27 aprile

Sommersi dai veleni radioattivi

di Primo Di Nicola

4.300 milioni è il costo per ripulire il Paese dai 25 mila metri cubi di scorie e mettere a sicurezza i 24 impianti nucleari. Ma dal 1999 a oggi non si è fatto nulla. Tra sprechi e incidenti. Per provarlo L'espresso è entrato nel Centro ricerche nucleare Enea della Casaccia e ha visitato i siti più pericolosi della centrale del Garigliano.

Il centro di Roma è a soli 20 chilometri. E intorno all'area dell'Enea sono ormai sorte borgate con 30 mila persone. Eppure è lì che parte dell'eredità nucleare italiana dorme sonni lunghi e tormentati: oltre 4.500 metri cubi di scorie, frutto degli esperimenti dell'atomica tricolore e delle terapie del sistema sanitario, chiusi in depositi che registrano più di una crepa. L'ultimo allarme è scattato a ottobre: un banale malfunzionamento del sistema di sicurezza ha fatto sfiorare la minaccia radioattiva. Altri pericoli si corrono ogni giorno nelle vecchie centrali del Garigliano o di Latina, nei depositi di Saluggia o Rotondella: lì dove l'Italia ha cercato di nascondere i suoi 25 mila metri cubi di rifiuti ricevuti in testamento dalla politica nucleare degli anni Sessanta e Settanta. Finora sono stati spesi oltre 15 mila miliardi di vecchie lire per fermare le centrali, poi dal 1999 a oggi è stato messo sul tavolo un miliardo di euro per bonificare i residui. Ma la sicurezza è lontana. E per fare pulizia si stima che ci vorranno altri 4.300 milioni di euro. Quando sarà possibile dichiararci 'No nuke' una volta per tutte? Non prima del 2024. Fino ad allora il pericolo resterà alle porte di casa.

Come al Centro ricerche Casaccia dell'Enea, XX municipio di Roma. Qui, nel punto più delicato del complesso, nei locali dove sono custodite apparecchiature contaminate, rifiuti nucleari e importanti quantitativi di uranio e plutonio, da mesi è fuori uso l'impianto antincendio. Il 30 ottobre proprio a causa del malfunzionamento dell'apparato, una quarantina di bombole hanno scaricato anidride carbonica dentro l'impianto Plutonio: un getto simultaneo che ha provocato un enorme aumento di pressione. Sono saltate un paio di porte di sicurezza, ma poteva andare molto peggio se uno delle decine di contenitori di materiali radioattivi avesse registrato una perdita. Si tratta di plutonio: un'emissione all'esterno avrebbe fatto scattare l'emergenza anche per la popolazione circostante. Per evitare che un incidente simile si ripeta, l'impianto antincendio è stato bloccato. Era sovradimensionato: per spegnere le fiamme rischiava di fare esplodere il palazzo.

Grandi timori anche in Campania per un impianto obsoleto con strutture fuori norma che rischiano di cedere, provocando danni irreparabili. Capita a Sessa Aurunca, nella centrale nucleare del Garigliano, ferma da 27 anni. Sopra il reattore continua a stagliarsi minaccioso il camino alto 90 metri. Costruito in calcestruzzo, mostra tutti i segni dell'abbandono: l'intonaco si sgretola, l'armatura metallica spunta dal cemento come uno scheletro sempre più corroso. È in una zona sismica ad alto rischio: per questo l'Agenzia per la protezione dell'ambiente (Apat), che insieme a vari ministeri gestisce il 'decommissioning' nucleare, da anni ha chiesto il suo smantellamento. L'incubo è che il camino ceda, schiantandosi sulla sfera bianca che custodisce il reattore. Una scena da film catastrofico anni Settanta? No, si tratta di pericoli concreti, anche se nessuno può prevedere le conseguenze della fuga radioattiva.

Scandalo atomico

Vent'anni dopo il referendum con cui gli italiani dissero no al nucleare, terrorizzati dalla nuvola di Chernobyl, l'eredità atomica resta pesante. Con una serie di casi inquietanti che 'L'espresso' ha potuto documentare per la prima volta entrando nel centro della Casaccia e nell'impianto del Garigliano.

Nella base della Casaccia ormai inglobata dalle borgate romane si vive un'atmosfera particolare. Pare di inoltrarsi dentro una matrioska di cemento armato, dove la protezione aumenta mentre si avanza verso l'interno. Nel cuore c'è il magazzino con le cassette di plutonio. Una selva di telecamere seguono ogni passo del visitatore, tutto è custodito da una doppia blindatura, che non lascia filtrare nemmeno i rumori. Ma colpisce ancora di più la sala delle 'scatole a guanti', con i macchinari che servivano per confezionare il combustibile nucleare. Si cammina tra file di cubi trasparenti, illuminati all'interno: l'atmosfera ha qualcosa di spettrale a metà strada tra una fiction di fantascienza e un racconto horror. Qui il pericolo è ancora di casa: sette operai sono rimasti contaminati dalle perdite. I tecnici negano persino che ci sia stata una crepa: parlano di sostanze 'trasudate'. Ma si capisce che la presenza dei giornalisti è un evento eccezionale, da tenere sotto controllo quasi più dei rifiuti tossici. Invece sul Garigliano c'è un clima da fortezza Bastiani: è l'ultimo presidio di un passato tecnologico. Il personale sa di rischiare, ma lo smantellamento significherebbe la disoccupazione: ogni anno lo Stato spende dieci milioni di euro per la manutenzione di questo gigante abbandonato. Dentro la vecchia centrale il tempo si è fermato al 23 novembre 1980, quando il terremoto in Irpinia fece scoprire che quella era una zona sismica. Tutto congelato, prima di Chernobyl e prima ancora del referendum. È quasi un museo di archeologia industriale, dove i fantasmi sono in grado di provocare contaminazioni concrete. La centrale del Garigliano aveva un gemello dall'altro lato dell'Atlantico, costruito negli stessi anni a Big Rock Point negli Usa. Gli americani l'hanno sfruttata fino al '97 e poi hanno spento il reattore. Con 350 milioni di dollari è stato smontato e ripulito tutto: l'area trasformata in 'prato verde' è stata consegnata nel 2005 allo stato del Michigan per farne un parco. Sul Garigliano invece ogni cosa è illuminata dalla paura.

L'onda letale

In tutta Italia centrali e apparati sono ancora lì con tutto il loro armamentario radioattivo e la coda sterminata dei rifiuti nucleari per i quali non si riesce a trovare una collocazione definitiva. Basta andare a Saluggia, in provincia di Vercelli, per imbattersi in una piscina con combustibile irradiato che perde liquidi: colano nel terreno in profondità, minacciando le falde acquifere. Accade nel sito Eurex (Enriched uranium extraction) dove in una vasca di 625 metri cubi sono sepolti 52 elementi di combustibile nucleare provenienti dalla centrale di Trino e da quella del Garigliano. C'è persino una dose di scorie importate dal reattore di ricerca di Petten (Paesi Bassi). I cittadini di Saluggia da tempo chiedono di portare via tutto: l'impianto Eurex si trova a pochi metri dagli argini della Dora Baltea, dove le alluvioni sono frequenti e toccano anche la bara dei rifiuti più tossici. L'ultima volta è accaduto nel 2000: da allora è stato tirato su un muro in cemento, estrema barriera contro la piena. Ma il rischio idrogeologico incombe lo stesso, così come il timore dei residenti. Gli esperti dei ministeri (Sviluppo economico, Ambiente) studiano da tempo una soluzione del problema con i responsabili dell'Apat. Due decenni di progetti, piani e controrelazioni, ma poco si è mosso. "Abbiamo speso tantissimi soldi senza eliminare i pericoli", dichiara Aleandro Longhi, il deputato che invoca una commissione parlamentare d'inchiesta sui ritardi nella bonifica: "L'Italia è diventata una pattumiera nucleare, uno dei paesi più a rischio di incidenti e inquinamenti radioattivi".

Bolletta salata

Eppure per l'uscita dal nucleare gli italiani stanno pagando un conto salatissimo. Tra quello che è andato all'Enel (12 mila 315 miliardi di lire) e gli oneri riconosciuti alle imprese appaltatrici vittime dello stop referendario (altri 3 mila miliardi di lire) sono stati bruciati 15 mila miliardi di lire. Poi ci sono i costi veri e propri del 'decommissioning' nucleare. È dagli inizi degli anni Sessanta, quando le centrali erano ancora in costruzione, che i contribuenti versano denaro per il loro smantellamento. Compresa nella bolletta dell'Enel, c'è sempre stata una 'quota atomica': serviva per creare due fondi per la dismissione. Questi due ricchi conti, che nel frattempo avevano raccolto oltre 331 milioni di euro, nel novembre del 1999, sotto la supervisione dell'Autorità per l'energia, sono stati riversati nelle casse della Società per la gestione degli impianti nucleari (Sogin), che si occupa del decommissioning. E non basta. A partire dal 2000, sempre nella bolletta, con la cosiddetta 'tariffa A2' gli utenti hanno continuato a finanziare il 'decommissioning' pagando (con vari ritocchi successivi) 0,6 lire a chilowattora. In questo modo, fino al 2006, sono stati raccolti altri 622 milioni di euro, anch'essi finiti alla Sogin. In totale, quasi un miliardo di euro. Ma è solo un antipasto. La pulizia definitiva richiederà altri 4,3 miliardi, da sborsare entro il 2024. Il centro di Roma è a soli 20 chilometri. E intorno all'area dell'Enea sono ormai sorte borgate con 30 mila persone. Eppure è lì che parte dell'eredità nucleare italiana dorme sonni lunghi e tormentati: oltre 4.500 metri cubi di scorie, frutto degli esperimenti dell'atomica tricolore e delle terapie del sistema sanitario, chiusi in depositi che registrano più di una crepa. L'ultimo allarme è scattato a ottobre: un banale malfunzionamento del sistema di sicurezza ha fatto sfiorare la minaccia radioattiva. Altri pericoli si corrono ogni giorno nelle vecchie centrali del Garigliano o di Latina, nei depositi di Saluggia o Rotondella: lì dove l'Italia ha cercato di nascondere i suoi 25 mila metri cubi di rifiuti ricevuti in testamento dalla politica nucleare degli anni Sessanta e Settanta. Finora sono stati spesi oltre 15 mila miliardi di vecchie lire per fermare le centrali, poi dal 1999 a oggi è stato messo sul tavolo un miliardo di euro per bonificare i residui. Ma la sicurezza è lontana. E per fare pulizia si stima che ci vorranno altri 4.300 milioni di euro. Quando sarà possibile dichiararci 'No nuke' una volta per tutte? Non prima del 2024. Fino ad allora il pericolo resterà alle porte di casa.

Come al Centro ricerche Casaccia dell'Enea, XX municipio di Roma. Qui, nel punto più delicato del complesso, nei locali dove sono custodite apparecchiature contaminate, rifiuti nucleari e importanti quantitativi di uranio e plutonio, da mesi è fuori uso l'impianto antincendio. Il 30 ottobre proprio a causa del malfunzionamento dell'apparato, una quarantina di bombole hanno scaricato anidride carbonica dentro l'impianto Plutonio: un getto simultaneo che ha provocato un enorme aumento di pressione. Sono saltate un paio di porte di sicurezza, ma poteva andare molto peggio se uno delle decine di contenitori di materiali radioattivi avesse registrato una perdita. Si tratta di plutonio: un'emissione all'esterno avrebbe fatto scattare l'emergenza anche per la popolazione circostante. Per evitare che un incidente simile si ripeta, l'impianto antincendio è stato bloccato. Era sovradimensionato: per spegnere le fiamme rischiava di fare esplodere il palazzo.

Grandi timori anche in Campania per un impianto obsoleto con strutture fuori norma che rischiano di cedere, provocando danni irreparabili. Capita a Sessa Aurunca, nella centrale nucleare del Garigliano, ferma da 27 anni. Sopra il reattore continua a stagliarsi minaccioso il camino alto 90 metri. Costruito in calcestruzzo, mostra tutti i segni dell'abbandono: l'intonaco si sgretola, l'armatura metallica spunta dal cemento come uno scheletro sempre più corroso. È in una zona sismica ad alto rischio: per questo l'Agenzia per la protezione dell'ambiente (Apat), che insieme a vari ministeri gestisce il 'decommissioning' nucleare, da anni ha chiesto il suo smantellamento. L'incubo è che il camino ceda, schiantandosi sulla sfera bianca che custodisce il reattore. Una scena da film catastrofico anni Settanta? No, si tratta di pericoli concreti, anche se nessuno può prevedere le conseguenze della fuga radioattiva.

Scandalo atomico

Vent'anni dopo il referendum con cui gli italiani dissero no al nucleare, terrorizzati dalla nuvola di Chernobyl, l'eredità atomica resta pesante. Con una serie di casi inquietanti che 'L'espresso' ha potuto documentare per la prima volta entrando nel centro della Casaccia e nell'impianto del Garigliano.

Nella base della Casaccia ormai inglobata dalle borgate romane si vive un'atmosfera particolare. Pare di inoltrarsi dentro una matrioska di cemento armato, dove la protezione aumenta mentre si avanza verso l'interno. Nel cuore c'è il magazzino con le cassette di plutonio. Una selva di telecamere seguono ogni passo del visitatore, tutto è custodito da una doppia blindatura, che non lascia filtrare nemmeno i rumori. Ma colpisce ancora di più la sala delle 'scatole a guanti', con i macchinari che servivano per confezionare il combustibile nucleare. Si cammina tra file di cubi trasparenti, illuminati all'interno: l'atmosfera ha qualcosa di spettrale a metà strada tra una fiction di fantascienza e un racconto horror. Qui il pericolo è ancora di casa: sette operai sono rimasti contaminati dalle perdite. I tecnici negano persino che ci sia stata una crepa: parlano di sostanze 'trasudate'. Ma si capisce che la presenza dei giornalisti è un evento eccezionale, da tenere sotto controllo quasi più dei rifiuti tossici. Invece sul Garigliano c'è un clima da fortezza Bastiani: è l'ultimo presidio di un passato tecnologico. Il personale sa di rischiare, ma lo smantellamento significherebbe la disoccupazione: ogni anno lo Stato spende dieci milioni di euro per la manutenzione di questo gigante abbandonato. Dentro la vecchia centrale il tempo si è fermato al 23 novembre 1980, quando il terremoto in Irpinia fece scoprire che quella era una zona sismica. Tutto congelato, prima di Chernobyl e prima ancora del referendum. È quasi un museo di archeologia industriale, dove i fantasmi sono in grado di provocare contaminazioni concrete. La centrale del Garigliano aveva un gemello dall'altro lato dell'Atlantico, costruito negli stessi anni a Big Rock Point negli Usa. Gli americani l'hanno sfruttata fino al '97 e poi hanno spento il reattore. Con 350 milioni di dollari è stato smontato e ripulito tutto: l'area trasformata in 'prato verde' è stata consegnata nel 2005 allo stato del Michigan per farne un parco. Sul Garigliano invece ogni cosa è illuminata dalla paura.

Avanti piano

Per quanto riguarda le centrali si sono qua e là smantellate sale turbine (a Trino), rimosso amianto (a Caorso), decontaminati i circuiti e smontate le condotte (Latina). Il grosso è rimasto invece in piedi. Ogni anno 50 milioni vengono divorati dalla Sogin per la manutenzione di questi mostri addormentati. Soldi che si potevano risparmiare intervenendo prima. Perché tanti ritardi? Tra ministeri, Apat e Sogin è tutto un palleggio di responsabilità: colpa degli uffici incapaci di autorizzare i progetti. No, replicano gli altri: quei disegni sono inadeguati. Sembra incredibile, ma nonostante siano stati presentati quasi dieci anni fa i piani globali per la disattivazione di tutte le centrali, le pratiche continuano a rimbalzare da una scrivania all'altra senza arrivare a una decisione. Analoga sorte per i Via, gli studi di valutazione per l'impatto ambientale. Dipenderà magari dal fatto che le pratiche sono troppo complicate? No: i permessi tardano anche per le richieste più elementari, come la realizzazione del deposito provvisorio per i rifiuti ora stoccati in locali inadatti (Latina) o il nuovo settore serbatoi dove collocare i rifiuti liquidi a più alta attività e ancora esposti al rischio attentati (Saluggia). E il deposito nazionale? Buio pesto anche su questo fronte. Dopo l'affaire Scanzano e la rivolta della Basilicata, nel 2003 Berlusconi aveva varato una commissione di 19 esperti per individuare un nuovo sito definitivo: non si sono mai riuniti una sola volta.

Poi c'è il delicato capitolo degli enti locali: a sentire la Sogin in questi anni hanno fatto a gara per complicare gli iter burocratici, mettendo ogni ostacolo alla bonifica. Sfiora il ridicolo la vicenda delle licenze negate dal comune di Sessa Aurunca per la centrale del Garigliano. Ci sono i rifiuti nucleari chiusi in modo precario dentro una struttura dichiarata 'pericolosa per rischio sismico'. E c'è una trincea a pochi metri dal fiume dove sono sepolte buste di plastica zeppe di scorie, inumate negli anni Settanta. Una situazione di doppio pericolo, che l'Apat ha tentato di risolvere: ordine di disseppellire i rifiuti contaminati e spostarli in un magazzino da costruire secondo i criteri di sicurezza. Facile? No, perchè per il magazzino ci vogliono le licenze edilizie. E gli amministratori comunali non si fidano: la popolazione teme che una volta assemblato il bunker, vi siano trasferiti detriti tossici da altre regioni. Quindi il municipio ferma i lavori con un pretesto: "Quella per noi è rimasta una zona agricola e l'edificio per il deposito non si può fare", spiega l'architetto Gabriella Landi, responsabile dell'Ufficio tecnico municipale. E le licenze edilizie rilasciate negli ultimi venti anni? E la stessa costruzione della centrale autorizzata tanti anni fa? L'architetto non sente ragione. Anzi, rincara: "La centrale non risulta nemmeno sulle mappe del nostro piano di fabbricazione, per noi è come se non esistesse". Un fantasma, dunque. "Ma anche un paradosso causato dalle regole del decommissioning", precisa Massimo Romano: "I nostri vincoli, che vogliamo comunque rispettare, vanno ben oltre i migliori standard internazionali". Intanto in attesa di fare meglio del meglio, non si fa nulla.

Capitale esplosiva

È con questo andazzo che l'eredità nucleare continua a costituire una minaccia. Alla Trisaia le radiazioni avanzano a causa di una fossa che non si riesce a bonificare: lì l'Enea ha scaricato in passato rifiuti solidi 'ad alta attività'. Al deposito Avogadro di Saluggia si sfiora la farsa: il ministero dello Sviluppo economico e l'Apat prima non hanno rinnovato la licenza di esercizio, poi hanno concesso una proroga di tre anni. Forse confidano nella clemenza delle piene della Dora. Nel frattempo lì continua a perdere liquido un'altra piscina contenente elementi di combustibile radioattivi. Ma invece di chiudere, raddoppia: Avogadro è ora candidato a ricevere il combustibile che si vuole togliere dal vicino sito Eurex.

Ma è nel XX municipio di Roma, a cento metri dall'abitato di Osteria Nuova, che si è creata la situazione più esplosiva. Qui la società Nucleco (controllata da Sogin) ha realizzato nel silenzio generale un nuovo magazzino: il deposito nazionale di rifiuti nucleari prodotti dal sistema sanitario. Si tratta di oltre 4 mila metri cubi, frutto di radiografie e chemioterapie, ammassati in capannoni ormai al limite. Loredana De Petris, senatrice Verde, ha da tempo lanciato l'allarme: "Continuare a raccogliere rifiuti nucleari in un'area così densamente urbanizzata è in contrasto con i più elementari principi di precauzione". Tutto inutile. Nuovi carichi pericolosi arrivano nel sito. Che è vulnerabile a un attacco esterno: non servirebbero incursori agguerriti, potrebbe bastare una molotov. E le fiamme sarebbero in grado di innescare un disastro. Arrivare al muro di cinta è facile, come ha constatato 'L'espresso'. D'altronde, come si fa a isolare totalmente una base che ormai è circondata dalle case?
(26 aprile 2007)

 

Strada: ''Hanno fatto di tutto per cacciarci''

Intervista al fondatore di Emergency dopo la chiusura degli ospedali dell'Ong in Afghanistan

Dottor Strada, qual è la situazione dei tre ospedali di Emergency in Afghanistan?

Gli ospedali di Kabul, del Panjshir e di Lashkargah sono chiusi. I pazienti sono stati tutti dimessi dopo aver ultimato le cure di cui necessitavano: le ammissioni le avevamo già bloccate diversi giorni fa. I pochi pazienti non ancora in condizione di essere dimessi sono stati trasferiti in altre strutture ospedaliere.
Dentro abbiamo lasciato tutta l’attrezzatura medica. Il personale afgano dei tre ospedali, 1.200 persone in tutto, è stato mandato a casa, con salario garantito fino a fine maggio. Per sicurezza abbiamo lasciato solo le nostre guardie a sorvegliare le strutture e alcune decine di persone a far la guardia fuori dagli edifici e a fare le pulizie all’interno. Tutto questo perché vogliamo essere nelle condizioni di riaprire e riprendere l’attività in ogni momento.

Quindi non escludete la possibilità di tornare in Afghanistan?

Certo che no, ma poniamo delle condizioni. Il presupposto minimo, ma anche quello più difficile da ottenere, è la liberazione di Rahmatullah Hanefi. Il secondo è che vengano garantite condizioni di sicurezza a tutto il nostro staff, in maniera chiara: non ci bastano le belle parole che arrivano in queste ore da alcuni ministeri afgani. Ormai siamo abituati alla doppiezza delle autorità afgane. Ci vogliono i fatti. E da un mese a questa parte i fatti sono che il governo Karzai ha fatto di tutto per espellere Emergency dall’Afghanistan, arrestando il nostro personale, accusandoci di sostenere i terroristi indicandoci, quindi, come un nemico e infine mandando la polizia nei nostri ospedali. Il governo afgano ha minacciato Emergency e ha dato seguito a queste minacce. Gli inviti a tornare rivoltici da alcuni esponenti del governo contrastano apertamente con questi fatti, che sono stati tali da costringerci ad andarcene.

Come si sente, personalmente, in questo momento?

Ora mi sento tranquillo, per il nostro staff, che evidentemente non era più al sicuro, e anche per in nostri pazienti, perché in queste condizioni non eravamo più in grado di offrire servizi qualitativamente adeguati alle loro necessità: restare avrebbe significato ingannarli, illuderli e quindi danneggiarli. In questo momento per Emergency l’Afghanistan è un paese pericoloso, dove non è più possibile lavorare. Ovviamente la mia tranquillità sparisce se penso a Rahmatullah, chiuso in carcere a Kabul da oltre un mese.

Cosa si aspetterebbe ora dal governo italiano?

Il governo italiano è corresponsabile della carcerazione di Rahmatullah Hanefi e, con il suo disinteresse, della situazione che si è venuta a creare. Un governo che ha un minimo di dignità, che sia di destra o di sinistra, protegge i suoi uomini: non solo i suoi cittadini, ma anche coloro i quali lavorano per lui. Rahmat, nella vicenda Mastrgiacomo, ha lavorato per il governo italiano. Ma questo governo non lo ha protetto. Perché questo governo non ha la dignità necessaria per opporsi a una decisione che colpisce un suo uomo. Forse perché quella decisione non è stata interamente afgana, bensì mossa da “mani invisibili”, come ha detto giorni addietro il ministro afgano della Sanità. Mani statunitensi, ovviamente.

Quale interesse avrebbero gli Stati Uniti a colpire Emergency?

Emergency, soprattutto nel sud del paese, era percepita come una presenza scomoda. Era, anzi, l’unica presenza scomoda rimasta in zona di guerra. Il solo fatto di curare i civili vittime dei bombardamenti aerei della Nato è una cosa sgradita a chi sostiene che l’Occidente sia lì per portare democrazia e per ricostruire il paese. Non ho mai visto bombe che riscostruiscono! Tolta di mezzo Emergency, nel sud dell’Afghanistan rimangono solo soldati e spie.

Enrico Piovesana

 

Cessate il fuoco

Questa settimana, in tutti i paesi ancora in guerra, sono morte almeno 749 persone.

Iraq
Questa settimana sono morte almeno 553 persone (523 iracheni, tra civili e agenti delle forze di sicurezza. Sul fronte della Coalizione si contano 25 soldati statunitensi uccisi, 4 britannici e un polacco).
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 10.632

Afghanistan
Questa settimana sono morte almeno 86 persone (11 civili, 50 talebanio presunti tali, 23 soldati e poliziotti afgani, 2 soldati della Nato).
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 1.119 (274 civili, 585 talebani o presunti tali, 213 soldati e poliziotti afgani, 47 soldati della Nato).

Somalia
Questa settimana sono morte circa 300 persone, tutte civili.

Il bilancio, però, non può essere considerato aggiornato per via delle continue sparatorie che avvengono con frequenza nei quartieri della capitale Mogadisco. Almeno 1057 morti dall'inizio dell'anno

Nigeria
Questa settimana sono morte almeno 200 persone nalle violenze scatenatesi nei giorni immediatamente precedenti alle elezioni presidenziali.

Almeno 290 morti dall'inizio dell'anno

Cecenia (Russia)

Questa settimana sono morte almeno 8 persone (3 civili e 2 guerriglieri, 2 soldati russi, un soldato ceceno).
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 246

Filippine-Abu Sayyaf/Mnlf
Questa settimana sono morte 11 persone.
Almeno 135 morti dall’inizio dell’anno

Sri Lanka
Questa settimana sono morte 50 persone.
Almeno 1.026 morti dall'inizio dell'anno.

India nord-est
Questa settimana sono morte 17 persone
Almeno 376 i morti dall'inizio dell'anno.

India Kashmir
Questa settimana sono morte 20 persone
Almeno 162 morti dall'inizio dell'anno.

India Naxaliti
Questa settimana sono morte 7 persone
Almeno 88 i morti dall'inizio dell'anno.

Pakistan Waziristan
Questa settimana sono morte 14 persone

Almeno 576 i morti dall'inizio dell'anno.

Thailandia del Sud
Questa settimana sono morte 3 persone
Almeno 139 morti dall’inizio dell’anno

Israele – Palestina

Questa settimana sono morte almeno 8 persone (5 miliziani e 3 civili palestinesi).
Dall'inizio dell'anno sono morte almeno 115 persone.

 

26 aprile

25 aprile, così vicino, così lontano
Gianpasquale Santomassimo
 
Si continua a parlarne come fine di un periodo tragico e sofferto, tornando in maniera estenuata a discutere i dettagli più insignificanti della resa dei conti di quei giorni. Eppure a oltre sessant'anni il 25 aprile dovrebbe sempre più venire avvertito come inizio di qualcosa di nuovo, il voltare pagina di un libro su cui finalmente tutti hanno potuto scrivere la propria storia. È questo il senso il cui le grandi date della storia nazionale sono state intese nel tempo dagli altri popoli, lasciandosi alle spalle il ricordo di «guerre civili» ben più sanguinose di quella che fu parte della nostra guerra di liberazione.
Bisogna chiedersi perché questo non sia avvenuto o non avvenga più nella nostra cultura diffusa. Non è estraneo, probabilmente, il senso di una distanza che non è più solo temporale ma che per molti è divenuta cesura di mondi, di civiltà, di modo di intendere e praticare la politica. Non stupisce che questo avvenga nella cultura della destra, da sempre estranea o fredda rispetto a ciò che il 25 aprile ha simboleggiato.
Ma a ben vedere non stupisce neppure nella cultura di una sinistra che sembra aver trovato (o immaginato per sé) un nuovo inizio nel 1989 anziché nel 1945, e che giustamente non finge neppure di inserire simboli di quel mondo lontano negli improvvisati Pantheon che affastella. Teniamoci pure lontani da questo futile gioco di società, e non suggeriamo figurine sbiadite da inserire in un album, colonne sonore da contrapporre al Mago di Oz che bene compendia il senso insieme astuto e fanciullesco di un «fare politica» che parla solo a un mondo ristretto di «addetti ai lavori».
Però bisogna pur dire che le basi di una civiltà repubblicana, democratica e parlamentare, che il 25 aprile ha inaugurato appaiono irrimediabilmente distanti, erose dal tempo.
Pochissimi sembrano avere memoria del fatto che un parlamento serve a rappresentare il paese, nella maniera più possibile articolata e fedele, e non solo a votare la fiducia a un governo. Che la democrazia cresce e si organizza attraverso la partecipazione quotidiana dei cittadini, non solo chiamandoli ogni cinque anni a votare (assai più contro ciò che si teme o si detesta che non per qualcosa in cui razionalmente si creda).
Non è un caso che la nostra esperienza repubblicana abbia costruito le sue fondamenta attorno a una «civiltà del proporzionale» che è stata la forma storica della nostra democrazia, che significava anche civiltà del confronto e del ragionamento, di un modo alto di fare politica che pare quasi cancellato da un quindicennio di scontro muscolare, urlato, di campagne elettorali e mediatiche quotidiane e ininterrotte, tanto più aspre quanto meno distante è in realtà la sostanza di visioni della società che spesso sembrano convergere e quasi sovrapporsi.
Nell'unico breve periodo della nostra storia prefascista in cui il proporzionale venne introdotto, nel 1919, rivelò un'Italia completamente diversa da quella ufficiale, espressa in precedenza dal sistema uninominale, rivelò un mondo dove i notabili liberali erano minoranza e le grandi forze popolari, cattoliche e socialiste, erano maggioranza nel paese.
Se oggi per avventura si trovasse la forza di tornare ai principi della rappresentanza repubblicana si scoprirebbe che l'Italia forse può essere molto diversa da quella che il bipolarismo coatto ci ha imposto, che una politica sdrammatizzata, lontana dal giudizio di Dio apocalittico e barbarico di ogni consultazione, sia pure insignificante, può essere un'Italia più civile, in grado di dialogare e di confrontarsi, di dividersi in un conflitto finalmente «normale» e fisiologico, di piazze reali e non più solo televisive, di cittadini responsabili e non di utenti col telecomando in mano.
Significherebbe tentare il ritorno a una democrazia che si organizza e si sostanzia di partecipazione reale, più vicina a quella delle nostre origini repubblicane che a quella brutta caricatura di politica che oggi ci fa sembrare così lontano il 25 aprile.

 

Yemen - Aden - 26.4.2007
Vita da profughi
I rifugiati somali resistono alle squallide condizioni di vita in Yemen

 La maggior parte dei rifugiati in Yemen è costituita da somali, 15mila dei quali vivono in condizioni di estrema povertà. Amnah Abdul-Hamid, 26 anni, è scappato dalla guerra in Somalia per cercare una vita migliore in Yemen. Ma da quando è arrivata, quattro anni fa, i suoi due bambini sono morti di diarrea e lei al momento è malata e inferma.

Profughi somali sulle spiagge di Ahrwar, in YemenUna comunità in difficoltà.
“Soffro di neurite cerebrale (un’infiammazione di uno o più nervi). Ho un urgente bisogno di aiuto, per procurarmi cibo e trovare dove dormire, visto che sono senza un lavoro”, dice Amnah, divorziata che dipende da una famiglia somala che vive ad al-Basateen, un’area a predominanza somala nella provincia di Aden. “Ho bisogno di lavorare, ma sono malata e la guerra nel mio paese mi impedisce di tornare”, dice. Come Amnah, moltissimi rifugiati somali confluiscono in una piccola stanza nel centro di al-Basateen, dove si incontrano i leader della comunità. Questo è il loro primo punto di riferimento quando hanno dei problemi. Per guidare la comunità somala e per indirizzare le loro richieste i rifugiati hanno scelto sette capi, tra cui anche alcune donne, rappresentativi delle loro tribù. Costituita sette anni fa, adesso la Somali Community Leadership (Scl) è senza risorse. “Ce la caviamo da soli, l’affitto del locale del partito viene pagato da Adra, una ong internazionale”, dice Mohammed Deriah, il principale leader della Scl.
Secondo lui, 15.540 rifugiati somali vivono nell’area di al-Basateen con la carta d’identità, mentre molti altri vivono lì senza documenti. “Nelle ultime tre settimane abbiamo ricevuto 2.550 rifugiati somali, che sono fuggiti dal loro paese per scappare dalla guerra”, dice ad all’agenzia Irin. Quasi tutte le case ad al-Basateen sono fatte di latta e fango. Il loro affitto mensile varia da 3.000 a 5.000 riyals yemeniti (circa 10-20 euro).

Profughi somali sulle spiagge di Ahrwar, in YemenCondizioni di povertà. L’aerazione e il sistema di fognature è pessimo. La zona è male organizzata e non asfaltata.  L’immondizia viene buttata fuori dalle case dato, che non ci sono bidoni dei rifiuti. Il dottor Fares Najeeb, capo della Charitable Society for Social Welfare (Cssw), una struttura sanitaria ad al-Basateen, afferma che la povertà e la cattiva condizione delle fognature sono le principale cause di malattie tra i rifugiati. Najeeb dice che le malattie comuni nell’area sono la diarrea, infiammazioni alle vie respiratorie e, in una certa misura, anche la malaria. I casi di malaria sono da lui stimati in 80 al mese. Inoltre, mensilmente, si verifica almeno un caso di tubercolosi. Nell’area ci sono solo due strutture sanitarie, una delle quali si occupa di bambini e madri. Le strutture sono state realizzate da Cssw, una ong locale, nel 1999. L’agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr) li assiste, mentre il Ministero della Salute yemenita procura loro medicinali gratuiti e 43 operatori sanitari. Durante l’estate i residenti affrontano periodi di mancanza d’acqua e interruzioni della corrente elettrica. “Durante l’estate il governo raziona le forniture d’acqua  in questa zona. La stessa cosa si può dire dell’elettricità, e questo proprio nel momento in cui ne avremmo bisogno più che mai”, dice Deriah, uno dei leader della comunità.

Miliziano delle Corti islamiche in SomaliaUna situazione drammatica. Deriah aggiunge che la maggior parte dei bambini somali, pur avendo la possibilità di frequentare la scuola pubblica, non ci vanno. “Le famiglie non possono permettersi gli oggetti necessari come quaderni e uniformi scolastiche. Pochissimi ragazzi frequentano la scuola”. Le risorse dei rifugiati somali di al-Basateen dipendono principalmente da lavori umili, come lavare le macchine, lavorare nei cantieri e pulire le case. La rifugiata somala Habibah Hassan, 35 anni, dice di essere arrivata in Yemen sette anni fa, dopo che delle bande armate avevano legato suo marito, un ex colonnello del vecchio esercito nazionale somalo, gli avevano rubato più di 10mila euro e preso lei a calci nello stomaco, fino a causarle un aborto. Habibah descrive le condizioni di vita ad al-Basateen come miserabili. “Siamo arrivati in Yemen con la speranza di viaggiare verso un paese diverso ma, quando abbiamo fallito, mio marito era in un tale stato mentale che da allora è scomparso”. Erika Feller assistente all’Alto Commissariato dell'Unhcr, ha visitato lo Yemen e ha descritto la situazione dei rifugiati somali come angosciante. Ha richiesto aiuti addizionali per migliorare le loro condizioni. Secondo l’Unhcr, ci sono circa 100mila rifugiati in Yemen, la maggior parte dei quali somali. Lo Yemen è firmataria della Convenzione sui Rifugiati del 1951 e del Protocollo aggiuntivo alla stessa del 1967. 

 

20 aprile

 

Germania, i nazisti ora fanno paura
 
Secondo l'Ufficio criminale federale, gli atti di violenza sono stati 18mila nel solo 2006. Mai così tanti dalla riunificazione
Matteo Alviti
Berlino
 Sono state più di 18mila, solo nel 2006, le azioni criminali commesse dai neonazisti in Germania. Una simile ondata di violenza da parte dell'estrema destra non era mai stata registrata da quando, nel 2001, è stato introdotto il sistema di definizione che riconosce gli atti di criminalità motivati politicamente. Rispetto all'«annata record» del 2005, quando furono segnalati quasi 16mila delitti, c'è stato un aumento del 14%. Dal 2004 l'aumento è invece del 50%.
I dati provengono direttamente dall'Ufficio criminale federale, il Bundeskriminalamt (Bka), che periodicamente raccoglie le segnalazioni della polizia dei Länder. Le cifre sono state pubblicate qualche giono fa sulla prima pagina del Tagesspiegel. Il quotidiano è entrato in possesso delle informazioni che il Bka aveva redatto in un rapporto confidenziale per il ministero degli interni tre settimane fa. Secondo quanto riportato dal giornale berlinese, non si era mai verificata una esplosione di violenza neonazista di questa entità da quando la Germania è tornata a essere una sola, il 3 ottobre del 1990.
Col numero dei delitti è cresciuta anche la frequenza e l'intensità della violenza contro le persone. Delle 18mila azioni criminose, gli atti di violenza fisica sono saliti a più di 1100, con un aumento dell'8% rispetto al 2005 (nel 2004 erano stati segnalati 832 casi). Al contrario di quanto ci si potesse aspettare, lo svolgimento degli ultimi mondiali di calcio non ha giocato un ruolo rilevante.
I dati raccolti dal Bka dipingono una situazione addirittura peggiore di quella che il ministro degli interni, il cristianodemocratico Wolgang Schäuble, aveva riportato in parlamento in risposta all'interrogazione parlamentare del gruppo die Linke, l'opposizione da sinistra al governo di Angela Merkel.
Lo stesso sindacato di polizia ha avvertito allarmato che «l'estremismo di destra sta avanzando in tutto il paese». Secondo il presidente del sindacato, Konrad Freiberg, «la cosa più pericolosa è che la destra estrema ha penetrato il centro borghese della società tedesca». Non si può più parlare di un problema di gruppi sociali emarginati, ha continuato Freiberg.
La sfilza di dichiarazioni rituali del mondo politico, preoccupato per l'aumento dei delitti, non si è fatta attendere. Da parte socialdemocratica è rispuntata l'idea della convocazione di un vertice straordinario sulla democrazia per elaborare una strategia in grado di sconfiggere l'estremismo di destra. Mentre i Verdi chiedono un'«offensiva democratica» nelle scuole e die Linke il sostegno alle iniziative della società civile e dei centri per le vittime della violenza neonazista.
Il presidente del sindacato di polizia è però scettico: «L'unica strategia contro la destra è quella di rioccupare gli spazi sociali dai quali la politica e i sindacati sono arretrati».
Freiberg è a favore della messa fuori legge dei partiti di estrema destra, con tutti i problemi che comporterebbe: «È perverso che l'Npd si finanzi con i rimborsi elettorali previsti dal nostro sistema partitico», ha detto.

 

Sprofondo americano
Alessandro Portelli
 
Kurt Vonnegut, che ci ha lasciato soli pochi giorni fa, l'aveva detto una volta per tutte: non c'è niente di intelligente da dire dopo una strage. Me ne sono ricordato dopo l'11 settembre, e mi torna in mente ancora una volta dopo la strage di Blacksburg in Virginia. Dopo una strage, dice Vonnegut, c'è solo il silenzio della morte, e forse qualche suono di uccelli fuori dal linguaggio. E dopo ogni immagine di morte, concludeva: così va.
Ho degli amici e colleghi al Virginia Tech di Blacksburg, e spero di averli ancora. In ufficio risponde la segreteria telefonica; a casa, il centralino dice che le linee sono occupate. Immagino che mezzo mondo stia provando a chiamare.
A Blacksburg ci sono stato poche ore, ho l'immagine di uno di quei campus provinciali da idillio cinematografico, soleggiati verdi e sereni. Alla ricerca un po' assurda di notizie aggiornate, ho chiamato «Virginia Tech shooting» su Google, e mi sono usciti i dati dei tiri a canestro dell'ultima partita della squadra di casa; ho cercato «Virginia Tech massacre», ed è uscita la storia di una massacrante batosta inflitta a una squadra rivale. Sparatorie, massacri - le solite metafore sportive della quotidiana normalità, improvvisamente riportate al loro senso materiale, di solito dimenticato ma sempre latente. C'è sempre una tenebra annidata sotto il sole di questa America, una foresta ai margini del villaggio, un Injun Joe nella caverna sotto il villaggio di Tom Sawyer. L'idillio del campus è un mondo separato, come tanta parte dell'universo accademico americano, ghetto e torre d'avorio. Diceva un collega tanti anni fa: un ghetto nero disperato circonda la modernissima e iperliberista università di Chicago; e, aggiungerei, c'è una tormentata Appalachia attorno al sole e al verde del campus di Blacksburg. Sotto la pace ordinaria c'è sempre qualcosa in attesa di esplodere.
Lynndie England, la protagonista di Abu Ghraib, viene dal West Virginia, a un passo da lì. Viene da pensare che tanti bravi ragazzi americani di paese, spediti in Iraq, fanno laggiù col permesso del governo quello che rischierebbero di fare a casa, e che altri ragazzi come loro a casa fanno davvero. La Virginia nord-occidentale è una paese bellissimo di montagne ruvide e ripide, di valli strette, di boschi distesi, e - come tanta parte degli Usa - di violenza accumulata, di gente armata e risentita, che non si fa mettere i piedi sul collo da nessuno e che ogni tanto va fuori di testa, che si sente emarginata e spodestata ma non sa perché, in un'America che non capisce più e che non li capisce più, e scarica i risentimenti dove capita, punendo torti immaginari perché non riesce a riconoscere e articolare quelli veri. Anche i paranoici hanno nemici veri; ma non sempre sanno riconoscerli.
Queste comunque sono parole. Diceva Bob Dylan, a proposito di un'altra strage: ci sono 7 persone morte in una fattoria del Sud Dakota; da qualche parte, lontano, altre 7 persone nascono. Ci sono 32 persone morte, a Blacksburg. Così va.

 

18 aprile

Filippine, civili in fuga dalla guerra
Migliaia di famiglie scappano dall'offensiva del governo nell'isola di Jolo
L’avvicinarsi delle elezioni amministrative del 14 maggio ha provocato un pericoloso ritorno di fiamma del conflitto armato tra governo e indipendentisti islamici nel profondo sud musulmano dell’arcipelago filippino. Sull’isolo di Jolo, i violenti combattimenti tra guerriglieri del Fronte Moro di Liberazione Nazionale (Mnlf) e forze governative – appoggiate da consiglieri militari e forze speciali statunitensi – stanno provocando molti morti e, soprattutto, una gravissima crisi umanitaria. Già 42 mila persone in fuga dalla guerra si sono accampate nelle scuole del capoluogo dell’isola: mancano coperte, tende e soprattutto acqua e cibo.
 
Rifugiati nelle scuole di JoloGiorni di combattimenti. Venerdì notte, 14 aprile, i guerriglieri dell’Mnlf hanno lanciato colpi di mortaio contro la base navale governativa di Panamao, uccidendo due soldati e un bambino. Il comandante ribelle Habier Malik ha dichiarato di aver ordinato il bombardamento in risposta a un attacco dell’esercito contro le postazioni dell’Mnlf a Indanan. Fatto sta che le forze governative hanno scatenato subito una pesante offensiva sulla zona di Indanan, con bombardamenti aerei e d’artiglieria che hanno causato finora la morte di una ventina di guerriglieri. Difficile escludere che vi siano anche perdite tra la popolazione civile.
 
Guerriglieri dell'MnlfCampagna elettorale? Il governo accusa i ribelli islamici – con i quali sono in corso difficili negoziati di pace da undici anni, ovvero dal cessate il fuoco del 1996 – di aver provocato una reazione militare del governo contro l’Mnlf nella speranza di far aumentare il consenso della popolazione – che il 14 maggio dovrà votare per il nuovo governatore delle province musulmane – verso il leader storico dei ribelli, Nur Misurai, il quale è candidato a governatore nonostante si trovi da anni agli arresti domiciliari.
Lo stesso Misuari, pur condannando la pesante reazione militare governativa, ha però subito preso le distanze del comandante Malik.
 
Il generale Usa Bryan Brown nel sud delle FilippineMnlf e Abu Sayyaf. Comunque stiano le cose, la pesante offensiva militare del governo rischia di ridare fiato al separatismo “moro”, che ormai aveva perso ogni sostegno popolare. Contrariamente all’altro gruppo armato ancora attivo a Jolo e in tutto l’arcipelago di Sulu, ovvero l’Abu Sayyaf, considerato dalla popolazione locale una banda di tagliatori di teste (è di oggi la notizia della decapitazione di sei ostaggi rapiti martedì), il Fronte Moro di Liberazione Nazionale è profondamente radicato nel tessuto sociale e gode di un largo sostegno popolare.
 
Processo di pace a rischio. “Un attacco contro l’Mnlf – spiega Tom Green, direttore della Pacific Strategies & Assessments esperto di Filippine – colpisce tutta la popolazione, perché ogni famiglia della zona ha un uomo che milita in questo gruppo. Per questo, finora, il governo era stato attento a non rafforzare l’Mnlf con offensive militari per non mettersi contro la gente, per non complicare un processo di pace che, a questo punto, rischia di saltare definitivamente”. 
Il conflitto indipendentista islamico nel sud delle Filippine, iniziato nel 1971, ha causato la morte di almeno 150 mila persone.
 

 

Tanti appelli contro le morti sul lavoro. Ma è ora di verificare le risposte
Tiziano Rinaldini *
 In questi giorni il moltiplicarsi di incidenti sul lavoro hanno finalmente aperto una crescita di attenzione sui problemi della sicurezza. Lodevoli (e autorevoli) intenzioni si sono espresse sull'impegno per accelerare la concretizzazione di interventi legislativi e per misure di maggior sorveglianza.
Vedremo se tutto ciò avrà seguito coerente, come auspichiamo. Intanto sarebbe opportuno evitare affermazioni significativamente sbagliate come la definizione delle vittime sul lavoro come martiri.
Il martirio implica una scelta per una causa; non ci pare abbia molto a che fare con il lavoratore vittima sul lavoro, che non ha mai pensato di scegliere di morire, ma più semplicemente ha dovuto lavorare in condizioni imposte. Comunque tutto ciò è importante, ma non basta; l'aumentata sensibilità al problema non può essere risolta solo così.
Manca un punto, in ultima istanza, decisivo.
Ciò che sta accadendo è davvero comprensibile se non lo si mette in relazione con la natura e le caratteristiche di fondo dei processi che hanno attraversato in questi anni il governo del lavoro?
Il lavoro non è trattabile alla stregua di un bene comune minacciato. I soggetti del lavoro sono uomini e donne, non sono beni da tutelare, ma soggetti da mettere nelle condizioni di essere tali, nell'unico modo possibile, e cioè dotandoli di diritti e favorendo il fatto che insieme e solidali fra di loro possano intervenire sulla loro condizione con un loro autonomo punto di vista da affermare con la lotta quando necessario e con una vera contrattazione collettiva.
Quando queste condizioni vengono meno, rese impraticabili o quasi, non bastano santi protettori o regole esterne che non mettano in discussione il dominio unilaterale interno sulla condizione di lavoro ed il tentativo di cancellare la contrattazione collettiva solidale.
L'indebolimento, per non dire l'annullamento, di una reale contrattazione collettiva solidale e la demonizzazione del conflitto sociale sono state tra le finalità centrali dei processi che si sono strutturati in questi anni nel modello sociale ed economico che si è imposto.
Da un lato la precarietà del lavoro, bassi salari e svalutazione del lavoro manuale e di quelli più rischiosi o disagiati, dall'altro frantumazione del ciclo lavorativo strutturato con imprese frantumate in un quadro integrato e dominato da chi presiede alle funzioni strategiche, a sua volta ricondotto alla massima redditività a breve termine dalla finanziarizzazione: questa è la sostanza dei processi di questi anni (chissà perché definiti «libero mercato»).
Tutti i settori ne sono stati attraversati, sino agli esempi estremi dell'edilizia e della pulizia. Gli aspetti più selvaggi sono figli naturali, e non mostruosità inspiegabili. Dentro tutto ciò il lavoratore è sollecitato ad aderire al comando che ne deriva, a considerare rivali gli altri lavoratori e viene drasticamente ostacolato sulla possibilità di intervenire sui poteri che determinano le condizioni di lavoro.
Come non vedere conseguenze sulla sicurezza e sulla salute non rimediabili su altri terreni?
Gli stessi Rls (Rappresentanti dei lavoratori alla sicurezza), essendo strutture di sorveglianza esterne alla contrattazione collettiva e definibili solo all'interno e per ogni singola impresa, vengono drasticamente indeboliti dal fatto che negli ultimi decenni sono stati sottratti poteri contrattuali sulla salute e sulla sicurezza, nei contratti nazionali e nella contrattazione articolata (per la quale non è mai stata accettata una estensione sul ciclo e per l'insieme delle imprese coinvolte).
E' su questo piano che si verificheranno in modo decisivo le sensibilità di questi giorni. Certo, non fa buona impressione in questa situazione sentire Bombassei che per risolvere il problema si limita a proporre più sorveglianza dall'esterno, né il ministro del lavoro dire ai sindacati che il problema è premiare i lavoratori più bravi (ad aderire a questi processi?).
Comunque non mancano a breve le occasioni per verificare. Citiamo due appuntamenti molto concreti.
Il primo è sul terreno legislativo e si riferisce alla volontà o meno di sradicare la filosofia della precarietà/flessibilità introdotta nel diritto italiano con la legge 30, e non solo.
Il secondo è costituito dal rinnovo di alcuni fondamentali contratti nazionali di lavoro. Vi sono ad esempio piattaforme che rivendicano sbarramenti vincolanti sulla precarietà, poteri di intervento contrattuale dei lavoratori e responsabilità contrattuali degli imprenditori sull'insieme dei processi che determinano (appalti ed esternalizzazioni in primo piano). Saranno prime occasioni per verificare il tasso di verità o di ipocrisia delle sensibilità di questi giorni.
Sarebbe utile che già sin da ora ci si esprimesse.
* Cgil Emilia Romagna

 
capitalismo
Il diabolico potere dei fondi privati
Joseph Halevi
 
La gente di sinistra deve imparare e capire i termini che definiscono l'attuale fase di capitalismo monpopolitico finanziario. Essi ne delineano infatti la dimensione istituzional-corsara, che Keynes aveva intuito e temuto al massimo ma oggi assolutamente irreversibile nel quadro capitalistico. Si tratta, dei junk bonds (titoli spazzatura), corporate raiders (razziatori di azioni di altre società) ed infine, private equity investment funds (fondi di investimento privati a scopi proprietari). Il tutto è strettamente connesso al meccanismo di leveraged buyout che la Garzanti Linguistica definisce perfettamente come «acquisizione di società mediante l'acquisto di azioni finanziato per mezzo di emissione di debito garantito dalle azioni comperate».
In genere lo sbocco finale di queste attività e meccanismi effettuate da società finanziarie gigantesche, è l'asset stripping, cioè la spoliazione dei beni delle società prese di mira. Dei titoli spazzatura si è scritto molto, passiamo quindi ai corporate raiders ed ai private equity investment funds.
Le società razziatrici di società sono in realtà delle finanziarie che si impossessano di compagnie malconce; le ristrutturano selvaggiamente puntando su un conseguente aumento del valore delle azioni. Sono operazioni manageriali e di espulsione di forza lavoro, non implicano particolari programmi di sviluppo tecnologico. In questi giorni a Detroit è sotto tiro la malandata Chrysler che la Daimler tedesca vuole abbandonare. Il corporate raider non deve necessariamente appropriarsi dell'intero pacchetto azionario della società in questione.
Invece i private equity investment funds comperano tutte le azioni - offrendo prezzi più alti delle quotazioni di borsa - e tolgono le società acquistate dal mercato azionario. Usando la terminologia americana, 'going private' (privatizzarsi) significa uscire dal mercato borsistico. Questo tipo di attività sta dominando l'attenzione dei centri finanziari perchè comporta l'uso massiccio del meccanismo del leveraged buyout. Infatti per comprare l'intero pacchetto azionario e cancellare la società dal listino di borsa è necessario prendere a prestito un grande quantità di soldi, spesso con operazioni molto dubbie come nel caso della compagnia aerea australiana Qantas la cui seconda privatizzazione è in via di attuazione (la prima fase di privatizzazione è consistita nel trasformarla da azienda statale in una quotata in borsa). Quindi le società acquistate dai fondi equity devono sobbarcarsi il debito contratto dal fondo che ha condotto l'operazione.
L'equity investment fund, che a sua volta è un conglomerato di altre società finanziarie, intende ovviamente far fruttare il suo investimento, che non ha nulla di lungo termine, sia riducendo il debito che aumentando la redditività a breve termine della compagnia acquistata. Qui interviene l'asset stripping, la spoliazione dei beni - già ampiamente presente nelle operazioni dei corporate raiders e dei trafficanti in titoli spazzatura ma che nel caso dei fondi equity assume dimensioni assolute. Con il controllo assoluto sulla società e non dovendo confrontarsi col mercato borsistico ma avendo dei precisi obiettivi finanziari a breve, dettati anche dall'indebitamento incorso, il fondo equity può scorporare la società. Può chiudere i rami meno redditizi, vendere parte dello stock di capitale e più in là nel tempo, vendere i settori profittevoli tramite ulteriori scorpori e relativa rivendita al mercato azionario (Ipo).
Il fondo equity riprende poi altrove la guerra da corsa. Negli Stati uniti gli investitori nei fondi equity sono a loro volta delle grandi società, dei fondi di pensione e simili organismi. Si noti che molte delle maggiori operazioni dei fondi privati equity si concentrano su aziende di pubblica utilità. Alla fine di febbraio le società di fondi equity Kkr e Texas Pacific Group hanno effettuato il più grande buyout della storia con l'acquisto per 45 miliardi di dollari dell'azienda elettrica Txu.
L'evoluzione finanziaria del capitalismo fondata sull'indebitamento crescente e sul suo uso come strumento corsaro non è scindibile dal fiume di denaro generato dagli Usa e dal Giappone nel corso dell'ultimo decennio.
 
Ecomafie, un business da 23 miliardi di euro
Ogni ora in Italia vengono compiuti tre reati contro l'ambiente. E la Cina è il Paese principale meta del traffico illegale di rifiuti. Pecoraro Scanio: «Al più presto un ddl per i reati ambientali»
Carlo Lania
 Immaginate una montagna come il Gran Sasso, 2.600 metri di altezza, una delle bellezze naturali del nostro paese. Immaginatela e subito dopo sostituitela con un'analoga montagna di rifiuti, alta anch'essa 2.600 metri, l'equivalente di almeno 26 milioni di tonnellate di spazzatura, il 25% di quella prodotta ogni anno in Italia. Bene, sempre ogni anno questa seconda montagna sparisce letteralmente nel nulla, scompare ad opera della criminalità organizzata, quella «Rifiuti spa» che sull'immondizia - ma più in generale contro l'ambiente - organizza traffici miliardari capaci di crescere, negli ultimi 12 mesi, del 38%.
Si tratta solo di uno, e forse neanche il più grave e pericoloso, degli affari sporchi legati ai reati contro l'ambiente (si calcola che ogni ora in Italia ne vengono compiuti tre) e denunciati nel dossier Ecomafie presentato ieri a Roma da Legambiente. «Le ecomafie continuano a imperversare nei rifiuti, nell'abusivismo edilizio, nel cemento, nel racket delle specie protette - ha denunciato Roberto Della Seta, presidente di Legambiente -. E' un fenomeno che non riesce ad arretrare perché ancora non si sono inseriti i crimini ambientali nel codice penale». Una lacuna che da anni si promette sempre di colmare senza mai farlo, ma alla quale ieri il verde Alfonso Pecoraro Scanio ha promesso di rimediare al più presto. «In tempi molto brevi - ha detto il ministro dell'Ambiente - ci sarà un disegno di legge del governo per introdurre i reati ambientali nel codice penale. Credo che il parlamento già a maggio possa avviare un dibattito in sede di commissione Giustizia».
Come al solito bastano le cifre a rendere l'idea di perché la criminalità organizzata sia attratta dal business legato ai reati contro l'ambiente. Ogni anno, denuncia infatti il dossier di Legambiente, il giro d'affari legato alle ecomafie frutta la bellezza di 23 miliardi di euro. Scomposto, questo bilancio illegale rivela quali sono le attività più lucrose. Prima fra tutte, ovviamente, c'è il traffico di rifiuti, che il Procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso spiega così: «La consapevolezza dell'importanza assunta dal settore dei rifiuti per la criminalità organizzata - scrive Grasso nell'introduzione al dossier - può essere tutta riassunta in poche parole, di straordinaria efficacia, pronunciate da un mafioso. Questi, durante una conversazione intercettata, affermò: "Buttiamoci sui rifiuti: trasi munnizza e niesci oro". Penso che questa espressione, in dialetto ma, ritengo comprensibilissima, più di molte parole dia l'esatta misura del precipuo interesse, da parte della criminalità mafiosa, per il settore dei rifiuti».
Ma le cosche non apprezzano solo la «munnizza». Dei 23 miliardi di fatturato, tre sono frutto del traffico di animali e piante; 700 milioni derivano dai combattimenti clandestini e altrettanti dal traffico di specie protette, uccelli, scimmie, rettili, orchidee e cactus; 1,2 miliardi dalle corse illegali; 500 milioni dalla macellazione in nero.
C'è poi tutto il capitolo riguardante gli abusi edilizi, pratica ormai da tempo in mano alle cosche. Legambiente la definisce una situazione di «luci e ombre», perché se da un lato diminuisce, secondo i dati forniti dal Cresme, il numero delle costruzioni illegali, che scendono a quota 30 mila. in ogni caso oggi ogni 10 nuove costruzioni almeno una è abusiva, per un giro d'affari annuo stimabile in circa 2 miliardi di euro.
Importante anche la parte del dossier che riguarda i traffici internazionali di rifiuti e che vede nella Cina una delle sponde principali della criminalità organizzata. L'Agenzia delle Dogane ha sequestrato nel 2006 circa 286 container con oltre 9 mila tonnellate di rifiuti. per le imprese si tratta di un vero affare. Se infatti smaltire n container con 15 tonnellate di rifiuti può costare fino a 60 mila euro,per spedirlo illegalmente in oriente ne bastano appena 5 mila. E questo con gravi danno per la popolazione locale. Più del 90% dei rifiuti esportati in Cina finisce infatti nei villaggi della costa, dove senza alcuna popolazione viene recuperato tutto ciò che è possibile recuperare. Altri paesi meta di traffici illegali sono l'India, la Croazia, la Siria, l'Austria, al Norvegia, la Francia e alcuni paesi del Nord Africa.
Tra tante notizie negative, non ne manca per fortuna qualcuna positiva. A fronte di un numero di infrazioni riscontrate in continua crescita, anche se per lo più costante, (23.668 nel 2006 contro le 23.660 del 2005), il 2006 è stato un anno record per le inchieste (18), gli arresti (126) e per le persone denunciate (417), numeri resi possibili dall'introduzione del delitto ambientale di organizzazione di traffico illecito di rifiuti.
 
Veleni, rifiuti e cemento 'o business della camorra
Rapporto Legambiente: il triste primato della Campania
Francesca Pilla
Napoli
I dati dei rapporti di Legambiente, quello nazionale e il fascicolo presentato ieri a Napoli nell'Istituto filosofico, confermano che in Campania si continua a perpetuare un massacro ambientale. La triade di rifiuti, veleni e cemento firma un patto d'acciaio contro un territorio maltrattato da trafficanti, camorristi, imprenditori, tecnici e amministratori pubblici conniventi.
In cifre significa che la regione, in Italia, dal secondo posto del 2005 passa al primo per i reati ambientali commessi: solo nel 2006 ci sono stati 3.169 illeciti accertati, otto reati al giorno, uno ogni tre ore; con 2.861 persone denunciate o arrestate e 1.362 sequestri effettuati. Nei fatti significa che esiste un sistema di 64 clan camorristici con a disposizione un giro di 6 miliardi di euro, tra fatturato legale e illegale. Affari che arrivano dalla tratta dei rifiuti tossici, ma anche da quelli «puliti», nonché dall'edilizia abusiva. Uno scempio.
Un'emergenza ancora più pericolosa se unita all'incapacità di gestione istituzionale, negli ultimi 13 anni, del ciclo integrato dell'immondizia. Due mondi che si guardano proprio per le connivenze tra la criminalità organizzata, enti e strutture preposte alla raccolta e allo smaltimento. E' di lunedì l'ultima protesta dei cittadini dell'agro aversano, il regno dei Casalesi. A Gricignano, Casal di Principe e San Cipriano le popolazioni sono scese in strada e hanno gettato davanti alle caserme dei carabinieri cumuli di rifiuti. La contraddizione è che in quei comuni attualmente non c'è nessuna crisi in atto. E' verosimile dunque che le tensioni siano fomentate in prospettiva. La discarica di Villaricca, che da ottobre per accordi presi con l'amministrazione comunale, accoglie i sacchetti di mezza Campania ora è giunta a saturazione. Nel frattempo però non sono stati ancora individuati siti di sversamento alternativi, (i cittadini di Serre e Lo Uttaro si oppongono a diventare la pattumiera della regione). Con l'estate alle porte si avvicinano le cicliche emergenze regionali, la camorra lo sa e preme per soluzioni d'urgenza in cui infiltrare i propri uomini (siano questi imprenditori o proprietari di terre).
Rischi reali, basta andare a leggere il rapporto di Legambiente: anche nel ciclo dei rifiuti la Campania detiene il primato negativo. Sono 448 le infrazioni accertate, 453 le persone denunciate e arrestate e 175 i sequestri. Quanto alle ecomafie il quadro è ancor più disperante: è di oltre 600 milioni di euro il giro d'affari annuo, con oltre 10 milioni di tonnellate di veleni sversati negli ultimi due anni. «Sappiamo che ormai operare effettivamente per lo smantellamento del controllo dei rifiuti dobbiamo fare di più - ha detto il ministro Alfonso Pecoraio Scanio - dobbiamo cioè utilizzare quelle tecnologie avanzate e coinvolgere tutti i settori per contrastare i crimini dell'ecomafia». Ma il senatore Tommaso Sodano, presidente della commissione ambiente è critico: «Il rapporto di Legambiente è come al solito impressionante ma non ci coglie di sorpresa». Ma se era già noto cosa è stato fatto dal governo in un anno? «Per il momento - dice Sodano - non vedo provvedimenti forti e al contrario, solo tentennamenti nell'imboccare la strada delle energie rinnovabili». Quindi ha ricordato che «il ddl governativo per l'abolizione dei finanziamenti pubblici a petrolieri, inceneritori e carbone non è ancora stato incardinato». Un'altra buona notizia.
Perfino sul fronte dell'abusivismo edilizio la Campania sbaraglia i concorrenti: con 1.166 infrazioni, 1509 persone denunciate e 470 sequestri. A febbraio l'ultima «scoperta»: un quartiere completamente abusivo (centinaia di appartamenti) sorto dalla sera alla mattina a Casalnuovo (Na). Secondo Legambiente in Campania vivono i migliori maestri del cemento fai-da-te. Sono circa 6000 le costruzioni abusive realizzate nel 2006. Nove giorni e nove notti, 227 ore di lavoro per mettere in piedi una villetta monofamiliare. Ogni giorno sono all'opera circa 100 operai, capaci di scavare anche decine di piscine, tutte orientate verso il mare. Solo la guardia di finanza negli ultimi due anni ha sequestrato 100 cantieri per un valore di 98 milioni di euro. «Davanti a questi numeri - spiega Michele Buonomo, presidente Legambiente Campania - nella nostra regione l'abusivismo fa più paura del Vesuvio».

 
di LUCIANO TANCREDI
STRABILIANTE. Miracoloso. Esagerato. Il non plus ultra. Eppoi mega, maxxi (sì, due x), super, iper e ogni altro morfema prefissale iperbolico la lingua universale degli spot consenta. Davanti o dietro che sia, quasi sempre la stessa parola, un must dei nostri tempi: offerta. Dietro, spesso, una fregatura.
Basta scorrere la lunga lista delle sanzioni per pubblicità ingannevole comminate dal garante della concorrenza e del mercato (consultabile su Internet, sito www.agcm.it), per farsi un’idea. Per infuriarsi. E per cercare di arginare mentalmente la più subdola delle strategie di persuasione usate dai pubblicitari, la presupposizione di verità.
Non si parla di imbonitori da fiera alle prese con miracolosi elisir di lunga vita (anche se nell’elenco dei multati non mancano creme rassodanti che non rassodano e dimagranti che non dimagrano) ma, come segnalato dallo stesso garante Antonio Catricalà, al primo posto degli “impostori” ci sono gli spot degli operatori di telefonia mobile e fissa. I più ricchi, i più famosi, i più insistenti. Dovrebbero spiegare nel dettaglio tariffe e caratteristiche tecniche, invece spaziano da scenette esilaranti a testimonial seducenti. E il resto? Omesso, oppure spiegato poco e male. Così, in due anni, gli operatori telefonici hanno preso multe per 1,6 milioni di euro, il 25% del totale delle sanzioni.
Il telefono, la tua croce. E a farne le spese, spesso, oltre all’ignaro consumatore gabbato, è anche il testimonial. Ne sanno qualcosa i vigili urbani Christian De Sica e Rodolfo Laganà, pizzicati con l’ex velina Elisabetta Canalis a decantare la convenienza di “Tim parla parla”, con la quale, a sentir loro, si sarebbe chiamato gratis fino all’estate tutti i telefonini Tim e i telefoni di casa. «I messaggi sono incentrati sull’enfatica promessa della gratuità delle chiamate ai telefonini Tim e ai fissi rileva però il Garante , mentre tale gratuità non risulta rispondente al costo effettivo a carico dell’utente, costituito dallo scatto alla risposta e dal canone per i clienti Tim; inoltre la fruibilità dell’offerta è limitata da altre condizioni, quali il raggiungimento di una spesa minima mensile su altre direttrici». Insomma, gratis un corno. E così, multa sia: 63.600 euro.
Lo spot ingannevole è trasversale a tutti gli operatori. «Se passi a 3, puoi prendere un videofonino a zero euro e se fai l’abbonamento non paghi le tasse». Ricordate? Ci bombardò in tv e sui giornali con i volti di Claudio Amendola e Roberto Da Crema (stavolta l’imbonitore c’era). Anche qui, una bufala. «Il claim scrive il Garante è sostanzialmente disatteso o fortemente depotenziato dalle informazioni riportate in contemporanea nelle scritte fisse e mobili che si sovrappongono in modo confuso e sovraffollato sullo schermo». Insomma, quel che il testimonial urla, la scritta piccola, veloce, confusa smentisce. Ma stavolta paga anche l’operatore: 28.200 euro di multa. Non si salva Vodafone, per essere ecumenici. Ricordate “Revolution”? «Dopo il primo minuto, parli gratis con tutti, proprio tutti, per sempre!», declamava sovreccitata una voce fuori campo. Vero? Macché. L’offerta non specifica, o meglio lo fa poco e male, che c’è lo scatto alla risposta da pagare, che ci sono altri 0,15 euro di costo conversazione, e che la gratuità ha un limite di 30 minuti per chiamata e mensile di 1.500 minuti. Multa anche qui: 53.600 euro.
Dentro ci sono tutti. I frequent flyer di AirOne che non possono usufruire dei premi promessi dal programma “Miles % More”. Il “patè di fegato d’anatra Jensen’s” che a dispetto della dicitura ne contiene solo l’8%. L’Hotel Executive di Cesenatico che promette sui depliant “bambini gratis” e poi li fa pagare, specificando solo in seguito a chi li interpella che: «Sono gratuiti i bambini che dormono nello stesso letto con i genitori o in altri casi nel terzo letto nei periodi di bassa stagione o a seconda dell’occupazione dell’hotel». Precisando infine che questo piccolo particolare «per ragioni di spazio non è stato possibile menzionare nell’opuscolo». O lo Yogurt Alta Qualità di Granarolo che non è fatto con latte di alta qualità. Proprio tutti. Perfino le pompe funebri Daniele Raimondi di Milano, che sulle Pagine gialle affermano, senza esserlo, di essere appaltatori comunali e di praticare prezzi convenzionati.
Insomma, dal grande al piccolo, nessuno sfugge alla tentazione di truccare le carte. Ma è così facile? «Sì. La pubblicità cerca sempre più di muovere i sentimenti intimi degli spettatori spiega Giampiero Gamaleri, ordinario di sociologia della comunicazione a RomaTre e titolare di un corso sull’analisi del messaggio pubblicitario perché quella descrittiva ormai non ha più senso. Faccio un esempio: il tema della maternità, sempre più usato nel pubblicizzare automobili, piuttosto che spiegarne le caratteristiche tecniche. Però stimolare la sfera psicologica rende immensamente più difficile cogliere il discrimine tra lo spot lecito e quello ingannevole. Così, è inevitabile che chi si trovi a maneggiare un limite così sottile venga tentato dal forzare la mano. E che l’utente sia distratto da altro e non si accorga dell’inghippo. La colpa? Equamente divisa tra l’investitore e l’agenzia pubblicitaria, uniti dall’interesse convergente. Capisco la difficoltà del Garante, come del Giurì della pubblicità, nell’intervenire in modo chirurgico in un campo dai contorni così sfuggenti», conclude Gamaleri.
Ma la colpa, come dice il professor Gamaleri, è davvero equamente divisa tra l’investitore e il pubblicitario? Non ne è affatto convinto Roberto Bruno, amministratore delegato di Young & Rubicam: «A noi agenzie pubblicitarie viene chiesto di comunicare l’aspetto più impattante di un’offerta. Come potrebbe essere il “costo zero” di un servizio, ad esempio. I particolari, è vero, finiscono nei codicilli, ma è inevitabile». Sì, dottor Bruno, ma quando il cosiddetto aspetto impattante è falso? Se il decantato “costo zero” non è zero? «In questo caso noi non c’entriamo: non abbiamo il compito di verificare la veridicità di quello che l’azienda vuole comunicare». Dunque, la colpa è delle aziende? «È un discorso complesso spiega ancora Bruno e vanno suddivise le aree di azione. Parliamo di telefonia? Allora il problema è vasto. Non esiste ormai più una vera differenziazione tra tariffe e servizi. Il marketing delle aziende inventa ogni giorno prodotti nuovi, ma in fondo sempre uguali, dunque la comunicazione si gioca su altri campi: il senso di appartenenza ad un gruppo, ad esempio, o a un mondo di valori, più o meno veri e validi che siano, è un altro discorso. Eppoi ricordo conclude Bruno che in questo settore il controllo è molto blando. Nel campo finanziario e assicurativo, ad esempio, è molto più difficile raccontare balle per via del controllo della Consob. La telefonia è ancora un far west».
Poco controllo, dice Bruno. E chi ogni giorno lotta per pizzicare i “fuorilegge” dello spot? Risponde il Garante Catricalà: «Per ora abbiamo pubblicato un’analisi di tutte le scorrettezze più ricorrenti che abbiamo sanzionato in due anni di legge Giulietti. Alla prima occasione, per i casi di recidiva, chiederemo al Parlamento di darci il potere di aumentare in modo significativo le sanzioni. Con l’occasione chiederemo che la nostra azione diventi obbligatoria d’ufficio senza dover attendere la denuncia dei consumatori. Va dato un giro di vite: la concorrenza sleale genera sfiducia nella domanda e conseguenze negative per l’intero mercato». In tutti i campi, ovvio, non solo telefonia. «Certo riprende Catricalà in termini quantitativi si tratta del fenomeno più consistente, ma esistono anche spot di altri prodotti non telefonici che sono qualitativamente più perniciosi: quelli che mettono a rischio la salute (dimagranti e cure per malattie difficilmente guaribili) e pubblicità che approfittano dell’ingenuità di consumatori deboli come per esempio i bambini e gli anziani. O promettono titoli di studio privi di qualsivoglia valore legale».
Evoluto, psicologizzato, il grido dell’imbonitore dalle fiere dei nostri nonni ad oggi in fondo non è cambiato:
venghino siori, venghino...

 

Bangladesh, democrazia in esilio
Il regime si libera delle due protagoniste dell'ormai defunta democrazia bengalese
Il regime militare bengalese ha deciso di liberarsi delle due donne che negli anni ’80 lottarono contro la dittatura e che dal 1991 fino allo scorso gennaio – quando è stato ridato il potere all’esercito – hanno dominato la scena politica del Bangladesh democratico.
Dopo aver costretto all’esilio la ex primo ministro Khaleda Zia, che ha accettato di partire per l’Arabia Saudita in cambio della scarcerazione di suo figlio arrestato dai militari, oggi il governo transitorio sostenuto dall’esercito ha vietato il rientro in patria della leader dell’opposizione Sheikh Hasina, che era in vacanza negli Stati Uniti.
 
Sheikh HasinaSheikh Hasina. “I suoi discorsi infiammatori e le sue dichiarazioni provocatorie creano ostilità e situazioni contrarie alla legge e all’ordine”, ha dichiarato a proposito di Hasina il ministro dell’Interno, che ha poi dato la seguente spiegazione generale. “Nel recente passato, le attività irresponsabili del suo partito Awami League e di altri partiti (il rivale Bangladesh Nationalist Party di Khaleda Zia, n.d.r.) hanno prodotto il collasso della legalità e dell’economia del paese, da cui la necessità della proclamazione dello stato di emergenza”. Il ministro si riferisce agli scioperi e alle proteste dell’Awami Legaue che da ottobre a gennaio hanno effettivamente paralizzato il Bangladesh provocando violenti scontri con la polizia che hanno portato alla morte di decine di manifestanti. Morti per le quali, nei giorni scorsi, il regime di Dacca ha accusato Hasin di omicidio.
“Non ho paura della prigione o delle minacce”, ha dichiarato oggi dagli Usa la leader dell’Awami League. “Possono fare quel che vogliono, ma io ho la coscienza pulita, so di non aver fatto nulla di male e di non aver commesso crimini”, ha detto esprimendo la sua volontà di sfidare il divieto di ritorno in patria, che era previsto per domenica.
 
Khaleda ZiaKhaleda Zia. Partirà invece sabato per l’Arabia Saudita la sua storica rivale – ma sua alleata negli ’80 durante la lotta contro la dittatura militare – Khaleda Zia, leader del Bangladesh Nationalist Party e primo ministro fino allo scorso ottobre. I militari che sostengono il governo transitorio del presidente Iajuddin Ahmed se la sono presa anche con lei, mettendola agli arresti domiciliari una settimana fa e perseguitando i suoi familiari. Lunedì è stato arrestato suo figlio Arafat Rahman, scarcerato ieri in cambio della promessa di Zia di lasciare subito il paese. L’ambasciata dell’Arabia Saudita a Dacca ha già dato i visti a lei e a tutti i suoi familiari. Sabato partiranno alla volta di Riad.
Rimane in carcere l’altro figlio di Zia, Tarique Rahman, alto dirigente del Bnp, arrestato un mese fa e tutt’ora in carcere.
Dall’11 gennaio, giorno in cui è in vigore lo stato di emergenza nel paese, la “campagna anti-corruzione” avviata dal governo sostenuto dall’esercito ha portato all’arresto di 126 mila attivisti politici di entrambi i partiti e alla morte in carcere di almeno 79 detenuti. Da tre mesi la popolazione del Bangladesh vive nel terrore di finire nelle mani della polizia e dei militari, in particolare dei famigerati ‘Rab’, i battaglioni di azione rapida.
 

 

17 aprile

Abbandonati a loro stessi
I profughi iracheni sono quasi 4 milioni, a Ginevra si cerca una soluzione alla crisi
“Lasciate le porte aperte ai rifugiati iracheni”. É l'appello che ricorre come uno slogan alla conferenza dell'Onu dedicata ai profughi iracheni, che si tiene oggi e domani al Palais des Nations di Ginevra. L'incontro, organizzato dall'Alto Commissariato dell'Onu per i Rifugiati, vede la partecipazione di governi, organizzazioni internazionali e Ong provenienti da sessanta paesi, che si riuniscono nella speranza di risolvere, o almeno di alleggerire, la gravissima situazione scaturita dall'invasione dell'Iraq. Il fenomeno della fuga di massa dall'Iraq è esploso dopo l'attentato del febbraio 2006 contro il mausoleo di Samarra, un esodo che secondo l'Unhcr è secondo solo alla diaspora dei palestinesi seguita alla creazione di Israele nel 1948.

 
Il ministro degli Esteri iracheno ZebariVie di fuga. “Gli Stati Uniti hanno un obbligo particolare di assistere le persone sfollate, all'interno dell'Iraq e all'esterno del paese -ha dichiarato nel suo intervento Bill Frelick, di Human Rights Watch-. Hanno intrapreso una guerra che ha causato direttamente migliaia di morti, seminato il terrore, provocato sofferenze e sfollamenti forzati”. Human Rights Watch ha messo in guardia le delegazioni presenti alla conferenza, spiegando che i paesi confinanti con l'Iraq stanno inasprendo le condizioni d'accesso al loro territorio per bloccare l'immigrazione di massa di iracheni ma, così facendo, bloccano le vie di fuga ai profughi. Si stima che il 95 percento degli Iracheni fuggiti abbia trovato rifugio in uno dei paesi del medio oriente, ma il fatto che alcuni di questi, come la Siria e la Giordania, siano ormai vicini al limite della capacità di accoglienza, sta lentamente deviando i flussi di profughi verso i paesi più ricchi, tra cui anche Europa e Stati Uniti. “Siria e Giordania non possono più far fronte all'afflusso di iracheni -ha spiegato il delegato di Amnesty International.- é ormai vitale che anche altri governi siano coinvolti, mettendo a punto un generoso programma di reinserimento per i profughi, specialmente quelli più vulnerabili”. Malcom Smart, direttore di Amnesty in medio oriente, ha anche attaccato il governo britannico e gli altri paesi che “continuano a respingere i richiedenti asilo iracheni, adducendo che il nord curdo è relativamente vivibile”.”Questa pratica deve cessare immediatamente” ha concluso.

 
Profughi iracheni in fugaNumeri. Gli iracheni che fuggono ogni mese dalla guerra sono circa 50 mila e, al momento, il numero degli sfollati si avvicina a quattro milioni di persone. Di queste, circa 1,9 milioni si trovano ancora all'interno del paese. In Giordania si calcola che dall'inizio della guerra siano entrati oltre 750 mila profughi, un numero che ha fatto crescere la popolazione nazionale del 14 percento. Ancora più numerosi sono gli iracheni in Siria, che sono ormai più di un milione. Recentemente anche gli Stati Uniti hanno alzato le quote di accoglienza umanitaria per i profughi, concedendo asilo a 7mila iracheni, mentre nel 2006 l'avevano concesso solo a 202. Secondo l'Unhcr i casi più disperati sono quelli che riguardano i profughi bloccati o respinti alle frontiere: almeno 20 mila persone che l'organizzazione umanitaria vorrebbe trasferire entro la fine dell'anno.

 
Un campo per sfollati interni a BaghdadAbbandonati. La soluzione al problema dei profughi che sta emergendo dalla conferenza consiste dunque in un doppio impegno: da parte dei paesi confinanti a tenere aperti i confini, da parte dei paesi ricchi del mondo a fornire protezione e asilo politico ai profughi, oltre che fondi per sostenere le enormi spese dell'Unhcr. “Le infrastrutture irachene sono al collasso e la capacità dei paesi della zona di ospitarli e assisterli non è più sufficiente” ha dichiarato Don Redmond, il portavoce dell'organizzazione, che ha concluso: “C'è bisogno di milioni, forse miliardi di dollari”.
 

 

La guerra? La paga la sanità

Il budget per la Difesa raggiunge il suo picco (625 miliardi di dollari) a scapito di ulteriori tagli sanitari

Due guerre. La guerra contro il cancro annunciata negli anni '70 dal presidente Usa Nixon e quella contro il terrore proclamata nel 2001 da Bush condividono un obiettivo comune: eliminare un nemico. Nixon, nonostante l'impegno economico profuso nella guerra in Vietnam, continuò a pompare denaro nella più grande istituzione per la lotta al cancro statunitense, il National Cancer Institute (Nci). Oggi, invece, Bush investe nella Difesa la quota più elevata mai stanziata da un presidente statunitense: 625 miliardi di dollari. E all'Istituto per il cancro manco una lira. Anzi: prima della scadenza del suo mandato, destinerà alla ricerca dell'Nci 2 miliardi di dollari in meno. A denunciarlo in un editoriale è la rivista scientifica 'Lancet', che riporta che i tagli arrivano proprio quando l'Nci, che compirà 70 anni il prossimo 7 agosto, si trova ad affrontare uno dei momenti più critici della sua esistenza. Il direttore, John Niederhuber, lamenta la chiusura di laboratori, tagli al personale, esperimenti e progetti costretti a fermarsi a metà per mancanza di soldi.

Tagli alla sanità. La previsione di bilancio 2008 presentata al Congresso il mese scorso non contiene note dolenti solo per la ricerca contro il cancro. L'amministrazione Bush taglierà 500 milioni di dollari per i Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie, 800 milioni per l'Ente sanitario per i veterani, 500 milioni per l'Agenzia per la protezione dell'ambiente e 78 miliardi di dollari, in cinque anni, per i pilastri dell'assistenza sanitaria Usa, il Medicare e il Medicaid. La Commissione bilancio del Congresso, riducendo i budget dei singoli Stati, impose lo scorso anno drastici tagli anche a servizi odontoiatrici, oculistici e di salute mentale. Allora ci rimisero anche molti bambini, costretti a rinunciare all'assistenza infermieristica a domicilio. Le spese degli utenti sanitari Usa aumentano di anno in anno per servizi medici come visite ambulatoriali o assistenza ospedaliera, così come per i farmaci prescrivibili. Attualmente, sono 46 milioni le persone senza copertura sanitaria negli Stati Uniti.

Il paradosso. Lo smantellamento della sanità statunitense arriva proprio nel momento in cui i decessi per tumore mostrano per la prima volta un declino, ciò che prova l'efficacia della strategia sanitaria adottata fino a oggi. Eppure, l'invio di nuove truppe in Iraq e Afghanistan e l'aumento dei fondi per la Difesa a scapito della sanità contiene un paradosso, ossia la possibilità che il carico a danno del National Cancer Institute aumenti a dismisura, con un numero sempre maggiore di soldati di rientro dal fronte che hanno sviluppato malattie neoplasiche a seguito dell'esposizione all'uranio impoverito. Quest'ultimo è presente in diversi tipi di armamenti e si ritiene possa originare patologie come la leucemia e alcune forme di cancro.

Privando di adeguate risorse il National Cancer Institute, un'istituzione cruciale non solo per la sanità statunitense, ma anche per quella internazionale, la 'guerra al cancro' potrebbe venire sconfitta dalla 'guerra al terrore'. Ognuno scelga il nemico che preferisce.

 

Afghanistan, altro che campagna antidroga

In Helmand è cominciata la raccolta dell'oppio, e il governo afgano aiuta i coltivatori

In Afghanistan è iniziata la raccolta dell’oppio. Nella provincia di Helmand – dove si concentrano il 40 percento delle piantagioni di papavero dell’Afghanistan – le eccezionali piogge primaverili lasciano prevedere un raccolto da record, con produttività che raggiungono i 150 chili di oppio a ettaro.

Un'annata particolare. Questa sovrapproduzione, da una parte sta facendo crollare i prezzi di mercato, scesi dagli oltre 100 dollari al chilo della scorsa stagione a 80-90 dollari. Dall’altra ha fatto aumentare la richiesta di braccianti nei campi, necessari a completare l’inatteso raccolto prima che il caldo secchi i papaveri. A questo va aggiunto un terzo fattore: a differenza dell’anno scorso, ora i talebani controllano gran parte della provincia e in molti distretti i combattimenti e i bombardamenti sono quotidiani. Le tre cose insieme hanno determinato un conflitto economico tra proprietari delle terre e lavoranti stagionali, che quest’anno hanno una maggior forza contrattuale rispetto ai datori di lavoro e che quindi non si accontentano più dei miseri salari degli anni passati.

La rivolta degli stagionali. “Gli anni scorsi mendicavamo il lavoro e ci accontentavamo di venire pagati con un decimo, un quindicesimo dell’oppio che raccoglievamo”, dice Abdul Jamil, uno delle migliaia di stagionali provenienti da tutto il paese che in questi giorni hanno invaso Lashkargah. “Ma quest’anno la situazione è capovolta: sono i proprietari delle terre ad avere disperato bisogno delle nostre braccia per non perdere i raccolti. E inoltre dobbiamo rischiare, lavorando in zone controllate dai talebani. Quindi ci siamo uniti e abbiamo chiesto di essere pagati molto di più: abbiamo chiesto la metà del raccolto minacciando di scioperare, ma i padroni hanno protestato con il governatore, hanno chiesto il suo intervento e alla fine ci siamo accordati per un quarto”.
Incredibile ma vero. Le autorità governative che in Occidente crediamo impegnate nella lotta alla piaga dell’oppio, in realtà fungono da intermediari “sindacali” tra coltivatori e raccoglitori per fissare il giusto prezzo della manodopera.

La mediazione del governo. Domenica 8 aprile – la stessa in cui i talebani hanno sgozzato Ajmal Nashkbandi, l’interprete di Mastrogiacomo – i braccianti hanno minacciato uno sciopero salariale.
I proprietari dei campi, messi alle strette, hanno deciso di chiedere l’aiuto del governo. Un centinaio di coltivatori d’oppio hanno inscenato una manifestazione di protesta nel centro di Lashkargah, davanti al palazzo del governatore, per chiedere che intervenisse nella disputa. “Abbiamo speso tutti i nostri soldi per crescere l’oppio e ora il governo ha il dovere di aiutarci a trattare con i braccianti, sennò rischiamo di perdere i raccolti”, dichiarava quel giorno un proprietario terriero a un giornalista dell’Institute for War and Peace Reporting.
Il governatore di Helmand, Asadullah Wafa, ha immediatamente risposto all’appello, fissando un tetto salariale massimo per gli stagionali a un quinto dell’oppio da essi raccolto. Un compromesso che ha soddisfatto i coltivatori e, a quanto pare, anche i braccianti, tornati al lavoro nei campi.

 

Si annuncia una fine d'anno scolastico ad alto rischio caos per la crisi finanziaria in molti istituti italiani. Budget irrisori rendono impossibili le sostituzioni dei prof. E pagano gli studenti

Scuola, è vietato ammalarsi, mancano i soldi per i supplenti

di SALVO INTRAVAIA

Ultimi due mesi di scuola senza supplenti? Sembra proprio di sì. Mancano i soldi per pagare i supplenti e i dirigenti scolastici devono arrangiarsi come possono. In questi giorni, gli alunni disabili restano sovente senza insegnante di sostegno. I bambini e i ragazzini vengono smistati come pacchi nelle altre classi e gli studenti delle superiori sono sempre più spesso costretti a saltare alcune ore di lezione: accorciano la giornata scolastica o entrano qualche ora dopo l'inizio canonico delle attività scolastiche.

L'unica speranza è che in questi ultimi due mesi di scuola maestre e prof godano di ottima salute. Insomma, che nessuno si ammali. La situazione è davvero drammatica soprattutto per i dirigenti scolastici che non sanno quello che fare quando la mattina arriva la notizia di un docente in malattia. Stessa situazione da Milano a Palermo. Ma non è meno difficile per alunni costretti a transumanze quotidiane e ragazzini disorientati da continue interruzione della continuità didattica e con programmi svolti a metà. Come al solito, in questi casi, sono i più deboli a pagare dazio.

"La situazione è precipitata - dichiara Massimo Di Menna, leader della Uil scuola - quando il ministero ha comunicato ai dirigenti scolastici il nuovo meccanismo di calcolo del budget per pagare i supplenti. Da quel momento in poi, non nominare il supplente è diventata una pratica diffusissima oltre che illegittima". Dallo scorso febbraio direttori didattici e presidi sono andati in pallone. Quando manca il docente titolare "smembrano le classi o cancellano le compresenze". "I dirigenti scolastici - aggiunge Di Menna - sono diventati tanti piccoli ragionieri trasformando in troppi casi la scuola in servizio di assistenza anziché attività didattica vera. E, così, l'intero sistema scolastico sta andando in tilt".

"Tutti i giorni - osserva Enrico Panini, segretario generale della Flc Cgil - viene messo in discussione il diritto allo studio in migliaia di classi". Il perché è presto detto. Negli anni del governo Berlusconi le risorse per le cosiddette supplenze brevi - quelle di pochi giorni, al massimo qualche settimana - sono state abbondantemente ridotte: nel 2004 il budget era di 889 milioni di euro ridotti a 598 nel 2006. Somma che è stata ulteriormente ridotta con la Finanziaria 2007 passando - secondo l'Ufficio studi della Cgil - a 573 milioni. In buona sostanza, in appena tre anni sono letteralmente spariti 216 milioni. Le scuole, per non farsi pignorare computer e scrivanie, hanno tamponato pagando i supplenti con fondi destinati ad altre attività ma hanno accumulato debiti per 500 milioni di euro. E quest'anno è arrivata la novità del cosiddetto "capitolone" che raggruppa tutti i finanziamenti alle scuole in unico capitolo.

All'inizio, la cosa sembrò positiva perché le scuole ricevono in un'unica soluzione i finanziamenti che prima provenivano da diverse fonti ma, ancora una volta, le risorse hanno subito un taglio. Per le supplenze brevi e saltuarie nelle scuole elementari e materne sono previsti 450 euro a docente che diventano 150 per la scuola media e superiore. Com'è andata con le nuove regole varate dal ministro dell'Economia, Tommaso Padoa Schioppa - lo raccontano gli stessi presidi. "In provincia di Milano, ma più in generale in Lombardia, si sta prospettando una situazione estremamente preoccupante", hanno scritto qualche settimana fa al ministro della Pubblica istruzione, Giuseppe Fioroni, un gruppo di dirigenti scolastici milanesi. "Per fare un esempio concreto - si legge - : alla scuola di (...) spetterebbe un massimo di 86.200 euro. La spesa per le supplenze per il 2006 è stata di euro 190 mila e per il 2007 si può prevedere una sostanziale conferma del trend. E' evidente quindi che i finanziamenti assegnati bastano a poter pagare gli stipendi solo per pochi mesi. E casi come questo sono molto diffusi, soprattutto nelle scuole primarie e negli istituti comprensivi. D'obbligo la domanda: cosa farà il dirigente scolastico una volta esaurite le somme assegnate? Non chiamerà più i supplenti dividendo gli alunni delle classi 'scoperte' in altre classi tutti i giorni della settimana con evidente compromissione delle attività didattiche e creando una situazione di caos permanente nella scuola? Oppure continuerà a stipulare contratti di lavoro sapendo di non avere i fondi necessari per corrispondere gli stipendi al personale supplente temporaneo? E chi li pagherà? E quando?".

Anche in Toscana i capi d'istituto hanno messo nero su bianco le loro difficoltà. Lo scorso 5 aprile 53 dirigenti scolastici di Firenze hanno inviato una nota al ministro. "Il budget per le supplenze brevi risulta assolutamente insufficiente. In moltissimi istituti nonostante le strategie attivate dai dirigenti la somma prevista è stata già spesa. Si ritiene opportuno lo scorporo delle supplenze effettivamente brevi da quelle lunghe quali le maternità e prevedere per quest'ultime che il pagamento sia effettuato dal ministero dell'Economia". Già perché nelle supplenze brevi sono conteggiate anche quelle, che spesso arrivano fino a 8 mesi, per sostituire le insegnati per maternità o quelle per lunghe malattie del titolare. Assenze che fanno saltare tutti i calcoli e mettono nei guai le scuole. In questo clima di generale caos due novità suonano come buone notizie. Il ministro Fioroni - conclude Di Menna - ha chiesto a Padoa Schioppa di gravare le indennità per maternità all'Inps mentre per il pagamento dei supplenti, oltre al budget massimo previsto da viale Trastevere - è stato messo su un fondo perequativo che sarà distribuito i relazione alle necessità documentate dalle scuole". Servirà, tutto questo, a risolvere i problemi?

 

Come t'invento malattia e farmaco

Costruita una sindrome di fantasia negli Usa, per sensibilizzare sulla corretta informazione

Simona Calmi

Un farmaco miracoloso e senza effetti collaterali per curare un disturbo d'ansia nuovo di zecca, ultima scoperta in campo medico. L'havidol promette di cancellare noia, stanchezza, stress, mancanza di interesse e quant'altro: non aspetti della vita di ogni giorno, ma sintomi della DSACDAD (Dysphoric Social Attention Consumption Deficit Anxiety Disorder), una sindrome molto grave che affligge milioni di persone in tutto il mondo, purtroppo ancora ignare della loro condizione. Per saperne di più basta consultare il sito internet ufficiale. L'unica avvertenza? Attenzione a non prendere il tutto sul serio, perché l'havidol è solo una parodia, l'ultima trovata delle associazioni dei consumatori americani impegnate sul fronte della salute e della corretta informazione in campo medico, decise a giocare la carta dell'ironia per dimostrare quanto sia facile convicere i sani di essere ammalati.

Commercio in malattie. Basta infatti chiamare sintomi condizioni "normali"che vent'anni fa nessuno si sarebbe sognato di curare, come la timidezza, l'eccessiva vivacità dei bambini o il calo di desiderio sessuale, per non parlare della calvizie o della menopausa. Una volta "inventata" una malattia, si può proporre un farmaco per curarla. Gli anglosassoni lo chiamano "disease mongering" (traducibile in italiano come "commercializzazione della malattia") e la stampa specialistica ha cominciato a occuparsene da qualche tempo, esprimendo preoccupazione riguardo ai messaggi inviati attraverso i media ai consumatori, spesso privi delle conoscenze necessarie per distinguere tra la corretta informazione e il marketing, tra una campagna di sensibilizzazione e il tentativo di promuovere l'uso di farmaci quando non ne esista la necessità. Già lo scorso anno il British Medical Journal aveva pubblicato un finto articolo su un nuovo disturbo caratterizzato da uno stato di pigrizia che nei casi peggiori poteva persino diventare letale (perché i soggetti colpiti perdevano interesse anche a respirare…). Il tutto aveva il sapore di uno scherzo da "pesce d'aprile", con i commenti del dottor Leth Argos sul farmaco appena approvato per la vendita, l'indolebant, eppure qualche giornale aveva abboccato, prendendo sul serio la notizia.

Una campagna pubblicitaria completa. Ma stavolta le associazioni dei consumatori hanno fatto davvero le cose in grande: hanno creato l'intera campagna di marketing coinvolgendo artisti che lavorano in campo pubblicitario per ideare spot televisivi (scaricabili da YouTube) che fanno il verso alle pubblicità degli antidepressivi, vietate in Europa ma all'ordine del giorno negli Stati Uniti, dove casalinghe depresse interrompono i programmi televisivi per raccontare come hanno ritrovato il sorriso e la voglia di occuparsi di casa e bambini grazie alle pastiglie. E la campagna ha centrato il bersaglio, con un risultato più credibile di quanto di pensi."La cosa che mi ha colpito di più è che molte persone non si sono rese conto della parodia o della satira" ha commentato una delle ideatrici della campagna. Notizie serie sull'havidol, infatti, sono state trovate in molti siti che trattavano i disturbi da panico e d'ansia, a riprova di quanto sia semplice convincere le persone di essere malate e di aver bisogno di medicine.

 

L'eredità avvelenata dell'Africa

Circa 50.000 tonnellate di pesticidi scaduti contaminano il continente

L'Africa è una delle principali pattumiere del mondo. Pochi però sanno che, oltre ai rifiuti tossici provenienti dall'Occidente, nel continente si trovano decine di migliaia di tonnellate di pesticidi deteriorati, acquistati in quantità enormi negli ultimi 40 anni e mai usati. Secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità, ogni anno 200.000 persone muoiono per gli effetti provocati dal deterioramento dei pesticidi agricoli, mentre sono circa 750.000 quelle che ricorrono a cure mediche.

Pesticidi. Stando alle stime della Food and Agriculture Organization, in Africa sarebbero presenti circa 50.000 tonnellate di pesticidi non stoccati. Importati in grandi quantità durante gli anni della “rivoluzione verde”, questi prodotti sono poi caduti in disuso per diverse ragioni: un po' per la scarsa efficacia di alcuni o per la messa al bando delle sostanze che li compongono, un po' per il ridotto verificarsi di eventi catastrofici quali invasioni di cavallette e locuste. Il risultato è che la maggior parte di questi pesticidi è rimasta inutilizzata in magazzini fatiscenti, in container arrugginiti o, peggio ancora, lasciata all'aria aperta in migliaia di siti sparsi nel continente. Alcuni di questi stock, vecchi di decine di anni, contengono elementi (come la dieldrina) banditi nel corso degli anni per la loro tossicità, e che durante il processo di deterioramento si possono trasformare in sostanze ancora più pericolose.

Pericoli. In questa settimana, l'Etiopia ha reso noto di aver spedito 640 tonnellate di pesticidi scaduti in Gran Bretagna. Nel 2001, sempre l'Etiopia aveva dato incarico a una compagnia finlandese specializzata di smaltirne altre 1500. Un deposito di pesticidi scaduti è stato rinvenuto addirittura nella capitale Addis Abeba, a 500 metri da alcuni silos di grano. “Questi pesticidi sono vecchi di decenni, il che pone dei rischi immediati – rivela a PeaceReporter Eloise Touni, del programma Pesticide Action Network – La maggior parte dei depositi non è monitorata, e in alcuni casi la gente vi si reca per prendere i pesticidi e usarli nei campi”. Fatica sprecata, perché i pesticidi dopo due anni perdono la loro efficacia (ma non la loro tossicità, se presenti in grandi quantità). “Il più delle volte il contenuto di questi depositi ha contaminato falde acquifere e terreni – continua la Touni – Per fare un paragone, è come se tonnellate di rifiuti ospedalieri fossero finiti sulla nostra tavola o nell'acqua che beviamo”.

Bonifica. Per questo l'Onu, assieme ad alcune agenzie umanitarie, associazioni ambientaliste e Ong, ha lanciato nel 2000 l'Africa Stockpile Programme (Asp), il cui obiettivo è quello di ripulire il continente, stoccando i pesticidi e bonificando i terreni contaminati. Un compito non facile, sia per i costi che per i tempi. Il programma è finanziato in gran parte da Paesi donatori e dalle Nazioni Unite, visto il costo della raccolta e dello stoccaggio delle materie. “Il prezzo varia da 3000 a 5000 dollari a tonnellata, un costo che la maggior parte delle nazioni africane non si può permettere di pagare”, continua la Touni. Ciò significa che, per bonificare l'intero continente, saranno necessari almeno 175 milioni di dollari, a cui se ne aggiungono altri 50 per i programmi di prevenzione. Stando all'Asp, finora solo il 5 percento di questi depositi è stato ripulito. Per finire il lavoro, spesso commissionato alle stesse aziende che vendono pesticidi (e che in questo modo conseguono un doppio profitto) saranno necessari dai 12 ai 15 anni, forse anche di più per i Paesi più contaminati, come il Botswana e il Mali. Intanto, gli africani continueranno a mangiare, bere e respirare veleno.

 

La privatizzazione della guerra

Iraq: Londra spende un quarto del suo budget per la sicurezza, mentre l'Italia assume un mercenario scozzese

La Gran Bretagna ha speso in compagnie di sicurezza un quarto dei finanziamenti destinati alla ricostruzione in Iraq, gli Stati Uniti oltre un terzo. Lo rivela il quotidiano britannico 'Guardian', mentre l'Italia affida il compito della difesa dei civili alla 'Aegis', il cui fondatore Tim Spicer è un noto mercenario scozzese.

Provenienza oscura. La maggior parte del denaro stanziato dal ministero della Difesa britannico (214 milioni di euro) è andato alle guardie armate che proteggono le strutture britanniche nel Paese, mentre circa 30 milioni sono serviti per l'addestramento della polizia e dei consulenti per la sicurezza del governo iracheno. A rivelare l'entità delle spese di guerra è stato il ministro degli Esteri Kim Howells durante la risposta a un'interrogazione parlamentare presentata da Norman Baker, liberaldemocratico. "E' una montagna di denaro - ha riferito Baker - che mostra come la situazione della sicurezza sia completamente fuori controllo. Un conto è far la guardia a un'ambasciata, altro è reclutare persone che provengono da ambienti equivoci e spesso oscuri. Chiediamo di sapere di più sul loro addestramento e sulle regole d'ingaggio entro le quali operano". Che tali risorse sono stornate dal fondo per la ricostruzione e per l'aiuto umanitario, che lo scorso anno ammontava a quasi un miliardo di euro, è cosa risaputa in Gran Bretagna. E sebbene un libro bianco sulla necessità di fornire regole certe e una cornice legale all'impiego dei 'private contractors' sia stato elaborato in Gran Bretagna già 5 anni fa, l'azione politica è rimasta ferma e nessuna legge è stata approvata in materia. I grandi beneficiari dei quattrini britannici sono la compagnia newyorchese 'Kroll' e le inglesi ArmorGroup e ControlRisks. Per la ArmorGroup, amministrata dal deputato conservatore Malcom Rifkind, l'Iraq significa utili per 190 milioni di dollari, ovvero metà del proprio bilancio.

Abusi da Far-West. Così, mentre in patria monta una pressione sempre più forte sul ritiro delle truppe, la sensazione è che sul campo di battaglia il ruolo dell'esercito possa venire gradualmente sostituito da tali compagini armate. I 'security contractors' potrebbero portare ad accelerare un processo di 'privatizzazione' della guerra che consentirebbe ai governi e agli eserciti di tirarsi fuori dalle situazioni più pericolose, lasciando tuttavia aperta la 'questione morale' del loro impiego. Una compagnia di contractors statunitense, la 'Custer Battles', pagata dal Pentagono per condurre missioni pericolose a guardia di convogli per il rifornimento delle truppe, entrò nell'occhio del ciclone due anni fa, quando quattro dei suoi stessi dipendenti testimoniariono di aver assistito ad abusi ai danni dei civili. In particolare, i contractor riferirono di aver assistito ad episodi brutali, come sparatorie indiscriminate contro civili in fuga o deliberatamente schiacciati da camion, episodi a seguito dei quali i quattro lasciarono l'incarico. Un'inchiesta del Times ha calcolato che i 'security contractors' sono stati coinvolti in oltre 200 'incidenti' dal 2004 al 2005: 24 di questi sono state sparatorie contro passanti. L'aumento dei costi per la sicurezza a spese di quelli destinati allo sviluppo è anche il leitmotiv dell'impegno statunitense in Iraq. Secondo le ultime valutazioni del Tesoro Usa, il 34 per cento dei 15 miliardi di euro stanziati per la ricostruzione sono stati dirottati in spese per la sicurezza, aumentando dai 3,3 miliardi del 2005 ai 4,7 del 2006.

Un esercito mercenario. Il contingente militare italiano ha ormai lasciato l'Iraq nel novembre 2006, ma il personale civile, la cosiddetta Unità di sostegno alla ricostruzione, è rimasto nel Paese. L'agenzia privata che il ministero degli Esteri ha scelto per difendere i nostri tecnici è la britannica Aegis Defence Services. Verrà pagata 3 milioni di euro. Il fondatore, Tim Spicer è un veterano delle Falklands e ha servito come colonnello nelle Guardie Scozzesi in Irlanda del Nord. I suoi uomini furono responsabili dell'uccisione di un ragazzo cattolico disarmato nel 1992. Spicer fu coinvolto nella soppressione della ribellione contro il governo di Papua Nuova Guinea nel 1997 ('servizio' per il quale fu pagato 36 milioni di dollari) e in un traffico d'armi, con violazione dell'embargo, in Sierra Leone nell'anno successivo. Il governo statunitense lo assoldò nel 2004, pagandolo 293 milioni di dollari, per coordinare la sicurezza di tutta la security nel Paese: 20 mila uomini. Il più grande esercito occidentale in Iraq, dopo gli americani.

 

«Aiutate subito l'Iraq»

La Croce rossa: per donne e civili sempre peggio

R. Es.

«La sofferenza cui sono esposti oggi gli uomini, le donne e i bambini è insopportabile e inaccettabile»: così ieri il direttore delle operazioni del Comitato internazionale della Croce rossa (Cicr) Pierre Kraehenbuehl, ha presentato un rapporto dal titolo «Civili senza protezione - La crisi in Iraq in continuo peggioramento». Il rapporto rappresenta un'aspra denuncia delle condizioni di vita del popolo iracheno, quattro anni dopo l'invasione della Mesopotamia da parte delle truppe anglo-americane.
«Il Cicr si rivolge a tutti coloro che possono influenzare la situazione sul terreno perché agiscano ora per fare in modo che le vite della gente comune siano risparmiate e protette», si legge nel documento. «Questo - prosegue il Cicr - è un obbligo ai termini del diritto internazionale umanitario».
Pur senza contenere accuse dirette a chicchessia - la Croce rossa è neutrale - dal rapporto emerge chiaramente che nessuno, inclusi il governo iracheno e le forze d'occupazione, ha fatto abbastanza. Il personale del Cicr hanno fra l'altro chiesto alle donne irachene come è la loro vita: «Se c'è un reale aiuto per noi oggi che qualcuno potrebbe fare - è stata la risposta di una donna - sarebbe aiutarci a raccogliere i corpi che costellano le strade davanti alle nostre case ogni mattina e che nessuno osa toccare o portar via per ragioni di sicurezza».
Per le donne - ha aggiunto - è «semplicemente insopportabile» che i propri figli si trovino davanti questi cadaveri ogni mattina mentre cercano di portarli a scuola. Ogni aspetto della vita in Iraq, afferma la Croce Rossa, sta peggiorando, andare al mercato è diventato un rischio che può costare la vita. «Una volta - racconta nel rapporto Saad, un membro del personale umanitario - sono stato chiamato al sito di un'esplosione, e una volta arrivato ho visto un bambino di quattro anni seduto vicino al corpo di sua madre, decapitata dall'esplosione. le stava parlando, chiedendole cosa fosse successo.
La sua mamma lo aveva portato con sé a fare compere». Il rapporto denuncia inoltre che buona parte dei rifornimenti di acqua ed elettricità e del sistema fognario sono in condizioni critiche, che in alcune aree si registra carenza di cibo e la malnutrizione è aumentata. Le strutture sanitarie sono a corto di materiali. Molti medici e pazienti non osano più andare al lavoro perché minacciati.

 

Palermo

Pacchi elettorali targati Ue

Aiuti dell'Unione europea «dirottati» verso un quartiere della città Pasta, biscotti e formaggi destinati dalla nostra cooperazione ai paesi in via di sviluppo distribuiti da candidati del centrodestra ai poveri del capoluogo. Dove si combatte una guerra senza esclusione di colpi. Tra regali, promesse e assunzioni clientelari

Massimo Giannetti

Lo scambio elettorale più clamoroso è senza dubbio la mega-sanatoria che l'assessore all'urbanistica Mario Milone, candidato di Forza Italia alle amministrative del 13 maggio, ha promesso ai residenti delle ville abusive di Pizzo Sella. La delibera, che nelle intenzioni dell'assessore - assecondate dal ricandidato sindaco della Cdl Diego Cammarata in un incontro avuto nei giorni scorsi con gli stessi abusivi nel salotto di Villa Niscemi - dovrebbe mettere al riparo dalle demolizioni i circa duecento mostri di cemento che incombono sul golfo di Mondello, è stata approvata martedì dalla commissione urbanistica e ieri sera è entrata in consiglio comunale, l'ultimo consiglio utile della legislatura, per l'approvazione definitiva. L'opposizione di centrosinistra ieri annunciava ostruzionismo, ma c'era un po' di malumore anche tra i banchi del centrodestra. Ad ogni modo il voto era previsto per la notte e soltanto oggi sapremo quindi se la «collina del disonore» avrà vita eterna grazie a una delibera sfacciatamente elettorale.
Ma nel supermarket del voto palermitano i casi di tentata compravendita del consenso sono tanti altri. Su uno di questi, particolarmente grave, la magistratura l'altro ieri ha aperto un'inchiesta. Si tratta degli aiuti alimentari destinati dall'Unione europea ai paesi in via di sviluppo «dirottati» la settimana scorsa nelle case del quartiere Cruillas, periferia nord di Palermo, a ridosso dello Zen. Le confezioni gialle contenenti pasta, biscotti e formaggi con la sigla «Agea, Aiuto Ce», sono stati «offerti» ai cittadini da alcuni candidati del centrodestra al comune e nella circoscrizione. Sulla vicenda, denunciata dal consigliere comunale dei Ds Davide Faraone, che ha consegnato ai magistrati alcuni campioni dei «pacchi elettorali», è stata presentata anche un'interrogazione parlamentare da parte di alcuni senatori del centrosinistra. Nella missiva, rivolta in primo luogo al ministro delle politiche agricole, da cui dipende l'Agea, l'Agenzia che per l'Italia dovrebbe coordinare l'erogazione degli aiuti alimentari ai paesi in via di sviluppo, i senatori chiedono di sapere innanzitutto se il ministero ha davvero «fornito il suddetto materiale» all'Agenzia e, in caso affermativo, se sia stato informato dell'avvenuta «distrazione a favore di presunti non abbienti siciliani». Al ministro degli esteri, i parlamentari chiedono invece di sapere «tramite quali canali i prodotti forniti all'Agea avrebbero dovuto raggiungere i paesi in via di sviluppo», e di «verificare se da parte dei titolari di tali canali vi siano stati comportamenti attivi o omissivi tali da determinare la loro espulsione da future attività di cooperazione allo sviluppo». Infine, al ministero dell'interno, per le sue proprie competenze di garanzia delle competizioni elettorali, chiedono di «verificare se quanto avvenuto a Cruillas sia compatibile con lo svolgimento della campagna elettorale in corso a Palermo e se, anche in considerazione della particolare condizione sociale delle aree in cui sarebbero avvenuti i fatti, non configuri una illecita interferenza con la stessa campagna elettorale e una forma di tentato condizionamento del voto».
Dal quartiere Cruillas a quello di Borgo Nuovo il tratto è abbastanza breve. Qui un originale esempio di «mediazione e lotta per il progresso sociale» (come recita il suo slogan elettorale) lo ha proposto la candidata di punta del Movimento autonomista di Raffaele Lombardo al consiglio comunale. Si chiama Angela Castelli ed è la segretaria particolare dell'assessore regionale alla famiglia Paolo Colianni (anche lui del Mpa). La Castelli, evidentemente impietosita dalla diffusa povertà che alligna a Borgo Nuovo, nei giorni scorsi ha distribuito personalmente dei moduli (accompagnati dal suo biglietto da visita) nella piazza del quartiere sollecitando i cittadini a chiedere un «sussidio straordinario» alla regione. Al resto, ovvero all'agevolazione dell'erogazione dei presunti sussidi, avrebbe pensato lei dall'alto del ruolo che ha nell'assessorato alla famiglia. Alcuni cittadini (che poi hanno denunciato l'inganno) hanno ovviamente creduto alle sue parole e, dopo aver riempito i moduli che gli erano stati consegnati, li hanno presentati, come suggerito, negli uffici della circoscrizione di appartenenza, la Quinta. La candidata Castelli era forse convinta che la risposta della circoscrizione non sarebbe stata così rapida com'è invece avvenuto. E la risposta è stata la seguente: la legge sui suddetti «sussidi straordinari» è inesistente, anzi «non è più vigente», essendo decaduta nel lontano 1979. Interpellata da una giornalista della cronaca locale di Repubblica, l'interessata ha così risposto: «Abbiamo distribuito i moduli semplicemente perché ci siamo trovati di fronte una folla di persone che ci chiedevano consigli per ottenere un aiuto dalla regione. Del resto è il mio lavoro. E di certo non ho chiesto il voto a nessuno».
Insomma, a Palermo pur di conquistare un seggio in consiglio comunale c'è anche chi è disposto a fare carte false. Si distribuiscono poi buoni per la spesa al supermercato (hanno sostituito i vecchi buoni benzina), si promettono posti di lavoro inesistenti, e si fanno «assunzioni» che non durano più di una campagna elettorale. La giunta comunale, per esempio, proprio nelle settimane scorse ha approvato un paio di delibere con le quali ha finanziato l'inserimento di ottocento persone in progetti per la protezione civile nei mercati rionali e contro la dispersione scolastica nelle periferie. Domanda elementare: che senso ha assumere persone (con pseudo-contratti di quaranta giorni per appena un giorno di lavoro a settimana) per combattere la dispersione scolastica ad anno scolastico quasi finito? Nessun senso, se non quello di racimolare altro consenso elettorale, con la promessa della falsa stabilizzazione.
Il cattivo esempio si perpetua dall'alto. Nessuno per esempio si scandalizza più di tanto dell'uso alquanto disinvolto del denaro pubblico fatto dallo stesso sindaco Cammarata per propagandare, a suo dire, la «città più cool d'Italia». I fatti sono noti, ma vale la pena ricordarli. Per finanziare le migliaia di poster megagalattici affissi nei mesi scorsi in tutta Palermo, il comune ha speso la bellezza di un milione e 800 mila euro, un terzo dei quali, 600 mila euro, prelevati addirittura dal cosiddetto «fondo di riserva», quello destinato alle emergenze sociali, quali terremoti, alluvioni o crisi idriche. Ma per Cammarata, mentre nelle periferie capita di sentire e vedere ancora scene da dopoguerra, i soldi pubblici valgono quanto quelli privati. Per la sua personale campagna elettorale avrebbe già investito qualcosa come tre milioni di euro. Una montagna di denaro che dovrebbe mandare su tutte le furie i tanti palermitani che non sanno come sbarcare il lunario ma che invece, con molte probabilità, saranno ancora una volta loro a dare linfa vitale al candidato sindaco del centrodestra. La sua faccia è stampata in tutte le dimensioni sui muri e sui lampioni della città. In confronto la campagna mediatica di Leoluca Orlando, candidato dell'Unione, è pressoché invisibile. Ma questo non vuol dire affatto che Cammarata dorma sonni tranquilli. Anzi. In ogni caso lo scontro elettorale è durissimo, a tutti i livelli. Per farsene un'idea basta vedere in questi giorni le strade di Palermo invase di gonfaloni che espongono le facce della miriade di candidati in corsa per il comune e nei municipi delle otto circoscrizioni. Sono circa cinquemila (un record), uno per ogni cento elettori, distribuiti in una trentina di liste, più della metà del centrodestra. Apparentemente sembra la rinascita della partecipazione, in realtà è la degenerazione della politica. Conquistare uno scranno è come aprire un conto in banca: 1500 euro al mese per un semplice consigliere di circoscrizione, quasi il doppio per i consiglieri comunali. Il gioco insomma vale la candela, e tutti i mezzi, pensano i più furbi, sono leciti.

 

Germania, i nazisti ora fanno paura

Secondo l'Ufficio criminale federale, gli atti di violenza sono stati 18mila nel solo 2006. Mai così tanti dalla riunificazione

Matteo Alviti

Berlino

Sono state più di 18mila, solo nel 2006, le azioni criminali commesse dai neonazisti in Germania. Una simile ondata di violenza da parte dell'estrema destra non era mai stata registrata da quando, nel 2001, è stato introdotto il sistema di definizione che riconosce gli atti di criminalità motivati politicamente. Rispetto all'«annata record» del 2005, quando furono segnalati quasi 16mila delitti, c'è stato un aumento del 14%. Dal 2004 l'aumento è invece del 50%.
I dati provengono direttamente dall'Ufficio criminale federale, il Bundeskriminalamt (Bka), che periodicamente raccoglie le segnalazioni della polizia dei Länder. Le cifre sono state pubblicate qualche giono fa sulla prima pagina del Tagesspiegel. Il quotidiano è entrato in possesso delle informazioni che il Bka aveva redatto in un rapporto confidenziale per il ministero degli interni tre settimane fa. Secondo quanto riportato dal giornale berlinese, non si era mai verificata una esplosione di violenza neonazista di questa entità da quando la Germania è tornata a essere una sola, il 3 ottobre del 1990.
Col numero dei delitti è cresciuta anche la frequenza e l'intensità della violenza contro le persone. Delle 18mila azioni criminose, gli atti di violenza fisica sono saliti a più di 1100, con un aumento dell'8% rispetto al 2005 (nel 2004 erano stati segnalati 832 casi). Al contrario di quanto ci si potesse aspettare, lo svolgimento degli ultimi mondiali di calcio non ha giocato un ruolo rilevante.
I dati raccolti dal Bka dipingono una situazione addirittura peggiore di quella che il ministro degli interni, il cristianodemocratico Wolgang Schäuble, aveva riportato in parlamento in risposta all'interrogazione parlamentare del gruppo die Linke, l'opposizione da sinistra al governo di Angela Merkel.
Lo stesso sindacato di polizia ha avvertito allarmato che «l'estremismo di destra sta avanzando in tutto il paese». Secondo il presidente del sindacato, Konrad Freiberg, «la cosa più pericolosa è che la destra estrema ha penetrato il centro borghese della società tedesca». Non si può più parlare di un problema di gruppi sociali emarginati, ha continuato Freiberg.
La sfilza di dichiarazioni rituali del mondo politico, preoccupato per l'aumento dei delitti, non si è fatta attendere. Da parte socialdemocratica è rispuntata l'idea della convocazione di un vertice straordinario sulla democrazia per elaborare una strategia in grado di sconfiggere l'estremismo di destra. Mentre i Verdi chiedono un'«offensiva democratica» nelle scuole e die Linke il sostegno alle iniziative della società civile e dei centri per le vittime della violenza neonazista.
Il presidente del sindacato di polizia è però scettico: «L'unica strategia contro la destra è quella di rioccupare gli spazi sociali dai quali la politica e i sindacati sono arretrati».
Freiberg è a favore della messa fuori legge dei partiti di estrema destra, con tutti i problemi che comporterebbe: «È perverso che l'Npd si finanzi con i rimborsi elettorali previsti dal nostro sistema partitico», ha detto.

13 aprile

Cessate il fuoco

Il bollettino settimanale delle guerre e dei conflitti in corso n.14 - 2007 dal 29/3 al 4/4

Israele-Palestina Almeno 105 morti dall’inizio dell’anno.
Il 29 marzo un palestinese di 16 anni è stato ucciso dalle forze militari israeliane in un villaggio a sud di Jenin, nel nord della Cisgiordania.
Il 30 un palestinese è stato ucciso da un esplosione avvenuta all'interno di un campo di addestramento di Hamas a Khan Younis, nel centro della striscia di Gaza.
Il 31 Mussa al-Manasra, un religioso palestinese è stato ucciso in un agguato mentre si accingeva a rientrare nella sua abitazione a Gaza.
Il 4 aprile, un militante palestinese della Jihad islamica è stato ucciso da soldati israeliani, mentre stava sistemando un ordigno esplosivo su una strada a Beit Hanoun, nel nord della Striscia di Gaza.

Cecenia e Nord Caucaso (Russia) Almeno 165 morti dall’inizio dell’anno.
Il 29 marzo la guerriglia cecena sostiene di aver ucciso 7 soldati russi in un agguato nelle foreste di Senjen-Yurt.
Il 30 i ribelli dichiarano di aver ucciso 5 soldati russi in un’imboscata nel distretto di Itum-Kalè e altri 7 militari nel distretto di Shali.
Il 1° aprile al confine tra Cecenia e Daghestan sono stati trovati morti un funzionario del governo daghestano e un suo familiare rapiti in precedenza dalle milizie islamiche.
Il 2 nel distretto ceceno di Vedenò la guerriglia afferma di aver ucciso 4 soldati russi e 3 militari governativi ceceni.
Il 4 nel sud della Cecenia un comandante della guerriglia è stato ucciso in uno scontro a fuoco con le forze russe.

Waziristan e Nwfp (Pakistan) Almeno 444 morti dall’inizio dell’anno.
Il 29 marzo Nella Provincia della Frontiera di Nord-Ovest (Nwfp) 25 combattenti talebani e un militare pachistano sono morti nel corso di un combattimento a Tank.
In Punjab un kamikaze si è fatto esplodere davanti a una caserma uccidendo 2 soldati.
In Sud Waziristan 2combattenti stranieri di al Qaeda (uzbechi, ceceni, tagichi, arabi) e 2 miliziani waziri che li combattono con il sostegno dell’esercito governativo.
Il 30 sono morti 45 combattenti stranieri e 10 miliziani waziri che li combattono con il sostegno dell’esercito governativo.
Il 31 le milizie wazire hanno ucciso 15 miliziani stranieri.
Il 4 aprile almeno 50 miliziani stranieri e 10 miliziani waziri e un soldato pachistano sono morti in violenti combattimenti.

Balucistan (Pakistan) Almeno 54 morti dall’inizio dell’anno.
Il 30 marzo i ribelli baluci hanno ucciso un soldato nel distretto di Dera Bugti.
Il 3 aprile nel distretto di Bolan un civile è morto per l’esplosione di una mina piazzata dai ribelli.

Filippine-Npa Almeno 47 morti dall’inizio dell’anno.
Il 31 marzo un giovanissimo guerrigliero dell’Npa (11 anni) è stato ucciso dall’esercito nella provincia meridionale di Compostela Valley.
Il 3 aprile 3 poliziotti sono stati uccisi in un attacco dei ribelli dell’Npa nella provincia centrale di Masbate.

Thailandia del Sud Almeno 105 morti dall’inizio dell’anno.
Il 31 marzo nella provincia di Narathiwat i ribelli hanno ucciso un civile.
Il 1° aprile un altro civile è stato ucciso nella stessa provincia.
Il 3 nella provincia di Pattani 3 militari e 2 ribelli islamici sono morti in uno scontro a fuoco.

Sri Lanka Almeno 946 morti dall’inizio dell’anno
Il 29 marzo 12 guerriglieri Tamil sono stati uccisi in un attacco dell’esercito nel distretto di Mullaittivu e 10 civili sono morti in un bombardamento governativo nel distretto di Battcaloa.
Il 30 nel distretto di Vavuniya 5 soldati sono morti in un attacco dell’Ltte.
Il 31 nel distretto di Batticaloa 1 soldato è morto in un agguato dei ribelli.
Il 1° aprile nella stessa zona 6 civili cingalesi sono stati uccisi dalla guerriglia.
Il 2 nel distretto di Ampara 15 civili e un soldato sono morti in un attentato della guerriglia contro un autobus.
Il 3 nel distretto di Batticaloa 31 guerriglieri Tamil e un soldato sono morti nel corso di una battaglia.

India-Kashmir Almeno 125 morti dall’inizio dell’anno.
Il 29 marzo 2 guerriglieri kashmiri del Let sono morti in uno scontro a fuoco con i militari indiani nel distretto di Poonch.
Il 30 nel distretto di Rajouri 5 civili sono morti nel corso di uno scontro armato tra ribelli ed esercito.
Il 31 nello distretto di Doda un guerrigliero del Let è stato ucciso dai militari indiani.
Il 1° aprile nella stessa zona 2 guerriglieri, 2 civili e un militare sono morti in uno scontro a fuoco.
Il 2 nel distretto di Anantang un guerrigliero dell’Hm è stato ucciso in una battaglia.
Il 3 nel distretto di Pulwama una civile è stata uccisa dai militari indiani.

India-Nordest Almeno 359 morti dall’inizio dell’anno.
Il 29 marzo nello stato del Nagaland un civile è stato ucciso dall’esplosione di una granata.
Il 30 nello stato dell’Arunachal Pradesh 2 guerriglieri dell’Ulfa sono stati uccisi dall’esercito.
Il 31 nello stato dell’Assam altri 2 ribelli dell’Ulfa sono morti in uno scontro a fuoco.
Il 1° aprile nello stato di Manipur l’esercito ha ucciso un presunto ribelle.
Il 2 nello stato di Assam i militari hanno ucciso 4 ribelli dell’Ulfa e nello stato del Manipur è stato ucciso un civile.

India-Naxaliti Almeno 81 morti dall’inizio dell’anno.
Il 29 marzo nello stato dell’Andra-Pradesh 2 guerriglieri comunisti Naxaliti sono morti in uno scontro a fuoco con la polizia.
Il 31 nello stato del Bihar un poliziotto è stato ucciso in un attacco della guerriglia.
Il 1° aprile nello stato di Chhattisgarh i ribelli hanno ucciso 2 civili.

Bangladesh-Comunisti Almeno 53 morti dall’inizio dell’anno
Il 1° aprile un presunto guerrigliero comunista del Pbcp è stato ucciso in carcere poche ore dopo il suo arresto.

Colombia Almeno 80 morti dall'inizio dell’anno.
Il 3 aprile, una bomba esplosa in una strada di Buenaventura, principale porto colombiano nel Pacifico, ha ucciso una persona. In un altro episodio, un gruppo di guerriglieri ha ucciso 2 poliziotti.

Somalia Almeno 640 morti dall’inizio dell’anno.
Il 29 marzo sono scoppiati violenti scontri, durati quattro giorni, tra le forze del governo somalo, supportato dalle truppe etiopi, e le milizie claniche a Mogadiscio, che hanno causato la morte di almeno 381 persone.

Etiopia Almeno 42 morti dall’inizio dell’anno.
Il 3 aprile soldati etiopi hanno ucciso 23 ribelli del Fronte Patriottico, gruppo di miliziani che l'Etiopia ritiene sia sostenuto dalla vicina Eritrea.

Ciad Almeno 163 morti dall’inizio dell’anno.
Il 31 marzo le milizie Janjaweed hanno attaccato alcuni villaggi uccidendo 65 civili. L'esercito ciadiano sarebbe riuscito ad uccidere 35 degli assalitori.

Sudan Almeno 181 morti dall’inizio dell’anno.
Il 1° aprile un attacco lanciato contro una tribù Torjam ha causato la morte di 60 persone in Darfur. Il 2, 5 soldati dell'Unione Africana sono stati uccisi in uno scontro a fuoco con uomini armati non identificati in Darfur.

Uganda Almeno 152 morti dall’inizio dell’anno.
Il 30 marzo l'organizzazione Save the Children ha denunciato che, lo scorso 12 febbraio, un'operazione di disarmo condotta dall'esercito ugandese nella regione nord-orientale del Karamoja avrebbe portato alla morte di 66 bambini.

Nigeria Almeno 40 morti dall’inizio dell’anno.
Il 29 marzo 4 persone sono morte a causa degli scontri tra sostenitori di partiti rivali nello stato di Bauchi, nel nordest del Paese.

Kenya Il 3 aprile un'associazione locale per i diritti delle donne ha riferito che, nelle ultime settimane, gli scontri tribali per il possesso della terra nell'ovest del Paese hanno provocato la morte di 145 persone.

 

2 aprile

 

Eurispes, Italia maglia nera dei salari in Europa

Italiani lavoratori 'poveri' d'Europa e nelle ultime fila sia per il peso delle buste paga che per la rivalutazione dei propri salari nel tempo. E' quanto emerge da un rapporto Eurispes pubblicato oggi secondo cui l'Italia e' al quart'ultimo posto in Europa per salari lordi medi pari a 22.053 euro l'anno contro i 42.484 euro della Danimarca, il paese che vanta i salari piu' ricchi in una classifica che vede ai primi posti anche Svezia, Belgio e Francia e agli ultimi Portogallo e Grecia . Fanalino di coda il Paese e' anche per retribuzione oraria media, pari a 21,3 euro contro i 30,7 della Danimarca, e, soprattutto per la crescita dei salari che, dal 2000 al 2005 si sono rivalutati solo del 13,7%, facendole scontare un terz'ultimo posto, contro il primato del 27,8% della Gran Bretagna. L'Italia, in fatto di salari, si colloca ai primi posti, al quarto esattamente, per ampiezza del cuneo fiscale pari, per un lavoratore senza famiglia a carico, del 45,85% e al 36,6% per un lavoratore con moglie e due figli a carico.

 

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