Telecom, l'ultimo squillo
Archivio marzo 2007
30 marzo
LAVORO: EURISPES, ITALIA MAGLIA NERA DEI
SALARI IN EUROPA
Italiani lavoratori 'poveri' d'Europa e nelle ultime fila sia per il peso delle buste paga che per la rivalutazione dei propri salari nel tempo. E' quanto emerge da un rapporto Eurispes pubblicato oggi secondo cui l'Italia e' al quart'ultimo posto in Europa per salari lordi medi pari a 22.053 euro l'anno contro i 42.484 euro della Danimarca, il paese che vanta i salari piu' ricchi in una classifica che vede ai primi posti anche Svezia, Belgio e Francia e agli ultimi Portogallo e Grecia . Fanalino di coda il Paese e' anche per retribuzione oraria media, pari a 21,3 euro contro i 30,7 della Danimarca, e, soprattutto per la crescita dei salari che, dal 2000 al 2005 si sono rivalutati solo del 13,7%, facendole scontare un terz'ultimo posto, contro il primato del 27,8% della Gran Bretagna. L'Italia, in fatto di salari, si colloca ai primi posti, al quarto esattamente, per ampiezza del cuneo fiscale pari, per un lavoratore senza famiglia a carico, del 45,85% e al 36,6% per un lavoratore con moglie e due figli a carico. 29 marzo Telecom, l'ultimo squillo
di Vittorio Malagutti
Il profondo rosso. La tela tessuta da Guido Rossi. Le banche. Le
avances straniere. E Tronchetti costretto nell'angolo. Protagonisti e
retroscena della nuova battaglia sulle telecomunicazioni Sono passati sei mesi e siamo daccapo. L'avvocato Guido Rossi, fustigatore dei conflitti d'interessi e teorico della public company, sta interpretando in modo originale il ruolo di numero uno del colosso delle telecomunicazioni. Non è un semplice traghettatore, un professionista di grido chiamato a reggere il timone in nome e per conto dell'azionista di riferimento. In questi mesi Rossi ha tessuto una tela tutta sua. E Tronchetti, temendo di restare imbrigliato, si è infine deciso a fare uno scatto. Ad alzare la voce, un'altra volta dopo il ribaltone di settembre. Sono bastate due righe nel comunicato stampa diffuso da Pirelli lunedì 12 marzo, al termine del consiglio di amministrazione chiamato a esaminare i conti 2006 in profondo rosso (1.048 milioni di perdite). La partecipazione in Telecom è in vendita. Si valutano offerte per quel 18 per cento custodito nella holding Olimpia. Questo, in sostanza, il messaggio recapitato ai mercati dall'ex presidente. Niente che il pubblico di analisti e investitori non sapesse o immaginasse già da tempo. Ma l'effetto annuncio, e la definitiva conferma, per la prima volta messa nero su bianco, che l'avventura di Pirelli nelle telecomunicazioni è giunta ormai al capolinea, hanno innescato una reazione a catena. Le Borse, com'era prevedibile, hanno risposto a suon di rialzi. La sola ipotetica possibilità che il gruppo milanese possa metter fine al salasso telefonico, costato lacrime, sangue e 3 miliardi di perdite ai suoi azionisti, basta e avanza per spiegare l'ondata di acquisti che ha travolto il titolo del gruppo milanese. Ma la partita decisiva si sta svolgendo dietro le quinte. Ed è in questa direzione che punta dritto il siluro lanciato da Tronchetti con l'annuncio di lunedì scorso. Se davvero Rossi sta giocando una partita in proprio, nel tentativo di organizzare una cordata di istituzioni finanziarie (banche e fondazioni) come nuovi soci di riferimento del gruppo telefonico, allora questi presunti cavalieri bianchi adesso non potranno fare a meno di bussare alla Pirelli. Se non altro per scoprire l'eventuale bluff di un'offerta alternativa proveniente da oltre frontiera. Per realizzare i propri obiettivi di business Telecom avrebbe bisogno di nuovi mezzi. Ma i debiti sono già al livello di guardia e l'azionista di controllo non è in grado di finanziare un aumento di capitale. Tronchetti, che comanda dall'alto di una lunga piramide societaria, non può permettersi l'investimento. E gli altri soci di Pirelli, grandi e piccoli, non vogliono saperne di sborsare altro denaro dopo le gravi perdite già subite a causa della scommessa di sei anni fa sulle telecomunicazioni. Ecco perché, spiegato con la logica stringente dei numeri, Tronchetti sembra ormai costretto ad alzare bandiera bianca. Questo non vuol dire che passerà la mano senza combattere, per orgoglio e per evitare un nuovo salasso finanziario. Anche dopo la maxi svalutazione varata in autunno, la partecipazione indiretta (via Olimpia) in Telecom è in carico nel bilancio di Pirelli a un valore molto distante dal la quotazione corrente in Borsa: 3 euro contro 2,2 euro circa. Non è da escludere che un eventuale compratore straniero, russi o indiani che siano, sia disposto a pagare un prezzo, 3 euro o più, tanto superiore a quello di mercato. Sarebbe una sorta di ticket di ingresso in Occidente. Difficile che possano fare lo stesso le banche e le fondazioni che in questi giorni stanno esaminando il dossier. La base di partenza per il negoziato sarebbe in realtà su una quota intermedia, tra 2,6 e 2,8 euro. E qui le posizioni del ceto bancario appaiono quanto mai divaricate tra loro. Se da una parte la Capitalia del presidente Cesare Geronzi sembra la più disponibile a farsi carico del problema, all'estremo opposto si colloca il leader di Unicredito Alessandro Profumo che, secondo indiscrezioni avrebbe già fatto sapere ai suoi interlocutori che non intende prendere in considerazione un prezzo diverso da quello di mercato. Molto più possibilista appare invece Giovanni Bazoli, presidente di Intesa Sanpaolo, così come Generali e Mediobanca. L'ingegneria finanziaria, per esempio un prestito obbligazionario, potrebbe agevolare l'intervento creando una sorta di paracadute per le banche. Alcuni analisti non escludono neppure uno scenario più cruento. Con Tronchetti indisponibile a trattare sul prezzo e le istituzioni finanziarie che aggirano l'ostacolo rastrellando in Borsa fino a raggiungere almeno il 20 per cento del capitale. C'è anche chi avanza l'ipotesi di un'assemblea straordinaria per trasformare le azioni di risparmio in ordinarie in modo da diluire la quota di Olimpia-Pirelli. Queste illazioni si scontrano con un'altra considerazione: Capitalia e Intesa San Paolo, oltre che finanziatori sono anche già soci di rilievo di Pirelli e della controllante Camfin. Proprio per valorizzare il loro investimento, queste istituzioni hanno quindi interesse a evitare ulteriori traumi. Su tutto, comunque, incombe una scadenza. Entro il 4 aprile, con dieci giorni di anticipo sulla data di convocazione dell'assemblea Telecom, vanno presentate le liste di consiglieri per il nuovo board del gruppo, che va rinnovato per intero. E senza un accordo si arriverebbe allo scontro frontale. I candidati di Tronchetti contro quelli delle banche. Una soluzione estrema in cui tutti, però, avrebbero più da perdere che da guadagnare.
Provincia a mano armata
di Fabrizio Gatti
Sempre più rapine, sempre più violente. Contro banche, negozi o
singole persone. Perché è l'unico modo di trovare contanti. Ma il boom è
lontano dalle metropoli
Ritorna il tormentone sulla sicurezza. Milano protesta. Ma se altri
sindaci volessero seguire l'appello della collega Letizia Moratti, i
loro concittadini dovrebbero scendere in piazza proprio contro
Milano. Perché a forza di concentrare poliziotti, carabinieri e
sforzi nelle grandi città, la criminalità sta conquistando la
provincia. Soprattutto quella provincia italiana che un tempo era
simbolo del quieto vivere. Un sintomo significativo sono le rapine
in banca. Con aumenti record in settembre e ottobre, poche settimane
dopo l'entrata in vigore dell'indulto proposto dal governo e
approvato dal Parlamento. Lo confermano i dati del 2006 appena
raccolti dall'Abi, l'Associazione bancaria italiana. Rispetto al
2005, a Modena l'aumento degli assalti ha raggiunto il 65,7 per
cento. A Parma il 70. Udine: 58,3. Frosinone: 280. La Spezia: 60.
Savona: 107. Pavia: 140. Cremona: 21. Asti: 18,2. Cuneo: 125.
Vercelli: 33,3. Foggia: 157. Cagliari: 137,5. Nuoro: 37,5. Sassari:
20. Siracusa 127,3. Pisa: 300. Siena: 200. Pistoia: 116. E, in cima
ai record, il Trentino Alto Adige passato da tre a 15 rapine con un
aumento, forse non del tutto occasionale, del 400 per cento. A
Milano invece va molto meglio: solo un più 2,8 per cento di rapine
in banca. A Torino i colpi sono addirittura in calo: meno 12,2 per
cento. E così in tutto il Veneto, la regione leader nelle
manifestazioni e nelle ronde anticrimine: meno 23 per cento.
L'Italia a mano armata, insomma, rende ancora. Tantissimo.
Soprattutto nei piccoli centri.
Bottino medio Dalla parte dei banditi anche il 2006 è stato un affare. L'ammontare medio del bottino in banca vale 20 mila euro. E per le rapine in genere, 500 euro a colpo: dalla farmacia al passante, dal pensionato aggredito per strada agli assalti in villa. È la conferma di una crescita costante. La novità è che la malavita oggi copia l'industria: delocalizza. Lo racconta Marco, 32 anni, milanese, una gioventù passata dentro e fuori del carcere e adesso chissà: "Abbiamo imparato dai napoletani. A Napoli si facevano troppa concorrenza. Così qualcuno ha pensato di prendere il treno e di venire al Nord a rapinare orologi Rolex. Allora mi son detto: perché rimanere a Milano dove poi è difficile scappare nel traffico? Devi muoverti in treno, chi ti insegue sul treno? Non ti prendono mica il numero di targa". E come sceglieva gli obiettivi? "Certo che non andavo a fare i lavori in un quartiere di poveracci. Andavo a Pavia, a Monza, a Parma. Giravo. Un giorno facevo due o tre negozi di abbigliamento. Un altro un tabaccaio. Altre volte mi dedicavo alle farmacie. Ci si specializza. E se proprio la giornata ti è andata male, le prostitute sono sempre un obiettivo facile: le straniere non fanno nemmeno denuncia". La rapina è il reato comune più pericoloso per le vittime. Perché, a differenza del furto o della truffa, c'è un contatto diretto tra rapinatore e rapinato. E perché spesso, alla minaccia, si aggiunge l'aggressione. Non occorre essere impiegato di banca, portavalori, gioielliere. Può capitare a tutti di trovarsi davanti la canna di una pistola o la lama di un taglierino o addirittura prendersi direttamente una bastonata. È anche la conseguenza di una scelta sempre più diffusa: i banditi preferiscono agire soli o al massimo in coppia. Nel 1990 questo tipo di rapine riguardava il 44 per cento del totale. Il 66 per cento degli assalti era invece messo a segno da gruppi organizzati con tre o più componenti: numero che richiede una divisione dei compiti e quindi una maggiore specializzazione. Ma dal 2003, secondo dati raccolti da Marzio Barbagli, docente all'Università di Bologna e tra i massimi studiosi di criminalità in Italia, le rapine commesse da rapinatori solitari o in coppia sono salite all'80 per cento del totale. Otto assalti su dieci, cioè, sono messi a segno da banditi 'opportunisti o dilettanti', come li chiamano i ricercatori di scienze sociali. Significa che quasi tutte le rapine ormai sono organizzate in poche ore, o in pochi minuti se non addirittura improvvisate. Con tutte le conseguenze e gli imprevisti che questo comporta. Marco, il rapinatore milanese, si preparava così: "La rapina a un passante non la pianifichi. Una sera ho visto un tale prelevare al bancomat. Era vestito bene, mi sembrava uno buono. Ma con me non avevo nemmeno un coltello. Ho messo due dita nella tasca del giubbotto e gliele ho puntate al fianco. Capito? Con due dita mi sono fatto 250 euro, più la sua carta di credito, la tessera bancomat e i documenti che nel giro dei ricettatori mi hanno pagato altri 30 euro. Fai tre lavori del genere e sei a posto tutta la settimana". La banca resta l'obiettivo più complicato: "È solo una questione di specializzazione", sostiene però Marco, "io ne ho fatte poche di banche perché quell'ambiente mi mette la claustrofobia. Serve un po' più di studio, è vero. Ma ogni istituto ha le sue difese e i suoi buchi moltiplicati in tutte le filiali. Basta studiarne una e le conosci tutte". Cosa spinge a fare rapine? "Il fatto che i furti richiedono abilità. Un borseggiatore deve essere delicato. Un topo d'appartamento deve sapere come aprire le porte, disattivare gli allarmi. E poi nelle ville rischi che ti sparano. Fare il rapinatore è più facile". Escalation Le rapine in banca sono in aumento già da sei anni. Dalle 2.464 del 2000 alle 2.774 dello scorso anno (più 1,4 per cento rispetto al 2005). Ma sono diminuite rispetto al 1998, quando nelle banche italiane l'articolo 628 del codice penale era stato violato 2.958 volte. Anche il bottino complessivo dal 1998 si è ridotto: dall'equivalente in lire di 72 milioni 638 euro a 55 milioni 987 mila euro. Una riduzione dovuta alle nuove misure di sicurezza, come le casseforti a tempo, e alla scelta degli istituti di tenere a disposizione meno denaro contante. Proprio il minor guadagno sarebbe una delle condizioni che ha scoraggiato le bande organizzate. Se confrontato con il resto dell'Unione europea, però, il numero di rapine nelle banche italiane resta spaventoso. Sempre secondo cifre dell'Abi, gli assalti in tutta Europa sono 6 mila: di cui quasi 3 mila in Italia. Mancano invece i dati complessivi del 2006 per tutte le rapine. Interpellato da 'L'espresso', il ministero dell'Interno fa sapere che non sono pronti. Le tabelle si fermano al primo semestre dello scorso anno: 22 mila 91 rapine in Italia (22.180 nel 2005). Confermando così la media degli ultimi tempi di circa 50 mila assalti denunciati ogni anno. Quelli effettivamente messi a segno sarebbero 100 mila, secondo i numeri presi in esame dai ricercatori universitari: ma l'altra metà non viene nemmeno segnalata, perché il bottino è considerato irrilevante o perché i rapinati sono stranieri senza documenti. Indulto In settembre e ottobre, sempre secondo i dati dell'Abi sul 2006, si registra un improvviso risveglio dei banditi. Con aumenti record delle rapine in banca del 27,9 per cento e del 55,8 per cento rispetto agli stessi mesi del 2005. Fino ad agosto 2006 gli assalti erano addirittura in calo: con riduzioni mensili comprese tra l'8,6 e il 28,3 per cento. Secondo gli studiosi del settore è ancora presto per avere prove. Sotto osservazione sono già finite le migliaia di scarcerazioni contemporanee tra agosto e settembre dovute all'indulto. Ma fino a quando il ministero dell'Interno non rivelerà i numeri delle rapine complessive del 2006, sarà impossibile trarre conclusioni. L'Italia a mano armata non è solo una questione di punti percentuali. Rispetto agli anni Settanta è quasi un fenomeno di massa. In caduta i furti d'auto. Scomparsi i furti di autoradio. Le rapine sono esplose. In tutta Italia nel 1973 ne erano state denunciate 3.781. Nel 1980: 9.408. Nel 1990: 36.830. Nel 2000: 37.726. Oltre 40 mila nel 2002. Una serie storica in crescita continua, interrotta solo da rare parentesi come spiega il 'Rapporto sulla criminalità in Italia' (il Mulino) curato da Marzio Barbagli. "A differenza degli altri reati contro il patrimonio", spiega a 'L'espresso' il professor Barbagli, "il numero di rapine è continuato ad aumentare negli ultimi trentacinque anni. Mentre in altri Paesi, come gli Stati Uniti, è diminuito. Uno dei motivi è che da noi c'è un uso del contante molto maggiore: le rapine rendono ancora in media 500 euro a colpo. E contrariamente ai ragionamenti legati a una cultura socialista ottocentesca che vede gli autori di reati come poveri diavoli, in realtà gli autori di reati sono persone che hanno una loro razionalità. In Italia non c'è mai stata la consapevolezza che l'uso del cosiddetto plastic money, come le carte di credito, sia una forma di prevenzione della criminalità: se uno non trova più soldi nella borsa, non rischia nemmeno di rubare il portafoglio. Da noi invece il plastic money più diffuso è la tessera bancomat. E di nuovo il bancomat fornisce denaro cash". Autoradio La misura più efficace contro la criminalità, secondo gli studi, è la prevenzione situazionale: cioè adottare tutto ciò che rende la rapina (e anche il furto) poco interessante. E nessuna prevenzione situazionale passa attraverso un aumento di polizia e carabinieri sul territorio. L'eliminazione dei furti di autoradio ne è un esempio. Ogni ladro arrestato veniva sostituito da altri colleghi nuovi o scarcerati: perché l'autoradio rimaneva un bottino appetibile. Quando le case automobilistiche hanno cominciato a produrre macchine con la radio incorporata, il reato è scomparso. Eppure negli anni scorsi per le autoradio sono state danneggiate carrozzerie, rotti migliaia di finestrini, qualche automobilista è stato ferito o addirittura ucciso e gli italiani hanno speso milioni di euro in assicurazioni e riparazioni. Lo stesso sta accadendo con i telefoni cellulari: "Nella seconda metà degli anni '90 c'è stato un aumento delle rapine perché era nato un nuovo oggetto del desiderio, che era il cellulare", spiega Marzio Barbagli: "Un anno e mezzo fa le varie ditte produttrici hanno introdotto dei codici per cui se il telefono viene preso, può essere bloccato. Questa è una misura molto semplice. E in Gran Bretagna c'è già stata una diminuzione dei borseggi e delle rapine di telefonini". Percezione della paura Il Comune di Milano intanto chiede più agenti e carabinieri in strada. È successo più volte dal 1999. Ma le statistiche dimostrano che è servito a poco. Dal punto di vista dei ricercatori il perché è chiaro: "Perché queste sono misure calde che colpiscono la gente", sostiene Barbagli, "che suscitano passione, ma che non hanno effetto. Come invece avrebbe un'efficace prevenzione situazionale. Altra cosa è la paura, il timore di essere aggrediti. Questo indicatore è aumentato e diminuisce solo se ci sono fortissime riduzioni di criminalità. C'è una forte relazione tra rischio criminalità e percezione dei cittadini. E a questo costribuiscono il degrado dell'ambiente, i reati più frequenti e più visibili come i furti in appartamento e gli atti vandalici". Contromisure in banca Secondo una ricerca della Cisl, il 70 per cento dei bancari vive nell'ansia di subire violenze e il 62 non ritiene sicuro il proprio sportello. Eppure molte banche, per rinnovare l'immagine, si stanno adeguando controcorrente. Tolgono metal detector e guardie giurate. E a volte puntano sulla tecnologia più sofisticata, come i rilevatori di impronte digitali all'ingresso. Nessun rapinatore lascerebbe volentieri le sue impronte sul luogo del delitto. Ragionamento perfetto, ma solo per chi non ha mai fatto rapine in vita sua. La prova? Il 26 gennaio, al Banco di Brescia in via Portuense a Roma, due banditi entrano come tutti i clienti. Ma una volta dentro, rapinano 12 mila euro. Solo quando scappano si scopre lo stratagemma. Nella fuga perdono un dito indice. Ovviamente non il loro: l'avevano tagliato a un morto (almeno si immagina). Senza guardie giurate all'esterno anche i clienti che prelevano sono più esposti alle rapine. Lo sostiene Vincenzo Del Vicario, segretario nazionale del sindacato Savip: "La guardia osserva i movimenti sospetti, è un deterrente contro le aggressioni all'uscita. Le banche invece ci stanno sostituendo con le tv. Ci sono banche sparse in tutta Italia la cui centrale di vigilanza video è a Milano. Sapete quanto tempo passa in caso di allarme?". La malavita di Napoli ha già fatto scuola. In gennaio finiscono in carcere due rapinatori. La loro tecnica è semplice. Uno aspetta a lungo dentro una banca il primo cliente che preleva contante. Lo segna con un filo di cotone appoggiato sugli abiti. Una volta fuori il complice riconosce il filo e aggredisce il cliente. Senza guardie all'esterno, funziona sempre. In fondo, se la rapina avviene in strada, perché mai la banca si dovrebbe preoccupare? 28 marzo
Un'altra Monica agita i sonni della Casa bianca. Gonzales e Bush nei guai
27 marzo
La
mercificazione della donna
Le autorità occidentali,
attraverso i media, denunciano spesso i comportamenti discriminanti e
vessatori, contro la donna, presenti all'interno della cultura islamica.
Queste denunce danno ad intendere che la cultura occidentale tutela i
diritti delle donne. Ma siamo davvero sicuri che le donne siano rispettate
nella cultura occidentale? Dai fatti sembrerebbe proprio di no.
Nei paesi del Terzo
Mondo, molte donne e bambini vengono ridotti in schiavitù a scopo di
sfruttamento sessuale o lavorativo. Le violenze vengono perpetrate
direttamente dai soldati occidentali, oppure dalle truppe mercenarie pagate
dai governi. I gruppi di guerriglia in Congo, in Somalia, in Etiopia, in
Nigeria, in Liberia e in molti altri paesi africani, pagati dagli Usa,
quotidianamente attuano stupri e violenze di ogni genere contro le donne,
come se ciò facesse parte dell'ingaggio.
Lo stupro è usato
come un mezzo per terrorizzare la popolazione, e il numero di casi aumenta
con ogni nuovo scoppio di combattimenti e attacchi. Se le giovani sotto i 18
anni sono particolarmente esposte (quasi il 40% dei casi), il gruppo più
colpito è quello delle donne tra i 19 e i 45 anni (53,6%). Queste sono le
donne che lavorano nei campi per potere mantenere le loro famiglie. Gli atti
di aggressione contro di loro hanno luogo principalmente in campi isolati ma
anche lungo le strade percorse per arrivarvi. Di conseguenza, le donne
limitano i loro spostamenti e nei centri nutrizionali nella missione di
Kayna le madri preferiscono alloggiare nelle immediate vicinanze invece di
tornare ogni settimana per prendere le razioni per i loro bambini.[1]
In Africa, come in Asia
e in Medio Oriente, sono in aumento le violenze contro bambine e donne. Un
rapporto di Human Rights Watch (Hrw), del 2005, riporta casi agghiaccianti
di violenze sessuali contro donne e bambine praticate da "peacekeepers"
dell'Onu. Una ricercatrice di Hrw, Anneke Van Woudenberg, spiega: "Vediamo
che nelle zone di conflitto lo stupro è usato sempre di più come un'arma da
guerra... Non si tratta di occasionali voglie di sesso dei soldati. Lo
stupro sta diventando parte della condotta normale di guerra".[2]
Le truppe dell'Onu in
Congo, chiamate con la sigla Monuc, sono state accusate di numerosi casi di
violenza sessuale e di prostituzione infantile. La responsabile di Hrw in
Congo, Jane Rasmussen, racconta: "I posti in cui sono accaduti i peggiori
episodi di violenze sessuali sono gli stessi da cui abbiamo ricevuto le
denunce peggiori sul comportamento dei peacekeepers... Il fatto è che le
donne sono in una condizione di tale degrado che la cosa appare loro quasi
normale. Una ragazza mi ha detto, in lacrime, che almeno quelli del Monuc
pagano".[3]
Le truppe occidentali, o
i gruppi di guerriglia al soldo delle corporation e delle banche
occidentali, in molti paesi, hanno creato una situazione talmente grave e
criminale, che nel contesto gli stupri appaiono il male minore. La fame, le
malattie, la denutrizione e il terrore in cui versa la popolazione,
trasformano la realtà in un incubo. In Congo muoiono 31.000 persone al
giorno, per la guerra e la fame, la maggior parte delle quali sono bambini.
Secondo l'International Rescue Committee, dall'agosto del 1998, sono morte
circa quattro milioni di persone. Sheila Sisulu, vicedirettore esecutivo del
Programma Alimentare Mondiale, racconta episodi di "ordinaria" violenza:
La vita di Annie era
serena. Aveva studiato Agraria all'università e suo marito aveva un ottimo
lavoro. Vivevano con i loro figli in una casa di quattro stanze a Bukavu,
nella Repubblica Democratica del Congo. Poi un giorno suo marito dovette
scappare per mettere in salvo la pelle. Cinque soldati governativi, venuti a
cercarlo, violentarono Annie e le dissero che sarebbero tornati ad
ucciderla. Annie non perse tempo. Prese i suoi figli e se ne andò in cerca
di un po' di pace. Nella sua fuga fu fermata dai ribelli che la violentarono
a loro volta usando anche delle bottiglie. Solo dopo molto, riuscì a
raggiungere un campo profughi. Viveva in una casa di fango con i suoi nove
figli. La storia di Annie è abbastanza comune... Nei 14 anni della guerra
civile liberiana, il 40 per cento delle donne ha subito violenze. Metà di
loro porta ancora i segni psichici e fisici di quell'esperienza. Molte,
allontanate dalla propria comunità, sono costrette oggi a prostituirsi per
sopravvivere il che le espone ancora di più a abusi e malattie sessualmente
trasmittibili come l'HIV/AIDS. Stupri sistematici, torture, schiavitù
sessuale sono stati usati per terrorizzare e destabilizzare le comunità di
tutto il mondo, da Haiti alla Repubblica Democratica del Congo a Myanmar.
Durante la lunga e sanguinosa guerra civile in Sierra Leone, migliaia di
donne e ragazze, talvolta bambine di appena sette anni, sono state rapite e
ridotte in schiavitù per essere usate sessualmente o come combattenti,
obbligate a uccidere.[5]
Le aree di guerra e le
basi militari diventano luoghi di sfruttamento e di schiavitù sessuale. In
seguito alla creazione di una base militare, si registra l'aumento della
prostituzione e delle violenze contro le donne. Nelle zone limitrofe alle
basi americane si concentra l'offerta sessuale, perché c'è la domanda. Oltre
alla prostituzione, i soldati americani praticano anche diverse forme di
violenza e prepotenza contro le prostitute e le donne in genere. A Pordenone
si formò un comitato per denunciare tali comportamenti. Racconta Carla
Corso: "Il Comitato è nato perché eravamo semplicemente stufe di quello
che succedeva a Pordenone, di tutta la prepotenza nei confronti delle
prostitute, soprattutto da parte degli americani".[6]
Durante
Dodici soldati mi
violentarono uno dopo l’altro, dopo di che mi venne data un’ora di pausa.
Poi seguirono altri dodici soldati. Erano tutti allineati fuori dalla stanza
aspettando il loro turno. Sanguinavo e provavo così tanto dolore che non mi
reggevo in piedi. Il mattino seguente ero troppo debole per alzarmi… non
riuscivo a mangiare. Provavo molto dolore e la mia vagina era gonfia.
Piangevo e piangevo, chiamando mia madre. Non potevo oppormi ai soldati
perché mi avrebbero uccisa. Che altro potevo fare? Ogni giorno, dalle 2 del
pomeriggio alle 10 di sera, i soldati si allineavano fuori dalla mia stanza
e dalle stanze delle altre sei donne che c’erano. Non avevo neanche il tempo
di lavarmi al termine di ogni assalto. Di sera riuscivo solo a chiudere gli
occhi e a piangere. Il mio vestito strappato si sarebbe sbriciolato a causa
della crosta formata dal seme secco dei soldati. Mi lavavo con acqua calda e
pezzi di vestito per essere pulita. Tenevo premuto il vestito sulla mia
vagina come un impacco per alleviare quel dolore e il gonfiore.[7]
Negli anni Sessanta, si
ebbe una massiccia presenza militare americana nel Sud est Asiatico, in
particolare in Thailandia, Cambogia, Laos, Vietnam e Birmania. Dopo pochi
mesi dall'installazione delle basi Usa, si ebbe una crescita vertiginosa
della prostituzione, dei locali notturni e dei luoghi di intrattenimento. I
governi locali appoggiarono il fenomeno, permisero l'aumento della
prostituzione e non intervenivano in alcun modo nemmeno di fronte a evidenti
casi di violenza e maltrattamento. In Thailandia, nel 1950, c'erano 20.000
prostitute, ma dopo la costruzione delle basi americane diventarono 400.000
soltanto a Bangkok. La presenza delle truppe americane e dell'Onu, rese la
zona del Sud est Asiatico un luogo di sfruttamento sessuale, anche minorile.
In Thailandia, il 30% dello sfruttamento sessuale riguardava bambini. Le
bambine thailandesi venivano violentate dai soldati americani, e poi
inserite nel "mercato del sesso". I soldati si valsero persino delle
"ristrutturazioni" economiche imposte da Washington per pagare le prostitute
soltanto pochi spiccioli. Nel 1997, pagavano sessanta dollari per andare con
una prostituta thailandese, ma dopo le "riforme", i soldati pagavano pochi
dollari, avvantaggiandosi della svalutazione del bath thailandese.
Alla fine della guerra
del Vietnam, a Saigon c'erano circa 500.000 prostitute. Racconta la studiosa
Paola Benevene: "Le basi militari hanno fatto sviluppare le città
asiatiche o ne hanno fatto addirittura sorgere di nuove, semplicemente
promuovendo la creazione di locali pubblici provvisti di prostitute".[8]
Negli anni Sessanta,
venne creata la più grande base Usa nella città di Olongapo, a Nord di
Manila. Dopo pochi anni, la città divenne un enorme bordello. Su una
popolazione di 200.000 abitanti, 60.000 donne e bambini vennero ridotti in
schiavi sessuali dei soldati americani. Quando gli americani andarono via,
nel 1992, molti soldati in pensione ritornarono a Olongapo per "fare
affari", continuando a sfruttare le donne e i bambini all'interno del giro
di prostituzione creato anni prima.
Nonostante le denunce
avessero prodotto molta indignazione e sollevato un'inchiesta,
Le donne irachene ci
hanno detto che le donne sono in prigione per essere interrogate e torturate
perché rivelino informazioni sugli uomini loro parenti. Per le donne la
tortura comincia quasi sempre con la tortura dello stupro, spesso stupro da
più uomini... Una donna dell'Università di Baghdad che lavora per Amnesty
International ha descritto gli abusi sessuali a cui è stata personalmente
sottoposta a un posto di blocco e quello che ha saputo da altre donne. "Mi
ha puntato la luce laser direttamente in mezzo al petto e poi ha indicato il
suo pene. Mi ha detto 'Vieni qua, puttana, che ti scopo'".[10]
Le donne rinchiuse nelle
prigioni irachene sono regolarmente maltrattate e umiliate. Abdel Bassat
Turki, ministro dimissionario per i diritti umani, spiega: "Venivano loro
negate le cure mediche. Non avevano veri gabinetti. Ricevevano solo una
coperta anche se era inverno. E le loro famiglie non potevano visitarle".[11]
Molte donne irachene e afghane non raccontano le violenze subite per
vergogna, per paura o perché traumatizzate. Un avvocato iracheno ha
raccontato che una donna, ex-prigioniera di Abu Ghraib, "svenne prima di
fornire maggiori dettagli dello stupro e delle coltellate subite da parte
dei soldati americani".[12]
Altre ex-detenute si vergognano a raccontare quello che hanno subito, e non
ne parlano, anche per nasconderlo alle famiglie.
Women Against Rape ha
denunciato che alcuni soldati inglesi hanno scattato foto di stupri e
violenze, che poi hanno fatto circolare come materiale pornografico. Le
truppe americane e britanniche praticano violenze sessuali anche su bambini,
come è stato denunciato da numerose associazioni umanitarie. Esistono foto e
video che documentano queste atrocità, e sono stati visionati anche da
alcune autorità anglo-americane, come il vicepresidente americano Dick
Cheney, che hanno fatto finta di non aver visto.
La "globalizzazione",
impoverendo molti paesi, ha prodotto il fenomeno della tratta e riduzione in
schiavitù delle donne. Molte donne, spesso giovanissime, vengono adescate
con la promessa di un posto di lavoro, ma una volta uscite dal loro paese
vengono violentate, schiavizzate e costrette a un'esistenza da incubo.
Queste donne vengono inserite nel giro di prostituzione di molti paesi
europei. Ad esempio, in Belgio, almeno il 15% delle prostitute sono state
ridotte in schiavitù dopo aver lasciato il loro paese. La maggior parte di
esse proviene dall’Europa orientale, dalla Colombia, dal Perù e dalla
Nigeria. Anche in Svizzera, ogni anno, vengono introdotte 1500/3000 donne
schiavizzate.
Il traffico degli esseri
umani è gestito e coordinato dalle stesse reti mafiose che si occupano del
mercato della droga e delle armi. Ogni anno, almeno 800.000/900.000 persone
sono vittime della tratta, l'80% di esse sono bambini e donne. Mentre
l'immigrazione illegale viene controllata e severamente perseguita da leggi
gravemente discriminatorie, il traffico umano viene occultato attraverso
passaggi illegali che permettono ai trafficanti dell'Europa dell'est o
africani, di portare in Italia o in altri paesi, gruppi di ragazze da
inserire nella rete della prostituzione. Il commercio degli esseri umani,
specie donne e bambini, è oggi più che mai fiorente, e interessa sia lo
sfruttamento sessuale e lavorativo, sia l'accattonaggio ed il traffico di
organi umani.
La tratta degli esseri
umani è aumentata a dismisura in seguito all'impoverimento dei paesi
dell'est europeo, della ex Jugoslavia e della ex Unione Sovietica.
Dall'inizio degli anni Novanta,
Alcune di esse, per la
miseria, hanno accettato di entrare in un giro di prostituzione che si basa
su cataloghi o su foto pubblicate su alcuni siti internet, attraverso i
quali, "l'utente" occidentale può "valutare la merce" e "acquistarla".
L'offerta è in aumento perché è in crescita la domanda di molti uomini
europei, che pur sapendo che si tratta di un traffico basato sulla miseria e
sulla disperazione, chiedono di fare sesso con queste donne.
Le donne schiavizzate
sono tenute sotto minaccia, e talvolta torturate con sigarette spente sulla
pelle o violenze fisiche e psicologiche di vario genere. La situazione di
schiavitù delle donne straniere costrette a prostituirsi, è ormai nota a
tutti, eppure una grande quantità di uomini europei vanno con queste donne,
rendendosi complici di crimini gravissimi. La responsabilità di questi
uomini è assai grave, perché se non ci fosse la domanda non ci sarebbe
nemmeno l'offerta.
Nei paesi poveri, spesso
le violenze determinano l'entrata nel giro delle prostituzione. In India,
ogni anno quasi 2 milioni di bambine, tra i 5 e i 15 anni, vengono avviate
alla prostituzione, mentre in Bangladesh, negli anni Novanta, sono state
schiavizzate oltre 200.000 donne, molte delle quali giovanissime.
Su questo sconcertante
fenomeno, scriveva Enzo Baldoni: "Ma non sono quasi tutti mariti, quasi
tutti padri i milioni di tedeschi, italiani, inglesi, americani che ogni
anno affollano i bordelli della Thailandia (o del Brasile) per montare
addosso a bambine di dieci, otto perfino quattro anni?"[13]
Tutte le religioni
tradizionali discriminano le donne, impedendo l'amministrazione del culto e
imponendo dottrine che le penalizzano. Il mondo ricco non tratta la donna al
pari dell'uomo, ma la relega nelle mansioni più umili e la considera per il
suo aspetto estetico, all'interno di un sistema mediatico che esalta la
sessualità nei suoi aspetti più istintivi.
Mentre la cultura
islamica nasconde la donna o la isola socialmente, la cultura occidentale
tende a denigrarla, e a farla apparire come oggetto sessuale o merce. In
entrambi i casi si tratta di culture maschili e maschiliste, che temono gli
aspetti femminili dell'essere umano, come l'intuito, la crescita emotiva e
la creatività, e per sopperire a questo, alimentano gli aspetti del maschile
che non sono costruttivi né creativi, come il militarismo e il machismo.
In Italia 3 milioni di
persone soffrono di anoressia o bulimia, e nel 95% dei casi si tratta di
donne. Queste patologie emergono soprattutto nella fascia d'età che va dai
12 ai 25 anni. La bambina, fin da piccola, apprende che l'avvenenza sessuale
è la cosa più importante richiesta alla donna, e che i modelli estetici
proposti dai media sono praticamente irraggiungibili. Una ricerca della
Società Italiana di Pediatria ha fatto emergere che già le ragazzine delle
scuole medie, per il 60,4%, sono preoccupate per il loro peso, e vorrebbero
diventare più magre. Molte di esse, per adeguarsi al modello estetico
proposto dai media, intraprenderanno diete che potranno dare inizio a
problemi nell'alimentazione.
Le modelle delle
passerelle o le ragazze delle copertine delle riviste, spesso hanno un corpo
sottopeso, e non godono di salute fisica come dovrebbero, essendo sottoposte
a diete non salutari. Esse stesse sono vittime del modello imposto nel mondo
della moda e della pubblicità, e possono avere conseguenze gravi per la loro
salute. Alcune di esse giungono alla morte.
In Italia non c'è alcuna
parità fra uomo e donna. Le donne sono discriminate nel lavoro, nella
società e talvolta anche in famiglia. Esse lavorano con salari più bassi e
meno possibilità di carriera. Negli ordini professionali o nei posti di
comando le donne sono pochissime, così come nel settore della politica e
della burocrazia. Le donne lavorano in quelle mansioni che richiedono bella
presenza, come la commessa, oppure nelle mansioni più umili o poco
qualificati, come nelle pulizie o nell'assistenza agli anziani. Nel resto
dell'Europa e negli Usa c'è una situazione analoga, anche se l'occupazione
femminile è più elevata e ci sono più donne nelle posizioni di prestigio.
In Italia proliferano i
concorsi di bellezza, e persino
Nel 2005, noi italiani
abbiamo ricevuto alcuni consigli da uno speciale comitato dell'Onu (il
Comitato per l'eliminazione della discriminazione contro le donne), che
denunciava la tendenza, in Italia, a mercificare il corpo femminile nei
media (TV, pubblicità) e a relegare la donna in ruoli subalterni. Il
comitato dell'Onu osservava che "tali atteggiamenti sono la causa della
posizione svantaggiata delle donne sul lavoro e nella politica", e
consigliava di "promuovere un'immagine delle donne alla pari in tutte le
sfere della vita".[14]
Nel
Nella cultura
occidentale, il modello di successo femminile non viene collegato a meriti o
a talenti della donna, ma al matrimonio che essa contrae. Il modello
femminile tradizionale è quello della donna che realizza se stessa con un
buon matrimonio, cioè sposando un uomo di buon livello socio-economico.
La cultura occidentale
illude la donna di essere libera sessualmente, ma "mercificare" non
significa liberare. Nelle civiltà dominate dal maschile è l'uomo che vuole
stabilire quale debba essere la personalità e la sessualità femminile,
attuando un controllo che tende ad alterare ciò che il femminile
originariamente è o può essere.
Antonella Randazzo ha
scritto Roma Predona. Il colonialismo italiano in Africa, 1870-1943,
(Kaos Edizioni, 2006);
26 marzo
La testimonianza raccolta
dall'Osservatorio militare ROMA - Molti militari italiani
reduci da missioni all'estero sono stati operati alla tiroide in seguito alla
presunta contaminazione da uranio impoverito. A denunciarlo un giovane soldato
tornato dal teatro bellico dei Balcani e da tempo sotto controllo medico. La sua
testimonianza è stata affidata a Domenico Leggiero, dell'Osservatorio militare,
un'associazione che assiste gli appartenenti alle forze armate e i loro
familiari. 23 marzo
Tredici ordinanze di custodia
cautelare notificate a uomini delle forze dell'ordine ed ex manager Dossier illegali Telecom, nuovi arresti Accuse a Bossi e Berlusconi in un appunto Nei guai Tavaroli, Ghioni, Iezzi e l'ex giornalista di Famiglia Cristiana, Sasinini In una sua agenda si parla di 70 miliardi passati da Fi alla Lega in cambio della "fedeltà"
MILANO - In un appunto sequestrato a
un giornalista arrestato per il caso delle intercettazioni penali
Telecom, si parla di un accordo fra Bossi e Berlusconi per una cifra
vicina ai 70 miliardi. Guglielmo Sasinini, ex di "Famiglia
Cristiana", agli arresti domiciliari nell'ambito dell'inchiesta sui
dossier illegali, scrive di una presunta dazione di denaro che
sarebbe passato da Silvio Berlusconi ad Umberto Bossi "in cambio
della totale fedeltà".
Difendete Emergency Astrit Dakli Gino Strada ed Emergency sono sotto tiro: il governo italiano li deve difendere, con tutti i mezzi, contro chi li minaccia.
A Gino Strada e ad Emergency il
governo italiano ha chiesto di fare da intermediari per la
liberazione di Daniele Mastrogiacomo e del suo interprete. Il
governo non voleva o non era in grado di trattare direttamente con
il gruppo di talebani autore del sequestro, non si fidava -
giustamente - di quello che avrebbe potuto fare il governo afghano e
temeva quello che avrebbero potuto fare gli Stati uniti -
l'esperienza di Nicola Calipari brucia, Massimo D'Alema lo ha
ricordato ancora di recente. Dunque la via scelta per arrivare alla
liberazione del collega Mastrogiacomo passava per Emergency, cioè
per una trattativa vera con i talebani: è stata una scelta giusta e
saggia - e ha avuto successo.
Sos dal mondo dell'agricoltura Il cambiamento climatico mette in crisi i campi. Con il gelo di questi giorni e la sicura siccità estiva c'è il rischio di un tracollo Roberto Tesi
L'agricoltura italiana è di nuovo in
emergenza e lancia un grido di aiuto: stati i cambiamenti climatici
a provocare danni enormi soprattutto al settore ortofrutticolo. A
essere colpito è soprattutto il Mezzogiorno. Le prime stime indicano
danni per 800 milioni di euro. Sui campi ai prezzi alla produzione
sono andati a picco senza che i consumatori ne traessero vantaggi.
Molti produttori non hanno risorse per avviare o portare a termine
le colture primaverili e quelle estive. E il prossimo futuro rischia
di essere ancora peggiore: la scarsità di precipitazioni fa
aleggiare lo spettro della siccità. Serve un rapido intervento del
governo per predisporre un paio per l'acqua e interventi a sostegno
degli agricoltori.
22 marzo
Phone center, scatta la legge razzista Per il Tar di Brescia il provvedimento xenofobo è di «dubbia costituzionalità» Milano Un'aria da Alabama anni '20, commenta qualcuno. Sugli
sproloqui leghisti ormai noti, tipo «io non vorrei mai entrare in un bagno
frequentato da egiziani» (copyright, Giosuè Frosio della Lega), meglio
sarebbe sorvolare. Non fosse che poi la legge targata Lega Nord c'è eccome,
e da domani oltre l'80% dei phone center lombardi rischia la chiusura.
Fincantieri La Fiom e i sindaci: «No alla quotazione» Alessandra Fava Genova «Passare alla storia per la quotazione di Fincantieri in
Borsa»: secondo molti sindacalisti sarebbe questo l'obiettivo
dell'amministratore delegato di Fincantieri, Giuseppe Bono. Tentando tutte
le carte: ventilare l'acquisto del concorrente numero uno, la norvegese Aker;
ribassare la quota dell'azienda da valutare in Borsa (in alcune settimane si
è passati da 800 milioni a 500 milioni); ottenendo comunque l'avvallo del
governo (Fincantieri è gestita da Fintecna per conto del ministero del
Tesoro, che oggi detiene il 98,5%).
Gola profonda Telecom
di Peter Gomez e Vittorio Malagutti
I depositi all'estero. Le fiduciarie. Il fondo di Gianluca Braggiotti.
Così Sandro Marzi racconta ai pm i segreti di Tavaroli e soci
DOSSIER:
Dio, patria e spioni
Si chiama Sandro Marzi, è nato in provincia di Novara e conosce Giuliano Tavaroli da "metà degli anni '80", il supertestimone che dal 2 febbraio sta svelando alla Procura di Milano tutti i segreti degli uomini della sicurezza Telecom: dai conti alle fiduciarie estere, arrivando sino alle loro ambizioni nascoste e ai rapporti di tipo politico-economico. Marzi è un manager di lungo corso. È stato presidente della Italtel Sistemi, ha lavorato in Russia per la Tecnosistemi spa, è stato ai vertici del gruppo veronese della Riello. A partire dal 2002 si è occupato di 'sviluppo mercati', collaborando con Telecom e Pirelli, diventando così anche il gestore del denaro che Ghioni aveva nascosto in Svizzera. Soldi che provenivano dai fornitori ai quali il capo del Tiger team aveva l'abitudine di chiedere una sorta di tangente. "Preatoni", dice Marzi il 5 febbraio al magistrato, "mi descrisse l'operatività di zone H. Mi disse che vi era una vera e propria organizzazione piramidale, dove le imprese dei giovani hacker venivano controllate e certificate da capi zona. L'organizzazione non aveva fini di lucro, ma si preoccupava di soccorrere i giovani che avevano problemi con la giustizia per la loro attività di hackeraggio. In particolare, quando ero a Tallin (sede delle societa di Preatoni, ndr), lui stava supportando dal punto di vista legale un ragazzo italiano che aveva avuto dei problemi. Preatoni pagava le spese legali". Stando al suo racconto, Marzi diventa una sorta di consulente a tutto campo per il gruppo degli spioni targati Telecom. I motivi di tanta fiducia non emergono però con chiarezza dalle sue parole. Fatto sta che a un certo punto anche Preatoni gli chiede una mano per creare una sorta di super-gruppo tra una serie di società di sicurezza informatica. Il progetto non va in porto, ma Marzi si rende conto (dice lui) che dietro al super-esperto di computer, si muove suo padre, il finanziere Ernesto Preatoni, noto in Italia più che altro per essere stato il creatore di Sharm El Sheik. "Il progetto", spiega Marzi, "fu coltivato dall'estate del 2005 fino alla fine del 2005. Roberto Preatoni a un certo punto però interpose il necessario intervento di suo padre. In questo modo fui tagliato fuori, ma non mi pare che in ogni caso abbia avuto seguito". Hanno seguito invece le operazioni di movimentazione di fondi all'estero per conto di Ghioni. Marzi mette a disposizione i propri conti all'Ubs di Zurigo e le proprie società, controllate tramite la fiduciaria svizzera Fidinam, per nascondere decine di migliaia di euro che Ghioni riceve come commissione da aziende scelte come fornitrici da Telecom. "Ghioni", afferma, "mi chiese se lo potevo aiutare a ricevere degli incassi all'estero per consulenze da lui svolte (...) io non avevo interesse a contrariarlo, inoltre mi aveva rappresentato che l'esigenza era momentanea (...) gli consigliai di aprire un conto all'Ubs di Lugano". Da quel momento in poi la M&A di Marzi (una società off shore) viene utilizzata per incassare le fatture del responsabile della sicurezza informatica di Telecom. Nel giro di pochi mesi arrivano poco meno di 300 mila euro e transitano per il conto Mao 887418 di Marzi, dopo essere stati "ulteriormente filtrati da un conto della società Trumaco con sede, mi pare, nei Caraibi". Parte del denaro arriva anche dall'ex collaboratore del Sisde Marco Bernardini, una delle gole profonde dell'inchiesta. Oggi tutta la documentazione relativa a quei conti, riportata in Italia da Marzi, è in mano alla Procura, che vuole anche capire se l'altro denaro passato per le sue società, molti milioni di euro, sia estraneo a Telecom, come sostiene il manager, o abbia invece qualcosa a che fare con l'inchiesta sugli spioni. Marzi in ogni caso non si muove a costo zero: trattiene per ogni operazione effettuata per conto di Ghioni il 10 per cento degli importi. Si vede continuamente con il giovane manager Telecom che non manca di riferirgli perfino i pettegolezzi che circolavano in azienda. Come per esempio, dice Marzi, i presunti "disaccordi tra Tronchetti e Bondi (Enrico, amministratore delegato di Telecom tra il 2001 e il 2002, ndr) sull'uso del jet presidenziale da parte di Afef per lo shopping a New York". Grazie al legame sempre più stretto con Ghioni, l'onnipresente Marzi diventa anche un testimone indiretto dei mesi che hanno preceduto il suicidio di Adamo Bove, il responsabile della sicurezza Tim, morto a Napoli nel luglio del 2006. Secondo il suo racconto, quando Tavaroli, finito sotto inchiesta, era stato costretto a farsi da parte, Ghioni era "rimasto deluso" per non essere stato nominato suo successore: "A un certo punto dovette cominciare a riferire a Bove con il quale non si trovava affatto bene (...). Il suo umore cambiò quando ricevette un incarico nell'ambito dell'auditing per relazionare al Garante della privacy su un problema che si era creato in Telecom. Ghioni doveva stendere una relazione e mi disse di essere stato indicato dallo stesso Tronchetti Provera". Marzi però continua a incontrare anche Tavaroli. Anche perché l'ex responsabile della sicurezza, una volta estromesso dal gruppo, vorrebbe fare affari con lui. Marzi infatti è socio della Ssi di Assago, un'azienda specializzata in sicurezza nella quale, poco prima del suo arresto, anche Tavaroli "voleva entrare". "Conosco Tavaroli", spiega Marzi "da quando eravamo entrambi in Italtel seppure in ruoli molto differenti, io ero un manager e lui il capo delle guardie". Aggiunge di essere stato molto vicino all'ex boss della security di Telecom. Questione d'amicizia, ma pure di soldi. Marzi spiega che nella seconda metà del 2005 Tavaroli gli propone di incontrare l'ex deputato di Forza Italia Umberto Giovine per "coltivare progetti in ambito aerospaziale". L'incontro ci fu, ma non portò a nulla.
20 marzo
Italian Metal Jacket UN EXPORT CHE SUPERA 1600 MILIONI DI EURO ALL'ANNO. Un volume di operazioni finanziarie quantificato in oltre un miliardo e cento milioni di euro. E’ il triste piazzamento (al settimo posto) nella classifica mondiale dei Paesi che ne fabbricano di più. E’ la fotografia dell'Italia che produce. Purtroppo, però, si tratta di armi. Un'industria fiorente, quella che sforna pistole, mitra e kalashnikov in tutto il mondo: si stima che la spesa militare complessiva abbia superato di quindici volte quella destinata ogni anno agli aiuti umanitari. Un mercato globale che coinvolge ormai ogni continente: se Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia e Germania coprono l'82 per cento delle esportazioni mondiali, fanno ormai parte dell'elenco delle prime cento industrie armiere del pianeta aziende brasiliane, sud-coreane, indiane, sudafricane e di Singapore. Complessivamente, alla fine di quest'anno, la spesa militare raggiungerà la cifra senza precedenti di oltre 1000 miliardi di dollari. Superiore perfino a quella (record) registrata negli anni 1977-1978, in piena guerra fredda. Il risultato? Un morto al minuto vittima di arma da fuoco, otto milioni di armi prodotte ogni anno e così tante pallottole da essere sufficienti ad uccidere l'intera umanità. Due volte.
Pistole Beretta in Iraq (per legge)
Una montagna di denaro che fa gola a
molti. Anche in Italia. D'altra parte, il nostro Paese è da sempre
un grande produttore di armi. Ma ha anche, storicamente, una delle
legislazioni più avanzate in tema di traffico di armi. 0 forse
l'aveva e non l'ha più? Già, perché l'Italia - un anno fa - ha
modificato la propria legislazione in materia di commercio di armi
sul territorio nazionale. Le indagini della magistratura
Secondo i pm di Brescia che indagano
sulla vicenda, le cose sono andate così: nel febbraio del 2003 il
ministero dell'Interno aveva ceduto alla fabbrica bresciana 44.926
pistole Beretta 92S (classificate come "fuori uso" ma spesso
perfettamente funzionanti). Una vera e propria svendita a prezzi
stracciati: 10 euro al pezzo. Giustificazione ufficiale: "Sono
rotte”. La ditta di Gardone Valtrompia le avrebbe invece risistemate
facilmente e rese nuovamente funzionanti, nonostante dal 2002 non
possedesse più la licenza per riparare armi. Il Parlamento distratto
Il tutto senza che nessuno, in
Parlamento, se ne sia accorto. Possibile? Pare di sì. Il decreto
"Olimpiadi invernali" emanato alla fine del 2005 dal governo
Berlusconi non menzionava minimamente questioni relative al
commercio di armi. La norma è stata aggiunta infatti in sede di
conversione, in gennaio, presso la commissione Affari costituzionali
del Senato, attraverso un emendamento (a firma di Gabriele Boscetto,
Forza Italia, avvocato penalista, relatore del disegno di legge in
commissione) che sarebbe stato poi riscritto tre volte per venire
incontro alle richieste del governo (sottosegretario Alfredo
Mantovano, Alleanza Nazionale, in testa). E che è stato poi inserito
nel maxiemendamento presentato dal governo che sostituiva il testo
precedente del disegno di legge, sul quale il governo pose la
fiducia sia a Palazzo Madama che a Montecitorio. Downing Street
Ad accorgersi che qualcosa non
quadrava, invece, è stata la stampa inglese, insospettita da alcuni
comportamenti del governo britannico. Sarebbero stati infatti
proprio gli uffici di Downing Street a fungere da tramite essenziale
per far arrivare in Iraq le pistole della Beretta. Secondo il
settimanale The Observer, l'anno scorso il ministero dell'Industria
e del Commercio britannico si accordò per la consegna di queste armi
alla polizia irachena. Non c'è traccia - aggiunge il giornale - che
siano stati previsti anche sistemi di controllo necessari per
evitare che le armi potessero finire nelle mani della guerriglia.
Cessate il fuoco Il bollettino settimanale delle guerre e dei conflitti in corso n.11 - 2007 dall'8 al 14/3 Somalia almeno 220 morti dall'inizio del 2007
Il 12, un ragazzo di 14 anni è morto a
seguito di scontri avvenuti nella zona meridionale di Mogadiscio.
15 marzo
Chiamata internazionale
Galapagos Povero Bersani: tutto preso dagli scampoli di liberalizzazione - orari dei barbieri e ricariche telefoniche - non si è accorto che pezzi importanti d'Italia finiscono all'estero privando l'economia di settori tecnologicamente avanzati. Il riferimento è a Fastweb che sta per prendere la cittadinanza svizzera e a Telecom destinata (da Tronchetti Provera) a emigrare in Spagna, nella scuderia Telefonica, ma che forse sarà «salvata» dalle banche. Ieri il ministro dello sviluppo economico, messo da parte il tradizionale aplomb, ha detto agli industriali che fanno un po' schifo: «non raccolgono le sfide della liberalizzazione e dell'innovazione». Bersani ha ragione: l'Italia non brilla nei settori tecnologicamente avanzati soprattutto perché la ricerca è nulla. Gli imprenditori preferiscono spendere soldi per investire nei settori protetti: non è casuale la campagna contro le multiutility municipali nate - nessuno lo ricorda mai - oltre un secolo fa, nel 1903, grazie a Giolitti che in questo modo volle estendere una pluralità di servizi a popolazioni che ne erano prive perché anche un secolo fa i padroni investivano solo in quello che garantiva profitti immediati. L'Iri è stata smantellata, tutte le sue imprese privatizzate. E molte - soprattuto le industriali e quelle della distribuzione - sono finite in mani estere. Poche, purtroppo, sono state valorizzate; la maggior parte (soprattutto nell'alimentare) sono divenute aziende anonime riconoscibili solo per il marchio glorioso, dietro il quale spesso non c'è valorizzazione dei prodotti di base italiani. Gli imprenditori italiani hanno preferito investire nelle banche e nei monopoli naturali. E' così che i Benetton si sono trasformati in casellanti d'autostrada, perdendo parte della vocazione industriale. E così, un po' per volta, sono finite in mani estere l'elettronica, l'informatica, la chimica fine e in particolare l'industria farmaceutica. L'Italia è diventata grande consumatrice di prodotti fisicamente costruiti nel nostro paese, ma progettati all'estero. Insomma, salvo rare eccezioni, i centri decisionali delle multinazionali non sono domiciliati in Italia. Nel settore delle telecomunicazioni è accaduto la stessa cosa. All'inizio era tutto italiano (Telecom e Tim) e pubblico. Poi è arrivata Omnitel (prima De Benedetti, poi Colaninno) e poco dopo Wind. Poi è scoppiato il caos: Telecom è stata privatizzata malamente - allora le banche fecero le schizzinose - è divenuta terra di conquista e strada facendo si è caricata di debiti visto che i vari padroni che la conquistavano le scaricavano addosso i debiti fatti per la scalata. Intanto però Omnitel è finita in mani inglesi (buone); Wind in mani egiziane (misteriose) e ora Fastweb (la più tecnologica del gruppo) rischia di finire in mani svizzere. Pubbliche, visto che la Confederazione gli affari li sa fare. Nel settore tlc a difendere l'italianità sono rimaste Tiscali (idea geniale) e Telecom, la cui rete è un monopolio naturale che sarebbe pericoloso privatizzare. Per questo il governo oggi benedice le banche che vogliono conquistarla. Morti bianche A
Ravenna Cgil, Cisl e Uil ricordano la strage Mecnavi 14 marzo L'INCHIESTA.
L'arma fabbricata a Brescia, ma spedita dal Portogallo
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Le vibrazioni negative di Bush
I discendenti delle popolazioni Maya contro il presidente Bush: "Dopo il suo passaggio, purificheremo la zona"
8 marzo
Donne in carriera, poche e senza figli: alla nascita di un bimbo la madri vengono emarginate. Le lavoratrici penalizzate 45 volte più dei maschi
Allarme Ue: per le donne stipendi più bassi degli uomini
di MARIA NOVELLA DE LUCA
ROMA
- Prima o poi si rinuncia. Ai figli. O alla carriera. Succede in
Italia. In Europa. Lui e lei uguali, ai nastri di partenza. Stessa
laurea, stesso master, stessa grinta. Poi lei resta incinta. È una
festa, una gioia, però tutto cambia. Perché la maternità, oggi come
ieri, non sembra andare d'accordo con il mondo del lavoro. È il dato
più forte, allarmante, lanciato dalla Ue: le donne guadagnano il 20%
in meno degli uomini, e dopo la nascita del primo figlio le loro
possibilità di carriera si abbassano drasticamente. Il ministero
inglese delle Pari Opportunità con una ricerca commissionata da Tony
Blair è arrivato addirittura a quantificare questo svantaggio: nella
"graduatoria" dell'avanzamento professionale una donna che lavora
con un figlio al di sotto degli 11 anni, ha 45 punti di svantaggio
in più rispetto ad un uomo... E in un lunga inchiesta che "Le Monde"
ha dedicato all'esistenza o meno di una "via femminile" al potere,
citando naturalmente l'effetto Segolene Royal, la sociologa
Dominique Méda per dimostrare quanto la carriera penalizzi la
maternità ha fatto il conteggio sui figli dei politici. Il
risultato, analizzando ad esempio il governo Zapatero, è che gli
otto ministri spagnoli in carica "totalizzano in tutto 24 bambini,
mentre le otto ministre solamente cinque". La sproporzione è
evidente, e rende, bene, l'altra faccia della demografia in
negativo.
È questo su tutti il dato che sembra colpire di più, nella giornata
della donna anno 2007 in cui i bilanci sono sempre più
transnazionali, uniscono cioè l'Italia alla Germania, l'Inghilterra
alla Spagna, il Belgio alla Grecia, e ciò che accomuna le donne
europee è che fare un figlio, o magari due è diventato un ostacolo,
spesso insormontabile, al fare carriera, o al semplice mantenimento
del posto di lavoro. Spiega Giovanna Altieri, direttore del centro
studi Ires-Cgil, che al tema ha dedicato un lungo articolo dal
titolo: "Sempre di più al lavoro, sempre meno pagate". "Spesso
accade che dopo una gravidanza i contratti non vengano rinnovati o
che alla lavoratrice diventata mamma si faccia capire che il suo
posto, quello conquistato a fatica con la laurea e magari il master,
non sia più tanto adatto a chi ha un bambino da accudire.
E allora le mansioni vengono cambiate, ed è l'inizio in molti casi
un retrocessione non dichiarata ma effettiva. È il primo passo di
quello che gli esperti chiamano gender pay gap, termine tecnico per
indicare quanto non solo in Italia, ma in tutta Europa, a parità di
nastri di partenza, uomini e donne si ritrovino poi nel mondo del
lavoro ben distanti gli uni dagli altri". Ciò che le donne scontano,
e questo è un aspetto tutto italiano, è la carenza di servizi che
aiutino nell'accudimento di un figlio, e la rigidità degli orari di
lavoro. Con il risultato che ancora oggi il 25% delle donne del Sud
e il 19% di quelle del Nord dopo la nascita del primo figlio si
ritrovano disoccupate. Un vero esercito che l'Istat ha catalogato
con il nome di "lavoratrici scoraggiate": la maggior parte abbandona
perché assediata dall'impossibilità di conciliare maternità e
professione, ma un buon numero, il 5,6 % viene invece licenziato
allo scattare della gravidanza.
Un vero controsenso insomma, che mentre registra un boom di donne
con alte specializzazioni, (il 59% di tutti i laureati della Ue), le
penalizza fortemente nel desiderio di figli e maternità. Conclude
Giovanna Altieri: "Tutte le ricerche dimostrano che le donne
vorrebbero almeno due figli e sono spesso costrette a fermasi ad
uno. Ma la rigidità del mondo del lavoro è uno dei principali motivi
del calo demografico, anche in quelle coppie giovani, dove la
divisione dei ruoli e la cura dei bambini sono finalmente paritarie
e simmetriche".
«Cento aerei da passeggio»
Franca Rame e Dario Fo
Evviva! Avremo anche noi una potente
aviazione da guerra con la bellezza di 133 aerei da combattimento
che abbiamo appena ordinato agli Stati Uniti. Qualche giorno fa il
senatore Lorenzo Forceri, su incarico del Governo, si è
appositamente recato, quasi in segreto, a Washington per firmare
l’accordo. L’acquisto ci costerà molto caro, ma alcuni tecnici della
coalizione governativa ci assicurano che sarà un affare. Ogni
macchina da guerra volante verrà assemblata in Italia, esattamente
in un grande atelièr di alta meccanica presso Novara. Ci lavoreranno
circa 200 operai.
Evviva! Così abbiamo risolto il problema dell’occupazione e dei
precari. E’ importante sapere il nome con cui vengono ufficialmente
chiamati questi apparecchi d’assalto: Joint Strike Fighter che,
tradotto un po’ all’ingrosso, significa caccia bombardiere d’attacco
e immediata distruzione.
Ma scusate: Prodi e il suo apparato governativo non ci avevano
assicurato che tutte le nostre missioni all’estero, a cominciare
dall’Afghanistan, sarebbero state assolutamente missioni di pace e
profondamente umanitarie? Io mi credevo che “immediata distruzione”
significasse cancellazione totale di obiettivi militari e anche
civili casualmente abitati dalle solite vittime collaterali con
lancio di napalm, bombe a grappolo e fosforo bianco. “No!”, sono
stato subito corretto dalle dichiarazioni dei ministri della guerra
Usa. Ci hanno spiegato che quelle bordate di luce accecante sono in
verità luminarie per creare effetti festosi e rendere splendenti le
immagini paesaggistiche della zona. Ma veniamo al dunque.
Cosa costa in realtà ogni singolo “Fighter Distructor”? Ecco la
cifra: esattamente 100 milioni di euro cadauno. Ma non si concedono
prototipi singoli: il contratto vale solo se si acquista lo stormo
al completo. Nel nostro caso si tratta di 133 aerei. Prendere o
lasciare! Così il blocco volante ci verrà a costare 13 miliardi di
euro più trasporto, assemblaggio, tecnologia di ricambio, macchine
robotiche e uno staff di tecnici della casa costruttrice per la
manutenzione e le varianti tecnologiche, giacché il vero collaudo
dei volatili meccanici dovrà svolgersi sulle nostre basi che
evidentemente abbisogneranno di strutture e hangar speciali. Gli
apparecchi di questo stormo avranno eccezionalmente la facoltà di
essere riforniti di carburante in volo, quindi la nostra squadra
fighter dovrà essere dotata di apparecchi cisterna che seguiranno la
flotta di combattimento per pompare a tempo debito il pieno
necessario all’azione. Nelle spese dobbiamo ancora aggiungere
l’assetto tecnico per i piloti in combattimento: armi leggere di
bordo, mitragliatrici da 20 millimetri, razzi e missili, qualche
cannone per non essere da meno e la possibilità di caricare ogive
atomiche tattiche o pesanti. Il tutto non è compreso nel prezzo
iniziale.
Alcuni tecnici da noi interpellati hanno sparato costi da capogiro.
Sempre a livello di miliardi di dollari! Una cifra che da sola ci
permetterebbe di risolvere d’acchito il problema della
disoccupazione giovanile in Italia, aggiunto al problema delle
pensioni, oppure finalmente finanziare la ricerca. Ma che
scherziamo?! Buttiamo i denari per le pensioni agli anziani e gli
asili nido, con ‘sti vecchi che continuano imperterriti a campare
oltre il limite mondiale stabilito dall’Onu, e i neonati la cui
percentuale di sopravvivenza dopo il parto è cresciuta a
dismisura?!! E menomale che possiamo avvalerci di una sanità da
terzo mondo! L’Italia deve tornare a livelli guerrieri dell’antica
stirpe, pardon… l’aveva già detto Mussolini? Come non detto! E poi
vogliamo giocarci l’amicizia del Governo di Bush presentandoci
inermi al prossimo conflitto? Basta con questo popolo di mammoni e
di “tengo famiglia”. Sacrifichiamo i nostri pochi quattrini, che del
resto non abbiamo, pur di guadagnarci una degna alea di potenza
guerresca. Facciamoci valere per dio!, come disse un nostro degno
politico. Chi l’ha detto? Bondi? La Russa? Berlusconi? Lasciamo
correre… e torniamo alle cose serie.
Il fatto curioso e nello stesso tempo sconvolgente è che nessun
giornale, fra i numerosi cosiddetti indipendenti, ne abbia parlato,
o almeno dato accenno, a partire da la Repubblica, il Corriere, il
Messaggero etc. L’unico che ne aveva trattato largamente è il
Manifesto. Ma prima di questo quotidiano, chi ha dato notizia
dell’inqualificabile acquisto? Due vescovi del Piemonte che in un
comunicato osservavano che l’acquistare un così gran numero di
potenti aerei da combattimento, attacco e distruzione non era certo
un amoroso segnale di pace e non faceva intravedere un programma
consono alla costituzione italiana che “ripudia la guerra”. Anzi, se
si accumulano armi per guerre dette preventive arriverà il momento
in cui bisognerà pure adoperarle. E ancora i vescovi si chiedono: a
che servono simili ordigni di morte in un programma di aiuti
umanitari, costruzione di scuole, asili nido, ospedali,
distribuzione di cibo e medicine?
E sullo stesso argomento leggiamo sul sito di Pax Christi: il
governo italiano ha pochi soldi e vi sembra sensato che si
sperperino miliardi per procurarci un assetto di quella potenza
distruttiva? Sappiamo che l’intento del comando militare USA in
Pakistan è di sferrare nell’immediata primavera, in collaborazione
con tutti i reparti militari che operano nel Paese sotto l’egida
dell’Onu, un attacco definitivo contro i talebani, che si stanno
fortemente riprendendo nelle regioni del Sud in loro possesso. E il
comando Usa ribadisce, se mai non si fosse capito: tutti i
contingenti di varie nazionalità dovranno partecipare all’attacco a
fianco delle forze americane. Quindi niente manfrine e furberie d’acquattamento:
guai a chi scantona!
Ecco perché il governo italico firma impegni d’armamento d’attacco
pesante! È come dire: io ci sto, ci stiamo armando. Ho detto
armando? Mi ricorda una canzone: è caduto giù l’Armando. Ma non
scherziamo!
Per finire con i diabolici Fighter, c’è un ultima notizia,
naturalmente taciuta dal nostro governo libero e giocondo, una
notizia tenuta nascosta dai quotidiani governativi e d’opposizione,
radio, televisioni e svelata soltanto sul sito di Pax Christi, sul
Manifesto, e da alcuni movimenti pacifisti nei loro blog. I velivoli
in questione sono prodotti da una nota impresa aeronautica, la
Lockheed, la stessa che una trentina d’anni fa pagò
nostri ministri e capi del governo della Dc, versando miliardi in
tangenti, perché lo Stato italiano scegliesse di acquistare da loro
speciali aerei da guerra. Ma allora è proprio un vizio! È inutile,
quello è il motto dei nostri dirigenti moderati: “Se proprio non
vuoi prostituirti, almeno chiudi un occhio e collabora!”.
Ma qui c’è un’ulteriore notizia veramente gustosa: veniamo a sapere
che la Lockheed in questione ha proposto l’acquisto degli stessi
“Fighter-ammazza-e-fai-strage” all’Olanda. Il governo dell’Aia, come
sua abitudine, di democrazia reale, ha reso nota al pubblico
l’operazione e ha richiesto all’America i progetti e gli abbozzi di
prototipi. Dopo averli esaminati per lungo tempo con la consulenza
di ingegneri specialisti del settore, ha decretato: “Grazie, ma non
se ne fa niente. Questi apparecchi non corrispondono ai requisiti
che si promettevano nel progetto. Per di più ci verrebbero a costare
una pazzia e noi non siamo in grado di sostenere un simile salasso.
Quindi rigettiamo la proposta. Ci spiace, ma sarà per un’altra
volta.”
Il nostro governo, invece, non ha bisogno di produrre inchieste,
verifiche e controlli. Noi si va sulla fiducia! Acquistiamo a
scatola chiusa, senza nemmeno conoscere quale sarà il prezzo finale
di ogni aereo, al termine dei collaudi e delle varianti. Se poi non
funziona sono fatti nostri. Vogliamo disdire il contratto? Passare
per anti-americani?! Non se ne parla nemmeno. Ingoiamo il rospo e
speriamo che voli!
Vicenza: una base militare? No… solo culturale! Ma forse abbiamo
tergiversato un po’ troppo. L’argomento principale di cui dobbiamo
trattare è quello di altri aerei e altri aeroporti… in particolare
parleremo dell’allargamento della base militare Usa a Vicenza.
Ma il tema che vi proponiamo è ancora più ampio e coinvolge tutte le
basi americane in Italia e in Europa. Perché vi facciate un’idea
realistica, le basi militari Usa conosciute nel mondo sono oggi
oltre 850, il doppio di quelle dell’impero romano d’occidente nel
momento della sua massima espansione. In Europa sono 499. In otto di
questi siti europei sono custodite 480 testate nucleari (Left 26
genn). Un esercito di 150.000 uomini (civili e militari) presta
servizio in queste basi. Una città… come Vicenza!
Mantenere un simile assetto costa 10 miliardi di dollari l’anno solo
per la manutenzione ordinaria. Ottanta milioni di dollari vengono
spesi soltanto per tenere in ordine i campi da golf dove si
sollazzano gli ufficiali. Se non fai un po’ di moto, sparando
palline qua e là, che vita è? Con questo malloppo di dollari si
potrebbe risolvere il problema dell’Aids in Africa oppure, con un
po’ più di impegno, la fame nel mondo.
A queste basi va aggiunto un numero imprecisato di strutture segrete
– avamposti per le intercettazioni delle comunicazioni, centri di
spionaggio, basi aeronavali e sommergibilistiche – spesso invisibili
allo sguardo ma pienamente operative per fini sconosciuti. Questa
caterva di basi, visibili e segrete, di fatto sconvolge
letteralmente la vita dei territori dove vengono insediate e ci fa
capire – come diceva il grande storico e filosofo francese Michael
Foucault – come oggi la sovranità imperiale non sia più basata,
semplicemente, sul potere di dare la morte – per esempio attraverso
la guerra – ma sul potere globale esercitato sulla vita delle
persone. Per introdurvi nel clima davvero tragico che questi servizi
imposti determinano nella popolazione entriamo subito in argomento
con un esempio di forte impatto.
In Italia le installazioni americane, cioè basi, radar, magazzini…,
sono 113. Conosciamo le spese militari degli Usa nel nostro Paese e
conosciamo anche le spese sostenute dallo stato italiano. Attenti!,
non grazie a dichiarazioni dei nostri governi (per carità: il motto
“Taci che il nemico ti ascolta” l’abbiamo imparato da tempo. È
entrato nel DNA e qui il nemico cui non bisogna far sapere niente ce
l’abbiamo in casa: sono gli abitanti del nostro Paese)… Le notizie
sulle spese le abbiamo ricevute dall’ultimo rapporto ufficiale reso
noto dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti. Alla pagina
“B-10” del rapporto Usa c'è la scheda che ci riguarda: vi si legge
che il contributo annuale alla “difesa comune” versato dall'Italia
agli Usa per le “spese di stazionamento” delle forze armate
americane è pari a 366 milioni di dollari. Tre milioni, spiega il
documento ufficiale, li versiamo cash, contanti, mentre gli altri
363 milioni arrivano da una serie di facilitazioni che il governo
italiano concede all'alleato: si tratta (pagina II-5) di «affitti
gratuiti (di caserme, case e palazzi), riduzioni fiscali varie e
costi dei servizi ridotti». Per inciso ciò che le imprese del
Nord-Est e del Meridione chiedono disperatamente da anni al governo
di Roma senza ottenerlo, gli Usa lo incassano in silenzio già da
molti anni. Pronto Usa? Cash, tac!
Dunque il 41 per cento dei costi totali di stazionamento è a carico
del governo italiano. Più dell'Italia pagano solo Giappone e
Germania (tabella di pagina E-4). Ma calmi… se fidiamo nella
disponibilità dei nostri governanti arriveremo a raggiungerli e
anche sorpassarli!
Ora entriamo in altri particolari, cominciando con il descrivervi la
situazione in Sardegna. Perché iniziamo proprio da quest’isola? Per
la semplice ragione che qui è concentrato il 60% dello spazio
occupato dalle basi militari Usa in Italia. In Sardegna abbiamo il
grande poligono che comprende le aree di Quirra, Perdasdefogu e capo
San Lorenzo. E dobbiamo segnalare la base navale più importante per
sommergibili atomici, quella sull’isola di Santo Stefano, la
Maddalena, che occupa, di fatto per intiero, la piccola e ridente
isola degna d’essere ritenuta dall’Unesco patrimonio dell’umanità.
Particolare interessante: chi ha fatto dono agli Usa di questo
spazio della costa Smeralda è in persona Giulio Andreotti circa 30,
35 anni fa. Dio gliene renda merito! Il mare che circonda l’isola è
proprietà della base a tutti gli effetti, a partire da esercitazioni
e collaudi. Sul fondo rotolano di continuo proiettili di varie
dimensioni che in seguito alle mareggiate si ritrovano sulla
spiaggia.
È inutile dire che in quella zona la balneazione è proibita. Così
come per i pescatori proibito è stendere reti nel golfo e dintorni
dell’isola. Qualche anno fa ha fatto scalpore la notizia che uno dei
sommergibili atomici della
base aveva subito un incidente che ha messo in grave pericolo la
vita degli abitanti dell’isola e dell’intiero spazio acqueo. Il
fatto è avvenuto esattamente il 25 ottobre 2003. In quel caso il
sommergibile atomico Hartford andò a incagliarsi nella Secca dei
Monaci, presso la Maddalena, riportando seri danni. Il fatto fu
ritenuto tanto grave da indurre il comando Usa a sospendere il
comandante del sommergibile. L’incidente è stato tenuto celato come
al solito dalle autorità italiane e se n’è saputo qualcosa solo
grazie alle dichiarazioni del comando Usa. C’è stata perdita di
materiale radioattivo? E le notizie dei numerosi casi di leucemia,
come le mettiamo?! Mah…
Le autorità americane interrogate non hanno rilasciato alcuna
notizia sull’eventuale contaminazione del fondale e delle acque.
Solo recentemente, in seguito a manifestazioni iniziate nella
piccola isola e riprese in tutta la Sardegna, agenzie straniere
hanno condotto alcuni sondaggi scientifici in zona. Esiti delle
ricerche eseguite da istituti indipendenti (tra i quali il francese
CRIIRAID) hanno rivelato una presenza abnorme di radionucidi nelle
alghe.
Da qui sono nate dimostrazioni di protesta da parte degli abitanti e
in particolare dei pescatori che vedono ormai compromessa la propria
sopravvivenza, sia fisica che di lavoro. Le stesse analoghe
manifestazioni di protesta sono esplose a Capo Teulada nel sud
dell’isola, dove in seguito alle ripetute esercitazioni militari i
pescatori si trovavano costretti a non poter calare le reti nelle
acque prospicienti la costa, fra l’altro le più pescose. Durante una
di queste proteste, i manifestanti che si erano avvicinati alla zona
off limits con le loro imbarcazioni hanno dovuto subire un vero e
proprio speronamento da un’imbarcazione della marina militare
italiana (9 marzo 2005). Paradossale che a proteggere i pescatori
siano intervenuti i marinai della base degli Usa. Grazie America!
Ad un certo punto il comando Usa della Maddalena ha sospettato che
la loro presenza non fosse molto gradita alla popolazione che vedeva
crescere le contaminazioni radioattive e si sentiva di fatto privata
del diritto di gestire liberamente la propria vita. Per di più ai
natanti d’ogni genere, compresi quelli dei turisti, non è permesso
di attraccare o gettare l’ancora in prossimità di quelle coste. Così
si è cominciato a raccogliere la voce che l’intiero contingente
navale americano stesse per traslocare altrove. Era questione di
mesi. Ma evidentemente era solo un sogno per quegli abitanti.
Infatti, secondo quanto riportato ultimamente dalle agenzie di
stampa e da alcuni quotidiani locali - Il Giornale di Sardegna e La
nuova Sardegna, in data 16 settembre 2005 -, gli Usa intenderebbero
prossimamente rafforzare la loro presenza nella base per sottomarini
nucleari dell'isola della Maddalena; il progetto prevede un
ampliamento della base pari a più del doppio delle volumetrie
concesse (da 50.000 metri cubi si passerebbe a 120.000). Insomma ci
si sono affezionati… andandosene ci lascerebbero il cuore… per cui…
raddoppiano!
Ed ora veniamo a noi, cioè parliamo di Vicenza, la città del
Palladio e culla della commedia dell’arte, il più famoso teatro
della tradizione antica italiana. Qui si sta progettando un
ingigantimento dell’attuale caserma Ederle e della realizzazione
della più potente base americana nell’Europa. Qui verrebbe ospitata
la nuova 173ma brigata aerotrasportata, che triplica la forza e gli
organici di quella ora divisa tra qui e le basi tedesche di Bamberga
e Schweinfurt. È proprio uno spasso constatare che mentre i
tedeschi, popolo guerriero, stufi di ospitare da più di mezzo secolo
le brigate degli amici d’America, li invitano a sloggiare, noi,
popolo canterino-pacifico, col nuovo governo di centro-sinistra
spalanchiamo felici le braccia per raccogliere quello che in
Germania non possono più sopportare. Ma siamo sicuri che questo
nostro sia un governo “nuovo”?
Però nella città del Palladio non vedremo giungere solo uomini. La
173ma brigata non è composta da soli paracadutisti e
aviotrasportati. Reca con sé un bagaglio più che consistente: 55
tank M1 Abrams (cioè proprio pesanti! Con cannoni da 90 a 120
millimetri), 85 veicoli corazzati da combattimento, 14 mortai
pesanti semoventi, 40 jeep humvee con sistemi elettronici da
ricognizione, due nuclei di aerei spia telecomandati Predator, una
sezione di intelligence provvista di diavolerie elettroniche, due
batterie di artiglieria con obici semoventi e i micidiali
lanciarazzi multipli a raggio lungo Mrls.
Un forza d’urto sufficiente a cancellare una metropoli! E già che
siamo sotto Carnevale si può ben dire una scatenata festa coi botti!
A detta del generale James L. Jones la 173ma brigata è da chiamarsi
“maglio mobile con la potenza di fuoco di una divisione d’attacco
immediato”. Per chi ama il cinema il nome 173ma brigata fa subito
venire in mente Apocalypse Now, dove proprio il contingente
d’attacco in questione si esibiva al comando di un capitano-cowboy
nella distruzione di villaggi e massacro di popolazione in Vietnam
al suono delle Valchirie di Wagner.
Prego… benvenuti nella dolce Padania, accomodatevi! Mentre
sorpassate coi vostri elicotteri bombardieri il Mekong, sì voglio
dire… il nostro Po, per delicatezza, vi dispiace mettere in onda il
Va pensiero di Verdi se in un
momento di euforia vi scappa di gettare napalm? Ma il nostro
governo, attraverso i suoi ministri, insiste ad assicurare che nella
base non ci saranno armi di alcun genere, neanche temperini e
tagliacarte!
A parte i lazzi da commedia dell’Arte, per ospitare degnamente tutta
questa forza di fuoco, abbisogneranno strutture e sovrastrutture
nuove ed efficienti. Il movimento di questi mezzi d’attacco, camion
blindati, carri da sfondamento, tank…, avrà bisogno di strade adatte
e solide… soprattutto sgombre. Non si accettano ingorghi e traffico
caotico, niente biciclette, bambini e vecchietti curiosi. Stare alla
larga, prego!
Il Ministro Parisi ha tranquillizzato la popolazione, letteralmente
garantendo che: “Il governo ritiene suo dovere vigilare affinché le
opere che verranno realizzate siano rispettose delle esigenze
prospettate dalle comunità locali, con particolare riferimento
all’impatto sul tessuto sociale, sulla viabilità e sulla rete dei
sottoservizi.” (la Repubblica, 31 genn. P. 10) Inoltre ha assicurato
che il Comune sarà esonerato dalle spese per le infrastrutture e che
i servizi sportivi, scolastici e naturali (ora in funzione, da
abbattere) verranno ricollocati e ricostruiti altrove a carico degli
americani. Ricostruire? Ma dove? Quando? Dov’è il progetto da
discutere?
C’è proprio da farsi una grossa risata. Già che c’era, il nostro
ministro della guerra, pardon della Difesa!, poteva anche giurare
che le autorità di controllo del governo italiano hanno libero e
continuo diritto di accesso nella base in ogni ora o momento senza
preavviso, onde verificare che i responsabili della base stessa
stiano proseguendo come da regolamento previsto. Chissà se ai nostri
controllori della Repubblica italiana sarà permesso anche di
verificare che nella base di Vicenza, oltre che a uno stivaggio di
svariate tonnellate di proiettili di vario calibro, non si trovino
per caso anche ogive atomiche.
Stiamo esagerando? Facciamo del terrorismo gratuito? E allora,
eccovi qua la testimonianza del Natural Resources Defence Council
(Stati Uniti). Secondo questa autorevole fonte sarebbero 40 le
testate nucleari stoccate nella base di Torre di Ghedi (provincia di
Brescia) e 50 quelle custodite ad Aviano, della potenza variante da
0,3 a 170 chilotoni (quella della bomba sganciata su Hiroshima era
di circa 15 chilotoni), tutte bombe, queste, stivate nelle nostre
basi a disposizione di Tornado anche dell’aviazione militare
italiana. Se gradisce… Quindi stiamo tranquilli, noi qui nel nord
siamo al caldo!
Qualcuno, scrivendo su testate di prestigio, si è chiesto se non
fosse stato più ragionevole e comodo scegliere come base e relativo
nuovo aeroporto uno spazio più consono, situato in una piana meno
abitata e sgombra di fabbriche come è la zona intorno a Vicenza, il
cui centro dista meno di due chilometri dall’aeroporto in
costruzione. A parte il frastuono al quale saranno sottoposti gli
abitanti, sorvolati di continuo da jet urlanti in quantità da
incubo, essi vicentini saranno vivacemente irrorati dagli scarichi
del carburante a iosa… tutta salute!
“Ci voleva poco – commenta l’autore dell’articolo – a trovare nella
nostra penisola qualche spazio più adatto alla bisogna.” Ma ecco che
in merito risponde Lutwack, il noto consulente strategico del
governo Bush che spesso appare ospite sulle nostre reti televisive,
che parla come Stanlio e Olio. (Forse esegue parodia con accento
inglese) Egli ammette che sarebbe stato facile trovare un altro
spazio meno urbanizzato, ma la scelta di Vicenza è dovuta al
particolare che una grande percentuale di militari delle truppe
ospitate proviene da università e college prestigiosi, dove ha
condotto studi umanistici e d’arte. Per cui essi specificamente
hanno richiesto di potersi insediare nei pressi di una città d’arte
famosa come la patria del Palladio, onde poter arricchire la propria
cultura e godere del piacere insostituibile della bellezza.
Quindi, vicentini, siate orgogliosi per la scelta che hanno fatto le
truppe di sfondamento aerotrasportate. Sì, dovrete sopportare
qualche fastidio, a partire da un traffico d’inferno, pericolo di
contaminazioni radioattive,
controlli continui, divieti, rischiare di essere scambiati per
terroristi…, ma non si può avere tutto dalla vita: la gloria e pure
la tranquillità e il benessere! Quindi godetevi ‘sta pacchia!!!
Alleluia!!!
Stati Uniti
C'è qualcosa che non va
La «sindrome cinese» affascina i
media: tutta la stampa interpreta la caduta delle borse nell'ultima
settimana come una conseguenza, un effetto domino, della crisi della
borsa di Shanghai. Certo, la borsa cinese è una piazza emergente, ma
è ancora una borsa abbastanza piccola, in grado - al massimo - di
influenzare le altre borse orientali. In realtà il malore arriva
soprattutto sull'altra sponda del Pacifico: da una piccola
recessione, per ora senza dati negativi, per quanto riguarda la
crescita del Pil, che sta caratterizzando l'economia Usa.
Un rallentamento della crescita era atteso: dopo 5 anni di vacche
grasse era impensabile che il Pil potesse continuare a crescere a
tassi del 4-5 per cento l'anno. Nell'ultimo trimestre del 2006 il
trend di crescita si è ridotto a poco più del 2%, quasi niente
considerando che nell'intero anno il Pil è salito del 3,6%. Certo,
il prodotto lordo per ora seguita a crescere, ma si rafforza il
timore che entro l'anno il Pil possa finire in territorio negativo.
Un ulteriore brutto segnale in questa direzione è la forte caduta
della fiducia delle famiglie che non è qualche cosa di astratto
bensì un sentimento fondamentale che spinge a accelerare i consumi o
a frenarli per paura del futuro. E se dovessero crollare anche i
consumi sarebbero dolori. Altri dati confermano che le cose non vano
bene. Ieri. ad esempio, è stato diffuso il dato sugli ordinativi
all'industria: in gennaio hanno fatto un tonfo del 5,6%, la maggiore
caduta degli ultimi sei anni. Ancora peggio sono andati gli
ordinativi di beni durevoli in retromarcia dell'8,7%, uno scivolone
che ha riportato a quanto accaduto nell'estate del 2000 quando
l'economia Usa cominciò ad avviarsi in una recessione che pochi
avvertivano, anche a causa delle statistiche sballate che venivano
diffuse e che solo dopo un paio di anni sono state corrette.
Contribuendo, tra l'altro, ad accreditare la convinzione che la
recessione Usa fosse legata all'11 settembre.
La caduta degli ordinativi (anche quelli militari, anche quelli dei
mezzi di trasporto) arriva dopo la conferma delle difficoltà del
settore immobiliare la cui bolla si sta progressivamente sgonfiando,
provocando guai non solo al settore produttivo, ma anche a quello
finanziario e ai consumi. Di più: nel quarto trimestre la
produttività è aumentata solo dell'1,6%, mentre il costo del lavoro
è balzato del 6,6% e in media d'anno del 3,2% come non accadeva dal
2000. La recessione si avvicina e questo alle borse non piace.
Se non mi firmi in bianco le dimissioni, non ti assumo
Le parlamentari dell'Unione presentano un disegno di legge contro le «dimissioni coatte» anticipate che i padroni pretendono dai lavoratori al momento dell'assunzione, per poterli cacciare «legalmente» in futuro
Carla Casalini
Cosa sono le «dimissioni in bianco»?
Semplice, e lesiva di dignità e libertà, è la pratica che si nomina
a partire dal suo senso letterale: un foglio con una firma
preventiva del «lavoratore», al momento dell'assunzione, che sarà
usata in seguito dal «datore di lavoro» quando vuole disfarsi di
lui/lei, facendo figurare l'uscita dal luogo di lavoro come una
scelta «volontaria» del prestatore d'opera - «c'è la sua firma sul
foglio di dimissioni!».
Chi non ci sta a siglare in anticipo il proprio licenziamento
mascherato, non viene assunto, e il ricatto prosegue per tutto il
tempo in cui si trova in quell'impresa, se per caso si ammala o gli
capita un 'infortunio' da lavoro. Il segno 'letterale' traduce
infatti una pratica corposamente concreta - la dipendenza nel tempo
quotidiano di una vita -, e simbolica - l'esercizio di un potere
direttamente personale che sa di un passato feudale riciclatonon
solo dal «postmoderno» ma ben da prima, come testimoniano le prime
norme «contenitive» già negli anni '60. Ma le «dimissioni estorte»
ai prestatori d'opera sono difficilmente quantificabili, perché ci
si può basare solo sui ricorsi ai tribunali dei lavoratori, dopo la
loro cacciata: e dunque «si stima, ma per assoluto difetto, che ci
siano 18 mila casi all'anno».
I numeri li ha forniti ieri a palazzo Madama il dirigente nazionale
della Cgil Claudio Treves, intervenendo nella conferenza stamnpa in
cui le senatrici del Centrosinistra hanno presentato un «disegno di
legge per neutralizzare gli effetti della richiesta preventiva della
sottoscrizione di dimissioni in bianco da parte del lavoratore».
Silvana Pisa, Vittoria Franco, Anna Maria Carloni, Colomba Mongiello
(Ulivo) e Maria Luisa Boccia (Rifondazione) hanno illustrato il
testo (già presentato alla Camera da Marisa Nicchi e altre). «Ci
auguriamo che l'esame possa iniziare subito», invita Silvana Pisa,
segnalando, con Anna Maria Carloni, il maggior «potere di ricatto»
che questa pratica padronale si permettere al sud.
Un disegno di legge stringato, di due soli articoli con annessi
commi, che si concentra sulla prescrizione di «appositi moduli,
predisposti e resi disponibili, gratuitamente, dalle direzioni
provinciali del ministero del Lavoro e dagli Uffici comunali»,
dotati di un «codice alfanumerico progressivo di identificazione,
nonché di spazi da compilare» da parte del lavoratore firmatario su
«identificazione del prestatore d'opera, del datore di lavoro, della
tipologia di contratto da cui si intende recedere, della sua data di
stipulazione ...».
Colomba Mongiello ieri ha poi proposto di inserire questi due
articoli «all'interno della riforma del processo di lavoro all'esame
della commissione di palazzo Madama». Abbiamo chiesto perciò a un
giurista come Massimo Roccella, a conoscenza del testo sul «processo
di lavoro», che cosa pensa di questo nuovo disegno di legge. delle
parlamentari dell'Unione. «Tocca un problema serio e reale -
aderisce Roccella - e l'intenzione è ottima, anche se va qua e là
precisata tecnicamente»: fra i punti che il giurista propone di
«precisare», il più importante ci sembra la necessità di risolvere
il problema di chi - prestatore d'opera che deve compilare i moduli
- non è «alfabeta», come le migliaia di lavoratori extracomunitari
che non maneggiano bene l'italiano.
Roccella ricorda anche che per la «maternità» ma anche per la
«paternità», biologica o adottiva, esiste già una protezione contro
le «dimissioni estorte» nel decreto legislativo 151 del 2001. Ma le
senatrici, ieri, hanno infatti parlato delle limitazioni alla
libertà di tutti, «donne e uomini». Quel che invece colpisce -
questa volta in negativo - nel testo delle senatrici, è per noi
leggere l'elenco minuzioso delle «tipologie» di contratto cui si
rivolge il nuovo disegno di legge, fino a quelle più ambigue e
spurie: non ne capiamo il motivo, visto che questa appare una, certo
involontaria ma pur sacrosanta, legittimazione - per via indiretta -
fin delle più odiose forme di lavoro precario.
7 marzo
6 marzo
Le sentinelle di Ratzinger
Dario Fo
Se penso a Giulio Andreotti e a
Clemente Mastella nelle vesti esilaranti di sentinelle della
moralità mi torna in mente la comicità americana di cinquant'anni
fa, il curvo e il grasso. E cosa dovrebbero fare questi guardiani
del presunto comune senso del pudore? Ma è ovvio, vigilare perché si
eviti di concedere spazi e diritti agli omosessuali, o alle coppie
di fatto. È un brutto segno questa irruzione oscurantista e
clericale nella politica. Sul versante immediato si è avuta la
conferma che i due senatori forse un po' sciagurati che si sono
rifiutati di votare senza valutare fino in fondo le conseguenze,
sono stati poi usati come capro espiatorio della mini-crisi di
governo. Invece, è evidente a tutti che il governo è stato fatto
cadere per interessi ben diversi e per mano di alcuni senatori a
vita. È da quando ho memoria che ho a che fare con gli oscurantismi
di Andreotti, Franca Rame e io ce lo ricordiamo bene. Fosse per lui
sono certo che sui gay chiederebbe ancora la censura, è colpa della
scuola da cui proviene. Sono posizioni clericali, non cattoliche,
quelle che esprime.
È in atto un arretramento, insieme ai diritti dei gay e delle coppie
di fatto, del livello culturale del paese. È come se, impugnando i
Dico, i nostri politici avessero aperto il congelatore per infilarci
tutti i problemi importanti che questo governo avrebbe dovuto
affrontare. Penso ai conflitti internazionali e al ruolo dell'Italia
in essi, penso alle spese militari e ai 100 aerei F-35 Lighting
(fulmine) che abbiamo acquistato dagli Stati uniti per un miliardo
di dollari. A proposito, mi dicono che dietro quegli aerei da guerra
c'è la Lockheed. Ve la ricordate la Lockheed e lo scandalo di
qualche governo fa? Nel congelatore c'è posto anche per il conflitto
d'interessi, e vorrei sapere che ne sarà degli altri temi sociali,
la lotta alla precarietà, o un diverso atteggiamento rispetto
all'emigrazione.
Dietro queste manovre e dietro questa deriva oscurantista vedo
ancora la vecchia Dc (siamo sicuri che non moriremo democristiani?)
e davanti a questa vecchia Dc vedo l'antico codazzo di vescovi e
cardinali. Ho un po' d'invidia per la Spagna, che in fatto di
subalternità clericale aveva ben poco da invidiare a noi: la Spagna
dimostra che a guidare i processi di rinnovamento è sempre la
politica. Certo, paghiamo scelte antiche, come l'aver accettato di
sovvenzionare scuole e università cattoliche. E' in questi luoghi,
pagati da noi contribuenti, che vengono forgiate le future classi
dirigenti.
Come possiamo fermare l'aggressione oscurantista e le due sentinelle
della buoncostume? Ogni volta che partecipo agli appuntamenti di chi
non vuole gettare la spugna mi accorgo che c'è un paese reale, un
popolo fatto di donne con i bambini in carrozzella come a Vicenza,
su cui dobbiamo investire. A manifestare contro le basi ho visto
tante persone non legate ai partiti, molte hanno votato a sinistra.
I nostri politici prima hanno tentato di far fallire quell'appuntamento
caricando il loro fucile con la polvere nera della paura, come ha
fatto il ministro Parisi, con l'intenzione di tener fuori la gente
semplice che magari era la prima volta che manifestava in piazza.
Poi, quando hanno sfilato 200 mila persone pacifiche e convinte
hanno fatto finta di non vederle, fino ribadire in modo
assolutistico: non possumus, perché pacta servanda sunt. Che
delusione, che impressione questa cecità.
Le due sentinelle ci sono perché sentono che uno spazio è stato
liberato dallo smottamento politico e culturale del centrosinistra.
Continuiamo a spingere, parlando, scrivendo e, con o senza la
benedizione del presidente Napolitano, scendendo in piazza.
Botte che non ti Dico
Per la Cassazione è meno grave picchiare la convivente che la moglie. Se fosse stata già approvata la legge Pollastrini, non sarebbe potuto accadere
Angelo Mastrandrea
Fosse già stato approvato il disegno
di legge contro la violenza sulle donne firmato dalla ministra
diessina Barbara Pollastrini, quanto avvenuto ieri non sarebbe
potuto accadere. Punto e basta. E invece, siccome in giurisprudenza
ogni interpretazione consolidata ha le sue eccezioni, eccone appunto
spuntare una perfettamente in linea con le parole di Giulio
Andreotti al Senato e la campagna anti-Dico della Chiesa ruiniana e
di mezzo (o forse più) parlamento italiano.
Il fatto in sé non sarebbe stato di quelli da consegnare alla
memoria, non fosse per il valore simbolico che assume in questo
momento storico. In sintesi, la Quinta sezione della Corte di
Cassazione ieri ha annullato una condanna a due mesi di reclusione e
al risarcimento del danno a un uomo di Potenza accusato di aver
picchiato la convivente. La Corte ha infatti ritenuto che a «il mero
rapporto di convivenza more uxorio non è idoneo ad integrare
l'aggravante» prevista in caso di violenze alla moglie. In parole
povere, si può più impunemente schiaffeggiare la propria compagna
rispetto alla moglie. In base a questo principio, l'uomo è stato
condannato solo a una multa di mille euro.
La Cassazione ha interpretato l'articolo 577 del Codice penale,
nella parte in cui è prevista l'aggravante per la sola commissione
del fatto contro il coniuge e non all'ex coniuge o al convivente,
nel senso che «il diverso trattamento normativo nei confronti del
coniuge non è irrazionale, tenuto conto della sussistenza del
rapporto di coniugio e del carattere di tendenziale stabilità e
riconoscibilità del vincolo coniugale». La stessa Consulta,
ricordano i giudici di piazza Cavour, «sebbene in relazione a una
causa di non punibilità, ha evidenziato che non è irragionevole o
arbitrario che il legislatore adotti soluzioni diversificate per la
famiglia fondata sul matrimonio, contemplata nell'articolo 29 della
Costituzione, e per la convivenza more uxorio: venendo in rilievo
con riferimento alla prima, a differenza che rispetto alla seconda,
non soltanto esigenze di tutela delle relazioni affettive
individuali, ma anche quella della protezione dell'istituzione
familiare, basata sulla stabilità dei rapporti, di fronte alla quale
soltanto si giustifica l'affievolimento della tutela del singolo
componente».
Un'interpretazione differente da quella consolidatasi nella
giurisprudenza degli ultimi anni, tanto che lo stesso ministero
delle Pari opportunità, spiegando il testo di legge sulla violenza
contro le donne, sostiene che l'equiparazione tra «maltrattamento in
famiglia» e «il comportamento lesivo posto in essere nei confronti
del convivente» non è altro che il riconoscimento di un orientamento
consolidato nelle aule di tribunale. La legge «zapateriana» (la
Spagna ha adottato simili provvedimenti immediatamente dopo la
vittoria socialista alle elezioni) si spingerebbe anche oltre,
inasprendo di un anno il minimo della pena detentiva, ed escludendo
la possibilità di equiparare, nella determinazione della pena,
circostanze attenuanti e aggravanti, facendo prevalere queste
ultime.
Nonostante il clima infuocato sui Dico, la sentenza ha incontrato il
silenzio assoluto del mondo della politica. Unica eccezione la
deputata della Margherita Maura Leddi, che ha definito la sentenza
«disarmante» e ha giudicato «inammissibile usare due pesi e due
misure quando si parla di violenza sulle donne». «Credo che un pugno
sia un sempre un pugno, qualunque sia il vincolo che lega due
persone, ed è davvero una vergogna per la nostra società che ancora
oggi, davanti alla violenza che colpisce il sesso femminile dentro e
fuori casa, si possa eccepire e distinguere sulla pelle viva delle
donne», ha concluso.
Far West in affitto
di Marco Lillo
Pochi appartamenti disponibili. Prezzi alle stelle. Edilizia pubblica inesistente. L'emergenza casa travolge le classi medie. E penalizza l'economia del Paese
Anna Grazia Wanderlingh è stata espulsa dalla sua città con una lettera. Abitava in via Tiburtina 150, a due passi dall'università, per quarant'anni ha diviso gioie e dolori con altre 65 famiglie in questo stabile popolare di San Lorenzo. Un giorno del 2004 i padroni hanno venduto il palazzo e i 700 euro di pigione improvvisamente sono diventati pochi. Gli studenti fuori sede sono disposti a pagare il triplo e così alla soglia dei sessant'anni, nonostante l'impresa di suo marito guadagni 26 mila euro all'anno, la signora Wanderlingh si è ritrovata troppo povera per Roma. Ha provato a resistere, ha sfilato in corteo, è andata al 'Maurizio Costanzo Show', ma è stato tutto inutile. Per sopravvivere decorosamente andrà a Santa Marinella, a 60 chilometri da Roma: 600 euro al mese. Vederla fare i picchetti davanti all'abitazione per difendere il suo diritto alla casa, con la sua acconciatura signorile e il maglioncino elegante accanto alla compagna Simona Panzino, la candidata 'senza volto' delle elezioni primarie dell'Unione, è la migliore prova che l'emergenza casa in Italia è diventato un problema di massa.
Canone selvaggio
Negli ultimi cinque anni i canoni a Roma sono aumentati del 62 per cento e in alcune zone sono persino raddoppiati. A Milano e a Firenze è andata peggio. Secondo il calcolo reso noto dall'Istat la scorsa settimana, nel 2006 l'inflazione ha avuto un picco per i ceti meno abbienti. Sono loro ad aver subito le conseguenze dell'aumento dei prezzi più degli altri, e il motivo di questo divario sta in buona parte nel caro-casa. Gli affitti impazziti rendono le nostre città simili all'America spietata descritta nell'ultimo film di Muccino. Basta un periodo nero al lavoro, un problema di salute e si finisce in un ricovero per homeless, come Will Smith ne 'La ricerca della felicità'. Roberto Basili, per esempio, la sua felicità l'ha persa nel novembre 2004, quando gli è arrivata una lettera che intimava a tutti i 14 inquilini del suo stabile di lasciare la casa. Lui era lì dal 1966, ex impiegato dell'agenzia viaggi della Fao, una moglie al ministero dei Trasporti, una vita tra ambasciatori e consoli, a 79 anni è costretto a vedersela con l'ufficiale giudiziario che vuole cacciarlo. Paga 600 euro al mese comprese le spese, ma la serena vecchiaia che progettava tra le quattro mura di via Caio Rutilio è andata in frantumi: "Chiedevano 1.500 euro al mese, ora sono scesi a mille, ma non ce la facciamo comunque. È un incubo. La notte mi sveglio pensando dove andremo. Mia moglie ha avuto un ictus e non posso trasferirla". Basili è un moderato che votava Partito repubblicano. Con moderazione, ma è indignato: "Se il Comune di Roma non interviene, a luglio finiremo per strada. I politici nazionali si disinteressano di noi. Solo il nostro municipio e il centro diritti di Action ci stanno dando una mano". Action è l'ultima spiaggia. Il movimento di estrema sinistra famoso per gli espropri dei palazzi sfitti non gode di ottima stampa, eppure svolge una funzione sociale fondamentale sul fronte del disagio abitativo. Grazie a un accordo con il Comune di Roma, garantisce in sei municipi della periferia i 'centri diritti', veri e propri sportelli aperti al pubblico con tanto di assistenza legale e psicologica.
La tribù dei senza casa
In passato negli uffici del centro diritti arrivavano solo immigrati ed emarginati. Ora ci sono 'i cartolarizzati', cioè gli inquilini dei palazzi degli enti previdenziali venduti dallo Stato per fare cassa; i 'privatizzati', cioè quelli che resistono nei vecchi palazzi di banche e assicurazioni, finiti in mano a società che sfruttano e sfrattano senza scrupoli; poi ci sono gli 'occupanti senza titolo', entrati nelle case popolari violando la legge e infine 'i nuovi poveri', le famiglie normali strappate alle abitudini borghesi dalla scadenza di un contratto. Per tutti il nemico numero uno è lo sfratto. E per difendersi, tutte le tribù del caro affitti si incontrano negli uffici di Action e fanno fronte comune. L'unione fa la forza, soprattutto quando bisogna resistere allo sfratto. I 'privatizzati' di via Marchisio, vicino a Cinecittà, per esempio, lunedì 5 febbraio hanno difeso le loro case schierandosi davanti al portone. Ma era il primo accesso, quello senza poliziotti. D'ora in poi ci sarà bisogno di rinforzi. Questa lunga stecca di appartamenti della periferia est di Roma dimostra l'effetto che fanno i paroloni come cartolarizzazione e privatizzazione quando atterrano dall'empireo degli economisti sulla pelle dei comuni mortali. Le Generali hanno ceduto in blocco il palazzo a un politico-imprenditore: Camillo Colella, un costruttore di Isernia che è anche esponente di spicco della Margherita molisana. Colella da tre anni cerca di buttare fuori 86 famiglie per realizzare una plusvalenza di 15 milioni, ma i 'privatizzati', guidati da Massimo Cappellani, vendono cara la pelle.
A Milano 15 mila in fila
Anche a Milano la situazione sta precipitando: per il Sunia, il sindacato degli inquilini, Milano è ancora la città più cara, anche se Roma sta rimontando e l'ha quasi raggiunta. Una casa di 80 metri quadrati in periferia, a Milano, porta via la metà del reddito a una famiglia che guadagna 30 mila euro all'anno. In queste condizioni è difficile arrivare a fine mese anche con due buoni stipendi in famiglia. Don Virginio Colmegna, il presidente della Fondazione Casa della carità, sempre più spesso è costretto a ospitare persone comuni che non riescono a trovare casa a un canone abbordabile. Chi guadagna meno di 1.200 euro al mese, a Milano è costretto a chiedere la casa popolare. Ma l'edilizia pubblica è inesistente. Negli ultimi dieci anni sono state costruite solo 494 case popolari e le richieste sono state più di 15 mila, metà delle quali presentate da extracomunitari, nonostante i criteri siano stati modificati a loro sfavore per privilegiare gli italiani sugli stranieri residenti da meno di cinque anni. Il Comune spende 470 mila euro all'anno per andare incontro alle situazioni più disperate. In albergo a spese del Comune ci sono anche famiglie che non ti aspetti, come una coppia di pensionati da mille euro al mese, che nel 2001, al rinnovo del contratto, ha dovuto lasciare l'appartamentino di via Padova, passato da 360 a 780 euro, spese escluse. Ora vivono in albergo e sperano in una casa popolare a Lorenteggio.
Blackout al mercato
Nel 2001 l'allora direttore generale di Confindustria, Innocenzo Cipolletta, prometteva: "Il mercato degli affitti dev'essere libero, perché aumentando l'offerta, i prezzi scenderanno". Cinque anni dopo, all'ultima assise di Vicenza, Confindustria ha presentato uno studio (firmato anche da Cipolletta) dove si legge: "La riforma non ha contribuito ad aumentare l'offerta di abitazioni in locazione e non ha avuto alcun effetto di rallentamento sulla dinamica dei canoni. Inoltre la penuria di abitazioni a basso costo ha acuito il disagio di determinati strati della popolazione". I dati del centro studi Ubh, che pubblichiamo qui a fianco, parlano chiaro: un appartamento di medio taglio e buon posizionamento a Roma costa il doppio che a Bruxelles e Amsterdam, più che a Francoforte, Berlino, Barcellona o Madrid. Solo Londra, Tokyo e New York restano molto più care. Mario Breglia, presidente della società di analisi Scenari Immobiliari, annuncia la discesa dei canoni: "Siamo arrivati ormai al livello massimo e in alcune città è cominciata la discesa". Ma le ragioni dello stop sono poco incoraggianti: "I prezzi scendono perché hanno toccato un limite fisiologico: gli inquilini non ce la fanno a pagare gli affitti richiesti dai proprietari".
Immobili e assenti
Secondo Confindustria, in Italia ci sono pochissime case in affitto e lo stock si è ridotto in pochi anni dal 35 al 19 per cento del patrimonio immobiliare totale. In Germania supera il 60 per cento. La politica è assente. Le risorse destinate al fondo di sostegno per i bisognosi si erano dimezzate durante il governo Berlusconi. Ora sono risalite, ma restano inferiori al livello del 2000, quando il problema non era così grave. Quel fondo, nel disegno iniziale, doveva servire a riequilibrare gli effetti negativi della liberalizzazione sulle fasce più deboli e indifese. In realtà la sua dimensione è ridicola rispetto al dramma che va in scena ogni giorno nelle grandi città. In periferia, l'affitto porta via metà del reddito di una famiglia benestante. Secondo lo studio di Confindustria ci vorrebbero più di 4 miliardi di euro solo per aiutare le famiglie sotto i 20 mila euro di reddito a trovare una casa.
Un ras per 50 senegalesi
Una delle ragioni del caro-affitti è
rappresentata dagli studenti e dagli immigrati che drogano il
mercato. Gli stranieri sono inquilini perfetti per i proprietari più
avidi. Recentemente al Sicet (il sindacato inquilini della Cisl) di
Milano si sono rivolte cinque famiglie che condividevano un
appartamento di 100 metri quadri in zona Giambellino. Ovviamente il
contratto era intestato a un solo nucleo. "Due famiglie vivevano in
una stanza, altre due nell'altra insieme a una quinta famiglia che
stava lì solo alcuni giorni a settimana. In totale quell'appartamento
rendeva 2.150 euro", racconta Leo Spinelli del Sicet. A Roma ci sono
interi palazzi fatiscenti affittati a gruppi omogenei di stranieri.
Basta fare un giro al Pigneto, a pochi chilometri dalla stazione
Termini, per scoprire un piccolo mondo in miniatura: in una
palazzina di tre piani a via Campobasso vivono 50 senegalesi
ammassati nelle condizioni scandalose denunciate da un'inchiesta
della 'Repubblica'. A due isolati di distanza, in via Avellino ci
sono gli eritrei, in via Fivizzano spunta un palazzo di peruviani,
in via Montecuccoli ci sono i cinesi. In via Fortebraccio ci sono i
somali. I senegalesi di via Campobasso sono 'ospiti' di un ras degli
affitti: il commendator Graziano Cristello, un settantenne calabrese
che già 15 anni fa era balzato agli onori delle cronache per le
condizioni disumane nelle quali vivevano i suoi inquilini senegalesi
di due palazzi su via Angelo Emo, all'Aurelio. L'affitto agli
stranieri è un buon affare.
Una stanza per uno studente vale 500 euro, l'extracomunitario
irregolare (che poi magari ci mette dentro altre quattro persone)
arriva a pagare fino a 800. Nelle città universitarie più piccole,
come Urbino, bastano 300 euro a stanza. A Bologna si torna ai
canonici 500 euro. Ma ci sono grandi gestori di immobili, come
l'avvocato Alessandro Gamberini o il geometra Elia Marzaduri, che
affittano a studenti e stranieri una stanza a canone concordato per
avere le agevolazioni fiscali. Sono stanze a buon mercato, non
sempre spaziose. Per esempio, una famiglia etiope con una bambina
vive in una tavernetta di Elia Marzaduri. Misura 15 metri quadrati,
il bagno è in comune, il canone è basso: 158 euro più le spese
(molto salate). Non ci si può neanche rivolgere a Radio Alice per
raccontare la storia, perché ora anche i locali della storica
emittente di via del Pratello sono stati affittati alle studentesse:
320 euro a letto.
La società congelata
Troppo spesso si guarda al
caro-affitti solo come a un'emergenza per i poveri. In realtà si
tratta di un freno alla ricchezza del Paese. L'Ocse,
l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo europeo, sostiene
che l'Italia si caratterizza per un grado bassissimo di mobilità
all'interno del Paese. Nel 2003, solo lo 0,6 per cento degli
italiani aveva cambiato regione di residenza nel corso dell'anno,
rispetto al 2,1 della Francia e al 2,3 del Regno Unito. Negli Stati
Uniti si arriva al 3 per cento. In un'economia flessibile la
difficoltà di trovare una casa in affitto diventa un ostacolo
insormontabile per la realizzazione delle persone.
L'istituto di ricerca Nomisma, su incarico dell'associazione
industriale di Bologna, ha studiato il problema dell'attrazione
della cosiddetta 'classe creativa'. Per Nomisma, "i giovani
lavoratori italiani o stranieri, di alto livello di istruzione e
profilo professionale a causa dell'elevata entità dei canoni di
locazione di mercato e del contenuto reddito di ingresso nella prima
occupazione in attività innovative e creative, potrebbero essere
indotti a non accettare proposte di lavoro che implicano il loro
trasferimento". Per attrarli, il comune di Bologna, secondo Nomisma,
dovrebbe cedere terreni edificabili a un fondo, nel quale entrerebbe
anche un finanziatore privato, per esempio una banca. Il privato, in
cambio del terreno, si dovrebbe impegnare ad accettare un reddito
basso nei primi 30 anni di vita del fondo. Gli appartamenti
realizzati sarebbero infatti affittati a canoni molto bassi, ma solo
ai giovani studenti e neolaureati. Finanza creativa per attrarre i
creativi.
hanno collaborato: Michela Suglia e Laura Venuti
La cupola delle tangenti
di Marco Lillo e Peter Gomez
La mappa delle mazzette dell'uomo di Storace. Le regalie proseguite con Marrazzo. Ecco la grande spartizione nel governo della Regione Lazio
Non è cambiato nulla. Rubano come
prima, anzi più di prima. Alcuni lo fanno col metodo classico della
mazzetta: la busta, o meglio il pacchetto pieno di soldi consegnato
ai politici in maniera nemmeno troppo furtiva, spesso negli
ascensori del palazzo in vetrocemento di via Cristoforo Colombo a
Roma che ospita gli uffici della Regione Lazio. Altri, invece, lo
fanno quasi alla luce del sole in occasione dell'approvazione di
ogni legge di bilancio, quando i consiglieri di maggioranza e
opposizione si spartiscono circa 30 milioni di euro di finanziamenti
gentilmente concessi a centinaia di organizzazioni, ufficialmente
senza fini di lucro, segnalate dai singoli esponenti di partito.
Il risultato è che 15 anni dopo l'arresto a Milano di Mario Chiesa,
nella Capitale tangentopoli continua. Con gli stessi vizi di sempre:
accanto ai collettori di bustarelle che raccolgono fondi neri per i
vertici delle formazioni politiche, c'è la solita pletora di
portaborse, dirigenti e funzionari ladri tout-court che fanno la
bella vita. Sopra ci sono infine i partiti (quasi tutti) che si
dividono in allegria e a norma di legge fondi pubblici dei quali poi
nessuno si prende la briga di verificare la reale destinazione. E
questa volta non è un 'si dice'. A raccontarlo, ai pm romani
Giancarlo Capaldo e Giovanni Bombardieri, sono due documenti
scoperti dai carabinieri nel corso delle indagini sulle truffe di
Lady Asl, l'imprenditrice che riusciva a far accreditare dalla
Regione le proprie cliniche e i propri laboratori sanitari, versando
tangenti a funzionari e politici. Un'inchiesta che ha già portato
all'arresto di una mezza dozzina di dirigenti regionali, di un capo
di gabinetto dell'ex governatore Francesco Storace e di un suo
assessore, ma che ora minaccia di estendersi a tutti i lavori
pubblici dell'era del centrodestra.
Operazione Torax Il primo documento è un file di un computer
intitolato Torax ('torace' in spagnolo). A scriverlo, con
l'intenzione di ricavarne una lettera da inviare a Storace, è stato
l'ex assessore ai Trasporti Giulio Gargano, attualmente agli arresti
domiciliari dopo aver patteggiato una pena a 4 anni e sei mesi per
lo scandalo della sanità. Gargano lo ha preparato per difendersi
dalle accuse di aver intascato denaro all'insaputa del partito,
mosse contro di lui all'interno di Alleanza nazionale. Con
precisione l'ex assessore fa allora il punto della situazione:
elenca tutta una serie di appalti relativi alla costruzione di
strade, ferrovie e acquisti di bus. Parla della privatizzazione
dell'azienda per il trasporto su gomma. Cita quasi tutte le grandi
opere del governo Storace più una serie di gare dell'Anas regionale,
l'Astral e della società a capitale misto che deve costruire la
bretella autostradale per Formia. Ricorda, infine, gli appalti per
le pulizie, per le assicurazioni e per la vigilanza. Spesso accanto
ai nomi delle aziende vincitrici (ci sono pure le cooperative rosse
e alcune imprese considerate vicinissime ad An) indica il nome dei
loro referenti politici e in un caso arriva a scrivere: "Tu dovresti
ripartire la cifra fra te, Forza Italia e Udc". Poi fa riferimento
quasi esplicito a delle somme di denaro mascherate da una serie di
'X'.
Assalto alla diligenza Il secondo documento è invece la lista delle
associazioni e degli enti a cui vengono erogati fondi pubblici in
occasione delle leggi di bilancio regionali (l'ultima risale al
2006). È un elenco lunghissimo che i carabinieri hanno per ora
acquisito solo nella parte riguardante 46 diversi finanziamenti
sponsorizzati dallo stesso Gargano e dall'attuale sottosegretario
alla Difesa Marco Verzaschi (Udeur), sotto inchiesta per corruzione.
Gli investigatori si sono resi conto che accanto al denaro stanziato
per iniziative meritevoli, come l'assistenza agli anziani, la
promozione di eventi culturali e sportivi, i finanziamenti alle
parrocchie, compaiono soldi destinati anche a una serie di
organizzazioni amministrate da parenti o collaboratori dei
consiglieri regionali. Il sospetto è insomma che alla Pisana (il
consiglio del Lazio) ci sia chi sostiene la propria attività
politica utilizzando denaro dei contribuenti. Il tutto in maniera
formalmente legale visto che quest'anno per ciascuno dei 70
consiglieri sono stati messi a disposizione 350 mila euro (100 mila
cash per le associazioni, più 250 mila in conto capitale per i
lavori pubblici); che erano 550 mila 12 mesi fa e addirittura circa
700 mila quando alla testa della Regione c'era ancora Storace. Ora i
capigruppo dei partiti di centrosinistra, con una lettera al
'Corriere della Sera', si affannano ad assicurare che la prassi è
perfettamente regolare, mentre la giunta Marrazzo spiega di aver
tentato di ridurre il più possibile gli stanziamenti. Sull'intera
materia è stata però aperta una seconda inchiesta, da parte del pm
romano Giuseppe De Falco, e dai primi accertamenti è emerso, per
esempio, il caso di un'associazione pro Amazzonia beneficiata con
più di un milione di euro che, secondo le denunce dei Comunisti
italiani, ha sede dove un consigliere ha il proprio gruppo politico
'rosso-verde': stesso indirizzo, stesso numero di telefono. È
probabile che in questa indagine finiranno per confluire anche le
dichiarazioni, ancora top secret, raccolte durante l'inchiesta su
Lady Asl che spiegano le apparenti differenze di trattamento tra i
vari consiglieri (più soldi gestiti da membri della minoranza
rispetto a quelli della maggioranza) con la necessità di garantire
agli sconfitti una sorta di risarcimento elettorale.
Piero MarrazzoPasqua di bustarelle Il clima che per anni si è
respirato in Regione e il via vai di denaro (lecito o meno) che
avveniva in quegli uffici lo raccontano, del resto, bene due
testimoni. "Ho visto nascondere sacchetti neri, tipo immondizia, in
un armadietto blindato. Chiaramente si trattava di versamenti per la
campagna elettorale", ha detto Dario Pettinelli, esperto in
comunicazioni e fino al 2005 membro dello staff di Storace. "Il
venerdì santo del 2002 o del 2003, mentre stavo uscendo dal palazzo
della Regione, un fattorino mi consegnò una colomba. Non ricordo chi
fosse il mittente, ma il nome non mi diceva nulla. Aprii la scatola
e scoprii che dentro c'erano 10 milioni di lire. Denunciai subito
tutto ai carabinieri", ha aggiunto spaventato Tommaso Nardini, sino
al 2002 segretario particolare dell'ex governatore, delineando i
contorni di una situazione ormai fuori controllo.Talmente fuori
controllo che l'assessore Gargano, ex fedelissimo di Storace, si
trova a un certo punto costretto a difendersi dalle accuse di aver
intascato mazzette all'insaputa del partito.
"Voci su Lotito (il presidente della Lazio Claudio Lotito,
proprietario d'imprese di pulizie, vigilanza e costruzioni, ndr) e
Ciarrapico (Giuseppe Ciarrapico, imprenditore ed editore romano ndr)
da cui avrei avuto finanziamenti: né una lira dal primo né mai avuto
contatti di alcun genere con l'altro", scrive sul suo computer il
politico regionale in una lettera che vorrebbe inviare a Storace, ma
che poi sostiene di non aver mai spedito. Quindi prosegue spiegando
di quale materie si è occupato e di quali no. Gargano afferma, per
esempio, di essere rimasto fuori dalla "gara per la vigilanza in
regione". Dice che "né Lotito", il quale cura la security in via
Colombo, "né Gravina (Domenico, titolare dell'Italpol, ndr) né Di
Gangi (Pasquale, patron della Sipro, ndr) hanno corrisposto nulla al
sottoscritto". E aggiunge, facendo forse riferimento all'ex
assessore al Personale e attuale vicepresidente del consiglio Bruno
Prestagiovanni (An): "Mi risulta però che sono stati chiamati da
Prestagiovanni". Infine scrive: "Metro C gara da parte del Comune
Roma".
La messa a posto A scorrere il documento Torax è facile andare con
la mente ai pizzini con cui Bernardo Provenzano stabiliva la 'messa
a posto' (il versamento del pizzo) delle varie imprese. Il boss
usava un codice alfanumerico per nascondere l'identità dei suoi
compari. Gargano, invece, esplicita i nomi dei presunti complici, ma
è più riservato sulle cifre. Quando si tratta di quantificare le
mazzette ricorre alle 'X'. Lo fa, per esempio, affrontando il
capitolo relativo alla "privatizzazione" di parte del Cotral,
l'azienda di trasporto regionale. "La Sita", si legge nel file, " ci
ha fatto sapere che, se vincerà, è disposta a XXXXX, stessa cifra
che aveva pattuito con Aracri (Francesco, assessore ai trasporti
prima di Gargano, anche lui di An, ndr) però per il 49 per cento del
pacchetto azionario, cifra che hanno comunicato anche a Tajani,
Ciocchetti e che tu dovresti ripartire tanto a te, tanto Forza
Italia, tanto Udc".
Ciocchetti è Luciano Ciocchetti, ex capogruppo Udc in regione, oggi
deputato nazionale. Tajani è invece Antonio Tajani, all'epoca
coordinatore laziale di Forza Italia e addirittura capogruppo degli
azzurri all'europarlamento. Dovevano essere dunque loro i terminali
delle presunte tangenti? Non è chiaro. Secondo indiscrezioni Gargano
avrebbe già spiegato che in realtà a occuparsi della questione
sarebbero stati alcuni personaggi del loro entourage. Pochi dubbi
invece su che cosa sia la Sita, la Società italiana di trasporti
automobilistici che fattura 230 milioni ospitando sui suoi pullman
10 milioni di passeggeri in tutta Italia. Sulla carta è una
controllata dello Stato. In realtà si tratta di una creatura
dell'imprenditore pugliese Luciano Vinella che ne detiene ancora il
45 per cento delle quote. Vinella, che vanta rapporti anche con i Ds,
è un amico di famiglia di Gianfranco Fini: a Roma affitta un
appartamento nel quartiere Trieste alla madre del leader di An e nel
2004, quando l'allora amministratore delegato delle Ferrovie,
Giancarlo Cimoli, tentò di toglierlo dalla guida di Sita, ha visto
venir giù dai banchi di An un diluvio di interrogazioni
parlamentari. Seguite da lettere di fuoco scritte dal vice-ministro
Mario Baldassarri. Il risultato? Cimoli fu spedito all'Alitalia e
Vinella ricominciò a comandare in Sita. In ogni caso, per quanto
riguarda la privatizzazione del Cotral, nel file Torax si legge: "La
gara viene sospesa come da tua richiesta".
Le aziende amiche Accenni espliciti alle tangenti, in questo caso
forse già versate, non mancano poi in altri brani del documento.
Gargano scrive: "Ho fatto consegnare per te XXX euro dall'ingegnere
Crivellone ad Abodi". Il riferimento è tutto per il business delle
strade. Andrea Abodi è infatti il presidente dell'Astral, l'azienda
pubblica delle strade regionali, e dell'Arcea, una società mista che
dovrebbe realizzare due autostrade: la Roma-Formia e la
Cisterna-Valmontone. Proprio per questo ad Abodi, stando
all'appunto, sarebbero stati "delegati i rapporti aziendali" con le
società che lavorano per l'Astral e l'Arcea. Umberto Crivellone,
l'ingegnere che gli avrebbe consegnato il denaro, presiede invece il
consorzio d'imprese che si è aggiudicato la costruzione della
tangenziale dei Castelli, quella che dovrebbe decongestionare dal
traffico la via Appia. Crivellone e Gargano sono molto amici:
l'appartamento dove ha sede l'ufficio politico dell'ex assessore ai
Trasporti è di proprietà dell'imprenditore, il quale è anche al
vertice del Centro di studi sociali, una delle tante associazioni
finanziate dalla Regione. L'amicizia è però una cosa. Il business e
la politica sono un'altra. Gargano nella sua lettera, quindi annota:
"Tangenziale Castelli perizia variante approvata XX,00 x X=XX,000
(2004)". L'affare ha comunque un secondo risvolto interessante: del
consorzio impegnato nella costruzione della tangenziale fa parte la
So.Co.Stra.Mo di Erasmo Cinque, membro delle segreteria nazionale di
An ed ex presidente dell'associazione costruttori edili di Roma e
provincia (Acer).
Lotto continuo L'abitudine di avere un occhio di riguardo nei
confronti delle aziende amiche sembra confermata da altri brani del
documento. Per la "vecchia gara sulla cartografia", scrive Gargano,
"doveva corrispondere Galeazzi perché la ditta era sua. Mi ha
assicurato che veniva direttamente da te". L'appalto (3,5 milioni di
euro) risulta vinto da un'impresa di Latina, di proprietà di
Pasquale Marrone, un imprenditore amico dell'ex deputato di An,
Alessandro Galeazzi. Ma Marrone a 'L'espresso' dice: "La gara è
stata regolare. Conosco bene Galeazzi, chi però si azzarda a dire
che è mio socio o che ho versato un solo euro verrà querelato,
perché è falso". Nel suo file l'ex assessore ai Trasporti non
delinea comunque un sistema basato esclusivamente sulle mazzette.
Spesso fa riferimento solo a una ben poco liberista vicinanza
politica: la gara per la sicurezza stradale sarebbe così stata
assegnata ad "amici di De Lillo (Stefano, consigliere di Forza
Italia)"; quella per un'altra importante via di comunicazione a
degli amici dell'ex assessore Francesco Aracri e di un potente
dirigente regionale, mentre le imprese che si sono aggiudicate il
secondo lotto della strada statale dei Monti Lepini sarebbero state
"mandate da Carnevale", verosimilmente il segretario amministrativo
della Lista Storace. Tra esse compare pure il Consorzio cooperative
costruzioni di Bologna (Ccc), la più grande coop rossa d'Italia. Non
deve stupire. Intercettando i telefoni degli indagati i carabinieri
hanno capito che quando si parla di affari il clima è assolutamente
bipartisan. Un esempio? Nel maggio del 2006 Gargano, ormai semplice
consigliere, chiama il capo della segreteria dell'assessore alla
Sanità Augusto Battaglia (Ds) per sollecitare dei pagamenti in
favore di un laboratorio di analisi cliniche a lui legato.
Parenti e amici Intercettazione dopo intercettazione si scopre però
dell'altro. L'ex assessore sollecita pure "i contributi previsti
nell'ambito della legge regionale che riguarda il bilancio". Saltano
fuori così una serie di associazioni, come la Polis, la Idee per la
vita, la Pensiero e lavoro, la Nuova orizzonti e Il centro studi
sociali, amministrate da suoi parenti, amici o collaboratori, alle
quali nel corso degli anni sono arrivati due milioni e 200 mila
euro, in parte versati all'epoca del centrosinistra. È insomma
facile immaginare la sorpresa degli investigatori quando si rendono
conto che in Regione esiste un elenco dei beneficiati dei
finanziamenti accanto al quale compare il nome del consigliere
sponsor. Dalle carte che 'L'espresso' ha potuto consultare emerge,
per esempio, che Verzaschi (Udeur) ha ottenuto 270 mila euro in
favore degli enti da lui segnalati: 60 mila sono finiti alla
fondazione Nova Civitas, i cui uffici sono stati usati da Verzaschi
(ora sottosegretario) per la sua campagna elettorale; altri 10 mila
all'associazione Bacus, di Sara Ugolini, candidata alle comunali per
una lista di Verzaschi pro-Veltroni. È chiaro che una parte dei
contributi rappresentano ormai qualcosa di molto simile a un
finanziamento pubblico mascherato ai partiti. Per questo suscita
interrogativi il milione di euro andato agli istituti Iswel e Irem
specializzati in corsi d'informatica. Entrambi gli enti hanno lo
stesso indirizzo e numero di telefono di un'associazione politica,
il Centro democratico, presieduta dall'ex dc Giampiero Oddi, il
patron dei due istituti che fino a qualche mese fa si vantava di
rappresentare i 10 per cento degli iscritti romani della Margherita.
"Sono emerse situazioni 'incresciose' come quella della Fondazione
Italia-Amazzonia, un milione e 205mila euro, destinati a progetti
non meglio precisati o molto di carattere locale", denuncia Maria
Antonietta Grosso (PdCi), l'unico consigliere che ha rifiutato di
partecipare alla grande abbuffata. La Grosso punta l'indice contro
il suo ex collega di partito Alessio D'Amato, che oggi ha creato il
suo gruppo rosso-verde. D'Amato smentisce e querela. Comunque siano
andate le cose resta il dato politico: se i consiglieri del Lazio
vogliono continuare a distribuire finanziamenti a pioggia dovrebbero
rendere pubbliche non solo la lista dei beneficiati, ma anche quella
dei loro sponsor politici. Solo così sarà possibile rendersi conto a
chi hanno regalato i soldi dei cittadini.
2 marzo
100 mila no a «Bliar»
Londra No war in piazza contro il premier «bugiardo» sull'Iraq
Paolo Gerbaudo
Londra
«What do we want? World peace! When do
we want it? Now!». La manifestazione si scalda mano a mano che la
gente comincia a convergere verso lo Speaker's Corner in una Hyde
Park bagnata da sprazzi di pioggia. La gente è accalcata e la
divisione in diversi spezzoni del corteo salta sin dall'inizio per
l'affollarsi dei manifestanti sul fango dei viali del parco. Decine
e decine di bus hanno portato attivisti da Manchester, Leeds,
Liverpool, Brighton, Oxford, Cambridge, Porstmouth, Bristol,
Birmigham e molte altre città di tutta l'Inghilterra. E' una delle
manifestazioni più grandi dalla «big one», quella del 15 febbraio
2003. Quando finalmente la testa del corteo arriva a Trafalgar
Square, la coda sta appena uscendo da Hyde Park. I partecipanti sono
100.000 per gli organizzatori, 20.000 per la polizia. Due le
richieste: via subito le truppe dall'Iraq e no al rinnovo del
sistema missilistico nucleare Trident.
Le migliaia di cartelli prestampati che si alzano come una foresta
sopra le teste dei manifestanti ripetono gli slogan che hanno
caratterizzato sin dall'inizio la campagna contro la guerra. La
testa di Bush si staglia malefica sotto la scritta «terrorista
mondiale numero 1». Poco distante il corpo di Blair viene
risucchiato dallo sciacquone con la didascalia «Blair must go».
Enormi bandiere palestinesi e libanesi si allungano tra la gente
mentre un finto missile Trident scorre tra il corteo che urla
all'unisono «Troops out now!».
Un gruppo di sambisti balla una danza macabra: ragazze-scheletro,
coperte di lunghi aculei «verde radioattivo», incedono lente dietro
alle maschere di George Bush e Tony Blair che si scambiano baci,
abbracci e arti mutilati. Un gruppo di pacifiste sessantenni canta a
cappella «we shall overcome», mentre il piccolo spezzone degli
autonomi avanza con i volti coperti, seguito attentamente da una
pattuglia della polizia.
L'alto numero di partecipanti testimonia che il popolo pacifista
inglese non si è fatto ammaliare dalla promessa di Blair di ritirare
1.200 militari dall'Iraq entro l'estate. Come spiega Lindsey German,
coordinatrice di Stop the War, «non è abbastanza e non cambia
niente. Nei prossimi mesi Blair invierà 1500 soldati in Afghanistan.
E' semplicemente spostare le truppe da una parte all'altra. Ed è
importante che continuiamo a manifestare perché, come si è visto in
Italia, una manifestazione può far cadere un governo».
Se in Inghilterra una crisi di governo appare molto più improbabile
che in Italia, c'è la convinzione che l'anticipo nell'avvicendamento
tra Tony Blair e il suo cancelliere Gordon Brown sia in buona parte
dovuto al disastro iracheno e alla pressione esercitata dalla
campagna contro la guerra. Ciononostante c'è poca speranza che la
politica estera muti radicalmente con il nuovo primo ministro.
«Penso che Gordon Brown continuerà a fare le stesse cose che ha
fatto Blair - afferma George, un attivista londinese - Abbiamo
bisogno di un cambiamento profondo».
Tra i manifestanti oltre ai sindacati, agli studenti, ai gruppi
pacifisti e alle organizzazioni cristiane, spiccano diversi
partecipanti e organizzazioni musulmane. «Vedere persone bianche
inglesi che dimostrano contro la guerra e in solidarietà con le
comunità islamiche mi dà grande speranza - racconta Zehra, una
ragazza britannica di origine irachena - però i musulmani in
Inghilterra dovrebbero essere molto più attivi».
La maggioranza dei partecipanti continua a essere convinta che
dimostrare sia importante quanto meno per scardinare il silenzio che
avvolge la società inglese. «Dobbiamo smuovere l'apatia della
maggioranza della gente - dice Francis - Dopo le mancate risposte
del governo molti sono convinti che dimostrare non serva a niente».
Ma di fronte alla sordità dell'esecutivo c'è chi sostiene che in
ogni caso questo movimento abbia lasciato una traccia indelebile che
la politica istituzionale non potrà ignorare. «Sicuramente il
movimento ha avuto dei risultati - afferma Keith, militante del
Socialist workers party - Adesso sarà molto difficile per Blair o
per ogni futuro primo ministro attaccare l'Iran o buttarsi in
un'altra guerra come questa».
Solo la metà trova impiego a un anno dalla laurea. E' il peggior risultato dal 1999 a oggi
Nel 2006 hanno guadagnato, in termini reali, meno di 5 anni fa. L'indagine di AlmaLaurea
Laureati, colti e disperati, è l'esercito dei senza lavoro
di FEDERICO PACE
Iperqualificati, con qualche sogno in
testa e sempre meno pagati. Destinati a emigrare, pur di evitare la
disfatta. I laureati mostrano sul loro volto i segni delle sempre
più acute contraddizioni di un intero paese dove il merito e le
qualifiche non vanno quasi mai di pari passo con le opportunità e i
compensi. Sul loro volto sono sempre più evidenti i segni del
disagio provato di fronte a quella porta, quasi sempre socchiusa,
che dovrebbe portarli al lavoro e alla maturità.
Quando una ragazza o un ragazzo con in tasca la laurea cerca un
posto, pare di vedere un gigante che prova ad entrare attraverso la
piccola porticina di una minuscola casa di lillipuziani. Loro sono
tanti mentre sembrano sempre più inadeguati i posti di lavoro che il
sistema economico e il mondo delle aziende italiane mette a
disposizione. Addetti per i call center o cassieri di negozio che
siano. Con il paradosso, che a questo punto pare quasi logico, che
sono proprio i più preparati, quelli che prendono i voti più alti di
tutti a ritrovarsi con il più basso tasso di occupazione. Tanto che
a un anno dalla laurea, trovano lavoro solo quattro su dieci di
quelli che hanno preso 110 e lode. Con la triste constatazione che
nel 2006 un laureato guadagna al mese, in termini reali, meno di
quanto percepiva cinque anni fa il fratello maggiore.
Fenomeni conosciuti si dirà, ma il fatto è che quest'anno le cose
sono andate ancora peggio. Tanto che per trovare un impiego non è
neppure sufficiente aspettare un anno. I dati del triste record
dicono che dopo la fatidica laurea, a un anno dal giorno della
discussione della tesi, dai festeggiamenti e dai sorrisi e dalle
congratulazioni, trova lavoro solo il 45 per cento dei laureati
"triennali" (erano il 52 per cento l'anno scorso) e il 52,4 per
cento dei laureati pre-riforma, ovvero il dato più basso dal 1999
(vedi tabella). I dati sono quelli della nona indagine sulla
"Condizione Occupazionale dei laureati italiani" presentata (vedi la
diretta) a Bologna da AlmaLaurea, il consorzio interuniversitario a
cui aderiscono 49 università italiane. Ed è forse utile sapere che
il convegno prevede per la mattina di sabato (3 marzo) anche una
tavola rotonda (la presentazione e la tavola rotonda possono essere
seguite in diretta sul sito di Almalaurea) che dibatterà su questi
temi e a cui parteciperanno anche Fabio Mussi, il ministro
dell'Università, e Cesare Damiano, il ministro del Lavoro, insieme
ad Andrea Cammelli, il direttore di Almalaurea, e il presidente Crui
Guido Trombetti.
Secondo l'indagine, l'instabilità che caratterizzava già molti degli
impieghi degli anni scorsi si è fatta ancora più acuta. Sia per i
laureati "triennali" che per quegli ultimi che stanno uscendo dal
percorso previsto dal vecchio ordinamento. Solo un giovane su tre
che ha conseguito una laurea breve - e ha trovato un impiego - è
riuscito a siglare un contratto a tempo indeterminato. L'anno scorso
l'impresa era riuscita al 40 per cento di loro. Stessa storia per i
giovani che hanno ultimato il percorso di laurea del "vecchio
ordinamento", la quota di chi è riuscito ad avere un contratto
stabile è scesa al 38,4 per cento. Il lavoro atipico dal 2001 a oggi
è cresciuto di ben dieci punti percentuali.
C'è poi lo stipendio. Quel sostegno che dovrebbe permettere alle
nuove generazioni di prendere iniziative e decisioni, di mettere su
famiglia, di provare a superare la sindrome di Peter Pan. Quel
sostegno, è sempre più esile. I giovani laureati del post-riforma si
ritrovano in tasca a fine mese solo 969 euro. Meno di quanto non
fosse l'anno scorso (vedi tabella). Prendono qualcosa in più i
laureati pre-riforma che a fine mese arrivano fino a 1.042 euro.
Poco più dell'anno scorso ma, al netto del costo della vita, ancora
meno di quanto un neolaureato guadagnava cinque anni fa.
Senza dire che l'Italia vanta il minor numero di laureati che lavora
a cinque anni dalla laurea (l'86,4 per cento contro una media
europea pari all'89 per cento). Scorrendo i dati dell'indagine di
AlmaLaurea si ricava la triste conferma che nel cuore delle nuove
generazioni, anche lì dove è opportuno che l'Italia sia più moderna
e vicina all'Europa, covano e crescono le stesse antiche
contraddizioni e disparità che gravano da tempo infinito sul corpo
del malato Italia.
Le donne sono meno favorite rispetto agli uomini, hanno un tasso di
occupazione più basso, sono più precarie e guadagnano meno dei loro
colleghi uomini (vedi tabella). A un anno dalla laurea lavora il
49,2 per cento delle laureate pre-riforma contro il 57,1 per cento
degli uomini. E il gap salariale nel tempo non fa che crescere,
tanto che a cinque anni dalla laurea le donne guadagnano un terzo
meno di quanto non prendono gli uomini. Quanto alla precarietà a un
anno dalla laurea il 52 per cento delle donne ha un contratto
atipico contro il 41,5 per cento degli uomini. E la disparità è
ancora più acuta per le laureate "triennali", visto che solo il 34
per cento delle donne ha un impiego stabile contro il 48 per cento
dei loro colleghi uomini.
Stesso discorso per le disparità territoriali. Nel 2006 sei laureati
del Nord su dieci trova lavoro dopo un anno mentre per le regioni
del Sud le cifre si fermano al 40 per cento. Ovvero le stesse quote
nel lontano 1999. Senza dire che a cinque anni dalla laurea, i
giovani del Mezzogiorno prendono 1.167 euro al mese mentre i ragazzi
del Nord arrivano a 1.355 euro al mese.
Non c'è da stupirsi se allora molti di loro non si sentono
valorizzati per quello che valgono e, seppure a malincuore, decidono
di muoversi oltre confine per trovare migliori occasioni.
All'estero, lì dove sembrano trovare rifugio e compenso. I laureati
italiani che lavorano fuori dai confini nazionali, a cinque anni
dalla laurea, arrivano a guadagnare quasi 2 mila euro, ovvero il 50
per cento in più di quanto non accada alla media complessiva dei
laureati. Se non si mette mano a questo problema, se non si trova un
articolato piano per valorizzare i talenti che escono dalle nostre
facoltà, poco si potrà fare per dare slancio al nostro paese.