
24 marzo

Aids: Francia e Germania
contro il Papa
La Chiesa conferma le parole di Benedetto XVI
sull'Aids
I due paesi europei hanno criticato il discorso di
Benedetto XVI in Africa dove ha detto che l'Aids "non si può superare con la
distribuzione dei preservativi che, anzi aumentano i problemi".
Dopo questa dichiarazione sia la Francia sia la Germania hanno detto che queste
frasi "mettono in pericolo le politiche di sanità pubblica". Secondo quanto
riferisce un comunicato stampa cogiunto delle ministre tedesche della Salute,
Ulla Schmidt, e della Cooperazione economica e dello sviluppo, Heidemarie
Wieczorek-Zeul, "una moderna cooperazione allo sviluppo deve dare ai poveri
l'accesso ai mezzi di pianificazione familiare e tra questi rientra in
particolare anche l'impiego dei preservativi. tutto il resto sarebbe
irresponsabile".
Inoltre, il Vaticano ha confermato la posizione della Chiesa dopo le critiche e
aggiunge che le parole del Papa sono state, secondo loro, mal riportate: "la
Chiesa concentra il suo impegno non ritenendo che puntare essenzialmente sulla
più ampia diffusione di preservativi sia in en realtà la via migliore", secondo
si legge in una nota della Santa Sede.
Corea, Pyongyang espelle
cinque Ong
Non è ancora chiaro se il governo intenda
rifiutare anche gli aiuti del World Food Programme. Il governo di Pyongyang ha
deciso di espellere cinque Ong statunitensi che si occupano di distribuire
derrate alimentari e aiuti umanitari nel Paese.
La notizia arriva direttamente dal dipartimento di Stato di Washington e dalle
cinque organizzazioni non governative, alle quali è stato dato tempo fino alla
fine del mese per lasciare la Corea del Nord.
Joy Portella, portavoce di Mercy Corps, una delle organizzazioni toccate dal
provvedimento, ha dichiarato di aver ricevuto la notizia dell'espulsione senza
alcuna motivazione.
Le altre Ong statunitensi che dovranno lasciare la Corea sono World Vision,
Global Resource Services, Samaritan's Purse and Christian Friends of Korea.
Non è ancora chiaro se Pyongyang intenda rifiutare anche gli aiuti umanitari del
World Food Programme, che costituiscono la maggioranza degli aiuti. Secondo
quando calcolato dall'agenzia umanitaria delle Nazioni Unite, nella Corea del
Nord, quasi nove milioni di abitanti, un terzo circa della popolazione,
necessita di aiuti alimentari.
Stati Uniti, aumentano le
denunce per violenza sessuale nell'esercito
2923 i casi riportati ma si stima siano solo il
20 percento delle violenze
Secondo
quanto riportato in uno studio del Pentagono, le denunce per violenza sessuale,
che coinvolgono i soldati dell'esercito statunitense, sono aumentate nell'ultimo
anno dell'8 percento.
Nel conteggio sono comprese sia violenze contro i civili che quelle avvenute
all'interno dell'esercito. Dei 2923 casi aperti per stupro durate il 2008, 163
sono avvenuti in Iraq e in Afghanistan, con un incremento di un quasi un quarto
rispetto all'anno precedente.
La dottoressa Kaye Whitley, a capo del Sexual Assault and Prevention Office del
Pentagono si è però affrettata a dichiarare che il maggior numero di cause
legali non significa necessariamente un aumento della violenza, quanto piuttosto
una maggiore propensione alla denuncia.
Resta però il fatto che, secondo le stime fornite dal Pentagono stesso, i casi
riportati alle autorità inquirenti costituirebbero solo un quinto di quelli
commessi.
Inoltre dei 2763 casi denunciati nel 2007, solo 832 sono arrivati ad una
conclusione giudiziaria.
Notti di rivolta «ordinaria»
nelle banlieues
Una banda è entrata in un liceo professionale a
Gagny, la scorsa settimana, per un regolamento di conti tra quartieri, armata di
barre di ferro. Nella notte di sabato scorso, dei poliziotti sono stati attratti
in una trappola e presi di mira con armi da fuoco ai Mureaux. Alcuni sono
rimasti leggermente feriti. Sempre tra sabato e domenica, il commissariato di
Montgeron è stato preso a rivoltellate, con un calibro 12. Nella stessa notte
delle auto sono state bruciate in pieno centro di Parigi, nel Marais. I servizi
segreti non credono però che questa serie di episodi sia un segnale che annuncia
una nuova esplosione delle banlieues, come era successo nell'autunno del 2005.
La situazione, nei fatti, è sempre la stessa nelle periferie difficili.
Ogni week end conta le sue macchine bruciate. La tensione è continua e un
episodio qualsiasi potrebbe trasformarsi nella miccia che fa ripartire
l'incendio. Gli interventi politici sono stati molto limitati dal 2005 e il
«piano per le periferie» messo a punto dalla sottosegretaria Fadela Amara si è
sgonfiato man mano che veniva messo a punto, per mancanza di finanziamenti e di
reale volontà del governo di incidere sulla situazione. Il tasso di
disoccupazione dei giovani che abitano i quartieri difficili resta estremamente
più alto di quello dei loro coetanei più fortunati. Ma, secondo il direttore
dipartimentale della pubblica sicurezza della zona dei Mureaux, questo episodio
non è «legato alla crisi». Piuttosto, è una reazione a dei recenti arresti negli
ambienti della droga, anche se da giorni ai Mureaux la tensione era cresciuta,
in seguito alla morte di un mediatore municipale, che si è ucciso in macchina
per sfuggire alla polizia che cercava di arrestarlo per un fatto criminale.
Con Sarkozy, la banlieue è stata militarizzata. La ministra degli interni,
Michèle Alliot-Marie ha annunciato che presto ci saranno dei droni, degli aerei
senza pilota, a sorvegliare cosa succede nei quartieri difficili, dove la
polizia ha paura di entrare. La violenza aumenta e si fanno più frequenti gli
scontri con le forze dell'ordine dove viene fatto ricorso ad armi da fuoco. Era
già successo nel 2005 a Montfermeil, la cittadina dove era partita la rivolta
delle banlieues, a Villiers-le-Bel nel novembre del 2007, durante l'esplosione
che aveva fatto seguito alla morte di due ragazzini in un incidente con un'auto
della polizia, a Etampes nel marzo 2007 e a Aulnay-sous-bois nel novembre dello
stesso anno. Spesso con lo stesso scenario: una macchina viene incendiata,
qualcuno chiama la polizia, che cade nella trappola e gli agenti sono presi di
mira da gruppi di giovani molto mobili. E' successo anche a Pointe-à-Pitre in
Guadalupa, durante lo sciopero a febbraio, poi in Martinica e alla Réunion
all'inizio di marzo. Si tratta di episodi isolati. Ma i sindacati di polizia
denunciano «una crescita delle violenza organizzata ed armata» nelle zone
difficili, dove la rivolta sociale spontanea è spesso sfruttata da bande
criminali.
«Europa no grazie», doppio
autogol del ministro Ronchi
Vuoi un'Europa fortezza o un'Europa giardino?
Quanta sicurezza è troppa sicurezza? Domande che sono il cuore della campagna
lanciata ieri dal Parlamento europeo per incoraggiare il voto di giugno. Sotto
la domanda sulla sicurezza tre cartelli stradali triangolari, quelli indicanti
pericolo, sovrastati da una telecamera, un'impronta digitale e un poliziotto. La
campagna si dirige a 15 paesi a bassa affluenza, tra cui l'Italia, anche se
l'Italia è stata l'unica a non volerla. Il rifiuto l'ha annunciato il ministro
Ronchi, che ha bollato l'idea europea come «inadeguata» e ha rilanciato con
un'altra proposta nazionale. Un rigetto che colpisce, ma che viene preso con
sportività ed ironia dal diretto interessato, il Parlamento. «Ringrazio il
governo italiano - ha detto ieri Alejo Vidal Quadras, vicepresidente popolare
spagnolo dell'eurocamera - per il contributo involontario che ha dato alla
nostra iniziativa». Insomma, un doppio autogol di Ronchi.
Precari a terra, manager
strapagati
Non passano gli emendamenti sul raddoppio
dell'una tantum per gli atipici e sul tetto agli stipendi di banchieri e
dirigenti richiesto dalla Lega. Per i finti collaboratori la misura dovrebbe
rientrare. I manager invece possono stare tranquilli
Salta il potenziamento degli ammortizzatori
sociali per i precari e salta anche il tetto alle retribuzioni dei manager. Le
due misure, presentate dal governo come due emendamenti al decreto legge sugli
incentivi al settore dell'auto e elettrodomestici, non hanno superato le maglie
di «ammissibilità» (per estraneità di materia) e sono state rigettate insieme
alla metà circa degli emendamenti presentati (400). Ma se sui precari ieri sera
veniva data quasi per certa la reintroduzione del provvedimento, per il tetto
agli stipendi dei manager (deciso da Prodi, poi congelato da Berlusconi) pare
trattarsi di un nuovo - definivo probabilmente - affossamento.
«Gli emendamenti del governo sui precari verranno ripescati», assicurava in
serata il relatore del decreto legge alla commissione finanze della camera, dopo
le aperture del presidente della camera Gianfranco Fini. La misura d'altro canto
è stata ampiamente pubblicizzata dal ministro Sacconi, e non comporta un
particolare esborso per le casse statali, trattandosi di circa 100 milioni di
euro. Si tratta del raddoppio - dal 10 al 20 per cento della retribuzione
percepita - dell'indennità una tantum per i parasubordinati (ossia i
collaboratori fasulli) che saranno licenziati: 1600 euro medi, per una platea di
80-90 mila persone (il 10 per cento circa dei parasubordinati conosciuti),
secondo i conti della Cgil, che ha criticato la misura definendola un «raddoppio
dell'elemosina». Oltre a questo, il pacchetto del governo prevedeva una
semplificazione del procedimento di accesso agli ammortizzatori sociali (oggi
servono dai 120 ai 140 giorni per gli strumenti ordinari). «Talvolta si può
rimanere vittima del troppo decisionismo, ma se quel poco che si è fatto salta
vorrei che il governo accogliesse le proposte da noi fatte», commenta il
segretario Cgil, Epifani. Per i precari la Cgil chiede un ampliamento della
platea degli interessati (dai 90 mila che sono a circa 180 mila) e un raddoppio
dell'assegno una tantum, dal 20 al 40 per cento della retribuzione dell'anno
precedente. Il segretario della Cisl Bonanni ha chiesto al governo di «trovare
un rimedio immediato», e così hanno fatto molti esponenti del Pd. Difficile
pensare che il governo non accolga le richieste, trattandosi di una misura a
basso costo ma sicuramente popolare in tempi di crisi come questi.
Decisamente più impopolare invece, tanto è vero che ieri in pochissimi ne hanno
parlato e nessuno ne ha prefigurato un reinserimento, il tetto agli stipendi di
manager e banchieri. L'emendamento era stato presentato dalla Lega e prevede che
il trattamento economico di dirigenti di banche e imprese che, in seguito alla
crisi beneficeranno di aiuti pubblici, non possa superare il limite di 350 mila
euro all'anno. Un altro emendamento, ugualmente respinto, prevede similmente il
limite massimo del trattamento previsto per i parlamentari, per qualunque
soggetto in rapporto di lavoro con amministrazioni statali, o con enti pubblici
di ricerca. Non la rivoluzione, insomma. Tanto più che un tetto agli stipendi
dei manager pubblici (pari alla retribuzione del primo presidente della corte di
cassazione, ossia 289 mila euro) era stato previsto e introdotto dal governo
Prodi, per essere poi congelato seduta stante da Berlusconi.
«Mentre si licenziano i precari della pubblica amministrazione, il governo
riesce a eliminare il tetto delle retribuzioni: un fatto gravissimo anche perchè
sarebbe bastato non fare nulla e applicare la norma esistente», commenta a caldo
il segretario della funzione pubblica Cgil Carlo Podda. Ma sempre in tema di
precari e di pubblica amministrazione, l'iperattivo ministro Brunetta sembra
avere compiuto il miracolo: dalle cifre diffuse ieri sui primi risultati del
monitoraggio lanciato nel settore, risultano appena 1125 persone con i requisiti
per la stabilizzazione. «Un vero miracolo», replicano dalla Cgil: «Brunetta è
riuscito a fare sparire i precari».
Piaggio lacerata
sull'integrativo: Cgil contro Cisl e Uil, si va al referendum
Come sul modello contrattuale, accese assemblee
sulle diverse posizioni. Ma qui il nodo del contendere sono la turnistica e i
salari
Dodici assemblee in quattro giorni alla Piaggio di
Pontedera, da lunedì scorso e fino a domani, di fronte a circa duemila operai e
un migliaio di impiegati. Con da una parte la Fiom Cgil, compatta, che spiega il
perché del suo «no» all'ipotesi di accordo integrativo. Una bozza di intesa
firmata invece dalle altre sigle sindacali metalmeccaniche, che a loro volta si
battono per il «sì» al referendum fra i lavoratori, fissato all'inizio della
prossima settimana. Clima caldo, insomma, nella più grande fabbrica del centro
Italia. Riscaldato ulteriormente dalla decisione dell'azienda di convocare mini
assemblee degli impiegati, proprio mentre si svolgono quelle organizzate da Rsu
e sindacati. «Un chiaro comportamento antisindacale - osserva Maurizio Landini
della Fiom nazionale - nel solco di quanto il management Piaggio ha già fatto
nel corso delle trattative per l'integrativo, per dividere i lavoratori». Il
giudizio di Landini è anche quello del segretario generale Gianni Rinaldini, che
annuncia: «Se alla Piaggio l'azienda dovesse persistere nelle sue iniziative, la
Fiom darà corso alle conseguenti azioni legali a tutela dei diritti dei
lavoratori. Perché ci troviamo di fronte a una evidente operazione volta a
esercitare una pressione inaccettabile sullo svolgimento democratico del voto».
Secondo la Fiom, l'accordo per l'integrativo pone condizioni ancora peggiori
dell'offerta fatta da Piaggio nell'ottobre scorso. Un'offerta all'epoca
rifiutata dalla Rsu e da tutte le organizzazioni sindacali. Ma Landini sul punto
puntualizza: «Per noi non è in discussione quanto ottenuto, unitariamente, nel
corso delle trattative fino all'ottobre scorso. In altre parole su ambiente di
lavoro, sicurezza, relazioni sindacali, e sull'organizzazione della produzione
che comprende sia l'inquadramento dei lavoratori che l'occupazione con l'entrata
definitiva dei contrattisti a termine, l'ipotesi di accordo è ok». Quello che
alla Fiom non va giù sono le parti dell'integrativo che riguardano gli orari di
lavoro e i salari. Più in dettaglio, sul primo punto Landini osserva: «Sulla
turnistica, l'azienda intende applicare un modello di orario su 17 turni e non
più su 15, con il sabato lavorativo. Il tutto dimezzando la percentuale della
'banca delle ore', che fino ad oggi prevedeva l'esenzione fino al 12% degli
operai su ogni linea, mentre nella nuova bozza di accordo la percentuale si
riduce al 6%».
In quanto agli stipendi, la Fiom sul punto è chiara: «Nell'ipotesi di
integrativo in discussione ci sono meno soldi a disposizione dei lavoratori di
quanto la stessa azienda aveva proposto in ottobre, al momento della rottura,
unitaria, delle trattative. In pratica la bozza di accordo prevede per il 2008
un aumento di soli 51 euro lordi. Mentre per quest'anno e per i due successivi,
in teoria, gli aumenti dovrebbero andare da 400 euro a 650 fino a mille euro nel
2011. Ma sono tutte cifre legate in pratica alle variabili sul premio di
risultato. Insomma non solo sono pochi soldi in assoluto, ma sono anche legati a
indicatori di produzione fissati dall'azienda».
Di questo si sta discutendo in Piaggio nelle assemblee. Durante le quali la Fiom
fa anche due conti: «Dal sito ufficiale Piaggio - chiude Landini - vediamo che i
bilanci consolidati segnalano guadagni netti per 170 milioni di euro negli
ultimi tre anni. Poi che Roberto Colaninno e i due più importanti dirigenti
Piaggio nel 2008 hanno guadagnato, in tre, 2.5 milioni. Infine che le stock
option per i manager Piaggio sono costate all'azienda circa 7 milioni di euro».
17 marzo
Ronchi: "Mentre l'Europa
investe nel sole l'Italia vede solo il nucleare"
di Antonella Loi
19
marzo 2009 - Agli ultimi posti in Europa per produzione di energia da fonti
rinnovabili. Mentre la Germania vola e altri Stati come l'Inghilterra o l'Olanda
fanno a gara per raggiungerla, l'Italia, sempre ai blocchi di partenza, ignora
le continue spinte comunitarie. "Il nostro Paese soffre di un forte ritardo
culturale rispetto alla media europea, quel ritardo che accomuna tutti i Paesi
dell’area mediterranea", ci spiega Edo Ronchi, presidente della Fondazione per
lo sviluppo sostenibile ed ex ministro dell'Ambiente. L'incapacità dell'Italia
di guardare ai paesi nordici in termini di sviluppo energetico è storia e la
pagina più recente riguarda proprio le fonti alternative. "E poi in Italia c'è
il problema della polemica sempre aperta contro l’ambientalismo ideologico, una
gabbia dalla quale non si esce".
E i numeri ci dicono che il gap con i paesi del
Nord Europa è davvero ampio.
"Per fare una valutazione basta prendere in
considerazione il periodo 2000-2007. In questo lasso di tempo l'Ue dei 15 ha
aumentato la produzione di energia elettrica attraverso le rinnovabili in media
di un +26,4%. Il primo Paese è la Germania che ha incrementato la sua produzione
del 119%. Segue l'Olanda (+161%), la Gran Bretagna +109,7% e ancora la Spagna
(+64,7%). L'Italia in questo periodo ha fatto registrare il -3,7%”.
Un quadretto per nulla edificante.
“Niente di buono in effetti, anche se bisogna
ammettere che, avendo piovuto molto nel 2008, la produzione di energia
idroelettrica è cresciuta facendo segnare un +7% rispetto al 2007. Ma è chiaro
che da noi non c'è il forte sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili che
vediamo negli altri Paesi”.
E allora l'Italia su quali fonti rinnovabili
dovrebbe investire?
“Secondo me su tutte. Abbiamo appena detto
dell’energia idroelettrica, guardando soprattutto ai piccoli impianti. Ma anche
l’eolico che ha visto negli ultimi anni un grande sviluppo in Europa e poi il
solare che rappresenta un importante settore di sviluppo che guarda al futuro.
Mentre in tutta Europa si investe, l’Italia sfrutta pochissimo il solare: solo
0,04 kwh prodotti nel 2007. Poi anche le biomasse, la geotermia e la cattura del
CO2 offrono delle opportunità interessanti”.
Con la legge 27 febbraio del 2009 il governo ha
cancellato l'obiettivo del 25% di energie pulite entro il 2012. Lei ha duramente
criticato questa decisione.
"Certo, perché il governo ha messo un obiettivo al
2020 del 17% e per di più sui consumi finali senza specificare quale sia la
quota di produzione di energia elettrica, comprendendo anche calore e
biocarburanti. Quindi di fatto è stato cancellato l'obiettivo previsto dalla
legge 244/2007. Una norma che puntava a coinvolgere le Regioni a incrementare
rapidamente (entro 4 anni) nei rispettivi territori la localizzazione di
impianti per la produzione di elettricità da fonti rinnovabili. Ed oggi non
sappiamo ancora quale sia l'impegno che il governo vorrà prendere per promuovere
la produzione energetica attraverso le fonti pulite".
Una pagina ancora da scrivere.
"Esatto. Attendiamo chiarimenti attraverso nuove
norme che stabiliscano la ripartizione tra le energie. E comunque sarà un
orizzonte non più fissato per legge a breve termine, ma al 2020. Per sapere
quale sarà il nuovo obiettivo al 2012 bisogna attendere le norme. Ma si
tratterà, è evidente, di un obiettivo modesto”.
Per tenersi in linea con l'Europa e con gli
impegni internazionali, cosa dovrebbe fare secondo lei l'Italia?
“Scelte più coraggiose. Lo possiamo dire sempre in
termini percentuali: dovremmo raggiungere una produzione di energia pulita pari
al 18 per cento e, in termini di elettricità, almeno il 33%. Ma parliamoci
chiaro: qui sono state rinviate anche le norme già vigenti sull'efficienza
energetica dei fabbricati. E’ un segnale molto indicativo”.
Il governo ha però optato per la produzione di
energia nucleare.
“Sì, e per fortuna è una scelta ancora aperta: non
c’è ancora la legge, non c’è il sito, non c’è il progetto di finanziamento e
serve un immobilizzo ingente di capitali a lunga scadenza. Tanto più che si è
optato per la tecnologia francese che è superata dalle centrali di quarta
generazione. E queste saranno pronte solo tra 10-15 anni. L’Italia sta
investendo in una tecnologia vecchia che non dà grande resa in termini di
sicurezza (valutata sulla base delle probabilità di incidente per contenuto di
pericolosità). Io vedo tante chiacchiere e poca sostanza, mettiamola così”.
Una scelta sbagliata dunque?
“Sbagliata e incostituzionale. Perché il Titolo V
della Costituzione, all’articolo 117, stabilisce che la materia dell’energia è
una materia concorrente, sulla quale decidono anche le regioni. Ma il Governo
per aggirare gli ostacoli è intenzionato a dichiarare il nucleare di “interesse
nazionale”. Quindi la questione potrebbe arrivare fino alla Corte
Costituzionale. Ancora tutto aperto”.
Il timore di molti è che gli ingenti
investimenti che il nucleare richiede, alla fine arrivino dalle casse pubbliche
e non da quelle di investitori privati.
“Secondo le norme Ue questo non si può fare perché
gli Stati sono autorizzati a finanziare, al fine di incentivarle, solo le
energie rinnovabili. Il nucleare non lo è e quindi o lo finanziano i privati o
non lo finanzia nessuno. Sempre che, ovviamente, le leggi non riescano a far
cambiare le leggi”.
17 marzo
Usa, la pena di morte uccisa dalla crisi
Schiacciati da bilanci in rosso, diversi Stati contemplano
l'abolizione della pena capitale: costa più dell'ergastolo
Alessandro Ursic Dove non sono arrivati i principi
morali, forse ce la farà il soldo. Di fronte alla crisi economica, e
appesantiti da bilanci sempre più in rosso, diversi Stati negli Usa
stanno considerando proposte di legge per abolire la pena di morte,
seguendo un semplice ragionamento: contrariamente a quanto pensino
molti, costa più dell'ergastolo.
La
scorsa settimana, nel New Mexico il Congresso ha approvato il testo
finale della legge che lo farebbe diventare il 15esimo Stato americano
senza esecuzioni: manca solo la firma del governatore democratico Bill
Richardson, in passato favorevole alla pena di morte ma ora - l'ha
ammesso lui - non più così sicuro delle sue convinzioni. Altri nove
Stati ne stanno comunque discutendo. In alcuni casi, come nel Colorado
e nel Kansas, le proposte citano esplicitamente il risparmio per le
casse statali, in caso di abolizione. Il New Jersey, che a fine 2007 è
stato l'ultimo Stato a disfarsi della pena capitale, lo fece anche per
ragioni economiche.
Ma perché costerebbe meno tenere in cella una persona a vita, invece di
portarla nelle mani nel boia? Innanzitutto per i costi giudiziari
dell'annosa sequenza di sentenze, appelli e controappelli: i
procedimenti richiedono un numero extra di avvocati, specializzati in
questi casi e quindi dalle parcelle più onerose. La raccolta delle prove
è un'altra voce che alza il prezzo, perché un test del Dna costa più di
una ordinaria analisi del sangue. Infine, anche la detenzione nel
braccio della morte è più costosa di quella in una semplice prigione: i
condannati vengono rinchiusi in celle individuali, in sezioni a parte
dei centri di detenzione, con un maggior numero di guardie pro-capite.
Se si aggiunge il fatto che dalla sentenza all'esecuzione passano anche
15-20 anni, il conto è presto fatto. Una commissione californiana l'anno
scorso ha calcolato in 90mila dollari il costo aggiuntivo per ogni
condannato a morte - e nello Stato al momento ci sono 667 detenuti in
attesa di esecuzione. Secondo alcuni esperti, in sostanza la pena
capitale costa dieci volte tanto un ergastolo.
"E'
la prima volta che il costo rappresenta la questione prevalente nella
discussione sulla pena di morte", conferma Richard Dieter, direttore del
gruppo abolizionista Death Penalty Information Center. Negli anni
Novanta, i primi semi del dubbio nel dibattito americano sul tema erano
legati più alla possibilità - evidenziata da decine di scarcerazioni
successive all'esame del Dna - di giustiziare degli innocenti, per
quanto non esista ancora nessuna prova che ciò sia avvenuto. Negli
ultimi tre anni, nuovi "ostacoli" alla pena di morte sono giunti da
studi sul dolore provato dai condannati sottoposti a iniezione letale,
il metodo usato in tutti gli Stati Usa tranne uno. In un caso, in
Florida, un detenuto impiegò 34 minuti a morire. Per nove mesi le
esecuzioni si sono di fatto fermate, in attesa di una sentenza della
Corte Suprema (che la scorsa primavera ha poi sbloccato la moratoria,
sostenendo che l'iniezione letale non costituisce "pena crudele e
inusuale").
Qualsiasi ragione si voglia trovare, è un fatto che la tendenza negli
Usa è quella di un declino delle condanne e delle esecuzioni: le prime
sono passate dalle 284 del 1999 alle 111 dell'anno scorso, le seconde da
98 a 37. Dopo George W. Bush, che da governatore del Texas mise la sua
firma su 152 condanne a morte, il nuovo presidente Barack Obama appare
più tiepido sul tema: ha dichiarato di essere favorevole alle esecuzioni
solo in casi estremi. Come molti politici negli Usa, Obama ha però in
sostanza evitato la questione; forse anche perché conscio che il 60
percento degli americani rimane a favore della pena di morte, e specie
nel sud più religioso e conservatore il consenso è ancora più alto. Ma
anche se fosse un abolizionista convinto, Obama non avrebbe neanche
l'autorità per scavalcare i vari Stati.
Afghanistan, condanna senza appello
Confermati 20 anni allo studente di giornalismo che scaricò da
internet materiale 'blasfemo'. I legali e il fratello, giornalista,
intervistato da PeaceReporter: è lo specchio di un sistema
giudiziario in bancarotta morale
La Corte Suprema afgana ha confermato la condanna a 20 anni di
prigione per Parwiz Kambakhsh, studente di giornalismo accusato di
blasfemia. La decisione del massimo tribunale afgano è stata presa
in segreto il 12 febbraio scorso, e la famiglia l'ha appresa solo
ieri. Il caso aveva suscitato una vasta campagna di indignazione da
parte della comunità internazionale, spingendo molte organizzazioni
per i diritti umani e federazioni giornalistiche da tutto il mondo a
fare pressione affinchè il governo Karzai tornasse indietro.
Parwiz, 24 anni, era stato arrestato nel 2007 e dapprima condannato
a morte perchè accusato di aver scritto e distribuito un articolo
sul ruolo delle donne nell'Islam. L'accusato ha sempre sostenuto di
aver scaricato l'articolo da internet. I suoi familiari e i suoi
legali hanno definito illegale una procedura dove a Parwiz è stato
negato un giusto processo e la possibilità di difendersi.
Haiti, discriminazione
infinita
I cittadini haitiani vittime delle politiche migratorie
statunitensi
La storia gli haitiani la sanno bene. Costoro che
appartengono alla popolazione più povera, meno accettata e più
oltraggiata dell'emisfero, negli Stati Uniti e nel loro Paese. E
sanno che il meccanismo è sempre lo stesso: qualcuno deve
pagare.
 Recentemente,
i funzionari dell'Immigration and Customs Enforcement (ICE)
hanno evidenziato l'ingiustizia annunciando oltre 30.000
espulsioni, che riporteranno migliaia di haitiani al paese
d'origine. In una Haiti che già vacilla sotto il peso della
povertà, della repressione, della disperazione, della
devastazione portata dagli uragani della scorsa estate, e
dall'occupazione da parte dei caschi blu paramilitari delle
Nazioni Unite, stanziati illegalmente nel paese dal 2004 - per
la prima volta nella storia - per supportare e imporre un colpo
di Stato contro un Presidente democraticamente eletto, per
ordine di Washington. Il 9 dicembre 2008, l'ICE ha ripreso le
espulsioni dopo uno pausa iniziata a settembre a seguito degli
uragani estivi che si sono abbattuti su Haiti, e che hanno
lasciato 800.000 persone senza cibo, acqua e altri beni di prima
necessità, e 70.000 persone circa senza casa. La portavoce
dell'ICE Nicole Navas ha annunciato: "Era in programma la
ripresa dei voli per il rimpatrio degli espulsi, non appena la
situazione nel paese fosse stabile e sicura. Abbiamo ritenuto
fosse appropriato farlo ora considerate le attuali condizioni
sul posto... Le persone rimpatriate hanno ricevuto ordine
definitivo di rimpatrio nonchè i documenti di viaggio
necessari". Questo nonostante schiere di avvocati e persone
coinvolte sostengano che le condizioni ad Haiti siano
peggiorate, non certo migliorate. Anche osservatori
internazionali o imparziali hanno verificato la condizione reale
del Paese. La BBC ha definito la situazione di Haiti
"impressionante" e il Miami Herald ha dichiarato che vi è stato
il "disastro umanitario peggiore dell'ultimo secolo in Haiti",
che ha lasciato dietro di sé:
 In
dicembre, Randy McGorty, Direttore dei Catholic Legal Services
per l'Arcidiocesi di Miami ha dichiarato: "Dopo aver trattato
per otto anni con questa Amministrazione sulle questioni
haitiane, mi vedo costretto a concludere che la politica
adottata nei confronti di Haiti è razzista. È scandalosa. Gente
che ha perso tutto, non possiede il minimo, sta morendo di fame.
Un tale impietoso disprezzo per la vita umana è inspiegabile.
Molti haitiani espulsi non hanno una comunità a cui fare
ritorno. È scoraggiante il fatto che l'Amministrazione Bush
possa anche solo considerare l'idea di rimandare le persone in
questa nazione così incredibilmente fragile.... La crisi
umanitaria di Haiti continua e peggiora". Cheryl Little,
Direttore esecutivo del (South) Florida Immigrant Advocacy
Center (FIAC), ha affermato: "Stiamo facendo il possibile per
convincere i funzionari governativi a cambiare idea su questa
questione. Si tratta di un atto immorale e disumano".
Il 26 gennaio, il FIAC ha sollecitato il nuovo Segretario del
Dipartimento di Sicurezza Nazionale (DHS) Janet Napolitano, a
"fermare immediatamente queste agghiaccianti espulsioni e
pensare seriamente di concedere lo status di protezione
temporanea (TPS) agli haitiani già presenti negli Stati Uniti".
Nel corso del 2008, sono state rimandate verso miseria e
desolazione 1.000 persone, poi, dopo quasi tre mesi di
sospensione, sono ripresi i viaggi del dolore, con una visibile
accelerazione dopo l'insediamento di Obama.
Secondo il FIAC, a subire la situazione sono uomini come
Louiness Petit-Frere, espulso il 23 gennaio scorso: "Negli Stati
Uniti da 10 anni, fedina penale pulita, lascia la moglie
cittadina statunitense, la madre e quattro tra fratelli e
sorelle, tutti con status legale... Uno dei suoi fratelli, il
Sergente della Marina US Nikenson Peirreloui, ha prestato
servizio, ed è stato ferito, in Iraq". Nel 2008, Obama ha
condotto una intensa campagna elettorale per ottenere il voto
haitiano nella Florida del Sud. Oggi, tradisce la fiducia
abbandonando milioni di famiglie povere al proprio destino,
offrendo un aiuto ridicolo alle situazioni di emergenza, se
paragonato, per esempio, ai sussidi (miliardari) concessi a Wall
Street e ai ricchi.
 Dopo
che il Congresso istituì il TPS nel 1990, Washington concesse
protezione a 260.000 salvadoregni, 82.000 honduregni e 5.000
nicaraguensi, per poi estendere la concessione di permessi il 1
ottobre 2008. Ciò autorizza il Procuratore generale a concedere
lo status di immigrazione temporanea a residenti privi di
documenti ma impossibilitati a tornare in patria a causa di
conflitti armati, disastri ambientali o altre "condizioni
eccezionali e temporanee". Oltre a El Salvador, Nicaragua e
Honduras, tra i paesi beneficiati in passato si annoverano
Kuwait, Libano, Bosnia-Herzegovina, Guinea-Bissau, Rwanda,
Burundi, Liberia, Montserrat, Sierra Leone, Somalia, Sudan e
Angola. Sei nazioni godono ancora del TPS.
Ma gli haitiani non hanno mai ottenuto il TPS, sebbene la
concessione sia una delle forme di aiuto più semplici ed
economiche, e consentirebbe al governo della capitale
Port-au-Prince di concentrarsi sulla ricostruzione del paese
mentre gli haitiani in America contribuiscono inviando le
rimesse alle proprie famiglie d'origine.
Nel 2006, gli haitiani negli Usa hanno inviato 1,65 miliardi di
dollari, la percentuale di reddito più elevata di qualsiasi
gruppo nazionale straniero del mondo.
Nel 1997, l'Amministrazione Clinton concesse agli haitiani una
sorta di visto temporaneo della durata di un anno, accordato a
persone con lavoro e fedina penale pulita. Attualmente, circa
20.000 haitiani possiedono i requisiti necessari per ottenere il
TPS. Tra l'altro, rispetto ad altri paesi che benificiano di
permessi, il numero di haitiani è di gran lunga inferiore.
Ciononostante, le espulsioni continuano e 30.299 persone hanno
un "ordine finale di trasferimento", il che significa che un
giudice per l'immigrazione ne ha disposto l'espulsione. Circa
600 sono in stato di fermo, altri 243 sono monitorati
elettronicamente e tutti e 30.000 saranno allontanati da
un'Amministrazione insensibile verso i poveri tanto quanto le
precedenti, integraliste, che governavano sotto la presidenza di
George W. Bush. Pare che l'America sia il paese dove tutto
cambia, rimanendo però le cose sempre le stesse... persino se a
governare è il primo Presidente nero. Stephen Lendman
Il prezzo
dell’integrazione
Obiectiv, il periodico italo-romeno a vocazione
sociale
 «In
questo momento il nostro compito è tenere alto il morale dei
cittadini rumeni, fa male quando ti si dice che sei
stupratore per natura», esordisce così Magdalena Lupu,
caporedattore di Obiectiv, periodico italo-romeno che ha la
sua sede nel cuore del quartiere etnico di Torino, tra
Barriera di Milano e Porta Palazzo. Attivo da ormai due anni
svolge il compito di connettere la comunità romena e quella
italiana. Un compito tanto più importante oggi che, in
seguito a episodi di violenza che hanno avuto come
protagonisti cittadini romeni, si è diffuso un clima di
caccia alle streghe alimentato dai media e oggetto di
strumentalizzazioni da parte della politica. Recentemente il
senatore Stiffoni della Lega Nord ha dichiarato: «L'etnia
romena, se rappresentata da questi personaggi specializzati
in stupri, non è degna di restare in una Europa unita».
Eppure
i dati del ministero dell'interno, benché non
contestualizzati e dunque di ardua valutazione, dicono che
le violenze compiute da romeni sono in numero minore
rispetto ad altre etnie, per non parlare degli stupri
compiuti da italiani che restano il settanta percento del
totale. A Torino si sono verificati episodi di violenza ai
danni di rumeni, non da ultimo l'incendio di un negozio di
alimentari in via Monterosa avvenuto a fine febbraio,
considerato dalla polizia come crimine "a sfondo razziale".
E poi ronde, scritte xenofobe. «Ma noi non ci sentiamo
minacciati, abbiamo sempre espresso la nostra opinione, non
è una questione di coraggio. Noi vogliamo informare, è il
nostro lavoro -spiega Magdalena Lupu- noi vogliamo essere
l'altra faccia della medaglia, lo abbiamo detto fin dal
primo momento. Se un italiano intende conoscere l'opinione
di un romeno al di là di quanto si dice sui giornali o sente
in televisione lo può fare con noi. Allo stesso modo se un
romeno vuole difendere se stesso e la sua comunità da accuse
generalizzate può avere diritto di replica sul nostro
giornale». Le istituzioni locali però sono sorde al lavoro
di Obiectiv, non tanto quelle italiane, che si sono spese in
favore dell'integrazione specialmente dopo l'ingresso della
Romania nell'Europa unita, ma quelle romene. Il Consolato
generale della Romania si è insediato a Torino nel 2007 e
molte speranze venivano riposte nella sua presenza: «Ma il
consolato è solo burocrazia» ed è mancata quella
connessione, quella posizione comune che avrebbe potuto dare
voce alle istanze della comunità.
Quello
di Obiectiv è un giornalismo a vocazione sociale e per
questo esce in doppia lingua, lo spiega bene il Direttore
Giovanni D'Amelio: «Questo giornale è nato per essere un
ponte tra le due culture, ci rivolgiamo ai romeni per far
conoscere quei fatti che riguardano direttamente la
comunità, e a quegli italiani che sono interessati a
conoscere la comunità romena, che a Torino e provincia conta
più di centomila persone. La linea tenuta dagli altri media
-prosegue D'Amelio- è quella di dare addosso allo straniero
strumentalizzando la minoranza che compie crimini. Non si
presenta mai l'aspetto positivo delle comunità. Ciò
testimonia come non ci sia da parte del mondo
dell'informazione una sensibilità spiccata verso lo
straniero. Si tende a parlarne solo per i fatti di cronaca
enfatizzando molto che è straniero e non si evidenzia che in
Italia oggi i migranti reggono in buona parte la creazione
della ricchezza». Ma a Obiectiv non piacciono le lodi
eccessive: «Facciamo solo il nostro dovere -ripete Magdalena
Lupu- e possiamo contare solo sulle nostre forze. Non
riceviamo denaro da nessuno, ci autofinanziamo e poi,
naturalmente, c'è la pubblicità. Questo è garanzia della
nostra obiettività e del nostro desiderio d'essere d'aiuto
trasversalmente rispetto agli interessi particolaristici».
Essere d'aiuto alla comunità romena e alla società tutta,
informare e connettere la realtà di chi vive qui con quella
di chi ci è arrivato da poco, anche in nome della comune
cittadinanza europea, far conoscere la cultura di un paese
al di là degli stereotipi negativi. Obiectiv esce in oltre
mille edicole a Torino e provincia al costo di soli
cinquanta centesimi: è questo il prezzo dell'integrazione.
Matteo Zola
Spagna, arresti
su commissione
Il ministero degli Interni di Madrid stabilisce
'quote' di immigrati marocchini da arrestare
Lo scorso febbraio è emerso che gli
agenti della Polizia nazionale di Madrid stavano
applicando da alcuni mesi nuove disposizioni in merito
al numero degli arresti da eseguire ai danni di
immigrati irregolari.
Secondo
un documento interno proveniente da un commissariato
della capitale visionato in primo luogo da
EuropaPress, sarebbe stato imposto un tetto
minimo settimanale di arresti per ogni singolo distretto
e inoltre sarebbe stata esplicitata la convenienza
dell'arresto di immigrati di nazionalità marocchina, per
via delle esigue spese di rimpatrio via terra verso il
vicino Marocco. Il contenuto del documento era stato
risultato di una riunione avvenuta lo scorso 12 novembre
e era stato trasmesso al commissariato di Villa de
Vallecas, che nel caso specifico avrebbe dovuto
presentare 35 arresti a settimana e, nel caso in cui
quel numero non fosse stato raggiunto, gli agenti
avrebbero potuto eseguire l'operazione al di fuori della
loro giurisdizione. Lo scorso 16 febbraio Atime,
associazione sindacale che si occupa dei diritti dei
lavoratori immigrati marocchini residenti in Spagna, ha
emesso un
comunicato stampa nel quale venivano denunciati
numerosi episodi di operazioni poliziesche sommarie nei
confronti della comunità marocchina, in particolar modo
nelle città di Madrid e Valencia, e richiedeva una
chiarificazione in merito al Ministro degli Interni
Alfredo Pérez Rubalcaba.
Lo
stesso giorno il ministro spagnolo rispose ammettendo di
aver disposto delle indicazioni numeriche dirette a
garantire la diminuzione del tasso di delinquenza,
negando quindi ogni ombra di illegalità e
discriminazione alle operazioni suggerite alla Polizia
Nazionale e senza fare alcun riferimento al caso
specifico degli immigrati marocchini. A fronte del
presunto malinteso creato dal corpo di polizia, la
Confederación Nacional de Policía ha espresso il suo
disappunto rispetto alle parole del ministro additando
alla politica del governo quanto accaduto a Madrid; ha
commentato infatti l'ansia dell'attuale legislatura di
manipolare a suo favore i dati in materia di sicurezza e
immigrazione regolare, sulle quale il premier Zapatero
avrebbe investito enormemente nelle due campagne
elettorali senza però riuscire a raggiungere i risultati
sperati.
Anche
le sigle sindacali della polizia spagnola, Sup, Cep, Ufp
e Spp, sono intervenute nel dibattito reclamando una
dichiarazione di responsabilità da parte del ministero
che ha diffuso queste precise disposizioni e dichiarando
la totale subordinazione dei commissariati a quanto
stabilito dall'alto. L'intervento dell'ambasciatore
marocchino Omar Azziman giunge con profondo rammarico ai
vertici del gruppo per le Politiche del Mediterraneo del
ministero degli Esteri. A oggi, infatti, il Marocco è
uno dei paesi stranieri con il quale la Spagna sta
intessendo solidi rapporti di cooperazione economica e
politica e risulta alquanto incongruente questo
scivolone in materia di politica interna. Nel frattempo
continuano le polemiche tra governo e polizia, e oggi
giunge un nuovo comunicato da parte dei sindacati delle
forze dell'ordine i quali segnalano che le disposizioni
'quantitative' sugli arresti indiscriminati ai sin
papeles furono effettivamente diffuse a tutti i
commissariati del Paese e che non si trattò di una
soggettiva interpretazione di quanto comunicato dal
ministero.
Sara Chiodaroli
12 marzo
Medici senza frontiere presenta
l'annuale rapporto sulla presenza in tv e stampa
di situazioni gravi del Sud del mondo. L'attenzione scende di anno in anno
Msf mette nel
mirino i media italiani
"Crisi umanitarie sempre più ignorate"
di
CARLO CIAVONI
ROMA - Un mese di colera nello Zimbawe, con
la fuga di centinaia di migliaia di persone verso il Sud Africa,
sottoposte a violenze e aggressioni di ogni sorta, in tutto il 2008 ha
prodotto 12 notizie nei telegiornali nazionali di Rai e Mediaset. Ma
all'estate di Briatore e della Gregoraci - solo alla loro estate - sono
state invece dedicate 33 notizie. E così per l'Etiopia: le violenze del
conflitto tra i ribelli e le forze governative, aggiunte alla siccità
che ha reso impossibili le condizioni di vita della gente che sopravvive
nella regione somala dell'Etiopia, è stata raccontata in 6 notizie
durante il 2008. Un anno di Carla Bruni ha invece richiesto un racconto
seriale di 208 puntate.
Sono solo due esempi tratti dal quinto Rapporto sulle Crisi dimenticate
che Medici Senza Frontiere (Msf) ha presentato stamattina nella sede
della stampa estera, per voce di Kostas Moschochoritis, direttore di Msf
Italia. Per il quinto anno consecutivo, dunque, la Ong - fondata nel
1971 a Parigi da un gruppo di medici e giornalisti e che opera con
progetti in 60 paesi - prova così a fare le pulci al giornalismo
italiano, contando i minuti e le righe dedicate alle persone che nel
mondo sopravvivono in contesti indecenti, condannati alla guerra, alla
fame, alla sete, alle malattie più perfine e devastanti, costretti alla
povertà cronica, all'assenza di libertà e dignità.
Come nel passato, l'analisi è stata curata dall'Osservatorio di Pavia,
che ha catalogato i notiziari, secondo macro-aree tematiche e argomenti
trattati. La metodologia usata ha "scomposto" i telegiornali in unità di
analisi omogenee per contenuto informativo (notizia comprensiva di
eventuale lancio). Per ogni unità di analisi viene rilevata una breve
sintesi dei contenuti e la categoria tematica di riferimento.
Convenzionalmente, la sintesi della notizia riguarda il suo focus
principale e non tutti gli argomenti o le derive argomentative contenute
in essa. Il corpo dell'analisi è costituito dai notiziari trasmessi
nelle fasce del day time e del prime time dai due principali network
della televisione italiana generalista, Rai e Mediaset. I notiziari
presi in esame sono quelli delle edizioni di metà giornata (13, 13.30,
14,20) e della serata del Tg1, Tg2, Tg3, Canale 5, Tg4 e Studio Aperto.
Adotta una crisi. Quest'anno c'è un'iniziativa in più: la
campagna "Adotta una Crisi Dimenticata", per chiedere a quotidiani e
periodici, programmi radiofonici e televisivi o testate online di
impegnarsi a parlare di una o più crisi dimenticate nel corso di quest'anno.
Ci sono già diverse adesioni da parte di importanti testate
giornalistiche, oltre al patrocinio della Federazione Nazionale della
Stampa Italiana (FNSI). Sarà Kostas Moschochoritis, direttore di Msf
Italia ad illustrare le dieci crisi umanitarie identificate dalla Ong
fondata a Parigi nel 1971 da un gruppo di medici e giornalisti, e che
oggi si vanta di essere la più grande organizzazione umanitaria
indipendente di soccorso medico, che opera in 60 paesi e con 19 sedi.
Forse c'è una legge, non scritta, che giustifica chi per difendersi
prende le distanze dalle tragedie che opprimono quasi tre quarti degli
abitanti della Terra. Un diritto in parte sancito dal buon senso, il
quale suggerisce di non farsi coinvolgere ogni giorno da
chi è costretto a contare i bambini che ogni minuto, da qualche parte
nel mondo, muoiono di dissenteria, o di fame, o malnutrizione, malaria,
aids. Da quei numeri, entro certi limiti, è dunque lecito non farsi
travolgere, se non altro per evitare l'assuefazione. C'è però anche un
obbligo etico che dovrebbe indurre le persone di questo lato ricco della
Terra a non dimenticare del tutto cosa sta succedendo, ad esempio, in
Somalia, o in Myanmar, in Iraq, in Pakistan, nello Zimbawe o nel Congo.
Luoghi dove l'occhio dell'informazione occidentale non arriva quasi mai,
se non in occasione di catastrofi naturali, oppure "emergenze
umanitarie" provocate dai frequenti sussulti di guerra, se non
addirittura per meri interessi commerciali, sanciti da visite ufficiale
di qualche sottosegretario.
Africa e Asia. Le situazioni più gravi e ignorate nel 2008
secondo MSF sono la crisi sanitaria nello Zimbabwe; la catastrofe
umanitaria in Somalia; la situazione sanitaria in Myanmar; i civili
nella morsa della guerra nel Congo Orientale (RDC); la malnutrizione
infantile in Sierra Leone, nel Corno d'Africa, in Bangladesh; la
situazione critica nella regione somala dell'Etiopia; i civili uccisi o
in fuga nel Pakistan nordoccidentale; la violenza e la sofferenza in
Sudan; i civili iracheni bisognosi di assistenza; la coinfezione
HIV-TBC. Nel suo complesso, l'analisi delle principali edizioni (diurna
e serale) dei telegiornali RAI e Mediaset confermano la tendenza
riscontrata negli ultimi anni: un calo costante delle notizie sulle
crisi umanitarie, che sono passate dal 10% del totale delle notizie nel
2006, all'8% nel 2007 fino al 6% (4901 notizie su un totale di 81.360)
nel 2008.
Di queste, solo 6 sono quelle dedicate all'Etiopia, dove la popolazione
della regione somala, intrappolata negli scontri tra gruppi ribelli e
forze governative, continua a essere esclusa dai servizi essenziali e
dagli aiuti umanitari, e nessuna alla coinfezione HIV-TBC, nonostante la
TBC sia una delle principali cause di morte per le persone affette da
HIV/AIDS e circa un terzo dei 33 milioni di persone con HIV/AIDS nel
mondo è affetto da TBC in forma latente. Per altri contesti, dove sono
in corso da anni gravi crisi umanitarie, l'attenzione dei media si
concentra esclusivamente su un breve lasso temporale in coincidenza con
quello che viene identificato l'apice della crisi. È il caso del Myanmar,
di cui i nostri TG si occupano solamente in occasione del ciclone Nargis,
che rappresenta solo l'ennesimo colpo inferto a una popolazione quasi
dimenticata dal resto del mondo, dove l'HIV/AIDS continua a uccidere
decine di migliaia di persone ogni anno, la malaria continua a restare
la principale causa di morte e ogni anno vengono diagnosticati 80mila
nuovi casi di tubercolosi.
Ed è il caso della provincia del Nord Kivu nella Repubblica Democratica
del Congo, dove anche nel 2008 sono proseguiti i combattimenti tra
l'esercito governativo e diversi gruppi armati, che sono degenerati in
una vera e propria guerra a partire da agosto, che ha provocato la fuga
di centinaia di migliaia di persone. I nostri Tg ne hanno parlato quasi
esclusivamente in occasione dell'assedio della città di Goma a ottobre e
novembre. Nel caso di crisi umanitarie, cui i Tg hanno dedicato uno
spazio notevole, come l'Iraq o il Pakistan, va tuttavia notato come le
notizie relative alla drammatica situazione umanitaria della popolazione
civile irachena o di quella del Pakistan nord-occidentale, rappresentano
una netta minoranza.
L'Iraq e la politica. Vengono invece
privilegiate, nel caso dell'Iraq, oltre alla cronaca degli attentati, le
notizie sul dibattito politico in Italia o negli Usa; nel caso del
Pakistan, le elezioni e la cronaca degli attentati. Infine, anche per il
2008 viene confermata la tendenza, da parte dei nostri media, di parlare
di contesti di crisi soprattutto laddove riconducibili a eventi e/o
personaggi italiani o comunque occidentali. Emblematici in questo senso
sono la crisi in Somalia, a cui i Tg hanno dedicato 93 notizie (su 178
totali) che coinvolgevano uno o più nostri connazionali; la
malnutrizione infantile, di cui si parla principalmente in occasione di
vertici della Fao o del G8; il Sudan, cui si fa riferimento
principalmente per iniziative di sensibilizzazione che vedono coinvolti
testimonial famosi e per notizie circa l'inchiesta da parte della Corte
Penale Internazionale per il presidente del Sudan.
Torna l'incubo amianto
Intervista a Walter Cerfeda, dirigente della Ces, la
confederazione europea dei sindacati
Il 2015 sarà l'annus horribilis dell'amianto. Lo dice un esperto
come il procuratore di Torino Raffaele Guariniello,che ha condotto
le più importanti inchieste sulla fibra killer. Manca poco, ormai e
le previsioni scientifiche dicono che la mortalità degli operai e di
quanti hanno assorbito nel loro organismo l'asbesto, altro nome
dell'amianto bianco, toccherà il picco statistico.
Il
caso italiano, per non parlare del disastro francese e in altri
Paesi dell'Unione, non sembra smuovere le lobby della chimica
europea, soprattutto quella tedesca, che ha costruito un asse
potente insieme alla Polonia, Bulgaria e Gran Bretagna. E così
arriviamo alla decision della Commissione europea. Ci avvisa
l'agenzia Redattore sociale, che riportiamo nelle nostre pagine.
"Senza troppo clamore, il 25 febbraio scorso la Commissione europea
ha fatto approvare agli Stati membri la sua proposta di deroghe per
la fabbricazione e l'uso di alcuni componenti industriali contenenti
fibre d'amianto crisotilo, senza fissare alcuna data limite. Secondo
la Confederazione europea dei sindacati (Ces), questa decisione è
frutto del formidabile lavoro di pressione della lobby dell'amianto,
guidata a livello mondiale dall'industria canadese, secondo paese al
mondo produttore di amianto dopo la Russia, e rappresentata in
Europa soprattutto dalla Dow Chemical e da Solvay".
Walter Cerfeda è uno dei dirigenti della Ces. Deluso, quasi
mortificato per una decisione che non tiene conto della pericolosità
ormai accertata,dolorosamente, di quella fibra, promette un impegno
particolare del sinbdacato europeo a dar battaglia in vista di un
voto dell'europalramento. Ma la situazione non è facile, compici le
elezioni e il rinnoco dell'assemblea di Strasburgo.
"La Commissione europea ha bisgono del parere del Parlamento,
entro sei mesi. Il problema è che il parlamento è in scadenza e noi
stiamo costruendo una strategia per arrivare a un voto negativo,
perlomeno a un parere che si opponga a questa decisione".
Con
quali possibilità?
Certo, il tema dell'amianto è un argomento sensibile in campagna
elettorale. Potremmo trovare un forte consenso nel denunciare e
combattere la decisione della Commissione europea. Ma resta tutto da
capire come i metterà all'interno del gruppo socialista (Pse), dove
la lobby dei tedeschi è particolarmente agguerrita.
Ma cosa dicono i vostri colleghi del sindacato tedesco?
Abbiamo registrato una vera e propria unione fra governo,
industriali e addirittura il sindacato dei chimici. Anzi, c'è stato
il paradosso che i colleghi tedeschi si opponevano e rigettavano
pubblicamente le linee di azione della Confederazione sindacale
europea, esponendosi ancora più energicamente a favore di quanto
facessero gli stessi politici o industriali tedeschi. Una posizione
ambigua e non comprensibile.
Eppure è scientificamente provata la pericolosità della
fibra minerale
Siamo d'accordo, noi. Evidentemente la lobby dell'industria chimica,
l'asse che si è formato fra Germania, Polonia, Bulgaria e Gran
Bretagna, vede come intoccabili i profitti di quel segmento della
produzione industriale.
L'Italia, dalle notizie che ho, ha dato battaglia, insieme a Francia
e Olanda. Gli spagnoli si sono dimostrati più ambigui.
Qual è la strategia adesso?
Cercare il voto contrario dell'Europalramento. Se si voterà contro,
la Commissione dovrà ritirare questa decisione. Se invece ci sarà
solo un parere contrario, la Commissione recepirà gli emendamenti
senza l'obbligo di ritirare quel testo
5 marzo
Il neoproibizionismo
di Gigi Riva
Mangiare cornetti di
notte a Roma. Vendere kebab nel centro di Lucca. Baciarsi in auto a
Eboli. Sedersi su una panchina a Vicenza. In Italia dilagano i 'non
si può'. E i divieti diventano la risposta alla richiesta di
sicurezza
L'inseguimento degli italiani è arrivato fin dentro la camera da
letto per bolla vergata dal sindaco leghista di Verona Flavio
Tosi: "Sono vietati i rumori molesti in casa", se si abita in un
condominio. Salvi i proprietari di ville isolate che possono
sfogarsi come credono. Sfonda l'uscio la nuova frontiera della
lotta alla prostituzione e strappa un commento ironico a Carla
Corso, leader storica delle meretrici: "Diventeremo un Paese di
delatori dell'alcova". Non lo siamo già, tra medici che sono
invitati a denunciare gli immigrati irregolari e occhiute ronde
che scalfiscono l'idea dell'esclusiva allo Stato sull'uso
legittimo della forza? Semmai aumentano le occasioni di finire
fuorilegge in un'Italia dove, per una perversione lessicale, il
neoperbenismo diventa sinonimo di neoproibizionismo. Ci si
potrebbe consolare vantando un sentire comunitario se alla
stazione ferroviaria di Warrington Bank Quay, in Inghilterra,
sono stati proibiti i baci. Si potrebbe anche rivendicare una
convinta adesione atlantista se negli Stati Uniti è diventato
quasi un reato essere grassi. L'occhio pubblico sul corpo
privato, e noi siamo reduci dalla vicenda di Eluana Englaro
oltre che in piena, furibonda contesa sul testamento biologico.
In sedicesimo, rispetto a quel tema cruciale, siamo anche reduci
dal divieto nella Bologna di Sergio Cofferati di farsi un
piercing "su parti anatomiche le cui funzionalità potrebbero
essere compromesse" o dal divieto di plastiche al seno per le
minorenni annunciato dal governo. Non è ancora un diktat, ma una
raccomandazione quella del ministro Ignazio La Russa che ricorda
ai militari il "dovere di tenersi in forma". E fa spedire a
tutti, anche ai pensionandi da ufficio, un corposo (proprio il
caso di dirlo) opuscolo di 74 pagine in cui vengono segnalati
esercizi utili, cibi, calorie e tempo necessario per smaltirle.
Una volta letto e messo in pratica, i soldati sarebbero pronti
per quella che è stata denominata 'guerra del kebab', ossia
l'offensiva dello storico comune di Lucca contro i "locali di
etnie diverse". Il che definisce una categoria mentre a Voghera,
terra della famosa casalinga di Alberto Arbasino, bere e
mangiare panini all'aperto è comunque all'indice, anche se si
tratta di lombardissimo pane e salame: che tempi, signora mia.
Nella corrente dell'ortodossia culinaria si inserisce il recente
provvedimento della giunta Alemanno che a Roma sbarra le porte
di "tutti i laboratori artigiani della capitale" dopo l'una di
notte. E arrivederci al mattino per gelati, cornetti caldi,
pizza e pane fresco di forno: con cari saluti a tanta
consolidata iconografia cinematografica su vizi e piccoli
piaceri degli italiani.
Che si stesse esagerando ce lo aveva segnalato, alcuni mesi fa,
anche l''Independent' con un articolo di denuncia per l'eccesso
di regole e regolette e la sarcastica conclusione per la quale
stiamo "vietando tutte le cose divertenti". Lungi dal
rifletterci siamo andati oltre. Dallo Stato centrale fino ai
sindaci, cui il ministro Roberto Maroni ha esteso i poteri
decisionali con l'intento di metterli nelle condizioni di
affrontare meglio i problemi di ordine pubblico, è un
proliferare di grida e codicilli che ora fanno sorridere ora
gettano nello sconforto. Una deriva creativa quanto imbarazzante
che deve aver allarmato persino gli alti vertici del Viminale se
nella tabella riassuntiva dei 'divieti/ordini' ( vedi
qui) accanto alle voci più serie hanno inserito una postilla
per avvertire: "La ricerca ha evidenziato alcune ordinanze
recanti una molteplicità di divieti/ordini dal contenuto più
vario (asportare pizze, gettare indumenti in piscina, abbattere
i cinghiali) non riconducibili alle macrocategorie considerate
e, pertanto, non quantificabili".
Lo Stato-babysitter si infila sotto le lenzuola, entra nelle
camere d'ospedale, controlla il tubo digerente, prende la misura
del girovita, controlla l'abbigliamento (la Gelmini e il
grembiule a scuola) e non ci molla nemmeno quando usciamo a
prendere una boccata d'aria. Costella il nostro cammino coi
segnali tondi e barrati di rosso-divieto fino all'iperbole della
provincia di Trento dove "è assolutamente vietato danneggiare o
rubare cartelli che recano messaggi di divieto". Pena una multa
fino a 428 euro. Non sia mai che qualcuno invochi l'attenuante
del 'non sapevo'. Non è scusata l'ignoranza della legge anche se
ormai bisognerebbe circolare per la Penisola con accanto un
manuale o procurando di portarsi appresso un azzeccagarbugli. Se
mi trovo a Novara come faccio a sapere che non posso sostare con
altre due persone nei giardini o nei parchi pubblici (fino a 500
euro mi costa l'imprudenza)? E guai, se non ho 70 anni, se mi
siedo su una panchina di Vicenza. A Napoli (e a Bolzano, qui si
fa l'unità d'Italia o si muore) non posso fumare nei parchi
pubblici, dunque all'aperto, per la versione partenopea del
salutismo alla californiana. Spazi comuni, benché ossigenati e
passi. Se non fosse che lo Stato Onnipotente, preso lo slancio,
si catapulta anche nell'automobile. Alla commissione Lavori
pubblici del Senato è in discussione un disegno di legge che, se
verrà approvato, vieterà il fumo per chi sta alla guida (da 148
a 594 euro di multa). Dentro l'abitacolo si è già spinto il
sindaco di Eboli (Salerno) per vietare "effusioni amorose", baci
compresi, sul territorio comunale (fino a 500 euro).
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