, l'esperienza della «scomparsa». Perché Aminatou è un'ex desaparecida; aveva appena vent'anni quando, nel 1987, venne chiusa per tre anni e mezzo in un centro di detenzione ad Al Aaiun - capitale del Sahara occidentale occupato - all'insaputa della sua famiglia che la dava per morta. Nessun processo; nessuna accusa. La sua unica colpa: essere una donna sahrawi, fiera della propria identità.

La sua voce pacata stride con il tenore del suo racconto. «Eravamo 364 detenuti, ammassati in celle minuscole e insalubri. Spesso ci picchiavano. Nessuno sapeva dove eravamo». Sono gli anni bui di Hassan II, il monarca despota che aveva eretto la repressione a sistema di governo. I militanti sahrawi sono arrestati in massa e fatti scomparire in bagni penali segreti. Fuori, infuria la guerra tra il Fronte Polisario, che lotta per l'indipendenza del Sahara occidentale, e i militari di Rabat. Finché, nel 1991, viene firmata una tregua: con la supervisione delle Nazioni unite, le due parti si impegnano a sottoporre la sorte del'ex colonia di Madrid - occupata dal Marocco nel 1975 - a un referendum. I detenuti sono liberati; un'ondata di euforia si diffonde tra il popolo sahrawi; l'Onu dispiega una missione per organizzare il voto. Ma è solo un fuoco di paglia: presto si capisce che Rabat farà di tutto perché la consultazione non abbia luogo. La colonizzazione del territorio sahrawi prosegue: enormi fondi vengono destinati allo sviluppo delle città del Sahara occidentale, segno che il Marocco è poco disposto ad abbandonare i luoghi. I sahrawi aspettano, in un limbo che vede le famiglie divise da un muro impenetrabile; alcuni sono rimasti nella parte occupata, altri si sono rifugiati nei pressi di Tindouf, in Algeria, ammassati in campi profughi privi di tutto.

L'attesa si fa lunga; i malumori crescono. Fino al maggio 2005, quando improvvisa esplode la rabbia di Al Aaiun. Inizia l'Intifada sahrawi; le manifestazioni si susseguono. La repressione riprende il suo corso: ripartono le torture, gli incarceramenti, le violenze; ad ottobre il militante Lembarki Hamdi Salek è pestato a morte dai gendarmi marocchini. Aminatou è ancora in prima linea, insieme a giovani attivisti nati sotto l'occupazione marocchina. Finisce di nuovo in carcere; sottoposta a un processo farsa, è condannata a sette mesi per «costituzione di banda criminale».

Hassan II è morto; il mondo è cambiato. I sahrawi sperano in una presa di posizione della comunità internazionale. Nulla accade. Anzi: ansioso di ricucire i rapporti con Rabat - deterioratisi durante l'«era Aznar» - il governo Zapatero abbandona la tradizionale linea pro-sahrawi. Auspica una soluzione negoziata; appoggia il progetto di Rabat di una larga autonomia. «Dietro a questo voltafaccia ci sono precisi interessi economici», denuncia Aminatou. «La Spagna ha interesse a mantenere buoni i rapporti con il vicino per ottenere un comodo accordo sulla pesca. Ha svenduto i sahrawi sul tavolo delle opportunità, dimenticando le responsabilità giuridiche, morali e politiche che ha verso il nostro popolo». Sullo sfondo c'è la questione di Ceuta e Melilla, avamposti coloniali spagnoli in territorio marocchino di cui Rabat rivendica la sovranità. E la grande ossessione europea: l'immigrazione. Per convincere il Marocco a svolgere l'ingrato compito di gendarme per conto di Schengen, bisogna pur offrirgli qualcosa: l'Europa intera - su impulso spagnolo e francese - chiude un occhio sulla repressione nel Sahara occidentale.

«L'unica nostra speranza è l'opinione pubblica europea. In Spagna, ma anche in Italia, c'è un vasto movimento di simpatia nei nostri confronti. Speriamo che riesca a smuovere i governi», continua la donna. Oggi Aminatou è affetta da gravi mal di testa e da un'otite permanente, lascito delle manganellate ricevute durante l'ultimo arresto, nel giugno 2005. Quando tornerà a casa, dopo un periodo di cure in Spagna, verrà probabilmente incarcerata di nuovo. Ma la cosa non l'intimorisce: «Sono disposta a passare anche altri 20 anni in prigione per ottenere il rispetto dei miei diritti. È una battaglia troppo importante».

 

Madrid si toglie i «punti neri»

La legge di Zapatero sulla memoria ordina allo stato e «raccomanda» alla chiesa: via i simboli del franchismo

Andrea De Benedetti

Trent'anni abbondanti dopo la morte di Franco la memoria di Spagna è un enorme contenitore grigio in cui, ben visibili, si possono ancora trovare tracce consistenti di rifiuti non riciclabili che la storia non è ancora riuscita a smaltire: statue, cippi, targhe, scritte, fotografie distribuiti in ogni angolo del paese che commemorano generali e generalissimi, uomini e donne caduti «dalla parte sbagliata», sogni di imperi coloniali mai del tutto sopiti.

Censire tutti questi monumenti alla dittatura è opera improba. Si sa solo che sono tanti e ingombranti. Più di mille, dice qualcuno. In Rete esiste persino un forum apposito (http://www.nodo50.org/foroporlamemoria/simbolos_franquistas.php), dove volenterosi cittadini documentano con fotografie e testimonianze personali la presenza ancora capillare di ricordi che per metà del paese sono imbarazzanti e per l'altra metà decisamente oltraggiosi.

Da anni, il paese discute di che fare con questa spazzatura della storia: conservarla a futura memoria, dismetterla o rimuoverla, nel senso psicanalitico del termine? La transizione mai terminata, il lutto eternamente da elaborare hanno spostato sempre più in là la data della resa dei conti, una resa dei conti necessaria per suturare una ferita ancora viva nel paese e che, nondimeno, secondo alcuni potrebbe ricominciare a sanguinare non appena qualcuno osasse toccarla. Persino Zapatero, coraggiosissimo su altre questioni, ha dimostrato in questo terreno timidezza e disagio, come se avesse paura di riesumare un corpo ancora vivo. E come lui, anche Felipe González, che si era ben guardato, nei quattordici anni al potere, di scalfire il tetro ologramma di simboli lasciato in eredità dalla dittatura.

Il «disegno di legge sulla memoria storica» faceva comunque parte del programma di Zapatero e la sua bozza è pronta da almeno un anno. Ancora a gennaio il premier aveva promesso di approvarlo entro giugno. Invece il progetto è ancora lì, chiuso in un cassetto, da cui uscirà nei prossimi giorni, giusto in coincidenza con l'inizio delle vacanze, come si conviene a tutti i provvedimenti socialmente più controversi.

Per il momento, i rapporti elaborati dal ministero degli interni e dalla vicepresidenza del governo prospettano soluzioni leggermente contraddittorie. Per quanto riguarda i simboli franchisti, il governo spagnolo è giunto alla conclusione che non si può proibire a nessuna amministrazione comunale di conservare, nella toponomastica cittadina, le strade dedicate a militari golpisti. In cambio, solo una generica raccomandazione alle autorità locali e regionali di eliminare tutti i simboli e monumenti celebrativi dei militari golpisti e che esaltino lo spirito del colpo di stato del 1936.
Tra i destinatari dell'esortazione, anche la Conferenza episcopale spagnola e le sue chiese (che peraltro sono del tutto autonome rispetto allo stato e non sono dunque tenute a rispettare le sue raccomandazioni), dove figurano tuttora lastre commemorative dedicate «ai caduti per Dio e per la Spagna» tra i falangisti.

Tale raccomandazione avrà però carattere di ordine tassativo per quanto riguarda gli organi statali, che dovranno rimuovere targhe, monoliti, busti e quant'altro sia ricollegabile all'ideologia franchista.
Laddove l'interesse culturale o storico consigliasse di non distruggere il monumento, come nel caso della Valle de los Caídos (dove sono sepolti Franco e Primo de Rivera), la raccomandazione è di collocare in un luogo ben visibile un testo dove si spieghi che cosa sono state la dittatura e la repressione.

Altro punto chiave, anch'esso risolto con un mezzo pastrocchio, è quello delle sentenze sommarie dei tribunali franchisti, che causarono la morte di migliaia di civili e militari. I condannati saranno riabilitati civilmente e moralmente ma non sarà sancita la nullità dei processi, come chiedevano Izquierda Unida, i catalanisti di sinistra di Erc, e persino il procuratore generale Conde Pumpido.

Contrarissimo alla legge, come era da prevedere, il Partido Popular, dalle cui file, ormai da anni, si porta avanti un'operazione di oblio programmatico che, in ultima istanza, avrebbe dovuto culminare in una ripartizione fifty-fifty dei torti e delle ragioni. Non succederà, per fortuna.

 

Nelle strade seimila tonnellate di rifiuti e colonne di immondizia alte 5 metri. Roghi e rivolte

I prigionieri della spazzatura

Napoli assediata dai suoi rifiuti

Mancano le discariche. Ma i Comuni non le vogliono nei loro territori

di ATTILIO BOLZONI

NAPOLI - Per tre volte ha provato a infilarsi nella solita strada, quella che porta alla tangenziale. E per tre volte il vigile urbano Nicola Di Bonito è tornato indietro. "C'era una barriera alta quattro o cinque metri e lunga venti, da lì non si poteva passare più, ho preso un'altra strada contromano e così ce l'ho fatta a uscire da casa", racconta mentre ci accompagna alla montagna che butta fumi e veleni. Quelli come Nicola, qui li chiamano "i prigionieri della monnezza". Qui è Napoli, Napoli che affoga nei suoi rifiuti.

Quella strada ormai è a senso unico, è una corsia sola, l'altra è una striscia che scende e sale da Pozzuoli a Toiano e poi ancora giù a Monterusciello, quattro o cinque chilometri di sacchi che bruciano, ferraglia, legni, lattine di pomodoro, copertoni, vetri, cassette di frutta, cartoni, bottiglie, una fogna a cielo aperto che si arrampica fino alla casa di Nicola e di altre trecento famiglie.

Erano tutti intrappolati là sopra in via Cupa delle Fescine, accerchiati dalla spazzatura, isolati da giorni. Poi qualcuno ha mandato le ruspe e spostato la montagna di qualche metro per aprire un varco e farli passare. Ma la "monnezza" l'hanno lasciata. È ancora lì, più alta e puzzolente di prima, pressata, tutta schiacciata sui cancelli di un cantiere. Forse verranno tra una settimana a spazzarla via, in questa contrada segnata sulla mappe come "il parco dei fiori". O forse verranno fra un mese, a caricarla sui camion e seppellirla da qualche parte.

Siamo partiti dai Campi Flegrei e siamo arrivati ai piedi del Vesuvio, quaranta chilometri di roghi e di rivolte, una bidonville che si allunga come un serpente, cinque o seimila tonnellate di immondizia che marciscono nei vicoli e sulle piazze, la paura di epidemie, i vigili del fuoco che corrono a spegnere gli incendi, blocchi stradali, discariche che non ce la fanno più a sopportare gli avanzi della grande Napoli.

È un tanfo che soffoca, che copre l'odore del mare da Mergellina a Bagnoli. Auto sprofondate tra buste fradice, garage sbarrati dai cassonetti in fiamme, viali che sono gigantesche pattumiere. Una mattina li svuotano e poi per settimane la "monnezza" resta ad appestare l'aria, non passa nessuno a prenderla.

I camion da almeno trenta giorni non vanno più in via Parini a Monterusciello, città nata per accogliere i terremotati di Pozzuoli, quelli del bradisisma dell'83. Ogni palazzo ha il suo albero dove scaricare, ogni quartiere ha il suo inferno di odori, le sue mosche, la sua diossina sprigionata dall'ultimo incendio. Sono gli abitanti che danno fuoco alle montagne. Scendono per strada e lanciano l'assalto. "Lo facciamo di media una volta ogni tre o quattro settimane, così arriva la polizia e dopo qualche ora il Comune manda le pale per raccogliere tutto", dice Alfredo Lettieri, uno dei disperati di via Parini.

Se non c'è rivolta, non c'è raccolta di rifiuti nella grande Napoli. Le donne di via Parini mostrano le ricevute di pagamento della tassa dell'immondizia: 196 euro l'anno per un appartamento di 67 metri quadrati. Un salasso. Più cara che al centro di Roma. "Noi paghiamo regolarmente ma loro vengono solo quando diamo fuoco a qualcosa", urla Assunta Iaccarino al ventesimo giorno di attesa di una pala. A Reginelle è anche peggio. Nemmeno con la rivolta ce le mandano là sotto le ruspe e i camion.

All'inizio della settimana hanno portato via qualche tonnellata di pattume a Mergellina e pure a Fuorigrotta. A Scampia, c'è voluto il monito del cardinale Crescienzio Sepe per vedere le strade sgombre. Nella parrocchia del Buon Rimedio, il capo della chiesa napoletana ha alzato la voce: "Questa città è un dono di Dio, si dovrebbe sentire profumo di mare e invece giro per le strade e non è possibile vedere quello che c'è... Puliamola all'esterno Napoli, se vogliamo che sia pulita dentro". Il sindaco Rosa Iervolino gli ha dato ragione. Sfidando le ire degli ambientalisti ha promesso un termovalorizzatore, però non sa ancora in quale punto della città potrebbero costruirlo. Non c'è più spazio a Napoli.

L'assessore comunale alla Nettezza urbana Gennaro Mola ogni sera controlla tabelle, fa i suoi conti. Ha calcolato che negli ultimi tre giorni la città è stata liberata di quasi 5 mila tonnellate di rifiuti. Il capo della Protezione civile Guido Bertolaso tornerà a Napoli venerdì, vuole scoprire quando e se finirà l'"emergenza".

Ha già incontrato i prefetti della Campania e il governatore Bassolino. Mancano le discariche. Ma i Comuni non le vogliono nei loro territori. Si ribellano. E così, in questa caldissima estate, sta ridiventando tutta una discarica la grande Napoli. L'altro giorno ne è tornata parlare la stampa estera. "Si cammina sui sacchetti neri", ha scritto l'Irish Times la mattina dell'inaugurazione del volo diretto Dublino-Napoli dell'Aer Lingus.

Per andare nei paesi sotto il Vesuvio bisogna passare dalla marina. Se tira vento i sacchetti di plastica galleggiano tra le onde, quando si arriva tra Barra e Sant'Erasmo tutto rimane inesorabilmente a terra. Altre montagne che bruciano. Cento metri di immondizia, cinquanta metri di fetore e poi altri cento metri di cumuli. Un paesaggio urbano da brividi. Fino a San Giovanni a Teduccio dove c'è l'autoparco C dell'Asia, l'azienda speciale per l'igiene ambientale di Napoli. Ci sono sempre camion fermi e stracolmi, gli autisti stanno per ore lì ad aspettare un ordine, il via libera per rovesciare il loro carico in qualche buca.

Ecco Ponticelli. Sopra le sue case corre un'altra tangenziale. È un altro sfacelo. Via Botteghelle, sotto i ponti non si passa più neanche a piedi, i marciapiedi sono un tappeto di rifiuti, anche qui le strade hanno una corsia sola. E dopo Ponticelli c'è Volla, dopo Volla c'è Cercola e poi Terzigno. Sulla statale numero 268 c'è stato il fuoco più grande. Dicono che era lungo 7 chilometri.
Dicono che ancora un po' e divorava anche Napoli.

 

Legambiente presenta il dossier sullo stato di salute del mare

Nel 2005 crescono abusivismo, inquinamento, pesca di frodo. Coste ferite da fogne e cemento

Ecco il "Mare Monstrum" d'Italia

ROMA - Cemento illegale, scarichi fognari, violazione del codice di navigazione. La lista di mali che affliggono il mare italiano parte da qui ed il mare nostrum dell'impero romano diventa il "Mare Monstrum" descritto dal rapporto annuale di Legambiente che si riferisce al 2005. E' diminuito, rispetto al 2004, il numero complessivo delle infrazioni, ma sono aumentati gli illeciti nel settore dell'inquinamento e della depurazione, più che raddoppiati rispetto all'anno scorso (+63%).

I reati accertati da carabinieri del Noe, Guardia di Finanza, Corpo forestale e Capitanerie di porto continuano a seguire un andamento altalenante. Dopo essere cresciuti tra 2003 e 2004, sono tornati a scendere nel 2005 (16.036), un calo, rispetto all'anno precedente, del 16,09%. Quattro le voci esaminate da Legambiente: abusivismo costiero e demaniale, inquinamento da scarichi illegali, pesca di frodo, violazioni del codice della navigazione.

Preoccupante, secondo l'associazione ambientalista, il trend di crescita degli illeciti legati alla depurazione e agli scarichi fognari, che passano da 1.406 nel 2004 a 2.235 nel 2005. La regione capofila è sempre la Sicilia, con 3.260 reati accertati (in flessione del 13,83% rispetto ai 3.783 del 2004). A seguire Campania (2.574 infrazioni), che sale dalla terza alla seconda posizione e la Puglia (2.375 infrazioni), che passa dalla seconda alla terza posizione.

La classifica regionale cambia considerando il rapporto tra infrazioni accertate e chilometri di costa. Sul podio più alto la Campania, con 5,48 infrazioni per km, seguita dal Veneto con 6,43 infrazioni che passa dal primo al secondo posto della lista nera. Al terzo il Molise (4,12 reati per km).

Secondo Legabiante muta anche il fenomeno dell'abusivismo edilizio: "Non ci sono più i miseri rustici tirati su in una notte o appartamenti monofamiliari - denuncia Sebastiano Venneri di Legambiente - la nuova frontiera è l'abusivismo di lusso" e regina del fenomeno, secondo le rilevazioni, si conferma la costiera amalfitana.

 

La notizia fornita a "Gay Help Line" da una coppia di uomini che lavoravano insieme in un centralissimo bar della capitale

Roma, la denuncia di due gay "Licenziati perché omosessuali"

L'Arcigay: "L'episodio è gravissimo, ma ancora più grave è che in Italia non ci sia nessuna legge che tuteli i gay"

ROMA - "Licenziati perchè gay". La denuncia è stata inoltrata a "Gay Help Line", da Marco Carbonaro, direttore di un bar a Roma, e dal suo compagno, Aldo Pinciroli, rimasti senza lavoro dall'oggi al domani, senza "nessuna valida giustificazione".

Come spiega Marco Carbonaro, la vicenda ha inizio quando viene assunto al bar a Roma, in galleria Alberto Sordi, che "non aveva un direttore da oltre un anno". Per questo, "il lavoro da fare è molto fin dall'inizio". I primi risultati, però arrivano in fretta: "I commercianti della galleria - racconta Carbonaro - oltre a complimentarsi per il lavoro che stavo svolgendo, hanno anche ricominciato a frequentare il caffè che, prima del mio arrivo era molto caotico".

Il lavoro nel bar in galleria procede bene fino a qualche giorno fa, quando "il general manager - dice Carbonaro - mi ha comunicato la necessità di assumere altro personale, dato l'aumento di lavoro dell'ultimo periodo e io gli ho proposto di fare un colloquio ad Aldo Pinciroli (il mio compagno da oltre due anni). Che la scorsa settimana è stato assunto come barman".

Così i due iniziano a lavorare insieme nel bar e "in quest'ultima settimana - come precisa Carbonaro - è stato per molti evidente l'esistenza della nostra relazione, senza che ciò inficiasse il lavoro". Fino a ieri, quando, aggiunge, "mi hanno comunicato che non sono in linea con la filosofia del bar e che sono licenziato". E anche Aldo è stato licenziato, senza "nessuna valida giustificazione".

"L'episodio denunciato da Marco Carbonaro è gravissimo - ha dichiarato il presidente dell'Arcigay di Roma, Fabrizio Marrazzo - ed è l'ennesima dimostrazione di quante discriminazioni ci siano ancora nei confronti degli omosessuali".

Ma l'Arcigay ritiene ancor più grave "il fatto che in Italia non ci sia nessuna legge che tuteli i gay da questo tipo di situazioni. In tema di diritti omosessuali - aggiunge Marrazzo - siamo il fanalino di coda dell'Europa e, laddove manca lo Stato, siamo costretti ad aiutarci tra di noi".

Intanto, da quando è stato attivata, quattro mesi fa, la GayHelpLine, il numero verde nazionale di supporto e assistenza per le persone gay e lesbiche, finanziato dal Comune e dalla Provincia di Roma, sono arrivate oltre 10mila telefonate di denuncia.

 

25 luglio

 

Denuncia di Confesercenti nel rapporto 2006: "Ancora racket e usura insieme a nuove attività". E nasce "il criminale dalla faccia pulita"

Fatturato da azienda leader per la mafia, da commercio e imprese 200 milioni al giorno

Aumentano i traffici dell'agromafia, guadagni per 7,5 miliardi l'anno

ROMA - Le mani della mafia sul commercio e le attività imprenditoriali, per un giro d'affari di 200 milioni di euro al giorno. Il rapporto 2006 della Confesercenti, "Sos impresa", mette in luce i consistenti introiti che vengono alla criminalità organizzata da attività all'apparenza lecite, come commercio, turismo, ristorazione e grande ditribuzione. "Ogni giorno 200 milioni di euro passano dalle mani degli imprenditori a quelle dei mafiosi e di questi 80 milioni sono a vario titolo sborsati dai commercianti italiani", si legge nel rapporto, che evidenzia come la mafia abbia raggiunto un fatturato di 75 miliardi di euro "pari a un colosso come l'Eni, doppio di quello della Fiat e dell'Enel, dieci volte maggiore di quello della Telecom".

L'usura e il racket coprono quasi la metà di questo fatturato: la prima voce movimenta denaro per 30 miliardi di euro e per i 150 mila commercianti colpiti rappresenta costi per circa 12 miliardi; la seconda copre un giro di dieci miliardi e riguarda 160 mila commercianti, costretti a sborsare un totale di sei miliardi di euro.

Confesercenti sottolinea con preoccupazione "la capacità delle cosche di intervenire con proprie imprese nelle relazioni economiche, stabilendo collegamenti collusivi con la politica e la burocrazia soprattutto per il controllo del sistema degli appalti e dei servizi pubblici". E' un'attività, spiegano gli analisti della Confesercenti, che si sviluppa con la trasformazione della struttura stessa dell'organizzazione criminale: "Emerge una 'borghesia mafiosa', una 'mafia dalla faccia pulita', costituita da gruppi di imprenditori, professionisti , amministratori che, in cambio di favori, curano gli interessi locali dei clan, il più delle volte prendendone le redini".

Per prelevare denaro e per reinvestirlo la mafia si infiltra soprattutto nel commercio e nel turismo, ma la sua organizzazione tentacolare interessa anche l'industria del divertimento, la ristorazione veloce, i supermercati, gli autosaloni, i settori della moda e perfino dello sport.

Sono drammatici i numeri del rapporto di Confesercenti: in Sicilia, a Catania e Palermo, pagano il pizzo l'80 per cento dei negozi; a Reggio Calabria sono soggette all'estorsione il 70 per cento delle imprese, in Campania è la provincia di Salerno quella dove il fenomeno del pizzo tocca i livelli maggiori. Per riscuotere ed estorcere la mafia assolda una manovalanza sempre più giovane e il rapporto sottolinea come spessissimo ad imporre il pizzo siano minorenni.

E' aumentata inoltre l'influenza delle associazioni a delinquere nei settori strategici dell'agricoltura, del comparto ittico e delle carni. L'attività dell'agromafia frutta alla malavita ogni anno oltre 7,5 miliardi di euro, attraverso il controllo illecito delle vendite, che obbliga gli agricoltori a cedere prodotti a prezzi stracciati.

 

Furbetti un anno dopo

di Stefano Livadiotti e Vittorio Malagutti

Fazio ha ancora l'auto blu e un ufficio galattico. Consorte vuole la rivincita. Fiorani invece punta ai servizi sociali. E Ricucci è molto dimagrito...

Baci, abbracci e tanta commozione. Dall'apoteosi mondana giù giù fino alla vergogna del carcere, la parabola triste di Stefano Ricucci, il furbetto per antonomasia, si è conclusa così com'era cominciata: nelle braccia della sua Anna. Cambia solo lo scenario. Il nove di luglio del 2005, lo sfarzo di villa Feltrinelli all'Argentario aveva fatto da cornice all'evento rosa dell'estate: le nozze Falchi-Ricucci, la modella e il finanziere. A un anno di distanza, il 13 luglio scorso, la coppia è tornata a riabbracciarsi dopo quasi tre mesi di lontananza forzata. Ma questa volta a fare da testimoni all'evento non c'erano invitati eccellenti. Il finanziere che tentò la scalata al 'Corriere della Sera', è uscito dal carcere di Regina Coeli nascosto su un furgone della Polizia penitenziaria per eludere la folla di reporter e fotografi in attesa. Era un Ricucci smagrito e depresso, l'ombra lontana dell'affarista guascone di tante interviste. Tocca a lui raccogliere i cocci di una stagione di ordinaria follia, demolita a suon di indagini e intercettazioni telefoniche.

Un anno fa, proprio a metà luglio, la banda dei furbetti sembrava a un passo dalla meta. Gianpiero Fiorani con la benedizione del governatore di Bankitalia, Antonio Fazio, era lanciato alla conquista di Antonveneta. L'Unipol guidata da Gianni Consorte era pronta all'Opa su Bnl. Ricucci, forte di una quota del 20 per cento, guardava dall'alto in basso tutti gli altri soci del 'Corriere', Mediobanca e Fiat comprese. Dietro di loro una scia di amici e sodali con in prima fila il finanziere bresciano Chicco Gnutti e l'allora presidente di Confcommercio, Sergio Billè. Di lì a poco suonò il rompete le righe. Le indagini dei pm, le dimissioni a raffica, il carcere per alcuni (Ricucci, Fiorani e il suo braccio destro Gianfranco Boni), per tutti l'addio forzato a ogni ambizione di potere. Un anno, però, non è passato invano. Per mesi sottotraccia, schiacciati dall'incalzare delle inchieste giudiziarie, adesso i furbetti cominciano a riorganizzarsi. In ordine sparso, con strategie differenti l'uno dall'altro, pensano al futuro.

Come passa per esempio le giornate l'ex governatore, quello che fu il regista numero uno dei furbetti? La sveglia di Mario Pasquini, autista della Banca d'Italia, squilla ora un po' più tardi di un anno fa, visto che il suo (tuttora) capo se la prende più comoda. Quasi mai Fazio arriva prima delle 9 e 30 del mattino nel nuovo ufficio tutto marmi e stucchi a villa Huffer (sempre in via Nazionale): ascensore personale e due stanze con bagno privato. In tutto, circa 200 metri quadrati, ricavati, secondo voci di corridoio, anche dalla soppressione della sala riunioni degli archivisti dell'Istituto. Lo Stregone di Alvito (copyright Diego Della Valle) ne dispone in base a una delibera approvata alla fine dello scorso dicembre dal consiglio superiore di Bankitalia (13 componenti, con ancora una salda maggioranza fazista), che gli ha consentito di tenere con se anche la storica segretaria Maria Antonietta Martini, detta la zarina. La decisione non è passata inosservata: la Procura di Roma ha aperto un fascicolo e un'istruttoria è stata avviata dai magistrati della Corte dei Conti. Pare che lo stesso governatore Mario Draghi, nella seduta del consiglio di fine giugno, non abbia fatto granché per nascondere il suo disappunto per la situazione ereditata.

Indagato dalla Procura di Milano per aggiotaggio e da quella di Roma per abuso di atti d'ufficio, Fazio riceve pochissimo. Prima delle elezioni lo andavano a trovare i parlamentari amici, come Luigi Grillo e Ivo Tarolli, che cercavano di convincerlo a candidarsi. Oggi, oltre naturalmente al legale Franco Coppi, a via Nazionale si affacciano solo l'ex fidatissimo segretario particolare del direttorio (carica abolita da Draghi) Angelo De Mattia (ormai sull'orlo della pensione), l'ex direttore della Vigilanza Francesco Maria Frasca e il membro anziano del consiglio superiore Paolo Emilio Ferreri.

Tutto casa e chiesa, il pio ex governatore, che nell'estate dei furbetti si lasciava nottetempo baciare telefonicamente in fronte dall'allora banchiere emergente Fiorani, ha mantenuto l'abitudine ai weekend nel paesello natìo di Alvito, che raggiunge con l'auto blu e quella di scorta (la cui assegnazione non dipende dalla Banca d'Italia, ma dal prefetto). È li che, martedì 6 giugno, in occasione della festa del patrono San Valerio Martire, è stato raggiunto dal cardinale Giovanni Battista Re, prefetto della congregazione per i vescovi. Alcuni ne hanno trovato la conferma a una voce che voleva Fazio candidato (in alternativa all'ex governatore della Bundesbank, Hans Tietmeyer) al vertice dello Ior, la banca vaticana che amministra un patrimonio dell'ordine dei 5 miliardi e dove nell'estate del 1989 Angelo Caloia ha preso il posto di Paul Marcinkus. Ma i boatos, forse messi in giro ad arte per destabilizzare il vertice dell'Istituto (che dopo tre conferme nell'incarico era in fase di prorogatio), hanno avuto vita breve: nei giorni scorsi, dopo un colloquio di un'ora e mezzo con il Papa, Caloia, ha avuto un nuovo mandato. E Fazio continuerà a passare il tempo studiando i faldoni dei processi.

Chi ha deciso di usare le maniere forti, nell'ambito delle inchieste giudiziarie aperte, è Giovanni Consorte. L'ex capo dell'Unipol si è mosso, insieme al suo (ex) vice Ivano Sacchetti, per ottenere dal Tribunale del Riesame i 43 milioni messi sotto sequestro su richiesta dei pm milanesi. Ma martedì 18 luglio il sequestro è stato confermato. "Frutto di normali consulenze a Gnutti per l'operazione Telecom del 2001", dicono i due manager. "Appropriazione indebita", sostengono i magistrati. Di più. Colui che fu l'uomo forte della finanza targata Coop, annuncia rivincite, evoca complotti, contesta in toto le accuse, trascorre ore ogni giorno per organizzare la sua difesa, deciso a non arretrare di un passo di fronte alle contestazioni dei pm. A ben guardare però, l'offensiva sembra diretta più verso gli ex colleghi che contro le procure. Manager e amministratori ora al comando della compagnia fino a pochi mesi fa approvavano plaudenti le mosse del numero uno poi travolto dalle indagini. Difficile, allora, voltare pagina sul serio. Consorte lo sa. Sa bene che la sua eredità resta sospesa come un macigno sul nuovo corso di Unipol e non vuole recitare la parte del capro espiatorio.

Tutto il contrario, almeno in apparenza, del banchiere Fiorani. Anche lui per anni ha fatto il bello e il cattivo tempo alla Popolare di Lodi, servito e riverito da un pool di manager che in buona parte si trova ancora nella prima linea dell'organigramma aziendale. L'ex pupillo di Fazio, però, finito agli arresti a metà dicembre, ha alzato fin da subito bandiera bianca di fronte ai pm. Ha dato disposizioni per far rientrare il tesoretto accumulato all'estero, pari, si dice, a un'ottantina di milioni e ha riempito centinaia di pagine di verbali di interrogatorio. Così, adesso che il processo si avvicina, il più padano dei banchieri cerca un'uscita di sicurezza. Vorrebbe patteggiare una pena di tre anni e mezzo chiedendo l'affidamento ai servizi sociali. La Cooperativa Bergognone di Lodi, che, tra l'altro, offre assistenza ai disabili, sarebbe già pronta ad accogliere il manager caduto dal piedistallo. E questa, alla fine, potrebbe non essere l'unica soluzione. Già, perché nonostante lo scandalo, le indagini e le perdite per centinaia di milioni subite dalla banca, Fiorani per molti suoi concittadini resta poco meno di un benefattore. E certo non ha fatto marcia indietro quel gruppo di sodali, tutti lodigiani doc, che comprarono azioni Antonveneta per centinaia di milioni di euro grazie ai crediti della ex Bpl, di cui si prestarono a coprire le manovre occulte. Nessuno di loro ha tempo per rimpiangere i bei tempi andati. Anche perché fanno tutti affari esattamente come prima, soprattutto in campo immobiliare.

E il fraterno alleato di Fiorani, il bresciano Emilio Gnutti? "Chicco si è fermato ai box", raccontano gli amici a Brescia alludendo ai problemi di salute (cuore), imprecando contro la mazzata giudiziaria che ne ha fiaccato il morale. Spiegano che ormai è fuori dalla mischia. Un pensionato, quasi. Proprio lui, il condottiero della razza padana che diede la scalata a Telecom, la vecchia volpe della Borsa con una condanna e un processo in corso per insider trading. In effetti, il 'Chicco nazionale', soprannome coniato ai tempi d'oro dai suoi amici furbetti, si è fatto da parte con una raffica di dimissioni. Ha lasciato poltrone pesanti come quella di vicepresidente del Monte dei Paschi di Siena, come anche le cariche nelle società di famiglia, formalmente affidate al figlio Thomas. Per curare gli affanni e gli acciacchi di una vita spesa in prima linea, l'ex patron della finanziaria Hopa trascorre lunghi periodi in un centro benessere sulle rive del Garda. In città, però, si fa vedere di rado. Cura la sua collezione di auto di lusso (Ferrari, Bentley e altre ancora), custodite, a decine, nei due piani di un garage interrato nella prima periferia di Brescia. Studia progetti per far crescere il suo Millenium, un centro fitness in verità già grande e molto frequentato. Ha rinunciato perfino alla Mille Miglia, la gara per auto d'epoca che è diventata un appuntamento fisso per industriali, finanzieri e vipperia varia. Quest'anno Gnutti, da sempre sponsor e concorrente, ha fatto solo una capatina il giorno del via, a Brescia, l'11 di maggio. Poi più niente, nessuna apparizione pubblica. Chicco tace. Non lancia proclami di rivincita alla Gianni Consorte, altro reduce eccellente, e assai loquace, della stagione delle scalate bancarie. A differenza degli ex sodali Fiorani e Ricucci, allo scalatore di Telecom è stata evitata l'onta del carcere. Lui, il problema giudiziario l'ha affrontato a passo di carica. Si è infilato nel tunnel degli interrogatori a tutta velocità, uscendone a tempo di record. Giusto un paio di apparizioni alla procura di Milano, la vigilia di Natale e poi ai primi di febbraio. Le indagini proseguono. I problemi restano, ma la scelta del basso profilo offre vantaggi notevoli. Uno su tutti: Gnutti, a dispetto dell'immagine da pensionato, può continuare a fare affari in tutta tranquillità. La sua Gp finanziaria, la holding di famiglia, ha chiuso in utile (9 milioni) il bilancio 2005, nonostante il sequestro, da parte della procura di Milano, delle plusvalenze realizzate con la scalata ad Antonveneta. E in portafoglio ci sono titoli, per esempio oltre 100 milioni investiti in azioni del Monte dei Paschi, in grado di garantire ottime plusvalenze. I guai di Hopa, che ha pagato con una maxiperdita di 1,3 miliardi di euro la fine dell'avventura in Telecom, hanno finito per ricadere soprattutto sui soci eccellenti della holding: Unipol, Popolare Italiana (ex Lodi), ancora Monte dei Paschi. Ovvero i compagni di avventure che per primi avevano scommesso su Gnutti investendo centinaia di milioni. Chicco invece è arrivato a fine corsa cavalcando i giganteschi profitti realizzati a titolo personale negli anni degli affari a colpo sicuro, quelli dei giochi di sponda, spesso finiti al centro delle indagini di Consob e magistratura, sui titoli Telecom, Unipol, Antonveneta, Bnl. Adesso la festa è finita (pare), ma il furbetto di Brescia, e con lui un gruppetto di famiglie che lo seguono sin dai primi passi, può permettersi di guardare l'atto finale dall'alto di una montagna di quattrini. Resta da sistemare una partita immobiliare. Palazzi e terreni sparsi per l'Italia, comprati l'anno scorso per una settantina di milioni con la Gp finanziaria. Quasi tutti provengono dal patrimonio della Popolare Italiana (gestione Fiorani) e adesso Gnutti li ha messi sul mercato. Possibilmente guadagnandoci, tanto per cambiare.

Sulle speculazioni immobiliari, oltre che sulle scalate bancarie, i furbetti avevano costruito la loro rete di affari. Da Consorte a Fiorani, da Gnutti a Ricucci, tutti hanno fatto fortuna col mattone. Anche il presidente della Confcommercio, Sergio Billè, inventore della Confimmobiliare (destinata nei suoi piani a fare da contraltare all'Assoimmobiliare di Confindustria) assieme ad alcuni immobiliaristi che hanno occupato le pagine dei giornali l'estate scorsa, da Stefano Ricucci a Danilo Coppola a Francesco Bellavista Caltagirone.

Rispetto a quei giorni Billè, che il 10 febbraio è stato sostituito al vertice dei commercianti, appare oggi dimagrito. Una scelta obbligata, la sua: ora che non ha più l'auto blu a scorrazzarlo (la scorta, invece, l'ha sempre rifiutata) Don Bigné, come lo chiamavano i tanti nemici dai tempi della pasticceria di Messina, deve trovare il modo di incastrarsi nella Smart della bionda compagna Cecilia.

Indagato per appropriazione indebita (per la vicenda dell'acquisto a peso d'oro di un palazzo romano dall'amico Ricucci, di cui è stato testimone di nozze) e per distrazione dei fondi (per l'uso dei contributi associativi), Billè s'è eclissato (non prima, però, di aver impugnato la nomina del successore). Riservatissimo, del resto, lo è sempre stato: la porta del suo ufficio di numero uno dei commercianti, che veniva regolarmente setacciato dai bonificatori in cerca di cimici, poteva aprirla solo lui dall'interno, premendo un pulsante. Qualche mese fa, arrivato con Ricucci davanti al ristorante romano di pesce La lampara, era andato in avanscoperta, trovando attovagliati il direttore dell'agenzia APcom, Antonio Calabrò, e il responsabile della comunicazione della Confindustria, Roberto Ippolito. Lesto aveva girato sui tacchi. Mai più s'è visto al Cnel, dove formalmente rappresenta ancora la Confcommercio (che sta cercando il modo di scaricarlo). L'unica occasione pubblica in cui ha fatto capolino è stato il funerale, lo scorso 30 maggio, dell'amico Lorenzo Necci 'Il Magnifico'. Per il resto, solo rare capatina al supermercato Dìperdì sotto casa. E qualche breve vacanza con la compagna: sono stati avvistati alle terme di Fiuggi, a Venezia e in Portogallo. Quasi sotto silenzio è passato anche il matrimonio del figlio Andrea, il 29 giugno, con decine di invitati (c'è chi dice 400) alla festa che si è tenuta dopo la cerimonia a Villa Miani.

Billè, come altri furbetti, va dicendo in giro che la sua unica occupazione attuale è lo studio delle carte processuali. I maligni dicono che continua a impicciarsi delle cose di Confcommercio attraverso i fedelissimi Fabrizio Palenzona e Ferruccio Dardanello. Chi ancora lo frequenta racconta che in realtà è stato tentato di mettere a frutto la lunga esperienza di Confcommercio per creare una società di consulenza nel settore del consumo. Idea subito tornata nel cassetto. Così come sono state respinte al mittente alcune offerte di lavoro ritenute non all'altezza.

Nessuno sa quante delle 47 cariche che ricopriva nel mondo dei commercianti sia riuscito a mantenere. Di certo ha conservato l'indirizzo: via dell'Aracoeli numero 4. Nel palazzo dove abitano anche il musicista Ennio Morricone e gli imprenditori Angelucci, Billè occupa un appartamento di quasi 400 metri quadrati, tenuto in buon ordine da un domestico peruviano. L'affitto, 110 mila euro l'anno, sostiene di averlo pagato lui da sempre (la Confcommercio se ne sarebbe fatta carico solo per i primi tre mesi della sua presidenza). Con la casa è rimasta a Billè l'incredibile collezione di opere d'arte acquistata in gran parte con i quattrini dei commercianti e poi ottenuta in comodato gratuito: alla fine di dicembre del 2005 i finanzieri hanno impiegato due giorni a catalogare oltre 400 tra mobili e quadri per un valore complessivo vicino ai 2 milioni di euro. I beni sono stati posti sotto sequestro e finora Confcommercio non ha potuto riprenderseli. Billè non ha ancora deciso dove passerà le vacanze. Ma sembra orientato a evitare una delle sue mete preferite negli anni scorsi (anche d'inverno): l'isola di Turks and Caicos, ai Caraibi, dove ha casa l'amico Bellavista Caltagirone. Oggi per il barone di Montelupo è meglio il basso profilo delle Terme di Fiuggi.

 

24 luglio

Programma d'evasione

"Bisogna innanzitutto combattere la corruzione, fenomeno ancora vivo, come prova il 42° posto che l'Italia ha ottenuto nel 2004 nella classifica di Transparency International, l'autorevole Ong indipendente che si batte contro i fenomeni di corruzione. Daremo maggiore attenzione sia ai reati connessi all'attività amministrativa, come la corruzione, sia alla criminalità economica, che falsa le condizioni di concorrenza e di mercato. Il Codice Etico è uno strumento che vuole garantire nella sottoscrizione di accordi commerciali il rispetto dei diritti umani, sindacali. E la lotta alla corruzione, quale percorso fondamentale in materia di responsabilità sociale delle imprese e di dimensione sociale della globalizzazione" ("Per il bene dell'Italia. Programma di governo 2006-2011" presentato dall'Unione e sottoscritto da tutti i segretari di partito del centrosinistra nell'aprile 2006).

"L'Ulivo decide di non cambiare. La proposta di legge sull'indulto approvata definitivamente in commissione Giustizia il 18 luglio non sarà modificata in aula. Il provvedimento di clemenza di 3 anni comprenderà anche i reati contro la Pubblica amministrazione, dalla corruzione alla concussione all'abuso d'ufficio, e i reati finanziari, societari e fiscali" (Ansa, 20 luglio 2006).

"Se non lasciamo nel testo la possibilità di far beneficiare dell'indulto anche Cesare Previti, Forza Italia non voterà con noi questo provvedimento. E vorrei ricordare a tutti che il quorum per farlo passare è di due terzi". (Pierluigi Mantini, capogruppo dell'Ulivo in commissione Giustizia, Ansa, 20 luglio 2006).

 

Sahan, quattro anni di attesa per tornare in famiglia

SE TUTTO andrà bene, Sahan potrà tornare nella casa dei suoi genitori nell'autunno del 2008, dopo quattro anni e mezzo di attesa. Siccome oggi ha poco più di due anni, i quattro anni e mezzo corrispondono alla sua intera esistenza. La colpa di Sahan è essere nato nello Sri Lanka, che poi è la terra di suo padre, Athula, e di sua madre, Marie Nilanka.

I genitori di Sahan sono una coppia di immigrati cingalesi entrambi dotati di regolare permesso di soggiorno: Marie Nilanka da tredici anni, Athula da undici. Nella primavera del 2004 decisero di concedersi una vacanza nel loro paese. Partirono assieme alla loro figlia maggiore, Amanda, e si stabilirono nella casa dei nonni materni, a un'ottantina di chilometri da Colombo. Marie Nilanka era incinta e nel maggio del 2004 mise al mondo Sahan.

Contavano di tornare in Italia senza fretta. Ma un evento improvviso e doloroso li obbligò a modificare bruscamente i loro programmi. Amanda non stava bene. Rispetto ai bambini della sua età, cresceva meno, molto meno. La portarono in un ospedale di Colombo e appresero che la loro figlia maggiore aveva una grave malattia alla tiroide. I medici parlarono chiaro: "La malattia è curabile, ma non qua. Se avete la possibilità di trasferirvi in un paese europeo, fatelo subito".

Maria Nilanka e Athula fecero quello che qualunque genitore avrebbe fatto: andarono di corsa a un'agenzia di viaggi. In quel momento scoprirono che anche Sahan era in un certo senso affetto da una malattia. Un morbo causato dalla legge. Situazioni come la sua non sono previste. Sahan, a dispetto dei suoi otto mesi d'età, e nonostante sia figlio di persone che lavorano in Italia da anni, per trasferirsi in Italia deve seguire l'intera pratica per il ricongiungimento familiare. Nell'attesa è costretto a restare nello Sri Lanka a casa dei nonni.

La pratica è stata avviata da Maria Nilanka e Athula il giorno dopo il rientro in Italia. Prima di tutto hanno saputo che dovevano presentare tutti i certificati anagrafici tradotti e convalidati sia dal ministero dell'Interno srilankese, sia dalle nostre autorità diplomatiche. L'appuntamento all'ambasciata italiana di Colombo, richiesto nell'ottobre del 2005, è stato fissato per il mese di luglio del 2006.

L'intervento di "Equatore Onlus", un'associazione della provincia di Mantova che segue i problemi dell'immigrazione, ha chiarito sia al ministero degli Esteri, sia all'ambasciata di Colombo, l'eccezionalità del caso. Ma l'unico risultato è stato un anticipo dell'appuntamento di pochi giorni. Intanto i documenti tradotti sono scaduti ed è stato necessario rifarli. Lo scorso 21 giugno, giorno dell'appuntamento all'ambasciata, l'impiegata addetta alla pratica ha spiegato ai nonni di Sahan che nella documentazione c'era un errore formale. I nonni l'hanno corretto, si sono ripresentati, e si è scoperto che c'era un altro errore. Quindi un altro ancora. Alla terza visita era finalmente tutto in regola.

Se tutto andrà bene, i documenti saranno convalidati tra cinque-sei mesi. Poi torneranno in Italia, in prefettura, e ci vorranno altri due mesi. Quindi si tornerà a Colombo, alla nostra locale ambasciata, per l'ottenimento del visto. Attualmente gli appuntamenti per la consegna del del nulla osta vengono fissati con un anno di attesa e non si conoscono i tempi per il rilascio del visto. Basta fare un po' di conti e si arriva all'estate-autunno del 2008. Il ministero degli Esteri può fare qualcosa?

 

Già ampiamente superato il listino consigliato dal gruppo Api-Ip 1,4 euro. Il pieno sale a oltre 70 euro. Maglia nera alla Campania, male la Liguria

Ischia, boom della verde: 1,505

Mappa prezzi: più 11% in un anno

di BRUNO PERSANO

I prezzi medi della benzina sono aumentati dell'11% in un anno

ROMA - Chi l'ha detto che la verde a 1,4 euro al litro è un record? Errore. A Ischia, la benzina costa 1,505 euro, appena sotto il prezzo dell'Olanda, dove la "verde" è più cara che in tutta l'Europa. A Napoli la soglia storica dell'euro e 4 fu superata abbondantemente già tre mesi fa. Come pure a Posillipo e a Mergellina. Stessa musica ad Imperia: sulla riviera di ponente della Liguria la "verde" costa già 1,447 euro a litro.

Bersani: "Petrolieri monitorati". Due giorni fa l'Api e l'Ip hanno consigliato di aumentare ancora una volta il prezzo alla pompa e le associazioni dei consumatori hanno gridato allo scandalo. Il ministro dello Sviluppo Economico Pierluigi Bersani ha annunciato che inaugurerà al più presto un osservatorio dei prezzi e ha ammesso che terrà sotto osservazione stretta i petrolieri. L'associazione dei consumatori Altroconsumo ha minacciato che affiggerà manifesti di condanna sui distributori più cari, mentre il Codacons ha invocato l'installazione dei "benzacartelloni" per suggerire agli automobilisti gli indirizzi più convenienti.

Un pieno costa 70 euro. Rispetto ai prezzi medi pagati l'anno scorso, con l'aumento suggerito dal gruppo Api-Ip, il prezzo di un pieno di un'auto di media-grande cilindrata sale a oltre 70 euro, l'11% in più rispetto allo scorso anno. "Ben venga quindi l'idea dell'osservatorio dei prezzi", ha dichiarato Luca Squeri, presidente di Figisc Confcommercio, l'associazione che riunisce i distributori - è utilissimo un monitoraggio dei fattori fondamentali di formazione del prezzo che si paga alla pompa".

Ancona il prezzo più vantaggioso. Repubblica.it ha fatto qualche telefonata in giro per l'Italia per tastare il prezzo della benzina nei distributori. Niente di scientifico, ma sufficiente per capire come vanno realmente le cose. A tutti abbiamo chiesto quanto costa la "verde servita", cioè la benzina erogata dal benzinaio (quella al self-service costa qualche centesimo in meno). In testa alla classifica c'é l'isola d'Ischia; in fondo, con il prezzo inferiore, Ancona. Tra la benzina più cara e quella più conveniente la differenza è 0,106 centesimi, quasi un litro ogni dieci: un abisso.

Le differenze geografiche. Come dicono i petrolieri, i prezzi consigliati risentono delle "differenziali geografiche". Comprare benzina in città difficilmente raggiungibili costa di più che nei capoluoghi di provincia. E' una variabile che può incidere sul prezzo al consumo anche di due centesimi e mezzo a litro. E poi c'è in sovrappresso per le ore notturne e pure per le autostrade e le tangenziali. D'altronde lo straordinario dei benzinai costa caro come pure il pedaggio per raggiungere i distributori in autostrada. Senza dimenticare che in tre regioni d'Italia, Campania, Molise e Liguria, la verde costa di più perché le amminstrazioni locali hanno aumentato le tasse di loro compentenza, le cosiddette accise, per rimpinguare le entrate finanziarie.

La mappa dei listini. Ecco perché la benzina costa diversamente da regione a regione; da compagnia a compagnia; da gestore a gestore. L'Agip di Ischia batte tutti: 1,505 euro a litro al distributore di via Asolino; poi c'é l'Agip di lungomare Vespucci ad Imperia con 1,447 e infine l'Ip di via Medaglie d'oro a Salerno con 1,433 euro a litro. La classifica di Repubblica.it dei dieci distributori più cari prosegue con l'Agip di piazza Tumminello a Palermo che vende la verde 1,423; con l'Agip di Campobasso in via IV Novembre (1,421); con il distributore Agip di via del Mare a Milano (1,419). Al settimo posto ancora un Agip, quello di via Claudia Augusta a Bolzano (1,417); e poi l'Ip di Asti in via dei Partigiani (1,409); l'Agip di via Cristoforo Colombo 34 a Roma (1,404), e, infine, l'Agip di via Flaminia ad Ancona che, con 1,399 euro a litro, conquista la medaglia d'oro del distributore più conveniente.

"Guadagniamo 30 euro ogni mille litri". Per l'associazione dei consumatori Contribuenti.it, a Napoli si venderebbe la benzina più cara d'Europa. Già tre mesi fa due distributori in via Nuova Marina e in via de Gasperi, Erg e Total, vendevano la "verde" a 1,439 euro a litro, ben più alto dello storico 1,4 consigliato l'altro giorno dal gruppo Api-Ip. "Fanno bene i clienti a lamentarsi - spiegò allora il gestore della Erg - ma loro non sanno che il nostro guadagno si limita a 30 euro ogni mille litri. Tutto il resto se ne va in tasse".

"Serve la benzina low cost". Vittorio Carlomagno, presidente dell'associazione Contribuenti Italiani lancia due proposte: "Introdurre subito la benzina "low cost" a 1 euro e potenziare i controlli tra il prezzo del venduto e quello consigliato dalle compagnie che di solito viene irregolarmente annotato sui registri per pagare meno tasse".

 

20 luglio

 

Sul commercio estero l'Italia resta indietro

Pesa l'importazione di greggio, e il «made in Italy» non riesce più a compensare gli squilibri che crea nella bilancia commericale

Negativi i dati diffusi ieri dall'Istat sul «Commercio estero ed attività internazionali per le imprese 2005». Il rapporto elaborato dall'Ice (Istituto nazionale per il Commercio Estero) evidenzia un quadro davvero poco brillante per l'Italia: rallenta la crescita delle esportazioni (+4% contro il +7,5% del 2004), ma consumiamo anche di meno, visto che frenano anche le importazioni (+7% contro l'8,4% del 2004). Soprattutto, peggiora sensibilmente il saldo della bilancia commerciale (-10 miliardi di euro rispetto a -1,2 dello scorso anno)ed è in diminuzione la quota di mercato estero detenuta dalle nostre imprese.

Ad incidere negativamente è l'alto costo dell'approvvigionamento energetico. Il deterioramento del saldo del commercio estero segnato nel 2005 è, infatti, integralmente imputabile all'ampliamento del disavanzo energetico (il saldo del petrolio greggio e gas naturale registra un peggioramento di circa 11 miliardi di euro). In particolare, la fattura del petrolio è stata più cara del 41,4% rispetto al 2004, mentre quella del gas è aumentata del 38%. Sono proprio i paesi produttori di petrolio, accompagnati dell'immancabile Cina, a guidare il gruppo dei nostri creditori: con l'Opec c'è uno squilibrio da 15,1 miliardi di euro (8,3 nel 2004), mentre quello verso il Celeste Impero raggiunge i 9,5 miliardi (7,4 nel 2004); si riduce invece il deficit con i paesi dell'Unione europea (da -14,1 a -12,2 miliardi di euro), mentre migliora l'attivo nei confronti degli Stati uniti (da +12,4 a +13,2 miliardi di euro).

Petrolio a parte, l'export italiano comunque «non tira». Calano le vendite dei prodotti n cuoio (- 3,6%), quelle dei manifatturieri (- 4,4%) e quelle di macchine e prodotti meccanici (- 1,6%). In controtendenza, invece, i prodotti agricoli, alimentari e i derivati raffinati del greggio, che hanno segnato incrementi della quota di esportazioni sul complesso dei paesi dell'Unione monetaria.

A conti fatti, la crescita delle esportazioni, che pur si è avuta nel 2005, è stata inferiore a quella dei paesi concorrenti, cosa che ha determinato l'assottigliamento della fetta di mercato internazionale per le nostre industrie.

Secondo l'Ice, la causa può «solo in parte essere spiegata dalla forza dei paesi emergenti», proprio perché «il cedimento si è manifestato anche rispetto agli altri paesi dell'area euro». E' probabile quindi che il nostro modello tradizionale di esportazione, legato quasi esclusivamente ai fasti del made in italy, debba essere accompagnato da politiche che incoraggino l'innovazione e la produzione di beni ad alta tecnologia. Non è un caso se le esportazioni di prodotti high tech siano scese ai livelli più bassi dal 1994. A questo proposito è chiaro l'avvertimento contenuto all'interno del rapporto: non cadere nella «tentazione di aggirare i problemi strutturali del sistema economico, cercando di limitarne l'apertura alla concorrenza esterna». Il protezionismo», si legge, «sia nella forma di restrizione sulle importazioni che del sostegno alle esportazioni o delle svalutazioni competitive «sottrae stimoli all'innovazione e alla crescita e inquina il clima delle relazioni internazionali. Occorre sapervi resistere». Un po' il contrario di quanto vanno chiedendo di solito gli imprenditori piccoli e medi, che non a caso difficilmente fanno innovazione di prodotto.

Lasciano ben sperare, invece, i «pochi dati disponibili» per il 2006 che «fanno intravedere una ripresa delle esportazioni» oltre ad «un maggior potere di mercato di alcune imprese italiane, basati su fattori qualitativi di competitività». Altro elemento di ottimismo è l'incremento del valore delle esportazioni del Mezzogiorno che (trainato in particolare dalle vendite dei prodotti petroliferi raffinati) cresce dell 11,3% a fronte di un incremento medio nazionale del 4%.

 

Accampamento Parigi

Nella capitale aumentano i senza fissa dimora, alloggiati dal Comune in tende montate lungo le strade. Un fenomeno reso più visibile dalle manifestazioni estive

Anna Maria Merlo

Parigi. Giovedì 20 luglio apre di nuovo «Paris-Plages», un mese di spiaggie artificiali con attività sportive, sedie a straio, bar e musica sulle rive della Senna, quest'anno estese sulla rive gauche fino alla biblioteca François Mitterrand dove è stata appena inaugurata (e subito chiusa, ma dovrebbe riaprire domani) la nuova piscina all'aperto che galleggia sulla Senna. Per installare l«Paris-Plages», il comune ha dovuto però sloggiare gli abitanti abituali delle rive della Senna : gli sdf (i senza tetto), sempre più numerosi. «I gruppi che sono in contatto con gli sdf hanno chiesto loro di spostarsi» spiegano al comune, senza precisare dove.

Chiunque prenda un bateau-mouche sulla Senna, non può non vedere che tra la tour Eiffel e Notre Dame, in un percorso dichiarato patrimonio mondiale dall'Unesco, decine di persone vivono sotto le tende. Sono le canadesi della marca Quechua che Médecins du Monde ha distribuito quest'inverno. L'idea era di lanciare un allarme, fare un denuncia per scuotere l'opinione pubblica, con un'operazione battezzata «igloo». Ma poco per volta, la città si è abituata alle sue tende. Ce ne sono alle Halles, davanti e dietro Beaubourg, lungo i canali Saint-Martin e dell'Ourq, sui grandi boulevard. Médecins du Monde ne aveva distribuite 300 all'inizio dell'inverno, oggi pare siano salite a 500. «Constatiamo un fenomeno di precarizzazione» afferma Mylène Stambouli che al comune di Parigi è incaricata delle questioni dell'esclusione. Gli sdf sono intorno ai 10mila a Parigi. Delle persone che si arrangiano tra squat, giacigli di fortuna in strada, alberghetti a basso prezzo, centri sociali. Il comune quest'anno ha stanziato 50 milioni di euro per evitare la riduzione di mille posti di accoglienza, come ad ogni estate. Il Secours catholique ha lanciato una campagna con manifesti per le strade, per far fronte alla précari-été (un gioco di parole tra précarité e été, estate).

L'operazione «igloo» comincia ad essere criticata, perché da manifestazione di denuncia si è trasformata in una soluzione stabile per molti. Secondo Xavier Emmanuelli, fondatore del Samu social (pronto soccorso sociale), «inchiodano l'sdf in strada. Un mese in strada, significa tre mesi di lavoro per il reinserimento. Ma se si abituano, che fare ? ». Le associazioni che gestiscono i centri di accoglienza segnalano un calo delle domande. Come se abitare una tenda in strada fosse ormai considerato una soluzione stabile. La Prefettura invoca la legge : « Umanamente legittime, le tende pongono un problema di ordine pubblico e di rispetto dell'ambiente. A Parigi, il camping è proibito. Difficile tollerare il mantenimento di questo dispositivo». Gli abitanti protestano, per i fastidi causati da queste presenze.

Le tende dentro Parigi sono la punta di un iceberg ben più consistente che si sta radicando nella regione parigina e che riguarda non più le popolazioni marginali, come gli Sdf, ma dei lavoratori, per lo più precari, che con un salario intorno ai 1000-1200 euro non riescono ad ottenere un appartamentino in affitto. « In cinque anni - denunciano alla Fondazione Abbé Pierre - le situazioni bizzarre, abitazioni di fortuna o camping utilizzati come alloggi, si sono considerevolmente sviluppate». Un'altra associazione che si occupa delle popolazioni povere, Coup de main, spiega che « dei francesi, integrati ma in difficoltà, si insediano un po' dappertutto ». I poteri pubblici fingono di ignorare il problema. Ma alcuni sindaci di comuni dove sorgono dei camping trasformati in residenze fisse, cominciano a sollevare la questione. « Ogni terreno aperto tutto l'anno accoglie dei residenti permanenti» ha rilevato una urbanista, France Poulain, che ha redatto una «Guida del camping caravanning» nella regione Ile de France. Le persone che vivono tutto l'anno nei camping restano nascoste, perché trasformare un luogo di vacanza temporanea in una residenza stabile è proibito. Molti così hanno per esempio perso il diritto al voto, perché non possono dare un indirizzo legale. Secondo un primo censimento di questo tipo di residenza realizzato dalle associazioni per il diritto alla casa, nel dipartimento 91, alle porte di Parigi, 1700 vivrebbero in baracche di fortuna. Nel dipartimento 77, più di 1500 famiglie si arrangiano, in capanne da giardino o nei camper. In alcuni comuni, un terreno comunale è messo a disposizione dei «campeggiatori involontari», in mancanza di case popolari. A La Ferté-Alais, un comune della banlieue parigina, il municipio ha comprato un camping per rinnovarlo e offrire alle famiglie che non riescono più a pagare un affitto un alloggio più decente. I proprietari dei camping mantengono il silenzio - affittare uno spazio tutto l'anno è illegale - ma si sono buttati sull'affare. La loro federazione ammette : «Certo, ci sono dei casi. Nei dipartimenti 95, 78, 77. Provinciali, divorziati, giovani coppie, famiglie: la maggior parte sono dei lavoratori dipendenti, esclusi dal mercato degli affitti, perché mancano di garanzie da fornire al proprietario ».

 

18 luglio

 

Terapia d'urto in corsia

di Daniela Minerva e Luca Carra

Ricoveri inutili. Abuso di farmaci. Poi Tac e analisi a più non posso. Così lievita la spesa e i malati stanno sempre peggio. Ma il sistema per tagliare c'è. Eccolo

La signora Tita ha 81 anni e a ogni primavera inoltrata, quando a Palermo comincia a fare caldo, si ricovera per una settimanella: un po' di esami, qualche flebo, una rémise en forme che alla sua età è sempre opportuna prima della grande calura estiva. È vero, la signora, ringraziando Dio, sta benissimo, ma la figlia è infermiera e un letto al Policlinico non glielo nega nessuno. Così, il suo è esattamente uno dei cinque milioni di ricoveri 'inappropriati' che l'Agenzia per i servizi sanitari regionali stima affollino inutilmente gli ospedali italiani. Con un inutile esborso da parte del Servizio sanitario nazionale di circa 5.700 milioni di euro l'anno, stando alle stime della Ageing Society, l'istituto di ricerca diretto da Andrea Monorchio.

Cinque miliardi di euro spesi per ricoverare cittadini che non ne hanno nessun bisogno, che potrebbero cavarsela con un intervento in day hospital, quando non semplicemente con qualche accertamento diagnostico, e invece finiscono a occupare un letto che costa circa 650 euro al giorno. Una follia che le regioni più accorte hanno smascherato, chiedendosi cosa si celasse dietro ragioni di ricovero del tipo 'alterazioni dell'equilibrio' (50 mila nel 2003) , 'ipertensione' (110 mila), 'malattie dell'apparato digerente senza conseguenze' (283 mila), e intervenendo sulle strutture ospedaliere di modo da abbatterle drasticamente. Li chiamano i '43 Drg non appropriati', burocratese per indicare che quel tipo di ricoveri non si deve fare. Questo è avvenuto in Emilia Romagna, in Toscana, in Veneto, in Fiuli, in Umbria e nelle Marche. Ma non nel Lazio, in Sicilia o in Campania. Una prassi stigmatizzata dal Dpf di Tommaso Padoa-Schioppa quando parla dell'"utilizzo improprio dei ricoveri ospedalieri" come uno degli elementi di criticità che il servizio sanitario deve correggere. Insieme all'"inappropriatezza di alcune prestazioni", alla "carenza di servizi di assistenza domiciliare integrata; l'esorbitante livello di spesa farmaceutica per abitante e l'insufficiente qualità dei servizi sanitari in alcune Regioni".

Il Dpf così sintetizza la profonda trasformazione che ha scosso le strutture sanitarie italiane dal 2001 a oggi, sotto la doppia spinta della attribuzione alle regioni della tutela della salute, e della necessità di porre un tetto a una spesa che da anni cresceva all'impazzata e che supera ormai i 95 miliardi di euro l'anno. Per colpa essenzialmente di tre voci di bilancio: ospedali (che in media assorbono il 49 per cento del budget), farmaci (circa il 13) e diagnostica (circa il 20), la nuova bestia nera degli assessori perché sempre più costosa e ambita dai cittadini che prendono molto sul serio i richiami a controllarsi, controllarsi, controllarsi.

Le scelte messe in campo dalle diverse regioni sono oggi una lente d'ingrandimento che rivela impietosamente chi ha ragione e chi ha torto, chi ha vinto e chi ha perso nella partita di tagliare le spese sanitarie rispettando il mandato costituzionale di garantire a tutti i cittadini pari diritti sanitari. Con un effetto paradosso assai sorprendente: gli atlanti della mortalità e della frequenza delle malattie in Italia mostrano che dove si spende meno si vive meglio e più a lungo. L'eccellenza abita in Emilia, in Toscana, nelle Marche, in Veneto. I cittadini soffrono nel Sud del paese, nelle campagne lombarde e piemontesi.

Oggi, la montagna di dati messi a disposizione dall'Agenzia per i servizi regionali smentisce clamorosamente chi invoca generiche ragioni a sprechi e inefficienze. Rivela perché esplode la spesa sanitaria e come la si può controllare con una chiarezza cristallina. A partire dalla favola dell'invecchiamento della popolazione che sarebbe la causa ineluttabile dell'aumento dei costi, ma che nei fatti, commenta Cesare Cislaghi, responsabile dell'Osservatorio di economia dell'Agenzia sanitaria Toscana, "comincerà a incidere seriamente tra diversi anni. Quello che ora ci fa saltare il banco è il consumismo sanitario". Ovvero la passione degli italiani per la diagnostica tanto tecnologicamente avanzata quanto costosa; la fame smisurata di farmaci; ma soprattutto l'incapacità di molte regioni di accompagnare le politiche di rigore alla cosiddetta 'territorializzazione', ovvero la responsabilizzazione dei medici di base, la costruzione di servizi a domicilio e il conseguente svuotarsi degli ospedali.

 

14 luglio

 

Nelle tre pagine consegnate ai pubblici ministeri il funzionario racconta come lavorava l'ufficio di via Nazionale

Il memoriale di Pio Pompa

"Così controllavamo la stampa"

"Archiviavamo tutto per prevenire un nuovo Nigergate"

DI CARLO BONINI

ROMA - Non è vero che Pio Pompa ha poco o nulla da dire. Non è vero che, in queste ore, il funzionario del Sismi "orecchio di Nicolò Pollari" sappia soltanto bofonchiare della natura innocua del suo rapporto con Renato Farina, alias "fonte Betulla". Non è vero che l'ex impiegato Telecom abruzzese sappia soltanto ripetere la sua "incapacità di spiegarsi" l'accusa che gli muove la procura di Milano: aver controllato due giornalisti di "Repubblica". Pio Pompa qualcosa in più l'ha detta. Meglio, l'ha scritta.

Tre paginette dattiloscritte, datate 7 luglio, indirizzate agli "illustrissimi procuratori della Repubblica Ferdinando Pomarici e Armando Spataro", per una storia che, all'osso, suona così. Il problema del Sismi aveva un nome: "Repubblica". L'ossessione double-face di Nicolò Pollari si chiamava "Abu Omar" e "Nigergate".

Per liberarsene, il direttore del Servizio decide di non risparmiarsi. Viene messa al lavoro la fabbrica della disinformazione e intossicazione di via Nazionale 230, ufficio riservato del Direttore. Con un ordine: raccattare ogni genere di informazione, anche spazzatura. Senza alcuna distinzione o cernita tra il vero, il verosimile, il falso. Il Sismi mobilita ogni risorsa. Sicuramente Renato Farina, alias "fonte Betulla", e con lui "altri soggetti". Con un risultato.

Oggi, l'archivio di via Nazionale, sequestrato il 5 luglio dalla procura di Milano, è un pozzo nero la cui apertura toglie il sonno al Servizio.

Pio Pompa - è noto - si è sin qui sottratto alle domande e alle contestazioni dei pubblici ministeri esercitando il suo diritto al silenzio. Ma la sua memoria (controfirmata dall'avvocato Titta Madia) ha indubbiamente il pregio della chiarezza, lì dove sceglie di dar conto almeno di una parte di ciò che è accaduto.

Leggiamo. "Lo scrivente svolge funzioni di dirigente del Sismi con compiti di analista "Osint" (fonti aperte) e con incarico di rapporti con persone utili, sempre nel settore Osint". La sigla (Osint) dovrebbe essere ormai familiare. Non più tardi di martedì, è fiorita sulle labbra del sottosegretario alla Difesa Lorenzo Forcieri durante la burocratica lettura che ha dato a Montecitorio di ciò che il Sismi ha ritenuto di far sapere al Parlamento. Ma ciò che Forcieri non ha detto o che a Forcieri non è stato detto, Pompa sceglie di scriverlo con apparente candore.

"E' vero che il giornalista Farina, come altri soggetti, mi informava in merito alle notizie che essi legittimamente erano in grado di apprendere sulla vicenda relativa al presunto rapimento di Abu Omar". E' vero, dunque, che, quantomeno per Renato Farina, la nostra intelligence politico-militare, per ordine del suo direttore Pollari, ha violato la legge istitutiva dei Servizi, lì dove vieta il reclutamento di "giornalisti". E' altrettanto vero che l'ufficio di via Nazionale 230 aveva avvicinato "altri soggetti", individuati dal Sismi come fonti "utili a ottenere il massimo delle informazioni sugli sviluppi della vicenda Abu Omar".

Bene. Ma perché mettere in moto Farina e questi "altri soggetti"? Scrive Pompa: "Per prevenire o comunque conoscere preventivamente indebiti attacchi sui media, già in essere o potenziali, scaturenti da una sinergia tra la doverosa iniziativa della magistratura e altri interessi perseguiti da singoli organi di stampa".

La sintassi del periodo è legnosa, ma ne è chiara la sostanza. Il Sismi aveva urgenza di sapere cosa bolliva nella pentola delle redazioni e come questo avrebbe incrociato il lavoro della magistratura. Il Servizio non intendeva saperlo a giornali "chiusi" in tipografia. Ma a giornali "aperti" in redazione. Il problema non era reagire alla pubblicazione di ciò che al Servizio era sgradito, ma "conoscerne in anticipo" il merito, per poterlo "prevenire".

Pollari voleva sapere chi avrebbe stampato cosa, e quando, e attingendo a quali fonti. Meglio: Pollari voleva conoscere innanzitutto le mosse di "Repubblica". Pompa lo scrive: "Per circa tre anni, il Sismi è stato al centro di attacchi mediatici insistenti, ingiustificati e ingiusti per la questione del "Nigergate". E la questione, emblematicamente grave per gli interessi nazionali coinvolti, rese necessario elevare il livello di attenzione (...) L'indagine sul sequestro di Abu Omar rivestiva una notevolissima importanza, perché alcuni organi di stampa avevano insinuato, anche molto apertamente, il coinvolgimento di istituzioni nazionali e del Sismi in particolare".

"Nigergate" e "Abu Omar", dunque. Leggi "Repubblica" e le sue inchieste. Leggi soprattutto, che per il direttore del Servizio la misura era colma e dunque "si rese necessario elevare il livello di attenzione". Ma come?

Ramazzando ogni brandello di informazione, la cui qualità è definita dal metodo con cui quell'informazione veniva raccolta e che Pompa così descrive: "Nella mia missione, sono obbligato ad acquisire, classificare, custodire, tutte le informazioni che ottengo, senza distinzione di genuinità, affidabilità, attendibilità. Si acquisiscono informazioni utili ed inutili: ciò non significa che anche quelle inutili debbano essere cestinate o non custodite".

L'archivio di via Nazionale è dunque pieno di immondizia. Perché l'ordine era che anche l'immondizia venisse conservata e con scrupolo classificata. Pompa ci tiene a farlo sapere prima che qualcuno gliene chieda conto. Ma soprattutto tiene a fare sapere che, fosse per lui quell'archivio gli andrebbe restituito. Per due motivi. Il primo: "perché, salvo qualche documento rispetto ai migliaia sequestrati, non riveste rilevanza per l'indagine in corso".

Il secondo, ai suoi occhi devastante: "perché la diffusione dell'archivio può nuocere agli interessi perseguiti da un servizio di sicurezza militare". Ma quali interessi? Quelli della sicurezza nazionale? O altri?

 

Annullate centinaia di prove, duemila studenti spostati di sede. Nel mirino degli ispettori del Miur gli istituti privati: in bilico 30 licenze di parità

Maturità, pugno duro del Ministero

Prove annullate e "private" bloccate

ROMA - Pugno di ferro del Ministero della Pubblica Isruzione sugli esami di maturità, in particolare per le scuole private: ventimila ispezioni, cinquanta prove di maturità annullate, un centinaio di ragazzi ammessi con la media dell'otto esclusi dagli esami e ben venti proposte di revoca della parità ad istituti privati per irregolarità. I numeri del gruppo ispettivo costituito presso il ministero dell'Istruzione sull'esame di Stato parlano chiaro.

Per la prima volta, dunque, il Ministero non ha usato mezzi termini nei confronti dei noti "diplomifici" che, ogni anno, sfornavano studenti modello senza che, a volte, ne avessero i requisiti.

La task force di 150 ispettori ha vagliato circa 20.000 istituti, ovvero, il 90% del totale delle commissioni. Alcuni hanno assistito le prove dei candidati ricoverati in ospedale (10 studenti interni, 7 di licei e 3 di istituti tecnici), altri hanno invece seguito i 15 maturandi detenuti che hanno sostenuto gli esami nelle case circondariali.

Particolare attenzione è stata rivolta ai candidati delle scuole private, 45mila nel 2006, contro i 42mila di 12 mesi fa. Conti alla mano, il 7% in più in un anno. I controlli hanno scandagliato i documenti prodotti dalle scuole e i reali requisiti degli alunni per poter essere ammessi agli esami. E' a questo punto che sono venute alla luce irregolarità insanabili in 50 casi, per cui il Ministero ha subito proceduto all'annullamento delle prove di esame.

"L'avvio di questa operazione trasparenza - commenta il ministro dell'Istruzione Giuseppe Fioroni - rende un servizio a tutta la scuola, soprattutto alle scuole paritarie serie che si assumono oneri e onori per garantire agli studenti e alle famiglie prestazioni di qualità. I controlli, ovviamente, hanno riguardato tutte le scuole, paritarie e non paritarie".

Vagliando invece le residenze dei privatisti (in Italia oltre 10mila studenti, il 2% in più rispetto al 2005), gli ispettori hanno imposto a circa 2.000 candidati lo spostamento in istituti statali o la riassegnazione ad istituti delle località di provenienza. "Individuare e rimuovere chi snatura la parità - ha aggiunto Fioroni - è l'unico modo per dare ai ragazzi il diritto a un'istruzione di qualità che sia omogenea e garantita su tutto il territorio nazionale".

Numerosi sono anche gli studenti che, la notte prima degli esami, hanno rischiato di dover rimandare la prova di un anno per la revoca della parità in 30 istituti. Il nodo è stato sciolto con il dirottamento dei candidati in scuole statali della provincia di appertenenza ma non soltanto. I vari Tar responsabili, dopo aver accolto il ricorso contro il Ministero presentato dai gestori degli istituti, ne ha riabilitati alcuni. In 20 casi, però, le irregolarità si sono rivelate così gravi da indurre la squadra d'ispezione a formulare la proposta di revoca della parità.

Un'altro fronte di attenzione si è concentrato sulle prestazioni degli studenti che, per merito, fanno più anni in uno. Si tratta dei cosiddetti "saltatori", un fenomeno che negli istituti paritari, negli ultimi tre anni, ha subito un grande incremento. Qui sono emersi i 100 candidati titolari di una media dell'otto, in realtà del tutto fittizia che sono stati esclusi dagli esami di Stato.

"Una scuola aperta a tutti, che vuole valorizzare l'autonomia, deve garantire prima di tutto la valutazione degli standard di qualità e il controllo del rispetto delle regole".

 

13 luglio

 

Mafia, in manette deputato di Forza Italia

Giovanni Mercadante era il medico del boss Bernardo Provenzano. È accusato di «associazione mafiosa»
Massimo Giannetti

Palermo

Aveva schivato le manette per ben due volte, in passato, il medico e deputato regionale di Forza Italia Giovanni Mercadante. L'accusa che ieri pomeriggio lo ha condotto in carcere è sempre la stessa, ma con parecchie prove in più sui rapporti, a quanto pare strettissimi, che il primario del servizio di radiologia dell'ospedale Civico di Palermo - nipote del boss di Prizzi, Tommaso Cannella - avrebbe avuto con la cupola di Cosa nostra. Prove che i magistrati della Dda palermitana hanno raccolto nelle numerose intercettazioni telefoniche che il mese scorso, nell'ambito dell'inchiesta denominata Gotha, portarono in carcere una trentina di persone tra boss e gregari, accusati di aver favorito la lunghissima latitanza di Bernardo Provenzano. Nell'inchiesta era spuntato ancora una volta il nome di Mercadante, raggiunto dall'avviso di garanzia che ieri si è trasformato in ordine di arresto, firmato dal gip Maria Pino.

I magistrati accusano il deputato azzurro di «aver fatto parte, unitamente ad altre numerose persone (tra cui diversi boss in carcere o latitanti) dell'associazione mafiosa Cosa nostra, e per essersi, insieme, avvalsi della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e omertà che ne deriva, per commettere delitti contro la vita, l'incolumità individuale, la libertà personale e il patrimonio».

Il politico di Forza Italia - avrebbe ideato anche un delitto d'onore - sarebbe stato insomma «una creatura» dello stesso Provenzano, di cui sarebbe stato medico di fiducia. In cambio delle prestazioni sanitarie fornite al capo dei capi e ad altri boss latitanti nella sua clinica privata, Mercandante avrebbe ricevuto l'appoggio elettorale di Cosa nostra. Un sostegno iniziato sin dai primi anni '90, prima con l'elezione al consiglio comunale di Prizzi, poi al comune di Palermo e nelle ultime due legislatura al parlamento regionale.

A parlare per primi della sua collusione con la mafia erano stati negli anni passati due boss poi pentiti, Antonino Giuffrè e Angelo Siino. Ma in entrambi i casi le indagini che ne seguirono furono archiviate su richiesta della stessa procura. Pietro Grasso, procuratore nazionale antimafia difende quella scelta: «Se Mercadante fosse stato arrestato prima solo sulla base dei pentiti - dice - avremmo oggi un politico trasformato in vittima del giustizialismo. Quando, però, gli elementi sono stati suffragati da altre prove di colpevolezza i pm non hanno dimostrato alcuna sudditanza e ne hanno chiesto l'arresto».

L'arresto di Mercadante, tra i primi degli eletti di Fi con oltre 10mila preferenze, riapre il capitolo dell'intreccio politica e mafia a Palazzo dei Normanni. Il governatore Cuffaro tace. E dal centrosinistra solo amare constatazioni: «Dalle intercettazioni dell'inchiesta Gotha - commenta Rita Borsellino, - è emerso subito un sistema politico mafioso consolidato. L'arresto di oggi conferma quanto sia radicato questo rapporto tra la mafia e certa politica».

 

Cile/Pinochet

«Si è arricchito con la "coca nera"»

M.M.

Ha fatto i milioni (di dollari) non solo rubando all'erario pubblico, contrabbandando armi e succhiando tangenti. Ora sull'ex dittatore Augusto Pinochet incombe anche il sospetto di essersi arricchito con il più classico dei mezzi moderni: la droga. Domenica il quotidiano di Santiago La Nacion ha pubblicato un servizio sull'ex generale Manuel Contreras, il primo capo della Dina (la polizia segreta pinochettista) e per lungo tempo anche il primo (e il solo) militare chiamato rispondere con il carcere delle atrocità commesse nei 17 anni del regime pinochettista. Contreras non ha mai perdonato al suo ex-capo di averlo indicato come il più ovvio dei capri espiatori e quando Pinochet, dopo il ritorno da Londra nel 2000 ha perso la sua condizione di «intoccabile» e ha cercato di salvarsi dalla pioggia d'accuse che cominciava a piovergli addosso scaricando tutte le colpe sui suoi subordinati, gli mandò anche una lettera aperta dandogli (con tutte le ragioni) del «fellone codardo» e sfidandolo ad assumersi le sue responsabilità di capo.

Domenica il generale Contreras, rimosso nel '77 quando la Dina si rifece un po' di maquillage cambiando il suo nome in Cni, ha detto di avere consegnato al giudice Claudio Pavez, che indaga sul misterioso omicidio, nel febbraio '92 a Santiago, del colonnello dell'esercito Gerardo Huber, un memoriale in cui sostiene che «gli attivi» di Pinochet provenivano dal narco-traffico e che la loro «distribuzione» e «lavaggio» erano maneggiati da membri del suo entourage familiare. In primis dal figlio dell'ex-dittatore, Marco Antonio Pinochet, che lavorava mano nella mano con l'imprenditore cileno di origine siriana Eduardo Bathich e con l'ex biochimico della Dina Eugenio Berrios. Insieme, sostiene Contreras, negli anni 80 misero a punto un tipo di cocaina, conosciuta come «coca nera», molto difficile da annusare per i cani dei servizi anti-droga e che sarebbe stata prodotta addirittura nel Complesso chimico dell'Esercito a Santiago. Come il colonnello Huber, anche il dottor Berrios, che negli anni 70, aveva elaborato il gas sarin con cui la Dina (e Pinochet) progettavano d'assassinare gli oppositori, fu trovato cadavere nel '95, su una spiaggia uruguayana. Imbarazzati i primi commenti del capo dell'Esercito, generale Oscar Izurieta, e del presidente, Michelle Bachelet: non bastano i reportages sui giornali, tocca alla giustizia accertare la verità e fare il suo corso.

 

Argentina/Patagonia

Il Chubut rifiuta il «regalo» di Benetton

Serena Corsi

Il governo del Chubut ha respinto i 7000 ettari che Benetton aveva pomposamente regalato alla provincia della Patagonia argentina nel novembre del 2005 per cercare di migliorare l'immagine deteriorata dal conflitto col popolo mapuche.

L'imprenditore trevigiano aveva fatto sgomberare violentemente dalle loro terre diverse comunità indie accusandole di «usurpazione» (e trovando spesso giudici compiacenti al suo servizio) , dopo aver comprato 900.000 ettari dai governi che negli anni 90 privatizzarono l'Argentina portandola al collasso del 2001. Nel 2004 il conflitto forò il muro di silenzio con l'arrivo in Italia di una coppia mapuche - Rosa e Atilio Curinanco- cacciati dalla propria terra con l'intervento dell'esercito e dalle guardie private di Benetton. A Roma, dopo averli incontrati e aver rifiutato qualsiasi accordo scritto («la mia parola basta») Benetton annunciò «soluzioni al problema» di cui poi riempì i giornali senza che nulla di concreto giungesse mai alla porta di Rosa e Atilio.

Nel 2005, intuito che non era facile piegare la tenacia dei mapuche, Benetton decise di cambiare interlocutore e annunciò che avrebbe «donato» 7000 dei suoi 900.000 ettari al governo del Chubut, perché poi li distribuisse agli indigeni. Sapeva che i mapuche avrebbero rifiutato l'offerta perché «nessuno può regalare ciò che non gli appartiene». Ma non poteva immaginare che l'istituzione a cui aveva deciso di rivolgersi per far rimbalzare su tutti i media la propria filantropia decidesse di guardare in bocca al caval donato, affidando un'indagine approfondita all'istituto nazionale di tecnologia agricola. E l'esito dell'indagine non giova all'immagine di Benetton: la terra regalata è praticamente incoltivabile e per renderla produttiva sarebbe necessario un investimento sproporzionato. Di tutto l'enorme latifondo Benetton, la terra «regalata» è, per l'80%, quella con «le condizioni climatiche più avverse, i venti più forti, le temperature più estreme e la maggiore scarsità d'acqua utilizzabile per coltivare».

Condizioni che rendono impensabile non solo le coltivazioni ma anche l'allevamento.

Quindi, dopo i mapuche, anche il governo del Chubut ha rimandato al mittente il «regalo».

 

Incontro urgente

Basta sacrifici per i soliti noti I sindacati: «Prodi ci riceva»

Cgil, Cisl, Uil chiedono al governo di essere ricevuti al più presto. La manovra economica va ridiscussa. Servono altre priorità per evitare la politica dei due tempi. Paghino i ricchi

Paolo Andruccioli

I sindacati confederali, Cgil, Cisl e Uil, chiedono il conto al governo Prodi. La disponibilità nell'accettare l'urgenza di una manovra correttiva è completa, ma le segreterie confederali ribadiscono il loro secco no alla politica dei due tempi, con un no chiaro e specifico alla riproposizione della solita politica dei sacrifici richiesti alla parte più debole del paese. Per questo, dopo una riunione unitaria delle segreterie nazionali, ieri i sindacati hanno chiesto un incontro urgente al presidente del consiglio, Romano Prodi. L'urgenza dipende dalle decisioni da prendere in tema di politica economica in vista della realizzazione del Dpef, il documento di programmazione economica e finanziaria che sarà la base della manovra per il 2007 e che è stato già varato da palazzo Chigi, senza alcun tipo di concertazione. Ma l'urgenza della riunione chiesta ieri dai sindacati è data soprattutto dalle anticipazioni che sono trapelate in questi giorni sulle intenzioni del governo di centrosinistra di recuperare risorse finanziarie attraverso tagli al welfare e in particolare alle pensioni e alla sanità.

Cgil, Cisl, Uil chiedono in sostanza a Prodi di presentare una proposta organica dell'esecutivo sull'avvio di una nuova fase di concertazione, che non deve essere una parola vuota o una formula buona per tutte le stagioni. Vista la falsa partenza del nuovo modulo. «Bisogna partire - ha detto Epifani - dalle politiche di sviluppo. Siamo disponibili ad affrontare la difficile fase economica usando il metodo della concertazione e dell'equità, che devono diventare la normalità della pratica di governo: non come avvenuto in questa prima fase». Eppure la disponibilità esiste. I segretari generali, Guglielmo Epifani, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti, hanno spiegato che già durante l'incontro con il governo il 29 giugno scorso i sindacati avevano dichiarato la loro disponibilità ad affrontare la delicata fase economica, con tutti i problemi già sul tappeto. Sulla manovra bis viene dunque dato un giudizio positivo. Stesso discorso sul decreto sulle liberalizzazioni. Ma i sindacati confederali temono che la disastrosa situazione dei conti pubblici determini un'inversione di tendenza nelle linee guida scelti dall'Unione. Si teme in sostanza che la necessità impellente di risanare la finanza pubblica metta in secondo piano le politiche per lo sviluppo e per il rilancio dell'economia italiana tuttora bloccata. Cgil, Cisl, Uil ribadiscono in altre parole il loro no alla politica dei due tempi: prima i conti, poi lo sviluppo.

Il segretario generale della Uil, Luigi Angeletti, nel corso della conferenza stampa di ieri, ha confermato la posizione unitaria dei tre sindacati. «C'è un'idea comune - ha detto Angeletti - la difficoltà del paese è legata principalmente alla scarsa crescita. Indebitamento e deficit sono conseguenze e non cause di questa situazione». Anche il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, che nei giorni scorsi aveva rilasciato dichiarazioni di fuoco contro i tagli annunciati, ha confermato che i sindacati sono in questo momento saldamente uniti. E che sulla concertazione il giudizio è comune. C'è anche l'accordo sulla necessità di individuare «misure forti per la ripresa che non possono essere finanziate tagliando la spesa sociale, le pensioni, la scuola e il pubblico impiego». Dove trovare dunque i soldi? Semplice, dicono i segretari di Cgil, Cisl, Uil, bisogna andarli a recuperare tra quei cittadini che finora non hanno pagato. Il riferimento è diretto prima di tutto agli evasori fiscali. Gli esecutivi di Cgil, Cisl, Uil si sono dati appuntamento per i primi giorni di settembre, mentre prima delle vacanze saranno organizzate iniziative sul Mezzogiorno e il lavoro nero.

Sul Dpef e sulle relazione tra istituzioni politiche e parti sociali interviene anche il presidente della camera, Fausto Bertinotti, che critica il metodo della maggioranza a cui egli stesso appartiene. «Il Dpef, il documento di indirizzo della politica economica del paese - si è chiesto ieri Bertinotti - esce da qualche nottata del consiglio dei ministri, ma vi sembra ragionevole? non lo è affatto». Bertinotti, che ha deciso di intervenire sul tema dopo la decisione del ministro Ferrero di non votare il Dpef nella riunione del consiglio dei ministri, ha anche spiegato, che il problema è anche il metodo. Sui contenuti della manovra, fa intendere Bertinotti, forse non si poteva fare diversamente.

 

Bossi e la Lega sempre in bilico: tra l'eversione e il ridicolo

Ma sono in buona compagnia

L’ultima trovata di Umberto Bossi è la creazione del Lombardo-Veneto, la macroregione ricavata dalla fusione della Lombardia con il Veneto, per farne la locomotiva istituzionale del treno del Nord da trascinare e guidare verso chissà quale meraviglioso traguardo ‘di libertà’. Come se la Lombardia e il Veneto languissero sotto il tallone di una feroce dittatura anziché essere le regioni più ricche d’Italia, dove la gente è quindi non solo ovviamente libera, ma anche più libera che in altre regioni. Il lato balordo di questa nuova trovata geniale di Bossi è che fa a pugni proprio con il concetto di federalismo fin qui predicato dalla stessa Lega Nord e dal suo grande capo. Bossi infatti ha sempre predicato il federalismo delle singole regioni, nello stesso numero in cui esistono oggi, oppure il federalismo boutade dello scomparso Gianfranco Miglio, che voleva tre macroregioni, quella del Nord, quella del Sud e quella del Centro da chiamare Etruria (!). Oggi, con la trovata del Lombardo-Veneto, il senatùr si dà la zappa sui piedi da solo. Il Lombardo-Veneto infatti non è l’intero Nord Italia, e quindi dalle nozze delle due regioni non nascerebbe affatto la macroregione del Nord. Non solo: fondere due regioni contraddice anche il modello di federalismo tra singole regioni fin qui proposto.

Il senatùr ha inoltre abbassato le penne: prima venivano chiamati ‘lumbàrd’ tutti i padani, compresi i veneti, che oltre a non essere affatto lumbàrd a dire il vero non sono neppure padani. Se la Serenissima, cioè il Veneto, è arrivato fino a Lodi, in piena Lombardia, Milano non è mai arrivata neppure a Verona. Il vescovado milanese è arrivato a comprendere parti dell’attuale Svizzera, ai tempi di S. Carlo Borromeo, ma a Milano comandavano gli spagnoli e non i milanesi. Oggi il senatùr è costretto a riconoscere pari dignità anche al Veneto, anzi all’intero Nordest, che peraltro non ha solo a che vedere col Veneto, ma anche con territori che parlando tedesco e guardano a Vienna. Nella sua ignoranza della storia Bossi non sa che al tempo che ora lui definisce beato, quando cioè nel Lombardo-Veneto comandavano gli austriaci, tra il Veneto della grande ex Serenissima e la Lombardia dell’eterno comando altrui c’era una tale rivalità da dover creare due capitali anziché una sola: e così Milano e Venezia erano ognuna capitale del Lombardo-Veneto per sei mesi l’anno.

Bossi invoca la fusione tra le due ricche regioni in base a quanto permette la stessa Costituzione italiana. Ma come? Non si tratta più della Costituzione di uno Stato ‘dittatoriale’ quale sarebbe l’Italia comandata, sfruttata e corrotta dalla solita ‘Roma ladrona’? Come si vede, nella Lega la logica non è una virtù diffusa...

Bossi aveva promesso che se al referendum avesse vinto il No lui se ne sarebbe andato in Svizzera. Pare invece abbia cambiato – ancora una volta – idea. Ed ecco la nuova trovata, che dimostra come l’unica cosa che la Lega ha di ‘duro’ è l’estrema ignoranza della storia, oltre che, ormai, anche del senso del ridicolo. Quando Bossi invoca la ‘devolution’ sul modello irlandese o scozzese, ecc., mostra di non sapere un’acca delle guerre che ci sono state, con devastazioni e decine di migliaia di morti, tra i vari regni della Gran Bretagna prima di giungere a quello che si chiama oggi, appunto e non a caso, Regno Unito. Ispirarsi a Braveheart o a Robin Hood è semplicemente ridicolo, perché in Italia non c’è mai stato niente di simile. L’unico nostro irredentismo è stato quello contro il potere straniero, spagnolo o austriaco o dello Stato pontificio, Stato che ha contrastato in tutti i modi l’unità d’Italia a partire dalla possibilità che la Penisola venisse unificata già dai Longobardi.

Ispirarsi al ‘modello catalano’ è altrettanto penoso. Sia perché è penoso saltapicchiare da un modello all’altro scimmiottando ora gli spagnoli e ora gli inglesi o dando corda alle stranezze senili di Miglio, e sia perché anche la faccenda catalana ha alle spalle cose ben diverse da quelle nostrane, compresa un lingua che non è quella spagnola e non è affatto solo un dialetto.

A dire il vero Bossi e il suo zoccolo duro di camicie verdi non sono gli unici asini in storia. E’ particolarmente divertente che il signor Vittorio Emanuele di Savoia abbia offeso in blocco i sardi bollandoli tutti come ‘inculatori di capre’, e pertanto puzzolenti, se solo si pensa che la storia dell’unità d’Italia e il gran salto di qualità dei Savoia sono nati entrambi in Sardegna. Per l’esattezza, sono nati quando gli allora duchi di Savoia hanno comprato dalla Spagna la Sardegna solo perché l’acquisto comportava il titolo di re, essendo l’isola un reame. Grazie alla Sardegna, quelli che erano semplici duchi, tra i tanti che inflazionavano il titolo in Europa, hanno potuto diventare una dinastia reale. E quindi aspirare a contare di più tra le corone del continente. Il resto della storia lo conosciamo. Ma è sbalorditivo che questo inenarrabile erede dei Savoia ignorasse il particolare e che lo ignorassero anche tutti i politici e le ‘grandi firme’ giornalistiche: nessuno di costoro ha infatti fatto rilevare la gaffe nella gaffe del ‘principe puttaniere’.

Visto che siamo in tema di volgarità estreme, riversate a valanga sui giornali dalle intercettazioni telefoniche della nuova telenovela giudiziaria italiana, nella puntata precedente del mio blog mi sono dimenticato di far notare che la volgarità dell’eloquio è ormai un obbligo imposto dalla televisione. Difficile ci sia un programma o un film senza parolacce, perfino una trasmissione ben fatta e intelligente come Zelig non sa resistere alla tentazione di sparare parolacce a raffica come se portare in tv il linguaggio della strada, o meglio del marciapiede, sia una conquista, un segno di modernità. Eppure il turpiloquio in pubblico in Italia è un atto punito per legge. E così arriviamo all’assurdo che al fregarcene della legge siamo spinti dalla tv, in primis da quella di proprietà del cavaliere diventato capo di partito e del governo, e a seguire anche dalla tv di Stato. Salvatore Sottile, Vittorio Emanuele di Savoia e compagnia bella parlano in modo orripilante anche perché questo è ormai il modello di linguaggio cui ci siamo adattati grazie alla tv.

Come è dilagato il turpiloquio - degno abito espressivo di una subcultura maschilista, da caserma, cara soprattutto alla destra - così è dilagato il malaffare e più in generale l’evasione dai doveri imposti dalle leggi, a partire dall’evasione fiscale. Questo è il motivo per cui a ogni scandalo, per quanto grave, i politici in blocco si preoccupano più della privacy degli inquisiti, che essendo di solito personaggi pubblici non hanno in definitiva lo stesso diritto alla privacy di un privato cittadino, anziché preoccuparsi dei reati, sempre più di massa, rivelati dalle inchieste giudiziarie e cercare di rendere l’Italia più decente.

Un’altra specialità tutta nostrana è il riflesso condizionato, da vero e proprio cane di Pavlov, in base al quale ogni volta che la magistratura accusa qualcuno, specie se potente, questo qualcuno, da Berlusconi a Moggi, da Cesare Previti a Marcello Dell’Utri, da Bettino Craxi a Vittorio Sgarbi, da Bossi ad Adriano Sofri fino ad Annamaria Franzoni, questo qualcuno accusa allegramente la magistratura di avere ordito ‘un complotto’ contro di lui! Questa accusa però, si badi bene, è una vera e propria calunnia, dato che ogni volta si scopre che non esiste – ovviamente – nessun ‘complotto’, ma solo una straordinaria abbondanza di manigoldi dediti al malaffare o ai reati più svariati. Si noti anche che la calunnia è un reato grave, da mandato di cattura obbligatorio e perseguibile d’ufficio, senza cioè che ci sia bisogno della denuncia del calunniato. Eppure, strano, ma la magistratura subisce da anni passivamente le accuse più infami senza mandare in galera o almeno sotto processo i molti che se lo meritano a pieno titolo almeno per le folli accuse contro gli inquirenti.

La destra e i forcaioli di varia estrazione invocano sempre ‘la certezza della pena’, però appena finiscono nei guai i politici, i loro portaborse o i potenti da vario tipo, scatta il reclamo inverso, e cioè la richiesta a gran voce della certezza della mancanza di pena. Nei giorni scorsi ho visto un documentario sulla Lega Nord messo assieme dal giornalista Marco Barbieri. Vi si vedevano i parlamentari leghisti Mario Borghezio e Roberto Calderoli comiziare in termini davvero inammissibili, da codice penale. Il primo a un comizio si è messo a inveire contro i ‘marocchini di merda’, senza che nessuno gli presentasse almeno un decimo del conto giudiziario che gli sarebbe stato presentato se avesse gridato ‘ebrei di merda’. Due pesi e due misure, che però danno la dimensione del nostro razzismo. Il secondo, l’ineffabile Calderoli, invocava anche lui a un comizio l’uso delle forbici per castrare i pedofili e i violentatori di vario genere. Per giustificare la sua richiesta Calderoli gridava come un invasato: ‘Se stuprassero le vostre mogli o i vostri figli, allora l’uso delle forbici non lo condannereste’. Giusto. Forse non lo condannerei neppure io. Resta però il fatto che i processi non si celebrano e le sentenze non si emettono in nome di un privato cittadino, per quanto colpito da violenze e dolori grandissimi, ma in nome di tutto il popolo italiano. La giustizia degradata a vendetta privata propugnata da Calderoli&C dimostra che questi personaggi sono fermi all’epoca della pietra, al feroce occhio per occhio e dente per dente. Atro che modernità! Per questi amanti della vendetta, e quindi della violenza camuffata da giustizia, Cesare Beccaria non è mai esistito. Per loro cioè non esiste il diritto. Ecco perché non appena finiscono nella merda i loro amici alla Fiorani o i potenti alla Moggi e alla Vittorio Emanuele o i piccoli potenti come Salvatore Sottile, si dimenticano di colpo sia delle forbici che della certezza della pena. E passano invece a scatenare un tifo da curva sud contro i magistrati.

Tornando alla Lega e ai ‘padani’, non si capisce il perché della loro spocchia rispetto il resto d’Italia. Nei giorni scorsi mi ha colpito il contrasto tra la stazione Termini di Roma e la stazione centrale di Milano. Questa è ancora un bivacco, sporco e inefficiente, mentre la stazione Termini è stata trasformata da bivacco – quale in effetti era - in un centro molto accogliente, dotato di molti servizi, insomma una sorta di spazioso e luminoso centro commerciale affacciato su binari. Ma oltre a quella di Milano, fanno pena anche le stazioni ferroviarie delle altre città del ‘Lombardo-Veneto’, compresa la stazione di Venezia. Forse servirebbero meno chiacchiere, meno retorica, e più fatti concreti. Oltre che un maggiore studio: sia della storia che della realtà. Si tratta infatti, e ben vedere, di due cose tra loro collegate...

 

11 luglio

 

Al gran ballo delle nomine

di Stefano Livadiotti

Si comincia con l'Anas e le Ferrovie. Poi toccherà ad Alitalia e Poste. Ecco azienda per azienda, tutti i candidati in pole position

l dossier, riservatissimo, è da qualche giorno sul tavolo di Carlo Malinconico. L'ufficio del nuovo segretario generale di palazzo Chigi dovrà esercitarsi in un'interpretazione della legge Frattini sullo spoils system. Romano Prodi vuole sapere se si può applicare alle nomine fatte in zona Cesarini dal governo di Silvio Berlusconi. Nel mirino c'è una dozzina di poltrone tra Enav e Grtn. Alla società per l'assistenza al volo rischia di fare le valigie un navigatore di lungo corso come Guido Pugliesi (un tempo con An, oggi sotto l'ala di Pier Ferdinando Casini, e domani chissà), passato negli anni dalle telecomunicazioni alle assicurazioni, dalla sanità al trasporto aereo. All'ente gestore della rete elettrica è in bilico Carlo Andrea Bollino, l'uomo del blackout che lasciò l'Italia al buio il 28 settembre del 2003.

Nella grande partita che secondo i calcoli del 'Sole 24 Ore' dovrebbe portare nelle prossime settimane all'insediamento di un centinaio di nuovi manager pubblici potrebbero dunque rientrare anche incarichi formalmente già assegnati. A gestire tutta l'operazione è un terzetto che lavora molto sott'acqua. Il primo dei king maker è l'imprenditore (ramo catering) Angelo Rovati, detto l'Angelo Custode, un gigante che ha giocato nella Nazionale di basket e vanta una trentennale amicizia con Prodi, al quale ha curato il fund raising. Nell'entourage prodiano Rovati rappresenta l'ala più orientata al rinnovamento, quella che ha sostenuto Antonello Perricone per la direzione generale della Rai e che è stata sconfitta, con Claudio Cappon, dal cosiddetto 'partito dell'usato sicuro', che ha il suo capofila nel sottosegretario alla Presidenza Francesco Micheli, manager di scuola Iri.

Al fianco di Rovati, nel triumvirato ci sono il rutelliano doc Renzo Lusetti e Maurizio Migliavacca, plenipotenziario di Piero Fassino. I tre, con i quali si tiene in contatto il colonnello dalemiano Nicola Latorre, non hanno una sede di incontro istituzionale. Di più: non si sono mai riuniti. In genere procedono per consultazioni bilaterali, com'è accaduto per le riconferme di Maurizio Prato in Fintecna e di Giuseppe Bono in Fincantieri. Qualche volta, però, Rovati fa tutto da solo. È successo quando è stato scelto Pierpaolo Dominedò per Patrimonio dello Stato. Davanti alle proteste degli altri, Rovati ha allargato le possenti braccia: "Così ha deciso Padoa-Schioppa".

In questi giorni il terzetto è sotto assedio: man mano che il gioco entra nel vivo, cresce l'agitazione tra i boiardi alla ricerca di una ricollocazione politica. Il più trafelato dei questuanti, secondo le voci di corridoio, è Luigi Roth. Appoggiatissimo dal Vaticano (è Gentiluomo di papa Benedetto XVI e Cavaliere di Grazia Magistrale in obbedienza del Sovrano Ordine di Malta), il capo di Terna (nonché presidente del collegio commissariale della Fondazione della Fiera di Milano e numero due della Cassa Depositi e Prestiti) non rischia il posto, perché la sua azienda non rientra nello spoils system. Semplicemente, vuole di più. Fa un pressing asfissiante, girando come una trottola in tutti i salotti romani, anche l'ex Fiat Roberto Testore, che sente traballare la sua poltrona di amministratore delegato di Trenitalia. Pochi gli danno retta, come del resto accade al martellante Bollino. E molto in ansia viene segnalato anche il consigliere Fininvest e presidente dell'Eni, Roberto Poli. Il cambio della guardia al vertice dell'ente petrolifero non è all'ordine del giorno per il 2006 (e il discorso vale anche per Enel, Finmeccanica e Cassa Depositi e Prestiti), ma Poli s'è premurato di far sapere a Prodi & C. che non sente Berlusconi da mesi. Le grandi manovre, insomma, sono in pieno svolgimento. Ecco come stanno le cose, azienda per azienda.

La cambiale Catania Per le Fs, almeno in teoria, l'accordo c'è, sia pure con qualche mugugno della Margherita. Prevede il nome di Mauro Moretti, considerato il miglior conoscitore della macchina ferroviaria, nella casella di amministratore della holding. Ad affiancare l'ex sindacalista della Cgil dovrebbe essere Paolo Baratta, ex banchiere e poi ministro nei governi Amato, Ciampi e Dini, legatisssimo a Padoa- Schioppa, di cui è stato compagno di studi. Alla controllata Trenitalia fuori "l'esubero Fiat" (il copyright è del perfido battutista Giulio Tremonti) Testore e dentro l'accoppiata Francesco Forlenza (capo del personale di Fs) come presidente e Giancarlo Laguzzi (oggi alla Sita) come amministratore delegato. Alla Rfi un altro interno: Michele Elia, braccio destro di Moretti.
C'è però un problema, grosso come una casa. Elio Catania, presidente e amministratore delegato in quota Forza Italia, scade ad aprile del 2007. E, come se il mezzo miliardo di perdite accumulato dall'azienda nel 2005 non fosse affar suo, per togliere il disturbo pretende una buonuscita monstre da 10 milioni tondi. La patata bollente è sul tavolo del sottosegretario all'Economia Massimo Tononi, ex uomo Goldman Sachs, già assistente di Prodi, che non è disposto ad andare oltre la metà della cifra richiesta. "Abbiamo appena aumentato le tasse sulle stock-options, non possiamo dare 10 milioni a quello", sibilano nello staff di Prodi. Ma la faccenda è complicata: a levare le deleghe a Catania, che negli ultimi dieci anni s'è candidato a qualsiasi poltrona libera, potrebbe essere solo il consiglio di amministrazione. Che però è controllato dall'opposizione. Resta dunque l'ipotesi estrema: convocare l'assemblea e sostituire i consiglieri. Oppure offrire a Catania di restare fino a scadenza sulla poltrona di presidente. Ma difficilmente Padoa-Schioppa vorrà sacrificare Baratta.

Le strade di Mengozzi Escluso un improbabile commissariamento, all'Anas le prime candidature sono saltate come birilli. Quella del dalemiano Antonio Bargone perché c'è già un ds come Moretti in corsa per le Fs. Quella di Claudio Artusi, direttore generale fino a pochi giorni fa, per l'opposizione del ministro Di Pietro. La quadratura del cerchio era stata poi trovata su Andrea Monorchio. Ma l'ex ragioniere generale dello Stato, che già aveva detto no alle Fs, ha declinato l'offerta. Così, ora i prodiani (soprattutto quelli del partito di Micheli) puntano su Francesco Mengozzi (capo del Bancoposta), che non incontrerebbe l'opposizione dei dalemiani, o sull'ex commissario Enav, Massimo Varrazzani, manager del San Paolo. Ma anche in questo caso il problema è come liberarsi dell'attuale numero uno dell'Anas, Vincenzo Pozzi. Se lui non si dimette, restano due strade: convocare il consiglio per revocarlo o riunire l'assemblea per cambiare lo statuto e introdurre la figura dell'amministratore unico.

Nel fortino di Cimoli Con la dipartita di Gaetano Gifuni, ha perso il sostegno del Quirinale. E ora il capo di Alitalia non vorrebbe dover rinunciare anche a un appannaggio da 2 milioni e 786 mila euro l'anno. Così, il supertrasversale Giancarlo Cimoli cerca di resistere. Prodi lo aveva mandato alle Fs, ma deve tenere conto dei sindacati, che chiedono la testa del presidente e amministratore delegato responsabile di un bilancio da profondo rosso. Così, mentre quella del numero uno dell'Enac ed ex parlamentare Dc Vito Riggio è solo un'autocandidatura (la Margherita non lo sostiene), continua a girare il nome di Gianni Sebastiani (ex Alitalia). E quello di Giorgio Zappa, il direttore generale di Finmeccanica, in buoni rapporti con i Ds, che non può sperare di crescere nella sua azienda, dove gli fa da tappo Pier Francesco Guarguaglini. Tra i dalemiani si parla anche di Maurizio Basile, artefice della privatizzazione di Eti, ora ad Aeroporti di Roma. Ma, davanti alla débâcle dell'ex compagnia di bandiera, il governo sa di dover tentare una mission impossible. Dalle parti della Margherita l'idea corre a Corrado Passera, oggi amministratore di Banca Intesa. Tra i prodiani al capo di Rcs, ed ex Vodafone, Vittorio Colao. Nell'entourage del premier riscuote consenso anche Carlo Callieri, ex Fiat e Confindustria, tanto tosto da meritarsi il soprannome di Ayatollah e i pubblici attestati di stima di D'Alema, mentre qualche ds rispolvera Franco Tatò. Come risarcimento, a Cimoli potrebbe restare una presidenza poco più che onoraria.

Un postino di nome Vito Il tentativo di trovare protezione sotto l'ombrello di Franco Marini, è andato buca. Il finiano Massimo Sarmi, che si vanta di trascorsi internazionali, ma ha come intercalare il romanissimo 'cazzarola', viene segnalato in uscita dalle Poste (dove Vittorio Mincato manterrà invece la presidenza). Al suo posto dovrebbe arrivare il ruvido Vito Gamberale, stimato da D'Alema ma anche da prodiani e Margherita. A meno che non prenda corpo il progetto di fondere le Poste con la Cassa Depositi e Prestiti, per far nascere un grande gruppo bancario nel quale magari sciogliere Sviluppo Italia, la cui soppressione è un pallino di Prodi. In quel caso, potrebbe esere tentato Passera.
Grilli in silenzio La tornata di nomine investe anche l'alta burocrazia ministeriale. Al vertice del ministero dell'Economia gli occhi sono puntati sul direttore generale. Vittorio Grilli è circondato. Tononi gli ha sfilato le competenze su partecipazioni e debito; la verifica dei conti pubblici e il Dpef sono stati affidati a Riccardo Faini; il ragioniere generale Mario Canzio (ben visto a Palazzo Chigi e protetto da Paolo De Ioanna, potente capo di gabinetto di Padoa-Schioppa) si tiene stretta la contabilità; il coordinamento della politica economica lo farà Fabio Gobbo. osì, qualcuno comincia a pensare che, magari in autunno, Grilli possa mollare. Ed essere sostituito da Faini.

Ai piani più bassi, Massimo Romano, silurato da Tremonti, sta per riprendere il timone dell'Agenzia delle Entrate, al posto di Raffaele Ferrara (che passerà ad altro incarico). Al ministero di Pierluigi Bersani risale Carlo Sappino, emarginato da Antonio Marzano: guiderà il Dipartimento politiche dello sviluppo (i fondi comunitari). Mentre alla Sogei, la società che gestisce l'anagrafe tributaria, fara la sua rentrée Gilberto Ricci, già con Visco. A volte ritornano.

 

Che senso hanno queste guerre che nessuno vincerà mai?

di Franco Berardi Bifo

Il dibattito che si sta svolgendo in questi giorni sulla questione del rifinanziamento della missione in Afghanistan non può esaurirsi con la decisione parlamentare condizionata dal ricatto politico della destra, né ridursi al problema di ritirare le truppe dall’Afghanistan, chiudendo gli occhi davanti alla catastrofe umanitaria che venticinque anni di guerra hanno provocato.

Il problema che oggi si pone con urgenza è quello di comprendere la natura della guerra iniziata dopo l’11 settembre del 2001 e di indicare una via d’uscita se questo è possibile.

Nella guerra afgana come in quella irachena è contenuto un paradigma di devastazione originale rispetto alla storia delle guerre moderne. Le guerre moderne erano decise, provocate e condotte da stati nazionali o da coalizioni di stati che si proponevano di vincere per imporre un nuovo ordine, di espandere il loro territorio e così via. Ora non è più così. Quando il presidente americano dichiarò che la sua guerra aveva carattere preventivo e infinito, intendeva che questa guerra non è combattuta per vincere ma per rendere possibile una devastazione e una rapina illimitata nello spazio e nel tempo.

Qui sta la novità della guerra interminabile iniziata in Afghanistan e continuata in Iraq: essa non ha come finalità la vittoria di uno Stato e la sconfitta di un altro, ma la devastazione progressiva dell’intero pianeta.

Le agenzie che dirigono effettivamente queste guerre sono corporation private il cui scopo non è la vittoria politica né l’espansione territoriale, ma l’estorsione di immensi profitti in cambio della fornitura di servizi militari (scadenti) e servizi civili di ricostruzione di ciò che viene incessantemente distrutto.

Le agenzie tradizionali della politica imperialista (gli stati nazionali, le coalizioni e gli organismi internazionali) hanno avviato la procedura politica della guerra, ma il vero soggetto dell’azione aggressiva sono corporation private come Halliburton Exxon, Parson, Bechtel, che non hanno alcun interesse alla vittoria militare e politica dell’Occidente, ma solo la finalità di sfruttare le risorse dei paesi aggrediti e le commesse multimiliardarie pagate dai contribuenti degli stati occidentali.

Queste agenzie private sono state incaricate di fornire servizi militari e civili di alta qualità al minimo costo. In effetti hanno fornito servizi di bassa qualità al minimo costo, e questo comincia ad apparire evidente, al punto che la stampa americana di ispirazione nazionalista e democratica denuncia il sabotaggio della guerra al terrore da parte di gente come Rumsfeld. Il problema è che Rumsfeld e compagnia non si sono mai posti l’obiettivo di vincere questa guerra, ma solo di aprire una fase infinita di devastazione e di appropriazione armata. A loro non importa nulla se decine di migliaia di soldati americani e britannici tornano a casa mutilati e distrutti, se decine di migliaia di civili irakeni muoiono sotto le bombe, e neppure gli importa che l’Occidente perda l’egemonia strategica in Medio Oriente, e che il terrorismo integralista moltiplichi le sue forze. Quel che importa ai funzionari delle corporation è aumentare i loro profitti anche se per ridurre i costi indeboliscono lo stesso fronte militare.

Il risultato è la più straordinaria disfatta strategica dell’Occidente, il potenziamento del terrorismo integralista, la proliferazione dell’armamento nucleare, e perfino il declino strategico del capitalismo americano.

Il consenso politico e la crescita economica o nazionale mondiale si fondano ormai sul terrore. L’utopia di un’economia dell’intelligenza che aveva permesso negli anni ‘90 un’alleanza tra capitale ricombinante e lavoro cognitivo ha lasciato il passo a un’economia psicopatica la cui unica finalità è appropriarsi delle residue risorse del pianeta escludendone la maggioranza dell’umanità.

E’ significativo a questo proposito un documento della Halliburton che propone la creazione di servizi per la difesa dell’elite internazionale in caso di crollo degli ecosistemi globali (vedi http: //www. halliburtoncontracts. com/about/).

La presidenza Bush sarà ricordata (ammesso che nel futuro ci sia qualcuno capace di ricordare), non solo per avere distrutto l’eredità dell’universalismo illuminista borghese, le garanzie civili e politiche di cui l’Occidente è stato a lungo l’alfiere, ma anche per aver corroso le basi dell’egemonia politica degli Stati Uniti d’America aprendo la strada al fascismo integralista islamico e al totalitarismo schiavista cinese, due potenze emergenti che negano alla radice il patrimonio sociale e politico del progresso della libertà e della solidarietà. Per il futuro della civiltà umana queste due potenze rappresentano un pericolo paragonabile a quello che fu il nazismo, ma purtroppo hanno una base sociale molte volte più estesa e una radice storica ben più profonda.

Il patrimonio dell’universalismo moderno è oggi smantellato sotto i nostri occhi: l’eredità che discende dall’Umanesimo, dall’Illuminismo e dal socialismo, attivamente contrastata dall’intolleranza integralista, ignorata dallo schiavismo totalitario cinese sembra essere ormai abbandonata anche dall’occidente democratico.

L’Europa non può limitarsi a difendere quel che resta di quel patrimonio e di quell’eredità. Occorre ripensare entro condizioni tecniche culturali e produttive completamente mutate il significato e la prospettiva dell’universalismo, occorre agire per sgretolare l’alleanza paradossale di ultraliberismo integralismo e schiavismo che in questi anni si va delineando.

L’alternativa è rassegnarsi alla violenza generalizzata, allo schiavismo e alla barbarie, all’estinzione di ciò che abbiamo imparato a considerare umano.

Questo mi pare il contenuto profondo della discussione sul finanziamento della guerra in Afghanistan, al di là dell’attuale scadenza parlamentare

 

7 luglio

 

In 150 pagine i programmi economici e finanziari per 5 anni di governo

Riduzione degli sprechi ma anche la stretta sui trasferimenti agli enti locali

Nel mirino pensioni e sanità disavanzo azzerato nel 2011

Si discute anche di ticket ospedalieri e previdenza degli statali, ma nella finanziaria 2007 ci sono anche incentivi allo sviluppo

di ROBERTO PETRINI

ROMA - Italia 2011: il rapporto deficit-Pil sarà azzerato (allo 0,1 per cento), il debito scenderà sotto il 100 per cento del Pil, l'avanzo primario (cioè la differenza tra entrate e uscite al netto degli interessi) salirà al 4,9 per cento. La crescita, a differenza dei "miracoli" annunciati a suo tempo da Berlusconi (che nel suo primo Dpef annunciò una sfilza di 3 per cento) sarà un sobrio 1,7 per cento. E' questo il quadro che il ministro dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, ha preparato per il Documento di programmazione economica 2007-2011 che coprirà l'intero arco della legislatura, quasi una traduzione del programma dell'Unione in cifre e tabelle.

Nessun "sogno" come ha detto Padoa-Schioppa nei giorni scorsi ma la necessità di cambiare. Lo dice l'incipit del documento, di circa 150 pagine, che il ministro ha voluto sottolineare con una citazione di Immanuel Kant: "Coloro che dicono che il mondo andrà sempre così come è andato finora contribuiranno a far sì che l'oggetto della loro previsione si avveri".

Ma la cura che porterà al 2011 non sarà facile. Quattro i settori nel mirino: pensioni, statali e pubblica amministrazione, sanità, Comuni e Regioni. Nel documento ci sono solo indicazioni generali, ma i temi sul tappeto sono noti: aumento dell'età pensionabile che potrebbe scattare già dal 2007, ticket sulla degenza ospedaliera, prepensionamento di 100 mila statali, nuovo patto con gli enti territoriali e sostanziale stretta sui trasferimenti. La promessa del ministro è che si agirà con razionalizzazioni all'interno dei settori cercando di eliminare gli sprechi. Le cifre in autunno.

Si comincerà con la Finanziaria del prossimo anno: che ammonterà a 35 miliardi, di questi 20 saranno risparmi e nuove entrate, altri 15 andranno allo sviluppo (10 di cuneo fiscale e 5 di altri interventi a cominciare dalle infrastrutture). Con i 7 miliardi anticipati nei giorni scorsi con la manovra-bis, che produrranno i propri effetti nel 2007, si arriverà ai 42 miliardi già annunciati dal governo.

Il 2007 rispetterà l'impegno con l'Europa: il deficit-Pil del prossimo anno scenderà sotto il 3 per cento (per la precisione al 2,8 per cento). Anche il debito, dopo due anni di crescita, riprenderà a scendere e sarà fissato al 107,5 per cento del Pil, l'avanzo primario, oggi al lumicino, riprenderà a salire fino al 2,1 per cento del Pil. La crescita sarà ancora modesta: si ipotizza l'1,2 per cento.

Si chiude anche la partita del 2006. Il deficit 2006, come certificato dalla commissione Faini, viaggiava verso il 4,5-4,6 per cento. Ma il dato contenuto nel Dpef terrà conto degli effetti della maggiore crescita economica (il Pil sale dall'1,3 all'1,5 per cento), delle conseguenti maggiori entrate e anche della manovra correttiva. Tutto ciò consentirà di bloccare il deficit-Pil di quest'anno al 4-4,1 per cento.

 

6 luglio

 

«Un attacco cieco ai diritti civili»

Anti terrorismo. Le sue leggi draconiane sono «controproducenti e destinate alla sconfitta». Parla Jago Russell che per Liberty si occupa della lotta al terrorismo e dei suoi effetti sulla comunità musulmana

Mi.Co.

Inviato a Londra

Liberty è l'associazione britannica in prima linea nella difesa dei diritti civili contro le norme anti-terrorismo del new labour. Nell'ufficio di Tabard street, nel centro di Londra, abbiamo discusso con Jago Russell, che per l'organizzazione si occupa della legislazione antiterrorismo e del suo effetto sulla comunità musulmana.

Il governo laburista cercherà di innalzare a 90 gli attuali 28 giorni di detenzione, senza accuse formali, per i «sospetti terroristi». Come valutate questa mossa di Tony Blair?

Subito dopo gli attentati del 7 luglio, l'esecutivo promise che non avrebbe varato leggi scritte in fretta e furia, senza un'accurata riflessione sul loro impatto sulla società. Si è verificato esattamente il contrario. Ci ritroviamo già con 28 giorni di carcerazione senza incriminazione, uno dei periodi più lunghi di tutta l'Europa occidentale. Non ci sono motivi per giustificare la reclusione «amministrativa» di un sospetto per tanto tempo. In un primo momento hanno provato ad addurre problemi di comunicazione con persone che spesso parlano arabo. Investano di più in traduttori invece di violare i diritti civili! Nello stesso tempo credo che ci sarà una grande battaglia quando la proposta approderà in parlamento, perché la stessa Commissione che le ha dato il primo via libera ha sottolineato che potrebbe avere un impatto negativo sulla comunità musulmana.

Quali dei provvedimenti varati contro l'emergenza terrorismo vi preoccupano di più?

Siamo in presenza di un attacco complessivo ai diritti civili in Gran Bretagna, dall'11 settembre, con l'entrata in vigore una serie di misure preoccupanti. La prima fu la detenzione a tempo indeterminato - solo per i non britannici - a danno dei «sospetti terroristi». Nel dicembre 2004 questa misura fu cancellata dalla House of Lords, perché giudicata «discriminatoria» e «una violazione dei diritti dell'uomo». Poi fu la volta dei cosiddetti control orders, che permettono a un ministro d'infliggere arresti domiciliari a un sospetto terrorista, sulla base di prove segrete. Il giudice Justice Sullivan ha recentemente stabilito che anche questa norma «viola i diritti umani», ma è tuttora in vigore in attesa che si pronuncino la Corte d'Appello e la House of Lords. Siamo però ancora nell'ambito di decisioni che colpiscono una cerchia ristretta, i «sospetti terroristi». Quello che fa più paura è il reato di «glorificazione del terrorismo» - 10 anni di carcere massimo - che può colpire chiunque, ad esempio chi sostiene che gli attentati suicidi dei palestinesi in Israele sono giustificabili.

Ritenete fondate le preoccupazioni della comunità musulmana britannica?

Certo, si sentono nel mirino della legislazione anti-terrorismo e giustamente. I nuovi poteri di fermare e perquisire dati alla polizia vengono usati soprattutto contro di loro. E che dire dell'assalto a Forest gate? Se fossi un islamico e avessi visto quello che è successo un mese fa in quel quartiere di Londra avrei paura che una cosa del genere potrebbe capitare anche a me. Ad essere colpiti sono la libertà d'opinione e i principi del giusto processo. Restringendo la prima non si fa altro che gettare nelle braccia degli estremisti chi potrebbe essere recuperato attraverso la normale dialettica democratica.

C'è un futuro per i diritti civili nel contesto di una «guerra al terrorismo» che pretende sempre meno limitazioni?

Sì. Credo che sia sempre più necessario incoraggiare la popolazione a capire cosa sono i diritti umani e i diritti civili e parallelamente dare battaglia alle leggi draconiane che vengono di volta in volta proposte. Se la lotta al terrorismo prosegue senza rispettare i diritti civili è destinata senz'altro alla sconfitta.

 

Lopez Obrador: spariti milioni di voti

Conta preventiva Il candidato del centrosinistra: contro il verdetto darò battaglia

Roberto Zanini

Città del Messico

Non ci sta, il candidato di centrosinistra Lopez Obrador: «Sono spariti tre milioni di voti», dice, e si ferma a un passo dall'accusare le istituzioni di frode. L'Istituto elettorale ha concluso la conta preventiva, e contro tutti i sondaggi fatti negli ultimi sei mesi il candidato della destra Felipe Calderon sta un punto sopra Obrador. Un punto vuol dire circa 400mila voti, ma ci sono ottocentomila nulle, i tre milioni di voti spariti («sono voti contestati, vedremo», spiega l'Ife), e una massa di - chiamiamole - anomalie. Una la esibisce lo stesso Obrador davanti alle tv: è la foto del registro finale di un seggio, ci sono 188 voti per il Prd, ma sulla pagina internet dell'istituto elettorale lo stesso seggio ne assegna solo 88 al partito di centrosinistra. Qualcuno si è mangiato una cifra. Lo chiamano «robo de hormigas», furto delle formiche: dieci voti qui, cento lì e el peje, come chiamano l'uomo che ha guidato l'opposizione, finisce fritto.

Appeso a questo punto di differenza, alla leggera e poco credibile supremazia ufficiale di Calderon, il Messico sprofonda in quello che un commentatore, Luis Hernandez Navarro, definisce «colpo di stato tecnico». Una notte di proiezioni elettorali drogate, strapotere delle televisioni tutte orientate a destra, denaro pubblico versato su ordinazione, efficiente campagna della paura e divisione verticale del paese, col nord più ricco che vota a destra e il sud più povero che vota a sinistra. Insomma un nuovo 1988, anno in cui il candidato di sinistra Cardenas fu derubato da un provvidenzale blackout del sistema elettorale.

Quella volta Cuauthemoc Cardenas si arrese molto presto, per non portare il paese - disse - alla guerra civile. Ma Lopez Obrador è molto diverso dal figlio del vecchio generale Cardenas che nazionalizzò il petrolio. E' un capopopolo, e gode di un apparato organizzativo che allora non esisteva. Tocca a lui, se ne ha la forza, decidere se scegliere lo scontro sociale o fermarsi a quello politico. E gia lo stratega del partito, Camacho Solis, annuncia che si potrebbe ricorrere alla piazza «se tutte le istanze istituzionali risultassero superate».

Il meccanismo elettorale prevede che oggi l'Istituto elettorale cominci il conteggio fisico dei voti, esaminando i registri seggio per seggio e - se ci fossero contestazioni - scheda per scheda. Può metterci giorni. I risultati si possono impugnare e lo saranno. Quindi toccherà al Tribunale elettorale federale esaminare le impugnazioni. Il tribunale parrebbe più decente dell'Istituto elettorale, che ha giocato pesante per tutta la notte delle elezioni, ma le istituzioni messicane non brillano per trasparenza.

Nel frattempo quel monumento alla politica messicana che è il Partido revolucionario istitucional ha smesso di contrattare il suo appoggio e ha deciso di buttarsi a destra. Un pugno di governatori ha obbligato con le cattive il candidato priista Madrazo a riconoscere pubblicamente «la correttezza del processo elettorale e l'impossibilità che cambi il risultato».

Vinca chi vinca, una crisi di rappresentanza è già aperta. Calderon ha preso 14 milioni di voti e Obrador 13 milioni e rotti più quelli che riuscirà a ripescare in tribunale. Su 71 milioni di elettori. A governare la decima economia del pianeta dovrebbe essere qualcosa di più che circa un quinto dell'elettorato.

 

A Pisa ricercatori e tute blu «Siamo precari, stessa lotta»

Tommaso Tintori

Pisa

Dopo il grande successo ottenuto con i quesiti refendari (che avevano l'obiettivo di far emergere le reali dimensioni della flessibilità e delle politiche di reclutamento dell'Ateneo), i precari universitari pisani sono riusciti ad aprire le trattative con l'università ed ottenere un tavolo tecnico per l'istituzione permanente di un'anagrafe di tutte le figure precarie che operano nella didattica e nella ricerca. Una lotta di nuovo precariato che si è attirata le simpatie operaie più classiche, tanto che le tute blu Fiom della Piaggio di Pontedera hanno inviato una lettera di solidarietà.

E' di pochi giorni fa, l'approvazione di uno schema di rilevazione storico-anagrafica nella forma di un data-base aggiornabile per via telematica e consultabile da tutti i membri del tavolo grazie alla collaborazione dell´ufficio statistica d´ateneo. E' previsto, entro la prima decade di luglio, il completamento della raccolta dati su tutte le figure «non strutturate» che, a vario titolo, lavorano nell'Università. Sono state inoltre impostate le linee-guida per l´indagine qualitativa, ufficialmente affidata all´Assemblea dei precari.

La battaglia dei precari universitari pisani si è inserita prepotentemente nelle elezioni del rettore. Dopo una lotta serrata è stato rieletto Marco Pasquali, rettore uscente, che resterà al governo dell'università di Pisa fino al 2010. Pasquali dovrà cominciare a rispondere ai molti problemi sollevati dai precari. In particolare, chiedono che adotti un metodo più trasparente nella gestione e nelle scelte importanti, facendo gli interessi di tutto l'ateneo. «Teniamo a ricordare - afferma l'Assemblea dei precari - la rilevanza degli orientamenti programmatici enunciati durante la scorsa campagna elettorale. Ci riferiamo all'improcrastinabile necessità di agire tanto a livello di politiche locali quanto nei rapporti con la Crui, la Conferenza dei rettori delle università italiane, e col ministero per ottenere un impegno straordinario in termini finanziari, da riservare all'attivazione di nuovi posti a tempo indeterminato che pongano fine alla proliferazione delle figure precarie. Inoltre, sollecitiamo una riforma delle procedure di reclutamento che garantisca accessi certi, brevi e selettivi alla carriera».

L'Assemblea, che dal Rettore è stata riconosciuta pubblicamente e a pieno titolo quale soggetto interlocutore, conta di allargare il tavolo di trattativa fino a comprendere la questione dei diritti e delle mancate tutele del personale non strutturato. «La prima tappa di questo percorso - proseguono i precari - è reciprocamente identificata nell'ultimazione del progetto dell'anagrafe di tutti i precari della ricerca e della didattica, in vista della futura messa a punto di un "contenitore" informatico unico, nel quale inserire dati, risultati scientifici e impegno formativo, individuali e di gruppo, delle attività effettivamente svolte».

Ha destato particolare piacere la lettera delle Rsu Fiom della Piaggio: «Per i contenuti della piattaforma rivendicativa, l'ampiezza della partecipazione, gli effetti intuibili di presa di coscienza e di avvio di processi organizzativi - è scritto - il referendum affronta con chiarezza e determinazione i problemi del vostro settore e li pone lucidamente all'interno della questione generale delle condizioni di lavoro e dei diritti dei lavoratori, sottoposti negli ultimi anni a un attacco senza precedenti. Dopo anni di pressione e di propaganda sugli effetti positivi della flessibilità e precarietà - proseguono le Rsu Fiom - si diffonde tra i lavoratori la consapevolezza che le questioni del lavoro precario non sono un fatto di solidarietà, ma un problema centrale e vitale per la difesa delle loro condizioni di vita e di lavoro. La precarizzazione che dilaga in tutti i settori - così si conclude la lettera - da un lato aumenta la dispersione dei lavoratori e le difficoltà dell'azione sindacale, dall'altro pone le premesse per una riunificazione di interessi che in passato sono stati separati da condizioni di sfruttamento e di garanzie molto diverse».

 

Un esamificio a caro prezzo

Fino a tremila euro per superare una prova all'università di Bari. Cinque funzionari amministrativi indagati, una ventina i casi documentati

Antonio Massari

Quando si dice: i crediti universitari. A Bari, nella facoltà di Economia e commercio, era spuntato persino un tariffario: dai 2mila euro in su per un esame di diritto commerciale o matematica, ritenuti tra i più difficili, fino ai 600 euro per uno un po' più semplice. Tariffe tagliate su misura, a volte persino sul passaporto, perché pare che i prezzi mutassero a seconda della cittadinanza: che fosse barese, della provincia o greco, per ogni studente c'era la possibilità di trovare il «prezzo giusto». Bidelli e personale amministrativo, in stretto legami con i docenti, facevano da contatto con gli studenti che avevano bisogno di superare un esame.

Dopo aver creato l'aggancio, il punto era trovare l'uomo al quale pagare. Non solo per gli studenti, ma anche p i carabinieri guidati dalla procura di Bari, per la precisione dal magistrato Francesca Romana Pirrelli, che sul commercio degli esami aveva aperto da tempo un fascicolo d'indagine. E ieri, per la seconda volta, è stato incastrato un ex tecnico della facoltà, settantenne in pensione, incaricato - a quanto pare - di incassare il denaro. Era nei pressi di un bar vicino alla facoltà, in compagnia di una studentessa fuori corso, che gli stava versando mille euro avvolti in un fazzoletto di carta. La procura non ha dubbi: si tratterebbe della somma necessaria per superare. Ora sull'ex tecnico, denunciato a piede libero, pende l'accusa di concussione. La studentessa, per il momento, non è invece indagata. Ma se gli inquirenti appurassero che lo scambio del denaro era oggetto di un patto, l'accusa muterebbe, trasformandosi in corruzione.

E in qualche maniera, il tecnico in pensione, è una sorta di recidivo: era stato colto in flagrante già venerdì scorso, mentre intascava 250 euro, all'interno della facoltà. Non era più impiegato, e da ben 10 anni, ma l'uomo continuava a frequentare spesso aule, corridoi, studenti e professori. E infatti, per la procura, non si tratta di una scoperta dell'ultima ora. L'inchiesta, al contrario, è partita circa due anni fa.

Era il febbraio del 2005 quando il preside della facoltà, Carlo Cecchi, ora scomparso, venne a sapere, da alcuni studenti, che esisteva un traffico d'esami. Scrisse una lettera ai colleghi, chiedendo, nel caso in cui la voce fosse risultata fondata, di denunciare al più presto. Nel frattempo nacque una commissione d'inchiesta interna, che rilevò «viziosità» e «incrostazioni di sottopotere». Gli inquirenti, nel frattempo, erano già al lavoro, anche se dal quadro probatorio - sebbene di un certo rilievo - non emergevano veri e propri illeciti. Anzi, la procura ha avuto modo di verificare «comportamenti omertosi». Una ritrosia che si poteva rinvenire nel «timore degli studenti di vedere annullata la propria carriera universitaria». E a collaborazione maggiore, sottolinea la procura di Bari, sarebbe giunta più da alcuni docenti che dagli iscritti alla facoltà.

E nell'inchiesta in corso, infatti, nata proprio sull'esame di matematica, sono indagati proprio due professori. A quanto pare, si tratterebbe del professore di matematica Pasquale Barile e di un cultore della materia, Massimo Del Vecchio. In questi due anni l'indagine non s'è mai fermata; intercettazioni ambientali e perquisizioni hanno portato i magistrati a credere che nella vicenda, oltre il tecnico in pensione e i due docenti, siano coinvolte altre sei persone tra bidelli, addetti alle aule e personale amministrativo. Le perquisizioni, inoltre, hanno portato al sequestro di diversi appunti con numeri di telefono, statini d'esame e fatture, nonché vecchie tesi di laurea. Anche queste ultime, infatti, pare che fossero oggetto di un traffico intenso: erano prima scannerizzate, poi clonate, e infine rivendute cambiando il titolo e il nome dei relatori. Tariffa base: 3mila euro per ogni tesi. Insomma, dall'esame alla laurea, nella facoltà di Economia di Bari, tutto era acquistabile. Un mercato intenso, con persone che, secondo gli inquirenti, avrebbero fatto ella compravendita degli esami la propria «attività principale». Insomma, più che una facoltà d'economia, era una facoltà di commercio. Ma gli inquirenti avvertono: «L'inchiesta ora rischia di allargarsi anche ad altre facoltà».

 

4 luglio

 

 

3 luglio

 

Il caso, che coinvolge 3500 scuole elementari, scatena le reazioni di genitori e associazioni

in difesa della privacy: "Altro che accelerare le procedure, è solo un modo per raccogliere dati privati"

Gb, impronte digitali in biblioteca, schedati settecentomila bambini

di CRISTINA NADOTTI

LONDRA - Lo scopo è quello di accelerare le procedure per il prestito nelle biblioteche scolastiche, ma c'è chi teme che sia invece una schedatura di massa, che coinvolge almeno 700 mila bambini. In Gran Bretagna è allarme per il sistema con cui 3500 scuole elementari concedono libri in prestito ai propri alunni. Invece che usare una scheda cartacea sulla quale annotare i dati dell'utente e dei libri prelevati dalla biblioteca, scrive l'edizione online del Mirror, si è passati alla scannerizzazione delle impronte digitali.

L'organizzazione NO2ID, che si oppone all'introduzione delle carte di identità con microchip e all'istituzione del registro nazionale per l'identità, ha lanciato l'allarme, sostenendo che si tratti di un altro sistema per raccogliere più informazioni possibile sui cittadini, fin da piccoli, e di un altro passo verso la registrazione obbligatoria di dati biometrici, sulla quale si è aperta nel Paese una accesa polemica. Le nuove carte di identità prevedono infatti la raccolta di tutti i dati in un database centralizzato, che secondo le organizzazioni che si occupano di difesa della privacy costituirebbe una aperta violazione della tutela dei dati personali.

"Stiamo mandando i nostri bambini a scuola o in prigione? - chiede Phil Booth, coordinatore nazionale di NO2ID - Non accetteremmo mai che venissero prese le impronte a degli adulti senza un consenso informato, perciò mi sembra davvero scandaloso che si schedino bambini di cinque anni". Il direttore del Micro Librarian Systems, che ha avviato il sistema di raccolta di impronte digitali, ribatte che non c'è niente di spaventoso nell'utilizzare le nuove tecnologie: "Alla fine si tratta di una scelta - dice Andy O'Brien - se i genitori sono contrari all'utilizzo di tecnologie biometriche possono chiedere che il proprio figlio continui a usare la scheda cartacea".

Si tratta solo dell'ultimo fronte aperto in Gran Bretagna nel dibattito sulla tutela della privacy. Qualche tempo fa le organizzazioni che si occupano di tutela della privacy denunciarono i sistemi di identificazione adottati da alcuni scuole, che richiedono ai propri studenti di essere identificati tramite impronte digitali per accedere ai locali scolastici e alle mense. A livello nazionale, il governo giustifica l'uso di tecnologie biometriche e la raccolta dati con la necessità di avere procedure più rapide e un maggiore controllo su potenziali terroristi. Le associazioni mettono in guardia contro il pericolo di scambio di milioni di dati personali tra più settori, sia pubblici, sia privati e sul potere di controllo sui cittadini che il possesso di questi dati darebbe allo Stato.

 

1 luglio

 

Il check up si fa da Daniela

di Vittorio Malagutti

Bankitalia, Enel e Poste: così la clinica controllata da moglie e familiari di Fini puntava alle convenzioni più ricche

Lavoravano con l'Enel. Puntavano alle Poste. E nell'elenco dei clienti eccellenti spunta anche Bankitalia. Sempre a caccia di nuovi contratti e affari, quelli della Panigea finivano spesso per bussare alla porta degli enti pubblici. Sarà un caso, ma la clinica controllata, tra gli altri, da moglie e cognata del leader di An, Gianfranco Fini, nel corso degli ultimi anni è riuscita ad accreditarsi presso istituzioni e grandi società a controllo statale. Non sempre è finita bene. L'Enel, per esempio, nel 2003 troncò ogni rapporto con Panigea, rimuovendo dall'incarico il funzionario che aveva promosso il contratto. "Venne considerata la marginalità economica dell'operazione e i possibili rischi di immagine che comportava", spiegano adesso al gruppo elettrico.

Alle Poste invece devono aver fatto altre considerazioni. E così l'anno scorso hanno trattato a lungo per stipulare una convenzione con la clinica targata Fini. In base agli accordi discussi, i dirigenti del gruppo guidato dall'amministratore delegato Massimo Sarmi verrebbero indirizzati a Panigea per svolgere particolari test e accertamenti medici. Alle Poste confermano che la trattativa si è effettivamente svolta, ma negano che sia stata formalizzata una convenzione. Lo schema dell'accordo con le Poste ricalca quello siglato nel 2004 con la Banca d'Italia. I dipendenti dell'area romana dell'istituto centrale possono rivolgersi a Panigea per "check up mirati", secondo quanto si legge in un documento pubblicato sulla 'Gazzetta Ufficiale' dell'Unione europea, sezione appalti. I costi degli esami clinici vengono in gran parte pagati da Banca d'Italia, con una quota minima a carico dei dipendenti, che godono anche di sconti (il 25 per cento) su una serie di prestazioni non coperte dal Servizio sanitario nazionale.

Le convenzioni con enti e società pubbliche garantiscono pazienti e fatturato. Per ottenerle, a volte il corteggiamento partiva da lontano. Con le Poste, per esempio, Panigea aveva cominciato a negoziare almeno tre anni fa. Il grande poliambulatorio romano puntava a ottenere incarichi nel campo della medicina del lavoro. C'è una coincidenza che va segnalata. A quell'epoca il cosiddetto 'medico competente centrale' del gruppo Poste Italiane era Antonio Bergamaschi, professore di medicina del lavoro all'università romana di Tor Vergata. Bergamaschi è in ottimi rapporti con Massimo Fini, il fratello dell' ex ministro, anche lui docente di medicina del lavoro proprio a Tor Vergata. L'operazione comunque non andò a buon fine. "Panigea ci prospettò un accordo", spiega una fonte interna alle Poste, "ma non se ne fece niente". Un caso davvero singolare. Per due volte, nel giro di un paio di anni le Poste trattano con Panigea, ma alla fine non viene formalizzato nulla. Nel frattempo, comunque, Panigea ha fatto strada. La Regione Lazio, ai tempi in cui era guidata da Francesco Storace, garantì una convenzione per esami clinici come Tac e risonanza magnetica. Il via libera arrivò a tempo di record. Tra la richiesta di accreditamento da parte della clinica e la delibera votata dalla giunta regionale trascorsero solo sette giorni: dall'11 al 18 febbraio 2005.

Ben altro esito hanno avuto i ricorsi presentati da un'altra clinica romana, lo Studio Specialistico Nomentano che, a suo tempo, si era visto negare l'accreditamento. In questo caso la burocrazia regionale si è messa di traverso. C'è un'ordinanza del Tar del Lazio dell'ottobre 2005 che impone alla Regione di depositare in giudizio gli atti di accreditamento a favore di una serie di centri medici tra cui anche Panigea. Ma a quasi nove mesi di distanza da quella sentenza gli atti non sono ancora stati prodotti. Ironia della sorte, lo studio Specialistico Nomentano è difeso dall'avvocato Augusto Sinagra, già esponente di spicco di Alleanza nazionale, di cui fu uno dei fondatori, e poi passato nelle fila di Alternativa sociale con Alessandra Mussolini.

Daniela Di Sotto, nome da nubile della moglie di Fini, a modo suo ha dato una conferma dei nuovi affari in corso. Intercettata dalla Polizia di Potenza per conto del pm Henry John Woodcock la signora Fini racconta di essere andata "a sbattere il culo con Storace". In quell'occasione (la telefonata è dell'aprile 2005) il suo interlocutore era Francesco Proietti Cosimi, segretario di Gianfranco Fini e ora deputato di Alleanza nazionale. Anche Proietti ha interessi nella Poliambulatorio cave, la società a responsabilità limitata che controlla Panigea. Tra l'altro suo figlio Luigi possiede il 10 per cento del capitale della Poliambulatorio. L'acquisto è relativamente recente. Risale al giugno del 2005, quando la società Da.vir srl e Luigi Proietti Cosimi siglano il contratto con cui comprano ciascuno il 10 per cento di Poliambulatorio cave. Da.vir, che ha un capitale intestato a due fiduciarie, farebbe riferimento a Daniela Fini. A vendere i titoli è l'allora socio di maggioranza Patrizia Pescatori, ovvero la moglie di Massimo Fini, fratello, come detto, del più noto Gianfranco. In base al contratto depositato in Camera di commercio l'operazione viene conclusa a un prezzo di 10 mila euro per ciascuna quota del 10 per cento. Una somma che appare davvero esigua, se si considera che all'epoca Panigea vantava ricavi annui ben superiori ai 2 milioni di euro. Eppure, stando al contratto, la cognata di Fini si accontentò di pochi spiccioli per vendere il 20 per cento della clinica.

Eppure, a giudicare dalle telefonate intercettate dalla procura di Potenza, le due cognate Daniela e Patrizia litigavano a più non posso. Con la consorte dell'ex vicepresidente del Consiglio che pretendeva più soldi e più potere in azienda. A quanto pare quel giugno del 2005 fu un periodo molto intenso sul fronte affaristico per la famiglia Fini. Patrizia Pescatori, dopo aver venduto una parte delle sue quote nella Poliambulatorio cave (di cui restava comunque il socio più importante), fondò con un paio di soci un'altra azienda in campo salutistico e affini: la Desiderio di benessere srl. In quelle stesse settimane la cognata di Fini si defilò dall'azionariato del centro fisioterapico Emmerre 3000. Chi ha comprato? Per l'occasione scende in campo ancora una volta la Da.vir srl, cioè Daniela Fini, affiancata dal giovane Luigi Proietti Cosimi. I due acquirenti rilevano in totale il 57,5 per cento della società. La quota più importante, il 44,4 per cento, passa alla Da.vir..

A giochi fatti, nel capitale resta un altro socio di rilievo. È un nome che suona familiare. Una quota del 31,2 per cento risulta infatti intestata a Francesca Maria Proietti Cosimi, 30 anni, sorella maggiore di Luigi. Quel centro fisioterapico era un investimento a colpo sicuro. Nel giugno del 2005 gli affari avevano già preso il volo da un pezzo. Merito anche dell'accreditamento garantito nel marzo 2003 dalla giunta Storace.

 

Cieli fuori controllo

di Gianluca Di Feo

Ispettori precari, fondi azzerati, nessuna multa. Ecco perché la sicurezza dei voli in Italia è stata bocciata

Sono un pugno di precari, il cui contratto viene rinnovato di trimestre in trimestre. E non hanno nemmeno il potere di fare multe: contano meno degli ausiliari del traffico. Eppure questi ispettori a tempo determinato devono occuparsi di un traffico molto più complicato: quello che avviene nei nostri cieli. La sicurezza di oltre 100 milioni di viaggiatori dipende infatti da una manciata di ispettori con contratto a termine: sono solo in trentasei, mentre le compagnie aeree continuano a spuntare come funghi e sempre nuovi scali vengono ad aggravare una situazione già congestionata. In realtà di ispettori dovrebbero essercene 48, come prevede l'organico dell'Enac, l'Ente nazionale aviazione civile. E dovrebbero essere tutti iperqualificati: ingegneri e piloti veterani. Ma l'ultimo rapporto della Corte dei Conti elenca una situazione raccapricciante: "Posti previsti 48, posti coperti 0". In realtà, persino i supervisori precari sono già scaduti: da maggio un terzo di loro tira avanti con le proroghe. Possibile che l'Italia, una delle capitali mondiali del turismo e crocevia delle rotte aeree, non trovi i fondi per assumere in pianta stabile degli ingegneri a cui affidare le verifiche su mezzo milione di aerei? Possibile che la terribile lezione del disastro di Linate, il più grave incidente in Europa degli ultimi anni con 118 morti, sia già stata dimenticata?

È la stessa domanda che si sono posti gli inviati dell'Icao, l'organismo mondiale dell'aviazione civile. Senza riuscire a trovare risposte. A fine maggio una delegazione internazionale ha fatto il check up del nostro sistema aeronautico e ha bocciato la rete dei controlli. "Troppe poche persone e fondi troppo scarsi per vigilare su così tanti aeroporti e così tanti voli", hanno anticipato gli esperti dell'Icao nel briefing conclusivo a cui seguirà una contestazione formale. Con un altro rilievo sorprendente: perché in Italia non sono previste multe per chi non è in regola? Se una persona viaggia in auto con le gomme lisce si becca una sanzione salata, ma se ad essere lisci sono i pneumatici di un Airbus non si rischia nulla. Gli ispettori possono ordinare di sostituirli, cosa che comunque prima o poi sarebbe stato necessario fare. Ma niente punizioni, né pecuniarie, né tantomeno penali. Ammesso che i difetti vengano scoperti: come ha potuto verificare 'L'espresso' in un terminal del Nord, ogni ispezione su un aereo straniero dura circa 20 minuti. I poteri sono minimi: il supervisore può solo esaminare i documenti dei piloti, accertare la presenza dei manuali di bordo e giudicare 'le condizioni apparenti del mezzo'. Se c'è qualcosa che non va, si intima di metterla a posto e tanti saluti. Di questi 'controlli di carta' nel 2005 l'Enac ne ha fatti 880, quest'anno prima dei tagli si voleva arrivare a mille. Ma servono a qualcosa? Fanno paura ai vettori seri, che temono la pubblicità negativa. Oggi però i cieli pullulano di charter improvvisati e di low cost dell'ultima ora, spesso basati all'Est, spesso senza nemmeno un jet di proprietà: padroncini dell'aviazione e compagnie di ventura, che nascono e spariscono nel giro di pochi anni. Negli hangar poi prospera il mercato dei 'ricambi sospetti': pezzi di seconda mano o prodotti con materiali di poco conto copiando gli originali. Un business tanto ricco quanto pericoloso per la sicurezza, che in Italia rischia di avere trovato il suo paradiso: oggi negli Stati Uniti chi installa questi apparati inaffidabili rischia l'ergastolo, nel nostro paese i gestori del più grande traffico di parti taroccate se la sono cavata con una condanna a pochi mesi.

Insomma, ci sono tutte le premesse perché l'estate 2006 si trasformi in un periodo caldissimo per i cieli italiani: giugno con l'aumento dei decolli ha già imposto una serie di emergenze, con Boeing che perdono le ruote e altri che finiscono la benzina a metà strada. Ma senza interventi urgenti, c'è il rischio che il nostro paese diventi il far west dell'aviazione commerciale. L'ultimatum dell'Icao non lascia dubbi: dal momento del rapporto formale l'Italia avrà sei mesi per ristrutturare il sistema dei controlli.

Controllori low cost Il documento più impressionante è stato redatto dall'Agenzia nazionale per la sicurezza del volo, Ansv, che si occupa di indagare sugli incidenti e dare indicazioni per la prevenzione. Quanti soldi ha per fare questo lavoro? Meno di 4 milioni per tutto il 2006, con una sola parola d'ordine: tagliare, tagliare, tagliare. Bloccate le assunzioni, persino i contratti a termine sono stati ridimensionati. Risultato? L'area operativa, quella che accerta cause e responsabilità di tutti i problemi, dalle collisioni in volo ai disastri, conta soltanto sette tecnici contro i 27 previsti. Nel 2005 erano nove e si sono ritrovati sul tavolo 783 segnalazioni su allarmi nei voli e negli scali. All'Enac, l'ente nazionale dell'aviazione civile, la musica non cambia: tagli, tagli, tagli. L'Enac deve certificare la sicurezza degli aeroporti, quella delle compagnie e degli aerei immatricolati in Italia. Inoltre deve compiere le ispezioni sugli apparecchi stranieri. Il tutto grazie al manipolo di precari: il concorso per arruolare 20 ingegneri in pianta stabile è fermo da mesi. Così ad arbitrare sugli hangar di compagnie multimiliardarie ci sono tecnici con lo stipendio minimo e nessuna garanzia sul futuro. Spiega Vito Riggio, presidente Enac: "La finanziaria 2006 ha ridotto drasticamente le risorse a nostra disposizione: abbiamo un solo capitolo di bilancio che è stato decurtato del 70 per cento, ossia 40 milioni in meno".

Rotta di collisione A fronte di questi controlli ridotti all'osso, cosa succede sopra la nostra testa? Una lunga catena di problemi, almeno a leggere il dossier Ansv. In pista o ad alta quota c'è poco da stare tranquilli. Nei cieli sono stati registrati almeno 25 episodi di una certa serietà. A Brindisi, uno snodo delle rotte mediterranee, tre jet carichi di passeggeri si sono trovati a convergere sulla stessa rotta. E il rischio di impatto si è ripetuto per ben due volte in una settimana: il 25 settembre e il 2 ottobre ci sono stati più Boeing incanalati sullo stesso corridoio tra le nuvole. Ancora più preoccupante è la situazione negli aeroporti, dove sembra che la strage di Linate non sia servita a nulla. Da allora l'Enac ha impartito direttive severe sui movimenti a terra degli aerei. Che spesso sono rimaste lettera morta: lo scorso anno per 31 volte dei velivoli hanno rischiato la collisione in pista, con sei casi molto gravi. Scrive l'Ansv: "In molti scali mancano sistemi anti-intrusione, cioè quelli che servono a impedire che due aerei si trovino sulla stessa pista". C'è poi una questione, che può apparire banale, ma invece è determinante: "L'Agenzia ha rilevato l'esistenza di problemi di comunicabilità in occasione della gestione di situazioni anomale o di emergenza. In particolare, piloti e controllori del traffico aereo oltre a non ricorrere alla fraseologia standard prevista per le circostanze, hanno a volte dimostrato una inadeguata conoscenza della lingua inglese. Parrebbe quindi opportuno incrementare il livello minimo di conoscenza della lingua inglese per le varie figure che professionalmente operano nel trasporto aereo".

Cattive compagnie A complicare questo panorama contribuisce il moltiplicarsi dei vettori, italiani e stranieri, con una prevalenza di compagnie dell'Est. Dove può anche accadere che a bordo ci sia una vera Babilonia di lingue diverse e non riescano a capirsi nemmeno in cabina: "L'apertura del mercato del lavoro a piloti di varie nazionalità ha innescato a livello di cabina, problemi di comunicabilità tra i membri dell'equipaggio, a causa di una conoscenza non sempre ottimale o per una non ottimale conoscenza della lingua nazionale dell'esercente". Oggi in Italia operano una miriade di queste nuove frecce d'Oriente. Ci sono due low cost ceche, due polacche, una romena, una bulgara e persino una albanese. Quest'ultima compagnia, tra l'altro, non possiede aerei: ha noleggiato un Fokker 100 dell'Air Adriatic croata, vecchia gloria dei charter adriatici. Lo scorso anno decollava per conto della Myair, finché i disservizi non hanno costretto la compagnia a basso prezzo nostrana a 'licenziarla'. Pochi mesi dopo, ed ecco lo stesso jet ripresentarsi sulle stesse piste, anche se con colori diversi. Viene citato poi l'esempio della Hemus, linea privata bulgara: un anno fa è stata bandita dalla Svizzera, ma è sempre rimasta benvenuta in Italia, con voli propri o altri per conto terzi. Proprio questi subappalti, detti Wet Lease, creano grande allarme e proteste dei viaggiatori, che al posto della compagnia prescelta si ritrovano a bordo di charter dell'Europa orientale. Nel 2004 l'Ansv ha chiesto controlli più severi su questi contratti "che potrebbero prestarsi a elusione delle disposizioni sugli aeromobili nazionali".

Vecchie signore L'allarme sui padroncini dei cieli non riguarda solo l'Est Europa. Anche in Italia i vettori aumentano: 18 autorizzati al volo di linea; almeno altri cinque che fanno solo charter, salvo inserirsi nei subappalti. Il problema drammatico è l'età della flotta: anche i marchi più noti sono delle vecchie signore. I jet Meridiana in media sono in servizio da 15 anni; quelli di Airone da 14 e solo da settembre saranno rimpiazzati con Airbus nuovi. Alitalia si aggira sugli 11 anni anche se gli Md80, ossia il 40 per cento degli aerei, hanno festeggiato 15 compleanni: può capitare di decollare sul ventiduenne Ancona. Fa sorridere l'idea che l'ultima nata, l'abruzzese Itali, in realtà schieri tre jet ventennali ex Alitalia. L'Enac ha segnalato anche al governo la situazione, ma Vito Riggio ostenta tranquillità: "La rete di controlli sulle aziende italiane è veramente difficile da superare, e ogni volta che qualche compagnia sbaglia, il riflesso è talmente negativo che i responsabili corrono ai ripari. Nel caso di Alpieagles, dopo tutta una serie di eccezioni che abbiamo sollevato, la compagnia ha provveduto a rinnovare il parco vettori. E così è stato per Windjet. Anche Alitalia ci ha messo di fronte ad alcune criticità, che si sono verificate quando ha ceduto all'esterno la manutenzione. Tanto è vero che la compagnia è stata sottoposta negli Usa alla procedura di 'special emphasis'. Problemi comunque superati". Il caso di Alpieagles è forse il più inquietante. La scorsa estate la compagnia è finita nel mirino: ci sono stati una serie di avvertimenti, poi gli ispettori sono passati alla linea dura. Un jet brasiliano ri-registrato in Francia è stato portato in officina e le sorprese non sono mancate. La compagnia non ha risposto alle domande de 'L'espresso'. Leggiamo quindi il comunicato dell'Enac: "È stata riscontrata la presenza di parti aeronautiche di sospetta provenienza, installate senza la prevista certificazione dal precedente proprietario brasiliano". A quel punto sono intervenuti i francesi, responsabili della certificazione, che hanno "provveduto alla sostituzione di decine e decine di parti". Multe? Non ne esistono. Si arriva così al lieto fine: e tutti volarono felici e contenti. Fino al prossimo allarme, sperando nella buona sorte.

Ha collaborato Piero Messina

 

TORNA ALLA PAGINA INIZIALE