Archivio marzo 2007

 

30 marzo

LAVORO: EURISPES, ITALIA MAGLIA NERA DEI SALARI IN EUROPA

Italiani lavoratori 'poveri' d'Europa e nelle ultime fila sia per il peso delle buste paga che per la rivalutazione dei propri salari nel tempo. E' quanto emerge da un rapporto Eurispes pubblicato oggi secondo cui l'Italia e' al quart'ultimo posto in Europa per salari lordi medi pari a 22.053 euro l'anno contro i 42.484 euro della Danimarca, il paese che vanta i salari piu' ricchi in una classifica che vede ai primi posti anche Svezia, Belgio e Francia e agli ultimi Portogallo e Grecia . Fanalino di coda il Paese e' anche per retribuzione oraria media, pari a 21,3 euro contro i 30,7 della Danimarca, e, soprattutto per la crescita dei salari che, dal 2000 al 2005 si sono rivalutati solo del 13,7%, facendole scontare un terz'ultimo posto, contro il primato del 27,8% della Gran Bretagna. L'Italia, in fatto di salari, si colloca ai primi posti, al quarto esattamente, per ampiezza del cuneo fiscale pari, per un lavoratore senza famiglia a carico, del 45,85% e al 36,6% per un lavoratore con moglie e due figli a carico.

29 marzo

Telecom, l'ultimo squillo

di Vittorio Malagutti
Il profondo rosso. La tela tessuta da Guido Rossi. Le banche. Le avances straniere. E Tronchetti costretto nell'angolo. Protagonisti e retroscena della nuova battaglia sulle telecomunicazioni
L'ultima volta che Marco Tronchetti Provera, messo alle strette, decise di smarcarsi rovesciando il tavolo del poker fu a settembre dell'anno scorso. Consegnò alla stampa il maldestro piano di Angelo Rovati, all'epoca consigliere del premier Romano Prodi, per nazionalizzare la rete fissa di Telecom Italia. Il gran clamore che ne venne fuori riuscì a far passare in secondo piano l'esito fallimentare delle trattative con Rupert Murdoch. In quei giorni perfino le clamorose dimissioni di Tronchetti dalla poltrona di presidente di Telecom vennero lette e interpretate come l'estremo gesto di autodifesa di un industriale deluso e amareggiato.

Sono passati sei mesi e siamo daccapo. L'avvocato Guido Rossi, fustigatore dei conflitti d'interessi e teorico della public company, sta interpretando in modo originale il ruolo di numero uno del colosso delle telecomunicazioni. Non è un semplice traghettatore, un professionista di grido chiamato a reggere il timone in nome e per conto dell'azionista di riferimento. In questi mesi Rossi ha tessuto una tela tutta sua. E Tronchetti, temendo di restare imbrigliato, si è infine deciso a fare uno scatto. Ad alzare la voce, un'altra volta dopo il ribaltone di settembre. Sono bastate due righe nel comunicato stampa diffuso da Pirelli lunedì 12 marzo, al termine del consiglio di amministrazione chiamato a esaminare i conti 2006 in profondo rosso (1.048 milioni di perdite). La partecipazione in Telecom è in vendita. Si valutano offerte per quel 18 per cento custodito nella holding Olimpia. Questo, in sostanza, il messaggio recapitato ai mercati dall'ex presidente. Niente che il pubblico di analisti e investitori non sapesse o immaginasse già da tempo. Ma l'effetto annuncio, e la definitiva conferma, per la prima volta messa nero su bianco, che l'avventura di Pirelli nelle telecomunicazioni è giunta ormai al capolinea, hanno innescato una reazione a catena. Le Borse, com'era prevedibile, hanno risposto a suon di rialzi. La sola ipotetica possibilità che il gruppo milanese possa metter fine al salasso telefonico, costato lacrime, sangue e 3 miliardi di perdite ai suoi azionisti, basta e avanza per spiegare l'ondata di acquisti che ha travolto il titolo del gruppo milanese. Ma la partita decisiva si sta svolgendo dietro le quinte. Ed è in questa direzione che punta dritto il siluro lanciato da Tronchetti con l'annuncio di lunedì scorso. Se davvero Rossi sta giocando una partita in proprio, nel tentativo di organizzare una cordata di istituzioni finanziarie (banche e fondazioni) come nuovi soci di riferimento del gruppo telefonico, allora questi presunti cavalieri bianchi adesso non potranno fare a meno di bussare alla Pirelli. Se non altro per scoprire l'eventuale bluff di un'offerta alternativa proveniente da oltre frontiera. Non per niente sembrano tornate d'attualità le avances del magnate russo Vladimir Evtushenkov, patron della holding Afk Sistema, un colosso con quasi 8 miliardi di dollari di giro d'affari. E così, nel nome della salvaguardia dell'italianità di un'azienda strategica per il sistema Paese, la quota di Tronchetti torna al centro dell'interesse politico e la cordata targata Rossi diventa una diga contro le mire dei presunti pretendenti stranieri, tra cui vanno annoverati anche gli indiani del gruppo Hinduja, senza escludere un ritorno di fiamma degli spagnoli di Telefonica. Stando alle indiscrezioni di questi giorni, l'avvocato milanese si sarebbe mosso con la copertura politica del ministro degli Esteri Massimo D'Alema. Corsi e ricorsi storici. Nel 1999 fu proprio l'esplicito appoggio dell'allora presidente del Consiglio diessino a tirare la volata della razza padana di Roberto Colaninno e Chicco Gnutti nella scalata alla Telecom da poco privatizzata. L'avventura degli scalatori durò lo spazio di un paio di anni e si concluse con guadagni colossali per loro e per i loro amici. Nell'agosto del 2001 entrò in scena Tronchetti che al prezzo di 7,2 miliardi, fin da allora giudicato troppo generoso, si aggiudicò gli ex telefoni di Stato. Quelle azioni pagate 4,17 euro ciascuna adesso faticano a superare quota 2,2. E nel frattempo sono venuti al pettine i nodi di un'acquisizione temeraria. Per sostenere le proprie finanze, il socio di controllo ha prelevato risorse dalle casse di Telecom sotto forma di dividendi, tarpando di fatto lo sviluppo dell'azienda. I debiti sono fermi a 37 miliardi, una cifra ben lontana dai 33 miliardi che erano l'obiettivo dichiarato del management da raggiungere entro la fine del 2006. E gli utili non crescono più: l'anno scorso i profitti netti, circa 3 miliardi di euro, sono calati del 6,3 per cento rispetto al 2005.

Per realizzare i propri obiettivi di business Telecom avrebbe bisogno di nuovi mezzi. Ma i debiti sono già al livello di guardia e l'azionista di controllo non è in grado di finanziare un aumento di capitale. Tronchetti, che comanda dall'alto di una lunga piramide societaria, non può permettersi l'investimento. E gli altri soci di Pirelli, grandi e piccoli, non vogliono saperne di sborsare altro denaro dopo le gravi perdite già subite a causa della scommessa di sei anni fa sulle telecomunicazioni.

Ecco perché, spiegato con la logica stringente dei numeri, Tronchetti sembra ormai costretto ad alzare bandiera bianca. Questo non vuol dire che passerà la mano senza combattere, per orgoglio e per evitare un nuovo salasso finanziario. Anche dopo la maxi svalutazione varata in autunno, la partecipazione indiretta (via Olimpia) in Telecom è in carico nel bilancio di Pirelli a un valore molto distante dal la quotazione corrente in Borsa: 3 euro contro 2,2 euro circa. Non è da escludere che un eventuale compratore straniero, russi o indiani che siano, sia disposto a pagare un prezzo, 3 euro o più, tanto superiore a quello di mercato. Sarebbe una sorta di ticket di ingresso in Occidente. Difficile che possano fare lo stesso le banche e le fondazioni che in questi giorni stanno esaminando il dossier. La base di partenza per il negoziato sarebbe in realtà su una quota intermedia, tra 2,6 e 2,8 euro. E qui le posizioni del ceto bancario appaiono quanto mai divaricate tra loro. Se da una parte la Capitalia del presidente Cesare Geronzi sembra la più disponibile a farsi carico del problema, all'estremo opposto si colloca il leader di Unicredito Alessandro Profumo che, secondo indiscrezioni avrebbe già fatto sapere ai suoi interlocutori che non intende prendere in considerazione un prezzo diverso da quello di mercato. Molto più possibilista appare invece Giovanni Bazoli, presidente di Intesa Sanpaolo, così come Generali e Mediobanca. L'ingegneria finanziaria, per esempio un prestito obbligazionario, potrebbe agevolare l'intervento creando una sorta di paracadute per le banche. Alcuni analisti non escludono neppure uno scenario più cruento. Con Tronchetti indisponibile a trattare sul prezzo e le istituzioni finanziarie che aggirano l'ostacolo rastrellando in Borsa fino a raggiungere almeno il 20 per cento del capitale. C'è anche chi avanza l'ipotesi di un'assemblea straordinaria per trasformare le azioni di risparmio in ordinarie in modo da diluire la quota di Olimpia-Pirelli. Queste illazioni si scontrano con un'altra considerazione: Capitalia e Intesa San Paolo, oltre che finanziatori sono anche già soci di rilievo di Pirelli e della controllante Camfin. Proprio per valorizzare il loro investimento, queste istituzioni hanno quindi interesse a evitare ulteriori traumi. Su tutto, comunque, incombe una scadenza. Entro il 4 aprile, con dieci giorni di anticipo sulla data di convocazione dell'assemblea Telecom, vanno presentate le liste di consiglieri per il nuovo board del gruppo, che va rinnovato per intero. E senza un accordo si arriverebbe allo scontro frontale. I candidati di Tronchetti contro quelli delle banche. Una soluzione estrema in cui tutti, però, avrebbero più da perdere che da guadagnare.

 

Provincia a mano armata

di Fabrizio Gatti
Sempre più rapine, sempre più violente. Contro banche, negozi o singole persone. Perché è l'unico modo di trovare contanti. Ma il boom è lontano dalle metropoli
Ritorna il tormentone sulla sicurezza. Milano protesta. Ma se altri sindaci volessero seguire l'appello della collega Letizia Moratti, i loro concittadini dovrebbero scendere in piazza proprio contro Milano. Perché a forza di concentrare poliziotti, carabinieri e sforzi nelle grandi città, la criminalità sta conquistando la provincia. Soprattutto quella provincia italiana che un tempo era simbolo del quieto vivere. Un sintomo significativo sono le rapine in banca. Con aumenti record in settembre e ottobre, poche settimane dopo l'entrata in vigore dell'indulto proposto dal governo e approvato dal Parlamento. Lo confermano i dati del 2006 appena raccolti dall'Abi, l'Associazione bancaria italiana. Rispetto al 2005, a Modena l'aumento degli assalti ha raggiunto il 65,7 per cento. A Parma il 70. Udine: 58,3. Frosinone: 280. La Spezia: 60. Savona: 107. Pavia: 140. Cremona: 21. Asti: 18,2. Cuneo: 125. Vercelli: 33,3. Foggia: 157. Cagliari: 137,5. Nuoro: 37,5. Sassari: 20. Siracusa 127,3. Pisa: 300. Siena: 200. Pistoia: 116. E, in cima ai record, il Trentino Alto Adige passato da tre a 15 rapine con un aumento, forse non del tutto occasionale, del 400 per cento. A Milano invece va molto meglio: solo un più 2,8 per cento di rapine in banca. A Torino i colpi sono addirittura in calo: meno 12,2 per cento. E così in tutto il Veneto, la regione leader nelle manifestazioni e nelle ronde anticrimine: meno 23 per cento. L'Italia a mano armata, insomma, rende ancora. Tantissimo. Soprattutto nei piccoli centri.

Bottino medio
Dalla parte dei banditi anche il 2006 è stato un affare. L'ammontare medio del bottino in banca vale 20 mila euro. E per le rapine in genere, 500 euro a colpo: dalla farmacia al passante, dal pensionato aggredito per strada agli assalti in villa. È la conferma di una crescita costante. La novità è che la malavita oggi copia l'industria: delocalizza. Lo racconta Marco, 32 anni, milanese, una gioventù passata dentro e fuori del carcere e adesso chissà: "Abbiamo imparato dai napoletani. A Napoli si facevano troppa concorrenza. Così qualcuno ha pensato di prendere il treno e di venire al Nord a rapinare orologi Rolex. Allora mi son detto: perché rimanere a Milano dove poi è difficile scappare nel traffico? Devi muoverti in treno, chi ti insegue sul treno? Non ti prendono mica il numero di targa". E come sceglieva gli obiettivi? "Certo che non andavo a fare i lavori in un quartiere di poveracci. Andavo a Pavia, a Monza, a Parma. Giravo. Un giorno facevo due o tre negozi di abbigliamento. Un altro un tabaccaio. Altre volte mi dedicavo alle farmacie. Ci si specializza. E se proprio la giornata ti è andata male, le prostitute sono sempre un obiettivo facile: le straniere non fanno nemmeno denuncia". Banditi solitari
La rapina è il reato comune più pericoloso per le vittime. Perché, a differenza del furto o della truffa, c'è un contatto diretto tra rapinatore e rapinato. E perché spesso, alla minaccia, si aggiunge l'aggressione. Non occorre essere impiegato di banca, portavalori, gioielliere. Può capitare a tutti di trovarsi davanti la canna di una pistola o la lama di un taglierino o addirittura prendersi direttamente una bastonata. È anche la conseguenza di una scelta sempre più diffusa: i banditi preferiscono agire soli o al massimo in coppia. Nel 1990 questo tipo di rapine riguardava il 44 per cento del totale. Il 66 per cento degli assalti era invece messo a segno da gruppi organizzati con tre o più componenti: numero che richiede una divisione dei compiti e quindi una maggiore specializzazione. Ma dal 2003, secondo dati raccolti da Marzio Barbagli, docente all'Università di Bologna e tra i massimi studiosi di criminalità in Italia, le rapine commesse da rapinatori solitari o in coppia sono salite all'80 per cento del totale. Otto assalti su dieci, cioè, sono messi a segno da banditi 'opportunisti o dilettanti', come li chiamano i ricercatori di scienze sociali. Significa che quasi tutte le rapine ormai sono organizzate in poche ore, o in pochi minuti se non addirittura improvvisate. Con tutte le conseguenze e gli imprevisti che questo comporta. Marco, il rapinatore milanese, si preparava così: "La rapina a un passante non la pianifichi. Una sera ho visto un tale prelevare al bancomat. Era vestito bene, mi sembrava uno buono. Ma con me non avevo nemmeno un coltello. Ho messo due dita nella tasca del giubbotto e gliele ho puntate al fianco. Capito? Con due dita mi sono fatto 250 euro, più la sua carta di credito, la tessera bancomat e i documenti che nel giro dei ricettatori mi hanno pagato altri 30 euro. Fai tre lavori del genere e sei a posto tutta la settimana". La banca resta l'obiettivo più complicato: "È solo una questione di specializzazione", sostiene però Marco, "io ne ho fatte poche di banche perché quell'ambiente mi mette la claustrofobia. Serve un po' più di studio, è vero. Ma ogni istituto ha le sue difese e i suoi buchi moltiplicati in tutte le filiali. Basta studiarne una e le conosci tutte". Cosa spinge a fare rapine? "Il fatto che i furti richiedono abilità. Un borseggiatore deve essere delicato. Un topo d'appartamento deve sapere come aprire le porte, disattivare gli allarmi. E poi nelle ville rischi che ti sparano. Fare il rapinatore è più facile".

Escalation
Le rapine in banca sono in aumento già da sei anni. Dalle 2.464 del 2000 alle 2.774 dello scorso anno (più 1,4 per cento rispetto al 2005). Ma sono diminuite rispetto al 1998, quando nelle banche italiane l'articolo 628 del codice penale era stato violato 2.958 volte. Anche il bottino complessivo dal 1998 si è ridotto: dall'equivalente in lire di 72 milioni 638 euro a 55 milioni 987 mila euro. Una riduzione dovuta alle nuove misure di sicurezza, come le casseforti a tempo, e alla scelta degli istituti di tenere a disposizione meno denaro contante. Proprio il minor guadagno sarebbe una delle condizioni che ha scoraggiato le bande organizzate. Se confrontato con il resto dell'Unione europea, però, il numero di rapine nelle banche italiane resta spaventoso. Sempre secondo cifre dell'Abi, gli assalti in tutta Europa sono 6 mila: di cui quasi 3 mila in Italia.

Mancano invece i dati complessivi del 2006 per tutte le rapine. Interpellato da 'L'espresso', il ministero dell'Interno fa sapere che non sono pronti. Le tabelle si fermano al primo semestre dello scorso anno: 22 mila 91 rapine in Italia (22.180 nel 2005). Confermando così la media degli ultimi tempi di circa 50 mila assalti denunciati ogni anno. Quelli effettivamente messi a segno sarebbero 100 mila, secondo i numeri presi in esame dai ricercatori universitari: ma l'altra metà non viene nemmeno segnalata, perché il bottino è considerato irrilevante o perché i rapinati sono stranieri senza documenti.

Indulto
In settembre e ottobre, sempre secondo i dati dell'Abi sul 2006, si registra un improvviso risveglio dei banditi. Con aumenti record delle rapine in banca del 27,9 per cento e del 55,8 per cento rispetto agli stessi mesi del 2005. Fino ad agosto 2006 gli assalti erano addirittura in calo: con riduzioni mensili comprese tra l'8,6 e il 28,3 per cento. Secondo gli studiosi del settore è ancora presto per avere prove. Sotto osservazione sono già finite le migliaia di scarcerazioni contemporanee tra agosto e settembre dovute all'indulto. Ma fino a quando il ministero dell'Interno non rivelerà i numeri delle rapine complessive del 2006, sarà impossibile trarre conclusioni.

L'Italia a mano armata non è solo una questione di punti percentuali. Rispetto agli anni Settanta è quasi un fenomeno di massa. In caduta i furti d'auto. Scomparsi i furti di autoradio. Le rapine sono esplose. In tutta Italia nel 1973 ne erano state denunciate 3.781. Nel 1980: 9.408. Nel 1990: 36.830. Nel 2000: 37.726. Oltre 40 mila nel 2002. Una serie storica in crescita continua, interrotta solo da rare parentesi come spiega il 'Rapporto sulla criminalità in Italia' (il Mulino) curato da Marzio Barbagli. "A differenza degli altri reati contro il patrimonio", spiega a 'L'espresso' il professor Barbagli, "il numero di rapine è continuato ad aumentare negli ultimi trentacinque anni. Mentre in altri Paesi, come gli Stati Uniti, è diminuito. Uno dei motivi è che da noi c'è un uso del contante molto maggiore: le rapine rendono ancora in media 500 euro a colpo. E contrariamente ai ragionamenti legati a una cultura socialista ottocentesca che vede gli autori di reati come poveri diavoli, in realtà gli autori di reati sono persone che hanno una loro razionalità. In Italia non c'è mai stata la consapevolezza che l'uso del cosiddetto plastic money, come le carte di credito, sia una forma di prevenzione della criminalità: se uno non trova più soldi nella borsa, non rischia nemmeno di rubare il portafoglio. Da noi invece il plastic money più diffuso è la tessera bancomat. E di nuovo il bancomat fornisce denaro cash".

Autoradio
La misura più efficace contro la criminalità, secondo gli studi, è la prevenzione situazionale: cioè adottare tutto ciò che rende la rapina (e anche il furto) poco interessante. E nessuna prevenzione situazionale passa attraverso un aumento di polizia e carabinieri sul territorio. L'eliminazione dei furti di autoradio ne è un esempio. Ogni ladro arrestato veniva sostituito da altri colleghi nuovi o scarcerati: perché l'autoradio rimaneva un bottino appetibile. Quando le case automobilistiche hanno cominciato a produrre macchine con la radio incorporata, il reato è scomparso. Eppure negli anni scorsi per le autoradio sono state danneggiate carrozzerie, rotti migliaia di finestrini, qualche automobilista è stato ferito o addirittura ucciso e gli italiani hanno speso milioni di euro in assicurazioni e riparazioni. Lo stesso sta accadendo con i telefoni cellulari: "Nella seconda metà degli anni '90 c'è stato un aumento delle rapine perché era nato un nuovo oggetto del desiderio, che era il cellulare", spiega Marzio Barbagli: "Un anno e mezzo fa le varie ditte produttrici hanno introdotto dei codici per cui se il telefono viene preso, può essere bloccato. Questa è una misura molto semplice. E in Gran Bretagna c'è già stata una diminuzione dei borseggi e delle rapine di telefonini".

Percezione della paura
Il Comune di Milano intanto chiede più agenti e carabinieri in strada. È successo più volte dal 1999. Ma le statistiche dimostrano che è servito a poco. Dal punto di vista dei ricercatori il perché è chiaro: "Perché queste sono misure calde che colpiscono la gente", sostiene Barbagli, "che suscitano passione, ma che non hanno effetto. Come invece avrebbe un'efficace prevenzione situazionale. Altra cosa è la paura, il timore di essere aggrediti. Questo indicatore è aumentato e diminuisce solo se ci sono fortissime riduzioni di criminalità. C'è una forte relazione tra rischio criminalità e percezione dei cittadini. E a questo costribuiscono il degrado dell'ambiente, i reati più frequenti e più visibili come i furti in appartamento e gli atti vandalici".

Contromisure in banca
Secondo una ricerca della Cisl, il 70 per cento dei bancari vive nell'ansia di subire violenze e il 62 non ritiene sicuro il proprio sportello. Eppure molte banche, per rinnovare l'immagine, si stanno adeguando controcorrente. Tolgono metal detector e guardie giurate. E a volte puntano sulla tecnologia più sofisticata, come i rilevatori di impronte digitali all'ingresso. Nessun rapinatore lascerebbe volentieri le sue impronte sul luogo del delitto. Ragionamento perfetto, ma solo per chi non ha mai fatto rapine in vita sua. La prova? Il 26 gennaio, al Banco di Brescia in via Portuense a Roma, due banditi entrano come tutti i clienti. Ma una volta dentro, rapinano 12 mila euro. Solo quando scappano si scopre lo stratagemma. Nella fuga perdono un dito indice. Ovviamente non il loro: l'avevano tagliato a un morto (almeno si immagina).

Senza guardie giurate all'esterno anche i clienti che prelevano sono più esposti alle rapine. Lo sostiene Vincenzo Del Vicario, segretario nazionale del sindacato Savip: "La guardia osserva i movimenti sospetti, è un deterrente contro le aggressioni all'uscita. Le banche invece ci stanno sostituendo con le tv. Ci sono banche sparse in tutta Italia la cui centrale di vigilanza video è a Milano. Sapete quanto tempo passa in caso di allarme?". La malavita di Napoli ha già fatto scuola. In gennaio finiscono in carcere due rapinatori. La loro tecnica è semplice. Uno aspetta a lungo dentro una banca il primo cliente che preleva contante. Lo segna con un filo di cotone appoggiato sugli abiti. Una volta fuori il complice riconosce il filo e aggredisce il cliente. Senza guardie all'esterno, funziona sempre. In fondo, se la rapina avviene in strada, perché mai la banca si dovrebbe preoccupare?

28 marzo

 

Un'altra Monica agita i sonni della Casa bianca. Gonzales e Bush nei guai
Non Lewinsky ma Goodling, implicata nella storia degli 8 procuratori licenziati
Franco Pantarelli
New York
Un altro passo, consistente, verso la fino di Alberto Gonzales, il ministro della Giustizia ormai marchiato come la prossima vittima da sacrificare per salvare Georgte Bush. Oltre tutto, la protagonista del nuovo passo si chiama Monica, come la famosa Lewinsky, ed è facile immaginare le battute sulla legge del contrappasso che in queste ore circolano per i palazzi di Washington.
La nuova Monica, il cui cognome è Goodling è stata convocata dal Congresso che sta indagando sui procuratori cacciati per «scarsa lealtà» nei confronti di Bush, ma ha fatto sapere che non si presenterà appellandosi al quinto emendamento della Costituzione, quello che riconosce il diritto di non rispondere alle domande se si teme che le proprie parole potrebbero risultare «auto-incriminanti». E' una scappatoia usata da molti, ma a renderla famosa è stato soprattutto il grande uso che ne hanno fatto i mafiosi tutte le volte che il Congresso ha tentato di vedere un po' più chiaro nelle loro attività. Il ricorso al quinto emendamento mette al riparo dal rischio di «aiutare» i propri inquisitori sul piano legale, ma allo stesso ha un forte peso «morale» perché costituisce una sorta di confessione. I mafiosi di quel risvolto se ne infischiano perché la reputazione non è il loro problema numero uno, ma per un'alta funzionaria del ministero della Giustizia il cui compito è quello di svolgere da liaison fra ministero e Casa Bianca è tutto un altro discorso. «Che in questo scandalo qualcosa di illegale sia stato commesso non è stato ancora accertato in pieno - diceva il primo commento del New York Times - ma Ms. Goodling evidentemente ne è convinta».
Il punto, ricordiamolo, è la cacciata di otto procuratori distrettuali che Karl Rove, il famigerato «cervello di Bush», ha deciso di sbattere fuori considerandoli sostanzialmente i responsabili della sconfitta elettorale di novembre. La loro colpa? Essersi rifiutati - secondo ciò che fa prospettare la ricostruzione ancora incompleta dei fatti - di aprire inchieste sui candidati democratici dei loro distretti la cui vittoria il 7 novembre era considerata sul filo di pochi voti. Non era necessario che le inchieste avessero basi concrete, bastava che i candidati repubblicani potessero sventolarle. Alcuni procuratori lo hanno fatto, per esempio quello di un distretto del New Jersey che ha preso a indagare sul candidato democratico al senato Robert Menendez, che poi però ha vinto lo stesso. Altri si sono rifiutati e il loro no è stato considerato la causa della vittoria democratica. E dovevano essere puniti perché naturalmente Bush e i suoi non prendono neanche in considerazione - per la sconfitta subita - fattori come la gente di New Orleans lasciata a se stessa di fronte all'uragano Katrina, i 3.200 soldati americani morti per le bugie sull'Iraq, lo scandalo che ha visto la condanna di Scooter Libby anche se tutti sanno che i veri imputati erano Bush e il suo vice Dick Chaney e altre cosette del genere.
Gonzales ovviamente ha subito eseguito. Ma quando la cosa è diventata pubblica ha ritirato la mano, dicendo di non saperne nulla e che tutto era stato gestito dal suo capo dello staff, Kyle Sampson, costretto a dimettersi. La bugia di Gonzales è stata già smascherata dalla scoperta di una riunione convocata apposta per licenziare i procuratori cui era presente lui, la liaison con la Casa bianca Monica e altri. Ma la cosa essenziale avverrà domani, quando Sampson farà al Congresso la sua «volontaria deposizione» presumibilmente arrabbiato per essere stato l'unico, finora, a pagare.

 

 

27 marzo

Afghanistan, rifinanziamo questo
I racconti dei civili vittime della guerra, ricoverati nell’ospedale di Emergency a Lashkargah
Dal nostro inviato Enrico Piovesana 
 
 Lashkargah, provincia di Helmand. Oggi, dopo i feroci combattimenti dei giorni scorsi, la situazione è tornata calma. Ma qui in città il clima è ancora molto teso. Per le strade, polverose e assolate, il traffico è quasi nullo e si vede pochissima gente a piedi. Abbondano invece i pick-up dell’esercito afgano, carichi di soldati in mimetica con i lanciarazzi in spalla e i kalashnikov spianati. In città le forze militari della Nato non si vedono, ma si sentono, nella forma dell’incessante rumore degli elicotteri da combattimento ‘Apache’ che sorvolano ad alta quota il centro abitato.
 
bambino a Lashkargah (Foto di E.Piovesana©PeaceReporter.net)Per vedere gli effetti della guerra che in questi giorni ha infuriato nella provincia basta fare un salto all’ospedale di Emergency – dove tutti sono in terribile ansia per la sorte di Rahmatullah Hanefi, il manager della struttura preso una settimana fa dai servizi segreti afgani. Le corsie sono strapiene di feriti: civili vittime dei bombardamenti dell’aviazione e dell’artiglieria della Nato e dei mitra dei soldati afgani. Le testimonianze dei sopravvissuti e dei loro parenti sono infatti concordi: dopo aver messo in fuga i talebani dai villaggi, i soldati del governo Karzai appoggiati dalle forze Isaf hanno fatto il tiro a segno sulla popolazione civile, sparando contro tutti: anziani, donne e bambini. Chiunque si trovasse a tiro.
 
 Zarghona (Foto di E.Piovesana©PeaceReporter.net)Zarghona ha 25 anni, ma ne dimostra almeno il doppio. Viene dal piccolo villaggio di Malgir, a nord di Lashkargah. Ha il viso completamente fasciato, la mascella fracassata da una pallottola. La stessa pallottola che, prima di entrare nella sua guancia, è entrata e uscita dalla testa del suo bambino di un anno e mezzo, uccidendolo. Parla con un filo di voce, fissando le lenzuola: “Prima hanno iniziato a sparare, poi sono iniziate a cadere le bombe. Tutte le donne del villaggio, come me, sono uscite di casa, fuggendo con i bambini in braccio. Io correvo tenevo mio figlio stretto a me, poi i soldati afgani ci hanno sparato. La stessa pallottola…”. Il pianto interrompe il bisbiglio della donna, che si copre il volto per non farsi vedere. 
  
Zadran (Foto di E.Piovesana©PeaceReporter.net)Zadran ha 16 anni. Viene dal villaggio di Loi Manda, nei pressi di Grishk. Gli hanno tolto dalla gamba cinque proiettili. “E’ iniziata una sparatoria, poi gli inglesi, dal deserto, hanno iniziato a prendere a cannonate il villaggio. Sono corso fuori di casa, volevo scappare. I soldati afgani mi hanno sparato con i mitra, colpendomi alla gamba. In questo modo sono morte, nel mio villaggio, almeno quattro persone, tra cui due bambini e due uomini: questi due sono stati giustiziati dai militari governativi dopo essere stati arrestati senza alcun motivo. Li conoscevo, non erano talebani. Quelli se ne erano già andati”.
  
Rokhana (Foto di E.Piovesana©PeaceReporter.net)Rokhana, 32 anni, sempre di Loi Manda, conferma il racconto del ragazzino. Anche lei è ferita a una gamba, che nasconde sotto le coperte per pudore. Per lo stesso motivo si copre anche il volto con le lenzuola mente parla. “Fuori di casa la guerra si è scatenata d’improvviso. Mi sono precipitata in cortile per portare dentro i miei figli. Appena ho varcato la soglia mi hanno sparato. Hanno sparato anche a mio figlio Askar, ferendolo a un braccio. Due degli altri bambini con cui stava giocando sono morti. Erano i soldati del governo a sparare contro la gente normale, quando i talebani erano già scappati dal villaggio”.
 
 Mirwais (Foto di E.Piovesana©PeaceReporter.net)Mirwais ha 12 anni, viene dal villaggio di Choar Kuza, sempre vicino a Grishk. Giace sdraiato su un fianco, immobile, e resterà così per tutta la vita. La scheggia di un proiettile di mortaio che ha centrato la sua casa gli è entrata nel collo, ledendogli la colonna vertebrale e condannandolo così alla tetraplegia. A parlare è suo padre Zalmay, occhi tristi, pelle scura e rugosa, barba sale e pepe e turbante nero. “Gli inglesi sparavano sul nostro villaggio con i cannoni, da lontano, i soldati afgani sparavano con i fucili, da vicino. Un colpo, forse di mortaio, è caduto fuori dalla nostra casa, uccidendo tutte le nostre bestie e ferendo mio figlio al collo e mia moglie alla gamba. Siamo stati fortunati: un altro colpo è caduto sulla casa dei nostri vicini, radendola al suolo e uccidendo due persone”.
  
Khan Gul (Foto di E.Piovesana©PeaceReporter.net)Khan Gul di anni ne ha 13. Viene da Dehe Adam Khan, appena fuori Grishk. Una scheggia di bomba aerea gli ha fracassato la gamba, ma con le stampelle è riuscito a trascinarsi fino alla corsia delle donne, dov’è ricoverata sua madre, Zibagul Jan, di 35 anni, che non parla più. Vuole tenerle compagnia. Nessun familiare è venuto a far loro visita, perché sono tutti morti sotto le macerie della loro casa, bombardata dall’aviazione Nato. “Eravamo in casa, era sera tardi. Fuori sparavano, c’erano i talebani nel nostro villaggio. A un certo punto è scoppiato tutto. Mio papà e i miei due fratelli sono morti. Io, la mamma, le mie sorelle e i nonni siamo rimasti feriti”.
  
Sarwar (Foto di E.Piovesana©PeaceReporter.net)Sarwar ha 30 anni. E’ di Lashkargah e fa il tassista: possiede, anzi possedeva, un pulmino con cui trasportava la gente dal capoluogo a Grishk, ogni giorno, avanti e indietro. “Stavo guidando verso Grishk con quattro passeggeri. Ho incrociato un blindato Isaf, inglese o americano, non so. Ho avuto paura e non mi sono fermato. Ci hanno sparato addosso con i mitragliatori. Io sono stato colpito allo stomaco. Due dei passeggeri, due uomini, sono morti. Il mio pulmino, la mia unica ricchezza, è andato distrutto, ridotto a un colabrodo”.
 
Sadikha ha 22 anni. Viene dal villaggio di Zumbelay, a est di Grishk. La sua triste storia la conosciamo già: una bomba della Nato ha centrato e distrutto la sua casa. Una scheggia le è entrata in pancia, uccidendo il bambino di cinque mesi di cui era incinta. La incontriamo nel reparto di terapia intensiva, nascosta dietro una tenda. Sta seduta sul bordo del letto, nonostante sia fasciata dalla testa ai piedi. Fissa il vuoto e bisbiglia parole senza senso attraverso la maschera a ossigeno. Forse racconta la storia di questa guerra schifosa.

 

La mercificazione della donna
Violenze e discriminazioni contro le donne nel mondo contemporaneo
di Antonella Randazzo per www.disinformazione.it  
Autrice del libro: "DITTATURE: la storia occulta"

Le autorità occidentali, attraverso i media, denunciano spesso i comportamenti discriminanti e vessatori, contro la donna, presenti all'interno della cultura islamica. Queste denunce danno ad intendere che la cultura occidentale tutela i diritti delle donne. Ma siamo davvero sicuri che le donne siano rispettate nella cultura occidentale? Dai fatti sembrerebbe proprio di no.
Nelle zone occupate dalle truppe occidentali, il livello di disprezzo e di violenza contro le donne è massimo. L’arrivo degli eserciti occidentali (peacekeepers o Caschi Blu, missioni Nato ecc.) produce sempre, oltre allo sfruttamento economico e sociale dei popoli occupati, anche sfruttamento sessuale di donne e bambini. Quasi mai i soldati subiscono processi per questi reati, nemmeno quando il crimine viene denunciato e provato. La violenza contro le donne e i bambini sembra fare parte della "missione" delle truppe occidentali.

Nei paesi del Terzo Mondo, molte donne e bambini vengono ridotti in schiavitù a scopo di sfruttamento sessuale o lavorativo. Le violenze vengono perpetrate direttamente dai soldati occidentali, oppure dalle truppe mercenarie pagate dai governi. I gruppi di guerriglia in Congo, in Somalia, in Etiopia, in Nigeria, in Liberia e in molti altri paesi africani, pagati dagli Usa, quotidianamente attuano stupri e violenze di ogni genere contro le donne, come se ciò facesse parte dell'ingaggio.
Nella Repubblica Democratica del Congo (Rdc), in particolare nella provincia del Nord Kivu, la guerriglia al soldo degli Stati Uniti pratica impunemente lo stupro da alcuni anni. Le organizzazioni umanitarie hanno rilevato, nel 2005, almeno 1292 casi di violenza sessuale e altrettanti casi nei primi mesi del 2006. 
Le violenze contro le donne, insieme ad altri numerosi crimini, vengono utilizzate per distruggere psicologicamente la popolazione, e spezzare ogni resistenza. Racconta l'organizzazione di Medici senza Frontiere che opera in Congo:

Lo stupro è usato come un mezzo per terrorizzare la popolazione, e il numero di casi aumenta con ogni nuovo scoppio di combattimenti e attacchi. Se le giovani sotto i 18 anni sono particolarmente esposte (quasi il 40% dei casi), il gruppo più colpito è quello delle donne tra i 19 e i 45 anni (53,6%). Queste sono le donne che lavorano nei campi per potere mantenere le loro famiglie. Gli atti di aggressione contro di loro hanno luogo principalmente in campi isolati ma anche lungo le strade percorse per arrivarvi. Di conseguenza, le donne limitano i loro spostamenti e nei centri nutrizionali nella missione di Kayna le madri preferiscono alloggiare nelle immediate vicinanze invece di tornare ogni settimana per prendere le razioni per i loro bambini.[1]

In Africa, come in Asia e in Medio Oriente, sono in aumento le violenze contro bambine e donne. Un rapporto di Human Rights Watch (Hrw), del 2005, riporta casi agghiaccianti di violenze sessuali contro donne e bambine praticate da "peacekeepers" dell'Onu. Una ricercatrice di Hrw, Anneke Van Woudenberg, spiega: "Vediamo che nelle zone di conflitto lo stupro è usato sempre di più come un'arma da guerra... Non si tratta di occasionali voglie di sesso dei soldati. Lo stupro sta diventando parte della condotta normale di guerra".[2]
Il rapporto di Hrw sostiene che le violenze sono utilizzate per indebolire le comunità e sottometterle con più facilità. Soltanto nella città di Bunia (Ituri), 40  donne e ragazze, ogni settimana, in seguito alle violenze subite, si rivolgono a Hrw per essere aiutate.

Le truppe dell'Onu in Congo, chiamate con la sigla Monuc, sono state accusate di numerosi casi di violenza sessuale e di prostituzione infantile. La responsabile di Hrw in Congo, Jane Rasmussen, racconta: "I posti in cui sono accaduti i peggiori episodi di violenze sessuali sono gli stessi da cui abbiamo ricevuto le denunce peggiori sul comportamento dei peacekeepers... Il fatto è che le donne sono in una condizione di tale degrado che la cosa appare loro quasi normale. Una ragazza mi ha detto, in lacrime, che almeno quelli del Monuc pagano".[3]
La stessa Onu ha ammesso: "Vi e un modulo di sfruttamento sessuale praticato dai peacekeepers che è del tutto contrario agli standard fissati dal Dipartimento per le operazioni di peacekeeping".
[4]

Le truppe occidentali, o i gruppi di guerriglia al soldo delle corporation e delle banche occidentali, in molti paesi, hanno creato una situazione talmente grave e criminale, che nel contesto gli stupri appaiono il male minore. La fame, le malattie, la denutrizione e il terrore in cui versa la popolazione, trasformano la realtà in un incubo. In Congo muoiono 31.000 persone al giorno, per la guerra e la fame, la maggior parte delle quali sono bambini. Secondo l'International Rescue Committee, dall'agosto del 1998, sono morte circa quattro milioni di persone. Sheila Sisulu, vicedirettore esecutivo del Programma Alimentare Mondiale, racconta episodi di "ordinaria" violenza:

La vita di Annie era serena. Aveva studiato Agraria all'università e suo marito aveva un ottimo lavoro. Vivevano con i loro figli in una casa di quattro stanze a Bukavu, nella Repubblica Democratica del Congo. Poi un giorno suo marito dovette scappare per mettere in salvo la pelle. Cinque soldati governativi, venuti a cercarlo, violentarono Annie e le dissero che sarebbero tornati ad ucciderla. Annie non perse tempo. Prese i suoi figli e se ne andò in cerca di un po' di pace. Nella sua fuga fu fermata dai ribelli che la violentarono a loro volta usando anche delle bottiglie. Solo dopo molto, riuscì a raggiungere un campo profughi. Viveva in una casa di fango con i suoi nove figli. La storia di Annie è abbastanza comune... Nei 14 anni della guerra civile liberiana, il 40 per cento delle donne ha subito violenze. Metà di loro porta ancora i segni psichici e fisici di quell'esperienza. Molte, allontanate dalla propria comunità, sono costrette oggi a prostituirsi per sopravvivere il che le espone ancora di più a abusi e malattie sessualmente trasmittibili come l'HIV/AIDS. Stupri sistematici, torture, schiavitù sessuale sono stati usati per terrorizzare e destabilizzare le comunità di tutto il mondo, da Haiti alla Repubblica Democratica del Congo a Myanmar. Durante la lunga e sanguinosa guerra civile in Sierra Leone, migliaia di donne e ragazze, talvolta bambine di appena sette anni, sono state rapite e ridotte in schiavitù per essere usate sessualmente o come combattenti, obbligate a uccidere.[5]

Le aree di guerra e le basi militari diventano luoghi di sfruttamento e di schiavitù sessuale. In seguito alla creazione di una base militare, si registra l'aumento della prostituzione e delle violenze contro le donne. Nelle zone limitrofe alle basi americane si concentra l'offerta sessuale, perché c'è la domanda. Oltre alla prostituzione, i soldati americani praticano anche diverse forme di violenza e prepotenza contro le prostitute e le donne in genere. A Pordenone si formò un comitato per denunciare tali comportamenti. Racconta Carla Corso: "Il Comitato è nato perché eravamo semplicemente stufe di quello che succedeva a Pordenone, di tutta la prepotenza nei confronti delle prostitute, soprattutto da parte degli americani".[6]

Durante la Seconda guerra mondiale, tutti gli eserciti praticarono la violenza sessuale contro le donne. Alcuni eserciti, come quello giapponese e americano, avevano una certa quantità di schiave sessuali, che erano donne fatte prigioniere e costrette a subire violenze sessuali da tutti i soldati. In Italia, alla fine della Seconda guerra mondiale, le truppe americane costrinsero 40.000 donne napoletane a prostituirsi, e violentarono numerose donne in tutti i luoghi occupati. 
Nel periodo che va dal 1932 al 1945, circa 100.000 donne (l'80% erano coreane) furono ridotte in schiavitù dalle truppe giapponesi. Alcune di queste donne raccontarono cose agghiaccianti, che esprimono un livello di disumanità atroce. Ad esempio, una donna filippina raccontò:

Dodici soldati mi violentarono uno dopo l’altro, dopo di che mi venne data un’ora di pausa. Poi seguirono altri dodici soldati. Erano tutti allineati fuori dalla stanza aspettando il loro turno. Sanguinavo e provavo così tanto dolore che non mi reggevo in piedi. Il mattino seguente ero troppo debole per alzarmi… non riuscivo a mangiare. Provavo molto dolore e la mia vagina era gonfia. Piangevo e piangevo, chiamando mia madre. Non potevo oppormi ai soldati perché mi avrebbero uccisa. Che altro potevo fare? Ogni giorno, dalle 2 del pomeriggio alle 10 di sera, i soldati si allineavano fuori dalla mia stanza e dalle stanze delle altre sei donne che c’erano. Non avevo neanche il tempo di lavarmi al termine di ogni assalto. Di sera riuscivo solo a chiudere gli occhi e a piangere. Il mio vestito strappato si sarebbe sbriciolato a causa della crosta formata dal seme secco dei soldati. Mi lavavo con acqua calda e pezzi di vestito per essere pulita. Tenevo premuto il vestito sulla mia vagina come un impacco per alleviare quel dolore e il gonfiore.[7]

Negli anni Sessanta, si ebbe una massiccia presenza militare americana nel Sud est Asiatico, in particolare in Thailandia, Cambogia, Laos, Vietnam e Birmania. Dopo pochi mesi dall'installazione delle basi Usa, si ebbe una crescita vertiginosa della prostituzione, dei locali notturni e dei luoghi di intrattenimento. I governi locali appoggiarono il fenomeno, permisero l'aumento della prostituzione e non intervenivano in alcun modo nemmeno di fronte a evidenti casi di violenza e maltrattamento. In Thailandia, nel 1950, c'erano 20.000 prostitute, ma dopo la costruzione delle basi americane diventarono 400.000 soltanto a Bangkok. La presenza delle truppe americane e dell'Onu, rese la zona del Sud est Asiatico un luogo di sfruttamento sessuale, anche minorile. In Thailandia, il 30% dello sfruttamento sessuale riguardava bambini. Le bambine thailandesi venivano violentate dai soldati americani, e poi inserite nel "mercato del sesso". I soldati si valsero persino delle "ristrutturazioni" economiche imposte da Washington per pagare le prostitute soltanto pochi spiccioli. Nel 1997, pagavano sessanta dollari per andare con una prostituta thailandese, ma dopo le "riforme", i soldati pagavano pochi dollari, avvantaggiandosi della svalutazione del bath thailandese.

Alla fine della guerra del Vietnam, a Saigon c'erano circa 500.000 prostitute. Racconta la studiosa Paola Benevene: "Le basi militari hanno fatto sviluppare le città asiatiche o ne hanno fatto addirittura sorgere di nuove, semplicemente promuovendo la creazione di locali pubblici provvisti di prostitute".[8]
In Cambogia, nel 1991, dopo la firma degli accordi di pace, giunsero 100.000 soldati, oltre a funzionari delle Nazioni Unite e di altre istituzioni internazionali. Immediatamente il numero delle prostitute aumentò, e nel giro di due anni le donne sfruttate sessualmente salirono da 6.000 a 20.000.

Negli anni Sessanta, venne creata la più grande base Usa nella città di Olongapo, a Nord di Manila. Dopo pochi anni, la città divenne un enorme bordello. Su una popolazione di 200.000 abitanti, 60.000 donne e bambini vennero ridotti in schiavi sessuali dei soldati americani. Quando gli americani andarono via, nel 1992, molti soldati in pensione ritornarono a Olongapo per "fare affari", continuando a sfruttare le donne e i bambini all'interno del giro di prostituzione creato anni prima.    
Ovunque sorgono basi militari Usa, cresce a dismisura la prostituzione, e in molte zone viene creato dal nulla un giro di sfruttamento sessuale di donne e bambini. Anche nei territori della ex Jugoslavia, le truppe americane hanno creato un giro di prostituzione e di schiavitù sessuale. In Bosnia, nel 1992, durante i primi mesi di guerra, si stima una quantità di 20.000/50.000 donne stuprate dalle truppe occidentali.

La DynCorp , una grande società americana che fornisce servizi all'esercito americano, in Kosovo e in Bosnia mandò numerosi impiegati e quadri, che crearono una rete di schiave sessuali, anche bambine di 12/15 anni. Il traffico venne in seguito denunciato da alcuni impiegati, ad esempio, da Ben Johnston, che nel 2002 svelò alcuni particolari del sistema di schiavizzazione della DynCorp: "Da quando sono arrivato, mi si è parlato di prostituzione, ma ho impiegato del tempo per capire che si compravano le ragazze con 600/800 dollari. Io ho detto che questa è semplicemente schiavitù".[9]

Nonostante le denunce avessero prodotto molta indignazione e sollevato un'inchiesta, la DynCorp non subì alcuna penalizzazione, e i suoi uomini vennero considerati come impunibili, allo stesso modo dei soldati americani. Il caso della DynCorp non è l'unico, ma svela una consuetudine degli americani.  
In Iraq e in Afghanistan, moltissime donne vengono quotidianamente violentate da soldati americani e britannici. I casi di violenza vengono in gran parte occultati, ma alcune donne hanno avuto il coraggio di raccontare fatti agghiaccianti: torture, maltrattamenti e violenze subite in seguito all'arresto arbitrario da parte delle truppe d'occupazione. Le organizzazioni che si battono contro le violenze alle donne, Women Against Rape  (Donne Contro lo Stupro) e Women's Rape Action Project  (Progetto d’Azione Contro lo Stupro delle Donne Nere), raccontano:

Le donne irachene ci hanno detto che le donne sono in prigione per essere interrogate e torturate perché rivelino informazioni sugli uomini loro parenti. Per le donne la tortura comincia quasi sempre con la tortura dello stupro, spesso stupro da più uomini... Una donna dell'Università di Baghdad che lavora per Amnesty International ha descritto gli abusi sessuali a cui è stata personalmente sottoposta a un posto di blocco e quello che ha saputo da altre donne. "Mi ha puntato la luce laser direttamente in mezzo al petto e poi ha indicato il suo pene. Mi ha detto 'Vieni qua, puttana, che ti scopo'".[10]

Le donne rinchiuse nelle prigioni irachene sono regolarmente maltrattate e umiliate. Abdel Bassat Turki, ministro dimissionario per i diritti umani, spiega: "Venivano loro negate le cure mediche. Non avevano veri gabinetti. Ricevevano solo una coperta anche se era inverno. E le loro famiglie non potevano visitarle".[11] Molte donne irachene e afghane non raccontano le violenze subite per vergogna, per paura o perché traumatizzate. Un avvocato iracheno ha raccontato che una donna, ex-prigioniera di Abu Ghraib, "svenne prima di fornire maggiori dettagli dello stupro e delle coltellate subite da parte dei soldati americani".[12] Altre ex-detenute si vergognano a raccontare quello che hanno subito, e non ne parlano, anche per nasconderlo alle famiglie.

Women Against Rape ha denunciato che alcuni soldati inglesi hanno scattato foto di stupri e violenze, che poi hanno fatto circolare come materiale pornografico. Le truppe americane e britanniche praticano violenze sessuali anche su bambini, come è stato denunciato da numerose associazioni umanitarie. Esistono foto e video che documentano queste atrocità, e sono stati visionati anche da alcune autorità anglo-americane, come il vicepresidente americano Dick Cheney, che hanno fatto finta di non aver visto.
Le violenze riguardano anche le stesse donne soldato dell'esercito statunitense. Dorothy Mackey, ex-capitano di aviazione, in seguito alle violenze sessuali da lei stessa subite, si è messa in contatto con molte altre donne dell'esercito vittime di stupri e violenze. Queste donne raccontano che gli abusi sessuali, quasi sempre, non vengono puniti dalla gerarchia militare, che non li considera reati.

La "globalizzazione", impoverendo molti paesi, ha prodotto il fenomeno della tratta e riduzione in schiavitù delle donne. Molte donne, spesso giovanissime, vengono adescate con la promessa di un posto di lavoro, ma una volta uscite dal loro paese vengono violentate, schiavizzate e costrette a un'esistenza da incubo. Queste donne vengono inserite nel giro di prostituzione di molti paesi europei. Ad esempio, in Belgio, almeno il 15% delle prostitute sono state ridotte in schiavitù dopo aver lasciato il loro paese. La maggior parte di esse proviene dall’Europa orientale, dalla Colombia, dal Perù e dalla Nigeria. Anche in Svizzera, ogni anno, vengono introdotte 1500/3000 donne schiavizzate.

Il traffico degli esseri umani è gestito e coordinato dalle stesse reti mafiose che si occupano del mercato della droga e delle armi. Ogni anno,  almeno 800.000/900.000 persone sono vittime della tratta, l'80% di esse sono bambini e donne. Mentre l'immigrazione illegale viene controllata e severamente perseguita da leggi gravemente discriminatorie, il traffico umano viene occultato attraverso passaggi illegali che permettono ai trafficanti dell'Europa dell'est o africani, di portare in Italia o in altri paesi, gruppi di ragazze da inserire nella rete della prostituzione. Il commercio degli esseri umani, specie donne e bambini, è oggi più che mai fiorente, e interessa sia lo sfruttamento sessuale e lavorativo, sia l'accattonaggio ed il traffico di organi umani.

La tratta degli esseri umani è aumentata a dismisura in seguito all'impoverimento dei paesi dell'est europeo, della ex Jugoslavia e della ex Unione Sovietica. Dall'inizio degli anni Novanta, la Banca Mondiale è intervenuta a saccheggiare questi paesi. Il Fondo Monetario Internazionale ne ha gravemente indebolito l'economia, accrescendo la miseria di numerose famiglie. In seguito alle "riforme" imposte, la disoccupazione ha raggiunto livelli molto elevati, e anche chi lavora guadagna così poco da non poter pagare il necessario per la sopravvivenza. Per questo, con la promessa di un lavoro, molte ragazze di questi paesi sono disposte a rischiare e a partire, ritrovandosi poi schiavizzate e costrette a prostituirsi.

Alcune di esse, per la miseria, hanno accettato di entrare in un giro di prostituzione che si basa su cataloghi o su foto pubblicate su alcuni siti internet, attraverso i quali, "l'utente" occidentale può "valutare la merce" e "acquistarla". L'offerta è in aumento perché è in crescita la domanda di molti uomini europei, che pur sapendo che si tratta di un traffico basato sulla miseria e sulla disperazione, chiedono di fare sesso con queste donne. 
Tutti questi fenomeni criminali non vengono seriamente contrastati dai governi, che si limitano di tanto in tanto a fare qualche indagine, ma non mettono in pratica efficaci strategie per impedire che le immigrate vengano costrette a prostituirsi.

Le donne schiavizzate sono tenute sotto minaccia, e talvolta torturate con sigarette spente sulla pelle o violenze fisiche e psicologiche di vario genere. La situazione di schiavitù delle donne straniere costrette a prostituirsi, è ormai nota a tutti, eppure una grande quantità di uomini europei vanno con queste donne, rendendosi complici di crimini gravissimi. La responsabilità di questi uomini è assai grave, perché se non ci fosse la domanda non ci sarebbe nemmeno l'offerta.
Anche nelle zone dove non c'è guerra, la violenza contro le donne può essere elevata. Nel mondo, secondo le stime dell'United Nations Development Fund for Women (Fondo di sviluppo delle Nazioni Unite per le donne, Unifem), una donna su tre è stata picchiata, violentata o abusata almeno una volta nella vita. Le percentuali variano da paese in paese: in Canada il 29 %, in Nicaragua il 28 %, in Australia il 23%, in Cambogia il 16 %, ecc. Nel 70% dei casi di assassinio di donne, il colpevole è il coniuge.

Nei paesi poveri, spesso le violenze determinano l'entrata nel giro delle prostituzione. In India, ogni anno quasi 2 milioni di bambine, tra i 5 e i 15 anni, vengono avviate alla prostituzione, mentre in Bangladesh, negli anni Novanta, sono state schiavizzate oltre 200.000 donne, molte delle quali giovanissime. 
L'Italia, fra i paesi europei, ha il triste primato del turismo sessuale. Ogni anno circa 80.000 uomini italiani vanno all'estero per avere rapporti sessuali con ragazzine più giovani delle loro figlie. Questi uomini, non avendo integrato gli aspetti femminili della loro personalità, che la nostra cultura svaluta e reprime, esprimono tutto il loro disprezzo verso il femminile facendo sesso con bambine che ricevono in cambio pochi spiccioli per comprare l'acqua e una scodella di riso. Come se quelle bambine non dovessero avere gli stessi diritti delle loro figlie.

Su questo sconcertante fenomeno, scriveva Enzo Baldoni: "Ma non sono quasi tutti mariti, quasi tutti padri i milioni di tedeschi, italiani, inglesi, americani che ogni anno affollano i bordelli della Thailandia (o del Brasile) per montare addosso a bambine di dieci, otto perfino quattro anni?"[13] 
Anche nel mondo ricco molte donne subiscono discriminazioni, violenze e maltrattamenti. Negli Stati Uniti, ogni anno 700.000 donne vengono violentate o aggredite, mentre in Francia, 50.000/90.000 donne subiscono violenza sessuale, e la maggior parte di esse non sporge alcuna denuncia.

Tutte le religioni tradizionali discriminano le donne, impedendo l'amministrazione del culto e imponendo dottrine che le penalizzano. Il mondo ricco non tratta la donna al pari dell'uomo, ma la relega nelle mansioni più umili e la considera per il suo aspetto estetico, all'interno di un sistema mediatico che esalta la sessualità nei suoi aspetti più istintivi. 
La propaganda mediatica, punta a convincere che la donna occidentale gode degli stessi diritti dell'uomo, per scoraggiare ogni lotta per un'effettiva parità. Negli anni Settanta si parlava di femminismo e di lotte per la parità, ma oggi ciò appare come ridicolo e obsoleto, e questo sancisce la reale condizione di inferiorità della donna, spacciata per parità.

Mentre la cultura islamica nasconde la donna o la isola socialmente, la cultura occidentale tende a denigrarla, e a farla apparire come oggetto sessuale o merce. In entrambi i casi si tratta di culture maschili e maschiliste, che temono gli aspetti femminili dell'essere umano, come l'intuito, la crescita emotiva e la creatività, e per sopperire a questo, alimentano gli aspetti del maschile che non sono costruttivi né creativi, come il militarismo e il machismo. 
Le donne del mondo ricco sono esposte al martellamento mediatico denigrante e mercificante, che le destabilizza e in molti casi provoca disturbi alimentari o scompensi di vario genere. Il martellamento punta a farle sentire fisicamente inadeguate, attraverso modelli perfetti, dotati di magrezza non naturale o di caratteristiche fisiche non comuni.

In Italia 3 milioni di persone soffrono di anoressia o bulimia, e nel 95% dei casi si tratta di donne. Queste patologie emergono soprattutto nella fascia d'età che va dai 12 ai 25 anni. La bambina, fin da piccola, apprende che l'avvenenza sessuale è la cosa più importante richiesta alla donna, e che i modelli estetici proposti dai media sono praticamente irraggiungibili. Una ricerca della Società Italiana di Pediatria ha fatto emergere che già le ragazzine delle scuole medie, per il 60,4%, sono preoccupate per il loro peso, e vorrebbero diventare più magre. Molte di esse, per adeguarsi al modello estetico proposto dai media, intraprenderanno diete che potranno dare inizio a problemi nell'alimentazione.

Le modelle delle passerelle o le ragazze delle copertine delle riviste, spesso hanno un corpo sottopeso, e non godono di salute fisica come dovrebbero, essendo sottoposte a diete non salutari. Esse stesse sono vittime del modello imposto nel mondo della moda e della pubblicità, e possono avere conseguenze gravi per la loro salute. Alcune di esse giungono alla morte.
Per uscire dalle patologie alimentari occorrono spesso lunghe cure psicoterapiche, che operino in senso contrario rispetto alla destabilizzazione psicologica dei media, facendo acquisire alle ragazze  sicurezza in se stesse e recuperare la loro interezza di persone.

In Italia non c'è alcuna parità fra uomo e donna. Le donne sono discriminate nel lavoro, nella società e talvolta anche in famiglia. Esse lavorano con salari più bassi e meno possibilità di carriera. Negli ordini professionali o nei posti di comando le donne sono pochissime, così come nel settore della politica e della burocrazia. Le donne lavorano in quelle mansioni che richiedono bella presenza, come la commessa, oppure nelle mansioni più umili o poco qualificati, come nelle pulizie o nell'assistenza agli anziani. Nel resto dell'Europa e negli Usa c'è una situazione analoga, anche se l'occupazione femminile è più elevata e ci sono più donne nelle posizioni di prestigio.

In Italia proliferano i concorsi di bellezza, e persino la Rai dedica ogni anno molte serate all'elezione di Miss Italia, esaltando l'evento come fosse importantissimo. Gli spettacoli televisivi mostrano donne poco vestite, che vengono utilizzate per la loro avvenenza. Da anni ormai ci siamo abituati all'esistenza di programmi in cui sono presenti una o più figure femminili che si offrono alla vista ma non hanno alcun ruolo né competenze professionali. In alcuni di questi programmi, vengono fatte inquadrature maliziose di seni, glutei o labbra gonfie e invitanti. Negli ultimi anni, i modelli femminili proposti in TV sono diventati sempre più lontani dalle donne reali, e sempre più vicini a quelle immagini delle riviste che nei tempi passati venivano nascoste dietro le edicole. Le vallette in TV, spesso non hanno nemmeno un nome, e subiscono una depersonalizzazione che ha lo scopo di farle apparire semplicemente come oggetti sessuali seducenti. 

Nel 2005, noi italiani abbiamo ricevuto alcuni consigli da uno speciale comitato dell'Onu (il Comitato per l'eliminazione della discriminazione contro le donne), che denunciava la tendenza, in Italia, a mercificare il corpo femminile nei media (TV, pubblicità) e a relegare la donna in ruoli subalterni. Il comitato dell'Onu osservava che "tali atteggiamenti sono la causa della posizione svantaggiata delle donne sul lavoro e nella politica", e consigliava di "promuovere un'immagine delle donne alla pari in tutte le sfere della vita".[14]
Negli ultimi decenni, in Italia, la qualità dei programmi TV si è talmente abbassata da ridursi quasi esclusivamente a spettacoli scadenti, volgari o sgradevoli, che mettono in ridicolo o umiliano la figura femminile. Ad esempio, qualche tempo fa, in una puntata di "Porta a Porta", il conduttore Bruno Vespa ospitava una donna che doveva mostrare i suoi seni prorompenti, come se ciò fosse indispensabile per consentire agli ospiti di trattare il problema della chirurgia del seno. 

La TV mostra molto spesso il corpo femminile nudo o seminudo  utilizzato come oggetto di seduzione, per la pubblicizzazione di qualsiasi prodotto. Queste pubblicità, trasmesse a tutte le ore, sono altamente diseducative perché promuovono l'idea di donna come oggetto sessuale, e mostrano corpi femminili perfetti, che producono nelle donne comuni complessi d'inferiorità.
In questi giorni, l’Istat ha notificato un'indagine sulla condizione femminile nel nostro paese, rilevando un livello altissimo di violenza contro le donne. I comportamenti di minaccia o persecutori di ex partner riguarderebbero almeno 2.077.000 donne. Le vittime di violenze fisiche o sessuali sono 6.743.000, mentre le donne che hanno subito violenze psicologiche dal partner sono 7.134.000. Negli ultimi 12 mesi, oltre un milione e mezzo di donne sono state vittime di violenza sessuale o fisica. Gli stupri spesso non sono denunciati, e molte donne non parlano con nessuno delle violenze subite. Dall'indagine emerge che ogni tre giorni una donna viene uccisa da un uomo. Nel 2005 le donne uccise dagli ex partner sono state 134, e 112 nel 2006.

Nel 2006, in Italia, ci sono stati 74.000 stupri, il 6,6% dei quali ha riguardato minorenni. Ogni anno 500.000 donne italiane denunciano casi di stupro, di molestie o di tentata violenza. 
La cultura occidentale, dominata dal maschile, teme la donna a tal punto da avvilire la sua personalità ponendo limiti al suo rappresentare se stessa. Tale cultura ha creato numerosi stereotipi negativi sulla donna. Ad esempio, c'è lo stereotipo della segretaria che siede sulla gambe del "capo", ad intendere di essere sottomessa al suo prestigio e potere; c'è la donna bella e poco intelligente che si comporta da ochetta, e c'è la donna brutta e occhialuta che è intelligente. Come se una donna bella non potesse essere un'intellettuale. C'è anche lo stereotipo della "malafemmina", cioè la donna che imbriglia l'uomo con la seduzione. Questi stereotipi puntano a condizionare la personalità femminile o a porla in ambiti ristretti.

Nella cultura occidentale, il modello di successo femminile non viene collegato a meriti o a talenti della donna, ma al matrimonio che essa contrae. Il modello femminile tradizionale è quello della donna che realizza se stessa con un buon matrimonio, cioè sposando un uomo di buon livello socio-economico.
Negli ultimi anni, gli stereotipi e i modelli femminili offerti dai media hanno acquisito caratteristiche ancora più negative, attraverso i personaggi proposti dalla TV, come le veline e le vallette. Si tratta di donne giovani che non fanno nulla, ma si limitano a mostrare parti del loro corpo muovendosi in modo seduttivo. Molte ragazze vorrebbero assumere quei ruoli, e per questo alcune di esse sono disposte anche ad offrire "prestazioni sessuali", come i recenti scandali hanno rivelato. Queste ragazze sono cresciute vedendo pubblicità seduttive e TV spazzatura, e sono state condizionate a tal punto da non essere in grado di assumere l'integrità della loro persona come valore fondamentale.

La cultura occidentale illude la donna di essere libera sessualmente, ma "mercificare" non significa liberare. Nelle civiltà dominate dal maschile è l'uomo che vuole stabilire quale debba essere la personalità e la sessualità femminile, attuando un controllo che tende ad alterare ciò che il femminile originariamente è o può essere. 
Negli ultimi decenni, i media occidentali puntano a fare in modo che la donna abbassi il concetto che ha di se stessa, fino a ritenere di valere soltanto per le sue qualità estetiche. Sempre più programmi televisivi parlano di interventi chirurgici per modellare il corpo o per eliminare le rughe. L'invasione massiccia di questi programmi e delle pubblicità di prodotti per la bellezza o per il trucco, rischiano di farci perdere di vista che prima ancora di essere donne o uomini, siamo persone, e come tali abbiamo diritto al rispetto del nostro corpo e della nostra dignità di esseri umani. Le risorse dell'uomo sono sia "maschili" che "femminili", e risulta impossibile un vero progresso culturale e umano se non si integrano tutti gli aspetti, e se non si diventa capaci di rispettare ogni essere umano nel suo valore di persona.

Antonella Randazzo ha scritto Roma Predona. Il colonialismo italiano in Africa, 1870-1943, (Kaos Edizioni, 2006); La Nuova Democrazia. Illusioni di civiltà nell'era dell'egemonia Usa (Zambon Editore 2007) e "DITTATURE: la storia occulta" (Edizione Il Nuovo Mondo, 2007).
Se vuoi lasciare un commento agli articoli o ai libri di Antonella Randazzo vai a  http://antonellarandazzo.blogspot.com/ 

 

26 marzo

Cessate il fuoco
Il bollettino settimanale delle guerre e dei conflitti in corso n.12 - 2007 dal 15 al 21/3
Somalia.  Almeno 232 morti dall'inizio 2007 
 
Il 21, almeno 22 persone sono rimaste uccise a seguito di scontri tra truppe somalo-etiopi e miliziani nella capitale Mogadiscio.
Il 18, un civile è stato ucciso da un proiettile di mortaio a Mogadiscio.
Il 16, l'esplosione di una mina ha causato la morte di 9 persone alla periferia di Mogadiscio.
 
Rep. Centrafricana. Almeno 3 morti dall'inizio 2007 
 
Il 17, almeno 3 persone sono morte negli scontri avvenuti nella località di Sibut, 150 km a nord-est di Bangui, durante una manifestazione di protesta di ex-combattenti.
 

Nigeria.  Almeno 27 morti dall'inizio 2007 

 Il 16, un militante del delta del fiume Niger è morto in occasione di un assalto alla stazione di polizia di Okrika, nel sud del Paese.

Colombia. 70 morti accertati dall'inizio dell'anno 
 
Il 16, una bomba è esplosa in una banchina del porto di Buenaventura, causando la morte di 4 persone, 7 i feriti. Lo riferiscono fonti delle autorità civili.
Il 20, 4 guerriglieri delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia sono rimaste uccise in due diverse battaglie contro l'Esercito, nelle zone rurali dei dipartimenti di Caldas e Quindio, nel centro-est del paese. Lo riferiscono fonti militari.

Israele e Palestina. Dall'inizio dell'anno sono morte almeno 91 persone.
 
 Il 16, un agente dell'intelligence militare palestinese è stato ucciso a Deir al Balah, località a sud di Gaza, da miliziani palestinesi.
Il 19, un dirigente della Jihad islamica è stato assassinato in un attentato a Gaza.
Il 21, un militante di al-Fatah è morto a Beit Lahiya, nella Striscia di Gaza, in uno sconotro a fuoco con la polizia di Hamas. Lo stesso giorno, a Nablus in Cisgiordania, un palestinese è morto durante un'incursione dell'esercito israeliano.

Algeria. Dall'inizio dell'anno sono morte almeno 11 persone.

Il 19, 5 presunti terroristi sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco con l'esercito a Haizer, nella regione della Cabilia.

La testimonianza raccolta dall'Osservatorio militare
Gli interventi riguarderebbero il 70 per cento del personale

Uranio impoverito, un militare denuncia:
"Moltissimi reduci operati alla tiroide"

La notizia durante la conferenza stampa della commissione parlamentare d'inchiesta
Confermati i dati: i decessi sono più di 40, i malati oltre 500

ROMA - Molti militari italiani reduci da missioni all'estero sono stati operati alla tiroide in seguito alla presunta contaminazione da uranio impoverito. A denunciarlo un giovane soldato tornato dal teatro bellico dei Balcani e da tempo sotto controllo medico. La sua testimonianza è stata affidata a Domenico Leggiero, dell'Osservatorio militare, un'associazione che assiste gli appartenenti alle forze armate e i loro familiari.

Un'affermazione scioccante, ancora di più per le dimensioni del fenomeno, che, secondo il militare, riguarderebbe il 70 per cento dei reduci, costretti a sottoporsi da un intervento alla tiroide a titolo preventivo. Secondo le informazioni raccolte dall'Osservatorio militare, le operazioni verrebbero effettuate in un ospedale di Siena e in altre strutture convenzionate con l'esercito.

"Noi non siamo in grado di confermare queste cifre" spiega Leggiero, "ma ci aspettiamo che qualcosa si muova in Parlamento per fare chiarezza sulla questione. Anche se si trattasse soltanto della metà, si tratta di un dato comunque enorme ed è necessario poter avere accesso a queste informazioni".

E questo è l'obiettivo della Commissione parlamentare d'inchiesta del Senato sull'uranio impoverito, la cui presidente, Lidia Menapace (Prc) ha illustrato questa mattina le linee guida che verranno seguite.

Uno dei primi compiti della Commissione riguarderà la raccolta e l'analisi statistica dei dati, per le quali la Commissione intende rivolgersi all'Istat, all'Istituto superiore di Sanità, alla Direzione generale della sanità militare, ha detto la Menapace, "al fine di acquisire elementi e valutazioni di tipo oggettivo ed ufficiale".
Ad oggi, infatti, non ci sono certezze sul numero esatto delle vittime: secondo l'Osservatorio i morti sarebbero 45 e i malati 515, affetti da patologie riconducibili all'esposizione all'uranio impoverito, usato in modo massiccio negli armamenti della Nato soprattutto nei Balcani. Altre associazioni hanno dati diversi, così come diversi sono quelli forniti dalla Difesa.

Oggi non ci sono praticamente più dubbi sull'esistenza di un nesso fra i decessi e le malattie dei reduci da missioni all'estero e l'esposizione all'uranio impoverito, anche se il tema continua ad essere oggetto di forti polemiche e indagini. La commissione Mandelli, in tre successive relazioni, ha concluso che rispetto al numero statisticamente atteso le vittime nel gruppo di riferimento (i militari che hanno preso parte a diverse operazioni nelle zone "incriminate") sono quattro volte superiori, ma non è stata in grado di collegare direttamente la presenza dell'uranio ai casi di tumore registrati. E una successiva commissione di inchiesta ha sostenuto che i dati della Mandelli erano probabilmente sbagliati e sottostimati.

23 marzo

Tredici ordinanze di custodia cautelare notificate a uomini delle forze dell'ordine ed ex manager
Avrebbero ricevuto denaro per raccogliere informazioni riservate raccolte in 30 archivi

Dossier illegali Telecom, nuovi arresti

Accuse a Bossi e Berlusconi in un appunto

Nei guai Tavaroli, Ghioni, Iezzi e l'ex giornalista di Famiglia Cristiana, Sasinini

In una sua agenda si parla di 70 miliardi passati da Fi alla Lega in cambio della "fedeltà"

MILANO - In un appunto sequestrato a un giornalista arrestato per il caso delle intercettazioni penali Telecom, si parla di un accordo fra Bossi e Berlusconi per una cifra vicina ai 70 miliardi. Guglielmo Sasinini, ex di "Famiglia Cristiana", agli arresti domiciliari nell'ambito dell'inchiesta sui dossier illegali, scrive di una presunta dazione di denaro che sarebbe passato da Silvio Berlusconi ad Umberto Bossi "in cambio della totale fedeltà".

E' quanto si legge a pagina 303 dell'ordinanza con la quale il Gip Gennari ha disposto l'arresto di 13 persone. A fianco della presunta operazione appare anche il nome di Giulio Tremonti senza alcuna ulteriore spiegazione. Negli appunti si dice che il periodo sarebbe stato quello in cui venne "pignorata per debiti la casa di Bossi".

L'appunto. Come scrive l'Adn-Kronos, in uno degli appunti viene riportata sotto la scritta 'epoca' il "pre governo Berlusconi". Subito dopo sotto il titolo 'accordo' si legge "Bossi-Berlusconi-Tremonti. 70 mld dati da Berlusconi a Bossi in cambio della totale fedeltà". E ancora. Sotto la scritta 'periodo' si legge "in quel periodo pignorata per debiti la casa di Bossi. Debiti già ripianati con... di 70 mld". Infine, nel medesimo appunto, sotto l'indicazione pre governo Berlusconi, si legge che "sottosegretario Minniti... da ex Sisde ha saputo una...?".

Sulla questione arriva, immediata, la smentita di Nicola Ghedini, legale di Berlusconi: "Le notizie apparse in merito a presunti accordi intercorsi tra l'Onorevole Bossi e l'Onorevole Berlusconi sono non soltanto destituiti di ogni fondamento, ma frutto di una assoluta fantasia che sarebbe risibile se non apparisse connotata da scopi diffamatori o ancora peggio per inquinare la vita politica del Paese". Per Bossi si tratta di "una bufala colossale".

Anche il leghista Roberto Castelli interviene duramente: "E' la bugia più clamorosa di tutta l'inchiesta".

Afef. E da un interrogatorio di Fabio Ghioni, uno degli arrestati, emerge anche che il gruppo degli "spioni" interno a Telecom capitanati da Giuliano Tavaroli, avrebbe considerato Afef Jnifen, la moglie di Marco Tronchetti Provera "un elemento incontrollabile e una fonte di vulnerabilità per l'azienda". Ghioni, ex esperto informatico di Telecom, ne parla ai giudici nell'interrogatorio del 13 marzo 2007. Il fatto che Afef godesse di questa reputazione, fu, secondo quanto dice Ghioni, "oggetto di discussione in qualche riunione a cui io stesso ho partecipato assieme a Sasinini, Bastin e Mapelli, organizzata dallo stesso Tavaroli". Ghioni spiega poi quali perplessità circondassero la moglie dell'ex numero uno di Telecom. "Gli aspetti di vulnerabilità emersi in quelle riunioni riguardavano soprattutto i rapporti tra la signora e l'onorevole Berlusconi e Tarek Ben Ammar, rapporti risalenti ai tempi di Squattriti, ex marito della signora Afef. Rammento che - aggiunge - era soprattutto Sasinini a battere su tali vulnerabilità prendendo in particolare considerazione i rapporti non buoni tra il presidente e l'onorevole Berlusconi e il pericolo che la signora Afef potesse comunicare ad elementi del governo Berlusconi notizie riservate dell'azienda".

I nuovi arresti. Ci sono anche poliziotti ed ex agenti segreti stranieri tra i nuovi arresti ordinati nell'ambito dell'inchiesta milanese sui dossier illegali. Avrebbero ricevuto denaro per raccogliere illecitamente le informazioni contenute nei dossier illeciti. Tra le tredici ordinanze notificate, compare il nome di Fulvio Guatteri, ex ufficiale di collegamento tra i servizi segreti francesi e quelli italiani, poi passato a Europol, e quello di John Paul Spinelli, ex agente Cia. A quanto si è appreso da fonti giudiziarie, Guatteri sarebbe irreperibile e ancora non è certa l'esecuzione dell'arresto di Spinelli: l'ex agente Cia, ufficiale di collegamento tra i Servizi americani e quelli italiani, vive negli Stati Uniti ed è titolare dell'agenzia investigativa Global Security Service, per la quale, in passato, aveva lavorato anche Marco Bernardini, ex agente del Sisde e considerato dagli investigatori la 'gola profonda' dell'indagine.

Nuovi provvedimenti contro Giuliano Tavaroli e Fabio Ghioni, entrambi già in carcere. Provvedimento restrittivo anche per Pierguido Iezzi, ex manager di Pirelli, incaricato della sicurezza all'interno dell'azienda, già arrestato in un'altra fase delle indagini e per l'ex giornalista di Famiglia Cristiana Guglielmo Sasinini, già agli arresti domiciliari.

L'elenco degli arrestati prosegue con Mirko Ferrari, ex guardia forestale; Amedeo Nonnis, artificiere in servizio presso la questura di Milano; Francesco Rossi, investigatore ed ex appartenente al Sisde; Diego Tega, ex militare della Guardia di finanza e ora investigatore privato; Antonio Vairello, ex sindacalista e dipendente Alitalia; Edoardo Dionisi, brigadiere dei carabinieri.

I fermi sono stati ordinati tra Roma, Prato e Savona, in Liguria. Le imputazioni contestate sono quelle ipotizzate nelle precedenti ordinanze di custodia cautelare: associazione a delinquere, corruzione, appropriazione indebita e l'aver utilizzato informazioni acquisite illecitamente. Tra le informazioni illecite vi sarebbero precedenti penali, informazioni tributarie, fiscali e anagrafiche, accertamenti bancari rivenduti, secondo l'accusa, in cambio di lauti assegni. Spiati, uomini politici, giudici e giornalisti.

La storia. Per i trenta dossier illegali, nel dicembre scorso era finito agli arresti anche l'ex numero due del servizio segreto militare Marco Mancini, già coinvolto con l'accusa di concorso in sequestro di persona nell'indagine sul rapimento dell'ex imam di Milano Abu Omar. Nell'ordinanza cautelate, il gip Giuseppe Gennari scrisse che Mancini avrebbe ricevuto da Tavaroli e anche da Pierluigi Iezzi, il manager che aveva sostituito il collega alla guida della Security di Telecom, "somme di denaro" in cambio di "dati segreti e riservatissimi sfruttando la funzione rivestita".

 

Difendete Emergency

Astrit Dakli

Gino Strada ed Emergency sono sotto tiro: il governo italiano li deve difendere, con tutti i mezzi, contro chi li minaccia.

A Gino Strada e ad Emergency il governo italiano ha chiesto di fare da intermediari per la liberazione di Daniele Mastrogiacomo e del suo interprete. Il governo non voleva o non era in grado di trattare direttamente con il gruppo di talebani autore del sequestro, non si fidava - giustamente - di quello che avrebbe potuto fare il governo afghano e temeva quello che avrebbero potuto fare gli Stati uniti - l'esperienza di Nicola Calipari brucia, Massimo D'Alema lo ha ricordato ancora di recente. Dunque la via scelta per arrivare alla liberazione del collega Mastrogiacomo passava per Emergency, cioè per una trattativa vera con i talebani: è stata una scelta giusta e saggia - e ha avuto successo.
Ora però sta succedendo quel che era ben prevedibile: la Casa bianca fa sapere di essere molto delusa per la trattativa e per la liberazione di «cinque pericolosi terroristi» in cambio della vita di Mastrogiacomo. Una posizione scontata - tantopiù alla luce della proposta italiana di far partecipare i talebani alla futura conferenza di pace, «una pessima idea» per Washington. In conseguenza dell'irritazione statunitense, tutto l'arco politico italiano che dall'estrema destra arriva fin ben dentro l'Unione si mette in agitazione e denuncia la «resa» di Prodi e D'Alema; il coro uniforme dei media, già entusiasta per la liberazione del collega in pericolo, ora comincia a criticare sia lui (incauto! proprio come Giuliana Sgrena...) sia chi lo ha liberato (amico dei terroristi!). Più pericolosamente, il braccio afghano degli Usa, Hamid Karzai, interpreta l'irritazione americana tenendo prigioniero il mediatore di Emergency e assediandone la sede. Le possibilità per Emergency di continuare a operare in Afghanistan appaiono a rischio.
E il nostro governo, che fa adesso? Tira indietro la mano che ha spinto Strada ad agire? Sarebbe davvero una scelta indecorosa. Se c'è stato un errore nel modo in cui la vicenda è stata condotta a termine (parzialmente, poi: non dimentichiamo che l'autista di Mastrogiacomo è stato ucciso e l'interprete è sparito) questo si può trovare nell'eccesso di pubblicità che l'ha circondata. Forse c'è stata qualche foto e qualche dichiarazione di troppo, una maggior discrezione sarebbe stata opportuna; forse fin dall'inizio il governo italiano doveva cercar di esporre di meno Emergency e di più se stesso. Ma adesso che le cose sono chiare, che Gino Strada è sotto tiro - e non solo metaforicamente - è ora che Prodi e D'Alema non solo lo difendano ma rivendichino tutto quanto è stato fatto, assumendosene la piena responsabilità. Se questo, come è probabile, comporterà una forte tensione con Washington (e con gli americani della nostra politica) pazienza: ne verrà tanta chiarezza in più e, possiamo giurarci, migliorerà il rating del governo nei sondaggi.

 

Sos dal mondo dell'agricoltura

Il cambiamento climatico mette in crisi i campi. Con il gelo di questi giorni e la sicura siccità estiva c'è il rischio di un tracollo

Roberto Tesi

L'agricoltura italiana è di nuovo in emergenza e lancia un grido di aiuto: stati i cambiamenti climatici a provocare danni enormi soprattutto al settore ortofrutticolo. A essere colpito è soprattutto il Mezzogiorno. Le prime stime indicano danni per 800 milioni di euro. Sui campi ai prezzi alla produzione sono andati a picco senza che i consumatori ne traessero vantaggi. Molti produttori non hanno risorse per avviare o portare a termine le colture primaverili e quelle estive. E il prossimo futuro rischia di essere ancora peggiore: la scarsità di precipitazioni fa aleggiare lo spettro della siccità. Serve un rapido intervento del governo per predisporre un paio per l'acqua e interventi a sostegno degli agricoltori.
«La responsabilità di questa nuova emergenza - ha spiegato ieri Giuseppe Politi, presidente della Cia, la Confederazione italiana degli agricoltori che con quasi 900 mila iscritti è una delle maggiori organizzazioni professionali europee del settore - è dei cambiamenti climatici: un autunno e un inverno anomali, con scarse precipitazioni e temperature miti che hanno sconvolto i cicli naturali». Il risultato è che le produzioni di ortaggi si sono accavallate, concentrate in poche settimane, senza la naturale «scalarità» che si verifica con il freddo. Il tutto ha provocato una eccedenza di produzione. Che significa prodotti invenduti che rimangono a marcire nei campi. E' stato calcolato che si è perso circa il 25% della produzione, accompagnato da una caduta dei prezzi sul campo, senza che i consumatori ne traessero vantaggio visto che i prezzi al consumo non sono scesi.
Il rischio - avverte la Cia - è che quest'anno si possa ripetere un nuovo 2003, l'anno horribilis per l'agricoltura italiana con gli agricoltori costretti a subire un taglio secco dei redditi per circa 5 miliardi di euro. Le premesse purtroppo ci sono tutte. A cominciare dall'improvviso cambiamento del tempo di questi giorni: il ritorno del freddo, le gelate al centro-nord, la neve, la pioggia, le grandinate hanno provocato gravi danni alle coltivazioni di frutta (gli alberi erano fioriti precocemente a causa delle temperature elevate dell'inverno) , agli ortaggi in campo aperto e alla floricoltura.
Ma le forti precipitazioni di questi giorni non allontanano lo spettro della siccità; non servono a riempire i bacini, ad alimentare le falde. A forte rischio, a questo punto, le produzioni estive che più necessitano di acqua: cereali, mais, frutta, ortaggi.
Non è la prima volta che l'agricoltura vive fasi di emergenza, però la cultura di governo è stata finora dominata proprio dall'emergenza. Quello che chiede la Cia è una svolta nella gestione della politica economica proprio per superare l'impostazione emergenziale. Questo significa che servono politiche strutturali per quanto riguarda la gestione dell'acqua che deve essere gestita dalla mano pubblica. La Cia ha chiesto a Prodi una «cabina di regia» presso la presidenza del consiglio per monitorare la situazione e anticipare possibili crisi con interventi mirati e coordinati nella gestione delle risorse idriche, anche per evitare conflitti tra le regioni. E servono interventi per evitare sprechi nella rete degli acquedotti che oggi perdono oltre il 30% dell'acqua.
L'agricoltura è anche un fatto di ricerca e innovazione e di grossi investimenti. Per combattere la crisi idrica occorre fare grossi investimenti nei sistemi di irrigazione. Ma gli impianti «a goccia» costano moltissimo e lo stato deve favorire gli investimenti. Il cambiamento climatico implica la necessità di ricerche per trovare specie che si adattino ai cambiamenti e la ricerca non può essere che pubblica. E servono anche risorse per la creazione di fondi di solidarietà (coofinanziati dalla Ue) per fronteggiare le crisi di mercato, Risorse, purtroppo, ce ne sono poche e se il governo non si impegnerà l'agricoltura italiana rischia di perdere produzione e occupazione.

 

22 marzo

 

Phone center, scatta la legge razzista

Per il Tar di Brescia il provvedimento xenofobo è di «dubbia costituzionalità»

Milano

Un'aria da Alabama anni '20, commenta qualcuno. Sugli sproloqui leghisti ormai noti, tipo «io non vorrei mai entrare in un bagno frequentato da egiziani» (copyright, Giosuè Frosio della Lega), meglio sarebbe sorvolare. Non fosse che poi la legge targata Lega Nord c'è eccome, e da domani oltre l'80% dei phone center lombardi rischia la chiusura.
Il consiglio regionale guidato da Formigoni non ha neppure voluto sentir parlare della proroga di un anno che chiedeva l'opposizione. Un anno per consentire agli oltre 2500 phone center lombardi di mettersi in regola. Niente, muro su tutto.
«Sono norme prescrittive scritte sulla base della consapevolezza che quasi nessun phone center ha quei requisiti: una strumentalizzazione con un obiettivo razzista» commenta Osvaldo Squassina, consigliere regionale Prc. «Siamo al Termidoro Lombardia» dice Luciano Muhlbauer, ugualmente consigliere regionale Prc.
E c'è anche la beffa. Perchè anche chi avesse la possibilità di mettersi in regola (il 15% dei phone center secondo l'Assiphoc), in realtà non può farlo. Secondo la legge regionale infatti, spetta ai Comuni decidere se, dove e come possono aprire i phone center: quelli vecchi costretti a trasferirsi in locali più grandi, come quelli di nuova apertura. E si da il caso che solo il 15% dei Comuni lombardi (secondo i dati dell'Anci) lo abbia fatto.
Dubbi di «legittimità costituzionale» sono stati espressi dal Tar di Brescia, che ha accolto il ricorso di un gestore nell'autunno scorso. I dubbi riguardano il principio di uguaglianza rispetto agli altri esercenti, ma anche il principio di libertà e iniziativa economica. Resta da vedere come si pronuncerà la Corte costituzionale.
Intanto, le speranze sono appese alle scelte dei Comuni. Lascia ben sperare in questo senso, la decisione di quello di Bresso (Milano) che conta 4 phone center. Il Comune ha giudicato «eccessivamente severa» la normativa e ha deciso che quei phone center potranno continuare la loro attività, anche se non in regola.

 

Fincantieri

La Fiom e i sindaci: «No alla quotazione»

Alessandra Fava

Genova

«Passare alla storia per la quotazione di Fincantieri in Borsa»: secondo molti sindacalisti sarebbe questo l'obiettivo dell'amministratore delegato di Fincantieri, Giuseppe Bono. Tentando tutte le carte: ventilare l'acquisto del concorrente numero uno, la norvegese Aker; ribassare la quota dell'azienda da valutare in Borsa (in alcune settimane si è passati da 800 milioni a 500 milioni); ottenendo comunque l'avvallo del governo (Fincantieri è gestita da Fintecna per conto del ministero del Tesoro, che oggi detiene il 98,5%).
L'incontro romano sul piano industriale, la settimana scorsa, si è concluso con un niente di fatto, se non la promessa che lo Stato manterrà il 51% dell'azienda. La Fiom ieri ha ribadito tutti i dubbi sull'operazione: «Le affermazioni del governo non sono risolutive in quanto, una volta collocato in Borsa il 49% delle azioni, sarà il mercato finanziario a decidere il valore di Fincantieri. Si rischia di svalorizzare la società, senza neppure raccogliere adeguate risorse, preparando la via al totale disimpegno della proprietà pubblica». Si invita invece «il governo ad assumere su di sé il compito di salvaguardare un patrimonio industriale strategico, non affidandone la soluzione alla speculazione di Borsa».
La novità di queste ore è che il governo e Fincantieri rischiano di trovarsi contro non solo i lavoratori e i sindacati, ma anche gli amministratori locali: venerdì scorso per la prima volta al tavolo sedevano anche gli amministratori dei comuni dove sono insediati gli otto cantieri navali (Genova-Sestri Ponente, Riva Trigoso, La Spezia, Marghera, Monfalcone, Ancona, Palermo, Castellamare di Stabbia). E' già previsto un incontro tra sindacati a comuni il 12 aprile. E il sindaco di Castellamare, Salvatore Vozza, che è anche portavoce del Comitato dei sindaci, è già salito sulle barricate: l'altroieri si è messo alla testa di un corteo dei lavoratori Fincantieri di Castellamare e ha fatto presente che «tra indotto (1400 adetti) e diretto (750 lavoratori circa) il cantiere dà da mangiare a migliaia di famiglie». In tutta Italia sono 9.500 i dipendenti diretti, oltre 15 mila quelli dell'indotto.
Fincantieri non è in perdita, ma secondo la dirigenza vivacchia. Così mentre i sindacati accusano il management di aver fatto scelte poco occulate su alcune commesse, l'azienda pubblica presenta un piano per il 2007-2011 che da 8 farebbe lievitare l'azienda a 12 cantieri, con alcune acquisizioni all'estero come un mega cantiere post-sovietico in Ucraina. L'«ingrassamento» sarebbe accompagnato dalla quotazione in Borsa che farebbe reperire quei capitali per innovazione e ricerca che per ora nessuno sa dove trovare. Un mese fa si calcolava che servissero tra 800 milioni e un miliardo di euro, venerdì scorso si è parlato di 300-500 milioni di euro.
«Guarda caso proprio ora Fincantieri ventila l'acquisizione di Aker, e Aker scende in Borsa - dice Bruno Manganaro, Fiom ligure - A questo punto sembra che ci sia un piano industriale vero e uno finto. Non vorremmo finire come Alitalia, ceduta a pezzi e a rate». La Fiom prevede dunque nuove agitazioni.

 

Gola profonda Telecom

di Peter Gomez e Vittorio Malagutti
I depositi all'estero. Le fiduciarie. Il fondo di Gianluca Braggiotti. Così Sandro Marzi racconta ai pm i segreti di Tavaroli e soci
 
Con lui si confidavano tutti. Lo faceva Giuliano Tavaroli, affranto perché nel maggio del 2005, quando i carabinieri gli avevano perquisito casa e ufficio, non aveva "ricevuto nemmeno una telefonata da Marco Tronchetti Provera". Lo faceva l'ex capo del controspionaggio Marco Mancini, in carcere da due mesi, che nei primi anni '90 "chiese che cosa ne pensassi dei servizi segreti e mi invitò (inutilmente, ndr) a collaborare con il Sismi". Lo faceva anche Fabio Ghioni, l'ex capo della sicurezza informatica di Telecom arrestato in gennaio, che gli spiegava come tra Tavaroli e Giancarlo Valente, il gestore del Fondo del Presidente con cui, secondo i pm, sono state retribuite molte operazioni d'intelligence della compagnia telefonica, non corresse buon sangue. Secondo Ghioni c'era infatti "una particolare vicinanza di Valente a Tronchetti", forse dovuta al fatto che "Valente aveva aiutato Tronchetti a reperire le prove" sul comportamento di un suo ex famigliare.

Si chiama Sandro Marzi, è nato in provincia di Novara e conosce Giuliano Tavaroli da "metà degli anni '80", il supertestimone che dal 2 febbraio sta svelando alla Procura di Milano tutti i segreti degli uomini della sicurezza Telecom: dai conti alle fiduciarie estere, arrivando sino alle loro ambizioni nascoste e ai rapporti di tipo politico-economico. Marzi è un manager di lungo corso. È stato presidente della Italtel Sistemi, ha lavorato in Russia per la Tecnosistemi spa, è stato ai vertici del gruppo veronese della Riello. A partire dal 2002 si è occupato di 'sviluppo mercati', collaborando con Telecom e Pirelli, diventando così anche il gestore del denaro che Ghioni aveva nascosto in Svizzera. Soldi che provenivano dai fornitori ai quali il capo del Tiger team aveva l'abitudine di chiedere una sorta di tangente. Nella sua prima deposizione davanti al pm milanese Stefano Civardi, che 'L'espresso' ha potuto leggere, l'uomo d'affari spiega di essere entrato in confidenza con tutti i più stretti collaboratori di Tavaroli, in occasione di un viaggio in Cina nel 2004. "Tavaroli", spiega Marzi, "mi disse che Telecom era interessata a trovare fornitori per la Security da mettere in competizione con quelli tradizionali. E mi disse altresì che erano interessati, nel caso si fosse trovato un piccolo fornitore, ad acquistarlo in toto". Non però direttamente tramite Telecom, ma attraverso un fondo "Mycube, specializzato in partecipazioni in società di high tech (...) di cui il responsabile era Gianluca Braggiotti". Ovvero il figlio dell'ex numero uno della Comit Enrico Braggiotti, da tempo residente a Montecarlo dove è stato a lungo latitante ai tempi di Tangentopoli. Tavaroli ci tiene a fare bella figura con lui perché sa che è particolarmente legato ai vertici dell'azienda. Racconta Marzi: "Ho assistito a una discussione sul punto. Tavaroli rimproverava a Ghioni di vedere solo l'aspetto tecnico e di non comprendere quanto importante fosse il rapporto della famiglia Braggiotti con Tronchetti Provera". Non solo Gianluca, ma soprattutto suo fratello Gerardo, banchiere d'affari che è ormai una presenza fissa come consulente nelle operazioni del gruppo Pirelli-Telecom. Anna Gatti, una delle dirigenti di Mycube, va in Cina con Marzi e un drappello di uomini Telecom: Marco Bavazzano, Fulvio Farace, Ghioni e il suo inseparabile amico e socio Roberto Preatoni. Tra di loro si parla di tutto. Preatoni racconta che ha aperto in Estonia molte società di sicurezza e anche un sito , Zone H, ufficialmente specializzato in hacking etico. E spiega anche come in realtà la sua organizzazione fosse una sorta di internazionale degli hacker.

"Preatoni", dice Marzi il 5 febbraio al magistrato, "mi descrisse l'operatività di zone H. Mi disse che vi era una vera e propria organizzazione piramidale, dove le imprese dei giovani hacker venivano controllate e certificate da capi zona. L'organizzazione non aveva fini di lucro, ma si preoccupava di soccorrere i giovani che avevano problemi con la giustizia per la loro attività di hackeraggio. In particolare, quando ero a Tallin (sede delle societa di Preatoni, ndr), lui stava supportando dal punto di vista legale un ragazzo italiano che aveva avuto dei problemi. Preatoni pagava le spese legali".

Stando al suo racconto, Marzi diventa una sorta di consulente a tutto campo per il gruppo degli spioni targati Telecom. I motivi di tanta fiducia non emergono però con chiarezza dalle sue parole. Fatto sta che a un certo punto anche Preatoni gli chiede una mano per creare una sorta di super-gruppo tra una serie di società di sicurezza informatica. Il progetto non va in porto, ma Marzi si rende conto (dice lui) che dietro al super-esperto di computer, si muove suo padre, il finanziere Ernesto Preatoni, noto in Italia più che altro per essere stato il creatore di Sharm El Sheik. "Il progetto", spiega Marzi, "fu coltivato dall'estate del 2005 fino alla fine del 2005. Roberto Preatoni a un certo punto però interpose il necessario intervento di suo padre. In questo modo fui tagliato fuori, ma non mi pare che in ogni caso abbia avuto seguito".

Hanno seguito invece le operazioni di movimentazione di fondi all'estero per conto di Ghioni. Marzi mette a disposizione i propri conti all'Ubs di Zurigo e le proprie società, controllate tramite la fiduciaria svizzera Fidinam, per nascondere decine di migliaia di euro che Ghioni riceve come commissione da aziende scelte come fornitrici da Telecom. "Ghioni", afferma, "mi chiese se lo potevo aiutare a ricevere degli incassi all'estero per consulenze da lui svolte (...) io non avevo interesse a contrariarlo, inoltre mi aveva rappresentato che l'esigenza era momentanea (...) gli consigliai di aprire un conto all'Ubs di Lugano". Da quel momento in poi la M&A di Marzi (una società off shore) viene utilizzata per incassare le fatture del responsabile della sicurezza informatica di Telecom. Nel giro di pochi mesi arrivano poco meno di 300 mila euro e transitano per il conto Mao 887418 di Marzi, dopo essere stati "ulteriormente filtrati da un conto della società Trumaco con sede, mi pare, nei Caraibi". Parte del denaro arriva anche dall'ex collaboratore del Sisde Marco Bernardini, una delle gole profonde dell'inchiesta.

Oggi tutta la documentazione relativa a quei conti, riportata in Italia da Marzi, è in mano alla Procura, che vuole anche capire se l'altro denaro passato per le sue società, molti milioni di euro, sia estraneo a Telecom, come sostiene il manager, o abbia invece qualcosa a che fare con l'inchiesta sugli spioni. Marzi in ogni caso non si muove a costo zero: trattiene per ogni operazione effettuata per conto di Ghioni il 10 per cento degli importi. Si vede continuamente con il giovane manager Telecom che non manca di riferirgli perfino i pettegolezzi che circolavano in azienda. Come per esempio, dice Marzi, i presunti "disaccordi tra Tronchetti e Bondi (Enrico, amministratore delegato di Telecom tra il 2001 e il 2002, ndr) sull'uso del jet presidenziale da parte di Afef per lo shopping a New York". Grazie al legame sempre più stretto con Ghioni, l'onnipresente Marzi diventa anche un testimone indiretto dei mesi che hanno preceduto il suicidio di Adamo Bove, il responsabile della sicurezza Tim, morto a Napoli nel luglio del 2006. Secondo il suo racconto, quando Tavaroli, finito sotto inchiesta, era stato costretto a farsi da parte, Ghioni era "rimasto deluso" per non essere stato nominato suo successore: "A un certo punto dovette cominciare a riferire a Bove con il quale non si trovava affatto bene (...). Il suo umore cambiò quando ricevette un incarico nell'ambito dell'auditing per relazionare al Garante della privacy su un problema che si era creato in Telecom. Ghioni doveva stendere una relazione e mi disse di essere stato indicato dallo stesso Tronchetti Provera".

Marzi però continua a incontrare anche Tavaroli. Anche perché l'ex responsabile della sicurezza, una volta estromesso dal gruppo, vorrebbe fare affari con lui. Marzi infatti è socio della Ssi di Assago, un'azienda specializzata in sicurezza nella quale, poco prima del suo arresto, anche Tavaroli "voleva entrare". "Conosco Tavaroli", spiega Marzi "da quando eravamo entrambi in Italtel seppure in ruoli molto differenti, io ero un manager e lui il capo delle guardie". Aggiunge di essere stato molto vicino all'ex boss della security di Telecom. Questione d'amicizia, ma pure di soldi. Marzi spiega che nella seconda metà del 2005 Tavaroli gli propone di incontrare l'ex deputato di Forza Italia Umberto Giovine per "coltivare progetti in ambito aerospaziale". L'incontro ci fu, ma non portò a nulla.

 

20 marzo

 

Italian Metal Jacket

UN EXPORT CHE SUPERA 1600 MILIONI DI EURO ALL'ANNO. Un volume di operazioni finanziarie quantificato in oltre un miliardo e cento milioni di euro. E’ il triste piazzamento (al settimo posto) nella classifica mondiale dei Paesi che ne fabbricano di più. E’ la fotografia dell'Italia che produce. Purtroppo, però, si tratta di armi.

Un'industria fiorente, quella che sforna pistole, mitra e kalashnikov in tutto il mondo: si stima che la spesa militare complessiva abbia superato di quindici volte quella destinata ogni anno agli aiuti umanitari. Un mercato globale che coinvolge ormai ogni continente: se Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia e Germania coprono l'82 per cento delle esportazioni mondiali, fanno ormai parte dell'elenco delle prime cento industrie armiere del pianeta aziende brasiliane, sud-coreane, indiane, sudafricane e di Singapore. Complessivamente, alla fine di quest'anno, la spesa militare raggiungerà la cifra senza precedenti di oltre 1000 miliardi di dollari. Superiore perfino a quella (record) registrata negli anni 1977-1978, in piena guerra fredda. Il risultato? Un morto al minuto vittima di arma da fuoco, otto milioni di armi prodotte ogni anno e così tante pallottole da essere sufficienti ad uccidere l'intera umanità. Due volte.


I dieci più grandi produttori di armi. Italia è al decimo posto con Finmeccanica

Pistole Beretta in Iraq (per legge)

Una montagna di denaro che fa gola a molti. Anche in Italia. D'altra parte, il nostro Paese è da sempre un grande produttore di armi. Ma ha anche, storicamente, una delle legislazioni più avanzate in tema di traffico di armi. 0 forse l'aveva e non l'ha più? Già, perché l'Italia - un anno fa - ha modificato la propria legislazione in materia di commercio di armi sul territorio nazionale.
Nella legge n'49 del 21 febbraio 2006 (che disponeva "misure urgenti per garantire la sicurezza e i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali di Torino") il governo Berlusconi fece inserire, infatti, una norma che modificava un vecchio regio decreto del 1931, nel quale si vieta la raccolta e la detenzione senza licenza ministeriale di armi da guerra, munizioni, uniformi militari e altro equipaggiamento analogo. Oggi, recita la legge, "con la licenza di fabbricazione sono consentite le attività commerciali connesse e la riparazione delle armi prodotte". Tradotto: la licenza di fabbricazione non consente solo di produrre le armi, ma anche di venderle e ripararle se di seconda mano.

Una piccola rivoluzione per gli industriali armieri, tanto che alcune tra le più importanti aziende del settore - compreso il colosso austriaco Glock - starebbero ipotizzando di aprire proprie "filiali italiane”. Un bel regalo, però anche per Ugo Gussalli Beretta, proprietario dell'omonima azienda di Gardone Val Trompia. Il maggior produttore italiano di pistole e il fornitore della stragrande maggioranza delle armi in dotazione alla Polizia di Stato. Un amico personale di Silvio Berlusconi e un fervente sostenitore di Forza Italia che da qualche anno si deve difendere dall'accusa di aver contribuito a foraggiare la guerriglia irachena.

Le indagini della magistratura

Secondo i pm di Brescia che indagano sulla vicenda, le cose sono andate così: nel febbraio del 2003 il ministero dell'Interno aveva ceduto alla fabbrica bresciana 44.926 pistole Beretta 92S (classificate come "fuori uso" ma spesso perfettamente funzionanti). Una vera e propria svendita a prezzi stracciati: 10 euro al pezzo. Giustificazione ufficiale: "Sono rotte”. La ditta di Gardone Valtrompia le avrebbe invece risistemate facilmente e rese nuovamente funzionanti, nonostante dal 2002 non possedesse più la licenza per riparare armi.

Come? Il trucco per aggirare la legge sarebbe stato quello di vendere parte degli armamenti ad una celebre ditta britannica, la Heltston Gunsmith. Azienda prestigiosa nel settore, in possesso di tutti i diritti e le licenze per produrre e riparare armi. in realtà, però, le Beretta 92S non avrebbero mai raggiunto gli stabilimenti della Heltston. Sarebbero state pagate (e quindi, presumibilmente anche acquisite fisicamente) da un'altra ditta: la sconosciuta "Super Vision International ltd". Alla quale nessuno ha mai concesso l'autorizzazione.

Fatto sta che 45mila pistole sono arrivate in breve nella terra che fu di Saddam Hussein. E, fatto ancora più grave, le rivoltelle tricolori non sono andate solo alla polizia irachena, ma sono state trovate in mano ai guerriglieri di Al Zarqawi. I magistrati, inoltre, nel corso delle indagini hanno verificato numerose altre irregolarità. Il 6 dicembre del 2004, viene arrestata una dipendente della Beretta mentre tenta di portare una calibro nove fuori dalla fabbrica. E’ un'impiegata addetta al magazzino, inizialmente accusata di aver asportato illegalmente 152 pistole. Successivamente, la Procura dispone il sequestro di 15.478 pistole semi-automatiche si presume anch'esse dirette in Iraq - che la Beretta custodiva nei propri stabilimenti. Pistole che, sottolineano i giudici, "risultavano prive di matricola o con matricola abrasa o ripunzonata e prive di punzoni del Banco Nazionale Prove".

La nuova tranche di pistole dirette in Iraq, dunque, è stata bloccata. Ma ora, con la nuova legge, si potrebbe arrivare all'assurdo di rendere non punibile la commercializzazione da parte di chi ha una generica licenza di detenzione e vendita di armi, di pistole e fucili provento di furto. Una “toppa” perfetta non solo per il comportamento della Beretta, ma anche per il ministero allora diretto da Giuseppe Pisanu, che vendette migliaia di pistole come "fuori uso", quando bastava un po' di grasso per permettere loro di ricominciare a sparare.

Il Parlamento distratto

Il tutto senza che nessuno, in Parlamento, se ne sia accorto. Possibile? Pare di sì. Il decreto "Olimpiadi invernali" emanato alla fine del 2005 dal governo Berlusconi non menzionava minimamente questioni relative al commercio di armi. La norma è stata aggiunta infatti in sede di conversione, in gennaio, presso la commissione Affari costituzionali del Senato, attraverso un emendamento (a firma di Gabriele Boscetto, Forza Italia, avvocato penalista, relatore del disegno di legge in commissione) che sarebbe stato poi riscritto tre volte per venire incontro alle richieste del governo (sottosegretario Alfredo Mantovano, Alleanza Nazionale, in testa). E che è stato poi inserito nel maxiemendamento presentato dal governo che sostituiva il testo precedente del disegno di legge, sul quale il governo pose la fiducia sia a Palazzo Madama che a Montecitorio.
Insomma, la norma era di fatto "nascosta" all'interno di una legge che aveva tutt'altro oggetto.

E anche a leggerla con attenzione, a saltare agli occhi era piuttosto la contestatissima normativa in tema di droga. A parziale discolpa, ma non a giustificazione, di chi non si è premurato di leggere ogni parola della legge. Conseguenza immediata è stato il fatto che durante il dibattito in Commissione e in Aula - sia al Senato che alla Camera - nessuno dei parlamentari intervenuti, sia di maggioranza sia di opposizione, ha sollevato né accennato all'introduzione della norma sul commercio di armi di seconda mano. Tutti si sono concentrati sulle norme in materia di droga. E il provvedimento è passato totalmente sotto silenzio.

Downing Street

Ad accorgersi che qualcosa non quadrava, invece, è stata la stampa inglese, insospettita da alcuni comportamenti del governo britannico. Sarebbero stati infatti proprio gli uffici di Downing Street a fungere da tramite essenziale per far arrivare in Iraq le pistole della Beretta. Secondo il settimanale The Observer, l'anno scorso il ministero dell'Industria e del Commercio britannico si accordò per la consegna di queste armi alla polizia irachena. Non c'è traccia - aggiunge il giornale - che siano stati previsti anche sistemi di controllo necessari per evitare che le armi potessero finire nelle mani della guerriglia.

Il Guardian, inoltre, ricostruisce il cammino che ha portato le armi in Iraq. In data non precisata il governo Usa avrebbe chiesto alle Taos Industries (una delle società che procura le armi al Pentagono), di trovare pistole e altre armi per la polizia irachena. La Taos avrebbe quindi contattato la britannica Super Vision: guarda caso proprio il presunto "reale acquirente" delle Beretta 92S. Nel frattempo, la Helston Gunsmiths , sarebbe entrata nell'affare per ottenere una licenza di esportazione dal governo di Londra. Fin qui l'inchiesta del Guardian pare coincidere perfettamente con quella dei magistrati italiani. A questo punto, il ministero dell'Industria avrebbe dato il suo ok e le Beretta sarebbero partite dall'ltalia.
Destinazione aeroporto di Stansted e, da lì, fino a giungere in una base militare di Baghdad. Quindi, nel febbraio 2005 vengono consegnate all'autorità provvisoria irachena.

Un giro ben più tortuoso e difficile da seguire rispetto a qualsiasi altro bene importato o esportato. «Conosciamo la provenienza di una singola fettina di carne o di un qualsiasi bene di consumo e non abbiamo invece idea di dove finiscano le armi che noi stessi produciamo - sottolinea in questo senso Francesco Vignarca della Segreteria della Rete Disarmo - con il rischio di vederle un giorno anche nelle nostre città a dare man forte alla criminalità, come già successo in altri paesi europei».

Una situazione, quella italiana, che ha destato anche la preoccupazione di numerose Ong. Già in passato le associazioni riunite nella Rete italiana per il disarmo "ControllArmi" avevano più volte denunciato la vicenda. Nei giorni scorsi, insieme ad una delegazione dell'Ong inglese Global Witness, hanno incontrato parlamentari e membri del governo italiano proprio per sottolineare l'urgenza di una modifica legislativa. Quanti onorevoli cadranno dalle nuvole?
 

Cessate il fuoco

Il bollettino settimanale delle guerre e dei conflitti in corso n.11 - 2007 dall'8 al 14/3

Somalia almeno 220 morti dall'inizio del 2007

Il 12, un ragazzo di 14 anni è morto a seguito di scontri avvenuti nella zona meridionale di Mogadiscio.
Il 13, almeno 18 persone sono rimaste uccise nell'attacco a colpi di mortaio contro Villa Somalia, residenza ufficiale del presidente Yusuf a Mogadiscio. Sempre a Mogadiscio, 4 civili sono morti in seguito a scontri tra forze etiopi e miliziani armati.

Turchia 9 morti dall'inizio del 2007

L'8 marzo, quattro militanti curdi sono morti in scontri con le forze di sicurezza turche nella provincia di Sirnak, nel sud-est del Paese.

Russia-Nord Caucaso 143 morti dall’inizio del 2007

L’11 marzo in Inguscezia un guerrigliero islamico e una donna sono stati uccisi in uno scontro a fuoco con i soldati russi nel villaggio di Orjonikijevskaya.
Il 13 i guerriglieri ceceni affermano di aver ucciso 8 soldati russi in un agguato nel distretto di Urus-Martan, 9 soldati nel distretto di Vedenò e altri 2 soldati nel distretto di Shali.
Il 14 in Daghestan un poliziotto è stato ucciso da una bomba esplosa nella capitale Makhachkala.
Nella regione di Stavropol un guerrigliero è morto in uno scontro a fuoco con la polizia.
In Daghestan 2 agenti russi sono stati uccisi nella zona di Khasavyurt.

Filippine-Abu Sayyaf/Milf 88 morti dall’inizio del 2007

L’8 marzo nella provincia di Maguindanao una donna e il suo bambino sono stati uccisi da una pattuglia dell’esercito che li ha scambiati per guerriglieri del Milf.
Il 9 nella stessa zona i militari hanno ucciso in combattimento 3 guerriglieri del Milf.

Thailandia del Sud 98 morti dall’inizio del 2007

Il 9 marzo nella provincia di Pattani un civile buddista è stato ucciso dai ribelli islamici.
Il 10 nella provincia di Yala 2 civili buddisti sono stati uccisi e un ribelle è stato ucciso dall’esercito.
L’11 sempre a Yala altri 2 civili buddisti sono stati uccisi; un altro civile buddista è stato ucciso nella provincia di Narathiwat.
Il 12 nella provincia di Pattani 3 civili birmani sono stati uccisi e decapitati dai ribelli.
Il 14 nella provincia di Yala 9 civili buddisti sono stati giustiziati dopo un agguato al pulmino su cui viaggiavano e altri 3 civili buddisti sono morti per l’esplosione di una bomba.

India-Kashmir 110 morti dall’inizio del 2007

L’8 marzo un guerrigliero dell’Hm è stato ucciso dall’esercito nel distretto di Anantnag.
Il 10 l’esercito indiano ha ucciso 2 civili nel distretto di Tral e 2 guerriglieri dell’Hm nella zona di Naibugh. Un civile è stato ucciso per l’esplosione di una bomba a Srinagar.
L’11 nel distretto di Pulwama l’esercito ha ucciso un guerrigliero dell’Hm.

India-Nordest 348 morti dall’inizio del 2007

L’8 marzo nello stato del Manipur 5 immigrati sono stati uccisi dai ribelli e un guerrigliero è morto in uno scontro a fuoco con l’esercito.
Nello stato di Assam un civile è morto per l’esplosione di una bomba dei ribelli dell’Ulfa.
Il 9 nello stato di Manipur un ex guerrigliero dello Zra è stato ucciso dallo stesso gruppo.
Il 10 nello stato dell’Assam i ribelli dell’Ulfa hanno ucciso un politico locale.
Nel Manipur l’esercito ha ucciso altri 2 guerriglieri.
L’11 nello stato del Tripura 3 guerriglieri dell’Attf sono stati uccisi in uno scontro a fuoco con l’esercito.
Il 12 nello stato del Manipur i militari hanno ucciso un guerrigliero del Pla.
Il 13 nella stessa zona 7 guerriglieri del Kna sono stati uccisi in scontri a fuoco.
Nello stato del Nagaland 3 guerriglieri dell’Nscn-Im sono stati uccisi dai rivali dell’Nscn-K.
Il 14 in Assam 2 guerriglieri del Multa e un civile sono stati uccisi dall’esercito

India-Naxaliti 76 morti dall’inizio del 2007

L’8 marzo un guerrigliero Naxalita è stato ucciso dall’esercito nello stato del Maharashtra.
Il 13 nello stato del Chhattisgarh i Naxalisit uccidono 2 capi tribali.

Pakistan-Wazistan/Nwfp 106 morti dall’inizio del 2007

L’8 marzo un militante dell’Ssp è stato ucciso nel Nwfp.
Il 9 in Waziristan i talebani hanno ucciso un civile sospettato di essere una spia.
E sempre nel Nwfp un civile sciita è stato ucciso da estremisti sunniti.
Il 10 marzo in Waziristan 3 talebani e un soldato pachistano sono morti in uno scontro a fuoco. Due civili sono stati uccisi dai uomini armati nel Nwfp.
Il 12 nel Nwfp un civile sciita è stato ucciso dai fondamentalisti sunniti.
Il 13 nella stessa zona sono stati uccisi altri 2 civili e in Waziristan i talebani hanno decapitato un civile accusato di essere una spia.

Sri Lanka 864 morti dall’inizio del 2007

Il 9 marzo nel distretto di Ampara 20 ribelli dell’Ltte e 3 soldati sono morti nel corso di una battaglia. Altri 10 guerriglieri sarebbero stati uccisi dall’esercito nella giungla di Thoppigala.
Nel distretto di Anuradhapura 8 militari sono stati uccisi in un agguato dell’Ltte.
L’11 nel distretto di Batticaloa 20 ribelli e un soldato sono morti nel corso di una battaglia.
Il 13 nel distretto di Anuradhapura 2 civili sono rimati vittima di agguati dell’Ltte.
Nel distretto di Batticaloa 11 guerriglieri tamil sono stati uccisi nei bombardamenti governativi.

Bangladesh-comunisti 33 morti dall’inizio del 2007

Il 13 nel distretto di Kushtia la polizia ha ucciso un guerrigliero comunista del Bcp.

 

15 marzo

Chiamata internazionale
Galapagos
Povero Bersani: tutto preso dagli scampoli di liberalizzazione - orari dei barbieri e ricariche telefoniche - non si è accorto che pezzi importanti d'Italia finiscono all'estero privando l'economia di settori tecnologicamente avanzati. Il riferimento è a Fastweb che sta per prendere la cittadinanza svizzera e a Telecom destinata (da Tronchetti Provera) a emigrare in Spagna, nella scuderia Telefonica, ma che forse sarà «salvata» dalle banche. Ieri il ministro dello sviluppo economico, messo da parte il tradizionale aplomb, ha detto agli industriali che fanno un po' schifo: «non raccolgono le sfide della liberalizzazione e dell'innovazione».
Bersani ha ragione: l'Italia non brilla nei settori tecnologicamente avanzati soprattutto perché la ricerca è nulla. Gli imprenditori preferiscono spendere soldi per investire nei settori protetti: non è casuale la campagna contro le multiutility municipali nate - nessuno lo ricorda mai - oltre un secolo fa, nel 1903, grazie a Giolitti che in questo modo volle estendere una pluralità di servizi a popolazioni che ne erano prive perché anche un secolo fa i padroni investivano solo in quello che garantiva profitti immediati.
L'Iri è stata smantellata, tutte le sue imprese privatizzate. E molte - soprattuto le industriali e quelle della distribuzione - sono finite in mani estere. Poche, purtroppo, sono state valorizzate; la maggior parte (soprattutto nell'alimentare) sono divenute aziende anonime riconoscibili solo per il marchio glorioso, dietro il quale spesso non c'è valorizzazione dei prodotti di base italiani. Gli imprenditori italiani hanno preferito investire nelle banche e nei monopoli naturali. E' così che i Benetton si sono trasformati in casellanti d'autostrada, perdendo parte della vocazione industriale. E così, un po' per volta, sono finite in mani estere l'elettronica, l'informatica, la chimica fine e in particolare l'industria farmaceutica.
L'Italia è diventata grande consumatrice di prodotti fisicamente costruiti nel nostro paese, ma progettati all'estero. Insomma, salvo rare eccezioni, i centri decisionali delle multinazionali non sono domiciliati in Italia. Nel settore delle telecomunicazioni è accaduto la stessa cosa. All'inizio era tutto italiano (Telecom e Tim) e pubblico. Poi è arrivata Omnitel (prima De Benedetti, poi Colaninno) e poco dopo Wind. Poi è scoppiato il caos: Telecom è stata privatizzata malamente - allora le banche fecero le schizzinose - è divenuta terra di conquista e strada facendo si è caricata di debiti visto che i vari padroni che la conquistavano le scaricavano addosso i debiti fatti per la scalata.
Intanto però Omnitel è finita in mani inglesi (buone); Wind in mani egiziane (misteriose) e ora Fastweb (la più tecnologica del gruppo) rischia di finire in mani svizzere. Pubbliche, visto che la Confederazione gli affari li sa fare. Nel settore tlc a difendere l'italianità sono rimaste Tiscali (idea geniale) e Telecom, la cui rete è un monopolio naturale che sarebbe pericoloso privatizzare. Per questo il governo oggi benedice le banche che vogliono conquistarla.

Morti bianche

A Ravenna Cgil, Cisl e Uil  ricordano la strage Mecnavi
La piaga delle morti e degli incidenti sul lavoro «è una tragedia quotidiana di cui non possiamo venire a capo», ha detto ieri il leader Uil Luigi Angeletti mentre a Ravenna si ricordava l'anniversario della «strage Mecnavi», quello avvenuto il 13 marzo del 1987, quando 13 operai morirono nella stiva della nave gasiera «Elisabetta Montanari». Raffaele Bonanni (Cisl) ha puntato il dito sulle «imprese
che lavorano a costi stracciati, che si affidano ai caporali che producono lavoro nero, esattamente come allora».
Nell'87 - ricorda - ci sono state quasi 1.500 persone morte in incidenti sul lavoro, dopo vent'anni 1.500 persone possono morire ancora oggi. Sempre nell'87 c'erano quasi un milione di feriti e oggi c'e' lo stesso dato». Per il leader della Cgil Guglielmo Epifani «un paese civile non può tollerare 1.200 morti l'anno». Epifani parla della strage della Mecnavi come «della più grande tragedia del lavoro del dopoguerra».
Due giorni fa 4 morti sul lavoro, ieri un 35enne di Udine è rimasto gravemente ferito cadendo da un'impalcatura.
E sempre ieri moriva il secondo rumeno travolto dall'esplosione della fonderia a Padova due giorni fa (la sua storia nell'ultima pagina del manifesto di oggi).

Wind
Sawiris minaccia licenziamenti Il sindacato preoccupato

«Apprendiamo con preoccupazione dai giornali che la proprietà di Wind ha annunciato un piano di ristrutturazione,
parlando esplicitamente di licenziamenti, come reazione anche al provvedimento del governo relativo alle ricariche». Così
ha dichiarato ieri la Slc Cgil. «In realtà - continua il sindacato - assistiamo non da oggi a una sostanziale riduzione del perimetro aziendale di Wind che, dopo aver fatto utili e raggiunto un portafoglio clienti di notevoli proporzioni, ha mutato la propria strategia con l'obiettivo di divenire una "low cost" della telefonia». La compagnia guidata dall'egiziano Sawiris ha già ceduto, vendendolo alla Omnia, il call center di Sesto San Giovanni con i suoi 275 dipendenti.

Bond argentini
La Cdr di Ferrara deve risarcire 200 mila euro a una famiglia
Importante sentenza sul caso dei bond argentini: la Cassa di risparmio di Ferrara è stata condannata dal Tribunale della città emiliana a risarcire 200 mila euro a una famiglia di quattro persone, che avevano acquistato i bond nel 1998. «All'atto dell'investimento - spiega la Federconsumatori, che difende la famiglia - la Cdr di Ferrara non aveva provveduto a segnalare l'inadeguatezza di obbligazioni altamente speculative». La Federconsumatori assiste oltre 500 risparmiatori a Ferrara: dopo la sentenza si augura che gli istituti della provincia siano disposti ad aprire un tavolo.

 

14 marzo

L'INCHIESTA. L'arma fabbricata a Brescia, ma spedita dal Portogallo
Era chiusa dentro una piccola valigia nera, con il revolver anche i proiettili
"Ho comprato sul web una pistola fuorilegge"
Pagata 240 euro, era pronta per uccidere
di MASSIMO LUGLI

<B>"Ho comprato sul web una pistola fuorilegge"<br>Pagata 240 euro, era pronta per uccidere</B>

ROMA - Una pistola a stretto giro di posta. Due settimane dall'ordine via internet e il postino suona al campanello. Eccoli qua: due pacchi bene imballati provenienti da Albufeira, Portogallo e pagati in anticipo con carta di credito: 240,50 euro tutto compreso. Uno contiene un revolver "Gomm Cogne Sapl", calibro 12 per 50 a colpo singolo e l'altra le munizioni: quattordici cartucce con pallottole di gomma dura, disponibili in doppia versione: una con un proiettile singolo del tipo usato da alcune, agguerritissime, polizie straniere e l'altro a pallettoni. Roba vietatissima, almeno in Italia, se non hai il porto d'armi o la licenza di detenzione a casa (con una montagna di documenti da presentare in Questura in attesa dell'autorizzazione) ma che si può acquistare semplicemente cliccando col mouse.

"Arma corta da sparo" così la definisce la legge, niente a che vedere con le innocue repliche, i giocattoli "soft air", le pistole o le carabine ad aria compressa. La "Gomm Cogne"(fabbricata vicino Brescia, ma spedita da un paese dove la vendita è libera) è ora in mano ai carabinieri della IV sezione del Nucleo operativo, che stanno lavorando sulle implicazioni legali di questo, pericolosissimo, commercio on line. Resta il sospetto, tra l'altro, che alle sfere o alle ogive in gomma dura possano essere sostituiti, con una semplicissima operazione casalinga, ancora più micidiali pallini di piombo. Ma non c'è bisogno di improvvisarsi armieri: lo stesso costruttore avverte che a meno di tre metri, un colpo di questo tozzo revolver nichelato può provocare gravissime ferite. O persino uccidere. 
Un modo semplicissimo per aggirare le restrizioni sulle armi da fuoco che stanno facendo calare, anno dopo anno, il numero dei pistoleri "legali". In Francia, le armi da autodifesa di settima categoria possono essere vendute dietro presentazione di un documento, di un certificato medico e di una dichiarazione di domicilio. Da noi sono semplicemente vietate. Una misura saggia visto che, negli Usa, ci sono stati casi di suicidio con pistole di questo tipo e che uno studio dell'Università di Lione, nel 2004, ne documenta l'estrema pericolosità: ferite a un metro e mezzo di distanza, fratture a due metri, danni cardiaci e perforazione del polmone a bruciapelo.

Il sito (scritto in italiano con qualche trascurabile strafalcione) è www. artemis-cutlery. com. L'elenco dei prodotti in vendita è degno di un raduno di mercenari: armi elettriche che emettono scariche da 250 fino a 950 volts (un aggeggio che, se viene trovato a casa o in tasca fa scattare l'arresto, vietato anche per chi ha il porto d'armi), coltelli a serramanico, a lama fissa o da lancio, lame nascoste nella fibbia di una cintura, bastoni animati che celano stocchi o pugnali, scudisci, manganelli telescopici, spray paralizzanti a prezzo di saldo (dai 10 ai 12 euro), pugni di ferro e noccoliere, manette, distintivi della polizia americana (Us Marshall e Texas Rangers) e, dulcis in fundo, un paio di ingegnosi "guanti da combattimento" con le dita imbottite di sfere d'ottone che, così è scritto, "hanno un aspetto molto naturale... ogni guanto pesa 350 grammi e dà una forza d'impatto impressionante". Insomma, per rompere la mascella a qualcuno, paralizzarlo, ferirlo, accecarlo o ammanettarlo c'è solo l'imbarazzo della scelta. Ma di tutta questo assortito arsenale, la pistola "Gomm cogne" è sicuramente il pezzo più temibile.

L'ordine parte il 26 febbraio scorso: basta cliccare sul carrello e scegliere se pagare con carta di credito o bonifico bancario. La pistola è disponibile in due versioni: a uno o due colpi, più massiccia e che sembra vagamente un phon. Nome, indirizzo, telefono, e. mail, dati della carta di credito e quasi subito, arriva la conferma col numero di autorizzazione 066703. Non resta che aspettare.

Una decina di giorni dopo, invece dell'arma, ricevo una busta con la garanzia (due anni), l'avviso, in francese, che usare munizioni diverse da quelle acquistate può essere molto pericoloso e le semplicissime istruzioni d'uso: apri la canna, inserisci la cartuccia, richiudi, arma il cane e puoi sparare. Per i due pacchi bisogna aspettare fino a ieri mattina. Il postino che me li consegna non sa di aver appena commesso un reato gravissimo (porto abusivo di arma da sparo) come gli impiegati delle Pt ignorano di essersi resi complici di detenzione illegale e, tra l'altro, di aver maneggiato munizioni con polvere da sparo. Ma tant'è... Sugli involucri, l'indirizzo del mittente: Gilles Badier, Quinta do Pogo, 8200 Albufeira, Portugal. Nessuna indicazione sul contenuto, spedizione riservata un po' come per l'oggettistica erotica.

Davanti all'obiettivo del fotografo di Angelo Franceschi apro il pacco grosso e compare un'elegante valigetta di plastica nera che contiene la rivoltella con tanto di numero di matricola: 097870. Pesa 575 grammi, è lunga 220 millimetri e si nasconde senza problemi in tasca o infilata alla cintola. Poi tocca alle munizioni, arancioni quelle a palla singola, verdi quelle a pallettoni che hanno il vantaggio di aprirsi a rosa: sbagliare il bersaglio, a breve distanza, è praticamente impossibile. Costatato che l'arma sembra funzionare (fare una prova pratica, per forza di cose, è impossibile per non collezionare un'altra violazione del codice penale) non resta che telefonare al colonnello Roberto Massi, comandante del reparto operativo di Roma, e spiegargli tutto. Non posso portare la pistola in caserma, visto che non ho il porto d'armi quindi l'ufficiale invia una pattuglia a casa mia: mezz'ora più tardi, un maresciallo e un brigadiere prendono tutto in consegna, involucri postali compresi e redigono un verbale di sequestro. Ma internet, si sa, è un porto franco e chissà quante altre armi illegali, in questo momento, sono già in viaggio verso l'Italia.

 

Le paure del Vaticano
Enzo Mazzi
Paura chiama paura e insieme, tenendosi per mano nell'intento di sostenersi reciprocamente, precipitano nel baratro. Non trovo altra spiegazione a questa politica fondamentalista e aggressiva praticata dai vertici della Chiesa cattolica. Perfino la tradizionale austera nobiltà dell'Osservatore Romano, il giornale istituzionale per eccellenza, si sta piegando alle esigenze dell'esorcismo della paura. Ne è un esempio l'attacco smodato con cui il quotidiano della Santa Sede si è scagliato ieri contro la manifestazione di sabato scorso in favore dei Dico, parlando di «manifestazione carnevalesca e irrispettosa».
Ma che sta succedendo nei sacri palazzi si domandano increduli in tanti, non solo cristiani critici ma cattolici devoti, teologi, preti, religiosi, suore e anche vescovi delle periferie. Un immenso assordante silenzio nasconde lo sconcerto del mondo cattolico.
Una gerarchia resa insicura dal procedere inarrestabile della secolarizzazione e della libertà di coscienza nell'insieme della società e all'interno della Chiesa stessa, aggredita dalla paura che si sgretoli dalle fondamenta, come le mura di Gerico, l'imponente potere accumulato nei secoli, tenta disperatamente di salvarsi aggrappandosi alle angosce esistenziali, etiche, materiali, di una società altrettanto insicura.
Il cristianesimo è nato da un grande movimento popolare di liberazione dalla paura e ora il dominio della paura rischia di portarlo alla rovina. «Non abbiate paura, il crocifisso è risorto», dice l'apparizione di un messaggero celeste alle donne davanti al sepolcro vuoto. Il crocifisso è, nel Vangelo, il simbolo di una società nuova che risorge dalla paura ed è destinata a soppiantare il vecchio mondo il quale per esorcizzare la paura della fine si allea ma inutilmente con la morte. Così nacque il cristianesimo. Così si sviluppò nei primi secoli quando i cristiani affrontarono impavidi le persecuzioni. Finché la croce divenne esibizione della sofferenza del Dio fatto uomo e fu usata quale chiave strategica con cui il cristianesimo si è imposto come religione universale vincente, offrendosi al tempo stesso all'Impero come strumento di stabilità e unità. E arrivò Costantino che s'impadronì di quella religione nata dalla liberazione della paura per rovesciarla in strumento essa stessa di paura: In hoc signo vinces, in questo segno vincerai, cioè nel segno della croce come sacrificio perenne.
Dopo due millenni è il cristianesimo che sta usando la crocifissione per salvarsi dalla paura: crocifigge le donne, i gay, i tanti Welby, le coppie di fatto, perfino preti e teologi che si appellano alla libertà di coscienza.
Ci vorrebbe anche oggi un «angelo» che di fronte ai sepolcri vuoti gridasse ai vertici ecclesiastici e in fondo a tutti noi: «Non abbiate paura, quelle e quelli che avete crocifisso sono risorti».

 

13 marzo

Le vittime civili di Achille

Almeno tre morti sotto le bombe Nato a Grishk, mentre due kamikaze si fanno esplodere a Lashkargah

bombardiere b1-bNella provincia di Helmand è guerra aperta. A una settimana dall'inizio dell'Operazione Achille, si contano le vittime civili. Lunedì sono stati ricoverati nel centro chirurgico della Ong Emergency a Lashkargah sei civili, tutti feriti in un raid aereo della Nato nella zona di Grishk. “Vengono dal villaggio di Sarband, che è stato bombardato la notte tra l'11 e il 12 marzo”, racconta a PeaceReporter Luca DeSimeis, logista di Emergency a Lashkargah. “Erano in casa quando hanno sentito il rumore di un aereo, e dopo pochi istanti la loro casa è stata colpita da una bomba. Il capo famiglia e il figlio maggiore sono morti nell'esplosione. Altri cinque membri della stessa famiglia sono stati portati nel nostro ospedale. Inayatullah, il figlio di tre anni, è arrivato in condizioni gravissime e non c'è stato nulla da fare: le ferite alla testa erano troppo profonde, è morto poco dopo il ricovero. La madre Gullsina, ventotto anni, è stata operata per le ferite da scheggia al bacino e ad una gamba e adesso è fuori pericolo, così come sono stati operati altri tre figli: Marzia, Ishania e il tredicenne Zahir”. Ieri l'agenzia di stampa cinese 'Xinhua' aveva raccolto la voce di Mira Jan Adil, leader tribale di Grishk, che aveva denunciato la morte di cinque civili uccisi e il ferimento di altri quattro in un raid aereo sulla casa di Hajji Yar Mohammad.

 
soldato Isaf in Afhanistan Raid continui. L'ufficio stampa della missione Isaf non conferma né smentisce le morti di civili, ma si limita a scaricare la responsabilità sul comando statunitense: “E' un aereo degli americani che ha condotto il raid, dovete chiedere a loro”. Enduring Freedom, che dal 5 ottobre scorso è passata sotto il comando Nato, “non ha notizie di vittime civili”, ma ha assicurato che “stanno investigando”. Certo è che, secondo i bollettini del Comando statunitense, i raid aerei proseguono senza sosta. La scorsa settimana l'aviazione Usa ha effettuato più sortite in Afghanistan (330) che in Iraq (“solo” 327): le bombe teleguidate da 227 chili continuano a cadere – sempre su “postazioni nemiche”, a leggere i comunicati stampa – nelle zona di Qurya, Garmsir, Sangin, Kajaki, Washir.

 
Kamikaze. Intanto, martedì mattina, la provincia di Helmand si è svegliata con due attentati suicidi. A Lashkargah un kamikaze ha colpito un convoglio davanti alla sede del Provincial Reconstruction Team gestito dai soldati inglesi: i militari sono rimasti illesi, mentre un afgano, lavoratore a giornata nella sede del Prt, è stato ucciso dall'esplosione, che ha causato altri tre feriti – tutti afgani. Solo quindici minuti dopo un altro attentatore suicida si è fatto saltare in aria davanti al comando della polizia locale, ferendo in modo non grave due poliziotti afgani. Un terzo kamikaze ha colpito a Spin Boldak, nella confinante provincia di Kandahar, a ridosso del confine pachistano: il bilancio provvisorio è di almeno quattro civili morti, tra cui un ragazzino di quattordici anni. Una tranquilla giornata di guerra.

 

Le vibrazioni negative di Bush

I discendenti delle popolazioni Maya contro il presidente Bush: "Dopo il suo passaggio, purificheremo la zona"  
Dopo le violente contestazioni ricevute in Brasile, Uruguay e Colombia, anche in Guatemala il presidente Bush è stato attaccato dai rappresentanti delle comunità Maya: “Dopo il suo passaggio dobbiamo purificare la zona” hanno detto i discendenti della civiltà nata 1500 anni prima di Cristo.
 
Le proteste della popolazione Maya“George Bush porta con sé vibrazioni negative, per questo il luogo va ripulito”. Ha detto il rappresentante del popolo Maya in Guatemala, Rodolfo Pocop, a commento della permanenza del presidente Bush nel piccolo e fedele (solo agli Usa..) stato centramericano.
I discendenti dell'antico popolo non gradiscono il passaggio di re George in uno dei luoghi sacri della civiltà maya: le rovine di Iximchè, impareggiabili dal punto di vista archeologico, dove da più di tre millenni (e ancora oggi) si celebrano i riti sacri di questa civiltà.
E per questo hanno deciso di 'ripulirli' dalla negatività lasciata da Bush in un modo molto particolare: saranno bruciati incensi e fiori e tutto sarà bagnato con l'acqua del posto, in pieno stile Maya.
“Dopo il passaggio di Bush, che vuole trasformare un luogo sacro della nostra cultura e identità in uno show folkloristico per divertirsi con i suoi accompagnatori, dovremo ristabilire la pace e l'armonia” ha commentato il capo Maya.
Dopo essere giunto in Guatemala, quarta tappa del suo viaggio in America Latina, Bush, ha avuto un colloquio con il suo parigrado guatemalteco, Oscar Berger, e insieme a lui si è diretto verso la provincia di Chimaltenango, per far visita alle popolazioni indigene.

 
Le proteste anti-BushIl viaggio. Dopo le violentissime polemiche e i tafferugli che hanno caratterizzato la visita del presidente Bush in Brasile, dove, insieme al leader brasiliano, Lula, ha stipulato accordi sulla fornitura di etanolo, le contestazioni sono arrivate anche da molti gruppi della sinistra radicale in Uruguay, seconda tappa del tour latinoamericano del leader Usa. A controllare la situazione, però, al largo di Montevideo c'era una portaerei, la J.F.Kennedy, dotata di un sofisticato sistema radar e in grado di assistere il presidente in ogni tipo di esigenza.
Ma le contestazioni più feroci si sono avute in Colombia, da sempre considerato da Bush un Paese amico, dove le autorità di Bogotà sono state costrette a arrestare 325 persone, 33 delle quali minorenni. In più, durante gli incidenti fra manifestanti e polizia sarebbero state ferite decine di persone, bruciate foto con l'immagine di Bush, branditi cartelloni con scritte eloquenti: da” Bush assassino” a “Via Bush dall'America Latina” ai più fantasiosi “Viva Chavez”. E pensare che Bush era arrivato in Colombia per discutere nuovi piani per la lotta al narcotraffico e alla guerriglia. Le cose, come abbiamo potuto notare, non sono andate meglio in Guatemala. Le proteste, inizate a Città del Guatemala, sono proseguite anche nelle zone dove è maggiore la densità di abitanti di origine Maya, da sempre diffidenti nei confronti della politica di Washington.
E pensare che Bush era arrivato in America Latina per “riconquistarne” la fiducia a colpi di propaganda e di promesse di finanziamenti per la lotta alla povertà.

 

8 marzo

Donne in carriera, poche e senza figli: alla nascita di un bimbo la madri vengono emarginate. Le lavoratrici penalizzate 45 volte più dei maschi

Allarme Ue: per le donne stipendi più bassi degli uomini

di MARIA NOVELLA DE LUCA

ROMA - Prima o poi si rinuncia. Ai figli. O alla carriera. Succede in Italia. In Europa. Lui e lei uguali, ai nastri di partenza. Stessa laurea, stesso master, stessa grinta. Poi lei resta incinta. È una festa, una gioia, però tutto cambia. Perché la maternità, oggi come ieri, non sembra andare d'accordo con il mondo del lavoro. È il dato più forte, allarmante, lanciato dalla Ue: le donne guadagnano il 20% in meno degli uomini, e dopo la nascita del primo figlio le loro possibilità di carriera si abbassano drasticamente. Il ministero inglese delle Pari Opportunità con una ricerca commissionata da Tony Blair è arrivato addirittura a quantificare questo svantaggio: nella "graduatoria" dell'avanzamento professionale una donna che lavora con un figlio al di sotto degli 11 anni, ha 45 punti di svantaggio in più rispetto ad un uomo... E in un lunga inchiesta che "Le Monde" ha dedicato all'esistenza o meno di una "via femminile" al potere, citando naturalmente l'effetto Segolene Royal, la sociologa Dominique Méda per dimostrare quanto la carriera penalizzi la maternità ha fatto il conteggio sui figli dei politici. Il risultato, analizzando ad esempio il governo Zapatero, è che gli otto ministri spagnoli in carica "totalizzano in tutto 24 bambini, mentre le otto ministre solamente cinque". La sproporzione è evidente, e rende, bene, l'altra faccia della demografia in negativo.

È questo su tutti il dato che sembra colpire di più, nella giornata della donna anno 2007 in cui i bilanci sono sempre più transnazionali, uniscono cioè l'Italia alla Germania, l'Inghilterra alla Spagna, il Belgio alla Grecia, e ciò che accomuna le donne europee è che fare un figlio, o magari due è diventato un ostacolo, spesso insormontabile, al fare carriera, o al semplice mantenimento del posto di lavoro. Spiega Giovanna Altieri, direttore del centro studi Ires-Cgil, che al tema ha dedicato un lungo articolo dal titolo: "Sempre di più al lavoro, sempre meno pagate". "Spesso accade che dopo una gravidanza i contratti non vengano rinnovati o che alla lavoratrice diventata mamma si faccia capire che il suo posto, quello conquistato a fatica con la laurea e magari il master, non sia più tanto adatto a chi ha un bambino da accudire.

E allora le mansioni vengono cambiate, ed è l'inizio in molti casi un retrocessione non dichiarata ma effettiva. È il primo passo di quello che gli esperti chiamano gender pay gap, termine tecnico per indicare quanto non solo in Italia, ma in tutta Europa, a parità di nastri di partenza, uomini e donne si ritrovino poi nel mondo del lavoro ben distanti gli uni dagli altri". Ciò che le donne scontano, e questo è un aspetto tutto italiano, è la carenza di servizi che aiutino nell'accudimento di un figlio, e la rigidità degli orari di lavoro. Con il risultato che ancora oggi il 25% delle donne del Sud e il 19% di quelle del Nord dopo la nascita del primo figlio si ritrovano disoccupate. Un vero esercito che l'Istat ha catalogato con il nome di "lavoratrici scoraggiate": la maggior parte abbandona perché assediata dall'impossibilità di conciliare maternità e professione, ma un buon numero, il 5,6 % viene invece licenziato allo scattare della gravidanza.

Un vero controsenso insomma, che mentre registra un boom di donne con alte specializzazioni, (il 59% di tutti i laureati della Ue), le penalizza fortemente nel desiderio di figli e maternità. Conclude Giovanna Altieri: "Tutte le ricerche dimostrano che le donne vorrebbero almeno due figli e sono spesso costrette a fermasi ad uno. Ma la rigidità del mondo del lavoro è uno dei principali motivi del calo demografico, anche in quelle coppie giovani, dove la divisione dei ruoli e la cura dei bambini sono finalmente paritarie e simmetriche".

 

«Cento aerei da passeggio»

Franca Rame e Dario Fo

Evviva! Avremo anche noi una potente aviazione da guerra con la bellezza di 133 aerei da combattimento che abbiamo appena ordinato agli Stati Uniti. Qualche giorno fa il senatore Lorenzo Forceri, su incarico del Governo, si è appositamente recato, quasi in segreto, a Washington per firmare l’accordo. L’acquisto ci costerà molto caro, ma alcuni tecnici della coalizione governativa ci assicurano che sarà un affare. Ogni macchina da guerra volante verrà assemblata in Italia, esattamente in un grande atelièr di alta meccanica presso Novara. Ci lavoreranno circa 200 operai.

Evviva! Così abbiamo risolto il problema dell’occupazione e dei precari. E’ importante sapere il nome con cui vengono ufficialmente chiamati questi apparecchi d’assalto: Joint Strike Fighter che, tradotto un po’ all’ingrosso, significa caccia bombardiere d’attacco e immediata distruzione.

Ma scusate: Prodi e il suo apparato governativo non ci avevano assicurato che tutte le nostre missioni all’estero, a cominciare dall’Afghanistan, sarebbero state assolutamente missioni di pace e profondamente umanitarie? Io mi credevo che “immediata distruzione” significasse cancellazione totale di obiettivi militari e anche civili casualmente abitati dalle solite vittime collaterali con lancio di napalm, bombe a grappolo e fosforo bianco. “No!”, sono stato subito corretto dalle dichiarazioni dei ministri della guerra Usa. Ci hanno spiegato che quelle bordate di luce accecante sono in verità luminarie per creare effetti festosi e rendere splendenti le immagini paesaggistiche della zona. Ma veniamo al dunque.

Cosa costa in realtà ogni singolo “Fighter Distructor”? Ecco la cifra: esattamente 100 milioni di euro cadauno. Ma non si concedono prototipi singoli: il contratto vale solo se si acquista lo stormo al completo. Nel nostro caso si tratta di 133 aerei. Prendere o lasciare! Così il blocco volante ci verrà a costare 13 miliardi di euro più trasporto, assemblaggio, tecnologia di ricambio, macchine robotiche e uno staff di tecnici della casa costruttrice per la manutenzione e le varianti tecnologiche, giacché il vero collaudo dei volatili meccanici dovrà svolgersi sulle nostre basi che evidentemente abbisogneranno di strutture e hangar speciali. Gli apparecchi di questo stormo avranno eccezionalmente la facoltà di essere riforniti di carburante in volo, quindi la nostra squadra fighter dovrà essere dotata di apparecchi cisterna che seguiranno la flotta di combattimento per pompare a tempo debito il pieno necessario all’azione. Nelle spese dobbiamo ancora aggiungere l’assetto tecnico per i piloti in combattimento: armi leggere di bordo, mitragliatrici da 20 millimetri, razzi e missili, qualche cannone per non essere da meno e la possibilità di caricare ogive atomiche tattiche o pesanti. Il tutto non è compreso nel prezzo iniziale.

Alcuni tecnici da noi interpellati hanno sparato costi da capogiro. Sempre a livello di miliardi di dollari! Una cifra che da sola ci permetterebbe di risolvere d’acchito il problema della disoccupazione giovanile in Italia, aggiunto al problema delle pensioni, oppure finalmente finanziare la ricerca. Ma che scherziamo?! Buttiamo i denari per le pensioni agli anziani e gli asili nido, con ‘sti vecchi che continuano imperterriti a campare oltre il limite mondiale stabilito dall’Onu, e i neonati la cui percentuale di sopravvivenza dopo il parto è cresciuta a dismisura?!! E menomale che possiamo avvalerci di una sanità da terzo mondo! L’Italia deve tornare a livelli guerrieri dell’antica stirpe, pardon… l’aveva già detto Mussolini? Come non detto! E poi vogliamo giocarci l’amicizia del Governo di Bush presentandoci inermi al prossimo conflitto? Basta con questo popolo di mammoni e di “tengo famiglia”. Sacrifichiamo i nostri pochi quattrini, che del resto non abbiamo, pur di guadagnarci una degna alea di potenza guerresca. Facciamoci valere per dio!, come disse un nostro degno politico. Chi l’ha detto? Bondi? La Russa? Berlusconi? Lasciamo correre… e torniamo alle cose serie.

Il fatto curioso e nello stesso tempo sconvolgente è che nessun giornale, fra i numerosi cosiddetti indipendenti, ne abbia parlato, o almeno dato accenno, a partire da la Repubblica, il Corriere, il Messaggero etc. L’unico che ne aveva trattato largamente è il Manifesto. Ma prima di questo quotidiano, chi ha dato notizia dell’inqualificabile acquisto? Due vescovi del Piemonte che in un comunicato osservavano che l’acquistare un così gran numero di potenti aerei da combattimento, attacco e distruzione non era certo un amoroso segnale di pace e non faceva intravedere un programma consono alla costituzione italiana che “ripudia la guerra”. Anzi, se si accumulano armi per guerre dette preventive arriverà il momento in cui bisognerà pure adoperarle. E ancora i vescovi si chiedono: a che servono simili ordigni di morte in un programma di aiuti umanitari, costruzione di scuole, asili nido, ospedali, distribuzione di cibo e medicine?

E sullo stesso argomento leggiamo sul sito di Pax Christi: il governo italiano ha pochi soldi e vi sembra sensato che si sperperino miliardi per procurarci un assetto di quella potenza distruttiva? Sappiamo che l’intento del comando militare USA in Pakistan è di sferrare nell’immediata primavera, in collaborazione con tutti i reparti militari che operano nel Paese sotto l’egida dell’Onu, un attacco definitivo contro i talebani, che si stanno fortemente riprendendo nelle regioni del Sud in loro possesso. E il comando Usa ribadisce, se mai non si fosse capito: tutti i contingenti di varie nazionalità dovranno partecipare all’attacco a fianco delle forze americane. Quindi niente manfrine e furberie d’acquattamento: guai a chi scantona!

Ecco perché il governo italico firma impegni d’armamento d’attacco pesante! È come dire: io ci sto, ci stiamo armando. Ho detto armando? Mi ricorda una canzone: è caduto giù l’Armando. Ma non scherziamo!

Per finire con i diabolici Fighter, c’è un ultima notizia, naturalmente taciuta dal nostro governo libero e giocondo, una notizia tenuta nascosta dai quotidiani governativi e d’opposizione, radio, televisioni e svelata soltanto sul sito di Pax Christi, sul Manifesto, e da alcuni movimenti pacifisti nei loro blog. I velivoli in questione sono prodotti da una nota impresa aeronautica, la Lockheed, la stessa che una trentina d’anni fa pagò
nostri ministri e capi del governo della Dc, versando miliardi in tangenti, perché lo Stato italiano scegliesse di acquistare da loro speciali aerei da guerra. Ma allora è proprio un vizio! È inutile, quello è il motto dei nostri dirigenti moderati: “Se proprio non vuoi prostituirti, almeno chiudi un occhio e collabora!”.

Ma qui c’è un’ulteriore notizia veramente gustosa: veniamo a sapere che la Lockheed in questione ha proposto l’acquisto degli stessi “Fighter-ammazza-e-fai-strage” all’Olanda. Il governo dell’Aia, come sua abitudine, di democrazia reale, ha reso nota al pubblico l’operazione e ha richiesto all’America i progetti e gli abbozzi di prototipi. Dopo averli esaminati per lungo tempo con la consulenza di ingegneri specialisti del settore, ha decretato: “Grazie, ma non se ne fa niente. Questi apparecchi non corrispondono ai requisiti che si promettevano nel progetto. Per di più ci verrebbero a costare una pazzia e noi non siamo in grado di sostenere un simile salasso. Quindi rigettiamo la proposta. Ci spiace, ma sarà per un’altra volta.”

Il nostro governo, invece, non ha bisogno di produrre inchieste, verifiche e controlli. Noi si va sulla fiducia! Acquistiamo a scatola chiusa, senza nemmeno conoscere quale sarà il prezzo finale di ogni aereo, al termine dei collaudi e delle varianti. Se poi non funziona sono fatti nostri. Vogliamo disdire il contratto? Passare per anti-americani?! Non se ne parla nemmeno. Ingoiamo il rospo e speriamo che voli!

Vicenza: una base militare? No… solo culturale! Ma forse abbiamo tergiversato un po’ troppo. L’argomento principale di cui dobbiamo trattare è quello di altri aerei e altri aeroporti… in particolare parleremo dell’allargamento della base militare Usa a Vicenza.

Ma il tema che vi proponiamo è ancora più ampio e coinvolge tutte le basi americane in Italia e in Europa. Perché vi facciate un’idea realistica, le basi militari Usa conosciute nel mondo sono oggi oltre 850, il doppio di quelle dell’impero romano d’occidente nel momento della sua massima espansione. In Europa sono 499. In otto di questi siti europei sono custodite 480 testate nucleari (Left 26 genn). Un esercito di 150.000 uomini (civili e militari) presta servizio in queste basi. Una città… come Vicenza!

Mantenere un simile assetto costa 10 miliardi di dollari l’anno solo per la manutenzione ordinaria. Ottanta milioni di dollari vengono spesi soltanto per tenere in ordine i campi da golf dove si sollazzano gli ufficiali. Se non fai un po’ di moto, sparando palline qua e là, che vita è? Con questo malloppo di dollari si potrebbe risolvere il problema dell’Aids in Africa oppure, con un po’ più di impegno, la fame nel mondo.

A queste basi va aggiunto un numero imprecisato di strutture segrete – avamposti per le intercettazioni delle comunicazioni, centri di spionaggio, basi aeronavali e sommergibilistiche – spesso invisibili allo sguardo ma pienamente operative per fini sconosciuti. Questa caterva di basi, visibili e segrete, di fatto sconvolge letteralmente la vita dei territori dove vengono insediate e ci fa capire – come diceva il grande storico e filosofo francese Michael Foucault – come oggi la sovranità imperiale non sia più basata, semplicemente, sul potere di dare la morte – per esempio attraverso la guerra – ma sul potere globale esercitato sulla vita delle persone. Per introdurvi nel clima davvero tragico che questi servizi imposti determinano nella popolazione entriamo subito in argomento con un esempio di forte impatto.

In Italia le installazioni americane, cioè basi, radar, magazzini…, sono 113. Conosciamo le spese militari degli Usa nel nostro Paese e conosciamo anche le spese sostenute dallo stato italiano. Attenti!, non grazie a dichiarazioni dei nostri governi (per carità: il motto “Taci che il nemico ti ascolta” l’abbiamo imparato da tempo. È entrato nel DNA e qui il nemico cui non bisogna far sapere niente ce l’abbiamo in casa: sono gli abitanti del nostro Paese)… Le notizie sulle spese le abbiamo ricevute dall’ultimo rapporto ufficiale reso noto dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti. Alla pagina “B-10” del rapporto Usa c'è la scheda che ci riguarda: vi si legge che il contributo annuale alla “difesa comune” versato dall'Italia agli Usa per le “spese di stazionamento” delle forze armate americane è pari a 366 milioni di dollari. Tre milioni, spiega il documento ufficiale, li versiamo cash, contanti, mentre gli altri 363 milioni arrivano da una serie di facilitazioni che il governo italiano concede all'alleato: si tratta (pagina II-5) di «affitti gratuiti (di caserme, case e palazzi), riduzioni fiscali varie e costi dei servizi ridotti». Per inciso ciò che le imprese del Nord-Est e del Meridione chiedono disperatamente da anni al governo di Roma senza ottenerlo, gli Usa lo incassano in silenzio già da molti anni. Pronto Usa? Cash, tac!

Dunque il 41 per cento dei costi totali di stazionamento è a carico del governo italiano. Più dell'Italia pagano solo Giappone e Germania (tabella di pagina E-4). Ma calmi… se fidiamo nella disponibilità dei nostri governanti arriveremo a raggiungerli e anche sorpassarli!

Ora entriamo in altri particolari, cominciando con il descrivervi la situazione in Sardegna. Perché iniziamo proprio da quest’isola? Per la semplice ragione che qui è concentrato il 60% dello spazio occupato dalle basi militari Usa in Italia. In Sardegna abbiamo il grande poligono che comprende le aree di Quirra, Perdasdefogu e capo San Lorenzo. E dobbiamo segnalare la base navale più importante per sommergibili atomici, quella sull’isola di Santo Stefano, la Maddalena, che occupa, di fatto per intiero, la piccola e ridente isola degna d’essere ritenuta dall’Unesco patrimonio dell’umanità.

Particolare interessante: chi ha fatto dono agli Usa di questo spazio della costa Smeralda è in persona Giulio Andreotti circa 30, 35 anni fa. Dio gliene renda merito! Il mare che circonda l’isola è proprietà della base a tutti gli effetti, a partire da esercitazioni e collaudi. Sul fondo rotolano di continuo proiettili di varie dimensioni che in seguito alle mareggiate si ritrovano sulla spiaggia.

È inutile dire che in quella zona la balneazione è proibita. Così come per i pescatori proibito è stendere reti nel golfo e dintorni dell’isola. Qualche anno fa ha fatto scalpore la notizia che uno dei sommergibili atomici della
base aveva subito un incidente che ha messo in grave pericolo la vita degli abitanti dell’isola e dell’intiero spazio acqueo. Il fatto è avvenuto esattamente il 25 ottobre 2003. In quel caso il sommergibile atomico Hartford andò a incagliarsi nella Secca dei Monaci, presso la Maddalena, riportando seri danni. Il fatto fu ritenuto tanto grave da indurre il comando Usa a sospendere il comandante del sommergibile. L’incidente è stato tenuto celato come al solito dalle autorità italiane e se n’è saputo qualcosa solo grazie alle dichiarazioni del comando Usa. C’è stata perdita di materiale radioattivo? E le notizie dei numerosi casi di leucemia, come le mettiamo?! Mah…

Le autorità americane interrogate non hanno rilasciato alcuna notizia sull’eventuale contaminazione del fondale e delle acque. Solo recentemente, in seguito a manifestazioni iniziate nella piccola isola e riprese in tutta la Sardegna, agenzie straniere hanno condotto alcuni sondaggi scientifici in zona. Esiti delle ricerche eseguite da istituti indipendenti (tra i quali il francese CRIIRAID) hanno rivelato una presenza abnorme di radionucidi nelle alghe.

Da qui sono nate dimostrazioni di protesta da parte degli abitanti e in particolare dei pescatori che vedono ormai compromessa la propria sopravvivenza, sia fisica che di lavoro. Le stesse analoghe manifestazioni di protesta sono esplose a Capo Teulada nel sud dell’isola, dove in seguito alle ripetute esercitazioni militari i pescatori si trovavano costretti a non poter calare le reti nelle acque prospicienti la costa, fra l’altro le più pescose. Durante una di queste proteste, i manifestanti che si erano avvicinati alla zona off limits con le loro imbarcazioni hanno dovuto subire un vero e proprio speronamento da un’imbarcazione della marina militare italiana (9 marzo 2005). Paradossale che a proteggere i pescatori siano intervenuti i marinai della base degli Usa. Grazie America!

Ad un certo punto il comando Usa della Maddalena ha sospettato che la loro presenza non fosse molto gradita alla popolazione che vedeva crescere le contaminazioni radioattive e si sentiva di fatto privata del diritto di gestire liberamente la propria vita. Per di più ai natanti d’ogni genere, compresi quelli dei turisti, non è permesso di attraccare o gettare l’ancora in prossimità di quelle coste. Così si è cominciato a raccogliere la voce che l’intiero contingente navale americano stesse per traslocare altrove. Era questione di mesi. Ma evidentemente era solo un sogno per quegli abitanti. Infatti, secondo quanto riportato ultimamente dalle agenzie di stampa e da alcuni quotidiani locali - Il Giornale di Sardegna e La nuova Sardegna, in data 16 settembre 2005 -, gli Usa intenderebbero prossimamente rafforzare la loro presenza nella base per sottomarini nucleari dell'isola della Maddalena; il progetto prevede un ampliamento della base pari a più del doppio delle volumetrie concesse (da 50.000 metri cubi si passerebbe a 120.000). Insomma ci si sono affezionati… andandosene ci lascerebbero il cuore… per cui… raddoppiano!

Ed ora veniamo a noi, cioè parliamo di Vicenza, la città del Palladio e culla della commedia dell’arte, il più famoso teatro della tradizione antica italiana. Qui si sta progettando un ingigantimento dell’attuale caserma Ederle e della realizzazione della più potente base americana nell’Europa. Qui verrebbe ospitata la nuova 173ma brigata aerotrasportata, che triplica la forza e gli organici di quella ora divisa tra qui e le basi tedesche di Bamberga e Schweinfurt. È proprio uno spasso constatare che mentre i tedeschi, popolo guerriero, stufi di ospitare da più di mezzo secolo le brigate degli amici d’America, li invitano a sloggiare, noi, popolo canterino-pacifico, col nuovo governo di centro-sinistra spalanchiamo felici le braccia per raccogliere quello che in Germania non possono più sopportare. Ma siamo sicuri che questo nostro sia un governo “nuovo”?

Però nella città del Palladio non vedremo giungere solo uomini. La 173ma brigata non è composta da soli paracadutisti e aviotrasportati. Reca con sé un bagaglio più che consistente: 55 tank M1 Abrams (cioè proprio pesanti! Con cannoni da 90 a 120 millimetri), 85 veicoli corazzati da combattimento, 14 mortai pesanti semoventi, 40 jeep humvee con sistemi elettronici da ricognizione, due nuclei di aerei spia telecomandati Predator, una sezione di intelligence provvista di diavolerie elettroniche, due batterie di artiglieria con obici semoventi e i micidiali lanciarazzi multipli a raggio lungo Mrls.

Un forza d’urto sufficiente a cancellare una metropoli! E già che siamo sotto Carnevale si può ben dire una scatenata festa coi botti!

A detta del generale James L. Jones la 173ma brigata è da chiamarsi “maglio mobile con la potenza di fuoco di una divisione d’attacco immediato”. Per chi ama il cinema il nome 173ma brigata fa subito venire in mente Apocalypse Now, dove proprio il contingente d’attacco in questione si esibiva al comando di un capitano-cowboy nella distruzione di villaggi e massacro di popolazione in Vietnam al suono delle Valchirie di Wagner.

Prego… benvenuti nella dolce Padania, accomodatevi! Mentre sorpassate coi vostri elicotteri bombardieri il Mekong, sì voglio dire… il nostro Po, per delicatezza, vi dispiace mettere in onda il Va pensiero di Verdi se in un
momento di euforia vi scappa di gettare napalm? Ma il nostro governo, attraverso i suoi ministri, insiste ad assicurare che nella base non ci saranno armi di alcun genere, neanche temperini e tagliacarte!

A parte i lazzi da commedia dell’Arte, per ospitare degnamente tutta questa forza di fuoco, abbisogneranno strutture e sovrastrutture nuove ed efficienti. Il movimento di questi mezzi d’attacco, camion blindati, carri da sfondamento, tank…, avrà bisogno di strade adatte e solide… soprattutto sgombre. Non si accettano ingorghi e traffico caotico, niente biciclette, bambini e vecchietti curiosi. Stare alla larga, prego!

Il Ministro Parisi ha tranquillizzato la popolazione, letteralmente garantendo che: “Il governo ritiene suo dovere vigilare affinché le opere che verranno realizzate siano rispettose delle esigenze prospettate dalle comunità locali, con particolare riferimento all’impatto sul tessuto sociale, sulla viabilità e sulla rete dei sottoservizi.” (la Repubblica, 31 genn. P. 10) Inoltre ha assicurato che il Comune sarà esonerato dalle spese per le infrastrutture e che i servizi sportivi, scolastici e naturali (ora in funzione, da abbattere) verranno ricollocati e ricostruiti altrove a carico degli americani. Ricostruire? Ma dove? Quando? Dov’è il progetto da discutere?

C’è proprio da farsi una grossa risata. Già che c’era, il nostro ministro della guerra, pardon della Difesa!, poteva anche giurare che le autorità di controllo del governo italiano hanno libero e continuo diritto di accesso nella base in ogni ora o momento senza preavviso, onde verificare che i responsabili della base stessa stiano proseguendo come da regolamento previsto. Chissà se ai nostri controllori della Repubblica italiana sarà permesso anche di verificare che nella base di Vicenza, oltre che a uno stivaggio di svariate tonnellate di proiettili di vario calibro, non si trovino per caso anche ogive atomiche.

Stiamo esagerando? Facciamo del terrorismo gratuito? E allora, eccovi qua la testimonianza del Natural Resources Defence Council (Stati Uniti). Secondo questa autorevole fonte sarebbero 40 le testate nucleari stoccate nella base di Torre di Ghedi (provincia di Brescia) e 50 quelle custodite ad Aviano, della potenza variante da 0,3 a 170 chilotoni (quella della bomba sganciata su Hiroshima era di circa 15 chilotoni), tutte bombe, queste, stivate nelle nostre basi a disposizione di Tornado anche dell’aviazione militare italiana. Se gradisce… Quindi stiamo tranquilli, noi qui nel nord siamo al caldo!

Qualcuno, scrivendo su testate di prestigio, si è chiesto se non fosse stato più ragionevole e comodo scegliere come base e relativo nuovo aeroporto uno spazio più consono, situato in una piana meno abitata e sgombra di fabbriche come è la zona intorno a Vicenza, il cui centro dista meno di due chilometri dall’aeroporto in costruzione. A parte il frastuono al quale saranno sottoposti gli abitanti, sorvolati di continuo da jet urlanti in quantità da incubo, essi vicentini saranno vivacemente irrorati dagli scarichi del carburante a iosa… tutta salute!

“Ci voleva poco – commenta l’autore dell’articolo – a trovare nella nostra penisola qualche spazio più adatto alla bisogna.” Ma ecco che in merito risponde Lutwack, il noto consulente strategico del governo Bush che spesso appare ospite sulle nostre reti televisive, che parla come Stanlio e Olio. (Forse esegue parodia con accento inglese) Egli ammette che sarebbe stato facile trovare un altro spazio meno urbanizzato, ma la scelta di Vicenza è dovuta al particolare che una grande percentuale di militari delle truppe ospitate proviene da università e college prestigiosi, dove ha condotto studi umanistici e d’arte. Per cui essi specificamente hanno richiesto di potersi insediare nei pressi di una città d’arte famosa come la patria del Palladio, onde poter arricchire la propria cultura e godere del piacere insostituibile della bellezza.

Quindi, vicentini, siate orgogliosi per la scelta che hanno fatto le truppe di sfondamento aerotrasportate. Sì, dovrete sopportare qualche fastidio, a partire da un traffico d’inferno, pericolo di contaminazioni radioattive,
controlli continui, divieti, rischiare di essere scambiati per terroristi…, ma non si può avere tutto dalla vita: la gloria e pure la tranquillità e il benessere! Quindi godetevi ‘sta pacchia!!! Alleluia!!!

 

Stati Uniti

C'è qualcosa che non va

La «sindrome cinese» affascina i media: tutta la stampa interpreta la caduta delle borse nell'ultima settimana come una conseguenza, un effetto domino, della crisi della borsa di Shanghai. Certo, la borsa cinese è una piazza emergente, ma è ancora una borsa abbastanza piccola, in grado - al massimo - di influenzare le altre borse orientali. In realtà il malore arriva soprattutto sull'altra sponda del Pacifico: da una piccola recessione, per ora senza dati negativi, per quanto riguarda la crescita del Pil, che sta caratterizzando l'economia Usa.
Un rallentamento della crescita era atteso: dopo 5 anni di vacche grasse era impensabile che il Pil potesse continuare a crescere a tassi del 4-5 per cento l'anno. Nell'ultimo trimestre del 2006 il trend di crescita si è ridotto a poco più del 2%, quasi niente considerando che nell'intero anno il Pil è salito del 3,6%. Certo, il prodotto lordo per ora seguita a crescere, ma si rafforza il timore che entro l'anno il Pil possa finire in territorio negativo.
Un ulteriore brutto segnale in questa direzione è la forte caduta della fiducia delle famiglie che non è qualche cosa di astratto bensì un sentimento fondamentale che spinge a accelerare i consumi o a frenarli per paura del futuro. E se dovessero crollare anche i consumi sarebbero dolori. Altri dati confermano che le cose non vano bene. Ieri. ad esempio, è stato diffuso il dato sugli ordinativi all'industria: in gennaio hanno fatto un tonfo del 5,6%, la maggiore caduta degli ultimi sei anni. Ancora peggio sono andati gli ordinativi di beni durevoli in retromarcia dell'8,7%, uno scivolone che ha riportato a quanto accaduto nell'estate del 2000 quando l'economia Usa cominciò ad avviarsi in una recessione che pochi avvertivano, anche a causa delle statistiche sballate che venivano diffuse e che solo dopo un paio di anni sono state corrette. Contribuendo, tra l'altro, ad accreditare la convinzione che la recessione Usa fosse legata all'11 settembre.
La caduta degli ordinativi (anche quelli militari, anche quelli dei mezzi di trasporto) arriva dopo la conferma delle difficoltà del settore immobiliare la cui bolla si sta progressivamente sgonfiando, provocando guai non solo al settore produttivo, ma anche a quello finanziario e ai consumi. Di più: nel quarto trimestre la produttività è aumentata solo dell'1,6%, mentre il costo del lavoro è balzato del 6,6% e in media d'anno del 3,2% come non accadeva dal 2000. La recessione si avvicina e questo alle borse non piace.

 

Se non mi firmi in bianco le dimissioni, non ti assumo

Le parlamentari dell'Unione presentano un disegno di legge contro le «dimissioni coatte» anticipate che i padroni pretendono dai lavoratori al momento dell'assunzione, per poterli cacciare «legalmente» in futuro

Carla Casalini

Cosa sono le «dimissioni in bianco»? Semplice, e lesiva di dignità e libertà, è la pratica che si nomina a partire dal suo senso letterale: un foglio con una firma preventiva del «lavoratore», al momento dell'assunzione, che sarà usata in seguito dal «datore di lavoro» quando vuole disfarsi di lui/lei, facendo figurare l'uscita dal luogo di lavoro come una scelta «volontaria» del prestatore d'opera - «c'è la sua firma sul foglio di dimissioni!».
Chi non ci sta a siglare in anticipo il proprio licenziamento mascherato, non viene assunto, e il ricatto prosegue per tutto il tempo in cui si trova in quell'impresa, se per caso si ammala o gli capita un 'infortunio' da lavoro. Il segno 'letterale' traduce infatti una pratica corposamente concreta - la dipendenza nel tempo quotidiano di una vita -, e simbolica - l'esercizio di un potere direttamente personale che sa di un passato feudale riciclatonon solo dal «postmoderno» ma ben da prima, come testimoniano le prime norme «contenitive» già negli anni '60. Ma le «dimissioni estorte» ai prestatori d'opera sono difficilmente quantificabili, perché ci si può basare solo sui ricorsi ai tribunali dei lavoratori, dopo la loro cacciata: e dunque «si stima, ma per assoluto difetto, che ci siano 18 mila casi all'anno».
I numeri li ha forniti ieri a palazzo Madama il dirigente nazionale della Cgil Claudio Treves, intervenendo nella conferenza stamnpa in cui le senatrici del Centrosinistra hanno presentato un «disegno di legge per neutralizzare gli effetti della richiesta preventiva della sottoscrizione di dimissioni in bianco da parte del lavoratore». Silvana Pisa, Vittoria Franco, Anna Maria Carloni, Colomba Mongiello (Ulivo) e Maria Luisa Boccia (Rifondazione) hanno illustrato il testo (già presentato alla Camera da Marisa Nicchi e altre). «Ci auguriamo che l'esame possa iniziare subito», invita Silvana Pisa, segnalando, con Anna Maria Carloni, il maggior «potere di ricatto» che questa pratica padronale si permettere al sud.
Un disegno di legge stringato, di due soli articoli con annessi commi, che si concentra sulla prescrizione di «appositi moduli, predisposti e resi disponibili, gratuitamente, dalle direzioni provinciali del ministero del Lavoro e dagli Uffici comunali», dotati di un «codice alfanumerico progressivo di identificazione, nonché di spazi da compilare» da parte del lavoratore firmatario su «identificazione del prestatore d'opera, del datore di lavoro, della tipologia di contratto da cui si intende recedere, della sua data di stipulazione ...».
Colomba Mongiello ieri ha poi proposto di inserire questi due articoli «all'interno della riforma del processo di lavoro all'esame della commissione di palazzo Madama». Abbiamo chiesto perciò a un giurista come Massimo Roccella, a conoscenza del testo sul «processo di lavoro», che cosa pensa di questo nuovo disegno di legge. delle parlamentari dell'Unione. «Tocca un problema serio e reale - aderisce Roccella - e l'intenzione è ottima, anche se va qua e là precisata tecnicamente»: fra i punti che il giurista propone di «precisare», il più importante ci sembra la necessità di risolvere il problema di chi - prestatore d'opera che deve compilare i moduli - non è «alfabeta», come le migliaia di lavoratori extracomunitari che non maneggiano bene l'italiano.
Roccella ricorda anche che per la «maternità» ma anche per la «paternità», biologica o adottiva, esiste già una protezione contro le «dimissioni estorte» nel decreto legislativo 151 del 2001. Ma le senatrici, ieri, hanno infatti parlato delle limitazioni alla libertà di tutti, «donne e uomini». Quel che invece colpisce - questa volta in negativo - nel testo delle senatrici, è per noi leggere l'elenco minuzioso delle «tipologie» di contratto cui si rivolge il nuovo disegno di legge, fino a quelle più ambigue e spurie: non ne capiamo il motivo, visto che questa appare una, certo involontaria ma pur sacrosanta, legittimazione - per via indiretta - fin delle più odiose forme di lavoro precario.

 

7 marzo

6 marzo

 

Le sentinelle di Ratzinger

Dario Fo

Se penso a Giulio Andreotti e a Clemente Mastella nelle vesti esilaranti di sentinelle della moralità mi torna in mente la comicità americana di cinquant'anni fa, il curvo e il grasso. E cosa dovrebbero fare questi guardiani del presunto comune senso del pudore? Ma è ovvio, vigilare perché si eviti di concedere spazi e diritti agli omosessuali, o alle coppie di fatto. È un brutto segno questa irruzione oscurantista e clericale nella politica. Sul versante immediato si è avuta la conferma che i due senatori forse un po' sciagurati che si sono rifiutati di votare senza valutare fino in fondo le conseguenze, sono stati poi usati come capro espiatorio della mini-crisi di governo. Invece, è evidente a tutti che il governo è stato fatto cadere per interessi ben diversi e per mano di alcuni senatori a vita. È da quando ho memoria che ho a che fare con gli oscurantismi di Andreotti, Franca Rame e io ce lo ricordiamo bene. Fosse per lui sono certo che sui gay chiederebbe ancora la censura, è colpa della scuola da cui proviene. Sono posizioni clericali, non cattoliche, quelle che esprime.
È in atto un arretramento, insieme ai diritti dei gay e delle coppie di fatto, del livello culturale del paese. È come se, impugnando i Dico, i nostri politici avessero aperto il congelatore per infilarci tutti i problemi importanti che questo governo avrebbe dovuto affrontare. Penso ai conflitti internazionali e al ruolo dell'Italia in essi, penso alle spese militari e ai 100 aerei F-35 Lighting (fulmine) che abbiamo acquistato dagli Stati uniti per un miliardo di dollari. A proposito, mi dicono che dietro quegli aerei da guerra c'è la Lockheed. Ve la ricordate la Lockheed e lo scandalo di qualche governo fa? Nel congelatore c'è posto anche per il conflitto d'interessi, e vorrei sapere che ne sarà degli altri temi sociali, la lotta alla precarietà, o un diverso atteggiamento rispetto all'emigrazione.
Dietro queste manovre e dietro questa deriva oscurantista vedo ancora la vecchia Dc (siamo sicuri che non moriremo democristiani?) e davanti a questa vecchia Dc vedo l'antico codazzo di vescovi e cardinali. Ho un po' d'invidia per la Spagna, che in fatto di subalternità clericale aveva ben poco da invidiare a noi: la Spagna dimostra che a guidare i processi di rinnovamento è sempre la politica. Certo, paghiamo scelte antiche, come l'aver accettato di sovvenzionare scuole e università cattoliche. E' in questi luoghi, pagati da noi contribuenti, che vengono forgiate le future classi dirigenti.
Come possiamo fermare l'aggressione oscurantista e le due sentinelle della buoncostume? Ogni volta che partecipo agli appuntamenti di chi non vuole gettare la spugna mi accorgo che c'è un paese reale, un popolo fatto di donne con i bambini in carrozzella come a Vicenza, su cui dobbiamo investire. A manifestare contro le basi ho visto tante persone non legate ai partiti, molte hanno votato a sinistra. I nostri politici prima hanno tentato di far fallire quell'appuntamento caricando il loro fucile con la polvere nera della paura, come ha fatto il ministro Parisi, con l'intenzione di tener fuori la gente semplice che magari era la prima volta che manifestava in piazza. Poi, quando hanno sfilato 200 mila persone pacifiche e convinte hanno fatto finta di non vederle, fino ribadire in modo assolutistico: non possumus, perché pacta servanda sunt. Che delusione, che impressione questa cecità.
Le due sentinelle ci sono perché sentono che uno spazio è stato liberato dallo smottamento politico e culturale del centrosinistra. Continuiamo a spingere, parlando, scrivendo e, con o senza la benedizione del presidente Napolitano, scendendo in piazza.

 

Botte che non ti Dico

Per la Cassazione è meno grave picchiare la convivente che la moglie. Se fosse stata già approvata la legge Pollastrini, non sarebbe potuto accadere

Angelo Mastrandrea

Fosse già stato approvato il disegno di legge contro la violenza sulle donne firmato dalla ministra diessina Barbara Pollastrini, quanto avvenuto ieri non sarebbe potuto accadere. Punto e basta. E invece, siccome in giurisprudenza ogni interpretazione consolidata ha le sue eccezioni, eccone appunto spuntare una perfettamente in linea con le parole di Giulio Andreotti al Senato e la campagna anti-Dico della Chiesa ruiniana e di mezzo (o forse più) parlamento italiano.
Il fatto in sé non sarebbe stato di quelli da consegnare alla memoria, non fosse per il valore simbolico che assume in questo momento storico. In sintesi, la Quinta sezione della Corte di Cassazione ieri ha annullato una condanna a due mesi di reclusione e al risarcimento del danno a un uomo di Potenza accusato di aver picchiato la convivente. La Corte ha infatti ritenuto che a «il mero rapporto di convivenza more uxorio non è idoneo ad integrare l'aggravante» prevista in caso di violenze alla moglie. In parole povere, si può più impunemente schiaffeggiare la propria compagna rispetto alla moglie. In base a questo principio, l'uomo è stato condannato solo a una multa di mille euro.
La Cassazione ha interpretato l'articolo 577 del Codice penale, nella parte in cui è prevista l'aggravante per la sola commissione del fatto contro il coniuge e non all'ex coniuge o al convivente, nel senso che «il diverso trattamento normativo nei confronti del coniuge non è irrazionale, tenuto conto della sussistenza del rapporto di coniugio e del carattere di tendenziale stabilità e riconoscibilità del vincolo coniugale». La stessa Consulta, ricordano i giudici di piazza Cavour, «sebbene in relazione a una causa di non punibilità, ha evidenziato che non è irragionevole o arbitrario che il legislatore adotti soluzioni diversificate per la famiglia fondata sul matrimonio, contemplata nell'articolo 29 della Costituzione, e per la convivenza more uxorio: venendo in rilievo con riferimento alla prima, a differenza che rispetto alla seconda, non soltanto esigenze di tutela delle relazioni affettive individuali, ma anche quella della protezione dell'istituzione familiare, basata sulla stabilità dei rapporti, di fronte alla quale soltanto si giustifica l'affievolimento della tutela del singolo componente».
Un'interpretazione differente da quella consolidatasi nella giurisprudenza degli ultimi anni, tanto che lo stesso ministero delle Pari opportunità, spiegando il testo di legge sulla violenza contro le donne, sostiene che l'equiparazione tra «maltrattamento in famiglia» e «il comportamento lesivo posto in essere nei confronti del convivente» non è altro che il riconoscimento di un orientamento consolidato nelle aule di tribunale. La legge «zapateriana» (la Spagna ha adottato simili provvedimenti immediatamente dopo la vittoria socialista alle elezioni) si spingerebbe anche oltre, inasprendo di un anno il minimo della pena detentiva, ed escludendo la possibilità di equiparare, nella determinazione della pena, circostanze attenuanti e aggravanti, facendo prevalere queste ultime.
Nonostante il clima infuocato sui Dico, la sentenza ha incontrato il silenzio assoluto del mondo della politica. Unica eccezione la deputata della Margherita Maura Leddi, che ha definito la sentenza «disarmante» e ha giudicato «inammissibile usare due pesi e due misure quando si parla di violenza sulle donne». «Credo che un pugno sia un sempre un pugno, qualunque sia il vincolo che lega due persone, ed è davvero una vergogna per la nostra società che ancora oggi, davanti alla violenza che colpisce il sesso femminile dentro e fuori casa, si possa eccepire e distinguere sulla pelle viva delle donne», ha concluso.

 

Far West in affitto

di Marco Lillo

Pochi appartamenti disponibili. Prezzi alle stelle. Edilizia pubblica inesistente. L'emergenza casa travolge le classi medie. E penalizza l'economia del Paese

Anna Grazia Wanderlingh è stata espulsa dalla sua città con una lettera. Abitava in via Tiburtina 150, a due passi dall'università, per quarant'anni ha diviso gioie e dolori con altre 65 famiglie in questo stabile popolare di San Lorenzo. Un giorno del 2004 i padroni hanno venduto il palazzo e i 700 euro di pigione improvvisamente sono diventati pochi. Gli studenti fuori sede sono disposti a pagare il triplo e così alla soglia dei sessant'anni, nonostante l'impresa di suo marito guadagni 26 mila euro all'anno, la signora Wanderlingh si è ritrovata troppo povera per Roma. Ha provato a resistere, ha sfilato in corteo, è andata al 'Maurizio Costanzo Show', ma è stato tutto inutile. Per sopravvivere decorosamente andrà a Santa Marinella, a 60 chilometri da Roma: 600 euro al mese. Vederla fare i picchetti davanti all'abitazione per difendere il suo diritto alla casa, con la sua acconciatura signorile e il maglioncino elegante accanto alla compagna Simona Panzino, la candidata 'senza volto' delle elezioni primarie dell'Unione, è la migliore prova che l'emergenza casa in Italia è diventato un problema di massa.

Canone selvaggio

Negli ultimi cinque anni i canoni a Roma sono aumentati del 62 per cento e in alcune zone sono persino raddoppiati. A Milano e a Firenze è andata peggio. Secondo il calcolo reso noto dall'Istat la scorsa settimana, nel 2006 l'inflazione ha avuto un picco per i ceti meno abbienti. Sono loro ad aver subito le conseguenze dell'aumento dei prezzi più degli altri, e il motivo di questo divario sta in buona parte nel caro-casa. Gli affitti impazziti rendono le nostre città simili all'America spietata descritta nell'ultimo film di Muccino. Basta un periodo nero al lavoro, un problema di salute e si finisce in un ricovero per homeless, come Will Smith ne 'La ricerca della felicità'. Roberto Basili, per esempio, la sua felicità l'ha persa nel novembre 2004, quando gli è arrivata una lettera che intimava a tutti i 14 inquilini del suo stabile di lasciare la casa. Lui era lì dal 1966, ex impiegato dell'agenzia viaggi della Fao, una moglie al ministero dei Trasporti, una vita tra ambasciatori e consoli, a 79 anni è costretto a vedersela con l'ufficiale giudiziario che vuole cacciarlo. Paga 600 euro al mese comprese le spese, ma la serena vecchiaia che progettava tra le quattro mura di via Caio Rutilio è andata in frantumi: "Chiedevano 1.500 euro al mese, ora sono scesi a mille, ma non ce la facciamo comunque. È un incubo. La notte mi sveglio pensando dove andremo. Mia moglie ha avuto un ictus e non posso trasferirla". Basili è un moderato che votava Partito repubblicano. Con moderazione, ma è indignato: "Se il Comune di Roma non interviene, a luglio finiremo per strada. I politici nazionali si disinteressano di noi. Solo il nostro municipio e il centro diritti di Action ci stanno dando una mano". Action è l'ultima spiaggia. Il movimento di estrema sinistra famoso per gli espropri dei palazzi sfitti non gode di ottima stampa, eppure svolge una funzione sociale fondamentale sul fronte del disagio abitativo. Grazie a un accordo con il Comune di Roma, garantisce in sei municipi della periferia i 'centri diritti', veri e propri sportelli aperti al pubblico con tanto di assistenza legale e psicologica.

La tribù dei senza casa

In passato negli uffici del centro diritti arrivavano solo immigrati ed emarginati. Ora ci sono 'i cartolarizzati', cioè gli inquilini dei palazzi degli enti previdenziali venduti dallo Stato per fare cassa; i 'privatizzati', cioè quelli che resistono nei vecchi palazzi di banche e assicurazioni, finiti in mano a società che sfruttano e sfrattano senza scrupoli; poi ci sono gli 'occupanti senza titolo', entrati nelle case popolari violando la legge e infine 'i nuovi poveri', le famiglie normali strappate alle abitudini borghesi dalla scadenza di un contratto. Per tutti il nemico numero uno è lo sfratto. E per difendersi, tutte le tribù del caro affitti si incontrano negli uffici di Action e fanno fronte comune. L'unione fa la forza, soprattutto quando bisogna resistere allo sfratto. I 'privatizzati' di via Marchisio, vicino a Cinecittà, per esempio, lunedì 5 febbraio hanno difeso le loro case schierandosi davanti al portone. Ma era il primo accesso, quello senza poliziotti. D'ora in poi ci sarà bisogno di rinforzi. Questa lunga stecca di appartamenti della periferia est di Roma dimostra l'effetto che fanno i paroloni come cartolarizzazione e privatizzazione quando atterrano dall'empireo degli economisti sulla pelle dei comuni mortali. Le Generali hanno ceduto in blocco il palazzo a un politico-imprenditore: Camillo Colella, un costruttore di Isernia che è anche esponente di spicco della Margherita molisana. Colella da tre anni cerca di buttare fuori 86 famiglie per realizzare una plusvalenza di 15 milioni, ma i 'privatizzati', guidati da Massimo Cappellani, vendono cara la pelle.

A Milano 15 mila in fila

Anche a Milano la situazione sta precipitando: per il Sunia, il sindacato degli inquilini, Milano è ancora la città più cara, anche se Roma sta rimontando e l'ha quasi raggiunta. Una casa di 80 metri quadrati in periferia, a Milano, porta via la metà del reddito a una famiglia che guadagna 30 mila euro all'anno. In queste condizioni è difficile arrivare a fine mese anche con due buoni stipendi in famiglia. Don Virginio Colmegna, il presidente della Fondazione Casa della carità, sempre più spesso è costretto a ospitare persone comuni che non riescono a trovare casa a un canone abbordabile. Chi guadagna meno di 1.200 euro al mese, a Milano è costretto a chiedere la casa popolare. Ma l'edilizia pubblica è inesistente. Negli ultimi dieci anni sono state costruite solo 494 case popolari e le richieste sono state più di 15 mila, metà delle quali presentate da extracomunitari, nonostante i criteri siano stati modificati a loro sfavore per privilegiare gli italiani sugli stranieri residenti da meno di cinque anni. Il Comune spende 470 mila euro all'anno per andare incontro alle situazioni più disperate. In albergo a spese del Comune ci sono anche famiglie che non ti aspetti, come una coppia di pensionati da mille euro al mese, che nel 2001, al rinnovo del contratto, ha dovuto lasciare l'appartamentino di via Padova, passato da 360 a 780 euro, spese escluse. Ora vivono in albergo e sperano in una casa popolare a Lorenteggio.

Blackout al mercato

Nel 2001 l'allora direttore generale di Confindustria, Innocenzo Cipolletta, prometteva: "Il mercato degli affitti dev'essere libero, perché aumentando l'offerta, i prezzi scenderanno". Cinque anni dopo, all'ultima assise di Vicenza, Confindustria ha presentato uno studio (firmato anche da Cipolletta) dove si legge: "La riforma non ha contribuito ad aumentare l'offerta di abitazioni in locazione e non ha avuto alcun effetto di rallentamento sulla dinamica dei canoni. Inoltre la penuria di abitazioni a basso costo ha acuito il disagio di determinati strati della popolazione". I dati del centro studi Ubh, che pubblichiamo qui a fianco, parlano chiaro: un appartamento di medio taglio e buon posizionamento a Roma costa il doppio che a Bruxelles e Amsterdam, più che a Francoforte, Berlino, Barcellona o Madrid. Solo Londra, Tokyo e New York restano molto più care. Mario Breglia, presidente della società di analisi Scenari Immobiliari, annuncia la discesa dei canoni: "Siamo arrivati ormai al livello massimo e in alcune città è cominciata la discesa". Ma le ragioni dello stop sono poco incoraggianti: "I prezzi scendono perché hanno toccato un limite fisiologico: gli inquilini non ce la fanno a pagare gli affitti richiesti dai proprietari".

Immobili e assenti

Secondo Confindustria, in Italia ci sono pochissime case in affitto e lo stock si è ridotto in pochi anni dal 35 al 19 per cento del patrimonio immobiliare totale. In Germania supera il 60 per cento. La politica è assente. Le risorse destinate al fondo di sostegno per i bisognosi si erano dimezzate durante il governo Berlusconi. Ora sono risalite, ma restano inferiori al livello del 2000, quando il problema non era così grave. Quel fondo, nel disegno iniziale, doveva servire a riequilibrare gli effetti negativi della liberalizzazione sulle fasce più deboli e indifese. In realtà la sua dimensione è ridicola rispetto al dramma che va in scena ogni giorno nelle grandi città. In periferia, l'affitto porta via metà del reddito di una famiglia benestante. Secondo lo studio di Confindustria ci vorrebbero più di 4 miliardi di euro solo per aiutare le famiglie sotto i 20 mila euro di reddito a trovare una casa.

Un ras per 50 senegalesi

Una delle ragioni del caro-affitti è rappresentata dagli studenti e dagli immigrati che drogano il mercato. Gli stranieri sono inquilini perfetti per i proprietari più avidi. Recentemente al Sicet (il sindacato inquilini della Cisl) di Milano si sono rivolte cinque famiglie che condividevano un appartamento di 100 metri quadri in zona Giambellino. Ovviamente il contratto era intestato a un solo nucleo. "Due famiglie vivevano in una stanza, altre due nell'altra insieme a una quinta famiglia che stava lì solo alcuni giorni a settimana. In totale quell'appartamento rendeva 2.150 euro", racconta Leo Spinelli del Sicet. A Roma ci sono interi palazzi fatiscenti affittati a gruppi omogenei di stranieri. Basta fare un giro al Pigneto, a pochi chilometri dalla stazione Termini, per scoprire un piccolo mondo in miniatura: in una palazzina di tre piani a via Campobasso vivono 50 senegalesi ammassati nelle condizioni scandalose denunciate da un'inchiesta della 'Repubblica'. A due isolati di distanza, in via Avellino ci sono gli eritrei, in via Fivizzano spunta un palazzo di peruviani, in via Montecuccoli ci sono i cinesi. In via Fortebraccio ci sono i somali. I senegalesi di via Campobasso sono 'ospiti' di un ras degli affitti: il commendator Graziano Cristello, un settantenne calabrese che già 15 anni fa era balzato agli onori delle cronache per le condizioni disumane nelle quali vivevano i suoi inquilini senegalesi di due palazzi su via Angelo Emo, all'Aurelio. L'affitto agli stranieri è un buon affare.

Una stanza per uno studente vale 500 euro, l'extracomunitario irregolare (che poi magari ci mette dentro altre quattro persone) arriva a pagare fino a 800. Nelle città universitarie più piccole, come Urbino, bastano 300 euro a stanza. A Bologna si torna ai canonici 500 euro. Ma ci sono grandi gestori di immobili, come l'avvocato Alessandro Gamberini o il geometra Elia Marzaduri, che affittano a studenti e stranieri una stanza a canone concordato per avere le agevolazioni fiscali. Sono stanze a buon mercato, non sempre spaziose. Per esempio, una famiglia etiope con una bambina vive in una tavernetta di Elia Marzaduri. Misura 15 metri quadrati, il bagno è in comune, il canone è basso: 158 euro più le spese (molto salate). Non ci si può neanche rivolgere a Radio Alice per raccontare la storia, perché ora anche i locali della storica emittente di via del Pratello sono stati affittati alle studentesse: 320 euro a letto.

La società congelata

Troppo spesso si guarda al caro-affitti solo come a un'emergenza per i poveri. In realtà si tratta di un freno alla ricchezza del Paese. L'Ocse, l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo europeo, sostiene che l'Italia si caratterizza per un grado bassissimo di mobilità all'interno del Paese. Nel 2003, solo lo 0,6 per cento degli italiani aveva cambiato regione di residenza nel corso dell'anno, rispetto al 2,1 della Francia e al 2,3 del Regno Unito. Negli Stati Uniti si arriva al 3 per cento. In un'economia flessibile la difficoltà di trovare una casa in affitto diventa un ostacolo insormontabile per la realizzazione delle persone.

L'istituto di ricerca Nomisma, su incarico dell'associazione industriale di Bologna, ha studiato il problema dell'attrazione della cosiddetta 'classe creativa'. Per Nomisma, "i giovani lavoratori italiani o stranieri, di alto livello di istruzione e profilo professionale a causa dell'elevata entità dei canoni di locazione di mercato e del contenuto reddito di ingresso nella prima occupazione in attività innovative e creative, potrebbero essere indotti a non accettare proposte di lavoro che implicano il loro trasferimento". Per attrarli, il comune di Bologna, secondo Nomisma, dovrebbe cedere terreni edificabili a un fondo, nel quale entrerebbe anche un finanziatore privato, per esempio una banca. Il privato, in cambio del terreno, si dovrebbe impegnare ad accettare un reddito basso nei primi 30 anni di vita del fondo. Gli appartamenti realizzati sarebbero infatti affittati a canoni molto bassi, ma solo ai giovani studenti e neolaureati. Finanza creativa per attrarre i creativi.

hanno collaborato: Michela Suglia e Laura Venuti

 

La cupola delle tangenti

di Marco Lillo e Peter Gomez

La mappa delle mazzette dell'uomo di Storace. Le regalie proseguite con Marrazzo. Ecco la grande spartizione nel governo della Regione Lazio

Non è cambiato nulla. Rubano come prima, anzi più di prima. Alcuni lo fanno col metodo classico della mazzetta: la busta, o meglio il pacchetto pieno di soldi consegnato ai politici in maniera nemmeno troppo furtiva, spesso negli ascensori del palazzo in vetrocemento di via Cristoforo Colombo a Roma che ospita gli uffici della Regione Lazio. Altri, invece, lo fanno quasi alla luce del sole in occasione dell'approvazione di ogni legge di bilancio, quando i consiglieri di maggioranza e opposizione si spartiscono circa 30 milioni di euro di finanziamenti gentilmente concessi a centinaia di organizzazioni, ufficialmente senza fini di lucro, segnalate dai singoli esponenti di partito.

Il risultato è che 15 anni dopo l'arresto a Milano di Mario Chiesa, nella Capitale tangentopoli continua. Con gli stessi vizi di sempre: accanto ai collettori di bustarelle che raccolgono fondi neri per i vertici delle formazioni politiche, c'è la solita pletora di portaborse, dirigenti e funzionari ladri tout-court che fanno la bella vita. Sopra ci sono infine i partiti (quasi tutti) che si dividono in allegria e a norma di legge fondi pubblici dei quali poi nessuno si prende la briga di verificare la reale destinazione. E questa volta non è un 'si dice'. A raccontarlo, ai pm romani Giancarlo Capaldo e Giovanni Bombardieri, sono due documenti scoperti dai carabinieri nel corso delle indagini sulle truffe di Lady Asl, l'imprenditrice che riusciva a far accreditare dalla Regione le proprie cliniche e i propri laboratori sanitari, versando tangenti a funzionari e politici. Un'inchiesta che ha già portato all'arresto di una mezza dozzina di dirigenti regionali, di un capo di gabinetto dell'ex governatore Francesco Storace e di un suo assessore, ma che ora minaccia di estendersi a tutti i lavori pubblici dell'era del centrodestra.

Operazione Torax Il primo documento è un file di un computer intitolato Torax ('torace' in spagnolo). A scriverlo, con l'intenzione di ricavarne una lettera da inviare a Storace, è stato l'ex assessore ai Trasporti Giulio Gargano, attualmente agli arresti domiciliari dopo aver patteggiato una pena a 4 anni e sei mesi per lo scandalo della sanità. Gargano lo ha preparato per difendersi dalle accuse di aver intascato denaro all'insaputa del partito, mosse contro di lui all'interno di Alleanza nazionale. Con precisione l'ex assessore fa allora il punto della situazione: elenca tutta una serie di appalti relativi alla costruzione di strade, ferrovie e acquisti di bus. Parla della privatizzazione dell'azienda per il trasporto su gomma. Cita quasi tutte le grandi opere del governo Storace più una serie di gare dell'Anas regionale, l'Astral e della società a capitale misto che deve costruire la bretella autostradale per Formia. Ricorda, infine, gli appalti per le pulizie, per le assicurazioni e per la vigilanza. Spesso accanto ai nomi delle aziende vincitrici (ci sono pure le cooperative rosse e alcune imprese considerate vicinissime ad An) indica il nome dei loro referenti politici e in un caso arriva a scrivere: "Tu dovresti ripartire la cifra fra te, Forza Italia e Udc". Poi fa riferimento quasi esplicito a delle somme di denaro mascherate da una serie di 'X'.

Assalto alla diligenza Il secondo documento è invece la lista delle associazioni e degli enti a cui vengono erogati fondi pubblici in occasione delle leggi di bilancio regionali (l'ultima risale al 2006). È un elenco lunghissimo che i carabinieri hanno per ora acquisito solo nella parte riguardante 46 diversi finanziamenti sponsorizzati dallo stesso Gargano e dall'attuale sottosegretario alla Difesa Marco Verzaschi (Udeur), sotto inchiesta per corruzione. Gli investigatori si sono resi conto che accanto al denaro stanziato per iniziative meritevoli, come l'assistenza agli anziani, la promozione di eventi culturali e sportivi, i finanziamenti alle parrocchie, compaiono soldi destinati anche a una serie di organizzazioni amministrate da parenti o collaboratori dei consiglieri regionali. Il sospetto è insomma che alla Pisana (il consiglio del Lazio) ci sia chi sostiene la propria attività politica utilizzando denaro dei contribuenti. Il tutto in maniera formalmente legale visto che quest'anno per ciascuno dei 70 consiglieri sono stati messi a disposizione 350 mila euro (100 mila cash per le associazioni, più 250 mila in conto capitale per i lavori pubblici); che erano 550 mila 12 mesi fa e addirittura circa 700 mila quando alla testa della Regione c'era ancora Storace. Ora i capigruppo dei partiti di centrosinistra, con una lettera al 'Corriere della Sera', si affannano ad assicurare che la prassi è perfettamente regolare, mentre la giunta Marrazzo spiega di aver tentato di ridurre il più possibile gli stanziamenti. Sull'intera materia è stata però aperta una seconda inchiesta, da parte del pm romano Giuseppe De Falco, e dai primi accertamenti è emerso, per esempio, il caso di un'associazione pro Amazzonia beneficiata con più di un milione di euro che, secondo le denunce dei Comunisti italiani, ha sede dove un consigliere ha il proprio gruppo politico 'rosso-verde': stesso indirizzo, stesso numero di telefono. È probabile che in questa indagine finiranno per confluire anche le dichiarazioni, ancora top secret, raccolte durante l'inchiesta su Lady Asl che spiegano le apparenti differenze di trattamento tra i vari consiglieri (più soldi gestiti da membri della minoranza rispetto a quelli della maggioranza) con la necessità di garantire agli sconfitti una sorta di risarcimento elettorale.

Piero MarrazzoPasqua di bustarelle Il clima che per anni si è respirato in Regione e il via vai di denaro (lecito o meno) che avveniva in quegli uffici lo raccontano, del resto, bene due testimoni. "Ho visto nascondere sacchetti neri, tipo immondizia, in un armadietto blindato. Chiaramente si trattava di versamenti per la campagna elettorale", ha detto Dario Pettinelli, esperto in comunicazioni e fino al 2005 membro dello staff di Storace. "Il venerdì santo del 2002 o del 2003, mentre stavo uscendo dal palazzo della Regione, un fattorino mi consegnò una colomba. Non ricordo chi fosse il mittente, ma il nome non mi diceva nulla. Aprii la scatola e scoprii che dentro c'erano 10 milioni di lire. Denunciai subito tutto ai carabinieri", ha aggiunto spaventato Tommaso Nardini, sino al 2002 segretario particolare dell'ex governatore, delineando i contorni di una situazione ormai fuori controllo.Talmente fuori controllo che l'assessore Gargano, ex fedelissimo di Storace, si trova a un certo punto costretto a difendersi dalle accuse di aver intascato mazzette all'insaputa del partito.

"Voci su Lotito (il presidente della Lazio Claudio Lotito, proprietario d'imprese di pulizie, vigilanza e costruzioni, ndr) e Ciarrapico (Giuseppe Ciarrapico, imprenditore ed editore romano ndr) da cui avrei avuto finanziamenti: né una lira dal primo né mai avuto contatti di alcun genere con l'altro", scrive sul suo computer il politico regionale in una lettera che vorrebbe inviare a Storace, ma che poi sostiene di non aver mai spedito. Quindi prosegue spiegando di quale materie si è occupato e di quali no. Gargano afferma, per esempio, di essere rimasto fuori dalla "gara per la vigilanza in regione". Dice che "né Lotito", il quale cura la security in via Colombo, "né Gravina (Domenico, titolare dell'Italpol, ndr) né Di Gangi (Pasquale, patron della Sipro, ndr) hanno corrisposto nulla al sottoscritto". E aggiunge, facendo forse riferimento all'ex assessore al Personale e attuale vicepresidente del consiglio Bruno Prestagiovanni (An): "Mi risulta però che sono stati chiamati da Prestagiovanni". Infine scrive: "Metro C gara da parte del Comune Roma".

La messa a posto A scorrere il documento Torax è facile andare con la mente ai pizzini con cui Bernardo Provenzano stabiliva la 'messa a posto' (il versamento del pizzo) delle varie imprese. Il boss usava un codice alfanumerico per nascondere l'identità dei suoi compari. Gargano, invece, esplicita i nomi dei presunti complici, ma è più riservato sulle cifre. Quando si tratta di quantificare le mazzette ricorre alle 'X'. Lo fa, per esempio, affrontando il capitolo relativo alla "privatizzazione" di parte del Cotral, l'azienda di trasporto regionale. "La Sita", si legge nel file, " ci ha fatto sapere che, se vincerà, è disposta a XXXXX, stessa cifra che aveva pattuito con Aracri (Francesco, assessore ai trasporti prima di Gargano, anche lui di An, ndr) però per il 49 per cento del pacchetto azionario, cifra che hanno comunicato anche a Tajani, Ciocchetti e che tu dovresti ripartire tanto a te, tanto Forza Italia, tanto Udc".

Ciocchetti è Luciano Ciocchetti, ex capogruppo Udc in regione, oggi deputato nazionale. Tajani è invece Antonio Tajani, all'epoca coordinatore laziale di Forza Italia e addirittura capogruppo degli azzurri all'europarlamento. Dovevano essere dunque loro i terminali delle presunte tangenti? Non è chiaro. Secondo indiscrezioni Gargano avrebbe già spiegato che in realtà a occuparsi della questione sarebbero stati alcuni personaggi del loro entourage. Pochi dubbi invece su che cosa sia la Sita, la Società italiana di trasporti automobilistici che fattura 230 milioni ospitando sui suoi pullman 10 milioni di passeggeri in tutta Italia. Sulla carta è una controllata dello Stato. In realtà si tratta di una creatura dell'imprenditore pugliese Luciano Vinella che ne detiene ancora il 45 per cento delle quote. Vinella, che vanta rapporti anche con i Ds, è un amico di famiglia di Gianfranco Fini: a Roma affitta un appartamento nel quartiere Trieste alla madre del leader di An e nel 2004, quando l'allora amministratore delegato delle Ferrovie, Giancarlo Cimoli, tentò di toglierlo dalla guida di Sita, ha visto venir giù dai banchi di An un diluvio di interrogazioni parlamentari. Seguite da lettere di fuoco scritte dal vice-ministro Mario Baldassarri. Il risultato? Cimoli fu spedito all'Alitalia e Vinella ricominciò a comandare in Sita. In ogni caso, per quanto riguarda la privatizzazione del Cotral, nel file Torax si legge: "La gara viene sospesa come da tua richiesta".

Le aziende amiche Accenni espliciti alle tangenti, in questo caso forse già versate, non mancano poi in altri brani del documento. Gargano scrive: "Ho fatto consegnare per te XXX euro dall'ingegnere Crivellone ad Abodi". Il riferimento è tutto per il business delle strade. Andrea Abodi è infatti il presidente dell'Astral, l'azienda pubblica delle strade regionali, e dell'Arcea, una società mista che dovrebbe realizzare due autostrade: la Roma-Formia e la Cisterna-Valmontone. Proprio per questo ad Abodi, stando all'appunto, sarebbero stati "delegati i rapporti aziendali" con le società che lavorano per l'Astral e l'Arcea. Umberto Crivellone, l'ingegnere che gli avrebbe consegnato il denaro, presiede invece il consorzio d'imprese che si è aggiudicato la costruzione della tangenziale dei Castelli, quella che dovrebbe decongestionare dal traffico la via Appia. Crivellone e Gargano sono molto amici: l'appartamento dove ha sede l'ufficio politico dell'ex assessore ai Trasporti è di proprietà dell'imprenditore, il quale è anche al vertice del Centro di studi sociali, una delle tante associazioni finanziate dalla Regione. L'amicizia è però una cosa. Il business e la politica sono un'altra. Gargano nella sua lettera, quindi annota: "Tangenziale Castelli perizia variante approvata XX,00 x X=XX,000 (2004)". L'affare ha comunque un secondo risvolto interessante: del consorzio impegnato nella costruzione della tangenziale fa parte la So.Co.Stra.Mo di Erasmo Cinque, membro delle segreteria nazionale di An ed ex presidente dell'associazione costruttori edili di Roma e provincia (Acer).

Lotto continuo L'abitudine di avere un occhio di riguardo nei confronti delle aziende amiche sembra confermata da altri brani del documento. Per la "vecchia gara sulla cartografia", scrive Gargano, "doveva corrispondere Galeazzi perché la ditta era sua. Mi ha assicurato che veniva direttamente da te". L'appalto (3,5 milioni di euro) risulta vinto da un'impresa di Latina, di proprietà di Pasquale Marrone, un imprenditore amico dell'ex deputato di An, Alessandro Galeazzi. Ma Marrone a 'L'espresso' dice: "La gara è stata regolare. Conosco bene Galeazzi, chi però si azzarda a dire che è mio socio o che ho versato un solo euro verrà querelato, perché è falso". Nel suo file l'ex assessore ai Trasporti non delinea comunque un sistema basato esclusivamente sulle mazzette. Spesso fa riferimento solo a una ben poco liberista vicinanza politica: la gara per la sicurezza stradale sarebbe così stata assegnata ad "amici di De Lillo (Stefano, consigliere di Forza Italia)"; quella per un'altra importante via di comunicazione a degli amici dell'ex assessore Francesco Aracri e di un potente dirigente regionale, mentre le imprese che si sono aggiudicate il secondo lotto della strada statale dei Monti Lepini sarebbero state "mandate da Carnevale", verosimilmente il segretario amministrativo della Lista Storace. Tra esse compare pure il Consorzio cooperative costruzioni di Bologna (Ccc), la più grande coop rossa d'Italia. Non deve stupire. Intercettando i telefoni degli indagati i carabinieri hanno capito che quando si parla di affari il clima è assolutamente bipartisan. Un esempio? Nel maggio del 2006 Gargano, ormai semplice consigliere, chiama il capo della segreteria dell'assessore alla Sanità Augusto Battaglia (Ds) per sollecitare dei pagamenti in favore di un laboratorio di analisi cliniche a lui legato.

Parenti e amici Intercettazione dopo intercettazione si scopre però dell'altro. L'ex assessore sollecita pure "i contributi previsti nell'ambito della legge regionale che riguarda il bilancio". Saltano fuori così una serie di associazioni, come la Polis, la Idee per la vita, la Pensiero e lavoro, la Nuova orizzonti e Il centro studi sociali, amministrate da suoi parenti, amici o collaboratori, alle quali nel corso degli anni sono arrivati due milioni e 200 mila euro, in parte versati all'epoca del centrosinistra. È insomma facile immaginare la sorpresa degli investigatori quando si rendono conto che in Regione esiste un elenco dei beneficiati dei finanziamenti accanto al quale compare il nome del consigliere sponsor. Dalle carte che 'L'espresso' ha potuto consultare emerge, per esempio, che Verzaschi (Udeur) ha ottenuto 270 mila euro in favore degli enti da lui segnalati: 60 mila sono finiti alla fondazione Nova Civitas, i cui uffici sono stati usati da Verzaschi (ora sottosegretario) per la sua campagna elettorale; altri 10 mila all'associazione Bacus, di Sara Ugolini, candidata alle comunali per una lista di Verzaschi pro-Veltroni. È chiaro che una parte dei contributi rappresentano ormai qualcosa di molto simile a un finanziamento pubblico mascherato ai partiti. Per questo suscita interrogativi il milione di euro andato agli istituti Iswel e Irem specializzati in corsi d'informatica. Entrambi gli enti hanno lo stesso indirizzo e numero di telefono di un'associazione politica, il Centro democratico, presieduta dall'ex dc Giampiero Oddi, il patron dei due istituti che fino a qualche mese fa si vantava di rappresentare i 10 per cento degli iscritti romani della Margherita.

"Sono emerse situazioni 'incresciose' come quella della Fondazione Italia-Amazzonia, un milione e 205mila euro, destinati a progetti non meglio precisati o molto di carattere locale", denuncia Maria Antonietta Grosso (PdCi), l'unico consigliere che ha rifiutato di partecipare alla grande abbuffata. La Grosso punta l'indice contro il suo ex collega di partito Alessio D'Amato, che oggi ha creato il suo gruppo rosso-verde. D'Amato smentisce e querela. Comunque siano andate le cose resta il dato politico: se i consiglieri del Lazio vogliono continuare a distribuire finanziamenti a pioggia dovrebbero rendere pubbliche non solo la lista dei beneficiati, ma anche quella dei loro sponsor politici. Solo così sarà possibile rendersi conto a chi hanno regalato i soldi dei cittadini.

 

2 marzo

 

100 mila no a «Bliar»

Londra No war in piazza contro il premier «bugiardo» sull'Iraq

Paolo Gerbaudo

Londra

«What do we want? World peace! When do we want it? Now!». La manifestazione si scalda mano a mano che la gente comincia a convergere verso lo Speaker's Corner in una Hyde Park bagnata da sprazzi di pioggia. La gente è accalcata e la divisione in diversi spezzoni del corteo salta sin dall'inizio per l'affollarsi dei manifestanti sul fango dei viali del parco. Decine e decine di bus hanno portato attivisti da Manchester, Leeds, Liverpool, Brighton, Oxford, Cambridge, Porstmouth, Bristol, Birmigham e molte altre città di tutta l'Inghilterra. E' una delle manifestazioni più grandi dalla «big one», quella del 15 febbraio 2003. Quando finalmente la testa del corteo arriva a Trafalgar Square, la coda sta appena uscendo da Hyde Park. I partecipanti sono 100.000 per gli organizzatori, 20.000 per la polizia. Due le richieste: via subito le truppe dall'Iraq e no al rinnovo del sistema missilistico nucleare Trident.
Le migliaia di cartelli prestampati che si alzano come una foresta sopra le teste dei manifestanti ripetono gli slogan che hanno caratterizzato sin dall'inizio la campagna contro la guerra. La testa di Bush si staglia malefica sotto la scritta «terrorista mondiale numero 1». Poco distante il corpo di Blair viene risucchiato dallo sciacquone con la didascalia «Blair must go». Enormi bandiere palestinesi e libanesi si allungano tra la gente mentre un finto missile Trident scorre tra il corteo che urla all'unisono «Troops out now!».
Un gruppo di sambisti balla una danza macabra: ragazze-scheletro, coperte di lunghi aculei «verde radioattivo», incedono lente dietro alle maschere di George Bush e Tony Blair che si scambiano baci, abbracci e arti mutilati. Un gruppo di pacifiste sessantenni canta a cappella «we shall overcome», mentre il piccolo spezzone degli autonomi avanza con i volti coperti, seguito attentamente da una pattuglia della polizia.
L'alto numero di partecipanti testimonia che il popolo pacifista inglese non si è fatto ammaliare dalla promessa di Blair di ritirare 1.200 militari dall'Iraq entro l'estate. Come spiega Lindsey German, coordinatrice di Stop the War, «non è abbastanza e non cambia niente. Nei prossimi mesi Blair invierà 1500 soldati in Afghanistan. E' semplicemente spostare le truppe da una parte all'altra. Ed è importante che continuiamo a manifestare perché, come si è visto in Italia, una manifestazione può far cadere un governo».
Se in Inghilterra una crisi di governo appare molto più improbabile che in Italia, c'è la convinzione che l'anticipo nell'avvicendamento tra Tony Blair e il suo cancelliere Gordon Brown sia in buona parte dovuto al disastro iracheno e alla pressione esercitata dalla campagna contro la guerra. Ciononostante c'è poca speranza che la politica estera muti radicalmente con il nuovo primo ministro. «Penso che Gordon Brown continuerà a fare le stesse cose che ha fatto Blair - afferma George, un attivista londinese - Abbiamo bisogno di un cambiamento profondo».
Tra i manifestanti oltre ai sindacati, agli studenti, ai gruppi pacifisti e alle organizzazioni cristiane, spiccano diversi partecipanti e organizzazioni musulmane. «Vedere persone bianche inglesi che dimostrano contro la guerra e in solidarietà con le comunità islamiche mi dà grande speranza - racconta Zehra, una ragazza britannica di origine irachena - però i musulmani in Inghilterra dovrebbero essere molto più attivi».
La maggioranza dei partecipanti continua a essere convinta che dimostrare sia importante quanto meno per scardinare il silenzio che avvolge la società inglese. «Dobbiamo smuovere l'apatia della maggioranza della gente - dice Francis - Dopo le mancate risposte del governo molti sono convinti che dimostrare non serva a niente».
Ma di fronte alla sordità dell'esecutivo c'è chi sostiene che in ogni caso questo movimento abbia lasciato una traccia indelebile che la politica istituzionale non potrà ignorare. «Sicuramente il movimento ha avuto dei risultati - afferma Keith, militante del Socialist workers party - Adesso sarà molto difficile per Blair o per ogni futuro primo ministro attaccare l'Iran o buttarsi in un'altra guerra come questa».

 

Solo la metà trova impiego a un anno dalla laurea. E' il peggior risultato dal 1999 a oggi

Nel 2006 hanno guadagnato, in termini reali, meno di 5 anni fa. L'indagine di AlmaLaurea

Laureati, colti e disperati, è l'esercito dei senza lavoro

di FEDERICO PACE

Iperqualificati, con qualche sogno in testa e sempre meno pagati. Destinati a emigrare, pur di evitare la disfatta. I laureati mostrano sul loro volto i segni delle sempre più acute contraddizioni di un intero paese dove il merito e le qualifiche non vanno quasi mai di pari passo con le opportunità e i compensi. Sul loro volto sono sempre più evidenti i segni del disagio provato di fronte a quella porta, quasi sempre socchiusa, che dovrebbe portarli al lavoro e alla maturità.

Quando una ragazza o un ragazzo con in tasca la laurea cerca un posto, pare di vedere un gigante che prova ad entrare attraverso la piccola porticina di una minuscola casa di lillipuziani. Loro sono tanti mentre sembrano sempre più inadeguati i posti di lavoro che il sistema economico e il mondo delle aziende italiane mette a disposizione. Addetti per i call center o cassieri di negozio che siano. Con il paradosso, che a questo punto pare quasi logico, che sono proprio i più preparati, quelli che prendono i voti più alti di tutti a ritrovarsi con il più basso tasso di occupazione. Tanto che a un anno dalla laurea, trovano lavoro solo quattro su dieci di quelli che hanno preso 110 e lode. Con la triste constatazione che nel 2006 un laureato guadagna al mese, in termini reali, meno di quanto percepiva cinque anni fa il fratello maggiore.

Fenomeni conosciuti si dirà, ma il fatto è che quest'anno le cose sono andate ancora peggio. Tanto che per trovare un impiego non è neppure sufficiente aspettare un anno. I dati del triste record dicono che dopo la fatidica laurea, a un anno dal giorno della discussione della tesi, dai festeggiamenti e dai sorrisi e dalle congratulazioni, trova lavoro solo il 45 per cento dei laureati "triennali" (erano il 52 per cento l'anno scorso) e il 52,4 per cento dei laureati pre-riforma, ovvero il dato più basso dal 1999 (vedi tabella). I dati sono quelli della nona indagine sulla "Condizione Occupazionale dei laureati italiani" presentata (vedi la diretta) a Bologna da AlmaLaurea, il consorzio interuniversitario a cui aderiscono 49 università italiane. Ed è forse utile sapere che il convegno prevede per la mattina di sabato (3 marzo) anche una tavola rotonda (la presentazione e la tavola rotonda possono essere seguite in diretta sul sito di Almalaurea) che dibatterà su questi temi e a cui parteciperanno anche Fabio Mussi, il ministro dell'Università, e Cesare Damiano, il ministro del Lavoro, insieme ad Andrea Cammelli, il direttore di Almalaurea, e il presidente Crui Guido Trombetti.

Secondo l'indagine, l'instabilità che caratterizzava già molti degli impieghi degli anni scorsi si è fatta ancora più acuta. Sia per i laureati "triennali" che per quegli ultimi che stanno uscendo dal percorso previsto dal vecchio ordinamento. Solo un giovane su tre che ha conseguito una laurea breve - e ha trovato un impiego - è riuscito a siglare un contratto a tempo indeterminato. L'anno scorso l'impresa era riuscita al 40 per cento di loro. Stessa storia per i giovani che hanno ultimato il percorso di laurea del "vecchio ordinamento", la quota di chi è riuscito ad avere un contratto stabile è scesa al 38,4 per cento. Il lavoro atipico dal 2001 a oggi è cresciuto di ben dieci punti percentuali.

C'è poi lo stipendio. Quel sostegno che dovrebbe permettere alle nuove generazioni di prendere iniziative e decisioni, di mettere su famiglia, di provare a superare la sindrome di Peter Pan. Quel sostegno, è sempre più esile. I giovani laureati del post-riforma si ritrovano in tasca a fine mese solo 969 euro. Meno di quanto non fosse l'anno scorso (vedi tabella). Prendono qualcosa in più i laureati pre-riforma che a fine mese arrivano fino a 1.042 euro. Poco più dell'anno scorso ma, al netto del costo della vita, ancora meno di quanto un neolaureato guadagnava cinque anni fa.

Senza dire che l'Italia vanta il minor numero di laureati che lavora a cinque anni dalla laurea (l'86,4 per cento contro una media europea pari all'89 per cento). Scorrendo i dati dell'indagine di AlmaLaurea si ricava la triste conferma che nel cuore delle nuove generazioni, anche lì dove è opportuno che l'Italia sia più moderna e vicina all'Europa, covano e crescono le stesse antiche contraddizioni e disparità che gravano da tempo infinito sul corpo del malato Italia.

Le donne sono meno favorite rispetto agli uomini, hanno un tasso di occupazione più basso, sono più precarie e guadagnano meno dei loro colleghi uomini (vedi tabella). A un anno dalla laurea lavora il 49,2 per cento delle laureate pre-riforma contro il 57,1 per cento degli uomini. E il gap salariale nel tempo non fa che crescere, tanto che a cinque anni dalla laurea le donne guadagnano un terzo meno di quanto non prendono gli uomini. Quanto alla precarietà a un anno dalla laurea il 52 per cento delle donne ha un contratto atipico contro il 41,5 per cento degli uomini. E la disparità è ancora più acuta per le laureate "triennali", visto che solo il 34 per cento delle donne ha un impiego stabile contro il 48 per cento dei loro colleghi uomini.

Stesso discorso per le disparità territoriali. Nel 2006 sei laureati del Nord su dieci trova lavoro dopo un anno mentre per le regioni del Sud le cifre si fermano al 40 per cento. Ovvero le stesse quote nel lontano 1999. Senza dire che a cinque anni dalla laurea, i giovani del Mezzogiorno prendono 1.167 euro al mese mentre i ragazzi del Nord arrivano a 1.355 euro al mese.

Non c'è da stupirsi se allora molti di loro non si sentono valorizzati per quello che valgono e, seppure a malincuore, decidono di muoversi oltre confine per trovare migliori occasioni. All'estero, lì dove sembrano trovare rifugio e compenso. I laureati italiani che lavorano fuori dai confini nazionali, a cinque anni dalla laurea, arrivano a guadagnare quasi 2 mila euro, ovvero il 50 per cento in più di quanto non accada alla media complessiva dei laureati. Se non si mette mano a questo problema, se non si trova un articolato piano per valorizzare i talenti che escono dalle nostre facoltà, poco si potrà fare per dare slancio al nostro paese.

TORNA ALLA PAGINA INIZIALE