Archivio Maggio 2007

 

29 maggio

Il canale Rctv era popolarissimo e trasmetteva in Venezuela dal 1953. Il presidente Chavez lo considerava troppo critico nei suoi confronti

Caracas, spenta la tv dell'opposizione. Incidenti fra manifestanti e polizia

Idranti e sfollagente su chi protestava contro la chiusura

CARACAS - Fine delle trasmissioni per l'emittente televisiva privata Radio Caracas Television (Rctv) che, tra accese proteste di piazza e incidenti, a mezzanotte (le 6 del mattino italiane) è scomparsa dagli schermi venezuelani dopo 53 anni, sostituita dalla nuova Tv di servizio pubblico voluta dal presidente Hugo Chavez, Televisione venezuelana sociale (TVes).

Ieri sera davanti alla sede della Commissione nazionale delle telecomunicazioni (Conatel) a Caracas manifestanti scesi in piazza per protestare contro la fine delle trasmissioni della Rctv si sono scontrati con le forze della polizia metropolitana. Secondo la Tv "all news" (di opposizione) Globovision, i dimostranti sono stati attaccati "all'improvviso" dagli agenti che hanno usato idranti e sfollagente. E l'agenzia Reuters riferisce anche di gas e proiettili di gomma, sparati contro le decine di migliaia di manifestanti.

Diversa la versione fornita dalla Radio nazionale venezuelana (Rnv) secondo la quale "manifestanti violenti hanno preso di mira il cordone umano creato dalla polizia metropolitana obbligando la stessa a far entrare in funzione i mezzi antisommossa. Dopo alcuni minuti di forte tensione, è ritornata una calma tesa, mentre i media parlano di undici agenti di polizia feriti, alcuni dei quali in modo grave.

Molto diversa l'atmosfera fra i sostenitori del governo, che dal Teatro Teresa Carreno di Caracas hanno festeggiato tutta la notte per la nascita della nuova tv, TVes, presentata dalla sua presidentessa Lil Rodriguez come una "emittente pubblica, pluralista, educativa e partecipativa" con la dichiarata ambizione di "cambiare la vita di tutti i venezuelani". La nuova televisione ha inaugurato le trasmissioni con l'inno nazionale, Gloria al Bravo Pueblo, interpretato dall'Orchestra sinfonica nazionale della gioventù venezuelana diretta da Gustavo Dudamel.

Sollevando moltissime critiche a livello internazionale e numerose proteste nazionali, Chavez aveva fatto sapere cinque mesi fa di non voler rinnovare la concessione al canale televisivo Rctv e di volerlo sostituire con un'emittente statale per promuovere i valori della sua rivoluzione socialista: già nelle scorse settimane moltissime persone erano scese in piazza - giornalisti, studenti ma anche tanta gente comune - contro la chiusura della televisione, invocando la libertà di stampa, che, secondo la Rctv "è stata calpestata". Giudizio non condiviso dal governo, che appoggiandosi alle leggi venezuelane e a sentenze del Tribunale supremo di giustizia (Tsj), ha rivendicato la decisione come suo diritto per orientare la politica informativa e culturale nazionale.

Rctv, un'emittente popolarissima - la sola a coprire tutto il territorio venezuelano insieme a Vtv - andava in onda dal 1953, ed era considerata troppo critica dal presidente, che la accusava anche di aver simpatizzato con il colpo di stato che cinque anni fa l'aveva spodestato per due giorni.

"Presto torneremo": così hanno salutato il pubblico i giornalisti e il personale della Rctv, ieri, durante l'ultimo giorno di programmazione. E Marcelo Granier, presidente della società 1BC che controlla la Tv Rctv, ha mandato un messaggio ai venezuelani in cui assicura che, nonostante la scomparsa del segnale dall'etere, "continueremo a lottare con fermezza e convinzione per la libertà e la democrazia".

"Con la chiusura di Rctv - ha detto ancora - i venezuelani vedono confermati i propri timori: il governo vince ma non convince, la sua sarà una vittoria di Pirro, perché perde più di quello che guadagna. Perde il riconoscimento internazionale e perde il rispetto del popolo".

 

L'alibi dell'emergenza

di MICHELE SERRA

DALLA meditata abiura del sindaco Chiamparino sull'antiproibizionismo al cosiddetto "giro di vite" cofferatiano sulla difficile convivenza urbana a Bologna, nella sinistra italiana è ben percepibile un nascente clima anti-permissivo. Che trova ulteriore conferma nella dichiarazione di intenti del ministro della Salute, Livia Turco, favorevole all'invio dei carabinieri dei Nas nelle scuole per "attività ispettiva" anti-droga. Il quadro politico e psicologico nel quale matura questo genere di prese di posizione non è da prendere alla leggera. L'impressione di una de-regulation civile è diffusa. L'idea che l'antiautoritarismo quasi congenito in una classe dirigente formatasi negli anni Sessanta (noi, insomma) abbia indebolito oltre il lecito, nelle famiglie e nelle scuole, anche ogni necessario principio di autorità, è tutt'altro che immotivata.

Se il problema è che in una società senza regole si vive male e si cresce anche peggio, il problema c'è. Di pari passo, però, maturano anche l'impressione, e il timore, che il ritardo e le omissioni accumulati su questo terreno possano essere cattivi consiglieri. Che l'ansia e il senso di colpa degli adulti possano generare un interventismo potenzialmente maldestro.

I carabinieri nelle scuole, per quanto sorvegliata e cauta sia la loro presenza, costituiscono pur sempre un'intrusione molto drastica: il segnale che l'autorità scolastica non è più in grado di riacciuffare per suo conto il bandolo della situazione. Cosa che sarebbe tanto più grave in un'istituzione, la scuola, che ha nella sua autonomia (anche regolamentare) il fondamento della sua autorità: già assediata com'è, povera scuola, da genitori ansiosi e da istanze politiche non sempre limpide.

L'esercizio dell'autorità, male o bene esercitato che sia, compete ai presidi, agli insegnanti, al personale non docente, quei bidelli che un tempo, perfino nella temperie della contestazione, spesso aiutarono ad evitare il peggio. La disciplina, e perfino la tutela della salute dei ragazzi, diventano un problema di ordine pubblico (un problema extra-scolastico, dunque) solamente in casi estremi.

Nell'ordinaria amministrazione - quella che conta, quella che regola e indirizza le tendenze sociali - di solito la cultura dell'emergenza peggiora la situazione. Lo stesso ministro Turco, nel dichiarare che "c'è un lavoro educativo da fare, è la cosa più faticosa ma è fondamentale", mostra di sapere perfettamente che non solo la scuola, ma neanche le stracitate famiglie, neanche la società nel suo complesso, sono in grado di mettere le mani nel disordine etico e comportamentale di molti ragazzi (non tutti) se non partendo dalle proprie competenze e dalla propria impallidita autorità. Dai propri comportamenti e dal proprio aplomb sociale: non sempre, si sa, quello degli adulti è esemplare agli occhi dei più giovani.

Ci sono sirene che suonano perché devono suonare, perché un'emergenza è in atto. Ma sarebbe un bel guaio se il suono di una sirena, o un lampeggiante dei carabinieri davanti a scuola, servissero da alibi alle inadempienze di chi ha già il potere quotidiano di sorvegliare, di intervenire, di educare, di aiutare. E' la cosa più difficile, come dice il ministro Turco, ma è anche l'unica che conta davvero, che incide, che cambia le cose. Per questo servirebbe limitare le sirene alle sole vere emergenze, e smetterla (raccomandazione che vale per la politica ma anche per i media, forse soprattutto per i media) di trattare ogni fenomeno sociale come una perenne "emergenza".

Le emergenze, tra l'altro, hanno il difetto, ormai conclamato, di durare qualche settimana e poi svanire, lasciando il palcoscenico alle emergenze di nuovo conio. E lasciando i problemi irrisolti. Se tutto è un'emergenza, allora vuol dire che niente lo è: meglio, dunque, caricare la soma della responsabilità quotidiana su chi quotidianamente deve esercitarla: nella scuola, i presidi, gli insegnanti, i bidelli.

Un carabiniere in ogni scuola e in ogni casa, oltre a essere un lusso che neanche lo Stato più ricco del mondo potrebbe concedersi, servirebbe forse a garantire più sicurezza. Ma scaricherebbe la coscienza degli adulti dal compito di occuparsi dei ragazzi: di essere noi i primi carabinieri, le prime autorità sanitarie e etiche, senza divisa e senza potere di arresto, ma favoriti da una prossimità, e da un amore, che troppo spesso dimentichiamo di avere, dimentichiamo di usare.

 

Il Vajont tradito

La solitudine dei parenti delle vittime a 40 anni di distanza. E uno Stato che non ha mai chiesto scusa

Scritto da Lucia Vastano

Una storia italiana. C’è un Vajont che non riguarda la spaventosa notte di 40 anni fa. E nemmeno l’avidità umana, l’imperizia, la criminale leggerezza con la quale vennero ignorati gli inequivocabili avvertimenti lanciati per anni dalla natura violentata dagli uomini. E’ il Vajont del “dopo”. Dopo che dal Monte Toc si staccò la gigantesca frana che scavalcò la diga. Dopo che l’onda rubò la vita a 1910 esseri umani. Dopo che tutto quello che poteva essere fatto per evitare la strage non fu fatto. E’ la storia di come lo Stato si comportò con i superstiti. E’ la storia di come si riuscì a fare un business anche della disgrazia, di come in nome del Vajont venne pianificato lo sviluppo industriale di tutto il Triveneto, di come si fecero leggi per elargire miliardi ad aziende e privati che non avevano perso nulla nella disgrazia. Di come invece si trovarono cavilli legali per liquidare con quattro soldi chi aveva perso tutto, casa, affetti e persino ricordi. E’ la storia di come gli stessi meccanismi che avevano portato alla tragedia si riproposero nel dopo, umiliando i deboli e le vittime, favorendo chi, non avendo morti da piangere, poteva farsi avanti per reclamare la sua fetta di torta. Il dopo Vajont è una storia italiana esemplare, non a caso ignorata dai media. “E’ stato ancora peggio della tragedia” si sfogano da anni molti superstiti.
L'onda lunga. E’ questo il Vajont che ho voluto raccontare nel mio libro “Vajont- L’onda lunga. 1963-2003 quarant’anni di violenze e scandali”. Un libro che parla di una verità scomoda che è anche la metafora di quello che avviene, sempre, dopo che le tragedie hanno finito di occupare le prime pagine dei giornali: le vittime vengono lasciate sole a combattere per una giustizia che riguarderebbe noi tutti. E così gli “scaltri” si possono fare avanti e approfittarsi e cibarsi delle loro disgrazie per i propri profitti. Ma cos’è una democrazia senza vicinanza, sorveglianza, giustizia? Diceva Toqueville che quando un dittatore è corrotto è sufficiente sostituirlo, ma quando è una democrazia ad avere un leader corrotto è tutta da cambiare.

Preservare la memoria. Da un paio di anni come “Cittadini per la memoria” un gruppetto di superstiti e sopravvissuti ed io stiamo raccogliendo le firme per ottenere qualcosa di molto semplice e doveroso: che lo Stato italiano, l’Enel, la Montedison (i tre responsabili riconosciuti della tragedia del Vajont) presentino le loro scuse formali ai familiari delle vittime e a tutti i cittadini italiani per quello che avvenne quella notte . Il 31 di maggio partirà la staffetta che il gruppo podistico del Dopo Lavoro Ferroviario di Udine ha organizzato per noi per portare le decine di migliaia di firme raccolte (tra cui anche quelle di Paolini, Martinelli, Don Ciotti, numerosi parlamentari e associazioni) dalla diga fino al Quirinale dopo aver percorso circa 800 chilometri. Siamo ancora in attesa di sapere se il presidente Giorgio Napolitano accetterà di incontrarci per accogliere nelle sue mani le nostre richieste. Sarebbe un peccato se il capo dello Stato non capisse che il 9 ottobre 1963 è una pagina esemplare della storia italiana e che è fondamentale preservare la memoria di quello che avvenne anche con un piccolo doveroso atto di umiltà: chiedere scusa.

Anni di vergogna. Nessuno tra chi ha perso la casa, i parenti, gli amici, e anche tutti i riferimenti che normalmente fanno delle persone una comunità (la scuola, il bar, la posta,la chiesa) si è mai sentito dire quella parola. Gli anni dopo la tragedia sono invece stati per quasi tutti i superstiti anni di vergogna, umiliazione, soprusi, come se essere stati vittime una volta non bastasse e loro toccasse scontare la colpa di essere sopravvissuti. “Chissà quanti soldi avete preso per i vostri morti”, si sono sentiti ripetere più volte, anche quelli che per andare avanti hanno sempre dovuto lavorare sodo, magari emigrare in Germania o in Canada. Quella gente che “non è stata aiutata nemmeno con una parola di conforto” e che si è pagata tutto, fino all’ultima lira, anche le pillole per dormire senza rivedere come in un incubo i corpi dei genitori appena recuperati straziati dal fango.

L'indifferenza dei politici. Ogni volta che torno lassù mi capita di capire qualcosa di nuovo sulla politica e sui politici. Per un sindaco, un assessore, un onorevole o un senatore c’è sempre qualcosa di più importante da seguire o da fare che stare vicino alle vittime. Di qualsiasi tragedia si tratti, anche quelle di là da venire, che si potrebbero evitare lasciando da parte soltanto un po’ dell’indifferenza verso gli umili. Delle vittime ci si ricorda però sempre quando si devono cercare soldi e si avvia un’associazione o una fondazione per “preservare la memoria”. Ma quale memoria? Perché quella di alcuni e non di altri? Perché la memoria, quasi sempre, deve dividere e non unire le storie più disparate che si possono raccogliere? Perché la memoria deve sempre stare al servizio di qualcosa o di qualcuno?

In nome del progresso. Forse è proprio vero che la politica non si può capirla abitando a Roma o a Milano, ma solo in piccoli centri dove il sindaco deve cambiare lato della strada quando incontra quel cittadino a cui aveva promesso di riparare una buca del marciapiedi, o quegli altri a cui aveva assicurato che avrebbe fatto grandi cose con i soldi raccolti con le tasse o con un finanziamento ottenuto dallo Stato e invece poi non è successo niente, anche se i soldi sono già finiti. Le tragedie si ripropongo quotidianamente all’ombra della diga. Nelle valli ai piedi del fiume Vajont, non più minacciate dall’acqua, imbrigliata da innumerevoli dighe, vi è la più alta incidenza di tumori e leucemie d’Italia. C’è gente che, come quando venne eretta la diga, muore di progresso e di benessere per i fumi delle fabbriche o per i rifiuti tossici smaltiti illegalmente. Al “progresso” e al “benessere”, come a un caval donato, non si deve mai “guardare in bocca”, neanche quando a morire sono i più giovani che, con un’incidenza fuori dalla norma che nessun esperto riesce o vuole spiegare, si buttano giù dai ponti o inghiottono sonniferi. In nome del progresso, non si devono fare domande. Il Vajont non ha insegnato nulla. Ed è forse proprio questo che brucia di più a chi vuole conservare la vera memoria di quella notte.

Non lasciateli soli. Mi ritornano ancora alla mente le parole che mi disse Cencio Teza, sette familiari persi la notte del 1963, la prima volta che lo incontrai, poco dopo che tornai da Kabul “liberata” dai terroristi talebani: “Non occorre mica che vai in Afghanistan per capire come gira il mondo. Basta che vieni qui a Longarone”.

Il 4 giugno i “Cittadini per la memoria del Vajont” arriveranno a Roma. Non lasciateci soli.

 

Il sogno del lustrascarpe

Un viaggio per La Paz, attraverso gli occhi di un lustrascarpe

dal nostro inviato Alessandro Grandi

“Ehi amico ti lucido le scarpe che sono impolverate?” Con estrema gentilezza, e ostinazione, Luis, 17 anni, chiede a tutti i passanti della via principale del centro di La Paz, me compreso, di farsi pulire le scarpe. E in questo modo contribuire al suo sostentamento.
Di lustrascarpe ce ne sono tanti per le vie della città boliviana, sia in centro sia nei quartieri periferici e tutti, o quasi, hanno il volto coperto da un passamontagna di lana, in stile zapatista. Luis indossa una tuta da operaio blu, come quelle che si vedono addosso ai nostri meccanici, e un paio di scarpe da ginnastica nuove di zecca.

Fanno paura a prima vista. Ma sono innocui, anche se un po’ petulanti. Mentre, con la sua piccola cassetta di legno piena di arnesi da lavoro si appresta a pulire le mie scarpe sporche, Luis racconta il perché del suo viso coperto. “Mi copro il volto perché non voglio che la gente mi riconosca. Ho molti amici e amiche qui in città e mi vergogno. Sono povero e questo lavoro, anche se umile, mi aiuta a sopravvivere e a portare soldi a casa. Lo faccio soprattutto perché mi devo pagare gli studi”.
Luis, i cui occhi neri come la pece fanno risplendere questo volto senza volto, è arrabbiato con la società, con il mondo: “Ci vorrebbe un cambio radicale, netto, nella società boliviana" dice. "Il presidente Evo Morales sta lavorando per aiutare la popolazione che da decenni subisce soprusi, ma i risultati si devono ancora vedere. Ci vorrà molto tempo e per questo io mi devo adattare. Effettivamente, però, per quanto riguarda i finanziamenti alle scuole e alle università, il lavoro del presidente s’inizia a vedere e sono notevolmente aumentati”.

Straccetto usurato in mano, Luis estrae dalla cassettina di legno il lucido da scarpe per ogni tipo di calzature e inizia il suo lavoro con un’abilità magistrale. Prima fa appoggiare il piede destro alla cassettina, poi quello sinistro. Abbracciato dal vento gelido che spazza La Paz, seduto sugli scalini della chiesa di San Francesco, Luis è un fiume in piena e nei suoi discorsi sembra più grande dei 17 anni che dice di avere. “Faccio questo mestiere da quando ho nove anni. Mi vergogno di pulire le scarpe dei paceni (gli abitanti di La Paz, ndr.). Che cosa credi, che mi faccia piacere? Questo per me è uno dei modi più veloci e semplici per guadagnare denaro. Devo anche portare soldi a casa. Io vivo a El Alto (sobborgo superaffollato da immigrati poco distante da La Paz) e tutti i giorni vengo in città alle sei della mattina. Lavoro in pratica tutto il giorno e nel tardo pomeriggio vado a scuola, dove frequento un corso serale. Il mio sogno è diventare un grande atleta. Corro molto bene e molto veloce. Spero un giorno di riuscire nel mio intento. Nel frattempo devo fare questo lavoro perché a El Alto non saprei cosa fare”. Le parole di Luis soffiano ininterrotte come il vento gelido. Da sotto il passamontagna si vede che sta masticando foglie di coca. Lo fanno praticamente tutti in Bolivia. Serve a far dimenticare la fame e la fatica: “Ho sette fratelli e due sorelline piccole. Mio padre è morto quando avevo 10 anni. E’ stato lui a insegnarmi questo lavoro. Mia madre vende frutta nei mercati di El Alto e fa una fatica mostruosa a mandare avanti la famiglia da sola. E’ anche per questo che faccio questo lavoro. Ma come ti dicevo vorrei che tutto questo un giorno finisse e che le cose possano cambiare”.

Dopo aver pagato 5 bolivianos (poco meno di un euro) per la perfetta pulizia delle mie calzature, si avvicina a noi un altro ragazzo. Subito si nota che è più grande di Luis e il suo atteggiamento non è affatto amichevole e nemmeno rassicurante. Ha gli occhi rossi, probabilmente ha bevuto superalcolici o ha fumato qualche sostanza stupefacente. Immancabile si intravede dal passamontagna il boccone di foglie di coca che gli rigonfia la bocca. Questo ragazzo, fra i 25 e i 30 anni, sembra che abbia ascoltato (non si capisce da dove) la nostra discussione, e interviene deciso, minaccioso. “Ehi yankee, se vuoi sapere come si svolge la nostra vita, cosa facciamo dalla mattina alla sera, devi pagare. Non ti bastano certo i 5 bolivianos che hai pagato. Quelli sono validi solo per il lavoro che ha fatto il mio compañero. Noi non siamo gli schiavi di voi yankee e tanto meno figure folkloristiche della città”. L’aria si surriscalda. Il ragazzo inizia a alzare la voce richiamando l’attenzione della polizia turistica che pattuglia le strade affinché i visitatori stranieri di questa splendida città vivano tranquillamente. Ma finisce tutto subito grazie a Luis che interviene in mio soccorso. Alza la voce anche lui e spiega che io non sono statunitense e non ho fatto nulla di strano. Sembra che inizino a litigare. In questi momenti di tensione non parlano in spagnolo. Forse si stanno spiegando in una delle lingue originali boliviane, quechua o aymara. Immagino che Luis stia dicendo che non ho causato disturbo e danno. “Ok gringo – insiste il ragazzo che non ne vuole sapere di dirmi come si chiama - sei stato fortunato che lui è un mio amico”. Luis mi saluta e mi ringrazia. I suoi gesti con le mani e lo sguardo penetrante sembrano scusarsi per l’accaduto. Velocemente ripone tutti i lucidi e gli straccetti nella ‘borsa da lavoro’ e se ne va alla ricerca di un altro cliente.
Non so con certezza se tutto quello che mi ha raccontato corrisponde alla realtà dei fatti o se me lo ha raccontato per impietosirmi e guadagnare qualche boliviano in più. Di certo le sue mani sporche di lucido da scarpe nero, che difficilmente si potranno lavare con una doccia, mi fanno capire le difficoltà che incontrano quotidianamente questi ragazzi. E non solo loro.

 

25 maggio

 

La denuncia di Flavio Bertoglio, presidente dell'Associazione Mucopolisaccaridosi

"Il Bollettino regionale uscito a marzo impone di spendere il2% in meno rispetto al 2006 del File F"

La Lombardia taglia i farmaci salvavita. A rischio le categorie di malati "speciali"

Se le Asl superano la soglia, non vengono rimborsate dalla Regione

L'interrogazione dei Verdi: "Quella del Pirellone è una decisione incredibile e inaccettabile"

di CLAUDIA FUSANI

ROMA - Si chiama File F. E' una voce della spesa sanitaria, molto particolare e delicata. Lo conoscono in pochi ma quei pochi significa che hanno qualcuno in famiglia che o prende determinati farmaci o rischia di morire.

Succede che taglia di qui, taglia di là, nella spesa sanitaria qualcuno - la Regione Lombardia - è andato a mettere mano - inconsapevolmente o meno - proprio nel File F. E in nome del "contenimento della spesa farmaceutica ospedaliera" ha deciso un taglio del due per cento rispetto al 2006 del budget fissato per il File F. Un due per cento, si dirà, è poca cosa. O quasi.

Secondo il dottor Flavio Bertoglio, presidente dell'Associazione italiana Mucopolisaccaridosi, questo piccolo taglio "comporta il rischio che nei prossimi mesi nuovi bambini a cui viene diagnosticata questa malattia genetica non potranno entrare in cura e sono destinati a morire". Il dottor Bertoglio parla "solo" della mucopolisaccaridosi. Mentre il File F riguarda tutti i salvavita che curano, per fare un esempio, dall'epatite all'Aids, dai tumori alle malattie cardiache, dall'epilessia al diabete. Insomma, quel taglio del due per cento, potrebbe, secondo Bertoglio "avere conseguenze drammatiche specie se il provvedimento deciso dalla Lombardia diventa, come spesso succede, un testo pilota adottato in fotocopia anche da altre Regioni magari più piccole".

Probabilmente tutto è avvenuto per disattenzione. Senz'altro non c'è stata consapevolezza delle reali conseguenze. "Quando ho chiesto spiegazioni in Regione non mi hanno saputo rispondere, sono stati vaghi" racconta Bertoglio. La situazione non cambia con il ministero della Sanità a cui anche Repubblica.it ha sottoposto la questione senza avere, per ora, risposta.

Questi i fatti. La legge Finanziaria del 2007, approvata il 27 dicembre 2006 al comma 796 prevede il Piano di contenimento della spesa farmaceutica. Ogni regione, poi, nell'esercizio autonomo del proprio piano finanziario, ha deciso come realizzare i tagli della spesa sanitaria. Il Bollettino ufficiale della Regione Lombardia viene pubblicato il 12 marzo 2007. Alle pp. 761 e 762, nell'allegato numero 1, si trova il capitoletto "Farmaci a somministrazione diretta opsedaliera (File F)". L'italiano è, come spesso in questi documenti, assai contorto. Sembra fatto apposta per non essere compreso e far girare la testa.

"Si conferma quando disposto in allegato 6 alla dgr n.8/3776 del 13 dicembre 2006 relativamente alla spesa per i farmaci a somministrazione diretta ospedaliera (File F): nei limiti della complessiva compatibilità di sistema si conferma che la spesa per tali farmaci possa crescere a livello regionale fino ad un massimo del 3 per cento rispetto alla spesa sostenuta nel 2006". Fin qui sembrerebbe dunque che sia garantito un aumento della spesa per questo tipo di farmaci pari al 3 per cento.

Ma bisogna continuare a leggere. E a "tradurre". "Ai fini del mantenimento dell'equilibrio di sistema si definiscono, al fine del rimborso ai soggetti erogatori, le seguenti soglie di regressione tariffaria (leggi mancato rimborso ndr). Fino ad un valore di produzione di File F (leggi consumo dei farmaci salvavita ndr) pari al 98% rispetto al valore del 2006, non si applica la regressione; se il valore di produzione è compreso tra il 98 e il 103% rispetto al valore del 2006, si applica la regressione massima del 30%; se il valore di produzione è compreso tra il 104 e il 110%, si applica la regressione massima del 45 %".

Ora, a parte - come si diceva - l'italiano e la costruzione logica che sembra fatta apposta per non essere capita - il senso di tutto ciò è molto semplice. Se la Asl consuma il 98%, cioè il 2% in meno rispetto al 2006, dei farmaci del File F, avrà tutto il rimborso. Altrimenti, i soldi rimborsati diminuiscono in proporzione alla spesa.

"Anche noi dell'Associazione non ci volevamo credere e abbiamo impiegato un po' di tempo per capire e renderci conto. Ci siamo consultati con varie Asl e il senso della delibera regionale è proprio questo: non solo bisogna spendere il due per cento in meno ma, siccome la spesa del 2006 è già totalmente destinata ai malati in cura, se nel 2007 qualcun altro entra in cura deve pagare i medicinali salvavita di tasca sua. Alla Asl, come abbiamo visto, non vengono rimborsati".

Finora non si è verificato ancora alcun caso. E' presto, il Bollettino è stato pubblicato neppure tre mesi fa. Verso la metà dell'anno ci potrebbero essere le prime situazioni di crisi.

Il dottor Bertoglio fa il "suo" esempio, suo figlio, 8 anni, la mucopolidosaccaridosi diagnosticata quando ne aveva due e mezzo. "Da allora la sua vita è andata all'indietro, era un bambino normale oggi è sordomuto. Le medicine che prende hanno avuto l'effetto fondamentale di congelare i progressi della malattia e di avere una vita quasi normale. Ma se smette la cura, in poco tempo diventa un vegetale". La cura costa 600 mila euro all'anno. "Finora li ha pagati la Regione. E mio figlio, in cura da anni, non dovrebbe essere penalizzato dalla nuova regola. Ma se un bambino deve entrare in cura oggi? Chi copre la sua terapia?". Purtroppo la mucopolidosaccaridosi è una malattia di recente scoperta e in crescita. "Sono trecento le famiglie iscritte all'Associazione, ma in Italia ce ne sono almeno altrettante".

La mucopolidosaccaridosi è l'assenza nell'organismo di un enzima fondamentale, quello che comunemente viene chiamato "enzima spazzino" preposto a fare pulizia dei residui tossici nel nostro corpo. Quando non c'è l'organismo s'intossica e muore piano piano.

I consiglieri verdi della Regione Lombardia Carlo Monguzzi e Marcello Saponaro hanno presentato subito un'interrogazione. "Questa decisione è inaccettabile. E' vero che la Finanziaria chiede di tagliare le spese sanitarie ma altri sono i modi. Non certo quello di razionare le medicine a chi ne ha più bisogno".

 

«Italia apprendista stregone in Kosovo»

«L'ostinazione a decretare la perdita di sovranità della Serbia, nonostante la risoluzione 1244, non trova riscontro in altra parte del mondo. Così si impone una soluzione di forza, violenta come la guerra "umanitaria"». Parla il generale Fabio Mini, ex comandante della Nato in Kosovo: «Si vuole imporre una secessione. Non mi scandalizzo per la realpolitik. Quello che mi dà fastidio è soltanto l'ipocrisia»

Tommaso Di Francesco

Si va a tappe forzate all'Onu, dopo che la «mediazione» dell'incaricato Martti Ahtisaari è stata sospesa dal Consiglio di sicurezza. Gira una bozza di risoluzione che prevede unilateralmente l'indipendenza, seppur «internazionalmente controllata per un certo periodo». E' scontro. Washington è pronta al riconoscimento anche se il Consiglio di sicurezza fosse bloccato da un veto russo. Di questo parliamo con il generale Fabio Mini, ex comandante delle forze Nato in Kosovo. «Penso che quello di Ahtisaari - ci dice - è un tentativo fallito. La responsabilità più grave sta nell'averlo messo nelle condizioni di gestire un negoziato a senso unico. Così raccoglie i frutti di una manovra non tesa a risolvere il problema di tutte le etnie kosovare, ma della ricerca di una rottura con la Serbia anche con il ricatto».
Non le sembra che l'Onu abbia svolto troppe e contrapposte parti in commedia?
Qui le Nazioni Unite hanno dimostrato le dimensioni della crisi di credibilità di cui soffrivano da tempo. Ricordo gli accordi di pace di Kumanovo del 1999, e il fatto che la Risoluzione 1244 è stata aprovata dopo quegli accordi raggiunti esclusivamente fra le parti militari. Gli accordi hanno sancito due cose: 1) i serbi mantenevano la sovranità su tutto il territorio nazionale e 2) le forze internazionali sarebbero entrate sul territorio serbo, ma solo in Kosovo, dopo il ritiro unilaterale delle forze militari, paramilitari e di sicurezza serbe. Era un ritiro ovviamente poco spontaneo, ma sostanza e forma di un accordo internazionale erano state rispettate. Da quel momento l'Onu è stato sottoposto a pressioni di ogni genere per smentire questa conferma di sovranità della Serbia.
Ma esistono ora gli standard democratici, di salvaguardia delle minoranze, dei diritti umani e religiosi in Kosovo?
Non solo non esistono standard democratici per le minoranze, ma neppure standard umani. Sulla minoranza serba e su quelle che gli albanesi considerano conniventi con i serbi soltanto perché parlano serbo o dialetti vagamente slavi pesano pregiudizi e criminalizzazioni ingiuste e false. Potrebbe sembrare paradossale, ma la discriminazione e la mannaia della pulizia etnica si sono scatenate proprio contro quei serbi e non serbi che ritenendo di non aver fatto nulla di male sono rimasti a casa propria. E sono stati questi ad essere massacrati per primi, a questi sono state sottratte le legittime proprietà con la forza e l'omicidio. Chi si è macchiato dei delitti contro gli albanesi, e sono stati molti a tutti i livelli, non ha avuto la possibilità di goderne finché è rimasto in Kosovo e chi è riuscito a scappare sta ancora nelle liste dei ricercati. Chi vuole tornare o insiste a non volersene andare dal Kosovo è gente che non ha nulla di cui pentirsi salvo il fatto di appartenere ad una certa etnia. Ora però il problema si è aggravato, tra coloro che parlano d'indipendenza ci sono quelli che ritengono che tale status internazionale dia loro il diritto alla pulizia etnica, interrotta dalle forze di sicurezza della Nato. E tra i serbi che parlano di riappropriazione del Kosovo c'è chi non vuole esercitare una responsabilità di governo equa e democratica, ma vuole vendetta. In più s'inserisce una connessione di corruzione e crimine che aumenta e il rischio che la situazione sfugga di nuovo al controllo.
Perché la comunità internazionale insiste per l'indipendenza senza vedere il precedente che rischia di rappresentare, nei Balcani con l'irrisolta pace di Dayton in Bosnia Erzegovina e in Macedonia, ma anche nel Caucaso e nella stessa Europa?
Si rendono conto dei rischi, ma forse il Kosovo vuole proprio essere il laboratorio di una nuova scrittura delle regole dell'ordine internazionale. Forse si vuole limitare il potere degli stati, si vuole stabilire un principio che la sovranità degli stati non è assoluta e che può essere limitata, ampliata o revocata con un semplice intervento di forza, sia essa militare o politico. Si vogliono forse ripristinare i sistemi delle «colonie», dei «territori», dei «protettorati» o quello delle «amministrazioni fiduciarie». E' da diversi anni che si cerca un nuovo ordine mondiale e che si tenta di riscrivere le regole a suon di pretesti e bombardamenti. La Bosnia ha fatto da laboratorio per la spartizione fra etnie di un territorio nel momento in cui una repubblica si separava dalla federazione. A Timor si è completato il processo di decolonizzazione dando l'indipendenza ad un territorio già colonia portoghese invasa da uno stato terzo. In Kosovo forse si cerca di fare il passo determinante: imporre la secessione. Non sono una verginella da scandalizzarmi per il pragmatismo politico o per l'uso della forza. Quello che mi dà fastidio è soltanto l'ipocrisia. L'ostinazione nel prendere le parti di una etnia fino ad arrivare a decretare la perdita di sovranità dello stato in cui essa è legalmente inserita non trova riscontro in nessuna altra parte del mondo.
Il ministro degli esteri Massimo D'Alema, favorevole all'indipendenza, aveva finora insistito sul compromesso. Ora poi in Serbia c'è un nuovo governo e una unità forte, tra il premier Kostunica e il presidente Tadic, sul rifiuto dell'ultranazionalismo ma anche sul rifiuto dell'indipendenza del Kosovo. Perché D'Alema in un momento così delicato, ha provocatoriamente dichiarato all'«Espresso»: «I serbi hanno perso il Kosovo quando hanno cercato di risolvere il problema sopprimendo l'autonomia, invadendolo e facendo pulizia etnica», attribuendo così ai serbi tout-court l'iniziativa che fu invece di Milosevic?
Condivido il giudizio secondo il quale Milosevic e la sua dirigenza hanno «perso» ogni autorità morale sul Kosovo con la cancellazione dell'autonomia e la repressione. Così come noi italiani avremmo perduto qualsiasi autorità morale se avessimo commesso crimini contro le nostre stesse popolazioni o contro quelle poste sotto la nostra tutela anche in regime di occupazione. Ma la giustizia applicabile agli uomini non è la stessa applicabile agli stati. Un uomo si può condannare a morte, un governo si può rovesciare, uno stato si può sanzionare ma non si può più annientare o frazionare. Anche perché non sono gli stati a commettere i crimini, nonostante il termine tanto di moda dello «stato canaglia», ma gli uomini. La sottrazione di sovranità era un diritto di forza che spettava alla guerra di conquista e di aggressione, ma questa guerra è stata dichiarata illegale dalla Carta delle Nazioni Unite. La secessione potrebbe essere raggiunta come termine del processo di autodeterminazione di un popolo, ma è dubbio che questo caso possa essere applicato al Kosovo. I Kosovari non hanno completato la guerra di liberazione. Rugova aveva provato a dichiarare l'indipendenza quando ancora non si sparava, ma non lo ha preso sul serio nessuno. Forse proprio perché non sparava. In piena guerra cosiddetta umanitaria, lui, che comunque era il rappresentante ufficiale degli albanesi kosovari, cercava un accordo con Milosevic e si sarebbe accontentato di un ritorno all'autonomia. E'stato preso per un traditore o per un incapace d'intendere e volere. Forse lo scopo di Rugova non era idealistico come quello del Mahatma Ghandi; forse voleva semplicemente evitare una guerra che lui come ideologo della non violenza e come leader sapeva di perdere. Sarebbe stato superato da altri leader, quelli con i fucili e le uniformi da forze speciali occidentali. Quelli che si erano messi in contatto con Al Qaeda, con i Mujaheddin reduci dall'Afghanistan e dalla Bosnia e quelli che trafficavano in armi e droga. Quelli che in Albania si addestravano con contractor americani pagati a mille dollari al giorno. Lui stesso si convinse a mettere in piedi un esercito di liberazione il cui leader, Zemaj, è stato ammazzato dopo la guerra come gli altri trenta capi del partito di Rugova trucidati in meno di due anni non dai serbi ma dagli stessi avversari politici kosovari. La cosiddetta guerra «umanitaria» in cui è intervenuta la Nato ha interrotto qualsiasi tentativo di soluzione relativamente indolore. E'stato uno dei primi esempi d'ingerenza umanitaria ma non è mai stato ufficialmente un supporto internazionale ad una guerra di liberazione. Tanto è vero che la risoluzione 1244 al termine della guerra stessa ribadisce ancora la sovranità della Serbia. Il Kosovo, perciò, fino ad oggi non è ancora formalmente e sostanzialmente perduto. Ma è indubbio che le pressioni americane sono per l'indipendenza e che l'Italia con i recenti guai nei rapporti con gli americani e con una serie di negoziatori affaticati tende ad usare quel poco di credibilità che gode in Serbia cercando di convincerla a cedere.
Non le sembra che nel 1999 qualcuno, al momento di scatenare la guerra Nato motivata allora come «umanitaria» - 78 giorni di raid aerei su tutta l'ex Jugoslavia con tanti «effetti collaterali» sanguinosi -, non abbia detto la verità al paese e agli stessi militari impegnati, alla fine, in una guerra funzionale ad una secessione etnica?
La guerra «umanitaria» in Kosovo è stata il risultato di una serie di logiche razionali spinte da manipolazioni emotive. E' il risultato quasi perfetto di una campagna di guerra psicologica condotta nei confronti dei nostri stessi decisori. Non mi meraviglia affatto che molti di essi potessero essere in buona fede. Fin dall'inizio era chiaro che Milosevic non costituiva una minaccia alla sicurezza internazionale, ma usava gli stessi metodi del predecessore Tito per cercare di tenere insieme un puzzle che si stava sfasciando. Era anche chiaro che i presunti massacri e le pulizie etniche di Milosevic dovevano essere provate e verificate. Era chiaro che Stati Uniti e Gran Bretagna avevano già deciso per la spaccatura del Kosovo già ai tempi di quella della Bosnia. Si trattava di una diffusa volontà di punire la Serbia per i fatti bosniaci e per la sua aspirazione a costituire nei Balcani un potere nazionalista serbo che avrebbe cementato una sorta di alleanza slava che di fatto avrebbe ostacolato la tanto sognata espansione occidentale e della Nato a est. Queste certezze erano però poco spendibili a sostegno di un piano d'intervento armato contro la stessa Serbia. Era necessaria una forte spinta emotiva come era successa con il cosiddetto lager di Triplojie in Bosnia. La mossa dell'ambasciatore Walker che denunciò il presunto massacro di Racak fece precipitare le cose proprio nel momento in cui sarebbe servita la calma. Racak fece fallire i colloqui di Rambouillet. Le proposte americane e la stessa presenza dei rappresentanti dell'Uck al tavolo del negoziato erano per i Serbi delle vere e proprie provocazioni. Nessuno si chiese come mai dopo dieci anni di sopportazione, all'improvviso gli albanesi si spostavano in massa oltre il confine albanese e macedone senza allontanarsi di un solo chilometro in più. Gli stessi serbi erano convinti di vincere la battaglia dell'epurazione albanese. Da noi la catastrofe umanitaria aveva più potere persuasivo di qualsiasi discorso alla Camera, ma si parlava anche di cose meno auliche «fermiamoli lì prima che arrivino qui». La situazione era talmente nebulosa che i tribunali tedeschi dichiararono di non avere elementi per considerare profughi i kosovari che chiedevano asilo. E mettevano in dubbio i presunti massacri. Oggi si sta imponendo una soluzione di forza altrettanto violenta della guerra passata. E mi chiedo se non fosse stato meglio imporla subito dopo la guerra, come parte di una debellatio o di un trattato di pace fra parti belligeranti. Allora, anche se illegale come la soluzione di oggi, sarebbe stata capita. Ma anche qui ha agito l'ipocrisia e questa guerra di 78 giorni e otto anni è stata chiamata in tutti i modi possibili fuorchè quello che avrebbe consentito una soluzione drastica. Mi rammarica vedere che gli scrupoli del generale Jackson nel trattare i Serbi come avversari legittimi erano inutili, che la determinazione di Kfor nel salvaguardare i diritti di tutti era strumentalizzata e che gli oltre trecentomila soldati che si sono avvicendati pensando di partecipare ad un processo di stabilizzazione e di pace (compresi gli oltre centocinquanta che ci hanno rimesso la pelle) sono serviti solo a prendere tempo e spendere soldi per una soluzione di forza già scontata e che non risolve niente. Mi dispiace che la nostra ostinazione militare nel difendere i diritti di tutti oggi si traduca in quella della difesa dei diritti di una parte a scapito dell'altra. Mi dispiace vedere che di fronte agli esperimenti di laboratorio politico chi ci rimette è sempre una parte dei cittadini, quella più debole, quella meno tutelata anche dalla giurisdizione internazionale. Ieri erano gli albanesi, oggi sono i serbi. Con questi criteri domani potrebbe succedere anche a noi.

 

Cessate il fuoco


Questa settimana, in tutti i paesi ancora in guerra, sono morte almeno 1.028 persone

Iraq
Questa settimana sono morte almeno 673 persone (641 iracheni e 32 militari della Coalizione).
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 13.292.

Afghanistan
Questa settimana sono morte almeno 223 persone (15 civili, 191 talebani o presunti tali, 12 militari afgani e 5 soldati della Nato).
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 2.152 (419 civili, 1.365 talebani o presunti tali, 304 militari afgani, 64 soldati della Nato).

Israele e Palestina
Questa settimana sono morti 16 palestinesi nei raid dell'aviazione israeliana sulla Striscia di Gaza.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 144.

Colombia
Questa settimana sono morte almeno 28 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 187.

Cecenia (Russia)
Questa settimana sono morte almeno 19 persone.Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 347.

Filippine-Mindanao
Questa settimana sono morte almeno 3 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 151.

Filippine-Npa
Questa settimana sono morte almeno 6 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 86.

Thailandia del Sud
Questa settimana sono morte almeno 10 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 185.

Sri Lanka
Questa settimana sono morte almeno 38 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 1.195.

India Nordest
Questa settimana sono morte almeno 6 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 416.

India Naxaliti
Questa settimana sono morte almeno 6 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 222.

India Kashmir
Questa settimana sono morte almeno 12 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 272.

Pakistan aree tribali
Questa settimana sono morte almeno 6 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 806.

Pakistan Balucistan
Questa settimana sono morte almeno 3 persone
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 68.

Bangladesh Comunisti
Questa settimana sono morte almeno 2 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 55.

Somalia
Questa settimana sono morte almeno 3 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 1.508.

Rep. Dem. Congo
Questa settimana è morta 1 persona.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 469.

Kenya
Questa settimana sono morte almeno 20 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 197.

Turchia
Questa settimana sono morte almeno 7 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 42.

 

22 maggio

Gli incendi della spazzatura sprigionano composti tossici. Almeno 70 gli interventi dei pompieri
Respinte le dimissioni di Guido Bertolaso che resta commissario straordinario per l'emergenza

Napoli, in strada 2.700 tonnellate di rifiuti
Infezioni e diossina: "Situazione tragica"


<B>Napoli, in strada 2.700 tonnellate di rifiuti<br>Infezioni e diossina: "Situazione tragica"</B> Cumuli di spazzatura in provincia di Napoli

 

NAPOLI - Per strade ce ne sono 2.700 tonnellate e altre 2.000 sono accumulate in discariche provvisorie o ancora stipate sugli automezzi. I rifiuti soffocano Napoli. La gente, esasperata, cerca di risolvere il problema con il fuoco: questa mattina almeno 70 sono stati gli interventi dei vigili del fuoco nella provincia della città. Ma i sacchetti in fiamme, anzichè essere una soluzione, sono un problema peggiore: sprigionano diossina che è altamente tossica. A niente sono serviti gli appelli dei sindaci e del prefetto per evitare i roghi. Come ha detto il sindaco Rosa Russo Jervolino in consiglio comunale, "la situazione è tragica".

Allarme infezioni. Le condizioni igieniche in città rischiano di peggiorare con il caldo estivo. Una task force formata da volontari della protezione civile e dipendenti dell'assessorato all'Igiene spargono sull'immondizia prodotti disinfettanti per limitare i cattivi odori e "per cercare di contenere il proliferare di insetti e ratti" come ha spiegato l'assessore all'Ambiente Andrea Piatto.

La periferia sommersa. E' soprattutto la periferia di Napoli ad annaspare: la situazione è grave a Pianura, dove i cittadini lamentano il fermo della raccolta da almeno tre giorni, e anche a San Giovanni, a Barra, Ponticelli, Secondigliano e Fuorigrotta. A Sant'Anastasia, nel Vesuviano, protestano i genitori dei bambini di una scuola materna per il "proliferare di grossi ratti" nei pressi dell'istituto in via Sodani, a causa della presenza dei sacchetti di immondizia abbandonati in strada. E sabato prossimo chiude la discarica di Villaricca.
 
La protesta dei sindaci. Il sindaco di Frattamaggiore si dice pronto a chiudere scuole, banche e uffici se non si troverà una soluzione e il presidente dell'associazione albergatori partenopei, Pasquale Gentile, lancia l'allarme in vista della stagione turistica annunciando le prime disdette nelle prenotazioni causa rifiuti.

Bertolaso resta commissario per l'emergenza. A guidare l'emergenza resterà Guido Bertolaso. Oggi Prodi ha respinto le dimissioni del capo della Protezione civile, riconfermandolo commissario straordinario per i rifiuti. E' la seconda volta, in poco più di due mesi. La prima volta capitò lo scorso 6 marzo, quando Bertolaso diede le dimissioni dopo i contrasti con il ministro dell'Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio sulla discarica di Serre, che si risolse con un intervento del premier Prodi. E anche questa volta è stato il presidente del Consiglio a scendere in campo per tentare di trovare una soluzione ribadendo "l'assoluta volontà del governo di fronteggiare la crisi inmodo definitivo". Bertolaso avrebbe ottenuto la garanzia che il decreto approvato dal Consiglio dei ministri l'11 maggio - quello che indica 4 siti per altrettante discariche, una in ogni provincia - non si tocca. "Riconfermare Bertolaso è la scelta giusta" ha detto Antonio Bassolino, presidente della Regione Campania.
 
 
 
Inchiesta della procura di Vicenza ha scoperto un ampio sistema illegale
L'accusa è quella di associazione a delinquere finalizzata alla turbativa d'asta

Truffa degli appalti nel nord Italia
19 arresti e 150 perquisizioni

<B>Truffa degli appalti nel nord Italia<br>19 arresti e 150 perquisizioni</B>
VENEZIA - Sono diciannove le ordinanze di custodia cautelare che il nucleo regionale di Polizia tributaria della Guardia di Finanza di Venezia ha eseguito nell'ambito di un'indagine che ha scoperto un diffuso sistema di spartizione illegale di appalti pubblici che interessa una trentina di imprese operanti nel centro e nel nord Italia.

Gli indagati sono accusati di associazione a delinquere finalizzata alla turbativa d'asta e truffa ai danni dello Stato. L'indagine è coordinata dal procuratore capo di Vicenza Nelson Salvarani e coinvolge cinquencento militari delle Fiamme gialle.

A tirare le fila delle truffe, secondo le indagini dei finanzieri condotte per alcuni mesi, sono due società, una di Treviso e una di Vicenza, che coordinavano l'attività di una trentina di piccole e medie imprese. Le ditte si accordavano per assicurarsi l'assegnazione di appalti pubblici sotto la soglia comunitaria, ovvero per valori inferiori ai 5 milioni di euro. In questo modo l'appalto veniva assegnato seguendo la normativa nazionale che prevede che il vincitore dell'appalto sia la ditta che offre il prezzo più basso.

Il sistema è ramificato in tutto il centro e il nord Italia e coinvolge appalti in cinque regioni: Veneto, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Piemonte ed Emilia Romagna. Nell'ambito dell'operazione di questa mattina le Fiamme gialle stanno notificando 111 avvisi di garanzia e stanno effettuando 150 perquisizioni in una ventina di province.

Le città interessate dall'operazione sono Asti, Belluno, Bergamo, Brescia, Cremona, Gorizia, Mantova, Padova, Parma, Pordenone, Reggio Emilia, Rovigo, Treviso, Venezia, Verbania, Verona e Vicenza.

Ulteriori dettagli dell'operazione saranno comunicati nella conferenza stampa di questa mattina alle 11 che si terrà a Mestre nella sede del nucleo regionale di Polizia tributaria.

 

21 maggio

Russia, bavaglio all'informazione

Ennesimo attacco alla libertà di stampa: sfrattato dalla sede storica il sindacato dei giornalisti

La sede della RujOrdine di sfratto. La notifica, datata 18 aprile, è arrivata all'Unione russa dei giornalisti (Ruj) solo il 15 maggio scorso dall'agenzia delle proprietà statali 'Rosimushchestvo': "Avete un mese di tempo - recitava - per liberare gli uffici dove ha sede il vostro quartier generale". Ricevuta l'intimazione a distanza di appena tre giorni dalla scadenza, il più grande sindacato russo, che tutela oltre centomila giornalisti, ha opposto un fermo rifiuto: "Non ci muoviamo". La battaglia legale tra lo Stato e il sindacato è iniziata alla vigilia della annuale conferenza della Federazione internazionale della stampa, che si terrà il 28 maggio nella sede della Ruj sottoposta a sfratto. Circa un migliaio di giornalisti si riuniranno per discutere della sicurezza dei giornalisti e della 'crisi dell'impunità' per coloro che perseguitano - e a volte uccidono - gli operatori dell'informazione in Russia.  L'ennesimo attacco contro la libertà di stampa è stato definito dalla Ruj come un sabotaggio della conferenza, e ha ricevuto le condanne delle principali organizzazioni che difendono il lavoro e l'attività dei giornalisti. Il comunicato emesso dalla Ruj accusa l'ente governativo - che possiede pacchetti azionari in tutti i settori-chiave dell'economia russa, dal gas ai diamanti - di "gettare in mezzo a una strada un'organizzazione che ha 90 anni di storia, che ha contribuito alla costruzione della democrazia e che ha difeso senza compromessi gli interessi della categoria, i diritti costituzionali e le libertà civili della popolazione".

Stampa imbavagliataL'ombra lunga del Cremlino. Il fatto che nessuna ragione sia stata addotta a sostegno del provvedimento, il ridicolo periodo di tempo concesso per lo sgombero dei locali e le voci semi-ufficiali che vogliono all'origine dello sfratto la decisione di alloggiare nei locali una nuova televisione (Russia Today), destinata a diffondere all'estero un'immagine positiva della Russia, sono tutti fattori che suffragano l'opinone corrente sul clima che giornalisti indipendenti e rappresentanti del dissenso respirano nel Paese. Dal crollo del comunismo, i media russi sono stati il campo di battaglia privilegiato tra Stato e soggetti indipendenti. E' un dato di fatto che, negli ultimi 5 anni, compagnie con stretti legami con il Cremlino abbiano acquistato media e network (spesso con un curriculum di incontestabile obiettività), oltreché case editrici e società tipografiche. L'ultima 'acquisizione' è quella del magnate del metallo, il filogovernativo Alisher Usmanov, che si è comprato il Kommersant, quotidiano economico notorio per i suoi giudizi equilibrati e spesso elogiato per la sua posizione critica nei confronti del governo.

Anna PolitkosvskayaRepressione di Stato. E' dei primi di maggio il più recente rapporto sulla libertà di stampa nel mondo. Redatto dall'organizzazione statunitense 'Freedom House', colloca la Russia agli ultimi posti della classifica sulla libertà di stampa (164esima su 195 Stati). Durante il mandato di Putin, tredici giornalisti sono stati assassinati. In nessun caso mandanti o esecutori degli omicidi sono stati assicurati alla giustizia. Il mese scorso il presidente russo ha firmato un decreto che istituisce un nuovo organo per la supervisione dei mass media e di internet, mentre lo scorso anno una legge ad hoc ha reso la 'critica giornalistica' passibile di inserimento nelle 'attività estremistiche' che la nuova legge sanziona con misure assai drastiche. In ottemperanza al provvedimento sono già state chiuse diverse organizzazioni non governative, accusate di 'minacciare l'indipendenza politica della Federazione russa'. E' il caso della Società per l'amicizia russo-cecena, ente attivo nella tutela dei diritti umani e nelle pubblicazioni di rapporti sulla situazione cecena, il cui direttore è stato accusato di "fomentare l'odio etnico attraverso i media". Repressione, inettitudine investigativa e indifferenza giudiziaria rimangono le caratteristiche preminenti dell'atteggiamento di Putin nei confronti dei giornalisti. Caratteristiche sublimate nell'omicidio di Anna Politkovskaya, la principale accusatrice della politica russa in Cecenia. Per sette anni, la giornalista ha raccontato abusi, sparizioni, corruzione, torture, omicidi. Per sette anni è sopravvissuta a minacce, incarcerazioni, esili forzati, avvelenamenti. Per morire nel luogo paradossalmente più sicuro per lei: l'atrio di casa, a Mosca, colpita a morte da un sicario mentre tornava dal fruttivendolo.

 

Ancora le colonne d'Ercole

Ceuta, l'enclave spagnola in Marocco, era la porta d'ingresso in Europa per i migranti. La Spagna ora l'ha blindata

Christian Elia
 
Guardando Ceuta su una carta geografica, vengono in mente gli affreschi della Cappella Sistina, dove la mano di Michelangelo Buonarroti ha dipinto, tra mille meraviglie, lo slancio tra Dio e Adamo, che protendono le braccia l'uno verso l'altro per toccarsi le mani.
La Spagna e l'Europa si slanciano così, come sotto il peso dell'Occidente, verso la penisola che si tende dalle coste dell'Africa.

la rete che separa ceuta dal confine marocchino - foto di c.eliaCeuta, la Spagna in Africa. E' qui che il mito ha collocato le cosiddette Colonne d'Ercole, un tempo limite fisico e filosofico dell'uomo. Eppure ancora oggi, che il mito è stato sfatato, quello stretto continua a rappresentare un confine inviolabile per migliaia di africani che tentano di raggiungere l'Europa nella speranza di una vita migliore. Così lontani, eppure così vicini. Nel punto più stretto, le coste dei continenti segnano una distanza di appena 15 miglia marine, e le misure diventano infinitesimali quando si arriva a Ceuta, dove solo una rete divide Europa e Africa. Ceuta è, assieme a Melilla, un pezzo di Spagna incastonata in Africa, un'enclave rimasta della Corona spagnola nonostante la decolonizzazione.
Tutto a Ceuta parla di Spagna, con un senso d'appartenenza ostentato e un regime fiscale agevolato, dove è impossibile rendersi conto che tutt'attorno è Africa. Un tempo forse le figure velate, che camminano in fretta, avrebbero indicato un elemento di specificità, ma ormai rappresentano un tratto comune a tutta l'Europa e non si nota più alcuna differenza. Il re del Marocco Mohammed VI sembrava intenzionato a riaprire l'annosa polemica sulla sovranità della città, ma anche quella è finita nel calderone delle trattative serrate che, negli ultimi 3 anni, corrono sull'asse diplomatico Madrid – Rabat, e che ruotano tutte attorno a un grande perno: l'immigrazione clandestina.
una donna marocchina cammina lungo il lungomare di ceuta - foto di c.eliaLa porta chiusa. “Per farle capire come sono cambiate le cose le faccio un esempio: dall'inizio del 2007 solo due marocchini sono riusciti a passare dall'altra parte. Negli anni scorsi la media era di 20-25 persone al giorno”. A parlare è Mohammed Bouissef Rekab, madre spagnola e padre marocchino, scrittore e docente universitario di letteratura spagnola a Ceuta e a Tetuan. Figlio delle due culture: marocchino di nascita e formazione, ha scelto di raccontare le sue storie usando la lingua spagnola. Un ponte, un legame tra la cultura europea e quella marocchina, che percepisce i problemi dei migranti, ma che riesce a fare suo anche il punto di vista degli spagnoli. Nei suoi racconti e nei suoi romanzi ricorrono spesso i luoghi e i volti della migrazione, i sogni e le paure di coloro che lasciano la loro vita per gettarsi verso un futuro migliore. Come si può raccontare la migrazione? “Non inventando nulla, parlando solo di quello che c'è, che esiste e che nessuno può negare. Quasi tutta la letteratura sull'argomento, soprattutto in Europa, si limita alla narrazione del 'viaggio', spesso solo in senso fisico”, racconta Rekab seduto a un tavolino di uno dei mille bar che puntellano la turistica Ceuta, “io cerco di raccontare lo stato d'animo, le sensazioni che finiscono nel grande affare che rappresenta l'immigrazione. Nessuno parte se non è costretto, e nessun riuscirebbe a passare se non gli fosse consentito”.

 
migliaia di marocchini nella terra di nessuno tra la frontiera di ceuta e il marocco - foto di c.eliaIl grande affare. Lo sguardo di Rekab si fa duro, dietro gli occhiali con i quali guarda distrattamente il via vai del paseo de Revellin, la grande via pedonale del centro di Ceuta. “Come può un disperato arrivare in Spagna se non ha trovato lungo il cammino una rete di complicità, di persone che per il proprio tornaconto personale si girano dall'altra parte?”, chiede lo scrittore marocchino, “ufficialmente tutti parlano di un grande problema, sia in Marocco che in Spagna, una piaga da guarire. In realtà ci guadagnano tutti. I poliziotti marocchini e i traghettatori, i poliziotti spagnoli e gli imprenditori. I sin papeles fanno comodo, perché permettono di avere manodopera a basso costo. Vede, a Ceuta la comunità spagnola e quella marocchina convivono in pace, il 30 percento della popolazione è composta da spagnoli di origine marocchina. Ma qui prospera la mafia e le connessioni con il racket dell'immigrazione clandestina sono fortissime. Conosco storie di persone che hanno pagato migliaia di euro per arrivare a Barcellona o altrove, ma come avrebbero potuto senza complicità?”.
Adesso non è più così però, l'aria sta cambiando. “La società spagnola, come tutte quelle occidentali, è caratterizzata da compartimenti stagni: ogni classe non si cura di quello che accade fino a quando non si sente minacciata”, spiega Rekab, “l'immigrazione clandestina è andata bene a tutti fino a quando ha rappresentato solo un elemento di sfruttamento economico, quindi conveniente. Poi però, nelle città spagnole, il problema dell'integrazione e della convivenza si è fatto spinoso e allora l'atteggiamento della Spagna e dell'Unione europea è cambiato. A quel punto bisognava fare qualcosa. E allora, almeno per Ceuta, il problema è stato risolto...quando si è deciso davvero di farlo”.

 
centinaia di persone lungo il confine tra spagna e marocco - foto di c.eliaL'enclave blindata. I migranti non hanno smesso di partire ovviamente, ma le rotte sono cambiate. I barconi si lanciano nell'oceano Atlantico salpando dalla Mauritania o dal Sahara occupato dal Marocco, ma non più da Ceuta, puntando verso le isole Canarie. Ma com'è stato risolto il 'problema'? Cosa ha fatto cambiare atteggiamento al governo marocchino, al punto da mettere in atto una vera e propria guerra ai migranti? L'episodio più grave di questo nuovo corso, fatto di brutalità e abusi da parte della polizia marocchina, si è verificato alla fine del 2005, quando venne aperto il fuoco su un gruppo di migranti che tentava di saltare la rete che divide Ceuta dall'Africa. Decine di migranti rimasero uccisi, non si sa ancora se dal fuoco marocchino o spagnolo. Da quel momento, Ceuta è diventata sempre più blindata. Le reti metalliche costruite attorno alla frontiera sono raddoppiate, arricchite di filo spinato. E la zona è stata militarizzata, con una presenza discreta ma massiccia di polizia e militari, che si scorgono camminare armati fino ai denti anche nelle viuzze di Ceuta, tra turisti in ciabatte e commercianti indaffarati. Questo, però, è solo l'aspetto più evidente rispetto a un livello più profondo, per vedere il quale è necessario passare la frontiera.

 
barcone nel mare di ceuta - foto di c.eliaCosì lontani, così vicini. Per farlo basta recarsi in plaza de Africa, che porta nel suo nome l'unica concessione che la città fa alla sua collocazione geografica, e prendere un taxi che, in 10 minuti di corsa lungo il mare del Mediterraneo, giunge alla frontiera con il Marocco. Passati i controlli si attraversa una terra di nessuno, dove sembrano sospese migliaia di vite, affastellate le une sulle altre in un sempiterno mercato, dove vengono scambiate merci di tutti i tipi. Centinaia di donne marocchine, abbigliate con i vestiti della tradizione, portano sulle spalle balle di mercanzia colorata, mentre gli uomini sono intenti nel carico e scarico dei camioncini o in una fumata di kif. Sul ciglio delle collinette che circondano la frontiera corrono donne, uomini e bambini che si muovono frenetici nello spazio tra le due frontiere, come se in quello spazio compresso i ritmi si facessero frenetici per necessità. Appena giunti alla frontiera marocchina si presenta una spianata di taxi per Tetuan, Tangeri o Chefchaoun, in attesa di passeggeri. Una corsa verso Tetuan costa poco più di 10 euro, ben spesi per cogliere il senso della politica spagnola verso il Marocco.

 
due donne marocchine per le strade di ceutaIn attesa del futuro. “Tetouan vi piacerà, è una meraviglia!”, urla contento al volante Ahmed, cercando di sovrastare il volume della musica che proviene dall'autoradio della sua Mercedes anni Ottanta. “La gente del nord del Marocco è uguale agli europei: aperta e socievole. Mica come quelli del sud, chiusi e provinciali”, racconta il tassista. E' proprio vero che esiste sempre qualcuno più a sud di te. “Noi non emigriamo, chi ce lo fa fare? Io ho la mia casetta, il mio lavoro. Qui tutto cresce in fretta, c'è piena occupazione da noi. Quelli che emigrano sono quelli del sud, che non hanno lavoro”. Poche centinaia di metri dal confine tutto cambia, la Spagna cede progressivamente il passo al Marocco, a cominciare dal generoso uso della bandiera nazionale. Un chilometro e scattano due ore di fuso orario, puntello burocratico per una differenza da rimarcare a tutti i costi. Tutto il litorale che corre tra Ceuta e Tetouan è un enorme cantiere: migliaia di operai, stravolti dal sole a picco, costruiscono alberghi, villaggi turistici, ristoranti e piantano alberi. “Ecco, qui sorgerà un grande albergo, qui un meraviglioso hotel”, racconta Ahmed, con un brillio negli occhi che neanche gli occhiali da sole riescono a celare. Il tutto mentre guida con una mano sul volante e una sul poggiatesta del passeggero. Indica fiero cantieri che sembrano appartenergli, per l'orgoglio con il quale li racconta. “Tutta roba di prima scelta sa”, fa notare, “tutta roba europea. I fondi sono spagnoli. Grandi catene alberghiere e imprese edili, grande business, qualità occidentale. Sarà bellissimo!”. L'entusiasmo di Ahmed è contagioso, coinvolge con la sua fiducia nel futuro che scorre veloce fuori dalla macchina. E' impercettibile la distanza che separa il suo entusiasmo per lo sviluppo della sua terra da quello per il fatto che tutto sembrerà ancora più europeo. Ed è in questi cantieri, in questi investimenti, che sta la risposta alle domande su Ceuta e su quelle Colonne d'Ercole di nuovo erette. Soldi in cambio di controllo, semplicemente un business al posto di un altro. Quelli stessi imprenditori che per anni hanno guadagnato sulla pelle dei migranti lo fanno ancora, solo in un modo differente. Con la benedizione del governo spagnolo e marocchino, che hanno entrambi da guadagnare. E il tour forsennato compiuto dal ministro degli Esteri spagnolo Moratinos in Africa negli ultimi anni, imitato peraltro dai ministri di Italia e altri paesi europei, acquista un senso nelle palme piantate dagli operai per fare ombra ai turisti fantasma che arriveranno a frotte, come assicura Ahmed mettendo su una cassetta di Adriano Celentano, convinto di far felici i suoi passeggeri europei.

 

Ho comprato un rene in Nepal

di Alessandro Gilioli da Kathmandu
Mille euro al donatore. Mille all'intermediario. Cinquemila per il trapianto illegale in India. Un giornalista de L'espresso è entrato nel mercato clandestino degli organi. Tra documenti falsi e chirurghi corrotti. Ecco il suo racconto
 
Tutto si può dire di Krishna Kanki, malavitoso nepalese in carriera, tranne che non sappia vendere la sua merce: "I miei donatori sono ragazzi sani, robusti e di campagna", dice: "Io prendo solo gente a posto, niente fumo, niente droghe, niente alcol. E poi faccio sempre tutti gli esami: Hiv, epatite, tubercolosi. Alla fine scegliamo il migliore e ve lo portate via. è facile, l'abbiamo già fatto decine di volte con gente che veniva dall'Europa, dall'America e da Singapore...".

Allora non è una leggenda metropolitana. La macelleria internazionale degli organi umani è una realtà concreta, prospera e diffusa. E adesso ha anche volti, nomi e indirizzi precisi, almeno in una delle sue tante incarnazioni: quella del traffico di reni che avviene tra il Nepal e l'India, i paesi più attivi dell'Asia - insieme al Pakistan - in questo oscuro mercato globale. 'L'espresso' ne ha percorso tutto il cammino, dai vicoli di Kathmandu fino alle cliniche di lusso di Calcutta, acquistando il rene di un ragazzo nepalese e prenotandone il trapianto con il consenso di un chirurgo indiano.

Al bazar dei documenti falsi
E' appunto a Kathmandu, l'ex capitale degli hippies oggi stremata da dieci anni di guerra civile e sovrappopolata da un'inurbazione selvaggia, che nel novembre del 2006 sento le prime voci sul boom locale dell'offerta di organi. Si dice che i contadini sfollati, la gente dei villaggi indebitata e le vedove senza speranza siano diventati il serbatoio di questo commercio gestito da una dozzina di 'middle men', gli intermediari tra pazienti benestanti (quasi sempre stranieri) e aspiranti venditori di organi. Nella confusione del dopoguerra in città è venuto meno il potere dello Stato, si è impennata la criminalità, è dilagata la corruzione. E all'anarchia nepalese fanno riscontro appena al di là del confine le moderne cliniche private indiane, dove molti medici (retribuiti 'a cottimo' per ogni intervento) accettano i certificati fasulli prodotti in Nepal, pur consapevoli della loro fraudolenza.
 
Così, a fine aprile, torno a Kathmandu con una falsa diagnosi di 'malattia renale policistica bilaterale', in cerca di un trapianto per evitare di entrare in dialisi. Ho con me un paio di analisi del sangue contraffatte - con la creatinina impazzita e altri valori alterati - più la diagnosi su carta intestata di un medico che certifica le mie condizioni.

Con una matita da trucco mi appesantisco le occhiaie e vado al National Kidney Center, la più nota struttura privata locale per la cura dei reni. Qui, senza bisogno di mostrare alcunché, scopro subito che basta rivolgersi a un qualsiasi paramedico - ma va bene anche un guardiano o un barelliere - per mettere in giro la voce che si ha urgentemente bisogno di un rene nuovo, lasciando il proprio numero di cellulare e una mancia. Nessuno si stupisce, nessuno chiede alcunché, molti promettono aiuto.

Nemmeno tre giorni dopo arrivano le prime telefonate, con i nomi, i numeri e gli indirizzi di due intermediari. Così inizia il mio viaggio nella malavita di Kathmandu, riconvertita dallo spaccio di droga al più remunerativo business degli organi.

Il primo 'middle man' che mi fissa un appuntamento si chiama Krishna Kanki e ha la sua base accanto a un negozio di pashmine sulla Tridevi Marg, uno stradone pieno di mendicanti a due passi dal quartiere turistico di Thamel. Per maggiore sicurezza, vado a trovarlo accompagnato da Sudarshan, un amico nepalese il cui fratello un anno fa si è comprato un rene e che quindi ha un po' di esperienza nel giro.

Krishna che ci aspetta davanti al negozio. Ha una trentina d'anni, i baffetti curati e una polo viola. Ci fa cenno di seguirlo e - senza voltarsi - ci porta in una piazzetta appartata, la Bhagwan Bahal. Sotto un ombrellone aperto davanti a un baretto malconcio ci sono quattro sedie di legno bianco che costituiscono evidentemente il suo informale ufficio. Krishna parla solo con Sudarshan, in nepalese, a voce bassa e senza mai guardarmi. Non sembrano interessargli granché le mie condizioni di salute - a parte il gruppo sanguigno - e dopo le rassicurazioni sulla robustezza dei suoi ragazzi ci spiega la procedura successiva, a sentir lui semplicissima e rodata: "Lo sapete, per la legge indiana bisogna che tra il donatore e il paziente ci sia una relazione di consanguineità. Con i malati di qui facciamo un paio di falsi certificati e diciamo che sono fratelli. Per gli occidentali invece il sistema migliore è quello di inventarci un figlio". Un figlio? "Sì, certo. Diciamo che tu sei venuto in Nepal una ventina di anni fa e hai avuto una storia con una ragazza locale. Bene, il bambino non te lo sei portato a casa ma l'hai sempre aiutato da lontano, mandandogli soldi e vestiti. Ora lui è diventato grande, vuole sdebitarsi e ti dà il suo rene. è facile, funziona sempre. Basta costruire un documento di paternità con il timbro del ministero, che noi ovviamente sappiamo come procurarci". E la mamma chi sarebbe? "Non è un problema. Troviamo una donna più o meno della tua età che certifica la vostra vecchia relazione e garantisce la paternità del ragazzo...".
 
 
Luminari e prezzolati
L'estrema facilità con cui il broker descrive i vari passaggi ha un che di irreale, come se fossi lì a comprare un souvenir. Tuttavia, di fronte alla sua irritante sicurezza, cerco di mostrare le paure e l'incredulità proprie del paziente occidentale timoroso che qualcosa vada storto: "Ma sono documenti credibili? E se poi in India il medico li rifiuta?". Krishna sorride appena, senza mai rivolgere lo sguardo a me: "Vedete, non importa a nessuno se sono credibili o no. Certo, noi produciamo dei falsi perfetti, ma è solo per sicurezza. In realtà in India i chirurghi sanno benissimo che è tutto fasullo e fanno solo finta di crederci". E ancora, sempre con una punta d'ironia: "A volte sono loro stessi a telefonarci per dirci che cosa dobbiamo scrivere su quei fogli, in modo da non avere problemi con i loro consigli di amministrazione o magari con qualche collega invidioso. Ricordatevi bene una cosa: se il dottore in India vi fa qualche domanda di troppo, è solo per avere un sovrapprezzo in nero sulla parcella della clinica, che pure gli dà il 50 per cento di ogni operazione. Voi passategli una buona mancia e vedrete che tutto finisce lì".

Dopo un po', Krishna sembra perfino scocciato dalle nostre ansiose domande, quasi che queste possano mettere in dubbio la sua professionalità e le sue connessioni con i medici di là del confine. E a fronte dei miei timori sulle capacità dei chirurghi indiani, il mediatore fa già, tranquillamente, il primo nome: "Io lavoro con i migliori trapiantologi del Paese. A Chennai mando la gente al St.Thomas Hospital, dal dottor Ravichandran, il capo del dipartimento di nefrologia. Bravissimo, un luminare mondiale. Mi ha già fatto diversi occidentali come te, e sono tornati tutti a casa felici e contenti".

Il tremore pauroso di Daniel Rai
Dopo una mezz'oretta di rassicurazioni e chiacchiere, inevitabilmente il discorso cade sui costi. E qui Krishna snocciola senza imbarazzi le sue parcelle: "Servono subito 160 mila rupie (circa 200 euro) per fare gli esami del sangue ad almeno due possibili donatori. Poi, se va tutto bene, il rene costa 1.800 euro: un terzo subito, un terzo appena hai fatto l'operazione, l'ultima parte dopo le dimissioni dall'ospedale". Altre spese? "Al donatore non devi dare niente, ci penso io. Semmai compragli qualche vestito per renderlo decente quando lo presenti al dottore. Il ricovero in India e tutte le medicine sono naturalmente a tuo carico. Poi calcola tre biglietti aerei per Chennai: per te, per il donatore e per il mio watchman". E chi sarebbe questo watchman? "Ci vuole sempre un mio uomo che controlli tutto. Mettiamo che al donatore salti in testa di scappare all'ultimo minuto: bene, il mio watchman è lì per impedirglielo. Questi ragazzi a volte sono strani, si prendono paura all'improvviso, è sempre meglio tenerli d'occhio...". Poi si ferma, guarda l'orologio d'oro e finalmente alza lo sguardo: "A proposito, ne volete conoscere un paio?".

Così Krishna sfodera la sua arma a sorpresa: un numero digitato in fretta al cellulare, poche frasi secche in nepalese e tre minuti dopo da dietro l'angolo si materializzano, a passi lenti e in silenzio totale, due ragazzi già reclutati. "Naturalmente prima dobbiamo verificare il gruppo sanguigno", dice il mediatore, "ma loro sarebbero già pronti".

Uno è poco più di un bambino. Ha tratti tibetani, una magrezza impressionante sotto la T shirt lurida. La gamba sinistra gli trema, non solleva lo sguardo dal tavolo. Sembra terrorizzato dalla situazione che pure ha scelto di vivere. L'altro è molto più tranquillo, ha un inizio di barba sul mento e si siede accanto al suo carnefice. Bevono una Sprite, sempre senza aprire bocca. Io li guardo in faccia, loro fissano l'asfalto sotto le loro infradito di plastica.

È lo stesso Krishna, pochi minuti dopo, a farli un po' parlare: forse ha paura che risultino antipatici al ricco cliente venuto dall'Europa. Inizia il ragazzo più piccolo, quello spaventato. Si chiama Daniel Rai e dichiara vent'anni: una palese bugia, probabilmente è minorenne. Proviene da un piccolo villaggio del Terai, l'afosa pianura lungo i confini meridionali del Nepal. Sua madre - dice - è morta quando lui aveva otto anni. Papà ha trovato un'altra donna e ha cominciato a bere, facendo debiti per l'alcol, per poi andarsene dal villaggio con la nuova compagna. Lasciando lui - primo figlio maschio - a difendersi dai creditori. Allora Rai è venuto nella capitale, ha trovato qualche lavoretto. Ma i soldi raccattati qua e là non bastano, deve tornare in fretta al villaggio per pagare gli usurai: gli interessi sono del 30 per cento l'anno. Altrimenti quelli gli prendono la casa e sbattono in strada tutti i suoi fratelli.

L'altro ragazzo, il più grande, si chiama Sonam, dice di avere 25 anni e viene dal villaggio di Kavre, sempre nel Terai. A Kathmandu fa l'aiuto meccanico, porta a casa una quarantina di euro al mese ma ora la moglie si è ammalata di cuore e "in Nepal le medicine si pagano care, senza i miei soldi muore".

Quando hanno finito, Krishna fa un mezzo sorriso ironico rivolgendosi a noi in modo complice: "Raccontano tutti storie strappalacrime, poi non lo saprai mai che cosa ci fanno davvero con i soldi. Io sono onesto, gli dò sempre metà di quello che prendo, ma quando vedono tutte quelle rupie in una botta sola non capiscono più niente. Qualcuno se le beve, qualcuno si compra la moto: una bella Hero Honda con cui tornare al villaggio a fare il gradasso. Poi sì, ci sono anche quelli bravi, che magari si comprano un campo per coltivare il riso, ma sono sì e no due su dieci. Comunque, fatti loro".

Già, fatti loro. L'importante, per me, è che siano davvero disposti a vendersi un organo. Come faccio a sapere che sono d'accordo con quello che stiamo per fare? Alle mie perplessità Krishna si volta verso i ragazzi e dice qualcosa in nepalese. Daniel risponde con un semplice cenno di sì con la testa, tenendo sempre gli occhi bassi; Sonam - forse più bravo a recitare - si dice addirittura "felice" di poter salvare la mia vita.

In tutto, il primo incontro con Krishna e i suoi ragazzi da macello dura quasi un'ora, in un'atmosfera vagamente irreale: Daniel Rai, Sudarshan e io molto tesi, Krishna e l'altro donatore tranquilli. Poi lui spedisce via i due ragazzi e ci fornisce gli ultimi dettagli: "Se ci state, datemi subito i soldi per gli esami, così li facciamo domattina. Poi preparo i documenti, in un paio di giorni sono pronti. Se è tutto okay, tra una settimana siete a Chennai e fra un mese tu torni a casa col rene nuovo". Le 160 mila rupie passano di mano in mano, Krishna le infila rapido nelle tasche dei jeans senza nemmeno contarle. Mi dà appuntamento per il giorno dopo alla Pathology Laboratory Clinic, nella zona di Kalanki, in modo che io possa verificare che i ragazzi fanno davvero i test del sangue. Poi si alza di scatto e si dilegua verso la folla di Thamel.

Non lo rivedrò più, perché la mia compravendita avverrà attraverso altri canali. Probabilmente, in questo momento, Daniel Rai avrà già venduto il suo rene a un altro paziente straniero. Sonam, chissà: l'impressione - condivisa dal mio amico Sudarshan - è che fosse solo un complice del mediatore, portato lì per far numero e darci l'apparenza di una scelta, mentre la vittima predestinata pareva comunque l'altro ragazzo.

I bambini sepolti in giardino
L'appuntamento con il secondo mediatore avviene il giorno dopo, nel pomeriggio. Hari Tamang, una cinquantina d'anni, corporatura tozza e occhiali azzurri di marca, ha un negozio di copertura - fotocopie e fax - in un vicolo sulla strada commerciale del Bagh Bazar. Dentro, una sola fotocopiatrice, un vecchio computer, una grande foto del defunto re Birendra e un tavolo di finto legno.

Hari sa perché sono lì, mi fa sedere e parla per primo, soprattutto di sé: "Qui mi conoscono tutti, sono il migliore in città. Ho avuto pazienti canadesi e tedeschi, i miei documenti sono sempre perfetti. Adesso qui in Nepal c'è il boom e si improvvisano tutti mediatori, ma non devi fidarti. Io faccio questo mestiere da dieci anni, mi sono venduto un rene anch'io e mia moglie pure". Poi indica un adolescente con un orecchino turchese cha sta ascoltando musica al desktop lì accanto: "E quello è Prakash, mio figlio: appena ha l'età, mandiamo in India anche lui".

Il suo punto di forza, racconta orgoglioso Hari, sono i rapporti con i chirurghi indiani, coltivati in due lustri di corruzione. Hari fa il nome di Ravichandran, a Chennai: lo stesso medico indicato da Krishna. Sempre a Chennai, il mediatore dice di lavorare anche con un'altra clinica privata, il Medical Madras hospital, dove il suo riferimento - dice - è "un medico famoso, Georgi Abraham". Ma nel mio caso, dice, la cosa migliore è puntare sull'Apollo Gleneagles Hospital di Calcutta dove - sostiene lui - conosce tutto il reparto di nefrologia: "Lì hanno appena fatto il trapianto a tre occidentali, giusto la settimana scorsa", spiega, "e poi in questo periodo il West Bengala è il posto migliore". Fino a pochi mesi fa, racconta, la sua base preferita era invece Madurai, nel Tamil Nadu: all'Apollo Hospital locale lavorava senza problemi con tale dottor Palani Rajan, anche lui nefrologo esperto in trapianti. Ma "ora su Madurai la polizia ha gli occhi puntati, meglio starci lontano". Perché? Hari fa una smorfia e spiega che nel Tamil Nadu - la regione indiana più colpita dallo tsunami del 2004 - negli ultimi due anni la vendita degli organi è esplosa oltre ogni misura perché la gente aveva bisogno dei soldi per ricostruirsi le case. Il mercato dei pezzi di ricambio umani ha raggiunto dimensioni tali da costringere a muoversi perfino la pigra polizia locale. Così sono partite un po' di inchieste e ora i dottori devono stare quatti. Del resto anche a Delhi - si lamenta Hari - non si lavora più bene come una volta: nel dicembre scorso a Noida, un centro industriale non lontano dalla capitale, hanno trovato gli scheletri di 15 bambini nel giardino di una casa privata e il giudice sospetta che siano stati ammazzati per estrarne i pezzi. I cadaveri erano conciati troppo male e sepolti da troppo tempo per capire se gli organi ne erano stati asportati o no. Ma intanto a Delhi i medici stanno in campana e il mercato dei reni è quasi bloccato.

Per fortuna a Calcutta, invece, continua tutto come prima.
Dopo il racconto sulle cliniche, Hari passa finalmente alla parte economica: il rene da lui costa circa 2 mila euro, metà prima e metà dopo il trapianto. Provo un po' a contrattare ma lui non si smuove ("Sorry, fixed prices", e "per un occidentale è la tariffa minima"). Interviene anche Prakash, il figlio adolescente già destinato a un prossimo espianto, che molla per un attimo il pc e si rivolge a me con impavida arroganza: "Guarda che mio papà è il migliore sulla piazza, lui fa una telefonata in India e il trapianto è già fatto...".

Alla fine Hari accetta solo una diversa distribuzione delle rate, un terzo alla volta come Krishna. E anche lui mi dà appuntamento è per il giorno dopo per conoscere i donatori e fargli fare i test del sangue.

Una mazzetta per uscire di galera
Se l'incontro con Krishna era stato pieno di silenzi e tensioni, la trattativa con Hari si è svolta invece in modo molto diretto, magari un po' rude ma senza alcuna emotività: come esige una qualsiasi transazione commerciale da concludere in fretta, per il bene di tutti.

La sera, a cena con un paio di amici nepalesi, chiedo notizie sui due mediatori incontrati in giornata e scopro che in città sono ben conosciuti. Krishna Kalki - il primo che ho incontrato - è un emergente del settore: cresciuto alla scuola di Hari, ora si è messo in proprio e sta cercando il suo spazio in un mercato in rapida crescita. Non ha mai voluto vendersi direttamente un suo rene, ma l'ha fatto fare al suo vice, Ashok, che usa anche come watchman da spedire in India.

Hari Tamang invece è un veterano, considerato davvero il numero uno a Kathmandu, con una media di dieci clienti al mese. Mille euro netti di profitto l'uno, e il calcolo di quanto si porta a casa è presto fatto. Ogni mattina i suoi uomini fanno il giro della città - ma a volte vanno anche fuori Kathmandu, nei sobborghi della vallata - a cercare nuovi ragazzi da squartare. Hari ha avuto anche i suoi problemi con la giustizia: tre anni fa ha litigato con un donatore - pare per una percentuale non pagata - e quello l'ha denunciato. Lui è finito in galera ma ne è uscito sette mesi dopo, pagando una cauzione e aggiungendo una stecca al magistrato. Quindi ha ripreso l'attività, che ora gira a pieni motori.
 
 
L'acquisto di Deepak
Il giorno dopo, al negozio, Hari dà prova di efficienza facendo arrivare in pochi minuti i tre donatori che in meno di 24 ore ha trovato per me, sulla base del mio gruppo sanguigno. Entrano nel vicolo un po' ciondolanti, uno accanto all'altro, e - richiesti dal mediatore - si presentano al loro acquirente europeo come alunni disciplinati.

Uno si chiama Dinesh, ha 24 anni e viene da Hetauda, cittadona del sud nepalese. Dice di essersi sposato a 13 anni, ora ha tre figli e con il suo stipendio di 35 euro al mese - fa l'operaio in una fabbrica di tappeti - non riesce a mantenerli.

Il secondo, Bikran, 22 anni, con un cappellino da baseball e una T-shirt di Kurt Cobain, sorseggia una Fanta e parla pochissimo: dice solo di venire dal Terai e di avere bisogno di soldi.

Il terzo, più giovane di tutti, si chiama Deepak Lama: ha un volto timido e pulito, l'aspetto apparentemente curato, anche se la maglietta che indossa è poco più di uno straccio. E nato in un villaggio del Terai, sempre nell'area di Hetauda, e spiega che la sua è una famiglia di 'sukumbashi': parola nepalese che si potrebbe tradurre come 'rifugiati', ma qui indica semplicemente quelli che non hanno nemmeno una casa di frasche e quindi dormono per strada.

Anche Deepak lavora alla fabbrica di tappeti - la stessa di Dinesh - e questo consente al mediatore di cantare le lodi della sua merce: "Sono tutt'e tre di etnia Lama, come la mia. Gente robusta, fisici sani, per questo li prendono nelle carpet factories. Credetemi, sono i donatori migliori, ve lo dico io che ho esperienza".

Poi Hari, di buon umore, esce dal negozio e ferma un taxi, per andare tutti insieme al Siddharta Hospital a fare gli esami. Io devo restare fuori, in un baretto di strada. Lui entra insieme ai i ragazzi e mezz'ora dopo si riappalesa con le ricevute in mano, per farsi restituire subito i soldi. Indica i buchi sulle braccia dei donatori, a dimostrare che i prelievi li hanno fatti davvero. Poi mi dà appuntamento nel pomeriggio - quando avrà i risultati - sempre nel negozietto di fotocopie.

Puntuale, poche ore dopo, nel vicolo sulla Bagh Bazar arriva il verdetto. Il primo, Dinesh, ha un paio di valori sballati ("Si vede che mangia male", sentenzia Hari): in un paio di mesi sarà pronto per un altro cliente, ma per adesso è fuori gioco. Di Biktan - quello che parlava poco - neanche a parlarne: "Ha i calcoli, tanto vale rimandarlo al villaggio che qui ci fa solo perdere tempo". Meno male che c'è Deepak, il ragazzino. Lui ha tutto in regola: sangue, reni, fegato, Hiv, Tbc, epatite e così via. Quindi, dice Hari, me lo posso portare via anche subito, dopo aver versato ovviamente il 30 per cento del totale pattuito, cioè quasi 700 euro.

Lì per lì resto un po' sorpreso: non pensavo che le cose si sarebbero concluse così in fretta. Portarmelo via? E dove? Per fare che? Hari sorride, quasi bonario: "Da questo momento lui è tuo figlio no? Beh, allora dovete conoscervi, familiarizzare. Portalo al mercato e rivestilo, offrigli una cena al ristorante, fallo dormire nel tuo hotel. Intanto io preparo i documenti e fra due o tre giorni andiamo tutti a Calcutta. Guarda, invece di mandarti il mio watchman per questa volta vi accompagno io in persona, così vi faccio vedere com'è tutto semplice e veloce. Però tu in cambio quando torni in Europa spargi la voce su di me, okay? Dici in giro che a Kathmandu c'è il buon Hari pronto a salvare la vita a chi ha bisogno di un trapianto...".

Poi il buon Hari allunga la mano e il rotolo di rupie che gli passo finisce subito nel cassetto del tavolo in finto legno.

Davanti al telaio 15 ore al giorno
Così, poco dopo, mi ritrovo con Deepak all'Hong Kong Bazar di Kathmandu, un mercato popolare a due passi dal palazzo reale, cercando di immaginare che cosa devo comprare al ragazzo per affrontare il viaggio a Calcutta. Lui non apre bocca e guarda le merci con gli occhi sgranati. Sudarshan lo prende, anche letteralmente, per mano. Davanti a ogni bancarella quello sorride incredulo. Io penso a uno zainetto per il viaggio e lui entusiasta sceglie un falso Diesel a 250 rupie, circa tre euro. Poi mi rendo conto che in effetti non ha niente - ma proprio niente - da metterci dentro, allora gli compriamo pantaloni, camicie, calze, mutande, spazzolino, tagliaunghie, sapone... Alla bancarella delle false Nike (quattro euro il paio), Deepak agguanta le scarpe ancora allacciate e cerca di infilarsele così. Gli spieghiamo che prima deve slacciare le stringhe e lui sorride imbarazzato: in vita sua non ha mai indossato altro che infradito di plastica. Chiudiamo lo shopping con un orologino digitale - quello con le lancette non sa leggerlo - e una cintura simil Gucci a tre euro, su cui il calzolaio deve fare tre buchi in più perché Deepak sarà anche di robusta etnia Lama, ma è pure magro da far spavento.

Nel taxi che ci porta in albergo, appena fuori città, il ragazzo si guarda intorno spaesato senza chiedere niente. Alla guest house fa una doccia ed esce dalla stanza orgoglioso dei nuovi vestiti, prima di accettare da bere - una Sprite, naturalmente - e di sedersi nel giardino del Planet Bhaktapur per iniziare quel rapporto di conoscenza tra paziente e donatore tanto auspicato da Hari.

Deepak ha lasciato il suo villaggio in autobus, a 14 anni, perché tanto lì - appunto - viveva per strada. Nella capitale ha iniziato a lavorare subito alla fabbrica di tappeti ed è quello che fa ancora adesso che di anni ne ha 19 - o almeno così dice lui, chissà se è davvero maggiorenne. Attacca al telaio alle cinque del mattino, alle 10 fa una pausa di un'ora per mangiare, poi riprende e va avanti fino alle otto di sera, con un'altra mezz'ora di pausa nel pomeriggio. Questo sei giorni a settimana, dalla domenica al venerdì. Il sabato gran vita: si lavora solo dalle cinque alle dieci, poi la giornata è libera per bighellonare in giro con gli amici. Guadagna poco più di 3 mila rupie nepalesi al mese (35 euro) ma in tasca gliene resta poco più di metà, perchè 1.300 sono detratte dal padrone della fabbrica in cambio del vitto (riso e lenticchie) e dell'alloggio (una camera senza bagno divisa con altri tre). Con le rupie che gli avanzano, Deepak compra qualcosa in più da mangiare o da bere e parla con i suoi una volta al mese: da un apparecchio pubblico chiama un conoscente al villaggio, quello va a chiamargli la mamma e dopo dieci minuti Deepak ritelefona. Ovviamente ha una nostalgia struggente ("Non torno a casa da tre anni") ma pensa che non lascerà più Kathmandu: "Con i soldi del rene apro un negozietto qui, di quelli che vendono sigarette sfuse, saponi, shampoo, cose così. Mi basta un metro quadro, non chiedo di più, pur di non stare tutto il giorno davanti al telaio. Se poi mi avanza qualcosa lo mando alla mamma e ai miei fratellini, che almeno si costruiscano una baracca di legno e non dormano più o davanti al tempio".

Nei due giorni successivi - mentre Deepak resta in albergo a guardare la tv - Hari prepara come promesso i documenti in cui il donatore si dichiara mio figlio e un'ignota signora locale assicura di essere sua madre confermando la mia paternità. Il primo foglio che arriva - pur con tutti i timbri ministeriali - è francamente imbarazzante per gli errori di grammatica e sintassi inglese. Ne parlo con Sudarshan e lui ci ride su: "Beh, meglio se ci sono un po' di strafalcioni: i documenti del governo nepalese sono tutti così. E poi si sa che gli indiani ci considerano degli analfabeti, se vedono un documento di qui scritto in un buon inglese pensano che sia falso...". Alla fine, tuttavia, conveniamo che forse gli svarioni sono un po' troppi (il mio anno di nascita, '62, si è trasformato nell'età, 62 anni; la parola 'son', figlio, è stata confusa con 'husband', marito... ) e quindi chiediamo a Hari una nuova edizione, appena più corretta, che arriva il giorno dopo con gli stessi timbri e la stessa carta intestata. Forse un po' piccato per essere stato bocciato al suo primo tentativo, il broker ci aggiunge due differenti versioni del documento sulla falsa madre, con altrettante foto di donne che avrei frequentato alla fine degli anni Ottanta. In entrambe le varianti, le signore confermano che il ragazzo è nostro figlio e si dicono d'accordo con la sua decisione di donarmi un rene. Alla fine scegliamo il certificato firmato da tale Seti Maya, forse la più credibile in termini di somiglianza con il mio donatore.

Chi sono? Un benefattore dell'umanità
A Calcutta, con Hari e Deepak, viene anche il mio amico Sudarshan: formalmente per aiutarmi durante il ricovero, di fatto per gestire una situazione che a quel punto è un po' più delicata. Per giustificare la mia condizione di malato - sia con Hari sia con i medici - so che devo dare segni di frequente stanchezza: in fondo dovrei essere già in dialisi, e se non l'ho ancora iniziata è solo perché voglio tornare dall'Asia con il mio rene nuovo. Cammino sempre con lentezza e mi siedo appena posso, ma la recita è più difficile passando tutto il tempo con un intermediario abituato a frequentare pazienti veri. La sera, dovendo far cena tutti insieme, mi attengo alla dieta di un malato di reni: solo acqua, poche verdure e riso bianco. Probabilmente è tutto superfluo, perché Hari non sembra avere il minimo sospetto e anzi si lascia andare a racconti orgogliosi sul suo lavoro: "Non capisco perché questa cosa sia vietata, è una vergogna", dice. Poi indica Deepak: "Se lui ha bisogno di soldi e tu di un rene nuovo, perché non potete combinare? Mah!". Poi, arrivato al dolce, tira fuori di tasca la foto di un monaco buddista di nemmeno vent'anni: "Guarda, è il mio prossimo paziente. Per lo Stato potrebbe morire, io lo porto qui in India e lui campa un altro mezzo secolo. Dimmi tu perché deve essere vietato!". E ancora: "La verità è che io non lavoro per soldi, lavoro per fare felice la gente. Guarda com'è contento Deepak, e pensa come sarai felice tu quanto sarai tornato in Italia e invece di quel riso bianco potrai mangiarti una bella pizza!". Infine ritorna pragmatico: "Però quando torni a casa ricordati di parlare di me ai tuoi amici. Chissà quanti ne hai conosciuti di malati di reni, in ospedale...".

Il giorno dopo, venerdì, arriva finalmente il momento dell'incontro con il chirurgo. Hari esce dall'hotel il mattino presto e prende il taxi per andare all'ospedale - l'Apollo Gleneagles - e incontrare il medico prima di me, in modo che poi tutto fili liscio. Mi spiega che il suo referente abituale, il dottor Mishra, quel giorno non può vederci: è a un congresso o qualcosa di simile. Però c'è il suo vice, tale dottor M. H. Raibagi: "Non ti preoccupare, conosco bene anche lui ed è un ottimo chirurgo". Dopo un paio d'ore arriva la telefonata: tutto a posto, possiamo andare.

Apollo Hospital, stanza numero 25
Attraversando l'insopportabile caldo umido di Calcutta, arriviamo all'Apollo Gleneagles, un grande complesso moderno in cemento, a pochi metri dalle 'bustees' della periferia in cellophane e bambù. Hari resta fuori con Deepak ("Se il dottore vuole vedere subito il donatore, chiamatemi al cellulare o venite a qui a prenderlo, ma per adesso è meglio che noi stiamo qui"). Io dunque entro solo con Sudarshan.

è a pian terreno, reparto di nefrologia, stanza numero 25, che il dottor Raibagi riceve i clienti. è un uomo di mezza età, in camice bianco e cravatta, con un inglese fluente e un sorriso mellifluo. Gli spiego brevemente la mia situazione, fingendo di non sapere che ha già parlato con Hari. Gli racconto della mia malattia e della dialisi che non voglio affrontare perché "in Italia ho una vita brillante, un lavoro nel marketing che mi impegna tutto il giorno, sono sempre tra taxi, aerei e riunioni, non posso stare per ore attaccato a una macchina sennò mi rovino la carriera". Lui conviene con me ("Eh sì, la dialisi è molto noiosa..."), non chiede niente di più e pensa solo a vendere bene il suo prodotto: "La nostra media di successo, nel trapianto dei reni, sfiora il 99 per cento. Abbiamo i migliori farmaci antirigetto, stanze private con aria condizionata e un secondo letto per l'accompagnatore". Quanto ai tempi, non sono un problema: "Naturalmente dobbiamo ripetere gli esami, a lei e al donatore, ma in tre o quattro giorni si conclude tutto. Poi lei si fa solo una settimana di dialisi, qui da noi, ed è pronto per il trapianto. Quindici-venti giorni di convalescenza e può tornare a casa con il suo rene nuovo". I costi? Il dottor Raibagi non ha falsi pudori: "Tra operazione, test clinici e ricovero siamo attorno ai 5 mila euro, tutto compreso. Deve aggiungere soltanto i soldi per le medicine, che gli ospedali indiani non passano...".

Dopodiché, finalmente, il chirurgo chiede di vedere i documenti: le mie analisi del sangue - quelle truccate al computer prima di partire dall'Italia - e i certificati falsi del donatore. Prende in mano i fogli preparati da Hari e li guarda per pochi secondi. Solleva gli occhi rassicurante: "Tutto okay, possiamo ricoverarla anche lunedì". Poi sospira: "Certo, se questo ragazzo fosse veramente suo figlio, le possibilità di successo sarebbero del 100 per cento...". A questo punto sono io a provocarlo: "E se invece non lo fosse, mio figlio?". Raibagi mi guarda: "Beh, in questo caso dovrò prescriverle una terapia antirigetto un po' più potente, ma vedrà che andrà bene lo stesso". Per lui, l'ipotesi che Deepak non sia mio consanguineo costituisce solo un ostacolo tecnico, non certo un impedimento etico o legale.

Sbalordito dall'assurda facilità con cui il tutto sta avvenendo, provo a immaginare qualche possibile ostacolo: "Ma che cosa succede se il rene di Deepak non risulta compatibile? C'è qualcuno che può aiutarmi a trovarne un altro qui?". Il dottore sorride ancora: "Affronteremo la questione solo al momento, ma vedrà che non ce ne sarà bisogno. Comunque ci arrangeremo ('Anyhow we'll manage it')".

Alla fine del colloquio, il dottor Raibagi si offre anche di visitarmi subito, sul lettino. Lo ringrazio ma declino accampando stanchezza, caldo, una gran voglia di tornare subito in albergo. La cosa non gli sembra strana: "Allora venga lunedì, quando vuole. Basta che bussi alla mia porta, senza fare la coda. Iniziamo subito le analisi e poi la ricoveriamo. Vedrà, andrà tutto benissimo...".

Sudarshan e io usciamo dall'ospedale un po' frastornati. Hari non c'è, ma ha lasciato detto di aspettarlo: è andato "un attimo a salutare un altro dottore", cioè probabilmente a corromperlo. Deepak beve una spremuta di canna da zucchero sotto il sole. Se fossi davvero un malato, nel giro di dieci giorni il suo rene sarebbe nel mio corpo. Invece è arrivato il momento di chiudere tutto.

Lascio a Sudarshan un po' di soldi per Deepak, poi salgo su un taxi e sparisco nel torrido caos di Calcutta.

 

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Polizze milionarie nella Sanità
in Sicilia lo sponsor di partito

Da Micciché a Lombardo, da Mannino al fratello di Cuffaro, molte società di brokeraggio hanno rapporti con la politica
Grandi società multinazionali regolarmente perdono contro le piccole. E spesso a nulla valgono i loro ricorsi al Tar
di ANTONELLO CAPORALE


PALERMO - Se un pappagallo urta il becco contro una barella al pronto soccorso o un cane inciampa tra i corridoi della chirurgia generale dov'è ricoverato il suo padrone, un asino collassa avanti l'ambulatorio oculistico, un cavallo viene investito nel parcheggio del policlinico, il costo delle cure è garantito e, soprattutto, assicurato. Traumi, invalidità permanente o anche morte del povero animale.

A Messina il massimale per cani e gatti e ogni altra specie dell'universo è fissato a 5 milioni e 164mila euro, l'Università di Bari, meno previdente, si è coperta da polizza fino a tre milioni, l'ospedale di Enna per due milioni e 500 mila, idem il Civico di Palermo. "Nemmeno se porti in sala operatoria la renna di Babbo Natale e te la mangi con tutti i sonagli è giustificata una simile cifra", dice Pier Carmelo Russo, oggi dirigente della Regione Sicilia, ma ieri avvocato che provò innanzi al Tar come l'Azienda sanitaria trapanese Sant'Antonio Abate avesse assicurato l'ospedale con tutto quel che conteneva (medici, infermieri, beni strumentali e anche animali) per una superpolizza dall'esorbitante costo di un milione 176mila euro. Provò che era carissima, e soprattutto inutilmente dispendiosa. Massimali altissimi, premi alle stelle. Il Tar (sentenza 3034/05) annullò il contratto.
L'ospedale, limando e ripulendo, rifece la gara per trovare una congrua assicurazione e spese 676mila euro, quasi la metà, per di più sestuplicando nella polizza il valore dei risarcimenti a cui si obbligava la compagnia assicuratrice rispetto alla precedente.

Nel bilancio dello Stato somme importanti sono destinate a coprire la cosiddetta responsabilità civile delle migliaia di dipendenti, e poi la sicurezza di edifici e palazzi, scuole e consultori, acquedotti e strade. Ma il vero salasso per le casse pubbliche è la cifra che le aziende ospedaliere devono mettere da parte nei bilanci per assicurare i dipendenti, cioè i medici, per responsabilità connesse al proprio lavoro. Un intervento chirurgico che non va bene, l'artroscopia fatta male, il bypass difettoso. Gli incidenti purtroppo sono molti, le richieste di risarcimento altrettanto numerose, gli indennizzi certi ed elevati.

Una fortuna! Per alcuni più incidenti uguale più premi. Più premi uguale più soldi. Ecco, le polizze costano care. Anche perché si assicura tutto oltre limite estremo della ragione. Il chirurgo è naturalmente coperto da polizza ma anche il ferrista di sala operatoria. Ed è giusto. Oltre al ferrista la caposala, l'infermiere, professionale e generico. Ed è giusto. Ma gli stessi massimali valgono per il portantino e giù giù fino al cuoco, allo sguattero da cucina e, appunto, al pappagallo. Cinque milioni di euro di premio massimo se dovesse all'animaluccio occorrere qualcosa. Polizze fantascientifiche che solo un matto potrebbe stipulare. Ma qui paga lo Stato.

Alcuni nosocomi sottoscrivono impegni con le assicurazioni in cui il limite che esclude la compagnia dall'obbligo di pagare è posto a livelli incredibili: a Palermo l'ospedale, benché assicurato, si ritiene direttamente coinvolto (quindi paga di tasca sua) danni fino a cinquecentomila euro. Prima che l'assicurazione si ritenga coinvolta bisogna giungere alla soglia lunare del mezzo milione di euro. Fosse finita qui! In tutte le polizze c'è la clausola del limite temporale del risarcimento postumo. Altra fregatura. Mettiamo una semplice operazione al ginocchio fatta oggi. Il malato va a casa, dopo qualche settimana i dolori post-operatori non cessano, decide di indagare e dopo qualche mese si fa rioperare accorgendosi che la prima operazione è stata condotta male. Chiede i danni all'ortopedico per colpa professionale. L'ortopedico è coperto dall'assicurazione stipulata dal suo ospedale.

Ma l'assicurazione che ha intascato il premio rifiuta il pagamento perché la richiesta è stata inoltrata fuori tempo massimo. Alcune compagnie fissano a tre mesi, altre a sei mesi, altre a un anno il limite temporale della loro copertura postcontratto. E dunque? E dunque, e ancora una volta, l'ospedale pagherà con i suoi soldi ciò che ha già pagato. La polizza è morta, è vuota. Pagata. E pagata quanto?

Bella domanda. La sanità italiana è così malmessa che le maggiori compagnie non vogliono correre rischi e si tengono alla larga dal rispondere alle richieste. Trovare una assicurazione è un'impresa, purtroppo.
Rispondono i Lloyds di Londra, o piccole compagnie estere, leggere ma audaci. In Sicilia la parte del leone la fa l'australiana Qbe, un solo ufficio italiano e tutto il resto in Oceania e a Londra.

Per raggiungere la Qbe gli ospedali, come tutti gli enti pubblici e anche i grandi gruppi privati italiani, si fanno aiutare da un broker. E chi è il broker? Un professionista che, valutata la mappa del rischio dell'azienda cui presta la sua consulenza, va sul mercato delle assicurazioni e prende quel che gli serve: le migliori polizze teoricamente al minor costo. Il broker dunque gestisce (dovrebbe gestire) la qualità del rischio e il suo mantenimento al livello più basso. Se è bravo e onesto e il suo cliente, per esempio un municipio, è oggetto di ripetute richieste risarcitorie per incidenti stradali che percentualmente sono concentrati a un incrocio, chiederà tempestivamente che il bivio venga messo in sicurezza (ad esempio con una rotatoria). La riduzione del rischio provocherà la riduzione del premio che l'assicurazione riterrà di pretendere. Questo se il broker è serio.

Il broker però guadagna in percentuale sul premio pagato dal cliente: più è alto il costo dell'assicurazione più la provvigione (che varia dal 3 all'8 per cento) risulta elevata. E il broker per lavorare deve superare una gara pubblica indetta dalla Asl. E dunque? Avete pensato bene: una conoscenza è meglio di niente, due è meglio di una. La politica da poco ha scoperto questo nuovo mercato. E se lo coccola. In Sicilia (come in tutto il Paese) le società di brokeraggio si fanno una guerra spietata per raccogliere incarichi, vincere gare, intercettare commesse sempre più sontuose.
Grandi società multinazionali di brokeraggio (Aon e Marsh) e medie (Sgr, Viras), piccole (consulbrokers), piccolissime (Assisicilia). A Palermo, a Catania, a Trapani, a Mazara le grandi perdono sistematicamente, le piccole e piccolissime vincono quasi sistematicamente. Migliore offerta, miglior progetto operativo, miglior punteggio. A Catania (Ausl 3) il progetto Marsh-Aon viene giudicato migliore ma gli viene assegnato lo stesso punteggio di Consulbrokers. Ricorso al Tar, annullamento della gara. L'Asl invece di modificare i punteggi, modifica i giudizi: chi aveva vinto invece di perdere rivince grazie a un giudizio che da buono raggiunge l'ottimo.

Intendiamoci, nulla di male e solo una coincidenza se per esempio la Sgr, società di brokeraggio, custodisce una limpida amicizia con Silvio Cuffaro, fratello di Totò, il governatore. E nulla di male se i titolari di Consulbrokers si ritengono, o sono ritenuti, amici di Raffaele Lombardo, padrone di Catania. Se la Viras è molto stimata dall'ex assessore alla Sanità Sanzarello, la Sicurmed da Lillo Mannino, la Reale Mutua da Micciché. Sono aziende. Ognuna ha diritto di sostenere il partito del cuore e, nei limiti consentiti dalla legge, anche di finanziarlo. Lo fanno i migliori imprenditori che in Parlamento depositano le cifre dei loro bonifici.
L'assicurazione, poi, è un obbligo di legge. E, come si dice?, una buona polizza allunga la vita.

 
 
 
Oltre 1100 abitanti di Rosolini (Siracusa) si dichiaravano indigenti
Denunciate anche due persone con redditi da mezzo milione di euro

Finti poveri per truffare la sanità
Intero paese nel mirino della Gdf

Già a dicembre dello scorso anno erano state scoperte altre 310 false dichiarazioni

<B>Finti poveri per truffare la sanità<br>Intero paese nel mirino della Gdf</B>
ROSOLINI (SIRACUSA) - Liberi professionisti, artigiani, dipendenti statali, comunali, commercianti e pensionati: a Rosolini, un centro a sud di Siracusa, di oltre ventimila abitanti, oltre 1100 persone godevano di prestazioni sanitarie gratuite pur non avendone diritto. I "falsi poveri" sono stati denunciati in stato di libertà dalla Guardia di finanza di Siracusa con l'accusa di aver truffato il servizio sanitario nazionale. Tra i denunciati anche due persone con redditi accertati, affermano gli inquirenti, da mezzo milione di euro ciascuno ma che dichiaravano di essere indigenti. Nella cittadina già a dicembre dello scorso anno, la Guardia di finanza aveva denunciato, nella prima fase della stessa indagine, altri 310 falsi indigenti.

Secondo la ricostruzione degli investigatori, le persone denunciate sarebbero riuscite ad ottenere, grazie a false autocertificazioni, l'esenzione del pagamento del ticket per prestazioni sanitarie e per l'acquisto di medicinali, senza averne diritto. L'ipotesi di reato che viene loro contestata è di truffa e di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico.

Le indagini hanno preso il via da alcune anomalie riscontrate dalla verifica dei redditi dichiarati da alcune delle persone coinvolte nella maxi-inchiesta. Il limite per godere dell'esenzione del ticket sanitario è di 12 mila euro l'anno ma i denunciati dichiaravano di guadagnare una cifra inferiore. Rischiano una condanna da 3 mesi a tre anni di carcere.

 

18 maggio

Allarme sicurezza stradale
Francia modello da seguire

di VINCENZO BORGOMEO
 


Voti alla sicurezza stradale: li dà l'European Transport Safety Council, sostenuto da tutti i governi del Vecchio Continente. E l'Italia è dietro la lavagna con il con il cappello da asino: siamo sopra la media della mortalità europea (di circa il 13 per cento, circa 900 morti in più sulla media e 2700 in più rispetto ai migliori della classe). Ma non è tutto: da noi le due ruote valgono solo il 3,6 per cento della mobilità ma incidono per il 26% sulla mortalità generale da incidenti stradali. Il che significa che i morti " da due ruote" sono in continuo aumento e che l'Italia ha il maggior numero di vittime di Europa.

Insomma un quadro disastroso, reso ancora più preoccupante per il fatto che abbiamo le città più pericolose fra tutte quelle del vecchio continente.
In città fra l'altri aumentano incidenti, morti e feriti, mentre su tutte le altre strade diminuiscono (qui avvengono il 45% dei morti e il 79% dei feriti totali). In più c'è un incredibile divario fra la situazione delle varie città (chi riduce la mortalità del 30% e chi la aumenta del 40%). E nessuno sa perché questo accada.

L'ETSC è indubbiamente severo, ma sono numeri, statistiche, impossibile da contestare. Il tutto è contenuto nel famoso Safety Performance index, che prende in considerazione due parametri principali: l'utilizzo delle cinture di sicurezza e la riduzione del numero di vittime. La Francia è al primo posto, noi complessivamente siamo al 14esimo posto di una classifica fatta da 27 paesi realizzata su statistiche 2002-2005. Ma c'è poco da gioire perché come abbiamo visto prima abbiamo record davvero poco invidiabili.

Ma come si arriva al record francese? "Innanzitutto da un forte impegno del governo - spiegano all'ETSC - perché Chirac ha posto la sicurezza stradale fra gli obiettivi primari del suo mandato, e questo è stato adottato soprattutto per quanto riguarda il rispetto dei limiti di velocità. In Francia oggi hanno 2000 telecamere fisse che fanno qualcosa come 30 mila verbali al giorno...

Molto importante, sempre secondo l'ETCS, poi il controllo degli incidenti che riguarda la guida in stato di ebbrezza. I dati vanno dal 1996 al 2005 e qui i Paesi che hanno fatto registrare la diminuzione più grande del numero di morti per guida in stato di ebbrezza sono Repubblica Ceca (meno 12,5%), e poi seguono Germania, Olanda e Polonia. Il trend di riduzione è importantissimo perché alla fine incide enormemente sul trend complessivo. Ma ci sono poi anche paesi come Spagna, Ungheria, Slovenia, Finlandia e Gran Bretagna che hanno invece avuto un aumento di vittima. E L'Italia? Mon si sa: da noi non è stato possibile registrare nulla. Il problema è enorme, e non a caso scorrendo le statistiche europee i nostri dati sono sempre i più carenti, i meno aggiornati e i più vecchi. Sulle tabelle accanto alla voce Italia c'è sempre un asterisco, così diventa davvero molto difficile poi fare qualsiasi tipo di stima e di investimento sul futuro.

In tutti i casi è in arrivo un disegno di legge per alcune azioni molto urgenti, c'è il progetto del nuovo Codice della Strada, e il Ministero è al lavoro per cercare di ridurre in tutti i modi incidenti e numeri di morti. Ma la strada appare onestamente completamente in salita.

Molto possono comunque fare le stesse case automobilistiche perché alla fine, poi, in una situazione di carenza legislativa, di strade dissestate e segnaletica improbabile, una macchina piena di tecnologia aiuta a salvarsi la pelle. Massimo Nordio, ad Toyota Motor Italia che a livello europeo sostiene il progetto ETSC è stato chiaro: "Watanabe, il nostro presidente, ha un sogno, quello di potere arrivare ad avere una macchina che più la usi e più migliora l'ambiente, e con faccia zero vittime. Quindi salvaguardia dell'ambiente, ma anche salvaguardia totale delle persone.
Va detto - continua poi Nordio - che poi il nostro impegno può arrivare fino a un certo punto, perché poi la sicurezza stradale riguarda tutti, dalle autorità ai costruttori passando per ogni singolo automobilista. Per questo è fondamentale lavorare insieme. Aziende, strutture e istituzioni e consumatori". E torniamo al tema del dibattito di oggi.

E proprio alla Consulta Nazionale della Sicurezza Stradale istituita nel 2001 proprio per dare in coordinamento generale ai 21 governi regionali e agli oltre 8000 comuni e, soprattutto, per incentivare con importanti finanziamenti progetti vari. Fino a oggi ci sono stati realizzati 4 programmi nazionali, 42 regionali e 1.122 interventi specifici. "Ma ogni volta che abbiamo dato un euro - spiegano alla Consulta Nazionale della Sicurezza Stradale - lo abbiamo fatto a fronte di un impegno: avere una scheda che ci spiega i risultati della spesa".

A proposito di trasparenza, però non tutto funziona: "Nel nostro stato diritto abbiamo la possibilità di tutelare la vita di ognuno di noi" spiega Cassaniti Mastrojani dell'Associazione Vittime della Strada "e secondo noi dobbiamo tener conto anche delle responsabilità sociali, oltre che strade, veicolo e conducente. Ossia quelle folli libertà che si prendono le istituzioni di fare un lavoro sbagliato senza che venga mai sanzionato da nessuno. La società - continua ancora Cassaniti Mastrojani - deve rispondere alla salvaguardia dei cittadini, che devono essere ascoltati dalle istituzioni. Le mancate risposte che i cittadini hanno sono la cartina di tornasole del nostro livello di democrazia".
 

Cessate il fuoco
Il bollettino settimanale delle guerre e dei conflitti in corso n.20 - 2007 dal 10 al 16/5

Questa settimana, in tutti i paesi ancora in guerra, sono morte almeno 1.203 persone

 
Iraq
Questa settimana sono morte almeno 665 persone (645 iracheni, dei quali almeno 500 civili, e 20 militari della Coalizione).
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 12.619.
 
Afghanistan
Questa settimana sono morte almeno 211 persone (186 talebani o presunti tali, 24 militari afgani e un soldato della Nato).
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 1.929 (404 civili, 1.174 talebani o presunti tali, 292 militari afgani, 59 soldati della Nato).
 
Israele e Palestina
Questa settimana sono morti 33 palestinesi negli scontri tra Hamas e Fatah, e altri 5 nei raid dell'aviazione israeliana sulla Striscia di Gaza.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 128.

Colombia

Questa settimana sono morte almeno 19 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 159.
 
Cecenia (Russia)
Questa settimana sono morte almeno 2 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 318.
 
Filippine-Mindanao
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 148.

 
Filippine-Npa
Questa settimana sono morte almeno 5 persone.
Almeno 80 morti dall’inizio dell’anno.

 
Sri Lanka
Questa settimana sono morte almeno 27 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 1.117.

 
India Nordest
Questa settimana sono morte almeno 26 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 410.

 
India Naxaliti
Questa settimana sono morte almeno 14 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 216.

 
India Kashmir
Questa settimana sono morte almeno 17 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 260.

 
Pakistan
Questa settimana sono morte almeno 96 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 800.
 
Somalia
Questa settimana sono morte almeno 34 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 1.505.

 
Rep. Dem. Congo
Questa settimana sono morte almeno 4 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 468.

 
Sudan
Questa settimana sono morte almeno 50 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 321.

 

17 maggio

Centro sinistra in Sicilia

 

UNA VITTORIA RETROATTIVA

 di Agostino Spataro 

Come il solito, più che il voto il vero rompicapo è il dopovoto. Almeno per la gente che cerca di capire cosa sia effettivamente successo a Palermo e in Sicilia a seguito delle votazioni del 13-14 maggio.

Stiamo assistendo alla solita pantomima: tutti vincitori e nessun vinto. Soprattutto, nel centro sinistra, invece d’interrogarsi sui motivi di questa ennesima sconfitta, ci si arrampica sugli specchi per dimostrare che si è vinto, se non proprio nel recente confronto, almeno rispetto a quelli precedenti. Vittorie dal sapore retroattivo, meramente consolatorie, che non modificano di un millimetro l’amara verità uscita dalle urne.

Se qualcuno ammette la sconfitta ne addossa la colpa ad altri, all’avversario che ha imbrogliato le carte o, addirittura, all’elettorato che non ha capito il “messaggio” (quale?).

C’è, addirittura, chi ha chiamato in causa le recenti dichiarazioni di Padoa Schioppa su pensioni e concertazione, forse, senza accorgersi che, così facendo, si accredita la tesi degli esponenti del centro destra che vorrebbero far discendere dalle scelte e dagli indirizzi del governo Prodi tutti i guai della Sicilia e perciò affidano al voto isolano (in gran parte scontato a loro favore) una funzione destabilizzante del governo, senza, nemmeno, attendere lo svolgimento della più impegnativa tornata del 27 maggio che vedrà alle urne circa 10 milioni di elettori nel resto del Paese. Ai quali bisogna aggiungere quelli di una ventina di medi centri siciliani che ri-andranno a votare per i ballottaggi. Fra questi, molto atteso è l’esito dell’interessante tentativo, largamente premiato al primo turno, del giovane Zambuto, ex segretario provinciale dell’Udc di Cuffaro, che nella città di Agrigento si è messo alla testa di una “rivolta” contro il predominio di certi poteri forti, politici e d’altra natura.

Ma torniamo ai risultati del 14 maggio ancora sommersi dentro il tourbillon di un’acqua resa torbida da analisi frettolose, parziali e, talora, molto propagandistiche.

Quando l’acqua si schiarirà gli esponenti della Cdl s’accorgeranno dell’erosione subita dal loro blocco elettorale a Palermo e altrove e quelli del centro sinistra, forse, la smetteranno di eludere le vere cause della sconfitta e di propinarci improbabili concause sulle quali s’illudono di costruire un nuovo alibi per tirare a campare per un altro lustro. 

Anche Leoluca Orlando, che a Palermo ha fatto una battaglia generosa e conseguito un risultato davvero ragguardevole, si potrà convincere che, certo, vi saranno stati brogli, pressioni illecite e perfino compravendite di voti, ma l’incidenza di tali fenomeni non può esser stata tale da determinare un risultato così netto a favore della CdL.

Poiché se questa è la logica, bisognerebbe domandarsi: cosa sarà mai successo d’illecito a Trapani e nella rossa Ragusa dove la CdL ha conseguito una vittoria ancor più pesante?

 L’inadeguatezza del centrosinistra siciliano: una grande questione nazionale 

 La verità, i fondo, è quella uscita dalle urne e da questa bisogna partire per fare, finalmente, il punto sulla realtà e sulle prospettive del centro sinistra nell’Isola, poiché se il voto siciliano non chiama in causa Prodi chiama sicuramente in causa partiti e dirigenti del centro-sinistra, i quali dovrebbero decidersi ad affrontare questa debolezza, ormai, strutturale come questione prioritaria e decisiva per la prospettiva politica ed elettorale nazionale.

Si facciano, dunque, i necessari ricorsi presso le sedi competenti, ma in sede politica si apra una riflessione severa e puntuale, una grande discussione democratica per individuare idee e proposte mobilitanti per un’alternativa che si può conseguire solo mediante atti di rottura col sistema di potere dominante in Sicilia, e a Palermo in particolare, che solo nuovi gruppi dirigenti, animati da sincero spirito di cambiamento, possono realizzare. 

Se ci fate caso, è dai tempi di Mattarella, di De Pasquale, La Torre che non si riflette su una prospettiva di questo tipo. Un quarto di secolo, durante il quale sono cambiate tante cose e poteri ibridi si sono insediati nei gangli vitali della Regione e degli enti locali.

Durante questo tempo, il centro sinistra, la sinistra comunque aggettivata, hanno vissuto di rendita e dilapidato il patrimonio elettorale ereditato che, oggi, dovrebbe attestarsi almeno intorno al 40%, mentre in molti comuni non supera il 10%.

Insomma, mentre nel mondo, in Europa e in Italia tutto cambiava, qui tutto languiva nel pantano di un trasversalismo mirato a tenere la Sicilia fuori del cambiamento. 

In queste condizioni, la sinistra ha preferito avvitarsi su se stessa, ripiegare sull’autoreferenzialità dei suoi gruppi dirigenti, dismettendo pratiche e concezioni che, nel passato, avevano prodotto un ruolo dirompente sul fronte sociale e politico e anche interessanti esiti elettorali.

 Il trionfo del comunista Crocetta insegna che l’esser di sinistra paga, quando ben si governa

 Questa situazione ha generato una ben strana (per non dire comoda) teoria secondo la quale l’esser di sinistra restringe l’area del consenso, perciò meglio affidarsi in certe competizioni a nomi prestigiosi della cosiddetta “società civile”. Da qui è invalsa una pratica discutibile, un’incomprensibile dicotomia di comportamenti nella scelta delle candidature: affidarsi a candidati indipendenti o provenienti da altre militanze per la conquista della presidenza della Regione, di molte province e dei municipi delle grandi città siciliane, mentre così non è stato in occasione di elezioni regionali e nazionali nelle cui liste si sono sempre ben piazzati soltanto dirigenti di partito, anche con svariate legislature.

Tale comportamento ha fatto sì che, per i sindaci delle grandi città o per la presidenza della Regione, mai un esponente blasonato della sinistra si è misurato con i candidati della CdL.

Per averne conferma, basta guardare le candidature nelle più recenti consultazioni: a Palermo Orlando, a Catania Bianco, a Messina Genovese, a Trapani Boscaino, ad Agrigento Zambuto; così alla Regione: prima Orlando e poi la Borsellino.

Eppure questa stessa sinistra ha espresso ed esprime posizione di prestigio, parlamentare e di governo, ai livelli regionale e nazionale.

E non regge l’argomento che l’essere di sinistra restringa l’area del consenso. A Gela, si dimostra il contrario: il comunista Rosario Crocetta, è stato riconfermato sindaco col 65% dei voti.

Parliamoci chiaro: quello di Gela non è solo un risultato in controtendenza rispetto alla vittoria generalizzata della CdL, ma lo è anche rispetto a un certo modo di fare politica e di governare del centrosinistra in Sicilia.

Anche a Gela imperversano mafia, pizzo, disoccupazione, precari e quant’altro eppure il risultato è venuto senza bisogno di sporcarsi le mani, anzi all’insegna della buona amministrazione e della legalità.

                                                         

16 maggio

Segreto di Stato: a Genova ci fu un disegno repressivo, prima condanna per la Polizia al G8 del 2001

La censura da parte dei media è stata rigida ed assoluta: della sentenza di Genova non si doveva parlare. Infatti incredibilmente non ne ha scritto neanche il Manifesto e dovrebbe spiegare perché.
Alzi la mano chi ha saputo che la settimana scorsa a Genova c'è stata la prima condanna per i pestaggi della Polizia durante
il G8 del 2001. Eppure la sentenza di Genova è un passaggio capitale per la ricostruzione della verità e la giustizia di quello che successe nel capoluogo ligure oramai 6 anni fa. E ci spiega anche molto del disegno politico sotteso alla repressione.

Lo Stato è stato condannato a risarcire Marina Spaccini, 50 anni, pediatra triestina, volontaria per quattro anni in Africa, per il pestaggio che subì da parte della Polizia in via Assarotti, nel pomeriggio del 20 luglio 2001. Marina, come decine di migliaia di militanti cattolici della Rete
Lilliput, era seduta, con le mani alzate dipinte di bianco, gridando "non violenza", quando fu massacrata dalla Polizia. Questa si è difesa sostenendo (sic!) che non era possibile distinguere tra le mani dipinte di bianco di Marina e i Black Block. Per il giudice Angela Latella invece la selvaggia repressione genovese -e la cortina di menzogne sollevata per coprirle- è stata una delle pagine più nere di tutta la storia della Polizia di Stato e per la prima volta ciò viene scritto in
una sentenza. Non solo, è ben più grave quello che è scritto nella sentenza genovese. Quelle dei poliziotti non furono né iniziative isolate né eccessi, ma facevano parte di un disegno criminale.
Si inizia a confermare in via processuale quello che chi scrive sostiene e scrive da sei anni. A Genova vi fu un disegno criminale selettivo da parte di apparati dello stato. Tale disegno era teso a terrorizzare non tanto la sinistra radicale ma il pacifismo cattolico, in particolare la Rete Lilliput, che per la prima volta in maniera così convinta e numerosa scendeva in piazza saldandosi in un unico enorme fronte antineoliberale con la sinistra.

Le ragazze e i ragazzi delle parrocchie furono quelli che pagarono il prezzo più alto, soprattutto sabato. I loro spezzoni di corteo furono sistematicamente bersagliati dai lacrimogeni e centinaia di loro furono pestati selvaggiamente. Ma,
soprattutto decine di migliaia di loro, e le loro famiglie, furono spaventati a morte in una logica pienamente terroristica. Quanti dopo Genova sono rimasti a casa?

Di fronte all'immagine sorda data dai grandi della terra, Bush, Blair, Berlusconi, quel movimento pacifico, colorato, credibile, fatto di persone serie e non dei pescecani rinchiusi nella città proibita, che si era riunito intorno alle
proposte concrete per un nuovo mondo possibile del Genoa Social Forum, doveva essere schiacciato. Non lo sapevamo, ma mancavano 50 giorni all' 11 settembre.

L'articolo di Massimo Calandri è apparso SOLO sulle pagine genovesi di Repubblica lo scorso 29
aprile.


Prima condanna per le violenze delle forze dell'ordine contro i manifestanti: "Non furono iniziative isolate"
G8, condannato il Ministero - Missionaria picchiata, risarciti invalidità e danni morali
"Ho solo ottenuto quello che attendevo da 6 anni: giustizia"


MASSIMO CALANDRI

LA PRIMA condanna nei confronti del Ministero dell'Interno per le illecite e gratuite violenze dei suoi poliziotti è arrivata nei
giorni scorsi, e cioè circa sei anni dopo la vergogna del G8 genovese.
Ma le parole con cui il giudice istruttore Angela Latella ha motivato la sua decisione rinfrescano la memoria.

Ricordando a tutti che quelle cariche sanguinarie,quelle teste rotte a manganellate, quei lacrimogeni sparati contro le persone inermi, non erano frutto dell'iniziativa isolata o dell'autonomo eccesso di qualche agente. Facevano invece parte di un più ampio disegno -così come le menzogne raccontate più tardi per coprire le nefandezze - , che rappresenta una delle pagine più buie nella storia della Polizia di Stato.

Il tribunale del capoluogo ligure ha dato ragione a Marina Spaccini, pediatra cinquantenne di origine triestina, pacifista che per quattro anni ha lavorato in due ospedali missionari del Kenia. Alle due del pomeriggio del 20 luglio, era il 2001, venne pestata a sangue in via Assarotti.
Partecipava alla manifestazione della Rete Lilliput, era tra quelli che alzava in alto le mani dipinte di bianco urlando: "Non violenza!".

Gli agenti e i loro capi avrebbero poi raccontato che stavano dando la caccia ad un gruppo di Black Bloc, che c'era una gran confusione e qualcuno tirava contro di loro le molotov, che non era possibile distinguere tra "buoni" e "cattivi": bugie smascherate nel corso del processo, come sottolineato dal giudice. I cattivi c'erano per davvero, ed erano i poliziotti che a bastonate aprirono una vasta ferita sulla fronte della pediatra triestina. Dal momento che quegli agenti, come in buona parte degli episodi legati al vertice, non sono stati identificati, Angela Latella ha deciso di condannare il Ministero dell'Interno. La cifra che verrà pagata a Marina Spaccini non è certo clamorosa - cinquemila euro tra invalidità, danni morali ed esistenziali - , ma il punto è evidentemente un altro.

«Se risulta chiaramente che la Spaccini sia stata oggetto di un atto di violenza da parte di un appartenente alle forze di polizia - scrive il giudice - , non si può neppure porre in dubbio che non si sia trattato né di un'iniziativa isolata, di un qualche autonomo eccesso da parte di qualche agente, né di un fatale inconveniente durante una legittima operazione di polizia volta e riportare l'ordine pubblico gravemente messo in pericolo».

Perché l'intervento della polizia non fu «legittimo», è ormai abbastanza chiaro. Lo hanno confermato i testimoni e in un certo senso gli stessi poliziotti e funzionari, con le loro contraddizioni: «Gli aggressori erano diverse decine; l'ordine era di
caricarli, disperderli ed arrestarli», hanno detto, interrogati. Ma poi risulta che furono arrestati solo due ragazzi (non feriti), la cui
posizione fu in seguito peraltro archiviata. La pacifista era assistita dagli avvocati Alessandra Ballerini e Marco Vano. Il giudice ha sottolineato come fotografie e filmati portati in aula «siano stati illuminanti»: «Si vedono ammanettare persone vestite normalmente; più poliziotti colpire con i manganelli una persona a terra, inerme. La
stessa Spaccini è una persona di cinquant'anni, di cui giustamente si sottolinea l'aspetto mite». E poi, le testimonianze come quella di una signora settantenne che parla di una «manifestazione assolutamente pacifica e allegra» e di aver quindi visto agenti «bastonare ferocemente persone con le mani alzate ed inermi come lei». Marina Spaccini ha accolto il giudizio con un sorriso: «Era semplicemente quello che attendevo da sei anni. Giustizia».


G8, l´ultima verità sulla Diaz - L´ex questore Colucci confessa: " Mi sentivo inadeguato"

Sconcertante deposizione dell´alto funzionario sei anni dopo tra smentite e "non ricordo più"


MASSIMO CALANDRI

L´IMBARAZZANTE interrogatorio di Francesco Colucci, che in quei giorni del G8 era ancora il questore di Genova, ha dato ieri mattina la misura di quanto difficile sia il compito di chi vuole fare chiarezza sulle sciagurate giornate del luglio 2001. A distanza di sei anni, quello che allora era la massima autorità di pubblica sicurezza presente in città (prefetto escluso) è caduto in una serie di contraddizioni ed amnesie che hanno lasciato a bocca aperta i presenti. «Non ricordo». «Forse ho sbagliato
nel parlare». «La mia affermazione forse è stata un po´ sprovveduta, superficiale». «Non sono sicuro, lo giuro davanti a Dio e allo Stato italiano». «Mi correggo, forse sono stato impreciso». Per sei ore Colucci ha risposto alle domande del pm Enrico Zucca, smentendo in alcuni casi quando aveva dichiarato a verbale negli anni precedenti e regalando un´informazione inedita. La notte dell´assalto alla scuola Diaz, il funzionario che doveva coordinare gli interventi era il vice-questore Lorenzo Murgolo. Che per il massacro e l´arresto illegale dei 93 no-global, così come per le prove fasulle, non è imputato. «Murgolo era il coordinatore. Ma c´erano La Barbera e Gratteri accanto a lui...
«. Affermazione che vuole dire tutto e niente, perché - come l´ex questore di Genova ha poi ribadito - «non so a che punto poteva contare la scala gerarchica».

In un´intera giornata passata in aula, Colucci non ha chiarito nulla. Perché si decise di intervenire nell´istituto di via Battisti? La versione è quella del fantomatico attacco in serata alle pattuglie della polizia, e di quei tipi sospetti - «Non gente gioiosa, gente allegra... ma facce brutte, con atteggiamenti minacciosi, vestiti di scuro» - davanti alla scuola. Lui avrebbe voluto lasciar perdere, ormai il G8 era finito, «ma poi tutti quanti abbiamo deciso l´intervento: identificare gli aggressori e trovare armi
eventuali. Fare una perquisizione». Chi tra i super-poliziotti spinse per il blitz? Colucci fa alcuni nomi, poi ci ripensa, alla fine spiega che il prefetto La Barbera - che è morto - era d´accordo. «Io mi sentivo un po´ inadeguato», confessa quello che in quei giorni era il questore di Genova.

A suo tempo aveva detto che il capo della polizia, Gianni Di Gennaro, gli aveva detto di telefonare al capo dell´ufficio stampa, Roberto Sgalla: ieri ha detto che fu una sua iniziativa. Lui restò in questura, chi lo avvertì del ritrovamento delle molotov? Colucci fa almeno tre nomi, ma non ricorda. Ed è in difficoltà quando deve raccontare di quel poliziotto che gli disse di essere stato colpito dalla coltellata fantasma di un altrettanto fantasma Black Bloc: «Indossava un maglione di cotone... no... un giubbotto antiproiettile». Per non parlare di quando spontaneamente confessa di aver saputo di un equipaggio di una squadra mobile che era entrato per sbaglio nella scuola di fronte alla Diaz: ma dimentica di aver inviato a Di Gennaro una relazione in cui scriveva che quei poliziotti stavano facendo una «verifica».

«Io so solo che quella notte dovevamo fare qualche cosa, dovevamo reagire a quella cosa.
Eravamo un po´ pressati, eravamo condizionati. E decidemmo di intervenire».


 

Spese distruzione

Altri 25 milioni di euro per la guerra in Afghanistan. Quanto i tagli alla scuola fatti da Prodi

I carri 'Dardo' che verranno inviati in AfghanistanCirca 25 milioni di euro. La stessa cifra che il governo Prodi ha tagliato dai finanziamenti alla scuola pubblica per il corrente anno scolastico, ora li investe per finanziare i rinforzi al contingente militare italiano schierato in l’Afghanistan.

Il ministro della Difesa, Arturo Parisi, ha annunciato davanti alle commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato l’invio di otto carri armati ‘Dardo’, cinque elicotteri da attacco A-129 ‘Mangusta’, dieci blindati ‘Lince’ e 145 militari di equipaggio e supporto tecnico e logistico. Costo complessivo, calcolato solo fino a fine anno: 25,9 milioni di euro. “La relativa copertura finanziaria – ha spiegato Parisi – d’intesa con la Presidenza del Consiglio e con il ministero dell’Economia e delle Finanze verrà apprestata in sede di adozione del disegno di legge di assestamento del bilancio per l’anno 2007”. I soldi per l’istruzione non ci sono, ma per la guerra si trovano.

Nonostante l’incontestabile natura bellica dei mezzi militari in questione, Parisi ha rassicurato coloro che temono una deriva belligerante della “missione di pace” italiana. “Gli equipaggiamenti aggiuntivi – ha spiegato il ministro – non potrebbero consentire un genere di missione differente da quella già adottata dal nostro contingente in accordo con gli alleati della Nato. I nuovi mezzi permetteranno però di migliorare le capacità di esplorazione, la mobilità e la protezione, quindi la sicurezza attiva e passiva, delle nostre truppe”.
Chi si ostina a pensare che carri armati, elicotteri da attacco e blindati siano strumenti di guerra, si sbaglia. Parola di ministro.

 

Il Fronte Sem Terra
Marce, mobilitazioni, occupazioni delle terre, azioni di pressione contro Lula per chiedere la riforma agraria
 
 Marce, mobilitazioni, occupazioni delle terre, violenti attacchi della polizia, minacce di morte a sindacalisti e uccisioni di contadini: si racchiude in questa vorticosa sequenza di avvenimenti l' "Aprile rosso" ampiamente preannunciato nei mesi scorsi dai Sem terra e dalle organizzazioni popolari per chiedere ancora una volta quella riforma agraria che il Planalto non sembra intenzionato a concedere.
Sem TerraAprile rosso. Stavolta l'Aprile rosso si è svolto con modalità diverse rispetto alle mobilitazioni e alle rivendicazioni dei movimenti avvenute in questi ultimi anni. Le novità principali sono tre: la prima riguarda il bilancio di questo mese di lotte che il Movimento sem terra (Mst) farà in occasione del suo V° Congresso nazionale che si terrà in giugno; la seconda si riferisce alla nascita del Fronte parlamentare della terra nato su iniziativa di alcuni deputati e senatori; la terza prospetta una sorta di alleanza tra tutti i movimenti popolari cui parteciperanno anche i partiti sorti a sinistra di Inácio Lula in occasione delle recenti elezioni presidenziali.
A fare un bilancio, per la verità piuttosto impietoso, su come proceda l'assegnazione delle terre da parte del governo alle famiglie del Mst ci pensa Dom Tomás Balduino, vescovo emerito di Goias che ha passato una vita a lottare con i contadini brasiliani lavorando come consigliere della Commissione pastorale della terra. In un articolo pubblicato dal quotidiano italiano "il manifesto" il 17 aprile scorso, Balduino definisce il Brasile come "il paese dell'antiriforma agraria" sottolineando come nel corso del 2006 siano state insediate non più di 40 mila famiglie e che nel 2007 non è possibile aspettarsi alcun progresso significativo: "L'articolo 184 della Costituzione - scrive - prevede l'esproprio per interesse sociale, ai fini della riforma agraria, degli immobili rurali che non rispondano alla loro funzione sociale, mentre sfortunatamente assistiamo invece all'abbandono della terra da parte del potere esecutivo alla voracità delle privatizzazioni nazionali e estere".
Proprio per evitare questa deriva, oltre che per commemorare l'undicesimo anniversario della strage di Eldorado dos Carajas (per il cui massacro, seguente all'attacco immotivato della polizia a un corteo pacifico dei Senza terra occorso il 17 aprile 1996, non sta pagando ancora nessuno) il Mst ha lanciato l'Aprile rosso aprendo stavolta la sua protesta al coordinamento dei movimenti sociali di tutto il paese e raccogliendo anche l'appoggio del governatore di Bahia e di qualche prefetto. La sfida del Mst in vista dell'imminente congresso è rivolta al tentativo di costruire l'unità tra le organizzazioni sociali del paese, peraltro già messa in pratica nell'interessante esperimento denominato "Carta de Belém aos povos da Amazonia", redatto da Via campesina, piccoli agricoltori, contadini senza terra e associazioni ecologiste.

Lula annusa la bandieraAll'insegna dell'unità. Questo documento, stilato il 20 aprile durante un seminario intitolato "Contra o imperialismo e pela soberania popular na Amazonia", denuncia i problemi derivanti dall'agronegozio, dalla monocultura, dalla privatizzazione di fiumi e laghi che danneggiano gravemente la biodiversità, l'agricoltura e la vita dei popoli originari della regione, e ben si concilia con lo slogan che aprirà il V° Congresso: "Riforma agraria, per la giustizia sociale e la sovranità popolare". La riforma agraria, secono il Mst, costituisce la bandiera storica e permanente del movimento. "Giustizia sociale perché vogliamo attraverso la riforma agraria contribuire a un nuovo progetto sociale di sviluppo che elimini le disuguaglianze economiche, sociali e politiche esistenti. Sovranità popolare perché, in questa tappa dell'imperialismo, il nostro paese è attaccato come non mai dagli interessi del capitale internazionale. La sovranità nazionale non può essere difesa che dal popolo che prenda nelle sue mani il proprio destino e difenda il nostro territorio, le nostre ricchezze, la nostra agricoltura, la nostra biodiversità, la nostra acqua, la nostra cultura, la nostra lingua e i nostri alimenti".
Sebbene i Sem terra abbiano più volte chiarito che il Congresso sarà all'insegna dell'unità tra tutti i movimenti per potenziare le lotte sociali, come spiegato anche dal "Jornal Sem Terra", e non specificamente contro il governo Lula quanto invece contro l'agrobusiness, l'ex deputato José Dirceu (pesantemente coinvolto nel sistema di tangenti per comprare i voti dei partiti alleati al Pt, aveva rischiato di mandare all'aria la rielezione di Lula per l'enorme scandalo suscitato) ha definito la scelta di formare un coordinamento di movimenti sociali aperto anche ai partiti Pstu (Partido socialista dos trabalhadores unificado) e Psol (Partido socialismo e liberdade) come "un fatto molto preoccupante" al solo scopo di creare scissioni e divisioni all'interno della Coordenação dos movimentos sociais in via di formazione.In realtà l'apertura al Pstu e al Psol non è stata decisa perché si pongono alla sinistra di Lula, ma per aprire nuovi spazi di lotta politica e lo stesso Aprile rosso, chiarisce la rivista brasiliana "Carta Maior", proviene dalla volontà della sinistra brasiliana di "pensare  a nuove forme organizzative insieme ai senza tetto, agli indigeni, ai movimenti che si battono contro le dighe e a tutti coloro che vogliano creare un processo di trasformazione verso nuove prospettive". In definitiva si tratta di un'unione che nascerà non tanto per mettere in crisi il governo Lula in quanto tale, ma per contrastare la progressiva perdita dei diritti di contadini e lavoratori rispetto al grande capitale.

Sem terra in marciaFronte della terra. In questo senso la spinta e la pressione dell'Aprile rosso ha già ottenuto un primo risultato, cioè la creazione di un Fronte parlamentare della terra nel pieno della mobilitazione contadina. Costituito da 175 deputati e 12 senatori, il Fronte ha tre progetti prioritari, ben messi in rilievo dal Comitato italiano di appoggio ai Sem terra: la proposta di modifica costituzionale 438 del 2001 che permette l'espropriazione di aree con comprovata esistenza di lavoro schiavo; l'attualizzazione degli indici di produttività; la ripresa delle proposte della relazione del deputato João Alfredo (Psol), presentate alla Commissione pastorale missionaria indigena della terra.
Il Fronte parlamentare intende spingere il congresso sempre più nelle mani dei gruppi ruralisti e che considera le occupazioni alla stregua di atti terroristici ad affrontare le tematiche relative allo sviluppo sostenibile, all'agricoltura contadina e soprattutto alla revisione di quegli indici di produttività (si tratta di parametri utilizzati dall'Incra - Istituto nazionale per la riforma agraria - volti a stabilire se una terra è coltivata o meno e se può essere affidata ai Sem terra oppure no) che il presidente Lula ha da tempo promesso senza poi riuscire ad attuarla per via delle forti pressioni dei fazendeiros.
La prima uscita pubblica del Fronte parlamentare è stata il 3 maggio scorso quando si è costituito l'Alesp (Frente parlamentar pela reforma agraria na asembléia legislativa de São Paulo) ad opera di 19 deputati appartenenti in maggioranza al Pt e al Psol. Nato grazie all'impegno di Raul Marcelo (Psol) e Simão Pedro (Pt), l'Alesp intende incentivare e rafforzare l'agricoltura familiare a scapito dell'agronegozio e della monocoltura della canna da zucchero per evitare che il progressivo indebolimento dei piccoli agricoltori li costringa ad abbandonare le campagne finendo così per aumentare l'enorme numero di disoccupati già presenti nelle grandi metropoli urbane.
Se il coinvolgimento di un certo numero di parlamentari per la riforma agraria fa ben sperare, altrettanto positive sono le notizie rivelate dal sito Global Project  (http://www.globalproject.info/), che ci parlano dell'impegno del governatore petista di Bahia Jaques Wagner per "l'accelerazione del processo di riforma agraria e, per la fine dell'anno, per la costruzione di 3mila case, la sistemazione di 5mila abitazioni e la creazione di oltre 10mila allacci per l'energia elettrica grazie al programma Luce per tutti" con la promessa di "costruire circa mille chilometri di strade per raggiungere gli insediamenti, fornire assistenza tecnica agricola e stanziare 3 milioni di real per l'acquisto di sementi per le comunità".
Per un governatore che promette di farsi carico delle richieste dei movimenti ci sono però troppi casi di repressione e persecuzione contro i contadini senza terra: nel Rio Grande do Sul sono stati sparati proiettili di gomma contro di loro dalla Brigata militare dello stato, le occupazioni negli stati di Pernambuco, Paraiba e São Paulo hanno ricevuto la visita di poliziotti privati al soldo dei latifondisti, mentre la sindacalista Maria Ivete Bastos, nel Pará, ha ricevuto minacce di morte. Sempre nello stesso stato, il 2 maggio, un accampamento composto da 320 famiglie del Mst nel municipio di Iritula (a 140 chilometri da Belém) è stato aggredito da un gruppo di 50 pistoleiros  che hanno ucciso il contadino senza terra sessantenne Antonio Santos do Carmo.

Luis Inacio Lula da SilvaNessuno riposta. Ai tanti casi di intimidazione, uccisioni e impunità, il Mst ha deciso di rispondere con un'ampia campagna di sensibilizzazione basata su iniziative divulgative (ad esempio la pubblicazione del quaderno sui conflitti nelle campagne ad opera della Pastorale della terra in cui si denuncia la grande concentrazione della terra nelle mani di pochi), e su una catena impressionante di rivendicazioni e marce: grandi cortei sono sorti a Itapetininga (Stato di San Paolo), ove alcune centinaia di famiglie si sono stabilite nei territori dell'impresa Suzano carta e cellulosa; in Pernambuco è stata occupata l'azienda Xixaim, e ancora nel Rio Grande del Sud, appoggiati da alcuni sindaci, i contadini hanno chiesto l'esproprio di una fazenda; in Minais Gerais, nonostante le minacce di sgombero da parte della polizia, il Mst ha deciso di non abbandonare i latifondi dove si è insediato, mentre a fine aprile ha difeso la Comuna da terra Che Guevara (nella regione del Grande São Paulo) occupata alcune settimane prima e che ha ricevuto l'ordine di essere sgomberata nonostante la presenza nell'accampamento di oltre 100 famiglie.
Iniziative di questo genere si sono svolte pressoché in tutto il Brasile, ma una risposta del governo che faccia registrare dei cambiamenti profondi in termini di politica agraria, economica e  ambientale sembra ben lontana da arrivare: soltanto dopo il congresso del Mst si capirà quali ulteriori prese di posizione saranno adottate in una battaglia che si annuncia sempre più dura tra due visioni del mondo così differenti.

 

15 maggio

Riflessioni pre "Family Day"

Lettera di Travaglio a Ruini

Eminenza reverendissima cardinale Camillo Ruini,

mi rivolgo a lei anche se la so da poco in pensione, anziché al suo successore card. Bagnasco, perché lei è un po’ l’Andreotti del Vaticano: ha accompagnato la vita politica e religiosa del nostro paese per molti decenni. Come lei ben sa, non c’è paese d’Europa che abbia avuto tanti capi del governo cattolici come l’Italia. Su 60 governi in 60 anni, 51 avevano come premier un cattolico e solo 9 un laico: 2 volte Spadolini, 2 Craxi, 2 Amato, 2 D’Alema, 1 Ciampi, che peraltro si dichiara cattolico. In 60 anni l’Italia è stata governata per 52 anni da un cattolico e per 8 da un laico. Se la DC e i suoi numerosi eredi avessero fatto per la famiglia tutto ciò che avevano promesso, oggi le famiglie italiane dormirebbero tra due guanciali. Sa invece qual è il risultato? Che l’Italia investe nella spesa sociale il 26,4% del Pil, 5 punti in meno che nel resto d’Europa a 15, quella infestata di massoni, mangiapreti, satanisti e -per dirla con Tremaglia- culattoni. Se poi andiamo a vedere quanti fondi vanno alle famiglie e all’infanzia nei paesi che non hanno avuto la fortuna di avere in casa Dc e Vaticano, scopriamo altri dati interessanti. L’Italia è penultima in Europa col 3,8% della spesa sociale alle famiglie, contro il 7,7% dell’Europa, il 10,2% della Germania, il 14,3% dell’Irlanda. Noi diamo alla famiglia l’1,1% del Pil: meno della metà della media europea (2,4). Sarà un caso, ma noi siamo in coda in Europa per tasso di natalità: la Francia ha il record con 2 figli per donna, la media europea è 1,5, quella italiana 1,3. E il resto d’Europa ha i Pacs, noi no: pare che riconoscere i diritti alle coppie di fatto non impedisca le politiche per la famiglia, anzi. Lei che ne dice?
Lei sa, poi, che per sposarsi e fare figli, una coppia ha bisogno di un lavoro stabile. Sa quanto spendiamo per aiutare i disoccupati? Il 2% della spesa sociale, ultimi in Europa. La media Ue è il 6%. La Spagna del terribile Zapatero spende il 12,5. I disoccupati che ricevono un sussidio in Italia sono il 17%, contro il 71 della Francia, l’80 della Germania, l’84 dell’Austria, il 92 del Belgio, il 93 dell’Irlanda, il 95 dell’Olanda, il 100% del Regno Unito. E per i giovani è ancora peggio: sotto 25 anni, da noi, riceve il sussidio solo lo 0,65%; in Francia il 43, in Belgio il 51, in Danimarca il 53, nel Regno Unito il 57. Poi c’è la casa. Anche lì siamo penultimi: solo lo 0,06% della spesa sociale va in politiche abitative (la media Ue è il 2%, il Regno Unito è al 5,5). Se in Italia i figli stanno meglio che nel resto del mondo, anche perché sono pochissimi, per i servizi alle madri siamo solo al 19° posto.
Forse, Eminenza, visto il rendimento dei politici cattolici o sedicenti tali, avete sempre puntato sui cavalli sbagliati. O forse, se aveste dedicato un decimo delle energie spese per combattere i Dico e i gay a raccomandare qualche misura concreta per la famiglia, non saremmo i fanalini di coda dell’Europa: perché i nostri politici le promesse fatte agli elettori non le mantengono, ma quelle a voi le mantengono eccome. Sono proprio sacre.
Ora speriamo che il Family Day faccia il miracolo. A questo proposito, vorrei mettere una buona parola per evitare inutili imbarazzi. Come lei sa, hanno aderito all’iniziativa moltissimi politici così affezionati alla famiglia da averne due o tre a testa. Come Berlusconi, che ha avuto due mogli, senza contare le giovani e avvenenti attiviste di Forza Italia con cui prepara il Family Day nel parco di villa Certosa. Le cito qualche altro esempio da un bell’articolo di Barbara Romano su Libero. Vediamo la Lega, che fa fuoco e fiamme per la sacra famiglia. Bossi 2 mogli. Calderoli 2 mogli (la seconda sposata con rito celtico) e una compagna. Castelli, una moglie in chiesa e l’altra davanti al druido. Poi c’è l’Udc, l’Unione democratico cristiana, dunque piena di separati e divorziati. Divorziato Casini, che ha avuto due figlie dalla prima moglie e ora vive con Azzurra. Divorziati l’ex segretario Follini e il vicecapogruppo Giuseppe Drago, mentre la vicesegretaria Erminia Mazzoni sta con un divorziato. D’Onofrio ha avuto l’annullamento dalla Sacra Rota. Anche An è ferocissima contro i Dico. Fini ha sposato una divorziata. L’on. Enzo Raisi ha detto:“Io vivo un pacs”. Altro “pacs” inconfessato è quello tra Alessio Butti e la sua compagna Giovanna. Poi i due capigruppo: alla Camera, Ignazio La Russa, avvocato divorzista e divorziato, convive; al Senato, Altero Matteoli, è divorziato e risposato con l’ex assistente. Adolfo Urso è separato. L’unico big in regola è Alemanno:si era separato dalla moglie Isabella Rauti, ma poi son tornati insieme. Divorziati gli ex ministri Baldassarri (risposato) e Martinat (convivente). La Santanchè ha avuto le prime nozze annullate dalla Sacra Rota, poi ha convissuto a lungo. E Forza Italia? A parte il focoso Cavaliere, sono divorziati il capogruppo alla Camera Elio Vito e il vicecapogruppo Antonio Leone. L’altro vice, Paolo Romani, è già al secondo matrimonio: «e non è finita qui», minaccia. Gaetano Pecorella ha alle spalle una moglie e “diverse convivenze”. Divorziati anche Previti, Adornato, Vegas, Boniver. Libero cita tra gli irregolari persino Elisabetta Gardini, grande amica di Luxuria, che ha un figlio e (dice Libero) convive con un regista. Frattini, separato e convivente, è in pieno Pacs. Risposàti pure Malan, D’Alì e Gabriella Carlucci, mentre la Prestigiacomo ha sposato un divorziato. E al Family day ci sarà pure la Moratti col marito Gianmarco, pure lui divorziato.
Ecco, Eminenza, personalmente sono convinto che ciascuno a casa sua sia libero di fare ciò che vuole. Ma è difficile accettare l’idea che questi signori, solo perché siedono in Parlamento, abbiano dal ‘93 l’assistenza sanitaria per i conviventi more uxorio e vogliano negarla a chi sta fuori. E che lei Eminenza non abbia mai tuonato contro i Pacs parlamentari. Ora però non vorrei che qualche Onorevole Pacs disertasse il Family Day per paura di beccarsi una scomunica. Perciò mi appello a lei: se volesse concedere una speciale dispensa almeno per sabato, ne toglierebbe d’ imbarazzo parecchi. Potrebbe pure autorizzarli a sfilare ciascuno con tutte le sue famiglie, magari entro e non oltre il numero di 3. Per far numero. Ne guadagnerebbe la partecipazione. Si potrebbe ribattezzare l’iniziativa Multifamily Day.

Marco Travaglio

Lettera pervenuta a Ultimissime

 

Riflessioni post "Family Day"

Se chiesa e destra vanno in piazza insieme

di EDMONDO BERSELLI

MAI la Chiesa, negli ultimi vent'anni, era stata così vicina alla politica, così influente, così ingombrante. Affiancata dai partiti di destra, e con il centrosinistra scompaginato dal conflitto interno, non dichiarato e non elaborato, sulla laicità. Se le cose stanno così, se questa diagnosi è realistica, sabato scorso in Piazza San Giovanni è avvenuto un disastro politico e civile. E allora vale la pena di guardarlo in profondità, senza complessi. La prima e fondamentale conseguenza del Family Day è evidente: si è saldato un fronte tra ampi settori del mondo cattolico e la destra italiana.

E ciò è avvenuto in un modo e con un'intensità tali da sorprendere gli stessi vertici ecclesiastici, la segreteria di Stato vaticana, la Conferenza episcopale. Alla Chiesa post-wojtyliana era ovviamente utile una dimostrazione di forza, anche per esibire uno di quegli spettacoli di mobilitazione che senza il carisma di Giovanni Paolo II risultano difficili da riprodurre oggi sulla scena pubblica. Ma è tutto da provare che per la gerarchia cattolica fosse davvero conveniente quella spettacolare fusione di morale e politica, di alto magistero e di bassi interessi di bottega, che se da un lato ha esibito l'adesione popolare ai temi della famiglia, dall'altro ha permesso il sequestro politico di piazza San Giovanni da parte dei leader del centrodestra.

La presenza di Silvio Berlusconi, Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini rappresentava con chiarezza qual era una finalità possibile del Family Day, almeno nelle intenzioni dei suoi sponsor politici più spregiudicati: e cioè mettere in rilievo che l'appello per una "politica per la famiglia" rappresentava invece l'opportunità per una polemica caldissima contro il riconoscimento legale delle unioni civili. Ossia per dividere in due, con volontà esplicita, l'opinione pubblica: in modo da poter attestare che da una parte, a destra, ci sono i buoni cattolici, e dall'altra, a sinistra, c'è una consorteria di avversari, di "laicisti", di personalità insensibili alle grandi verità religiose.

In quella compagine ostile alla Chiesa e ai suoi fondamenti, guidata dal Prodi "rovinafamiglie" immortalato sulle magliette, i cattolici del centrosinistra si trovano in difficoltà. Secondo l'intonazione psicologica della piazza anti-Dico, il mondo cattolico non è rappresentato da Clemente Mastella o da Francesco Rutelli, e meno che mai da Rosy Bindi; costoro non rappresentano nessuno e non sono neppure la foglia di fico sulle vergogne laiciste del centrosinistra: ne è una riprova a contrario l'accoglienza entusiastica riservata a Silvio Berlusconi, a testimonianza che c'è stata una fusione politica, di popolo, fra le posizioni cattoliche più intransigenti e la scelta per il centrodestra.

Matrimonio d'interesse e d'amore. Sicché è superfluo sottolineare che il raid di Silvio Berlusconi durante il Family day è stato un gesto politicamente impegnativo, anche a prescindere dalla violenza delle sue parole, quelle frasi provocatorie secondo cui non è possibile essere contemporaneamente fedeli cattolici e di sinistra. Berlusconi ha realizzato uno dei suoi blitzkrieg, e ha tentato di mettersi in tasca in un colpo solo l'ideologia della famiglia, il movimento ecclesiale, i sostenitori del matrimonio, gli oppositori del divorzio e dell'aborto, i contestatori della procreazione assistita, dei Dico e delle unioni omosessuali.

Ebbene, sarebbe il caso di capire come la pensa la Chiesa, al suo vertice, dell'appropriazione indebita delle istanze cattoliche e delle masse dei fedeli convenute a Roma per sostenerle. Riesce incongruo infatti credere che la gerarchia giudichi utile, cioè politicamente conveniente, e spiritualmente convincente, il cinismo opportunista con cui Berlusconi e i suoi alleati hanno confiscato la comunità ecclesiale (almeno quella parte che interpreta l'appartenenza al cattolicesimo con uno spirito di rivalsa, di rivincita, di spagnolesca "reconquista"). Vale a dire sulla base di un'idea di divisione, senza nascondere una chiara inimicizia contro quella parte di società, di politica e di cattolicesimo che la pensa diversamente.

Va da sé che la Chiesa non possa accettare di essere sequestrata in vista dell'utilità politica di una parte. E quindi non è del tutto irrealistico attendersi qualche presa di distanza, fosse anche soltanto una sottigliezza per smarcarsi. Questo perché monsignor Angelo Bagnasco deve ancora guadagnarsi la titolarità della sua azione come presidente della Cei, uscendo dalla definizione ristretta di successore di Ruini. E il segretario di Stato, Tarcisio Bertone, deve curare anche le diplomazie con il governo attuale e con i ministri cattolici che ne fanno parte. E va rilevato nel frattempo che Bagnasco ha taciuto sostanzialmente sul Family Day: ciò è un sintomo di quanto sia arduo rinnovare in modo originale la linea dell'episcopato, ma anche un indizio della sua prudenza.

Tuttavia il punto cruciale è evidente di per sé: comunque si sia verificata, non si è mai vista, in tempi di bipolarismo, una collocazione così netta ed esclusiva della Chiesa a fianco di una parte politica. Al di là dei riverberi più evidentemente confessionali, si prospetterebbe una conseguenza politica di estremo rilievo, cioè un attrito vistoso con l'intera evoluzione del sistema politico: la formula bipolare infatti doveva consentire la libera collocazione politica dell'elettorato cattolico.

Viceversa, una variante estremistica come quella prospettata sabato da Berlusconi, i cattolici di qua e i miscredenti di là, assomiglia più a un'eresia manichea che a un criterio di ragionevolezza politica. Altro che suggestioni neoguelfe: qui è potenzialmente in gioco la "cattura" della Chiesa da parte di uno dei giocatori politici. E dunque, se il mercante sequestra il tempio, sarebbe interesse della comunità ecclesiastica che emergessero voci e figure indisponibili a schiacciarsi su una soluzione politica confessionale, con le ripercussioni politiche che si possono immaginare. Di tutto infatti avrà bisogno la Chiesa, ma non di una guerra di religione. E neppure di diffidenze e ostilità speculari sul piano del governo e delle istituzioni.

Tanto più che sullo sfondo del Family day (e delle contrapposizioni tra Vaticano e sinistra, dal referendum sulla fecondazione assistita ai Dico), sono entrati in gioco principi basilari in materia di laicità dello Stato, suscettibili di favorire contrasti pesanti dentro il centrosinistra. Per ora nell'Unione il conflitto non è esploso, ma non c'è dubbio che sulla piazza del Family Day si sono compiuti sacrifici politici pesanti: si è sacrificata in primo luogo una parte della presenza e credibilità pubblica dei Ds.

Il silenzio dei Ds è una scelta obbligata, dettata dall'impossibilità di parlare, perché parlare equivarrebbe a innescare la contrapposizione con il proprio alleato, la Margherita, proprio mentre si sta avviando il processo che conduce alla nascita del Partito democratico. Ma la rinuncia effettiva a qualificare la propria presenza nel Pd, da parte diessina, è già di per sé un'abdicazione; e anzi l'effetto della distorsione prodotta dalla politicizzazione della religione, dall'abbandono di un criterio comune di laicità.

Il Family Day, insomma, ha avuto conseguenze sui due lati della struttura politica italiano: ha reso asimmetrici gli schieramenti, ha squilibrato il bipolarismo, dà un'inflessione clericale al giudizio sull'azione di governo.

Sarà il caso che tutto il centrosinistra, da Romano Prodi in giù, valuti con attenzione queste ripercussioni e le risposte possibili. Ma anche da parte ecclesiastica dovrebbe esserci la percezione che il nuovo integralismo, la comunanza indistricabile e "simoniaca" fra destra e Chiesa, è una distorsione del meccanismo democratico, e potenzialmente una perdita grave in termini di ricchezza e libertà della convivenza civile.

 

Filippine, sangue sul voto

Il paese alla urne. Almeno cento morti in quattro mesi di campagna elettorale

Più di cento morti e quasi trecento feriti in quattro mesi: è il tragico bilancio della campagna elettorale nelle Filippine. Il paese oggi va alle urne per rinnovare la Camera dei Rappresentanti e metà dei seggi del Senato, nonché per eleggere più di 17 mila funzionari amministrativi a livello nazionale e locale. Dall'inizio dell'anno, secondo le cifre diffuse dalla polizia, sono stati uccisi 52 fra candidati e politici, 36 loro sostenitori, e undici civili che si sono trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato. Che le campagne elettorali finiscano nel sangue non è cosa nuova nell'arcipelago delle Filippine: nell'ondata di violenza e omicidi politici che aveva preceduto le presidenziali del 2004 erano morte almeno 189 persone. I candidati assoldano milizie private per proteggersi e per intimidire gli avversari, la tensione viene esasperata dalle reciproche accuse di brogli. E l'infinita disponibilità di armi – perlopiù provenienti dal mercato nero, quindi vendute e comprate senza nessun controllo - non fa che aumentare le violenze.

Gli oppositori del governo della presidente Arroyo hanno già iniziato a denunciare i tentativi di manipolazione del voto. Ma accuse del genere piovono anche dagli ambienti che al governo dovrebbero essere più favorevoli: un gruppo di generali dell'esercito in pensione, ad esempio, si è riunito sotto il nome di Bantay Boto, letteralmente 'le guardie del voto', per denunciare che alcuni ufficiali dell'esercito – proprio quelli che sono stati incaricati da Gloria Arroyo di vigilare sulla sicurezza e la trasparenza della campagna - starebbero lavorando sottobanco insieme ai funzionari elettorali per falsarne l'esito. Il broglio, accusano i Bantay Boto, potrebbe investire sedici province, con quattordici milioni di voti che potrebbero essere dirottati a favore dei candidati alleati della presidente Arroyo.

Intanto non si fermano gli scontri e le violenze sui tre fronti interni che il governo di Manila, ormai da decenni, combatte con scarsi risultati. Martedì scorso a Mindanao, nel sud musulmano, un'esplosione in un mercato – per cui il governo ha subito accusato i fondamentalisti islamici – ha ucciso otto civili. Mentre a Jolo i gruppi musulmani festeggiano la decisione di un tribunale di Manila, che ha concesso a Nur Misuari, leader del Fronte Moro di Liberazione Nazionale (Mnlf), di candidarsi alla carica di governatore, nonostante sia da anni agli arresti domiciliari. Dal 1971 a oggi, il conflitto indipendentista islamico nel sud del paese ha causato la morte di almeno 150 mila persone. Nell'isola di Mindoro, invece, giovedì mattina i combattenti comunisti del Nuovo Esercito Popolare (Npa) hanno ucciso cinque poliziotti filippini facendo detonare una mina al passaggio del loro convoglio. Contro l'Npa, attivo nell'arcipelago da trentotto anni, la presidente Arroyo e il suo esercito usano il pugno di ferro: bombardamenti, sparatorie sui civili, assedii di stampo medievale per stanare i guerriglieri, per cui non sono mancate le critiche delle organizzazioni per il rispetto dei diritti umani.

L'ultimo episodio che ha sconvolto la popolazione ha avuto come protagonista una bambina: Grecil Buya, nove anni, uccisa il 31 marzo scorso dall'esercito filippino durante uno scontro a fuoco con gli uomini dell'Npa. La rabbia della popolazione era esplosa quando i comandanti dell'esercito di Manila avevano liquidato la morte di Grecil in modo molto semplice: era un bambino soldato, sparare era legittimo. Alla fine di aprile, l'ammissione: non era un soldato, era solo una bambina, ed è stato un “tragico incidente”. Come aveva notato un giornalista filippino, non poteva essere un soldato: era alta quanto il fucile.

Cecilia Strada

 

11 maggio

 

Irlanda, la sofferta scelta di Miss 'D'

Incinta di un bambino gravemente malato, fa ricorso contro il divieto di abortire e riaccende un annoso dibattito

Un caso di coscienza. Una ragazza irlandese di 17 anni ha fatto appello all'Alta Corte di Dublino contro il divieto di recarsi in Gran Bretagna per abortire. La ragazza, proveniente dalla contea di Leinster, è incinta di 4 mesi di un bambino affetto da anencefalia e pertanto condannato a morire entro una settimana dall'eventuale parto. La vicenda riaccende il dibattito sull'aborto in un Paese che, insieme a Polonia, Portogallo e Malta, considera perseguibile penalmente chi decide volontariamente di porre fine alla gravidanza. Dal 1861, infatti, il governo irlandese nega alle donne il diritto di scelta, permettendo loro di abortire solo in caso di incesto, violenza sessuale o rischio per la loro vita.

Libertà di scelta. 'Miss D', come è stata chiamata la ragazza, ha saputo delle condizioni del feto solo un mese fa. La diagnosi, oltre ad averla sconvolta, l'ha posta brutalmente di fronte a una scelta: portare comunque a termine la gravidanza, o interromperla. Miss D ha deciso che sarebbe stato inutile e penoso far nascere il proprio bambino per vederlo morire qualche giorno dopo. Così, ha fatto domanda al Servizio sanitario nazionale (Hse), che la sta assistendo, per potersi recare in Gran Bretagna ad abortire. L'autorità sanitaria irlandese ha chiesto alla polizia di emettere un divieto di espatrio, ma l'avvocato della ragazza, Eoghan Fitzsimons, ha dichiarato che tale proibizione sarebbe stata nulla senza una sentenza da parte del tribunale. Così ha fatto appello all'Alta Corte, massimo organo giuridico irlandese. Oltre a ricorrere contro l'interdizione all'espatrio, il legale della ragazza ha denunciato l'interferenza da parte dello Stato nei confronti dei diritti, sanciti dalla Costituzione, all'autonomia personale, all'integrità del proprio corpo e alla sfera privata.

Referendum. Nonostante negli ultimi anni la legislazione sull'aborto sia stata resa meno rigida, e in alcune circostanze le donne abbiano potuto recarsi all'estero per l'operazione, il Primo ministro irlandese Bertie Ahern ha dichiarato che nessun progetto di legge è stato elaborato per modificare la legislazione, anche in un caso così delicato come quello di 'Miss D'. Dal 1980 al 2002, oltre 100 mila donne hanno deciso di porre termine alla loro gravidanza nel Regno Unito. Ciò è consentito solo se la gravidanza pone un 'serio e sostanziale rischio per la vita della donna. Secondo l'Information Act del 1995, informazioni sulle cliniche che praticano l'aborto in Gran Bretagna sono accessibili solo tramite un colloquio nei centri di consulenza. Nel 1983 è stato indetto un referendum per emendare la Costituzione introducendo un nuovo articolo, chiamato l'emendamento 'pro-vita', che riconosce al feto gli stessi diritti della donna incinta. Nel 2002, un analogo referendum ha visto nuovamente la vittoria degli anti-abortisti, con un margine di poco meno di un punto percentuale. Nel settembre 2005, un sondaggio commissionato dall'Irish Examiner si è rivelato soprendente: in Irlanda, solo il 36 per cento della popolazione è favorevole alla legalizzazione dell'aborto, contro il 37 per cento degli antiabortisti.

 

Nigeria, nulla è cambiato. Il governo richiami l'Eni

In Nigeria c'è una guerra e come sempre a pagarne il prezzo è la società civile. Per appropriarsi delle immense risorse energetiche del paese più popoloso d'Africa le multinazionali portano avanti un sistematico sterminio degli ecosistemi del Delta del Niger, fanno accordi o sostengono direttamente governi militari o assolutamente corrotti e tengono in ostaggio la possibilità di sviluppo dei 20 milioni di esseri umani che abitano le zone ricche di petrolio e gas. Interi popoli che vivono con meno di due dollari al giorno e che non hanno mai né visto né conosciuto i vantaggi dello «sviluppo», pur essendo da sempre «proprietari» di immense fortune destinate ad «emigrare» sui conti correnti delle grandi transnazionali, ma che sicuramente ne pagano il prezzo.
Anche l'Italia fa la sua parte, ma in negativo. Attraverso la sua impresa di stato, saccheggia e inquina la Nigeria, continuando a portare avanti pratiche illegali come quella del «gas flaring», contribuendo a far diventare il paese africano il primo inquinatore al mondo per Co2 da «gas flaring». E tutto ciò avviene proprio mentre qui in Europa si discute dell'urgenza di intervenire per frenare i cambiamenti climatici, di rispetto dei diritti umani e di cooperazione con i paesi del sud del mondo. Un controsenso e un'ipocrisia aggravata dal fatto che l'Eni è ancora (e per fortuna) una compagnia controllata dallo stato e quindi dal nostro governo, che da un lato dice di voler cambiare la sua politica energetica, estera e ambientale e dall'altro non riesce nemmeno a impedire che la sua più importante azienda porti avanti una politica che è l'esatto opposto delle parole «pace e cooperazione».
Ormai da tempo in Italia la società civile ha maturato una coscienza e realizzato un'analisi sui temi della pace, dei diritti umani, dello sviluppo sostenibile, della difesa dei beni comuni e della cooperazione tra i popoli. Da anni le associazioni, i sindacati, i movimenti e molti media indipendenti denunciano le gravi responsabilità dell'Eni su questi temi e i suoi comportamenti scorretti o incompatibili con la difesa dei valori di pace e rispetto della sovranità dei popoli, che tutti dovremmo condividere e che rappresentano l'essenza stessa della nostra Costituzione.
Nello scorso febbraio l'Osservatorio Eni, che raggruppa proprio la rete di associazioni, sindacati e comitati costituitasi in Italia, ha incontrato i capigruppo alla Camera di Rifondazione Comunista e dei Verdi, il ministro dell'Ambiente e il presidente della Camera, durante le concitate fasi del rapimento dei dipendenti italiani dell'Eni in Nigeria. Sapevamo bene, allora come adesso, che non sarebbe bastato impegnarci per riportare a casa i nostri connazionali ma che ci sarebbe servito uno sforzo più grande per risolvere la situazione. Non si può pensare di salvare la vita ai nostri connazionali e nello stesso tempo non far nulla per decine di milioni di persone verso le quali siamo responsabili per le violazioni e lo sfruttamento irresponsabile compiuto dalla nostra azienda e alle quali dobbiamo delle risposte. Liberare gli ostaggi, disinquinare il Delta del Niger: era l'appello rivolto alla politica istituzionale per capovolgere un'impostazione ancora colonialista nell'affrontare le relazioni con i paesi del sud del mondo e in particolar modo verso l'Africa.
Tutti i politici che hanno voluto incontrarci si sono impegnati, a parole, ad agire affinché l'Eni cambi la propria politica ambientale, energetica e di rispetto dei diritti umani nella regione del Delta del Niger. A oggi ancora nulla è cambiato.
Il primo obiettivo, riportare a casa gli italiani rapiti, è stato raggiunto con l'impegno di tutti quando il 14 marzo i guerriglieri del Mend hanno rilasciato gli ultimi due ostaggi trattenuti, Cosma Russo e Francesco Arena, facendo tirare un sospiro di sollievo a tutti noi. Lo stesso portavoce del Mend aveva sottolineato che sul rilascio pesava soprattutto il lavoro positivo delle associazioni italiane e africane che finalmente avevano fatto luce e detto la verità sulla situazione nella quale vivono venti milioni di nigeriani e sulle responsabilità enormi dell'Eni.
Dopo la liberazione dei nostri concittadini, purtroppo, nulla è stato fatto e nulla sembra essere mutato. La regione del Delta del Niger rimane una delle zone più inquinate del pianeta e le condizioni in cui vivono le popolazioni locali sono subumane: senza acqua potabile, fognature, luce elettrica e con un reddito medio di 1-2 dollari al giorno, mentre le multinazionali del petrolio, tra le quali l'Eni, estraggono 2,5 milioni di barili di greggio al giorno dagli stessi territori in cui è a rischio la sopravvivenza di milioni di persone.
Oggi ci troviamo di nuovo a discutere della vita di altri italiani sequestrati in Nigeria alcuni giorni fa proprio a causa della sciagurata politica portata avanti dalle multinazionali petrolifere, che continuano a trattare l'ambiente e decine di milioni di persone come un mero ostacolo ai loro bisogni di profitto. Per questo non possiamo più accettare che il governo italiano si interessi dei quattro italiani disinteressandosi allo stesso tempo del debito storico ed ecologico contratto con la Nigeria attraverso le attività che le imprese italiane hanno portato e continuano a portare avanti sul Delta del Niger e non solo.
Chiediamo ancora una volta che il governo, in quanto azionista di controllo, richiami l'Eni a un comportamento ecologicamente responsabile e al rispetto dei diritti umani e dei trattati internazionali.
Chiediamo l'istituzione di una commissione aperta a esperti scelti dalla società civile che verifichi la situazione, il comportamento dell'Eni e i livelli d'inquinamento del Delta del Niger, che sta mettendo a rischio la vita di intere popolazioni che vivono nell'area.
Speriamo almeno su queste elementari questioni di democrazia e rispetto delle regole, di ricevere dalla politica un rapido riscontro. Se la politica non è in grado di darci risposte e ascoltare le esigenze di milioni di cittadini, a partire da coloro che partono da una situazione di svantaggio, smette di essere uno strumento di governo del popolo e per il popolo, e diventa una élite tesa solo alla sua autoriproduzione, esattamente come i cda delle multinazionali.

Alex Zanotelli, Giuseppe De Marzo (A Sud), Vincenzo Miliucci (Cobas), Fulvio Vescia (RdB Energia), Alessandro Marescotti (Peacelink), Franco Ottaviano (Casa delle Culture), Antonio Tricarico (Crbm), Marco Bersani (Attac Italia), Fabio Alberti (Un ponte per...), Beatrice Bardelli (Comitato contro il Rigassificatore Offshore Livorno-Pisa), Claudio Avvisati, Stefano Fossati, Edo Dominici (delegati Cgil Rsu Eni)

 

Morti di Portopalo, una strage impunita

Assolto l'armatore della nave Iohan, che nel '96 speronò una piccola imbarcazione con a bordo più di 300 persone. Ne morirono 283. Accusato di omicidio volontario, per la Corte «non ha commesso il fatto»

Assolto «per non aver commesso il fatto». Si conclude così, dopo undici anni, il processo presso la corte d'assise di Siracusa contro Turab Ahmed Sheik, l'armatore della nave Iohan. Rimane dunque - almeno per ora - senza colpevoli il cosiddetto «naufragio di Natale», la più grande strage della migrazione illegale, in cui morirono 283 persone. Cingalesi, indiani, pakistani, tutti giovanissimi, che da mesi viaggiavano con la speranza di poter raggiungere l'Italia. Era la notte della vigilia di Natale del 1996. Al largo della costa di Portopalo si inabissò la piccola imbarcazione (la F-147) su cui erano state fatte calare più di trecento persone nonostante le cattive condizioni metereologiche. La Iohan, guidata dal libanese Youssuf El Hallal, entrò in collissione con la barca almeno due volte: la prima, poco dopo il trasbordo. La seconda, quandò tornò indietro. Per aiutare i giovani asiatici - visto che la F-147 stava imbarcando acqua - o per speronarla come sostengono alcuni testimoni?
Tourab era accusato di concorso in omicidio volontario plurimo. Dello stesso reato è accusato El Hallal, attualmente sotto processo a Catania. Quello di ieri era lo scoglio più difficile della vicenda giudiziaria. Per un motivo: Tourab, che vive a Malta e che dopo la strage ha continuato a trafficare migranti, ha sempre sostenuto di essere rimasto a terra quella notte. Gli avvocati dell'accusa hanno cercato in tutti i modi di provare che, invece, Tourab era presente, basandosi su alcune testimonianze. Hanno, inoltre, cercato di sostenere che organizzare il traffico implica una responsabilità. Tutte cose che, però, non hanno convinto la corte, presieduta dal giudice Romualdo Benanti.
Nonostante l'amarezza, i legali cercano di mettere in luce il lato positivo. Osserva l'avvocato Paolo Reale: «Leggeremo le motivazioni, ma intanto la formula scelta dalla Corte non è "il fatto non sussiste", bensì "non ha commesso il fatto"». Ovvero, un filo di speranza per la condanna del comandante El Hallal (pare rientrato in Libano dopo che la Francia non concesse l'estradizione). Se «sussiste il fatto», certamente quella notte il comandante c'era e ha preso tutte le decisioni del caso. Esprime «profonda amarezza» anche l'altro difensore, l'avvocata romana Simonetta Crisci. La delusione, d'altronde, viene da lontano, visto che l'assoluzione di Tourab si deve innanzitutto a una cosa: «Le lacune della nostra legislazione», sottolinea Reale. Inizialmente, infatti, l'armatore era imputato anche per altri reati, come il traffico internazionale di clandestini. Tutti decaduti quando venne ritrovato il relitto della nave, fuori dalle acque nazionali. «E non essendo avvenuto il traffico in acque nazionali, paradossalmente non può essere perseguito. Come se una persona trafficata lo fosse soltanto quando fa ingresso nel nostro paese. Assurdo. Dobbiamo rinnovare la nostra legislazione», denuncia Reale. Si dice «soddisfatto», invece, l'avvocato di Toruab, Giuseppe Cristiano: «Il processo non si conclude con un giudizio politico o etico, la sentenza esprime un giudizio sul piano strettamente giuridico e, vista da questo punto di vista, ritengo che si tratti di una sentenza corretta».
Parlano di «assoluzione vergognosa», invece, le associazioni che in tutti questi anni hanno seguito il caso e chiedono giustizia anche per le famiglie di vittime e sopravvissuti, che non hanno mai ricevuto alcun risarcimento. Senza confine, Arci, Attac, Rete Antirazzista siciliana, Unione dei lavoratori pakistani in Italia, ora sono preoccupati. Non soltanto per l'assoluzione di Tourab. Ma perché sembra che stia naufragando anche la possibilità di recuperare in tempi brevi il relitto dell'imbarcazione affondata. Impegno che aveva preso in prima persona il presidente del consiglio Romano Prodi. Un recente sopralluogo della Protezione civile, infatti, avrebbe rilevato che la F-147 è seppellita da decine e decine di reti di pescatori: il recupero è difficile. Inoltre, dovrà probabilmente essere bandita una gara d'appalto. «In pratica tempi lunghissimi - denuncia Alfonso di Stefano della Rete antirazzista - ma il recupero del relitto è fondamentale per studiare come l'imbarcazione è stata speronata, e verificare ciò che sostengono numerosi testimoni: e cioè che la Iohan speronò volontariamente l'imbarcazione carica di persone».

 

Cessate il fuoco

Questa settimana, in tutti i paesi ancora in guerra, sono morte almeno 934 persone

Iraq
Questa settimana sono morte almeno 684 persone (503 civili, 25 soldati Usa, un britannico, 102 poliziotti iracheni e almeno 53 miliziani).
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 11.974.

Afghanistan
Questa settimana sono morte almeno 83 persone (43 civili, 18 talebani o presunti tali, 15 militari afgani e 7 soldati della Nato).
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 1.718 (404 civili, 988 talebani o presunti tali, 268 militari afgani, 58 soldati della Nato).

Israele - Palestina
Questa settimana è morta almeno una persona.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 121.

Cecenia (Russia)
Questa settimana sono morte almeno 14 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 316.

Colombia
Questa settimana sono morte almeno 9 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 130.

Thailandia del Sud
Questa settimana sono morte almeno 24 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 175.

Filippine-Mindanao
Questa settimana sono morte almeno 13 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 148.

Filippine-Npa
Questa settimana sono morte almeno 2 persone.
Almeno 75 morti dall’inizio dell’anno.

Sri Lanka
Questa settimana sono morte almeno 46 perone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 1.091.

India Nordest
Questa settimana sono morte almeno 12 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 384.

India Naxaliti
Questa settimana sono morte almeno 4 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 206.

India Kashmir
Questa settimana sono morte almeno 13 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 243.

Pakistan Aree Tribali
Questa settimana sono morte almeno una persona.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 704.

Kenya
Questa settimana sono morte almeno 10 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 177.

Somalia
Questa settimana sono morte almeno 4 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 171.

Nigeria
Questa settimana sono morte almeno 3 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 296.

Rep. Dem. Congo
Questa settimana sono morte almeno 11 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 464.

 

La destra che avanza

Rossana Rossanda

Ségolène Royal non ce l'ha fatta, sei punti la separano da Nicolas Sarkozy, eletto presidente della repubblica in Francia con i voti della destra, di metà del centro e quasi tutta l'estrema destra lepenista. La partecipazione al voto è stata massiccia, il suo segno inequivocabile. Nicolas Sarkozy, duro ministro degli interni del governo uscente, era arrivato primo fin dal primo turno, e tale è sempre rimasto. La candidata socialista era giunta al ballottaggio in difficoltà, con François Bayrou che le sbarrava la strada, un elettorato centrista perplesso e con le sinistre alla sua sinistra in briciole - cosa di cui i commentatori si sono gloriati. La campagna di Ségolène era stata assai moderata, all'insegna dell'incontro diretto con la gente, e appena ha alzato il tono nell'unico faccia a faccia con Sarkozy (intendiamoci, niente a che vedere con le pesantezze nostrane) è scesa di colpo di tre punti. Per amor del cielo, s'è allarmata la Francia, basta con gli estremismi - la stampa scritta, Le Monde in testa, l'ha rimproverata e perfino il Nouvel Observateur, che invitava a votare per lei, aggiungeva che in ogni caso Sarkozy non sarebbe stato il peggiore dei presidenti. Morale, l'ex ministro degli interni ha vinto alla grande. Adesso ci sono le legislative per il parlamento, si voterà il 12 giugno, ma è da dubitare che gli elettori, confusi e pentiti, diano a Sarkozy una buona lezione dopo averlo promosso.
Che cosa ha indotto su questa strada i nostri vicini, che molto ci avevano sbertucciato per via di Berlusconi? Primo, la «rottura» promessa da Sarkozy: basta con l'uguaglianza, basta con le 35ore, detassazione degli straordinari per le imprese, proibizione degli scioperi senza previo referendum fra tutti i lavoratori, fine dell'assistenza ai disoccupati che non accettino la seconda proposta di lavoro, riduzione a metà del turnover nella funzione pubblica, soldi all'impresa come sola e sufficiente garanzia di crescita e quindi dell'occupazione, immigrazione «scelta», difesa dell'identità nazionale, un'Europa senza costituzione e senza bisogno di referendum, ripristino di tutte le autorità e si finisca una buona volta con la nefasta eredità del maggio '68. Queste ripetute dichiarazioni non hanno incontrato nessun movimento di protesta. Quanto sia profonda la «rottura», anche culturale, dimostra lo spiattellamento delle sinistre, la cui litigiosità è stata nuovamente suicida. Insomma, l'onda di destra è mobilitante: chi parla di crisi della politica? La politica funziona ancora a contrastare un riemergere della sinistra, per morbida che si presenti.
Secondo, mai una donna presidente della Repubblica! Bisogna essere stati qui per crederlo, ma in un paese così moderno, prospero e avanzato è diffuso il dubbio che una donna possa dirigere lo stato. Una stampa attenta al minimo errore o presunto tale, le crudeli vignette (la satira sarà sacra, ma lavora sulle pulsioni sicure), la scarsa propensione delle donne a votare per una di loro, il defilarsi delle femministe: è stata esplicita l'intenzione di sbarrare la strada a una donna, ancorché moderata e sostenitrice dell'ascolto, perdipiù avvenente e così sicura di sé da non farsi cooptare da nessuno, piacesse o no ai leader del suo partito. I quali sono già partiti per farle la festa. Il sacerdozio, ecclesiatico o civile, non è cosa da femmine. Su questo la laicissima Francia raggiunge piuttosto il Vaticano che la Germania o il Regno Unito.
In breve, nell'Europa del terzo millennio la parola «rinnovamento» suona: a destra tutta. Viene in mente Breznev che, a chi osservava che quello dell'Urss non era socialismo, ha ribattuto: questo è il solo che ci sia, il socialismo reale. E questa, ci dicono nel 2007 le urne transalpine, è la democrazia reale.

 

Fiori avvelenati

Bajo Flores, 'favela' argentina, dove il narcotraffico la fa da padrone

scritto da Serena Corsi

Bajo Flores è la più grande Villa Miseria - equivalente argentino delle favelas- della città di Buenos Aires. Il nome proviene dalla locazione geografica: la Villa è sorta sotto a Flores, uno dei quartieri residenziali più vecchi e popolari della città. Ma a nessuno sfugge l’ironia nera che nasconde il nome: sotto i fiori c’è il fango – il letame, lo stesso che invade le strade sterrate della Villa ogni volta che piove, mescolando l’acqua piovana a quello che fuoriesce dalle fogne artigianali. In questo quadro si innesta una delle questioni più dolorose dell’attualità sudamericana: il narcotraffico e la diffusione di una droga di infima qualità fra chi non può permettersi quelle di prima; per il mercato argentino lo scarto della lavorazione della cocaina (detto paco) proviene soprattutto dal Perù , e viene prodotto ad hoc per gli ultimi consumatori della catena. Sono i figli delle Villas, giovanissimi, disoccupati, destinati alla strada, presto costretti a divenire corrieri del paco per poterlo consumare . E si ingrossa la lista delle vittime , non solo della droga , ma anche dei regolamenti di conti delle bande che detengono il potere della distribuzione e che si spartiscono le zone della Villa , meticolosamente numerate come i settori di un carcere.

Anche l'omertà. In una notte di qualche tempo fa, sono stati accoltellati due fratelli : il più giovane , Lucas, è morto. Erano entrambi figli di Susana Acosta, delegata di quartiere- praticamente l’unica forma di rappresentanza delle istituzioni in queste terre di nessuno . Susana: una che , quando si è trattato di rompere il silenzio sullo strapotere della criminalità organizzata , non si è mai tirata indietro: “Questi assassini, profughi della giustizia , si nascondono certi della protezione della polizia”. L’omertà copre come una nebbia le baracche di Bajo Flores : ognuno, almeno una volta, ha visto uno spacciatore vendere droga accanto a un poliziotto indifferente, o peggio ancora, corrotto alla luce del sole. Denunciare è inutile, oltre che molto pericoloso. E non si tratta solo della paura di ritorsioni: come tutte le mafie del pianeta , anche quella peruana che controlla la Villa sa che il potere passa anche attraverso il consenso . E non è raro che gli abitanti considerino i capi della criminalità come dei benefattori: Salvador, come chiamano qui a Marcos Estrada Gonzalez –secondo la polizia, il cervello della banda più potente- ha provveduto a pagare l’albergo a diverse famiglie che hanno dovuto lasciare la casa perchè minacciate da una banda rivale. Ma Susana è sempre rimasta fuori da queste logiche. “ Con il tema della droga sono sempre stata molto sincera : io non ci sto. Altri delegati non erano della stessa opinione : l’unico modo per avere più sicurezza,dicevano, è allearsi coi cartelli. Ma io sono contraria, ora più di prima ” .Questo coraggio gli è valso la riconferma puntuale del suo ruolo nel quartiere, anno dopo anno . E , forse, ha qualcosa a che fare con la morte di suo figlio. “ Non so. Il giorno della veglia funebre un uomo mi si è avvicinato e mi ha detto: ‘ sicuramente è stato un errore, sorella. Cercavano qualcun’altro. Però possiamo rimediare con del denaro’ ”. Susana ha risposto con un uno sguardo inorridito, racconta. Ma questa pratica- indennizzare le famiglie delle vittime accidentali della guerra tra Narcos – già diffusa in altri paesi, probabilmente ha già preso piede anche qui. Una giustizia triviale che rinvia a chissà quando l’intervento di quella ordinaria .

Il parere. Secondo Gabriela Cerruti, ministro dei Diritti Umani , l’unico modo di controllare la violenza prodotta dal narcotraffico “è ricostruire e affermare la presenza nel quartiere, in tutte le forme possibili”; ad esempio, se gli abitanti non possono denunciare quello che succede, creare una rete che bypassi la polizia locale e faccia arrivare le denunce, da parte dei rappresentanti del governo, direttamente alla Camera del Crimine. Questa proposta fa i conti con un problema profondissimo della società argentina : lo Stato sa che non può controllare la polizia. Almeno non in tempi brevi. Inoltre, l’Argentina è ancora piuttosto disarmata perchè la diffusione massiva del paco nelle Villas è cominciata non prima della fine degli anni ’90, e il cartello peruano si manifesta ormai come il più potente del Sudamerica . Perciò, è una battaglia che si può vincere solo combattendola dal basso. Qualche passo può già essere fatto , investendo su un cambio di mentalità generale che agisca in seconda battuta anche sui singoli poliziotti: una catena umana , sociale, intorno al narcotraffico.

 

4 maggio

Inviato ai politici il rapporto redatto a Bangkok da un gruppo di esperti provenienti da 120 Paesi
Per evitare un disastro ecologico le emissioni mondiali di gas serra devono decrescere a partire dal 2015

Clima, l'allarme degli esperti Onu
"Cruciali gli sforzi nei prossimi 20-30 anni"

<B>Clima, l'allarme degli esperti Onu<br>"Cruciali gli sforzi nei prossimi 20-30 anni"</B> Lo sviluppo dell'energia eolica indicata per ridurre l'emissione di gas serra

BANGKOK - I prossimi venti, trent'anni saranno cruciali negli sforzi per attenuare il riscaldamento del Pianeta: lo ha indicato il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, l'Ipcc creato dall'Onu, in un testo di sintesi su cui esperti di 120 Paesi riuniti da lunedì scorso nella capitale thailandese hanno raggiunto stamani un accordo dopo una maratona negoziale durata tutta la notte.

"Gli sforzi di attenuazione del riscaldamento nei prossimi 20/30 anni avranno un vasto impatto sulle possibilità di raggiungere livelli più bassi di stabilizzazione delle emissioni di gas a effetto serra", ha affermato l'Ipcc nel suo rapporto destinato ai politici incaricati di prendere le decisioni.

"Le emissioni mondiali di gas che causano l'effetto serra devono decrescere a partire dal 2015 se si vuole mantenere l'aumento della temperatura media del pianeta fra i 2 e i 2,4 gradi centigradi", affermano gli esperti del Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici dell'Onu. Contenere entro i due gradi il riscaldamento globale costerebbe appena lo 0,12% del Pil mondiale ma eviterebbe un disastro climatico.

Il rapporto elaborato è il terzo reso noto quest'anno dall'Ipcc: i primi due hanno approfondito le prove dell'effetto-serra e i possibili impatti sull'ambiente. Una bozza del rapporto letta dall'agenzia France Presse esortava ad un maggiore uso di energie rinnovabili, come quella solare e idrica, e a una maggiore efficienza nei consumi.

 

Posti esauriti da mesi in classici e scientifici: secondo il ministero arriveranno 6mila studenti
in più, ma sono a rischio centinaia di cattedre. I sindacati: "Colpa della Finanziaria"

Licei, posti in piedi per il nuovo anno
di SALVO INTRAVAIA

<B>Licei, posti in piedi per il nuovo anno</B>
Docenti in trincea e alunni costretti a seguire le lezioni in aule superaffollate. Ecco il panorama che si prospetta nelle scuole superiori il prossimo anno scolastico: studenti in crescita e meno classi. A settembre, gli insegnanti italiani avranno la sgraditissima sorpresa di entrare in aule che potranno ospitare anche 35 alunni e gli studenti delle prime classi si ritroveranno in classi stipate fino all'inverosimile. Non ci sarà da meravigliarsi se, dopo quello che si annuncia come un anno difficile per tutti, la dispersione scolastica dovesse subire un'impennata o come il burnout degli insegnanti.

Del resto, non è un segreto che trovare un posto in un liceo classico o scientifico è diventata un'impresa titanica: tutto esaurito da mesi. Ma andiamo con ordine.

L'anno scolastico 2007/2008, in base ai dati raccolti dal ministero della Pubblica istruzione sulle iscrizioni già effettuate dai genitori (il cosiddetto organico di diritto), nelle aule italiane occorrerà fare posto a circa 6 mila alunni in più con un incremento di appena 42 classi. Se le previsioni del ministero saranno confermati basta confrontarli quelli, questa volta reali (alunni e classi effettive), di quest'anno per fare emergere una situazione diversa. La prospettiva è di ritrovarsi a settembre con 37 mila studenti in più a fronte di un calo delle classi che si abbatte pesantemente proprio nella scuola secondaria di secondo grado. Quasi mille classi in meno rispetto all'anno che volge al termine con migliaia di cattedre Aa rischio. Del resto, la Finanziaria varata dal ministro dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, lo scorso dicembre ha previsto, per assottigliare l'organico degli insegnanti, un incremento del rapporto alunni-classi.

Dispersione, sicurezza e stress degli insegnanti subiranno un ulteriore peggioramento? Se la matematica non è un'opinione, sembrerebbe proprio di sì. Basta dare un'occhiata alle statistiche per capire che la dispersione scolastica (abbandoni, ma soprattutto bocciature) aumenta nelle classi più affollate, soprattutto le prime che hanno il delicato compito di accogliere i ragazzini provenienti dalle media. Stesso discorso per la sicurezza, questione di fatto irrisolta. Le norme sulla sicurezza nei luoghi di lavoro ammettono, nella migliore delle ipotesi, un limite massimo di 28 alunni per classe: con 35 potrebbero crearsi situazioni di estremo pericolo, per esempio, in caso di incendio. E lo stress degli insegnanti? Se la normativa in materia di composizione delle classi ha stabilito un tetto massimo al numero degli studenti non è certo per sperperare denaro pubblico. Anzi. E' chiaro a tutti, anche a coloro che non hanno messo mai un piede in una aula da docente, che gestire un gruppo di 30/35 alunni non è la stessa cosa di gestirne 20. Dove va a finire l'insegnamento individualizzato di cui c'è traccia in mille documenti ufficiali? "Le disposizioni sulla formazione delle classi non hanno subito variazioni - spiega Giuseppe Fiori, direttore generale per il Personale - e eventuali classi con 30/35 alunni non sono giustificate da nessuna normativa vigente".

Ma non basta. Al taglio operato i questi giorni si dovrebbe aggiungere un ulteriore colpo di forbici a settembre: in organico di fatto. Dove 'sistemeranno', soprattutto i presidi degli istituti ubicati nelle regioni del Nord, gli alunni?

"E' la prova del disastro della Finanziaria - dichiara Enrico Panini, segretario generale della Flc Cgil - Non esiste paese al mondo in cui aumentano i ragazzi, e la richiesta di formazione qualificata e di alto livello, e il governo risponde riducendo gli insegnanti e le classi", un atto pesante d'accusa che non lascia spazio a troppe giustificazioni. "Finora, alle forti richieste avanzate dal mondo della scuola e dai sindacati - continua Panini - il governo ha risposto con buone ma vuote parole". "La situazione economica e strutturale della scuola pubblica - incalza Piero Bernocchi, coordinatore nazionale dei Cobas - diviene ogni giorno più drammatica, al limite della catastrofe e del degrado più inaccettabile. Quello che fa rabbia è che era tutto già scritto in una Finanziaria che, invece di rispettare l'impegno elettorale dell'Unione a invertire il trend sulla riduzione dei finanziamenti nell'istruzione pubblica, addirittura la accelera". E sui tagli l'affondo finale. "I tagli alla superiore - continua Bernocchi - sono i più evidenti e vistosi, resi ancor più gravi dall'aumento delle iscrizioni a livello nazionale: quello che già accade ora, 30-32-34 alunni per classe, diverrà la norma, con ripercussioni sulla didattica, aumento della selezione e ulteriore logoramento di docenti già molto provati".

 

3 maggio

La banca dei bambini

Un fenomeno in crescita nei paesi poveri: piccoli lavoratori, imprenditori di se stessi

Rinunciare all’idea che certe regole e valori debbano essere comuni a ogni latitudine, trasformando quelli che nell’ottica occidentale sembrano abusi e illegalità nel loro esatto contrario. E’ quanto successo in India per la questione dei bambini lavoratori quando, non potendo abolire il lavoro minorile in una terra tanto povera, per evitare che questi subissero le prevaricazioni degli adulti si è cominciato a dare ai baby lavoratori vere e proprie garanzie sindacali. Da questo si è passati alla creazione di istituti bancari dedicati ed è così che oggi migliaia di ragazzi “costretti” a lavorare possono far valere i loro diritti e le loro necessità.

La Children’s Development Bank. L’esperimento nasce grazie al Collettivo di bambini lavoratori e di strada di Delhi, Bal Mazdoor Union, ma la sua azione ha provocato una serie di interventi a catena che, naturalmente, hanno attecchito in paesi, come lo Sri Lanka e l’Afghanistan, dove da qualche tempo opera la Children's Development Bank. Una banca voluta e realizzata da soci che hanno tra i 6 e i 18 anni e che, proprio nella loro qualità di bambini e adolescenti, hanno diritto non solo a depositare il denaro guadagnato con la propria fatica, ma anche ad avere un proprio libretto di risparmio, a chiedere prestiti e far parte dei Consigli di Amministrazione.
Si tratta di un modello di banca gestita dai ragazzi come una cooperativa in cui gli adulti hanno solo il ruolo di garanti e facilitatori. Un modo per prendere in mano la propria vita che funziona, a giudicare dai risultati.

Due storie esemplari. Sono stati alcuni di questi ragazzi e ragazze a spiegare direttamente la loro esperienza nel corso della visita in Italia.
Tra i “piccoli imprenditori” Gayan Madhushanka e Kosalle Madhurangika entrambi provenienti dallo Sri Lanka, un paese dove la povertà si somma a una guerra civile semisconosciuta al mondo.
Kosalle, 15 anni, con il prestito ottenuto è riuscita a mettere su una piccola produzione agricola e, con l’aiuto di altri coetanei porta avanti un’attività che la ripaga di un recente passato fatto di povertà e privazioni.
A Gayan, 16 anni, il prestito della Children’s Develomment Bank è servito per comprare l’equipaggiamento per giocare a cricket. Il padre per anni è stato soldato nell’esercito regolare, ma lui di armi non ne voleva sapere e ha avuto ragione perché grazie al prestito e a tanto, tanto allenamento, ha vinto, nell’ambito degli istituti scolastici, il premio per il migliore giocatore del paese e ora è in attesa di entrare a far parte della squadra nazionale dello Sri Lanka under 17.

Un po’ di denaro per grandi speranze. E non importa che si tratti di aprire un negozio, comprare degli animali o semplicemente conservare i pochi spiccioli guadagnati. Ciò che conta per questi ragazzi è credere di potercela fare da soli, autonomamente, con le proprie forze e con pochi, ma semplici diritti garantiti.

Antonella Sinopoli

 

Missione placebo

A Rio è sempre più violenza e il governo manda 900 militari. Peccato che non potranno intervenire

Aveva 23 anni e una brillante carriera universitaria davanti. È morta ammazzata da una pallottola vagante sparata da chissà quale pistola fra quelle impugnate da orde di narcotrafficanti impegnati, da ore, a spararsi contro per ottenere il controllo del territorio. A Rio de Janeiro è sempre peggio e il governo di Brasilia ha finalmente deciso di ascoltare le accorate richieste di aiuto del governatore dello stato: novecento uomini dei reparti speciali dell'esercito brasiliano saranno inviati nella capitale carioca e schierati in quelli che sono stati definiti i “punti strategici della città, ma il loro mandato sarà alquanto limitato”.

Far West. Si chiamava Juliana Perreira da Silva. È stata colpita all'inguine mentre in auto percorreva l'Avenida Brasil, fra le arterie principali della zona est di Rio. L'unica sua colpa: trovarsi nel punto sbagliato al momento sbagliato. Sì, perché quella lunga strada per alcuni tratti costeggia zone di favelas e disperazione, dove lo stato è presente solo nelle pistole della polizia che cerca di avere la meglio sui criminali, in vere e proprie terre di nessuno. Questa volta però, nel duello scatenatosi di prima mattina, i poliziotti non c'entrano: a scaricarsi addosso raffiche di proiettili, in scene da far west, erano i narcotrafficanti. Due gruppi rivali l'uno contro l'altro armati: l'uno, gli Amici degli Amici, intento a difendere la loro zona di spaccio, l'altro, niente di meno che il Comando Vermelho - il più antico e temuto clan del Brasile - impegnato a conquistare un'altra golosa fetta di città.

I fatti. Erano le sette del mattino di giovedì. Juliana viaggiava con due amici, uno di 26 e uno di 23 anni, su un'auto, destinazione: università. All'improvviso il panico: pallottole da ogni dove sono piovute da ogni parte, ferendo a morte lei e leggermente i suoi due compagni. Disperata la corsa all'ospedale, dove poche ore dopo è morta. La sparatoria ha scatenato il panico fra tutti i passanti della trafficata Avenida Brasil, gente ormai sempre più stressata da una violenza senza fine.
Dal primo febbraio 2007, si contano 802 morti e 438 feriti, una vera e propria guerra, con una media di nove persone uccise al giorno.

Arrivano i nostri. Il giovane governatore dello Stato, Sergio Cabral, ha accoratamente chiesto al governo federale l'intervento dell'esercito: “Non voglio passare quattro anni del mio Governo assistendo a funerali di agenti e civili assassinati nelle strade”, aveva detto poche settimane fa. Un appello che ha toccato il presidente Luiz Inacio Lula da Silva che da subito aveva promesso di aiutare "l'amico Cabral”. E così si è mosso. Il governo brasiliano ha, infatti, messo a disposizione di Rio de Janeiro circa novecento unità, destinate al controllo della sicurezza, con un piano ideato dal ministro della Giustizia, Tarso Genro, che ha coinvolto uomini di Esercito, Aeronautica e Marina. Eppure un “ma” resta: i militari non faranno, almeno per ora, operazioni dirette nelle strade di Rio. Questi sono gli ordini. La loro è una missione di presenza, mirata ad "aumentare la sensazione di sicurezza in città. "Le forze armate - ha spiegato Genro - avranno un ruolo di sostegno alla polizia", non di sostituzione. Il compito delle forze armate, quindi, sarà solo di appoggio logistico e d'intelligence, tanto che qualcuno ha commentato: “sempre meglio di niente”. Il piano, che scatterà in quindici giorni, prevede un primo utilizzo di 600 militari, a cui verranno poi aggiunti altri 300 uomini. Ma al di là dei numeri, resta da chiedersi se questa missione “effetto placebo” basterà a migliorare la qualità di vita di una città ormai teatro di una guerra interna.

Stella Spinelli

 

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