
26 giugno
L'appuntamento in un bar di Trastevere
a Roma, gli accordi prima dello scambio
Dal centro alla periferia, tutti i segreti dei "cravattari" della Capitale
Dentro il covo dell'usuraio
"Di quanto avete bisogno?"
Un giorno con lo
strozzino: ricatti e interessi al 240%
di ATTILIO BOLZONI e FRANCESCO
VIVIANO
Nel fotogramma del
filmato registrato durante l'inchiesta di Repubblica, l'ingresso di un
bar-bisca nel quartiere Prenestino
ROMA - Il suo bar
è in un vicolo di Trastevere. Sembra gentile, quasi affettuoso. "Quanto
avete bisogno?", chiede Paolo a bassa voce mentre si guarda intorno
diffidente. "Non è una grossa somma ma ci serve subito", gli rispondiamo.
L'uomo sorride come un vecchio zio e rassicura: "Non vi preoccupate mica
siamo strozzini, voglio dire che questi sono favori che si fanno agli amici,
per l'amor di Dio". Il suo favore ha un tasso di interesse del venti per
cento al mese. Paolo spiega che può farci il prestito ma vuole garanzie,
vuole essere certo di riprendersi tutto il suo e il nostro denaro. Cambia
tono, fa una smorfia e diventa vagamente minaccioso.
Avverte: "Però bisogna parlare da uomini, avete capito?". Il "cravattaro" di
Trastevere tira fuori dalla tasca dei pantaloni una piccola calcolatrice e
fa i suoi conti: "Su 1200 euro che mi date con il vostro assegno post datato
ve ne posso restituire al massimo 900: 300 me li tengo io, subito". È la
mattina di mercoledì 21 giugno. Quello di Trastevere è uno dei tanti "cravattari"
che abbiamo incontrato e filmato con una telecamera nascosta. Paolo è uno
dei quasi quindicimila strozzini della capitale. Ce ne sono più qui che nel
resto d'Italia. Per la prima volta siamo riusciti a smascherali in diretta,
con le immagini filmate e la trattativa registrata.
Ecco il nostro viaggio nella crudele Roma usuraia. Sono tantissimi e si
nascondono dappertutto. Alla Garbatella. A Monteverde. Dietro piazza Navona.
Al Labaro. A Monti. A San Giovanni. Alla Romanina. All'Alberone. A Tor Bella
Monaca.
Li abbiamo conosciuti, abbiamo parlato con loro di soldi e di scadenze.
Altri li abbiamo visti all'opera nelle loro borgate. Appartengono tutti a
una razza speciale: non hanno cuore e non hanno ritegno gli strozzini di
Roma.
Ci sono quelli come Paolo che ufficialmente hanno un'attività legale e ci
sono inaspettate vecchiette come "Anna e sua sorella", due ottantenni che
abitano dietro via del Governo Vecchio e succhiano sangue e denaro da una
vita. C'è Alvaro che è il ras di Villa Gordiani, il suo quartier generale è
una bisca, fuori ha sentinelle che sorvegliano i marciapiedi e picchiatori
da usare alla bisogna. C'è il "signor G." che ha un'agenzia di
intermediazione finanziaria al Tuscolano, c'è Arturo che riceve i clienti da
spolpare nella sua casa al Prenestino.
E poi c'è Fausto che gira sempre per Roma sul suo fuoristrada mentre gli
appuntamenti con le sue prede glieli procura il tirapiedi, un tabaccaio di
Testaccio. E poi ci sono Marco che ha un bel ristorante a San Lorenzo, quel
Pierluigi delle pompe funebri, Adele della famigerata famiglia dei
Casamonica, il violentissimo clan degli zingari.
Spremono tutti sino alla morte. E la fanno quasi sempre franca. Di regola
chiedono il dieci per cento al mese di interesse su qualunque somma. A volte
però si sale al venti o al trenta. È così che un prestito di poche migliaia
di euro in due o tre anni si trasforma in un debito di cento o anche
duecentomila euro. Gli strozzati vengono rimpallati da un usuraio all'altro,
quando non possono più pagare il primo si rivolgono al secondo e al terzo e
poi al quarto. Perdono amici, abitudini, affetti. Sprofondano nel pozzo. E
diventano come tossici. Cercano soldi, sempre più soldi. Fanno di tutto pur
di raccattare qualche spicciolo. Rubano alla vecchia madre. Falsificano la
firma della moglie. Non ragionano più quando finiscono nelle mani di quelli.
Nel vicolo di Trastevere siamo finiti dopo aver chiesto in giro chi poteva
"darci un aiuto". Abbiamo cominciato a mettere in circolazione la voce che
avevamo urgente bisogno di soldi.
Ci siamo presentati come commercianti di abbigliamento che tre o quattro
volte al mese passano da Roma per qualche giorno. Commercianti "in un
momento di difficoltà" per un piccolo affare andato a male. Ci siamo
procurati un paio di assegni - uno da 1200 euro e l'altro da 1800 - fuori
piazza e soprattutto post datati. Cioè incassabili il mese successivo.
E da offrire - nella parte che stiamo recitando per incastrare un "cravattaro"
- a garanzia per un prestito. Per avere soldi in contanti e subito da un
usuraio.
Non è stato facile stanare lo strozzino. Quelli di solito strangolano i loro
vicini, quelli della porta accanto, che conoscono anche nelle difficoltà e
nei punti deboli, che possono sempre terrorizzare per ottenere il loro
pagamento.
Non si fidano mai di estranei, di sconosciuti. Ma poi abbiamo conosciuto
Valerio, uno che in passato ha avuto a che fare con i più fetenti usurai di
Roma. È stato lui ad accompagnarci da Paolo fino a Trastevere.
L'incontro con il "cravattaro" del bar è stato preceduto da lunghi
preliminari. Manovre di avvicinamento. Lo strozzino era molto guardingo. "Ma
chi sono questi due?", chiedeva al nostro contatto Valerio. Lo chiamava di
mattina al telefono e domandava: "Perché vogliono soldi da uno di Roma se
loro non sono di Roma?". Poi lo richiamava di sera e domandava ancora:
"Valerio, vieni da me che ne riparliamo a quattr'occhi". Noi avevamo fatto
sapere allo strozzino che avevamo sempre più urgenza del suo denaro. Lo
strozzino faceva passare i giorni con l'obiettivo di spremerci meglio. Per
infilarci il suo cappio al collo.
Dopo una settimana di tira e molla finalmente sembra che si sia convinto: ci
vuole incontrare. Ci dà un appuntamento a mezzogiorno al suo bar. Poi ci
ripensa. Chiama Valerio e gli dice: "Forse la prossima settimana, per ora
devo ancora incassare denaro da altri clienti, dì a quei due che devono
pazientare ancora". Rinvio dopo rinvio - dai primi giorni di giugno quando
abbiamo avviato le trattative - siamo arrivati a mercoledì scorso.
L'incontro è fissato alle sei del pomeriggio. Da quel bar di Trastevere però
noi ci siamo passati prima, di mattina. Una precauzione dopo le brutte
avventure avute al Prenestino, un altro usuraio che ci aveva inseguito con
un coltello fra le mani. A qualche metro dall'ingresso del bar c'è un
bestione tutto tatuato, il guardaspalle di Paolo. È lì alle dieci del
mattino, a cavalcioni su una motocicletta. Ed è lì anche alle sei del
pomeriggio, quando finalmente siamo faccia a faccia con lo strozzino. La
telecamera nascosta è accesa, il microfono aperto.
Ecco che ce l'abbiamo di fronte Paolo. Fino a quel momento avevamo solo
sentito parlare di lui. Eccolo seduto dietro la cassa del suo bar che
sorride e ringrazia gli avventori, che scherza con la ragazza che fa i caffè,
che saluta come un vecchio amico Valerio. C'è anche lui all'appuntamento. Ed
è lui che ci presenta: "Sono amici di Lucio, e siccome sono veri amici sono
garantiti".
Paolo è piccolo, stempiato, la barba lunga di un paio di giorni. Addosso ha
jeans sdruciti e una polo verde. La sua voce è un po' impastata, quando
parla non si capiscono tutte le sue parole. Avrà una cinquantina di anni,
forse anche di meno. Ha l'aria del padre di famiglia, lo sguardo però lo
tradisce. Occhi di ghiaccio. Si alza all'improvviso e lascia alla cassa del
bar il suo gorilla, si avvicina, ci offre qualcosa da bere. Poi dice:
"Valerio mi ha spiegato tutto, vediamo come vi posso accontentare... ".
Gli diciamo quello che lui sa già: abbiamo bisogno di soldi. Non tanti. Ma
subito. In mano abbiamo un assegno di 1200 euro che però possiamo incassare
solo il prossimo 15 luglio. Ma non ce la facciamo ad aspettare ancora un
mese per scambiarlo, quei soldi ci servono prima.
Ecco perché siamo oggi da lui. Paolo si rigira fra le dita
l'assegno e sta in silenzio. Poi comincia a parlare. Piange miseria: "Il
problema mio, da quando ho comprato questo bar è che ho un mutuo forte. E
tutti i mesi. L'affitto che pagavo prima oltretutto era più basso".
E chiede: "Da dove viene questo assegno?". Vuole sapere chi è
l'intestatario. Gli diciamo che è un nostro amico gioielliere di Salerno. E
gli assicuriamo che è coperto. Lui sta zitto ancora per qualche secondo. Gli
ripetiamo che abbiamo molta fretta. Paolo chiede: "Che giorno è?".
"Mercoledì". "Io in un paio di giorni posso venirvi incontro... ".
Gli diciamo che ormai - dopo tutto il tempo che ha fatto passare - i suoi
soldi ci servono prima. Lo strozzino riprende in mano un'altra volta
l'assegno e si rivolge a noi ma anche a Valerio, l'amico comune che ci ha
presentato. E sibila lo strozzino: "Voglio dirvi una cosa a tutti, purtroppo
questo, quest'assegno... ed è bene che senta pure lui (Valerio, ndr) che
siamo amici da una vita... purtroppo se io faccio un favore del genere io do
contanti e il giorno che scade mi devo assolutamente pigliare i soldi, sennò
vado in crisi... ".
Ridiventa minaccioso: "E quello è un problema... per voi è un problema".
Valerio garantisce per noi, insiste che "siamo a posto" e che l'assegno è
coperto. Paolo ci stringe la mano. E poi ci fa il suo prezzo: "Vi do 900
euro... e il vostro assegno di 1200 post datato e fuori piazza me lo scambio
io con comodo... ". Gli diciamo che ci sembra un po' troppo una "trattenuta"
di 300 euro. Ride lo strozzino. Si allontana per qualche minuto, si apparta
nell'angolo in fondo al bar con Valerio e poi torna.
Adesso sembra cordiale come all'inizio del nostro incontro. E poi ci dice:
"Me ne tengo solo duecento dei vostri euro". Gli sfuggono dalla bocca anche
quelle parole: "Mica siamo strozzini, questi sono favori che si fanno agli
amici... ". Il "cravattaro" di Trastevere ci ha fatto uno sconto di 100
euro. Il tasso che ha preteso sfiora il 20 per cento al mese, quasi il 240
per cento l'anno.
Così Paolo probabilmente ha acquistato qualche mese fa il
suo bar nel vicolo di Trastevere. Così si è fatto il gruzzolo. Come tanti
altri "cravattari" di Roma. Mandando in rovina vicini di casa, conoscenti,
amici, artigiani, piccoli commercianti. Paolo è un usuraio ed ha una fedina
penale immacolata, è incensurato. Tutti sanno a Trastevere quello che fa. E
tutti fanno finta di niente. A cominciare dalle sue vittime. È un misfatto
che si consuma nel silenzio. Nell'omertà. Sono quasi centomila qui a Roma
gli ostaggi degli strozzini.
Bombe Nato sui
civili anche in Pakistan |
Raid aereo in Waziristan: decine di
civili uccisi. Un anziano sopravvissuto si suicida |
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La regione di Shawal, in Waziristan, è
un posto idilliaco: una distesa di colline coperte da abeti e di
verdi vallate punteggiate da case d’argilla e piccoli campi
coltivati. Un paradiso che venerdì notte si è trasformato in un
inferno.
Il
vecchio Khan. Dopo il tramonto si sono cominciati a sentire
i sordi boati delle bombe Nato che cadevano sui villaggi controllati
dai talebani nella provincia di Paktika, pochi chilometri più a
ovest, al di là del vicinissimo confine afgano.
Nulla di nuovo per il vecchio Pikhwar
Khan, 70 anni, pashtun waziro della tribù dei Gangikhel, nato e
vissuto tra quei boschi.
Ma quella notte, i boati non cessarono
come al solito. Anzi, si facevano sempre più forti. I bombardamenti
si avvicinavano.
A un tratto, la vallata attorno a casa
di Pikhwar è stata illuminata a giorno dal bagliore dei traccianti.
Subito dopo sono arrivati i missili che hanno fatto tremare la
terra.
Il mattino dopo, il vecchio Khan è
rinvenuto in mezzo alle macerie fumanti della sua casa. Attorno a
sé, i cadaveri di tutta la sua famiglia: un bambino, due ragazzini,
tre donne e tre uomini. Tutti morti. Era rimasto vivo solo lui.
L’anziano pashtun, disperato, si è tolto la vita.
Altri
venti morti. Venerdì notte, almeno altri venti civili hanno
perso la vita e un centinaio sono rimasti feriti nei bombardamenti
Nato sulla regione di Shawal: i nuovi missili ‘Himars’ lanciati
dall’Afghanistan e le bombe sganciate dai caccia e dagli elicotteri
hanno distrutto almeno una quindicina di abitazioni, stando alle
fonti riportate dalla televisione pachistana Geo.
Si è certamente trattato di uno dei
più massicci bombardamenti aerei della Nato in territorio
pachistano. I comandanti militari Usa che guidano le operazioni nel
sud-est afgano non si sono mai fatti problemi a sparare oltreconfine
per colpire i talebani in fuga dai combattimenti. Ma mai, prima
d’ora, erano stati condotti raid aerei così prolungati sul
territorio pachistano.
La Nato, che sabato mattina aveva
annunciato di aver ucciso almeno 60 presunti talebani nei
bombardamenti della notte prima sulla provincia di Paktika, ha
ammesso di aver colpito obiettivi civili in Pakistan solo domenica
sera, dopo che il portavoce delle forze armate di Islamabad,
generale Waheed Arshad, ha denunciato quanto accaduto.
Fronte
afgano. Intanto la Nato continua a uccidere civili anche in
Afghanistan. Le proteste del presidente Hamid Karzai per l’uccisione
di oltre 90 civili in dieci giorni non paiono scalfire le tattiche
di guerra delle truppe Isaf. L’ultimo episodio risale a domenica
mattina.
Attraversando una zona rurale poco a
sud di Lashkargah, capoluogo della provincia di Helmand, una Land
Rover militare britannica è stata investita dall’esplosione di una
bomba: un soldato è morto e un altro è rimasto gravemente ferito. I
loro commilitoni sopravvissuti hanno iniziato a sparare alla cieca,
anche verso alcune abitazioni, colpendo alla fine due civili che si
avvicinavano in moto e che – stando alla versione ufficiale – non si
erano fermati all’alt.
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Mal
di mare
di Fabrizio Gatti
Traghetti vecchi, nessun
controllo, informazioni oscure, ruggine e incuria persino sulle scialuppe. In
viaggio sulle carrette di Stato della Tirrenia
Davanti alla biglietteria del
porto di Civitavecchia, un pensiero va a quelli che il traghetto non lo prendono
mai. A quanti viaggiano soltanto in macchina, treno o aereo. Perché ogni volta
che la Tirrenia vende un biglietto, gli italiani tutt'insieme ci rimettono 15
euro. Pagano la loro quota perfino i bambini che non sono saliti nemmeno su
un pedalò. Pure questo articolo ha il suo bel peso sul tesoretto nazionale.
Sette passaggi fanno un totale di 105 euro di sovvenzioni. La Finanziaria
annaspa e l'Alitalia del mare incassa. Solo così la più grande compagnia di
navigazione del Mediterraneo può mandare avanti e indietro le sue carrette di
Stato.
Lasciate perdere la rotta Genova-Olbia. Lì si muovono i milanesi vip e la
Tirrenia di solito schiera il meglio della flotta, che poi non sono più di due o
tre navi. Ma venite a vedere cosa combina nel resto d'Italia il carrozzone
pubblico. Scafi da guerra fredda. Croste di ruggine nascoste da maldestre
mani di vernice. Scialuppe appese a gru corrose. Confusione nelle segnalazioni
di emergenza. Giubbotti di salvataggio manomessi. Ciambelle mancanti. Pavimenti
restaurati con tappeti di gomma infiammabile. Mappe sulle vie di fuga chiare
come gli indovinelli della caccia al tesoro. E la più assoluta mancanza di
vigilanza.
Di notte il personale dorme. Così si può scendere a vedere chi è di guardia
nella sala macchine. Nessuno. C'è tempo per passeggiare a lungo tra i pistoni
Diesel e i giganteschi alberi di trasmissione. Proprio nel punto in cui i due
tronchi d'acciaio attraversano lo scafo e fanno girare le eliche. Con un altro
elenco di sorprese. Bombole di gas e sacchi di rifiuti abbandonati vicino ai
motori. Rivoli e vapori di carburante che trasudano dai cilindri logori. E le
porte, anche quelle dei luoghi più vulnerabili della nave, lasciate
rigorosamente aperte. A chiunque. È così su tutte le rotte controllate da 'L'espresso'.
Un giro di una decina di giorni tra Civitavecchia, Cagliari, Trapani, Palermo,
Napoli, Bari, Durazzo e ancora Bari. Su quattro traghetti: Clodia, Flaminia,
Rubattino e Aurelia. Unica precauzione, la macchina fotografica e una piccola
telecamera. Giusto per raccogliere le immagini. Ed evitare che la compagnia
napoletana e il suo amministratore delegato Franco Pecorini, il Gentiluomo di
Sua Santità che da ventitré anni governa la Tirrenia come un papa, dicano che
tutto questo non è vero. Dunque, benvenuti a bordo. Anzi no, c'è da ritirare il
biglietto comprato su Internet.
Prima tappa, Civitavecchia-Cagliari. In banchina è ormeggiata la nave-traghetto
Clodia. È stata costruita lo stesso anno in cui Pietro Mennea vinse la medaglia
d'oro alle Olimpiadi di Mosca e Bernard Hinault arrivò primo al Giro d'Italia,
mentre i Dire Straits conquistavano l'Europa con il loro rock dolce e l'Unione
Sovietica consolidava l'invasione dell'Afghanistan. Era il 1980. Mennea e
Hinault non corrono più. I Dire Straits si sono sciolti. E così l'Unione
Sovietica. Ma la Clodia è ancora lì. Più o meno la stessa banchina di
sempre. La biglietteria però è a un chilometro. L'hanno trasferita dalla parte
opposta del porto. Non ci sono cartelli per trovarla. Chi ha l'auto da
imbarcare, si perde tra sensi unici e direzioni obbligatorie. C'è perfino una
rotatoria in senso orario. Bisogna immaginarsi per qualche secondo a Londra per
capire che casino è una rotatoria in senso orario. Qualcuno la prende da destra,
come si fa in Italia. Qualcuno da sinistra, come vogliono le frecce
sull'asfalto. Evitato lo scontro frontale, un tassista indica finalmente dove
andare.
"Ci hanno appena portati qui, non è colpa nostra se non ci sono indicazioni",
dice l'impiegata allo sportello Tirrenia. Prende la ricevuta stampata da
Internet. Serve un documento? Lei alza le spalle. "No", risponde. Nessuno
verifica se la prenotazione coincide con il nome di chi viaggia. Oppure se
la ricevuta è stata rubata. Nemmeno all'imbarco lo fanno. "No, non serve il
documento", spiega l'ufficiale che controlla i biglietti. Viene da sorridere.
Perché per volare un'ora da Fiumicino a Cagliari, gli addetti dell'aeroporto
sequestrerebbero perfino l'acqua minerale. E qui, che il viaggio dura quasi
quindici ore e i passeggeri della nave possono arrivare a 2280, nessuno si
preoccupa di controllare chi sale. Per un Paese impegnato nella guerra in
Afghanistan, non è una leggerezza da poco.
Oggi a bordo c'è tutto il 66 Reggimento aeromobile di Forlì, il corpo volante
della fanteria italiana che, evidentemente, non sempre può volare. Già questa
presenza dovrebbe consigliare maggior prudenza. I militari in divisa mimetica
vanno in Sardegna a esercitarsi. Salgono sulla Clodia con il loro seguito di
fuoristrada, camion blindati, pistole, mitra, mitragliatrici pesanti e casse di
munizioni leggere. Via gli ormeggi, si salpa.
Uno dei due vecchi motori della Flaminia
Un cilindro perde olio dalla testaLa reception assegna la cabina 141. Si sale al
nono piano, ponte comando, prima classe. Biglietto da 117,54 euro. Ed è solo la
parte pagata dal passeggero. La quota a carico di tutti gli italiani dipende da
quanto di anno in anno i governi decidono di stanziare per coprire i buchi nel
bilancio e le scelte del consiglio di amministrazione. Soltanto negli ultimi
sette anni la somma fa un miliardo e 360 milioni di euro. Per il 2007, la
Finanziaria ha previsto 198 milioni. E poiché il sito Internet della Tirrenia
dichiara una media annuale di 13 milioni di passeggeri, ecco anche quest'anno i
famigerati 15 euro a biglietto.
La cabina 141 è a metà corridoio. Il responsabile dei servizi sul ponte comando
dà il benvenuto. "Ah, signo', guardi non usi lo sciacquone perché non funzio'".
Non funziona il water? "No, il water funzio', solo che poi non può tirare lo
sciacquo'". L'interno è elegante. L'esterno un po' meno. Civitavecchia e la
costa laziale si dissolvono all'orizzonte. La luce rossa del tramonto risalta le
croste di ruggine sui verricelli e le catene delle scialuppe di salvataggio. Non
sono quelle moderne, chiuse come le capsule degli Apollo che tornavano dallo
spazio. Sono nove vecchi barconi stile Titanic: uno da 59 posti, due da
89 e sei da 99. Il totale fa 831. Significa che, facendo tutti i dovuti gesti
scaramantici, 1.449 passeggeri più i marinai dell'equipaggio sono senza posto in
scialuppa. Per loro ci sono 65 battelli autogonfiabili. Caricano 25 persone
ciascuno, per una somma di 1.625 posti. Mettere in acqua i battelli richiede
qualche tempo. Devono essere aperti e agganciati ai verricelli. Le gru per
ammainarli sono dieci. E le loro parti mobili sono così arrugginite e corrose da
avere ormai perso colore. Tutti i cavi sono secchi e incrostati. Anche quelli
delle scialuppe di dritta, cioè sul lato destro. Dovrebbero essere nuovi,
invece. Una serie di fogli appesi con nastro adesivo e timbro della Tirrenia,
autocertificano che i cavi sono stati sostituiti il 22 gennaio 2007. Sarà che
con i cambiamenti climatici la salsedine è diventata più aggressiva. Ma non
sembrano diversi dalle altre funi più vecchie.
Non ci sono hostess né steward a spiegare durante l'imbarco cosa fare in caso di
emergenza. E gli avvisi sono scritti con burocratica incertezza. Come
questo: 'Le cinture per bambini e ragazzi sono ubicate nei depositi interni ed
esterni'. La Clodia è lunga 148 metri. È alta dieci piani. Quanti spazi interni
ed esterni ci sono? Gli adulti sono meglio garantiti: 'Le cinture di salvataggio
per passeggeri posto ponte sono ubicate nei sedili esterni al ponte imbarcazioni
ed al punto di riunione C'. Non tutti i cartelli sono leggibili, però.
L'imbianchino che ha fatto l'ultima verniciatura si è lasciato prendere la mano.
E, accanto a una gru, ha cancellato metà delle istruzioni su come mettere in
acqua i battelli autogonfiabili. In un altro punto, ha dimezzato l'avviso sul
deposito dei giubbotti di salvataggio. Coprendo proprio l'informazione più
importante: dov'è il deposito. Nel caso di un'emergenza, bisognerebbe grattare
la vernice con le unghie per leggere cosa c'è sotto. Dal si salvi chi può al
si gratti chi può?
Tra le undici di sera e mezzanotte il ristorante chiude. Il selfservice
chiude. Il bar chiude. Anche se i passeggeri vorrebbero spendere ancora. Tutti a
dormire. La Clodia diventa una nave fantasma. È il momento di vedere chi
resta al lavoro. La reception? Deserta. Scale e corridoi? Deserti. La sala dei
generatori di corrente sul fondo dello scafo? Deserta. La sala macchine?
Deserta. La mattina poco prima dell'alba nuovo tour. Tutto come prima. Ci si può
tranquillamente sedere nel caldo da sauna e ascoltare la rumorosa magia dei due
grossi motori Fiat al lavoro. A Cagliari ci aspetta la Guardia di finanza.
Adesso che siamo arrivati ispezionano i bagagliai di tutte le auto che sbarcano.
Un finanziere porta il cane antidroga a controllare i passeggeri. Fa sniffare
anche le borse e le divise dei soldati del 66 reggimento. È come se si
mettessero a indagare sui pantaloni di carabinieri e poliziotti. Alcuni turisti
stranieri l'hanno capito. E fotografano divertiti.
La sera si riparte. Cagliari-Trapani. Al cancello del porto i bagagli
vengono passati al metal detector e i documenti controllati. In banchina è
ormeggiata la nave-traghetto Flaminia. Nel 2004 l'Automobil club tedesco l'ha
messa all'ultimo posto nella classifica sul rispetto delle norme di
sicurezza. Peggio della flotta del Marocco. E, secondo il racconto degli
ispettori tedeschi, quando si sono qualificati, gli ufficiali li hanno obbligati
a scendere. All'imbarco, un marinaio al settimo piano sbaglia le indicazioni.
Sarà il suo accento pittoresco. Sarà il rumore di fondo. Ma grazie a lui tutti i
passeggeri salgono a cercare la reception all'ottavo piano. Invece è al sesto.
Lo si scopre dalle imprecazioni di due famiglie incastrate con figli e valigie
sulle scale tra il settimo e l'ottavo livello. Ben quattro ufficiali dietro il
banco della reception osservano la consegna delle chiavi. La cabina da cercare è
la 320, seconda classe: 86,47 euro. "Prego, di qua. Prenda l'ascensore e salga
di due piani". Sei più due fa otto. Dopo un buon quarto d'ora di saliscendi,
appare finalmente su una porta la placca 320. È al nono piano. Due svedesi,
beati loro, chiedono in inglese dov'è il supermarket di bordo. "Eh?", risponde
un cameriere del bar.
Rottami e immondizia nel
deposito esterno dei giubbotti di salvataggio
La prima cosa da fare su una
nave è guardare i percorsi di emergenza. Le indicazioni sono precise come
quelle appena date alla reception. Nel corridoio davanti alla cabina un segnale
invita a riunirsi al punto E. L'avviso esattamente accanto dice che 'il punto di
riunione dei passeggeri di ponte è C'. Mentre un altro cartello ancora, sul
ponte esterno, avverte che 'il punto di riunione dei passeggeri di ponte è D'.
Una indicazione spiega come gonfiare i battelli di salvataggio Pirelli. Ma le
zattere autogonfiabili a bordo sono tutte di un'altra marca. L'esterno della
Flaminia è identico alla Clodia. Sono nate da progetti gemelli degli anni
Settanta. Poi la Clodia, come l'Aurelia, è stata alzata di due ponti. Così la
Flaminia, con 280 passeggeri in meno, si ritrova con lo stesso numero di posti
in scialuppa delle altre due. Oltre che con le stesse corrosioni su verricelli e
gru. Solo che qui una mano ha verniciato di rosso le croste di ruggine. E i cavi
sono bene ingrassati.
Al sesto piano, accanto alla reception, due porte di vetro nascondono il
portellone che dovrebbe accogliere lo 'scalandrone', la scala di imbarco. Non lo
usano da tempo. Ma potrebbe servire per abbandonare la nave in caso di incendio
in porto oppure per raccogliere naufraghi in mare. Invece il meccanismo
idraulico di apertura è ostruito da tubi di gomma, rottami, una valigia
abbandonata, corde. E alla postazione di soccorso manca il salvagente. Sul banco
della reception un cartello informa da oltre un'ora che 'il guardiano notturno è
in giro d'ispezione'.
Si può andare ovunque. La passerella sopra i generatori Diesel è ostruita
da una fila di sacchi azzurri dell'immondizia. In caso di principio di incendio,
il ferro non brucia ed estingue le fiamme. Ma la plastica sì. A poppa, la sala
macchine è aperta e incustodita come sempre. Dalla testa del cilindro numero
nove del motore di sinistra esce un rivolo oleoso nero. Lo stesso sul
numero dieci. E qualcuno ha provato a tamponare la perdita con un giro di
stoffa. Quaggiù fa caldissimo. Ma in tutte le cabine l'aria condizionata soffia
gelida. L'indomani mattina una fila di ragazze si allunga davanti ai gabinetti
della seconda classe. Tutte con il mal di pancia. Quando è stata progettata
questa nave, non esistevano i jeans a vita bassa. La sera stessa la Flaminia
ritorna a Cagliari. E la sera dopo riparte per Napoli. È l'ultimo viaggio dei 56
tra marinai e ufficiali. Dopo 52 notti in mare, avranno 25 giorni di riposo.
Palermo è come Civitavecchia. Nessun controllo di documenti o bagagli
all'imbarco. Basta solo il biglietto. La nave Rubattino ha appena sei anni. E si
vede. Cabina da quattro letti in prima classe, la 273: 62,51 euro. I quattro
giubbotti di salvataggio sono negli armadi. Due sono impacchettati, le batterie
del lampeggiante cariche. Gli altri due sono senza lampeggianti e senza
fischietto di segnalazione. Forse qualcuno li ha rubati: dovrebbero essere
rimpiazzati. La notte un ufficiale è di guardia alla reception. Ma le porte
della sala macchine restano aperte. Ed è possibile rimanere per più di un'ora
accanto ai motori. Sull'Aurelia, per il viaggio Bari-Durazzo-Bari, si torna
indietro trent'anni. Cabina di seconda classe, al secondo piano, ponte copertino.
Il più basso, in mezzo ai garage e ai serbatoi di camion e auto. Temperatura
intorno ai 40 gradi. Una puzza di nafta nauseante impregna perfino le lenzuola.
Praticamente due notti da sommergibilisti. Prezzo: 110 euro all'andata, 108 il
ritorno. Pur maltrattati sul fondo della nave, la seconda classe per l'Albania
costa quasi il doppio di una prima classe da Palermo a Napoli. E il viaggio dura
meno.
Il ristorante chiude alle 23. Esattamente quando i passeggeri salgono a bordo e
l'Aurelia parte. Così al cameriere rimane poco o nulla da fare. Le porte dei
garage devono rimanere chiuse a chiave durante la navigazione. Ma al piano 3
alcune restano aperte. Dalla seconda classe i cartelli per le vie di fuga sono
una lotteria. È meglio andare verso il punto 2 o il punto B? Inutile, al quinto
piano ci si perde comunque. Tra segnali che dicono soltanto dov'è il punto A.
Altri vecchi cartelli spiegano che le cinture di salvataggio sono nei sedili
esterni. Si aprono come cassapanche. E sono vuoti. Le hanno portate tutte nei
punti di raccolta interni: il ristorante, il selfservice e il bar, in fondo a
percorsi ostruiti da tavoli, sedie, poltrone e tavolini. Fuori sulle gru delle
scialuppe, la stessa ruggine delle altre carrette di Stato. A metà viaggio, il
caldo e l'odore nella cabina sono insopportabili. Meglio farsi un giro nella
sala macchine. Su una passerella appena sopra i motori hanno lasciato due
bombole di gas. Si può scendere ancora. Fino ai cilindri, ai tubi di nafta, agli
alberi delle eliche. Anche questa notte, come sempre, incustoditi.
21
giugno
La sindrome cinese
La Cina diventa il Paese che inquina di più al mondo,
superando gli Usa |
Il sorpasso era nell'aria, ma in pochi se lo aspettavano così
presto. Sull'onda della sua inarrestabile ascesa economica, la
Cina è già diventata il Paese più inquinante del mondo,
spodestando gli Stati Uniti. Secondo un rapporto dell'Agenzia
olandese per il controllo del clima, l'anno scorso la Cina ha
prodotto 6,2 miliardi di tonnellate di anidride carbonica (+ 8,7
percento in un anno), considerata la principale responsabile del
riscaldamento del pianeta, mentre gli Usa si sono fermati a 5,8
miliardi. Previsto inizialmente nel giro di un decennio, poi
prima del 2010 e infine entro quest'anno, il balzo in avanti
cinese ripropone l'esigenza del contenimento dei gas serra, dopo
che nelle scorse settimane il vertice in Germania dei maggiori
paesi industrializzati ha portato solo a vaghi impegni in questo
senso.
I
dati. Spinta da una crescita economica che da un
decennio si aggira intorno al 10 percento annuo, la Cina ha
visto aumentare esponenzialmente anche il suo bisogno di
energia. Solo nell'ultimo anno, il Paese ha aggiunto alla rete
elettrica una quantità di energia pari a quella dell'intera Gran
Bretagna. Si calcola che, nel 2020, i consumi energetici cinesi
saranno il doppio rispetto a quelli di oggi. Con scarse riserve
di gas e petrolio, la Cina sta puntando forte sul carbone, che
possiede in abbondanza (13 percento del totale mondiale). Nei
prossimi otto anni, verranno costruite oltre 550 centrali
elettriche a carbone, più di una a settimana, che si
aggiungeranno alle circa 2.000 già esistenti. Il boom del
carbone ha un costo umano: nelle 21.000 miniere cinesi,
stimolate a produrre senza preoccuparsi troppo delle condizioni
di sicurezza, muoiono quasi 4.000 lavoratori all'anno. Ma il
costo è anche ambientale, perché l'economico carbone è il
combustibile fossile più “sporco” che esista. L'incredibile
sviluppo nel settore delle costruzioni – la Cina produce il 44
percento del cemento mondiale – è anche un'enorme fonte di
emissioni nocive.
Accuse reciproche. Paese firmatario del
protocollo di Kyoto sulla riduzione di gas inquinanti, ma
inserito nella fascia Annex I (quella dei paesi in via di
sviluppo), la Cina non è tenuta a rispettare nessuna soglia di
emissioni. E questo per gli Stati Uniti, che quel trattato non
l'hanno ratificato, rappresenta un problema e al tempo stesso
una scusa per evitare di sottoscrivere accordi di riduzione dei
gas serra. Un'intesa globale sul clima deve includere anche Cina
e India, sostengono gli Usa: che senso ha limare la quantità di
emissioni prodotte, dice Washington, se in questi paesi
l'inquinamento cresce a tassi vertiginosi? Ma la Cina risponde
facendo notare che le sue emissioni pro-capite sono un quinto di
quelle statunitensi, e che non è giusto frenare la crescita
economica dei paesi in via di sviluppo.
Iniziative
per la riduzione dei gas serra. Comunque sia, Pechino
sta iniziando ad affrontare il problema dell'inquinamento, che
già affligge diverse città cinesi. A parte iniziative
pittoresche, come quella annunciata oggi dell'addestramento di
“sniffatori professionisti” da sguinzagliare intorno alle
fabbriche di Guangzhou, con l'obiettivo di identificare i gas
illegali, il Paese ha appena presentato un piano per ottenere
entro il 2010 il 10 percento della sua energia da fonti
rinnovabili. Sono già in programma nuove centrali
idroelettriche, nonché quattro reattori nucleari, ma nuove
risorse verranno anche dedicate all'energia solare e a quella
eolica. C'è anche il progetto di estendere le foreste, fino a
coprire il 20 percento del territorio nazionale.
La nuova frontiera. Inoltre, come concesso dal
protocollo di Kyoto, la Cina è diventata anche il nuovo eldorado
per gli scambi di emissioni nocive e la compravendita di
riduzioni dei gas inquinanti. Le aziende occidentali, tenute a
rispettare i nuovi parametri ambientalisti, hanno l'opzione di
limitare le emissioni nocive nei paesi in via di sviluppo, a un
costo minore di quanto dovrebbero sostenere a casa loro. In Cina
stanno così spuntando centinaia di progetti per l'energia
rinnovabile, sviluppati con soggetti cinesi e capitale
straniero. “Il governo sta agevolando in tutti i modi l'afflusso
di questa massa di denaro, conscio che il settore agevolerà lo
sviluppo del paese”, confida a PeaceReporter un
operatore italiano che lavora per un'azienda di emission-trading a Pechino.
Temperatura in salita. Comunque sia,
un'iniziativa globale sulla riduzione dei gas nocivi è sempre
più urgente. “Dobbiamo far scendere le emissioni entro 10-15
anni”, spiega al telefono Stefan Rahmstorf, un climatologo
tedesco dell'università di Potsdam. “Se non lo faremo, avremo
pochissime possibilità di contenere il riscaldamento globale
entro i due gradi, rispetto alla temperatura media dell'epoca
preindustriale: una soglia che, se oltrepassata, porterebbe a un
disastro”. Dato che nella corsa verso i due gradi siamo già a un
più 0,8, e che se la concentrazione di gas serra nell'atmosfera
resterà la stessa la temperatura salirà comunque di un altro
mezzo grado, il tempo stringe.
19 giugno
Piccoli
guerrieri crescono
In Sri Lanka le Tigri Tamil
annunciano il rilascio di 135 bambini soldato e promettono di non
sequestrarne altri
scritto da G. l. Ursini
Sono ancora circa duemila i bambini
soldato che combattono con i separatisti Tamil nel nord-Sri Lanka.
La scorsa settimana i guerrieri indipendentisti ‘Tigri Tamil’ hanno
fatto sapere di aver rilasciato negli ultimi sei mesi 135 minorenni
arruolati nelle proprie fila. Secondo Consiglio di Sicurezza Onu e
Unicef ne rimangono però ancora 1.591 inquadrati tra le Tigri e
altri 198 con il gruppo dissidente ‘Karuna’.
L’Onu alza la voce. “L’ultimo rapporto del Segretario
Generale Onu sul Sri Lanka, del dicembre passato, ha parlato di
costante aumento della pratiche di sequestro e arruolamento forzato
da parte delle Ltte (Liberation Tamil Tigers Eelam, in inglese),
nonostante le promesse precedenti”; così il responsabile del ‘Gruppo
di lavoro sui bambini soldato’ del Consiglio di Sicurezza, J. M. de
la Sabliére, aveva denunciato in maggio all’agenzia Ap
l’atteggiamento del gruppo separatista in conflitto col governo di
Colombo da 30 anni. Il 10 maggio (prima delle ultime liberazioni) un
rapporto Unicef contava ancora 1.634 minorenni coscritti forzosi per
le Tigri, e altri 198 arruolati con la forza dal gruppo avversario ‘Karuna’,
nato nel 2004 da una scissione dei primi. Questo fino all’annuncio
degli ultimi rilasci, seguiti dalla promessa di far posare le armi a
ogni minorenne entro fine 2007.
Definizione di ‘minorenne’. Rimane poi da capire cosa sia un
soldato-bambino, visto che per le Tigri l’età arruolabile scatta dai
17 anni. Ma con l’ultima consegna hanno rimandato a casa anche
ragazzi tra i 17 e i 18, accettando in teoria quest’ultima età come
limite per diventare maggiorenni. “Salutiamo i grandi progressi
realizzati nel dialogo con le Ltte – ha detto Gordon Weiss,
portavoce Unicef – per esempio quando accettano gli standard
internazionali sulla maggiore età. Rimane però molto da fare, fino
all’ultimo bambino soldato arruolato. E’ molto importante che le
Tigri abbiano finalmente ammesso di avere bambini soldati, e che
abbiano preso l’impegno a lasciarli andare. Ma finché anche l’ultimo
combattente minorenne non sarà tornato a casa, non potremo dire che
le Tigri stiano accettando le convenzioni internazionali”.
Qualcuno fa lo gnorri. Il disaccordo più assoluto però, regna
sull’entità dei bambini-soldato. Anzitutto va registrata la totale
indisponibilità del gruppo scissionista Karuna ad accettare un
controllo delle Nazioni Unite sui propri combattenti-soldato, per
“motivi di sicurezza e per la sicurezza dei funzionari Onu ”,
afferma il portavoce Azad Mulina.
Le Tigri invece, danno cifre completamente diverse da quelle fornite
dall’Onu: “Abbiamo ricevuto solo 20 proteste da parte di genitori
che reclamavano indietro i loro figli; stiamo cercando di capire
come nasce questa discrepanza”. La dichiarazione è del portavoce
militare delle Tigri Rasiah Illanthariyan, secondo il quale nel
calcolo Onu non vanno contati i soldati senza compiti di prima
linea, e nemmeno quelli sequestrati da minorenni e rimasti nei
ranghi militari. Per l’Onu sarebbero 1.085 le giovani Tigri
arruolate a forza e rimaste in divisa una volta compiuta la maggiore
età. E andrebbero tutti lasciati liberi. Secondo l’Unicef, anche i
numeri sui rilasci non sarebbero così attendibili; “A volte facciamo
un controllo sui nomi consegnatici dai ribelli e risulta che a
settimane di distanza le Tigri tornano a riprendersi i ragazzi
rimandati a casa” commenta amaro Weiss.
Afghanistan,
strage di civili
I talebani sferrano la più grande
offensiva dell'anno. La Nato bombarda: decine di morti civili
Negli ultimi giorni i talebani hanno
lanciato la più grande offensiva dell’anno sulle montagne del Kafar
Jar Ghar Range, che separano le province di Uruzgan e Kandahar. I
distretti di Chora e Miya Nishin, rispettivamente sul versante
settentrionale e meridionale della catena montuosa, sono da giorni
teatro di violentissime battaglie e di massicci bombardamenti aerei
della Nato che, secondo fonti locali, hanno causato almeno una
settantina di morti tra i civili, un centinaio tra i guerriglieri e
una quarantina tra i soldati afgani. Questi ultimi, ieri sera, sono
stati costretti a ritirarsi dal distretto di Miya Nishin, ora in
mano ai talebani.
I racconti dei sopravvissuti. Janu Akha, 62 anni, è stato
ferito in uno di questi bombardamenti sul distretto di Chora e ora è
ricoverato nell’ospedale di Tarin-Kot. “Il mio villaggio,
Qala-i-Ragh, è stato bombardato sabato notte”, ha raccontato per
telefono a un giornalista dell’Associated Press. “Sono cadute almeno
otto bombe. Domenica mattina abbiamo seppellito 18 membri della
nostra famiglia, tra cui diverse donne e bambini”.
Mullah Ahmidullah Khan, presidente del Consiglio Provinciale dell’Uruzgan,
dopo aver visitato lo stesso ospedale ha dichiarato alla stampa: “Ho
parlato con un ferito, Gul Mohammad, il quale mi ha detto di aver
perso 15 membri della sua famiglia sotto le bombe. E un altro, Manan
Jan, di parenti ne ha persi 12. Dai dati in mio possesso ritengo che
siano almeno 60 i civili uccisi dai bombardamenti aeri della Nato
nella nostra provincia, oltre a 70 talebani.”.
Feriti in trappola. Secondo uno stretto collaboratore del
presidente Khan, che però non ha voluto rendere noto il proprio
nome, il bilancio morti sarebbe ancor più pesante: circa 75 civili,
più di cento talebani e oltre 35 militari afgani.
“Dubito che gli ufficiali afgani siano in grado di distinguere tra
civili e combattenti”, ha laconicamente commentato il portavoce
della Nato, il maggiore britannico John Thomas.
Il dottr Mohammad Fahim, sempre dell’ospedale di Tarin-Kot, ha detto
all’Ap che “la maggior parte dei civili uccisi sono ancora nei
villaggi bombardati nel distretto di Chora: non riescono a portarli
qui perché i combattimenti sono ancora in corso”.
“Lo stesso vale per le centinaia di feriti”, ha aggiunto un suo
collega, il dottor Hajed Noor. “Ne abbiamo ricevuti una quarantina,
ma molti di più sono ancora bloccati nei villaggi”.
14 giugno
Morire di fame |
Ogni 30 secondi muore un bambino per
malnutrizione grave |
Venti milioni di bambini con una malnutrizione
grave, che ne uccide un milione ogni anno, uno ogni 30 secondi
circa. La probabilità di morire per i piccoli malnutriti è venti
volte superiore rispetto a quelli con una alimentazione buona. Su
questi numeri esce il comunicato congiunto di Organizzazione
mondiale della sanità (Oms), Programma alimentare mondiale (World
Food Programme), Commissione permanente delle Nazioni Unite sulla
nutrizione (United Nations Standing Committee on Nutrition) e Fondo
delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef) su come gestire la
malnutrizione nelle diverse comunità.
Facilitare il trattamento. Uno degli ostacoli al
trattamento dei bimbi malnutriti è rappresentato dal doversi
sottoporre a nutrizione speciale in ospedale o centri specializzati.
Non è sempre facile, infatti, per le famiglie affrontare e far
affrontare ai bimbi il viaggio per portarli presso i centri,
lasciando anche per settimane le loro case. Inoltre, il ricovero in
reparti affollati aumenta il rischio di infezioni quando alla
malnutrizione si associa una riduzione delle difese immunitarie del
bambino. Il nuovo approccio prevederebbe dunque una combinazione del
trattamento ospedaliero con una gestione dei casi di malnutrizione
direttamente nelle comunità, opzione che ha già portato a un
miglioramento nella sopravvivenza dei piccoli in Etiopia, Malawi,
Niger e Sudan. “I 20 milioni di bambini con meno di 5 anni nel mondo
che oggi stanno soffrendo di malnutrizione grave acuta hanno bisogno
urgente di trattamento. Questo approccio integrato dovrebbe dare un
nuovo impulso” ha detto il Direttore generale dell’Oms Margaret Chan,
e ha sottolineato come sia urgente aggiungerlo agli altri interventi
da utilizzare per migliorare la nutrizione e ridurre la mortalità
infantile.
Cibo scarso. Intanto si avvicina la scadenza degli otto
Obiettivi di sviluppo del millennio, stabiliti dalle Nazioni Unite
nel 1990. Il primo mira proprio, oltre alla riduzione della povertà,
a dimezzare il numero di persone che soffrono la fame fra il 1990 e
il 2015; ma se la proporzione dei piccoli gravemente sottopeso
appare in diminuzione, meno del 40 per cento dei 77 Paesi di cui si
hanno dati sembra essere sulla strada giusta verso la meta del 2015.
Qualche giorno fa l’Organizzazione per l’alimentazione e
l’agricoltura delle Nazioni Unite (Food and Agricolture Organization,
Fao) ha segnalato come, per il raccolto scarso unito a un
peggioramento della crisi economica, oltre due milioni di abitanti
dello Zimbabwe hanno di fronte a loro mesi con scarsità di cibo;
inoltre, le persone a rischio potrebbero diventare il doppio nei
primi mesi del 2008, rappresentando quasi un terzo della popolazione
del paese. Passando dall’Africa all’America Latina, in Bolivia,
secondo quanto riportato a fine maggio dalle Nazioni Unite, un
bambino su quattro presenta una malnutrizione cronica; nel Paese il
60 per cento degli abitanti vive in condizioni di povertà, circa il
40 è povero al punto da non poter provvedere all’alimentazione
delle famiglie, e il governo ha in programma progetti mirati nei
confronti del quadro di malnutrizione.
12 giugno
Afghanistan, vittime minori |
Abusi sessuali sui minori: un fenomeno sommerso ma diffusissimo |
Abdul
Kabir – nome di fantasia – ha 12 anni. Ha lasciato il suo villaggio in
Uruzgan per andare a lavorare nella bottega di un parente a Kandahar. Ma
quando è arrivato in città, l’uomo non lo ha voluto assumere e gli ha
sbattuto la porta in faccia. Così Abdul è andato al mercato della mano
d’opera, dove due uomini gli hanno promesso un lavoro come muratore per un
dollaro al giorno. Ma invece di portarlo in cantiere, lo hanno condotto in
un edificio abbandonato e lo hanno violentato. Ripresosi dal trauma, Abdul
ha deciso di tornare nel suo villaggio. Un tassista gli ha offerto un
passaggio gratis e poi, una volta in macchina, ha abusato di lui. Una volta
a casa, il ragazzino, non dandosi per vinto, ha cercato di tirar su qualche
dollaro con la raccolta dell’oppio nel campo di un amico di famiglia. Ma lì,
tra i papaveri, un altro bracciante ha provato a violentarlo: Abdul ha
reagito, ferendo l’uomo con il falcetto per estrarre l’oppio. Il dodicenne è
stato per questo consegnato alla polizia e rinchiuso in un riformatorio. Il
suo violentatore è a piede libero.
Un
fenomeno sommerso ma diffuso. Questa drammatica storia, raccolta da
Irin News, è solo uno dei tantissimi
casi di abusi sessuali sui minori: un fenomeno sempre più diffuso in un
Paese che non riesce a uscire dalla miseria e dalla guerra. Non esistono
statistiche attendibili in merito, solo stime elaborate dalla Commissione
Indipendente per i Diritti Umani dell'Afghanistan (Aihrc)
e dall’organizzazione Save the
Children-Svezia. Secondo i loro dati, nella sola città di Kandahar sono
stati recentemente denunciati 14 casi di violenze sessuali su minori, ma
almeno il doppio sarebbero i casi rimasti non denunciati dalle giovani
vittime per paura di finire in carcere o semplicemente di essere picchiati o
uccisi dai genitori. Sì, perché quasi la metà dei casi denunciati si
riferiscono ad abusi avvenuti fra le mura domestiche ad opera di familiari o
parenti.
Considerando che a Kandahar, con il suo mezzo
milione di abitanti, vive l’1,6 percento della popolazione afgana, e tenendo
conto che due casi su tre non vengono denunciati, in Afghanistan potrebbero
essere oltre 2.500 i minori vittime recenti di abusi sessuali.
Cause
culturali, economiche e legali. La preoccupante dimensione di
questo fenomeno ha molte cause.
Una culturale, sopra tutte. La pedofilia, spesso
associata all’omosessualità, è infatti diffusissima in una società come
quella afgana, dove la tradizione e la religione riducono al minimo i
contatti tra donne e uomini, portando questi ultimi a cercare alternative
tra di loro e con i minori. A poco servono le campagne di sensibilizzazione
che l’Unicef
promuove nel Paese.
L’ignoranza e la povertà sono altre cause
fondamentali: secondo l’Aihrc, la metà dei bambini vittime di abusi vive in
condizioni di povertà estrema ed è costretta dai genitori a lavorare, invece
che andare a scuola. La miseria, in Afghanistan, è la conseguenza di oltre
un quarto di secolo di guerra ininterrotta: una guerra che non accenna a
placarsi.
L’ultima causa, più contingente, che sta dietro
alla sempre maggior diffusione di questo fenomeno è l’impunità di cui godono
i colpevoli. Sotto i talebani, chi veniva accusato di aver violentato un
minore veniva giustiziato. L’attuale codice penale afgano non prevede
nemmeno questo crimine e i rari imputati vengono puniti in base all’articolo
427 sull’adulterio, che prevede un massimo di dieci anni di prigione. Ben
spesi i 57 milioni di euro che l'Italia ha investito nella riforma del
sistema giudiziario afgano...
La denuncia: lavoro minorile, orari massacranti
e salari da fame
per gli operai del business del logo. Il rapporto PlayFair: gravi abusi
nelle fabbrichedal nostro
corrispondente FEDERICO RAMPINI
PECHINO - "Ho
lavorato dall'alba fino alle due di notte. Ero esausta ma il giorno dopo mi
hanno costretto a ricominciare". È una bambina cinese di 13 anni a parlare,
una piccola operaia-schiava che fabbrica i gadget con il logo ufficiale per
le Olimpiadi del 2008. La sua testimonianza è stata raccolta da attivisti
umanitari cinesi che sono riusciti a infiltrarsi in segreto in quattro
aziende del sud del paese: tutte lavorano per conto del Comitato olimpico di
Pechino. Queste aziende sono state regolarmente autorizzate a produrre i
popolari oggetti in vendita con il marchio dei Giochi: borse e zainetti,
T-shirt, berretti, quaderni, figurine e album illustrati per bambini.
Il marketing degli oggetti griffati vale da solo 70 milioni di dollari, per
gli organizzatori cinesi delle Olimpiadi. Ma dietro questo business ci sono
fabbriche-lager dove si sfruttano i bambini, vige un clima di terrore, non
vengono rispettati neppure i modesti diritti dei lavoratori previsti dalla
legislazione cinese. "Nessuno indossa guanti protettivi qui - rivela un
altro piccolo operaio che usa vernici tossiche e additivi chimici pericolosi
- perché coi guanti si lavora meno in fretta e il caporeparto ti punisce. Le
mie mani mi fanno molto male, quando le lavo piango di dolore".
Queste testimonianze sono state raccolte a Shenzhen e nel Guangdong in
quattro stabilimenti chiaramente identificati: Lekit Stationery (prodotti di
cancelleria), Mainland Headwear Holdings (berretti sportivi), Eagle Leather
Products (pelletteria) e Yue Wing Light Cheong Light Products (zainetti e
accessori). Tutti lavorano alla luce del sole per conto delle autorità
olimpiche cinesi.
A smascherare gli abusi sistematici che avvengono in quelle fabbriche sono
stati gli attivisti locali di PlayFair 2008, sigla che si traduce in "Gioca
lealmente 2008": è un'organizzazione promossa e sostenuta dai sindacati
occidentali dei lavoratori tessili e dall'ong umanitaria Clean Clothes.
L'inchiesta sul campo è iniziata nell'inverno 2006. Dopo sei mesi di
appostamenti, contatti segreti e interviste clandestine con gli operai, il
quadro che emerge è disperante. Il lavoro minorile dilaga, alcuni bambini e
bambine hanno appena 12 anni e sono già alla catena di montaggio. Una
fabbrica di oggetti di cancelleria impiega venti bambini che ha ingaggiato
durante le vacanze scolastiche: lavorano dalle 7.30 del mattino alle 22.30,
con gli stessi ritmi degli adulti. Spesso sono obbligati a fare
straordinari, non remunerati. Perfino il salario degli operai adulti in
queste aziende, a 20 centesimi di euro all'ora, è la metà del minimo legale
in vigore nella regione del Guangdong (già molto basso).
Molti di loro sono costretti a lavorare sistematicamente 15 ore al giorno
per sette giorni alla settimana, 30 giorni al mese, senza riposi né
festività. I proprietari di Mainland Headwear costringono i dipendenti a
mentire in caso di visite da parte degli ispettori del lavoro.
A Shenzhen - la città della Cina meridionale che ha conosciuto un boom
industriale spettacolare e ha il più alto reddito pro capite della zona -
c'è un'impresa che produce su licenza ufficiale 50 oggetti griffati con il
logo olimpico: lì i registri delle buste paga sono stati ripetutamente
falsificati dai manager per fare apparire orari più corti e salari più alti.
In quella fabbrica gli operai lamentano gravi problemi di salute, incidenti
sul lavoro, malattie della pelle dovute al contatto con agenti chimici,
difficoltà respiratorie per le polveri tossiche.
Alcuni operai hanno osato denunciare questi problemi alle autorità locali e
sono stati licenziati in tronco.
Il rapporto di denuncia divulgato da PlayFair si intitola "Niente medaglie
olimpiche per i diritti dei lavoratori". Guy Rider, segretario generale
della Confederazione internazionale dei sindacati del tessile-abbigliamento,
ha dichiarato: "È vergognoso che questi gravi abusi avvengano in fabbriche
che hanno la licenza ufficiale del comitato olimpico". Il sindacalista ha
esortato il Comitato olimpico internazionale (Cio) a premere sugli
organizzatori cinesi perché cessino queste violazioni dei diritti umani.
A Pechino il comitato olimpico locale ha reagito annunciando che revocherà
le licenze alle quattro aziende incriminate nel rapporto PlayFair. Ma le
fabbriche dove avvengono questi abusi sono sicuramente più numerose. Le
autorità di polizia locali avrebbero la possibilità di smascherare altre
illegalità. A differenza degli attivisti di PlayFair costretti a indagare
nella clandestinità, le forze dell'ordine cinesi hanno poteri pressoché
illimitati e possono agire alla luce del sole. La ragione per cui non lo
fanno è intuibile. In un caso di cronaca recente 31 operai sono stati
liberati dalla schiavitù in una fabbrica di mattoni dello Shanxi. Da un anno
lavoravano senza ricevere salario, solo razioni di pane e acqua. Il
proprietario della fabbrica era il figlio del boss locale del partito
comunista. Sono diffuse le collusioni e l'omertà tra il capitalismo
selvaggio, la nomenklatura politica, la polizia e la magistratura.
In vista delle Olimpiadi però la Cina sarà sottoposta a uno scrutinio sempre
più pressante da parte dell'opinione pubblica occidentale. Per il regime i
Giochi di Pechino sono una formidabile operazione d'immagine, devono
consacrare il nuovo status del paese come superpotenza globale, il prestigio
di Pechino come capitale cosmopolita e moderna, il fascino turistico della
Cina. Ma oltre ad attirare almeno mezzo milione di visitatori stranieri, i
Giochi saranno un momento di forte visibilità anche per ogni forma di
dissenso, di disagio sociale e di denuncia di abusi.
9 giugno

8 giugno
Sulle imprese piovono
soldi
di Emiliano Fittipaldi e Maurizio Maggi
Cinque miliardi di euro l'anno. E' il
denaro che lo Stato dà a fondo perduto agli industriali privati e
finanziano un'azienda su quattro, dalle piccole fino a Fiat ed Eni. Sono
soldi che spesso vengono letteralmente buttati via o ottenuti
illegalmente. Il tutto a spese dei contribuenti
Lo stabilimento Mirafiori della
Fiat
Pochi sanno che per il progetto di
ricerca sugli spaghetti della Barilla i
contribuenti italiani hanno pagato circa 8 milioni di euro, e che lo
Stato ha sborsato 10 milioni per un nuovo stabilimento pastaio di
Foggia, rendendosi disponibile a finanziare anche l'arrivo dei sughi
pronti sui banconi dei supermercati di mezzo mondo. Secondo i
tecnici del ministero dello Sviluppo economico, che hanno preparato
una relazione al Cipe sul funzionamento dei contratti di programma,
alla fine il gruppo alimentare di Parma ha preso oltre 78 milioni di
euro per una serie di investimenti al Sud.
Molto meno dei 172 milioni finiti nelle casse della
STMicroelectronics (al tempo Sgs-Thompson), l'azienda
inventata da Pasquale Pistorio, leader mondiale dei semiconduttori e
simbolo del miracolo tecnologico siciliano, che ha chiesto e
ottenuto agevolazioni per potenziare la sede di Catania e le linee
di produzione. E se, come documentato giorni fa da 'la Repubblica',
la Saras dei petrolieri Moratti ha spuntato
agevolazioni per 200 milioni per ammodernare una raffineria in
Sardegna, un altro contratto ha regalato agli americani della
Texas Instruments ben 422 milioni, per mettere in
piedi tre stabilimenti ad Avezzano, Aversa e Cittaducale, poi
rivenduti ad altre società straniere. In pratica il 55 per cento dei
costi dell'intero progetto è stato finanziato con denaro pubblico, e
ogni nuovo occupato (1.150 in tutto) è costato allo Stato italiano
la bellezza di 370 mila euro. STM ha fatto il record (550 mila euro
per ogni nuovo posto di lavoro), mentre è andata malissimo ai
lavoratori della Getrag, multinazionale tedesca che
per venire a Modugno, in provincia di Bari, ha partecipato ai bandi
della 488 e incassato quasi 100 milioni di euro. Il contratto non è
stato ancora chiuso, ma il sogno degli operai di un lavoro sicuro
sembra già tramontato: le commesse di trasmissioni e cambi per auto
per Fiat e General Motors non tirano più, e dal 2005 è partita la
cassa integrazione. Si punta ora su un altro accordo di programma
con la Regione Puglia, ma il nuovo cadeau dello Stato arriverà solo
nel 2009. "Forse", dice un lavoratore, "sarà troppo tardi".
Motore di Stato
Se gran parte delle imprese del Sud sopravvive alla
globalizzazione grazie soprattutto ai soldi pubblici, anche i
colossi dell'industria - italiani e stranieri - continuano a
beneficiare a piene mani dei finanziamenti dello Stato.
L'imposizione fiscale alle aziende sarà anche tra le più alte del
Continente, come lamenta Confindustria, ma la Commissione europea ha
stabilito che, in termini di agevolazioni alle aziende, l'Italia è
tra i paesi più generosi della Ue. Dietro a Germania (i tedeschi
staccano tutti con 20,3 miliardi, dato che comprende anche i mutui
da restituire) e la Francia (9,7 miliardi), ma davanti a tutti gli
altri 25.
Nel dibattito sulla politica economica è difficile che gli
industriali affrontino l'argomento, e Luca Cordero
di Montezemolo non fa eccezione. Nell'assemblea di maggio
il presidente non ha solo sciorinato i punti di un'agenda politica
per la sua (presunta) discesa in campo, ma, con orgoglio, ha
rivendicato i meriti delle aziende italiane, "vero motore" del mini
boom del Pil dell'ultimo anno. "La ripresa economica è merito delle
imprese, che hanno dato e continueranno a dare", ha chiosato, "ora
le aziende possono chiedere al governo, alla politica e alle altre
parti sociali di fare la loro parte per non vanificare gli sforzi
fatti fin qui". Nell'arringa, che ricordava le stime sui costi della
politica (4 miliardi di euro l'anno per stipendiare circa 180 mila
persone), mancavano però i dati sulle imprese. O, meglio, su quanto
il sostegno agli industriali pesa sui portafogli dei contribuenti.
Il bistrattato Palazzo versa nelle casse degli imprenditori un pacco
di soldi. Spesso aiutando imprese decotte che non creano né sviluppo
né occupazione.
Secondo le ultime statistiche, il totale dei finanziamenti pubblici
a fondo perduto per sostenere le industrie ammonta (anno 2005) acirca
5 miliardi di euro. Somma che sale a 6,4 miliardi,
comprendendo gli aiuti pubblici da restituire a rate. Dal 1999 al
2005 le erogazioni (al netto dei prestiti e dei mutui) arrivano alla
cifra monstre di 36 miliardi di euro. Più della Finanziaria 'lacrime
e sangue' varata dal governo Prodi. Le tabelle sono state elaborate
dalla società Met (Monitoraggio, economia e territorio), l'unico
centro studi che ogni anno fa un rapporto completo sulle politiche
industriali, elaborando dati del ministero dello Sviluppo economico,
del ministero dell'Università e delle regioni.
Luca Cordero di Montezemolo e
Matteo Colaninno
Anche nel 2006, analizzando la
Trimestrale dello scorso marzo messa a punto dal ministro
dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, un fiume di denaro si è
riversato sugli imprenditori. I contributi, considerando anche
quelli per le Ferrovie e l'Anas, sfiorano gli 11 miliardi. Prendendo
in esame gli ultimi due lustri, i numeri sono impressionanti:
in pratica quasi un quarto delle imprese italiane che operano nel
settore industriale ha preso agevolazioni pubbliche. Anche le
imprese che operano nel commercio, nell'edilizia e nel turismo non
fanno eccezione. Secondo i calcoli dei più pessimisti, come
l'economista Francesco Giavazzi, gli aiuti valgono ancora di più, 30
miliardi, circa il 2 per cento del Pil. Ne beneficiano decine di
migliaia di aziende, che hanno investito pochissimo in ricerca e
sviluppo e moltissimo su operazioni a bassa produttività.
Colpa non solo delle imprese, spiega Raffaele
Brancati, docente di politica industriale all'Università di Camerino
e presidente del Met, "ma di un sistema che ha accumulato negli anni
centinaia di leggi nazionali, regionali ed europee, un pacchetto
completamente slegato dagli obiettivi necessari allo sviluppo. Il 60
per cento dei finanziamenti finisce in investimenti di massa sul
territorio a basso impatto, mentre si danno pochi spiccioli alla
nascita di soggetti innovativi, alla ricerca e alla crescita
dimensionale. Per non parlare della riduzione dell'impatto
ambientale".
Caos finanziamenti
La giungla delle leggi è, in effetti, spaventosa. Gli strumenti
nazionali sono 39, quelli 'regionalizzati' 22. Per chiedere soldi
alle regioni ci sono ben 153 modi diversi. Gli studi specializzati
fanno affari d'oro, ma ormai il meccanismo è talmente complesso che
persino gli esperti annaspano nelle carte bollate. "Da tre, quattro
anni si è bloccato tutto", spiega Giovanni Farina, avvocato che ha
creato una società di consulenza in grado di intercettare i
contributi pubblici, "i tempi tecnici per ottenere i soldi sono
diventati esasperanti, mentre i mezzi a disposizione stanno calando:
sono stati riammessi dei progetti presentati nel 2002, ma alle
aziende è stato chiesto di abbattere le richieste del 50 per cento".
Considerando le macrocategorie, le domande più gettonate
riguardano le crisi aziendali, l'aumento della produzione,
l'innovazione e la ricerca, la crescita dei sistemi locali,
l'early stage e l'internazionalizzazione. Nell'ultimo decennio la
parte del leone la fanno la legge 488, i contratti di programma e i
patti territoriali. Che, dice il Met, costituiscono da soli il 71
per cento del totale erogato. Scorrendo i bandi delle Gazzette
ufficiali, si trovano i nomi di migliaia di microaziende (nel Sud i
finanziamenti finiscono soprattutto a loro), fino ai colossi
multinazionali, che fanno incetta di miliardi soprattutto al
Centronord, lasciando le briciole alle piccole imprese.
Si va dal milioncino di euro chiesto dalla calabrese Styl Moda Calze
di Tiziana Bruno fino ai mega contratti firmati da Fiat (2 miliardi
la richiesta di agevolazioni pubbliche per gli stabilimenti di Melfi
e Cassino, ma da Torino si sottolinea che per il periodo 2002-2006
sono stati concessi solo 415 milioni), Eni (l'onere pubblico, alla
firma del contratto, era di oltre 200 milioni di euro), Piaggio e
Natuzzi (150 milioni). Nel labirinto della burocrazia, come racconta
la cronaca,la truffa allo Stato è diventata la regola:
l'aneddotica è infinita, i pm delle procure di mezza Italia hanno
arrestato decine di imprenditori e aperto centinaia di fascicoli.
Ora il ministro dello Sviluppo economico vuole correre ai ripari, e
ha modificato la tipologia del bando della 488. "Combatteremo la
piaga della consulenza fasulla o inadeguata", dice Paola Verdinelli
de Cesare, direttore generale del Ministero: "Specie nel Sud ci sono
stati, in passato, casi in cui dei professionisti scorretti hanno
spinto imprenditori, magari sani, a intercettare i contributi e le
agevolazioni presentando progetti destinati in partenza
all'insuccesso. Le nuove modalità del bando hanno sicuramente
migliorato la situazione anche sotto il profilo etico". Sarà. Ma
quando lo Stato non recupera gli incentivi illegali (la Commissione
ha portato nel 2006 l'Italia davanti alla Corte di giustizia del
Lussemburgo per alcuni aiuti distribuiti grazie alla Tremonti bis)
c'è poco da essere ottimisti.
Tasse e incentivi
Sergio Colaninno e Pasquale
Pistorio
Gli stessi imprenditori chiedono
revisioni immediate di un sistema che non funziona.
"Siamo disponibili a scambiare qualunque agevolazione in cambio di
minore pressione fiscale", sfida Montezemolo. Ma secondo gli
osservatori i sussidi sono fondamentali, soprattutto per alcuni
settori. Aeronautica ed edilizia in testa. Nel Mezzogiorno, poi, la
fine delle agevolazione porterebbe migliaia di aziende all'immediata
chiusura. Forse un male minore: il 40 per cento delle imprese che
godono dei finanziamenti di Stato non fa investimenti, non fa
ricerca e non crea nuova occupazione.
"Per questi soggetti non vedo perché il contribuente dovrebbe
versare un solo euro. Io però", aggiunge Brancati, "credo che gli
aiuti servano: la posizione iperliberista dei bocconiani è
fantasiosa. Barattare le tasse con gli incentivi? Può convenire agli
industriali, ma non certo alla collettività. Che perderebbe sia un
gettito fiscale importante, sia la possibilità di orientare la
politica industriale". Legge 488 e credito d'imposta vanno intanto
modificati, "in modo da privilegiare progetti di sviluppo ad alto
impatto". Se il futuro è incerto,la casistica del Ministero
ricorda contratti disastrosi come quello del Gruppo Tessile
Castrovillari (21 milioni di soldi pubblici in fumo, ritardi enormi
nell'erogazione e 248 operai in casa integrazione) e del gigante
delle fibre sintetiche Snia (oggi controllato anche da Montepaschi,
dall'Hopa di Emilio Gnutti e da Abn Amro) che, ottenuti aiuti per 61
milioni di euro, invece dei 1.432 operai promessi alla stipula
dell'accordo (1990) all'assetto finale ne contava solo 572. E se il
consorzio Tarì Industriale sembra aver speso bene i 26 milioni per
il nuovo centro orafo a Marcianise, i soldi dati alla Barilla per
Foggia non hanno scongiurato la chiusura dello stabilimento di
Matera, con 111 persone finite a spasso. "Lo spot dice che dove c'è
Barilla c'è casa", ironizzavano le maestranze, "ora a casa ci
andiamo davvero".
Dai dossier al segreto di Stato,
tutti i punti da chiarire
Quella oscura
ragnatela che il governo non vuole vedere
di GIUSEPPE D'AVANZO

ROMA - In Occidente, solitamente, è la
stampa a chiedere conto alla politica delle ragioni delle sue
scelte; a pretendere luce là dove c'è ombra; a reclamare una
coerenza nei comportamenti là dove avvista compromessi di basso
profilo fra interessi opposti a danni del bene collettivo e
dell'integrità delle istituzioni. Nel nostro bizzarro Paese avviene
il contrario. E' il governo a chiedere conto alla stampa delle sue
cronache pur ammettendo che contengono "elementi di verità". Già
quei frammenti di realtà imporrebbero al governo attenzione - se non
proprio un chiarimento.
Se si volesse esagerare in retorica, si potrebbe anche sostenere
che, per un esecutivo, dovrebbe essere un dovere istituzionale e
morale dar conto in pubblico delle proprie decisioni che, a occhio
nudo, appaiono contraddittorie o irragionevoli.
La bizzarria nazionale capovolge la scena. Fa sentire al ministro
della Difesa, Arturo Parisi, il "dovere istituzionale e morale" di
chiedere conto a questo giornale delle affermazioni contenute in una
cronaca in cui si raccontava la "pervasività di un potere di
pressione, condizionamento e ricatto" di una consorteria che
definivamo una pidue per semplificazione evocativa: un "agglomerato
oscuro" (la definizione è di un membro del governo in carica) che,
avvantaggiato da un sistema politico frammentato, diviso e in debito
di credibilità per i vizi, le anomalie e gli sprechi che si concede,
è in movimento al "mercato della politica" per offrire i suoi
servigi opachi.
Anche se stravagante, la richiesta di Arturo Parisi offre tuttavia
l'opportunità di ritornare sulla questione con qualche dettaglio in
più, utile al lettore.
Il ministro della Difesa chiede di "dar conto" di tre questioni: (1)
di documentare come si possa affermare "l'intenzione del governo in
carica di tutelare, anche nella nuova stagione politica, il passato
i traffici e la fortuna dei protagonisti del network" che a noi
sembra governato dall'ex-direttore del Sismi, Nicolò Pollari; (2) di
sapere come si può "sostenere che l'ammiraglio Bruno Branciforte (il
nuovo direttore del Sismi) "viene consegnato a un imbarazzato stato
di impotenza"; (3) di dar conto dei "margini di manovra dei "vecchi"
che troverebbe prova nel fatto che un fidatissimo braccio destro del
generale Pollari è al Personale della Difesa mentre, alle dipendenze
del Direttore Generale, si interessa del reclutamento dei volontari
a ferma breve delle Forze Armate".
Che, più del governo di centro-destra, il governo di centro-sinistra
tuteli (1) "il passato, i traffici e la fortuna" di quel network,
che ha in Nicolò Pollari il suo leader, non è solo documentato, è
certo come il lunedì segue la domenica. Nicolò Pollari è imputato di
aver accompagnato l'azione della Cia nel sequestro illegale di un
cittadino egiziano. E' un delitto eversivo dell'ordine
costituzionale che viola la sovranità del nostro Stato e i diritti
fondamentali della persona. Non proprio una marachella. A domanda
della procura di Milano, nel novembre del 2005, il presidente del
Consiglio Silvio Berlusconi esclude che ci sia il segreto di Stato
sulla vicenda. Lo stesso fa Nicolò Pollari. Il 26 luglio del 2006,
il presidente del Consiglio Romano Prodi, con un sorprendente
ribaltamento e senza indicare alcuna ragione, oppone il segreto di
Stato che dovrebbe seppellire per sempre l'affare. Di più, ricorre
alla Corte Costituzionale; solleva un conflitto di competenza;
denuncia "i comportamenti criminosi" dei magistrati di Milano. I
fatti, ridotti all'osso, giustificano in abbondanza l'affermazione
che, nel cambio di stagione politica, le responsabilità di Pollari
abbiano ricevuto dal governo Prodi una tutela che Berlusconi non gli
ha mai offerto. Della legittimità dell'iniziativa del governo
deciderà ora la Corte Costituzionale. Il fascicolo alla Consulta ha
come "relatore" Giovanni Maria Flick, che, in passato, è stato
avvocato personale e ministro di Romano Prodi. Opportunità vorrebbe
che il "relatore" designato si astenesse.
Si può sostenere che il nuovo direttore del Sismi, l'ammiraglio
Bruno Branciforte, sia paralizzato nel suo comando (2)? Un esempio
concreto. In un'intelligence, il settore Analisi, è un ganglio
vitale. Quella Direzione ancora oggi, nel Sismi, non ha un
responsabile. Se si escludono quattro nomine a "caporeparto", non si
è mossa una foglia in quella "ditta", che pure qualche pasticcio ha
combinato (Pollari organizza in via Nazionale un ufficio di
dossieraggio e disinformazione) e dunque ha bisogno di una terapia
urgente. Branciforte è ritenuto dal governo il miglior uomo in
campo. Sapiente, esperto, deciso (il giudizio è largamente condiviso
nelle Forze Armate). Perché un militare di cui tutti apprezzano
l'energia appare agitarsi come una statua del Gianicolo? Tra gli
addetti ai lavori si raccoglie una sola spiegazione. Non è oggi
nelle condizioni per farlo.
Un intrigante braccio destro di Pollari, sostiene Parisi, è stato
reclutato alla Difesa - è vero - ma è addirittura "alle dipendenze
del Direttore Generale" (3) e si occupa di minuzie. E' una replica?
Si fa fatica a capirlo. Breve riepilogo. Quest'uomo, che Pollari
definisce "il mio orecchio", dirige un "centro occulto" in via
Nazionale. Affastella dossier contro "i nemici" di Silvio Berlusconi.
Scheda rappresentanti del popolo, liberamente eletti (per dire,
Cesare Salvi, Luciano Violante, Massimo Brutti, Sergio Cofferati);
magistrati (Juan Ignatio Patrone); giornalisti (Serventi Longhi,
Furio Colombo). Quel che è peggio - e dovrebbe forse inquietare il
ministro - organizza alla vigilia delle elezioni un'operazione di
discredito di Romano Prodi, candidato dall'opposizione a governare
il Paese. C'è manovra più minacciosa per la democrazia? A questo
pericolo si può opporre una soluzione burocratica ("è alle
dipendenze del Direttore Generale")? Nemmeno un'opportunità
istituzionale, ma soltanto quella che gli antropologi chiamano shame
culture, la cultura della vergogna, avrebbe dovuto imporre al
ministro l'esclusione del funzionario infedele dall'ambiente
professionale e sociale di appartenenza. Non è avvenuto. E dunque è
davvero "velenoso" parlare di un'irragionevole tutela?
Lo ripetiamo, è incomprensibile che a episodi così gravi e non
contestati che deformano il confronto democratico, la libertà degli
individui, i diritti costituzionali, si oppongano decisioni così
storte e argomenti così minimalisti. Perché? Perché Luciano
Violante, all'ipotesi di un "agglomerato oscuro" che si è messo al
lavoro, replica: "Sono abituato a giudicare le cose che vedo e se si
parla di poteri oscuri quelli non si vedono". L'ufficio di
dossieraggio di via Nazionale lo scheda come un "nemico" di Silvio
Berlusconi e, contro i "nemici" di Berlusconi, pianifica un
operazione "anche cruenta". Non è oscura l'iniziativa di quel potere
né il potere. Ogni cosa è concreta, documentata, illuminata e
visibilissima. Come si può non vederla o girarsi da un'altra parte,
con un accenno di superbia?
Quel che si fa fatica a capire, a dir la verità, è "la natura della
corrente in cui siamo immersi". Anche se, a ben pensarci, il
contrasto tra i propositi dichiarati e i comportamenti effettivi
evoca un'immutabilità del sistema politico italiano "dove uomini e
partiti non hanno idee, o per idee si spacciano affocamenti di
piccole passioni, urti di piccoli interessi, barbagli di piccoli
vantaggi: dove si baratta per genio l'abilità, e per abilità
qualcosa di peggio" (Giosuè Carducci a proposito del quinto
ministero Depretis, 19 maggio 1883).
Verso il
disastro
La sanità in Iraq è sempre più
precaria: se ci sono i farmaci non si riesce a distribuirli
Manca la corrente per far funzionare
le attrezzature mediche, manca l’insulina perché la sua
distribuzione espone a rischi, sono stati riportati i primi casi
sospetti di colera: la situazione sanitaria in Iraq è in
peggioramento, e con essa le possibilità di prevenzione e cura per
la popolazione.
Distribuzione insufficiente. La rivista medica Lancet riporta
una lettera da Bassora, nel sud del paese. I due autori descrivono
la situazione in cui si trovano i pazienti diabetici in Iraq, una
situazione emblematica del quadro deficitario nei diversi settori
della sanità. Per i diabetici, se le cose sono state più o meno
sotto controllo fino a dicembre 2006 e l’insulina per curarli era
disponibile, con il 2007 le cose sono cambiate: il farmaco arriva
ancora nel Paese, ma il problema si presenta poi nella distribuzione
alle diverse città, deficitaria perché mancano le condizioni di
sicurezza. Con la prospettiva di un ulteriore peggioramento con
l’aumento della temperatura esterna, che complicherà ulteriormente
la conservazione e il trasporto del farmaco. Ecco quindi che nel
centro diabetico di Bassora ci sono pazienti che hanno smesso la
cura, che hanno ridotto la dose per centellinare quella a
disposizione finché la crisi non sarà superata, che stanno usando
insulina scaduta, hanno cambiato terapia o, ancora, che si servono
di prodotti di cui non si conosce la qualità che arrivano da Paesi
confinanti.
Infanzia in pericolo. Nell’editoriale di accompagnamento alla
descrizione della situazione dei diabetici iracheni, la rivista
Lancet sottolinea come il quadro sanitario stia peggiorando a tutti
i livelli, con ospedali come il Samarra General Hospital che,
secondo quanto riferito dall’organizzazione non governativa Doctors
for Iraq, non può utilizzare tutte le apparecchiature mediche per
periodi di interruzione nell’arrivo della corrente. Inoltre, un
rapporto Unami (United Nation Assistance Mission for Iraq) segnala
come circa la metà dei bambini iracheni sia malnutrita e i dati
forniti dall’Unicef confermano il quadro allarmante: dal 2003,
quattro milioni di iracheni (il 15 percento circa della popolazione)
hanno abbandonato la loro casa, oltre due milioni oltrepassando i
confini: i bambini rappresentano circa la metà degli sfollati.
Proprio fra i bambini sono stati segnalati i primi casi sospetti di
colera, in un Paese dove si calcola che solo il 30 percento dei
piccoli abbia accesso ad acqua pulita e sicura. Ancora, sempre
ragionando sull’infanzia, mancano i servizi sanitari, manca la
possibilità di un’istruzione: solo in Siria sono circa 320mila i
piccoli iracheni che non vanno a scuola. Fra le persone scappate
dalle loro abitazioni ci sono medici, infermieri, insegnanti, adulti
che non possono più svolgere le loro importanti funzioni nei
confronti dell’infanzia.
Disponibilità e accessibilità. Mancanza di persone dunque,
per fornire assistenza sanitaria, per continuare a fornire
un’istruzione, in un Paese dove, sempre secondo il rappporto UNAMI
riportato da Lancet, più della metà della popolazione vive con meno
di un dollaro al giorno. E dove vi è la disponibilità di farmaci,
manca la possibilità di averli, per i pericoli nella distribuzione.
“Quando si pensano piani sanitari per l’Iraq” si legge
nell’editoriale di Lancet, “è vitale considerare l’accessibilità
piuttosto che la disponibilità”. Non riuscire a far arrivare i
farmaci a chi ne ha bisogno rende vano l’avere disponibili nel Paese
medicine di qualità. “Ignorare quello che sta succedendo sul
territorio mentre si programma il futuro è una ricetta per il
disastro” ammonisce la rivista.
Processi
annullati, schiaffo a Bush
MATTEO BOSCO BORTOLASO
La battaglia (legale)
dell'amministrazione Bush contro il terrorismo viene rimessa in
discussione. Lunedì, in due diversi processi, i giudici di
Guantanamo hanno respinto - per difetto di giurisdizione - tutte le
accuse a carico di due detenuti accusati di essere membri di al
Qaeda. I magistrati del carcere statunitense di Cuba non hanno
scritto un giudizio di innocenza o colpevolezza, ma hanno sostenuto
di non potersi occupare dei due casi, imponendo uno stop
procedurale: le commissioni militari non possono giudicare i due
imputati, definiti «combattenti nemici» e non «combattenti nemici
illegali» (unlawful enemy combatants), condizione necessaria
affinché i giudici si possano occupare dei casi. Tutto gira attorno
ad una parola - unlawful -, che, secondo le leggi internazionali,
indica un combattente che non indossa un'uniforme militare o
nasconde le proprie armi. Il Pentagono, secondo i due magistrati,
non avrebbe ottenuto le informazioni necessarie per definire gli
imputati, oltre che combattenti nemici, anche illegali. Dura la
replica della Casa bianca: «Non siamo d'accordo con le decisioni
delle comissioni militari», ha detto ieri il portavoce della Casa
bianca Tony Fratto a Praga, dove il presidente George W. Bush ha
incontrando i leader della Repubblica Ceca. Il portavoce ha
dichiarato che il dipartimento della difesa sta valutando se fare
ricorso alla decisione dei giudici, che hanno dato al governo 72 ore
per spiccare un appello.
Il primo caso annullato riguarda il più giovane detenuto di
Guantanamo, il ventenne Omar Ahmed Khadr, l'unico canadese presente
nel carcere di Cuba, catturato in Afghanistan quando aveva quindici
anni. Il secondo imputato sollevato dai capi d'imputazione è Salim
Ahmed Hamdan, cittadino yemenita di 36 anni accusato di essere stato
l'autista e la guardia del corpo di Osama bin Laden.
Secca la reazione del Pentagono: i giudici si sarebbero intrattenuti
in «tecnicismi e questioni semantiche». Il dipartimento della Difesa
potrebbe fare appello, ma la corte di secondo grado non c'è: il
governo dovrebbe fare ricorso e istituire, contestualmente, un
tribunale ad hoc. Se l'appello non andasse a buon fine, i detenuti
potrebbero finire nuovamente sotto processo: verrebbero ordinate
altre udienze per stabilire se i combattenti nemici sono pure
unlawful. L'ultima opzione dell'amministrazione Bush sarebbe
scrivere una nuova legislazione, ma, in terreno sempre più
elettorale, pare una strada poco percorribile.
Cavie umane,
Abuja denuncia la Pfizer: «Danni per 7 miliardi»
STEFANO LIBERTI
Nuova grana per la Pfizer. Ieri il
governo nigeriano ha denunciato la casa farmaceutica e chiesto 7
miliardi di dollari di compensazione per gli effetti di una
sperimentazione non autorizzata del Trovan, un antibiotico tra i cui
usi terapeutici c'è anche la cura anti-meningite.
La vicenda risale a più di dieci anni fa, al 1996, quando la regione
di Kano - nel nord della Nigeria - fu colpita da una violenta
pandemia di meningite. A quel tempo, la notizia non ebbe grande
clamore in Occidente. Ma qualcuno, negli scintillanti uffici della
Pfizer, aguzzò le antenne: l'epidemia era un'occasione d'oro per
sperimentare il Trovan. Venne mandato in fretta e furia un aereo e
un'équipe medica nel paese africano. Non c'era tempo per le
formalità: a quanto pare, il governo nigeriano non fu consultato; i
medici dell'ospedale furono appena informati. Ai genitori dei bimbi
malati non vennero fatte firmare le necessarie liberatorie. Secondo
i racconti delle infermiere, venne spiegato loro «verbalmente» che i
loro figli facevano parte di un programma pilota per un nuovo
farmaco.
Nel pieno della pandemia, i medici della Pfizer somministrarono il
Trovan a 100 bambini e un placebo ad altri 100. Dopo qualche tempo,
undici di loro morirono. Molti altri accusarono gravi postumi
cerebrali o motori. Difficile dire se il nuovo farmaco - o la
mancata somministrazione di un antibiotico di tipo classico - abbia
avuto un ruolo attivo. Ma sta di fatto che la Food and Drug
Administration (Fda), l'ente che dà il via libera per l'utilizzo dei
medicinali negli Stati uniti, consentì la somministrazione del
farmaco solo agli adulti, prima di restringerne pesantemente l'uso
nel 1999. In Europa il Trovan non è più stato autorizzato.
Dopo che la vicenda è venuta alla luce - grazie al valoroso lavoro
sul campo di un giornalista del Washington Post - il governo
federale ha deciso d'agire. Già lo stato di Kano aveva denunciato la
casa farmaceutica e chiesto un indennizzo di 2,6 miliardi di
dollari. La Pfizer ripete la sua linea: «Il governo nigeriano fu
informato; la sperimentazione è stata condotta in modo appropriato e
nell'interesse dei pazienti. Ha provveduto a salvare vite umane»
Nonostante le giustificazioni, oggi il governo federale vuole
passare all'incasso. Un'importante novità rispetto al passato,
quando lo stesso governo aveva provveduto a far insabbiare il
rapporto della commissione di esperti che aveva incaricato di
indagare sulla vicenda. Rapporto le cui conclusioni puntavano il
dito contro la Pfizer: gli esperti affermavano infatti che la casa
farmaceutica non aveva mai ottenuto l'autorizzazione di condurre le
sperimentazioni.
Oggi, quel rapporto potrebbe essere la prova centrale per la causa
miliardaria che il governo ha intentato contro la Pfizer. E il fatto
che il processo vada avanti - e non sia invece sepolto da una
montagna di bustarelle ben assestate - la prova che la nuova
amministrazione di Umaru Yar'Adua (appena insediatasi dopo elezioni
del tutto irregolari) è realmente interessata a voltare pagina.
Verso le spiagge
di Tripoli
Da Tripoli a a Gerusalemme, il
problema dei profughi palestinesi continua a esistere in tutta la
regione
Le battaglie sanguinose scoppiate
vicino al campo profughi di Nahr al-Bared, vicino Tripoli, in
Libano, ci ricordano che il problema dei profughi palestinesi non è
scomparso. Al contrario, 60 anni dopo la "nakba", la catastrofe
palestinese del 1948, è di nuovo al centro dell’attenzione del
mondo.
Questa è una ferita aperta. Chiunque pensi che una
risoluzione del conflitto arabo – israeliano sia possibile senza
risanare questa ferita si sta illudendo.
Da Tripoli a Sderot, da Riad a Gerusalemme, il problema dei profughi
palestinesi continua ad esistere in tutta la regione. Questa
settimana i media erano pieni di foto di profughi israeliani e
palestinesi che lasciavano le loro case e di madri che piangevano
per la morte dei loro cari in ebraico e arabo, come se nulla fosse
cambiato dal 1948. L’israeliano medio alza le spalle davanti alla
sofferenza dei profughi palestinesi e liquida la questione con poche
parole: “Lo hanno voluto loro”.
Professori e commercianti ripetono che i palestinesi sono causa
della loro stessa rovina quando, nel 1947, hanno bocciato il Piano
di Spartizione delle Nazioni Unite e hanno iniziato una guerra per
annientare la comunità ebraica nel paese. Che è un mito molto
radicato, uno dei miti alla base della coscienza israeliana. Ma è
molto lontano dalla realtà. Prima di tutto perchè all’epoca non
esisteva neanche una leadership palestinese che potesse prendere una
decisione.
Durante la rivolta araba dal 1935 al 1939 (“i guai” nel linguaggio
israeliano), il gran Muffi’, Hajj Amin al-Husseini, all’epoca capo
degli arabi palestinesi, fece uccidere tutti quei palestinesi che
non accettarono la sua autorità. Poi lui abbandonò il paese e i
restanti leader palestinesi furono esiliati in una isola remota dai
britannici. Quando venne il momento giusto e l’Onu adottò la
risoluzione della spartizione, non vi era alcun leader palestinese
capace di prendere una decisione. Al contrario, i leader delle
vicine nazioni arabe decisero di inviare i loro eserciti nel paese
una volta conclusosi il mandato britannico.
E’ vero, le masse palestinesi si opposero al piano di spartizione.
Credevano che tutti i territori palestinesi fossero di loro
proprietà e che gli ebrei, la cui maggiorparte era appena arrivata,
non avevano alcuni diritto su di essa. E ancora di più visto che il
piano dell’Onu diede agli ebrei, che all’epoca rappresentavano solo
un terzo della popolazione, il 55 percento del paese. Anche in
questo territorio, gli arabi costuivano il 40 percento degli
abitanti. (per correttezza, andrebbe menzionato che il territorio
assegnato agli ebrei comprendeva il Negev – un vasto deserto che era
già desolato all’ora ed è rimasto in gran parte così oggigiorno).
Dall'una e dall'altra parte. La cotroparte ebrea, invece,
accettò la decisione dell’Onu, ma solo in apparenza. Durante
incontri segreti, David Ben-Gurion non nascose mai le sue intenzioni
di cogliere la prima opportunità per estendere i territori assegnati
allo stato ebreo e di inserirvi una forte presenza ebrea. La guerra
del 1948, iniziata dal lato arabo, creo un’opportunità per
realizzare entrambi gli scopi: isrealele si estese dal 55 percento
al 78 percento del paese e da queste terre furono allontanati quasi
tutti gli abitanti arabi. Molti di loro fuggirono dall’orrore della
guerra, molti altri vi furono allontanati da noi. Non fu permesso
quasi a nessuno di ritornarvi dopo la guerra.
Nel corso della guerra, circa 750mila palestinesi divennero
profughi. Un aumento naturale raddoppia il loro numero ogni 18 anni,
quindi adesso sono circa 5 milioni.
Si tratta di una grande tragedia umana, una questione umanitaria e
un problema politico. Per lungo tempo, si è pensato che il problema
si sarebbe risolto da solo col passare del tempo, e invece si
ripresentato nuovamente. Molti partiti hanno sfruttato la situazione
a loro vantaggio. Vari regimi arabi hanno cercato di seguire questa
scia. Il destino dei rifugiati cambia da nazione a nazione. La
Giordania gli ha accordato la cittadinanza, pur avendo lasciato
molti di loro in campi miserabili. I libanesi non hanno dato alcun
diritto civile ai rifugiati ed hanno perpretrato vari massacri.
Quasi tutti i leader palestinesi chiedono l’attuazione della
risoluzione Onu 194 che è stata adottata 59 anni fa e che promise ai
rifugiati di poter fare ritorno alle loro case come cittadini
pacifici. Pochi notarono che il Diritto al Ritorno è servito ai
governi israeliani successivi come pretesto per rifiutare tutte le
iniziative di pace. Il ritorno di 5 milioni di rifugiati
significherebbe la fine di Isreale come stato con una solida
maggiornaza ebrea e la creazione di uno stato bi-nazionale, cosa che
scuoterebbe la decisa opposizione di un minimo di 99,99 percento del
pubblico israelo-ebraico.
Questo deve essere capito se si vuole comprendere il modo in cui gli
israeliani concepiscono la pace. Un israeliano medio, anche una
persona che desidera sinceramente la pace, dice a se stesso: gli
arabi non concederanno mai il Diritto al Ritorno, quindi non c’è
nessuna possibilità di pace e quindi non vale la pena iniziare a
fare niente.
L'arma dei rifugiati. Poi, paradossalmente, il problema dei
rifugiati è diventato uno strumento per quegli isreaeliani che
rifiutano la pace ottenuta con i compromessi. Loro si basano sul
fatto che nessun leader arabo concederebbe apertamente il Diritto al
Ritorno. Durante le conversazioni private, molti leader arabi hanno
riconosciuto che il ritono è impossibile, ma non hanno il coraggio
di dirlo apertamente. Ammetterlo sarebbe un suicidio politico -
cosi’ come lo sarebbe annunciare di accettare il ritorno dei
palesinesi lo sarebbe per i politici israeliani. Invece di questo,
dal lato arabo si è verificata un’ascesa sotterranea durante gli
ultimi anni.
Ci sono stati accenni al fatto che il probelama demografico di
israele non puo’ essere ignorato. Da varie parti sono state proposte
soluzioni creative. (una volta in un incontro pubblico di Gush
Shalom, un rappresentante palestinese disse:” oggi la minoranza
araba costituisce il 20 percento dei cittadini israeliani. Quindi
accordiamoci sul fatto che su 80 nuovi immigrati ebrei che entrano
nel paese, 20 rifugiati palestinesi avranno diritto al ritorno. In
questo modo, la porporzione attuale verrebbe rispettata”. Il
pubblico reagì entusiasticamente). Adesso si sta sviluppando un
cambiamento rivoluzionario. La Lega araba ha offerto a Israele un
piano di pace: tutti i 22 stati arabi riconoscerebbero Israele e
stabilirebbero delle relazioni diplomatiche e economiche con questo,
in cambio del ritiro di Israele dai territori occupati e la
creazione di uno stato palestinese. L’offerta non dimentica il
problema dei rifugiati. Menziona la risoluzione dell’Onu 194 ma
aggiunge una qualifica di fondamentale importanza: che la
risoluzione verrebbe raggiunta “per accordo” tra le due parti. In
altre parole: Israele avrebbe il diritto di veto sul ritorno dei
rifugiati nei territori israeliani.
Questo ha messo il governo israeliano in una posizione difficile. Se
l’opinione pubblica israeliana capisse che l’intero mondo arabo sta
offrendo un concordato di pace senza alcuna relazione con il diritto
al Ritorno, potrebbero accettare tranquillamente la situazione.
Perciò, è stato fatto di tutto per celare la parola decisiva. I
media israeliani guidati (o fuorvianti) hanno enfatizzato la
menzione del piano della risoluzione 194 e hanno evitato di parlare
della soluzione “concertata”.
Il governo ha trattato l’offerta araba con evidente sdegno ma,
nonostante questo, hanno cercato di trarvi vantaggio da esso. Ehud
Olmert ha dichiarato di essere pronto a parlare con la delegazione
araba – tenuto conto che non consiste soltanto nell’Egitto e la
Giordania. In questo modo, Olmert e Tzipi Livni sperano di ottenere
un importante risultato politico, senza pagare per averlo:
costringere l’Arabia Saudita e altri stati ad avere relazioni con
Israele. Visto che non ci sono “sconti”, gli arabi hanno rifiutato.
Dopo tutto ciò, non si è arrivati a niente.
Tempi difficili. Se qualcuno avesse offerto a Israele questo
piano di pace della Lega araba il 4 giugno 1967, un giorno prima
della Guerra dei Sei Giorni, avremmo pensato che fosse giunto il
Messia. Adesso, per il nostro governo questa offerta non è altro che
una mossa astuta: gli arabi sono pronti a rinunciare al ritorno dei
rifugiati, ma ci vogliono obbligare a lasciare i territori occupati
e a smantellare gli insediamenti.
Da una prospettiva storica, la Lega Araba sta rimediando ad un
errore commesso 40 anni fa, che ha delle conseguenze di vasta
portata. Poco dopo la Guerra dei Sei Giorni, il primo settembre
1967, i capi degli stati arabi si sono riuniti a Khartoum e hanno
deliberato i “Tre No” – no alla pace con Israele – no al
riconoscimento di Isralele – no ai negoziati con Israele. Si può
capire il perchè sia stata adottata una risoluzione così fuorviante.
I paesi arabi avevano da poco subito una umiliante sconfitta
militare. Essi volevano provare ai loro popoli che non erano stati
messi in ginocchio. Volevano mantenere la loro dignità nazionale. Ma
per il governo di Israele, questo era un dono caduto dal cielo. La
negoziazione li svincolava da ogni tipo di negoziato che li avrebbe
potuti obbligare a restituire i territori appena conquistati. Diede
il via libera all’inizio degli insediamenti, una operazione che
continua indisturbata ancora oggi, rubando la terra da sotto ai
piedi dei palestinesi. E ovviamente spazza via il problema dei
rifugiati. La nuova proposta della Lega Araba potrebbe riparare al
danno fatto alla causa palestinese a Khartoum. Oggi, l’intero mondo
arabo ha adottato una risoluzione realistica. Da questo momento in
poi, il compito è quello di far comprendere fino in fondo
all’opinione pubblica il vero significato di questa proposta e
specialmente per quanto riguarda il ritorno dei rifugiati. Questo
compito dipende dalla capacità delle forze di pace israeliane, ma
anche dalla leadership araba. Per raggiungere questo obiettivo, il
problema dei rifugiati deve essere trasferito dal regno del
possibile alla realtà. Deve sottoporsi a un processo di
demistificazione.
Soluzione difficile, ma necessaria. Attualmente, un
israeliano vede solo un incubo: cinque milioni di rifugiati che
aspettano di invadere Israele. Chiederanno di fare ritorno nelle
loro terre, dove adesso si trovano i villaggi e le città israeliane
e alle loro case, che sono state demolite molto tempo fa o in cui
adesso vivono degli israeliani. Israele, come entità a vasta
maggioranza ebrea non esisterà più. Questa paura va neutralizzata e
questa ferita deve essere risanata. Sul piano psicologico, dobbiamo
riconoscere la nostra responsabilità di parte del problema che di
fatto è stato creato da noi. Un “Comitato per la Verità e la
Conciliazione” potrebbe, forse, determinare le dimensioni di questa
parte. Per questa, noi dovremmo chiedere scusa, così come hanno
fatto altre nazioni per le ingiustizie commesse da loro. Sul piano
pratico, il problema vero di 5 milioni di essere umani deve essere
risolto. Tutti loro hanno il diritto ad un generoso risarcimento,
che possa permettere loro di iniziare una nuova vita, nel modo in
cui vogliono. Coloro che vogliono rimanere dove si trovano, col
consenso del governo locale, potrebbero avere la possibilità di
ricostruire la vita delle loro famiglie. Coloro che vogliono vivere
nel futuro stato di Palestina, magari nelle area sgomberate dagli
insediamenti, devono ricevere l’assistenza internazionale
necessaria. Io, personalmente, credo che sarebbe buono per noi
ricevere un certo numero concordato di rifugiati in Israele, come
contributo simbolico alla fine della tragedia.
Questo non è né un sogno né un incubo. Abbiamo già gestito compiti
ben più difficili. Sarebbe molto più facile e conveniente che
continuare una guerra senza nessuna soluzione militare ne fine.
Sessanta anni fa, è stata aperta una ferita profonda. Da allora non
è più guarita. Infetta la nostra vita e mette a rischio il nostro
futuro. Eè da molto che andrebbe guarita. Quella è la lezione di
Tripoli nel nord e di Sderot nel sud.
Uri Avnery
Senza nome
l'assassino del «banchiere di Dio»
Tutti assolti al processo per
l'assassinio di Roberto Calvi, avvenuto 25 anni fa a Londra. Le
prove non sono state ritenute sufficienti dai giudici romani
G. Ra.
il 18 giugno sarà trascorso un quarto
di secolo dall'omicidio di Roberto Calvi, il banchiere, sotto il
ponte dei Frati neri a Londra.Una decina di giorni prima, ieri, la
Corte d'assise di Roma ha infine stabilito che Calvi fu impiccato.
Delitto quindi, anche se non è noto chi lo abbia fatto, né per conto
di chi: le cinque persone accusate, sono infatti state assolte con
una formula dubitativa, tranne Manuela Kleinsig che ha ottenuto
l'assoluzione con formula piena. Del resto anche per il pubblico
ministero Luca Tescaroli, Kleinsig doveva essere assolta. Aveva
semplicemente accompagnato la bella comitiva nella gita londinese.
Degli altri quattro imputati, l'unico presente in aula era Ernesto
Diotallevi, un esponente della banda della Magliana, una gloria
cittadina, insomma, che ha dato in aula una rumorosa dimostrazione
di felicità. Degli altri, Pippo Calò ascoltava in videocoferenza dal
carcere di Ascoli Piceno, mentre Flavio Carboni e Silvano Vittor
erano altrove. Carboni e Vittor avevano scortato il banchiere a
Londra, facendogli attraversare le frontiere di nascosto,
promettendogli un luogo sicuro nel quale guadagnare tempo e uscire
dai guai italiani.
Le cose andarono diversamente e Calvi, con la forza o con l'inganno,
fu preso dai suoi carnefici, per ora rimasti ignoti.
E non poteva che finire così. Nel tentativo di tirare tutti i fili,
il pubblico ministero ha portato a testimoniare un altissimo numero
di persone che in definitiva non avevano niente da dire sul
processo, ma servivano a confonderne i piani. Calvi era al centro di
molti intrighi; il suo operare danneggiava molti interessi, spesso
poco raccomandabili. La sua morte venne messa in conto alla mafia,
come alla camorra, alla banda della Magliana, come alla P2, ai
servizi segreti inglesi, come a qualche braccio armato del Vaticano
e dello Ior (Istituto per le opere di religione) che della Banca di
Calvi era stretto associato.
Tutte ipotesi suggestive ma tutte confliggenti tra loro. Si sarebbe
detto che l'accusa, nel corso di un anno e mezzo di udienze,
proponesse al tribunale differenti trafile delittuose, senza
privilegiarne alcuna, anzi chiedendo ai giudici di sceglierne una,
la più inattaccabile. Così ogni testimone oltre che suffragare una
tesi e proporre una ricostruzione, serviva anche a elidere la tesi
diversa. A furia di testimoni e di elisioni successive, una corte
scrupolosa non poteva fare altro che assolvere tutti; o meglio non
condannare nessuno.
«La disperazione - ci ha detto Roberta Petrelluzzi che per la Rai ha
seguito il processo - è che i misteri d'Italia rimangano sempre
misteri». Se almeno Carboni, che probabilmente sa più di quello che
dice, avendo accompagnato Calvi a Londra, lasciasse scritto da un
notaio quello che sa, tra qualche decina di anni gli storici
potrebbero lavorare con un materiale sicuro... Oppure, quando il
servizio segreto inglese depositerà, tra una cinquantina d'anni, le
sue informazioni sulla guerra delle Falkland...Oppure se il Vaticano
aprirà mai i suoi archivi.... Oppure...
il commento
Otto grandi che
non hanno nulla da dire
Anna Maria Merlo
Quando qualcuno oserà dire ad alta
voce che il G8 non serve a nulla? Che è un retaggio di un'epoca
passata, che non ha più nessun senso nella mondializzazione di oggi?
All'inizio non era stata una cattiva idea: di fronte agli scossoni
all'economia mondiale determinati dallo sganciamento del dollaro
dall'oro, il presidente francese Valéry Giscard d'Estaing e il
cancelliere tedesco Helmut Schmidt avevano pensato, nel '74, di
inventare un incontro informale, «attorno al caminetto» (la
paternità del concetto è di Roosevelt), tra i grandi della terra per
discutere senza formalità di questioni monetarie. Venne creata una
struttura leggera, senza segretariato. All'inizio, i capi di stato e
di governo - prima di 5 paesi (Francia, Germania, Gran Bretagna,
Giappone e Usa) poi, dall'anno dopo, di 7 (Italia e Canada) -
andavano agli incontri quasi da soli, accompagnati al massimo da due
consiglieri. Poi sono arrivati gli anni '80 e il G7 si è
trasformato, poco per volta, in un circo mediatico vuotato della
sostanza politica. Non ci sono più scambi informali, se non nei
bilaterali, ma documenti ponderati da un lungo lavoro degli sherpa.
Al G7, ora G8 da quando è stata fatta entrare la Russia, non si
parla più soltanto di questioni monetarie. Poco per volta, l'agenda
si è riempita degli argomenti più svariati. Quest'anno c'è il
riscaldamento climatico. A Heiligendamm le delegazioni contano,
complessivamente, più di 2mila persone. Centinaia di giornalisti
seguono ormai questi vertici. L'apogeo è stato negli anni '80-'90,
quando il G7 era diventato anche un appuntamento mondano : le
«signore» (con l'eccezione del signor Thatcher) avevano dei
programmi ad hoc, nelle sale stampa circolavano i menu delle cene
succolente servite ai «grandi». Oggi, di fronte alla drammaticità
della situazione mondiale, questo folklore è stato messo un po' in
sordina. Ma i costi dei G8 sono esplosi, a causa della sicurezza: i
«grandi» ora si nascondono, si fanno proteggere da eserciti di
poliziotti, mentre ancora ai tempi di Mitterrand e di Kohl si
permettevano delle passeggiate tra la gente.
A metà degli anni '70 i «cinque grandi» (poi sette) avevano ancora
un senso, erano le più grandi economie mondiali, che sommate
condizionavano l'andamento di quella mondiale. Ma oggi non è più
così. Certo, i paesi del G8 sono ancora potenti e importanti:
rappresentano il 63% del prodotto interno lordo mondiale (quasi la
metà dovuto al pil degli Usa), ma soltanto il 50% del commercio
mondiale. Al G8 vengono invitate le potenze emergenti (accanto ai
poverissimi), ma né la Cina né l'India fanno parte integrante del
gruppo. Tutta l'America latina ne è esclusa, per non parlare
dell'Africa.
Al G8 vengono discussi i problemi più svariati e fatte molte
promesse al resto del mondo. Ma dove sono finiti i soldi destinati
ai paesi più poveri del mondo a Gleneagles e, prima ancora, a Genova
per la lotta all'aids?

4 giugno
Mondo intero - 01.6.2007
|
Cessate il fuoco
|
Il bollettino settimanale delle guerre
e dei conflitti in corso n.22 - 2007 dal 24 al 31/5
|
Questa settimana, in tutti i paesi ancora in guerra, sono morte
almeno 1070 persone
Iraq
Questa settimana sono morte almeno
717 persone (680
iracheni e 37
militari della Coalizione).
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno
14.009
Afghanistan
Questa settimana sono morte almeno
91 persone (49
civili, 16 talebani o presunti tali, 15 militari afgani e 11 soldati
della Nato).
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno
2.243 (468
civili, 1.376 talebani o presunti tali, 319 militari afgani,
75 soldati della
Nato).
Israele e Palestina
Questa settimana sono morti
14 palestinesi
nei raid dell'aviazione israeliana sulla Striscia di Gaza.
2
israeliani sono morti a causa dei razzi palestinesi caduti su
Sderot.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno
160.
Colombia
Questa settimana sono morte almeno
11 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno
198.
Cecenia (Russia)
Questa settimana sono morte almeno
12 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno
359.
Filippine-Npa
Questa settimana sono morte almeno
4 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno
90.
Thailandia del Sud
Questa settimana sono morte almeno
7 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno
192.
Sri Lanka
Questa settimana sono morte almeno
67 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno
1.262.
India Nordest
Questa settimana sono morte almeno
37 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno
453.
India Naxaliti
Questa settimana sono morte almeno
28 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno
250.
India Kashmir
Questa settimana sono morte almeno
11 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno
283.
Pakistan aree tribali
Questa settimana sono morte almeno
6 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno
817.
Pakistan Balucistan
Questa settimana sono morte almeno
6 persone
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno
74.
Bangladesh Comunisti
Questa settimana sono morte almeno
2 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno
57.
Somalia
Questa settimana sono morte almeno
8 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno
1.516.
Rep. Dem. Congo
Questa settimana sono morte
29 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno
498.
Etiopia
Questa settimana sono morte almeno
11 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno
331.
Sudan
Questa settimana sono morte almeno
10 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno
331.
Turchia
Questa settimana sono morte almeno
10 guerriglieri
curdi e 6
militari turchi.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno
58.
|
|
Ecco i padrini dei
rifiuti
Gli interessi del nord, quelli della
camorra, le collusioni di destra e sinistra: l'emergenza rifiuti in
Campania è oro. Che diventa veleno per tutta la Campania. La verità
nell'inchiesta dell'autore di Gomorra. In edicola da venerdì
"Quand'è nato Francesco sembrava andasse tutto bene. Dalle mani
dell'ostetrica però viene direttamente portato in incubatrice. La
madre l'ha intravisto appena. Al bimbo manca un rene, i ventricoli
del cuore hanno disfunzioni gravi, l'ano è imperforato. Ma se lo
guardi, il piccolo però sembra perfetto, sgambetta, ha un viso
sereno. Il primario del reparto incontra il padre: "Questa settimana
è già il terzo bambino nato con molteplici malformazioni",
dichiara, quasi che il dato elevato avesse portato queste nascite ad
apparire ordinarie, casi che quindi non stupiscono e non spaventano
i medici. Ai genitori bisogna dare una spiegazione che non li faccia
sentire in colpa per i problemi del loro figlio e il motivo che si
concede è "ammettere che anche la malformazione è una normalità.
Senza troppe tragedie".
Ad ascoltare queste parole bisogna respirare a lungo per mantenere
la calma, non aver voglia di spaccare a pugni le vetrate
dell'ospedale. Perché questa normalità è una normalità di
queste terre. Gli ultimi dati pubblicati
dall'Organizzazione mondiale della sanità riguardo la Campania sono
incredibili, parlano di un aumento vertiginoso delle patologie di
cancro. Pancreas, polmoni, dotti biliari più del 12 per cento
rispetto alla media nazionale. E le donne le più colpite. V'è un
dato, però, uno in particolare, che lascia la bocca senza saliva.
L'80 per cento delle malformazioni fetali in più rispetto alla media
nazionale".
Comincia così l'inchiesta di Roberto Saviano,
pubblicata sul numero de L'espresso in edicola da venerdì 1
giugno. Una denuncia contro tutti i padrini dei
rifiuti: contro quelli della camorra; contro gli imprenditori del
Nord che hanno sfruttato le occasioni di risparmio offerte dalla
criminalità per smaltire al Sud le scorie tossiche; contro quelli
della politica incapaci di risolvere il problema e spesso collusi
con boss e aziende senza scrupoli.
Scrive Saviano: "Ne hanno ricavato vantaggio le maggiori
imprese italiane, negli ultimi trent'anni le discariche
campane sono state riempite, le cave rese satolle, ogni possibile
spazio utilizzato, la spazzatura di Napoli, non è la spazzatura di
Napoli. Le discariche campane non sono state intasate solo dai
rifiuti solidi urbani campani, ma sono state occupate, invase,
colmate dai rifiuti speciali e ordinari di tutto il Paese, dislocati
dalle rotte gestite dei clan. La spazzatura napoletana appartiene
all'intero Paese nella misura in cui per più di trent'anni rifiuti
di ogni tipo - tossici, ospedalieri, persino le ossa dei morti delle
terre cimiteriali - sono stati smaltiti in Campania e più
allargatamene nel Mezzogiorno.
L'operazione Houdini del 2004 ha dimostrato che il costo di mercato
per smaltire correttamente i rifiuti tossici imponeva prezzi che
andavano dai 21 centesimi a 62 centesimi al chilo. I clan fornivano
lo stesso servizio a 9 o 10 centesimi al chilo. I clan di camorra
sono riusciti a garantire che 800 tonnellate di terre contaminate da
idrocarburi, proprietà di un'azienda chimica, fossero trattate al
prezzo di 25 centesimi al chilo, trasporto compreso: un risparmio
dell'80 per cento. Se i rifiuti illegali gestiti dai clan fossero
accorpati diverrebbero una montagna di 14.600 metri con una base di
3 ettari. Questa montagna di rifiuti sarebbe la più
grande montagna esistente non solo in Italia, ma sulla Terra. I
traffici di rifiuti tossici hanno visto il sud Italia essere il vero
luogo dove far ammortizzare i prezzi elevati dello smaltimento. La
camorra ha fatto risparmiare capitali astronomici alle imprese del
nord Italia".
Saviano descrive anche come gli imprenditori oggetto di inchieste
per le collusioni con la camorra cercano nuovi referenti politici
nel centrosinistra: "C'è un momento però in cuigli affari
cambiano vento. I riferimenti politici, istituzionali,
devono repentinamente cambiare, conviene che cambino. Mai per
ideologia, che è il miglior modo per essere affaristi scadenti. Ma
per fare affari migliori. Joe Marrazzo fa dire a Raffaele Cutolo "la
politica è l'arte di fottere chi sta con te per ideologia e tu lo
fai per affari".
Negli anni 2000 si nota un cambiamento nelle dialettiche dei
rifiuti quando passano dall'area del centrodestra al
centrosinistra importanti imprenditori di Casal di Principe. I
fratelli Sergio e Michele Orsi e Nicola Ferraro. I primi passano dal
centrodestra ai Ds; il secondo, nipote di Pietropaolo Ferraiuolo,
vicepresidente del consiglio regionale di Forza Italia, diviene
l'unico consigliere regionale Udeur eletto nel collegio della
provincia di Caserta con oltre 13 mila voti. Una coraggiosa e
approfondita inchiesta dei pm antimafia Raffaele Cantone e
Alessandro Milita ha portato alla luce i meccanismi inquietanti con
cui i fratelli Orsi facevano affari. Ciò che l'indagine dimostra è
il meccanismo criminogeno attraverso cui si fondono tre poteri:
politico, imprenditoriale e camorristico, uniti in confini
impercettibili nel sistema dei consorzi".
"I fratelli Orsi si iscrivono alla sezione dei Ds, avvicinano la
Margherita e addirittura cercano di accreditarsi con Rifondazione
comunista: arrivarono persino alla segreteria nazionale di Rc,
offrendosi come finanziatori di iniziative di partito e disponibili
a sostenere campagne elettorali. A fermarli fu Francesco Forgione
che comprese subito il loro intento, l'obiettivo di distogliere
l'attenzione e di accreditarsi con una parte politica antimafia.
Uomini di destra passano a sinistra, si avvicinano a quanto di più
lontano ci sia dagli affari. Non c'è ideologia, l'affare è
affare e il potere e il danaro vanno da chiunque in ogni momento".
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