Archivio Gennaio 2007

31 gennaio

 

Bangladesh, democrazia in bilico

Trentamila arresti in due settimane, accuse di omicidio contro le forze armate

Continua a peggiorare la crisi in Bangladesh, con decine di migliaia di arresti, accuse di torture ed esecuzioni sommarie, tentativi di censura dei mezzi di comunicazione. L'Alta corte annuncia che le elezioni parlamentari, originariamente previste per il 22 gennaio e poi rinviate a data da destinarsi, non si terranno prima di tre mesi.

Trentamila arresti. L'11 gennaio scorso il presidente Iajuddin Ahmed ha rinviato le elezioni parlamentari, previste per il 22 gennaio, e ha dichiarato lo stato di emergenza nel tentativo di disinnescare la crisi politica che è scoppiata in Bangladesh lo scorso ottobre. Con la proclamazione dello stato di emergenza, ogni potere è di fatto passato nelle mani del presidente e delle forze armate, che hanno immediatamente lanciato una “campagna contro la criminalità e la corruzione”. Da allora, nell'arco di quindici giorni, la polizia ha dichiarato di avere compiuto oltre 33mila arresti: criminali comuni, ma anche funzionari corrotti e esponenti politici dei due maggiori partiti bengalesi, il Bangladesh Nationalist Party e la Awami League. Il nuovo capo del governo di transizione, nominato dal presidente Ahmed per traghettare il Bangladesh verso le prossime elezioni, ha elogiato il ruolo delle forze armate in questa delicata fase, e ha sottolineato l'importanza della campagna anti-corruzione perché “la nazione non può essere ostaggio di un manipolo di criminali”. Le organizzazioni per i diritti umani, però, raccontano un'altra realtà.

Esecuzioni extragiudiziali. Fra le varie denunce spicca quella dell'associazione bengalese Odhikar. Nei dieci giorni successivi alla proclamazione dello stato di emergenza, riporta Odhikar, diciannove persone sarebbero state uccise dalle forze di sicurezza, torturate a morte mentre si trovavano in custodia oppure uccise in “scontri a fuoco” durante le procedure d'arresto. Odhikar ha attribuito quattro omicidi all'esercito, cinque alla polizia e otto alle famigerate Rab, le forze speciali antiterrorismo del Battaglione d'azione rapida. La morte in circostanze misteriose dei detenuti in custodia è un vecchio problema in Bangladesh: nello scorso dicembre Human Rights Watch ha diffuso un dettagliato rapporto sui crimini delle Rab, che sarebbero implicate in oltre 350 omicidi dal 2004 a oggi. E proprio Human Rights Watch ha raccolto la denuncia delle associazioni bengalesi: “Lo stato d'emergenza non può giustificare le uccisioni da parte delle forze di sicurezza”, ha dichiarato Brad Adams, direttore della sezione asiatica di Hrw, “il governo deve porre immediatamente fine a questi abusi”.

Stampa nel mirino. Un altro spinoso problema riguarda l'esercizio della libertà di espressione: lo stato di emergenza prevede grosse limitazioni ai mezzi di comunicazione, che non possono “turbare l'ordine pubblico” criticando il governo. Il ministero dell'informazione ha negato che sia stata imposta una censura: “Ci siamo solo appellati al senso di responsabilità dei giornalisti”, ha dichiarato sabato Barrister Mainul durante un incontro con editori e scrittori dei principali mezzi di comunicazione bengalesi. Lo stesso giorno, tuttavia, il ministero dell'Interno ha diffuso una nota che minaccia sanzioni economiche e, soprattutto, pene detentive dai due ai cinque anni per i giornalisti che violassero le “nuove norme” sull'editoria. E' in questo clima di tensione che, sabato sera, nella capitale Dacca è esploso un ordigno destinato, sembra, a una pattuglia del Battaglione d'azione rapida. Nell'esplosione sono rimaste ferite sette persone, tra cui due membri delle forze speciali. La polizia sta ancora investigando, e al momento non ha formulato ipotesi sulla matrice dell'attacco. Quel che è certo è che la democrazia bengalese, che negli ultimi quindici anni ha guadagnato il plauso della comunità internazionale, sta vivendo una terribile crisi, da cui difficilmente potrà uscire contando solo su esercito e censura.

Cecilia Stra

 

L'INCHIESTA DI REPUBBLICA / Ammassati nella sporcizia nel cuore di Roma
Asiatici e africani: in 60 si dividono 150 metri quadri al Pigneto

Dormire a turno per 150 euro
il posto-cuscino degli immigrati

di EMILIO RADICE

<B>Dormire a turno per 150 euro<br>il posto-cuscino degli immigrati</B>

CISSÈ, Mohammad, Azar, Abdou, Bathie, Babacar, Sammadi, Sikdar, Sow, Melick... sessanta uomini pigiati in 120 metri quadri. Materassi in terra, pavimento nudo, latrina accanto alla cucina, fili elettrici che pendono a mazzi dal soffitto e che piovono dalle scatole vuote degli interruttori. Un luogo nascosto e nemmeno tanto segreto di una strada romana del Pigneto, ex quartiere popolare che sta diventando di moda: case ridipinte, stucchi ritoccati, colori pastello e botteghe trendy. Qui il prezzo delle case ha ormai superato i 4.000 euro al metro quadro, ma per chi abita al numero 97 è tutta un'altra storia: si paga per passare una notte all'asciutto, sia pure stesi in terra; si paga 100-150 euro a testa per riposare con un cuscino sotto il capo. E se non c'è il cuscino c'è un rotolo di stracci in due metri di cemento preziosi, da sfruttare a turno. Uno si alza per andare a vendere accendini e un altro si riposa.

È il cosiddetto "posto testa", una vergogna diffusa in tutti i ghetti urbani della capitale e non solo. E loro sono i "migranti", i senza casa e senza diritti. Senegalesi, bengalesi, nigeriani, pachistani che a migliaia si nascondono nelle pieghe della città. Disposti a spendere anche un quarto della loro paga non per avere una stanza o un letto, ma il diritto di dormire. Anche semplicemente in terra.
"Che dobbiamo fare? Dove possiamo andare?", dicono.

Il vero pericolo per questi disperati è trovarsi senza un tetto, per quanto pericolante e infiltrato dall'acqua, e senza nemmeno quello spicchio di cemento detto "posto testa" dove poter chiudere gli occhi (e rompersi le ossa) quando fuori è freddo.
È per questo che Bilal, del Bangladesh, non ha problemi a raccontare che dalle parti di Porta Maggiore dorme assieme ad altri 6 connazionali ogni notte in un buco di stanza. Un solo letto su cui giacciono a turno. Ma guai a fartelo vedere: "Se qualcuno lo dice al padrone, quello ci scaccia". E la stessa cosa ci dice Baku, anche lui del Bangladesh, raccontando di come per un anno intero ha pagato per ottenere un "posto testa" a Centocelle: "Mi stendevo davanti alla porta di un bagno e tutti quelli che dovevano andarci mi dovevano scavalcare". La conferma arriva anche da Azar, un albanese che assieme ad altri 7 dalle parti di via Turati si divide 15 metri quadri di pavimento e un solo letto a turno per 600 euro al mese. E lì accendono bombolette e fornelli, stufe e lampadine appese a fili di fortuna, fissati alla meglio con un chiodo alle pareti. Ogni giorno e ogni notte a rischio della vita. Stessa sorte di Joseph, indiano, senza permesso di soggiorno, che paga 150 euro al mese per un letto apribile: "Siamo in 5 in una stanza - dice - In genere chi arriva prima si mette sul divano e chi arriva dopo si sistema in terra. A me non pesa molto, l'unica cosa è che al risveglio ho un po' di mal di schiena. Ma ora abbiamo deciso di fare i turni".

Non è stato facile arrivare a uno di questi luoghi di miseria e sopravvivenza, protetti dalla diffidenza dei loro abitanti. Ma alla fine eccolo l'inferno, dietro un portoncino anonimo come tanti altri. Entriamo. È buio pesto, i fasci di fili scoperti non portano a nessuna lampadina. E dentro senegalesi, che sopravvivono con la vendita dei cd pirata. Un posto-testa? Un metro quadrato a pagamento per sdraiarsi in terra e dormire al riparo della pioggia? No, qui è peggio. "A volte in tutta la palazzina siamo anche novanta, e allora si dorme dovunque, sulle scale, sui balconi e se serve anche nel bagno". Eppure il padrone di casa li chiama appartamenti.

Ecco un'altra casa: tre passi da una parte e poi cinque dall'altra. Quindici metri quadrati, forse meno. Con dentro una cucina alimentata a bombola e qualche tramezzo di cartongesso per chiudere una minuscola latrina coperta da muffe. Nello spazio che resta ci vive Elisabeth, peruviana di 38 anni, con marito e due figli, più uno in arrivo. "Sono incinta di 5 mesi, almeno credo". Affitto 550 euro, più le spese. E non è neanche l'alloggio peggiore.

Basta arrivare al piano di sopra, dopo essersi arrampicati per una scala buia con le pareti sporche e unte di grasso. Sul pianerottolo un secchio d'immondizia. Dentro un pezzo di terzo mondo per come lo raccontano i documentari: odore di chiuso e umidità, mucchi di gommapiume putride, stracci, cuscini ammassati in terra, borsoni pieni di cd. Sikdar, senegalese, spiega che questo marciume risponde a una ferrea logica economica. Se uno possiede un palazzo cariato dal degrado, lo affitta al nero spezzettandolo in loculi infami a qualche centinaia d'immigrati che non hanno la minima possibilità di protestare o di trattare il prezzo; e così ricava proprio da loro, i più disperati, i soldi che gli serviranno per ristrutturare la casa e metterla infine linda e pinta sul mercato immobiliare. Infatti tutti gli sfruttati, una volta spremuti, poi ricevono l'avviso dello sfratto. I poveri sono un grande affare, due volte.

Sono le 14. Dall'"appartamento" di Melick un refolo di odore di zenzero e cumino taglia quello delle muffe e del sudore. In terra c'è la tovaglia: dei giornali vecchi stesi con accuratezza. La fiamma del gas lampeggia a cinque palmi da una valigia piena di stracci. Dalla latrina si spande minacciosa una perdita d'acqua che già bordeggia un materasso. Finestre non ci sono. E se scoppia un incendio? Risposta: "Qualcuno muore, come è successo con i due bengalesi a piazza Vittorio. Che dobbiamo fare?". Quanto pagate per questo buco? "Seicento euro". Ci vivono in cinque. I giacigli di fortuna sono talmente vicini che per mettersi in piedi, vestirsi e imboccare la porta d'uscita tocca fare a turno. "Ma ora siamo pochi. D'estate è peggio, anche se ci si può sdraiare sul terrazzo". E le donne? "Non ce le portiamo qui le nostre donne, fa troppo schifo". Nel palazzo ci sono altri otto vani come questo, di 10-15 metri ciascuno, "servizi" compresi. E per ognuno nelle tasche del proprietario vanno dai 400 ai 600 euro.

Il fotografo inquadra feci di topo grandi come noccioli di oliva e pezzi di gomma piuma arrotolati, pronti ad essere usati per la notte. Eppure Mohammad, Abdou e Sharani ringraziano il cielo di vivere comunque sotto un tetto "perché il rischio è di perdere anche questo". Così come a Porta Maggiore il bengalese Abdil trema all'idea di perdere una striscia di pavimento per cui paga 200 euro al mese con altri cinque. "Perché dovremmo denunciare i proprietari? - dice in piazza Vittorio uno dei capi della comunità del Bangladesh - . Forse per avere un'altra presa in giro? Chi ha denunciato fino a oggi ha avuto un solo risultato: s'è ritrovato in strada. Senza neanche un posto-cusci(30 gennaio 2007)

 

Discariche, Italia davanti a Corte Uerifiuti a napoli

Il nostro paese finisce sotto la lente d'ingrandimento dei giudici europei. La causa è la non corretta applicazione di una direttiva del 1999 per ridurre l'impatto ambientale

L'Italia finisce di nuovo sotto la lente d'ingrandimento dei giudici europei della Corte del Lussemburgo per la mancata applicazione di normative comunitarie sull'ambiente. L'ultima in ordine di tempo tra le nuove cause introdotte, come segnala oggi la stessa Corte di giustizia, è riferita alla non corretta applicazione da parte dell'Italia di una direttiva del 1999 sulle discariche per ridurre le ripercussioni negative sull'ambiente, in particolare sulle acque superficiali, sulle acque freatiche, sul suolo, sull'atmosfera e sulla salute umana. La normativa comunitaria disciplina la messa in discarica dei rifiuti e specifica le diverse categorie di rifiuti (urbani, pericolosi, non pericolosi e inerti) e si applica a tutte le discariche classificate in tre categorie: per rifiuti pericolosi, non pericolosi, inerti. Gli Stati devono adottare i provvedimenti necessari affinché le discariche esistenti possano rimanere in funzione solo se applicano quanto prima le disposizioni della direttiva e ogni tre anni devono presentare alla Commissione una relazione in merito all'attuazione della normativa Ue. La Commissione, che ha aperto una procedura contro l'Italia in merito alla coerenza del decreto legislativo del 2003 con la direttiva, ritiene che la non conformità è il risultato del recepimento tardivo della normativa comunitaria e della particolare struttura di quest'ultima, la quale prevede due diversi regimi giuridici a seconda che ci si trovi in presenza di discariche preesistenti o di discariche nuove.

«Rivedere al più presto la normativa e intervenire sull’eco-tassa per lo smaltimento in discarica». E’ questo il commento di Roberto Della Seta, presidente nazionale di Legambiente, a proposito della procedura d’infrazione avviata dalla Commissione Ue nei confronti dell’Italia per la non corretta applicazione della direttiva del 1999 sulle discariche.
«E’ l’ennesimo richiamo di Bruxelles al nostro Paese per la mancata applicazione di normative comunitarie sui rifiuti – dice Della Seta -. Una buona occasione per affrontare anche il tema del basso costo di smaltimento in discarica, che caratterizza in particolare gli impianti del centro sud. Dopo aver risolto l’annosa questione degli incentivi alle fonti assimilate, che renderà certamente più costoso l’incenerimento dei rifiuti, - conclude il presidente di Legambiente - occorrerà intervenire anche sul sistema di tassazione delle discariche stabilito da una legge del 1995, per evitare che torni conveniente l’interramento dei rifiuti e rendere più competitivo il riciclaggio da raccolta differenziata».

 

Ennesimo massacro in Iraq

Circa 350 miliziani uccisi a Najaf dall'esercito Usa e da quello iracheno

E’ dai tempi della rivolta di Moqtada al-Sadr che non si combatteva con tanta ferocia a Najaf, assieme a Kerbala uno dei massimi luoghi sacri per gli sciiti di tutto il mondo. In due giorni di combattimento, secondo fonti irachene, ci sono state almeno 350 morti tra gli insorti, ma altre fonti parlano addirittura di 500 vittime. Nella battaglia hanno perso la vita anche 3 militari iracheni e altri 21 sono rimasti feriti. A questi vanno aggiunti due piloti di un elicottero Usa, abbattuto dai guerriglieri, come confermato dai militari iracheni, anche se Washington non ha commentato la notizia.
 
un fedele sciita commemora il martirio dell'imam husseinUna battaglia sanguinosa. Si è combattuto per 15 ore, tra il 27 e il 28 gennaio, ma secondo fonti locali la battaglia sarebbe ancora in corso contro alcuni focolai di resistenza attivi nella zona.
L’operazione, condotta dall’esercito iracheno con l’appoggio di aerei e mezzi corazzati delle truppe Usa, è scattata per prevenire, secondo quanto raccontato dal colonnello dell’esercito iracheno Ali Nomas, responsabile della sicurezza a Najaf, e da Asaad Abu Gilel, il governatore di Najaf, per prevenire una serie di omicidi che il gruppo aveva in mente contro eminenti leader sciiti, che per le festività si sarebbero radunati a Najaf. “Erano bene armati, anche con razzi antiaerei, ed erano in prevalenza iracheni, ma tra loro c’erano anche alcuni stranieri”, ha commentato Gilel. L’occasione è stata la festa dell’Ashura, che finisce proprio oggi, e che commemora il martirio dell’imam Hussein nella battaglia di Kerbala del 680, l’episodio che ha sancito lo scisma sciita nel mondo islamico. Negli anni scorsi, dopo l’invasione del contingente internazionale nel 2003, che ha rovesciato il regime di Saddam Hussein, l’Ashura è sempre stata segnata da terribili stragi e attentati. Quest’anno invece, non era accaduto ancora nulla.
Secondo i militari iracheni, l’Ashura non era stata segnata dal sangue perché il gruppo preparava una grande azione finalizzata all’eliminazione di personalità scomode sciite, ritenute dagli insorti in odore di accordo con il governo iracheno e quello statunitense. Ma qual è questo gruppo?
 
pattuglia usa per le strade di najafMilizia pro-Saddam, o no? Si tratterebbe del cosiddetto Esercito del Paradiso, una milizia fedele al leader religioso Ahmed Hassani al-Yemeni, uno dei pochi movimenti presenti in Iraq che conta tra le proprie fila elementi sciiti e sunniti. Secondo la ricostruzione dei vertici militari iracheni, al-Yemeni avrebbe radunato un gruppo di circa 600 miliziani in un frutteto nei pressi del villaggio di Zarqaa, a 12 miglia a nord-est di Najaf, per preparare azioni in grande stile, approfittando della marea di pellegrini che hanno raggiunto la città santa per le celebrazioni dell’Ashura. Al-Yemeni è colui che dai suoi uomini si faceva chiamare il ‘mahdi’, cioè il dodicesimo imam che gli sciiti aspettano e che salverà l’umanità. Lo stesso che, secondo il ministro della Sicurezza nazionale iracheno, sarebbe rimasto ucciso nell’attacco subito dalla sua milizia, e che secondo gli analisti di Baghdad rappresentava l’ultimo elemento di una catena di personaggi riconducibili in qualche maniera a Saddam Hussein.
La sua milizia sarebbe stata formata, sempre secondo il nuovo governo di Baghdad, dal dittatore iracheno per riequilibrare il potere dell’ayatollah Ali al-Sistani nel sud sciita dell’Iraq, da Saddam considerato un covo di serpenti che cospiravano contro di lui. A questo scopo avrebbe sostenuto, anche finanziariamente, il gruppo guidato da al-Yemeni, ma che prima di lui era guidato dall’ayatollah Ahmad bin al-Hassan al-Basri, nemico di quel Muhammad Bakr al-Sadr che il rais vedeva come il fumo negli occhi. Un altro pezzo della resistenza in Iraq legata a Saddam sarebbe quindi stato spazzato via, ma secondo altre fonti locali al-Yemeni sarebbe stato invece il simbolo di coloro che, riuscendo a mettere assieme sunniti e sciiti nell’interesse più alto della cacciata degli eserciti stranieri, finiva per rappresentare la vera forma di resistenza. Una situazione ingarbugliata, dove niente è chiaro, come accade in Iraq da 4 anni a questa parte. 

 

26 gennaio

Filippine, guerra medievale
L'esercito assedia e affama un villaggio per stanare i guerriglieri comunisti

Il villaggio di Santa Juana, nell’isola meridionale di Mindanao, è da giorni sotto assedio da parte dei soldati della 401esima brigata di fanteria dell’esercito filippino. Un assedio ‘medievale’ volto ad affamare la popolazione civile per costringere alla resa un gruppo di guerriglieri comunisti del Nuovo Esercito Popolare (Npa) – assieme ai quali si trova anche Jorge Madlos, portavoce regionale del Fronte Nazionale Democratico (Ndf), organizzazione politica strettamente legata alla guerriglia.
 
Soldato filippino in un villaggio di campagnaL’assedio medievale di Santa Juana. Gli uomini del colonnello Jose Vizcarra, appoggiati da elicotteri da guerra che sorvolano la zona a bassa quota, hanno circondato il villaggio con blindati e unità cinofile. Una cintura militare impenetrabile volta a impedire l’ingresso di rifornimenti alimentari. “Restrizione dei viveri”: questa è l’eufemistica espressione utilizzata dall’esercito di Manila per questo tipo di operazioni.
Secondo il portavoce dell’Npa, Gregorio ‘Ka Roger’ Rosal, l’assedio di Santa Juana è “una crudele misura a danno della popolazione locale e una flagrante violazione delle leggi umanitarie internazionali in materia di protezione dei civili in guerra. Se le forze fasciste – ha dichiarato Rosal – hanno la faccia tosta di difendere apertamente la legittimità di un blocco dei viveri, chissà quali altre atrocità commettono senza farne parola”.
Secondo il colonnello Vizcarra, il blocco starebbe dando i suoi frutti: il portavoce del Ndf, Jorge Madlos, avrebbe inviato messaggi ai militari in cui si dice pronto ad arrendersi pur di far cessare l’assedio. Secondo Rosal, queste affermazioni sono infondate: “Le dichiarazioni di Vizcarra sono solo una ridicola e disperata tattica di guerra psicologica”.
 
Soldati Usa nel sud delle FilippineForze Usa per combattere la guerriglia. La pressione dell’esercito filippino contro le roccaforti dei guerriglieri dell’Npa sta notevolmente aumentando. Dopo aver inferto, grazie all’aiuto delle forze speciali Usa, durissimi colpi ai separatisti islamici del Gruppo Abu Sayyaf attivi nell’estremo sud dell’arcipelago filippino (compresa l’uccisione del loro leader Khaddafy Janjalani, avvenuta in settembre ma confermata solo nei giorni scorsi), la presidente Gloria Arroyo ha deciso di dedicarsi all’altro fronte di guerra interna, quello comunista, rilanciando la famigerata operazione Bantay Laya.
Il Partito Comunista delle Filippine (Pcc), braccio politico clandestino della guerriglia, teme che le forze militari statunitensi, meno impegnate a sostenere l’esercito filippino contro i ribelli islamici, vengano ora impiegate contro l’Npa. “Per stessa ammissione del capo di stato maggiore, generale Hermogenes Esperon, le forze Usa sono state coinvolte in operazioni di combattimento contro Abu Sayyaf. Ora le nostre fonti ci dicono che anche la provincia di Mindanao pullula di forze speciali Usa, uomini della Cia e dell’Fbi. Temiamo il loro coinvolgimento non solo in azioni militari ma anche in ‘operazioni speciali’ come attentati fatti per screditare il nemico. Non sarebbe una novità – sostiene il Pcc – come dimostra il caso dell’agente Cia Michael Meiring, ferito nel 2002 in un hotel di Davao City dall’esplosione di una bomba che stava preparando e fatto uscire in fretta e furia dal paese”.
 

Gli interrogatori ai pm di Milano. "Pollari
mi disse di indagare, ma non trovai nulla"

"Da Telecom dossier sui Ds"
Mancini parla dei politici

di PIERO COLAPRICO, GIUSEPPE d'AVANZO, EMILIO RANDACIO

<B>"Da Telecom dossier sui Ds"<br>Mancini parla dei politici</B>
MILANO - Parla Marco Mancini, appena fino all'altro giorno il temutissimo direttore del Controspionaggio italiano. Parla e parla ancora. Almeno in tre interrogatori, ora segretati. Le sue parole alzano il velo sul nucleo più fangoso dell'inchiesta Telecom/Pirelli. L'indagine ne è scossa come dall'alta tensione, e siamo (pare) soltanto all'inizio di un racconto a puntate che può averne per l'intero arco della politica italiana, perché tutti i partiti e tutte le leadership nazionali fino alla terza fila sono al centro dei dossier illegali raccolti dagli spioni privati, pubblici, avventizi e fiduciari. Mancini preferisce cominciare da un partito al governo, la Quercia. Spiega che c'è un report segreto del 2003 raccolto su indicazione della Security Telecom sui presunti conti segreti dei Ds.

Da dicembre, Marco Mancini è in carcere, accusato di "associazione per delinquere finalizzata alla rivelazione e utilizzazione di segreti d'ufficio". Avrebbe incassato moneta sonante per consegnare a un investigatore privato di Firenze (Emanuele Cipriani) le notizie riservate in possesso del Sismi. Emanuele Cipriani è il private eye a cui Giuliano Tavaroli, il capo della Security della società telefonica, assegna il lavoro sporco di intrusioni, pedinamenti, analisi, furto di informazioni riservate.

Mancini dice: "Non ho mai preso un euro da Cipriani. E' infamante soltanto pensarlo. Sono un servitore dello Stato. Con Cipriani scambiavo informazioni. Era il mio lavoro - può piacere o meno - raccogliere notizie. E anche a Cipriani capitava di averne d'interessanti. Ricordo che nel 2003 mi disse di avere informazioni su conti correnti esteri riconducibili a esponenti di primo piano dei Democratici di Sinistra. Come m'impongono le regole del Servizio, girai la notizia al mio superiore il generale Nicolò Pollari. Mi chiese di verificarla. Al termine di una discreta ricognizione, maturai la convinzione che la notizia fosse basata sul nulla. Pollari mi disse che ci avrebbe pensato lui. Non chiedetemi che cosa abbia fatto dopo".

Il dossier di cui parla Mancini è alto una buona spanna. Risale a quattro anni fa. Con aggiornamenti bimestrali, gli spioni della Security Pirelli-Telecom controllano, per il periodo 2001/2002, banche europee e nazionali, conti, bonifici, flussi finanziari estero su estero e verso l'Italia.

L'ex dirigente del Sismi si mostra risentito ai pubblici ministeri che lo hanno raggiunto nel carcere di Pavia. Quelli, dinanzi al fiume in piena, si fanno guardinghi. Accettano l'apertura di Marco Mancini, ma - a quanto trapela da più fonti - non fanno più alcuna domanda sul "dossier Ds". Perché?

Sta in questo interrogativo e nelle possibili risposte il senso di quanto gravi, preoccupanti, persino minacciosi, siano i quotidiani ritrovamenti nella "caccia" agli spioni. Mancini cita i Democratici di Sinistra, ma - come conferma l'ultima ordinanza d'arresto (la terza) - sono moltissimi i nomi dei politici (otto righe di testo protetto dagli omissis) che entrano, non si sa bene a che titolo e con quale attendibilità, nelle attenzioni "sporche" dei "segugi" retribuiti dalla Telecom.

Se si segue il "cammino istruttorio" del "dossier Ds" si può comprendere meglio (forse) che cosa è e che cosa può diventare l'inchiesta di Milano. Non solo. Emergono le inquietudini dei pubblici ministeri; i tentativi di inquinamento in corso; il possibile orizzonte di responsabilità penali e conseguenze politiche. Soprattutto, si può affrontare la questione che schiaccia l'inchiesta come un cielo basso e nero: quando - e per conto di chi, nell'interesse di chi - è nata questa piattaforma di spionaggio cresciuta dentro e grazie alla Telecom?

La strategia dei pubblici ministeri
L'orizzonte si apre attraverso un semplice compact disc. È nascosto nello studio del commercialista milanese di Emanuele Cipriani, Marcello Gualtieri. Per settimane i tecnici informatici della polizia giudiziaria provano a violarne l'accesso. Ogni tentativo viene respinto. A quel punto l'investigatore, per salvare se stesso, comincia una parziale collaborazione e fornisce le password utili per sbloccare il cd.

Sui computer dei pubblici ministeri appaiono migliaia di icone. In ogni icona, un dossier. In ogni dossier, un profiling personale, finanziario, relazionale dei principali protagonisti, istituzioni e società della vita pubblica del Paese, politici, finanzieri, imprenditori, banchieri, giornalisti e - ora si scopre con sconcerto - magistrati. E' una massa d'informazioni degna di un servizio segreto. Notizie vere o false? O parzialmente vere, deformate e condite fino alla calunnia? Sono informazioni di laboriosa verifica. In ogni caso, hanno bisogno di molto tempo per essere valutate. È la prima difficoltà che gli inquirenti devono affrontare con la squadra di polizia giudiziaria costituita ad hoc. Che fare? Come procedere? Muoversi contestualmente su tutto il fronte dell'indagine? Cercare, prioritariamente, le responsabilità individuali della rete di spionaggio? Oppure privilegiare con urgenza le eventuali notizie di reato contenute nell'archivio illegale?

Spiega a Repubblica una voce interna all'inchiesta: semplicemente non ci sono le forze sufficienti per affrontare tutti i capitoli dello zibaldone che ci è caduto in mano. Lo stato delle cose impone, si può dire, un metodo di lavoro - certo - più lento, ma non minimalista. O peggio, così cauto da poter apparire ambiguo.

"Abbiamo così organizzato un'agenda di priorità investigative", dice la fonte. Al primo posto, la rete di spionaggio e l'individuazione dei burattini e dei burattinai, riservando a un secondo tempo la valutazione dell'attendibilità, la fondatezza o l'infondatezza delle notizie raccolte illegalmente da quella che gli addetti definiscono una piattaforma di spionaggio.

È il metodo che, al palazzo di giustizia di Milano, chiamano lo schema del fascicolo in C. Non è una cosa poi molto complicata, nonostante la formula un po' criptica. Dal troncone d'un'inchiesta si stralciano alcune posizioni aprendo un fascicolo di "Atti relativi a...". Questo è il fascicolo in C: permette al pubblico ministero di tenere in parcheggio l'iniziativa penale senza pregiudicarla con i tempi stretti dell'istruttoria, del processo e della prescrizione. Sono atti che, in qualsiasi momento, a ogni occasione utile, possono uscire dal parcheggio con un'ipotesi di reato quando questa viene individuata e sostenuta da un'apprezzabile fonte di prova.

Nell'inchiesta dello spionaggio illegale, il parcheggio è affollatissimo. I dossier sono seimila e, se si prende per buono quel che assicura una fonte bene informata, a parte duemila sconosciuti aspiranti impiegati di Telecom, ce n'è per tutti - nessuno escluso - del Gotha nazionale.

Improvvisamente una luce si accende sul dossier dei Ds
Dicembre scorso. Marco Mancini, in codice doppia M e Tortellino, già capo del controspionaggio del Sismi, decide di muovere le acque fangose con lo strale contro i Ds. E' vero, dice di aver verificato le informazioni, di aver concluso che il castello fosse di sabbia. E tuttavia, lasciando emergere il dossier del 2003, lancia un segnale con l'intento di far salire la temperatura politica intorno all'affaire e raffreddare la tensione dell'istruttoria intorno alle responsabilità penali sue e dei suoi complici (Giuliano Tavaroli, Emanuele Cipriani, i loro collaboratori nei servizi segreti esteri e nelle forze di polizia nazionali). Promettendo di allargare la manovra all'intero arco dei politici "dossierati". Mancini non sa che, con "il fascicolo in C", gli inquirenti hanno già fermato, più o meno dieci mesi fa, la tritasassi che egli vuole manovrare.

La ragione dello stop tattico, rivela la fonte, è questa: non possiamo - per il momento - indagare soltanto su uno dei dossier lasciando in ombra gli altri. Se imbocchiamo questa strada, rischiamo di far deragliare il treno delle indagini. Crediamo di doverci muovere con una priorità: accertare la responsabilità di chi ha controllato e gestito la piattaforma spionistica; verificare gli interessi reali di chi ha utilizzato quelle informazioni oblique. Perché questo - dice ancora la fonte - è per noi oggi il punto cardine dell'inchiesta: conoscere gli organizzatori, i beneficiari, gli "utilizzatori" del lavoro della piattaforma. A nostro avviso, muovendoci al contrario, andando dietro alle indicazioni estratte dai dossier abusivi, non sarebbe più la procura a condurre l'inchiesta. Con le loro suggestioni e indicazioni ed eventuali imposture, sarebbero gli arrestati a guidarla su un binario che potrebbe essere ancora una volta cospirativo, diffamatorio, ricattatorio.

Se la procura dovesse occuparsi delle migliaia di fascicoli su imprenditori di primo piano, ex ministri del governo di destra, ex segretari dei partiti oggi d'opposizione ieri di governo - paventa la fonte - ne nascerebbe un'insopportabile pressione sul già affannoso lavoro dei pubblici ministeri con la richiesta, pur legittima, di "fare presto" per sgomberare il campo dalla calunnia o, al contrario, per accertare le possibili responsabilità penali. Proteggere la riservatezza dei dossier è per la procura di Milano un'imprescindibile necessità per lavorare in sicurezza fino a cavare il ragno dal buco.

I "padroni" della piattaforma Telecom
La fonte vicina all'inchiesta non gradisce fantasie investigative, e tuttavia se ragiona dell'intrigo che ha sotto gli occhi, se ne segue le tracce e la logica, è costretta a proporre una lettura più complicata di quanto sia apparso sinora. Chi governava la "piattaforma"? Quali ne erano gli scopi, gli ispiratori, i "garanti"?

Alcuni obiettivi sono ragionevolmente chiari. Lo spionaggio permette a chi opera nella "piattaforma" (Tavaroli; Cipriani; un ex-agente della Cia, John Spinelli; un'ex-fiduciario del Sisde, Marco Bernardini; il capo del controspionaggio del Sismi, Marco Mancini) di mettere da parte il bel gruzzoletto in euro e in dollari assicurato da Telecom (più o meno, secondo i primi, approssimativi calcoli, 20 milioni di euro). L'arricchimento personale della combriccola, dunque, è una delle ragioni accertate. Ce n'è una seconda che non esclude la prima, ma a quella si sovrappone: le informazioni sono raccolte dagli spioni al di fuori di ogni legge "nell'interesse dei vertici della Telecom" (come sostengono i pubblici ministeri) o addirittura a vantaggio del "proprietario" della società, Marco Tronchetti Provera (come crede il giudice per le indagini preliminari). Può non finire qui, perché a Milano è ormai un'ossessione questa domanda: quando è nata la "piattaforma di spionaggio"? E quanto è "grande" e diffusa? Sono domande decisive alle quali sinora non si trovano risposte precise, ma solo qualche indizio e più di un nesso logico. Appare ragionevole pensare che la data di nascita della "piattaforma di spionaggio" possa addirittura pre-esistere a Telecom, risalire alla Anni Ottanta, quando Giuliano Tavaroli e Marco Mancini sono ancora sottufficiali dell'Antiterrorismo di via Moscova a Milano.

I due entrano in contatto (1986) con John Spinelli, l'ufficiale di collegamento della Cia con l'intelligence italiana. La circostanza lascia credere che "la piattaforma" sia stata sostenuta e utilizzata dalla Central Intelligence Agency. L'essenziale dettaglio è confermato dai primi risultati dell'inchiesta. Due protagonisti - Tavaroli e Mancini - appaiono "legati" alla Cia. "L'orecchio di Nicolò Pollari" (Pio Pompa) si lascia intercettare mentre rivela che "Tavaroli è stato pagato 15.000 dollari o euro al mese dalla Cia". Una testimonianza interna al Sismi svela che Marco Mancini era considerato "un agente doppio della Cia". Il percorso di un terzo uomo (estraneo a quest'indagine) lascia intuire quali fossero le tappe di avvicinamento alla "piattaforma". Luciano Pironi è un maresciallo del nucleo d'eccellenza dei carabinieri (Ros). Il capocentro della Cia a Milano (Robert Seldon Lady) gli chiede di partecipare al sequestro di Abu Omar (2003). In cambio avrebbe ottenuto di lavorare al Sismi o, in alternativa, di entrare nella Security di Pirelli.

La storia di Pironi (poi premiato a Langley per la sua partecipazione al sequestro del cittadino egiziano) può dimostrare che Pirelli/Sismi/Cia sono fili di quel che appare ora un unico gomitolo.

Questa approssimata ricostruzione indiziaria e logica impone così agli inquirenti di verificare se la rete, nata per scopi illegali ma legittimi (per l'interesse nazionale alla sicurezza), nel tempo muti la sua "ragione sociale" e si potenzi, trasferendosi armi e bagagli, e gonfia di risorse finanziarie e di mezzi tecnologici, prima in Pirelli e successivamente in Telecom, fino a costruire le basi per rendersi autonoma con il progetto di creare la "One Security": "una società di sicurezza internazionale" al cui capitale la Pirelli - azionista di riferimento - avrebbe dovuto partecipare per il 40 per cento.

In questo schema, tutti gli attori che ruotano sulla "piattaforma" ricevono benefici. Gli "amici al bar" (Tavaroli, Mancini, Cipriani), potere d'influenza e ricchezza. Pirelli/Telecom o, come sottolinea il giudice delle indagini preliminari, "il suo proprietario, in un dato momento storico" (Tronchetti Provera) informazioni riservate, dossier maligni, notizie ingannevoli, utili però ad affrontare i conflitti con concorrenti, soci in affari, sistema bancario, establishment politico, circuito mediatico, ambiente giudiziario. La Cia, il nostro servizio segreto militare o altre intelligence" (qui e lì fa capolino anche il controspionaggio francese), utilizzano, per parte loro, la "piattaforma" con lo scopo di trarre informazioni d'interesse strategico (e non) raccolte nei Paesi (soprattutto in Medio-Oriente e nell'area dell'ex-blocco sovietico) dove si agitano le iniziative di espansione di Telecom (eccellente e insospettabile "copertura"per i maneggi degli spioni). È una trama che non disprezza le notizie genuine o da manipolare. Se "giocate" nel sottosuolo italiano, possono essere un buon carburante per condizionare - avvelenandola - la vita politica del nostro Paese. Forse davvero questa inchiesta può avere il clamoroso valore dello scandalo P2.


 

25 gennaio

Lettera a Prodi da Nairobi
Flavio Lotti
Caro Presidente Prodi, le scrivo da Nairobi, nel cuore dell'Africa, seduto accanto a due milioni e cinquecentomila persone che in questa città sono costrette a sopravvivere e a morire miseramente con in tasca meno di un dollaro al giorno. Li ho incontrati a Kibera, la più grande baraccopoli dell'Africa, da dove è partita la Marcia per la pace che ha aperto i lavori del Forum Sociale Mondiale. Camminando insieme a loro, dal quartiere più povero a quello più ricco di Nairobi, ho avvertito un profondo disagio per le ingiustizie che continuano ad uccidere ogni minuto centinaia di bambini e bambine, donne e uomini innocenti. Questa mattina li ho incontrati nuovamente a Korogocho, la discarica di Nairobi, dove si è svolta la prima assemblea del Forum sociale mondiale: un'assemblea eucaristica carica di preoccupazioni, di gioia e di speranza.
Caro Presidente, vista da qui a Nairobi, la base militare che gli Stati uniti intendono costruire a Vicenza appare un insulto a tutte queste persone private della dignità e di ogni diritto, straziate dalla fame e dalle peggiori malattie, violentate e abusate, ignorate e abbandonate dal mondo. Immersi in questa miseria, la costruzione di una nuova base di guerra è un inaccettabile spreco di denaro pubblico. E le cose inaccettabili non possono essere accettate. Di chiunque sia quel denaro, sono soldi sottratti alla lotta alla povertà.
Cosa dobbiamo dire ai ragazzi e alle ragazzi che, forse per la prima volta, sono usciti dalle loro baracche per marciare al nostro fianco chiedendo giustizia, diritti umani, pace? Cosa dobbiamo dire quando ci chiederanno perché l'Italia ha deciso di appoggiare la costruzione di questa nuova base? Perché signor Presidente? Quale nobile motivo ha spinto il suo Governo ad assumere una decisione così importante? Quanti aiuti umanitari partiranno dalla nuova base di Vicenza? Quante vite umane riusciremo a salvare grazie a questa nuova infrastruttura strategica?
Si dice che gli impegni internazionali si debbono mantenere. Ma allora... perché l'Italia mantiene sempre gli impegni militari con il governo Usa e non rispetta gli impegni contro la povertà che il governo si è assunto con l'Onu e tutti gli altri governi del mondo, come gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio?
Come faremo a spiegare che anche quest'anno dovranno cavarsela da soli perché l'Italia ha stanziato per la cooperazione internazionale solo una piccola somma incapace persino di toglierci da quell'angusta posizione che ci identifica come il paese più avaro dell'occidente? Quest'anno non c'erano soldi per salvare la loro vita. Non ce n'erano neanche l'anno scorso. Com'è possibile allora che ogni anno il nostro bilancio militare segni un nuovo record?
Tra qualche settimana forse qualcuno di loro forse sbarcherà a Lampedusa e diventerà immediatamente clandestino da rinchiudere in un Centro di permanenza temporanea in attesa di essere espulso. Altri moriranno lungo la strada. Caro Presidente, cosa possiamo dire a questa gente? Sono qui al nostro fianco. Hanno fame e sete ma non c'è né cibo né acqua. Ne hanno bisogno ora. Domani per alcuni sarà già troppo tardi. Vorrebbero vivere in pace ma, ad ogni istante, sono vittime di una violenza inconcepibile. Non c'è nessun esercito in grado di proteggerli. Sono qui al nostro fianco, signor Presidente. Cosa gli dobbiamo dire? In queste situazioni anche il silenzio uccide.
Flavio Lotti Coordinatore Tavola della Pace

 

Tessile
Cgil: più diritti meno pirateria
Francesca Pilla
Napoli
 «Bisogna rendere più flessibile e ridurre il costo del lavoro». E' incredibile che qualsiasi «contraddizione» salti fuori nel libero mercato, sia questa la crisi industriale o il disequilibrio negli scambi commerciali, per gli industriali la ricetta non cambi. Così Alberto Bombassei, vice presidente di Confindustria, a Napoli per il convegno sulla contraffazione promosso dalla Filtea-Cgil, seduto accanto a Guglielmo Epifani non ha trovato nulla di meglio da dire per risolvere l'annosa questione delle merci taroccate se non che in Italia bisogna essere competitivi permettendo ai padroni di abbassare gli stipendi e ridurre le tutele dei lavoratori. Alla provocazione, lanciata nemmeno tanto abilmente, il segretario Cgil ha risposto che «il falso altera i rapporti tra le imprese, toglie dignità al lavoro e risorse al fisco e ai contributi» e che si tratta di «un fenomeno da combattere, pena la nostra scarsa credibilità a livello internazionale».
Sulla stessa lunghezza d'onda il ministro del lavoro Cesare Damiano che nella sala del museo di Capodimonte ha risposto più direttamente a Bombassei: «Non è vero che per combattere il lavoro nero c'è bisogno di rendere estremamente flessibile il lavoro stesso. Anche per colpa delle leggi del centrodestra - ha detto - è stato dimostrato che la flessibilità è aumentata, ma è aumentato anche il lavoro nero con oltre 3 milioni e mezzo di lavoratori sommersi».
Incongruenti le cifre oggi disponibili: l'Osce stima il commercio pirata intorno al 10% degli scambi planetari, pari a 450 miliardi di dollari, mentre l'Organizzazione mondiale delle dogane ritiene che si tratti del 7%, con un valore valutabile tra i 200 e i 300 miliardi di euro. Quale che sia il fatturato siamo di fronte a un mercato parallelo a quello «ufficiale», dove borse, cinture, jeans, pantaloni, maglie (per restare nel settore tessile) provenienti in maggioranza dall'Asia vengono scambiati a prezzi stracciati. Ma se da un lato è infatti vero che i lavoratori del mercato nero mondiale sono degli invisibili sfruttati lo è altrettanto negli scambi «bianchi». Lo stesso Bombassei ha ricordato come molti prodotti siano confezionati in India, Cina o Thailandia e spacciati per made in Italy grazie a una confezione, magari prodotta in quegli stessi paesi.
Il secondo fattore riguarda il valore «falsato» delle merci «vere». Prendiamo ad esempio un borsa di D&G che in una boutique può essere acquistata alla modica cifra di 300 euro, contraffatta costa appena 10, 15 euro, oppure un paio di occhiali Gucci dove il rapporto è 200 a 5 (euro), o finanche le scarpe da ginnastica Tiger, rinomate per essere state indossate dall'attrice Uma Thurman e acquistabili a 5 euro sulle bancarelle napoletane. Ben oltre la metà del prezzo delle merci «vere» viene assorbito dai ricavi delle industrie e dalle catene di distribuzione e non certo equivale al costo del lavoro, delle materie prime, delle tasse. Allora ci domandiamo oltre a combattere la mafia internazionale della contraffazione per essere competitivi in Italia si potrebbe iniziare a ridurre il «costo» dei ricavi?

 

Nove sorelle per un cartello
Petrolio e benzina L'Antitrust apre un'indagine sull'Eni e altre otto «concorrenti»: hanno pilotato tra loro i prezzi dei carburanti in Italia
Manuela Cartosio
La notizia era nell'aria, ieri si è realizzata. Una settimana fa alla Camera il ministro dello sviluppo economico Bersani aveva invitato il presidente dell'Antitrust Antonio Catricalà a dare un'occhiata all'andamento dei prezzi dei carburanti nel periodo natalizio. Giovedì scorso l'Antitrust aveva sollecitato governo e parlamento a interrompere la pubblicazione dei «prezzi consigliati» dalle compagnie petrolifere e a rimuovere i vincoli che frenano la concorrenza nella distribuzione. Dunque, è un po' enfatico definire «a sorpresa» le ispezioni effettuate ieri mattina dall'Antitrust e dalla Guardia di Finanza nelle sedi di nove compagnie petrolifere: Eni, Esso, Shell, Q8, Tamoil, Total, Erg, Ip e Api. Su di loro il Garante ha aperto un'istruttoria per «cartello» sui prezzi.
L'ipotesi di reato è che le nove compagnie almeno dal 2004 (non solo da dicembre, quindi) abbiano concordato tra loro i prezzi «consigliati» ai distributori. I prezzi, di conseguenza, «hanno avuto un andamento parallelo, con variazioni contestuali di entità comparabile e di segno omogeneo». Fare «cartello», lo dice la parola stessa, viola la normativa a tutela della concorrenza. L'istruttoria dovrà essere chiusa entro il 31 marzo. Non di quest'anno, ma del 2008. L'Antitrust si prende un sacco di tempo per dimostrare una cosa che tutti, lei per prima, considerano pacifica. Non ci si sono formule dubitative, infatti, nella nota diffusa dall'Antitrust. Che afferma quanto segue. A partire dalla fine del 2004 i prezzi di benzina e gasolio sono stati pilotati in modo da rispondere all'evoluzone strutturale del settore (calo del consumo di benzina e aumento di quello del gasolio) trasferendo il maggior margine lordo (e il maggior stacco dalla media Ue) dalla benzina al gasolio. Il risultato è che prezzi e margini lordi dei carburanti in rete in Italia sono più elevati che all'estero. A «dettare» il prezzo in Italia è l'Eni che, proprio dalla fine del 2004, usa un nuovo metodo meno legato all'andamento della materia prima. Un metodo a cui le compagnie «concorrenti» si sono «prontamente adeguate». Lo scambio di informazioni tra le nove sorelle avviene attraverso «svariati canali», compresi il sito Internet del ministero dello sviluppo economico, la stampa e una rivista specializzata. «Le parti sono così in grado di conoscere tutte le componenti del prezzo consigliato, monitorando efficacemente il reciproco comportamento».
Dalle compagnie indagate nessuna reazione ufficiale. Ieri mattina, quando le ispezioni erano già in corso, Bersani le aveva stuzzicate. «Sulla benzina ci sono di mezzo tante altre cose, ad esempio i petrolieri», aveva detto il ministro a chi gli chiedeva un commento sulla serrata minacciata dai benzinai contro la liberalizzazione dei distributori nei supermarket. Una protesta «prematura», aveva ripetuto Bersani, consapevole che i benzinai, l'ultima ruota del carro rispetto ai petrolieri, minacciano la serrata per trattare con il governo.
Le associazioni dei consumatori battono le mani all'Antitrust. Il Codacons chiede che «eventuali anomalie» riscontrate nelle ispezioni siano «tempestivamente» segnalate alle procure della Repubblica. L'Adusbef confronta il prezzo del greggio (calato del 22% dall'inizio di dicembre al 19 gennaio) con quello della benzina in Italia (sceso solo dell'1,7%) e afferma: questo è aggiotaggio, un reato già segnalato in numerosi esposti.

 

24 gennaio

Contro la base e contro le menzogne

Da sei giorni un cittadino di Vicenza rifiuta di mangiare. Opponendo la sua lealtà alle bugie della politica

Giorgio Benedetti (foto di Luca Galassi)Quando sarà grande e glielo racconteranno, Bianca probabilmente non ci crederà. Non crederà che il padre Giorgio, a quasi 50 anni, dopo un'onesta e laboriosa vita da tecnico delle comunicazioni si sarebbe trovato in piazza a manifestare contro la base militare. Che, nottetempo, assieme a cinquemila persone avrebbe occupato la stazione. E soprattutto che, dopo il nefasto 'sì' del premier italiano Prodi agli americani, papà Giorgio avrebbe deciso, oltre che con la voce e con le braccia, di protestare anche con lo stomaco. Da sei giorni Giorgio Benedetti non mangia. Ha deciso di rinunciare a ingurgitare cibi solidi per rispondere, con l'unica arma che possiede, a una classe politica che l'ha "tradito, umiliato, ferito". L'unica arma di Giorgio è la lealtà. Ce lo ha detto quando lo abbiamo incontrato, il terzo giorno delle proteste, nel capannone dontato da Radio Sherwood, sede del presidio contro la base, tra le nebbie della campagna di Caldogno. Aveva un megafono in mano. Ed è proprio di lealtà che parlava.
 
Il presidio al Dal Molin (foto di Luca Galassi)Le bugie del governo. "Qualcuno potrebbe anche disapprovare la mia scelta - diceva -, ma per me è stato quasi naturale passare alla forma più estrema di protesta, lo sciopero della fame. Se dico che non sto mangiando potete scommettere che, anche se non mi vedete, io non toccherò un pezzo di pane. Chi mi conosce - dichiarava, mentre i suoi occhi cercavano quelli dei suoi amici e concittadini - sa che nella vita io sono stato sempre una persona leale, e solo con la lealtà si può rispondere alle bugie". Le bugie sono quelle della giunta Hullweck, del ministro Parisi, di Prodi, e di una classe politica che, a giudizio dei vicentini, ha nascosto alla città ciò che era già stato deciso da tempo: la costruzione di una nuova base militare all'ex-aeroporto Dal Molin.
 
I giorni della protesta (foto di Luca Galassi)Una questione di valori. "La mia decisione è stata improvvisa - racconta -, ed è scaturita dalla delusione. La sera del 16 gennaio, quando si è saputo delle intenzioni di questo governo, è stato come se avessi ricevuto un pugno in faccia. Ho avvertito un incredibile rifiuto per la politica. Come l'anoressico rifiuta il cibo, io ho rifiutato di colpo la politica. Ero in preda a una delusione violenta, e quando ho sentito Prodi al Tg3 mi sono detto: 'Ma come? Come è possibile che la menzogna sia stata così grande?'. Hanno mentito tutti, sapendo di mentire, oltre ogni immaginazione. Sapevo che la politica poteva bluffare, ma non fino a questo punto. Mio padre ha lasciato a me dei valori, io non potevo non lasciarne qualcuno a mia figlia".

Via della Pace (foto di Luca Galassi)"Rinuncerei anche al mio lavoro". Così, da sei giorni, Giorgio non tocca un pezzo di pane. Contattato telefonicamente nella tarda serata di ieri, di ritorno dalla manifestazione di Bologna, ci ha raccontato che, sotto consiglio dei medici che lo seguono, beve solo liquidi, integrati con sali minerali, vitamine, proteine. E che è sua intenzione continuare lo sciopero "fino a che riuscirò a resistere senza far del male a mia figlia. Devo pensare prima di tutto a lei, ovviamente". Giorgio non ha deciso solo di non mangiare più. Si è spinto oltre, promettendo che, se potesse servire a far chiudere la caserma Ederle, lui sarebbe disposto a lasciare anche il lavoro. "Lo dico senza nessun desiderio di protagonismo - ci ha spiegato -, ma se potesse servire io oggi stesso rinuncerei al mio lavoro, pur di non vedere una base militare nel bel mezzo di una città". Eppure, a dispetto della discrezione e del desiderio di stare al riparo dalla troppa luce dei riflettori che, oltre al presidio del Dal Molin, illuminano mediaticamente tutta la protesta vicentina, Giorgio ha già degli emuli. Sono i ragazzi della rete di Lilliput, scesi in campo accanto a lui per ricevere il testimone. Quando Giorgio smetterà, tornando a pranzare con la figlia Bianca, a rotazione cominceranno a digiunare i 'lillipuziani'. Allora, finalmente, anche Bianca, dall'innocenza dei suoi quattro anni, smetterà di chiedergli: "Papà, ma perché non mangi più?".

 
 
 
MARE|
La priorità è pompare il combustibile

Un anno per svuotare la Napoli

Santa's ship

Scongiurato il disastro ambientale. Ma il rischio durerà a lungo. Legambiente: «Chi inquina paghi» di E. GALGANI

Lotta contro l'ecodisastro
La richiesta di Pecoraro
GUARDIAN: l'ultimo viaggio

Ci vorrà probabilmente un anno intero per svuotare completamente la portacontainer Napoli che da sabato è arenata a poche centinaia di metri dalle spiagge inglesi del Devon e minaccia di capovolgersi o spezzarsi in due. Ha fatto oggi questa previsione Robin Middleton, coordinatore delle operazioni di soccorso. Middleton ha confermato che la priorità

Nave nella Manica
è adesso il pompaggio delle 3.500 tonnellate di combustibile stivate nella pancia della Napoli.

Lo svuotamento delle cisterne è essenziale per scongiurare una fuoriuscita dalle conseguenze disastrose per la costa e «ci richiederà una settimana di lavoro». In seguito bisognerà scaricare gli oltre duemila container a bordo della nave, andata in avaria giovedì scorso in seguito ad una violenta burrasca scatenata dall'uragano Kyrill: è quest'impresa che potrebbe richiedere moltissimi mesi. Nel corso di una conferenza-stampa Middleton ha precisato che finora risulta fuoriuscito dalla sala macchine della Napoli molto meno carburante di quanto è stato stimato ieri: non 200 ma 60 tonnellate di idrocarburi al massimo.


 

23 gennaio

L'inferno nell'inferno

di Fabrizio Gatti

Locali luridi. Fatiscenti. Una saletta per l'espianto di cornee. Nelle carte riservate, lo scandalo della camera mortuaria al Policlinico

Più o meno a metà sotterraneo, tra i laboratori di Fisica sanitaria e i congelatori del dipartimento di Malattie infettive. Un corridoio ricoperto di piastrelle beige arriva a una porta sempre aperta. Appena fuori, un cortile asfaltato e l'ombra di un'antica palazzina. Fino a quattro mesi fa questo era l'inferno nel Policlinico inferno dell'Umberto I a Roma. Qui si fermavano i pazienti morti durante il ricovero nel grande ospedale dell'Università La Sapienza. E da qui è partito l'allarme che ha convinto la direzione a far scortare i cadaveri da una guardia armata, per scongiurare il rischio che qualcuno rubasse loro gli occhi. Perché da anni, secondo documenti riservati che 'L'espresso' ha potuto consultare, il Policlinico non era in grado di controllare cosa avvenisse nella palazzina della camera mortuaria ora sigillata.

Al piano seminterrato, sotto le stanze per le autopsie e il deposito delle salme, accanto alle celle frigorifere, era stata ricavata anche "una piccola sala utilizzata, quando necessario, per il prelievo delle cornee". Come rivela una nota interna dell'11 settembre 2006. Nonostante le condizioni igieniche spaventose e pericolose per i destinatari del trapianto, confermate da una ispezione dei carabinieri dei Nas il 14 agosto 2006 e dal loro rapporto scritto tre giorni dopo. Per questo, il 18 settembre la camera mortuaria viene chiusa. Le aziende del consorzio Gefit che la gestivano vengono allontanate e il servizio trasferito all'Istituto di medicina legale in piazzale del Verano.

La cronistoria è spiegata in un memorandum conservato dall'amministrazione del Policlinico Umberto I. In testa, sottolineato, l'avvertimento: confidenziale. Il primo giorno indicato è il 24 ottobre 2005: "Direzione sanitaria scrive al consorzio Gefit in relazione a uso della divisa, cartellino di riconoscimento, ingresso ai locali consentito solo al personale addetto, esposizione di un cartello sulla libera scelta dell'agenzia funebre (da questo momento direzione sanitaria intensifica i controlli presso la camera mortuaria)". C'è il sospetto di un viavai incontrollato di persone estranee all'ospedale sui tre piani della palazzina, tanto da scatenare l'intervento del direttore sanitario, Maurizio Dal Maso: "Si ricorda che è assolutamente indispensabile che il vostro personale indossi la divisa prevista e che sia munito del relativo cartellino di riconoscimento...", è scritto nella lettera del Policlinico alla Gefit: "Si rammenta altresì che... nei locali della camera mortuaria possono sostare solo gli addetti necessari al ritiro della salma". Il 18 aprile 2006 ecco i primi turni di vigilanza ai cadaveri: "Attivazione servizio Security service alla sbarra della ex camera mortuaria". Il 15 giugno il direttore generale, Ubaldo Montaguti, "relaziona al presidente del collegio dei sindaci sulle problematiche connesse con la camera mortuaria (consorzio Gefit)". Il 10 luglio la direzione sanitaria scrive nuovamente al personale della camera mortuaria "richiamando il rispetto delle normative vigenti in materia... con particolare riguardo a professionalità tecnica e comportamentale".

In agosto le indagini entrano nella fase più delicata. Alla vigilia di Ferragosto, una domenica, mentre negli ospedali di tutta Italia migliaia di malati protestano per la riduzione dell'assistenza, i carabinieri dei Nas vanno al Policlinico Umberto I a controllare come vengono trattati i morti. E si accorgono subito che non è un'ispezione a vuoto: "Anomalie riscontrate: l'intera struttura si presenta fatiscente sia architettonicamente che igienicamente", scrive il comandante, capitano Marco Datti, "risultano carenti anche le opere di pulizia, infatti nella sala settoria è stata riscontrata la presenza di un tavolo autoptico e delle attrezzature utilizzate per tali operazioni, incrostato di materiale ematico. Lo spogliatoio del personale risulta del tutto inadeguato, nonché in completo disordine. Accanto allo spogliatoio del personale è presente inoltre un locale completamente invaso da materiale di risulta accatastato alla rinfusa. Quanto sopra si comunica agli enti in indirizzo, ognuno per i conseguenti provvedimenti...". Il comandante dei Nas avverte di avere informato anche l'autorità giudiziaria. Cioè la Procura. Il blitz dei carabinieri è riassunto così nel memorandum del Policlinico: "14.08.06 ispezione dei Nas presso la camera mortuaria e comunicazione informale alla direzione sanitaria".

Due giorni dopo, il 16 agosto, secondo il documento conservato dall'amministrazione, il vertice del Policlinico universitario viene informato verbalmente del rischio che qualcuno possa approfittare della situazione di caos per prelevare illegalmente cornee: "16.08.06. Comunicazione informale alla direzione sanitaria del possibile problema delle cornee". Durante l'intervista a 'L'espresso', tuttora in versione audio sul sito www.espressonline.it, alla domanda se l'informazione fosse arrivata dalla Procura, il direttore generale risponde di sì. Per poi precisare nella conferenza stampa di venerdì 12 gennaio che il rischio è stato segnalato all'ospedale dai Nas dei carabinieri.

Il memorandum aggiunge altri giorni: "17.08.06. Data verbale Nas in seguito all'ispezione effettuata presso la camera mortuaria e la sala settoria". Il 4 settembre la "direzione sanitaria scrive alla Asl comunicando di aver avviato le procedure per il trasferimento delle attività presso il dipartimento di Medicina legale a far data dal 18.09.06". Lo stesso giorno la direzione sanitaria convoca la riunione per "la riorganizzazione dei servizi di sala settoria". Le indagini dei carabinieri però non si fermano. Lo confermano due fatti del 17 settembre. Il primo: "Richiesta informale da parte dei Nas di cartelle cliniche dei pazienti deceduti dal 1.01.06 al 15.08.06". Il secondo: "Direzione sanitaria richiede formalmente ai reparti interessati le cartelle cliniche". Tra gli altri interventi, il 12 settembre viene chiesto al servizio di vigilanza dell'ospedale la scorta ai cadaveri durante il trasferimento dal reparto alla camera mortuaria del Policlinico e, dopo la sua chiusura, fino all'Istituto di medicina legale: "Assegnazione alla Security service dei compiti di ricezione degli avvenuti decessi, attivazione ed assistenza alle procedure di trasporto delle salme". Il 14 settembre il direttore sanitario spiega le nuove procedure con una lettera a tutti i direttori di reparto: "Constatato il decesso di un paziente, la struttura interessata dovrà darne comunicazione al numero telefonico interno aziendale 70... (sala operativa servizio interno di vigilanza)". Al secondo punto: "Il servizio di vigilanza provvederà ad attivare la squadra di emergenza della direzione sanitaria per la successiva traslazione della salma". Terzo: "Identica procedura dovrà essere seguita per l'allontanamento dalle strutture di feti, placente e pezzi anatomici". Il rischio di gravi irregolarità evidentemente non riguarda soltanto il "possibile problema delle cornee".

Da qualche giorno un'indagine interna riservata ha confermato che, nonostante le sconvolgenti condizioni igieniche, una stanza della camera mortuaria è stata attrezzata per il prelievo di tessuti. Lo scrive nell'allegato 1 la dottoressa Rossella Moscatelli in una relazione ai direttori generale, sanitario e amministrativo. Il rapporto è dell'11 settembre 2006, quasi un mese dopo l'ispezione dei Nas. E descrive le attività nella palazzina degli orrori: "Attività di sala settoria al primo piano della camera mortuaria", "sale deposito salme situato al piano terra", "attività di camera mortuaria al piano seminterrato". Su quest'ultima struttura, la dottoressa Moscatelli scrive: "È costituita da due grosse sale refrigerate con divisioni in muratura, dove sono inseriti 4 sportelloni a tenuta... Contigua a tali locali, si trova una piccola sala utilizzata, quando necessario, per il prelievo delle cornee (nei casi autorizzati)".

Dal 18 settembre la camera mortuaria dell'Umberto I viene sigillata e il trasporto delle salme affidato alla cooperativa Operatori sanitari associati, già presente in ospedale. Il passaggio di mansioni è previsto nel memorandum il 12 settembre: "Direzione sanitaria richiede all'Osa numero 7 unità di personale ausiliario da affiancare al personale della squadra di emergenza (nota di conferma della coop Osa del 18.09.06)". Per ogni ora di lavoro dei sette dipendenti la cooperativa chiede al Policlinico 13,76 euro più Iva. Soldi che vanno solo in parte al personale. Il consorzio Gefit, composto da sei imprese di pompe funebri, esce così dal Policlinico della Sapienza. Dal 12 giugno 2002 al 18 settembre 2006 ha gestito la camera mortuaria in comodato gratuito. Senza versare affitti, né ricevere compensi. Per pagare gli stipendi ai sei assunti, ai tre aiutanti e le tasse comunali sulle sepolture bastavano e probabilmente avanzavano gli incassi ufficiali dei funerali sui 1.200 morti all'anno dell'ospedale più grande d'Italia. In cambio il consorzio avrebbe dovuto ristrutturare la palazzina degli orrori. Il contratto del 2002, firmato dal direttore generale Tommaso Longhi, viene rinnovato e prolungato nel 2003 a due anni dal commissario straordinario Dino Cosi. Ma i lavori di ristrutturazione non vengono mai eseguiti. Le aziende del consorzio devono avere qualche santo nel paradiso universitario e amministrativo del Policlinico. Perché nessuno riesce a far rispettare gli obblighi dell'accordo. Fino all'ispezione dei Nas, che chiude definitivamente la porta su questo inferno nell'inferno.

 

La mafia dei baroni

di Davide Carlucci, Gianluca Di Feo e Giuliano Foschini

Metodi da Cosa Nostra. Per gestire il potere negli atenei. Bari, Bologna, Firenze: tre inchieste sui concorsi. Già decisi prima del bando. A favore di parenti e allievi. Ecco i risultati choc delle inchieste delle procure sui professori

Mafia. Il guaio è che non sono solo i magistrati a usare questo termine. Adesso anche i docenti più disillusi citano il modello di Cosa nostra come unico riferimento per descrivere la gestione dei concorsi nelle università italiane. Proprio nei luoghi dove si dovrebbe costruire il futuro, prospera una figura medievale capace di resistere a ogni riforma: il barone. Un tempo i suoi feudi erano piccoli, poteva controllare direttamente vassalli e valvassori, mentre doveva piegarsi davanti a un solo re, lo Stato. Ora invece il numero dei docenti e degli atenei è esploso. C'è da corteggiare aziende e fondazioni, mentre spesso bisogna anche fare i conti con le Regioni. Così l'ultima generazione di baroni per mantenere intatto il potere ha rinunciato a ogni parvenza di nobiltà accademica e si è organizzata secondo gli schemi dell'onorata società. Questo raccontano gli investigatori di tre procure che hanno radiografato l'assegnazione di decine e decine di poltrone negli atenei di tutta Italia, dalle Alpi alla Sicilia. Un terremoto con epicentro a Bari, Firenze e Bologna che vede indagati un centinaio di professori. E che ha messo alla luce gli stessi giochi di potere in tutti gli atenei scandagliati. Scrive il giudice Giuseppe De Benectis: "I concorsi universitari erano dunque celebrati, discussi e decisi molto prima di quanto la loro effettuazione facesse pensare, a cura di commissari che sembravano simili a pochi 'associati' a una 'cosca' di sapore mafioso". Rincarano la dose i professori Mariano Giaquinta e Angelo Guerraggio: "'Sistema mafioso' vuole dire 'cupole di gestione' delle carriere e degli affari universitari, spesso camuffate come gruppi democratici di rappresentanza o gruppi di ricerca".

Se i giovani più promettenti emigrano non è solo questione di risorse; se la ricerca langue e i policlinici sono sotto accusa, la colpa è anche del 'sistema'. Che fa persino rimpiangere il passato: "Una volta si parlava di 'baroni'. Adesso i numeri (anche dei docenti) sono cresciuti. Al posto del singolo barone ci sono i clan e i loro leader, che non necessariamente sono i migliori dal punto di vista della ricerca...", scrivono sempre Giaquinta e Guerraggio, docenti di matematica che hanno appena pubblicato un saggio coraggioso intitolato 'Ipotesi per l'università'. E continuano: "La situazione non sembra migliorata: baroni per baroni, sistema mafioso per sistema mafioso, forse i vecchi 'mandarini' sapevano maggiormente conciliare il loro interesse con quello generale. La difesa delle posizioni conquistate dal 'gruppo' riusciva, in parte, a diventare anche fattore di progresso. Sicuramente più di quanto accada adesso".

Cattedre immortali

Come nelle cronache del basso impero, i nuovi baroni non si limitano a spadroneggiare nei loro castelli, ma creano alleanze con altri signorotti, in modo da proteggersi l'un l'altro e dilagare nell'immunità. Eppure ci sono state prese di posizione dirompenti, come quella di Gino Giugni, che nell'estate del 2005 denunciò in una lettera aperta ai professori di diritto del lavoro "la gestione combinata nella selezione dei giovani studiosi". Il padre dello Statuto dei lavoratori chiedeva che "tutti i colleghi di buona volontà" unissero il loro impegno "per riportare serenità, trasparenza, e ancor più equità nelle scelte accademiche". Raccolse un plauso tanto ampio quanto generico. Insomma, nessuno ebbe il coraggio di fare un nome o denunciare un concorso specifico. Oggi Giugni spiega a 'L'espresso' di non essere pentito di quella sortita. Da vecchio socialista si sforza di mantenere un ottimismo di principio, ma ammette: "Da quello che mi raccontano, temo che non sia cambiato proprio nulla". La razza barona infatti gode di un privilegio tra i privilegi: quello dell'immortalità accademica. Gli effetti concreti dell'intervento della magistratura sono limitati. Se non totalmente inutili: le sentenze non riescono a scalfire le poltrone. Ai tempi biblici della giustizia penale si sommano le controversie civili e amministrative, con ragnatele di ricorsi incrociati. Alla fine, persino il baronetto riesce quasi sempre a conservare il feudo ereditato dal padre in violazione d'ogni legge. Il caso più assurdo è quello del concorso di otorinolaringoiatria bandito nel 1988: ci sono state dieci sentenze, confermate pure dalla Suprema corte, centinaia di articoli di giornali, almeno quattro libri e una decina di interrogazioni parlamentari. Il professor Motta senior è stato condannato, eppure il professor Motta junior continua a detenere legalmente quel posto da 18 anni. Se l'immortalità è garantita anche nell'immoralità in caso di giudizi definitivi, facile immaginare il colpo di spugna che calerà con l'indulto sugli ultimi scandali universitari. Tutte le accuse di abuso in atti d'ufficio, il reato classico delle selezioni addomesticate, verranno spazzate via: resteranno solo le più gravi, quelle per le quali viene contestata anche l'associazione per delinquere, la corruzione o la concussione.

Il burattinaio e il santino

L'indulto potrebbe anche sbiancare l'inchiesta partita dall'università più antica, quella che ha preso di mira l'eccellenza dell'eccellenza: i vertici di medicina interna e gastroenterologia del Sant'Orsola di Bologna, che hanno partecipato alle ricerche dei vincitori dell'ultimo Nobel. Partendo da una storiaccia di viaggi premio e di presunte mazzette elargite da una casa farmaceutica, le Fiamme Gialle si sono imbattute nelle manovre per manipolare tutti i concorsi italiani del settore. Le intercettazioni disposte dal pm Enrico Cieri per un anno sono riuscite a cogliere in diretta la genesi delle gare, pilotate passo passo per garantire la vittoria dei prescelti. Prima si decideva la composizione delle giurie, poi ai commissari veniva inviato il 'santino' ossia il curriculum del predestinato.

A questo punto, il bando veniva disegnato su misura. Mister X aveva una specializzazione in microbiologia? Diventava requisito fondamentale. Eventuali sfidanti non graditi si facevano da parte, quasi sempre con le buone concordando una futura designazione. In caso di contrasti, interveniva il 'burattinaio': così veniva chiamato dagli intercettati Ettore Bartoli, 70 anni, cattedra a Novara ma potenti agganci nella capitale. Di lui i professori Corinaldesi e Vaira dicono che "è quello che ha sulle spalle tutta Italia", che "è molto ingranato a Roma", che "è come le vacche sacre", che "si fotte l'Italia". Gli inquirenti hanno incriminato 12 concorsi di medicina interna svolti a Bologna, Verona, Brescia. Ma ci sono cataste di indizi che riguardano altre regioni e che potrebbero dare vita ad altre inchieste. Nessun favore ai parenti: in questo circuito i candidati da promuovere hanno curriculum di rispetto. No, al Sant'Orsola la logica è diversa: si tratta di potenziare la squadra. Perché per una cattedra, come dichiara la preside Maria Paola Landini in un'intercettazione, "serve mezzo milione di euro" e non si può correre il rischio che finisca alla persona sbagliata. Aggiunge uno degli inquirenti: "Abbiamo ascoltato uno dei prof che motiva la necessità di imporre i suoi uomini per creare una 'squadra d'attacco' e ottenere così più fondi, pubblici e privati".

Insomma, un modello all'americana. Come ha spiegato la Landini, che ha rinunciato alle dimissioni dopo la solidarietà di tutti i professori: "C'è la convinzione diffusa che il concorso universitario corrisponda a una procedura di valutazione comparativa. Ma quello è solo uno dei criteri. Conta in ogni disciplina la valutazione dei docenti su quelli che a livello nazionale sono i giovani migliori". La preside davanti ai pm ha respinto le accuse e parlato di "coptazione concertata". Che per gli inquirenti si traduce comunque in una violazione della legge penale. Peccati veniali che possono venire risolti dal codice etico che Bologna (vedi scheda) ha appena introdotto? Il procuratore capo Enrico De Nicola non è d'accordo. Senza entrare nel merito delle indagini, si ancora ai principi di uguaglianza sanciti dalla Costituzione e dichiara a 'L'espresso': "Non credo nel ricorso ai codici etici senza sanzioni. Credo nella cultura delle istituzioni : qui si tratta di applicare la legge che parla di eguaglianza nella valutazione dei rapporti. Sono principi che non possono venire sostituiti dalla cultura individualistica e corporativistica". De Nicola, elogiando la qualità dell'università bolognese, ritiene che anche le deviazioni più piccole vadano perseguite: "Altrimenti si corre il rischio di arrivare a una degenerazione persino nei posti migliori, di trovarci con un ordinamento minato dal cancro dell'illegalità diffusa, che in quanto tale non si manifesta e diventa più pericolosa". Adesso l'istruttoria è praticamente chiusa: gli investigatori della Finanza stanno completando gli ultimi interrogatori, poi la Procura presenterà le richieste di giudizio. Gli indagati sono 70, inclusi luminari di livello internazionale: sono accusati di abuso in atti d'ufficio e falso ideologico. Nel loro rapporto le Fiamme Gialle ritengono che una decina di professori, i 'burattinai' che tiravano le fila delle commissioni, abbia formato una vera 'cupola' e ipotizzano per loro il reato di associazione per delinquere: una posizione che dovrà poi essere valutata dal pm. Intanto tutti gli indagati, a partire da Bartoli, hanno respinto le contestazioni.

La cupola e Big Pharma

Negli atti della Procura emiliana comincia a delinearsi un interesse delle grandi aziende a condizionare le cattedre. I fondi stanziati per la ricerca non possono essere usati per creare nuovi posti da ordinario, ma servono per quelli da ricercatore. E in questo modo pesano sugli organigrammi. L'industria ha bisogno di individuare gli 'opinion leader', i professori con maggiori potenzialità a cui affidare la sperimentazione e la pubblicizzazione dei prodotti: per questo il marchio di atenei d'eccellenza era fondamentale. Ma il futuro della spartizione rischia di essere sempre più condizionato dalle strategie di Big Pharma. Nell'inchiesta più sconvolgente, quella della Procura di Bari sulla 'cupola di cardiologia', emergono numerosi indizi dell'influenza dei capitali aziendali nel mercato delle nomine. Al telefono gli indagati parlano addirittura di pagamenti di un grande imprenditore per far promuovere il suo medico di fiducia. Ci sono poi le sponsorizzazioni alle associazione specialistiche, viste spesso dagli inquirenti come alter-ego della 'cupola'. Discutendo della disputa per alcuni uffici chiave, il primario pisano Mario Mariani annuncia al telefono che "la Società italiana di cardiologia ha creato la Fondazione... che è la più importante d'Italia perché raccoglie tutti i fondi. E m'ha designato presidente. Allora: Collegio presidente so' io, la Fondazione il presidente so' io. Ecco io lo stermino in tre minuti, perché in Italia non si muove foglia di cardiologia che io non voglia". Mariani, arrestato nel 2004, viene indicato dal gip come il dominus delle gare di cardiologia. Per inciso: la Fondazione in questione venne creata nel 2003 per volontà, tra gli altri, di Calisto Tanzi ed Emilio Gnutti.

Affari di cuore

Le intercettazioni sulla 'cupola di cardiologia' ricostruiscono un feuilleton spietato, in cui si ricorre a qualunque trucco per insediare parenti e accoliti. Nel mirino alcuni maestri della disciplina, registrati mentre pilotano cattedre e borse di studio da Brescia a Palermo. Il protagonista principale dei nastri è Paolo Rizzon, trevigiano diventato primario a Bari. Il mandato di cattura lo ritrae come un personaggio da commedia all'italiana. Viene ascoltato mentre trama per ottenere una composizione favorevole della commissione che dovrà valutare suo figlio. Poi concorda anche il tema dell'esame e lo segnala prontamente al rampollo. E quando scopre che l'erede non riesce a reperire nemmeno la documentazione indicata ("Ho guardato su Internet, non c'è niente"), si muove persino per procurargli il testo. E pensare che nello stesso periodo in un'intervista a 'Repubblica' il barone respingeva le critiche di nepotismo: ""Chi si lamenta spesso è poco bravo". La Rizzon story mostra risvolti boccacceschi, con triangoli sessuali e scambi di amanti e una terribile componente di vera mafia. Secondo gli atti, a un candidato 'da eliminare' che vuole presentare un ricorso, viene trasmesso questo messaggio: "Il professore ha fatto avere il tuo indirizzo a due mafiosi per farti dare una sonora bastonata". Un modo di dire? Non proprio. I due bravi di ispirazione manzoniana hanno nome, cognome e curriculum criminale pesante. Con loro il professore conduce numerosi affari, inclusi 'commerci di reperti archeologici'. Degno di nota, il dialogo tra l'illustre cardiologo e uno di questi figuri - da lui definito 'boss dei boss' - a cui chiede di recuperare l'auto rubata nel cortile della facoltà. Salvo scoprire il giorno dopo che l'utilitaria non era stata portata via: il docente si era semplicemente dimenticato di averla posteggiata altrove.

Bari offerta family

È come essere a un matrimonio, a una festa di famiglia: c'è il padre che ha appena messo a contratto la figlia, nella facoltà di cui è preside, senza alcun concorso (Vito e Giulio Maria Gallotta). C'è il vecchio professore di medicina (Riccardo Giorgino) che sta giudicando il cognato (Sebastio Perrini) di suo figlio Francesco. A uno stesso tavolo potrebbero sedersi otto invitati della stessa famiglia (Antonella, Fabrizio, Francesco Saverio, Giansiro, Gilberto, Lanfranco, Manuela e Stefania: tutti Massari), stesso cognome, stesso mestiere: professore universitario, facoltà di Economia. Il grande ricevimento si tiene all'Università di Bari, il luogo italiano per eccellenza dove il mondo accademico e gli affetti familiari tendono a fondersi. Nulla che sia stato dichiarato illegale. La Procura, però, vuol capire sin dove si sono spinti i sentimenti. E in un anno e mezzo ha aperto 18 inchieste. Gli otto Massari rappresentano per Bari (e probabilmente per l'Italia) un record assoluto. Seguono a ruota a quota sei i Dell'Atti e i Girone, capitanati dall'ex rettore Giovanni. Il proliferare di figli e dunque di cattedre ha provocato non pochi problemi alle casse dell'ateneo: stretta la cinghia, lo scorso anno non è stato bandito nemmeno un concorso da professore. Nel 2005 furono più di cento. E la parentopoli barese alimenta feroci sarcasmi. A Medicina, è scritto in alcune delle denunce anonime che riempiono le scrivanie della Procura, è scoppiato il 'caso Ottanta': è la somma di Antonio e Nicola Quaranta, padre e figlio. Il primo, eletto preside, ha lasciato due mesi fa al secondo (34 anni appena) la direzione della scuola di specializzazione. Era l'unico candidato. Tradizione questa assai diffusa: solo alla meta anche Pierluigi Passaro, fresco di nomina a ricercatore in gestione delle imprese. Il concorso era stato bandito dalla facoltà nella quale insegna suo padre, Marcello.

Prova statistica

Di nuclei familiari pullulano anche gli atenei siciliani, ma parentopoli non è solo una questione meridionale. Un professore di economia agraria, emigrato in California dopo avere tentato invano di vincere una cattedra in patria, si è tolto il gusto di una vendetta da Edmond Dantès. Usando la scienza: Quintino Paris con una lunga analisi statistica ha dimostrato come le nomine dei commissari fossero anomale. Il suo esposto è diventato la mappa con cui gli investigatori di Firenze si sono mossi negli atenei. Trovare la rotta è facile: basta seguire i cognomi. Così Nicola Marinelli, figlio del rettore, vince il concorso per un posto da esperto di economia agraria nella facoltà di medicina. Economia agraria a medicina? Che c'azzecca? Per il preside Gianfranco Sensini "è una scelta dettata da necessità di interdisciplinarietà". E quando Sensini è stato poi accusato dai pm di Bari per un altro concorso, il rettore-padre gli ha rinnovato "piena stima". Quanto all'indagine penale, il preside ha detto di essere tranquillo: "Mi metto a disposizione della magistratura". E l'inchiesta sulla 'cupola di economia agraria'? Di stirpe in stirpe, si è imbattuta in Mario Prestamburgo, ex sottosegretario del governo Dini: lui è ordinario a Trieste, la figlia non lontano. Le Fiamme Gialle hanno sostenuto che si muovesse assieme a una vera e propria corte, con due vassalli più fidati e altri tre collaboratori: insomma, un vero barone. Una ricostruzione negata dall'ex parlamentare, che ha querelato gli accusatori.

Il magnifico dei magnifici

La Toscana è terra di proteste dure. E di tradizioni familiari. Martedì 16 con un gesto clamoroso il rettore Marinelli ha annullato l'inaugurazione dell'anno accademico contro i tagli del governo. Ai tempi della Moratti a guidare la rivolta c'era il suo collega di Siena. Anche lui con un figliolo in ateneo. Una vicenda che Piero Tosi, presidente dei rettori italiani, ha pagato a caro prezzo: un anno fa il gip lo ha sospeso dall'incarico. Scrive il giudice Francesco Bagnai: "Mentre Tosi doveva decidere se rispettare una legge dello Stato oppure violarla e contribuire così con un atto illegittimo a nominare il professor Caporossi a un importante incarico, quest'ultimo intanto si adoperava affinché il figlio del rettore salisse in cattedra". E quando la grana rischia di scoppiare, si muove pure il direttore amministrativo dell'ateneo senese, "non tanto per convincere l'altro candidato a non presentarsi al concorso a cui partecipava Gian Marco Tosi, quanto piùttosto per spingerlo a non presentare denunce". Ovviamente, oltre alle cattedre anche i panni sporchi devono restare in famiglia. E i meriti? Sono un'opinione. Che può venire travolta dal volere della 'cupola' anche nelle gare per i centri d'eccellenza, come quella del Sant'Anna di Pisa. Commentava il solito primario Rizzon: "Qua è dura l'aria, perché noi stiamo bocciando il candidato loro che è il meglio...". Lo stesso docente che magnificava la sua capacità di selezione mirata: "Fare giudizi in modo tale da fregarne tutti tranne uno o due non è facile. Io però ne sto uscendo fuori con una bella lingua italiana. Mi sto divertendo...".

 

Moby Prince a Castelvolturno

La denuncia di Legambiente Campania: il traghetto che nel '91 si scontrò con una petroliera smaltito illegalmente nel casertano. L'associazione: «La discarica? Una bomba ecologica»

Anche la Moby Prince negli intrecci dell’ecomafia. La denuncia è di Legambiente Campania. «I rottami ferrosi e materiale legnosi del traghetto - denuncia Legambiente - ci risultano essere stati smaltiti illegalmente, caricati su furgoni e scaricati di notte, nella discarica So.ge.ri di Castelvolturno, adiacente alla famosa discarica Bortolotto, già nota alle cronache per essere stata gestita per anni dai Casalesi».

Il famoso traghetto, nella sera del 10 aprile 1991 in servizio di linea tra Livorno e Olbia, si scontrò con la petroliera Agip Abruzzo e determinò la morte di 140 persone. Un destino terribile che ora sembra intrecciare la camorra del casertano.

«La So.ge.ri, dove i resti del traghetto sono stati smaltiti – dichiara l’associazione - è una vera e propria bomba ecologica, dove per decenni si è sversato di tutto e che tra breve dovrebbe essere bonificata»

L’associzione attende comunque la conferma degli enti preposti.

«E proprio vero che quando si tratta di smaltimento illegale, gli ecomafiosi non conoscono limiti - dichiara Michele Buonuomo, presidente Legambiente Campania- ed ancora una volta, ma questo non ci meraviglia, la Campania e la provincia di Caserta si confermano sempre più crocevia dei traffici illegali legati alla Rifiuti Spa».

 

Cessate il fuoco

Turchia. Dall'inizio del 2007 la guerra ha ucciso 5 persone.
Il 14 gennaio, un guerrigliero curdo è stato ucciso in scontri con le forze di sicurezza turche nella provincia di Bingol, nell'est del Paese.
Il 16, 3 ribelli curdi e 1 soldato turco sono morti in scontri vicino a Diyarbakir, nel sud-est della Turchia.

Colombia. Dall'inizio del 2007 la guerra ha ucciso 4 persone.
L'11, 3 guerriglieri delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc) sono morti, durante uno scontro con l'Esercito nella regione petrolifera dell'Arauca, al confine con il Venezuela, in una zona agricola a 500 chilometri da Bogotà, e un altro è stato ucciso nel Casanare, nel nord est del paese. Lo riferiscono fonti militari.

Somalia. Dall’inizio del 2007, la guerra ha ucciso almeno 91 persone.
Il 12, 6 persone sono morte in scontri tra miliziani e poliziotti a Mogadiscio.
Il 14 gennaio, almeno 13 persone sono morte in scontri tra due milizie rivali a Goobo, nella Somalia centrale.
Il 15, almeno 2 persone sono morte in scontri tra esercito e ribelli a Mogadiscio
Il 17 gennaio, 8 presunti militanti islamici sono stati uccisi da un raid aereo Usa vicino a Warsow, nel sud del Paese.

Kenya. Dall'inizo del 2007, la guerra ha ucciso 6 persone.
Il 16 gennaio, 6 persone sono morte in un raid di razziatori sudanesi di bestiame nel nord-ovest del Kenya.

Nigeria. Dall'inizo del 2007, la guerra ha ucciso 18 persone.
Il 16, 14 persone sono state uccise in un attacco contro una barca passeggeri in un canale del Delta del Niger, nel sud del Paese.
Il 17, 4 lavoratori petroliferi sono stati uccisi in un attacco a una nave nel Delta del Niger.

Uganda. Dall'inizo del 2007, la guerra ha ucciso 3 persone.
Il 14 gennaio, 3 persone sono morte in scontri nel distretto di Kasese.

Israele e Palestina. Dall'inizio del 2007, la guerra ha causato 15 morti.
Il 15, 2 militanti palestinesi sono stati uccisi dall'esercito israeliano, nel settore nord della Striscia di Gaza, vicino al confine con Israele.

Filippine. Dall'inizio del 2007 la guerra ha causato 30 morti.
Il 16 gennaio nell’isola di Jolo l’esercito ha ucciso in combattimento Abu Sulaiman, uno dei leader storici del gruppo Amu Sayyaf.
Il 17 nella stessa zona altri 10 guerriglieri islamici sono stati uccisi in una battaglia. Morti anche 3 soldati filippini.

Thailandia. Dall'inizio del 2007 la guerra ha causato 12 morti.
Il 13 gennaio nella provincia di Yala un poliziotto è stato ucciso dai militanti separatisti islamici.
Il 14 nella provincia di Pattani un soldato e un amministratore locale sono stati uccisi dai ribelli islamici. Altri 3 civili sono stati uccisi nella provincia di Yala.
Il 17 nella provincia di Songkhla 2 civili sono stati uccisi dai militanti. Un altro civile ucciso nella provincia di Yala.

Stati nord-orientali dell’India. Dall'inizio del 2007 la guerra ha causato 105 morti.
L’11 gennaio nello stato del Manipur i ribelli del Prepak hanno ucciso un civile.
Il 12 nello stato di Assam 4 guerriglieri dell’Ulfa sono stati uccisi dall’esercito.
Il 13 nello stato del Nagaland 2 civili sono stati uccisi dai ribelli dell’Nscn-Im
Il 17 nel distretto di Tinsukia 2 guerriglieri dell’Ulfa sono morti in uno scontro a fuoco con l’esercito. Nel distretto di Guwahati 2 civili sono morti nell’esplosione di una bomba in un mercato.

Stati centrali dell’India. Dall'inizio del 2007 la guerra ha causato 15 morti.
Il 12 gennaio nello stato dell’Andra Pradesh 2 guerriglieri maoisti Naxaliti sono morti in uno scontro a fuoco con la polizia.
Il 17 nello stato di Chattisgarh 7 poliziotti sono morti in un agguato dei guerriglieri maoisti Naxaliti.

Kashmir indiano. Dall'inizio del 2007 la guerra ha causato 28 morti.
Il 13 gennaio a nord di Srinagar un civile e 2 ribelli kashmiri sono stati uccisi dai militari indiani.
Il 17 nel distretto di Anantnag 4 guerriglieri sono stati uccisi in uno scontro a fuoco con l’esercito.

Sri Lanka. Dall'inizio del 2007 la guerra ha causato 123 morti.
Il 13 gennaio nella zona di Jaffna l’esercito ha ucciso un prete cristiano tamil.
Il 16 nella zona di Vavnuiya 6 civili tamil sono stati uccisi dai militari dopo che 5 soldati erano morti per l’esplosione di una mina. Lo stesso giorno nella zona di Batticaloa una violenta battaglia, accompagnata da pesanti bombardamenti aerei governativi, ha causato decine di morti: 30 ribelli e 11 soldati secondo l’esercito.
Il 17 nella zona di Jaffna un soldato è stato ucciso dai ribelli dell’Ltte. Un altro civile è stato ucciso nei pressi di Vavnuiya.

Cecenia e Daghestan (Russia). Dall'inizio del 2007 la guerra ha causato 23 morti.
L’11 gennaio in Daghestan 3 guerriglieri islamici sono stati uccisi in un’operazione di polizia.
Il 12 alla periferia di Grozny è stato rinvenuto il cadavere di un civile rapito alcuni giorni prima.
Il 13 in Daghestan i ribelli hanno ucciso un alto ufficiale di polizia.
Il 14 sempre in Daghestan un poliziotto è stato ucciso in un agguato.
Nella campagna fuori Grozny è stato rinvenuto il cadavere di un civile arrestato il giorno precedente dalle forze di sicurezza.
Il 16 in Daghestan un guerrigliero è stato ucciso in uno scontro a fuoco con la polizia.

 

Stati Uniti: presidente sotto assedio

Sempre più persone negli Usa criticano Bush e l'aumento delle truppe in Iraq

Il “presidente di guerra” è sotto assedio sul fronte interno. Dopo aver annunciato alla nazione un aumento di 21.500 soldati in Iraq nei prossimi mesi, nel tentativo di pacificare Baghdad e le regioni più turbolente, su George W. Bush piovono critiche da più parti. Il 60 per cento dei cittadini Usa è contrario alla sua decisione, e anche tra i militari il consenso verso questo conflitto è precipitato: ormai solo il 41 percento dei soldati crede che l’invasione dell’Iraq sia stata una buona idea. Un gruppo di generali in pensione ha bocciato l’escalation militare davanti alla Commissione Esteri del Senato. E tre senatori hanno presentato una risoluzione per affermare che la proposta di Bush va contro gli interessi nazionali degli Stati Uniti. Intanto, i gruppi pacifisti stanno preparando una grande manifestazione di protesta a Washington per sabato 27 gennaio.

Le statistiche. I sondaggi condannano la scelta di Bush, bocciato ormai dall’opinione pubblica su tutta la linea. Solo un terzo approva la gestione del conflitto da parte dell’amministrazione Bush. Metà degli intervistati è convinta che il presidente abbia mentito di proposito per giustificare l’invasione. Per tre americani su cinque (soprattutto, anche per un repubblicano su quattro), questa guerra non doveva essere combattuta. Due terzi degli statunitensi vogliono che il ritiro delle truppe inizi entro il 2008, uno cinque preferirebbe che venisse fatto subito. Per quanto riguarda l’aumento delle truppe, metà degli interpellati vorrebbe che il Congresso bloccasse l’escalation, negando il finanziamento alla missione o con altre misure volte a contrastare la decisione di Bush.

La battaglia al Congresso. Nonostante il recente cambio di colore di Capitol Hill, dove ora entrambe le camere sono controllate dai democratici, una battaglia al Congresso per rovesciare la decisione di Bush viene però considerata improbabile dagli analisti. La definizione della politica estera, in fondo, spetta al presidente: il Congresso può concedere o meno i finanziamenti richiesti ma, nonostante i democratici siano ormai compatti nel volere un ritiro in tempi brevi, opporsi in un muro contro muro potrebbe essere controproducente. E in fondo, ai democratici non dispiacerebbe arrivare alle elezioni presidenziali del 2008 con l’Iraq ancora palla al piede dei repubblicani. Tuttavia, il malcontento della nuova maggioranza al Congresso è emerso mercoledì 17 gennaio, quando tre senatori (tra cui un repubblicano) hanno presentato una risoluzione per esprimere la loro contrarietà all’aumento temporaneo delle truppe. La misura, che verrà votata la settimana prossima dal Senato, anche in caso di approvazione avrebbe solo un valore simbolico. Non vincolerebbe Bush a tornare sui propri passi, ma gli manderebbe un segnale del tipo “per questa volta te la passiamo, ma non abusare della nostra disponibilità”.

Il no dei generali. Il giorno dopo, le obiezioni al piano Bush sono arrivate anche dagli ambienti militari. Un comitato di generali in pensione ha liquidato con un “troppo poco, troppo tardi” l’escalation militare, sostenendo che in Iraq “la soluzione è politica, non militare”. “I nostri alleati ci stanno abbandonando ed entro l’estate se ne saranno andati”, ha detto davanti alla Commissione Esteri del Senato il generale Barry McCaffrey, che ha guidato le truppe Usa nella prima Guerra del Golfo. Da tempo una parte crescente dei vertici militari ha puntato il dito contro l’ex segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, reo di aver voluto combattere una guerra con poche truppe (in media gli Usa hanno impegnato in Iraq un quarto delle forze disponibili). Per questo, secondo questo filone di pensiero, un’aggiunta di 21.500 soldati ai circa 130.000 già presenti non può costituire una grande differenza. Per molti soldati, ciò significa comunque un terzo periodo servizio in Iraq: per alcune brigate è già cominciato.

Manifestazione per la pace. Già rinvigorito dalla crescente opposizione dell’opinione pubblica alla guerra, anche il movimento pacifista negli Usa ha sfruttato la decisione di Bush per dire ancora una volta no alla guerra in Iraq. Il gruppo United for Peace and Justice, che fa da ombrello a centinaia di associazioni, ha indetto per sabato prossimo una “marcia su Washington”. Vista l’ormai diffusa impopolarità del conflitto, gli organizzatori sperano che alla manifestazione partecipino anche persone che all’inizio erano favorevoli all’invasione.

Alessandro Ursic

 

Carissimo mais

Messico, l'eccessivo aumento del prezzo della farina di mais, con la quale si prepara la tortilla, potrebbe causare danni rilevanti alle famiglie più povere

Poliziotti sospettati di corruzione e per questo disarmati, interi stati militarizzati per contrastare il movimento di droga, proteste sociali a Oaxaca che durano da sette mesi e violente repressioni dell’esercito a Atenco, dove i lavoratori del mercato dei fiori sono stati aggrediti a sangue freddo. Così il Messico ha vissuto per tutto il 2006 e così si appresta a vivere il nuovo anno. Con un nuovo problema in vista: l’aumento spropositato dei prezzi della farina di mais, ingrediente fondamentale per cucinare la tortilla, alimento alla base della dieta delle famiglie povere del Messico.

I fatti. La notizia, curiosa, arriva dalle pagine della Bbc on line che, citando la stampa locale, spiega cosa sta accadendo alla tortilla.

I fatti raccontano che le famiglie messicane (l’attenzione si concentra soprattutto su quelle più povere) si trovano a dover spendere più soldi per la farina di mais, con la quale si cucinano le energetiche tortillas.

Per gli studiosi di questo fenomeno, che potrebbe avere ricadute devastanti sui più indigenti, la motivazione di questi aumenti deve essere ricondotta alla maggiore domanda di mais negli Usa, paese dal quale il governo di Città del Messico importa il prezioso prodotto.

Secondo la stampa messicana, infatti, la grande richiesta di mais nel paese dello Zio Sam, sarebbe dovuta a un sempre più incessante bisogno di bio-combustibili.

Anche le autorità messicane, in primis il presidente Felipe Calderon, si sono dovute arrendere davanti all’evidenza e hanno dovuto ammettere che l’aumento dei prezzi della farina di mais ha raggiunto in un solo anno il 10 percento.

Garantendo di aver già dato mandato al ministero dell’Economia e alla Procuraduria federal de Consumidor perché si eserciti un maggiore controllo e si evitino abusi, Calderon ha promesso che adotterà “tutte le misure possibili per evitare un’innalzamento vertiginoso dei prezzi”.

Si affaccia il transgenico. E quasi per dare una mano a risolvere quella che si potrebbe definire la “crisi della tortilla” arrivano in soccorso del governo, con una soluzione discutibile, i produttori agroalimentari messicani.

Jaime Yesaki, presidente del Cna (Consejo nacional Agropecuario), un organismo che raggruppa più di 500 produttori, ha, infatti, fatto sapere che la coltivazione di semi di mais transgenico potrebbe essere la soluzione immediata, anche se di difficile realizzazione. E c’è già chi, come l’organizzazione Geenpeace, non vede di buon occhio questa alternativa.

Da otto anni, infatti, esiste in Messico una divieto sulla semina di mais geneticamente modificato e l’organizzazione ambientalista crede che l’aumento folle dei prezzi della farina di mais sia stato utilizzato come pretesto per poter annullare i divieti di semina di Ogm.

In un comunicato rilasciato da Arelì Carreon di Greenpeace si capisce che l’impianto di semi geneticamente modificati potrebbe essere molto dannoso per i terreni coltivabili: “I campi sperimentali di mais transgenico in Messico possono danneggiare in forma irreversibile l’ambiente e incrementare il rischio di contaminazione del mais convenzionale che arriva sulle nostre tavole”.

 

18 gennaio

Genova, secondo l'accusa furono portate nella scuola dalla polizia
La difesa: "Senza corpo del reato impossibile andare avanti"

G8, sparite le molotov della Diaz
Gli avvocati difensori: "Processo finito"

 
<B>G8, sparite le molotov della Diaz <br>Gli avvocati difensori: "Processo finito"</B>
GENOVA - Non si trovano più le due molotov del G8, che rappresentano una delle prove a carico più pesanti nel processo contro i 29 poliziotti, imputati della irruzione nella scuola Diaz e di aver falsificato gli indizi per incastrare 93 ragazzi. Svanite nel nulla. Lo si è scoperto ieri mattina, nel corso di un'udienza del processo. Il presidente Gabrio Barone ha dato incarico alla procura di rintracciarle e i magistrati oggi chiederanno ufficialmente spiegazioni al questore Salvatore Presenti.

Le ipotesi spaziano dall'ufficio corpi di reato di palazzo di giustizia, il cui responsabile ha allargato sconsolato le braccia, alla questura, come spiega il vicedirigente della mobile Francesco Borré: "Io sono arrivato alla squadra mobile nel 2002, un anno dopo il G8. Non abbiamo mai trattato quel reperto. Ma esiste un registro di carico e scarico. Ritengo che teoricamente dovrebbero essere agli atti della Digos".

Mantengono comunque la calma i pubblici ministeri e i legali delle parti offese: "Forse uno dei tanti pasticci della pubblica amministrazione, le molotov salteranno fuori nei prossimi giorni e comunque su quelle bottiglie, filmate e fotografate da ogni angolazione, sono stati fatti tutti gli accertamenti previsti". Ma gli avvocati difensori tentano l'affondo: "Le fotografie non possono sostituire l'oggetto. Senza corpo del reato il processo è finito".

Le ricerche per trovare i reperti proseguiranno, ma fintanto non saranno trovate le bottiglie incendiarie il processo rimarrà congelato nella sua parte più delicata. "Le fotografie di un oggetto - ha commentato l'avvocato Alfredo Biondi, difensore del vicequestore Pietro Troiani - non possono sostituire l'oggetto corpo del reato, che deve essere materialmente riconosciuto".
L'indagine ora continua per capire da chi, quando, perché sono state spostate le molotov. E chiarire l'ennesimo mistero del G8 genovese del 2001.
 

 

L'offesa di Vicenza
Marco Revelli
Non necessariamente i governi si giudicano dai grandi gesti di coraggio. Ma dai piccoli atti di viltà sì. E quello di Vicenza è un mediocre, umiliante - e anche gratuito - atto di viltà.
Assistiamo ormai quotidianamente allo spettacolo grottesco che un presidente americano allo sbando, abbandonato dai suoi stessi elettori, infligge al mondo intero. Ai sacrifici umani di Baghdad. Alle mattanze somale, se possibile ancor più scandalose nel loro mettere in scena, sul palcoscenico globale, l'immagine della potenza dei primi - dei più ricchi, dei più forti - scaricata ad annientare gli ultimi, i più poveri della terra, i più invisibili, quelli delle capanne tra le paludi. Tutto il mondo può vedere ormai, ad occhio nudo, il disastro morale, umano, politico di quella pratica. E non è questione di anti-americanismo o di filo-americanismo. Si tratta qui dell'aver conservato o meno un brandello di capacità di giudizio. O anche semplicemente un residuo d'istinto di conservazione.
Abbiamo, dall'altra parte, un territorio - come quello vicentino - che si difende. Che da mesi si mobilita e resiste. Non per ostilità politica. Per tutelare la propria quotidianità. Non c'era nessuna necessità di ruere in servitium, alla velocità del fulmine. E di prostrarsi in ginocchio dal potente alleato col dono in mano, solo perché dall'altra parte dello schieramento politico qualcuno ha pronunciato la parola magica e tanto temuta - «anti-americanismo» -, e ha richiamato agli impegni (da lui, dal «suo» governo) assunti. «I patti vanno rispettati», sussurra il cavaliere disarcionato. Ma quali patti? Quelli assunti dal vecchio governo con l'amico George? O quelli stipulati dall'Unione con i propri elettori, quando servivano per vincere? O, ancora, quelli che dovrebbero legare un governo ai propri cittadini in un rapporto di responsabilità e di fiducia? Perché mai il «patto» con Washington dovrebbe valere di più di quello con gli elettori di Vicenza, abbandonati da Prodi alla loro «questione urbanistica»? In nome di quale «Ragion politica», umiliarli e frustrarli, ostentando questa incapacità e indisponibilità all'ascolto?
C'è, in questo paese, un tessuto civile che ancora, nonostante tutto, resiste, vuole crederci, si indigna e vorrebbe partecipare. E' ciò che resta delle grandi mobilitazioni di quattro anni fa. Il residuo solido della «seconda potenza mondiale» che aveva tentato di inceppare la macchina bellica globale. E' l'Italia che gli oligarchi di Caserta, chiusi nella propria reggia, si ostinano a non vedere. Né ascoltare. Sarebbe una risorsa non solo per una sinistra che volesse degnarla di uno sguardo, ma per la comatosa democrazia post-contemporanea. Ma sta al limite. Sente crescere dentro di sé frustrazione e disprezzo, di fronte all'impenetrabilità del «politico».
Ancora poco e ogni comunicazione verrà interrotta. Ci si guarderà, esplicitamente, come «nemici» tra chi sta dentro la reggia e i suoi codici lobbistici e chi sta nella vita, senza mezzi per difenderla. Perché aggiungere alla distanza abissale costruita con ostinata sicumera, anche la derisione?
Ci si conquisterà, forse, una critica in meno sul Corriere della sera. Ma si perderà, con certezza, un bel pezzo di futuro.


«Reporter ucciso», ordine d'arresto per soldati Usa
a. d'arg.
Parte da Madrid un ordine di cattura internazionale per i tre militari statunitensi accusati dell'omicidio di José Couso, il cameraman di Tele5 ucciso l'8 aprile 2003 a Baghdad da un proiettile sparato da un blindato Usa sull'Hotel Palestine ripieno di giornalisti. Lo ha deciso ieri il giudice dell'Audiencia Nacional Santiago Pedraz riattivando il caso, archiviato il 10 marzo scorso perché la stessa Audiencia lo considerava un «atto di guerra contro un nemico erroneamente identificato» e affermava che la Spagna non era competente a giudicare i militari Usa. Tutto fermo fino al 5 dicembre scorso quando il Tribunal Supremo, la più alta istanza giuridica spagnola (a parte la Corte Costituzionale) ha approvato all'unanimità il ricorso della famiglia Couso, ribaltando la frittata: la giustizia di Madrid è competente a istruire il processo. Ieri il seguito con il mandato di arresto e di cattura internazionale per il sergente Thomas Gibson, il soldato che ha materialmente sparato, per il suo superiore immediato, il capitano Philip Wolford, e per il tenente colonnello Philip De Camp, che ha preso la decisione. Il futuro è però incerto visto che gli Usa non consegnano i loro soldati e in Spagna non esiste il processo in contumacia.

 

 

Bisturi contro bombe

di Gianni Perrelli da Erbil
La loro colpa: curare le vittime degli attentati. Per questo i medici a Baghdad rischiano la vita tutti i giorni. Come racconta uno di loro
La festa musulmana della Id al-Adha ha appena circoscritto nei primi giorni dell'anno la collera dei sunniti per l'impiccagione di Saddam. Ma se il ritmo degli attentati si è lievemente attenuato durante la ricorrenza, immutata è rimasta la cappa di terrore che grava per le strade di Baghdad. Il presagio rassegnato degli iracheni è che il rispetto della tradizione religiosa abbia solo rinviato l'escalation della guerra civile fra la minoranza sunnita assetata di vendetta e la maggioranza sciita manovrata da Teheran che ha accelerato l'esecuzione dell'ex dittatore.

"Temo proprio che nelle prossime settimane i nostri ospedali scoppieranno", è la drammatica previsione di Nawzad Fuad Hussein, chirurgo curdo di 32 anni, che esercita al Baghdad Medical Center (con più di 2 mila posti letto è il più grande della capitale irachena). È arrivato in Kurdistan attraversando spericolatamente in macchina tutte le insidie del triangolo sunnita, epicentro della guerriglia. Un viaggio di una decina di ore, attraverso 16 check-point e imprevedibili eruzioni di violenza. "Vicino a Baquba mi sono trovato in mezzo ad un'autentica battaglia. Presso Kirkuk un proiettile ha bucato il finestrino laterale della mia auto e mi ha sfiorato il viso". Su una delle strade più insanguinate del mondo mette a repentaglio la vita un paio di volte al mese per incontrare la fidanzata, ginecologa a Suleimanya. E, tre-quattro volte l'anno, per portare da Baghdad a Erbil i passaporti vistati dei piccoli pazienti curdi che l'Ime (Istituto mediterraneo di ematologia) manda in Italia per patologie al momento incurabili in Iraq.

Un medico in prima linea. Testimone di una barbarie quotidiana che negli ultimi mesi ha colpito tre dei suoi migliori amici. Chirurghi come lui, trucidati a Baghdad dall'ala più fanatica della guerriglia che nella mattanza generale si spinge a eliminare i medici per impedire che curino le vittime sopravvissute degli attentati."Mi sento anch'io nel mirino. A Baghdad nessuno è al riparo. Contro noi chirurghi si spara nel mucchio, senza tener più conto né dell'etnia né del credo religioso. I miei amici scomparsi avevano come denominatore comune solo la professione. Il primo era sunnita, il secondo sciita, il terzo turcomanno. Sono andati a stanarli incappucciati nei loro studi. Li hanno fatti fuori brutalmente, senza una spiegazione. Uno di loro davanti alla moglie, che è stata miracolosamente risparmiata. Nel mio reparto eravamo in 40. Oggi siamo in otto. Una decina sono stati uccisi. Altri sono stati sequestrati. La maggior parte sono scappati altrove. Io sono rimasto. Ma non mi sento un eroe. Sono soltanto un fatalista. Verrà la mia ora quando lo vorrà Allah".
 
Il dottor Nawzad Fuad ha un appartamento a un paio di isolati dal posto di lavoro. Una decina di minuti a piedi. Un paio in macchina. "Ma muoversi per Baghdad è diventata una roulette russa. Scoppiano autobombe anche davanti alle porte del pronto soccorso. I chirurghi del nostro reparto lavorano solo un paio di giorni alla settimana, con turni senza interruzione di 24 ore, per limitare al minimo i pericoli degli spostamenti. Ciascuno di noi, prima di uscire, adotta delle precauzioni. Io ho due automobili, che cambio spesso sperando di confondere le acque. Ma quando mi sento meno sicuro chiamo un taxista fidato. E se nel breve itinerario trovo una strada sbarrata, scendo, faccio un piccolo tratto a piedi e cerco un altro conducente amico. Quando vedo ai margini della strada un'auto vecchia penso sempre al peggio. Mi tranquillizzo parzialmente solo in corsia o in sala operatoria. Dove sono costretto a misurarmi con altri problemi. La priorità dei casi, quasi tutti gravissimi, da trattare. La scarsa disponibilità dei posti letto che ci costringe spesso a invadere anche il reparto pediatrico. La cronica mancanza di strumenti e di medicinali. C'è un solo apparecchio per la Tac, usato per le emergenze. Manca il riscaldamento, spesso l'elettricità. A volte non disponiamo nemmeno dell'acqua. Eppure riusciamo a eseguire una trentina di interventi al giorno. Nell'80 per cento dei casi, con pieno successo".
In questo clima di tensione spasmodica c'è pochissimo spazio per la vita privata. "Nel tempo libero me ne sto a casa. A leggere i miei libri. Accudito da una governante. Va lei al mercato a fare la spesa. Per me sarebbe troppo rischioso. Evito ormai anche di andare ai matrimoni degli amici. Un tempo si festeggiava fino a notte fonda. Ora, dopo le cinque del pomeriggio, non trovi più nessuno che si azzarda a camminare per strada. La scorsa settimana, un mio collaboratore che aveva dovuto attendere fino alle sette di sera la consegna dei passaporti vistati dal consolato italiano, ha preferito trascorrere la notte su un divano della vostra sede diplomatica. Dopo il tramonto Baghdad è infestata non solo dalla guerriglia, ma anche dalla peggior delinquenza. E poi c'è sempre il pericolo del fuoco americano. I marines premono il grilletto al minimo sospetto".

La prudenza non inibisce però la difesa dei propri diritti. "Il mese scorso stavo rientrando a casa in auto con un paio di colleghi che avevo invitato per un tè. Dallo specchietto retrovisore mi accordo di essere seguito da una colonna di carri armati americani. Mi accosto per farli passare. Ma il primo dei tre blindati colpisce di striscio la fiancata della mia auto. Parto all'inseguimento, ignorando le preghiere dei miei amici che mi dicono si lasciar stare. Supero il carro armato che mi ha danneggiato e faccio cenno al conducente di fermarsi. A mente fredda mi rendo conto di essere stato un incosciente. Tutto lasciava pensare che potessi essere un kamikaze. Ma è andata bene. Una quindicina di soldati sono scesi dai mezzi, chiedendomi bruscamente cosa volessi. Sentendo il mio buon inglese si sono un po' calmati. Permettendomi di spiegare chi fossi e di ricostruire la dinamica dell'incidente. Alla fine un graduato si è complimentato per la mia pronuncia e mi ha scritto su un foglietto il suo nome e l'indirizzo dell'ufficio a cui potevo chiedere il risarcimento".

Dopo la laurea, durante la dittatura di Saddam, Nawzad Fuad aveva fatto l'apprendista nello Yarmuk Hospital. "Per lavorare avevo dovuto iscrivermi al partito Baath. Il terzo piano era occupato dai servizi segreti. Per questo, quando scoppiò la guerra, fu uno dei primi edifici a essere bombardato. Quando gli americani si insediarono nell'ospedale furono molto gentili. Giocavamo al calcio insieme nel cortile. Ma ben presto i marines si innervosirono. Non riuscivano a domare le rivolte e sparavano anche su gente incolpevole. Poi arrivarono i tempi degli omicidi mirati. Ora siamo nel mirino noi medici. In tutta Baghdad ne hanno già ucciso una cinquantina. La polizia? Non riesce a proteggere neanche se stessa".

 

17 gennaio

Dal Molin, il giorno dopo

Prodi aunnuncia l'ampliamento della base: a Vicenza si infiamma la protesta

Vicenza - Il giorno dopo il sì, Vicenza si risveglia livida e stupefatta. Non tanto per la decisione di Prodi di ampliare la caserma Ederle, concedendo agli americani l'areoporto civile Dal Molin, quanto per la tempestività con cui il premier italiano ha comunicato all'ambasciatore Spogli che la posizione del suo governo era in linea con quella del governo precedente.
 
Tempismo governativo. Il sì è arrivato proprio mentre i comitati si stavano cominciando a mettere in cammino da piazza Castello per manifestare la propria opposizione alla nuova struttura, che accorperà la 173esima brigata aviotrasportata statunitense, aggiungendo ai 2.750 militari di stanza alla Ederle 1.800 soldati attualmente in Germania, per un costo di oltre 400 milioni di euro. Il tempismo del primo ministro ha scatenato la protesta per le strade del centro. Lungo il corteo che portava alla stazione i sentimenti di delusione, rabbia e impotenza trovavano sfogo negli slogan contro il governo e contro l'amministrazione cittadina. Vicenza non odia gli americani. Non li ha mai odiati, nei 50 anni di presenza della Ederle. Nonostante negli anni '60 si siano verificate risse, violenze, aggressioni e anche qualche caso di stupro per mano dei soldati Usa, la popolazione è tiepida e talora indifferente alla loro presenza. Ciò che non digeriscono, i 5 mila che ieri hanno sfidato il freddo pungente e l'umidità, è stato il silenzio di un governo cittadino - e nazionale - che li ha tenuti all'oscuro di tutto, recitando una parte goffa, incoerente e talvolta subdola.
 
Città incollerita. "La decisione era già stata presa da tempo dal sindaco Hullweck - commenta un commerciante del centro - un sindaco che, manca poco, con l'ambasciatore Spogli ci va a letto". La stessa visita dell'ambasciatore della settimana scorsa è stata tenuta in gran segreto dagli amministratori, e sarebbe passata del tutto sotto silenzio se qualche centinaio di contestatori non avessero appreso la notizia per passaparola, inscenando una protesta di fronte al palazzo comunale, il cui atrio è stato simbolicamente occupato. Così, ieri sera Vicenza ha accolto la decisione di Prodi manifestando la propria collera per il comportamento del governo nazionale. "Prima fanno la pantomima dell'antiamericanismo - dice un operaio -, con Berlusconi che dice a D'Alema di mettere a rischio l'alleanza con Bush, poi il Consiglio dei ministri che deciderà venerdì, infine Prodi che fa tutto da solo e comunica da Bucarest che è 'doveroso mantenere gli impegni' con gli alleati". Partono gli slogan, mentre i media di tutta Italia, che si trovano per una volta nel posto giusto al momento giusto, raccontano la cronaca della manifestazione.
 
Pronti, via. Partenza alle 20.30 da piazza Castello. Il popolo del 'no' è variegato e composto. Ci sono ragazzi, nonni, bambini. Tutti hanno le bandiere contro la base stampate dai comitati. Molti hanno pentole e padelle, e fischietti. Ogni tanto spiccano i simboli di qualche partito, gli stendardi dell'unico sindacato che ha preso una posizione netta contro la base, gli striscioni di ong e associazioni. Ci sono esponenti di sinistra, di destra e di centro. Dopo l'annuncio di Prodi, sul volto di Cinzia Bottene, la portavoce del comitato del 'no', si dipinge l'incredulità: "Non ci posso credere, non ci credo". Ci sono i Disobbedienti di Francesco Pavin, c'è Oscar Mancini, segretario generale Cgil, poi alcuni rappresentanti dei partiti, forse i più in imbarazzo dopo la decisione del premier. Ma c'è anche la destra, quella estrema, con il leader di Azione Sociale Alex Cioni. E poi la Lega col suo 'cane sciolto', il consigliere comunale Franca Equizi, che non risparmia bordate al 'suo' sindaco, essendo il suo partito nella coalizione del governo locale. Ci sono tutti, ma nel corteo non vi sono divergenze d'opinione. Non vi sono stecche nel coro del dissenso.
 
La messa laica. 'Vergogna, vergogna' echeggia dal centro della folla che si muove compatta verso il Comune. Qui, provocatoriamente, alcune decine di manifestanti hanno bruciato le loro tessere elettorali, come nella migliore tradizione delle genti di Carrara durante la sfilata del Primo maggio anarchico. Oltre alle bandiere, a Vicenza ieri tutti avevano una fiaccola. Mentre la processione si snodava sul lungo viale che conduce alla stazione, si aveva l'impressione di partecipare a una messa laica. Una cerimonia urbana e civile, che celebrava però il definitivo, ulteriore distacco dei cittadini dai loro amministratori. Qui come in Val di Susa, contro il Tav. Qui come tutte le volte che la politica ha disatteso non solo la volontà, ma anche il diritto dei cittadini di partecipare alle decisioni. "Il referendum forse non si farà più - lamenta uno studente -, ma a che potrebbe servire, se tutto è già stato deciso?". "A mostrare a questo sindaco - gli fa eco un amico - che tutta la città è contro di lui, che nessuno è stato informato, che nessuno ha potuto dire la sua". La loro la dicono adesso, i vicentini, mentre la stazione è presa pacificamente d'assalto e sui binari occupati sale l'entusiasmo, si gonfia il coro contro governi e governanti, si percuotono pentole e padelle, si grida 'Vicenza libera' e ci si conta, ci si riconosce.
 
Quanto durerà la protesta? "La mia, personale, è già iniziata - spiega Giorgio, 40 anni, in braccio la figlia avuta dalla moglie americana -. Da stasera ho iniziato il mio sciopero della fame: questo governo mi ha deluso e ferito. Da stasera la situazione si è fatta inaccettabile". Quanto durerà?, chiedono con gli occhi i 5 mila a Cinzia Bottene, cittadina comune, senza alcun passato di militanza politica o di attivismo sindacale, che adesso arringa la folla con un megafono in mano. "E' stata l'indignazione a farmi scendere in piazza". La Polfer ha bloccato 20 convogli, in arrivo da Verona e da Padova. C'è chi suggerisce di restare in stazione tutta la notte. Ma il luogo dove la protesta continua, e continuerà a lungo - assicurano - è al Dal Molin, sede della nuova base. Ci si sposta, con la truppa di operatori televisivi che illuminano la notte, due chilometri più a nord. Il presidio è un grande capannone prestato ai cittadini da RadioSherwood di Padova. C'è musica, vino caldo, qualche falò. La signora Giuliana, che ha concesso il proprio terreno ai comitati, vota Lega, e nelle villette residenziali tutt'intorno abita la buona - e ricca - borghesia vicentina, una volta fedele alla Democrazia cristiana, oggi a Forza Italia. Ma anche loro contrari alla base. Anche loro simboleggiano una protesta trasversale, che, secondo Giovanni, 32 anni, "testimonia la crisi e l'imbarazzo di una classe politica incapace di rappresentare".
La notte di Vicenza termina, e la città al risveglio riprende la sua vita, tra operai che partono alla volta delle concerie di pellami e i distinti operatori della gioielleria mondiale giunti in città da ogni dove per la fiera dell'oro. Chiediamo a uno di loro, finlandese, cosa ne pensa della presenza militare Usa in Italia. "Non lo sapevo - risponde -. Non sapevo che gli Usa fossero in guerra con l'Italia"
 

 

Uganda, torna la paura

I ribelli ricusano il mediatore, sempre più a rischio i colloqui di pace tra governo e Lra

La speranza della fine della guerra in nord Uganda, durata sei mesi, sta svanendo. Nell’ultima settimana, il deteriorarsi dei rapporti tra governo, ribelli del Lord’s Resistance Army e mediatori sudanesi ha fatto precipitare la situazione. Il Lra ricusa il vicepresidente del sud Sudan, Riek Machar, come mediatore, minaccia di lasciare i campi di raccolta nel Sudan meridionale (dove parte dei ribelli si sono raggruppati in vista del disarmo, secondo la tregua firmata ad agosto) e di fare ritorno in Uganda, l’esercito risponde che il gesto verrebbe visto come un atto di guerra.
 
Un gruppo di uomini del LraTrattative. “Innanzitutto, c’è da precisare che il comando non ha preso ancora una decisione ufficiale – precisa a PeaceReporter Obonyo Olweny, portavoce del Lra –. Quella del ritorno in Uganda è solo una delle opzioni, ma non percepiamo più come neutrale l’atteggiamento del governo sudanese. Di conseguenza, se non otterremo un altro mediatore, non riprenderemo i colloqui di pace e lasceremo il Paese”. Una brutta gatta da pelare per Joaquim Chissano, ex-presidente mozambicano e nuovo rappresentante speciale dell’Onu per l’Uganda. La scorsa settimana, il Lra ha chiesto al Kenya e al Sudafrica di prendere in mano le trattative, a séguito delle dichiarazioni della presidenza sudanese che definiva i ribelli “non più graditi” chiedendo loro, in caso di fallimento dei colloqui, di lasciare il Sudan meridionale dove il Lra ha le sue basi. La mossa di Khartoum, mirante a dare una scossa a una trattativa in stallo da qualche settimana, ha dunque sortito l’effetto contrario. “La verità è che il Lra è diventato indipendente dal Sudan, che un tempo ci appoggiava – continua Olweny – e questo a Khartoum non piace. Le loro dichiarazioni dimostrano che non siamo pupazzi nelle loro mani come si crede”.
 
Joaquim ChissanoMinacce. Dall’altra parte, il governo ugandese tiene la posizione: da Kampala fanno sapere di non avere intenzione di cambiare la sede dei colloqui, fissata fin dall’inizio a Juba, nel Sudan meridionale. Meno che mai l’esercito sarebbe disposto a vedere i ribelli tornare nel nord. “Qualsiasi loro movimento in territorio ugandese sarà visto come un atto ostile - conferma a PeaceReporter il maggiore dell’esercito, Felix Kulayigye – anche perché i luoghi di raccolta sono stati scelti assieme al Lra. Perché ora vogliono tornare in Uganda? Sarebbe una contraddizione. Abbiamo il dovere di proteggere i civili, per questo suggeriamo ai ribelli di rimanere dove sono”. Nemmeno la garanzia di non riprendere gli scontri, data nei giorni scorsi dal Lra, è sufficiente. “Il Lra continua ad attaccare civili in Sudan – prosegue Kulayigye – che garanzia abbiamo che non lo facciano anche in Uganda?”. Di tutt’altro tono la posizione di Olweny, che accusa l’esercito “di aver impedito, a causa dei continui attacchi, la raccolta dei nostri uomini nei campi in Sudan. Per questo stiamo valutando la possibilità di tornare indietro, ben consci che ciò significherebbe una ripresa del conflitto”.
 
Speranza. Una pessima notizia soprattutto per le centinaia di migliaia di sfollati che, nei mesi scorsi, hanno fatto ritorno alle proprie case. Nonostante i colloqui non siano ancora falliti e ci sia un margine di manovra, la situazione è molto delicata. “La guerra in Uganda ha portato tanta distruzione – ammette Olweny – e una sua ripresa sarebbe disastrosa per la popolazione, specialmente per i 3 milioni di persone che il governo ha ammassato in maniera irresponsabile nei campi profughi. Ma non accettiamo di essere additati come gli unici responsabili della situazione”. E mentre i mediatori sudanesi tentano di smorzare i toni facendo appello alle parti, Chissano è da ieri a Juba per tentare di salvare il salvabile. Non è ancora troppo tardi. 

 

I programmi di morte delle autorità americane
di Antonella Randazzo per www.disinformazione.it - 15 gennaio 2007

Le autorità degli Stati Uniti ritengono necessario istituire programmi di “addestramento” militare e spionistico per gli eserciti delle nazioni del mondo. Nel 1991, il Congresso americano approvò una legge che nella sezione 2011, titolo 10, autorizzava il programma Joint Combined Exchange Training (Jcet). La legge prevedeva che il Dipartimento di Difesa americano inviasse forze “speciali” ovunque nel mondo, per addestrare soldati. Non si specificava il contenuto di questi addestramenti. I soldati americani dovevano raccogliere molte informazioni e fotografie del paese in cui venivano mandati, e capire chi erano i nemici su quel territorio.

Nel 1998, erano state attuate missioni Jcet in 110 paesi, in cui si  verificarono crimini orribili, massacri, torture e violenze di ogni genere contro le popolazioni.
Le “missioni” Jcet riguardarono l’addestramento dei commandos turchi che trucidarono 22.000 curdi, e altre operazioni in America Latina, in Rwanda, in Pakistan, nello Sri Lanka, in Indonesia e in molti altri paesi.

Il Presidente del sottocomitato per le operazioni internazionali e i diritti umani della Camera dei deputati, Christopher Smith, dichiarò: “Le nostre esercitazioni congiunte e l’addestramento di unità militari accusate più volte dei più atroci crimini contro l’umanità, tra cui tortura e omicidio, esigono delle spiegazioni”.[1] Il Segretario della Difesa William Cohen rispose alle richieste avanzate da Smith in modo retorico, dicendo che “nelle aree in cui le nostre forze armate portano avanti il programma Jcet… promuovono i valori democratici e la stabilità regionale”.[2]

Gli addestramenti del Jcet vennero richiesti dai dittatori più spietati e sanguinari, come l’indonesiano Suharto. In Indonesia il Jcet fu accompagnato dal programma del Pentagono di assistenza al reggimento Kopassus, che sequestrava, torturava e uccideva i dissidenti politici. Migliaia di persone scomparvero misteriosamente, probabilmente giustiziate dal Kopassus.
Le attività del Jcet in Indonesia furono sospese soltanto nel maggio del 1998, quando la stampa rivelò la vera natura di quelle “missioni”. Il giornalista Allan Nairn scrisse un articolo sul giornale Nation, in cui spiegava la natura criminale dei programmi che il Pentagono sosteneva in Indonesia.

I programmi come Jcet vengono posti al di sopra della stessa autorità governativa americana, come spiega lo studioso Chalmers Johnson: “Se anche un giorno il presidente americano e il Congresso dovessero decidere di assolvere ai propri doveri costituzionali e ristabilire la propria autorità sul Dipartimento della Difesa, non riuscirebbero comunque a porre sotto controllo i programmi Jcet e altre iniziative simili”.[3]

Il pericolo che la stampa potesse svelare aspetti delle “missioni” Jcet o di altre organizzazioni simili, com’era accaduto nel caso indonesiano, ha fatto in modo che le autorità statunitensi elaborassero una strategia per svolgere queste operazioni senza alcuna responsabilità diretta. Attraverso la privatizzazione delle attività militari di addestramento è stato reso possibile occultare efficacemente le attività criminali che il Pentagono attua in molti paesi del mondo. Nel caso di impiego di soldati mercenari forniti dalle società, il Pentagono non ha nessun obbligo di informare, in quanto si tratta di attività di società private, non soggette alla legge sulla libertà di informazione poiché di “proprietà riservata”. Può avvenire così l’occultamento e la deresponsabilizzazione dei crimini commessi. Come osserva il giornalista Ken Silverstein:  

Senza che l’opinione pubblica ne sia al corrente o abbia sviluppato un dibattito al riguardo, il governo sta inviando società private – la maggior parte delle quali strettamente legate al Pentagono e costituite da personale militare in pensione – a fornire addestramento militare e di polizia agli alleati stranieri degli Stati Uniti.[4]

Le aziende americane forniscono addestramento militare a moltissimi paesi del mondo, fra questi, Haiti, Angola, Bosnia, Colombia, Croazia, Ecuador, Egitto, Guinea Equatoriale, Ghana, Haiti, Ungheria, Arabia Saudita, Kosovo, Perù, Uganda, Liberia, Malawi, Mali, Nigeria, Rwanda, Senegal e Taiwan. 
Nei paesi del Terzo Mondo, queste società vengono sempre più spesso pagate con parte delle risorse sottratte ai paesi sottomessi. Data l’alta probabilità di rimanere impuniti, vengono assoldati anche assassini e squilibrati di ogni genere, abili nel commettere i crimini più orrendi (mutilazioni, torture, violenze), per sottomettere i popoli con il terrore. Nel rapporto del World Policy Institute di New York[5] si legge:

Negli anni '90 gli Usa hanno continuato a fornire ai paesi africani armi e addestramento militare, per un valore di oltre 227 milioni di dollari. Inoltre, le forze speciali americane hanno addestrato i militari di 34 dei 53 paesi africani, compresi i soldati impegnati su entrambi i fronti della guerra civile in Congo... Gli Stati Uniti sono i maggiori mercanti di armi. I problemi che l'Africa deve affrontare 'conflitti, instabilità politica, tasso di crescita economica più basso del mondo' sono stati alimentati in parte dal coinvolgimento degli Usa nel continente.... la fornitura e vendita di armi, e i conflitti che esse alimentano, hanno un impatto devastante sull'Africa subsahariana. (Mobutu è stato) aiutato a costituire il suo arsenale militare con una flotta di aerei C-130, un continuo rifornimento di fucili, armi leggere e pesanti, l'addestramento di 1350 soldati... fino alla sua caduta....gli Usa hanno contribuito a costituire gli arsenali militari di otto dei nove governi coinvolti... Nel marzo '99 un trafficante di armi belga è stato arrestato in Sudafrica mentre cercava di vendere 8 mila fucili M-16 di fabbricazione statunitense, provenienti dagli arsenali costituiti al tempo della guerra del Vietnam. In realtà, molti trafficanti illegali d'armi attualmente operanti in Africa centrale hanno cominciato come operatori segreti degli Usa.

Una delle società più importanti, che ha stipulato contratti con la Cia per intervenire in numerosi paesi, è la Dyncorp. Un “esperto” di questa società guadagna all’anno almeno 120 mila dollari. Sempre più spesso, le stesse autorità governative e della Cia sono i maggiori azionisti delle imprese che forniscono mercenari. Ad esempio, James Woolsey, ex capo della Cia, possedeva parecchi titoli della Dyncorp. Le società che forniscono personale mercenario sono sulla stessa lunghezza d’onda della propaganda americana. Ad esempio, sul sito della Dyncorp si leggeva lo slogan "La nostra missione è di costruire la democrazia in tutto il mondo", che è lo stesso slogan dei governi americani. La Dyncorp ha arruolato "combattenti" da almeno 36 paesi diversi, e ha fornito truppe per il Kosovo, l'Albania, l'Afghanistan, la Bosnia e l'Iraq. E’ stata denunciata per brutalità in Afghanistan, e in Bosnia per traffico di minori e violazioni dei diritti umani. Un metodo per conservare l’impunità anche quando emergono i crimini, è di sciogliere la società e rifondarla con un altro nome, per dare ad intendere che la società non esiste più. Anche la Dyncorp è stata trasformata nel 2005 in Veritas Capital, che è oggi una delle principali agenzie di “difesa e sicurezza”.  

Oggi le operazioni del tipo Jcet, sia pubbliche che private, sono coordinate dal Dipartimento della difesa e accompagnate dall’attività di vendita delle armi. Gli Stati Uniti sono il primo produttore e venditore mondiale di armi. Per i prodotti bellici i governi americani spendono almeno il 25% del Pil, e il governo ha assunto ben 6500 persone incaricate di stabilire relazioni “diplomatiche” finalizzate alla vendita di armi. Quasi sempre gli Stati Uniti armano entrambi i contendenti, come nel caso Grecia/Turchia, Iran/Iraq, Israele/Arabia Saudita, Taiwan/Cina. Gli Usa possono così influire sulla durata e sull’epilogo della guerra. Hanno cioè il potere di “alterare significativamente gli equilibri militari”.[6]

Gli Stati Uniti vendono armi a paesi privi di nemici, come la Tailandia e la Birmania , in cui i regimi utilizzano la forza per distruggere ogni ribellione. 
Le autorità americane hanno reso potentissimo l’esercito birmano, per proteggere la produzione di oppio. La Birmania è il secondo produttore di oppio al mondo (il primo è l’Afghanistan). Tale mercato, è controllato dai servizi segreti occidentali (come la Cia ), che per mantenere la produzione costringono la popolazione a vivere in miseria e nel degrado. Le sollevazioni popolari vengono represse anche da forze militari mercenarie, pronte a commettere torture, violenze e ogni sorta di crimine.

Oggi gli Usa e la Gran Bretagna sono gli investitori più importanti in Birmania e i maggiori fornitori di armi al regime birmano. La popolazione è costretta a vivere nel terrore, e le stragi del regime vengono spacciate per "guerra al terrorismo di al Qaeda". 
Negli ultimi tre anni sono state uccise decine di migliaia di persone. Solo fra la popolazione Karen della Birmania, i morti sono almeno 30.000.

Attualmente vengono creati numerosi programmi per tenere sottomessi i paesi africani e asiatici. I rapporti delle autorità militari e politiche americane sono infarciti di menzogne per negare i crimini commessi attraverso questi programmi di morte. Ad esempio, il generale americano James L. Jones ha dichiarato alla Commissione per i servizi armati del Senato, il 7 marzo del 2006, che le varie organizzazioni armate create per terrorizzare e sottomettere il popolo africano, come l’African Contingency Operations, Training and Assistance (Acota) e il Theater Security Cooperation (Tsc) sono “programmi di cooperazione per la sicurezza”.
Jones fa più volte appello all’esigenza di “una sicurezza comune”, e per “sicurezza” intende in realtà il mantenimento del potere sui popoli. Egli parla di “disordine” e “minacce”, senza specificare di preciso chi sarebbe l’artefice di tutto questo, includendo nei presunti pericoli l’immigrazione come il terrorismo, le carestie come i tracolli economici:

(Il) nuovo “disordine” mondiale, porta con sé sfide del tutto uniche, che richiedono approcci nuovi e differenti nella cooperazione con i nostri alleati, la distribuzione delle risorse e lo sviluppo di strategie volte a proteggere i nostri interessi nazionali… Le complessità del mondo e la diversità delle sue minacce richiedono il nostro continuo impegno per la completa implementazione della nostra trasformazione… Attraverso la continua trasformazione possiamo aiutare i nostri amici ed alleati a mantenere sicuri i propri confini, a sconfiggere il terrorismo e a migliorare le prospettive economiche di molte regioni del teatro afro-europeo… In questo secolo, il cammino verso un mondo più pacifico e prosperoso si basa sul riconoscimento di una nuova gamma di pericoli che minacciano in modo chiaro i nostri interessi comuni… In nessun ordine particolare, queste minacce includono epidemie, terrorismo, carestie, tracolli economici, immigrazione illegale incontrollata, proliferazione di armi di distruzione di massa, narcotraffico, fondamentalismo radicale e, naturalmente, conflitti armati. Questi pericoli hanno natura transnazionale e non possono essere facilmente contenuti all’interno dei confini geopolitici.[7]

La parola “terrorismo” è menzionata di frequente dal generale, che però non spiega cosa intende con tale parola, e non menziona i crimini delle truppe americane e le conseguenze devastanti delle occupazioni militari americane. Descrive l’operato delle truppe americane come fosse una missione di tipo filantropico e attribuisce la causa dei problemi a fattori ambientali o demografici:

In Africa, l’instabilità politica è aggravata dai problemi sociali, economici e di sicurezza legati al tasso di crescita della popolazione, all’inefficace gestione del territorio, alla desertificazione, ai dissesti agricoli ed ambientali, agli spostamenti in massa dei profughi e alle pandemie. Nel corso degli ultimi cinque anni, gli Stati Uniti hanno risposto a crisi umanitarie ed instabilità politiche in Somalia, Mozambico, Liberia, Chad, Sierra Leone, Repubblica Democratica del Congo, Costa d’Avorio e, recentemente, nel Darfur. Negli ultimi cinque anni, abbiamo perseguito una posizione di maggiore impegno nel raggiungimento di una stabilità durevole, attraverso misure proattive e preventive. Le conseguenze della mancanza di azione potrebbero includere il continuo e ripetuto intervento americano nei conflitti e nelle crisi umanitarie, l’interruzione di commerci vitali per lo sviluppo delle economie nascenti africane e l’aumento della presenza del fondamentalismo radicale, specialmente nei vasti spazi africani ingovernati.[8]

Considerato tutto questo impegno umanitario, non si capisce come mai le popolazioni africane vivono in miseria, muoiono di fame e protestano con forza contro il dominio americano. In realtà, la presenza massiccia di truppe americane e di formazioni mercenarie finanziate dal Pentagono, ha causato la morte di milioni di persone, e provocato immani devastazioni sociali, politiche ed economiche, rendendo l’Africa un vero e proprio inferno per i popoli africani. 
La retorica buonista americana è un ulteriore affronto per tutti coloro che a causa dei programmi terroristici americani hanno perso i familiari e sono stati privati dei diritti umani.

 

16 gennaio 2007

Filippine, guerra ai comunisti

L’esercito rilancia l’offensiva contro i guerriglieri dell’Npa. Accuse a entrambi da Hrw

L’uomo forte delle Filippine, il capo delle forze armate, generale Hermogenes Esperon jr., ha annunciato nei giorni scorsi il rilancio dell’Oplan Bantay Laya (Piano Vigilanza della Libertà), l’operazione militare che la presidente Gloria Arroyo ha avviato nel 2002 contro la guerriglia comunista del Nuovo Esercito Popolare (Cpp-Npa), attiva nel paese da 38 anni. Un’operazione che, secondo Esperon, ha finora ottenuto grandi risultati. Non la pensa così il portavoce dell’Npa, Ka Roger, che rivendica invece un forte avanzamento della guerriglia. Né Human Rights Watch, che nel suo rapporto annuo, diffuso pochi giorni fa, ha denunciato i gravi crimini di cui si sono macchiate le forze armate filippine nell’ambito dell’Oplan Bantay Laya - oltre a quelli commessi dai guerriglieri dell'Npa.
 
Il ge. Esperon con la presidente ArroyoLa versione del generale Esperon. “Stiamo vincendo e continueremo a vincere”, ha dichiarato alla stampa il generale Esperon. “Dal 2002 abbiamo neutralizzato 5mila ribelli comunisti, di cui 850 nel 2006, nel corso di quasi 1.800 operazioni. Ne sono rimasti 7mila, e contiamo di ridurli a 3.500 entro tre anni grazie all’avvio della ‘fase due’ dell’operazione Bantay Laya, che inizia ora concentrandosi su 28 degli oltre cento fronti attualmente tenuti dall’Npa. Entro quella data avremo raggiunto la vittoria strategica sui ribelli comunisti”. Altri generali hanno poi specificato che la nuova fase dell’offensiva governativa si concentrerà nel nord del paese, nell’isola di Luzon, roccaforte storica dell’Npa, che però oggi è molto attivo anche nel centro (isola di Visayas) e nel sud (isola di Mindanao).
 Gregorio 'Ka Roger' RosalLa versione di Ka Roger. Gregorio Rosal, nome di battaglia Ka Roger, voce e volto del movimento guerrigliero fondato nel 1969 da Jose Maria Sison (in esilio in Olanda e dal 2002 inserito nella lista Usa dei terroristi), ha subito risposto a Esperon. “Le affermazioni del generale gli scoppieranno in faccia insieme all’intensificazione della lotta armata rivoluzionaria, e nel 2010 si dovrà dimettere con disonore perché avrà fallito questi suoi obiettivi”. Ka Roger ha dato la sua versione della situazione attuale: non ha fornito numeri sui ranghi dell’Npa, ma ha detto che esso controlla 128 fronti in 800 comuni di 70 province di tutte le regioni dell’arcipelago. E, riguardo al 2006, ha detto che l’Npa ha condotto 400 attacchi in cui sono stati uccisi circa 200 tra soldati dell’esercito, agenti di polizia e paramilitari delle Cafgu (Unità Geografiche delle Forze Armate Civili) e solo 30 guerriglieri.
 
Soldati filippiniHrw accusa sia l’esercito che la guerriglia. Al di là della propaganda delle opposte fazioni, Human Rights Watch (Hrw) ha denunciato nel suo rapporto 2006 sulle Filippine che la lotta del governo Arroyo contro la guerriglia comunista si caratterizza per il crescente numero crimini (esecuzioni sommarie, rapimenti e torture) commessi dai militari e dai paramilitari nei confronti della popolazione civile che vive nelle zone considerate roccaforti dell’Npa e, più in generale, verso tutti coloro che vengono definiti “comunisti”: un’ampia categoria che comprende giornalisti indipendenti, sindacalisti, avvocati democratici e difensori dei diritti umani, religiosi e operatori sociali. Solo nel 2006 ne sono stati assassinati 180.
Il rapporto di Hrw non è tenero nemmeno con i guerriglieri dell’Npa, accusati di analoghi crimini contro i civili ritenuti “nemici del popolo” e collaboratori “regime fascista” della Arroyo.
 

 

CALABRIA|Vicino le Vasche di Cicerone

Giù l'ecomostro di Copanello

Ecomostro di Copanello
Ecomostro di Copanello

Oggi l'abbattimento del complesso edilizio. Costruito nell'80 a due passi dalla scogliera di Stalettì, sito di importanza comunitaria. Dal 1987 esiste un'ordinanza di demolizione

Quattro corpi di fabbrica di cui uno di cinque piani fuori terra, due di sei piani fuori terra, e un ultimo di nove piani con andamento a gradoni intervallati da vani e scale di collegamento in cemento armato. E' questo il complesso edilizio, comunemente noto come “ecomostro di Copanello”, che sarà demolito oggi, alla presenza, tra gli altri, del presidente della Regione Calabria, Agazio Loiero, del ministro dell' ambiente e della tutela del territorio, Alfredo Pecoraro Scanio. Entreranno in scena le ruspe dell'impresa Fiore, ditta che si è aggiudicata la gara d' appalto lo scorso ottobre, per il prezzo, in via provvisoria, di 170.960 euro, al netto del ribasso d' asta del 36,66 %, su sei ditte partecipanti.

La costruzione è stata realizzata in pochi anni, a partire dell' agosto 1980, con una licenza edilizia mancante di alcuni pareri di enti preposti ed è uno degli undici ecomostri d' Italia da abbattere. Il complesso, che sorge nel comune di Stalettì sulla costa jonica catanzarese, si trova a vicino alla battigia e il luogo è caratterizzato dalla presenza, a poca distanza, di un sito archeologico nel quale si troverebbe la tomba di Cassiodoro e del suo Vivarium, prima struttura universitaria e di studi sistemici in Europa.

Il 29 dicembre scorso era stato siglato a Roma l'Accordo di programma quadro tra la Regione Calabria, il ministero dell' Economia e delle finanze e quello delle infrastrutture e dei trasporti sulle Emergenze urbane e territoriali. L'atto dopo che la Giunta calabrese aveva deliberato, su proposta dell'assessore all'Urbanistica e governo del territorio, Michelangelo Tripodi, l'approvazione di questo accordo in tema di salvaguardia ambientale. Per l'assessore, è uno dei provvedimenti più significativi, che pone la Calabria all'avanguardia tra le altre regioni italiane ed europee in materia di tutela del territorio. Il quadro complessivo delle risorse finanziarie disponibili ammonta a cinque milioni di euro.

«L'abbattimento dell'ecomostro di Copanello è un esempio dell'impegno nella lotta all'abusivismo- dice Pecoraro- e costituisce un perno della battaglia per la legalità, a tutela delle bellezze paesaggistiche e ambientali del nostro Paese». E che ciò «avvenga in Calabria» assume un significato particolare.


 

15 gennaio

Presunti fondi neri Mediaset, prescrizione per Berlusconi

MILANO - Reati prescritti per Silvio Berlusconi fino al luglio del 1999 nel processo sui presunti fondi neri di Mediaset che vede imputati anche il presidente della società, Fedele Confalonieri, l'avvocato inglese David Mills e una decina di altre persone accusate a vario titolo di appropriazione indebita, falso in bilancio, frode fiscale, ricettazione e riciclaggio. Il presidente della prima sezione del Tribunale di Milano, Edoardo D'Avossa, con un'ordinanza ha decretato il non luogo a procedere, per intervenuta prescrizione, relativamente all'appropriazione indebita (fino al luglio del 1999), al falso in bilancio (fino al 1998), alla frode fiscale (fino al 1998), i tre reati contestati a Berlusconi. Restano per il leader di Forza Italia i reati di falso in bilancio e frode fiscale per il 1999 e l'appropriazione indebita relativa ad alcuni mesi. Il reato di ricettazione, contestato a Mills e al banchiere Paolo Del Bue, è andato prescritto fino al 1993.

 

Figlio di uno Stato minore

Il racconto di Carlo Calcagni, capitano elicotterista contagiato da sostanze radioattive in Bosnia nel '95

Carlo Calcagni, pugliese, 38 anni, durante la missione in Bosnia si intossica con metalli pesanti. Le accuse, i riconoscimenti mancati, l'amarezza di un militare dimenticato dallo Stato Maggiore dell'esercito. E da quello (minore) italiano.

Capitano, quando e come inizia la sua vicenda?

Sono partito con il primo contingente italiano in Bosnia. Era il gennaio '96. I bombardamenti delle forze Nato erano terminati da due mesi. C'era una situazione di elevatissima contaminazione ambientale. Da quanto risulta dalle mappe che gli americani avevano fornito ai nostri vertici, e che non erano state divulgate (ma oggi su internet si trovano tranquillamente), risulta che proprio la zona di Sarajevo era quella più bombardata. Si parla di circa 18 mila proiettili all'uranio impoverito. C'era una base strategica, poco a sud di Sarajevo, dove abbiamo operato per 4 mesi. E' chiamata la ex-Wolksvagen, e si trova nel quartiere di Vogosca. Lì costruivano armamenti. Le forze Nato hanno dovuto radere tutto al suolo. Essendo io pilota di elicotteri, tra l'altro l'unico del contingente italiano, ero preposto ad avere i contatti con i francesi, già stanziati all'aeroporto di Rajlovac. Io utilizzavo un elicottero francese per espletare le missioni.

Come fa ad essere certo che i suoi problemi di salute sono iniziati a seguito della sua missione a Sarajevo?

Quando si utilizzano tali velivoli in zone dove si è verificata una contaminazione ambientale caratterizzata dai residui post-esplosione, tutto ciò che si va a depositare sul terreno, specialmente in fase di decollo e di atterraggio, viene risollevato. I rotori degli elicotteri sollevano anche i sassi, figuriamoci le particelle di metalli pesanti. Queste vengono respirate e sedimentano nell'organismo, specialmente nel fegato. Non colpevolizziamo l'uranio in se' e per se', ma tutto ciò che ne deriva, cosa già nota agli americani fin dagli anni '70, quando è iniziata la sperimentazione, nei loro poligoni, delle armi incriminate. In un primo momento vennero subito messe da parte perché vi erano dati certi sui danni che causavano all'organismo dopo l'esplosione.

Il caso di Carmine Pastore, da noi intervistato il 7 gennaio, ha smosso nuovamente le acque stagnanti della questione uranio in Italia. Pastore ha raccontato che in Bosnia siete andati con protezioni inadeguate, non commisurate alla grave entità del pericolo. Protezioni che gli americani, invece, possedevano.

Vero, ma la colpa ancor più grave dello Stato maggiore dell'esercito è che dopo la Bosnia c'è stato il Kosovo, nel '99. Gli americani ci avevano avvertito che quelle erano zone pericolose. Dopo Sarajevo, le circolari hanno cominciato a girare per i reparti, ma - per quanto ne so io - in quell'epoca l'equipaggiameno di protezione non è mai stato distribuito.

L'uranio impoverito nuoce alla salute? Secondo qualcuno no. Secondo altri, come l'immunologo Franco Mandelli, estensore della relazione elaborata dalla Commissione medico-scientifica istituita dal governo, non esiste correlazione certa tra l'uranio impoverito e la cosiddetta 'Sindrome dei Balcani', ovvero l'insieme di patologie di cui si ammalano i nostri militari.

E' una vergogna che i nostri continuino ancora oggi a negare, nonostante tutte le prove, ciò che è sotto gli occhi di tutti. Io stesso sono la prova vivente della contaminazione. Nel mio organismo - e lo provano i documenti sanitari in mio possesso - sono state rinvenute particelle metalliche non esistenti in natura, che possono venire prodotte solo da esplosioni di quel tipo, con temperature che superano abbondantemente i 3 mila gradi. Sono costantemente sottoposto a terapia per limitare i danni, con la ghigliottina che è pronta a cadere su di me. Il referto medico di un gastroenterologo, il dottor Michele Pasculli, consultato dall'ospedale militare di Bari, è probabilmente un documento unico, in quanto vi è scritto che il mio problema può dipendere dal mio impiego in zone contaminate dall'uranio impoverito. Vi si legge, testualmente: "Nel '96 il paziente ha operato in regioni belliche, verosimilmente esposto a uranio impoverito". E' il marzo 2005. Sono giudicato ad altissimo rischio di tumore. A giugno, qualche giorno dopo un servizio delle 'Iene', mi arriva il riconoscimento della causa di servizio. Ciò che è insolito è la procedura in seguito alla quale l'ho ottenuta.

Perché?

Di prassi, il Centro militare ospedaliero quantifica l'entità del danno, poi invia la domanda per il riconoscimento della causa di servizio a Roma, al comitato di verifica. Nel mio caso l'iter è stato del tutto particolare, perché, pur di mettermi a tacere, quasi a dirmi 'stai tranquillo perchè la tua domanda l'accettiamo', non è stato quantificato il danno. Ci sono state pressioni per evitare che parlassi. Il mio calvario è cominciato quando mi hanno diagnosticato un'insufficienza renale, poi problemi alla tiroide, fino ad arrivare ai problemi al midollo. Dopo una biopsia, la dottoressa Antonietta Gatti, dell'università di Modena riscontra particelle metalliche tossiche anche nel midollo. Ciò che mi lascia sconcertato è che nessuno, oltre alla stampa, si sta interessando alla cosa, non c'è nessuno che indaghi, verifichi, spieghi come sono realmente andate le cose. Io ho scritto a molte persone, istituzioni, ministeri ma nessuno mi ha mai risposto. E' questa la cosa grave. Non ho potuto confrontarmi con nessuno. C'è un'omertà, nel nostro ambiente, di cui non si ha idea. Non solo i miei commilitoni sono morti, ma le loro famiglie sono state abbandonate. Io sto male, ma ci sono situazioni più tragiche della mia. Dei dieci piloti francesi che erano con me, sei si sono ammalati, e lo Stato francese li ha risarciti tutti.

La causa militare di servizio per malattia l'ha ottenuta. Cosa vuole Carlo Calcagni dallo Stato?

Che mi siano riconosciuti i miei diritti. L'invalidità perchè "vittima del dovere". Sono duemila euro per ogni punto di invalidità, la mia era del 70% prima dei problemi al midollo. Si tratta dell'indennizzo che poi hanno dato, dopo pochissime ore, alle famiglie dei poveri carabinieri morti a Nassiriya. Ho pensato: come hanno fatto a risarcire così in fretta i miei colleghi? Poveracci, ribadisco, aver fatto quella fine. Le famiglie sono però state indennizzate con 200 mila euro, alcune di loro hanno addirittura ricevuto un milione di euro. Sono stati definiti 'eroi della patria'. Giustissimo. Hanno dato loro una medaglia d'oro al valore. Giustissimo. Ma a noi? Cosa danno a noi vittime dell'uranio? La medaglia di legno? Loro sono morti per l'effetto diretto della bomba, noi stiamo morendo per gli effetti indiretti di bombe, tra l'altro, sganciate da 'amici'.

Luca Galassi

 

Cessate il fuoco

Somalia. Dall’inizio del 2007 la guerra ha causato almeno 62 morti.
Il 6, 3 persone sono morte in scontri a fuoco tra le truppe etiopi e dimostranti somali a Mogadiscio, quando centinaia di abitanti della capitale sono scesi in piazza per protestare contro i soldati di Addis Abeba e la campagna di disarmo forzato della popolazione promossa dal governo somalo.
L’8, 4 persone sono state uccise negli scontri tra le truppe di Addis Abeba e manifestanti, sempre a Mogadiscio.
Il 7, raid aerei lanciati da forze statunitensi e dall’aviazione etiope nel sud della Somalia, proseguiti per tre giorni, avrebbero causato almeno 50 vittime civili.

Balucistan (Pakistan). Dall'inizio del 2007 la guerra ha causato 11 morti.
Il 9 nel distretto di Bolan 9
ribelli baluci sono stati uccisi in una battaglia.
Il 10 nei pressi di Quetta 2 soldati sono morti in uno scontro a fuco con i ribelli baluci.
Il 9 nel distretto di Bolan 9 ribelli baluci sono stati uccisi in una battaglia.
Il 10 nei pressi di Quetta 2 soldati sono morti in uno scontro a fuco con i ribelli baluci.

Assam (India). Dall'inizio del 2007 la guerra ha causato 74 morti.
Il 6 gennaio 35 immigrati hindi provenienti dallo stato indiano del Bihar sono stati uccisi dai ribelli dell’Ulfa in una serie di attacchi coordinati.
Il 7 sono stati uccisi altri 27 immigrati del Bihar.
L’8 altri 7 immigrati sono stati uccisi dai ribelli e 2 ribelli sono morti in uno scontro a fuoco con i soldati.
Il 10 l’esercito indiano ha ucciso 3 ribelli.

Stati centrali dell’India. Dall'inizio del 2007 la guerra ha causato 6 morti.
Il 4 gennaio nel Maharashtra i ribelli maoisti Naxaliti hanno ucciso un aspirante poliziotto.
Il 5 gennaio Nel Chhattisgarh un ribelle maoista dei Naxaliti è morto in uno scontro a fuco con l’esercito.
L’8, sempre nel Chhattisgarh, altri 4 ribelli maoisti sono stati uccisi dall’esercito indiano.

Sri Lanka. Dall'inizio del 2007 la guerra ha causato 68 morti.
Il 5 gennaio una bomba è esplosa su un autobus vicino alla capitale Colombo uccidendo 6 civili.
Il 6 un’altra bomba è scoppiata su un autobus nel sud del paese: 15 civili uccisi.
Nel distretto settentrionale di Jaffna 4 soldati e un civile sono morti per l’esplosione di agguati dei ribelli.
Il 7 nel distretto di Vavuniya un ribelle è morto per l’esplosione di una bomba a mano.
Il 9 nella zona di Batticaloa 6 ribelli tamil sono morti in sconti a fuoco tra fazioni rivali. Nel vicino distretto di Vavunya un bombardamento aereo governativo ha colpito un ospedale uccidendo 4 civili.
Il 10 nella stessa area 10 ribelli sono stati uccisi in un attacco dell’esercito.

Filippine. Dall'inizio del 2007 la guerra ha causato 16 morti.
Il 6 gennaio nel corso di un combattimento nell’arcipelago di Sulu sono stati uccisi 7 guerriglieri del gruppo islamico Abu Sayyaf.
Il 9 un leader ribelle di Abu Sayyaf è stato ucciso in uno scontro a fuoco nell’arcipelago di Sulu.
Il 10 nell’isola meridionale di Mindanao, 7 civili sono morti per l’esplosione di tre bombe. Le autorità hanno accusato il gruppo Abu Sayyaf.

Thailandia. Dall'inizio del 2007 la guerra ha causato 3 morti.
Il 10 gennaio nella provincia meridionale di Pattani, una maestra è stata uccisa dai ribelli separatisti islamici.

Cecenia e Nord Caucaso. Dall'inizio del 2007 la guerra ha causato 12 morti.
L’8 gennaio un poliziotto ceceno è morto in un agguato dei ribelli.
Il 9 gennaio in Inguscezia 2 ribelli ingusci si sono fatti saltare in aria durante uno scontro a fuoco con la polizia. Nel distretto ceceno di Vedenò un ribelle ceceno è stato ucciso in una battaglia con i soldati russi.
Il 10 gennaio un militare ceceno ha ucciso se stesso e sua madre. Alla periferia di Grozny un ribelle ceceno è morto per lo scoppio dell’esplosivo che portava addosso. 4 presunti miliziani sono stati uccisi in uno scontro a fuoco nella capitale del Daghestan, Makhachkala.

Kashmir indiano. Dall'inizio del 2007 la guerra ha causato 21 morti.
Il 4, 4 militanti del Harkat-ul-Mujahideen sono stati uccisi dalle forze di sicurezza indiane nel distretto di Udhampur.
Il 6, presunti miliziani separatisti hanno lanciato una granata contro un mezzo delle forze di sicurezza indiane che transitava nei pressi di un mercato a Shopian, nel distretto di Pulwama, uccidendo 2 civili e 3 militari.
Il 7, 2 militanti del Jaish-e-Mohammed sono stati uccisi a Chrar-e-Sharief, nei pressi di Srinagar. Nel distretto di Baramulla 2 civili sono stati uccisi da presunti militanti separatisti.
L'8, le forze di sicurezza indiane hanno ucciso un militante separatista del Lashkar-e-Toiba, nel corso di una battaglia nella foresta di Kuta, vicino a Bandipore.
Il 9, un militante del Lashkar-e-Toiba è stato ucciso dalle forze di sicurezza nel distretto di Udhampur.

Israele e Palestina. Dall'inizio del 2007, la guerra ha causato 13 morti.
Il 4, a Jabaliya, nel nord della Striscia di Gaza, un membro di Hamas è stato ucciso durante gli scontri con i membri di Fatah. 7 palestinesi sono morti durante un’incursione dell’esercito israeliano a Ramallah, in Cisgiordania
Il 5, un religioso è stato assassinato nella striscia di Gaza.

 

Secondo il sindacato inquilini per 80mq si paga 502 euro a Bari periferia e 2.000 nel centro del capoluogo lombardo

Casa, affitti sempre più cari

In un anno aumenti dell'8.7%. Schizzano in alto i prezzi di Roma, Milano, Firenze e Venezia

ROMA - Affitti delle case sempre più su. L'incremento medio è stato dell'8,7% con in testa Roma 12%, e Milano 11%, quindi Firenze e Venezia con il 10%: per un alloggio medio di 80mq si paga dai 502 per l'estrema periferia di Bari ai 2.000 euro nel centro di Milano. E' quanto scaturisce dal confronto fatto sui canoni d'affitto tra giugno 2006 e giugno 2005 nelle aree metropolitane dal Sunia.

Il sindacato degli inquilini ha calcolato anche il peso di un alloggio medio di 80 mq, in periferia, per due classi di reddito, 15 e 30 mila euro l'anno. Per la prima è necessario impegnare tra il 40 e l'80% dell'intero reddito, variando - rivela il Sunia - da un'incidenza minima del 40% a Bari, del 45% a Genova, del 48% a Palermo, del 74% a Roma. Per la seconda classe di reddito, l'incidenza è tra il 20% a Bari e il 40% a Firenze e Milano, con in mezzo il 37% di Roma e il 35% di Bologna.

"Ora ci aspettiamo che varata la Legge Finanziaria, che non ci ha dato grandi cose, il governo avvii politiche abitative forti e serie - sostiene il segretario generale del Sunia Luigi Pallotta - con l'obiettivo minimo di calmierare gli affitti".

Il 'popolo' degli affittuari è di 15 milioni: il 19,98% è in affitto, il restante 8,62% a vario titolo. "Il diritto ad una abitazione - aggiunge Pallotta - va assicurato e tutelato per cui le politiche abitative debbono assumere una centralità nell'azione del Governo e non continuare ad essere una cenerentola".

Le regioni con la percentuale più alta di case in affitto sono: la Campania 27,6%, il Piemonte 24,2, la Liguria 23,8% e la Valle d'Aosta 23,3%. Superiore alla media nazionale del 20% è anche la quota rilevata in Lombardia e Trentino Alto Adige con il 21,7 e 21,6%. Tra le aree metropolitane, c'è Napoli in testa con la quota di abitazioni in affitto pari al 36% mentre al di sopra della media nazionale del 20% ci sono Torino con il 26,27%, Milano 24,8%, Palermo 24,7%, Roma 24,5%, Bari e Bologna 23%.

 

Le radici dell'odio

Se il modello vincente è questo, non ci si può poi stupire di tragedie come quelle di Erba

Guerra. Lo stato permanente di guerra in cui versa il mondo ci dice che la guerra è legittima, è uno strumento sempre più normale da usare. Ogni giorno siamo bombardati da immagini, suoni, parole di guerra. Non solo dai film o dalle fiction. Ma dalla realtà. E la realtà che ci viene presentata è un incentivo alla violenza. Perché ogni giorno, con i notiziari, con l’informazione intrattenimento, ma anche con reality show il modello vincente che ci viene proposto è quello di risolvere i problemi usando lo strumento della guerra, della violenza. La legge giusta è quella del più forte.

Isolamento. Non ci sono più comunità. Non c’è più solidarietà tra conoscenti, tra vicini. Non ci sono più gruppi, circoli, partiti. Luoghi dove confrontarsi, parlare, sfogarsi. Giocando a carte o bevendo un caffè o tra una discussione politica e l’altra. Son sparite non solo le bocciofile, ma anche le piazze. Solo chi è fortunato partecipa a una associazione. Ma sono sempre più rari, i fortunati.
Non c’è più collettività. Lo Stato non è un modello, ma un nemico. E questo è più colpa di chi lo Stato gestisce che non di chi sullo Stato informa.
Quando, e succede da decenni, la cosa pubblica diventa affare privato, il modello che si propone è quello dell’arroganza, della furbizia, del proprio interesse sopra ad ogni altra cosa.
Siamo soli di fronte al mondo. E gli eroi che ci propongono sono quelli che fanno da soli, contano solo su loro stessi. Chi conta sulle proprie forze vince. Perché intorno a noi, questo ci dicono i modelli sociali, abbiamo solo o furbi egoisti o addirittura cattivi nemici.

Terrore. Sono anni, ben prima dell’attentato alle torri, che i governanti, aiutati dai grandi mezzi di comunicazione, hanno adottato quella che gli analisti chiamano la “strategia del terrore”. Una strategia antica come il mondo: siamo sotto attacco, il nemico è alle porte, e il nemico è feroce. Può arrivare in ogni momento e da ogni parte. Divide et impera.
Questa strategia spesso funziona, e funziona proprio perché fa sentire le persone, anche inconsciamente, sempre in pericolo.
Se poi la strategia del terrore è costruita sul nemico “arabo” o “islamico”, poveri gli Azouz di tutto il “nostro” mondo.

Bastano queste cose a spiegare una tragedia come quella di Erba? Probabilmente non bastano. Ma l’assenza di quel movente che viene di solito chiamato “rasptus omicida” ci dice che la guerra, il terrore e l’isolamento, sono capaci di generare l’odio assoluto.
Ed è per questo che il nostro modello, non può che essere un altro.

Maso Notarianni

 

Le lacrime di Bush

Anche i presidenti piangono. George W. Bush, all'indomani della decisione di inviare in Iraq altri 20 mila soldati americani che uccideranno e saranno uccisi nella carneficina di Bagdad, si è commosso durante la celebrazione in memoria del soldato caduto in Iraq mentre tentava di salvare un compagno.
Sono vere le sue lacrime? Chissenefrega.

Penso che il comandante supremo degli Stati Uniti d'America sia responsabile delle centinaia di migliaia di vittime innocenti di questa sporca guerra e della morte di oltre tre mila soldati americani.
Invece di ritirarsi dal teatro iracheno il presidente americano punta all'escalation militare contro la maggioranza della sua opinione pubblica e l'invito della commissione Baker al disimpegno graduale.

Dicono che l'amministrazione di Washington sia irritata perchè l'Italia e l'Europa l'hanno criticata per i raid in Somalia. Chissenefrega.

 

12 gennaio

 

Qui rubavano gli occhi ai morti

di Fabrizio Gatti
L'espianto clandestino di cornee. La decisione di dare una scorta armata ai cadaveri. La testimonianza-choc del direttore del Policlinico. E ancora: le omissioni dei politici, i controlli mancati. Colloquio con Ubaldo Montaguti
 

Il lenzuolo copre il volto dell'ultimo paziente andato all'altro mondo. Dietro di lui, un portantino spinge senza più fretta la lettiga. Accanto a loro, cammina un vigilante armato con la pistola nella fondina. Al Policlinico Inferno di Roma anche la gente comune a volte è trattata da Vip. Prima però bisogna morire. Perché qui l'ultimo percorso i morti lo fanno con la scorta al seguito. Succede ogni volta che un malato o un ferito o un neonato se ne va dalla porta sbagliata. I cadaveri vengono sorvegliati come fossero statue d'oro. Per evitare che qualcuno li porti nei sotterranei dell'ospedale e rubi i loro occhi. Bastano un oculista senza scrupoli e pochi minuti per espiantare le cornee. Due protesi di vetro e palpebre abbassate possono mascherare la profanazione. Al massimo, c'è sempre la scusa per i parenti dell'autopsia necessaria. Così, un anno fa, la direzione dell'Umberto I ha dovuto ingaggiare le scorte armate. L'ennesimo esempio, il più spietato dopo l'inchiesta de 'L'espresso' sul numero scorso, di un'Italia da buttare e votata al malaffare. E una grana in più sulla scrivania di Ubaldo Montaguti, 59 anni, bolognese, dal primo agosto 2005 direttore generale dell'ospedale tra i più grandi d'Europa, che dal suo ufficio ammette il degrado, la sporcizia, la battaglia contro il rischio di infezioni, la politica vigliacca che distrae i finanziamenti e le sue proteste che, dice, sono rimaste senza ascolto.

Direttore, come avete saputo del furto di cornee?
"Dalla Procura ci è arrivata una indicazione riservata di stare molto attenti perché qualche rischio che si verificassero eventi di questo tipo c'era".

Quando avete avuto la segnalazione?
"Circa un anno fa. Non ci sono stati rivelati dettagli. Visto che le salme sono sotto la nostra giurisdizione fino alla partenza del corteo funebre, noi abbiamo l'obbligo di stare particolarmente attenti. Anche se non ci saremmo aspettati di dover affrontare questo tipo di problemi".

Cosa avete fatto dopo la comunicazione della Procura?
"Intanto abbiamo cercato di mettere una guardia armata del nostro servizio di vigilanza per accompagnare le salme quando vanno portate dal reparto alla camera mortuaria. Questo è il tragitto più rischioso rispetto a possibili manomissioni della salma".

Avete avuto altre segnalazioni?
"Sì, abbiamo messo la vigilanza anche perché abbiamo avuto segnalazioni di altre cose molto meno gravi, anche se del tutto inaccettabili. Tipo la sottrazione di beni o indumenti ai cadaveri. Per cui siamo stati costretti a provvedere".

Quali organi possono essere espiantati in modo approssimativo, poiché probabilmente queste operazioni non avvengono in sala operatoria?
"Da medico posso dire che l'organo più facilmente asportabile e in maggior sicurezza è la cornea. È difficile poter intervenire su altri organi perché a distanza dal decesso, solo la cornea può ancora conservare una trapiantabilità adeguata".

Oltre alle scorte armate, avete preso altri provvedimenti?
"Non per questo motivo, ma dato che avevamo problemi per inadempienze contrattuali e per le cattive condizioni ambientali della camera mortuaria, abbiamo deciso di rescindere il contratto con la società esterna e arrangiarci da soli facendo riferimento alla camera mortuaria dell'Istituto di medicina legale in attesa di ristrutturare la nostra, che al momento è chiusa".

Gli espianti sarebbero avvenuti nei corridoi sotterranei?
"Non è necessario molto spazio, basta togliere l'occhio e mettere una protesi. Credo che se qualche cosa si è verificato, è avvenuto durante il percorso. È difficile nella camera mortuaria, in cui sono presenti più persone. Non di notte, certo, ma di notte le salme vengono messe praticamente in cassaforte. È atroce la malattia, ancora più atroce è pensare che qualcosa venga fatto a danno dei defunti".

Chi trasporta le salme fino all'Istituto di medicina legale?
"Il servizio è ora assicurato da nostro personale, acquisito appositamente. Non è più in mani estranee. Dal reparto la salma viene scortata fino all'auto. E in auto il personale interno dell'ospedale la porta fino all'istituto di Medicina legale".

Chi potrebbe aver fatto gli espianti?
"Se si tratta dell'asportazione della cornea è assolutamente necessario un oculista, cioè uno che se ne intende. Se si tratta di scucchiaiare l'occhio e sostituirlo con una protesi, basta personale meno importante. Però il rischio che poi non vengano osservate certe misure per conservare gli organi è alto".

A cosa sarebbero serviti questi occhi rubati?
"Penso a trapianti di cornea".

Quindi ci sarebbero équipe complici da qualche parte in Italia che fanno il trapianto.
"Se non ci fosse qualcuno che compra non ci sarebbe neanche il commercio".

Avete sentore di personale sanitario interno o esterno?
"No, nessuno ci ha mai detto di badare al personale interno. È sempre stato un discorso rivolto all'esterno".

Quindi personale esterno che si intrometteva nell'ospedale?
"Esatto. Io penso di sì. Ribadisco, non ho altri elementi".

A parte il furto di cornee, dopo l'inchiesta de 'L'espresso' lei ha detto pubblicamente che sapevate di situazioni anche più gravi di quelle documentate. Quali?
"I trasudamenti di feci, le feci che colano dai muri. Lei non le ha viste".

I muri non li ho annusati, per la verità. Lei ha parlato anche di vostre fotografie: chi le ha viste?
"Le foto sulle feci le ho fatte vedere al sindaco Veltroni, al presidente della Regione Marrazzo, all'assessore regionale della Sanità Battaglia. E quelle feci sono più pericolose di tutto il resto".

E cosa ha fatto la direzione del Policlinico per denunciare questo pericolo?
"Abbiamo parlato con tutti quanti e presentato i progetti di ristrutturazione già un anno fa. Io ero arrivato da cinque o sei mesi. Abbiamo mostrato queste cose alle istituzioni di riferimento. Forse le mie fotografie e le mie parole non sono state altrettanto convincenti come quelle pubblicate da 'L'espresso'. Prima di Natale, io in persona ho fatto un tour di tutti i ministeri per riuscire a convincerli che non possiamo andare avanti in queste condizioni".

Chi ha incontrato?
"Sono andato da Micheli che è il sottosegretario di Prodi. Sono andato dal senatore Mazzucchelli che è sottosegretario del ministro della Salute, Livia Turco. Ho fatto informare il ministro Padoa-Schioppa e ho parlato con il suo capo di gabinetto. Abbiamo parlato con il capo di gabinetto del ministro dell'Università Mussi. Anche l'assessore Battaglia ha sollecitato l'attenzione di tutti. Io ho parlato con Veltroni il quale, anche lui ne sono sicuro, ha preso contatti con altri ministeri. Dal 2003 una legge dello Stato prevede che il Demanio trasferisca la proprietà dei policlinici all'Università la quale avrebbe ceduto la gestione della struttura all'azienda ospedaliera. Ma il demanio non ha ancora consegnato la proprietà del nostro Policlinico. Così io non riesco a utilizzare gli strumenti finanziari, come le forme di leasing sui lavori pubblici, perché non ho il diritto di superficie. Questo abbiamo cercato di smuovere. Le dico un'altra cosa".

Prego.
"Se voi vedeste i denari che sono stati spesi in questo ospedale per ricoprire in boiserie di legno pregiato gli studi dei vari primari. Ne abbiamo inaugurato uno ai primi di novembre da un milione e mezzo di euro con un dispendio di parquet, legni aromatici, eccetera. Lavori eseguiti e pagati dal ministero dei Lavori pubblici il quale ha sempre fatto queste cose. E non ha mai svolto, nonostante le richieste, interventi di manutenzione importanti. Bisognerebbe chiedere al ministero dei Lavori pubblici quanti denari hanno speso per queste cose".

Nel nuovo dipartimento di Clinica e terapia medica applicata fondato e diretto dal professor Antonino Musca, da poco in pensione, una targa in ottone loda l'ingegner Angelo Balducci, dirigente generale del ministero delle Infrastrutture 'per la generosa concessione del finanziamento della progettazione e della esecuzione di questa struttura istituita quale sede dei laboratori di ricerca'. Quasi fosse una donazione privata. Dottor Montaguti, si riferisce a episodi come questi?
"Io non faccio nomi di nessuno. I primari fanno la loro gara al prestigio. Il problema è chi, al ministero, glielo concede. La mia personale ipotesi è che se noi continuiamo a pensare di dover gestire l'ospedale tenendo conto dell'impatto che esercita il potere accademico dell'Università sull'ospedale, non ce la caviamo più. Ogni barone, ogni professore universitario ritiene di essere al centro del mondo. Ma nella sanità vige la regola assolutamente dimostrata dell'interdipendenza nell'organizzazione, della collegialità. Il personale per me è tutto uguale. La regola delle elezioni accademiche, dei rapporti di forza tra componenti di professori, rende tutto più difficile".

Quanto è l'ammontare complessivo degli stanziamenti?
"È una cifra che ho sentito dire, ma io ancora non c'ero. Nel giro di cinque anni sono stati stanziati 300 milioni di euro o 300 miliardi di lire, comunque una grossa cifra. E di questi soldi statali, per attività di manutenzione ordinaria e straordinaria sono arrivate poche lire".

Dice che dei soldi stanziati non è arrivato quasi nulla?
"No, niente".

Cioè ci sono soldi che partono dal ministero dei Lavori pubblici e qui non arrivano?
"Oppure arrivano, ma su cose veramente di scarsa rilevanza come le boiserie. Rilevanza sul piano della sicurezza dei pazienti, intendo. Io non ho la mania di fare il commissario Basettoni. Anzi, ho anche cercato di nascondere cose che non condividevo. Perché a me non piace sollevare polveroni. Nell'ospedale sono state costruite aree bellissime, aree direzionali, cose di questo genere e si è dato preferenza a quello. Il provveditorato dei Lavori pubblici cinque anni fa ha avuto 3 milioni e mezzo di euro per fare la nuova terapia intensiva post operatoria di Cardiochirurgia. Sono cinque anni che di questi denari non è arrivato niente. Se li avessero dati a me, l'avrei fatta tre volte la terapia intensiva post operatoria. Così quello è un reparto pregiato abbandonato a se stesso, in cui ci son solo delle mezze macerie. Ci sono i barboni che di notte vanno a dormirci. Ma adesso l'abbiamo chiuso e spero non ci vadano più".

Lo Stato ripiana puntualmente i conti dell'altro Policlinico, il Gemelli dell'Università Cattolica. Ma a voi non arrivano nemmeno gli stanziamenti...
"Il Policlinico Gemelli è l'ospedale del papa. Non so se questo vuol dire qualcosa. Che so, tutte le volte che il papa va a visitare il Bambin Gesù, dallo Stato arrivano 50 milioni di euro. Adesso speriamo che anche da noi succedano queste cose".

In attesa dei soldi per la ristrutturazione, però, basterebbe controllare meglio le pulizie, l'igiene ed evitare la promiscuità tra immondizia e pazienti. Perché nessuno l'ha fatto?
"Io penso che sia un problema di priorità. I controlli sono una funzione debole nell'ospedale. È un lavoro noioso, non stimolante. Per cui coloro che dovrebbero fare i controlli vengono assorbiti prevalentemente dai problemi contingenti".

Qualche esempio?
"Il 40 per cento dei bagni di questo ospedale ha il water senza tavoletta, che per me è la cosa più schifosa che possa esistere".

Non li ripara nessuno?
"Sì, sostituiscono le tavolette e spariscono. Altro esempio, la mancanza di personale nei reparti: un terzo è preso da cooperative esterne. È perfino difficile imporre comportamenti rigorosi sul piano delle pulizie. Vedo che vengono fatte spazzando, quindi a secco. Mentre in ospedale la pulitura a secco non va fatta. La polvere si solleva dai pavimenti e vola nell'aria".

Basterebbe multare i fornitori o rifare le gare d'appalto.
"Prima di tutto dovremmo avere un gruppo ispettivo in incognito. Vestito da personale, irriconoscibile, che va in giro e riesce a fare repressione. Non è possibile, chi lavora qui è riconosciuto. Per questo, dopo la vostra inchiesta, preferisco sensibilizzare il personale all'autocontrollo: rispetto della persona, rispetto della cosa pubblica e sicurezza".

Lei è conosciuto come allievo di Mario Zanetti, accademico bolognese e massone. Professionalmente è cresciuto in Emilia Romagna. Come mai Luigi Frati, potente preside di Medicina a Roma, ha scelto lei al Policlinico?
"Io non sono massone. Ero direttore generale a Ferrara. Frati aveva bisogno, uso le sue parole, di una persona particolarmente competente".

Lei ha annunciato di aver ridotto il deficit del Policlinico nel 2006 del 25 per cento, portandolo a 110 milioni di euro. Le condizioni dell'ospedale però lei stesso le ha denunciate a vari ministeri. Come mai il rettore dell'Università la Sapienza le ha appena riconosciuto un incentivo sugli obiettivi di 62 mila euro?
"Io prendo come il direttore generale di Tor Vergata, 207 mila euro lordi l'anno. Mia moglie, medico di direzione sanitaria, come consulente del Policlinico per il controllo della gestione dell'ospedale guadagna 107 mila euro lordi. Per questo incarico ci siamo trasferiti apposta da Bologna. Lavoro con lei dal 1974 e si sapeva che chi compera Montaguti compera anche Daniela Celin. Il mio contratto prevede la possibilità di un incentivo del 30 per cento sullo stipendio ogni sei mesi. Ho rinunciato ai primi due incentivi. Dopo 17 mesi di incarico ho presentato una relazione all'organo di indirizzo e i componenti, tra cui il preside di Medicina Luigi Frati, il professor Mirabelli ex vicepresidente della Corte Costituzionale, il professor Baravelli della Bocconi, hanno stabilito che ho raggiunto obiettivi assolutamente adeguati per il periodo a cui si riferiscono".

Secondo lei è un giusto compenso?
"Io l'ho anche chiesto al rettore della Sapienza, Renato Guarini, se riteneva che avessi raggiunto gli obiettivi. Lui ha detto di sì".

 

L'ultimo sfregio alla verità

Daria Bonfietti

Abbiamo vissuto una nuova giornata di delusione in questa tormentata vicenda giudiziaria della strage di Ustica: la Cassazione ha respinto il ricorso della Procura Generale avverso alla sentenza della Corte d'assise d'appello che assolveva per insufficienza di prove i generali al vertice dell'aeronautica militare nel giugno 1980.
Si è trattato di una discussione paradossale in quanto i generali dovevano rispondere di alto tradimento, un reato che con una delle famigerate leggi ad personam della maggioranza berlusconiana è stato abrogato: i difensori degli imputati l'hanno definito un processo di serie C. Anche questi paradossi danno l'immagine di una vicenda troppo tormentata. Di una verità che fatica oltre ogni misura a emergere completamente.
Bisogna ricordare che a venti anni dalla tragedia il giudice Priore aveva traccciato un primo panorama dell'accaduto: «l'incidente al DC9 è occorso a seguito di azione militare di intercettamento, il DC9 è stato abbattuto, è stata spezzata la vita a 81 cittadini innocenti con un'azione, che è stata propriamente atto di guerra, guerra di fatto e non dichiarata, operazione di polizia internazionale coperta contro il nostro Paese, di cui sono stati violati i confini e i diritti. Nessuno ha dato la minima spiegazione di quanto è avvenuto». Aveva inoltre delineato un inquietante scenario di depistaggi e di reati contro la verità; molto è andato perduto ed è rimasto soltanto il reato di alto tradimento per i vertici dell'aeronautica.
Davanti alla Corte d'Assise di Roma si è svolto un primo processo molto lungo, articolato, con il dibattito fra molti testi, con una conclusione che attestava che il reato era stato commesso, anche se poi assolveva gli imputati per prescrizione.
Inaccettabile è stato il processo in Corte d'appello, un processo affrettato, di poche udienze, senza escussione di testi. Si è intervenuti con molta rapidità su un precedente dibattimento che aveva approfondito ogni aspetto. Una sentenza già scritta ha smantellato tanto lavoro. E altrettanto inaccetabili sono state le motivazioni, contradditore, non congrue con il pur misero dibattimento. Era questo procedimento che pensavo si potesse cancellare: perché c'è stato un progressivo allontanamento della vicenda giudiziaria dalla verità. La tragedia, le vittime, l'impegno per la verità, anni di lavoro degli inquirenti sono svaniti poco alla volta dalle aule.
Non cambia molto un'assoluzione per prescrizione da un'assoluzione per insufficienza di prove. Penso che si può esserne sollevati, ma nessuno a ragione può andarne fiero. Nessuno può cantare vittoria. E' la verità che continua a mancare in questa giornata, ed è umiliante se pensiamo che potrebbe essere l'ultima giornata della vicenda giudiziaria. Rimangono le ricostruzioni della sentenza ordinanza di Priore, rimangono le rogatorie internazionali a cui stati amici e alleati non hanno dato risposte.
Bisogna trovare ancora la forza per cercare. Ma se può essere finita la vicenda giudiziaria bisogna considerare finito anche l'alibi dietro il quale troppe volte il mondo della politica si è trincerato. La storia non la può scrivere la magistratura da sola: ognuno deve fare la sua parte, serve un intervento vero delle istituzioni. Perché continuo a pensare che Ustica sia un grande problema di dignità nazionale con il quale dobbiamo continuare a fare i conti.

 

Tutti i nodi irrisolti della nuova-vecchia Telecom Italia

Quattro mesi dopo le dimissioni di Tronchetti Provera, le nuove sfide della convergenza e il che fare del più grande gruppo di telecomunicazioni italiano. Sotto la presidenza di Guido Rossi

F. C.

Sono passati esattamente quattro mesi da quando, l'11 settembre, Marco Tronchetti Provera propose, e il consiglio di amministrazione di Telecom Italia approvò, un'«operazione di riorganizzazione mediante scorporo dei rami d'azienda relativi alla rete fissa locale e al business di telefonia mobile nazionale». A seguire ci fu la violentissima polemica con Romano Prodi e il 15 settembre le dimissioni dello stesso Tronchetti Provera da presidente, sostituito da Guido Rossi. Da allora il gruppo dirigente è stato riorganizzato e altri problemi, ultimo il WiMAX, attendono soluzione.
Tre almeno: la più pesante è la vicenda giudiziaria della banda degli spioni. Telecom rivendica di essere parte lesa e l'ordinanza dei giudici lo riconosce. La conclusione processuale è attesa con ansia, come un peso da cui infine liberarsi. Nella gestione di Rossi sono anche cadute le lamentazioni alla Berlusconi contro i giornali e i gruppi editoriali che «ce l'hanno con noi». In audizione al Senato i rappresentanti di Telecom Italia hanno dichiarato ufficialmente che la riassunzione del Tavaroli già licenziato venne sollecitata dall'allora governo Berlusconi. Nessuno dei senatori ritenne nell'occasione di chiedere nomi e cognomi. E nessuno di quelli che hanno accusato Prodi di ingerenza si è troppo indignato perché Gianni Letta, o chi per lui, interferisse così pesantemente nella gestione di un'impresa privata. Anche in questo caso lo spettro del terrorismo sembra azzerare le intelligenze di illustri commentatori. O forse si trattava solo di anti-ulivismo preconcetto.
Poi c'è il problema del principale azionista. Che è Olimpia, dove stanno anche i Benetton, e più in su Pirelli e lo stesso ex presidente. Su questo terreno è impossibile, allo stato delle informazioni, fare previsione alcuna, ma, visto l'uomo, è difficile immaginare Tronchetti Provera a far vita da pensionato e di semplice investitore che incassa i dividendi, sperando prima o poi di coprire l'indebitamento.
La terza questione riguarda il piano industriale e soprattutto gli investimenti, ormai indilazionabili, per la rinnovata rete fissa tutta digitale (il famoso NGN, "Next Generation Network"), analogamente a quanto stanno facendo i concorrenti stranieri. Di tale Ngn la tecnologia WiMAX dovrà far parte obbligatoriamente, perché offre dei vantaggi anche a chi già porta il doppino di rame nelle case. Una banda davvero larga infatti, ed estesa a tutti, richiede anche nelle città un potenziamento delle reti attuali, accorciando la lunghezza tra le centraline di strada e le case. Dunque anche a Telecom Italia converrà coprire senza fili interi quartieri.
Quanto al governo del gruppo (che ormai, chissà perché viene chiamato «governance») e alla sua struttura, Tronchetti Provera pensava di spaccare Telecom Italia in diverse società anche per valorizzarle separatamente, il che, nel linguaggio dell'economia industriale, significa venderle a pezzi come faceva il leggendario Edward Lewis di Pretty Woman (Richard Gere). Ora invece la strada scelta è la divisionalizzazione: attività separate funzionalmente e relativamente indipendenti, anche per rispettare le richieste dell'Autorità delle comunicazioni. Sembra che saranno quattro le divisioni, a dipendere dall'attuale ad Riccardo Ruggiero, il quale a sua volta, in organigramma, resta sotto il vicepresidente esecutivo Carlo Buora che ha abbandonato i precedenti incarichi in Pirelli, risolvendo un potenziale conflitto di interessi. Dopo gli scontri, tra i due è armistizio.

 

Birra

La Heineken di Messina annuncia la chiusura

In via di chiusura lo stabilimento Heineken di Messina. Lo annuncia Ivan Comotti della Flai-Cgil nazionale: «Da diverso tempo - ha spiegato - le Rsu e i sindacati territoriali chiedono un confronto sugli investimenti del gruppo nello stabilimento e nella regione Sicilia, ma l'azienda ha dilatato i tempi fino ad annunciare la chiusura». Lo stabilimento occupa 53 persone, imbottiglia circa 500 mila all'anno di birra di cui circa 400 mila per il mercato siciliano. Il sindacato sta definendo una convocazione urgente del coordinamento nazionale. Il coordinamento nazionale e le segreterie di Fai, Flai e Uila hanno rinnovato a settembre dello scorso anno l'integrativo aziendale, approvato da tutti i lavoratori degli stabilimenti e della sede, e non erano emersi in quella sede segnali di criticità alcuna sull'attuale collocazione produttiva del gruppo.

 

Campari

Chiude l’impianto di Sulmona A rischio 101 dipendenti

La Campari-Crodo ha annunciato la chiusura dello stabilimento di Sulmona dove lavorano 101 dipendenti. Il gruppo, con una nota, ha dichiarato la «volontà di trasferire tutta la produzione in altri siti produttivi, con la conseguente cessazione di quelle attività». Lo stabilimento di Sulmona, ricorda la società, era entrato a far parte del gruppo Campari con l'acquisizione Bols del 1995 e «non ha raggiunto nella sua storia un livello di efficienza accettabile, nonostante tutti gli investimenti, i trasferimenti di produzioni e gli sforzi, risultati vani di trovare nuove opportunità produttive anche per conto terzi».

 

11 gennaio

 

Cinque anni di illegalità

Centinaia di proteste per il quinto anniversario del centro di detenzione per presunti terroristi a Guantanamo

Cinque anni dopo, i detenuti sono circa la metà. Ma il campo di detenzione di Guantanamo, all’interno della base statunitense a Cuba, c’è ancora e per il momento non è in programma la sua chiusura. E proprio in coincidenza con il quinto anniversario dei primi arrivi di presunti terroristi, oggi, 11 gennaio, sono previste in tutto il mondo centinaia di manifestazioni per chiedere che i circa 400 detenuti di Guantanamo siano rilasciati, o che almeno vengano accusati di qualcosa di preciso, con un processo regolare. Veglie, proteste davanti alle ambasciate Usa, travestimenti con le tipiche tute arancione dei detenuti, la “mamma della pace” Cindy Sheehan a protestare all’esterno della base. Ma anche una lettera indirizzata a Tony Blair. Mittente: un bambino di 10 anni figlio di un detenuto a Guantanamo, che al primo ministro britannico chiede “Perché mio padre è in prigione?”.
 
La lettera che il piccolo Anas al-Banna ha scritto a Tony BlairLe proteste. Nella lettera, il piccolo Anas al-Banna accenna a una missiva già spedita ma rimasta senza risposta: “Perché mio padre è lontano, in quel posto chiamato Guantanam (sic) Bay? Non vedo mio padre da tre anni, mi manca tantissimo. E so che non ha fatto niente perché è un brav’uomo. Spero che questa volta lei mi risponda”, scrive il bambino figlio di Jamil al-Banna, un giordano che risiede in Inghilterra, arrestato nel 2002 in Gambia insieme a un amico iracheno, durante un viaggio di lavoro, e spedito a Guantanamo come presunto terrorista. Giovedì 11 gennaio Anas sarà all’esterno di Downing Street con la madre, mentre davanti all’ambasciata statunitense a Londra centinaia di manifestanti si inginocchieranno con indosso la tuta arancione dei detenuti. Un’iniziativa simile sarà organizzata da Amnesty International a Roma, in piazza di Pietra, alle 17.30. Altre manifestazioni sono previste a New York, Sydney e decine di altre città negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Italia.
 
Un'immagine del film ''The road to Guantanamo''La Sheehan a Cuba. A Cuba, nel frattempo, è già arrivata Cindy Sheehan insieme ad altri undici attivisti tra cui Asif Iqbal, uno dei tre ex prigionieri britannici la cui storia ha ispirato il film “The Road to Guantanamo”. Oggi il gruppo sarà all’esterno della base Usa. Nei giorni scorsi, la Sheehan ha definito i componenti dell’amministrazione Bush “nemici dell’umanità”, sostenendo che il suo viaggio vuole far conoscere “le barbare attività di Guantanamo” e spingere il nuovo Congresso di Washington, controllato dai democratici, a contestare la politica di detenzione a tempo indefinito voluta dall’amministrazione Bush. La visita della Sheehan, che ha anche chiesto la fine dell’embargo commerciale statunitense su Cuba, è stata accolta con reazioni miste dai rappresentanti dei dissidenti del regime di Castro. Miriam Leiva, un’attivista dei diritti umani dell’isola, ha detto che la Sheehan è benvenuta, ma che avrebbe anche potuto dire qualcosa sui 280 detenuti politici nelle carceri cubane.
 
La bandiera statunitense dietro la recinzione di GuantanamoTutto da rifare. Ma nonostante i ripetuti appelli internazionali e le centinaia di manifestazioni, la chiusura di Guantanamo non sembra affatto vicina. Nel centro di detenzione sono rinchiusi 395 detenuti, 11 dei quali ancora in sciopero della fame. In questi cinque anni sono stati rilasciati 379 prigionieri, mentre altri 10 detenuti avrebbero dovuto essere processati davanti alle corti militari istituite dall’amministrazione Bush. Nel giugno scorso la Corte Suprema dichiarò però incostituzionali questi procedimenti, ordinando che i detenuti venissero processati davanti a una corte penale statunitense. Ma prima delle elezioni di novembre, quando il Congresso era ancora repubblicano, l’amministrazione Bush è riuscita a far approvare il Military Commissions Act, legittimando in sostanza quello che per la Corte Suprema era incostituzionale. Al momento, la situazione è in stallo. La Casa Bianca vorrebbe processare un’ottantina di detenuti in queste corti militari, che dovrebbero costare oltre 125 milioni di dollari (96 milioni di euro). Quelli che lottano per la chiusura di Guantanamo, in pratica, sanno che è tutto da rifare. “Spero”, ha scritto Michael Ratner, direttore del Center for Constitutional Rights, “che non ci vogliano altri cinque anni”.

 

10 gennaio

Cassazione, sentenza definitiva a 27 anni dalla tragedia del DC9
Assolti i generali dell'Aeronautica. La rabbia dei parenti delle vittime

Ustica, una strage senza colpevoli
Il governo: "Ci sarà un risarcimento"

In Finanziaria una norma che garantisce un indennizzo: "Come per i morti del terrorismo"

<B>Ustica, una strage senza colpevoli<br>Il governo: "Ci sarà un risarcimento"</B>Il relitto del DC9 dell'Itavia ricostruito in un hangar
ROMA - La strage di Ustica non ha colpevoli. A 27 anni dall'esplosione in volo del DC9 dell'Itavia diretto a Palermo, la prima sezione penale della Corte di Cassazione ha impiegato cinque ore per dichiarare definitivamente innocenti i due generali dell'Aeronautica accusati di aver depistato le indagini. Resta preclusa quindi la possibilità di riaprire il processo anche per la parte relativa ai risarcimenti civili. La Suprema Corte ha deciso che i familiari delle 81 vittime non avranno alcun indennizzo dallo Stato. Ma il governo, pur rispettando la sentenza, assicura che il risarcimento ci sarà: è stata inserita in Finanziaria una norma che equipara i parenti delle vittime della strage ai familiari delle vittime del terrorismo, garantendo così un risarcimento. Detto questo, però - si osserva in ambienti di Palazzo Chigi - dal governo non si entra nel merito della sentenza e si sottolinea il "massimo rispetto" per il lavoro della magistratura.

Familiari, stupore e rabbia. Tra i familiari delle vittime, un senso profondo "di amarezza e indignazione per ciò che è accaduto in questa vicenda anomala". Così l'avvocato Alfredo Galasso, legale di alcuni parenti delle vittime di Ustica, commenta il verdetto emesso oggi dalla Corte di Cassazione: "Lo Stato a livello di tutte le sue articolazioni consegna alla storia come mistero una delle più grandi tragedie italiane. In 27 anni non si è riusciti a raggiungere la verità". Il legale, inoltre, ribadisce di essere "convinto che si trattò di una 'pirateria' aerea. La verità del giudice Priore è la nostra verità".
Soddisfazione tra gli imputati. "E' la fine di un incubo", ha detto il generale Franco Ferri, imputato di alto tradimento insieme al collega Lamberto Bertolucci. "Finalmente la mia onestà è stata riconosciuta definitivamente".

Confermato l'appello. Resta confermata la sentenza della Corte d'Appello di Roma del 15 dicembre 2005 che aveva assolto con la formula "perché il fatto non sussiste" i due alti ufficiali dell'Aeronautica. Al cambiamento della formula puntava invece la Procura generale e anche il governo difeso dall'Avvocatura dello Stato che chiedevano di modificare la formula con la dizione "perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato" che avrebbe lasciato aperta ai familiari delle vittime la strada per la richiesta di risarcimento. La prima sezione penale presieduta da Torquato Gemelli ha optato per l'assoluzione piena e definitiva ai generali, precludendo in questo modo la possibilità di qualsiasi richiesta di risarcimento.

 

Energie rinnovabili
Il Wwf: Italia all'ultimo posto
Dal 1997 a oggi in Italia il contributo delle energie rinnovabili invece che aumentare è diminuito, passando dal 16% al 15,3% di oggi: l'Italia è tra i paesi maggiormente lontani dall'obiettivo nazionale del 25% di quota da rinnovabili sul totale del consumo energetico. A confermarlo - secondo il Wwf - sono il rapporto del 2005 del Ministero dello sviluppo economico, i dati provvisori d'esercizio di Terna 2006 e soprattutto il rapporto della Commissione europea sulla situazione delle rinnovabili nei Paesi dell'Unione europea che sarà presentato oggi. Il 2005 è stato un anno particolarmente difficile per il settore idroelettrico, tuttavia, conferma la Commissione, anche normalizzando i dati delle precipitazioni il contributo delle rinnovabili nel nostro paese si fermerebbe al 16%. Tra gli obiettivi della Ue - dice ancora il Wwf - si annuncia un target di riduzione delle emissioni di anidride carbonica del 30% al 2020. L'Italia dovrebbe ridurle del 6,5% al 2008-2012 rispetto al '90, eppure a oggi le emissioni sono aumentate del 13%. Per il Wwf «i meccanismi d'incentivazione per le energie rinnovabili di ieri e di oggi hanno ben altre finalità di un virtuoso sviluppo del settore. Il programma Cip6, pagato dai consumatori in bolletta per finanziare le energie rinnovabili, per il 70% finisce per incentivare normali centrali di generazione con combustibili fossili o rifiuti. Il meccanismo dei certificati verdi, anziché essere un virtuoso sistema di mercato, oggi è una nicchia di privilegi privo di obiettivi di sviluppo delle rinnovabili».

 
Quegli ospedali da manicomio
Sanità Elettrochoc, malati legati, violenze. La denuncia delle associazioni per la salute mentale
Pubblico e privato Le associazioni che si occupano di salute mentale all'attacco: in Italia la legge Basaglia non è applicata. E Livia Turco promette: chiuderemo gli ospedali psichiatrici giudiziari

Eleonora Martini
Roma
Ammassati a centinaia in megastrutture dalle porte sbarrate, sorvegliati con videocamere, sedati costantemente a forza di psicofarmaci. Maltrattati, a volte picchiati, legati ai letti e in alcuni casi sottoposti addirittura ad elettrochoc. I manicomi in Italia esistono ancora. E, quasi non fossero passati quasi 30 anni dal varo della legge 180, sono luoghi pensati per contenere, punire quasi, non certo per curare. A denunciarlo è Gisella Trincas, presidente dell'Unasam, che ieri ha riunito in Campidoglio a Roma i rappresentanti delle oltre 150 associazioni che la compongono per discutere, al cospetto delle ministre della sanità e della famiglia Livia Turco e Rosi Bindi, di salute mentale.
Sotto accusa i reparti psichiatrici di ospedali pubblici e privati, dal Veneto alla Puglia, strutture totalmente fuorilegge. Ma Trincas richiama l'attenzione del governo Prodi anche sugli ospedali psichiatrici giudiziari, chiedendone la chiusura. Primo tra tutti il reparto femminile di Castiglione delle Stiviere. «In queste realtà, che sono carcere e manicomio insieme, le persone subiscono una doppia punizione a causa della loro condizione di malati. Noi chiediamo che venga soppressa la non imputabilità dei malati psichici, che devono essere trattati come tutti gli altri cittadini: devono poter accedere alla riabilitazione e a un percorso alternativo alla detenzione».
Così, davanti alle circostanziate denunce delle organizzazioni dell'Unasam, tra cui anche molte associazioni di familiari dei malati psichici che hanno mostrato foto e querele, Livia Turco ha promesso «subito un'indagine conoscitiva su tutto il territorio nazionale e una legge per superare i 6 opg», dove sono detenute circa 1200 persone. «Sulla salute mentale siamo tornati indietro - ha commentato la ministra - ora basta con le politiche di ghettizzazione, di contenimento e dei manicomi sotto mentite spoglie». Bisogna recuperare, ha aggiunto Livia Turco, il tempo perso durante il governo Berlusconi, che ha inchiodato «per cinque anni il dibattito parlamentare su una pessima legge in materia, la Burani-Procaccini». Cosa che «ha significato non solo non fare altri provvedimenti, ma anche mandare un preciso messaggio culturale soprattutto alle famiglie che dice "nasconditi, ti mettiamo da parte"». Per questo nel programma di Livia Turco c'è l'insediamento a febbraio della Consulta delle associazioni e presto una seconda Conferenza nazionale sulla salute mentale.
Una realtà, quella raccontata da Gisella Trincas, che è «sotto gli occhi di tutti» anche se «si fa finta di non vederla», e che riguarda «più del 50% delle strutture di cura, pubbliche e private». E ci riporta a una «cultura dello stigma e del rifiuto del malato mentale» non molto dissimile da quella dilagante prima della riforma Basaglia. «Possiamo dimostrare casi di pazienti legati alle mani e ai piedi e bloccati all'altezza del collo e del tronco», assicura Trincas che sull'elettrochoc aggiunge: «Nel nostro paese non è una pratica illegale e noi chiediamo che lo diventi. Per molti medici è prassi anche nei servizi pubblici di diagnosi e cura, e lo ammettono tranquillamente». C'è un caso, racconta, di un infermiere condannato per aver preso a calci e pugni un ragazzo schizofrenico ma che non è mai stato rimosso dal suo posto di lavoro. Ma è sulle megastrutture che si concentra in modo particolare l'attenzione dell'Unasam, perché «violano la legge 180». «A Mogliano Veneto c'è una struttura privata con oltre 770 persone che funziona come un manicomio; a Serra D'Aiello una fondazione della Curia di Cosenza detiene circa 350 malati e un'altra struttura privata a Bisceglie, in Puglia, ne contiene un migliaio», racconta Trincas. «Sono luoghi in cui persone in condizioni di particolare fragilità vengono costrette a viverci, rinchiusi a chiave nelle stanze e sottoposte a dosi massicce di psicofarmaci. E in uno stato di promiscuità indegno». Negli ospedali pubblici poi spesso ci sono posti letto riservati a pazienti provenienti da altre regioni: il Piemonte ne ha più di mille. Una pratica «disumana» perché il malato non può essere deportato lontano dai propri affetti. «Così si sottraggono risorse finanziarie importanti che potrebbero servire per rivalutare le pensioni: oggi un disabile psichico al 100% prende 250 euro al mese. E per i centri di salute mentale territoriali che sono fondamentali per curare i malati e supportare le famiglie. Ma, come prima cosa, devono rimanere aperti 24 ore su 24. Avviene già in alcune città-modello italiane, deve avvenire ovunque».

 
Hotel Corno d'Africa, grande base americana
Militari e civili americani vanno e vengono e, in nome della «lotta al terrorismo globale», tutto è sotto controllo: Etiopia, Somalia, Kenya, Sudan, Eritrea, Yemen, da quel centro strategico che è Gibuti
Emilio Manfredi
Dire Dawa
Tigist ha ventidue anni e lavora come cameriera al Dil Hotel di Dire Dawa, la seconda città per importanza e numero di abitanti d'Etiopia. «Da quando ho trovato questo lavoro, finalmente posso dare una mano ai miei genitori. Siamo in 10 in famiglia, e sino a un anno fa sopravvivevamo con lo stipendio di mio padre, autista di camion», racconta, mentre serve del the a due avventori dell'albergo. «Ora con i miei 150 birr (meno di 15euro, ndr) al mese, viviamo un po' meglio».
Dire Dawa è una città dove la vita scorre lenta al ritmo del Khat, la foglia stimolante che molti amano masticare. Soprattutto, un centro di passaggio sulla rotta dei camion e del treno che da Addis Abeba porta verso Gibuti, la piccola repubblica somala ex-colonia francese, oggi principale porto commerciale di cui si serve l'Etiopia. «Questo è un albergo molto frequentato da businessmen etiopi e turisti di passaggio in città, diretti soprattutto ad Harar, la quarta città santa dell'islam dove ha vissuto a lungo il poeta francese Rimbaud», racconta un facoltoso imprenditore di Addis Abeba, ospite dell'albergo. «Io vengo qui almeno due volte a settimana. Ultimamente, almeno metà dell'hotel è occupato da militari americani. Arrivano su vetture civili, targate Gibuti o Dubai oppure prese a noleggio qui in Etiopia. Scaricano attrezzatura e si installano per giorni, continuando a fare avanti e indietro. Io vengo sempre qui, e non mi posso esporre. In Etiopia ci sono molti argomenti di cui è meglio non parlare. Uno di questi sono i soldati americani e le loro attività», continua l'uomo. Per questo il suo nome non verrà citato.
L'uomo parla e racconta usando un inglese perfetto. Ogni tanto però si interrompe e continua piano in amarico. Infatti, anche oggi, al Dil hotel, come in tutta Dire Dawa, si aggirano soldati americani. Primo fanteria, Air force, Us Navy. Tutti in divisa, con nomi e gradi ben in vista. Alcuni di loro sono armati, M-14 a tracolla, caricatori disinseriti ma a portata di mano. Stanno scaricando materiale appena arrivato a bordo di un van e di tre fuoristrada Toyota. Mezzi civili, come sempre. Computer, tecnologia di comunicazione satellitare e attrezzatura per costruire un campo (tende e brande) vengono lasciati sotto la custodia di 4 palestratissimi soldati del Primo reggimento fanteria. Intanto, altri uomini in divisa (ufficiali di aviazione e di marina), accompagnano tre uomini e una donna in un giro di perlustrazione dell'hotel. Discutono fitto, a bassa voce. Controllano le stanze, le entrate dell'albergo, le vie di fuga, i tetti. Poi alcuni di loro risalgono sui fuoristrada, e se ne vanno, scortati da ragazzi etiopi che parlano con un pesante accento americano. «Uno di loro ha chiesto informazioni sui clienti dell'hotel», racconterà poi un dipendente, la voce preoccupata.
Che il Corno d'Africa sia diventato per gli Usa uno dei luoghi strategici nella cosiddetta «guerra al terrorismo» non è cosa nuova. Come non è nuovo il fatto che il piccolo Stato di Gibuti sia il centro del comando della Combined Joint Task Force (Cjtf) americana per il Corno d'Africa. Una missione militare di pronto intervento e di intelligence «il cui obiettivo è individuare, interrompere, e in ultima analisi sconfiggere i gruppi terroristici transnazionali che operano nella regione - impedendo paradisi sicuri, supporti esterni, e assistenza materiale per le attività terroristiche», come spiega il sito Globalsecurity.org. Inoltre, il Cjtf «ha lo scopo di combattere il riemergere del terrorismo internazionale nell'area attraverso operazioni militari/civili e supportando operazioni di organizzazioni non-governative, al fine di rinforzare la stabilità a lungo termine della regione». L'area di responsabilità della missione, stando al sito ufficiale, comprende lo spazio aereo e terrestre di Etiopia, Somalia, Kenya, Sudan, Eritrea, Gibuti e Yemen.
La base principale di questa missione è - sin dai suoi esordi nel 2002 - Camp Lemonier, ex-caserma della legione straniera francese poco fuori da Djibouti-ville, capitale e unica città di un certo rilievo della piccola repubblica. Qui sono basati soldati di fanteria, marines, ma anche forze della marina, dell'aviazione e di intelligence. Da qui, ieri, è partito l'aereo AC-130 che ha bombardato la zona di Ras Kamboni, nel sud della Somalia, dove secondo i servizi statunitensi si trovavano miliziani delle Corti e sospetti membri di al-Qaeda.
Secondo il Comando, la missione nell'area supporta l'operazione Enduring freedom e unisce attività civili di supporto alla popolazione (operate da soldati armati e in divisa) a operazioni di addestramento militare a eserciti di paesi amici, oltre a vere e proprie operazioni antiterrorismo. Il tutto, dice l'ufficio stampa del Cjft, «ha il fine di garantire alle Nazioni ospitanti un ambiente stabile e sicuro, dove la gente abbia la libertà di scegliere. Dove l'educazione e la prosperità siano alla portata di ognuno e dove i terroristi, che con le loro idee estremiste cercano di ridurre in schiavitù le Nazioni, non possano calpestare il diritto di autodeterminazione».
E l'Etiopia? Le attività militari Usa in Etiopia negli ultimi 4 anni sono andate aumentando. Fuori Dire Dawa, dagli inizi del 2004, unità americane hanno iniziato a cooperare e ad addestrare unità speciali etiopi in una piccola base militare chiamata «Camp United». Ma da lì partono anche azioni legate alla «guerra al terrorismo globale», coordinate dalla base di Gibuti. Lo stesso succedeva mesi fa a Gode, nella regione somala d'Etiopia, non lontano dal confine con la Somalia. Poi Addis Abeba ha iniziato i preparativi per l'intervento in Somalia, e la base Usa è sparita. Dove sia finita, non si sa. Di certo, le operazioni antiterrorismo americane che partono dall'Etiopia continuano. E la gente, che già non capisce il senso dell'intervento militare in Somalia, è perplessa. Nel centro di Dire Dawa, nel quartiere di Kezira, ancora soldati in divisa e armi in vista. «Non capiamo cosa stia succedendo», spiega Blein seduta ai tavoli del Mitto cafè, attorniata da una decina di soldati Us che bevono qualcosa. «L'unica cosa che sappiamo, è che non bisogna fare domande».
 
 

 
INQUINAMENTO|

Cina, 2006 anno nero
 

Pechino ha fallito gli obiettivi di ridurre il fabbisogno energetico del 4% e lo smog del 2%. L'ammissione viene dal viceministro per l'ambiente Pan Yue

La Cina ha fallito gli obiettivi, fissati a marzo dell'anno scorso, di ridurre il fabbisogno energetico del 4% e l'inquinamento del 2%. L'ammissione viene dal viceministro per l'ambiente, Pan Yue, che ha definito il 2006 "l'anno più nero" per la situazione ambientale in Cina, come si apprende dalle dichiarazioni comparse oggi sul sito

La Grande Muraglia Cinese
della State environmental protection administration. Non è chiaro di quanto siano stati mancati gli obiettivi. I dati disponibili per la prima metà dell'anno passato indicano tuttavia un incremento dello 0,8% del consumo energetico nazionale.

Secondo quando riportato oggi dal China Daily, solo Pechino e cinque delle trentuno province cinesi avrebbero soddisfatto i parametri richiesti, mentre le altre si starebbero mettendo in regola. L'economia cinese è alimentata per la maggior parte a carbone, una situazione che ha portato negli ultimi anni la Cina ai primi posti per emissioni di anidride solforosa, la causa principale delle piogge acide che si abbattono regolarmente sul paese.

Le autorità stanno studiando un nuovo sistema di valutazione basato sull'efficienza energetica e l'inquinamento ambientale, da utilizzare sia per la concessioni di prestiti alle imprese sia per giudicare l'operato dei manager pubblici.


 

9 gennaio

Incustoditi i laboratori contagiosi e radioattivi, sporcizia e sigarette ovunque. Il viaggio choc nell'ospedale più grande d'Italia dell'inviato de 'L'espresso'. Per un mese, travestito da uomo delle pulizie

Anatomia del mostro

79.500 sono i pazienti trattati nel 2005
118 milioni di euro: è il debito dell'Umberto I alla fine del 2006
323 mila euro: è quanto perde ogni giorno
90 mila: sono i metri quadrati coperti occupati dalle strutture ospedaliere
1.337 sono i posti letto
5.678 sono i dipendenti delle strutture assistenziali
325 sono i primari
2.031 sono gli infermieri
1888 è l'anno in cui, il 19 gennaio, venne posta la prima pietra

 

 

Quaggiù in pediatria una pausa sigaretta vale più di un bambino. Bisogna camminare fino in fondo al reparto per trovarne la prova. Si arriva davanti a una porta scorrevole con un citofono. Il cartello 'Terapia intensiva' rivela le sofferenze che il vetro smerigliato nasconde. Si sente il pianto dei piccoli pazienti. A volte piangono anche i genitori seduti su una panca di fronte. Ma il corridoio prosegue. Nove passi. Soltanto nove passi dalla porta scorrevole. E si finisce su un pavimento di mozziconi, cicche lasciate a metà, filtri consumati fino all'ultimo tiro di tabacco. Un corridoio è un corridoio. Non ha sbocchi all'aperto. Non ha finestre. Il fumo ristagna. Volteggia. Si affida alla corrente d'aria e lentamente torna indietro attirato dalla temperatura più calda nel reparto. L'odore di nicotina lo senti tra le stanze con i lettini a sbarre e i poster di Topolino, Biancaneve e la Carica dei 101. Lo annusi all'ingresso della grande camera sterile. Forse scivola fin là dentro ogni volta che la porta scorrevole si apre. Fumare in un ospedale con bimbi in pericolo di vita non solo è vietato: è da criminali. Ma in un mese, nessun trasgressore è mai stato rimproverato. Il perché lo si scopre fermandosi qualche ora ad osservare. Chi fuma sono quelli che dovrebbero far rispettare il divieto. Uomini o donne con il camice bianco. Oppure personale sanitario con il completo e la cuffia azzurri, o strumentisti con la mascherina e l'uniforme verde delle sale operatorie. Sanno che non si può e non si deve. Ma chissenefrega. Qualcuno l'ha dichiarato con un pennarello nero sul muro bianco: 'Stiamo in pausa... e si fuma'. E ha pure aggiunto quattro punti esclamativi.

È sorprendente lavorare un mese in ospedale. Questo poi non è un ospedale qualunque. È il Policlinico Umberto I di Roma, il più grande d'Italia, uno dei più grandi al mondo. L'ospedale modello dell'Università La Sapienza che con i suoi professori, assistenti, ricercatori, medici, infermieri, allievi è, o dovrebbe essere, l'eccellenza dello Stato. Invece è l'esempio di come la sanità pubblica si stia suicidando. Non solo per la sporcizia e la carenza di manutenzione grazie ad appalti che nessuno controlla. Ma anche per l'abitudine al degrado che sta inesorabilmente contagiando le persone. A cominciare dagli studenti, il futuro della medicina, costretti a formarsi in una realtà nella quale o ci si rassegna o si scappa.

Con la carenza cronica di personale, non occorre essere assunti per lavorare al Policlinico. Basta indossare una tuta blu e presentarsi vestito come un addetto alle manutenzioni. Oppure come un uomo delle pulizie. In tasca: un metro da falegname, una macchina fotografica digitale e una piccola telecamera nascosta per documentare l'inchiesta.Tutti i giorni, per un mese intero. Con turni dalle 8 alle 15 o dalle 14 alle 21. Nessuno si accorge di nulla, nessuno domanda nulla. Nel 2006 la giunta del governatore Piero Marrazzo chiede informazioni sull'organico a tutti gli ospedali del Lazio per il buco da 10 miliardi lasciato da Francesco Storace. E tra contratti a termine, precari usati oltre ogni limite, cooperative e imprese esterne, l'amministrazione dell'Umberto I deve confessare alla Regione di non conoscere il numero esatto dei dipendenti.

Provette aperte a tutti

L'elenco delle negligenze fotografate e filmate è impressionante. Dal 4 al 29 dicembre il laboratorio di Fisica sanitaria resta più volte incustodito con i frigo e gli armadi aperti nonostante la presenza di sostanze radioattive. Il deposito di colture batteriche e virali del Dipartimento di malattie infettive e tropicali non ha serratura: senza sorveglianza, il congelatore con le provette a rischio contagio è sempre accessibile a chiunque. Per tre giorni nessuno pulisce gli escrementi che la notte di Santo Stefano un cane randagio ha lasciato nel corridoio sfruttato per trasferire i pazienti da un reparto all'altro. Infermieri e portantini spesso fumano anche quando spingono gli infermi su lettighe e carrozzelle. Ogni volta che salgono o scendono dalla rianimazione o dal pronto soccorso o dalle sale operatorie, i ricoverati, anche quelli più gravi, nudi sotto le lenzuola, intubati o con l'ossigeno, seguono lo stesso percorso dell'immondizia. Finiscono così in mezzo ai sacchi neri e agli scatoloni gialli ammassati nel sotterraneo, o in coda ai carrelli della rimozione. E quando gli addetti lavano con getti d'acqua i depositi dei rifiuti, le ruote dei lettini si inzuppano di liquami e trascinano tutto lo sporco in reparto. Verrebbe da sorridere se si pensa che, per legge, perfino le mozzarelle di una pizzeria vanno tenute sempre lontane dalla spazzatura. Basterebbe forse cambiare orario. Almeno rimuovere i rifiuti la sera e non la mattina, quando l'ospedale è in piena attività. Ma questi corridoi sono terra di nessuno. E nessuno decide. La competenza di professori e direttori si ferma al proprio reparto. La maggior parte di loro non ha nemmeno il tempo di guardar fuori. Impegnati come sono a dividere le giornate tra Policlinico e cliniche private. Perché mai dovrebbero battersi per il datore di lavoro che dà loro sì prestigio, ma con il quale guadagnano meno? Dopo tutto, proprio queste condizioni favoriscono l'esodo dei pazienti verso la sanità privata, o no?

La porta incustodita
Laboratori di Fisica sanitaria
Il primo giorno di lavoro non si passa dall'ingresso principale. Da lì entrano pazienti e familiari. Un appalto da qualche milione di euro prevede la sorveglianza di guardie private, una sbarra per fermare le auto, un segnale rotondo rosso, bianco e nero con l'avvertimento 'alt-controllo'. Sembra un posto di frontiera talmente gli agenti sono meticolosi nel loro compito. Meglio fare il giro dell'isolato. Camminare fino all'incrocio tra viale Policlinico e viale Regina Elena. C'è una vecchia porta al numero 330 sotto la scritta in rilievo 'Ambulatorio'. Sembra chiusa. Invece da mattina a sera è soltanto accostata. Si apre scricchiolando su una scalinata. In cima, un corridoio buio. Poi un corridoio illuminato. A pochi passa dalla strada, senza nessun controllo, ci si ritrova tra i laboratori del Servizio di fisica sanitaria. Sulle porte blindate il simbolo internazionale giallo e nero del pericolo radioattivo con l'indicazione: 'Dipartimento malattie infettive - laboratorio ricerca - zona sorvegliata'. Per buona parte del pomeriggio però le porte sono aperte e nessuno sorveglia. Più volte è possibile entrare, girare nei laboratori, guardare nei frigoriferi, richiudere e uscire in strada. Senza mai essere visti. Come il 21 dicembre nel laboratorio di Batteriologia. E il 27 dicembre nel laboratorio di Radioimmunologia e in quello accanto. La porta blindata e il cancello di protezione sono spalancati. Le riprese con la telecamera richiedono una buona mezz'ora. Non passa nessuno. A saper rovistare, un ladro potrebbe andarsene con flaconi di sostanze usate per le ricerche. Come gli isotopi di iodio, la cui radioattività dura tra gli otto e i 60 giorni. Il lungo corridoio dei laboratori di Fisica sanitaria arriva a una porta tagliafuoco. Al di là il passaggio prosegue verso il centro del Policlinico. Sopra ci sono le camere del Dipartimento malattie infettive. È intitolato a Paolo Tesio, medico assistente morto a 29 anni il 20 gennaio 1911 per 'difterite contratta in reparto', spiega la lapide. Un po' quello che le norme di igiene oggi dovrebbero evitare. Ma qui sotto, anche se è il corridoio centrale dell'ospedale, due dipendenti hanno pensato di usare lo spazio come garage. I loro grossi scooter restano parcheggiati tutto il tempo del turno di lavoro. E quando ripartono, i due accendono il motore e affumicano il locale fino alla rampa che porta in cortile. Sarà per questo che un avviso della direzione del Policlinico vieta a medici e infermieri di passare di qui con i pazienti. Ma questa è anche la via più breve. Così, la mattina e buona parte del pomeriggio, il viavai di carrozzelle e lettighe è continuo. Da questo incrocio di corridoi si scopre presto la propensione di molti a fottersene delle norme di igiene. Anche se riguardano la salute delle persone che accudiscono. L'elenco delle infrazioni è lungo. Un caso tra i tanti ripreso dalla telecamera, la mattina del 29 dicembre: due infermieri portano un'anziana a uno degli ambulatori di Chirurgia e le fumano addosso per alcune centinaia di metri passando davanti ad almeno una decina di cartelli di divieto.

Nella stanza dei virus

Lo chiamano tunnel anche se non tutto questo corridoio è sotterraneo. I muri sono scrostati dall'umidità. In mezzo scritte e graffiti, qualcuno poco incline al giuramento di Ippocrate invita a 'gasare gli handicappati'. È qui che la mattina del 27 dicembre il pavimento è ricoperto da due grossi escrementi, sembra di cane. Il pomeriggio del 29, ultimo giorno dell'inchiesta, sono ancora lì nonostante il passaggio quotidiano di decine di persone tra medici, infermieri e pazienti. Nessuno segnala o tanto meno protesta con l'impresa di pulizie. I frigoriferi con le colture di virus e batteri sono più o meno a metà del corridoio successivo, oltre l'indicazione 'malattie tropicali'. Sulla porta del deposito l'insegna internazionale avverte chi entra del 'rischio biologico - pericolo di infezione'. Ma la serratura della porta è scassinata. Dentro, tra i congelatori, quello a 80 gradi sotto zero non è mai chiuso a chiave. Gli altri a volte sì, a volte no. Una sigla identifica ogni provetta. Ce ne sono migliaia. Potrebbero contenere colture di Stafilococco aureo o di Pseudomonas aeruginosa, i ceppi batterici resistenti agli antibiotici e responsabili di metà delle infezioni ospedaliere. Oppure campioni di germi di malattie infettive e tropicali studiate dal Dipartimento. Anche qui, soprattutto di pomeriggio, qualunque malintenzionato potrebbe venire a rubare provette senza essere fermato. La visita a questi congelatori è un appuntamento quotidiano per tutto il mese di lavoro al Policlinico. Un giorno una foto. Un altro giorno una ripresa con la telecamera. Mai un controllo. Tra i pochi infermieri di passaggio, mai nessuno ha avuto l'idea di chiedere chi fossi.

Fuori dal locale frigoriferi, a destra, davanti agli ambulatori del Dipartimento di malattie tropicali, un esempio di come non andrebbero fatte le pulizie in un ospedale. L'addetto, terminato il turno, ha abbandonato il carrello con il sacco mezzo pieno di sporcizia. La scopa non tocca l'acqua da almeno qualche settimana. È ricoperta da uno strato di lanugine, peli, capelli e incrostazioni di polvere. Gli stracci sono stati lasciati a bagno in un liquame nero. E sul pavimento, in un angolo poco visibile, è rimasta una sventagliata di mozziconi di sigaretta. Non è l'episodio di una volta. È così tutti i giorni. Eppure, secondo banalissime ricerche nel Regno Unito, proprio la mancata pulizia dei pavimenti e degli attrezzi per le pulizie è la concausa principale della diffusione di infezioni ospedaliere.

Barelle tra i rifiuti

Discarica abusiva di fronte gli ambulatori di geriatria
Discarica abusiva di fronte gli ambulatori di geriatria
Sotto i reparti centrali del grande ospedale universitario l'igiene peggiora. Dal soffitto gocciola un vecchio tubo caldo e corroso. I tecnici della manutenzione l'hanno ovviamente riparato. Ma non hanno sostituito la sezione rotta. Il sistema scelto è molto più creativo. Una canalina lunga una ventina di metri raccoglie l'acqua tiepida e attraverso un'apertura nel muro la porta in cortile sopra un tombino. A valutare dalla quantità di muschio e di cicche di sigarette, il ruscello termale è lì da mesi. Certo, la direzione tecnica del Policlinico non poteva pretendere di più. In fondo questa è l'università di medicina, non di ingegneria idraulica. Per verificare la sensibilità del personale sanitario al rischio di infezioni ospedaliere, basta seguire un infermiere o un portantino mentre spinge una lettiga con qualche malato grave. Tra i più recenti, un caso del 20 dicembre, alle sette di sera. Un dipendente in divisa bianca deve riportare una donna in uno dei padiglioni di Chirurgia. Lei è coperta da un lenzuolo e da una spalla appare un catetere infilato nella vena succlavia. L'uomo, invece di accompagnarla direttamente in reparto, le fa fare un lungo giro fino a uno dei depositi dell'immondizia con sbalzi di temperatura che, secondo un approssimativo termometro tascabile, passano dai 23 ai 15 gradi in poche decine di metri. Lui va lì perché deve buttare un sacco pieno di flaconi da flebo vuoti. Non si preoccupa che, in questo modo, non solo la paziente respira aria infetta, ma sia le ruote della lettiga sia i suoi zoccoli si impregnano del liquame che ricopre il pavimento. I pericoli di contagio per la sporcizia sotto le suole non sono per niente considerati. Il pomeriggio del 27 dicembre quattro tra infermieri e strumentisti della rianimazione portano in Radiologia un paziente con barella, cateteri e bombola d'ossigeno. Nel lungo percorso sotterraneo passano davanti a due depositi di rifiuti e a un filare di sacchi neri addossati a un muro. Il pavimento è lurido. Mezz'ora dopo riaccompagnano il malato nel reparto di Terapia intensiva. E due di loro si appartano per fumare una sigaretta. Attenti ai divieti, non lo fanno in corridoio. Si nascondo in un locale abbandonato trasformato in discarica abusiva, dietro un deposito di rifiuti ospedalieri. La discarica è tra il laboratorio di Medicina iperbarica e il 'nuovo complesso operatorio della seconda clinica chirurgica', di fronte al corridoio che dovrebbe rimanere sempre pulito perché porta all'ascensore della rianimazione. Lì dentro ci sono scatoloni di rifiuti ospedalieri rotti, macerie, rottami, immondizia che qualcuno avrebbe dovuto portare altrove. La possibilità di incendio per le cicche di sigaretta è soltanto il più remoto dei mali. Per entrare e uscire dal nascondiglio, i due strumentisti mettono gli zoccoli da reparto dentro il liquido viscido che ricopre il pavimento e sta macerando la pila di scatoloni gialli con la scritta 'Rifiuti sanitari pericolosi a rischio infettivo'. Spenta la sigaretta, tornano in rianimazione passando accanto ai bancali di legno abbandonati di fronte all'ascensore. E all'ingresso del reparto asettico, non c'è nemmeno il tappeto di carta adesiva per trattenere lo sporco più grossolano.

L'incrocio delle infezioni

Proprio qui la mattina i percorsi di immondizia e pazienti gravi si intrecciano pericolosamente. A momenti, il corridoio è una lunga coda di lettighe, carrozzine, muletti elettrici, lampeggianti gialli, sacchi neri e dottori che prendono la rincorsa per non sporcarsi i mocassini dentro i rivoli di acqua sporca. A pranzo e a cena al traffico si aggiungono i carrelli con i vassoi di plastica e i pasti preriscaldati che troppo spesso arrivano nelle stanze freddi. Scene così fanno dimenticare i successi nella ricerca conquistati dall'università e le fatiche quotidiane di tutto il personale, sanitario e non.

A pochi metri dalla targa che indica il 'nuovo complesso operatorio della seconda clinica chirurgica', un altro cartello sulla parete è perentorio e lapalissiano davanti all'ingresso di un blocco operatorio. 'È assolutamente vietato', dice, 'lasciare abbandonati rifiuti urbani o assimilabili (vedi sacchi neri e cartoni) in questo spazio'. Provate a indovinare com'è andata durante tutto il mese: nei giorni migliori i sacchi abbandonati proprio sotto il cartello sono uno o due. In altri, anche quattro. Per non contare assi e pezzi di legno. Stesse scene davanti agli ambulatori di Geriatria, dove una porta tagliafuoco nasconde un'altra discarica abusiva con macerie, immondizia e una carrozzella arrugginita.

Alle 17,49 del 21dicembre due infermiere fumano nella rampa di scale sotto l'astanteria del Pronto soccorso. Tentiamo di far osservare il divieto in ospedale, filmandole con la telecamera nascosta: "Non si potrebbe fumare qua sotto". Loro rispondono candide: "Eh lo sappiamo, ma son le sei". E continuano ad ammorbare l'aria fino all'ultimo millimetro di tabacco.

Cartelle cliniche nei corridoi

Cartelle cliniche abbandonate
La sera tardi capita di parlare con qualche clochard al riparo dal freddo nelle sale d'attesa deserte. Tre quelli incontrati in un mese. Uno dorme nella palazzina dell'amministrazione. Il secondo cambia spesso luogo per non essere sorpreso. Il terzo si ripara in uno sgabuzzino sotto uno dei padiglioni di Medicina. Le luci restano sempre accese e i locali accessibili anche nei settori non più utilizzati. Come davanti all'ambulatorio di Plasmaferesi terapeutica. Il trasloco, appaltato alla solita ditta esterna, l'hanno fatto talmente in fretta che si sono dimenticati in corridoio qualche migliaio di cartelle cliniche. Arrivano fino al 2002. Ci sono radiografie, ecografie, esami del sangue. Basta andare lì e spulciare. Nomi, cognomi, indirizzi, diagnosi, anamnesi. Si può sapere tutto sulla salute e le abitudini di vita di migliaia di cittadini. L'archivio delle cartelle è incustodito anche negli ambulatori di Clinica oculistica. Non ci sono armadi chiusi a chiave. Le buste con gli esami arrivano fino al 2006 e sono infilate in scatoloni riciclati dalle forniture per l'ospedale. Per consultarle o rubarle, basta aspettare che i medici e gli infermieri finiscano il turno di visite.

Secondo i contratti a disposizione delle organizzazioni sindacali, l'appalto con la società esterna Pultra sas prevede che i quattro piani di Oculistica siano puliti da due persone. Dal 6 novembre, però, uno dei due addetti è in malattia. E nelle stesse ore la collega deve garantire il doppio del lavoro. Tutto a mano. Niente aspirapolvere. Niente macchine. Perché per guadagnare di più le imprese assumono al livello più basso di stipendio e per usare una lucidatrice industriale uno dev'essere promosso almeno operaio specializzato. Il risultato, in questo e in altri reparti, sono scope e stracci che fanno chilometri ogni giorno. Senza mai essere cambiati o lavati tra una stanza e l'altra o tra un ambulatorio e l'altro. In un mese di lavoro non c'è mai stato tempo per spolverare scrivanie, strumenti, scaffali, porte, termosifoni, piastrelle, davanzali. E spesso nemmeno per lavare il pavimento. La sera del 21 dicembre l'addetta alle pulizie ignara di avere di fronte un finto collega trasmette le indicazioni di un caposquadra. La domanda è: "Ce la facciamo a lavare tutto il pavimento prima di finire?". Lei risponde: "No, soltanto per spazzare. Io faccio in bagno". E qui non laviamo? "No, no". Una passata con una scopa piuttosto sporca che ha già fatto il giro di tutti i piani. Soltanto questo per tre sale d'attesa, tre ambulatori e la segreteria aperti tutto il giorno a centinaia di pazienti. Un tocco al battiscopa fa cadere un pezzo di intonaco fradicio di umidità. L'addetta alle pulizie ripete le indicazioni del caposquadra: "Se non è tanto sporco, non si lava sempre". Poi si accorge dell'intonaco caduto: "Mo' lì c'è da lavare perché hai levato la polvere". "Facciamo tutti i pavimenti?". "No, no, va be', tutti no. Ma lì quelle macchiette è meglio che le levi. Poi dev'essere tutto in ordine", dice segnalando le sedie nell'ambulatorio, "per far vedere..., hai capito?". Da sola da due mesi non può fare di più. Anche se il Policlinico ha pagato il servizio di pulizie per avere qui due addetti. Un appalto che nel 2005 è costato 8 milioni 687 mila 681 euro.

La montagna dei mozziconi
L'angolo fumatori davanti a Pediatria
Eppure il reparto di Oculistica meriterebbe più attenzione. Perché gli occhi sono tra gli organi più esposti alle infezioni ospedaliere. Nel 1998 alcuni pazienti del Policlinico perdono la vista dopo una semplice operazione di cataratta. L'estate del '99 un contagio forse da pseudomonas in una sala parto, in una sala travaglio e nell'unità neonatale provoca 15 casi di enterite necrotizzante tra i neonati. La perizia, ordinata dalla Procura, denuncerà le condizioni che "non garantivano una adeguata igiene": come l'esistenza di "polvere massiva e non rimossa da tempo, pareti imbrattate, pedane sporche, presenza di ruggine e polvere nelle bocchette di areazione". È il 29 dicembre, ultimo giorno di lavoro al Policlinico. Qualcuno finalmente ha scopato le decine di mozziconi fumati e gettati a ridosso della terapia intensiva di Pediatria. Ma non li ha portati via: li ha semplicemente spinti verso l'angolo del muro insieme con un pacchetto vuoto di Marlboro, cartacce, polvere, un pezzo di legno. Stasera la sala d'attesa del Pronto soccorso è piena di gente, come sempre. Sono costretti ad aspettare i ritmi della sanità pubblica. E ad avere fiducia. Non si chiamano Silvio Berlusconi e nessuno di loro può permettersi un ricovero negli Stati Uniti.

8 gennaio

CLIMA|

Le bugie della Exxon
 

«Il gigante dell'energia ha investito 16 milioni di dollari per nascondere le cause dell'effetto serra». L'accusa dell'Union of concerned scientist

Big Oil come Big Tobacco. La lobby dell'energia ha preso a prestito le strategie dall'industria delle sigarette per nascondere agli americani il ruolo dell'uomo nell'effetto serra. Secondo un nuovo rapporto della Union of concerned scientist, il gigante dell'energia Exxon Mobil ha preso a prestito le tattiche dell'industria del tabacco per creare
confusione nell'opinione pubblica sulle cause dell'effetto serra. Exxon Mobil «ha creato ad arte incertezza sulle cause umane dell'effetto serra con le stesse tattiche usate dall'industria del tabacco per negare che i loro prodotti causano il cancro ai polmoni», ha detto Alden Meyer, uno degli autori del rapporto.

Alla Exxon Mobil è bastato un investimento relativamente modesto, 16 milioni di dollari, per ottenere un risultato a vasto raggio, si afferma nel dossier. La societa' energetica è riuscita nel suo intento utilizzando i metodi usati per decenni dalla lobby delle sigarette, tra cui l'insinuazione di dubbi su dati scientifici incontrovertibili e il finanziamento di varie organizzazioni di facciata (43 tra 1998 e 2005) per creare
L'uragano katrina
l'impressione di un fronte variegato di dubbi sulle cause umane del riscaldamento del pianeta.

La polemica americana riecheggia accuse lanciate l'autunno scorso in Gran Bretagna quando la Royal Society ha scritto alla società petrolifera chiedendole di interrompere il suo appoggio a gruppi che «rappresentano falsamente la scienza del clima». La Exxon Mobil ha reagito al rapporto definendolo «l'ennesimo tentativo di infangare il nostro nome e inquinare le acque della discussione sul tema delle emissioni di ossido di carbonio e sull'effetto serra». Il dossier degli scienziati Usa coincide con il vigoroso rilancio di una agenda verde in Congresso ora che i democratici hanno riacquistato la maggioranza.
 

La strategia della tensione
Il terrorismo non rivendicato della NATO
Di Silvia Cattori* - tratto da www.voltairenet.org/article144415.html

Daniele Ganser, professore di storia contemporanea all'università di Basilea e presidente dell'Aspo-Svizzera, ha pubblicato un libro "sugli eserciti segreti della NATO".
Secondo lui, gli Stati Uniti hanno organizzato in Europa dell'Ovest durante gli ultimi 50 anni attentati che sono stati attribuiti alla sinistra e alla sinistra estrema per screditarli agli occhi dei loro elettori. Questa strategia dura ancora oggi per suscitare il timore dell'islam e giustificare le guerre per il petrolio.

Silvia Cattori: Il suo lavoro dedicato agli eserciti segreti della NATO (1), spiega come la strategia della tensione (2) e le operazioni “False Flag” (3 - operazioni "false bandiere", è l’espressione usata per descrivere atti terroristici, portati avanti segretamente da governi o organizzazioni, per essere poi imputate ad altri) implicano dei grandi pericoli. Spiega come la NATO , durante la guerra fredda - in coordinamento con i servizi di informazioni dei paesi dell'Europa occidentale ed il Pentagono - si è servito di eserciti segreti, ha reclutato spie negli ambienti di estrema destra, ed ha organizzato atti terroristici attribuiti poi alla sinistra estrema. Apprendendo ciò, ci si può interrogare su quello che può passare a nostra insaputa.
Daniele Ganser: È molto importante comprendere ciò che la strategia della tensione rappresenta realmente e come ha funzionato durante questo periodo. Ciò può aiutarci ad illuminare il presente ed a vedere meglio in quale misura è sempre in azione. Poca gente sa ciò che l'espressione “strategia della tensione” vuole dire. È molto importante parlarne, spiegarlo. È una tattica che consiste nel commettere degli attentati criminali ed attribuirli a qualcuno di altro. Con il termine tensione ci si riferisce alla tensione emozionale, a ciò che crea una sensazione di timore, di paura. Con il termine strategia, ci si riferisce a chi alimenta le paure della gente riguardo ad un gruppo determinato. Queste strutture segrete della NATO erano state equipaggiate, finanziate e addestrate dalla CIA, in coordinamento con l’MI6 (i servizi segreti britannici), a combattere le forze armate dell'Unione sovietica in caso di guerra, ma anche, secondo le informazioni di cui disponiamo oggi, per commettere attentati terroristici in diversi paesi (4).
Così, fin dagli anni 70, i servizi segreti italiani hanno utilizzato queste armate segrete per fomentare attentati terroristici con lo scopo di causare la paura in seno alla popolazione e, in seguito, accusare i comunisti di essere gli autori. Era il periodo dove la parte comunista aveva un potere legislativo importante al Parlamento. La strategia della tensione doveva servire a screditarlo, indebolirlo, a per impedirgli di accedere all'esecutivo.

Silvia Cattori: Apprendere quello che sta dicendo è una cosa. Ma resta difficile credere che i nostri governi abbiano potuto lasciare la NATO , i servizi d’intelligence d'Europa occidentale e la CIA ad agire in modo da minacciare la sicurezza dei loro cittadini!
Daniele Ganser
: La NATO era il cuore di questa rete clandestina legata al terrore; il Clandestine Planning Committee (CCP) e l’Allied Clandestine Committee (ACC) erano sottostrutture clandestine dell'Alleanza atlantica, che sono chiaramente identificate oggi. Ma, ora che ciò è stabilito, è sempre difficile sapere che faceva cosa. Non ci sono documenti per provare chi comandava, organizzava la strategia della tensione, e come la NATO , i servizi di informazioni dell'Europa occidentale, la CIA , il MI6, e i terroristi reclutati negli ambienti di estrema destra, si distribuivano i ruoli. La sola certezza che abbiamo è che c'erano, all'interno di queste strutture clandestine, elementi che hanno utilizzato la strategia della tensione. I terroristi di estrema destra hanno spiegato nelle loro deposizioni che erano i servizi segreti e la NATO che li avevano sostenuti in questa guerra clandestina. Ma quando si chiedono spiegazioni ai membri del CIA o della NATO - ciò che ho fatto durante molti anni - si limitano a dire che potrebbero esserci stati alcuni elementi criminali che sono sfuggiti al controllo.

Silvia Cattori: Questi eserciti segreti operavano in tutti i paesi dell'Europa occidentale?
Daniel Ganser: Con le mie ricerche, ho dimostrato che questi eserciti segreti esistevano, non soltanto in Italia, ma in tutta l'Europa dell'Ovest: in Francia, Belgio, Olanda, Norvegia, Danimarca, Svezia, Finlandia, Turchia, Spagna, Portogallo, Austria, Svizzera, Grecia, Lussemburgo, Germania. Inizialmente si pensava che ci fosse una struttura di guerriglia unica e che, quindi, questi eserciti segreti avevano tutti partecipato alla strategia della tensione, dunque ad attentati terroristici. Ma, è importante sapere che questi eserciti segreti non hanno tutti partecipato agli attentati. E comprendere ciò che li differenziava poiché avevano attività distinte. Quello che appare chiaramente oggi è che queste strutture clandestine della NATO, generalmente chiamate Stay Behind (5), erano concepite, in origine, per agire come una guerriglia in caso d'occupazione dell'Europa dell'Ovest da parte dell'Unione sovietica. Gli Stati Uniti dicevano che queste reti di guerriglia erano necessarie per superare l’impreparazione nella quale i paesi invasi dalla Germania si erano allora trovati.
Numerosi paesi che hanno conosciuto l'occupazione tedesca, come la Norvegia , voleva trarre le lezioni dalla loro incapacità di resistere all'occupante e si è detto, che in caso di nuova occupazione, dovevano essere meglio preparati, disporre di un'altra opzione e potere contare su un esercito segreto nel caso in cui l'esercito classico venisse distrutto. C'erano, all'interno di questi eserciti segreti, persone oneste, patrioti sinceri, che volevano soltanto difendere il loro paese in caso d'occupazione.

Silvia Cattori: Se comprendo bene, questo Stay behind il cui obiettivo iniziale era quello di prepararsi in caso di un'invasione sovietica, è stato deviato da questo scopo per combattere la sinistra. Di conseguenza, si è penato a comprendere perché i partiti di sinistra non hanno indagato, denunciato queste deviazioni prima?
Daniele Ganser: Se si prende il caso dell'Italia, appare che, ogni volta che la parte comunista ha sfidato il governo per ottenere spiegazioni sull'esercito segreto che operava in questo paese sotto il nome di codice Gladio (6), non ci sono state risposte con il pretesto di segreto di Stato. È soltanto nel 1990 che Giulio Andreotti (7) ha riconosciuto l'esistenza di Gladio ed i suoi legami diretti con la NATO , la CIA e il MI6 (8). È in questo periodo che il giudice Felice Casson ha potuto provare che il vero autore dell'attentato di Peteano nel 1972, che aveva scosso l'Italia, e che era stato attribuito a militanti di estrema sinistra, era Vincenzo Vinciguerra, apparentato Ordine Nuovo, un gruppo di estrema destra. Vinciguerra ha riconosciuto di aver commesso l'attentato di Peteano con l'aiuto dei servizi segreti italiani. Vinciguerra ha anche parlato dell'esistenza di questo esercito segreto chiamato Gladio. E ha spiegato che, durante la guerra fredda, questi attentati clandestini avevano causato la morte di donne e di bambini (9).
Ha anche affermato che queste armate secrete controllate dalla NATO, avevano ramificazioni ovunque in Europa. Quando quest'informazione è uscita, ha provocato una crisi politica in Italia, ed è grazie alle indagini del giudice Felice Casson che siamo stati messi al corrente degli eserciti segreti della NATO. Nella Germania, quando i Socialisti del SPD hanno appreso, nel 1990, che esisteva nel loro paese - come in tutti gli altri paesi europei - un esercito segreto, e che questa struttura era legata ai servizi segreti tedeschi, hanno gridato allo scandalo ed incolpato la parte democristiana (CDU). Questi hanno reagito dicendo: se voi ci accusate, diremo pubblicamente che, anche voi, con Willy Brandt, avevate preso parta a questa cospirazione. Questo coincideva con le prime elezioni della Germania riunificata, che gli SPD speravano di vincere. I dirigenti del SPD hanno capito che non era un buono argomento elettorale; per finire hanno lasciato intendere che quest'eserciti segreti erano giustificabili. Al Parlamento europeo, nel novembre 1990, voci si sono alzate per dire che non si poteva tollerare l'esistenza di eserciti clandestini, né lasciare senza spiegazione degli atti di terrore la cui origine reale non era delucidata, e che occorreva indagare. Il Parlamento europeo ha dunque protestato per iscritto alla NATO ed il presidente George Bush senior. Ma nulla è stato fatto. Soltanto in Italia, in Svizzera ed in Belgio, che indagini pubbliche sono state iniziate. Sono del resto i tre soli paesi che hanno fatto un po'di ordine in quest'affare e che hanno pubblicato una relazione sui loro eserciti segreti

Silvia Cattori: Cosa ne è oggi? Questi eserciti clandestini sarebbero ancora attivi?
Daniele Ganser: Per uno storico, è difficile rispondere a questa domanda. Non si dispone di un rapporto ufficiale paese per paese. Nei miei lavori, analizzo fatti che posso provare. Per quanto riguarda l'Italia, c'è una relazione che dice che l'esercito segreto Gladio è stato eliminato. Sull'esistenza dell'esercito segreto P 26 in Svizzera, esiste anche un rapporto del Parlamento, nel novembre 1990. Dunque, quest'eserciti clandestini, che avevano conservato esplosivi nei loro nascondigli ovunque in Svizzera, sono state sciolte. Ma, negli altri paesi, non si sa nulla. In Francia, mentre il presidente François Mitterrand aveva affermato che tutto ciò apparteneva al passato, si è appreso successivamente che queste strutture segrete erano sempre attive quando Giulio Andreotti ha lasciato intendere che il presidente francese mentiva: "Voi dite che gli eserciti segreti non esistono più; ma, nel corso della riunione segreta dell'autunno 1990, anche voi francesi eravate presenti; non avete detto che ciò non esiste più".
Mitterrand fu molto contrariato con Andreotti poiché, dopo questa rivelazione, egli dovette rettificare la sua dichiarazione. Più tardi l'ex direttore dei servizi segreti francesi, l'ammiraglio Pierre Lacoste, ha confermato che questi eserciti segreti esistevano anche in Francia, e che anche la Francia aveva avuto delle implicazioni in attentati terroristici (10).
È dunque difficile dire se tutto è passato. E, anche se le strutture Gladio sono state sciolte, potrebbero avere create delle nuove pur continuando a utilizzare la tecnica della strategia della tensione e del “False flag”

Silvia Cattori: Si può pensare che, dopo il crollo dell'URSS, gli Stati Uniti e la NATO abbiano continuato a sviluppare la strategia della tensione e “False flag” su altri fronti? 
Daniele Ganser: Le mie ricerche si sono concentrate sul periodo della guerra fredda in Europa. Ma si sa che ci sono state altrove delle “False flag” dove la responsabilità degli stati è stata provata. Esempio: gli attentati, nel 1953, in Iran, inizialmente attribuiti a comunisti iraniani. Ma, è risultato che la CIA e il MI6 si sono serviti di agenti provocatori per orchestrare la caduta del governo Mohammed Mossadeq, questo nel quadro della guerra per il controllo del petrolio. Altro esempio: gli attentati, nel 1954, in Egitto, che si erano inizialmente attribuiti ai musulmani. Si è provato successivamente che, nell'affare chiamato Lavon (11), sono stati agenti del Mossad gli autori. Qui, si trattava per Israele di ottenere che le truppe britanniche non lasciassero l'Egitto ma vi rimanessero, per garantire la protezione di Israele.
Così, abbiamo esempi storici che dimostrano che la strategia della tensione e la “False flag” sono state utilizzate dagli USA, la Gran Bretagna e Israele. Ci occorre ancora proseguire le ricerche in questi settori, poiché, nella loro storia, altri paesi hanno utilizzato la medesima strategia

Silvia Cattori: Queste strutture clandestine della NATO, create dopo la Seconda Guerra Mondiale, sotto l'impulso degli Stati Uniti, per dotare i paesi europei di un esercito capace di resistere ad un'invasione sovietica, sono serviti soltanto per condurre operazioni criminali contro cittadini europei? Tutto porta a pensare che gli Stati Uniti guardavano qualsiasi cosa!
Daniele Ganser: Avete ragione a sollevare la questione. Gli Stati Uniti erano interessati al controllo politico. Questo controllo politico è un elemento essenziale per la strategia di Washington e di Londra. Il generale Geraldo Serravalle, capo di Gladio, la rete italiana Stay-behind, lo spiega nel suo libro. Egli racconta che ha compreso che gli Stati Uniti non erano interessati dalla preparazione di una guerriglia in caso d'invasione sovietica, quando ha visto che, cosa che interessava agli agenti dell'CIA, che assistevano alle esercitazioni d'addestramento dell'esercito segreto che dirigeva, era di assicurarsi che questo esercito funzionasse in modo da controllare le azioni dei militanti comunisti.
Il loro timore era l'arrivo dei comunisti al potere in paesi come la Grecia , l'Italia, Francia. Ecco a cosa doveva servire la strategia della tensione: orientare ed influenzare la politica di alcuni paesi dell'Europa dell'Ovest

Silvia Cattori: Avete parlato dell'elemento emozionale come fattore importante nella strategia della tensione. Dunque, il terrore, la cui origine resta sfocata, dubbia, la paura che provoca, serve a manipolare l'opinione pubblica. Non si assiste oggi agli stessi metodi? Ieri, si utilizzava la paura del comunismo, oggi non si utilizza la paura dell'islam?
Daniele Ganser: Sì, c'è un parallelo nettissimo. In occasione dei preparativi della guerra contro l’Iraq, si è detto che Saddam Hussein possedeva armi biologiche, che c'era un legame tra il Iraq e gli attentati dell'11 settembre, o che c'era un legame tra l’Iraq e i terroristi di Al Qaida. Ma tutto ciò non era vero. Con queste menzogne, si voleva fare credere al mondo che i musulmani volevano spargere il terrorismo ovunque, che questa guerra era necessaria per combattere il terrore. Ma, la vera ragione della guerra è il controllo delle risorse energetiche. A causa della geologia, le ricchezze di gas e petrolio si concentrano nei paesi musulmani. Quello che vogliono accaparrarsi, deve nascondersi dietro questo tipo di manipolazioni.
Ora non si può dire che non c'è più molto petrolio poiché il massimo della produzione globale - "picco di petrolio" (12) - si verificherà probabilmente prima del 2020 e che occorre dunque andare a prendere il petrolio in Iraq, perché la gente direbbe che non occorre uccidere bambini per questo. Ed hanno ragione. Non si può nemmeno dire che, nel Mar Caspio, ci sono riserve enormi e che si vuole creare una conduttura verso l'oceano indiano ma che, siccome non si può passare per l'Iran al sud, né passare per la Russia al nord, occorre passare per l'est, il Turkmenistan e l'Afghanistan, e dunque, occorre controllare questo paese.
È per questo che si definiscono i musulmani come "terroristi". Sono grandi menzogne, ma se si ripete mille volte che i musulmani sono "terroristi", la gente finirà per crederlo e per accettare che queste guerre antimusulmane sono utili; dimenticando che ci sono molte forme di terrorismo, che la violenza non è per forza una specialità musulmana

Silvia Cattori: Insomma, queste strutture clandestine sono state sciolte, ma la strategia della tensione ha potuto continuare?
Daniele Ganser: È esatto. Possono avere sciolto le strutture, e averne formato delle nuove. È importante spiegare come, nella strategia della tensione, la tattica e la manipolazione funzionano. Tutto ciò non è legale. Ma, per gli Stati, è più facile manipolare persone che dire loro che si cerca di mettere le mani sul petrolio di altri. Tuttavia, tutti gli attentati non derivano dalla strategia della tensione. Ma è difficile sapere quali sono gli attentati manipolati. Anche coloro che sanno che la maggioranza deli attentati sono manipolati da Stati per screditare un nemico politico, possono scontrarsi con un ostacolo psicologico. Dopo ogni attentato, la gente ha paura, è confusa. È molto difficile farsi all'idea che la strategia della tensione, la strategia del “False flag”, è una realtà. È più semplice accettare la manipolazione e dirsi: "Da trenta anni mi tengo informato e non ho mai sentito parlare di questi eserciti criminali. I musulmani ci attaccano, è per questo che si combatte".

Silvia Cattori: Fin dal 2001, l 'Unione europea ha instaurato misure antiterroriste. È sembrato in seguito che queste misure hanno permesso alla CIA di rapire gente, di trasportarli in luoghi segreti per torturarli. Gli Stati europei non sono diventati un po' ostaggi e sottomessi agli Stati Uniti?
Daniele Ganser: Gli stati europei hanno avuto un atteggiamento abbastanza debole in relazione agli Stati Uniti dopo gli attentati dell'11 settembre 2001. Dopo avere affermato che le prigioni segrete erano illegali, hanno lasciato fare. Stessa cosa con i prigionieri di Guantanamo. Delle voci si sono alzate in Europa per dire: "non si possono privare i prigionieri della difesa di un avvocato". Quando la signora Angela Merkel ha evocato la questione, gli Stati Uniti hanno chiaramente lasciato intendere che la Germania è stata un po’ implicata in Iraq, che i suoi servizi segreti avevano contribuito a preparare la guerra, dunque dovevano tacersi.

Silvia Cattori: In questo contesto, in cui ci sono ancora molte zone d'ombra, quale sicurezza può portare la NATO al popolo che presumibilmente dovrebbe proteggere se permette a servizi segreti di manipolare? 
Daniele Ganser: Per quanto riguarda gli attentati terroristici manipolati dagli eserciti segreti della rete Gladio durante la guerra fredda, è importante potere determinare chiaramente qual è l'implicazione reale della NATO là dentro, di sapere ciò che è realmente avvenuto. Si trattava di atti isolati o di atti organizzati segretamente dalla NATO? Fino ad oggi, la NATO ha rifiutato di parlare della strategia della tensione e del terrorismo durante la guerra fredda, rifiuta ogni questione che riguarda Gladio. Oggi, ci si serve della NATO come un'una armata offensiva, mentre quest'organizzazione non è stata creata per svolgere questo ruolo. E’ stata attivato in questo senso, il 12 settembre 2001, immediatamente dopo gli attentati di New York. I dirigenti della NATO affermano che la ragione della loro partecipazione alla guerra contro gli Afgani è di combattere il terrorismo. Ma, la NATO rischia di perdere questa guerra. Ci sarà, allora, una grande crisi, dibattiti. Che permetterà allora di sapere se la NATO conduce, come afferma, una guerra contro il terrorismo, o se ci si trova in una situazione simile a quella che si è conosciuta durante la guerra fredda, con l'esercito segreto Gladio, dove c'era un legame con il terrorismo. Gli anni futuri diranno se la NATO ha agito esternamente alla missione per la quale è stata fondata: difendere i paesi europei e gli Stati Uniti in caso d'invasione sovietica, evento che non si è mai verificato. La NATO non è stata fondata per impadronirsi del petrolio o del gas dei paesi musulmani

Silvia Cattori: Si potrebbe ancora comprendere come Israele, che ha interessi ad allargare i conflitti nei paesi arabi e musulmani, incoraggi gli Stati Uniti in questo senso. Ma non si vede quale può essere l'interesse degli stati europei ad impegnare truppe in guerre decise dal Pentagono, come in Afghanistan?
Daniele Ganser: Penso che l'Europa è confusa. Gli Stati Uniti sono in una posizione di forza, e gli europei hanno tendenza a pensare che la migliore cosa sia di collaborare con i più forti. Ma occorrerebbe riflettere un po' di più. I parlamentari europei cedono facilmente alla pressione degli Stati Uniti che richiedono sempre più truppe su questo o quel fronte. Più i paesi europei cedono, più si sottomettono, e più si troveranno con problemi sempre più grandi. In Afghanistan, i tedeschi e i britannici sono sotto comando dell'esercito statunitense. Strategicamente, non è una posizione interessante per questi paesi.
Ora, gli Stati Uniti hanno chiesto ai tedeschi di impegnare i loro soldati anche al sud dell'Afghanistan, nelle zone in cui la battaglia è più cruenta. Se i tedeschi accetteranno, rischiano di farsi massacrare dalle forze afgane che rifiutano la presenza di qualsiasi occupante. La Germania dovrebbe seriamente chiedersi se non fosse il caso di ritirare i suoi 3000 soldati di Afghanistan. Ma, per i tedeschi, disubbidire agli ordini degli Stati Uniti, di cui sono un po' vassalli, è un passo difficile da fare

Silvia Cattori: Cosa sanno le autorità che ci governano oggi della strategia della tensione? Possono continuare come ciò a lasciare guerrafondai fomentare colpi di Stato, rapire e torturare gente senza reagire? Hanno ancora i mezzi per impedire queste attività criminali?
Daniele Ganser: Non so. Come storico, osservo, prendo nota. Come consigliere politico, dico sempre che non occorre cedere alle manipolazioni che mirano a suscitare la paura e fare credere che i "terroristi" siano sempre i musulmani; dico che si tratta di una lotta per il controllo delle risorse energetiche; che occorre trovare mezzi per sopravvivere alla penuria energetica senza andare nel senso della militarizzazione. Non si possono risolvere i problemi in questo modo; li peggiorano

Silvia Cattori: Quando si osserva la diabolizzazione degli Arabi e dei musulmani a partire dal conflitto israeliano-palestinese, ci si dice che ciò non ha nulla a che vedere con il petrolio.
Daniele Ganser: Sì, in questo caso sì. Ma, nella prospettiva degli Stati Uniti, si tratta di una lotta per prendere il controllo delle riserve energetiche del blocco eurasiatico che si situa in questa "ellisse strategico" che va dall'Azerbaigian passando per il Turkmenistan ed il Kazachistan, fino all'Arabia Saudita, Iraq, Kuwait e Golfo Persico. 
È precisamente là, in questa regione in cui si svolgono le pretese guerre "contro il terrorismo", che si concentrano le importanti riserve in petrolio e gas. Secondo me, non si tratta di altra cosa che di una sfida geostrategica dentro la quale l'Unione europea può soltanto perdere. Poiché, se gli Stati Uniti prendono il controllo di quelle risorse, e la crisi energetica peggiora, diranno: "volete gas, volete petrolio, molto bene, in cambio vogliamo questo e quello". Gli Stati Uniti non daranno gratuitamente il petrolio ed il gas ai paesi europei. Poca persone sanno che il "picco del petrolio", il massimo della produzione, è stato già raggiunto nel mare del Nord e che, quindi, la produzione del petrolio in Europa - la produzione della Norvegia e della Gran Bretagna - è in declino. Il giorno che la gente si renderà conto che queste guerre "contro il terrorismo" sono manipolate, e che le accuse contro i musulmani sono, in parte, della propaganda, rimarranno sorpresi. Gli Stati europei devono svegliarsi e comprendere infine come la strategia della tensione funziona. E devono anche iniziare a dire no agli Stati Uniti. Inoltre, negli Stati Uniti anche, c'è molta gente che non vuole questa militarizzazione delle relazioni internazionali

Silvia Cattori: Avete anche fatto ricerche sugli attentati dell'11 settembre 2001 e scritto un libro (13) con altri intellettuali che si preoccupano delle incoerenze e delle contraddizioni nella versione ufficiale di questi eventi come le conclusioni della Commissione d'indagine delegata da Mister Bush? Non temete di essere accusati di "teoria del complotto"? 
Daniele Ganser: I miei studenti e altra persone mi hanno sempre chiesto: se questa "guerra contro il terrorismo" riguarda realmente il petrolio ed il gas, gli attentati dell'11 settembre non sono stati anch’essi manipolati? O è una coincidenza, che i musulmani di Osama bin Laden abbiano colpito esattamente nel momento in cui i paesi occidentali iniziavano a capire che una crisi del petrolio si annunciava? Ho dunque iniziato ad interessarmi a ciò che era stato scritto sull'11 settembre ed a studiare anche la relazione ufficiale che presentata nel giugno 2004. Quando ci si immerge in quest'argomento, ci si accorge di primo acchito che c'è un grande dibattito planetario attorno a ciò che è realmente avvenuto l'11 settembre 2001. L 'informazione che abbiamo non è precisa. Quello che chiede precisazione nel rapporto di 600 pagine è che la terzo torre che è crollata quel giorno, non è neppure citata. La Commissione parla soltanto del crollo delle due torri, "Twin Towers". Mentre c'è una terza torre, alta 170 metri , che è crollata; la torre si chiamava WTC 7. Si parla di un piccolo incendio in quel caso. Ho parlato con i professori che conoscono perfettamente la struttura degli edifici; dicono che un piccolo incendio non può distruggere una struttura di una simile dimensione. La storia ufficiale sull'11 settembre, le conclusioni della commissione, non sono credibili. Questa mancanza di chiarezza mette i ricercatori in una situazione molto difficile. La confusione regna anche su ciò che è realmente avvenuto al Pentagono. Sulle fotografie che abbiamo è difficile vedere un aereo. Non si vede come un aereo possa essere caduto là

Silvia Cattori: Il Parlamento del Venezuela ha chiesto agli Stati Uniti di avanzare ulteriori spiegazioni per chiarire l'origine di quegli attentati. Ciò non dovrebbe essere un esempio da seguire?
Daniele Ganser: Ci sono molte incertezze sull'11 settembre. I parlamentari, gli universitari, i cittadini possono chiedere conto su ciò che è realmente avvenuto. Penso sia importante continuare ad interrogarsi. È un evento che nessuno può dimenticare; ciascuno si ricorda dove si trovava in quel momento preciso. È incredibile che, cinque anni più tardi, non si sia ancora arrivati a vedere chiaro.

Silvia Cattori: Si direbbe che nessuno voglia rimettere in discussione la versione ufficiale. Si sarebbero lasciati manipolare con la disinformazione organizzata da strateghi della tensione e False flag?
Daniele Ganser: Si è manipolabile se si ha paura; paura di perdere il proprio lavoro, paura di perdere il rispetto della gente. Non si può uscire da questa spirale di violenza e di terrore se ci si lascia manipolare dalla paura. È normale avere paura, ma occorre parlare apertamente di questa paura e delle manipolazioni che la generano. Nessuno può sfuggire alle loro conseguenze. Ciò è tanto più grave in quanto i responsabili politici agiscono spesso sotto l'effetto di questa paura. Occorre trovare la forza di dire: "Sì ho paura di sapere che queste menzogne fanno soffrire per la gente; sì ho paura di pensare che non ci sia più molto petrolio; sì ho paura di pensare che questo terrorismo di cui si parla è la conseguenza di manipolazioni, ma non mi lascerò intimidire"

Silvia Cattori: Fino a che punto paesi come la Svizzera partecipano, attualmente, alla strategia della tensione?
Daniele Ganser: Penso che non ci sia strategia della tensione in Svizzera. Questo paese non conosce attentati terroristici. Ma, la cosa vera è che, in Svizzera come altrove, è che le politiche che temono gli Stati Uniti, le loro posizioni di forza, tendono a dire: sono buoni amici, non abbiamo interesse a battersi con loro.

Silvia Cattori: Questo modo di pensare e coprire le menzogne che derivano dalla strategia della tensione, non rendono tutti complici dei crimini che comporta? A cominciare dai giornalisti e partiti politici? 
Daniele Ganser: Penso, personalmente, che tutti i giornalisti, universitari, politici devono riflettere sulle implicazioni della strategia della tensione e del “False flag”. Noi siamo evidentemente in presenza di fenomeni che sfuggono a qualsiasi comprensione. È per questo che, ogni volta che ci sono attentati terroristici, occorre interrogarsi e cercare di comprendere cosa si nasconde dietro. È soltanto il giorno in cui si ammetterà ufficialmente che le False flag sono una realtà, che si potrà stabilire una lista delle False flag che hanno avuto luogo nella storia e mettersi d'accordo su ciò che occorrerà fare. 
La ricerca della pace è il tema che m’interessa. È importante aprire il dibattito sulla strategia della tensione e prendere atto che si tratta di un fenomeno reale. Fintantoché non si accetterà di riconoscere la sua esistenza, non si potrà agire. È per questo che è importante spiegare quello che la strategia della tensione significa realmente. E, una volta compreso, non di lasciarsi prendere dalla paura e odio contro un gruppo. Bisogno dire che non è soltanto un paese implicato; che non sono soltanto gli Stati Uniti, Italia, Israele o gli iraniani, ma che questo si produce ovunque, anche se alcuni paesi vi partecipano in modo più intenso di altri. Occorre comprendere, senza accusare tale paese o tale persona. Il timore e l’odio non aiutano ad avanzare ma paralizzano il dibattito. Vedo molti accuse contro gli Stati Uniti, contro Israele, la Gran Bretagna , o alternativamente, contro l'Iran, la Siria. Ma la ricerca della pace insegna che non occorre abbandonarsi a delle accuse basate sul nazionalismo, e che non serve né odio né paura; è più importante spiegare. Questa comprensione sarà benefica per noi tutti

 

In malessere del benessere
di MICHELE SERRA

AVANGUARDIA dello Stato etico, ecco s'avanza lo Stato dietetico. Negli Usa diverse scuole, tra le informazioni d'ufficio alle famiglie, distribuiscono una specie di "pagellina alimentare" nella quale si valuta (severamente) il rapporto tra peso e massa corporea del ragazzo, o del bambino. La notizia si somma a quella, recente, relativa ai provvedimenti del governo Zapatero contro la pubblicità degli hamburger extra-large.

E rientra nel quadro della lotta all'obesità minorile, piaga occidentale tra le più inquietanti, metafora incarnata del proliferare incontrollato degli stimoli ai consumi.

Naturalmente l'intromissione delle autorità pubbliche nella sfera privata è destinata a sollevare dubbi e malumori: pare che molte famiglie americane non gradiscano lo stress aggiuntivo che questa nuova "materia scolastica" induce nei figli, ufficialmente bollati dello status di ciccione. A sconsigliare frettolose stroncature dell'iniziativa, o peggio la sua riduzione a deriva folkloristica del politicamente corretto, c'è però la macroscopica evidenza del problema.

Autorità indifferenti alla salute pubblica sarebbero certamente meno petulanti e meno intrusive. Ma la non-ingerenza costituirebbe una vera e propria omissione a fronte di statistiche spietate, che indicano nell'obesità di massa, a parte i disagi fisici e psicologici contingenti, una sicura causa di accorciamento della prospettiva di vita: nonostante il benessere (anzi, per paradosso: a causa del benessere) la vita media degli americani del futuro rischia seriamente di essere più breve rispetto a quella dei loro genitori.

Viene da chiedersi, piuttosto, se e quanto iniziative di carattere informativo e dissuasivo, come questa, riescano a incidere su una cultura sociale che semplicemente non contempla, in nessun campo, i concetti di giusta misura e di limitatezza. La corsa alla quantità, in economia, nei consumi privati, nelle ambizioni di carriera, in tutto (se vogliamo anche nell'espansionismo politico-militare...) è il vero motore del Pensiero Unico.

Alla fame atavica si è via via sostituita, nelle società del benessere, una specie di fame indotta che induce a consumi compulsivi, di cibo come di psicofarmaci, di cibo come di droghe, di cibo come di televisione, di cibo come di sesso. Va da sé che il cibo, per la sua stessa basicità, e per non essere oggetto di particolari tabù o riprovazione sociale, e infine per via del basso prezzo, è di gran lunga il primo, il più facile e il più accessibile tra gli oggetti del desiderio compulsivo. E il corpo deformato, riempito oltre ogni misura e oltre ogni controllo, diventa il segnale più evidente e drammatico della disarmonia patologica di modelli sociali che paiono avere smarrito l'obiettivo stesso del loro innesco, che è o dovrebbe essere la ricerca del benessere.

Un benessere che diventa malessere, per via di inquinamento, di dissesto ambientale, di bulimia, di affanno psicologico. Scatenando poi contraccolpi moralistici (vedi il grottesco movimento dei "rinverginati" che pare attragga molti adolescenti americani), innescando astinenze, digiuni, auto-castrazioni speculari alla crapula contro la quale reagiscono. In una continua altalena tra ingordigia e susseguente senso di colpa. Probabilmente né negli Stati Uniti, né altrove, esistono (per adesso) parametri culturali abbastanza reattivi da mettere in discussione la disarmonia costitutiva del mondo dei consumi, quel sentimento di sazietà irraggiungibile, di appagamento impossibile, che muove gli stomaci e i cervelli occidentali senza più alcun nesso logico con i bisogni reali.

L'allarme del giudizioso corpo insegnante americano (che sarà a sua volta, presumibilmente, un corpo obeso...) può essere così inteso almeno in due maniere: come un lamento tardivo, ormai impotente a rimettere a regime meccanismi sociali totalmente fuori fase, oppure come uno dei primi vagiti, ancora goffi, ancora rudimentali, di un linguaggio che sta nascendo, un linguaggio critico, un linguaggio soccorrevole che prova, lentamente, ad affiancarsi e forse un giorno (speriamo) a sostituirsi alla lingua trionfante, pervasiva, incontrastata della pubblicità.


4 gennaio

Un Natale terribile

Haiti, le operazioni congiunte fra la Minustah e la polizia haitiana hanno causato decine di morti e feriti

Tutto ha avuto inizio poco prima di Natale quando il governo haitiano presieduto da Renè Preval, ha di fatto dato mandato ai caschi blu della Minustah (Missione di Stabilizzazione delle Nazioni Unite) di intervenire direttamente nelle zone del Paese (soprattutto nei sobborghi difficili della capitale Port au Prince) dove è più alta la presenza, e la resistenza, dei ribelli. “In poche parole da forza di pace, la Minustah, diventa a tutti gli effetti una forza di intervento. E’ iniziata così, inevitabilmente, una nuova fase per il Paese”, racconta il giornalista Francesco Fantoli.
  Una patuglia della Minustah alle prese con la guerriglia (foto dal sito Minusta)I fatti. Immediatamente sono scattate le operazioni militari (per gran parte delle quali non vengono fornite notizie) nei quartieri considerati “caldi”: Citè Soleil e Citè Militare.
Dense colonne di fumo e fortissime detonazioni sono state udite per diversi giorni. Gli elicotteri della forza di pace si sono levati in volo per controllare dall’alto la situazione. Anche i quartieri ‘bene’ di Port au Prince (come Petion Ville) sono stati attraversati da notti di violente battaglie.
E, purtroppo si sono dovuti contare i morti. “Durante la prima fase delle operazioni, avvenuta a Citè Soleil si sono registrati 15 morti e 28 feriti tutti in modo molto grave. Nella seconda operazione ci sono stati solo 6 feriti e nessun morto”, racconta Fantoli dall’isola. “La vera notizia, però, è che a farne le spese, questa volta, sono stati solo i delinquenti che da anni tengono in pugno la città. Le notizie che vengono diffuse secondo cui a perdere la vita siano stati anche dei civili innocenti sono false”. Durante le operazioni, inoltre, sono state recuperate diverse armi da fuoco, soprattutto automatiche.
  
Un posto di blocco nei pressi di una bidonville (foto dal sito Minustah)Operazioni congiunte. “In questo momento un’altra novità è data dalla piena autonomia dei peacekeepers dell’Onu che possono agire in assoluta tranquillità, senza chiedere permesso a nessuno e nella stragrande maggioranza dei casi, poi, la polizia haitiana li segue”, ricorda il giornalista italiano.
Si prevede che le operazioni militari per ristabilire l’ordine e spazzare via l’anarchia che regna sovrana in città dureranno fino al 15 gennaio prossimo. “Molte delle azioni portate avanti dai caschi blu non saranno ‘pubblicizzate’ perché coperte da segreto operativo. Si verrà a sapere qualcosa solo in caso di enormi massacri o cose particolari. Ma se saranno solo ‘piccole operazioni’ non si avranno notizie. Il 15 gennaio prossimo, poi, il capo della Minustah andrà da Preval e farà un rapporto sulle azioni effettuate”.
  Un casco blu controlla la borsa di un cittadino haitiano (foto dal sito Minustah)Guerriglia per le strade. Negli scontri a fuoco dei giorni scorsi hanno perso la vita solo cittadini haitiani, la Minustah ha subito solo la perdita di un mezzo anfibio assaltato a Citè Soleil.
Secondo quanto raccontato da testimoni oculari, l'anfibio delle Nazioni Unite non sarebbe riuscito a fare marcia indietro dopo essersi bloccato in mezzo al fango della bidonville. Alcuni spari provenienti dalle baracche avrebbero fatto esplodere i battistrada del veicolo e solo a quel punto gli uomini che ritrovavano al suo interno avrebbero iniziato la fuga. L’obiettivo dei ribelli (che non si sono minimamente preoccupati di seguire i tre caschi blu) era un M50, un cannone presente sul mezzo. “Maldestramente l’hanno smontato credendo forse di poterlo utilizzare per i loro scopi – dice Fantoli – ma si sono dimenticati di togliere un pezzo fondamentale. Un cannone quindi inutilizzabile”.
C’è da chiedersi se questa nuova strategia militare darà buoni frutti. “Immagino - dice il giornalista italiano – che queste azioni di repressione creeranno molti problemi. Non basta reprimere. Bisogna anche creare posti di lavoro, bisogna fare qualcosa perché la popolazione di Haiti esca dalla miseria più nera”.
 

Sciopero generale contro Tony Blair
I dipendenti statali inglesi chiedono la fine dei licenziamenti e dell'outsourcing. Non incrociavano le braccia da venti anni
Orsola Casagrande
I sindacati del pubblico impiego minacciano uno sciopero nazionale, il primo in vent'anni, e il governo Blair risponde organizzando il boicottaggio della protesta. Da oggi 280mila lavoratori del pubblico impiego si dovranno pronunciare sulla proposta di una giornata di mobilitazione da tenere entro la fine di gennaio. Il sindacato Pcs ha annunciato infatti che dopo due anni di vertenze infruttuose è arrivato il momento di chiedere ai lavoratori una giornata di astensione dal lavoro. Sul piatto delle trattative aumenti salariali ma anche e soprattutto la facilità con cui lo stato sta licenziando decine di lavoratori e la decisione di esternalizzare sempre più servizi. Il governo ha fatto sapere che intende lavorare per boicottare lo sciopero, o almeno per renderlo innocuo. E così, visto che a scioperare saranno soprattutto quegli uffici che si occupano di fisco, tasse, rilascio patenti, gli uffici di collocamento, il governo sta pensando di fare un appello ai contribuenti perchè si affrettino a saldare per posta i loro debiti con il fisco. I sindacati infatti stanno organizzando una forma di mobilitazione che renda impossibile per il governo riuscire ad avere nelle proprie casse, entro fine gennaio, i soldi delle tasse. Le unions pensano ad una astensione nazionale con conseguente chiusura di tutti gli uffici del fisco del paese. Per il governo si tratterebbe di un colpo molto duro. Dice Mark Serwotka, l'energico segretario generale del Pcs, che «riuscire a chiudere uffici, musei, motorizzazioni per un giorno significherebbe un ritardo nel ricevimento da parte dello stato di qualcosa come una decina di miliardi di sterline. Vogliamo portare in primo piano - dice ancora Serwotka - la nostra contrarietà alla politica di privatizzazione del governo Labour di servizi importanti". Per il sindacato poi è inaccettabile che il ministro del tesoro e futuro premier, Gordon Brown, abbia esplicitamente detto di voler vedere nei prossimi tre anni il taglio di almeno altri 84mila dipendenti statali. In totale i lavoratori pubblici sono circa seicentomila e la metà è rappresentata a livello sindacale dal Pcs. Che infatti non ha dubbi sulla risposta positiva massiccia che ci sarà alla proposta di sciopero nazionale. E sarà la prima volta dagli anni bui della signora Thatcher. Anche per questo il governo Blair è così preoccupato di disinnescare una protesta che potrebbe 'contaminare' altri settori. L'ultima cosa che il new Labour vuole in questo momento.
Ma per il sindacato le risposte del governo finora sono state insufficienti. In una lettera indirizzata al segretario del Pcs, il sottosegretario Gus O'Donnell ha scritto che «il governo sta facendo e continuerà a fare il possibile per evitare licenziamenti. Purtroppo però - continua la lettera - non può garantire nulla in questo senso». Più esplicito ancora il sottosegretario Pat McFadden che ha ribadito che «forse l'opinione pubblica non si rende pienamente conto del trattamento riservato agli impiegati statali in termini di salario, ferie, malattia, pensione. Non c'è nessuna ragione per questo sciopero». Le unions respingono al mittente definendole inaccettabili queste dichiarazioni da parte di un governo che «si dice laburista e che è stato praticamente fondato dai lavoratori e dalle loro organizzazioni sindacali», come ha sottolineato la sinistra Labour che ha invece subito sostenuto la proposta di sciopero del Pcs.


Narcos contro paramilitari. La violenza soffoca Rio de Janeiro
La città brasiliana è in guerra. I narco-trafficanti e «milizie comunitarie» si contendono il controllo delle favelas
Adriano Marzi
Rio de Janeiro
L e prime parole ufficiali di Sergio Cabral, da lunedì nuovo governatore dello stato di Rio de Janeiro, sono state un grido d'aiuto. Per tirare fuori la testa dal bagno di sangue in cui la città è annegata negli ultimi giorni (almeno 19 morti da giovedì scorso), la nuova amministrazione ha chiesto al presidente Lula l'invio immediato delle truppe federali. Circa 7000 agenti della sicurezza nazionale, il cui arrivo era previsto solo tra qualche mese in occasione dei Giochi panamericani (in programma dal 13 al 29 luglio), andranno a integrare le forze dell'ordine dello stato di Rio. Anche l'esercito è stato messo in allerta.
Il 28 dicembre la colonnina della violenza ha sfondato il termometro. I quartieri di mezza città, comprese quartieri bene come Botafogo, sono stati messi a ferro e fuoco: decine di macchine della polizia prese a colpi di granata e raffiche di mitra, bus dati alle fiamme, tanti poveracci finiti bruciati o uccisi. Era, si è detto, la risposta dei maggiori clan del crimine di fronte all'avanzata delle milicias.
Con il pretesto di spazzar via il narco-traffico, eliminando gli incubi di chi abita nelle zone più marginali di Rio, negli ultimi anni sono sorti infatti gruppi paramilitari. Classificate dai simpatizzanti come Autodefesas comunitárias, queste milizie si sono inserite nella lotta per il controllo del territorio. Ad oggi, le favelas sotto la loro «protezione» sono circa un centinaio. Un fenomeno in crescita esponenziale: una favela occupata ogni 12 giorni negli ultimi 20 mesi.
Le milizie sono composte in gran parte da poliziotti civili e militari (che qui in Brasile sono quelli degli stati dell'Unione), pompieri, agenti penitenziari, che in alcuni casi abitano nelle stesse comunità di cui assumono il controllo. Nelle loro operazioni d'occupazione possono contare sull'appoggio informale delle unità di polizia cui è affidata la sorveglianza dei territori in questione. «Al momento dell'invasione, gli agenti di turno fanno finta di niente - racconta il colonnello Mário Sérgio de Brito Duarte - per poi riprendere servizio dopo che le milizie si sono installate, aiutando così a ostacolare il ritorno dei narco-trafficanti».
Una volta ottenuto il controllo del territorio, i paramilitari bandiscono l'uso e la vendita di droga. E i loro metodi di repressione, al di sopra della legge, risultano molto efficaci: un minore pescato con della maconha (la marijuana), a esempio, riceve immediatamente percosse e minacce di morte. Una garanzia che difficilmente sgarrerà una seconda volta.
Lo sradicamento del consumo e del traffico di droga è l'esca con cui le milizie guadagnano la simpatia iniziale di una parte degli abitanti della favela «liberata». In realtà il loro fine ultimo è esclusivamente il lucro e molto presto la comunità si rende conto di essere passata da un carnefice all'altro.
I paramilitari cominciano riscuotendo una «tassa di protezione» per tenere lontani i trafficanti, di solito 15 reais al mese (più o meno 5 euro) per ciascun abitante. Molto rapidamente però passano a imporre il «pizzo» su un ampia gamma di attività commerciali che hanno vita all'interno della favela. Il prezzo di vendita delle bombole del gas viene maggiorato di 5 reais, mentre chi usufruisce di un allaccio clandestino alla rete elettrica è costretto a pagarne 10. La tassazione è imposta anche sull'installazione irregolare della Tv per abbonamento (pare che la «Tv a gato» a Rio coinvolga 600.000 persone, il doppio degli abbonati regolari) e chi vuole garantirsi il servizio deve essere pronto a sborsare in media 30 reais al mese. Anche i gestori di moto-taxi e piccoli furgoncini, mezzi di trasporti informali molto diffusi nelle favelas, devono corrispondere un pedaggio alle milizie. Come pure le attività commerciali regolari. Ai paramilitari poi deve essere corrisposta una percentuale sul prezzo di vendita o d'affitto degli immobili.
Un giro d'affari notevole. A esempio, secondo una rilevazione operata dal Gabinetto militare del muncipio, le milizie che occupano la favela di Rio das Pedras (poco più di 12000 abitanti) arrivano a guadagnare un milione di reais al mese soltanto con 3 «servizi»: sicurezza, gas e Tv via cavo. Calcolate che un euro vale circa 2.8 reais e fate i vostri conti
Agli abitanti che si rifiutano di pagare viene tagliato il rifornimento di gas e luce. Se la situazione non cambia, le milizie passano a minacce e torture, fino ad arrivare in alcuni casi ad assassini mirati. A Parque Boa Esperança, una delle comunità più carenti della Zona ovest, non riuscendo a spremere a sufficienza i 400 abitanti, le milizie hanno scelto di abbandonare il territorio che era stato invaso all'inizio dello scorso mese. Il 25 novembre, poche ore dopo la loro ritirata, i trafficanti espulsi hanno ripreso il controllo della favela, uccidendo il leader della comunità reo di aver appoggiato l'occupazione dei paramilitari.
Dove sono maggiormente radicate, le milizie arrivano a controllare programmi statali d'assistenza come Bolsa-Familia (sussidio) e Vale-Gas (fornitura gratuita di bombole di gas). In alcuni casi viene imposto anche il coprifuoco: ad esclusione del sabato gli abitanti sono tenuti a non uscire di casa dopo le 22. Ai più giovani viene inoltre impedito di frequentare i bailes organizzati nelle altre favelas. In questo modo le dinamiche di controllo e sfruttamento imposte dai paramilitari risultano ancora più severe di quelle adottate dai trafficanti. La frustrazione degli abitanti è poi esasperata dalla presenza di membri effettivi delle forze della Polizia militare e civile tra le fila delle milizie: persone che ricevono un salario dallo Stato perché dovrebbero garantire il rispetto della legge.
Le invasioni dei paramilitari finora si erano concentrate nelle periferie della megalopoli, in particolare nella Zona ovest e a Jacarepaguá, dove delle 48 favelas disseminate nell'area soltanto la famosa Cidade de Deus non è ancora stata occupata dalle milizie. Sono in molti però a indicarla come prossimo obiettivo di conquista.
Proprio per scoraggiare l'avanzata verso quest'ultimo territorio e verso quello della Mangueira, alcuni tra i principali clan di narcos si sono riuniti, un evento senza precedenti nella cronaca degli ultimi anni, e hanno deciso di dare un segnale forte. Il bilancio parla di oltre 20 morti e decine di feriti, in gran parte civili.
Le vittime delle guerre per il controllo delle favelas e del traffico di droga sono soprattutto le nuove generazioni. In Brasile, secondo i dati diffusi dal Núcleo de Estudos da Violencia (Nev) dell'università di San Paolo, nel 87.6% dei casi di omicidio la vittima ha tra 15 e 19 anni. Teatro degli assassini sono essenzialmente le comunità più marginali del paese.
Un altro studio, del sociologo Waiselfisz, dimostra che le cause principali di morte dei giovani tra 15 e 24 anni sono ormai «cause esterne»: omicidi per il 39.7% e incidenti stradali per il 17.1%. Nella stessa fascia di età, il tasso di mortalità per arma da fuoco è di 43.1 per ogni 100000 giovani. Nell'ultima decade, il numero di omicidi è cresciuto del 5% annuo e il tasso più alto di crescita si è registrato proprio nella fascia di età compresa tra 14 e 16 anni. Con un tasso di 27 omicidi per ogni 100mila abitanti, il Brasile divide il podio nella classifica mondiale con Venezuela, Russia e Colombia. Considerando solo le morti tra i giovani il tasso è di 51.7 per ogni 100000, più basso soltanto di quello di Colombia e Venezuela.
Secondo i dati dello Instituto brasileiro de geografia e estatísticas (Ibge), Rio de Janeiro è la città dove vengono uccisi più giovani tra 15 e 24 anni: nel 2005 il tasso era di 227.4 morti per omicidio per ogni 100000 giovani, con una crescita del 1.1% rispetto al 2004 (quando erano 225).

 

 

3 gennaio

RAPPORTI|
Inquinati i musei italiani
A Roma, Palermo e Napoli e esposizioni fra ozono e gas acidi. Scolorimento ed erosione delle pareti danneggiano la qualità dell'aria. I dati di Ecosistema museo chiudono la campagna Salvalarte di Legambiente / FILE: inquinamento in galleria

I musei di Roma, Palermo e Napoli sono i più inquinati d’Italia. Legambiente in occasione della chiusura della undicesima edizione della campagna Salvalarte patrocinata dai ministero per i Beni culturali e dell’Ambiente diffonde i risultati di Salvailmuseo, il monitoraggio sulla qualità dell’aria realizzato all’interno delle aree museali italiane: sono a Roma (per la concentrazione di biossido di zolfo), Palermo (ozono) e Napoli (biossido d’azoto) i musei più inquinati della penisola. Erosione e scolorimento dei dipinti, sfibratura e opacizzazione dei tessuti, rigonfiamenti del legno, annerimento dei marmi, fragilizzazione e polverizzazione superficiale delle pelli sono gli effetti che particolato, ozono e gas acidi ogni giorno, inesorabilmente, provocano sui pezzi del nostro patrimonio artistico e culturale.

E più in generale secondo Ecosistema Museo, l’indagine realizzata da Legambiente sui problemi relativi alla gestione dei principali musei statali e civili del nostro paese svolta in collaborazione con Icom Italia, le nostre aree museali sono afflitte da un cronica mancanza di risorse finanziarie, che rende difficile la gestione dell’attività ordinaria, portando alla limitazione del personale, a problemi di morosità nel pagamento delle bollette, impedisce lo svolgimento di attività collaterali e l’ampliamento dell’offerta culturale del museo.

«Il museo – ha commentato Roberto Della Seta presidente nazionale Legambiente – non è solo un luogo dove realizzare la tutela, conservazione e fruizione delle opere d’arte. Ma anche punto di diffusione culturale che non può prescindere dal proprio territorio e dalle iniziative culturali che in esso si svolgono. La responsabilità che assume perciò il museo – ha continuato Della Seta - va al di là della semplice dimensione architettonica, per diventare motore di sviluppo e luogo in cui viene determinata la sostenibilità del nostro patrimonio artistico».


 

Guai ai vinti
Marco d'Eramo
Ce l'avevano mostrata come un'impiccagione sobria, composta: il video rilasciato dal governo iracheno era muto. Ma poi è saltata fuori la colonna sonora in cui le guardie e gli spettatori sfottono a ripetizione Saddam Hussein; gli gridano come ultras allo stadio il nome di Moqtada al-Sadr, nemico acerrimo del dittatore; gli urlano «Va all'inferno!»; gli intonano una preghiera sciita a lui che è sunnita; finché, subito prima che si apra la botola, Saddam dice: «I veri uomini non si comportano così».
L'esecuzione si rivela dunque per quel che era, una vendetta, per di più vile, abietta. I media anglosassoni ora sono «scandalizzati»: avrebbero voluto un'uccisione asettica. Vige sempre negli Usa l'idea che la pena di morte possa essere comminata come in una sala chirurgica, con il gas, con la corrente elettrica, con l'iniezione, ogni mezzo basta che non ricordi il sangue. Si ritrovano invece con un assassinio da gangsters di strada che infine riescono a mettere le mani sul boss infine inerme della gang avversaria. Così ora i puritani s'indignano. La Bbc è «scioccata». Il New York Times nauseato. L'ipocrisia non ha limite: la colpa dell'obrobrio ricade naturalmente tutta sul premier Nuri Al Maliki. Loro, gli americani, avevano tentato di uccidere Saddam secondo il protocollo, ma quei barbari d'iracheni hanno rovinato tutto.
Al disgustato disagio dei media contribuisce anche la nuova soglia varcata dalle perdite Usa in Iraq che ora hanno superato il muro dei 3.000 caduti. È straordinario come all'improvviso certe cifre diventino soglie. Nessuno dei media americani aveva aperto bocca quando erano stati superati i 1.000 caduti, come erano stati assai discreti ai 2.000. Adesso di botto quota 3.000 diventa una «pietra miliare», come lo è la morte di Saddam Hussein, secondo George Bush il giovane. Ancora non è chiaro perché a partire dall'estate scorsa il sistema dei media Usa si sia svegliato di colpo, dopo anni di ossequioso silenzio, per non dire omertà, con Bush. Ora i media scoprono che la guerra è uno sporco affare, che il sangue si mischia sempre alla merda, come nella disgustosa impiccagione di Saddam.
È in questo contesto che un consigliere di Al Maliki ha redarguito Romano Prodi, l'unico tra i governanti europei ad avere espresso il proprio dissenso con qualcosa di più dell'imbarazzato bofonchiare delle altre capitali. Il consigliere iracheno ha detto: Prodi pensi a Mussolini che a Saddam Hussein ci pensiamo noi, concludendo con una chicca: «Alla fine della seconda guerra mondiale, Mussolini è stato processato per un solo minuto. Il giudice gli ha chiesto il suo nome e alla risposta 'Benito Mussolini' gli ha detto: il tribunale vi condanna a morte e la sentenza è stata eseguita immediatamente».
Come fantasia non è niente male: non ci fu né processo, né giudice, né condanna, ma Mussolini fu sparato insieme alla sua amante Claretta Petacci vicino Como, il 28 aprile 1945 dai partigiani che li avevano catturati mentre tentavano di fuggire dall'Italia. Fu un gesto spregevole, ma del tutto diverso da un processo farsa conclusosi in un'esecuzione oscena. Somiglia più alla morte dei due figli di Saddam, Udai e Qusai, uccisi nel luglio 2003 dai soldati americani. Guerra è uccidere il nemico, non condannare il vinto solo perché ha perso. Più onesto sarebbe dire: «Guai ai vinti».

 

La crescita record di Cuba
Fr. Pi.
Se ne parla poco, e in genere per parlarne male. Tutto normale, in fondo Cuba è l'ultimo «paese socialista» a cercare di tener fede ai suoi obiettivi sociali. E quindi sene parla per sottolinearne la «crisi» di modello, che dovrebbe fatalmente prtarla a rientrare nelle sfere di influenza di questa o quella multinazionale (non importa di quale paese, ormai).
E invece, zitta zitta, complice il «disallineamento» rispetto agli Usa degli altri paesi dell'America Latina, nonché il protagonismo commerciale cinese nell'area, l'economia cubana ha messo a segno una crescita da revord: più 12,5% per il prodotto interno lordo (Pil). Vero è che si partiva da una situazione particolarmente depressa da decenni di blocco economico voluto e direto dagli Stati uniti. Ma si tratta comunque del secondo anno consecutivo di crescita record.
Stavolta ha fatto anche meglio di tutto il subcontinente: il Veneziuela di Chavez, che ha potuto beneficiare delle quotazioni altissime del petrolio, ha messo a segno un +10%, mentre l'Argentina «de-dolarrizzata» di Kirchner e ancora infestata dalle azioni dei nostalgici militari, ha registrato comunque un significativo +8.
I dati provengono dalla Commissione economica per l'america Latina e il Caribe (Cepal), riunita asantiago del Cile, non da un'organismo governativo cubano. Hanno quindi tuti i crismi della rilevazione statistica scientifica, senza rigonfiamenti» propagandistici.
La ripresa delle esportazioni - della possibilità stessa di esportare - ha guidato ovviamente questa crescita, che ha portato con sé anche una maggiore disponibilità di valuta pregiata. Venezuela e Cina figurano al primo posto negli scambi commerciali (finalmente la bilancia dei pagamenti risulta addirittura in positivo), ma il settore che ha tirato di più non è quello tradizionale (lo zucchero da canna), ma da un considerevole aumento dei servizi professionali, a partire dalla sanità (la più avanzata di tutto il terzo mondo»). Altrettanto hanno pesatpo lavendita di medicinali fabbricati nell'isola e il settore del turismo, anche se quest'ultimo è cresciuto a un ritmo decisamente minore.
Un segnale particolarmente chiaro di ripresa vene poi dal considerevole aumento del settore delle costruzioni, bloccato ai livelli di pura sopravvivenza da anni. Ne deriva infineuna bilancia dei pagamenti in attivo e un incremento delle riserve in valuta estera. A dinostrazione del fatto che solo il «blocco» Usa ha impedito a Cuba di migliorare il livello di vita della propria popolazione.

 

SADDAM

 di Agostino Spataro

Per un bel po’, ce ne ricorderemo delle agghiaccianti immagini dell’impiccagione di Saddam Hussein. Soprattutto, del contegno del condannato nel momento estremo del passaggio dalla vita alla morte. Non so se calcolato, ma in questo drammatico frangente il dittatore iracheno si è mostrato padrone della sua morte, trasformandola in un formidabile colpo propagandistico assai imbarazzante per gli esecutori e per il mandante politico dell’impiccagione che, a quell’ora, fingeva di dormire nel suo ranch texano.

La vita di Saddam è lastricata di orrori indicibili, ma la sua morte è stata una sorprendente lezione di dignità. Egli, che aveva una certa familiarità con la morte violenta (degli altri), ha usato la sua per riaffermare il suo smisurato orgoglio, affrontandola a viso aperto quasi collaborando coi due boia incappucciati che gli stringevano il cappio intorno al collo.

Finzione o realtà ? La risposta è difficile, ma credo che questa morte abbia molto impressionato i suoi seguaci e in generale la gente che ha assistito al triste spettacolo.

Una morte dignitosa che, certo, non può far dimenticare la sua lunga e crudele dittatura. Al pari di  altri decine di dittatori esistenti nel mondo che continuano, indisturbati e riveriti, a servire gli interessi delle grandi multinazionali Usa e non solo.

Com’era riverito Saddam, il sanguinario, il quale- se ci fate caso- è stato mandato alla forca in base ad un processo-farsa e per un delitto compiuto nel 1982, nell’indifferenza generale, quando gli attuali suoi acerrimi nemici attuali, d’Oriente e d’Occidente, lo blandivano come baluardo della civiltà occidentale, magari per strappargli contratti miliardari.

Non bisogna dimenticare, infatti, che c’è stato un tempo, non tanto remoto, in cui molti governi occidentali e arabi (dagli Usa all’Arabia saudita, passando per l’Europa, Italia compresa) mobilitarono i loro potenti media per presentare Saddam all’opinione pubblica mondiale come l’eroe che, muovendo guerra contro l’Iran della rivoluzione sciita, s’interponeva come una diga armata (dalla Nato e dal Patto di Varsavia) fra la minaccia khomeynista e gli immensi giacimenti di petrolio iracheni e della penisola arabica.

Già in quella guerra, il dittatore iracheno usò le armi chimiche, ma nessuno in Occidente si scandalizzò più di tanto. Addirittura, nel consiglio di sicurezza e nell’Assemblea dell’Onu furono bocciate diverse risoluzioni di condanna presentate dall’Iran.

Finita la guerra contro l’Iran, per Saddam comincia una strana e, per lui, inattesa metamorfosi: da baluardo a nemico degli interessi occidentali nella regione.  

Allora tutto era consentito al grande dittatore che, per conto dell’occidente, stava salvando i pozzi di petrolio e che continuava ad acquistare costosi sistemi d’arma dai principali paesi della Nato e del blocco orientale.

Un affare lucroso, per centinaia di miliardi di dollari, al quale parteciparono diverse imprese italiane, pubbliche e private, che vendettero all’Iraq in guerra armi di ogni tipo e componenti per costruire il temutissimo “supercannone” e materiali per la fabbricazione di ordigni chimici, usati contro gli iraniani e nelle repressioni contro curdi e sciiti iracheni.

Chi si vuol documentare su questo turpe commercio può consultare le lunghe liste d’imprese fornitrici, fra le quali molte italiane, o andare a sbirciare fra le carte dell’inchiesta sulla filiale di Atlanta della Banca nazionale del lavoro che restò impigliata nella trama di uno dei più grandi scandali internazionali del secolo scorso. 

Nell’epoca d’oro del catto-craxismo, l’Iraq era l’ospite d’onore. Furono organizzati convegni e ricevimenti sontuosi per accogliere qualificate delegazioni ministeriali irachene che venivano a Roma e in altre città italiane a comprare di tutto. Fu in quel tempo, auspice il ministro della difesa Lagorio, che l’Italia vendette all’Iraq in guerra un’intera flotta militare per un valore di 1.200 miliardi di lire.

Ricordo che, a copertura di questa colossale operazione, fu ideata in ambienti socialisti un’associazione di amicizia italo-irachena che prima di nascere aveva un presidente designato: l’on. Seppia del PSI. Tuttavia, per risultare più convincente, l’associazione doveva essere “unitaria”, comprendere cioè rappresentanti della Dc e del  PCI che era molto critico sulla politica di Saddam e  diffidente sull’improvvisa apertura di credito italiana.

Ci furono ripetute insistenti richieste di una nostra partecipazione, anche al massimo livello. Fu così che, seppure restio, mi ritrovai co-vicepresidente in rappresentanza del Pci (l’altro era il democristiano on. Aiardi) di questo sodalizio che abbandonai, precipitosamente, a poche settimane dall’insediamento. Nulla di straordinario, soltanto un piccolo episodio che aiuta a capire il clima di allora e a meglio individuare responsabilità ed omissioni di partiti e imprese italiani che, pur di realizzare affari, finsero d’ignorare i massacri a danno delle popolazioni curde e sciite e la feroce repressione contro un’intera generazione di comunisti. Stranamente nessuno lo ricorda, ma le prime vittime di Saddam furono i dirigenti del Partito comunista iracheno, il più importante del Medio Oriente, incarcerati, torturati e sovente uccisi per essersi opposti alla nascente dittatura.

Se si fossero celebrati processi equi e internazionalmente garantiti molte di queste responsabilità sarebbero venute alla luce e l’opinione pubblica avrebbe meglio capito le nefaste conseguenze dei comportamenti omissivi di allora e quelle dell’iniqua guerra di occupazione attuale che di vittime  ne ha mietuto a centinaia di migliaia. Invece si è scelto di fare un processo-farsa, all’insegna della vendetta tribale, per evitare l’imbarazzo di una ricostruzione integrale, magari con la collaborazione degli imputati, di oltre un ventennio di disinvolta cooperazione fra il regime tirannico di Bagdad e le principali cancellerie ed imprese occidentali.

                                       

2 gennaio 2007

Il Daily Telegraph svela i termini di un patto con i servizi segreti americani
Controllati i passeggeri europei diretti oltreOceano. "E' la rinuncia ai diritti delle persone"

Accordo antiterrorismo tra Usa e Ue
"Accesso a e-mail e carte di credito"

<B>Accordo antiterrorismo tra Usa e Ue<br>"Accesso a e-mail e carte di credito"</B>

Un accordo Usa-Ue prevede controlli sui passeggeri europei diretti oltreOceano

LONDRA - I servizi segreti americani potranno mettere il naso nelle e-mail e nelle transazioni delle carte di credito dei passeggeri europei che vanno negli Stati Uniti. Il Daily Telegraph svela i termini di un accordo antiterrorismo siglato tra gli Usa e l'Unione europea. Fornendo il numero di carta di credito e l'e-mail alla compagnia aerea, il passeggero aprirà di fatto i propri dati personali alle autorità americane, che potranno vedere tutte le transazioni o i messaggi, anche non relativi al viaggio.

Il quotidiano inglese ha ottenuto i documenti dal ministero dei Trasporti britannico, grazia alla legge sulla libertà di informazione. Dopo un lungo braccio di ferro e la minaccia di mettere al bando le compagnie aeree che non collaboravano, gli Usa hanno strappato lo scorso ottobre la firma della Ue. Risultato: Washington avrà accesso a 34 tipi di informazioni sui passeggeri. Molte sono normali, ma alcune sono particolarmente sensibili: che tipo di pasti vengono ordinati in base alla fede religiosa, o se un passeggero in passato non si è presentato al volo dopo aver comprato il biglietto.

Anche per le leggi americane, chi vuole avere accesso a questi dati ha bisogno di norma del consenso di un magistrato, ma questo non varrà per i passeggeri degli aerei europei. Cosa che ha fatto gridare allo scandalo le associazioni per le libertà civili. "La misura è unilaterale", spiegano i contrari dell'accordo. "Washington si è solo limitata a promettere di incoraggiare le aerolinee americane a fare lo stesso con i paesi europei ma non li ha obbligate. Il ministero per la sicurezza nazionale americano ha detto esplicitamente che userà questi dati non solo contro il terrorismo, ma anche indagando su altri reati".

"Se un cittadino europeo vorrà opporsi - afferma il Daily Telegraph - dovrà farlo in una corte americana, il che rende qualsiasi salvaguardia della privacy di fatto inesistente". Shami Chakrabarti, direttore dell'organizzazione per i diritti umani Liberty, si è detto "inorridito" dalla notizia: "E' la rinuncia ai diritti delle persone che viaggiano negli Usa".

 

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