
27 aprile
Sommersi dai
veleni radioattivi
di Primo Di Nicola
4.300 milioni è il costo per
ripulire il Paese dai 25 mila metri cubi di scorie e mettere a
sicurezza i 24 impianti nucleari. Ma dal 1999 a oggi non si è fatto
nulla. Tra sprechi e incidenti. Per provarlo L'espresso è entrato
nel Centro ricerche nucleare Enea della Casaccia e ha visitato i
siti più pericolosi della centrale del Garigliano.
Il centro di Roma è a soli 20
chilometri. E intorno all'area dell'Enea sono ormai sorte borgate
con 30 mila persone. Eppure è lì che parte dell'eredità nucleare
italiana dorme sonni lunghi e tormentati: oltre 4.500 metri cubi di
scorie, frutto degli esperimenti dell'atomica tricolore e delle
terapie del sistema sanitario, chiusi in depositi che registrano più
di una crepa. L'ultimo allarme è scattato a ottobre: un banale
malfunzionamento del sistema di sicurezza ha fatto sfiorare la
minaccia radioattiva. Altri pericoli si corrono ogni giorno nelle
vecchie centrali del Garigliano o di Latina, nei depositi di
Saluggia o Rotondella: lì dove l'Italia ha cercato di nascondere i
suoi 25 mila metri cubi di rifiuti ricevuti in testamento dalla
politica nucleare degli anni Sessanta e Settanta. Finora sono stati
spesi oltre 15 mila miliardi di vecchie lire per fermare le
centrali, poi dal 1999 a oggi è stato messo sul tavolo un miliardo
di euro per bonificare i residui. Ma la sicurezza è lontana. E per
fare pulizia si stima che ci vorranno altri 4.300 milioni di euro.
Quando sarà possibile dichiararci 'No nuke' una volta per tutte? Non
prima del 2024. Fino ad allora il pericolo resterà alle porte di
casa.
Come al Centro ricerche Casaccia dell'Enea, XX municipio di Roma.
Qui, nel punto più delicato del complesso, nei locali dove sono
custodite apparecchiature contaminate, rifiuti nucleari e importanti
quantitativi di uranio e plutonio, da mesi è fuori uso l'impianto
antincendio. Il 30 ottobre proprio a causa del malfunzionamento
dell'apparato, una quarantina di bombole hanno scaricato anidride
carbonica dentro l'impianto Plutonio: un getto simultaneo che ha
provocato un enorme aumento di pressione. Sono saltate un paio di
porte di sicurezza, ma poteva andare molto peggio se uno delle
decine di contenitori di materiali radioattivi avesse registrato una
perdita. Si tratta di plutonio: un'emissione all'esterno avrebbe
fatto scattare l'emergenza anche per la popolazione circostante. Per
evitare che un incidente simile si ripeta, l'impianto antincendio è
stato bloccato. Era sovradimensionato: per spegnere le fiamme
rischiava di fare esplodere il palazzo.
Grandi timori anche in Campania per un impianto obsoleto con
strutture fuori norma che rischiano di cedere, provocando danni
irreparabili. Capita a Sessa Aurunca, nella centrale nucleare del
Garigliano, ferma da 27 anni. Sopra il reattore continua a
stagliarsi minaccioso il camino alto 90 metri. Costruito in
calcestruzzo, mostra tutti i segni dell'abbandono: l'intonaco si
sgretola, l'armatura metallica spunta dal cemento come uno scheletro
sempre più corroso. È in una zona sismica ad alto rischio: per
questo l'Agenzia per la protezione dell'ambiente (Apat), che insieme
a vari ministeri gestisce il 'decommissioning' nucleare, da anni ha
chiesto il suo smantellamento. L'incubo è che il camino ceda,
schiantandosi sulla sfera bianca che custodisce il reattore. Una
scena da film catastrofico anni Settanta? No, si tratta di pericoli
concreti, anche se nessuno può prevedere le conseguenze della fuga
radioattiva.
Scandalo atomico
Vent'anni dopo il referendum con cui
gli italiani dissero no al nucleare, terrorizzati dalla nuvola di
Chernobyl, l'eredità atomica resta pesante. Con una serie di casi
inquietanti che 'L'espresso' ha potuto documentare per la prima
volta entrando nel centro della Casaccia e nell'impianto del
Garigliano.
Nella base della Casaccia ormai inglobata dalle borgate romane si
vive un'atmosfera particolare. Pare di inoltrarsi dentro una
matrioska di cemento armato, dove la protezione aumenta mentre si
avanza verso l'interno. Nel cuore c'è il magazzino con le cassette
di plutonio. Una selva di telecamere seguono ogni passo del
visitatore, tutto è custodito da una doppia blindatura, che non
lascia filtrare nemmeno i rumori. Ma colpisce ancora di più la sala
delle 'scatole a guanti', con i macchinari che servivano per
confezionare il combustibile nucleare. Si cammina tra file di cubi
trasparenti, illuminati all'interno: l'atmosfera ha qualcosa di
spettrale a metà strada tra una fiction di fantascienza e un
racconto horror. Qui il pericolo è ancora di casa: sette operai sono
rimasti contaminati dalle perdite. I tecnici negano persino che ci
sia stata una crepa: parlano di sostanze 'trasudate'. Ma si capisce
che la presenza dei giornalisti è un evento eccezionale, da tenere
sotto controllo quasi più dei rifiuti tossici. Invece sul Garigliano
c'è un clima da fortezza Bastiani: è l'ultimo presidio di un passato
tecnologico. Il personale sa di rischiare, ma lo smantellamento
significherebbe la disoccupazione: ogni anno lo Stato spende dieci
milioni di euro per la manutenzione di questo gigante abbandonato.
Dentro la vecchia centrale il tempo si è fermato al 23 novembre
1980, quando il terremoto in Irpinia fece scoprire che quella era
una zona sismica. Tutto congelato, prima di Chernobyl e prima ancora
del referendum. È quasi un museo di archeologia industriale, dove i
fantasmi sono in grado di provocare contaminazioni concrete. La
centrale del Garigliano aveva un gemello dall'altro lato
dell'Atlantico, costruito negli stessi anni a Big Rock Point negli
Usa. Gli americani l'hanno sfruttata fino al '97 e poi hanno spento
il reattore. Con 350 milioni di dollari è stato smontato e ripulito
tutto: l'area trasformata in 'prato verde' è stata consegnata nel
2005 allo stato del Michigan per farne un parco. Sul Garigliano
invece ogni cosa è illuminata dalla paura.
L'onda letale
In tutta Italia centrali e apparati
sono ancora lì con tutto il loro armamentario radioattivo e la coda
sterminata dei rifiuti nucleari per i quali non si riesce a trovare
una collocazione definitiva. Basta andare a Saluggia, in provincia
di Vercelli, per imbattersi in una piscina con combustibile
irradiato che perde liquidi: colano nel terreno in profondità,
minacciando le falde acquifere. Accade nel sito Eurex (Enriched
uranium extraction) dove in una vasca di 625 metri cubi sono sepolti
52 elementi di combustibile nucleare provenienti dalla centrale di
Trino e da quella del Garigliano. C'è persino una dose di scorie
importate dal reattore di ricerca di Petten (Paesi Bassi). I
cittadini di Saluggia da tempo chiedono di portare via tutto:
l'impianto Eurex si trova a pochi metri dagli argini della Dora
Baltea, dove le alluvioni sono frequenti e toccano anche la bara dei
rifiuti più tossici. L'ultima volta è accaduto nel 2000: da allora è
stato tirato su un muro in cemento, estrema barriera contro la
piena. Ma il rischio idrogeologico incombe lo stesso, così come il
timore dei residenti. Gli esperti dei ministeri (Sviluppo economico,
Ambiente) studiano da tempo una soluzione del problema con i
responsabili dell'Apat. Due decenni di progetti, piani e
controrelazioni, ma poco si è mosso. "Abbiamo speso tantissimi soldi
senza eliminare i pericoli", dichiara Aleandro Longhi, il deputato
che invoca una commissione parlamentare d'inchiesta sui ritardi
nella bonifica: "L'Italia è diventata una pattumiera nucleare, uno
dei paesi più a rischio di incidenti e inquinamenti radioattivi".
Bolletta salata
Eppure per l'uscita dal nucleare gli
italiani stanno pagando un conto salatissimo. Tra quello che è
andato all'Enel (12 mila 315 miliardi di lire) e gli oneri
riconosciuti alle imprese appaltatrici vittime dello stop
referendario (altri 3 mila miliardi di lire) sono stati bruciati 15
mila miliardi di lire. Poi ci sono i costi veri e propri del 'decommissioning'
nucleare. È dagli inizi degli anni Sessanta, quando le centrali
erano ancora in costruzione, che i contribuenti versano denaro per
il loro smantellamento. Compresa nella bolletta dell'Enel, c'è
sempre stata una 'quota atomica': serviva per creare due fondi per
la dismissione. Questi due ricchi conti, che nel frattempo avevano
raccolto oltre 331 milioni di euro, nel novembre del 1999, sotto la
supervisione dell'Autorità per l'energia, sono stati riversati nelle
casse della Società per la gestione degli impianti nucleari (Sogin),
che si occupa del decommissioning. E non basta. A partire dal 2000,
sempre nella bolletta, con la cosiddetta 'tariffa A2' gli utenti
hanno continuato a finanziare il 'decommissioning' pagando (con vari
ritocchi successivi) 0,6 lire a chilowattora. In questo modo, fino
al 2006, sono stati raccolti altri 622 milioni di euro, anch'essi
finiti alla Sogin. In totale, quasi un miliardo di euro. Ma è solo
un antipasto. La pulizia definitiva richiederà altri 4,3 miliardi,
da sborsare entro il 2024. Il centro di Roma è a soli 20 chilometri.
E intorno all'area dell'Enea sono ormai sorte borgate con 30 mila
persone. Eppure è lì che parte dell'eredità nucleare italiana dorme
sonni lunghi e tormentati: oltre 4.500 metri cubi di scorie, frutto
degli esperimenti dell'atomica tricolore e delle terapie del sistema
sanitario, chiusi in depositi che registrano più di una crepa.
L'ultimo allarme è scattato a ottobre: un banale malfunzionamento
del sistema di sicurezza ha fatto sfiorare la minaccia radioattiva.
Altri pericoli si corrono ogni giorno nelle vecchie centrali del
Garigliano o di Latina, nei depositi di Saluggia o Rotondella: lì
dove l'Italia ha cercato di nascondere i suoi 25 mila metri cubi di
rifiuti ricevuti in testamento dalla politica nucleare degli anni
Sessanta e Settanta. Finora sono stati spesi oltre 15 mila miliardi
di vecchie lire per fermare le centrali, poi dal 1999 a oggi è stato
messo sul tavolo un miliardo di euro per bonificare i residui. Ma la
sicurezza è lontana. E per fare pulizia si stima che ci vorranno
altri 4.300 milioni di euro. Quando sarà possibile dichiararci 'No
nuke' una volta per tutte? Non prima del 2024. Fino ad allora il
pericolo resterà alle porte di casa.
Come al Centro ricerche Casaccia dell'Enea, XX municipio di Roma.
Qui, nel punto più delicato del complesso, nei locali dove sono
custodite apparecchiature contaminate, rifiuti nucleari e importanti
quantitativi di uranio e plutonio, da mesi è fuori uso l'impianto
antincendio. Il 30 ottobre proprio a causa del malfunzionamento
dell'apparato, una quarantina di bombole hanno scaricato anidride
carbonica dentro l'impianto Plutonio: un getto simultaneo che ha
provocato un enorme aumento di pressione. Sono saltate un paio di
porte di sicurezza, ma poteva andare molto peggio se uno delle
decine di contenitori di materiali radioattivi avesse registrato una
perdita. Si tratta di plutonio: un'emissione all'esterno avrebbe
fatto scattare l'emergenza anche per la popolazione circostante. Per
evitare che un incidente simile si ripeta, l'impianto antincendio è
stato bloccato. Era sovradimensionato: per spegnere le fiamme
rischiava di fare esplodere il palazzo.
Grandi timori anche in Campania per un impianto obsoleto con
strutture fuori norma che rischiano di cedere, provocando danni
irreparabili. Capita a Sessa Aurunca, nella centrale nucleare del
Garigliano, ferma da 27 anni. Sopra il reattore continua a
stagliarsi minaccioso il camino alto 90 metri. Costruito in
calcestruzzo, mostra tutti i segni dell'abbandono: l'intonaco si
sgretola, l'armatura metallica spunta dal cemento come uno scheletro
sempre più corroso. È in una zona sismica ad alto rischio: per
questo l'Agenzia per la protezione dell'ambiente (Apat), che insieme
a vari ministeri gestisce il 'decommissioning' nucleare, da anni ha
chiesto il suo smantellamento. L'incubo è che il camino ceda,
schiantandosi sulla sfera bianca che custodisce il reattore. Una
scena da film catastrofico anni Settanta? No, si tratta di pericoli
concreti, anche se nessuno può prevedere le conseguenze della fuga
radioattiva.
Scandalo atomico
Vent'anni dopo il referendum con cui
gli italiani dissero no al nucleare, terrorizzati dalla nuvola di
Chernobyl, l'eredità atomica resta pesante. Con una serie di casi
inquietanti che 'L'espresso' ha potuto documentare per la prima
volta entrando nel centro della Casaccia e nell'impianto del
Garigliano.
Nella base della Casaccia ormai inglobata dalle borgate romane si
vive un'atmosfera particolare. Pare di inoltrarsi dentro una
matrioska di cemento armato, dove la protezione aumenta mentre si
avanza verso l'interno. Nel cuore c'è il magazzino con le cassette
di plutonio. Una selva di telecamere seguono ogni passo del
visitatore, tutto è custodito da una doppia blindatura, che non
lascia filtrare nemmeno i rumori. Ma colpisce ancora di più la sala
delle 'scatole a guanti', con i macchinari che servivano per
confezionare il combustibile nucleare. Si cammina tra file di cubi
trasparenti, illuminati all'interno: l'atmosfera ha qualcosa di
spettrale a metà strada tra una fiction di fantascienza e un
racconto horror. Qui il pericolo è ancora di casa: sette operai sono
rimasti contaminati dalle perdite. I tecnici negano persino che ci
sia stata una crepa: parlano di sostanze 'trasudate'. Ma si capisce
che la presenza dei giornalisti è un evento eccezionale, da tenere
sotto controllo quasi più dei rifiuti tossici. Invece sul Garigliano
c'è un clima da fortezza Bastiani: è l'ultimo presidio di un passato
tecnologico. Il personale sa di rischiare, ma lo smantellamento
significherebbe la disoccupazione: ogni anno lo Stato spende dieci
milioni di euro per la manutenzione di questo gigante abbandonato.
Dentro la vecchia centrale il tempo si è fermato al 23 novembre
1980, quando il terremoto in Irpinia fece scoprire che quella era
una zona sismica. Tutto congelato, prima di Chernobyl e prima ancora
del referendum. È quasi un museo di archeologia industriale, dove i
fantasmi sono in grado di provocare contaminazioni concrete. La
centrale del Garigliano aveva un gemello dall'altro lato
dell'Atlantico, costruito negli stessi anni a Big Rock Point negli
Usa. Gli americani l'hanno sfruttata fino al '97 e poi hanno spento
il reattore. Con 350 milioni di dollari è stato smontato e ripulito
tutto: l'area trasformata in 'prato verde' è stata consegnata nel
2005 allo stato del Michigan per farne un parco. Sul Garigliano
invece ogni cosa è illuminata dalla paura.
Avanti piano
Per quanto riguarda le centrali si
sono qua e là smantellate sale turbine (a Trino), rimosso amianto (a
Caorso), decontaminati i circuiti e smontate le condotte (Latina).
Il grosso è rimasto invece in piedi. Ogni anno 50 milioni vengono
divorati dalla Sogin per la manutenzione di questi mostri
addormentati. Soldi che si potevano risparmiare intervenendo prima.
Perché tanti ritardi? Tra ministeri, Apat e Sogin è tutto un
palleggio di responsabilità: colpa degli uffici incapaci di
autorizzare i progetti. No, replicano gli altri: quei disegni sono
inadeguati. Sembra incredibile, ma nonostante siano stati presentati
quasi dieci anni fa i piani globali per la disattivazione di tutte
le centrali, le pratiche continuano a rimbalzare da una scrivania
all'altra senza arrivare a una decisione. Analoga sorte per i Via,
gli studi di valutazione per l'impatto ambientale. Dipenderà magari
dal fatto che le pratiche sono troppo complicate? No: i permessi
tardano anche per le richieste più elementari, come la realizzazione
del deposito provvisorio per i rifiuti ora stoccati in locali
inadatti (Latina) o il nuovo settore serbatoi dove collocare i
rifiuti liquidi a più alta attività e ancora esposti al rischio
attentati (Saluggia). E il deposito nazionale? Buio pesto anche su
questo fronte. Dopo l'affaire Scanzano e la rivolta della
Basilicata, nel 2003 Berlusconi aveva varato una commissione di 19
esperti per individuare un nuovo sito definitivo: non si sono mai
riuniti una sola volta.
Poi c'è il delicato capitolo degli enti locali: a sentire la Sogin
in questi anni hanno fatto a gara per complicare gli iter
burocratici, mettendo ogni ostacolo alla bonifica. Sfiora il
ridicolo la vicenda delle licenze negate dal comune di Sessa Aurunca
per la centrale del Garigliano. Ci sono i rifiuti nucleari chiusi in
modo precario dentro una struttura dichiarata 'pericolosa per
rischio sismico'. E c'è una trincea a pochi metri dal fiume dove
sono sepolte buste di plastica zeppe di scorie, inumate negli anni
Settanta. Una situazione di doppio pericolo, che l'Apat ha tentato
di risolvere: ordine di disseppellire i rifiuti contaminati e
spostarli in un magazzino da costruire secondo i criteri di
sicurezza. Facile? No, perchè per il magazzino ci vogliono le
licenze edilizie. E gli amministratori comunali non si fidano: la
popolazione teme che una volta assemblato il bunker, vi siano
trasferiti detriti tossici da altre regioni. Quindi il municipio
ferma i lavori con un pretesto: "Quella per noi è rimasta una zona
agricola e l'edificio per il deposito non si può fare", spiega
l'architetto Gabriella Landi, responsabile dell'Ufficio tecnico
municipale. E le licenze edilizie rilasciate negli ultimi venti
anni? E la stessa costruzione della centrale autorizzata tanti anni
fa? L'architetto non sente ragione. Anzi, rincara: "La centrale non
risulta nemmeno sulle mappe del nostro piano di fabbricazione, per
noi è come se non esistesse". Un fantasma, dunque. "Ma anche un
paradosso causato dalle regole del decommissioning", precisa Massimo
Romano: "I nostri vincoli, che vogliamo comunque rispettare, vanno
ben oltre i migliori standard internazionali". Intanto in attesa di
fare meglio del meglio, non si fa nulla.
Capitale esplosiva
È con questo andazzo che l'eredità
nucleare continua a costituire una minaccia. Alla Trisaia le
radiazioni avanzano a causa di una fossa che non si riesce a
bonificare: lì l'Enea ha scaricato in passato rifiuti solidi 'ad
alta attività'. Al deposito Avogadro di Saluggia si sfiora la farsa:
il ministero dello Sviluppo economico e l'Apat prima non hanno
rinnovato la licenza di esercizio, poi hanno concesso una proroga di
tre anni. Forse confidano nella clemenza delle piene della Dora. Nel
frattempo lì continua a perdere liquido un'altra piscina contenente
elementi di combustibile radioattivi. Ma invece di chiudere,
raddoppia: Avogadro è ora candidato a ricevere il combustibile che
si vuole togliere dal vicino sito Eurex.
Ma è nel XX municipio di Roma, a cento metri dall'abitato di Osteria
Nuova, che si è creata la situazione più esplosiva. Qui la società
Nucleco (controllata da Sogin) ha realizzato nel silenzio generale
un nuovo magazzino: il deposito nazionale di rifiuti nucleari
prodotti dal sistema sanitario. Si tratta di oltre 4 mila metri
cubi, frutto di radiografie e chemioterapie, ammassati in capannoni
ormai al limite. Loredana De Petris, senatrice Verde, ha da tempo
lanciato l'allarme: "Continuare a raccogliere rifiuti nucleari in
un'area così densamente urbanizzata è in contrasto con i più
elementari principi di precauzione". Tutto inutile. Nuovi carichi
pericolosi arrivano nel sito. Che è vulnerabile a un attacco
esterno: non servirebbero incursori agguerriti, potrebbe bastare una
molotov. E le fiamme sarebbero in grado di innescare un disastro.
Arrivare al muro di cinta è facile, come ha constatato 'L'espresso'.
D'altronde, come si fa a isolare totalmente una base che ormai è
circondata dalle case?
(26 aprile 2007)
Strada: ''Hanno
fatto di tutto per cacciarci''
Intervista al fondatore di
Emergency dopo la chiusura degli ospedali dell'Ong in Afghanistan
Dottor Strada, qual è la situazione
dei tre ospedali di Emergency in Afghanistan?
Gli ospedali di Kabul, del Panjshir e di Lashkargah sono chiusi. I
pazienti sono stati tutti dimessi dopo aver ultimato le cure di cui
necessitavano: le ammissioni le avevamo già bloccate diversi giorni
fa. I pochi pazienti non ancora in condizione di essere dimessi sono
stati trasferiti in altre strutture ospedaliere.
Dentro abbiamo lasciato tutta l’attrezzatura medica. Il personale
afgano dei tre ospedali, 1.200 persone in tutto, è stato mandato a
casa, con salario garantito fino a fine maggio. Per sicurezza
abbiamo lasciato solo le nostre guardie a sorvegliare le strutture e
alcune decine di persone a far la guardia fuori dagli edifici e a
fare le pulizie all’interno. Tutto questo perché vogliamo essere
nelle condizioni di riaprire e riprendere l’attività in ogni
momento.
Quindi non escludete la possibilità di tornare in Afghanistan?
Certo che no, ma poniamo delle condizioni. Il presupposto minimo, ma
anche quello più difficile da ottenere, è la liberazione di
Rahmatullah Hanefi. Il secondo è che vengano garantite condizioni di
sicurezza a tutto il nostro staff, in maniera chiara: non ci bastano
le belle parole che arrivano in queste ore da alcuni ministeri
afgani. Ormai siamo abituati alla doppiezza delle autorità afgane.
Ci vogliono i fatti. E da un mese a questa parte i fatti sono che il
governo Karzai ha fatto di tutto per espellere Emergency
dall’Afghanistan, arrestando il nostro personale, accusandoci di
sostenere i terroristi indicandoci, quindi, come un nemico e infine
mandando la polizia nei nostri ospedali. Il governo afgano ha
minacciato Emergency e ha dato seguito a queste minacce. Gli inviti
a tornare rivoltici da alcuni esponenti del governo contrastano
apertamente con questi fatti, che sono stati tali da costringerci ad
andarcene.
Come si sente, personalmente, in questo momento?
Ora mi sento tranquillo, per il nostro staff, che evidentemente non
era più al sicuro, e anche per in nostri pazienti, perché in queste
condizioni non eravamo più in grado di offrire servizi
qualitativamente adeguati alle loro necessità: restare avrebbe
significato ingannarli, illuderli e quindi danneggiarli. In questo
momento per Emergency l’Afghanistan è un paese pericoloso, dove non
è più possibile lavorare. Ovviamente la mia tranquillità sparisce se
penso a Rahmatullah, chiuso in carcere a Kabul da oltre un mese.
Cosa si aspetterebbe ora dal governo italiano?
Il governo italiano è corresponsabile della carcerazione di
Rahmatullah Hanefi e, con il suo disinteresse, della situazione che
si è venuta a creare. Un governo che ha un minimo di dignità, che
sia di destra o di sinistra, protegge i suoi uomini: non solo i suoi
cittadini, ma anche coloro i quali lavorano per lui. Rahmat, nella
vicenda Mastrgiacomo, ha lavorato per il governo italiano. Ma questo
governo non lo ha protetto. Perché questo governo non ha la dignità
necessaria per opporsi a una decisione che colpisce un suo uomo.
Forse perché quella decisione non è stata interamente afgana, bensì
mossa da “mani invisibili”, come ha detto giorni addietro il
ministro afgano della Sanità. Mani statunitensi, ovviamente.
Quale interesse avrebbero gli Stati Uniti a colpire Emergency?
Emergency, soprattutto nel sud del paese, era percepita come una
presenza scomoda. Era, anzi, l’unica presenza scomoda rimasta in
zona di guerra. Il solo fatto di curare i civili vittime dei
bombardamenti aerei della Nato è una cosa sgradita a chi sostiene
che l’Occidente sia lì per portare democrazia e per ricostruire il
paese. Non ho mai visto bombe che riscostruiscono! Tolta di mezzo
Emergency, nel sud dell’Afghanistan rimangono solo soldati e spie.
Enrico Piovesana
Cessate il fuoco
Questa settimana, in tutti i paesi
ancora in guerra, sono morte almeno 749 persone.
Iraq
Questa settimana sono morte almeno 553 persone (523 iracheni, tra
civili e agenti delle forze di sicurezza. Sul fronte della
Coalizione si contano 25 soldati statunitensi uccisi, 4 britannici e
un polacco).
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 10.632
Afghanistan
Questa settimana sono morte almeno 86 persone (11 civili, 50
talebanio presunti tali, 23 soldati e poliziotti afgani, 2 soldati
della Nato).
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 1.119 (274 civili, 585
talebani o presunti tali, 213 soldati e poliziotti afgani, 47
soldati della Nato).
Somalia
Questa settimana sono morte circa 300 persone, tutte civili.
Il bilancio, però, non può essere considerato aggiornato per via
delle continue sparatorie che avvengono con frequenza nei quartieri
della capitale Mogadisco. Almeno 1057 morti dall'inizio dell'anno
Nigeria
Questa settimana sono morte almeno 200 persone nalle violenze
scatenatesi nei giorni immediatamente precedenti alle elezioni
presidenziali.
Almeno 290 morti dall'inizio dell'anno
Cecenia (Russia)
Questa settimana sono morte almeno 8 persone (3 civili e 2
guerriglieri, 2 soldati russi, un soldato ceceno).
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 246
Filippine-Abu Sayyaf/Mnlf
Questa settimana sono morte 11 persone.
Almeno 135 morti dall’inizio dell’anno
Sri Lanka
Questa settimana sono morte 50 persone.
Almeno 1.026 morti dall'inizio dell'anno.
India nord-est
Questa settimana sono morte 17 persone
Almeno 376 i morti dall'inizio dell'anno.
India Kashmir
Questa settimana sono morte 20 persone
Almeno 162 morti dall'inizio dell'anno.
India Naxaliti
Questa settimana sono morte 7 persone
Almeno 88 i morti dall'inizio dell'anno.
Pakistan Waziristan
Questa settimana sono morte 14 persone
Almeno 576 i morti dall'inizio dell'anno.
Thailandia del Sud
Questa settimana sono morte 3 persone
Almeno 139 morti dall’inizio dell’anno
Israele – Palestina
Questa settimana sono morte almeno 8 persone (5 miliziani e 3 civili
palestinesi).
Dall'inizio dell'anno sono morte almeno 115 persone.
26 aprile
25 aprile, così
vicino, così lontano
Gianpasquale Santomassimo
Si continua a parlarne come fine di un periodo
tragico e sofferto, tornando in maniera estenuata a discutere i dettagli più
insignificanti della resa dei conti di quei giorni. Eppure a oltre sessant'anni
il 25 aprile dovrebbe sempre più venire avvertito come inizio di qualcosa di
nuovo, il voltare pagina di un libro su cui finalmente tutti hanno potuto
scrivere la propria storia. È questo il senso il cui le grandi date della
storia nazionale sono state intese nel tempo dagli altri popoli, lasciandosi
alle spalle il ricordo di «guerre civili» ben più sanguinose di quella che
fu parte della nostra guerra di liberazione.
Bisogna chiedersi perché questo non sia avvenuto o non avvenga più nella
nostra cultura diffusa. Non è estraneo, probabilmente, il senso di una
distanza che non è più solo temporale ma che per molti è divenuta cesura di
mondi, di civiltà, di modo di intendere e praticare la politica. Non
stupisce che questo avvenga nella cultura della destra, da sempre estranea o
fredda rispetto a ciò che il 25 aprile ha simboleggiato.
Ma a ben vedere non stupisce neppure nella cultura di una sinistra che
sembra aver trovato (o immaginato per sé) un nuovo inizio nel 1989 anziché
nel 1945, e che giustamente non finge neppure di inserire simboli di quel
mondo lontano negli improvvisati Pantheon che affastella. Teniamoci pure
lontani da questo futile gioco di società, e non suggeriamo figurine
sbiadite da inserire in un album, colonne sonore da contrapporre al Mago di
Oz che bene compendia il senso insieme astuto e fanciullesco di un «fare
politica» che parla solo a un mondo ristretto di «addetti ai lavori».
Però bisogna pur dire che le basi di una civiltà repubblicana, democratica e
parlamentare, che il 25 aprile ha inaugurato appaiono irrimediabilmente
distanti, erose dal tempo.
Pochissimi sembrano avere memoria del fatto che un parlamento serve a
rappresentare il paese, nella maniera più possibile articolata e fedele, e
non solo a votare la fiducia a un governo. Che la democrazia cresce e si
organizza attraverso la partecipazione quotidiana dei cittadini, non solo
chiamandoli ogni cinque anni a votare (assai più contro ciò che si teme o si
detesta che non per qualcosa in cui razionalmente si creda).
Non è un caso che la nostra esperienza repubblicana abbia costruito le sue
fondamenta attorno a una «civiltà del proporzionale» che è stata la forma
storica della nostra democrazia, che significava anche civiltà del confronto
e del ragionamento, di un modo alto di fare politica che pare quasi
cancellato da un quindicennio di scontro muscolare, urlato, di campagne
elettorali e mediatiche quotidiane e ininterrotte, tanto più aspre quanto
meno distante è in realtà la sostanza di visioni della società che spesso
sembrano convergere e quasi sovrapporsi.
Nell'unico breve periodo della nostra storia prefascista in cui il
proporzionale venne introdotto, nel 1919, rivelò un'Italia completamente
diversa da quella ufficiale, espressa in precedenza dal sistema uninominale,
rivelò un mondo dove i notabili liberali erano minoranza e le grandi forze
popolari, cattoliche e socialiste, erano maggioranza nel paese.
Se oggi per avventura si trovasse la forza di tornare ai principi della
rappresentanza repubblicana si scoprirebbe che l'Italia forse può essere
molto diversa da quella che il bipolarismo coatto ci ha imposto, che una
politica sdrammatizzata, lontana dal giudizio di Dio apocalittico e
barbarico di ogni consultazione, sia pure insignificante, può essere
un'Italia più civile, in grado di dialogare e di confrontarsi, di dividersi
in un conflitto finalmente «normale» e fisiologico, di piazze reali e non
più solo televisive, di cittadini responsabili e non di utenti col
telecomando in mano.
Significherebbe tentare il ritorno a una democrazia che si organizza e si
sostanzia di partecipazione reale, più vicina a quella delle nostre origini
repubblicane che a quella brutta caricatura di politica che oggi ci fa
sembrare così lontano il 25 aprile.
Yemen - Aden - 26.4.2007 |
Vita da
profughi |
I rifugiati somali resistono alle
squallide condizioni di vita in Yemen |
La maggior parte dei rifugiati in
Yemen è costituita da somali, 15mila dei quali vivono in
condizioni di estrema povertà. Amnah Abdul-Hamid, 26 anni, è
scappato dalla guerra in Somalia per cercare una vita migliore
in Yemen. Ma da quando è arrivata, quattro anni fa, i suoi due
bambini sono morti di diarrea e lei al momento è malata e
inferma.
Una
comunità in difficoltà. “Soffro di neurite cerebrale
(un’infiammazione di uno o più nervi). Ho un urgente bisogno di
aiuto, per procurarmi cibo e trovare dove dormire, visto che
sono senza un lavoro”, dice Amnah, divorziata che dipende da una
famiglia somala che vive ad al-Basateen, un’area a predominanza
somala nella provincia di Aden. “Ho bisogno di lavorare, ma sono
malata e la guerra nel mio paese mi impedisce di tornare”, dice.
Come Amnah, moltissimi rifugiati somali confluiscono in una
piccola stanza nel centro di al-Basateen, dove si incontrano i
leader della comunità. Questo è il loro primo punto di
riferimento quando hanno dei problemi. Per guidare la comunità
somala e per indirizzare le loro richieste i rifugiati hanno
scelto sette capi, tra cui anche alcune donne, rappresentativi
delle loro tribù. Costituita sette anni fa, adesso la Somali
Community Leadership (Scl) è senza risorse. “Ce la caviamo da
soli, l’affitto del locale del partito viene pagato da Adra, una
ong internazionale”, dice Mohammed Deriah, il principale leader
della Scl.
Secondo lui, 15.540 rifugiati somali vivono nell’area di
al-Basateen con la carta d’identità, mentre molti altri vivono
lì senza documenti. “Nelle ultime tre settimane abbiamo ricevuto
2.550 rifugiati somali, che sono fuggiti dal loro paese per
scappare dalla guerra”, dice ad all’agenzia Irin. Quasi tutte le
case ad al-Basateen sono fatte di latta e fango. Il loro affitto
mensile varia da 3.000 a 5.000 riyals yemeniti (circa 10-20
euro).
Condizioni
di povertà. L’aerazione e il sistema di fognature è
pessimo. La zona è male organizzata e non asfaltata.
L’immondizia viene buttata fuori dalle case dato, che non ci
sono bidoni dei rifiuti. Il dottor Fares Najeeb, capo della
Charitable Society for Social Welfare (Cssw), una struttura
sanitaria ad al-Basateen, afferma che la povertà e la cattiva
condizione delle fognature sono le principale cause di malattie
tra i rifugiati. Najeeb dice che le malattie comuni nell’area
sono la diarrea, infiammazioni alle vie respiratorie e, in una
certa misura, anche la malaria. I casi di malaria sono da lui
stimati in 80 al mese. Inoltre, mensilmente, si verifica almeno
un caso di tubercolosi. Nell’area ci sono solo due strutture
sanitarie, una delle quali si occupa di bambini e madri. Le
strutture sono state realizzate da Cssw, una ong locale, nel
1999. L’agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr) li assiste, mentre
il Ministero della Salute yemenita procura loro medicinali
gratuiti e 43 operatori sanitari. Durante l’estate i residenti
affrontano periodi di mancanza d’acqua e interruzioni della
corrente elettrica. “Durante l’estate il governo raziona le
forniture d’acqua in questa zona. La stessa cosa si può dire
dell’elettricità, e questo proprio nel momento in cui ne avremmo
bisogno più che mai”, dice Deriah, uno dei leader della
comunità.
Una
situazione drammatica. Deriah aggiunge che la maggior
parte dei bambini somali, pur avendo la possibilità di
frequentare la scuola pubblica, non ci vanno. “Le famiglie non
possono permettersi gli oggetti necessari come quaderni e
uniformi scolastiche. Pochissimi ragazzi frequentano la scuola”.
Le risorse dei rifugiati somali di al-Basateen dipendono
principalmente da lavori umili, come lavare le macchine,
lavorare nei cantieri e pulire le case. La rifugiata somala
Habibah Hassan, 35 anni, dice di essere arrivata in Yemen sette
anni fa, dopo che delle bande armate avevano legato suo marito,
un ex colonnello del vecchio esercito nazionale somalo, gli
avevano rubato più di 10mila euro e preso lei a calci nello
stomaco, fino a causarle un aborto. Habibah descrive le
condizioni di vita ad al-Basateen come miserabili. “Siamo
arrivati in Yemen con la speranza di viaggiare verso un paese
diverso ma, quando abbiamo fallito, mio marito era in un tale
stato mentale che da allora è scomparso”. Erika Feller
assistente all’Alto Commissariato dell'Unhcr, ha visitato lo
Yemen e ha descritto la situazione dei rifugiati somali come
angosciante. Ha richiesto aiuti addizionali per migliorare le
loro condizioni. Secondo l’Unhcr, ci sono circa 100mila
rifugiati in Yemen, la maggior parte dei quali somali. Lo Yemen
è firmataria della Convenzione sui Rifugiati del 1951 e del
Protocollo aggiuntivo alla stessa del 1967.
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20 aprile
Germania,
i nazisti ora fanno paura
Secondo l'Ufficio
criminale federale, gli atti di violenza sono stati
18mila nel solo 2006. Mai così tanti dalla
riunificazione
Matteo Alviti
Berlino
Sono state più di 18mila,
solo nel 2006, le azioni criminali commesse dai
neonazisti in Germania. Una simile ondata di violenza da
parte dell'estrema destra non era mai stata registrata
da quando, nel 2001, è stato introdotto il sistema di
definizione che riconosce gli atti di criminalità
motivati politicamente. Rispetto all'«annata record» del
2005, quando furono segnalati quasi 16mila delitti, c'è
stato un aumento del 14%. Dal 2004 l'aumento è invece
del 50%.
I dati provengono direttamente dall'Ufficio criminale
federale, il Bundeskriminalamt (Bka), che periodicamente
raccoglie le segnalazioni della polizia dei Länder. Le
cifre sono state pubblicate qualche giono fa sulla prima
pagina del Tagesspiegel. Il quotidiano è entrato in
possesso delle informazioni che il Bka aveva redatto in
un rapporto confidenziale per il ministero degli interni
tre settimane fa. Secondo quanto riportato dal giornale
berlinese, non si era mai verificata una esplosione di
violenza neonazista di questa entità da quando la
Germania è tornata a essere una sola, il 3 ottobre del
1990.
Col numero dei delitti è cresciuta anche la frequenza e
l'intensità della violenza contro le persone. Delle
18mila azioni criminose, gli atti di violenza fisica
sono saliti a più di 1100, con un aumento dell'8%
rispetto al 2005 (nel 2004 erano stati segnalati 832
casi). Al contrario di quanto ci si potesse aspettare,
lo svolgimento degli ultimi mondiali di calcio non ha
giocato un ruolo rilevante.
I dati raccolti dal Bka dipingono una situazione
addirittura peggiore di quella che il ministro degli
interni, il cristianodemocratico Wolgang Schäuble, aveva
riportato in parlamento in risposta all'interrogazione
parlamentare del gruppo die Linke, l'opposizione da
sinistra al governo di Angela Merkel.
Lo stesso sindacato di polizia ha avvertito allarmato
che «l'estremismo di destra sta avanzando in tutto il
paese». Secondo il presidente del sindacato, Konrad
Freiberg, «la cosa più pericolosa è che la destra
estrema ha penetrato il centro borghese della società
tedesca». Non si può più parlare di un problema di
gruppi sociali emarginati, ha continuato Freiberg.
La sfilza di dichiarazioni rituali del mondo politico,
preoccupato per l'aumento dei delitti, non si è fatta
attendere. Da parte socialdemocratica è rispuntata
l'idea della convocazione di un vertice straordinario
sulla democrazia per elaborare una strategia in grado di
sconfiggere l'estremismo di destra. Mentre i Verdi
chiedono un'«offensiva democratica» nelle scuole e die
Linke il sostegno alle iniziative della società civile e
dei centri per le vittime della violenza neonazista.
Il presidente del sindacato di polizia è però scettico:
«L'unica strategia contro la destra è quella di
rioccupare gli spazi sociali dai quali la politica e i
sindacati sono arretrati».
Freiberg è a favore della messa fuori legge dei partiti
di estrema destra, con tutti i problemi che
comporterebbe: «È perverso che l'Npd si finanzi con i
rimborsi elettorali previsti dal nostro sistema
partitico», ha detto.
Sprofondo americano
Alessandro Portelli
Kurt Vonnegut, che ci ha lasciato soli
pochi giorni fa, l'aveva detto una volta per tutte: non c'è niente
di intelligente da dire dopo una strage. Me ne sono ricordato dopo
l'11 settembre, e mi torna in mente ancora una volta dopo la strage
di Blacksburg in Virginia. Dopo una strage, dice Vonnegut, c'è solo
il silenzio della morte, e forse qualche suono di uccelli fuori dal
linguaggio. E dopo ogni immagine di morte, concludeva: così va.
Ho degli amici e colleghi al Virginia Tech di Blacksburg, e spero di
averli ancora. In ufficio risponde la segreteria telefonica; a casa,
il centralino dice che le linee sono occupate. Immagino che mezzo
mondo stia provando a chiamare.
A Blacksburg ci sono stato poche ore, ho l'immagine di uno di quei
campus provinciali da idillio cinematografico, soleggiati verdi e
sereni. Alla ricerca un po' assurda di notizie aggiornate, ho
chiamato «Virginia Tech shooting» su Google, e mi sono usciti i dati
dei tiri a canestro dell'ultima partita della squadra di casa; ho
cercato «Virginia Tech massacre», ed è uscita la storia di una
massacrante batosta inflitta a una squadra rivale. Sparatorie,
massacri - le solite metafore sportive della quotidiana normalità,
improvvisamente riportate al loro senso materiale, di solito
dimenticato ma sempre latente. C'è sempre una tenebra annidata sotto
il sole di questa America, una foresta ai margini del villaggio, un
Injun Joe nella caverna sotto il villaggio di Tom Sawyer. L'idillio
del campus è un mondo separato, come tanta parte dell'universo
accademico americano, ghetto e torre d'avorio. Diceva un collega
tanti anni fa: un ghetto nero disperato circonda la modernissima e
iperliberista università di Chicago; e, aggiungerei, c'è una
tormentata Appalachia attorno al sole e al verde del campus di
Blacksburg. Sotto la pace ordinaria c'è sempre qualcosa in attesa di
esplodere.
Lynndie England, la protagonista di Abu Ghraib, viene dal West
Virginia, a un passo da lì. Viene da pensare che tanti bravi ragazzi
americani di paese, spediti in Iraq, fanno laggiù col permesso del
governo quello che rischierebbero di fare a casa, e che altri
ragazzi come loro a casa fanno davvero. La Virginia nord-occidentale
è una paese bellissimo di montagne ruvide e ripide, di valli
strette, di boschi distesi, e - come tanta parte degli Usa - di
violenza accumulata, di gente armata e risentita, che non si fa
mettere i piedi sul collo da nessuno e che ogni tanto va fuori di
testa, che si sente emarginata e spodestata ma non sa perché, in
un'America che non capisce più e che non li capisce più, e scarica i
risentimenti dove capita, punendo torti immaginari perché non riesce
a riconoscere e articolare quelli veri. Anche i paranoici hanno
nemici veri; ma non sempre sanno riconoscerli.
Queste comunque sono parole. Diceva Bob Dylan, a proposito di
un'altra strage: ci sono 7 persone morte in una fattoria del Sud
Dakota; da qualche parte, lontano, altre 7 persone nascono. Ci sono
32 persone morte, a Blacksburg. Così va.
18 aprile
Filippine, civili in fuga dalla
guerra |
Migliaia di famiglie scappano
dall'offensiva del governo nell'isola di Jolo |
 |
L’avvicinarsi delle elezioni
amministrative del 14 maggio ha provocato un pericoloso ritorno
di fiamma del conflitto armato tra governo e indipendentisti
islamici nel profondo sud musulmano dell’arcipelago filippino.
Sull’isolo di Jolo, i violenti combattimenti tra guerriglieri
del Fronte Moro di Liberazione Nazionale (Mnlf) e forze
governative – appoggiate da consiglieri militari e forze
speciali statunitensi – stanno provocando molti morti e,
soprattutto, una gravissima crisi umanitaria. Già 42 mila
persone in fuga dalla guerra si sono accampate nelle scuole del
capoluogo dell’isola: mancano coperte, tende e soprattutto acqua
e cibo.
Giorni
di combattimenti. Venerdì notte, 14 aprile, i
guerriglieri dell’Mnlf hanno lanciato colpi di mortaio contro la
base navale governativa di Panamao, uccidendo due soldati e un
bambino. Il comandante ribelle Habier Malik ha dichiarato di
aver ordinato il bombardamento in risposta a un attacco
dell’esercito contro le postazioni dell’Mnlf a Indanan. Fatto
sta che le forze governative hanno scatenato subito una pesante
offensiva sulla zona di Indanan, con bombardamenti aerei e
d’artiglieria che hanno causato finora la morte di una ventina
di guerriglieri. Difficile escludere che vi siano anche perdite
tra la popolazione civile.
Campagna
elettorale? Il governo accusa i ribelli islamici – con
i quali sono in corso difficili negoziati di pace da undici
anni, ovvero dal cessate il fuoco del 1996 – di aver provocato
una reazione militare del governo contro l’Mnlf nella speranza
di far aumentare il consenso della popolazione – che il 14
maggio dovrà votare per il nuovo governatore delle province
musulmane – verso il leader storico dei ribelli, Nur Misurai, il
quale è candidato a governatore nonostante si trovi da anni agli
arresti domiciliari.
Lo stesso Misuari, pur condannando
la pesante reazione militare governativa, ha però subito preso
le distanze del comandante Malik.
Mnlf
e Abu Sayyaf. Comunque stiano le cose, la pesante
offensiva militare del governo rischia di ridare fiato al
separatismo “moro”, che ormai aveva perso ogni sostegno
popolare. Contrariamente all’altro gruppo armato ancora attivo a
Jolo e in tutto l’arcipelago di Sulu, ovvero l’Abu Sayyaf,
considerato dalla popolazione locale una banda di tagliatori di
teste (è di oggi la notizia della decapitazione di sei ostaggi
rapiti martedì), il Fronte Moro di Liberazione Nazionale è
profondamente radicato nel tessuto sociale e gode di un largo
sostegno popolare.
Processo di pace a
rischio. “Un attacco contro l’Mnlf – spiega Tom Green,
direttore della Pacific Strategies & Assessments
esperto di Filippine – colpisce tutta la popolazione, perché
ogni famiglia della zona ha un uomo che milita in questo gruppo.
Per questo, finora, il governo era stato attento a non
rafforzare l’Mnlf con offensive militari per non mettersi contro
la gente, per non complicare un processo di pace che, a questo
punto, rischia di saltare definitivamente”.
Il conflitto indipendentista
islamico nel sud delle Filippine, iniziato nel 1971, ha causato
la morte di almeno 150 mila persone.
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Tanti appelli contro
le morti sul lavoro. Ma è ora di verificare le risposte
Tiziano Rinaldini *
In questi giorni il moltiplicarsi di
incidenti sul lavoro hanno finalmente aperto una crescita di
attenzione sui problemi della sicurezza. Lodevoli (e autorevoli)
intenzioni si sono espresse sull'impegno per accelerare la
concretizzazione di interventi legislativi e per misure di maggior
sorveglianza.
Vedremo se tutto ciò avrà seguito coerente, come auspichiamo.
Intanto sarebbe opportuno evitare affermazioni significativamente
sbagliate come la definizione delle vittime sul lavoro come martiri.
Il martirio implica una scelta per una causa; non ci pare abbia
molto a che fare con il lavoratore vittima sul lavoro, che non ha
mai pensato di scegliere di morire, ma più semplicemente ha dovuto
lavorare in condizioni imposte. Comunque tutto ciò è importante, ma
non basta; l'aumentata sensibilità al problema non può essere
risolta solo così.
Manca un punto, in ultima istanza, decisivo.
Ciò che sta accadendo è davvero comprensibile se non lo si mette in
relazione con la natura e le caratteristiche di fondo dei processi
che hanno attraversato in questi anni il governo del lavoro?
Il lavoro non è trattabile alla stregua di un bene comune
minacciato. I soggetti del lavoro sono uomini e donne, non sono beni
da tutelare, ma soggetti da mettere nelle condizioni di essere tali,
nell'unico modo possibile, e cioè dotandoli di diritti e favorendo
il fatto che insieme e solidali fra di loro possano intervenire
sulla loro condizione con un loro autonomo punto di vista da
affermare con la lotta quando necessario e con una vera
contrattazione collettiva.
Quando queste condizioni vengono meno, rese impraticabili o quasi,
non bastano santi protettori o regole esterne che non mettano in
discussione il dominio unilaterale interno sulla condizione di
lavoro ed il tentativo di cancellare la contrattazione collettiva
solidale.
L'indebolimento, per non dire l'annullamento, di una reale
contrattazione collettiva solidale e la demonizzazione del conflitto
sociale sono state tra le finalità centrali dei processi che si sono
strutturati in questi anni nel modello sociale ed economico che si è
imposto.
Da un lato la precarietà del lavoro, bassi salari e svalutazione del
lavoro manuale e di quelli più rischiosi o disagiati, dall'altro
frantumazione del ciclo lavorativo strutturato con imprese
frantumate in un quadro integrato e dominato da chi presiede alle
funzioni strategiche, a sua volta ricondotto alla massima
redditività a breve termine dalla finanziarizzazione: questa è la
sostanza dei processi di questi anni (chissà perché definiti «libero
mercato»).
Tutti i settori ne sono stati attraversati, sino agli esempi estremi
dell'edilizia e della pulizia. Gli aspetti più selvaggi sono figli
naturali, e non mostruosità inspiegabili. Dentro tutto ciò il
lavoratore è sollecitato ad aderire al comando che ne deriva, a
considerare rivali gli altri lavoratori e viene drasticamente
ostacolato sulla possibilità di intervenire sui poteri che
determinano le condizioni di lavoro.
Come non vedere conseguenze sulla sicurezza e sulla salute non
rimediabili su altri terreni?
Gli stessi Rls (Rappresentanti dei lavoratori alla sicurezza),
essendo strutture di sorveglianza esterne alla contrattazione
collettiva e definibili solo all'interno e per ogni singola impresa,
vengono drasticamente indeboliti dal fatto che negli ultimi decenni
sono stati sottratti poteri contrattuali sulla salute e sulla
sicurezza, nei contratti nazionali e nella contrattazione articolata
(per la quale non è mai stata accettata una estensione sul ciclo e
per l'insieme delle imprese coinvolte).
E' su questo piano che si verificheranno in modo decisivo le
sensibilità di questi giorni. Certo, non fa buona impressione in
questa situazione sentire Bombassei che per risolvere il problema si
limita a proporre più sorveglianza dall'esterno, né il ministro del
lavoro dire ai sindacati che il problema è premiare i lavoratori più
bravi (ad aderire a questi processi?).
Comunque non mancano a breve le occasioni per verificare. Citiamo
due appuntamenti molto concreti.
Il primo è sul terreno legislativo e si riferisce alla volontà o
meno di sradicare la filosofia della precarietà/flessibilità
introdotta nel diritto italiano con la legge 30, e non solo.
Il secondo è costituito dal rinnovo di alcuni fondamentali contratti
nazionali di lavoro. Vi sono ad esempio piattaforme che rivendicano
sbarramenti vincolanti sulla precarietà, poteri di intervento
contrattuale dei lavoratori e responsabilità contrattuali degli
imprenditori sull'insieme dei processi che determinano (appalti ed
esternalizzazioni in primo piano). Saranno prime occasioni per
verificare il tasso di verità o di ipocrisia delle sensibilità di
questi giorni.
Sarebbe utile che già sin da ora ci si esprimesse.
* Cgil Emilia Romagna
capitalismo
Il diabolico
potere dei fondi privati
Joseph Halevi
La gente di sinistra deve imparare e
capire i termini che definiscono l'attuale fase di capitalismo
monpopolitico finanziario. Essi ne delineano infatti la dimensione
istituzional-corsara, che Keynes aveva intuito e temuto al massimo
ma oggi assolutamente irreversibile nel quadro capitalistico. Si
tratta, dei junk bonds (titoli spazzatura), corporate raiders
(razziatori di azioni di altre società) ed infine, private equity
investment funds (fondi di investimento privati a scopi
proprietari). Il tutto è strettamente connesso al meccanismo di
leveraged buyout che la Garzanti Linguistica definisce perfettamente
come «acquisizione di società mediante l'acquisto di azioni
finanziato per mezzo di emissione di debito garantito dalle azioni
comperate».
In genere lo sbocco finale di queste attività e meccanismi
effettuate da società finanziarie gigantesche, è l'asset stripping,
cioè la spoliazione dei beni delle società prese di mira. Dei titoli
spazzatura si è scritto molto, passiamo quindi ai corporate raiders
ed ai private equity investment funds.
Le società razziatrici di società sono in realtà delle finanziarie
che si impossessano di compagnie malconce; le ristrutturano
selvaggiamente puntando su un conseguente aumento del valore delle
azioni. Sono operazioni manageriali e di espulsione di forza lavoro,
non implicano particolari programmi di sviluppo tecnologico. In
questi giorni a Detroit è sotto tiro la malandata Chrysler che la
Daimler tedesca vuole abbandonare. Il corporate raider non deve
necessariamente appropriarsi dell'intero pacchetto azionario della
società in questione.
Invece i private equity investment funds comperano tutte le azioni -
offrendo prezzi più alti delle quotazioni di borsa - e tolgono le
società acquistate dal mercato azionario. Usando la terminologia
americana, 'going private' (privatizzarsi) significa uscire dal
mercato borsistico. Questo tipo di attività sta dominando
l'attenzione dei centri finanziari perchè comporta l'uso massiccio
del meccanismo del leveraged buyout. Infatti per comprare l'intero
pacchetto azionario e cancellare la società dal listino di borsa è
necessario prendere a prestito un grande quantità di soldi, spesso
con operazioni molto dubbie come nel caso della compagnia aerea
australiana Qantas la cui seconda privatizzazione è in via di
attuazione (la prima fase di privatizzazione è consistita nel
trasformarla da azienda statale in una quotata in borsa). Quindi le
società acquistate dai fondi equity devono sobbarcarsi il debito
contratto dal fondo che ha condotto l'operazione.
L'equity investment fund, che a sua volta è un conglomerato di altre
società finanziarie, intende ovviamente far fruttare il suo
investimento, che non ha nulla di lungo termine, sia riducendo il
debito che aumentando la redditività a breve termine della compagnia
acquistata. Qui interviene l'asset stripping, la spoliazione dei
beni - già ampiamente presente nelle operazioni dei corporate
raiders e dei trafficanti in titoli spazzatura ma che nel caso dei
fondi equity assume dimensioni assolute. Con il controllo assoluto
sulla società e non dovendo confrontarsi col mercato borsistico ma
avendo dei precisi obiettivi finanziari a breve, dettati anche
dall'indebitamento incorso, il fondo equity può scorporare la
società. Può chiudere i rami meno redditizi, vendere parte dello
stock di capitale e più in là nel tempo, vendere i settori
profittevoli tramite ulteriori scorpori e relativa rivendita al
mercato azionario (Ipo).
Il fondo equity riprende poi altrove la guerra da corsa. Negli Stati
uniti gli investitori nei fondi equity sono a loro volta delle
grandi società, dei fondi di pensione e simili organismi. Si noti
che molte delle maggiori operazioni dei fondi privati equity si
concentrano su aziende di pubblica utilità. Alla fine di febbraio le
società di fondi equity Kkr e Texas Pacific Group hanno effettuato
il più grande buyout della storia con l'acquisto per 45 miliardi di
dollari dell'azienda elettrica Txu.
L'evoluzione finanziaria del capitalismo fondata sull'indebitamento
crescente e sul suo uso come strumento corsaro non è scindibile dal
fiume di denaro generato dagli Usa e dal Giappone nel corso
dell'ultimo decennio.
Ecomafie, un business da 23 miliardi di euro
Ogni ora in Italia
vengono compiuti tre reati contro l'ambiente. E la Cina è il
Paese principale meta del traffico illegale di rifiuti.
Pecoraro Scanio: «Al più presto un ddl per i reati
ambientali»
Carlo Lania
Immaginate una montagna come
il Gran Sasso, 2.600 metri di altezza, una delle bellezze
naturali del nostro paese. Immaginatela e subito dopo
sostituitela con un'analoga montagna di rifiuti, alta
anch'essa 2.600 metri, l'equivalente di almeno 26 milioni di
tonnellate di spazzatura, il 25% di quella prodotta ogni
anno in Italia. Bene, sempre ogni anno questa seconda
montagna sparisce letteralmente nel nulla, scompare ad opera
della criminalità organizzata, quella «Rifiuti spa» che
sull'immondizia - ma più in generale contro l'ambiente -
organizza traffici miliardari capaci di crescere, negli
ultimi 12 mesi, del 38%.
Si tratta solo di uno, e forse neanche il più grave e
pericoloso, degli affari sporchi legati ai reati contro
l'ambiente (si calcola che ogni ora in Italia ne vengono
compiuti tre) e denunciati nel dossier Ecomafie presentato
ieri a Roma da Legambiente. «Le ecomafie continuano a
imperversare nei rifiuti, nell'abusivismo edilizio, nel
cemento, nel racket delle specie protette - ha denunciato
Roberto Della Seta, presidente di Legambiente -. E' un
fenomeno che non riesce ad arretrare perché ancora non si
sono inseriti i crimini ambientali nel codice penale». Una
lacuna che da anni si promette sempre di colmare senza mai
farlo, ma alla quale ieri il verde Alfonso Pecoraro Scanio
ha promesso di rimediare al più presto. «In tempi molto
brevi - ha detto il ministro dell'Ambiente - ci sarà un
disegno di legge del governo per introdurre i reati
ambientali nel codice penale. Credo che il parlamento già a
maggio possa avviare un dibattito in sede di commissione
Giustizia».
Come al solito bastano le cifre a rendere l'idea di perché
la criminalità organizzata sia attratta dal business legato
ai reati contro l'ambiente. Ogni anno, denuncia infatti il
dossier di Legambiente, il giro d'affari legato alle
ecomafie frutta la bellezza di 23 miliardi di euro.
Scomposto, questo bilancio illegale rivela quali sono le
attività più lucrose. Prima fra tutte, ovviamente, c'è il
traffico di rifiuti, che il Procuratore nazionale antimafia
Pietro Grasso spiega così: «La consapevolezza
dell'importanza assunta dal settore dei rifiuti per la
criminalità organizzata - scrive Grasso nell'introduzione al
dossier - può essere tutta riassunta in poche parole, di
straordinaria efficacia, pronunciate da un mafioso. Questi,
durante una conversazione intercettata, affermò: "Buttiamoci
sui rifiuti: trasi munnizza e niesci oro". Penso che questa
espressione, in dialetto ma, ritengo comprensibilissima, più
di molte parole dia l'esatta misura del precipuo interesse,
da parte della criminalità mafiosa, per il settore dei
rifiuti».
Ma le cosche non apprezzano solo la «munnizza». Dei 23
miliardi di fatturato, tre sono frutto del traffico di
animali e piante; 700 milioni derivano dai combattimenti
clandestini e altrettanti dal traffico di specie protette,
uccelli, scimmie, rettili, orchidee e cactus; 1,2 miliardi
dalle corse illegali; 500 milioni dalla macellazione in
nero.
C'è poi tutto il capitolo riguardante gli abusi edilizi,
pratica ormai da tempo in mano alle cosche. Legambiente la
definisce una situazione di «luci e ombre», perché se da un
lato diminuisce, secondo i dati forniti dal Cresme, il
numero delle costruzioni illegali, che scendono a quota 30
mila. in ogni caso oggi ogni 10 nuove costruzioni almeno una
è abusiva, per un giro d'affari annuo stimabile in circa 2
miliardi di euro.
Importante anche la parte del dossier che riguarda i
traffici internazionali di rifiuti e che vede nella Cina una
delle sponde principali della criminalità organizzata.
L'Agenzia delle Dogane ha sequestrato nel 2006 circa 286
container con oltre 9 mila tonnellate di rifiuti. per le
imprese si tratta di un vero affare. Se infatti smaltire n
container con 15 tonnellate di rifiuti può costare fino a 60
mila euro,per spedirlo illegalmente in oriente ne bastano
appena 5 mila. E questo con gravi danno per la popolazione
locale. Più del 90% dei rifiuti esportati in Cina finisce
infatti nei villaggi della costa, dove senza alcuna
popolazione viene recuperato tutto ciò che è possibile
recuperare. Altri paesi meta di traffici illegali sono
l'India, la Croazia, la Siria, l'Austria, al Norvegia, la
Francia e alcuni paesi del Nord Africa.
Tra tante notizie negative, non ne manca per fortuna
qualcuna positiva. A fronte di un numero di infrazioni
riscontrate in continua crescita, anche se per lo più
costante, (23.668 nel 2006 contro le 23.660 del 2005), il
2006 è stato un anno record per le inchieste (18), gli
arresti (126) e per le persone denunciate (417), numeri resi
possibili dall'introduzione del delitto ambientale di
organizzazione di traffico illecito di rifiuti.
Veleni,
rifiuti e cemento 'o business della camorra
Rapporto
Legambiente: il triste primato della Campania
Francesca
Pilla
Napoli
I dati dei rapporti di
Legambiente, quello nazionale e il fascicolo
presentato ieri a Napoli nell'Istituto filosofico,
confermano che in Campania si continua a perpetuare
un massacro ambientale. La triade di rifiuti, veleni
e cemento firma un patto d'acciaio contro un
territorio maltrattato da trafficanti, camorristi,
imprenditori, tecnici e amministratori pubblici
conniventi.
In cifre significa che la regione, in Italia, dal
secondo posto del 2005 passa al primo per i reati
ambientali commessi: solo nel 2006 ci sono stati
3.169 illeciti accertati, otto reati al giorno, uno
ogni tre ore; con 2.861 persone denunciate o
arrestate e 1.362 sequestri effettuati. Nei fatti
significa che esiste un sistema di 64 clan
camorristici con a disposizione un giro di 6
miliardi di euro, tra fatturato legale e illegale.
Affari che arrivano dalla tratta dei rifiuti
tossici, ma anche da quelli «puliti», nonché
dall'edilizia abusiva. Uno scempio.
Un'emergenza ancora più pericolosa se unita
all'incapacità di gestione istituzionale, negli
ultimi 13 anni, del ciclo integrato dell'immondizia.
Due mondi che si guardano proprio per le connivenze
tra la criminalità organizzata, enti e strutture
preposte alla raccolta e allo smaltimento. E' di
lunedì l'ultima protesta dei cittadini dell'agro
aversano, il regno dei Casalesi. A Gricignano, Casal
di Principe e San Cipriano le popolazioni sono scese
in strada e hanno gettato davanti alle caserme dei
carabinieri cumuli di rifiuti. La contraddizione è
che in quei comuni attualmente non c'è nessuna crisi
in atto. E' verosimile dunque che le tensioni siano
fomentate in prospettiva. La discarica di Villaricca,
che da ottobre per accordi presi con
l'amministrazione comunale, accoglie i sacchetti di
mezza Campania ora è giunta a saturazione. Nel
frattempo però non sono stati ancora individuati
siti di sversamento alternativi, (i cittadini di
Serre e Lo Uttaro si oppongono a diventare la
pattumiera della regione). Con l'estate alle porte
si avvicinano le cicliche emergenze regionali, la
camorra lo sa e preme per soluzioni d'urgenza in cui
infiltrare i propri uomini (siano questi
imprenditori o proprietari di terre).
Rischi reali, basta andare a leggere il rapporto di
Legambiente: anche nel ciclo dei rifiuti la Campania
detiene il primato negativo. Sono 448 le infrazioni
accertate, 453 le persone denunciate e arrestate e
175 i sequestri. Quanto alle ecomafie il quadro è
ancor più disperante: è di oltre 600 milioni di euro
il giro d'affari annuo, con oltre 10 milioni di
tonnellate di veleni sversati negli ultimi due anni.
«Sappiamo che ormai operare effettivamente per lo
smantellamento del controllo dei rifiuti dobbiamo
fare di più - ha detto il ministro Alfonso Pecoraio
Scanio - dobbiamo cioè utilizzare quelle tecnologie
avanzate e coinvolgere tutti i settori per
contrastare i crimini dell'ecomafia». Ma il senatore
Tommaso Sodano, presidente della commissione
ambiente è critico: «Il rapporto di Legambiente è
come al solito impressionante ma non ci coglie di
sorpresa». Ma se era già noto cosa è stato fatto dal
governo in un anno? «Per il momento - dice Sodano -
non vedo provvedimenti forti e al contrario, solo
tentennamenti nell'imboccare la strada delle energie
rinnovabili». Quindi ha ricordato che «il ddl
governativo per l'abolizione dei finanziamenti
pubblici a petrolieri, inceneritori e carbone non è
ancora stato incardinato». Un'altra buona notizia.
Perfino sul fronte dell'abusivismo edilizio la
Campania sbaraglia i concorrenti: con 1.166
infrazioni, 1509 persone denunciate e 470 sequestri.
A febbraio l'ultima «scoperta»: un quartiere
completamente abusivo (centinaia di appartamenti)
sorto dalla sera alla mattina a Casalnuovo (Na).
Secondo Legambiente in Campania vivono i migliori
maestri del cemento fai-da-te. Sono circa 6000 le
costruzioni abusive realizzate nel 2006. Nove giorni
e nove notti, 227 ore di lavoro per mettere in piedi
una villetta monofamiliare. Ogni giorno sono
all'opera circa 100 operai, capaci di scavare anche
decine di piscine, tutte orientate verso il mare.
Solo la guardia di finanza negli ultimi due anni ha
sequestrato 100 cantieri per un valore di 98 milioni
di euro. «Davanti a questi numeri - spiega Michele
Buonomo, presidente Legambiente Campania - nella
nostra regione l'abusivismo fa più paura del
Vesuvio».
di LUCIANO TANCREDI
STRABILIANTE. Miracoloso. Esagerato. Il non plus
ultra. Eppoi mega, maxxi (sì, due x), super, iper e ogni altro morfema
prefissale iperbolico la lingua universale degli spot consenta. Davanti
o dietro che sia, quasi sempre la stessa parola, un must dei nostri tempi:
offerta. Dietro, spesso, una fregatura.
Basta scorrere la lunga lista delle sanzioni per pubblicità ingannevole
comminate dal garante della concorrenza e del mercato (consultabile su
Internet, sito www.agcm.it), per farsi un’idea. Per infuriarsi. E per
cercare di arginare mentalmente la più subdola delle strategie di
persuasione usate dai pubblicitari, la presupposizione di verità.
Non si parla di imbonitori da fiera alle prese con miracolosi elisir di
lunga vita (anche se nell’elenco dei multati non mancano creme rassodanti
che non rassodano e dimagranti che non dimagrano) ma, come segnalato dallo
stesso garante Antonio Catricalà, al primo posto degli “impostori” ci sono
gli spot degli operatori di telefonia mobile e fissa. I più ricchi, i più
famosi, i più insistenti. Dovrebbero spiegare nel dettaglio tariffe e
caratteristiche tecniche, invece spaziano da scenette esilaranti a
testimonial seducenti. E il resto? Omesso, oppure spiegato poco e male.
Così, in due anni, gli operatori telefonici hanno preso multe per 1,6
milioni di euro, il 25% del totale delle sanzioni.
Il telefono, la tua croce. E a farne le spese, spesso, oltre all’ignaro
consumatore gabbato, è anche il testimonial. Ne sanno qualcosa i vigili
urbani Christian De Sica e Rodolfo Laganà, pizzicati con l’ex velina
Elisabetta Canalis a decantare la convenienza di “Tim parla parla”, con la
quale, a sentir loro, si sarebbe chiamato gratis fino all’estate tutti i
telefonini Tim e i telefoni di casa. «I messaggi sono incentrati
sull’enfatica promessa della gratuità delle chiamate ai telefonini Tim e ai
fissi rileva però il Garante , mentre tale gratuità non risulta rispondente
al costo effettivo a carico dell’utente, costituito dallo scatto alla
risposta e dal canone per i clienti Tim; inoltre la fruibilità dell’offerta
è limitata da altre condizioni, quali il raggiungimento di una spesa minima
mensile su altre direttrici». Insomma, gratis un corno. E così, multa sia:
63.600 euro.
Lo spot ingannevole è trasversale a tutti gli operatori. «Se passi a 3, puoi
prendere un videofonino a zero euro e se fai l’abbonamento non paghi le
tasse». Ricordate? Ci bombardò in tv e sui giornali con i volti di Claudio
Amendola e Roberto Da Crema (stavolta l’imbonitore c’era). Anche qui, una
bufala. «Il claim scrive il Garante è sostanzialmente disatteso o
fortemente depotenziato dalle informazioni riportate in contemporanea nelle
scritte fisse e mobili che si sovrappongono in modo confuso e sovraffollato
sullo schermo». Insomma, quel che il testimonial urla, la scritta piccola,
veloce, confusa smentisce. Ma stavolta paga anche l’operatore: 28.200 euro
di multa. Non si salva Vodafone, per essere ecumenici. Ricordate
“Revolution”? «Dopo il primo minuto, parli gratis con tutti, proprio tutti,
per sempre!», declamava sovreccitata una voce fuori campo. Vero? Macché.
L’offerta non specifica, o meglio lo fa poco e male, che c’è lo scatto alla
risposta da pagare, che ci sono altri 0,15 euro di costo conversazione, e
che la gratuità ha un limite di 30 minuti per chiamata e mensile di 1.500
minuti. Multa anche qui: 53.600 euro.
Dentro ci sono tutti. I frequent flyer di AirOne che non possono
usufruire dei premi promessi dal programma “Miles % More”. Il “patè di
fegato d’anatra Jensen’s” che a dispetto della dicitura ne contiene solo
l’8%. L’Hotel Executive di Cesenatico che promette sui depliant “bambini
gratis” e poi li fa pagare, specificando solo in seguito a chi li interpella
che: «Sono gratuiti i bambini che dormono nello stesso letto con i genitori
o in altri casi nel terzo letto nei periodi di bassa stagione o a seconda
dell’occupazione dell’hotel». Precisando infine che questo piccolo
particolare «per ragioni di spazio non è stato possibile menzionare
nell’opuscolo». O lo Yogurt Alta Qualità di Granarolo che non è fatto con
latte di alta qualità. Proprio tutti. Perfino le pompe funebri Daniele
Raimondi di Milano, che sulle Pagine gialle affermano, senza esserlo, di
essere appaltatori comunali e di praticare prezzi convenzionati.
Insomma, dal grande al piccolo, nessuno sfugge alla tentazione di truccare
le carte. Ma è così facile? «Sì. La pubblicità cerca sempre più di muovere i
sentimenti intimi degli spettatori spiega Giampiero Gamaleri, ordinario di
sociologia della comunicazione a RomaTre e titolare di un corso sull’analisi
del messaggio pubblicitario perché quella descrittiva ormai non ha più
senso. Faccio un esempio: il tema della maternità, sempre più usato nel
pubblicizzare automobili, piuttosto che spiegarne le caratteristiche
tecniche. Però stimolare la sfera psicologica rende immensamente più
difficile cogliere il discrimine tra lo spot lecito e quello ingannevole.
Così, è inevitabile che chi si trovi a maneggiare un limite così sottile
venga tentato dal forzare la mano. E che l’utente sia distratto da altro e
non si accorga dell’inghippo. La colpa? Equamente divisa tra l’investitore e
l’agenzia pubblicitaria, uniti dall’interesse convergente. Capisco la
difficoltà del Garante, come del Giurì della pubblicità, nell’intervenire in
modo chirurgico in un campo dai contorni così sfuggenti», conclude Gamaleri.
Ma la colpa, come dice il professor Gamaleri, è davvero equamente divisa tra
l’investitore e il pubblicitario? Non ne è affatto convinto Roberto Bruno,
amministratore delegato di Young & Rubicam: «A noi agenzie pubblicitarie
viene chiesto di comunicare l’aspetto più impattante di un’offerta. Come
potrebbe essere il “costo zero” di un servizio, ad esempio. I particolari, è
vero, finiscono nei codicilli, ma è inevitabile». Sì, dottor Bruno, ma
quando il cosiddetto aspetto impattante è falso? Se il decantato “costo
zero” non è zero? «In questo caso noi non c’entriamo: non abbiamo il compito
di verificare la veridicità di quello che l’azienda vuole comunicare».
Dunque, la colpa è delle aziende? «È un discorso complesso spiega ancora
Bruno e vanno suddivise le aree di azione. Parliamo di telefonia? Allora il
problema è vasto. Non esiste ormai più una vera differenziazione tra tariffe
e servizi. Il marketing delle aziende inventa ogni giorno prodotti nuovi, ma
in fondo sempre uguali, dunque la comunicazione si gioca su altri campi: il
senso di appartenenza ad un gruppo, ad esempio, o a un mondo di valori, più
o meno veri e validi che siano, è un altro discorso. Eppoi ricordo conclude
Bruno che in questo settore il controllo è molto blando. Nel campo
finanziario e assicurativo, ad esempio, è molto più difficile raccontare
balle per via del controllo della Consob. La telefonia è ancora un far
west».
Poco controllo, dice Bruno. E chi ogni giorno lotta per pizzicare i
“fuorilegge” dello spot? Risponde il Garante Catricalà: «Per ora abbiamo
pubblicato un’analisi di tutte le scorrettezze più ricorrenti che abbiamo
sanzionato in due anni di legge Giulietti. Alla prima occasione, per i casi
di recidiva, chiederemo al Parlamento di darci il potere di aumentare in
modo significativo le sanzioni. Con l’occasione chiederemo che la nostra
azione diventi obbligatoria d’ufficio senza dover attendere la denuncia dei
consumatori. Va dato un giro di vite: la concorrenza sleale genera sfiducia
nella domanda e conseguenze negative per l’intero mercato». In tutti i
campi, ovvio, non solo telefonia. «Certo riprende Catricalà in termini
quantitativi si tratta del fenomeno più consistente, ma esistono anche spot
di altri prodotti non telefonici che sono qualitativamente più perniciosi:
quelli che mettono a rischio la salute (dimagranti e cure per malattie
difficilmente guaribili) e pubblicità che approfittano dell’ingenuità di
consumatori deboli come per esempio i bambini e gli anziani. O promettono
titoli di studio privi di qualsivoglia valore legale».
Evoluto, psicologizzato, il grido dell’imbonitore dalle fiere dei nostri
nonni ad oggi in fondo non è cambiato: venghino
siori, venghino...
Bangladesh, democrazia
in esilio |
Il regime si libera delle due
protagoniste dell'ormai defunta democrazia bengalese |
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Il regime militare bengalese ha
deciso di liberarsi delle due donne che negli anni ’80 lottarono
contro la dittatura e che dal 1991 fino allo scorso gennaio –
quando è stato ridato il potere all’esercito – hanno dominato la
scena politica del Bangladesh democratico.
Dopo aver costretto all’esilio la ex
primo ministro Khaleda Zia, che ha accettato di partire per
l’Arabia Saudita in cambio della scarcerazione di suo figlio
arrestato dai militari, oggi il governo transitorio sostenuto
dall’esercito ha vietato il rientro in patria della leader
dell’opposizione Sheikh Hasina, che era in vacanza negli Stati
Uniti.
Sheikh
Hasina. “I suoi discorsi infiammatori e le sue
dichiarazioni provocatorie creano ostilità e situazioni
contrarie alla legge e all’ordine”, ha dichiarato a proposito di
Hasina il ministro dell’Interno, che ha poi dato la seguente
spiegazione generale. “Nel recente passato, le attività
irresponsabili del suo partito Awami League e di altri
partiti (il rivale Bangladesh Nationalist Party di
Khaleda Zia, n.d.r.) hanno prodotto il collasso della legalità e
dell’economia del paese, da cui la necessità della proclamazione
dello stato di emergenza”. Il ministro si riferisce agli
scioperi e alle proteste dell’Awami Legaue che da
ottobre a gennaio hanno effettivamente paralizzato il Bangladesh
provocando violenti scontri con la polizia che hanno portato
alla morte di decine di manifestanti. Morti per le quali, nei
giorni scorsi, il regime di Dacca ha accusato Hasin di omicidio.
“Non ho paura della prigione o delle
minacce”, ha dichiarato oggi dagli Usa la leader dell’Awami
League. “Possono fare quel che vogliono, ma io ho la
coscienza pulita, so di non aver fatto nulla di male e di non
aver commesso crimini”, ha detto esprimendo la sua volontà di
sfidare il divieto di ritorno in patria, che era previsto per
domenica.
Khaleda
Zia. Partirà invece sabato per l’Arabia Saudita la sua
storica rivale – ma sua alleata negli ’80 durante la lotta
contro la dittatura militare – Khaleda Zia, leader del
Bangladesh Nationalist Party e primo ministro fino allo
scorso ottobre. I militari che sostengono il governo transitorio
del presidente Iajuddin Ahmed se la sono presa anche con lei,
mettendola agli arresti domiciliari una settimana fa e
perseguitando i suoi familiari. Lunedì è stato arrestato suo
figlio Arafat Rahman, scarcerato ieri in cambio della promessa
di Zia di lasciare subito il paese. L’ambasciata dell’Arabia
Saudita a Dacca ha già dato i visti a lei e a tutti i suoi
familiari. Sabato partiranno alla volta di Riad.
Rimane in carcere l’altro figlio di
Zia, Tarique Rahman, alto dirigente del Bnp, arrestato
un mese fa e tutt’ora in carcere.
Dall’11 gennaio, giorno in cui è in
vigore lo stato di emergenza nel paese, la “campagna
anti-corruzione” avviata dal governo sostenuto dall’esercito ha
portato all’arresto di 126 mila attivisti politici di entrambi i
partiti e alla morte in carcere di almeno 79 detenuti. Da tre
mesi la popolazione del Bangladesh vive nel terrore di finire
nelle mani della polizia e dei militari, in particolare dei
famigerati ‘Rab’, i battaglioni di azione rapida.
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17 aprile
Abbandonati a loro stessi
I profughi iracheni sono quasi 4 milioni, a Ginevra si cerca una
soluzione alla crisi |
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“Lasciate le porte aperte ai
rifugiati iracheni”. É l'appello che ricorre come uno slogan
alla conferenza dell'Onu dedicata ai profughi iracheni, che si
tiene oggi e domani al Palais des Nations di Ginevra.
L'incontro, organizzato dall'Alto Commissariato dell'Onu per i
Rifugiati, vede la partecipazione di governi, organizzazioni
internazionali e Ong provenienti da sessanta paesi, che si
riuniscono nella speranza di risolvere, o almeno di alleggerire,
la gravissima situazione scaturita dall'invasione dell'Iraq. Il
fenomeno della fuga di massa dall'Iraq è esploso dopo
l'attentato del febbraio 2006 contro il mausoleo di Samarra, un
esodo che secondo l'Unhcr è secondo solo alla diaspora dei
palestinesi seguita alla creazione di Israele nel 1948.
Vie
di fuga. “Gli Stati Uniti hanno un obbligo particolare
di assistere le persone sfollate, all'interno dell'Iraq e
all'esterno del paese -ha dichiarato nel suo intervento Bill
Frelick, di Human Rights Watch-. Hanno intrapreso una guerra che
ha causato direttamente migliaia di morti, seminato il terrore,
provocato sofferenze e sfollamenti forzati”. Human Rights Watch
ha messo in guardia le delegazioni presenti alla conferenza,
spiegando che i paesi confinanti con l'Iraq stanno inasprendo le
condizioni d'accesso al loro territorio per bloccare
l'immigrazione di massa di iracheni ma, così facendo, bloccano
le vie di fuga ai profughi. Si stima che il 95 percento degli
Iracheni fuggiti abbia trovato rifugio in uno dei paesi del
medio oriente, ma il fatto che alcuni di questi, come la Siria e
la Giordania, siano ormai vicini al limite della capacità di
accoglienza, sta lentamente deviando i flussi di profughi verso
i paesi più ricchi, tra cui anche Europa e Stati Uniti. “Siria e
Giordania non possono più far fronte all'afflusso di iracheni
-ha spiegato il delegato di Amnesty International.- é ormai
vitale che anche altri governi siano coinvolti, mettendo a punto
un generoso programma di reinserimento per i profughi,
specialmente quelli più vulnerabili”. Malcom Smart, direttore di
Amnesty in medio oriente, ha anche attaccato il governo
britannico e gli altri paesi che “continuano a respingere i
richiedenti asilo iracheni, adducendo che il nord curdo è
relativamente vivibile”.”Questa pratica deve cessare
immediatamente” ha concluso.
Numeri.
Gli iracheni che fuggono ogni mese dalla guerra sono
circa 50 mila e, al momento, il numero degli sfollati si
avvicina a quattro milioni di persone. Di queste, circa 1,9
milioni si trovano ancora all'interno del paese. In Giordania si
calcola che dall'inizio della guerra siano entrati oltre 750
mila profughi, un numero che ha fatto crescere la popolazione
nazionale del 14 percento. Ancora più numerosi sono gli iracheni
in Siria, che sono ormai più di un milione. Recentemente anche
gli Stati Uniti hanno alzato le quote di accoglienza umanitaria
per i profughi, concedendo asilo a 7mila iracheni, mentre nel
2006 l'avevano concesso solo a 202. Secondo l'Unhcr i casi più
disperati sono quelli che riguardano i profughi bloccati o
respinti alle frontiere: almeno 20 mila persone che
l'organizzazione umanitaria vorrebbe trasferire entro la fine
dell'anno.
Abbandonati.
La soluzione al problema dei profughi che sta emergendo
dalla conferenza consiste dunque in un doppio impegno: da parte
dei paesi confinanti a tenere aperti i confini, da parte dei
paesi ricchi del mondo a fornire protezione e asilo politico ai
profughi, oltre che fondi per sostenere le enormi spese dell'Unhcr.
“Le infrastrutture irachene sono al collasso e la capacità dei
paesi della zona di ospitarli e assisterli non è più
sufficiente” ha dichiarato Don Redmond, il portavoce
dell'organizzazione, che ha concluso: “C'è bisogno di milioni,
forse miliardi di dollari”.
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La guerra? La
paga la sanità
Il budget per la Difesa raggiunge
il suo picco (625 miliardi di dollari) a scapito di ulteriori tagli
sanitari
Due guerre. La guerra contro il
cancro annunciata negli anni '70 dal presidente Usa Nixon e quella
contro il terrore proclamata nel 2001 da Bush condividono un
obiettivo comune: eliminare un nemico. Nixon, nonostante l'impegno
economico profuso nella guerra in Vietnam, continuò a pompare denaro
nella più grande istituzione per la lotta al cancro statunitense, il
National Cancer Institute (Nci). Oggi, invece, Bush investe nella
Difesa la quota più elevata mai stanziata da un presidente
statunitense: 625 miliardi di dollari. E all'Istituto per il cancro
manco una lira. Anzi: prima della scadenza del suo mandato,
destinerà alla ricerca dell'Nci 2 miliardi di dollari in meno. A
denunciarlo in un editoriale è la rivista scientifica 'Lancet', che
riporta che i tagli arrivano proprio quando l'Nci, che compirà 70
anni il prossimo 7 agosto, si trova ad affrontare uno dei momenti
più critici della sua esistenza. Il direttore, John Niederhuber,
lamenta la chiusura di laboratori, tagli al personale, esperimenti e
progetti costretti a fermarsi a metà per mancanza di soldi.
Tagli alla sanità. La previsione di bilancio 2008 presentata
al Congresso il mese scorso non contiene note dolenti solo per la
ricerca contro il cancro. L'amministrazione Bush taglierà 500
milioni di dollari per i Centri per il controllo e la prevenzione
delle malattie, 800 milioni per l'Ente sanitario per i veterani, 500
milioni per l'Agenzia per la protezione dell'ambiente e 78 miliardi
di dollari, in cinque anni, per i pilastri dell'assistenza sanitaria
Usa, il Medicare e il Medicaid. La Commissione bilancio del
Congresso, riducendo i budget dei singoli Stati, impose lo scorso
anno drastici tagli anche a servizi odontoiatrici, oculistici e di
salute mentale. Allora ci rimisero anche molti bambini, costretti a
rinunciare all'assistenza infermieristica a domicilio. Le spese
degli utenti sanitari Usa aumentano di anno in anno per servizi
medici come visite ambulatoriali o assistenza ospedaliera, così come
per i farmaci prescrivibili. Attualmente, sono 46 milioni le persone
senza copertura sanitaria negli Stati Uniti.
Il paradosso. Lo smantellamento della sanità statunitense
arriva proprio nel momento in cui i decessi per tumore mostrano per
la prima volta un declino, ciò che prova l'efficacia della strategia
sanitaria adottata fino a oggi. Eppure, l'invio di nuove truppe in
Iraq e Afghanistan e l'aumento dei fondi per la Difesa a scapito
della sanità contiene un paradosso, ossia la possibilità che il
carico a danno del National Cancer Institute aumenti a dismisura,
con un numero sempre maggiore di soldati di rientro dal fronte che
hanno sviluppato malattie neoplasiche a seguito dell'esposizione
all'uranio impoverito. Quest'ultimo è presente in diversi tipi di
armamenti e si ritiene possa originare patologie come la leucemia e
alcune forme di cancro.
Privando di adeguate risorse il National Cancer Institute,
un'istituzione cruciale non solo per la sanità statunitense, ma
anche per quella internazionale, la 'guerra al cancro' potrebbe
venire sconfitta dalla 'guerra al terrore'. Ognuno scelga il nemico
che preferisce.
Afghanistan,
altro che campagna antidroga
In Helmand è cominciata la raccolta
dell'oppio, e il governo afgano aiuta i coltivatori
In
Afghanistan è iniziata la raccolta dell’oppio. Nella provincia di
Helmand – dove si concentrano il 40 percento delle piantagioni di
papavero dell’Afghanistan – le eccezionali piogge primaverili
lasciano prevedere un raccolto da record, con produttività che
raggiungono i 150 chili di oppio a ettaro.
Un'annata particolare. Questa sovrapproduzione, da una parte sta
facendo crollare i prezzi di mercato, scesi dagli oltre 100 dollari
al chilo della scorsa stagione a 80-90 dollari. Dall’altra ha fatto
aumentare la richiesta di braccianti nei campi, necessari a
completare l’inatteso raccolto prima che il caldo secchi i papaveri.
A questo va aggiunto un terzo fattore: a differenza dell’anno
scorso, ora i talebani controllano gran parte della provincia e in
molti distretti i combattimenti e i bombardamenti sono quotidiani.
Le tre cose insieme hanno determinato un conflitto economico tra
proprietari delle terre e lavoranti stagionali, che quest’anno hanno
una maggior forza contrattuale rispetto ai datori di lavoro e che
quindi non si accontentano più dei miseri salari degli anni passati.
La rivolta degli stagionali. “Gli anni scorsi mendicavamo il lavoro
e ci accontentavamo di venire pagati con un decimo, un quindicesimo
dell’oppio che raccoglievamo”, dice Abdul Jamil, uno delle migliaia
di stagionali provenienti da tutto il paese che in questi giorni
hanno invaso Lashkargah. “Ma quest’anno la situazione è capovolta:
sono i proprietari delle terre ad avere disperato bisogno delle
nostre braccia per non perdere i raccolti. E inoltre dobbiamo
rischiare, lavorando in zone controllate dai talebani. Quindi ci
siamo uniti e abbiamo chiesto di essere pagati molto di più: abbiamo
chiesto la metà del raccolto minacciando di scioperare, ma i padroni
hanno protestato con il governatore, hanno chiesto il suo intervento
e alla fine ci siamo accordati per un quarto”.
Incredibile ma vero. Le autorità governative che in Occidente
crediamo impegnate nella lotta alla piaga dell’oppio, in realtà
fungono da intermediari “sindacali” tra coltivatori e raccoglitori
per fissare il giusto prezzo della manodopera.
La mediazione del governo. Domenica 8 aprile – la stessa in cui i
talebani hanno sgozzato Ajmal Nashkbandi, l’interprete di
Mastrogiacomo – i braccianti hanno minacciato uno sciopero
salariale.
I proprietari dei campi, messi alle strette, hanno deciso di
chiedere l’aiuto del governo. Un centinaio di coltivatori d’oppio
hanno inscenato una manifestazione di protesta nel centro di
Lashkargah, davanti al palazzo del governatore, per chiedere che
intervenisse nella disputa. “Abbiamo speso tutti i nostri soldi per
crescere l’oppio e ora il governo ha il dovere di aiutarci a
trattare con i braccianti, sennò rischiamo di perdere i raccolti”,
dichiarava quel giorno un proprietario terriero a un giornalista
dell’Institute for War and Peace Reporting.
Il governatore di Helmand, Asadullah Wafa, ha immediatamente
risposto all’appello, fissando un tetto salariale massimo per gli
stagionali a un quinto dell’oppio da essi raccolto. Un compromesso
che ha soddisfatto i coltivatori e, a quanto pare, anche i
braccianti, tornati al lavoro nei campi.
Si annuncia una fine d'anno
scolastico ad alto rischio caos per la crisi finanziaria in molti
istituti italiani. Budget irrisori rendono impossibili le
sostituzioni dei prof. E pagano gli studenti
Scuola, è
vietato ammalarsi, mancano i soldi per i supplenti
di SALVO INTRAVAIA
Ultimi due mesi di scuola senza
supplenti? Sembra proprio di sì. Mancano i soldi per pagare i
supplenti e i dirigenti scolastici devono arrangiarsi come possono.
In questi giorni, gli alunni disabili restano sovente senza
insegnante di sostegno. I bambini e i ragazzini vengono smistati
come pacchi nelle altre classi e gli studenti delle superiori sono
sempre più spesso costretti a saltare alcune ore di lezione:
accorciano la giornata scolastica o entrano qualche ora dopo
l'inizio canonico delle attività scolastiche.
L'unica speranza è che in questi ultimi due mesi di scuola maestre e
prof godano di ottima salute. Insomma, che nessuno si ammali. La
situazione è davvero drammatica soprattutto per i dirigenti
scolastici che non sanno quello che fare quando la mattina arriva la
notizia di un docente in malattia. Stessa situazione da Milano a
Palermo. Ma non è meno difficile per alunni costretti a transumanze
quotidiane e ragazzini disorientati da continue interruzione della
continuità didattica e con programmi svolti a metà. Come al solito,
in questi casi, sono i più deboli a pagare dazio.
"La situazione è precipitata - dichiara Massimo Di Menna, leader
della Uil scuola - quando il ministero ha comunicato ai dirigenti
scolastici il nuovo meccanismo di calcolo del budget per pagare i
supplenti. Da quel momento in poi, non nominare il supplente è
diventata una pratica diffusissima oltre che illegittima". Dallo
scorso febbraio direttori didattici e presidi sono andati in
pallone. Quando manca il docente titolare "smembrano le classi o
cancellano le compresenze". "I dirigenti scolastici - aggiunge Di
Menna - sono diventati tanti piccoli ragionieri trasformando in
troppi casi la scuola in servizio di assistenza anziché attività
didattica vera. E, così, l'intero sistema scolastico sta andando in
tilt".
"Tutti i giorni - osserva Enrico Panini, segretario generale della
Flc Cgil - viene messo in discussione il diritto allo studio in
migliaia di classi". Il perché è presto detto. Negli anni del
governo Berlusconi le risorse per le cosiddette supplenze brevi -
quelle di pochi giorni, al massimo qualche settimana - sono state
abbondantemente ridotte: nel 2004 il budget era di 889 milioni di
euro ridotti a 598 nel 2006. Somma che è stata ulteriormente ridotta
con la Finanziaria 2007 passando - secondo l'Ufficio studi della
Cgil - a 573 milioni. In buona sostanza, in appena tre anni sono
letteralmente spariti 216 milioni. Le scuole, per non farsi
pignorare computer e scrivanie, hanno tamponato pagando i supplenti
con fondi destinati ad altre attività ma hanno accumulato debiti per
500 milioni di euro. E quest'anno è arrivata la novità del
cosiddetto "capitolone" che raggruppa tutti i finanziamenti alle
scuole in unico capitolo.
All'inizio, la cosa sembrò positiva perché le scuole ricevono in
un'unica soluzione i finanziamenti che prima provenivano da diverse
fonti ma, ancora una volta, le risorse hanno subito un taglio. Per
le supplenze brevi e saltuarie nelle scuole elementari e materne
sono previsti 450 euro a docente che diventano 150 per la scuola
media e superiore. Com'è andata con le nuove regole varate dal
ministro dell'Economia, Tommaso Padoa Schioppa - lo raccontano gli
stessi presidi. "In provincia di Milano, ma più in generale in
Lombardia, si sta prospettando una situazione estremamente
preoccupante", hanno scritto qualche settimana fa al ministro della
Pubblica istruzione, Giuseppe Fioroni, un gruppo di dirigenti
scolastici milanesi. "Per fare un esempio concreto - si legge - :
alla scuola di (...) spetterebbe un massimo di 86.200 euro. La spesa
per le supplenze per il 2006 è stata di euro 190 mila e per il 2007
si può prevedere una sostanziale conferma del trend. E' evidente
quindi che i finanziamenti assegnati bastano a poter pagare gli
stipendi solo per pochi mesi. E casi come questo sono molto diffusi,
soprattutto nelle scuole primarie e negli istituti comprensivi.
D'obbligo la domanda: cosa farà il dirigente scolastico una volta
esaurite le somme assegnate? Non chiamerà più i supplenti dividendo
gli alunni delle classi 'scoperte' in altre classi tutti i giorni
della settimana con evidente compromissione delle attività
didattiche e creando una situazione di caos permanente nella scuola?
Oppure continuerà a stipulare contratti di lavoro sapendo di non
avere i fondi necessari per corrispondere gli stipendi al personale
supplente temporaneo? E chi li pagherà? E quando?".
Anche in Toscana i capi d'istituto hanno messo nero su bianco le
loro difficoltà. Lo scorso 5 aprile 53 dirigenti scolastici di
Firenze hanno inviato una nota al ministro. "Il budget per le
supplenze brevi risulta assolutamente insufficiente. In moltissimi
istituti nonostante le strategie attivate dai dirigenti la somma
prevista è stata già spesa. Si ritiene opportuno lo scorporo delle
supplenze effettivamente brevi da quelle lunghe quali le maternità e
prevedere per quest'ultime che il pagamento sia effettuato dal
ministero dell'Economia". Già perché nelle supplenze brevi sono
conteggiate anche quelle, che spesso arrivano fino a 8 mesi, per
sostituire le insegnati per maternità o quelle per lunghe malattie
del titolare. Assenze che fanno saltare tutti i calcoli e mettono
nei guai le scuole. In questo clima di generale caos due novità
suonano come buone notizie. Il ministro Fioroni - conclude Di Menna
- ha chiesto a Padoa Schioppa di gravare le indennità per maternità
all'Inps mentre per il pagamento dei supplenti, oltre al budget
massimo previsto da viale Trastevere - è stato messo su un fondo
perequativo che sarà distribuito i relazione alle necessità
documentate dalle scuole". Servirà, tutto questo, a risolvere i
problemi?
Come t'invento
malattia e farmaco
Costruita una sindrome di fantasia
negli Usa, per sensibilizzare sulla corretta informazione
Simona Calmi
Un farmaco miracoloso e senza effetti
collaterali per curare un disturbo d'ansia nuovo di zecca, ultima
scoperta in campo medico. L'havidol promette di cancellare noia,
stanchezza, stress, mancanza di interesse e quant'altro: non aspetti
della vita di ogni giorno, ma sintomi della DSACDAD (Dysphoric
Social Attention Consumption Deficit Anxiety Disorder), una sindrome
molto grave che affligge milioni di persone in tutto il mondo,
purtroppo ancora ignare della loro condizione. Per saperne di più
basta consultare il sito internet ufficiale. L'unica avvertenza?
Attenzione a non prendere il tutto sul serio, perché l'havidol è
solo una parodia, l'ultima trovata delle associazioni dei
consumatori americani impegnate sul fronte della salute e della
corretta informazione in campo medico, decise a giocare la carta
dell'ironia per dimostrare quanto sia facile convicere i sani di
essere ammalati.
Commercio in malattie. Basta infatti chiamare sintomi condizioni
"normali"che vent'anni fa nessuno si sarebbe sognato di curare, come
la timidezza, l'eccessiva vivacità dei bambini o il calo di
desiderio sessuale, per non parlare della calvizie o della
menopausa. Una volta "inventata" una malattia, si può proporre un
farmaco per curarla. Gli anglosassoni lo chiamano "disease mongering"
(traducibile in italiano come "commercializzazione della malattia")
e la stampa specialistica ha cominciato a occuparsene da qualche
tempo, esprimendo preoccupazione riguardo ai messaggi inviati
attraverso i media ai consumatori, spesso privi delle conoscenze
necessarie per distinguere tra la corretta informazione e il
marketing, tra una campagna di sensibilizzazione e il tentativo di
promuovere l'uso di farmaci quando non ne esista la necessità. Già
lo scorso anno il British Medical Journal aveva pubblicato un finto
articolo su un nuovo disturbo caratterizzato da uno stato di
pigrizia che nei casi peggiori poteva persino diventare letale
(perché i soggetti colpiti perdevano interesse anche a respirare…).
Il tutto aveva il sapore di uno scherzo da "pesce d'aprile", con i
commenti del dottor Leth Argos sul farmaco appena approvato per la
vendita, l'indolebant, eppure qualche giornale aveva abboccato,
prendendo sul serio la notizia.
Una campagna pubblicitaria completa. Ma stavolta le associazioni dei
consumatori hanno fatto davvero le cose in grande: hanno creato
l'intera campagna di marketing coinvolgendo artisti che lavorano in
campo pubblicitario per ideare spot televisivi (scaricabili da
YouTube) che fanno il verso alle pubblicità degli antidepressivi,
vietate in Europa ma all'ordine del giorno negli Stati Uniti, dove
casalinghe depresse interrompono i programmi televisivi per
raccontare come hanno ritrovato il sorriso e la voglia di occuparsi
di casa e bambini grazie alle pastiglie. E la campagna ha centrato
il bersaglio, con un risultato più credibile di quanto di pensi."La
cosa che mi ha colpito di più è che molte persone non si sono rese
conto della parodia o della satira" ha commentato una delle
ideatrici della campagna. Notizie serie sull'havidol, infatti, sono
state trovate in molti siti che trattavano i disturbi da panico e
d'ansia, a riprova di quanto sia semplice convincere le persone di
essere malate e di aver bisogno di medicine.
L'eredità
avvelenata dell'Africa
Circa 50.000 tonnellate di
pesticidi scaduti contaminano il continente
L'Africa è una delle principali
pattumiere del mondo. Pochi però sanno che, oltre ai rifiuti tossici
provenienti dall'Occidente, nel continente si trovano decine di
migliaia di tonnellate di pesticidi deteriorati, acquistati in
quantità enormi negli ultimi 40 anni e mai usati. Secondo
l'Organizzazione Mondiale della Sanità, ogni anno 200.000 persone
muoiono per gli effetti provocati dal deterioramento dei pesticidi
agricoli, mentre sono circa 750.000 quelle che ricorrono a cure
mediche.
Pesticidi.
Stando alle stime della Food and Agriculture Organization, in Africa
sarebbero presenti circa 50.000 tonnellate di pesticidi non
stoccati. Importati in grandi quantità durante gli anni della
“rivoluzione verde”, questi prodotti sono poi caduti in disuso per
diverse ragioni: un po' per la scarsa efficacia di alcuni o per la
messa al bando delle sostanze che li compongono, un po' per il
ridotto verificarsi di eventi catastrofici quali invasioni di
cavallette e locuste. Il risultato è che la maggior parte di questi
pesticidi è rimasta inutilizzata in magazzini fatiscenti, in
container arrugginiti o, peggio ancora, lasciata all'aria aperta in
migliaia di siti sparsi nel continente. Alcuni di questi stock,
vecchi di decine di anni, contengono elementi (come la dieldrina)
banditi nel corso degli anni per la loro tossicità, e che durante il
processo di deterioramento si possono trasformare in sostanze ancora
più pericolose.
Pericoli. In questa settimana, l'Etiopia ha reso noto di aver
spedito 640 tonnellate di pesticidi scaduti in Gran Bretagna. Nel
2001, sempre l'Etiopia aveva dato incarico a una compagnia
finlandese specializzata di smaltirne altre 1500. Un deposito di
pesticidi scaduti è stato rinvenuto addirittura nella capitale Addis
Abeba, a 500 metri da alcuni silos di grano. “Questi pesticidi sono
vecchi di decenni, il che pone dei rischi immediati – rivela a
PeaceReporter Eloise Touni, del programma Pesticide Action Network –
La maggior parte dei depositi non è monitorata, e in alcuni casi la
gente vi si reca per prendere i pesticidi e usarli nei campi”.
Fatica sprecata, perché i pesticidi dopo due anni perdono la loro
efficacia (ma non la loro tossicità, se presenti in grandi
quantità). “Il più delle volte il contenuto di questi depositi ha
contaminato falde acquifere e terreni – continua la Touni – Per fare
un paragone, è come se tonnellate di rifiuti ospedalieri fossero
finiti sulla nostra tavola o nell'acqua che beviamo”.
Bonifica. Per questo l'Onu, assieme ad alcune agenzie
umanitarie, associazioni ambientaliste e Ong, ha lanciato nel 2000
l'Africa Stockpile Programme (Asp), il cui obiettivo è quello di
ripulire il continente, stoccando i pesticidi e bonificando i
terreni contaminati. Un compito non facile, sia per i costi che per
i tempi. Il programma è finanziato in gran parte da Paesi donatori e
dalle Nazioni Unite, visto il costo della raccolta e dello
stoccaggio delle materie. “Il prezzo varia da 3000 a 5000 dollari a
tonnellata, un costo che la maggior parte delle nazioni africane non
si può permettere di pagare”, continua la Touni. Ciò significa che,
per bonificare l'intero continente, saranno necessari almeno 175
milioni di dollari, a cui se ne aggiungono altri 50 per i programmi
di prevenzione. Stando all'Asp, finora solo il 5 percento di questi
depositi è stato ripulito. Per finire il lavoro, spesso
commissionato alle stesse aziende che vendono pesticidi (e che in
questo modo conseguono un doppio profitto) saranno necessari dai 12
ai 15 anni, forse anche di più per i Paesi più contaminati, come il
Botswana e il Mali. Intanto, gli africani continueranno a mangiare,
bere e respirare veleno.
La
privatizzazione della guerra
Iraq: Londra spende un quarto del
suo budget per la sicurezza, mentre l'Italia assume un mercenario
scozzese
La Gran Bretagna ha speso in compagnie
di sicurezza un quarto dei finanziamenti destinati alla
ricostruzione in Iraq, gli Stati Uniti oltre un terzo. Lo rivela il
quotidiano britannico 'Guardian', mentre l'Italia affida il compito
della difesa dei civili alla 'Aegis', il cui fondatore Tim Spicer è
un noto mercenario scozzese.
Provenienza oscura. La maggior parte del denaro stanziato dal
ministero della Difesa britannico (214 milioni di euro) è andato
alle guardie armate che proteggono le strutture britanniche nel
Paese, mentre circa 30 milioni sono serviti per l'addestramento
della polizia e dei consulenti per la sicurezza del governo
iracheno. A rivelare l'entità delle spese di guerra è stato il
ministro degli Esteri Kim Howells durante la risposta a
un'interrogazione parlamentare presentata da Norman Baker,
liberaldemocratico. "E' una montagna di denaro - ha riferito Baker -
che mostra come la situazione della sicurezza sia completamente
fuori controllo. Un conto è far la guardia a un'ambasciata, altro è
reclutare persone che provengono da ambienti equivoci e spesso
oscuri. Chiediamo di sapere di più sul loro addestramento e sulle
regole d'ingaggio entro le quali operano". Che tali risorse sono
stornate dal fondo per la ricostruzione e per l'aiuto umanitario,
che lo scorso anno ammontava a quasi un miliardo di euro, è cosa
risaputa in Gran Bretagna. E sebbene un libro bianco sulla necessità
di fornire regole certe e una cornice legale all'impiego dei
'private contractors' sia stato elaborato in Gran Bretagna già 5
anni fa, l'azione politica è rimasta ferma e nessuna legge è stata
approvata in materia. I grandi beneficiari dei quattrini britannici
sono la compagnia newyorchese 'Kroll' e le inglesi ArmorGroup e
ControlRisks. Per la ArmorGroup, amministrata dal deputato
conservatore Malcom Rifkind, l'Iraq significa utili per 190 milioni
di dollari, ovvero metà del proprio bilancio.
Abusi da Far-West. Così, mentre in patria monta una pressione
sempre più forte sul ritiro delle truppe, la sensazione è che sul
campo di battaglia il ruolo dell'esercito possa venire gradualmente
sostituito da tali compagini armate. I 'security contractors'
potrebbero portare ad accelerare un processo di 'privatizzazione'
della guerra che consentirebbe ai governi e agli eserciti di tirarsi
fuori dalle situazioni più pericolose, lasciando tuttavia aperta la
'questione morale' del loro impiego. Una compagnia di contractors
statunitense, la 'Custer Battles', pagata dal Pentagono per condurre
missioni pericolose a guardia di convogli per il rifornimento delle
truppe, entrò nell'occhio del ciclone due anni fa, quando quattro
dei suoi stessi dipendenti testimoniariono di aver assistito ad
abusi ai danni dei civili. In particolare, i contractor riferirono
di aver assistito ad episodi brutali, come sparatorie indiscriminate
contro civili in fuga o deliberatamente schiacciati da camion,
episodi a seguito dei quali i quattro lasciarono l'incarico.
Un'inchiesta del Times ha calcolato che i 'security contractors'
sono stati coinvolti in oltre 200 'incidenti' dal 2004 al 2005: 24
di questi sono state sparatorie contro passanti. L'aumento dei costi
per la sicurezza a spese di quelli destinati allo sviluppo è anche
il leitmotiv dell'impegno statunitense in Iraq. Secondo le ultime
valutazioni del Tesoro Usa, il 34 per cento dei 15 miliardi di euro
stanziati per la ricostruzione sono stati dirottati in spese per la
sicurezza, aumentando dai 3,3 miliardi del 2005 ai 4,7 del 2006.
Un esercito mercenario. Il contingente militare italiano ha
ormai lasciato l'Iraq nel novembre 2006, ma il personale civile, la
cosiddetta Unità di sostegno alla ricostruzione, è rimasto nel
Paese. L'agenzia privata che il ministero degli Esteri ha scelto per
difendere i nostri tecnici è la britannica Aegis Defence Services.
Verrà pagata 3 milioni di euro. Il fondatore, Tim Spicer è un
veterano delle Falklands e ha servito come colonnello nelle Guardie
Scozzesi in Irlanda del Nord. I suoi uomini furono responsabili
dell'uccisione di un ragazzo cattolico disarmato nel 1992. Spicer fu
coinvolto nella soppressione della ribellione contro il governo di
Papua Nuova Guinea nel 1997 ('servizio' per il quale fu pagato 36
milioni di dollari) e in un traffico d'armi, con violazione
dell'embargo, in Sierra Leone nell'anno successivo. Il governo
statunitense lo assoldò nel 2004, pagandolo 293 milioni di dollari,
per coordinare la sicurezza di tutta la security nel Paese: 20 mila
uomini. Il più grande esercito occidentale in Iraq, dopo gli
americani.
«Aiutate subito
l'Iraq»
La Croce rossa: per donne e civili
sempre peggio
R. Es.
«La sofferenza cui sono esposti oggi
gli uomini, le donne e i bambini è insopportabile e inaccettabile»:
così ieri il direttore delle operazioni del Comitato internazionale
della Croce rossa (Cicr) Pierre Kraehenbuehl, ha presentato un
rapporto dal titolo «Civili senza protezione - La crisi in Iraq in
continuo peggioramento». Il rapporto rappresenta un'aspra denuncia
delle condizioni di vita del popolo iracheno, quattro anni dopo
l'invasione della Mesopotamia da parte delle truppe anglo-americane.
«Il Cicr si rivolge a tutti coloro che possono influenzare la
situazione sul terreno perché agiscano ora per fare in modo che le
vite della gente comune siano risparmiate e protette», si legge nel
documento. «Questo - prosegue il Cicr - è un obbligo ai termini del
diritto internazionale umanitario».
Pur senza contenere accuse dirette a chicchessia - la Croce rossa è
neutrale - dal rapporto emerge chiaramente che nessuno, inclusi il
governo iracheno e le forze d'occupazione, ha fatto abbastanza. Il
personale del Cicr hanno fra l'altro chiesto alle donne irachene
come è la loro vita: «Se c'è un reale aiuto per noi oggi che
qualcuno potrebbe fare - è stata la risposta di una donna - sarebbe
aiutarci a raccogliere i corpi che costellano le strade davanti alle
nostre case ogni mattina e che nessuno osa toccare o portar via per
ragioni di sicurezza».
Per le donne - ha aggiunto - è «semplicemente insopportabile» che i
propri figli si trovino davanti questi cadaveri ogni mattina mentre
cercano di portarli a scuola. Ogni aspetto della vita in Iraq,
afferma la Croce Rossa, sta peggiorando, andare al mercato è
diventato un rischio che può costare la vita. «Una volta - racconta
nel rapporto Saad, un membro del personale umanitario - sono stato
chiamato al sito di un'esplosione, e una volta arrivato ho visto un
bambino di quattro anni seduto vicino al corpo di sua madre,
decapitata dall'esplosione. le stava parlando, chiedendole cosa
fosse successo.
La sua mamma lo aveva portato con sé a fare compere». Il rapporto
denuncia inoltre che buona parte dei rifornimenti di acqua ed
elettricità e del sistema fognario sono in condizioni critiche, che
in alcune aree si registra carenza di cibo e la malnutrizione è
aumentata. Le strutture sanitarie sono a corto di materiali. Molti
medici e pazienti non osano più andare al lavoro perché minacciati.
Palermo
Pacchi
elettorali targati Ue
Aiuti dell'Unione europea
«dirottati» verso un quartiere della città Pasta, biscotti e
formaggi destinati dalla nostra cooperazione ai paesi in via di
sviluppo distribuiti da candidati del centrodestra ai poveri del
capoluogo. Dove si combatte una guerra senza esclusione di colpi.
Tra regali, promesse e assunzioni clientelari
Massimo Giannetti
Lo scambio elettorale più clamoroso è
senza dubbio la mega-sanatoria che l'assessore all'urbanistica Mario
Milone, candidato di Forza Italia alle amministrative del 13 maggio,
ha promesso ai residenti delle ville abusive di Pizzo Sella. La
delibera, che nelle intenzioni dell'assessore - assecondate dal
ricandidato sindaco della Cdl Diego Cammarata in un incontro avuto
nei giorni scorsi con gli stessi abusivi nel salotto di Villa
Niscemi - dovrebbe mettere al riparo dalle demolizioni i circa
duecento mostri di cemento che incombono sul golfo di Mondello, è
stata approvata martedì dalla commissione urbanistica e ieri sera è
entrata in consiglio comunale, l'ultimo consiglio utile della
legislatura, per l'approvazione definitiva. L'opposizione di
centrosinistra ieri annunciava ostruzionismo, ma c'era un po' di
malumore anche tra i banchi del centrodestra. Ad ogni modo il voto
era previsto per la notte e soltanto oggi sapremo quindi se la
«collina del disonore» avrà vita eterna grazie a una delibera
sfacciatamente elettorale.
Ma nel supermarket del voto palermitano i casi di tentata
compravendita del consenso sono tanti altri. Su uno di questi,
particolarmente grave, la magistratura l'altro ieri ha aperto
un'inchiesta. Si tratta degli aiuti alimentari destinati dall'Unione
europea ai paesi in via di sviluppo «dirottati» la settimana scorsa
nelle case del quartiere Cruillas, periferia nord di Palermo, a
ridosso dello Zen. Le confezioni gialle contenenti pasta, biscotti e
formaggi con la sigla «Agea, Aiuto Ce», sono stati «offerti» ai
cittadini da alcuni candidati del centrodestra al comune e nella
circoscrizione. Sulla vicenda, denunciata dal consigliere comunale
dei Ds Davide Faraone, che ha consegnato ai magistrati alcuni
campioni dei «pacchi elettorali», è stata presentata anche
un'interrogazione parlamentare da parte di alcuni senatori del
centrosinistra. Nella missiva, rivolta in primo luogo al ministro
delle politiche agricole, da cui dipende l'Agea, l'Agenzia che per
l'Italia dovrebbe coordinare l'erogazione degli aiuti alimentari ai
paesi in via di sviluppo, i senatori chiedono di sapere innanzitutto
se il ministero ha davvero «fornito il suddetto materiale»
all'Agenzia e, in caso affermativo, se sia stato informato
dell'avvenuta «distrazione a favore di presunti non abbienti
siciliani». Al ministro degli esteri, i parlamentari chiedono invece
di sapere «tramite quali canali i prodotti forniti all'Agea
avrebbero dovuto raggiungere i paesi in via di sviluppo», e di
«verificare se da parte dei titolari di tali canali vi siano stati
comportamenti attivi o omissivi tali da determinare la loro
espulsione da future attività di cooperazione allo sviluppo».
Infine, al ministero dell'interno, per le sue proprie competenze di
garanzia delle competizioni elettorali, chiedono di «verificare se
quanto avvenuto a Cruillas sia compatibile con lo svolgimento della
campagna elettorale in corso a Palermo e se, anche in considerazione
della particolare condizione sociale delle aree in cui sarebbero
avvenuti i fatti, non configuri una illecita interferenza con la
stessa campagna elettorale e una forma di tentato condizionamento
del voto».
Dal quartiere Cruillas a quello di Borgo Nuovo il tratto è
abbastanza breve. Qui un originale esempio di «mediazione e lotta
per il progresso sociale» (come recita il suo slogan elettorale) lo
ha proposto la candidata di punta del Movimento autonomista di
Raffaele Lombardo al consiglio comunale. Si chiama Angela Castelli
ed è la segretaria particolare dell'assessore regionale alla
famiglia Paolo Colianni (anche lui del Mpa). La Castelli,
evidentemente impietosita dalla diffusa povertà che alligna a Borgo
Nuovo, nei giorni scorsi ha distribuito personalmente dei moduli
(accompagnati dal suo biglietto da visita) nella piazza del
quartiere sollecitando i cittadini a chiedere un «sussidio
straordinario» alla regione. Al resto, ovvero all'agevolazione
dell'erogazione dei presunti sussidi, avrebbe pensato lei dall'alto
del ruolo che ha nell'assessorato alla famiglia. Alcuni cittadini
(che poi hanno denunciato l'inganno) hanno ovviamente creduto alle
sue parole e, dopo aver riempito i moduli che gli erano stati
consegnati, li hanno presentati, come suggerito, negli uffici della
circoscrizione di appartenenza, la Quinta. La candidata Castelli era
forse convinta che la risposta della circoscrizione non sarebbe
stata così rapida com'è invece avvenuto. E la risposta è stata la
seguente: la legge sui suddetti «sussidi straordinari» è
inesistente, anzi «non è più vigente», essendo decaduta nel lontano
1979. Interpellata da una giornalista della cronaca locale di
Repubblica, l'interessata ha così risposto: «Abbiamo distribuito i
moduli semplicemente perché ci siamo trovati di fronte una folla di
persone che ci chiedevano consigli per ottenere un aiuto dalla
regione. Del resto è il mio lavoro. E di certo non ho chiesto il
voto a nessuno».
Insomma, a Palermo pur di conquistare un seggio in consiglio
comunale c'è anche chi è disposto a fare carte false. Si
distribuiscono poi buoni per la spesa al supermercato (hanno
sostituito i vecchi buoni benzina), si promettono posti di lavoro
inesistenti, e si fanno «assunzioni» che non durano più di una
campagna elettorale. La giunta comunale, per esempio, proprio nelle
settimane scorse ha approvato un paio di delibere con le quali ha
finanziato l'inserimento di ottocento persone in progetti per la
protezione civile nei mercati rionali e contro la dispersione
scolastica nelle periferie. Domanda elementare: che senso ha
assumere persone (con pseudo-contratti di quaranta giorni per appena
un giorno di lavoro a settimana) per combattere la dispersione
scolastica ad anno scolastico quasi finito? Nessun senso, se non
quello di racimolare altro consenso elettorale, con la promessa
della falsa stabilizzazione.
Il cattivo esempio si perpetua dall'alto. Nessuno per esempio si
scandalizza più di tanto dell'uso alquanto disinvolto del denaro
pubblico fatto dallo stesso sindaco Cammarata per propagandare, a
suo dire, la «città più cool d'Italia». I fatti sono noti, ma vale
la pena ricordarli. Per finanziare le migliaia di poster
megagalattici affissi nei mesi scorsi in tutta Palermo, il comune ha
speso la bellezza di un milione e 800 mila euro, un terzo dei quali,
600 mila euro, prelevati addirittura dal cosiddetto «fondo di
riserva», quello destinato alle emergenze sociali, quali terremoti,
alluvioni o crisi idriche. Ma per Cammarata, mentre nelle periferie
capita di sentire e vedere ancora scene da dopoguerra, i soldi
pubblici valgono quanto quelli privati. Per la sua personale
campagna elettorale avrebbe già investito qualcosa come tre milioni
di euro. Una montagna di denaro che dovrebbe mandare su tutte le
furie i tanti palermitani che non sanno come sbarcare il lunario ma
che invece, con molte probabilità, saranno ancora una volta loro a
dare linfa vitale al candidato sindaco del centrodestra. La sua
faccia è stampata in tutte le dimensioni sui muri e sui lampioni
della città. In confronto la campagna mediatica di Leoluca Orlando,
candidato dell'Unione, è pressoché invisibile. Ma questo non vuol
dire affatto che Cammarata dorma sonni tranquilli. Anzi. In ogni
caso lo scontro elettorale è durissimo, a tutti i livelli. Per
farsene un'idea basta vedere in questi giorni le strade di Palermo
invase di gonfaloni che espongono le facce della miriade di
candidati in corsa per il comune e nei municipi delle otto
circoscrizioni. Sono circa cinquemila (un record), uno per ogni
cento elettori, distribuiti in una trentina di liste, più della metà
del centrodestra. Apparentemente sembra la rinascita della
partecipazione, in realtà è la degenerazione della politica.
Conquistare uno scranno è come aprire un conto in banca: 1500 euro
al mese per un semplice consigliere di circoscrizione, quasi il
doppio per i consiglieri comunali. Il gioco insomma vale la candela,
e tutti i mezzi, pensano i più furbi, sono leciti.
Germania, i
nazisti ora fanno paura
Secondo l'Ufficio criminale
federale, gli atti di violenza sono stati 18mila nel solo 2006. Mai
così tanti dalla riunificazione
Matteo Alviti
Berlino
Sono state più di 18mila, solo nel
2006, le azioni criminali commesse dai neonazisti in Germania. Una
simile ondata di violenza da parte dell'estrema destra non era mai
stata registrata da quando, nel 2001, è stato introdotto il sistema
di definizione che riconosce gli atti di criminalità motivati
politicamente. Rispetto all'«annata record» del 2005, quando furono
segnalati quasi 16mila delitti, c'è stato un aumento del 14%. Dal
2004 l'aumento è invece del 50%.
I dati provengono direttamente dall'Ufficio criminale federale, il
Bundeskriminalamt (Bka), che periodicamente raccoglie le
segnalazioni della polizia dei Länder. Le cifre sono state
pubblicate qualche giono fa sulla prima pagina del Tagesspiegel. Il
quotidiano è entrato in possesso delle informazioni che il Bka aveva
redatto in un rapporto confidenziale per il ministero degli interni
tre settimane fa. Secondo quanto riportato dal giornale berlinese,
non si era mai verificata una esplosione di violenza neonazista di
questa entità da quando la Germania è tornata a essere una sola, il
3 ottobre del 1990.
Col numero dei delitti è cresciuta anche la frequenza e l'intensità
della violenza contro le persone. Delle 18mila azioni criminose, gli
atti di violenza fisica sono saliti a più di 1100, con un aumento
dell'8% rispetto al 2005 (nel 2004 erano stati segnalati 832 casi).
Al contrario di quanto ci si potesse aspettare, lo svolgimento degli
ultimi mondiali di calcio non ha giocato un ruolo rilevante.
I dati raccolti dal Bka dipingono una situazione addirittura
peggiore di quella che il ministro degli interni, il
cristianodemocratico Wolgang Schäuble, aveva riportato in parlamento
in risposta all'interrogazione parlamentare del gruppo die Linke,
l'opposizione da sinistra al governo di Angela Merkel.
Lo stesso sindacato di polizia ha avvertito allarmato che
«l'estremismo di destra sta avanzando in tutto il paese». Secondo il
presidente del sindacato, Konrad Freiberg, «la cosa più pericolosa è
che la destra estrema ha penetrato il centro borghese della società
tedesca». Non si può più parlare di un problema di gruppi sociali
emarginati, ha continuato Freiberg.
La sfilza di dichiarazioni rituali del mondo politico, preoccupato
per l'aumento dei delitti, non si è fatta attendere. Da parte
socialdemocratica è rispuntata l'idea della convocazione di un
vertice straordinario sulla democrazia per elaborare una strategia
in grado di sconfiggere l'estremismo di destra. Mentre i Verdi
chiedono un'«offensiva democratica» nelle scuole e die Linke il
sostegno alle iniziative della società civile e dei centri per le
vittime della violenza neonazista.
Il presidente del sindacato di polizia è però scettico: «L'unica
strategia contro la destra è quella di rioccupare gli spazi sociali
dai quali la politica e i sindacati sono arretrati».
Freiberg è a favore della messa fuori legge dei partiti di estrema
destra, con tutti i problemi che comporterebbe: «È perverso che l'Npd
si finanzi con i rimborsi elettorali previsti dal nostro sistema
partitico», ha detto.

13 aprile
Cessate il fuoco
Il bollettino settimanale delle
guerre e dei conflitti in corso n.14 - 2007 dal 29/3 al 4/4
Israele-Palestina Almeno 105 morti
dall’inizio dell’anno.
Il 29 marzo un palestinese di 16 anni è stato ucciso dalle forze
militari israeliane in un villaggio a sud di Jenin, nel nord della
Cisgiordania.
Il 30 un palestinese è stato ucciso da un esplosione avvenuta
all'interno di un campo di addestramento di Hamas a Khan Younis, nel
centro della striscia di Gaza.
Il 31 Mussa al-Manasra, un religioso palestinese è stato ucciso in
un agguato mentre si accingeva a rientrare nella sua abitazione a
Gaza.
Il 4 aprile, un militante palestinese della Jihad islamica è stato
ucciso da soldati israeliani, mentre stava sistemando un ordigno
esplosivo su una strada a Beit Hanoun, nel nord della Striscia di
Gaza.
Cecenia e Nord Caucaso (Russia) Almeno 165 morti dall’inizio
dell’anno.
Il 29 marzo la guerriglia cecena sostiene di aver ucciso 7
soldati russi in un agguato nelle foreste di Senjen-Yurt.
Il 30 i ribelli dichiarano di aver ucciso 5 soldati russi in
un’imboscata nel distretto di Itum-Kalè e altri 7 militari nel
distretto di Shali.
Il 1° aprile al confine tra Cecenia e Daghestan sono stati trovati
morti un funzionario del governo daghestano e un suo familiare
rapiti in precedenza dalle milizie islamiche.
Il 2 nel distretto ceceno di Vedenò la guerriglia afferma di aver
ucciso 4 soldati russi e 3 militari governativi ceceni.
Il 4 nel sud della Cecenia un comandante della guerriglia è stato
ucciso in uno scontro a fuoco con le forze russe.
Waziristan e Nwfp (Pakistan) Almeno 444 morti dall’inizio
dell’anno.
Il 29 marzo Nella Provincia della Frontiera di Nord-Ovest (Nwfp)
25 combattenti talebani e un militare pachistano sono morti nel
corso di un combattimento a Tank.
In Punjab un kamikaze si è fatto esplodere davanti a una caserma
uccidendo 2 soldati.
In Sud Waziristan 2combattenti stranieri di al Qaeda (uzbechi,
ceceni, tagichi, arabi) e 2 miliziani waziri che li combattono con
il sostegno dell’esercito governativo.
Il 30 sono morti 45 combattenti stranieri e 10 miliziani waziri che
li combattono con il sostegno dell’esercito governativo.
Il 31 le milizie wazire hanno ucciso 15 miliziani stranieri.
Il 4 aprile almeno 50 miliziani stranieri e 10 miliziani waziri e un
soldato pachistano sono morti in violenti combattimenti.
Balucistan (Pakistan) Almeno 54 morti dall’inizio dell’anno.
Il 30 marzo i ribelli baluci hanno ucciso un soldato nel
distretto di Dera Bugti.
Il 3 aprile nel distretto di Bolan un civile è morto per
l’esplosione di una mina piazzata dai ribelli.
Filippine-Npa Almeno 47 morti dall’inizio dell’anno.
Il 31 marzo un giovanissimo guerrigliero dell’Npa (11 anni) è
stato ucciso dall’esercito nella provincia meridionale di Compostela
Valley.
Il 3 aprile 3 poliziotti sono stati uccisi in un attacco dei ribelli
dell’Npa nella provincia centrale di Masbate.
Thailandia del Sud Almeno 105 morti dall’inizio dell’anno.
Il 31 marzo nella provincia di Narathiwat i ribelli hanno ucciso
un civile.
Il 1° aprile un altro civile è stato ucciso nella stessa provincia.
Il 3 nella provincia di Pattani 3 militari e 2 ribelli islamici sono
morti in uno scontro a fuoco.
Sri Lanka Almeno 946 morti dall’inizio dell’anno
Il 29 marzo 12 guerriglieri Tamil sono stati uccisi in un
attacco dell’esercito nel distretto di Mullaittivu e 10 civili sono
morti in un bombardamento governativo nel distretto di Battcaloa.
Il 30 nel distretto di Vavuniya 5 soldati sono morti in un attacco
dell’Ltte.
Il 31 nel distretto di Batticaloa 1 soldato è morto in un agguato
dei ribelli.
Il 1° aprile nella stessa zona 6 civili cingalesi sono stati uccisi
dalla guerriglia.
Il 2 nel distretto di Ampara 15 civili e un soldato sono morti in un
attentato della guerriglia contro un autobus.
Il 3 nel distretto di Batticaloa 31 guerriglieri Tamil e un soldato
sono morti nel corso di una battaglia.
India-Kashmir Almeno 125 morti dall’inizio dell’anno.
Il 29 marzo 2 guerriglieri kashmiri del Let sono morti in uno
scontro a fuoco con i militari indiani nel distretto di Poonch.
Il 30 nel distretto di Rajouri 5 civili sono morti nel corso di uno
scontro armato tra ribelli ed esercito.
Il 31 nello distretto di Doda un guerrigliero del Let è stato ucciso
dai militari indiani.
Il 1° aprile nella stessa zona 2 guerriglieri, 2 civili e un
militare sono morti in uno scontro a fuoco.
Il 2 nel distretto di Anantang un guerrigliero dell’Hm è stato
ucciso in una battaglia.
Il 3 nel distretto di Pulwama una civile è stata uccisa dai militari
indiani.
India-Nordest Almeno 359 morti dall’inizio dell’anno.
Il 29 marzo nello stato del Nagaland un civile è stato ucciso
dall’esplosione di una granata.
Il 30 nello stato dell’Arunachal Pradesh 2 guerriglieri dell’Ulfa
sono stati uccisi dall’esercito.
Il 31 nello stato dell’Assam altri 2 ribelli dell’Ulfa sono morti in
uno scontro a fuoco.
Il 1° aprile nello stato di Manipur l’esercito ha ucciso un presunto
ribelle.
Il 2 nello stato di Assam i militari hanno ucciso 4 ribelli dell’Ulfa
e nello stato del Manipur è stato ucciso un civile.
India-Naxaliti Almeno 81 morti dall’inizio dell’anno.
Il 29 marzo nello stato dell’Andra-Pradesh 2 guerriglieri
comunisti Naxaliti sono morti in uno scontro a fuoco con la polizia.
Il 31 nello stato del Bihar un poliziotto è stato ucciso in un
attacco della guerriglia.
Il 1° aprile nello stato di Chhattisgarh i ribelli hanno ucciso 2
civili.
Bangladesh-Comunisti Almeno 53 morti dall’inizio dell’anno
Il 1° aprile un presunto guerrigliero comunista del Pbcp è stato
ucciso in carcere poche ore dopo il suo arresto.
Colombia Almeno 80 morti dall'inizio dell’anno.
Il 3 aprile, una bomba esplosa in una strada di Buenaventura,
principale porto colombiano nel Pacifico, ha ucciso una persona. In
un altro episodio, un gruppo di guerriglieri ha ucciso 2 poliziotti.
Somalia Almeno 640 morti dall’inizio dell’anno.
Il 29 marzo sono scoppiati violenti scontri, durati quattro
giorni, tra le forze del governo somalo, supportato dalle truppe
etiopi, e le milizie claniche a Mogadiscio, che hanno causato la
morte di almeno 381 persone.
Etiopia Almeno 42 morti dall’inizio dell’anno.
Il 3 aprile soldati etiopi hanno ucciso 23 ribelli del Fronte
Patriottico, gruppo di miliziani che l'Etiopia ritiene sia sostenuto
dalla vicina Eritrea.
Ciad Almeno 163 morti dall’inizio dell’anno.
Il 31 marzo le milizie Janjaweed hanno attaccato alcuni villaggi
uccidendo 65 civili. L'esercito ciadiano sarebbe riuscito ad
uccidere 35 degli assalitori.
Sudan Almeno 181 morti dall’inizio dell’anno.
Il 1° aprile un attacco lanciato contro una tribù Torjam ha
causato la morte di 60 persone in Darfur. Il 2, 5 soldati
dell'Unione Africana sono stati uccisi in uno scontro a fuoco con
uomini armati non identificati in Darfur.
Uganda Almeno 152 morti dall’inizio dell’anno.
Il 30 marzo l'organizzazione Save the Children ha denunciato
che, lo scorso 12 febbraio, un'operazione di disarmo condotta
dall'esercito ugandese nella regione nord-orientale del Karamoja
avrebbe portato alla morte di 66 bambini.
Nigeria Almeno 40 morti dall’inizio dell’anno.
Il 29 marzo 4 persone sono morte a causa degli scontri tra
sostenitori di partiti rivali nello stato di Bauchi, nel nordest del
Paese.
Kenya Il 3 aprile un'associazione locale per i diritti delle
donne ha riferito che, nelle ultime settimane, gli scontri tribali
per il possesso della terra nell'ovest del Paese hanno provocato la
morte di 145 persone.
2
aprile
Eurispes, Italia
maglia nera dei salari in Europa
Italiani lavoratori
'poveri' d'Europa e nelle ultime fila sia per il peso delle buste paga che
per la rivalutazione dei propri salari nel tempo. E' quanto emerge da un
rapporto Eurispes pubblicato oggi secondo cui l'Italia e' al quart'ultimo
posto in Europa per salari lordi medi pari a 22.053 euro l'anno contro i
42.484 euro della Danimarca, il paese che vanta i salari piu' ricchi in una
classifica che vede ai primi posti anche Svezia, Belgio e Francia e agli
ultimi Portogallo e Grecia . Fanalino di coda il Paese e' anche per
retribuzione oraria media, pari a 21,3 euro contro i 30,7 della Danimarca,
e, soprattutto per la crescita dei salari che, dal 2000 al 2005 si sono
rivalutati solo del 13,7%, facendole scontare un terz'ultimo posto, contro
il primato del 27,8% della Gran Bretagna. L'Italia, in fatto di salari, si
colloca ai primi posti, al quarto esattamente, per ampiezza del cuneo
fiscale pari, per un lavoratore senza famiglia a carico, del 45,85% e al
36,6% per un lavoratore con moglie e due figli a carico.
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