26 giugno

L'appuntamento in un bar di Trastevere a Roma, gli accordi prima dello scambio
Dal centro alla periferia, tutti i segreti dei "cravattari" della Capitale

Dentro il covo dell'usuraio
"Di quanto avete bisogno?"

Un giorno con lo strozzino: ricatti e interessi al 240%
di ATTILIO BOLZONI e FRANCESCO VIVIANO

<B>Dentro il covo dell'usuraio<br>"Di quanto avete bisogno?"</B>

Nel fotogramma del filmato registrato durante l'inchiesta di Repubblica, l'ingresso di un bar-bisca nel quartiere Prenestino

ROMA - Il suo bar è in un vicolo di Trastevere. Sembra gentile, quasi affettuoso. "Quanto avete bisogno?", chiede Paolo a bassa voce mentre si guarda intorno diffidente. "Non è una grossa somma ma ci serve subito", gli rispondiamo. L'uomo sorride come un vecchio zio e rassicura: "Non vi preoccupate mica siamo strozzini, voglio dire che questi sono favori che si fanno agli amici, per l'amor di Dio". Il suo favore ha un tasso di interesse del venti per cento al mese. Paolo spiega che può farci il prestito ma vuole garanzie, vuole essere certo di riprendersi tutto il suo e il nostro denaro. Cambia tono, fa una smorfia e diventa vagamente minaccioso.

Avverte: "Però bisogna parlare da uomini, avete capito?". Il "cravattaro" di Trastevere tira fuori dalla tasca dei pantaloni una piccola calcolatrice e fa i suoi conti: "Su 1200 euro che mi date con il vostro assegno post datato ve ne posso restituire al massimo 900: 300 me li tengo io, subito". È la mattina di mercoledì 21 giugno. Quello di Trastevere è uno dei tanti "cravattari" che abbiamo incontrato e filmato con una telecamera nascosta. Paolo è uno dei quasi quindicimila strozzini della capitale. Ce ne sono più qui che nel resto d'Italia. Per la prima volta siamo riusciti a smascherali in diretta, con le immagini filmate e la trattativa registrata.

Ecco il nostro viaggio nella crudele Roma usuraia. Sono tantissimi e si nascondono dappertutto. Alla Garbatella. A Monteverde. Dietro piazza Navona. Al Labaro. A Monti. A San Giovanni. Alla Romanina. All'Alberone. A Tor Bella Monaca.


Li abbiamo conosciuti, abbiamo parlato con loro di soldi e di scadenze. Altri li abbiamo visti all'opera nelle loro borgate. Appartengono tutti a una razza speciale: non hanno cuore e non hanno ritegno gli strozzini di Roma.
Ci sono quelli come Paolo che ufficialmente hanno un'attività legale e ci sono inaspettate vecchiette come "Anna e sua sorella", due ottantenni che abitano dietro via del Governo Vecchio e succhiano sangue e denaro da una vita. C'è Alvaro che è il ras di Villa Gordiani, il suo quartier generale è una bisca, fuori ha sentinelle che sorvegliano i marciapiedi e picchiatori da usare alla bisogna. C'è il "signor G." che ha un'agenzia di intermediazione finanziaria al Tuscolano, c'è Arturo che riceve i clienti da spolpare nella sua casa al Prenestino.

E poi c'è Fausto che gira sempre per Roma sul suo fuoristrada mentre gli appuntamenti con le sue prede glieli procura il tirapiedi, un tabaccaio di Testaccio. E poi ci sono Marco che ha un bel ristorante a San Lorenzo, quel Pierluigi delle pompe funebri, Adele della famigerata famiglia dei Casamonica, il violentissimo clan degli zingari.

Spremono tutti sino alla morte. E la fanno quasi sempre franca. Di regola chiedono il dieci per cento al mese di interesse su qualunque somma. A volte però si sale al venti o al trenta. È così che un prestito di poche migliaia di euro in due o tre anni si trasforma in un debito di cento o anche duecentomila euro. Gli strozzati vengono rimpallati da un usuraio all'altro, quando non possono più pagare il primo si rivolgono al secondo e al terzo e poi al quarto. Perdono amici, abitudini, affetti. Sprofondano nel pozzo. E diventano come tossici. Cercano soldi, sempre più soldi. Fanno di tutto pur di raccattare qualche spicciolo. Rubano alla vecchia madre. Falsificano la firma della moglie. Non ragionano più quando finiscono nelle mani di quelli. Nel vicolo di Trastevere siamo finiti dopo aver chiesto in giro chi poteva "darci un aiuto". Abbiamo cominciato a mettere in circolazione la voce che avevamo urgente bisogno di soldi.

Ci siamo presentati come commercianti di abbigliamento che tre o quattro volte al mese passano da Roma per qualche giorno. Commercianti "in un momento di difficoltà" per un piccolo affare andato a male. Ci siamo procurati un paio di assegni - uno da 1200 euro e l'altro da 1800 - fuori piazza e soprattutto post datati. Cioè incassabili il mese successivo.
E da offrire - nella parte che stiamo recitando per incastrare un "cravattaro" - a garanzia per un prestito. Per avere soldi in contanti e subito da un usuraio.
Non è stato facile stanare lo strozzino. Quelli di solito strangolano i loro vicini, quelli della porta accanto, che conoscono anche nelle difficoltà e nei punti deboli, che possono sempre terrorizzare per ottenere il loro pagamento.

Non si fidano mai di estranei, di sconosciuti. Ma poi abbiamo conosciuto Valerio, uno che in passato ha avuto a che fare con i più fetenti usurai di Roma. È stato lui ad accompagnarci da Paolo fino a Trastevere.
L'incontro con il "cravattaro" del bar è stato preceduto da lunghi preliminari. Manovre di avvicinamento. Lo strozzino era molto guardingo. "Ma chi sono questi due?", chiedeva al nostro contatto Valerio. Lo chiamava di mattina al telefono e domandava: "Perché vogliono soldi da uno di Roma se loro non sono di Roma?". Poi lo richiamava di sera e domandava ancora: "Valerio, vieni da me che ne riparliamo a quattr'occhi". Noi avevamo fatto sapere allo strozzino che avevamo sempre più urgenza del suo denaro. Lo strozzino faceva passare i giorni con l'obiettivo di spremerci meglio. Per infilarci il suo cappio al collo.

Dopo una settimana di tira e molla finalmente sembra che si sia convinto: ci vuole incontrare. Ci dà un appuntamento a mezzogiorno al suo bar. Poi ci ripensa. Chiama Valerio e gli dice: "Forse la prossima settimana, per ora devo ancora incassare denaro da altri clienti, dì a quei due che devono pazientare ancora". Rinvio dopo rinvio - dai primi giorni di giugno quando abbiamo avviato le trattative - siamo arrivati a mercoledì scorso.

L'incontro è fissato alle sei del pomeriggio. Da quel bar di Trastevere però noi ci siamo passati prima, di mattina. Una precauzione dopo le brutte avventure avute al Prenestino, un altro usuraio che ci aveva inseguito con un coltello fra le mani. A qualche metro dall'ingresso del bar c'è un bestione tutto tatuato, il guardaspalle di Paolo. È lì alle dieci del mattino, a cavalcioni su una motocicletta. Ed è lì anche alle sei del pomeriggio, quando finalmente siamo faccia a faccia con lo strozzino. La telecamera nascosta è accesa, il microfono aperto.

Ecco che ce l'abbiamo di fronte Paolo. Fino a quel momento avevamo solo sentito parlare di lui. Eccolo seduto dietro la cassa del suo bar che sorride e ringrazia gli avventori, che scherza con la ragazza che fa i caffè, che saluta come un vecchio amico Valerio. C'è anche lui all'appuntamento. Ed è lui che ci presenta: "Sono amici di Lucio, e siccome sono veri amici sono garantiti".

Paolo è piccolo, stempiato, la barba lunga di un paio di giorni. Addosso ha jeans sdruciti e una polo verde. La sua voce è un po' impastata, quando parla non si capiscono tutte le sue parole. Avrà una cinquantina di anni, forse anche di meno. Ha l'aria del padre di famiglia, lo sguardo però lo tradisce. Occhi di ghiaccio. Si alza all'improvviso e lascia alla cassa del bar il suo gorilla, si avvicina, ci offre qualcosa da bere. Poi dice: "Valerio mi ha spiegato tutto, vediamo come vi posso accontentare... ".

Gli diciamo quello che lui sa già: abbiamo bisogno di soldi. Non tanti. Ma subito. In mano abbiamo un assegno di 1200 euro che però possiamo incassare solo il prossimo 15 luglio. Ma non ce la facciamo ad aspettare ancora un mese per scambiarlo, quei soldi ci servono prima.

Ecco perché siamo oggi da lui. Paolo si rigira fra le dita
l'assegno e sta in silenzio. Poi comincia a parlare. Piange miseria: "Il problema mio, da quando ho comprato questo bar è che ho un mutuo forte. E tutti i mesi. L'affitto che pagavo prima oltretutto era più basso".

E chiede: "Da dove viene questo assegno?". Vuole sapere chi è l'intestatario. Gli diciamo che è un nostro amico gioielliere di Salerno. E gli assicuriamo che è coperto. Lui sta zitto ancora per qualche secondo. Gli ripetiamo che abbiamo molta fretta. Paolo chiede: "Che giorno è?". "Mercoledì". "Io in un paio di giorni posso venirvi incontro... ".

Gli diciamo che ormai - dopo tutto il tempo che ha fatto passare - i suoi soldi ci servono prima. Lo strozzino riprende in mano un'altra volta l'assegno e si rivolge a noi ma anche a Valerio, l'amico comune che ci ha presentato. E sibila lo strozzino: "Voglio dirvi una cosa a tutti, purtroppo questo, quest'assegno... ed è bene che senta pure lui (Valerio, ndr) che siamo amici da una vita... purtroppo se io faccio un favore del genere io do contanti e il giorno che scade mi devo assolutamente pigliare i soldi, sennò vado in crisi... ".

Ridiventa minaccioso: "E quello è un problema... per voi è un problema". Valerio garantisce per noi, insiste che "siamo a posto" e che l'assegno è coperto. Paolo ci stringe la mano. E poi ci fa il suo prezzo: "Vi do 900 euro... e il vostro assegno di 1200 post datato e fuori piazza me lo scambio io con comodo... ". Gli diciamo che ci sembra un po' troppo una "trattenuta" di 300 euro. Ride lo strozzino. Si allontana per qualche minuto, si apparta nell'angolo in fondo al bar con Valerio e poi torna.

Adesso sembra cordiale come all'inizio del nostro incontro. E poi ci dice: "Me ne tengo solo duecento dei vostri euro". Gli sfuggono dalla bocca anche quelle parole: "Mica siamo strozzini, questi sono favori che si fanno agli amici... ". Il "cravattaro" di Trastevere ci ha fatto uno sconto di 100 euro. Il tasso che ha preteso sfiora il 20 per cento al mese, quasi il 240 per cento l'anno.

Così Paolo probabilmente ha acquistato qualche mese fa il suo bar nel vicolo di Trastevere. Così si è fatto il gruzzolo. Come tanti altri "cravattari" di Roma. Mandando in rovina vicini di casa, conoscenti, amici, artigiani, piccoli commercianti. Paolo è un usuraio ed ha una fedina penale immacolata, è incensurato. Tutti sanno a Trastevere quello che fa. E tutti fanno finta di niente. A cominciare dalle sue vittime. È un misfatto che si consuma nel silenzio. Nell'omertà. Sono quasi centomila qui a Roma gli ostaggi degli strozzini.

 

 

Bombe Nato sui civili anche in Pakistan
Raid aereo in Waziristan: decine di civili uccisi. Un anziano sopravvissuto si suicida
 
La regione di Shawal, in Waziristan, è un posto idilliaco: una distesa di colline coperte da abeti e di verdi vallate punteggiate da case d’argilla e piccoli campi coltivati. Un paradiso che venerdì notte si è trasformato in un inferno.
 
Panorama nello ShawalIl vecchio Khan. Dopo il tramonto si sono cominciati a sentire i sordi boati delle bombe Nato che cadevano sui villaggi controllati dai talebani nella provincia di Paktika, pochi chilometri più a ovest, al di là del vicinissimo confine afgano.
Nulla di nuovo per il vecchio Pikhwar Khan, 70 anni, pashtun waziro della tribù dei Gangikhel, nato e vissuto tra quei boschi.
Ma quella notte, i boati non cessarono come al solito. Anzi, si facevano sempre più forti. I bombardamenti si avvicinavano.
A un tratto, la vallata attorno a casa di Pikhwar è stata illuminata a giorno dal bagliore dei traccianti. Subito dopo sono arrivati i missili che hanno fatto tremare la terra.
Il mattino dopo, il vecchio Khan è rinvenuto in mezzo alle macerie fumanti della sua casa. Attorno a sé, i cadaveri di tutta la sua famiglia: un bambino, due ragazzini, tre donne e tre uomini. Tutti morti. Era rimasto vivo solo lui. L’anziano pashtun, disperato, si è tolto la vita.
 
Missili HimarsAltri venti morti. Venerdì notte, almeno altri venti civili hanno perso la vita e un centinaio sono rimasti feriti nei bombardamenti Nato sulla regione di Shawal: i nuovi missili ‘Himars’ lanciati dall’Afghanistan e le bombe sganciate dai caccia e dagli elicotteri hanno distrutto almeno una quindicina di abitazioni, stando alle fonti riportate dalla televisione pachistana Geo.
Si è certamente trattato di uno dei più massicci bombardamenti aerei della Nato in territorio pachistano. I comandanti militari Usa che guidano le operazioni nel sud-est afgano non si sono mai fatti problemi a sparare oltreconfine per colpire i talebani in fuga dai combattimenti. Ma mai, prima d’ora, erano stati condotti raid aerei così prolungati sul territorio pachistano.
La Nato, che sabato mattina aveva annunciato di aver ucciso almeno 60 presunti talebani nei bombardamenti della notte prima sulla provincia di Paktika, ha ammesso di aver colpito obiettivi civili in Pakistan solo domenica sera, dopo che il portavoce delle forze armate di Islamabad, generale Waheed Arshad, ha denunciato quanto accaduto.
 
Truppe britanniche in HelmandFronte afgano. Intanto la Nato continua a uccidere civili anche in Afghanistan. Le proteste del presidente Hamid Karzai per l’uccisione di oltre 90 civili in dieci giorni non paiono scalfire le tattiche di guerra delle truppe Isaf. L’ultimo episodio risale a domenica mattina.
Attraversando una zona rurale poco a sud di Lashkargah, capoluogo della provincia di Helmand, una Land Rover militare britannica è stata investita dall’esplosione di una bomba: un soldato è morto e un altro è rimasto gravemente ferito. I loro commilitoni sopravvissuti hanno iniziato a sparare alla cieca, anche verso alcune abitazioni, colpendo alla fine due civili che si avvicinavano in moto e che – stando alla versione ufficiale – non si erano fermati all’alt.
 

 

 

Mal di mare

di Fabrizio Gatti

Traghetti vecchi, nessun controllo, informazioni oscure, ruggine e incuria persino sulle scialuppe. In viaggio sulle carrette di Stato della Tirrenia

Davanti alla biglietteria del porto di Civitavecchia, un pensiero va a quelli che il traghetto non lo prendono mai. A quanti viaggiano soltanto in macchina, treno o aereo. Perché ogni volta che la Tirrenia vende un biglietto, gli italiani tutt'insieme ci rimettono 15 euro. Pagano la loro quota perfino i bambini che non sono saliti nemmeno su un pedalò. Pure questo articolo ha il suo bel peso sul tesoretto nazionale. Sette passaggi fanno un totale di 105 euro di sovvenzioni. La Finanziaria annaspa e l'Alitalia del mare incassa. Solo così la più grande compagnia di navigazione del Mediterraneo può mandare avanti e indietro le sue carrette di Stato.

Lasciate perdere la rotta Genova-Olbia. Lì si muovono i milanesi vip e la Tirrenia di solito schiera il meglio della flotta, che poi non sono più di due o tre navi. Ma venite a vedere cosa combina nel resto d'Italia il carrozzone pubblico. Scafi da guerra fredda. Croste di ruggine nascoste da maldestre mani di vernice. Scialuppe appese a gru corrose. Confusione nelle segnalazioni di emergenza. Giubbotti di salvataggio manomessi. Ciambelle mancanti. Pavimenti restaurati con tappeti di gomma infiammabile. Mappe sulle vie di fuga chiare come gli indovinelli della caccia al tesoro. E la più assoluta mancanza di vigilanza.

Di notte il personale dorme. Così si può scendere a vedere chi è di guardia nella sala macchine. Nessuno. C'è tempo per passeggiare a lungo tra i pistoni Diesel e i giganteschi alberi di trasmissione. Proprio nel punto in cui i due tronchi d'acciaio attraversano lo scafo e fanno girare le eliche. Con un altro elenco di sorprese. Bombole di gas e sacchi di rifiuti abbandonati vicino ai motori. Rivoli e vapori di carburante che trasudano dai cilindri logori. E le porte, anche quelle dei luoghi più vulnerabili della nave, lasciate rigorosamente aperte. A chiunque. È così su tutte le rotte controllate da 'L'espresso'.


Un giro di una decina di giorni tra Civitavecchia, Cagliari, Trapani, Palermo, Napoli, Bari, Durazzo e ancora Bari. Su quattro traghetti: Clodia, Flaminia, Rubattino e Aurelia. Unica precauzione, la macchina fotografica e una piccola telecamera. Giusto per raccogliere le immagini. Ed evitare che la compagnia napoletana e il suo amministratore delegato Franco Pecorini, il Gentiluomo di Sua Santità che da ventitré anni governa la Tirrenia come un papa, dicano che tutto questo non è vero. Dunque, benvenuti a bordo. Anzi no, c'è da ritirare il biglietto comprato su Internet.

Prima tappa, Civitavecchia-Cagliari. In banchina è ormeggiata la nave-traghetto Clodia. È stata costruita lo stesso anno in cui Pietro Mennea vinse la medaglia d'oro alle Olimpiadi di Mosca e Bernard Hinault arrivò primo al Giro d'Italia, mentre i Dire Straits conquistavano l'Europa con il loro rock dolce e l'Unione Sovietica consolidava l'invasione dell'Afghanistan. Era il 1980. Mennea e Hinault non corrono più. I Dire Straits si sono sciolti. E così l'Unione Sovietica. Ma la Clodia è ancora lì. Più o meno la stessa banchina di sempre. La biglietteria però è a un chilometro. L'hanno trasferita dalla parte opposta del porto. Non ci sono cartelli per trovarla. Chi ha l'auto da imbarcare, si perde tra sensi unici e direzioni obbligatorie. C'è perfino una rotatoria in senso orario. Bisogna immaginarsi per qualche secondo a Londra per capire che casino è una rotatoria in senso orario. Qualcuno la prende da destra, come si fa in Italia. Qualcuno da sinistra, come vogliono le frecce sull'asfalto. Evitato lo scontro frontale, un tassista indica finalmente dove andare.

"Ci hanno appena portati qui, non è colpa nostra se non ci sono indicazioni", dice l'impiegata allo sportello Tirrenia. Prende la ricevuta stampata da Internet. Serve un documento? Lei alza le spalle. "No", risponde. Nessuno verifica se la prenotazione coincide con il nome di chi viaggia. Oppure se la ricevuta è stata rubata. Nemmeno all'imbarco lo fanno. "No, non serve il documento", spiega l'ufficiale che controlla i biglietti. Viene da sorridere. Perché per volare un'ora da Fiumicino a Cagliari, gli addetti dell'aeroporto sequestrerebbero perfino l'acqua minerale. E qui, che il viaggio dura quasi quindici ore e i passeggeri della nave possono arrivare a 2280, nessuno si preoccupa di controllare chi sale. Per un Paese impegnato nella guerra in Afghanistan, non è una leggerezza da poco.

Oggi a bordo c'è tutto il 66 Reggimento aeromobile di Forlì, il corpo volante della fanteria italiana che, evidentemente, non sempre può volare. Già questa presenza dovrebbe consigliare maggior prudenza. I militari in divisa mimetica vanno in Sardegna a esercitarsi. Salgono sulla Clodia con il loro seguito di fuoristrada, camion blindati, pistole, mitra, mitragliatrici pesanti e casse di munizioni leggere. Via gli ormeggi, si salpa.

Uno dei due vecchi motori della Flaminia
Un cilindro perde olio dalla testaLa reception assegna la cabina 141. Si sale al nono piano, ponte comando, prima classe. Biglietto da 117,54 euro. Ed è solo la parte pagata dal passeggero. La quota a carico di tutti gli italiani dipende da quanto di anno in anno i governi decidono di stanziare per coprire i buchi nel bilancio e le scelte del consiglio di amministrazione. Soltanto negli ultimi sette anni la somma fa un miliardo e 360 milioni di euro. Per il 2007, la Finanziaria ha previsto 198 milioni. E poiché il sito Internet della Tirrenia dichiara una media annuale di 13 milioni di passeggeri, ecco anche quest'anno i famigerati 15 euro a biglietto.

La cabina 141 è a metà corridoio. Il responsabile dei servizi sul ponte comando dà il benvenuto. "Ah, signo', guardi non usi lo sciacquone perché non funzio'". Non funziona il water? "No, il water funzio', solo che poi non può tirare lo sciacquo'". L'interno è elegante. L'esterno un po' meno. Civitavecchia e la costa laziale si dissolvono all'orizzonte. La luce rossa del tramonto risalta le croste di ruggine sui verricelli e le catene delle scialuppe di salvataggio. Non sono quelle moderne, chiuse come le capsule degli Apollo che tornavano dallo spazio. Sono nove vecchi barconi stile Titanic: uno da 59 posti, due da 89 e sei da 99. Il totale fa 831. Significa che, facendo tutti i dovuti gesti scaramantici, 1.449 passeggeri più i marinai dell'equipaggio sono senza posto in scialuppa. Per loro ci sono 65 battelli autogonfiabili. Caricano 25 persone ciascuno, per una somma di 1.625 posti. Mettere in acqua i battelli richiede qualche tempo. Devono essere aperti e agganciati ai verricelli. Le gru per ammainarli sono dieci. E le loro parti mobili sono così arrugginite e corrose da avere ormai perso colore. Tutti i cavi sono secchi e incrostati. Anche quelli delle scialuppe di dritta, cioè sul lato destro. Dovrebbero essere nuovi, invece. Una serie di fogli appesi con nastro adesivo e timbro della Tirrenia, autocertificano che i cavi sono stati sostituiti il 22 gennaio 2007. Sarà che con i cambiamenti climatici la salsedine è diventata più aggressiva. Ma non sembrano diversi dalle altre funi più vecchie.

Non ci sono hostess né steward a spiegare durante l'imbarco cosa fare in caso di emergenza. E gli avvisi sono scritti con burocratica incertezza. Come questo: 'Le cinture per bambini e ragazzi sono ubicate nei depositi interni ed esterni'. La Clodia è lunga 148 metri. È alta dieci piani. Quanti spazi interni ed esterni ci sono? Gli adulti sono meglio garantiti: 'Le cinture di salvataggio per passeggeri posto ponte sono ubicate nei sedili esterni al ponte imbarcazioni ed al punto di riunione C'. Non tutti i cartelli sono leggibili, però. L'imbianchino che ha fatto l'ultima verniciatura si è lasciato prendere la mano. E, accanto a una gru, ha cancellato metà delle istruzioni su come mettere in acqua i battelli autogonfiabili. In un altro punto, ha dimezzato l'avviso sul deposito dei giubbotti di salvataggio. Coprendo proprio l'informazione più importante: dov'è il deposito. Nel caso di un'emergenza, bisognerebbe grattare la vernice con le unghie per leggere cosa c'è sotto. Dal si salvi chi può al si gratti chi può?

Tra le undici di sera e mezzanotte il ristorante chiude. Il selfservice chiude. Il bar chiude. Anche se i passeggeri vorrebbero spendere ancora. Tutti a dormire. La Clodia diventa una nave fantasma. È il momento di vedere chi resta al lavoro. La reception? Deserta. Scale e corridoi? Deserti. La sala dei generatori di corrente sul fondo dello scafo? Deserta. La sala macchine? Deserta. La mattina poco prima dell'alba nuovo tour. Tutto come prima. Ci si può tranquillamente sedere nel caldo da sauna e ascoltare la rumorosa magia dei due grossi motori Fiat al lavoro. A Cagliari ci aspetta la Guardia di finanza. Adesso che siamo arrivati ispezionano i bagagliai di tutte le auto che sbarcano. Un finanziere porta il cane antidroga a controllare i passeggeri. Fa sniffare anche le borse e le divise dei soldati del 66 reggimento. È come se si mettessero a indagare sui pantaloni di carabinieri e poliziotti. Alcuni turisti stranieri l'hanno capito. E fotografano divertiti.

La sera si riparte. Cagliari-Trapani. Al cancello del porto i bagagli vengono passati al metal detector e i documenti controllati. In banchina è ormeggiata la nave-traghetto Flaminia. Nel 2004 l'Automobil club tedesco l'ha messa all'ultimo posto nella classifica sul rispetto delle norme di sicurezza. Peggio della flotta del Marocco. E, secondo il racconto degli ispettori tedeschi, quando si sono qualificati, gli ufficiali li hanno obbligati a scendere. All'imbarco, un marinaio al settimo piano sbaglia le indicazioni. Sarà il suo accento pittoresco. Sarà il rumore di fondo. Ma grazie a lui tutti i passeggeri salgono a cercare la reception all'ottavo piano. Invece è al sesto. Lo si scopre dalle imprecazioni di due famiglie incastrate con figli e valigie sulle scale tra il settimo e l'ottavo livello. Ben quattro ufficiali dietro il banco della reception osservano la consegna delle chiavi. La cabina da cercare è la 320, seconda classe: 86,47 euro. "Prego, di qua. Prenda l'ascensore e salga di due piani". Sei più due fa otto. Dopo un buon quarto d'ora di saliscendi, appare finalmente su una porta la placca 320. È al nono piano. Due svedesi, beati loro, chiedono in inglese dov'è il supermarket di bordo. "Eh?", risponde un cameriere del bar.

Rottami e immondizia nel deposito esterno dei giubbotti di salvataggio

La prima cosa da fare su una nave è guardare i percorsi di emergenza. Le indicazioni sono precise come quelle appena date alla reception. Nel corridoio davanti alla cabina un segnale invita a riunirsi al punto E. L'avviso esattamente accanto dice che 'il punto di riunione dei passeggeri di ponte è C'. Mentre un altro cartello ancora, sul ponte esterno, avverte che 'il punto di riunione dei passeggeri di ponte è D'. Una indicazione spiega come gonfiare i battelli di salvataggio Pirelli. Ma le zattere autogonfiabili a bordo sono tutte di un'altra marca. L'esterno della Flaminia è identico alla Clodia. Sono nate da progetti gemelli degli anni Settanta. Poi la Clodia, come l'Aurelia, è stata alzata di due ponti. Così la Flaminia, con 280 passeggeri in meno, si ritrova con lo stesso numero di posti in scialuppa delle altre due. Oltre che con le stesse corrosioni su verricelli e gru. Solo che qui una mano ha verniciato di rosso le croste di ruggine. E i cavi sono bene ingrassati.

Al sesto piano, accanto alla reception, due porte di vetro nascondono il portellone che dovrebbe accogliere lo 'scalandrone', la scala di imbarco. Non lo usano da tempo. Ma potrebbe servire per abbandonare la nave in caso di incendio in porto oppure per raccogliere naufraghi in mare. Invece il meccanismo idraulico di apertura è ostruito da tubi di gomma, rottami, una valigia abbandonata, corde. E alla postazione di soccorso manca il salvagente. Sul banco della reception un cartello informa da oltre un'ora che 'il guardiano notturno è in giro d'ispezione'.

Si può andare ovunque. La passerella sopra i generatori Diesel è ostruita da una fila di sacchi azzurri dell'immondizia. In caso di principio di incendio, il ferro non brucia ed estingue le fiamme. Ma la plastica sì. A poppa, la sala macchine è aperta e incustodita come sempre. Dalla testa del cilindro numero nove del motore di sinistra esce un rivolo oleoso nero. Lo stesso sul numero dieci. E qualcuno ha provato a tamponare la perdita con un giro di stoffa. Quaggiù fa caldissimo. Ma in tutte le cabine l'aria condizionata soffia gelida. L'indomani mattina una fila di ragazze si allunga davanti ai gabinetti della seconda classe. Tutte con il mal di pancia. Quando è stata progettata questa nave, non esistevano i jeans a vita bassa. La sera stessa la Flaminia ritorna a Cagliari. E la sera dopo riparte per Napoli. È l'ultimo viaggio dei 56 tra marinai e ufficiali. Dopo 52 notti in mare, avranno 25 giorni di riposo.

Palermo è come Civitavecchia. Nessun controllo di documenti o bagagli all'imbarco. Basta solo il biglietto. La nave Rubattino ha appena sei anni. E si vede. Cabina da quattro letti in prima classe, la 273: 62,51 euro. I quattro giubbotti di salvataggio sono negli armadi. Due sono impacchettati, le batterie del lampeggiante cariche. Gli altri due sono senza lampeggianti e senza fischietto di segnalazione. Forse qualcuno li ha rubati: dovrebbero essere rimpiazzati. La notte un ufficiale è di guardia alla reception. Ma le porte della sala macchine restano aperte. Ed è possibile rimanere per più di un'ora accanto ai motori. Sull'Aurelia, per il viaggio Bari-Durazzo-Bari, si torna indietro trent'anni. Cabina di seconda classe, al secondo piano, ponte copertino. Il più basso, in mezzo ai garage e ai serbatoi di camion e auto. Temperatura intorno ai 40 gradi. Una puzza di nafta nauseante impregna perfino le lenzuola. Praticamente due notti da sommergibilisti. Prezzo: 110 euro all'andata, 108 il ritorno. Pur maltrattati sul fondo della nave, la seconda classe per l'Albania costa quasi il doppio di una prima classe da Palermo a Napoli. E il viaggio dura meno.

Il ristorante chiude alle 23. Esattamente quando i passeggeri salgono a bordo e l'Aurelia parte. Così al cameriere rimane poco o nulla da fare. Le porte dei garage devono rimanere chiuse a chiave durante la navigazione. Ma al piano 3 alcune restano aperte. Dalla seconda classe i cartelli per le vie di fuga sono una lotteria. È meglio andare verso il punto 2 o il punto B? Inutile, al quinto piano ci si perde comunque. Tra segnali che dicono soltanto dov'è il punto A. Altri vecchi cartelli spiegano che le cinture di salvataggio sono nei sedili esterni. Si aprono come cassapanche. E sono vuoti. Le hanno portate tutte nei punti di raccolta interni: il ristorante, il selfservice e il bar, in fondo a percorsi ostruiti da tavoli, sedie, poltrone e tavolini. Fuori sulle gru delle scialuppe, la stessa ruggine delle altre carrette di Stato. A metà viaggio, il caldo e l'odore nella cabina sono insopportabili. Meglio farsi un giro nella sala macchine. Su una passerella appena sopra i motori hanno lasciato due bombole di gas. Si può scendere ancora. Fino ai cilindri, ai tubi di nafta, agli alberi delle eliche. Anche questa notte, come sempre, incustoditi.

21 giugno

La sindrome cinese

La Cina diventa il Paese che inquina di più al mondo, superando gli Usa

Il sorpasso era nell'aria, ma in pochi se lo aspettavano così presto. Sull'onda della sua inarrestabile ascesa economica, la Cina è già diventata il Paese più inquinante del mondo, spodestando gli Stati Uniti. Secondo un rapporto dell'Agenzia olandese per il controllo del clima, l'anno scorso la Cina ha prodotto 6,2 miliardi di tonnellate di anidride carbonica (+ 8,7 percento in un anno), considerata la principale responsabile del riscaldamento del pianeta, mentre gli Usa si sono fermati a 5,8 miliardi. Previsto inizialmente nel giro di un decennio, poi prima del 2010 e infine entro quest'anno, il balzo in avanti cinese ripropone l'esigenza del contenimento dei gas serra, dopo che nelle scorse settimane il vertice in Germania dei maggiori paesi industrializzati ha portato solo a vaghi impegni in questo senso.

Un uomo cinese all'esterno di una fabbrica di TayuanI dati. Spinta da una crescita economica che da un decennio si aggira intorno al 10 percento annuo, la Cina ha visto aumentare esponenzialmente anche il suo bisogno di energia. Solo nell'ultimo anno, il Paese ha aggiunto alla rete elettrica una quantità di energia pari a quella dell'intera Gran Bretagna. Si calcola che, nel 2020, i consumi energetici cinesi saranno il doppio rispetto a quelli di oggi. Con scarse riserve di gas e petrolio, la Cina sta puntando forte sul carbone, che possiede in abbondanza (13 percento del totale mondiale). Nei prossimi otto anni, verranno costruite oltre 550 centrali elettriche a carbone, più di una a settimana, che si aggiungeranno alle circa 2.000 già esistenti. Il boom del carbone ha un costo umano: nelle 21.000 miniere cinesi, stimolate a produrre senza preoccuparsi troppo delle condizioni di sicurezza, muoiono quasi 4.000 lavoratori all'anno. Ma il costo è anche ambientale, perché l'economico carbone è il combustibile fossile più “sporco” che esista. L'incredibile sviluppo nel settore delle costruzioni – la Cina produce il 44 percento del cemento mondiale – è anche un'enorme fonte di emissioni nocive.

Accuse reciproche. Paese firmatario del protocollo di Kyoto sulla riduzione di gas inquinanti, ma inserito nella fascia Annex I (quella dei paesi in via di sviluppo), la Cina non è tenuta a rispettare nessuna soglia di emissioni. E questo per gli Stati Uniti, che quel trattato non l'hanno ratificato, rappresenta un problema e al tempo stesso una scusa per evitare di sottoscrivere accordi di riduzione dei gas serra. Un'intesa globale sul clima deve includere anche Cina e India, sostengono gli Usa: che senso ha limare la quantità di emissioni prodotte, dice Washington, se in questi paesi l'inquinamento cresce a tassi vertiginosi? Ma la Cina risponde facendo notare che le sue emissioni pro-capite sono un quinto di quelle statunitensi, e che non è giusto frenare la crescita economica dei paesi in via di sviluppo.

Un lavoratore di una miniera di carbone cineseIniziative per la riduzione dei gas serra. Comunque sia, Pechino sta iniziando ad affrontare il problema dell'inquinamento, che già affligge diverse città cinesi. A parte iniziative pittoresche, come quella annunciata oggi dell'addestramento di “sniffatori professionisti” da sguinzagliare intorno alle fabbriche di Guangzhou, con l'obiettivo di identificare i gas illegali, il Paese ha appena presentato un piano per ottenere entro il 2010 il 10 percento della sua energia da fonti rinnovabili. Sono già in programma nuove centrali idroelettriche, nonché quattro reattori nucleari, ma nuove risorse verranno anche dedicate all'energia solare e a quella eolica. C'è anche il progetto di estendere le foreste, fino a coprire il 20 percento del territorio nazionale.

La nuova frontiera. Inoltre, come concesso dal protocollo di Kyoto, la Cina è diventata anche il nuovo eldorado per gli scambi di emissioni nocive e la compravendita di riduzioni dei gas inquinanti. Le aziende occidentali, tenute a rispettare i nuovi parametri ambientalisti, hanno l'opzione di limitare le emissioni nocive nei paesi in via di sviluppo, a un costo minore di quanto dovrebbero sostenere a casa loro. In Cina stanno così spuntando centinaia di progetti per l'energia rinnovabile, sviluppati con soggetti cinesi e capitale straniero. “Il governo sta agevolando in tutti i modi l'afflusso di questa massa di denaro, conscio che il settore agevolerà lo sviluppo del paese”, confida a PeaceReporter un operatore italiano che lavora per un'azienda di emission-trading a Pechino.

Temperatura in salita. Comunque sia, un'iniziativa globale sulla riduzione dei gas nocivi è sempre più urgente. “Dobbiamo far scendere le emissioni entro 10-15 anni”, spiega al telefono Stefan Rahmstorf, un climatologo tedesco dell'università di Potsdam. “Se non lo faremo, avremo pochissime possibilità di contenere il riscaldamento globale entro i due gradi, rispetto alla temperatura media dell'epoca preindustriale: una soglia che, se oltrepassata, porterebbe a un disastro”. Dato che nella corsa verso i due gradi siamo già a un più 0,8, e che se la concentrazione di gas serra nell'atmosfera resterà la stessa la temperatura salirà comunque di un altro mezzo grado, il tempo stringe.

 

19 giugno

 

Piccoli guerrieri crescono

In Sri Lanka le Tigri Tamil annunciano il rilascio di 135 bambini soldato e promettono di non sequestrarne altri

scritto da G. l. Ursini

Sono ancora circa duemila i bambini soldato che combattono con i separatisti Tamil nel nord-Sri Lanka. La scorsa settimana i guerrieri indipendentisti ‘Tigri Tamil’ hanno fatto sapere di aver rilasciato negli ultimi sei mesi 135 minorenni arruolati nelle proprie fila. Secondo Consiglio di Sicurezza Onu e Unicef ne rimangono però ancora 1.591 inquadrati tra le Tigri e altri 198 con il gruppo dissidente ‘Karuna’.

L’Onu alza la voce. “L’ultimo rapporto del Segretario Generale Onu sul Sri Lanka, del dicembre passato, ha parlato di costante aumento della pratiche di sequestro e arruolamento forzato da parte delle Ltte (Liberation Tamil Tigers Eelam, in inglese), nonostante le promesse precedenti”; così il responsabile del ‘Gruppo di lavoro sui bambini soldato’ del Consiglio di Sicurezza, J. M. de la Sabliére, aveva denunciato in maggio all’agenzia Ap l’atteggiamento del gruppo separatista in conflitto col governo di Colombo da 30 anni. Il 10 maggio (prima delle ultime liberazioni) un rapporto Unicef contava ancora 1.634 minorenni coscritti forzosi per le Tigri, e altri 198 arruolati con la forza dal gruppo avversario ‘Karuna’, nato nel 2004 da una scissione dei primi. Questo fino all’annuncio degli ultimi rilasci, seguiti dalla promessa di far posare le armi a ogni minorenne entro fine 2007.

Definizione di ‘minorenne’. Rimane poi da capire cosa sia un soldato-bambino, visto che per le Tigri l’età arruolabile scatta dai 17 anni. Ma con l’ultima consegna hanno rimandato a casa anche ragazzi tra i 17 e i 18, accettando in teoria quest’ultima età come limite per diventare maggiorenni. “Salutiamo i grandi progressi realizzati nel dialogo con le Ltte – ha detto Gordon Weiss, portavoce Unicef – per esempio quando accettano gli standard internazionali sulla maggiore età. Rimane però molto da fare, fino all’ultimo bambino soldato arruolato. E’ molto importante che le Tigri abbiano finalmente ammesso di avere bambini soldati, e che abbiano preso l’impegno a lasciarli andare. Ma finché anche l’ultimo combattente minorenne non sarà tornato a casa, non potremo dire che le Tigri stiano accettando le convenzioni internazionali”.

Qualcuno fa lo gnorri. Il disaccordo più assoluto però, regna sull’entità dei bambini-soldato. Anzitutto va registrata la totale indisponibilità del gruppo scissionista Karuna ad accettare un controllo delle Nazioni Unite sui propri combattenti-soldato, per “motivi di sicurezza e per la sicurezza dei funzionari Onu ”, afferma il portavoce Azad Mulina.
Le Tigri invece, danno cifre completamente diverse da quelle fornite dall’Onu: “Abbiamo ricevuto solo 20 proteste da parte di genitori che reclamavano indietro i loro figli; stiamo cercando di capire come nasce questa discrepanza”. La dichiarazione è del portavoce militare delle Tigri Rasiah Illanthariyan, secondo il quale nel calcolo Onu non vanno contati i soldati senza compiti di prima linea, e nemmeno quelli sequestrati da minorenni e rimasti nei ranghi militari. Per l’Onu sarebbero 1.085 le giovani Tigri arruolate a forza e rimaste in divisa una volta compiuta la maggiore età. E andrebbero tutti lasciati liberi. Secondo l’Unicef, anche i numeri sui rilasci non sarebbero così attendibili; “A volte facciamo un controllo sui nomi consegnatici dai ribelli e risulta che a settimane di distanza le Tigri tornano a riprendersi i ragazzi rimandati a casa” commenta amaro Weiss.

 

Afghanistan, strage di civili

I talebani sferrano la più grande offensiva dell'anno. La Nato bombarda: decine di morti civili

Negli ultimi giorni i talebani hanno lanciato la più grande offensiva dell’anno sulle montagne del Kafar Jar Ghar Range, che separano le province di Uruzgan e Kandahar. I distretti di Chora e Miya Nishin, rispettivamente sul versante settentrionale e meridionale della catena montuosa, sono da giorni teatro di violentissime battaglie e di massicci bombardamenti aerei della Nato che, secondo fonti locali, hanno causato almeno una settantina di morti tra i civili, un centinaio tra i guerriglieri e una quarantina tra i soldati afgani. Questi ultimi, ieri sera, sono stati costretti a ritirarsi dal distretto di Miya Nishin, ora in mano ai talebani.

I racconti dei sopravvissuti. Janu Akha, 62 anni, è stato ferito in uno di questi bombardamenti sul distretto di Chora e ora è ricoverato nell’ospedale di Tarin-Kot. “Il mio villaggio, Qala-i-Ragh, è stato bombardato sabato notte”, ha raccontato per telefono a un giornalista dell’Associated Press. “Sono cadute almeno otto bombe. Domenica mattina abbiamo seppellito 18 membri della nostra famiglia, tra cui diverse donne e bambini”.
Mullah Ahmidullah Khan, presidente del Consiglio Provinciale dell’Uruzgan, dopo aver visitato lo stesso ospedale ha dichiarato alla stampa: “Ho parlato con un ferito, Gul Mohammad, il quale mi ha detto di aver perso 15 membri della sua famiglia sotto le bombe. E un altro, Manan Jan, di parenti ne ha persi 12. Dai dati in mio possesso ritengo che siano almeno 60 i civili uccisi dai bombardamenti aeri della Nato nella nostra provincia, oltre a 70 talebani.”.

Feriti in trappola. Secondo uno stretto collaboratore del presidente Khan, che però non ha voluto rendere noto il proprio nome, il bilancio morti sarebbe ancor più pesante: circa 75 civili, più di cento talebani e oltre 35 militari afgani.
“Dubito che gli ufficiali afgani siano in grado di distinguere tra civili e combattenti”, ha laconicamente commentato il portavoce della Nato, il maggiore britannico John Thomas.
Il dottr Mohammad Fahim, sempre dell’ospedale di Tarin-Kot, ha detto all’Ap che “la maggior parte dei civili uccisi sono ancora nei villaggi bombardati nel distretto di Chora: non riescono a portarli qui perché i combattimenti sono ancora in corso”.
“Lo stesso vale per le centinaia di feriti”, ha aggiunto un suo collega, il dottor Hajed Noor. “Ne abbiamo ricevuti una quarantina, ma molti di più sono ancora bloccati nei villaggi”.

 

14 giugno

 

Morire di fame
Ogni 30 secondi muore un bambino per malnutrizione grave
 

Venti milioni di bambini con una malnutrizione grave, che ne uccide un milione ogni anno, uno ogni 30 secondi circa. La probabilità di morire per i piccoli malnutriti è venti volte superiore rispetto a quelli con una alimentazione buona. Su questi numeri esce il comunicato congiunto di Organizzazione mondiale della sanità (Oms),  Programma alimentare mondiale (World Food Programme), Commissione permanente delle Nazioni Unite sulla nutrizione (United Nations Standing Committee on Nutrition) e Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef) su come gestire la malnutrizione nelle diverse comunità.

Donne in un villaggio africano. Copyright - Who/P.Virot Facilitare il trattamento. Uno degli ostacoli al trattamento dei bimbi malnutriti è rappresentato dal doversi sottoporre a nutrizione speciale in ospedale o centri specializzati. Non è sempre facile, infatti, per le famiglie affrontare e far affrontare ai bimbi il viaggio per portarli presso i centri, lasciando anche per settimane le loro case. Inoltre, il ricovero in reparti affollati aumenta il rischio di infezioni quando alla malnutrizione si associa una riduzione delle difese immunitarie del bambino. Il nuovo approccio prevederebbe dunque una combinazione del trattamento ospedaliero con una gestione dei casi di malnutrizione direttamente nelle comunità, opzione che ha già portato a un miglioramento nella sopravvivenza dei piccoli in Etiopia, Malawi, Niger e Sudan. “I 20 milioni di bambini con meno di 5 anni nel mondo che oggi stanno soffrendo di malnutrizione grave acuta hanno bisogno urgente di trattamento. Questo approccio integrato dovrebbe dare un nuovo impulso” ha detto il Direttore generale dell’Oms Margaret Chan, e ha sottolineato come sia urgente aggiungerlo agli altri interventi da utilizzare per migliorare la nutrizione e ridurre la mortalità infantile.

Una cucina in Africa. Copyright - Who/P. Virot Cibo scarso. Intanto si avvicina la scadenza degli otto Obiettivi di sviluppo del millennio, stabiliti dalle Nazioni Unite nel 1990. Il primo mira proprio, oltre alla riduzione della povertà, a dimezzare il numero di persone che soffrono la fame fra il 1990 e il 2015; ma se la proporzione dei piccoli gravemente sottopeso appare in diminuzione, meno del 40 per cento dei 77 Paesi di cui si hanno dati sembra essere sulla strada giusta verso la meta del 2015. Qualche giorno fa l’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura delle Nazioni Unite (Food and Agricolture Organization, Fao) ha segnalato come, per il raccolto scarso unito a un peggioramento della crisi economica, oltre due milioni di abitanti dello Zimbabwe hanno di fronte a loro mesi con scarsità di cibo; inoltre, le persone a rischio potrebbero diventare il doppio nei primi mesi del 2008, rappresentando quasi un terzo della popolazione del paese. Passando dall’Africa all’America Latina, in Bolivia, secondo quanto riportato a fine maggio dalle Nazioni Unite, un bambino su quattro presenta una malnutrizione cronica; nel Paese il 60 per cento degli abitanti vive in condizioni di povertà, circa il 40 è povero al punto da non poter provvedere all’alimentazione  delle famiglie, e il governo ha in programma progetti mirati nei confronti del quadro di malnutrizione.
 

 

12 giugno

Afghanistan, vittime minori
Abusi sessuali sui minori: un fenomeno sommerso ma diffusissimo
Bambino afganoAbdul Kabir – nome di fantasia – ha 12 anni. Ha lasciato il suo villaggio in Uruzgan per andare a lavorare nella bottega di un parente a Kandahar. Ma quando è arrivato in città, l’uomo non lo ha voluto assumere e gli ha sbattuto la porta in faccia. Così Abdul è andato al mercato della mano d’opera, dove due uomini gli hanno promesso un lavoro come muratore per un dollaro al giorno. Ma invece di portarlo in cantiere, lo hanno condotto in un edificio abbandonato e lo hanno violentato. Ripresosi dal trauma, Abdul ha deciso di tornare nel suo villaggio. Un tassista gli ha offerto un passaggio gratis e poi, una volta in macchina, ha abusato di lui. Una volta a casa, il ragazzino, non dandosi per vinto, ha cercato di tirar su qualche dollaro con la raccolta dell’oppio nel campo di un amico di famiglia. Ma lì, tra i papaveri, un altro bracciante ha provato a violentarlo: Abdul ha reagito, ferendo l’uomo con il falcetto per estrarre l’oppio. Il dodicenne è stato per questo consegnato alla polizia e rinchiuso in un riformatorio. Il suo violentatore è a piede libero.
 Bambini afganiUn fenomeno sommerso ma diffuso. Questa drammatica storia, raccolta da Irin News, è solo uno dei tantissimi casi di abusi sessuali sui minori: un fenomeno sempre più diffuso in un Paese che non riesce a uscire dalla miseria e dalla guerra. Non esistono statistiche attendibili in merito, solo stime elaborate dalla Commissione Indipendente per i Diritti Umani dell'Afghanistan (Aihrc) e dall’organizzazione Save the Children-Svezia. Secondo i loro dati, nella sola città di Kandahar sono stati recentemente denunciati 14 casi di violenze sessuali su minori, ma almeno il doppio sarebbero i casi rimasti non denunciati dalle giovani vittime per paura di finire in carcere o semplicemente di essere picchiati o uccisi dai genitori. Sì, perché quasi la metà dei casi denunciati si riferiscono ad abusi avvenuti fra le mura domestiche ad opera di familiari o parenti.
Considerando che a Kandahar, con il suo mezzo milione di abitanti, vive l’1,6 percento della popolazione afgana, e tenendo conto che due casi su tre non vengono denunciati, in Afghanistan potrebbero essere oltre 2.500 i minori vittime recenti di abusi sessuali.  
 Bambine afganeCause culturali, economiche e legali. La preoccupante dimensione di questo fenomeno ha molte cause.
Una culturale, sopra tutte. La pedofilia, spesso associata all’omosessualità, è infatti diffusissima in una società come quella afgana, dove la tradizione e la religione riducono al minimo i contatti tra donne e uomini, portando questi ultimi a cercare alternative tra di loro e con i minori. A poco servono le campagne di sensibilizzazione che l’Unicef promuove nel Paese.
L’ignoranza e la povertà sono altre cause fondamentali: secondo l’Aihrc, la metà dei bambini vittime di abusi vive in condizioni di povertà estrema ed è costretta dai genitori a lavorare, invece che andare a scuola. La miseria, in Afghanistan, è la conseguenza di oltre un quarto di secolo di guerra ininterrotta: una guerra che non accenna a placarsi.
L’ultima causa, più contingente, che sta dietro alla sempre maggior diffusione di questo fenomeno è l’impunità di cui godono i colpevoli. Sotto i talebani, chi veniva accusato di aver violentato un minore veniva giustiziato. L’attuale codice penale afgano non prevede nemmeno questo crimine e i rari imputati vengono puniti in base all’articolo 427 sull’adulterio, che prevede un massimo di dieci anni di prigione. Ben spesi i 57 milioni di euro che l'Italia ha investito nella riforma del sistema giudiziario afgano...

 

Cina, vittime minori
La denuncia: lavoro minorile, orari massacranti e salari da fame per gli operai del business del logo. Il rapporto PlayFair: gravi abusi nelle fabbriche

dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI

<B>I baby schiavi di Pechino 2008</B><br><B>così nascono i gadget olimpici  </B>
PECHINO - "Ho lavorato dall'alba fino alle due di notte. Ero esausta ma il giorno dopo mi hanno costretto a ricominciare". È una bambina cinese di 13 anni a parlare, una piccola operaia-schiava che fabbrica i gadget con il logo ufficiale per le Olimpiadi del 2008. La sua testimonianza è stata raccolta da attivisti umanitari cinesi che sono riusciti a infiltrarsi in segreto in quattro aziende del sud del paese: tutte lavorano per conto del Comitato olimpico di Pechino. Queste aziende sono state regolarmente autorizzate a produrre i popolari oggetti in vendita con il marchio dei Giochi: borse e zainetti, T-shirt, berretti, quaderni, figurine e album illustrati per bambini.

Il marketing degli oggetti griffati vale da solo 70 milioni di dollari, per gli organizzatori cinesi delle Olimpiadi. Ma dietro questo business ci sono fabbriche-lager dove si sfruttano i bambini, vige un clima di terrore, non vengono rispettati neppure i modesti diritti dei lavoratori previsti dalla legislazione cinese. "Nessuno indossa guanti protettivi qui - rivela un altro piccolo operaio che usa vernici tossiche e additivi chimici pericolosi - perché coi guanti si lavora meno in fretta e il caporeparto ti punisce. Le mie mani mi fanno molto male, quando le lavo piango di dolore".

Queste testimonianze sono state raccolte a Shenzhen e nel Guangdong in quattro stabilimenti chiaramente identificati: Lekit Stationery (prodotti di cancelleria), Mainland Headwear Holdings (berretti sportivi), Eagle Leather Products (pelletteria) e Yue Wing Light Cheong Light Products (zainetti e accessori). Tutti lavorano alla luce del sole per conto delle autorità olimpiche cinesi.
A smascherare gli abusi sistematici che avvengono in quelle fabbriche sono stati gli attivisti locali di PlayFair 2008, sigla che si traduce in "Gioca lealmente 2008": è un'organizzazione promossa e sostenuta dai sindacati occidentali dei lavoratori tessili e dall'ong umanitaria Clean Clothes. L'inchiesta sul campo è iniziata nell'inverno 2006. Dopo sei mesi di appostamenti, contatti segreti e interviste clandestine con gli operai, il quadro che emerge è disperante. Il lavoro minorile dilaga, alcuni bambini e bambine hanno appena 12 anni e sono già alla catena di montaggio. Una fabbrica di oggetti di cancelleria impiega venti bambini che ha ingaggiato durante le vacanze scolastiche: lavorano dalle 7.30 del mattino alle 22.30, con gli stessi ritmi degli adulti. Spesso sono obbligati a fare straordinari, non remunerati. Perfino il salario degli operai adulti in queste aziende, a 20 centesimi di euro all'ora, è la metà del minimo legale in vigore nella regione del Guangdong (già molto basso).

Molti di loro sono costretti a lavorare sistematicamente 15 ore al giorno per sette giorni alla settimana, 30 giorni al mese, senza riposi né festività. I proprietari di Mainland Headwear costringono i dipendenti a mentire in caso di visite da parte degli ispettori del lavoro.
A Shenzhen - la città della Cina meridionale che ha conosciuto un boom industriale spettacolare e ha il più alto reddito pro capite della zona - c'è un'impresa che produce su licenza ufficiale 50 oggetti griffati con il logo olimpico: lì i registri delle buste paga sono stati ripetutamente falsificati dai manager per fare apparire orari più corti e salari più alti. In quella fabbrica gli operai lamentano gravi problemi di salute, incidenti sul lavoro, malattie della pelle dovute al contatto con agenti chimici, difficoltà respiratorie per le polveri tossiche.

Alcuni operai hanno osato denunciare questi problemi alle autorità locali e sono stati licenziati in tronco.

Il rapporto di denuncia divulgato da PlayFair si intitola "Niente medaglie olimpiche per i diritti dei lavoratori". Guy Rider, segretario generale della Confederazione internazionale dei sindacati del tessile-abbigliamento, ha dichiarato: "È vergognoso che questi gravi abusi avvengano in fabbriche che hanno la licenza ufficiale del comitato olimpico". Il sindacalista ha esortato il Comitato olimpico internazionale (Cio) a premere sugli organizzatori cinesi perché cessino queste violazioni dei diritti umani.

A Pechino il comitato olimpico locale ha reagito annunciando che revocherà le licenze alle quattro aziende incriminate nel rapporto PlayFair. Ma le fabbriche dove avvengono questi abusi sono sicuramente più numerose. Le autorità di polizia locali avrebbero la possibilità di smascherare altre illegalità. A differenza degli attivisti di PlayFair costretti a indagare nella clandestinità, le forze dell'ordine cinesi hanno poteri pressoché illimitati e possono agire alla luce del sole. La ragione per cui non lo fanno è intuibile. In un caso di cronaca recente 31 operai sono stati liberati dalla schiavitù in una fabbrica di mattoni dello Shanxi. Da un anno lavoravano senza ricevere salario, solo razioni di pane e acqua. Il proprietario della fabbrica era il figlio del boss locale del partito comunista. Sono diffuse le collusioni e l'omertà tra il capitalismo selvaggio, la nomenklatura politica, la polizia e la magistratura.

In vista delle Olimpiadi però la Cina sarà sottoposta a uno scrutinio sempre più pressante da parte dell'opinione pubblica occidentale. Per il regime i Giochi di Pechino sono una formidabile operazione d'immagine, devono consacrare il nuovo status del paese come superpotenza globale, il prestigio di Pechino come capitale cosmopolita e moderna, il fascino turistico della Cina. Ma oltre ad attirare almeno mezzo milione di visitatori stranieri, i Giochi saranno un momento di forte visibilità anche per ogni forma di dissenso, di disagio sociale e di denuncia di abusi.

 

9 giugno

8 giugno

Sulle imprese piovono soldi

di Emiliano Fittipaldi e Maurizio Maggi
Cinque miliardi di euro l'anno. E' il denaro che lo Stato dà a fondo perduto agli industriali privati e finanziano un'azienda su quattro, dalle piccole fino a Fiat ed Eni. Sono soldi che spesso vengono letteralmente buttati via o ottenuti illegalmente. Il tutto a spese dei contribuenti
Lo stabilimento Mirafiori della Fiat
Pochi sanno che per il progetto di ricerca sugli spaghetti della Barilla i contribuenti italiani hanno pagato circa 8 milioni di euro, e che lo Stato ha sborsato 10 milioni per un nuovo stabilimento pastaio di Foggia, rendendosi disponibile a finanziare anche l'arrivo dei sughi pronti sui banconi dei supermercati di mezzo mondo. Secondo i tecnici del ministero dello Sviluppo economico, che hanno preparato una relazione al Cipe sul funzionamento dei contratti di programma, alla fine il gruppo alimentare di Parma ha preso oltre 78 milioni di euro per una serie di investimenti al Sud.

Molto meno dei 172 milioni finiti nelle casse della STMicroelectronics (al tempo Sgs-Thompson), l'azienda inventata da Pasquale Pistorio, leader mondiale dei semiconduttori e simbolo del miracolo tecnologico siciliano, che ha chiesto e ottenuto agevolazioni per potenziare la sede di Catania e le linee di produzione. E se, come documentato giorni fa da 'la Repubblica', la Saras dei petrolieri Moratti ha spuntato agevolazioni per 200 milioni per ammodernare una raffineria in Sardegna, un altro contratto ha regalato agli americani della Texas Instruments ben 422 milioni, per mettere in piedi tre stabilimenti ad Avezzano, Aversa e Cittaducale, poi rivenduti ad altre società straniere. In pratica il 55 per cento dei costi dell'intero progetto è stato finanziato con denaro pubblico, e ogni nuovo occupato (1.150 in tutto) è costato allo Stato italiano la bellezza di 370 mila euro. STM ha fatto il record (550 mila euro per ogni nuovo posto di lavoro), mentre è andata malissimo ai lavoratori della Getrag, multinazionale tedesca che per venire a Modugno, in provincia di Bari, ha partecipato ai bandi della 488 e incassato quasi 100 milioni di euro. Il contratto non è stato ancora chiuso, ma il sogno degli operai di un lavoro sicuro sembra già tramontato: le commesse di trasmissioni e cambi per auto per Fiat e General Motors non tirano più, e dal 2005 è partita la cassa integrazione. Si punta ora su un altro accordo di programma con la Regione Puglia, ma il nuovo cadeau dello Stato arriverà solo nel 2009. "Forse", dice un lavoratore, "sarà troppo tardi".

Motore di Stato
Se gran parte delle imprese del Sud sopravvive alla globalizzazione grazie soprattutto ai soldi pubblici, anche i colossi dell'industria - italiani e stranieri - continuano a beneficiare a piene mani dei finanziamenti dello Stato. L'imposizione fiscale alle aziende sarà anche tra le più alte del Continente, come lamenta Confindustria, ma la Commissione europea ha stabilito che, in termini di agevolazioni alle aziende, l'Italia è tra i paesi più generosi della Ue. Dietro a Germania (i tedeschi staccano tutti con 20,3 miliardi, dato che comprende anche i mutui da restituire) e la Francia (9,7 miliardi), ma davanti a tutti gli altri 25.

Nel dibattito sulla politica economica è difficile che gli industriali affrontino l'argomento, e Luca Cordero di Montezemolo non fa eccezione. Nell'assemblea di maggio il presidente non ha solo sciorinato i punti di un'agenda politica per la sua (presunta) discesa in campo, ma, con orgoglio, ha rivendicato i meriti delle aziende italiane, "vero motore" del mini boom del Pil dell'ultimo anno. "La ripresa economica è merito delle imprese, che hanno dato e continueranno a dare", ha chiosato, "ora le aziende possono chiedere al governo, alla politica e alle altre parti sociali di fare la loro parte per non vanificare gli sforzi fatti fin qui". Nell'arringa, che ricordava le stime sui costi della politica (4 miliardi di euro l'anno per stipendiare circa 180 mila persone), mancavano però i dati sulle imprese. O, meglio, su quanto il sostegno agli industriali pesa sui portafogli dei contribuenti. Il bistrattato Palazzo versa nelle casse degli imprenditori un pacco di soldi. Spesso aiutando imprese decotte che non creano né sviluppo né occupazione.

Secondo le ultime statistiche, il totale dei finanziamenti pubblici a fondo perduto per sostenere le industrie ammonta (anno 2005) acirca 5 miliardi di euro. Somma che sale a 6,4 miliardi, comprendendo gli aiuti pubblici da restituire a rate. Dal 1999 al 2005 le erogazioni (al netto dei prestiti e dei mutui) arrivano alla cifra monstre di 36 miliardi di euro. Più della Finanziaria 'lacrime e sangue' varata dal governo Prodi. Le tabelle sono state elaborate dalla società Met (Monitoraggio, economia e territorio), l'unico centro studi che ogni anno fa un rapporto completo sulle politiche industriali, elaborando dati del ministero dello Sviluppo economico, del ministero dell'Università e delle regioni.
 

Luca Cordero di Montezemolo e Matteo Colaninno
Anche nel 2006, analizzando la Trimestrale dello scorso marzo messa a punto dal ministro dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, un fiume di denaro si è riversato sugli imprenditori. I contributi, considerando anche quelli per le Ferrovie e l'Anas, sfiorano gli 11 miliardi. Prendendo in esame gli ultimi due lustri, i numeri sono impressionanti: in pratica quasi un quarto delle imprese italiane che operano nel settore industriale ha preso agevolazioni pubbliche. Anche le imprese che operano nel commercio, nell'edilizia e nel turismo non fanno eccezione. Secondo i calcoli dei più pessimisti, come l'economista Francesco Giavazzi, gli aiuti valgono ancora di più, 30 miliardi, circa il 2 per cento del Pil. Ne beneficiano decine di migliaia di aziende, che hanno investito pochissimo in ricerca e sviluppo e moltissimo su operazioni a bassa produttività.

Colpa non solo delle imprese, spiega Raffaele Brancati, docente di politica industriale all'Università di Camerino e presidente del Met, "ma di un sistema che ha accumulato negli anni centinaia di leggi nazionali, regionali ed europee, un pacchetto completamente slegato dagli obiettivi necessari allo sviluppo. Il 60 per cento dei finanziamenti finisce in investimenti di massa sul territorio a basso impatto, mentre si danno pochi spiccioli alla nascita di soggetti innovativi, alla ricerca e alla crescita dimensionale. Per non parlare della riduzione dell'impatto ambientale".

Caos finanziamenti
La giungla delle leggi è, in effetti, spaventosa. Gli strumenti nazionali sono 39, quelli 'regionalizzati' 22. Per chiedere soldi alle regioni ci sono ben 153 modi diversi. Gli studi specializzati fanno affari d'oro, ma ormai il meccanismo è talmente complesso che persino gli esperti annaspano nelle carte bollate. "Da tre, quattro anni si è bloccato tutto", spiega Giovanni Farina, avvocato che ha creato una società di consulenza in grado di intercettare i contributi pubblici, "i tempi tecnici per ottenere i soldi sono diventati esasperanti, mentre i mezzi a disposizione stanno calando: sono stati riammessi dei progetti presentati nel 2002, ma alle aziende è stato chiesto di abbattere le richieste del 50 per cento".

Considerando le macrocategorie, le domande più gettonate riguardano le crisi aziendali, l'aumento della produzione, l'innovazione e la ricerca, la crescita dei sistemi locali, l'early stage e l'internazionalizzazione. Nell'ultimo decennio la parte del leone la fanno la legge 488, i contratti di programma e i patti territoriali. Che, dice il Met, costituiscono da soli il 71 per cento del totale erogato. Scorrendo i bandi delle Gazzette ufficiali, si trovano i nomi di migliaia di microaziende (nel Sud i finanziamenti finiscono soprattutto a loro), fino ai colossi multinazionali, che fanno incetta di miliardi soprattutto al Centronord, lasciando le briciole alle piccole imprese.

Si va dal milioncino di euro chiesto dalla calabrese Styl Moda Calze di Tiziana Bruno fino ai mega contratti firmati da Fiat (2 miliardi la richiesta di agevolazioni pubbliche per gli stabilimenti di Melfi e Cassino, ma da Torino si sottolinea che per il periodo 2002-2006 sono stati concessi solo 415 milioni), Eni (l'onere pubblico, alla firma del contratto, era di oltre 200 milioni di euro), Piaggio e Natuzzi (150 milioni). Nel labirinto della burocrazia, come racconta la cronaca,la truffa allo Stato è diventata la regola: l'aneddotica è infinita, i pm delle procure di mezza Italia hanno arrestato decine di imprenditori e aperto centinaia di fascicoli. Ora il ministro dello Sviluppo economico vuole correre ai ripari, e ha modificato la tipologia del bando della 488. "Combatteremo la piaga della consulenza fasulla o inadeguata", dice Paola Verdinelli de Cesare, direttore generale del Ministero: "Specie nel Sud ci sono stati, in passato, casi in cui dei professionisti scorretti hanno spinto imprenditori, magari sani, a intercettare i contributi e le agevolazioni presentando progetti destinati in partenza all'insuccesso. Le nuove modalità del bando hanno sicuramente migliorato la situazione anche sotto il profilo etico". Sarà. Ma quando lo Stato non recupera gli incentivi illegali (la Commissione ha portato nel 2006 l'Italia davanti alla Corte di giustizia del Lussemburgo per alcuni aiuti distribuiti grazie alla Tremonti bis) c'è poco da essere ottimisti.

Tasse e incentivi
Sergio Colaninno e Pasquale Pistorio
Gli stessi imprenditori chiedono revisioni immediate di un sistema che non funziona. "Siamo disponibili a scambiare qualunque agevolazione in cambio di minore pressione fiscale", sfida Montezemolo. Ma secondo gli osservatori i sussidi sono fondamentali, soprattutto per alcuni settori. Aeronautica ed edilizia in testa. Nel Mezzogiorno, poi, la fine delle agevolazione porterebbe migliaia di aziende all'immediata chiusura. Forse un male minore: il 40 per cento delle imprese che godono dei finanziamenti di Stato non fa investimenti, non fa ricerca e non crea nuova occupazione.

"Per questi soggetti non vedo perché il contribuente dovrebbe versare un solo euro. Io però", aggiunge Brancati, "credo che gli aiuti servano: la posizione iperliberista dei bocconiani è fantasiosa. Barattare le tasse con gli incentivi? Può convenire agli industriali, ma non certo alla collettività. Che perderebbe sia un gettito fiscale importante, sia la possibilità di orientare la politica industriale". Legge 488 e credito d'imposta vanno intanto modificati, "in modo da privilegiare progetti di sviluppo ad alto impatto". Se il futuro è incerto,la casistica del Ministero ricorda contratti disastrosi come quello del Gruppo Tessile Castrovillari (21 milioni di soldi pubblici in fumo, ritardi enormi nell'erogazione e 248 operai in casa integrazione) e del gigante delle fibre sintetiche Snia (oggi controllato anche da Montepaschi, dall'Hopa di Emilio Gnutti e da Abn Amro) che, ottenuti aiuti per 61 milioni di euro, invece dei 1.432 operai promessi alla stipula dell'accordo (1990) all'assetto finale ne contava solo 572. E se il consorzio Tarì Industriale sembra aver speso bene i 26 milioni per il nuovo centro orafo a Marcianise, i soldi dati alla Barilla per Foggia non hanno scongiurato la chiusura dello stabilimento di Matera, con 111 persone finite a spasso. "Lo spot dice che dove c'è Barilla c'è casa", ironizzavano le maestranze, "ora a casa ci andiamo davvero".

 

Dai dossier al segreto di Stato, tutti i punti da chiarire

Quella oscura ragnatela che il governo non vuole vedere

di GIUSEPPE D'AVANZO

ROMA - In Occidente, solitamente, è la stampa a chiedere conto alla politica delle ragioni delle sue scelte; a pretendere luce là dove c'è ombra; a reclamare una coerenza nei comportamenti là dove avvista compromessi di basso profilo fra interessi opposti a danni del bene collettivo e dell'integrità delle istituzioni. Nel nostro bizzarro Paese avviene il contrario. E' il governo a chiedere conto alla stampa delle sue cronache pur ammettendo che contengono "elementi di verità". Già quei frammenti di realtà imporrebbero al governo attenzione - se non proprio un chiarimento.

Se si volesse esagerare in retorica, si potrebbe anche sostenere che, per un esecutivo, dovrebbe essere un dovere istituzionale e morale dar conto in pubblico delle proprie decisioni che, a occhio nudo, appaiono contraddittorie o irragionevoli.

La bizzarria nazionale capovolge la scena. Fa sentire al ministro della Difesa, Arturo Parisi, il "dovere istituzionale e morale" di chiedere conto a questo giornale delle affermazioni contenute in una cronaca in cui si raccontava la "pervasività di un potere di pressione, condizionamento e ricatto" di una consorteria che definivamo una pidue per semplificazione evocativa: un "agglomerato oscuro" (la definizione è di un membro del governo in carica) che, avvantaggiato da un sistema politico frammentato, diviso e in debito di credibilità per i vizi, le anomalie e gli sprechi che si concede, è in movimento al "mercato della politica" per offrire i suoi servigi opachi.

Anche se stravagante, la richiesta di Arturo Parisi offre tuttavia l'opportunità di ritornare sulla questione con qualche dettaglio in più, utile al lettore.
Il ministro della Difesa chiede di "dar conto" di tre questioni: (1) di documentare come si possa affermare "l'intenzione del governo in carica di tutelare, anche nella nuova stagione politica, il passato i traffici e la fortuna dei protagonisti del network" che a noi sembra governato dall'ex-direttore del Sismi, Nicolò Pollari; (2) di sapere come si può "sostenere che l'ammiraglio Bruno Branciforte (il nuovo direttore del Sismi) "viene consegnato a un imbarazzato stato di impotenza"; (3) di dar conto dei "margini di manovra dei "vecchi" che troverebbe prova nel fatto che un fidatissimo braccio destro del generale Pollari è al Personale della Difesa mentre, alle dipendenze del Direttore Generale, si interessa del reclutamento dei volontari a ferma breve delle Forze Armate".

Che, più del governo di centro-destra, il governo di centro-sinistra tuteli (1) "il passato, i traffici e la fortuna" di quel network, che ha in Nicolò Pollari il suo leader, non è solo documentato, è certo come il lunedì segue la domenica. Nicolò Pollari è imputato di aver accompagnato l'azione della Cia nel sequestro illegale di un cittadino egiziano. E' un delitto eversivo dell'ordine costituzionale che viola la sovranità del nostro Stato e i diritti fondamentali della persona. Non proprio una marachella. A domanda della procura di Milano, nel novembre del 2005, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi esclude che ci sia il segreto di Stato sulla vicenda. Lo stesso fa Nicolò Pollari. Il 26 luglio del 2006, il presidente del Consiglio Romano Prodi, con un sorprendente ribaltamento e senza indicare alcuna ragione, oppone il segreto di Stato che dovrebbe seppellire per sempre l'affare. Di più, ricorre alla Corte Costituzionale; solleva un conflitto di competenza; denuncia "i comportamenti criminosi" dei magistrati di Milano. I fatti, ridotti all'osso, giustificano in abbondanza l'affermazione che, nel cambio di stagione politica, le responsabilità di Pollari abbiano ricevuto dal governo Prodi una tutela che Berlusconi non gli ha mai offerto. Della legittimità dell'iniziativa del governo deciderà ora la Corte Costituzionale. Il fascicolo alla Consulta ha come "relatore" Giovanni Maria Flick, che, in passato, è stato avvocato personale e ministro di Romano Prodi. Opportunità vorrebbe che il "relatore" designato si astenesse.

Si può sostenere che il nuovo direttore del Sismi, l'ammiraglio Bruno Branciforte, sia paralizzato nel suo comando (2)? Un esempio concreto. In un'intelligence, il settore Analisi, è un ganglio vitale. Quella Direzione ancora oggi, nel Sismi, non ha un responsabile. Se si escludono quattro nomine a "caporeparto", non si è mossa una foglia in quella "ditta", che pure qualche pasticcio ha combinato (Pollari organizza in via Nazionale un ufficio di dossieraggio e disinformazione) e dunque ha bisogno di una terapia urgente. Branciforte è ritenuto dal governo il miglior uomo in campo. Sapiente, esperto, deciso (il giudizio è largamente condiviso nelle Forze Armate). Perché un militare di cui tutti apprezzano l'energia appare agitarsi come una statua del Gianicolo? Tra gli addetti ai lavori si raccoglie una sola spiegazione. Non è oggi nelle condizioni per farlo.

Un intrigante braccio destro di Pollari, sostiene Parisi, è stato reclutato alla Difesa - è vero - ma è addirittura "alle dipendenze del Direttore Generale" (3) e si occupa di minuzie. E' una replica? Si fa fatica a capirlo. Breve riepilogo. Quest'uomo, che Pollari definisce "il mio orecchio", dirige un "centro occulto" in via Nazionale. Affastella dossier contro "i nemici" di Silvio Berlusconi. Scheda rappresentanti del popolo, liberamente eletti (per dire, Cesare Salvi, Luciano Violante, Massimo Brutti, Sergio Cofferati); magistrati (Juan Ignatio Patrone); giornalisti (Serventi Longhi, Furio Colombo). Quel che è peggio - e dovrebbe forse inquietare il ministro - organizza alla vigilia delle elezioni un'operazione di discredito di Romano Prodi, candidato dall'opposizione a governare il Paese. C'è manovra più minacciosa per la democrazia? A questo pericolo si può opporre una soluzione burocratica ("è alle dipendenze del Direttore Generale")? Nemmeno un'opportunità istituzionale, ma soltanto quella che gli antropologi chiamano shame culture, la cultura della vergogna, avrebbe dovuto imporre al ministro l'esclusione del funzionario infedele dall'ambiente professionale e sociale di appartenenza. Non è avvenuto. E dunque è davvero "velenoso" parlare di un'irragionevole tutela?

Lo ripetiamo, è incomprensibile che a episodi così gravi e non contestati che deformano il confronto democratico, la libertà degli individui, i diritti costituzionali, si oppongano decisioni così storte e argomenti così minimalisti. Perché? Perché Luciano Violante, all'ipotesi di un "agglomerato oscuro" che si è messo al lavoro, replica: "Sono abituato a giudicare le cose che vedo e se si parla di poteri oscuri quelli non si vedono". L'ufficio di dossieraggio di via Nazionale lo scheda come un "nemico" di Silvio Berlusconi e, contro i "nemici" di Berlusconi, pianifica un operazione "anche cruenta". Non è oscura l'iniziativa di quel potere né il potere. Ogni cosa è concreta, documentata, illuminata e visibilissima. Come si può non vederla o girarsi da un'altra parte, con un accenno di superbia?

Quel che si fa fatica a capire, a dir la verità, è "la natura della corrente in cui siamo immersi". Anche se, a ben pensarci, il contrasto tra i propositi dichiarati e i comportamenti effettivi evoca un'immutabilità del sistema politico italiano "dove uomini e partiti non hanno idee, o per idee si spacciano affocamenti di piccole passioni, urti di piccoli interessi, barbagli di piccoli vantaggi: dove si baratta per genio l'abilità, e per abilità qualcosa di peggio" (Giosuè Carducci a proposito del quinto ministero Depretis, 19 maggio 1883).

 

Verso il disastro

La sanità in Iraq è sempre più precaria: se ci sono i farmaci non si riesce a distribuirli

Manca la corrente per far funzionare le attrezzature mediche, manca l’insulina perché la sua distribuzione espone a rischi, sono stati riportati i primi casi sospetti di colera: la situazione sanitaria in Iraq è in peggioramento, e con essa le possibilità di prevenzione e cura per la popolazione.

Distribuzione insufficiente. La rivista medica Lancet riporta una lettera da Bassora, nel sud del paese. I due autori descrivono la situazione in cui si trovano i pazienti diabetici in Iraq, una situazione emblematica del quadro deficitario nei diversi settori della sanità. Per i diabetici, se le cose sono state più o meno sotto controllo fino a dicembre 2006 e l’insulina per curarli era disponibile, con il 2007 le cose sono cambiate: il farmaco arriva ancora nel Paese, ma il problema si presenta poi nella distribuzione alle diverse città, deficitaria perché mancano le condizioni di sicurezza. Con la prospettiva di un ulteriore peggioramento con l’aumento della temperatura esterna, che complicherà ulteriormente la conservazione e il trasporto del farmaco. Ecco quindi che nel centro diabetico di Bassora ci sono pazienti che hanno smesso la cura, che hanno ridotto la dose per centellinare quella a disposizione finché la crisi non sarà superata, che stanno usando insulina scaduta, hanno cambiato terapia o, ancora, che si servono di prodotti di cui non si conosce la qualità che arrivano da Paesi confinanti.

Infanzia in pericolo. Nell’editoriale di accompagnamento alla descrizione della situazione dei diabetici iracheni, la rivista Lancet sottolinea come il quadro sanitario stia peggiorando a tutti i livelli, con ospedali come il Samarra General Hospital che, secondo quanto riferito dall’organizzazione non governativa Doctors for Iraq, non può utilizzare tutte le apparecchiature mediche per periodi di interruzione nell’arrivo della corrente. Inoltre, un rapporto Unami (United Nation Assistance Mission for Iraq) segnala come circa la metà dei bambini iracheni sia malnutrita e i dati forniti dall’Unicef confermano il quadro allarmante: dal 2003, quattro milioni di iracheni (il 15 percento circa della popolazione) hanno abbandonato la loro casa, oltre due milioni oltrepassando i confini: i bambini rappresentano circa la metà degli sfollati. Proprio fra i bambini sono stati segnalati i primi casi sospetti di colera, in un Paese dove si calcola che solo il 30 percento dei piccoli abbia accesso ad acqua pulita e sicura. Ancora, sempre ragionando sull’infanzia, mancano i servizi sanitari, manca la possibilità di un’istruzione: solo in Siria sono circa 320mila i piccoli iracheni che non vanno a scuola. Fra le persone scappate dalle loro abitazioni ci sono medici, infermieri, insegnanti, adulti che non possono più svolgere le loro importanti funzioni nei confronti dell’infanzia.

Disponibilità e accessibilità. Mancanza di persone dunque, per fornire assistenza sanitaria, per continuare a fornire un’istruzione, in un Paese dove, sempre secondo il rappporto UNAMI riportato da Lancet, più della metà della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno. E dove vi è la disponibilità di farmaci, manca la possibilità di averli, per i pericoli nella distribuzione. “Quando si pensano piani sanitari per l’Iraq” si legge nell’editoriale di Lancet, “è vitale considerare l’accessibilità piuttosto che la disponibilità”. Non riuscire a far arrivare i farmaci a chi ne ha bisogno rende vano l’avere disponibili nel Paese medicine di qualità. “Ignorare quello che sta succedendo sul territorio mentre si programma il futuro è una ricetta per il disastro” ammonisce la rivista.

 

Processi annullati, schiaffo a Bush

MATTEO BOSCO BORTOLASO

La battaglia (legale) dell'amministrazione Bush contro il terrorismo viene rimessa in discussione. Lunedì, in due diversi processi, i giudici di Guantanamo hanno respinto - per difetto di giurisdizione - tutte le accuse a carico di due detenuti accusati di essere membri di al Qaeda. I magistrati del carcere statunitense di Cuba non hanno scritto un giudizio di innocenza o colpevolezza, ma hanno sostenuto di non potersi occupare dei due casi, imponendo uno stop procedurale: le commissioni militari non possono giudicare i due imputati, definiti «combattenti nemici» e non «combattenti nemici illegali» (unlawful enemy combatants), condizione necessaria affinché i giudici si possano occupare dei casi. Tutto gira attorno ad una parola - unlawful -, che, secondo le leggi internazionali, indica un combattente che non indossa un'uniforme militare o nasconde le proprie armi. Il Pentagono, secondo i due magistrati, non avrebbe ottenuto le informazioni necessarie per definire gli imputati, oltre che combattenti nemici, anche illegali. Dura la replica della Casa bianca: «Non siamo d'accordo con le decisioni delle comissioni militari», ha detto ieri il portavoce della Casa bianca Tony Fratto a Praga, dove il presidente George W. Bush ha incontrando i leader della Repubblica Ceca. Il portavoce ha dichiarato che il dipartimento della difesa sta valutando se fare ricorso alla decisione dei giudici, che hanno dato al governo 72 ore per spiccare un appello.
Il primo caso annullato riguarda il più giovane detenuto di Guantanamo, il ventenne Omar Ahmed Khadr, l'unico canadese presente nel carcere di Cuba, catturato in Afghanistan quando aveva quindici anni. Il secondo imputato sollevato dai capi d'imputazione è Salim Ahmed Hamdan, cittadino yemenita di 36 anni accusato di essere stato l'autista e la guardia del corpo di Osama bin Laden.
Secca la reazione del Pentagono: i giudici si sarebbero intrattenuti in «tecnicismi e questioni semantiche». Il dipartimento della Difesa potrebbe fare appello, ma la corte di secondo grado non c'è: il governo dovrebbe fare ricorso e istituire, contestualmente, un tribunale ad hoc. Se l'appello non andasse a buon fine, i detenuti potrebbero finire nuovamente sotto processo: verrebbero ordinate altre udienze per stabilire se i combattenti nemici sono pure unlawful. L'ultima opzione dell'amministrazione Bush sarebbe scrivere una nuova legislazione, ma, in terreno sempre più elettorale, pare una strada poco percorribile.

 

Cavie umane, Abuja denuncia la Pfizer: «Danni per 7 miliardi»

STEFANO LIBERTI

Nuova grana per la Pfizer. Ieri il governo nigeriano ha denunciato la casa farmaceutica e chiesto 7 miliardi di dollari di compensazione per gli effetti di una sperimentazione non autorizzata del Trovan, un antibiotico tra i cui usi terapeutici c'è anche la cura anti-meningite.
La vicenda risale a più di dieci anni fa, al 1996, quando la regione di Kano - nel nord della Nigeria - fu colpita da una violenta pandemia di meningite. A quel tempo, la notizia non ebbe grande clamore in Occidente. Ma qualcuno, negli scintillanti uffici della Pfizer, aguzzò le antenne: l'epidemia era un'occasione d'oro per sperimentare il Trovan. Venne mandato in fretta e furia un aereo e un'équipe medica nel paese africano. Non c'era tempo per le formalità: a quanto pare, il governo nigeriano non fu consultato; i medici dell'ospedale furono appena informati. Ai genitori dei bimbi malati non vennero fatte firmare le necessarie liberatorie. Secondo i racconti delle infermiere, venne spiegato loro «verbalmente» che i loro figli facevano parte di un programma pilota per un nuovo farmaco.
Nel pieno della pandemia, i medici della Pfizer somministrarono il Trovan a 100 bambini e un placebo ad altri 100. Dopo qualche tempo, undici di loro morirono. Molti altri accusarono gravi postumi cerebrali o motori. Difficile dire se il nuovo farmaco - o la mancata somministrazione di un antibiotico di tipo classico - abbia avuto un ruolo attivo. Ma sta di fatto che la Food and Drug Administration (Fda), l'ente che dà il via libera per l'utilizzo dei medicinali negli Stati uniti, consentì la somministrazione del farmaco solo agli adulti, prima di restringerne pesantemente l'uso nel 1999. In Europa il Trovan non è più stato autorizzato.
Dopo che la vicenda è venuta alla luce - grazie al valoroso lavoro sul campo di un giornalista del Washington Post - il governo federale ha deciso d'agire. Già lo stato di Kano aveva denunciato la casa farmaceutica e chiesto un indennizzo di 2,6 miliardi di dollari. La Pfizer ripete la sua linea: «Il governo nigeriano fu informato; la sperimentazione è stata condotta in modo appropriato e nell'interesse dei pazienti. Ha provveduto a salvare vite umane»
Nonostante le giustificazioni, oggi il governo federale vuole passare all'incasso. Un'importante novità rispetto al passato, quando lo stesso governo aveva provveduto a far insabbiare il rapporto della commissione di esperti che aveva incaricato di indagare sulla vicenda. Rapporto le cui conclusioni puntavano il dito contro la Pfizer: gli esperti affermavano infatti che la casa farmaceutica non aveva mai ottenuto l'autorizzazione di condurre le sperimentazioni.
Oggi, quel rapporto potrebbe essere la prova centrale per la causa miliardaria che il governo ha intentato contro la Pfizer. E il fatto che il processo vada avanti - e non sia invece sepolto da una montagna di bustarelle ben assestate - la prova che la nuova amministrazione di Umaru Yar'Adua (appena insediatasi dopo elezioni del tutto irregolari) è realmente interessata a voltare pagina.

 

Verso le spiagge di Tripoli

Da Tripoli a a Gerusalemme, il problema dei profughi palestinesi continua a esistere in tutta la regione

Le battaglie sanguinose scoppiate vicino al campo profughi di Nahr al-Bared, vicino Tripoli, in Libano, ci ricordano che il problema dei profughi palestinesi non è scomparso. Al contrario, 60 anni dopo la "nakba", la catastrofe palestinese del 1948, è di nuovo al centro dell’attenzione del mondo.

Questa è una ferita aperta. Chiunque pensi che una risoluzione del conflitto arabo – israeliano sia possibile senza risanare questa ferita si sta illudendo.
Da Tripoli a Sderot, da Riad a Gerusalemme, il problema dei profughi palestinesi continua ad esistere in tutta la regione. Questa settimana i media erano pieni di foto di profughi israeliani e palestinesi che lasciavano le loro case e di madri che piangevano per la morte dei loro cari in ebraico e arabo, come se nulla fosse cambiato dal 1948. L’israeliano medio alza le spalle davanti alla sofferenza dei profughi palestinesi e liquida la questione con poche parole: “Lo hanno voluto loro”.
Professori e commercianti ripetono che i palestinesi sono causa della loro stessa rovina quando, nel 1947, hanno bocciato il Piano di Spartizione delle Nazioni Unite e hanno iniziato una guerra per annientare la comunità ebraica nel paese. Che è un mito molto radicato, uno dei miti alla base della coscienza israeliana. Ma è molto lontano dalla realtà. Prima di tutto perchè all’epoca non esisteva neanche una leadership palestinese che potesse prendere una decisione.
Durante la rivolta araba dal 1935 al 1939 (“i guai” nel linguaggio israeliano), il gran Muffi’, Hajj Amin al-Husseini, all’epoca capo degli arabi palestinesi, fece uccidere tutti quei palestinesi che non accettarono la sua autorità. Poi lui abbandonò il paese e i restanti leader palestinesi furono esiliati in una isola remota dai britannici. Quando venne il momento giusto e l’Onu adottò la risoluzione della spartizione, non vi era alcun leader palestinese capace di prendere una decisione. Al contrario, i leader delle vicine nazioni arabe decisero di inviare i loro eserciti nel paese una volta conclusosi il mandato britannico.
E’ vero, le masse palestinesi si opposero al piano di spartizione. Credevano che tutti i territori palestinesi fossero di loro proprietà e che gli ebrei, la cui maggiorparte era appena arrivata, non avevano alcuni diritto su di essa. E ancora di più visto che il piano dell’Onu diede agli ebrei, che all’epoca rappresentavano solo un terzo della popolazione, il 55 percento del paese. Anche in questo territorio, gli arabi costuivano il 40 percento degli abitanti. (per correttezza, andrebbe menzionato che il territorio assegnato agli ebrei comprendeva il Negev – un vasto deserto che era già desolato all’ora ed è rimasto in gran parte così oggigiorno).

Dall'una e dall'altra parte. La cotroparte ebrea, invece, accettò la decisione dell’Onu, ma solo in apparenza. Durante incontri segreti, David Ben-Gurion non nascose mai le sue intenzioni di cogliere la prima opportunità per estendere i territori assegnati allo stato ebreo e di inserirvi una forte presenza ebrea. La guerra del 1948, iniziata dal lato arabo, creo un’opportunità per realizzare entrambi gli scopi: isrealele si estese dal 55 percento al 78 percento del paese e da queste terre furono allontanati quasi tutti gli abitanti arabi. Molti di loro fuggirono dall’orrore della guerra, molti altri vi furono allontanati da noi. Non fu permesso quasi a nessuno di ritornarvi dopo la guerra.
Nel corso della guerra, circa 750mila palestinesi divennero profughi. Un aumento naturale raddoppia il loro numero ogni 18 anni, quindi adesso sono circa 5 milioni.
Si tratta di una grande tragedia umana, una questione umanitaria e un problema politico. Per lungo tempo, si è pensato che il problema si sarebbe risolto da solo col passare del tempo, e invece si ripresentato nuovamente. Molti partiti hanno sfruttato la situazione a loro vantaggio. Vari regimi arabi hanno cercato di seguire questa scia. Il destino dei rifugiati cambia da nazione a nazione. La Giordania gli ha accordato la cittadinanza, pur avendo lasciato molti di loro in campi miserabili. I libanesi non hanno dato alcun diritto civile ai rifugiati ed hanno perpretrato vari massacri. Quasi tutti i leader palestinesi chiedono l’attuazione della risoluzione Onu 194 che è stata adottata 59 anni fa e che promise ai rifugiati di poter fare ritorno alle loro case come cittadini pacifici. Pochi notarono che il Diritto al Ritorno è servito ai governi israeliani successivi come pretesto per rifiutare tutte le iniziative di pace. Il ritorno di 5 milioni di rifugiati significherebbe la fine di Isreale come stato con una solida maggiornaza ebrea e la creazione di uno stato bi-nazionale, cosa che scuoterebbe la decisa opposizione di un minimo di 99,99 percento del pubblico israelo-ebraico.
Questo deve essere capito se si vuole comprendere il modo in cui gli israeliani concepiscono la pace. Un israeliano medio, anche una persona che desidera sinceramente la pace, dice a se stesso: gli arabi non concederanno mai il Diritto al Ritorno, quindi non c’è nessuna possibilità di pace e quindi non vale la pena iniziare a fare niente.

L'arma dei rifugiati. Poi, paradossalmente, il problema dei rifugiati è diventato uno strumento per quegli isreaeliani che rifiutano la pace ottenuta con i compromessi. Loro si basano sul fatto che nessun leader arabo concederebbe apertamente il Diritto al Ritorno. Durante le conversazioni private, molti leader arabi hanno riconosciuto che il ritono è impossibile, ma non hanno il coraggio di dirlo apertamente. Ammetterlo sarebbe un suicidio politico - cosi’ come lo sarebbe annunciare di accettare il ritorno dei palesinesi lo sarebbe per i politici israeliani. Invece di questo, dal lato arabo si è verificata un’ascesa sotterranea durante gli ultimi anni.
Ci sono stati accenni al fatto che il probelama demografico di israele non puo’ essere ignorato. Da varie parti sono state proposte soluzioni creative. (una volta in un incontro pubblico di Gush Shalom, un rappresentante palestinese disse:” oggi la minoranza araba costituisce il 20 percento dei cittadini israeliani. Quindi accordiamoci sul fatto che su 80 nuovi immigrati ebrei che entrano nel paese, 20 rifugiati palestinesi avranno diritto al ritorno. In questo modo, la porporzione attuale verrebbe rispettata”. Il pubblico reagì entusiasticamente). Adesso si sta sviluppando un cambiamento rivoluzionario. La Lega araba ha offerto a Israele un piano di pace: tutti i 22 stati arabi riconoscerebbero Israele e stabilirebbero delle relazioni diplomatiche e economiche con questo, in cambio del ritiro di Israele dai territori occupati e la creazione di uno stato palestinese. L’offerta non dimentica il problema dei rifugiati. Menziona la risoluzione dell’Onu 194 ma aggiunge una qualifica di fondamentale importanza: che la risoluzione verrebbe raggiunta “per accordo” tra le due parti. In altre parole: Israele avrebbe il diritto di veto sul ritorno dei rifugiati nei territori israeliani.
Questo ha messo il governo israeliano in una posizione difficile. Se l’opinione pubblica israeliana capisse che l’intero mondo arabo sta offrendo un concordato di pace senza alcuna relazione con il diritto al Ritorno, potrebbero accettare tranquillamente la situazione. Perciò, è stato fatto di tutto per celare la parola decisiva. I media israeliani guidati (o fuorvianti) hanno enfatizzato la menzione del piano della risoluzione 194 e hanno evitato di parlare della soluzione “concertata”.
Il governo ha trattato l’offerta araba con evidente sdegno ma, nonostante questo, hanno cercato di trarvi vantaggio da esso. Ehud Olmert ha dichiarato di essere pronto a parlare con la delegazione araba – tenuto conto che non consiste soltanto nell’Egitto e la Giordania. In questo modo, Olmert e Tzipi Livni sperano di ottenere un importante risultato politico, senza pagare per averlo: costringere l’Arabia Saudita e altri stati ad avere relazioni con Israele. Visto che non ci sono “sconti”, gli arabi hanno rifiutato. Dopo tutto ciò, non si è arrivati a niente.

Tempi difficili. Se qualcuno avesse offerto a Israele questo piano di pace della Lega araba il 4 giugno 1967, un giorno prima della Guerra dei Sei Giorni, avremmo pensato che fosse giunto il Messia. Adesso, per il nostro governo questa offerta non è altro che una mossa astuta: gli arabi sono pronti a rinunciare al ritorno dei rifugiati, ma ci vogliono obbligare a lasciare i territori occupati e a smantellare gli insediamenti.
Da una prospettiva storica, la Lega Araba sta rimediando ad un errore commesso 40 anni fa, che ha delle conseguenze di vasta portata. Poco dopo la Guerra dei Sei Giorni, il primo settembre 1967, i capi degli stati arabi si sono riuniti a Khartoum e hanno deliberato i “Tre No” – no alla pace con Israele – no al riconoscimento di Isralele – no ai negoziati con Israele. Si può capire il perchè sia stata adottata una risoluzione così fuorviante. I paesi arabi avevano da poco subito una umiliante sconfitta militare. Essi volevano provare ai loro popoli che non erano stati messi in ginocchio. Volevano mantenere la loro dignità nazionale. Ma per il governo di Israele, questo era un dono caduto dal cielo. La negoziazione li svincolava da ogni tipo di negoziato che li avrebbe potuti obbligare a restituire i territori appena conquistati. Diede il via libera all’inizio degli insediamenti, una operazione che continua indisturbata ancora oggi, rubando la terra da sotto ai piedi dei palestinesi. E ovviamente spazza via il problema dei rifugiati. La nuova proposta della Lega Araba potrebbe riparare al danno fatto alla causa palestinese a Khartoum. Oggi, l’intero mondo arabo ha adottato una risoluzione realistica. Da questo momento in poi, il compito è quello di far comprendere fino in fondo all’opinione pubblica il vero significato di questa proposta e specialmente per quanto riguarda il ritorno dei rifugiati. Questo compito dipende dalla capacità delle forze di pace israeliane, ma anche dalla leadership araba. Per raggiungere questo obiettivo, il problema dei rifugiati deve essere trasferito dal regno del possibile alla realtà. Deve sottoporsi a un processo di demistificazione.

Soluzione difficile, ma necessaria. Attualmente, un israeliano vede solo un incubo: cinque milioni di rifugiati che aspettano di invadere Israele. Chiederanno di fare ritorno nelle loro terre, dove adesso si trovano i villaggi e le città israeliane e alle loro case, che sono state demolite molto tempo fa o in cui adesso vivono degli israeliani. Israele, come entità a vasta maggioranza ebrea non esisterà più. Questa paura va neutralizzata e questa ferita deve essere risanata. Sul piano psicologico, dobbiamo riconoscere la nostra responsabilità di parte del problema che di fatto è stato creato da noi. Un “Comitato per la Verità e la Conciliazione” potrebbe, forse, determinare le dimensioni di questa parte. Per questa, noi dovremmo chiedere scusa, così come hanno fatto altre nazioni per le ingiustizie commesse da loro. Sul piano pratico, il problema vero di 5 milioni di essere umani deve essere risolto. Tutti loro hanno il diritto ad un generoso risarcimento, che possa permettere loro di iniziare una nuova vita, nel modo in cui vogliono. Coloro che vogliono rimanere dove si trovano, col consenso del governo locale, potrebbero avere la possibilità di ricostruire la vita delle loro famiglie. Coloro che vogliono vivere nel futuro stato di Palestina, magari nelle area sgomberate dagli insediamenti, devono ricevere l’assistenza internazionale necessaria. Io, personalmente, credo che sarebbe buono per noi ricevere un certo numero concordato di rifugiati in Israele, come contributo simbolico alla fine della tragedia.
Questo non è né un sogno né un incubo. Abbiamo già gestito compiti ben più difficili. Sarebbe molto più facile e conveniente che continuare una guerra senza nessuna soluzione militare ne fine.
Sessanta anni fa, è stata aperta una ferita profonda. Da allora non è più guarita. Infetta la nostra vita e mette a rischio il nostro futuro. Eè da molto che andrebbe guarita. Quella è la lezione di Tripoli nel nord e di Sderot nel sud.

Uri Avnery

 

Senza nome l'assassino del «banchiere di Dio»

Tutti assolti al processo per l'assassinio di Roberto Calvi, avvenuto 25 anni fa a Londra. Le prove non sono state ritenute sufficienti dai giudici romani

G. Ra.

il 18 giugno sarà trascorso un quarto di secolo dall'omicidio di Roberto Calvi, il banchiere, sotto il ponte dei Frati neri a Londra.Una decina di giorni prima, ieri, la Corte d'assise di Roma ha infine stabilito che Calvi fu impiccato. Delitto quindi, anche se non è noto chi lo abbia fatto, né per conto di chi: le cinque persone accusate, sono infatti state assolte con una formula dubitativa, tranne Manuela Kleinsig che ha ottenuto l'assoluzione con formula piena. Del resto anche per il pubblico ministero Luca Tescaroli, Kleinsig doveva essere assolta. Aveva semplicemente accompagnato la bella comitiva nella gita londinese.
Degli altri quattro imputati, l'unico presente in aula era Ernesto Diotallevi, un esponente della banda della Magliana, una gloria cittadina, insomma, che ha dato in aula una rumorosa dimostrazione di felicità. Degli altri, Pippo Calò ascoltava in videocoferenza dal carcere di Ascoli Piceno, mentre Flavio Carboni e Silvano Vittor erano altrove. Carboni e Vittor avevano scortato il banchiere a Londra, facendogli attraversare le frontiere di nascosto, promettendogli un luogo sicuro nel quale guadagnare tempo e uscire dai guai italiani.
Le cose andarono diversamente e Calvi, con la forza o con l'inganno, fu preso dai suoi carnefici, per ora rimasti ignoti.
E non poteva che finire così. Nel tentativo di tirare tutti i fili, il pubblico ministero ha portato a testimoniare un altissimo numero di persone che in definitiva non avevano niente da dire sul processo, ma servivano a confonderne i piani. Calvi era al centro di molti intrighi; il suo operare danneggiava molti interessi, spesso poco raccomandabili. La sua morte venne messa in conto alla mafia, come alla camorra, alla banda della Magliana, come alla P2, ai servizi segreti inglesi, come a qualche braccio armato del Vaticano e dello Ior (Istituto per le opere di religione) che della Banca di Calvi era stretto associato.
Tutte ipotesi suggestive ma tutte confliggenti tra loro. Si sarebbe detto che l'accusa, nel corso di un anno e mezzo di udienze, proponesse al tribunale differenti trafile delittuose, senza privilegiarne alcuna, anzi chiedendo ai giudici di sceglierne una, la più inattaccabile. Così ogni testimone oltre che suffragare una tesi e proporre una ricostruzione, serviva anche a elidere la tesi diversa. A furia di testimoni e di elisioni successive, una corte scrupolosa non poteva fare altro che assolvere tutti; o meglio non condannare nessuno.
«La disperazione - ci ha detto Roberta Petrelluzzi che per la Rai ha seguito il processo - è che i misteri d'Italia rimangano sempre misteri». Se almeno Carboni, che probabilmente sa più di quello che dice, avendo accompagnato Calvi a Londra, lasciasse scritto da un notaio quello che sa, tra qualche decina di anni gli storici potrebbero lavorare con un materiale sicuro... Oppure, quando il servizio segreto inglese depositerà, tra una cinquantina d'anni, le sue informazioni sulla guerra delle Falkland...Oppure se il Vaticano aprirà mai i suoi archivi.... Oppure...

 

il commento

Otto grandi che non hanno nulla da dire

Anna Maria Merlo

Quando qualcuno oserà dire ad alta voce che il G8 non serve a nulla? Che è un retaggio di un'epoca passata, che non ha più nessun senso nella mondializzazione di oggi? All'inizio non era stata una cattiva idea: di fronte agli scossoni all'economia mondiale determinati dallo sganciamento del dollaro dall'oro, il presidente francese Valéry Giscard d'Estaing e il cancelliere tedesco Helmut Schmidt avevano pensato, nel '74, di inventare un incontro informale, «attorno al caminetto» (la paternità del concetto è di Roosevelt), tra i grandi della terra per discutere senza formalità di questioni monetarie. Venne creata una struttura leggera, senza segretariato. All'inizio, i capi di stato e di governo - prima di 5 paesi (Francia, Germania, Gran Bretagna, Giappone e Usa) poi, dall'anno dopo, di 7 (Italia e Canada) - andavano agli incontri quasi da soli, accompagnati al massimo da due consiglieri. Poi sono arrivati gli anni '80 e il G7 si è trasformato, poco per volta, in un circo mediatico vuotato della sostanza politica. Non ci sono più scambi informali, se non nei bilaterali, ma documenti ponderati da un lungo lavoro degli sherpa. Al G7, ora G8 da quando è stata fatta entrare la Russia, non si parla più soltanto di questioni monetarie. Poco per volta, l'agenda si è riempita degli argomenti più svariati. Quest'anno c'è il riscaldamento climatico. A Heiligendamm le delegazioni contano, complessivamente, più di 2mila persone. Centinaia di giornalisti seguono ormai questi vertici. L'apogeo è stato negli anni '80-'90, quando il G7 era diventato anche un appuntamento mondano : le «signore» (con l'eccezione del signor Thatcher) avevano dei programmi ad hoc, nelle sale stampa circolavano i menu delle cene succolente servite ai «grandi». Oggi, di fronte alla drammaticità della situazione mondiale, questo folklore è stato messo un po' in sordina. Ma i costi dei G8 sono esplosi, a causa della sicurezza: i «grandi» ora si nascondono, si fanno proteggere da eserciti di poliziotti, mentre ancora ai tempi di Mitterrand e di Kohl si permettevano delle passeggiate tra la gente.
A metà degli anni '70 i «cinque grandi» (poi sette) avevano ancora un senso, erano le più grandi economie mondiali, che sommate condizionavano l'andamento di quella mondiale. Ma oggi non è più così. Certo, i paesi del G8 sono ancora potenti e importanti: rappresentano il 63% del prodotto interno lordo mondiale (quasi la metà dovuto al pil degli Usa), ma soltanto il 50% del commercio mondiale. Al G8 vengono invitate le potenze emergenti (accanto ai poverissimi), ma né la Cina né l'India fanno parte integrante del gruppo. Tutta l'America latina ne è esclusa, per non parlare dell'Africa.
Al G8 vengono discussi i problemi più svariati e fatte molte promesse al resto del mondo. Ma dove sono finiti i soldi destinati ai paesi più poveri del mondo a Gleneagles e, prima ancora, a Genova per la lotta all'aids?

4 giugno

Mondo intero - 01.6.2007
Cessate il fuoco
Il bollettino settimanale delle guerre e dei conflitti in corso n.22 - 2007 dal 24 al 31/5
 
Questa settimana, in tutti i paesi ancora in guerra, sono morte almeno 1070 persone
 
Iraq 
Questa settimana sono morte almeno 717 persone (680 iracheni e 37 militari della Coalizione).
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 14.009
 
Afghanistan
Questa settimana sono morte almeno 91 persone (49 civili, 16 talebani o presunti tali, 15 militari afgani e 11 soldati della Nato).
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 2.243 (468 civili, 1.376 talebani o presunti tali, 319 militari afgani, 75 soldati della Nato).
 
Israele e Palestina
Questa settimana sono morti 14 palestinesi nei raid dell'aviazione israeliana sulla Striscia di Gaza.
2 israeliani sono morti a causa dei razzi palestinesi caduti su Sderot.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 160.

Colombia
Questa settimana sono morte almeno 11 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 198.
 
Cecenia (Russia)
Questa settimana sono morte almeno 12 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 359.
 
Filippine-Npa
Questa settimana sono morte almeno 4 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 90.
 
Thailandia del Sud 
Questa settimana sono morte almeno 7 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 192.
 
Sri Lanka
Questa settimana sono morte almeno 67 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 1.262.
 
India Nordest
Questa settimana sono morte almeno 37 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 453.
 
India Naxaliti
Questa settimana sono morte almeno 28 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 250.
 
India Kashmir
Questa settimana sono morte almeno 11 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 283.
 
Pakistan aree tribali
Questa settimana sono morte almeno 6 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 817.
 
Pakistan Balucistan
Questa settimana sono morte almeno 6 persone
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 74.
 
Bangladesh Comunisti
Questa settimana sono morte almeno 2 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 57.
 
Somalia
Questa settimana sono morte almeno 8 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 1.516.
 
Rep. Dem. Congo
Questa settimana sono morte 29 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 498.
 
Etiopia
Questa settimana sono morte almeno 11 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 331.
 
Sudan
Questa settimana sono morte almeno 10 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 331.
 
Turchia
Questa settimana sono morte almeno 10 guerriglieri curdi e 6 militari turchi.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 58.
 
 
 

Ecco i padrini dei rifiuti

 
Gli interessi del nord, quelli della camorra, le collusioni di destra e sinistra: l'emergenza rifiuti in Campania è oro. Che diventa veleno per tutta la Campania. La verità nell'inchiesta dell'autore di Gomorra. In edicola da venerdì
 
"Quand'è nato Francesco sembrava andasse tutto bene. Dalle mani dell'ostetrica però viene direttamente portato in incubatrice. La madre l'ha intravisto appena. Al bimbo manca un rene, i ventricoli del cuore hanno disfunzioni gravi, l'ano è imperforato. Ma se lo guardi, il piccolo però sembra perfetto, sgambetta, ha un viso sereno. Il primario del reparto incontra il padre: "Questa settimana è già il terzo bambino nato con molteplici malformazioni", dichiara, quasi che il dato elevato avesse portato queste nascite ad apparire ordinarie, casi che quindi non stupiscono e non spaventano i medici. Ai genitori bisogna dare una spiegazione che non li faccia sentire in colpa per i problemi del loro figlio e il motivo che si concede è "ammettere che anche la malformazione è una normalità. Senza troppe tragedie".

Ad ascoltare queste parole bisogna respirare a lungo per mantenere la calma, non aver voglia di spaccare a pugni le vetrate dell'ospedale. Perché questa normalità è una normalità di queste terre. Gli ultimi dati pubblicati dall'Organizzazione mondiale della sanità riguardo la Campania sono incredibili, parlano di un aumento vertiginoso delle patologie di cancro. Pancreas, polmoni, dotti biliari più del 12 per cento rispetto alla media nazionale. E le donne le più colpite. V'è un dato, però, uno in particolare, che lascia la bocca senza saliva. L'80 per cento delle malformazioni fetali in più rispetto alla media nazionale".

Comincia così l'inchiesta di Roberto Saviano, pubblicata sul numero de L'espresso in edicola da venerdì 1 giugno. Una denuncia contro tutti i padrini dei rifiuti: contro quelli della camorra; contro gli imprenditori del Nord che hanno sfruttato le occasioni di risparmio offerte dalla criminalità per smaltire al Sud le scorie tossiche; contro quelli della politica incapaci di risolvere il problema e spesso collusi con boss e aziende senza scrupoli.
 
Scrive Saviano: "Ne hanno ricavato vantaggio le maggiori imprese italiane, negli ultimi trent'anni le discariche campane sono state riempite, le cave rese satolle, ogni possibile spazio utilizzato, la spazzatura di Napoli, non è la spazzatura di Napoli. Le discariche campane non sono state intasate solo dai rifiuti solidi urbani campani, ma sono state occupate, invase, colmate dai rifiuti speciali e ordinari di tutto il Paese, dislocati dalle rotte gestite dei clan. La spazzatura napoletana appartiene all'intero Paese nella misura in cui per più di trent'anni rifiuti di ogni tipo - tossici, ospedalieri, persino le ossa dei morti delle terre cimiteriali - sono stati smaltiti in Campania e più allargatamene nel Mezzogiorno.

L'operazione Houdini del 2004 ha dimostrato che il costo di mercato per smaltire correttamente i rifiuti tossici imponeva prezzi che andavano dai 21 centesimi a 62 centesimi al chilo. I clan fornivano lo stesso servizio a 9 o 10 centesimi al chilo. I clan di camorra sono riusciti a garantire che 800 tonnellate di terre contaminate da idrocarburi, proprietà di un'azienda chimica, fossero trattate al prezzo di 25 centesimi al chilo, trasporto compreso: un risparmio dell'80 per cento. Se i rifiuti illegali gestiti dai clan fossero accorpati diverrebbero una montagna di 14.600 metri con una base di 3 ettari. Questa montagna di rifiuti sarebbe la più grande montagna esistente non solo in Italia, ma sulla Terra. I traffici di rifiuti tossici hanno visto il sud Italia essere il vero luogo dove far ammortizzare i prezzi elevati dello smaltimento. La camorra ha fatto risparmiare capitali astronomici alle imprese del nord Italia".

Saviano descrive anche come gli imprenditori oggetto di inchieste per le collusioni con la camorra cercano nuovi referenti politici nel centrosinistra: "C'è un momento però in cuigli affari cambiano vento. I riferimenti politici, istituzionali, devono repentinamente cambiare, conviene che cambino. Mai per ideologia, che è il miglior modo per essere affaristi scadenti. Ma per fare affari migliori. Joe Marrazzo fa dire a Raffaele Cutolo "la politica è l'arte di fottere chi sta con te per ideologia e tu lo fai per affari".

 
 
Negli anni 2000 si nota un cambiamento nelle dialettiche dei rifiuti quando passano dall'area del centrodestra al centrosinistra importanti imprenditori di Casal di Principe. I fratelli Sergio e Michele Orsi e Nicola Ferraro. I primi passano dal centrodestra ai Ds; il secondo, nipote di Pietropaolo Ferraiuolo, vicepresidente del consiglio regionale di Forza Italia, diviene l'unico consigliere regionale Udeur eletto nel collegio della provincia di Caserta con oltre 13 mila voti. Una coraggiosa e approfondita inchiesta dei pm antimafia Raffaele Cantone e Alessandro Milita ha portato alla luce i meccanismi inquietanti con cui i fratelli Orsi facevano affari. Ciò che l'indagine dimostra è il meccanismo criminogeno attraverso cui si fondono tre poteri: politico, imprenditoriale e camorristico, uniti in confini impercettibili nel sistema dei consorzi".

"I fratelli Orsi si iscrivono alla sezione dei Ds, avvicinano la Margherita e addirittura cercano di accreditarsi con Rifondazione comunista: arrivarono persino alla segreteria nazionale di Rc, offrendosi come finanziatori di iniziative di partito e disponibili a sostenere campagne elettorali. A fermarli fu Francesco Forgione che comprese subito il loro intento, l'obiettivo di distogliere l'attenzione e di accreditarsi con una parte politica antimafia. Uomini di destra passano a sinistra, si avvicinano a quanto di più lontano ci sia dagli affari. Non c'è ideologia, l'affare è affare e il potere e il danaro vanno da chiunque in ogni momento".

 

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