Non posso usare altra espressione per coloro che
hanno votato per la privatizzazione dell’acqua , che quella usata da Gesù nel
Vangelo di Luca, nei confronti dei ricchi :” Maledetti voi ricchi….!”
Maledetti coloro che hanno votato per la mercificazione dell’acqua .
Noi continueremo a gridare che l’acqua è vita, l’acqua è sacra, l’acqua è
diritto fondamentale umano.
E’ la più clamorosa sconfitta della politica. E’ la stravittoria dei potentati
economico-finanziari, delle lobby internazionali. E’ la vittoria della politica
delle privatizzazioni, degli affari, del business.
A farne le spese è ‘sorella acqua’, oggi il bene più prezioso dell’umanità, che
andrà sempre più scarseggiando, sia per i cambiamenti climatici, sia per
l’aumento demografico. Quella della privatizzazione dell’acqua è una scelta che
sarà pagata a caro prezzo dalle classi deboli di questo paese( bollette del
30-40% in più, come minimo),ma soprattutto dagli impoveriti del mondo. Se oggi
50 milioni all’anno muoiono per fame e malattie connesse, domani 100 milioni
moriranno di sete. Chi dei tre miliardi che vivono oggi con meno di due dollari
al giorno, potrà pagarsi l’acqua? “
Noi siamo per la vita, per l’acqua che è vita, fonte di vita. E siamo sicuri che
la loro è solo una vittoria di Pirro. Per questo chiediamo a tutti di
trasformare questa ‘sconfitta’ in un rinnovato impegno per l’acqua, per la vita
, per la democrazia. Siamo sicuri che questo voto parlamentare sarà un
“boomerang” per chi l’ha votato.
Il nostro è un appello prima di tutto ai cittadini, a ogni uomo e donna di buona
volontà .Dobbiamo ripartire dal basso, dalla gente comune, dai Comuni.
Per questo chiediamo:
AI CITTADINI di
- protestare contro il decreto Ronchi , inviando e -mail ai propri parlamentari;
- creare gruppi in difesa dell’acqua localmente come a livello regionale;
- costituirsi in cooperative per la gestione della propria acqua.
AI COMUNI di
- indire consigli comunali monotematici in difesa dell’acqua;
- dichiarare l’acqua bene comune,’ privo di rilevanza economica’;
- fare la scelta dell’AZIENDA PUBBLICA SPECIALE.
LA NUOVA LEGGE NON IMPEDISCE CHE I COMUNI SCELGANO LA VIA DEL TOTALMENTE
PUBBLICO, DELL’AZIENDA SPECIALE, DELLE COSIDETTE MUNICIPALIZZATE .
AGLI ATO
- ai 64 ATO (Ambiti territoriali ottimali), oggi affidati a Spa a totale
capitale pubblico, di trasformarsi in Aziende Speciali, gestite con la
partecipazione dei cittadini.
ALLE REGIONI di
- impugnare la costituzionalità della nuova legge come ha fatto la Regione
Puglia;
- varare leggi regionali sulla gestione pubblica dell’acqua.
AI SINDACATI di
- pronunciarsi sulla privatizzazione dell’acqua;
- mobilitarsi e mobilitare i cittadini contro la mercificazione dell’acqua.
AI VESCOVI ITALIANI di
- proclamare l’acqua un diritto fondamentale umano sulla scia della recente
enciclica di Benedetto XVI, dove si parla dell’accesso all’acqua come diritto
universale di tutti gli esseri umani, senza distinzioni o discriminazioni”(27);
- protestare come CEI (Conferenza Episcopale Italiana) contro il decreto Ronchi
.
ALLE COMUNITA’ CRISTIANE di
- informare i propri fedeli sulla questione acqua;
- organizzarsi in difesa dell’acqua.
AI Partiti di
- esprimere a chiare lettere la propria posizione sulla gestione dell’ acqua;
- farsi promotori di una discussione parlamentare sulla Legge di iniziativa
popolare contro la privatizzazione dell’acqua, firmata da oltre 400.000
cittadini.
L’acqua è l’oro blu del XXI secolo. Insieme all’aria , l’acqua è il bene più
prezioso dell’umanità. Vogliamo gridare oggi più che mai quello che abbiamo
urlato in tante piazze e teatri di questo paese : “L’aria e l’acqua sono in
assoluto i beni fondamentali ed indispensabili per la vita di tutti gli esseri
viventi e ne diventano fin dalla nascita diritti naturali intoccabili- sono
parole dell’arcivescovo emerito di Messina, G. Marra. L’acqua appartiene a tutti
e a nessuno può essere concesso di appropriarsene per trarne illecito profitto,e
pertanto si chiede che rimanga gestita esclusivamente dai Comuni organizzati in
società pubbliche , che hanno da sempre il dovere di garantirne la distribuzione
al costo più basso possibile”.
Alex Zanotelli
18 novembre
Acqua pubblica. Ai privati
Il governo pone la fiducia sulla
privatizzazione dell'acqua
"Un
giorno ci faranno pagare anche l'aria che respiriamo". Il
vecchio adagio del mugugno popolare presto si potrà applicare a
un bene pubblico e prezioso come l'acqua. Che sarà privatizzata
- cosa privata - entro il prossimo mercoledì. Non serviranno a
nulla le proteste dell'opposizione riformista e cattolica, né
l'invito a riflettere rivolto al PdL da parte degli alleati
della Lega. Sul decreto Ronchi è stata posta, per la
ventottesima volta, la questione di fiducia. Si blinda la
decisione del governo filoimprenditoriale di togliere l'acqua al
popolo, e lo si fa bruciando, di fatto, tutte le regole della
democrazia parlamentare.
A far pensare che l'operazione legislativa sia l'ennesimo
sfoggio dei muscoli da parte della maggioranza è proprio la
questione di fiducia. Il colonnello del premier al quale è stato
affidato l'arduo compito di comunicare la decisione ai
parlamentari è stato Elio Vito, ministro per i rapporti con il
Parlamento, che ha giustificato il dictat di Berlusconi con un
laconico "scelta per velocizzare i tempi".
Dopo l'approvazione in Senato, avvenuta il 4 novembre scorso, il
tempo per una corretta, e doverosa, discussione a palazzo
Montecitorio ci sarebbero stati tutti - il provvedimento scade
fra una settimana. Solo che il "B-Style" impone di imporre le
decisioni di quelli che di voti elettorali ne hanno ottenuti di
più. Ed ecco così che o si consegna l'acqua alle multinazionali
o si va tutti a casa che, come noto, non è proprio un costume
tipicamente italiano. Quindi il quadro che si prospetta è
evidente.
Articolo 15. É
il fulcro della protesta. In base alla sua applicazione la
maggior parte dei servizi ora di competenza degli enti locali
verranno liberalizzati (privatizzati). Escluse le gestioni del
gas, del trasporto ferroviario regionale e delle farmacie
comunali, tutto ciò che prima era di competenza delle giunte
locali verrà fagocitato da aziende private. Queste beneficeranno
della norma che vieterà allo Stato e agli enti territoriali di
mantenere quote di capitale superiori al 30 percento sui
servizi. Il resto sarà nelle mani delle Spa che, dopo il 31
dicembre del 2010, non potranno più essere assegnatarie dirette
dei servizi ma dovranno obbligatoriamente concorrere a gare
d'appalto per la gestione degli stessi. E anche sulle gare
d'appalto le usanze italiche sono, purtroppo, ben note.
PeaceReporter ha raggiunto
Emilio Molinari, presidente del Contratto mondiale sull'acqua.
Come giudica questa mossa
politica del governo?
La fiducia è l'ultimo capitolo
di un misfatto che va avanti dal 2003. La privatizzazione in
Italia ha una specificità di obbligatorietà che non è stata
richiesta dall'Unione Europea. Oltre che un atto di
privatizzazione è dunque un atto autoritario e
anticostituzionale che sottrae poteri ai Comuni e alle Regioni.
Gli enti territoriali stanno diventando forti grazie ai comitati
e dal Friuli al Veneto, passando per la stessa città di Milano
il Pd ha fatto capire che l'acqua non si tocca. Anche in
Parlamento ci sono state forti ripercussioni se si considera, ad
esempio, che la Lega ha dovuto subire la fiducia. La partita non
è comunque chiusa. Se il decreto dovesse passare inviteremo le
Regioni a fare ricorso alla Corte Costituzionale o, in ultima
istanza, proporremo un referendum.
Cosa cambierà per i
consumatori?
I termini di cambiamento ci
sono suggeriti dalle realtà di tutte le privatizzazioni:
peggioramento del servizio, aumento delle tariffe e
licenziamenti. Guardiamo l'esempio Telecom, le varie Centrali
del Latte e quello dell'Alitalia. In tutti i comuni italiani
dov'è stata già privatizzata l'acqua è avvenuto il peggio. Roma
rappresentava il fiore all'occhiello nel campo della fornitura
idrica, con tariffe basse e un servizio eccezionale. Dopo la
privatizzazione i rappresentanti delle aziende private con quote
di partecipazione minoritarie nelle società di servizi hanno
iniziato a monopolizzare i consigli d'amministrazione e a fare
la voce grossa e le tariffe continuano a salire
vertiginosamente. A Bologna dove il servizio idrico era di prim'ordine
la privatizzazione ha portato ad un deterioramento delle reti
con perdite di resa del 30-35 percento. Senza considerare il
raddoppio delle tariffe e la chiusura degli uffici di controllo
in città strategiche nei quali sono stati licenziati decine di
dipendenti e esperti molto preparati.
Le piccole e medie imprese
riusciranno a superare la sfida con le multinazionali?
Assolutamente no. Se si guarda
alle quattro big nazionali Acea, A2A, Hera e Iride si potrà
notare che tutte hanno già dentro diversi uomini nei Cda delle
varie aziende che attualmente riforniscono d'acqua i comuni
italiani. Senza contare che la Suez Lyonnaise des Eaux, colosso
francese, è già pronta ad acquistare l'acqua dai comuni
italiani, che saranno obbligati a vendere e a riacquistare a
prezzo triplicato. È una svendita dell'acqua italiana ai privati
e alle aziende straniere.
Se il decreto dovesse
passare, come ormai sembra certo, l'Italia si troverà di fronte
ad una crisi idrica?
Non c'è legame diretto tra le
due cose. Tuttavia se l'attuale diminuzione delle risorse
idriche al sud dovesse continuare e se non si dovessero
interrompere i prelievi di montagna l'acqua inizierà a
scarseggiare. In quel caso sarà difficile l'approvvigionamento
di questo bene comune. Se il parlamento dovesse approvare il
provvedimento ci troveremmo di fronte ad una situazione per cui
un bene di tutti, l'acqua, diventerà un privilegio riservato ai
pochi che avranno le risorse finanziare per accedervi.
Antonio Marafioti
12 novembre
Medici fiscali e proclami di
Brunetta
Mi chiamo Maurizio Villani e sono un medico convenzionato con la ASL RMC settore
visite fiscali. Da quasi venti anni faccio visite fiscali per le ASL e quando ho
letto su un giornale (La Repubblica) l'intervista al ministro Brunetta dove
annuncia l'ennesimo cambiamento delle fasce orarie di reperibilità dei
lavoratori pubblici allungate di tre ore per combattere l'assenteismo ho sentito
il bisogno di far conoscere la realtà dei fatti.
Nessuno conosce il fatto che, noi medici addetti alle visite fiscali domiciliari
delle ASL, siamo convenzionati e non dipendenti e per tale motivo abbiamo
l'orario di lavoro stabilito in sede di stipula della convenzione con la
Regione. La mia convenzione recita: martedì, mercoeldì, giovedì, venerdì, dalle
09,30 alle 12,30 per un totale di 12 ore settimanali.
Ma non solo, in questo lasso di tempo il numero delle visite è fisso, nel senso
che quotidianamente il numero delle visite è sempre lo stesso. Aumentare il
numero delle ore di reperibilità non porta a nessun aumento delle visite
effettuate quotidianamente perché è solo funzione del numero dei medici operanti
sul territorio ma noi siamo sempre gli stessi degli anni precedenti. Ho cercato
di contattare la Repubblica per informarli, ma sembra che la cosa non Li
interessi, hanno permesso l'ennesimo spot pubblicitario del ministro Brunetta e
tanto basta. Spero che il Messaggero sia più motivato a scoprire in che mani
siamo capitati. Distinti saluti
Dott.Maurizio Villani
11 novembre
Bande paramilitari contro i lavoratori
Francesco Piccioni
Prove tecniche di
fascismo. Non tanto ideologico quanto padronale. Ma anche gli
squadristi non sono più quelli di una volta, e quindi un padrone �
in questo caso Samuele Landi, ex amministratore delegato di Eutelia
� è costretto ad affittarli da una delle tante agenzie private che
gestiscono la «sicurezza».
Ieri mattina, alle 5 e un quarto, una quindicina di bodyguard in
assetto «teste di cuoio» (divisa nera, passamontagna, piedi di porco
e maxitorce bi-uso in mano) sono penetrati all'interno dello
stabilimento romano, sulla via Tiburtina. All'interno dormivano una
ventina di lavoratori che presidiano da giorni - qui come in tutta
Italia - gli impianti del gruppo. Un'irruzione pianificata in modo
militare, da due ingressi contemporaneamente, con compiti prefissati
per ognuno degli uomini all'assalto, supportati da un furgone Ducato
attrezzato in stile «swat» (tipo Ocean Eleven...).
Al grido di «carabinieri, tutti fuori» hanno aggredito i dipendenti
che dormivano, puntando loro le torce in faccia. Il primo ad essere
fermato, però. era un cameraman della Rai - al lavoro per
un'inchiesta - rimasto in fabbrica la sera prima causa l'ora tarda.
«Chi cazzo sei, perché stai qua dentro, dammi i documenti». La
possibilità di uno sgombero era stata ovviamente valutata dai
lavoratori, e non prevedeva resistenza. Consegnato il documento,
però, è aperti davvero gli occhi, diventava chiaro che l'alto
energumeno alla testa del «commando» non indossava nessun simbolo
delle forze dell'ordine. Controrichiesta: «lei non è un carabiniere,
mi faccia vedere il tesserino». Che non esce fuori. Anzi, i
dipendenti tirati fuori dalle varie stanze riconoscono il «capo» e
la tensione sale. Urla, spintoni. Il cameraman chiama la polizia,
accende la telecamera e comincia a girare. Gli aggressori si fanno
più cauti, pur se sempre minacciosi. Costringono i lavoratori a
restare nell'atrio, senza potersi muovere nemmeno per andare in
bagno. Il più esaltato e sprezzante di tutti è sempre Landi, che
ordina ai suoi spetznaz di raggiungere le «postazioni prestabilite».
Poi si sentono rumori di porte sfondate e scrivanie forzate, come se
stessero cercando documenti.
La polizia arriva nell'arco di 40 minuti dall'inizio dell'irruzione.
E non fatica a capire cosa è accaduto. I 15 mercenari vengono
identificati e trattenuti in una stanza, mentre Landi viene portato
in questura. A quel punto le «teste di cuoio», tranne due o
tre che più tardi si rifiuteranno di abbandonare gli uffici,
appaiono per quel che sono: ragazzi, quasi tutti, a parte gli
«anziani» che manifestamente condividono col «capo» trascorsi comuni
tra i paracadutisti. Lavorano per il Barani Group, specializzato in
sorveglianza privata. Davanti ai poliziotti veri si qualificano come
«addetti al portierato».
La Fiom convoca una conferenza stampa dai toni durissimi. «Avevamo
presentato un esposto alla procura di Milano» per chiedere verifiche
sul gruppo Agile-Omega, che avrebbe acquisito l'ex Eutelia. Da
settimane chiedono al governo un tavolo per discutere non solo della
condizione dei dipendenti (da tre mesi senza stipendio), ma anche
della pericolosissima deriva di una società che gestisce servizi
informatici vitali per lo stato (ministeri chiave come gli interni,
la difesa, Banca d'Italia, ecc). Denunciano le intimidazioni mafiose
a un sindacalista di Catanzaro (sede di un altro stabilimento).
Gianni Rinaldini fa notare che non è il primo episodio del genere
(un precedente ad Ascoli Piceno, addirittura con i cani); «non
vorrei fossimo di fronte ai primi segnali di uso di strumenti
impropri e inaccettabili, che mettono a rischio la democrazia in
questo paese». Rievoca persino la Pinkerton, antesignana della
polizia privata antisindacale negli Usa.
Sembra evidente, nella tempistica, un legame diretto tra l'esposto
al tribunale e l'irruzione nella sede romana. Passato il primo
momento, in cui i lavoratori hanno pensato che gli aggressori
stessero facendo danni per poi incolpare loro, è apparso chiaro che
stavano invece cercando di recuperare qualcosa di molto importante.
La stanza blindata in cui sono custoditi i server strategici delle
attività più delicate (quelle per lo stato, da cui dipende l'80% del
fatturato), non è stata però toccata. Cosa cercavano i più maturi
tra gli squadristi a cottimo? L'ipotesi che puntassero soltanto a
buttar fuori qualche dipendente e «reimpossessarsi» dell'impianto, a
sentir tutti, non sta in piedi. Da quando questo gruppo fantasma ha
preso in mano l'azienda, infatti, di tutto si è occupato tranne che
di farla funzionare. Anzi, ha perseguito con tenacia l'obiettivo
esattamente opposto.
Unicredit, Bnp Paribas e Intesa
Sanpaolo tra i finanziatori di cluster bombs
Scritto da
Luca Rasponi
Centotrentotto banche di tutto il
mondo finanziano la produzione di cluster bombs. La denuncia è
dell'associazione Cluster Munition Coalition, che unisce oltre 200 Ong
da tutto il pianeta contro le bombe a grappolo. Tra gli istituti di
credito segnalati nel rapportoWorldwide
investments in cluster munitions: a shared responsability,
c'è anche Intesa Sanpaolo. "Nel luglio 2007" - recita la relazione - "Lockheed
Martin (industria bellica americana tra i principali produttori al mondo
di bombe a grappolo, ndr) ha rinnovato la sua attuale apertura di
credito rotativo (cioè un prestito) di 1,5 miliardi di dollari fino a
luglio 2012. Intesa Sanpaolo ha contribuito con 52,5 milioni di dollari
al cartello delle 31 banche" erogatrici del prestito.
Qualcosa non quadra. Ma il 3 dicembre 2008 ad Oslo non
è stata firmata, anche dall'Italia, una Convenzione che bandisce le
cluster bombs? Vero. Però il nostro Paese è solo tra i firmatari
del trattato, che non è stato ancora ratificato dal Parlamento. E se
sono più di 100 le nazioni ad aver firmato la Convenzione di Oslo, le
ratifiche sono ferme a 23. Beffardamente vicine alla soglia minima di
30, necessaria a rendere il trattato operativo (e dunque vincolante per
i Paesi membri). Quindi Intesa Sanpaolo non è obbligata da alcun tipo di
regola internazionale a sospendere il prestito erogato a Lockheed Martin.
Ma le cose non sono così semplici.
Codice etico. Intesa Sanpaolo rinnova il prestito a
Lockheed Martin nel maggio-giugno 2007, come riscontrato dal sito
altraeconomia.it in un documento della Security and Exchange
Commission, l'organismo che controlla le società Usa quotate in Borsa.
L'operazione precede solo di qualche settimana la scelta di Intesa
Sanpaolo di integrare il proprio Codice etico con una weapon policy
che "prevede la sospensione della partecipazione a operazioni
finanziarie che riguardano il commercio e la produzione di armi e di
sistemi d'arma". Perché la vicinanza di due decisioni così contrastanti
tra loro?
L'eccezione. Il rapporto Cmc sostiene che per
migliorare la propria posizione, Intesa Sanpaolo "non dovrebbe tollerare
eccezioni, ponendo fine a tutti i contatti con i produttori di bombe a
grappolo, a meno di obblighi legali". Eccezioni? Sì, perché "l'attuale
policy non riguarda [...] le operazioni inziate prima della sua
pubblicazione ufficiale". Ecco quindi svelato il mistero: il prestito a
Lockheed Martin continua ad essere erogato perché l'accordo è stato
concluso prima dell'approvazione della weapon policy. Che in
effetti è arrivata qualche settimana dopo la firma del rinnovo.
Spiegazioni. Una fonte interna ad Intesa Sanpaolo
assicura che contratti come quello con Lockheed Martin hanno tempi di
realizzazione di diversi mesi. Per cui la vicinanza tra rinnovo e
weapon policy è solo una coincidenza: il controllo sulla concreta
applicazione della policy è tuttora in corso di affinamento. Il
contratto con il colosso Usa della difesa, poi, è in syndication,
cioè in comune con altre 30 banche. Cosa che complica eventuali exit
strategies. Da ultimo, l'investimento di Intesa Sanpaolo a favore
di Lockheed Martin è non finalizzato. Ma l'azienda statunitense produce
quasi esclusivamente armi.
La fetta più grossa. Il rapporto Cmc sostiene che
"Intesa Sanpaolo deve escludere i produttori di bombe a grappolo dai
suoi asset management e dalle attività d'investimento. Non solo
dai prestiti". Cosa significa? Significa che sì, il prestito a Lockheed
Martin è un'eccezione. Ma significa anche che il gruppo bancario
finanzia indirettamente le aziende produttrici di armi, acquistandone le
azioni. E lo fa tramite fondi comuni con altre banche italiane. Lo
rivela uno studio che stanno realizzando il mensile di finanza etica
Valori e l'Istituto di Ricerca Economica e Sociale (Ires) della
Toscana: buona parte delle banche italiane, con l'eccezione di Banca
Etica, possiedono titoli azionari di aziende produttrici di "armi
controverse" ( cluster bombs, mine antiuomo, ordigni nucleari).
La classifica stilata dagli studiosi consegna il poco invidiabile
primato negli investimenti di questo genere a Unicredit, che precede Bnp
Paribas e, appunto, Intesa Sanpaolo. Da soli questi tre gruppi bancari,
che distaccano ampiamente tutti gli altri, investono circa 480 milioni
di euro in armamenti. Mezzo miliardo di euro: è la cifra che separa
l'Italia da una reale adesione alla Convenzione di Oslo.
6 novembre
Una nave e mille misteri
di Riccardo Bocca
Dopo i rilievi eseguiti, per il ministro e il procuratore Grasso il caso del
relitto dei veleni è risolto. Eppure troppi sono ancora i dubbi. E si parla
già di depistaggio
I rilevamenti sul relitto al largo di
Cetraro
La sera di venerdì 30 ottobre, l'emittente
calabrese
Telespazio trasmette una puntata davvero speciale del talk show "
Perfidia". In studio, c'è un gruppo di pescatori della costa
tirrenica per parlare dei fondi a loro sostegno, dopo il crollo delle
vendite dovuto al caso "navi dei veleni". Uno dei pescatori, Franco, non
è però d'accordo. Ha saputo che il giorno prima, nel corso di una
conferenza stampa, il ministro dell'Ambiente Stefania Prestigiacomo e il
procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso, hanno tranquillizzato
tutti: «Il caso è chiuso», ha detto Grasso. La nave di cui il mondo
intero ha parlato, a 480 metri di profondità nelle acque davanti a
Cetraro, non è la pericolosa Cunski affondata dal pentito Francesco
Fonti. «Si tratta del piroscafo Catania», ha spiegato Prestigiacomo,
«costruito a Palermo nel 1906 e silurato il 16 marzo 1917 da un
sommergibile tedesco ». Risultato: a bordo non ci sono fusti
radioattivi, anzi la stiva è vuota e non c'è rischio per la popolazione.
I pescatori, Franco compreso, dovrebbero sentirsi sollevati: fine della
paura, riprende la pesca. Invece no. Franco s'infuria e urla: «Negli
anni Novanta c'erano sei o sette pescherecci a Cetraro, e due sono
andati (quella notte con Fonti) a mettere la dinamite!». A questo punto,
nello studio scende il gelo. Gli altri pescatori sono spiazzati ma lui
continua, invitando la magistratura a indagare, «a mettere sotto
torchio» chi andava per mare in quel periodo.
Il giorno dopo, la cassetta del programma viene acquisita dal
procuratore capo di Paola Bruno Giordano. Intanto monta l'angoscia del
pescatore Franco, isolato da colleghi e parenti. «La verità non
interessa a nessuno», si lamenta con un cronista.
E non è l'unico, in Calabria, a pensarla così. Nei giorni scorsi, il
deputato Franco Laratta (Pd) si è definito «sconcertato» dalla
situazione. Di più: ha sollevato il dubbio che «qualcuno ci stia
prendendo in giro, con depistaggi e mezze verità» tra «notizie parziali,
fatti contraddittori ed eventi prima affermati e poi negati nelle e fra
le istituzioni». Una sequenza di stranezze che parte il mattino del 27
ottobre, quando il procuratore Grasso si presenta alla commissione
parlamentare Antimafia e dice: «Proprio stamane, mi è stato comunicato
che gli ultimi riscontri non danno la certezza che si tratti proprio
della Cunski, anche se il castello sembra essere compatibile con
l'indicazione che viene da Fonti». L'altra ipotesi in campo, aggiunge,
«è che si tratti del piroscafo Cagliari», affondato a inizio anni
Quaranta.
Tutto chiaro? Al contrario. Passano poche ore, e alle 12,56 l'agenzia
Adnkronos batte una nota del ministro Prestigiacomo: «Il relitto al
largo di Cetraro non corrisponde alle caratteristiche della Cunski. Il
Rov, il robot sottomarino, ha già svolto le misurazioni e i rilievi
fotografici del relitto». Detto questo, le indagini continueranno «con
il prelievo di sedimenti dai fondali, carotaggi in profondità e prelievi
di campioni dai fusti». Informazioni nette, inequivocabili.
Che vengono smentite, però, alle 13,12: un quarto d'ora dopo. «Finora
abbiamo fatto solo esplorazioni acustiche », affermano i proprietari
della nave Mare Oceano (che sta svolgendo le analisi a Cetraro, e che
risulta dell'armatore Diego Attanasio, coinvolto dall'avvocato David
Mills nel processo in cui è stato condannato per aver mentito su Silvio
Berlusconi in cambio di denaro). «Il Rov», aggiunge la Geolab, «farà
altre esplorazioni acustiche e poi quelle visive. Non ci sentiamo di
dire con certezza che quella possa o non possa essere la nave Cunski:
per noi è ancora troppo presto».
Com'è possibile tanta confusione? Perché il procuratore Grasso si
sbilancia a indicare all'Antimafia il nome di un relitto sbagliato? E
perché il ministro Prestigiacomo parla di rilievi avvenuti, se chi li
compie deve ancora iniziare?
Difficile capirlo. Come difficili da interpretare sono le altre
sfasature di questa storia. A partire dalle caratteristiche della nave
Catania, che stridono con i rilievi svolti sul relitto scoperto il 12
settembre al largo di Cetraro. In quell'occasione fu calcolata una
lunghezza tra i 110 e i 120 metri, una larghezza di circa 20 e
un'altezza di fiancata attorno ai 10. Ora, invece, basta iscriversi al
sito sui disastri navali
www.wrecksite.eu,
per verificare che la Catania è lunga 95,8 metri, larga 13 e alta 5,5
(dati confermati anche dal sito
www.uboat.net e dal
sito
www.miramarshipindex.org.nz di Rodger Haworth, per mezzo secolo
membro della World ship society). Insomma i numeri non quadrano: nemmeno
con la conferenza stampa del 29, dove viene indicata una lunghezza di
103 metri.
Utile sarebbe, con queste premesse, sentire la versione del ministro
Prestigiacomo, ma la richiesta di un'intervista cade nel vuoto. Ed è un
peccato, perché c'è un altro elemento cruciale, che andrebbe chiarito.
Nel senso che non coincidono il punto dove a settembre è stato
individuato il relitto della presunta Cunski (latitudine 39º28'50"N,
longitudine 15º41'E) e quello più a nord dov'è affondata nel 1917 la
Catania (secondo tutte le fonti accessibili, latitudine 39º 32'N e
longitudine 15º 42').
I rilevamenti sul relitto al largo di
Cetraro
Lo scarto è di 3 miglia e mezzo:
«Considerevole », dicono gli esperti: «Tanto da escludere una repentina
deriva, causa correnti, nella discesa verso il fondo». Il sospetto,
sussurrato da alcuni investigatori, è che il profilo della Catania non
combaci con quello del relitto trovato a settembre. E ancora peggio: che
qualcosa non convinca nelle comunicazioni della Direzione distrettuale
antimafia di Catanzaro, responsabile dell'inchiesta sulle navi dei
veleni. Nella conferenza stampa del 29 ottobre, infatti, il vice
procuratore Giuseppe Borrelli ha detto che «la stiva della nave» al
largo di Cetraro era «vuota». Ma Pippo Arena, titolare della società
Arena Sub e pilota del Rov nella prima ispezione alla presunta Cunski,
lo smentisce: «La nave che ho ispezionato io aveva due stive. Ed erano
piene, tanto che un pesce cercava di entrare e non riusciva».
Cos'ha provocato l'assoluta discrepanza tra il ricordo del pilota e le
affermazioni del vice procuratore? E come va interpretata l'altra uscita
della Dda di Catanzaro, pubblicata dal "Quotidiano della Calabria"?
Stavolta a parlare è il procuratore capo Vincenzo Antonio Lombardo, il
quale racconta che attorno alla nave c'era «una folta vegetazione» oltre
a vari pesci. «Lo abbiamo visto dalle immagini (...). Ci fosse stata
radioattività, tutto questo non sarebbe stato presente. La
radioattività, infatti, provoca una forma di desertificazione ». Parole
rassicuranti, quelle di Lombardo, perfette per placare la rabbia della
popolazione locale.
Ma non condivise da Roberto Danovaro, ordinario di Biologia marina
all'Università politecnica delle Marche: «È impossibile che il relitto,
a quasi 500 metri di profondità, sia coperto da vegetazione», assicura:
«A quella profondità, la mancanza di luce impedisce la vita di alghe o
piante marine».
Non stupisce, dopo queste parole, che il consigliere calabrese Maurizio
Feraudo (Idv) abbia lanciato l'ipotesi di un «colossale depistaggio». E
che il Wwf scriva al ministro Prestigiacomo e al procuratore Grasso per
chiedere «una perizia comparata tra il video del Rov incaricato da
Regione e Arpacal (a settembre), e quello «della nave incaricata dal
ministero dell'Ambiente (che ha smentito il pericolo, ndr)». Sicuramente
tutto risulterà perfetto, ma al momento niente torna.
5 novembre
Forze Armate, un regalo da 23,5
miliardi
'Il caro armato' di Francesco
Vignarca e Massimo Paolicelli fa i conti in tasca alla Difesa
Le Forze Armate italiane hanno di che
festeggiare, nel giorno della festa nazionale a loro dedicata. Le
spese militari per il 2010 schizzeranno infatti a 23 miliardi e
mezzo di euro. Un esborso le cui modalità - e i cui sprechi - sono
documentati nell'ultimo libro di Francesco Vignarca e Massimo
Paolicelli, 'Il caro armato', uscito pochi giorni fa con
Altraeconomia Edizioni. Spese, affari e sprechi delle Forze Armate
italiane sono ricostruiti attraverso una puntigliosa ricognizione
che analizza come l'ottavo Paese al mondo per spese militari
distribuisca il proprio bilancio per la Difesa. Spesso per sistemi
d'arma costosissimi (come i 131 caccia per 13 miliardi di euro),
altre volte in sprechi colossali (un esercito professionale di 190
mila uomini, dove il numero dei comandanti - 600 generali e
ammiragli, 2.660 colonnelli e decine di migliaia di altri ufficiali
- quasi supera quello dei 'comandati').
"Sulle
scelte di spesa da parte del nostro governo non c'è un ragionamento
politico serio - spiega a PeaceReporter l'autore -. E' vero che il
bilancio è robusto, nonostante quanto sostenga il ministro della
Difesa La Russa, però in realtà sono spese sbagliate, non solo dal
punto di vista di chi lotta per il disarmo e per la non-violenza, ma
anche dal punto di vista degli stessi militari.
Spese sbagliate a causa della
loro scarsa efficienza?
Sì, nel senso che gerarchicamente l'Italia non è una piramide del
comando, ma la definirei piuttosto un cubo del comando. Comandati e
comandanti sono più o meno lo stesso numero. Dai sottufficiali in su
sono più o meno 85 mila, così come le truppe. Ci sono sprechi,
perchè con questi soldi non possono fare tutto ciò che dovrebbero in
termini di operatività, addestramento, mantenimento, pensioni e via
dicendo. E' una situazione in cui non si ragiona con dati e
obiettivi, ma per una serie di frasi fatte, per senso comune, per
inerzia.
Perchè è così difficile
individuare esattamente quanto l'Italia spende per le sue Forze
Armate?
Perchè alcune voci del bilancio della Difesa, ad esempio quelle per
le missioni all'estero, o quelle per lo sviluppo industriale o
l'acquisto di certi armamenti non passano attraverso il bilancio
standard delle quattro armi (aeronautica, esercito, marina e
carabinieri). Quindi abbiamo centinaia di migliaia di euro investite
dal ministero delle Attività produttive appunto per lo sviluppo
industriale. E' vero, il bilancio della Difesa è diminuito negli
ultimi anni, ma è diminuito quello standard, ovvero quello dedicato
a funzioni esclusive e specifiche di difesa. Se si somma tutto siamo
a oltre 23,5 miliardi di euro. Anche dati internazionali, come
quelli elaborati dal Congresso Usa o dalla Cia vanno ben oltre l'1,5
del Pil, quella quota sbandierata dal ministro La Russa come
obiettivo che l'Italia non raggiunge. La Russa parla dello 0,9
percento, ma i dati aggregati parlano di oltre l'1,5 percento.
Quali sono le armi che
costano di più?
I costi maggiori sono per il personale, una zavorra di 190 mila
effettivi, con sole 10 mila unità all'estero. Gli altri eserciti
sono molto più efficienti sotto questo profilo. Il costo delle
pensioni. Il costo di armamenti inutili. Anche qui è il metodo che è
sbagliato. In Italia, per acquistare un armamento, basta che il
Parlamento dica sì all'inizio. Gli aggiornamenti e gli ulteriori
acquisti li può poi decidere in autonomia il ministero della Difesa,
eventualmente solo con il parere, non vincolante, delle Commissioni.
L'Eurofighter risale agli anni '80. A luglio è stato fatto un
accordo per tale apparecchio che costerà 8-9 miliardi di euro. Così
per l'F35: l'ultimo passaggio in Parlamento è stato un parere
consultivo. Si toglie qualsiasi tipo di dibattito serio, articolato.
Si va avanti per inerzia, per frasi fatte. Senza capire e chiedersi:
avevamo bisogno di 200 Eurofighter e di 130 F35? Certi acquisti sono
esagerati anche per i capi di Stato maggiore. Ma è una decisione
politica, che il nostro governo paga. Siccome gli Stati Uniti non
vogliono uno sviluppo di un caccia europeo, allora tirano dentro
Gran Bretagna e Italia nell'F35. Un vincolo di dipendenza enorme. E'
stato venduto come il più avanzato caccia in circolazione, ma è un
programma di cui non si conosce la fine, né tecnica né di
investimento. Una parte delle funzionalità è stata solo simulata, li
stanno facendo volare senza aver fatto tutti i test sennò sarebbero
troppo costosi. Nel libro scriviamo che non ci sarà nessun
trasferimento di conoscenza informatica o tecnologica, perchè noi
costruiremo solo le ali dell'apparecchio. Sono soldi buttati via,
anche per chi vuole uno strumento militare efficiente.
Cosa fare? C'è la possibilità
di un'inversione di tendenza nella contiguità tra forze politiche,
vertici militari e industria bellica?
Bisogna applicare le norme, che già
ci sono, evitando che un ex-militare, una volta finita la carriera,
finisca dritto dritto nelle aziende belliche. Bisogna aspettare tre
anni, prima che ciò accada. L'acquisizione di sistemi d'arma dura
vent'anni, per questo un capo di Stato maggiore dell'Aeronautica che
direziona e gestisce acquisti di tecnologie o sistemi, per esempio,
non può lavorare uno o due anni dopo per Augusta-Westland. E'
evidente il conflitto, e questo va impedito. Ma bisogna impedire
anche il contrario, ovvero che chi lavorava in politica finisca
nelle industrie belliche: l'Italia aveva un ambasciatore a
Washington che era anche vice-presidente di Finmeccanica,
Castellaneta. L'ex-sindaco di Novara, dove verranno costruite le ali
dell'F-35, oggi è nel consiglio di amministrazione di Alenia
Aeronautica. Mi domando come, all'epoca, poteva essere libera da
ogni pressione la sua risposta alla costruzione del velivolo. Una
scelta fatta solo per creare posti di lavoro? Non credo. Un sindaco
che va a lavorare per la Sanofi Aventis dopo aver sempre parlato
bene dell'industria dei farmaci non è molto ben visto. Nel settore
militare questa indignazione non avviene, purtroppo.
Luca Galassi
'Servi', il Paese
sommerso dei clandestini al lavoro
L'ultimo libro di Marco Rovelli:
indagine impietosa su un'Italia 'schiavista'
Si chiama 'Servi', e completa una triade.
Una piccola Divina Commedia dove non c'è paradiso, ma solo inferni:
prima erano i Centri di permanenza temporanea ('Lager Italiani', Rizzoli,
2006), poi le morti sul lavoro ('Lavorare uccide', Rizzoli, 2008). Oggi
è il 'Paese sommerso dei clandestini' a venire raccontato da Marco
Rovelli, già cantante - prima con i Les Anarchistes, poi da solo con
l'album 'Libertaria' - e insegnante in un liceo di Massa.
Con 'Servi' (edizioni Feltrinelli), lo
scrittore scende di nuovo nella terra dei dannati. "Se sono qui ad
ascoltare storie come queste - scrive Rovelli - è perche in esse leggo
la mia (...) queste immagini perfette di sradicamento le porto con me,
in questo viaggio, che mi fa fare un passo sotto, nel paese sommerso".
Noi
che lo abbiamo accompagnato in una di queste tappe, sappiamo che il
lavoro della penna di Rovelli è preceduto da quello di occhi e cuore. A
Cerignola, come in ciascuno dei viaggi compiuti per l'Italia, possiamo
testimoniare che certe storie, per raccontarle, l'autore prima le
osserva, poi le condivide. Bisogna trascorrere qualche giorno con
Marcella, donna ivoriana che gestisce un bar nella campagna foggiana,
per parlare la lingua dei servi. O per dare voce a chi non l'ha.
Africani, rumeni, polacchi, marocchini: Kojolì, Mircea, Caterina, Monsef.
Sono uomini e donne sfruttati e trattati come schiavi, una comunità
sommersa la cui condizione trascende le etnie: "Rumeni e polacchi
sembrano bianchi, ma è Dio che ha sbagliato il colore della pelle", dice
Marcella. Un crogiuolo di popolazioni approdate in Italia per lavorare
nei luoghi più derelitti della nostra penisola: nei latifondi del sud
Italia come nei cantieri di Milano e Torino. Da irregolari, la terra
riservata loro è solo quella dove raccogliere pomodori. O quella da
impastare per fare cemento. O, ancora, quella d'asfalto dove
prostituirsi. I servi raccolgono pomodori che non mangeranno,
costruiscono case che non abiteranno. Raccontano storie che nessuno
ascolterà. A meno che non vengano registrate, assorbite e restituite da
chi si è applicato ad esse con scrupoloso impegno, producendo un lavoro
documentato quanto quello di un giornalista d'inchiesta, ma dipinto con
la ricchezza e lo stile del narratore vero.
'Servi'
si apre con l'unico possesso che questi uomini hanno: le mani. "Quelle
mani che hanno da dire e non hanno parola, quelle stesse mani mute che
sorreggono le mie mentre battono sui tasti del computer; le mie mani che
parlano, e provano a forgiare una parola che sia in grado di poter far
vedere quelle mani che soffrono ciò che gli altri dicono". Sulle loro
mani, e sulle loro braccia, si regge l'economia del sommerso in Italia,
un Paese dove il lavoro nero ("anzi, nerissimo") rende più che altrove.
Ma ad un prezzo, quello delle violenze e dei soprusi, dei ricatti dei
caporali, dei documenti ritirati dal padrone, delle paghe da fame, delle
morti silenziose. Come in ogni altro lavoro, Rovelli correda il libro
con un'appendice dove espone, dati alla mano, alcune tesi che rovesciano
la tesi proposta all'immaginario dalla retorica del potere.
L'immigrazione
clandestina non è un'emergenza, un evento epocale - dice l'autore - ma
un fenomeno storico, con una sua evoluzione e un suo futuro. Chi la
presenta come tumore sociale compie un'operazione di propaganda. Il
Rapporto sulla sicurezza rivela che nella popolazione carceraria
italiana gli irregolari sono il 33 percento (rispetto a una popolazione
di stranieri regolari e irregolari del 7 percento). Il libro smonta
l'assioma 'clandestino-criminale'. Come? Interpretando i dati. La
maggior parte degli irregolari è entrata legalmente, ed è rimasta sul
territorio oltre la scadenza del visto o del permesso di soggiorno. I
reati compiuti dagli irregolari diminuiscono in occasione delle
sanatorie, a dimostrazione della volontà dell'immigrato, una volta 'emerso',
di far di tutto per non perdere il proprio status. Gli irregolari
compiono in maggioranza piccoli reati, e le pene sono più basse rispetto
a quelle comminate agli italiani. Gli irregolari non fruiscono di pene
alternative, come l'affidamento ai servizi sociali o i domiciliari:
perchè non hanno un domicilio stabile o una famiglia che li ospiti.
Il libro si chiude come si è aperto: con le mani. Dei clandestini ci si
serve perchè sono invisibili, senza diritti. Clam-des-tinus, dal latino
'clam', ciò che sta nascosto, e 'die', giorno. Ciò che sfugge alla luce.
Dei clandestini ci si serve e non lo si dice. "Se una mano dà scandalo,
la si tagli. Quanta parte dell'Italia oggi occorrerebbe amputare?"
3
novembre
Sono già 146 i detenuti morti
dietro le sbarre da gennaio. Decine di casi di autolesionismo. Si tolgono la
vita soprattutto i condannati sottoposti al regime di isolamento
Carceri,
quest'anno già 60 suicidi
"Pochi educatori, strutture
vecchie"
di VLADIMIRO POLCHI
ROMA - Sessanta suicidi
dall'inizio dell'anno, oltre 500 dal 2000. Dieci casi al giorno di
autolesionismo. 1.365 detenuti deceduti dal 2000 al marzo 2009. 300-400 tentati
suicidi l'anno. Eccola la perenne emergenza delle patrie galere: violenze,
suicidi, morti sospette. Dietro le sbarre mille storie di umanità cancellata.
Da inizio gennaio a oggi sono 146 i detenuti morti in carcere, 6 in più del
totale dello scorso anno. Ma è il dato dei suicidi a suscitare allarme: nei
primi dieci mesi del 2009 i detenuti che si sono tolti la vita sono stati 61
(l'ultimo ieri sera a Verona), ventuno in più rispetto allo stesso periodo del
2008. Dove si muore di più? Secondo i dati dell'associazione "Ristretti
Orizzonti", "ogni 4 suicidi uno muore in cella di isolamento: con il progressivo
inasprimento del regime detentivo si assiste, infatti, ad un notevole aumento
dei casi di suicidio". Non solo: "I detenuti sottoposti al regime del carcere
duro (art. 41bis) si uccidono con una frequenza 4,45 volte superiore al resto
della popolazione carceraria". Soffrono i detenuti, ma soffre anche la polizia
penitenziaria, che nell'ultimo mese ha pagato con tre suicidi lo stress di un
lavoro spesso poco riconosciuto.
"Ristretti Orizzonti" cita il Bollettino degli eventi critici negli istituti
penitenziari del ministero della Giustizia: dal 1992 al 2008 ogni anno muoiono
in media 150 detenuti, di cui circa un terzo per suicidio e gli altri due terzi
per cause naturali. Gli omicidi registrati sono 1-2 l'anno. I suicidi riguardano
prevalentemente i detenuti più giovani: i 10 "morti di carcere" più giovani del
2009 sono tutti suicidi e due avevano solo 19 anni. Non mancano le opacità: le
morti per "cause da accertare" sono più numerose di quelle per "malattia".
Alla base della sofferenza del pianeta carcere è senza dubbio la condizione di
sovraffollamento. "Con 65mila detenuti in carceri che ne possono contenere a
mala pena 43mila - rileva Donato Capece, segretario del sindacato autonomo
polizia penitenziaria (Sappe) - accadono purtroppo questi episodi. Come può del
resto un agente, da solo, controllare 80-100 detenuti?". E ancora: l'80% delle
206 galere italiane hanno oltre un secolo di vita (di queste il 20% risale
addirittura al Medioevo). "Da un lato cresce il dramma del sovraffollamento
dietro le sbarre - spiega Patrizio Gonnella, presidente dell'associazione
"Antigone" - dall'altro resta fermo il numero di educatori e assistenti sociali.
La conseguenza? I detenuti restano sempre più soli ed è più facile che le storie
di disperazione finiscano male". Insomma, secondo Gonnella, "il numero crescente
dei suicidi è la cartina di tornasole di un carcere malato, mentre i casi di
violenza fanno stabilmente da filo rosso".
Gli afgani
di Capitan Bavastro
Giorni di attesa per i 150
afgani accampati alle spalle della Stazione Ostiense
Abbiamo
un problema. Quanto è credibile lo Stato Italiano? In otto anni di guerra in
Afghanistan abbiamo speso oltre 2,5 miliardi di euro (più o meno due
finanziarie), inviato nei diversi avvicendamenti dei contingenti almeno 10 mila
soldati, con una presenza fissa adesso di 3 mila e 22 di loro sono rientrati in
Italia solo in bare di legno avvolte dal Tricolore. Tutto questo perché, tra i
principali obiettivi della missione cè quello di garantire la sicurezza, una
vita quotidiana tranquilla a milioni di afgani. Ma saremo realmente in grado di
mettere in salvo 25 milioni di afgani dalla ferocia dei talebani, dai proiettili
degli Ak-47, dagli Ied se nel cuore di Roma alle spalle della stazione Ostiense
non siamo in grado di proteggere 150 profughi afgani da pioggia, pulci, topi e
soprattutto a preservarne la dignità? Su di loro, lunedì, incombe lennesimo
sgombero.
Via Capitan Bavastro, Roma. Sera. Laria è bagnata. Lumido entra nelle ossa. Nel
piazzale adiacente ai binari della ferrovia ci sono i camper di Medu, i Medici
per i diritti umani, che da oltre tre anni si prendono cura e difendono i 150
afgani. Le loro tende, le loro baracche, sono sparpagliate sulla terra in uno
sbancamento di terreno a una decina di metri sotto il livello della strada.
Alberto, affacciato alla balaustra guarda in basso in quella buca e racconta
della sua angoscia. Il 23 ottobre la polizia è arrivata per una operazione di
bonifica ambientale. Le ruspe hanno portato via limmondizia accumulata, ma anche
i pochi preziosissimi effetti personali: le coperte in cui si rannicchiavano la
notte, i medicinali, la documentazione sanitaria. E poi lordine di abbandonare
le baracche nel termine di dieci giorni. Il termine scade lunedì 2 novembre. È
per questo motivo che i volontari di Medu Alberto, Francesa, Maria Rita,
Francesco, Marieaud che ha un bambino nato da poco e che dorme tranquillo nel
camper, presidiano il campo. Soprattutto nelle ore notturne, quelle più
sensibili, quando potrebbe arrivare lo Stato con le luci bianche e il megafono a
buttare fuori gli afgani.
Ground Zero. Uno striscione bianco dà il benvenuto a chiunque abbia voglia di
andare a vedere come si vive da rifugiati politici. Benvenuti nel nostro Ground
Zero. E infatti, le fotografie mentali del grosso buco a Manhattan, ti si
presentano davanti agli occhi in rapida sequenza. Qui dovrà essere costruito un
palazzone e per questo motivo gli afgani devono lasciare il posto che spetta
alle fondamenta. È legittimo, si dirà, si tratta di proprietà privata.
Il punto è questo. Medu si è rivolta alle autorità, alle amministrazioni.
Bisogna trovare un posto alternativo per queste persone. La risposta, in stretto
politichese, fa riferimento a progetti, provvedimenti quadro, ordinanze. Ma le
uniche volte in cui lo Stato si fa vivo, lo fa in uniforme, lo fa per dare
avvertimenti. Dovete lasciare questo posto. Ma dove devono andare? Questo, a
quanto pare, non è un problema dello Stato. La delega al privato, al cittadino,
è diventata prassi per lo Stato. Se non ci fossero privati come i volontari di
Medu, la comunità di SantEgidio e qualcun altro che si preoccupi di portare
generi di conforto a queste vittime di una guerra che di certo non hanno deciso
loro di combattere, sarebbero abbandonati a loro stessi.
Gli afgani di Capitan Bavastro. Sono per lo più giovani, poco più che
adolescenti. Sono di etnia pashtun, hazara, tagika. Hanno affrontato un lungo
viaggio per sfuggire alla violenza e alla guerra. Quasi tutti sono arrivati
attraverso la Grecia. Molti di loro hanno lasciato le impronte digitali alla
polizia greca. Su molti di loro la polizia greca ha lasciato segni di percosse.
Sono richiedenti asilo o titolari di permessi di soggiorno per motivi umanitari
e come tali hanno, avrebbero, diritto a unassistenza sociale e sanitaria
parificata a quella dei cittadini italiani. Vogliono inserirsi, vogliono
lavorare. Vogliono che gli italiani vadano a consumare un tè con loro. Maria
Rita e Francesca, nel fine settimana insegnano loro litaliano. Gli afgani
ricambiano: lezioni di aquilone e di panificazione nel piccolo forno che si sono
costruiti da soli.
I tempi in cui Sandro Pertini abbracciava il piccolo Mustafà scampato alla
guerra in Libano sono molto lontani. Oggi, a Roma, Italia, la questione del
decoro urbano ha più dignità del civile dovere dellaccoglienza.