Il governo Berlusconi ha promesso di battere la crisi rilanciando il business
del mattone. In realtà dietro ai piani dell'esecutivo, a cominciare da quello
sulla casa, non c'è altro che un nuovo sacco edilizio. Regione per regione ecco
la mappa della nuova speculazione
Più
cemento per tutti. Con il cosiddetto piano casa, e con altri interventi ispirati
alla stessa ideologia della deregulation edilizia, il governo Berlusconi
promette di battere la crisi rilanciando il business del mattone. Ma la ripresa
resta dubbia. La crisi e il crescente indebitamento delle imprese e delle
famiglie compromettono le capacità di investimento dei privati. A guadagnarci
sicuramente saranno pochi grandi speculatori. Mentre per la maggioranza dei
cittadini il nuovo boom dei cantieri rischia di produrre danni a lungo termine
molto più gravi dei benefici apparenti e immediati. Un colpo di grazia per il
già moribondo territorio italiano. Un'ipoteca pesante sul futuro del turismo,
dell'agricoltura di qualità e della nuova economia verde. A lanciare
l'allarme,insieme a tutte le più importanti associazioni per la difesa
dell'ambiente e del paesaggio, sono autorevoli studi tecnicoscientifici e
perfino gli asettici rapporti dell'Istituto nazionale di statistica. A
differenza dei politici, gli esperti concordano che gran parte delle regioni
hanno già raggiunto un livello di «saturazione edilizia ». Una nuova ondata di
cemento «in un Paese come l'Italia, in cui il territorio è da sempre molto
sfruttato», avverte l'Istat, «non può essere considerata in nessun caso un
fenomeno sostenibile». Ma il peggio è che il piano casa è come una scommessa al
buio: l'Italia è l'unico Stato occidentale dove già ora l'edilizia è fuori
controllo, perché mancano perfino le misurazioni di quanti boschi, prati e campi
vengono ricoperti ogni giorno dalla crosta inquinante del cemento e
dell'asfalto.
Assalto al territorio
Dagli anni Novanta i comuni italiani stanno autorizzando nuove costruzioni a
ritmi vertiginosi: oltre 261 milioni di metri cubi ogni 12 mesi. Nel giro di tre
lustri, dal 1991 al 2006, ai fabbricati già esistenti si sono aggiunti altri 3
miliardi e 139 milioni di metri cubi di capannoni industriali e lottizzazioni
residenziali. È come se ciascun italiano, neonati compresi, si fosse costruito 55 scatole
di cemento di un metro per lato. Il record negativo è del Nordest, con oltre
un miliardo di metri cubi, pari a una media di 98 scatoloni di cemento per ogni
abitante. Il risultato, secondo l'Istat, è «impressionante ». Al Nord l'intera
fascia pedemontana è diventata un'interminabile distesa di cemento e asfalto
«quasi senza soluzioni di continuità»: città e paesi si sono fusi formando «una
delle più vaste conurbazioni europee». Una megalopoli di fatto, cresciuta senza
regole e senza alcuna pianificazione, che dalla Lombardia e dal Veneto arriva
fino alla Romagna. Al Centro «stanno ormai saldandosi Roma e Napoli». E nel
Mezzogiorno «l'urbanizzazione sta occupando gran parte delle aree costiere».
L'escalation edilizia, come certifica sempre l'Istat, non ha alcuna
giustificazione demografica. Tra il 1991 e i 2001, date degli ultimi censimenti,
la popolazione italiana è lievitata solo del 4 per mille, immigrati compresi,
mentre «le località edificate sono cresciute del 15 per cento».
Nonostante questo, dal 2001 al 2008 il consumo di territorio è aumentato ancora:
in media del 7,8 per cento, con punte tra il 12 e il 15 in Basilicata, Puglia e
Marche e un record del 17,8 in Molise. Fino agli anni '80 la Liguria era la
regione più cementificata. Negli ultimi sette anni le capitali del mattone, come
quantità assolute, sono diventate Lazio, Puglia e Veneto. Solo quest'ultima
regione ha perso altri 100 chilometri quadrati di campagne. A colpi di condoni
Le statistiche dell'Istatsegnalano un rapporto diretto tra i nuovi fabbricati e
le sanatorie dei vecchi abusi, varate sia dal primo che dal secondo governo
Berlusconi. Nonostante i proclami di regolarizzazione che accompagnavano ogni
condono, l'edilizia selvaggia ha continuato ad arricchire i furbi: nel 2008
l'Agenzia per il territorio ha scoperto, solo grazie alle foto aeree, oltre un
milione e mezzo di immobili totalmente sconosciuti al catasto, cioè non
registrati neppure come abusivi. Uno scandalo concentrato al Sud. Al Nord invece
la legge Tremonti del '94, che detassava gli utili per farli reinvestire in
nuovi macchinari aziendali, in realtà ha fatto esplodere la costruzione e
l'ampliamento dei capannoni industriali e commerciali: oltre 156 milioni milioni
di metri cubi all'anno.
Dietro la cementificazione del territorio c'è anche un'altra ingiustizia
fiscale. Damiano Di Simine, responsabile di Legambiente in Lombardia, spiega che
«l'assurdità del caso italiano è che i comuni sono costretti a finanziarsi
svendendo il territorio »: «Gli oneri di urbanizzazione, da contributi necessari
a dotare le nuove costruzioni di verde e servizi, si sono trasformati in entrate
tributarie, per cui le giunte più ricche e magari più votate sono quelle che
favoriscono le speculazioni». Nei paesi europei più avanzati succede il
contrario: apposite "tasse di scopo" puniscono chi consuma territorio. Mentre in
Italia, come segnala l'Istat, la pressione edilizia è tanto forte da scaricare i
cittadini perfino «in aree inidonee per il rischio sismico o idrogeologico ». E
tra migliaia di enti inutili, non esiste neppure un ufficio pubblico che misuri
l'avanzata del cemento. La distruzione del verde L'unico studio di livello
scientifico è stato pubblicato all'inizio di luglio da un gruppo di ricercatori
del Politecnico di Milano, dell'Istituto nazionale di urbanistica e di
Legambiente. L'Istat infatti può quantificare, scontando i ritardi delle
burocrazie locali, solo i «permessi di costruire», cioè le licenze legali. Alle
statistiche ufficiali, dunque, sfuggono tutti gli abusi edilizi, oltre alle
chilometriche colate di asfalto, dalle strade ai parcheggi, che accompagnano e
spesso precedono le nuove costruzioni.
Mettendo a confronto foto aree e mappe della stessa scala (GUARDA),
disponibili solo in tre regioni e in poche altre province, i ricercatori di
questo "Osservatorio nazionale sui consumi di suolo" hanno scoperto che in
Lombardia, tra il 1999 e il 2005, sono spariti 26.728 ettari di terreni
agricoli. È come se in sei anni fossero nate dal nulla cinque nuove città come
Brescia. La media quotidiana è spaventosa: ogni giorno il cemento e l'asfalto
cancellano più di 10 ettari di campagne in Lombardia e altri 8 in Emilia, dove
tra il 1976 e il 2003 (ultimo aggiornamento geografico) è come se Bologna si
fosse moltiplicata per 14. Lo studio smentisce anche il luogo comune che vede
nel cemento l'effetto dello sviluppo produttivo. In Friuli, tra il 1980 e il
2000, è scomparso meno di un ettaro al giorno. Mentre il Piemonte ha perso più
di 68 chilometri quadrati di campagne nel decennio 1991-2001, quando il suolo
urbanizzato è aumentato dell'8,7 per cento, mentre la popolazione è scesa
dell'1,4. Gli urbanisti del Politecnico ammoniscono che questo modello di
sfruttamento (l'Istat lo chiama «consumismo del territorio») ha ricadute
pesantissime sulla vita delle famiglie. «Il fenomeno delle seconde e terze case
è legato anche alla fuga dalle città sempre più invivibili», riassume il
professor Arturo Lanzani: «Ma la scarsissima qualità dei nuovi progetti finisce
per spostare il traffico e lo smog verso nuovi spazi congestionati ». Paolo
Pileri, il docente che dirige l'Osservatorio, fa notare che «in Germania,
Olanda, Gran Bretagna, Svezia e Svizzera i governi cambiano le leggi
urbanistiche per limitare fino ad azzerare i consumi di suolo. Mentre in Italia
non abbiamo neppure dati attendibili». Anzi, il governo punta tutto su un nuovo
boom edilizio.
Le pagelle al piano casa
Per il presidente di Italia Nostra, Giovanni Losavio, la riforma berlusconiana
«è peggio di un condono, perché abolisce le regole anche per il futuro: permessi
e controlli diventano inutili, ora basta la parola del progettista». «Bocciatura
piena » anche da Legambiente, che ha fatto l'esame delle singole leggi (o
progetti) regionali di attuazione: «promosse» solo Toscana, Puglia e provincia
di Bolzano, che oltre a salvare parchi e centri storici, impongono rigorose
migliorie ecologiche e risparmi energetici. A meritare i voti peggiori sono i
piani casa delle regioni più cementificate: in Veneto la legge Galan concede
aumenti di volume perfino ai capannoni più orribili, in Sicilia la giunta
progetta «bonus edilizi fino al 90 per cento acquistabili dai vicini». E in
Lombardia spunta il "lodo Cielle": un premio del 40 per cento per l'edilizia
sociale, ma con «possibile vendita a operatori privati». «Rimandate con debiti»
tutte le altre regioni, mentre in Val d'Aosta è pronto il «piano camere»: più
cubatura anche per gli alberghi. Il bilancio nazionale è «un puzzle urbanistico
con regole diverse in ogni regione». E se in generale le giunte di sinistra
resistono al Far West edilizio, la Campania fa eccezione. Vezio De Lucia,
urbanista di Italia Nostra, e Ornella Capezzuto, presidente del Wwf Campania,
sono i primi firmatari di un appello che descrive il piano casa varato dalla
giunta Bassolino come «un nuovo sacco edilizio»: «Il solo annuncio della
liberalizzazione delle nuove residenze nelle aree dismesse, senza neppure il
limite che le fabbriche interessate siano davvero già chiuse, ha fatto
triplicare in pochi giorni il valore dei capannoni». Il consigliere regionale
della sinistra Gerardo Rosania, che da sindaco di Eboli fece demolire 437
villette abusive, lancia una mobilitazione antimafia: «Ci si dimentica che qui
siamo in Campania. Chi può fare incetta di industrie abbandonate pagando subito
è solo la camorra».
Lupi in agguato
Il cosiddetto piano casa (o piano-capannoni?) è solo il più pubblicizzato tra i
programmi edilizi del governo. Italia Nostra denuncia anche «gli effetti
perversi dell'abolizione di tutti i vincoli ambientali e paesistici per le
grandi opere. L'esperienza dimostra che l'urbanizzazione più caotica si sviluppa
proprio sulle direttrici delle nuove infrastutture». Vezio De Lucia e Antonello
Alici temono soprattutto il ritorno del disegno di legge, approvato nel 2005
solo dalla Camera, che porta il nome di Maurizio Lupi, ex assessore ciellino a
Milano, oggi sottosegretario del premier: «Una controriforma urbanistica che
vuole applicare a tutta Italia il rito ambrosiano dell'edilizia contrattata
direttamente dai privati. Un modello che cancella le quantità minime di verde e
servizi abrogando lo stesso principio del governo pubblico del territorio». Un
professore del Politecnico, Andrea Arcidiacono, ha provato a calcolare chi ci ha
guadagnato davvero a Milano: «I maggiori programmi integrati hanno prodotto 2,3
milioni di metri quadrati di nuove costruzioni. Il settore pubblico ha ottenuto
benefici lordi per 360 milioni, per lo più verde senza manutenzione e parcheggi
di servizio agli stessi fabbricati (55 ettari su 200): si tratta del 4 o 5 per
cento dei presumibili ricavi dei privati ». Come dire che, ogni cento euro, al
Comune ne vanno 5 di incassi teorici, ai re del mattone 95 di soldi veri. Il
titolo dello studio è una domanda: «E i cittadini cosa ci guadagnano?».
Colorado, la guerra uccide
due volte
Nello Stato Usa, i reduci di guerra commettono
omicidi e crimini violenti in misura cento volte maggiore rispetto alla media
I
militari statunitensi rientrati dall'Iraq che hanno prestato servizio nella
brigata da combattimento Fort Carson, partita dal Colorado, hanno mostrato
un'inclinazione straordinariamente alta alla criminalità, mettendo a segno una
lunga serie di omicidi e altri reati.
La lezione della guerra. Secondo l'inchiesta di un quotidiano locale, la
Colorado Spring Gazette, che ha svolto un'inchiesta di sei mesi tra i militari
di ritorno dalle missioni, tale atteggiamento sarebbe il risultato della
mancanza di disciplina e delle uccisioni indiscriminate che hanno caratterizzato
il periodo del loro dispiegamento in guerra. Secondo gli stessi militari di
questa brigata, le condizioni brutali sperimentate in Iraq tra il 2004 e il 2007
e l'incapacità dell'Esercito di garantire un appropriata assistenza psicologica
a coloro che manifestavano segni di stress, sarebbero le principali cause che
hanno spinto i soldati a commettere crimini quali violenze sessuali, abusi su
familiari, sparatorie, accoltellamenti, rapimenti e suicidi.
Brutalità. Il tasso di omicidi tra le unità combattenti di Fort Carson è
risultato essere 114 volte più elevato rispetto a quello del Colorado. Durante
il loro dispiegamento, i militari si dedicavano ad attività tra le più feroci e
disumane: uccidevano civili a caso, a volte anche a sangue freddo; utilizzavano
sui prigionieri pistole elettriche quali le Taser; gettavano persone giù dai
ponti, caricavano le loro armi con i cosiddetti proiettili 'hollow point' (la
cui punta è modificata per provocare impatto più forte e devastazione maggiore
sul bersaglio, ndr); abusavano di alcool e droga e occasionalmente si dedicavano
a mutilazioni di civili, sempre secondo quanto racconta la 'Colorado Springs
Gazette'.
"Conseguenze negative". Nel dicembre 2007, un membro della brigata
avrebbe raccontato ai superiori che nella sua unità si stavano commettendo
'crimini di guerra', tra cui l'uccisione di un sedicenne e il suo smembramento.
Dal rientro dalla missione, almeno dieci membri della brigata hanno commesso un
omicidio o quantomeno tentato di farlo, stando almeno all'inchiesta condotta
dalla Colorado Springs Gazette: l'Esercito Usa al momento si è limitato ad
affermare di non aver trovato alcuna prova delle tesi sostenute dal quotidiano.
L'esercito Usa ha recentemente incaricato una commissione di indagare sugli
omicidi commessi dai reduci delle guerre in Iraq e in Afghanistan. La
commissione ha concluso, in un rapporto di 126 pagine, che "l'intensità e
l'esposizione al combattimento, le accresciute responsabilità e le difficoltà
nel trovare adeguate forme di assistenza" possono aver aumentato i rischi di
"conseguenze negative" nei comportamenti degli ex-soldati.
Luca Galassi
Sudan, la battaglia di Lubna
Dopo l'udienza la polizia aggredisce i giornalisti, ma nonostante le
intimidazioni un'attivista dei diritti per le donne assicura che la battaglia
per i diritti umani continuerà
Di Giacomo Corticelli e Luca Galassi
Nessuna
decisione è stata presa dalla corte di Khartoum che sta processando la
giornalista Lubna Ahmed Al-Hussein.
Il processo riprenderà il primo di agosto. L'imputata aveva deciso di non
avvalersi dell'immunità che le è stata proposta dai giudici di Khartoum, in
quanto impiegata delle Nazioni Unite.
Dieci delle tredici donne arrestate con la Hussein in un ristorante di Khartoum
all'inizio del mese, sono già state 'punite' poiché hanno ammesso la loro 'colpevolezza',
pur non essendo tutte di religione musulmana. Per aver vestito camicette e
pantaloni, sono state inflitte loro 'solamente' 10 frustate. Il crimine
d'indossare abiti scandalosi, che offenderebbe i valori e le virtù della società
sudanese, viene normalmente punito con 40 frustate, quelle che si ipotizza
verranno comminate alle 'non pentite'.
In un'affollata aula del tribunale nel quale si è svolto il processo, la signora
Hussein ha dichiarato: ''mi dimetterò dall'Onu, desidero che questo processo
continui''. ''Voglio cambiare questa legge'', continua la giornalista ''perché
non è umana e non corrisponde con la sharia''. Nei giorni scorsi la giornalista
ha lanciato numerosi appelli e invitato più persone possibili, in particolare
osservatori e giornalisti, a seguire il processo. La Hussein è determinata a
pubblicizzare il caso il più possibile. Tuttavia nei giorni scorsi un'altra
giornalista, Amal Habbani, è stata accusata di diffamazione dalle autorità per
essersi associata alla causa e potrebbe rischiare un'ammenda da 400 mila
dollari. Un articolo della Habbani apparso nei giorni scorsi sul giornale Ajrass
Al-Horreya e intitolato ''Lubna, un caso di sottomissione del corpo di una
donna'', criticava l'autorità giuridica islamista in quanto volta ''all'intimidazione
politica per terrorizzare gli oppositori''.
Peacereporter ha contattato telefonicamente Nahid Jabr, che era presente al
processo. E' impegnata con il Seema, Centro per la formazione e la protezione
dei diritti delle donne e dei bambini, ed è attualmente una delle più importanti
attiviste per i diritti umani in Sudan.
Che cosa ci può dire a proposito della linea assunta dalla signora Hussein di
proseguire la sua battaglia per i diritti delle donne?
Lubna ha detto al giudice di non voler avvalersi del diritto all'immunità perché
è fortemente intenzionata a supportare i diritti delle donne, vuole contribuire
a cambiare la situazione anche perché questa corte è illegittima. Non si tratta
infatti di un tribunale normale, dove ci sono dei diritti e l'imputato si può
difendere. E' una corte religiosa e popolare che regola a suo piacimento
l'ordine pubblico.
L'attenzione posta dai giornalisti su questo evento è stata molto alta, erano
in molti presenti oggi?
C'erano molti media internazionali ad attendere la sentenza, molti leader
politici, attivisti dei diritti umani e anche un forte schieramento di polizia.
Quest'ultima ha aggredito i giornalisti sequestrando telefoni cellulari e
macchine fotografiche. Un cameraman e due giornalisti dei giornali sudanesi
Ajrass Al-Horreya e di Al-Medan sono stati arrestati e poi rilasciati.
Cosa comporta la sharia in Sudan per le donne per quanto riguarda
l'abbigliamento?
Vivo in un paese multietnico e multiconfessionale, per me questo processo non è
il risultato della sharia poiché non ci sono considerevoli legami tra i vestiti
e la legge islamica. La questione riguarda piuttosto il diritto alle scelte
personali e i diritti delle donne, di cui Lubna rappresenta solo un esempio. La
situazione è ora molto critica. In caso di condanna, la comunità internazionale
assisterà all'avanzare di una dittatura islamica. Se venisse dichiarata
innocente potrebbero scoppiare dei conflitti interni allo Stato, perché verrebbe
delegittimato il potere degli integralisti islamici che costituiscono una parte
considerevole del potere nella città.
E' un clima teso e intimidatorio quello che si respira in Sudan. La
giurisdizione islamica introdotta nel 1991 solo nel nord del paese, è stata resa
valida anche per i non musulmani della capitale in seguito agli accordi di pace
del 2005, stipulati tra ribelli del sud e governo centrale. Per anni Lubna
Al-Hussein ha coraggiosamente criticato, dalle colonne della rivista Men Talk, i
metodi fondamentalisti del regime e l'oppressione delle donne nella società
sudanese. Secondo un comunicato dell'Arabic Network for Human Rights Information
(Anhri), le accuse mosse alla coraggiosa donna sarebbero un pretesto per
''spezzare una penna libera''. La disciplina di derivazione coranica imposta in
Sudan è una delle più discriminatorie nei confronti delle donne: sembra che
l'obiettivo della legislazione sia quello di colpire studentesse e lavoratrici,
al fine di isolarle il più possibile dalla partecipazione nella sfera pubblica.
24 luglio
Domani andrà peggio
L'Undp pubblica il rapporto 2009 sulla
condizione del mondo arabo, dal quale emerge una situazione drammatica
Ci sono parole che pesano come pietre.Il 21 luglio 2009 è stato
pubblicato l'Arab Human Development Report 2009, uno studio che il Programma di
Sviluppo delle Nazioni Unite (Undp) commissiona, ogni anno dal 2002, a un gruppo
di cento intellettuali arabi indipendenti.
Fosche
previsioni. ''La sicurezza umana è un prerequisito fondamentale per lo
sviluppo umano. La diffusa mancanza di sicurezza nei paesi arabi li costringe in
una condizione di sottosviluppo. L'insicurezza umana nella regione araba è
endemica, sempre più intensa e con conseguenze che riguardano un numero
crescente di persone, soffocando sempre più le possibilità di sviluppo del mondo
arabo''. Un quadro soffocante, claustrofobico. Lo stesso quadro che, con parole
di rara intensità, rese il giornalista libanese Samir Kassir nel suo libro
L'infelicità araba. Uscito postumo, perché Samir venne ucciso in un attentato
nella sua Beirut il 2 giugno 2005. A proposito di sicurezza umana.
''Il mondo arabo ha perso il tipo di fondamenta morali e materiali che sono alla
base di una vita sicura, i mezzi di sussistenza per garantire alla maggioranza
della popolazione un livello accettabile di esistenza'', continua il rapporto di
208 pagine, che individua nella malnutrizione, nello scarso accesso alle risorse
idriche, nella corruzione delle istituzioni alcune delle cause di questo mancato
sviluppo. Il tutto aggravato da una crescita demografica senza sosta: se nel
1980 l'Undp calcolava in 150 milioni gli abitanti della regione che va dal
Marocco all'Iraq, nel 2015 si stima che nella stessa terra vivranno 395 milioni
di persone. Una popolazione, per il 60 percento, sotto i 25 anni di vita, ma che
si confronterà con un mercato del lavoro quasi inesistente. Servirebbe uno
sforzo enorme a livello di programmazione economica, capace di generare 50
milioni di posti di lavoro entro il 2020.
Crisi economica e cattiva gestione. Un'economia, secondo gli studiosi che
hanno lavorato al rapporto, che viene 'drogata' dai proventi del petrolio che
però riguardano solo pochi paesi e, all'interno di questi ultimi, pochissime
persone. Quindi ragionare in termini di reddito pro capite è fuorviante, perché
le sperequazioni all'interno della regione araba sono ancora più violente che
altrove. La prima raccomandazione del rapporto, dunque, è per i governi dei
paesi arabi ricchi grazie all'oro nero. Devono emanciparsene, fino a quando
possono. Anche perché è un bene esauribile e se le lobby al potere in stati come
l'Algeria o i paesi del Golfo Persico non saranno capaci di diversificare gli
investimenti dei proventi del petrolio e non sapranno usare il denaro per creare
sviluppo, nei loro paesi la situazione è destinata a peggiorare. Questa è
un'analisi più che condivisibile anche se, come spesso accade con i documenti
ufficiali delle agenzie Onu, si denuncia la situazione lasciando perdere le
cause che l'hanno generata. Uno dei passaggi chiave del libro di Kassir era
proprio il j'accuse diretto a tutti quei paesi ricchi che per gli interessi
economici legati a petrolio tengono in vita governi illiberali che soffocano le
società civili arabe. Finendo così per spingere tra le braccia del
fondamentalismo islamico una massa di giovani ai quali manca il respiro, chiusi
tra povertà e dittatura, senza nessuna possibilità di emanciparsi.
Senza libertà. Un riferimento chiaro all'assenza di regole democratiche
nella regione araba lo descrive anche il rapporto Undp, quando parla dei sistemi
giudiziari. ''Tutti i sistemi giudiziari arabi, come quelli legislativi,
soffrono di una forma di sottomissione al potere esecutivo che ne mina qualsiasi
parvenza d'indipendenza. In sei paesi, poi, è vietata la costituzione di partiti
politici, in altri casi la repressione di qualsiasi forma di dissenso funziona
meglio del divieto esplicito - spiega il rapporto - E' necessario un sostegno
alla nascita di programmi di sviluppo democratico e di programmi di
rafforzamento degli stessi. Per garantire uno sviluppo sotto tutti i punti di
vista, dall'assistenza sanitaria alle pari opportunità, fino ai programmi
alimentari per sconfiggere la fame'', concludono gli autori del documento. ''Il
problema per i nostri paesi è che il concetto di sicurezza è legato solo
all'apparato militare e poliziesco'', commenta Amat al-Alim Alsowa, direttore
dell'ufficio dell'Undp per gli stati arabi, ''la sicurezza di una popolazione
passa attraverso, invece, la sconfitta della fame, dell'ignoranza, della
discriminazione e della disoccupazione''.
Christian Elia
Discesa a nord delle mafie
in occasione dell'Expo 2015
Le prossime faide tra clan rivali si
svolgeranno all'ombra della Madonnina e i lumbard si affiliano alle cosche
Scritto da Gian Luca Ursini
In vista dell'Expo 2015 le cosche calabresi stanno infiltrando il tessuto
imprenditoriale lombardo e spostano il centro dei propri interessi all'ombra
della Madonnina; tanto che i magistrati nazionali antimafia avvisano: "Milano è
la nuova capitale della ‘ndrangheta e la Lombardia è diventata la quarta regione
mafiosa d'Italia". Una torta così allettante, gli affari in vista al Nord, da
fare pensare che la "prossima guerra di mafia si combatterà nel capoluogo
lombardo", come ha previsto Paolo Pollichieni, direttore del quotidiano
‘Calabria ora', da anni attento osservatore dell'espansione imprenditoriale
della ‘Ndrangheta. I capoclan lombardi sono infatti, secondo l'ultima relazione
della procura antimafia, sempre più autonomi e indipendenti dalle famiglie
rimaste in Calabria, tanto da preparare gli arsenali per un sempre più probabile
scontro tra ‘scissionisti' (così il sostituto procuratore nazionale Roberto
Pennisi) e cosche ancorate alla terra d'origine.
Obiettivo Expo. Gli affari languono nel Meridione, per le imprese legate
ai clan che negli anni hanno monopolizzato i mercati del calcestruzzo, del
movimento terra e inerti, fino a essere presenti in ogni cantiere pubblico e
privato in Calabria: nei prossimi anni la torta più grande verrà dalle opere
legate alla grande Esposizione universale prevista a Milano nel 2015. E' il tam
tam che si sta diffondendo in quella ristretta comunità di ingegneri e
costruttori che si contendevano gli appalti da Caserta in giù. "Dopo aver
lavorato ai macro lotti Gioia - Palmi e di recente Palmi - Villa san Giovanni
dell'autostrada Salerno-Reggio - spiega un ingegnere veneto trasferitosi da un
decennio - la mia ditta, emiliana, mi chiede se sono disposto a programmare i
prossimi dieci anni a Milano: si apre un ufficio lì, ci saranno fin troppi
appalti da gestire". L'atmosfera del colloquio è serena, incline alle
rivelazioni: davanti, la vista dello Stretto si apre sul terrazzo di un
ristorante di Scilla affacciato sugli scogli, mentre una brezza si incunea sulle
acque tra le due terre e attenua il calore feroce della giornata sul Tirreno
reggino. I clan hanno capito che non c'è più da fare affidamento sui grandi
appalti in queste regioni, e così come le ditte ‘pulite' direzionano la bussola
degli affari verso l'altro polo. "Qui stanno smobilitando tutti - continua
l'ingegnere, sotto garanzia di anonimato - fino a febbraio mi chiedevano ancora
se avevo intenzione di restare perché c'erano grosse aspettative legate al Ponte
sullo Stretto, ma poi si è capito che per 5 anni soldi non ne arrivano. Sono
previsti 2 anni per il progetto esecutivo, ma sappiamo tutti che ce ne vorranno
più del doppio. Cantieri a breve non apriranno, quindi tutte le ditte hanno una
sola preoccupazione: non rimanere indietro a Milano. E' lì che si lavorerà bene.
Quelli del posto che ho visto per anni sui cantieri della Salerno- Reggio mi
dicono da mesi: ci vediamo in Lombardia. Ora di salutare la Calabria, ciao vecio".
Milano, Calabria. E' tempo di preparare i bagagli per il Nord: per i
calabresi non è certo un mercato nuovo. Le imprese legate ai clan hanno messo
radici da almeno due generazioni nelle terre tra il Ticino e l'Adda: già nel
1999 il magistrato milanese Armando Spataro avvisava la commissione parlamentare
antimafia di Beppe Lumia come nel capoluogo padano "il 90 percento delle
inchieste riguarda clan di 'Ndrangheta: le mafie della Locride stanno penetrando
il cuore finanziario d'Italia". Infiltrazione andata a buon fine dieci anni
dopo, se nell'ultima relazione della procura antimafia, su 900 pagine si dedica
un lungo capitolo a Milano e ai calabresi in Lombardia, passando a setaccio
territori diversi. La metropoli e il suo hinterland sono "appannaggio delle
cosche reggine, sia della costa Jonica che Tirreniche come pure le famiglie di
Reggio città, che agiscono in sintonia con i siciliani di Cosa Nostra legati da
antichi rapporti con i clan della Locride; in mano a loro la gestione del pizzo
degli investimenti immobiliari e le infiltrazioni nel commercio". L'ortomercato
si era rivelato terreno di casa dei Morabito di Ardore dopo un blitz della
polizia nel 2007. E in provincia gli investigatori scoprono crotonesi e vibonesi
sempre più presenti in alta Brianza e Valtellina, nelle provincie di Lecco Como
e Sondrio. Già nel 2006 la procura di Lecco riesce a incriminare 20 persone
legate ai clan Coco-Trovato che in zona hanno creato un loro ‘locale' (come
vengono chiamate le nuove cellule dagli affiliati) collegato con i clan Arena di
Isola Capo Rizzuto a Crotone e con i potentissimi De Stefano di Reggio. I Farao
Marincola, crotonesi di Cirò Marina, sono presenti nei cantieri e si occupano di
recupero crediti, tra Varese Legnano e Busto Arsizio, a ovest del capoluogo,
monopolizzando anche il traffico di cocaina. I Mancuso di Limbadi (Vibo)
controllano Monza; nella periferia milanese di Sud ovest, tra Buccinasco, Cesano
Boscone e Assago, le famiglie dell'Aspromonte si sono radicate da tre
generazioni creando un ‘consorzio del Nord' che impone le proprie imprese in
subappalto in ogni cantiere, con le buone o con le cattive. Fanno capo ai
Barbaro di Platì, che coordinano le famiglie Perre, Trimboli Sergi e Papalia,
già inserite negli appalti per l'Alta velocità, come pure al raddoppio della
Venezia-Milano; adesso aspettano Pedemontana lombarda e nuova Tangenziale est
milanese. Lo scorso marzo tre pm del Tribunale di Milano hanno chiesto 21
arresti per i compari di Marcello Paparo, imprenditore edile che riforniva di
bazooka i parenti di Isola Capo rizzuto dalla sua ditta di Cologno Monzese.
Dalle 400 pagine del gip Caterina Intelandi emerge una ‘cabina di regia' unica
delle cosche sugli appalti lombardi, che impongono "quale impresa lavora e quale
no" e dividono la torta in parti uguali, anche per Tav a quarta corsia della A4.
Nella stessa inchiesta emerge anche un fattore nuovo: queste imprese dai
profitti elevati fanno gola anche agli autoctoni, generando una devianza
insospettabile: i lumbard che si affiliano alle cosche. Almeno quattro
nominativi di contabili, geometri e piccoli imprenditori del Milanese sono stati
indicati dalla gip Interlandi.
Metastasi oltre confine. "Un cancro calabrese si diffonde in Ticino",
scriveva sul giornale ‘TicinoOggi' un deputato locale della xenofoba Udc di
Blocher a inizio 2003, dopo che le cosche calabresi avevano fatto saltare nella
notte di san Silvestro la pizzeria di un ribelle del clan, fuori Bellinzona. Il
capoluogo del cantone era già allora appannaggio dei crotonesi; tutti di
Mesoraca, per la precisione, un paese vicino alla preSila catanzarese. Ma ora la
cosca Ferrazzo a Bellinzona ha imparato come offrire servizi raffinati ai
‘compari' che lavorano nel Milanese. Tanto da attirare l'attenzione della Dda
milanese che ha investigato insieme con i magistrati svizzeri nell'inchiesta
‘Dirty money', dove hanno messo sotto la lente due finanziarie di Lugano, la Wsf
Ag e la Pf Finanz Ag. In teoria incaricate di raccogliere capitali svizzeri da
investire nel mercato Forex. In realtà collettore di capitali sporchi da
riciclare, ma anche di profitti di società lecite, intitolate a uomini dei clan
da sottrarre al fisco; le due società sono fallite, decine di milioni di franchi
scomparsi, come gli investimenti immobiliari in Spagna e Sardegna, su residence
intestati a uomini della cosca Ferrazzo.
Pax mafiosa agli sgoccioli. Cinque Kalashnikov; tre mitragliette Uzi; tre
pistole Sig sauer. "Su ordine del boss Trovato le consegnai ad un capofamiglia
alleato nel ristorante ‘Il Portico' di Airuno in Brianza", confidava un
testimone di giustizia al gip milanese Vittorio Foschini a inizio anno; "le
forniture di armi erano iniziate nel 2002, dopo che clan rivali nel milanese
avevano ordito un attentato contro Peppe De Stefano e Franco Trovato a Bresso
(periferia nord di Milano, a ovest di Sesto san Giovanni)". Gli arsenali vengono
preparati in vista della possibile guerra degli scissionisti; per il sostituto
procuratore antimafia Pennisi "inchieste come la Over size del 2006 dimostrano
il graduale affrancamento dei clan calabresi di Lombardia dalla regione
d'origine, con la sostanziale autonomia dei nuovi clan brianzoli e milanesi";
una novità segnata dal fatto che le nuove famiglie possono comprendere elementi
che provengono da province, paesi diversi, sfuggendo "all'elemento di
radicamento con la comunità originale", con un territorio calabrese ben
definito, come aveva scritto il magistrato antimafia Nicola Gratteri nel libro
‘Fratelli di sangue' (per Mondadori, coautore il criminologo Antonio Nicaso).
E queste nuove famiglie hanno fame di appalti, di altri soldi. Tanto da far
temere che ben presto, in vista dei soldi in arrivo con l'Expo, i kalashnikov si
faranno sentire anche in Lombardia. "I sempre più rilevanti interessi nel
settore dell'edilizia e dei subappalti per opere pubbliche, possono far saltare
alleanze e spartizioni di territorio consolidati da tempo", avvisa la Direzione
investigativa antimafia nella sua ultima relazione. E le lupare hanno fatto
risuonare i loro primi colpi: il 27 marzo 2008 Rocco Cristello, ex alleato dei
Mancuso caduto in disgrazia, viene ucciso in Brianza; il 14 luglio tocca a
Carmelo Novella a San Vittore Olona, territorio dei Farao Marincola, che pagano
con il sangue del loro affiliato Aloisio Cataldo, ucciso fuori Legnano il 27
settembre scorso.
Carceri, bomba a orologeria
Stato di agitazione dei sindacati di polizia
carceraria, dato il terrificante stato delle prigioni italiane
Scritto da Giacomo Corticelli
Napoli,
davanti al carcere di Poggioreale, l'ennesima manifestazione indetta da varie
sigle sindacali, rappresentanti l'85 percento del personale di polizia
penitenziaria sindacalizzato, per protestare contro la drammatica situazione
rilevata all'interno degli istituti penitenziari italiani. Le manifestazioni
programmate sono già in corso dal 30 giugno in tutta Italia e si concluderanno
con un corteo nazionale a Roma il prossimo 22 settembre. Martedì il Sappe,
sindacato autonomo di polizia penitenziaria, ha rilanciato l'allarme
sovraffollamento carceri, presentando i dati delle undici regioni che risultano
fuorilegge per quanto concerne le condizioni di reclusione.
Dal Trentino alla Sicilia, è già stato superato il limite cosiddetto ''tollerabile''
previsto dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (Dap), andando ben
oltre la capienza regolamentare degli istituti di pena italiani. A livello
nazionale, citando i dati forniti dal Sappe, il conto alla rovescia per
l'esplosione delle prigioni è quasi scaduto: il livello di tollerabilità ha
raggiunto il 99 percento dati i 63 mila e 661 reclusi rilevati il 20 luglio, a
fronte di un massimo previsto in 64 mila 111 unità. E si fa riferimento al
massimo 'tollerato', poiché la capienza regolare fissata dal Dap è di 43 mila
327 posti. La denuncia esposta dal segretario generale del Sappe, Donato Capece,
assegna il record del superamento della capienza 'regolamentare' alla casa
circondariale di Caltagirone, Catania: sono attualmente presenti 259 detenuti,
ma il limite tollerabile sarebbe di 150, ben il 345 percento in più rispetto
alla capienza originaria fissata in 75 posti. La situazione più 'intollerabile'
si registra invece a San Severo, provincia di Foggia, dove si arriva al 213
percento della capienza tollerabile.
La situazione è evidentemente disumana e degradante, eppure l'articolo 27
della Costituzione prevede chiaramente che ''le pene non possono consistere in
trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del
condannato''. ''Si continua a parlare di un piano sull'edilizia di prossima
attuazione, ma in realtà ci vorranno anni prima che venga costruito un nuovo
carcere'', mette in evidenza Capece riferendosi alle volontà ministeriali,
rimaste tutte sulla carta e prive di copertura finanziaria. La situazione
sanitaria è definita ''da terzo mondo'' dal segretario del Sappe, data anche la
presenza di malattie che nel nostro Paese si ritenevano debellate. Il Comitato
europeo per la prevenzione della tortura, branca ufficiale del Consiglio
d'Europa, indica che lo spazio in una cella multipla per detenuto non può essere
inferiore ai quattro metri quadri. Ma in Italia si registrano casi di reclusione
allucinanti, come ad esempio nel carcere di Bolzano, dove 10 metri di cella
vengono condivisi da dodici prigionieri. Per Capece ''l'unica via d'uscita sono
le misure alternative alla detenzione'', ma secondo l'associazione Antigone sono
solo 9 mila 406 i privilegiati per questo tipo di provvedimenti.
L'aumento esponenziale dei detenuti è dovuto ad una maggiore repressione
penale nei confronti di consumatori e trafficanti di droga, nonché verso gli
immigrati illegali e i recidivi. Secondo i dati Dap dello scorso anno, i
tossicodipendenti ed alcoldipendenti reclusi erano 18 mila 484: basterebbe
l'affidamento ai servizi sociali di questi detenuti in adeguate strutture, dalle
quali ne trarrebbero largo beneficio, per dare ai penitenziari un largo respiro.
Per quanto riguarda gli immigrati, quasi 14 mila risultano in stato di
carcerazione preventiva e oltre 2 mila sono imprigionati per non aver rispettato
l'obbligo imposto di espatriare fornito dalle questure. La nuova legge sulla
sicurezza approvata lo scorso 2 luglio non farà che peggiorare questa
situazione, in quanto si moltiplicheranno gli ordini di espulsione di cittadini
senza documenti da parte dei prefetti che, se non ottemperati, li spediranno
dritti in prigione.
19 luglio
Silvio in the Sky
di Alessandro Gilioli
Berlusconi prepara l'offensiva d'autunno contro Murdoch. Basata anche su
nuove leggi. Come quella che taglierà gli spot a tutti. Tranne che a Mediaset.
In edicola da venerdì
Rupert Murdoch
Bisogna ammetterlo: l'uomo che Silvio Berlusconi ha messo a disegnare il futuro
della tivù italiana non ha mai lavorato a Mediaset. Da giovane, infatti, il
viceministro Paolo Romani ha tenuto le redini di Rete A (perlopiù televendite),
poi di Telelombardia (legatissima al Psi milanese), infine di Lombardia 7 (con
qualche problema giudiziario per una trasmissione a luci rosse di Maurizia
Paradiso). Insomma, a Cologno non ha mai messo piede, quindi non è sospettabile
in alcun modo di conflitto d'interessi. Se ne deduce che è solo per amore di un
mercato televisivo più equo e dinamico che qualche giorno fa ha rivelato
l'intenzione sua e del governo di tagliare per legge gli spot "a tutte le reti
che hanno ricavi anche da canoni o abbonamenti". E dev'essere puramente casuale
che l'unica rete con il canone è la Rai e l'unica con gli abbonamenti è Sky:
vale a dire i due principali concorrenti di Mediaset.
La battaglia sui tetti pubblicitari sarà il nuovo fronte della guerra tra Silvio
Berlusconi e Rupert Murdoch e si consumerà entro Natale. Romani ha infatti
deciso di inventarsi una nuova legge pro Mediaset utilizzando come pretesto la
direttiva europea del 2007 sulla tv a cui l'Italia si adeguerà entro la fine
dell'anno. La Ue ovviamente non entra nel merito dei canali, ma chiede soltanto
una maggiore 'flessibilità' dei tetti pubblicitari e stimola una sostanziale
deregulation del settore. Insomma, nulla che imponga di differenziare i tetti
degli spot tra Mediaset e le altre tivù private nazionali, attualmente uguali
per legge (la Gasparri, tra l'altro, opera del centrodestra): il 15 per cento
dell'orario giornaliero e il 18 per cento di ogni ora. La Rai invece ha un
affollamento massimo del 4 per cento sull'orario settimanale e del 12 per cento
di ogni ora.
Ma è soprattutto l'attuale parità di trattamento sul fronte pubblicitario fra
tivù berlusconiane e Sky che Romani vuole scardinare, con il pieno accordo di
Mediaset la cui consigliera d'amministrazione Gina Nieri ha subito raccolto la
palla dal viceministro, chiedendo che i tetti del Biscione e di Sky vengano
diversificati al più presto.
La mossa congiunta di Romani e Nieri si inserisce in un contesto di grande
movimento della tivù italiana. Le polveri hanno preso fuoco nel dicembre scorso,
con l'aumento dell'Iva su Sky deciso dal governo Berlusconi, ma ora lo scontro è
su molti campi, dai diritti sul calcio ai film. La questione è prevalentemente
economica (anche se ha riflessi politici) e affonda le radici nel calo della
pubblicità di Mediaset, quindi la diminuzione dei soldi che vanno in tasca al
Cavaliere. Nonostante gli inviti del premier affinché gli inserzionisti
investano sui media 'non disfattisti', le sue tivù hanno chiuso il primo
semestre del 2009 con una raccolta in discesa del 12-13 per cento rispetto
all'anno precedente, il risultato peggiore di sempre nella storia dell'azienda.
La causa non sta tanto nell'audience (quella delle reti Mediaset tiene benino),
quanto nella recessione mondiale, di cui pure il proprietario di Mediaset, da
Palazzo Chigi, tende a minimizzare gli effetti sull'Italia. Così i ricavi
complessivi di Mediaset nel 2008 si sono attestati su 2.532 milioni di euro,
sorpassati per la prima volta da quelli di Sky, superiori di circa 100 milioni e
basati sugli abbonamenti più che sugli spot. è in questo contesto che è partita
la strategia a tenaglia del governo e di Mediaset con l'idea di regalare più
spot ai canali del premier rispetto al concorrente australiano. A farne le spese
però non sarebbe solo Murdoch: infatti sul bouquet di Sky trasmettono decine di
altri editori (da De Agostini a Rizzoli, da Discovery a Jetix) che Mediaset e
governo vorrebbero 'soffocare da piccoli' prima che diventino anche loro una
minaccia nella spartizione della torta pubblicitaria.
Il ventilato ritocco dei tetti a favore di Cologno e contro tutti gli altri
costituisce solo una delle azioni di attacco ideate da Berlusconi e dai suoi per
contrastare la presenza di Murdoch in Italia. Allo stesso tempo, i vertici del
Biscione stanno pensando di ridurre l'appeal dei canali Sky Cinema togliendo
loro tutti i film prodotti e distribuiti da Medusa, che controlla nomi come
Muccino, Aldo, Giovanni e Giacomo, Pieraccioni e Boldi. C'è poi la questione dei
diritti sul calcio, per i quali partirà a breve l'asta della Lega: scontato che
Mediaset si aggiudichi quelli per il digitale terrestre e Sky quelli per il
satellite, resta da capire come verrà spartita la spesa, vista la crescita
enorme nei prossimi due anni dei potenziali clienti di Mediaset Premium, dovuta
a sua volta all'imposizione del digitale terrestre. In altre parole: prima il
calcio in diretta veniva guardato soprattutto su Sky, ma adesso che milioni di
italiani sono più o meno costretti a dotarsi del decoder per il digitale
terrestre, a molti appassionati può convenire vederlo sui canali di Berlusconi,
che vendono ogni evento singolarmente (con una carta prepagata) anziché
all'interno di un abbonamento (che rappresenta una spesa fissa per le famiglie).
In una fase di crisi economica non è un vantaggio da poco: infatti le carte
Premium attive sono già tre milioni e mezzo, i ricavi delle pay tv berlusconiane
sono cresciuti dell'85 per cento nel 2008 e nel 2009 dovrebbero avvicinari ai
500 milioni di euro. Dunque, le prospettive per le casse di Cologno in questo
segmento - quando tutti o quasi avranno il decoder del digitale terrestre in
casa - sono ottime.
E a proposito di digitale terrestre, anche questa rivoluzione televisiva in
Italia è diventata un fronte aperto tra Berlusconi e Murdoch. Lo switch off, cioè
l'abbandono dell'analogico, pone infatti i teleutenti davanti alla scelta
obbligata tra digitale terrestre e tivù satellitare: il primo targato Mediaset,
il secondo Sky. Di qui le dispendiosissime campagne realizzate con soldi
pubblici a favore del digitale terrestre e per incentivare l'acquisto di
decoder; di qui la minacciata fuoriuscita dei canali Rai (ma forse in futuro
anche Mediaset) dal bouquet di Sky; e di qui anche la nascita della piattaforma
Tivusat, la prima alleanza formale tra Rai e Mediaset, per creare un pacchetto
satellitare gratuito o semigratuito da contrapporre a Sky, dove il segnale del
digitale terrestre non arriva o arriva male. I primi dati dalla Sardegna (la
regione che ha anticipato tutte le altre nella chiusura della tivù analogica)
paiono dimostrare che la strategia funziona, se è vero che nell'isola, come ha
dichiarato trionfante Piersilvio Berlusconi, "solo nell'ultimo mese l'ascolto di
Sky è caduto di due punti percentuali e mezzo". Anche per questo a Cologno hanno
deciso di rinforzare ulteriormente l'offerta nel dtt con un nuovo canale che si
chiamerà Italia 2, gratuito e con un target giovanile.
Quanto alla discesa dei ricavi pubblicitari, per invertire la tendenza a
Mediaset non stanno pensando solo ad aumentare l'affollamento degli spot, ma
anche a utilizzare al massimo il cosiddetto Product placement. Di che che cosa
si tratta? Di quella che una volta si chiamava pubblicità occulta, cioè
l'inserimento nei film e nei telefilm di prodotti e marchi ben visibili, in mano
ai protagonisti o alle spalle degli stessi. La direttiva europea in effetti
liberalizza questo tipo di inserzioni e c'è da prevedere che la forma in cui il
viceministro Romani la consentirà in Italia non sarà - per usare un eufemismo -
molto restrittiva.
L'offensiva congiunta di esecutivo e Mediaset va a scontrarsi contro un colosso
mondiale che in Italia ha tuttavia non pochi problemi. Il sorpasso dei ricavi
Sky su quelli Mediaset nel 2008 non deve trarre in inganno: infatti, dopo anni
di crescita verticale, gli abbonamenti della tivù di Murdoch battono in testa e
i quasi cinque milioni di paganti raggiunti nel 2008 sembrano costituire ora un
tetto molto difficile da superare. Dal 2009, complice il rincaro dell'Iva e la
crisi che colpisce i consumi voluttuari, i nuovi entranti sono molti meno che
negli anni precedenti (vedi tabella a fianco) e a sentire Fininvest il saldo tra
nuovi abbonamenti e disdette di quelli vecchi sarebbe addirittura in negativo.
L'audience complessiva non è male, ma difficilmente supera il 10 per cento e
adesso c'è pure l'incubo dello spostamento dei calciofili sui canali Premium di
Mediaset (due spettatori di Sky su tre pagavano l'abbonamento sostanzialmente
per il pallone).
In via Salaria hanno tentato di rispondere all'impasse con la creazione di un
canale generalista (quello su cui è andato in onda Fiorello) che tuttavia non ha
dato i risultati sperati. Adesso è in corso una campagna serrata per i 30 canali
ad alta definizione, un segmento di mercato promettente, ma ancora di nicchia.
Nascono anche nuove reti, per rendere più appetibile il pacchetto: come Fox
Retrò (un inno alla nostalgia per i quarantenni, con la riproposizione di serie
come 'Starsky & Hutch' e 'Mork & Mindy') o Baby tv (un'ennesima rete per i più
bulimici consumatori di piccolo schermo esistenti, quelli in età prescolare).
Dopo l'estate dovrebbe arrivare anche Sky Cinema Italia, per gli amanti delle
pellicole nostrane anche d'epoca. Sui canali di Murdoch approderà infine il
'David Letterman Show', che prima veniva mandato in onda da Raisat. Tutto molto
bello, ma pochissima cosa rispetto al crollo di contenuti che Sky rischia di
subire se perde i film di Medusa e i canali Rai.
E a proposito della tivù di Stato: la sua arretratezza sul digitale terrestre ne
fa già ora, per Mediaset, un concorrente sempre meno temibile. E se il disegno
di Romani di ridurne gli spot andasse in porto, per viale Mazzini sarebbe il
colpo di grazia: già in crisi di ascolti (meno cinque punti di share a giugno
rispetto allo stesso mese dell'anno precedente), il broadcaster pubblico ha
perso 27 milioni di euro nei primi tre mesi del 2009 rispetto al budget
approvato a gennaio, che già era in rosso, sicché a fine anno la Rai dovrebbe
avere una voragine di circa 120 milioni. E nel caso che, per far contento
Berlusconi, i vertici Rai decidessero di rinunciare ai soldi offerti da Sky per
ospitare i canali satellitari di Stato, il buco si allargherebbe di altri 60
milioni l'anno. Un quadro che potrebbe diventare ancora più agghiacciante se -
come ha proposto Sandro Bondi - uno dei tre canali pubblici dovesse rinunciare
del tutto agli spot: il ministro berlusconiano sostiene che questo scenario è
ispirato al modello scelto dal governo francese, peccato che in Francia il primo
competitor della tivù pubblica non sia di proprietà di Sarkozy.
Ma forse il destino della Rai lo abbiamo visto segnato già cinque mesi fa,
durante il siparietto interpretato da Maria De Filippi e Paolo Bonolis
all'ultimo Festival di Sanremo. Un gradevole duetto di reciproci complimenti, ma
soprattutto una prova generale del programma musicale che i due condurranno
insieme, dall'autunno prossimo. Dove? Su una delle reti di Berlusconi,
naturalmente.
Di bene in meglio
Fuori dall'Ecuador, gli Usa guardano alla
Colombia, che si dice più che disposta ad accogliere l'amico di sempre
Gli Stati Uniti dopo dieci anni dicono addio all'Ecuador. Venerdì 17 luglio è
scaduto il contratto siglato dal governo di Quito con le forze armate Usa, in
base al quale si concedeva in uso la base militare di Manta per operazioni
legate alla lotta contro il narcotraffico. Un accordo che il presidente Rafael
Correa non ha voluto rinnovare, costringendo la Casa Bianca a studiare un'altra
sistemazione in quella regione strategica nel cuore del Sudamerica. Sistemazione
presto rimpiazzata nella vicina Colombia, nella quale sono già attivi numerosi
"siti avanzati", utilizzati a supporto delle operazioni di fumigazione aerea o
delle missioni d'intelligence e radio-telecomunicazione statunitensi. Gli scali
aerei meridionali di Tolemaida, Larandia, Tres Esquinas, Leticia e Puerto
Leguizamo, o le stazioni radar dell'isola caraibica di San Andrés, di Marandúa
(alla frontiera orientale con il Venezuela), Riohacha (nordest) e San José del
Guaviare (sudest). Con il nuovo patto, la Colombia cementerà quello che è già il
suo ruolo da tempo: partner d'eccellenza degli Usa in Sudamerica.
Il governo di Bogotà ha, infatti, dichiarato nei giorni scorsi che sarebbe
prossimo alla firma di un accordo con Washington per fare della Colombia il
maggior centro delle operazioni anti-droga per tutto il Sud America. E va da sé
che questo implicherà un supporto ancor più diretto alla lotta contro i gruppi
guerriglieri, accusati di avere le mani in pasta nel narcotraffico
internazionale, quindi inseriti nella lista Usa dei gruppi terroristi, e per
questo assunti a nemico numero uno anche di Washington. Una buona scusa per
sorvolare indisturbati aree strategiche dal punto di vista economico e militare.
Secondo questo nuovo accordo Palazzo Narino-Casa Bianca, gli Stati Uniti
avrebbero accesso alle basi aeree colombiane per smistare i servizi di
intelligence che supportano la guerra alla produzione di droga e che si occupano
di lotta al terrorismo. I dettagli dell'accordo non sono ancora definitivi, ma
almeno tre basi aeree - Malambo nel nord, Palanquero e Apiay, nel centro -
dovrebbero essere a disposizione degli Usa, che opereranno 24 ore al giorno per
monitorare la regione, intercettare comunicazioni e coordinare con satelliti
spia i progetti di loro interesse. Il nuovo Manta, dunque, è stato trovato e
anzi si va di bene in meglio, dato che il nuovo centro regionale è assai più
ampio e lascia molto sciolte le briglie ai soldati a stelle e strisce.
Intanto, Manta festeggia l'inizio dello sgombero Usa: militari e contractors
(alle società di guardie del corpo private sono affidati molti servizi nella
zona amazzonica e andina, quali per esempio le fumigazioni) hanno due mesi di
tempo per sgomberare. "A partire da oggi - ha dichiarato il sindaco di Manta,
Jorge Zambrano - il Forward Operating Locations (Fol) comincia la sua ritirata
per lasciare le installazioni nuovamente nelle mani delle autorità ecuadoriane.
E comunque, Manta mai è stata una base militare straniera", ha precisato per
smorzare ogni polemica sull'infiltrazione Usa nel paese, aggiungendo che ogni
azione antidroga in territori d'Ecuador è stata fatta da militari d'Ecuador. E
inoltre, ogni missione portata avanti dagli Usa partendo da Manta avveniva con
la presenza di un rappresentante ecuadoriano. O per lo meno così recitavano le
carte dell'accordo firmato dall'allora presidente Jamil Mahaud nel 1998. In
questa base, a quanto riferiscono le fonti ufficiali, ci sono sempre stati non
più di trecento militari e contratistas Usa che "eseguivano alcuni voli per
tener d'occhio il traffico di droga, con piccoli aerei, aerei o barche in acque
internazionali". Da lì sono partite tutte le micidiali fumigazioni che hanno
segnato la vita a migliaia di contadini.
Su quanto per gli Usa sia importante restare militarmente in Sudamerica sono
stati versati fiumi di inchiostro. Ma anche per la Colombia è fondamentale il
supporto del Nordamerica. E non lo ha nascosto il presidente Alvaro Uribe, che
da tempo, dopo il tramonto di Bush, va cercando nuovi vincoli con la Casa
Bianca. "Questo trattato di cooperazione militare è una convenienza per un Paese
come il mio impegnato contro il terrorismo e il traffico illegale di cocaina",
tirando fuori sempre le medesime ragioni. Terrorismo e droga il binomio dietro
il quale si nascondono inenarrabili crimini di Stato che fanno della Colombia
una paese in guerra in piena emergenza umanitaria. Ma di questo non si parla a
voce alta nei palazzi presidenziali. E nemmeno Washington . Quindi ottocento
soldati e seicento contrattisti. Queste le cifre del nuovo accordo, ancora tutto
da concludere ma sulla via della definizione. "Ottenere accordi con paesi come
gli Stati Uniti affinché, in tutto rispetto della Costituzione colombiana e
dell'autonomia della Colombia, ci aiutino nella battaglia contro il terrorimo,
contro il narcotraffico, è la più grande delle convenienze per il nostro paese".
E contro la parapolitica e i suoi boss chi aiuta chi?
Stella Spinelli
La casta
Israele e gli ultraortodossi: un rapporto
complesso che mostra tutte le sue contraddizioni
''Centinaia di poliziotti, sostenuti anche da guardie di frontiera,
presidieranno le strade di Gerusalemme. Nessun tipo di violenza sarà tollerata''.
Il portavoce della polizia israeliana, Micky Rosenfeld, ha annunciato alla
stampa la tolleranza zero verso gli ebrei ultraortodossi che hanno messo a ferro
e fuoco nelle ultime 48 ore due quartieri di Gerusalemme. Il pretesto. Tutto è nato, martedì scorso, dall'arresto di un una donna
ultraortodossa accusata dai servizi sociali israeliani di negligenza. Il suo
bimbo di tre anni, ultimo di cinque figli, era stato trovato in condizioni di
denutrizione dalle autorità di Tel Aviv che accusano la madre di aver privato
sistematicamente dell'alimentazione necessaria il piccolo. La donna nega,
sostenuta da tutta la comunità, che è scesa in piazza per dimostrare. Bilancio
della battaglia: 18 poliziotti feriti e 34 ultraortodossi arrestati. Il sindaco
di Gerusalemme, Nir Barkat, aveva reagito ai disordini ordinando la sospensione
di qualsiasi servizio comunale nei quartieri di Geula e Mea Shearim, teatro
degli scontri. Barkat, a sentir lui, ha preso la decisione per proteggere gli
impiegati comunali, in quanto tutte le istituzioni erano diventate un bersaglio
delle proteste degli ultraortodossi. In molti, però, hanno parlato di
un'ingiusta punizione collettiva. Dopo la mediazione del presidente israeliano
Peres, sono arrivati gli arresti domiciliari per la donna. Questo potrebbe
stemperare la tensione, ma l'episodio ha riportato alla luce una tensione di
fondo che attraversa la società israeliana: il rapporto con gli ultraortodossi. Un salto nel tempo. Fare una passeggiata per Mea Shearim, che in ebraico
significa 'delle cento porte', è come fare un viaggio nel tempo. Costruito a
partire dal 1875, il quartiere è il secondo agglomerato formatosi fuori dalla
città vecchia, dai seguaci del rabbino Auerbach. Loro si sono rinchiusi in un
ghetto volontario, per vivere nella più totale osservanza degli scritti
religiosi e si vestono come i loro antenati dell'Europa centro-orientale del
Settecento. I cappelli a falda larga, le lunghe barbe e i riccioli che escono
dai copricapi sono i segni distintivi di una comunità che non riconosce lo Stato
d'Israele, perché la tradizione vuole che lo fonderà il Messia al suo ritorno e
non possono farlo degli uomini comuni. Non parlano la lingua ebraica, ritenuta
sacra e da utilizzare solo per la preghiera, e si esprimono in yiddish, l'idioma
degli ebrei originari dell'Europa dell'est. Per una passeggiata tra le migliaia
di sinagoghe e di yeshivot (le scuole talmudiche) è consigliabile un
atteggiamento composto e un abbigliamento castigato. Inoltre durante il sacro
sabbath (dal tramonto del venerdì al tramonto del sabato) è proibito fumare e
fotografare per le strade del quartiere. Un altro mondo, fatto anche di
privilegi, però. Nel 1947, dopo un accordo tra Ben Gurion, uno dei padri
d'Israele, e i leader ultraortodossi, si stabilì che questi ultimi potevano
rimandare il servizio militare, le loro scuole ricevono fino a 170 milioni di
dollari di sussidi e non lavorano.
Ben Gurion ne ottenne l'appoggio politico, ma il resto della società israeliana
ha sempre mal tollerato i loro privilegi che, secondo una stima, costano alla
comunità un miliardo di dollari l'anno in termini di forza lavoro sottratta
all'economia israeliana. Rabbini contro Israele. Da sempre posti agli estremi della società
israeliana, nella galassia ultraortodossa non mancano neanche quelli che non
accettano denaro e non fanno patti con lo Stato. Come il gruppo di Neturei Karta,
per esempio. Il movimento è stato fondato a Gerusalemme, nel 1938, schierandosi
da subito su posizioni anti sioniste. Partendo da presupposti, però, differenti
da quelli degli anti sionisti politici. I seguaci del movimento, infatti,
partono da una base teologica e sostengono d'interpretare alla lettera la Torah,
il libro sacro dell'ebraismo. Secondo loro, le sacre scritture proibiscono la
creazione di uno stato ebraico prima della venuta del Messia. Quindi, secondo
questa lettura, lo stato d'Israele è un'impostura e la sovranità sulla Terra
santa è dei palestinesi. Uno di loro divenne consigliere di Yasser Arafat per le
questioni ebraiche.
Il movimento è stato oggetto, nel tempo, di polemiche e di attentati da parte di
ebrei che li vedono come il fumo negli occhi. A settembre dello scorso anno, a
Teheran, il governo di Mahmoud Ahmadinejad organizzò un convengo contro il
sionismo che, tra gli ospiti, contava tanti negazionisti dello stesso Olocausto.
Facile immaginare la reazione in Israele alle immagini provenienti dall'Iran,
dove alcuni esponenti di Neturei Karta pregavano con Ahmadinejad. Ieri, mentre
gli ultraortodossi di Gerusalemme davano battaglia, quattro di loro sono andati
a trovare Ismail Hanyieh, leader di Hamas, a Gaza.
''Noi sentiamo la vostra sofferenza, noi piangiamo le stesse vostre lacrime'',
ha detto ad Haniyeh il rabbino Yisroel Weiss, uno dei leader di Naturei Karta.
Una dichiarazione decisamente poco ortodossa.
Christian Elia
15 luglio
La porta del
paradiso
Gabriele Del
Grande
Agadez, in Niger, è uno dei crocevia
dei flussi di disperati che tentano di raggiungere il
Mediterraneo
Arrivo ad Agadez con un convoglio
scortato dai mezzi blindati dell'esercito. è notte. Siamo una
cinquantina di veicoli, tra camion, autobus e fuoristrada. La
ribellione dei tuareg non è ancora domata. E nel caos che si è
generato, hanno preso piede gruppi di banditi che assalgono e
derubano chi attraversa le strade del nord del paese. Quando
scendo dall'autobus, all'autostazione della Rimbo Transports,
vengo subito fermato da un intermediario. Un certo Musa. Gli
parlo in arabo senza svelare la mia nazionalità. E dico che
cerco un passaggio per la Libia, prima possibile. Il suo arabo è
più elementare del mio, e se la beve. Dopo venti minuti a piedi
nelle strade buie e polverose di
Agadez,
facciamo ingresso nell'autostazione. Abderrahman è il titolare
dell'agenzia Akakus.
Sulla porta è appeso un poster di Gheddafi. Su una lavagnetta
sul muro, sono scritti a gesso i prezzi dei trasporti: Dirkou
25.000 franchi (38 euro), Djanet 110.000 (167 euro) Ghat 140.000
(212 euro) Gatrun 150.000 (228 euro) Tamanrasset 110.000 (167
euro). Mi presento. Un ragazzo nigeriano ci interrompe, ma è
urgente. Ha il numero di cellulare della sorella in Spagna, che
può mandare i soldi del biglietto con Western Union. Ma non sa
il prefisso. Glielo dico io. Non prende. Pazienza. Abderrahman,
camicia e pantaloni di jeans, torna al nostro discorso. A Dirkou
si va con i camion e sempre più spesso con i pick-up, specie ora
che i cinesi hanno trovato il petrolio e si sono affittati metà
dei camion che prima facevano i viaggi verso la Libia. Da Dirkou
altri mezzi partono per Tumu, in Libia, al prezzo di 35.000
franchi (53 euro). In questo periodo si viaggia solo coi
convogli scortati dall'esercito. Troppo pericoloso andare da
soli. E di convogli ce n'è uno al mese. L'ultimo è partito due
giorni fa. Mi tocca aspettare. Dirkou è meno cara, mi dice, ma
devo mettere in conto 5.000 franchi per ogni posto di blocco,
per la polizia. Massima sicurezza, dice Musa. La polizia ha la
lista dei passeggeri, le macchine vanno in gruppo, hanno i
telefoni satellitari, e ci sono pozzi lungo le piste, per
l'acqua. Ma la frode è la frode. "Sai che parti per la vita o la
morte - dice sorridendo -. Noi ce la mettiamo tutta, ma non
possiamo darti la certezza". Solo adesso vedo che sulla lavagna,
sotto i prezzi, c'è scritto: "Bonne chance". Buona fortuna.
Il giorno dopo incontro Brahim Manzo
Diallo, direttore del bi-mensile AÔr Info, stampato in francese
e diffuso in 1.500 esemplari da 7 anni in tutto il paese. Lo
hanno rilasciato un anno fa, nel febbraio del 2008, dopo quattro
mesi di carcere e torture. Il paese era già sotto lo stato di
emergenza. E la polizia sospettava che Diallo fosse un membro
della ribellione tuareg al nord del paese. Il suo giornale si è
spesso occupato dell'emigrazione. Mi parla di un video girato da
un poliziotto libico col cellulare in cui si vedono i resti di
150 persone morte disidratate a fianco del camion rimasto in
panne nel deserto. Diallo sostiene che a migliaia siano morti
nel deserto. Nessuno sa quanti familiari attendono da anni una
chiamata dei figli, partiti per l'Europa e mai più tornati.
Diallo dice che a Agadez non si è mai vista tanta gente come nel
2008. Il che è in linea con il raddoppio degli arrivi in Sicilia
prima dei respingimenti e in particolare con l'aumento dei
nigeriani. Nell'ultimo convoglio partito per Dirkou tre giorni
prima, c'erano 18 camion diretti in Libia. Con a bordo oltre
3.000 emigranti. Tanti quante le dosi di vaccino contro la
meningite che sono state loro somministrate. Già perchè a Dirkou
c'è una brutta epidemia e si dice che il focolaio sia partito
proprio dai ghetti degli immigrati che nell'oasi vivono bloccati
in pessime condizioni. Diallo dice che in tempi di crisi, con la
ribellione e il crollo del turismo, gli emigrati hanno salvato
l'economia. Tanto più in uno dei paesi più poveri del mondo.
Sono ospitati dappertutto. C'è gente che manda la famiglia dai
parenti per affittare agli immigrati. E la polizia non è da
meno. C'è tutto un tariffario: 5.000 franchi (8 euro) al posto
di blocco di Agadez, 1.000 a Turayat, 3.000 all'ingresso di
Dirkou e altri 5.000 all'uscita. E i costi raddoppiano per chi
non ha documenti. Diallo accende il computer in redazione e mi
mostra alcune foto. Si vede un sei ruote carico di un centinaio
di nigeriani. In un'altra foto una donna con le lacrime agli
occhi. Non voleva partire, racconta il direttore. Gridava "I
don't want to come, I want to go back to Nigeria". Doveva essere
una delle tante donne trafficate. Le costringono a prostituirsi
già a Agadez. Nel quartiere di Nassaraoua ad esempio.
Al Nigeria Restaurant incontro
diversi ragazzi. Uno di loro è appena tornato da Dirkou. Lo
hanno respinto alla frontiera libica. » bloccato a Agadez. Dice
di venire dalla regione del delta del Niger. Una zona disastrata
dall'inquinamento delle raffinerie, la cui popolazione non ha
visto un centesimo di quello che è uno dei più ricchi bacini di
petrolio al mondo. A colpirmi è la contropartita che chiede per
non partire. "Se domani trovassi un lavoro stabile, diciamo che
mi facesse guadagnare 50.000 franchi, tornerei immediatamente in
Nigeria". 50.000 franchi sono 75 euro. Dal tavolo accanto si
avvicina Solomon. Ha in mano un cartone di vino, gronda sudore.
Vuole vendermi una copia di "Europe by Road", un film nigeriano
sull'emigrazione. Ma il dvd non funziona. Non è l'unico
alcolizzato in giro. Il loro viaggio è fallito. E tornare da
sconfitti sarebbe un'onta.
Torno all'autostazione. "Stupri,
Aids, aggressioni". Un inquietante cartellone sbiadito dal sole
campeggia sul grande parcheggio. Lungo tutto il perimetro ci
sono gli uffici delle agenzie di viaggio, un Western Union e
quattro negozi che vendono le taniche per il deserto. Sono
centinaia le taniche esposte sul piazzale. Ce ne sono da 20
litri, e da cinque. Sono ricoperte di juta, con una corda per
legarle al camion, dopo averci scritto su il proprio nome per
riconoscerla. Grande e piccola insieme si possono comprare per
3.000 franchi. In un angolo d'ombra conosco Afis del Ghana e
Johnson della Liberia. Afis era partito col convoglio di un mese
fa, ma il camion si è rotto ed è dovuto tornare. Adesso non sa
se ripartire o tornare in Ghana con i pochi soldi rimastigli. Ne
hanno sentite tante. Gli autisti li lasciano nel deserto.
Indicano loro le flebili luci delle città, all'orizzonte, e
dicono di continuare a piedi. Di notte sembra tutto vicino. Ma
di giorno scoprono che sono decine e decine di chilometri. Altre
volte il problema sono i banditi e la polizia.
Il prossimo convoglio per Dirkou
parte dopo tre settimane. Non ho il tempo di aspettare. Decido
di raggiungere Arlit. La città dell'uranio. Ancora più a nord,
in direzione del posto di frontiera con l'Algeria di Samaka. Per
lo sfruttamento dell'uranio in Niger si sta giocando sporco. La
scoperta di nuovi giacimenti farà del Niger il secondo
produttore al mondo del carburante delle centrali nucleari. I
nuovi contratti sono stati concessi alla Cina. E subito dopo è
scoppiata la rivolta armata dei ribelli tuareg al nord. Una
coincidenza? Che interessi ci sono dietro? La Francia? Da sempre
primo importatore dell'uranio nigerino. La Libia? Da sempre
alleata dei tuareg? La scoperta di petrolio nel deserto non
faciliterà le cose. Soprattutto alla vigilia delle elezioni
presidenziali. Alla fine del 2009 si va a votare. E il
presidente Tandja ha deciso di presentarsi per il terzo mandato,
nonostante la legge lo vieti. Il leader dell'opposizione è
finito in carcere per aver protestato. Da Tripoli però Gheddafi
ha dato il suo placet all'operazione. In tutto questo,
paradossalmente la tensione politica e militare ha solo favorito
i trasportatori di emigranti e i contrabbandieri. L'esercito
scorta i convogli, compresi i carichi di droga, armi e
sigarette, che prima erano spesso assaliti dai banditi. Mentre
il netto giro di vite praticato dall'Algeria alle sue frontiere,
per contrastare l'emigrazione verso la Spagna, ha spostato i
flussi verso la Libia. Che ormai è la meta principale anche per
chi parte da Arlit.
13 luglio
Saverio Ferrari Le camicie verdi
Quando
nel maggio 1996 la Lega Nord decise di istituire le Camicie verdi, l’On.
Domenico Gramazio della direzione nazionale di Alleanza nazionale così commentò
la notizia: “Bossi non sa che le Camicie verdi appartengono alla storia e alla
tradizione del vecchio mondo attivistico della destra italiana. Apparvero per la
prima volta nel 1953 ai funerali del maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani. È
proprio con le Camicie verdi che nel lontano 1956 l’allora segretario giovanile
del Movimento sociale italiano, Giulio Caradonna, preparò il famoso attacco alle
Botteghe Oscure, al quale parteciparono con la camicia verde, fra gli altri,
Vittorio Sbardella, Mario Gionfrida, Romolo Baldoni e tanti altri attivisti
dell’Msi”.
Gramazio, pur sbagliando data, rammentò un episodio realmente accaduto.
L’assalto alla sede nazionale del Pci avvenne infatti un anno prima, nel 1955,
la sera del 9 marzo, quando un centinaio di neofascisti con camicie verdi,
bracciali tricolori e cravatte nere, scesi da due pullman, tentarono di
irrompere all’interno del “Bottegone”. La porta venne prontamente chiusa. A quel
punto si scagliarono contro la sottostante libreria Rinascita con molotov,
pietre e bastoni. Nell’occasione Mario Gionfrida, detto “er gatto” (mai
appellativo fu così azzardato), nel tentativo di lanciare una bomba si tranciò
di netto una mano. Lo si rivedrà di nuovo in giro con una protesi in legno.
Tornando al 1996, il 15 settembre Umberto Bossi dichiarava l’indipendenza della
Padania, minacciando il ricorso a vie non democratiche. Il 22 settembre, come
filiazione delle Camicie verdi, decideva anche di istituire la Guardia nazionale
Padana, suddivisa in cinquanta compagnie e dedita all’“esercizio del tiro a
segno come motivo di aggregazione sociale”. Erano gli anni in cui ai magistrati
ricordava che “Una pallottola costa solo 300 lire”. L’ex senatore Corinto
Marchini, il primo comandante delle Camicie verdi, poi fuoriuscito dalla Lega,
solo qualche anno fa in un’intervista a Claudio Lazzaro che stava appunto
girando “Camicie verdi”, un film-documentario uscito nel 2006, raccontò come lo
stesso Bossi lo avesse istigato a organizzare manifestazioni eclatanti, ben più
del semplice bruciare il tricolore nelle piazze. “Bossi mi chiamò all’una e
mezza di notte” – ribadì Marchini – “mi disse di sparare ai carabinieri, che le
Camicie verdi dovevano essere pronte a sparare”. Seguirà a fine gennaio 1998 la
richiesta di rinvio a giudizio del procuratore della Repubblica di Verona Guido
Papalia per tutta la dirigenza della Lega e una ventina di Camicie verdi. I
reati: attentato contro la Costituzione e l’integrità dello Stato, oltre a
formazione di associazione militare a fini politici. Un processo mai fatto.
Sarà forse un caso, ma la camicia verde come uniforme fu anche adottata in
Europa nel secolo scorso da alcuni dei principali movimenti fascisti. Tra loro,
le Croci frecciate ungheresi, fondate nella primavera del 1935 da Ferenc Szalasy,
un ufficiale ultranazionalista. Lo stemma ricordava la bandiera nazista: un
cerchio bianco, su sfondo rosso, con all’interno al posto della svastica due
frecce disposte a forma di croce. Strutturate come un ordine religioso
invocavano la benedizione del cielo per la loro crociata “contro gli ebrei e i
bolscevichi”. Alleati dei nazisti, costituirono nell’ottobre del 1944 un governo
fantoccio in Ungheria sotto la guida di Szalasy, autoproclamatosi “Reggente
della nazione”, deportando migliaia di ebrei nei campi di sterminio. Almeno 15
mila, invece, secondo gli storici, gli ebrei direttamente massacrati in quei
mesi dalle Croci frecciate a Budapest.
Assai simile all'esperienza ungherese fu la Guardia di ferro rumena, movimento
fanatico e antisemita fondato nel 1927 da Cornelius Zelea Codreanu. Nel gennaio
del 1941, in un tentativo di colpo di Stato, le bande paramilitari della Guardia
di ferro, con tanto di camicia verde, fecero irruzione al quartiere ebraico
incendiando case e sinagoghe. Al termine trascinarono al mattatoio comunale
centinaia di sventurati. Molti di loro furono sgozzati, simulando una cerimonia
kosher, altri decapitati. I corpi furono successivamente appesi ai ganci da
macellaio. “Li avevano scorticati vivi a giudicare dalla quantità di sangue”,
riferì in un suo telegramma l’ambasciatore degli Stati Uniti in Romania. Tra
loro anche una bambina di cinque anni appesa per i piedi.
Movimenti fascisti a sfondo mistico-religioso che percorsero l’Europa, come
furono anche i Verdinazo (Vereinigung dienst national-solidaristen) o
Associazione dei solidaristi fiamminghi, fondata negli anni Venti da Joris van
Severen, il cui progetto era di riunificare il Belgio, il Lussemburgo, i Paesi
Bassi e le Fiandre francesi, riportando la ruota della storia al tempo
dell’impero di Carlo V. Dotata di milizie con camicia verde, originò anche un
corpo parapoliziesco che collaborò con i nazisti. Storie terribili e lontane,
chissà se conosciute dai dirigenti leghisti.
I diritti, per una volta,
prima di tutto
Gli istituti finanziari europei si ritirano dal
progetto della diga di Ilisu. La Turchia non ha rispettato i diritti delle
popolazioni coinvolte
Il 7 luglio 2009 sarà un giorno da ricordare per
almeno 60mila persone. Sono gli abitanti della valle del Tigri, tutti curdi, che
sarebbe stata sommersa dalla costruzione della diga di Ilisu, nella Turchia
sud-orientale. Le banche che finanziavano il progetto hanno ritirato la loro
partecipazione al progetto, lasciando il governo turco da solo di fronte a una
spesa immensa. Lieto fine. La sensazione è che più dei diritti delle popolazioni civili
interessate poté la crisi economica, ma il comunicato stampa diffuso il 7 luglio
dalle agenzie per l'esportazione del credito di Germania, Austria e Svizzera
rende onore alle necessità di tutte quelle persone che avrebbero visto la loro
vita sconvolta da grande bacino idrico.
''L'accordo stipulato, fin dall'inizio, prevedeva il rispetto di rigide
condizioni'', recita la nota per la stampa diffusa dalle agenzie Euler Hermes
Kdreditversicherung, tedesca, Kontrollbank, austriaca, e
Exportrisikoversicherungg, svizzera. ''L'obiettivo principale consisteva nella
riduzione al minimo dell'impatto della centrale idroelettrica sugli abitanti
della regione, sull'ambiente e sui beni culturali'', recita il comunicato.
Mancati adempimenti. ''Ma nonostante i notevoli miglioramenti, restano
lacune su alcuni punti essenziali, come ad esempio la mancanza di uno studio di
fattibilità sullo spostamento delle rovine di Hasankeyf in un parco di beni
culturali o l'assenza di una regolamentazione che stabilisca l'indennizzo da
pagare secondo gli standard internazionali ai 60mila sfollati''. Tutte
motivazioni nobili, come quella sulla distruzione di Hasankeyf, che avrebbe
cancellato per sempre un sito millenario. Nessuno saprà mai se la decisione del
consorzio finanziario, comunicato alla scadenza dell'ultima proroga di 180
giorni concessa al governo turco per applicare le condizioni preliminari, sia
stata dettata dalla cattiva congiuntura o dalla cattiva pubblicità che avrebbe
garantito loro un progetto osteggiato da tanti. Resta che questa decisione
regala un sospiro di sollievo a tante persone, almeno per ora.
Un progetto controverso. ''L'annullamento del contratto di finanziamento
non ha alcun fondamento scientifico e tecnico. Si tratta interamente di una
decisione politica. La Turchia in questo momento è una grande potenza nella sua
area. E' del tutto naturale che alcuni paesi si sentano disturbati da questa
realtà''. Veysel Eroglu, ministro turco delle Politiche Ambientali e Forestali,
ha commentato così a nome del governo turco, con un riferimento all'Iraq, da
sempre contrario al progetto. Ankara ostenta sicurezza, anche se l'annunciato
inizio dei lavori per il 30 luglio prossimo è da ritenersi superato. I 1,2
miliardi di euro garantiti dagli istituti di credito europei erano fondamentali
per andare avanti con il progetto, che risale al 1954, e che prevede la
costruzione di 22 dighe e 19 centrali idroelettriche. Per l'esecutivo turco, da
sempre, la diga non distruggerà il contesto socio-culturale del bacino ma anzi
porterà occupazione e sviluppo in una regione economicamente depressa.
Un sospiro di sollievo. Non la pensano così, però, gli abitanti della
zona. ''Ho subito sentito gli esponenti delle associazioni e delle
organizzazioni non governative che si sono battute contro le dighe e siamo tutti
contenti. Per martedì prossimo, a Roma, si sta organizzando una grande festa e
abbiamo notizie di feste e balli nella regione'', racconta Luca Saltalamacchia,
giovane avvocato napoletano in prima fila nella battaglia legale in
rappresentanza delle popolazioni locali. Saltalamacchia si è sempre confrontato
con i vertici del gruppo Unicredit, mettendoli di fronte alle loro
responsabilità morali nel caso avesser finanziato il progetto. Il gruppo
amministrato da Alessandro Profumo, infatti, controlla la Bank of Austria
Creditanstalt, uno degli istituti che finanzia il progetto della diga.
Visto dall'Italia. Il gruppo italiano non figura direttamente, ma è
coinvolto nella storia. ''Quando è stato emesso il comunicato delle agenzie per
l'esportazione del credito abbiamo tempestato di e-mail tutti i dirigenti di
Unicredit con i quali ci siamo interfacciati in questi anni - racconta
l'avvocato - Ieri mattina mi ha risposto uno di loro dicendomi che si
ritiravano. Sul loro sito, poi, ho trovato anche la dichiarazione ufficiale che
cita proprio le rimostranze delle ong sulla sostenibilità del progetto tra i
motivi della decisione. Aspettavano che le altre agenzie si pronunciassero, per
non pagare la penale prevista, ma avevano capito che era un disastro mediatico''.
Una grande vittoria, insomma. ''Più che altro è un precedente importante.
Pressando i finanziatori abbiamo ottenuto che questi pressassero le agenzie per
ottenere che il governo di Ankara applicasse i prerequisiti richiesti'',
risponde Saltalamacchia. ''Resta il problema, perché il progetto va avanti lo
stesso, ma resta anche un precedente per i rapporti tra le multinazionali e i
diritti umani delle popolazioni civili interessate dai grandi progetti
economici. Un meccanismo virtuoso che spero si trasformi in un'onda''.
La lunga attesa. Molto soddisfatto anche Mauro Colombo, il regista di
Hasankeyf, waiting life, un documentario che raccontava l'attesa impotente della
popolazione interessata dal progetto che, dagli anni Cinquanta, incombe sul loro
futuro. ''Quello che è accaduto è un caso raro, ed è il benvenuto. Un progetto
come questo fermate da considerazioni non solo finanziarie è un'ottima notizia'',
risponde Colombo. ''Mi auguro solo che adesso la condizione delle popolazioni di
quella regione non resti, ancora una volta, come sospesa. Il governo turco vuole
andare avanti e c'è il rischio che continui a tenere la regione nella situazione
attuale. Manca tutto, davvero. C'è urgente bisogno di forti investimenti per lo
sviluppo della regione. La gente ha paura che, prima o poi, il progetto si
realizzi e nessuno si sente d'investire in un luogo che, tra vent'anni, potrebbe
non esserci più''.
Christian Elia
10 luglio
Il nemico della stampa
di Umberto Eco Il premier vuole imbavagliare l'informazione. E nella nostra società malata
la maggioranza degli italiani sembra pronta ad accettare anche questo strappo.
Ma il famoso intellettuale dice: 'Io non ci sto'.
Umberto Eco
Sarà il pessimismo della tarda età, sarà la lucidità che l'età porta con sé, ma
provo una certa esitazione, frammista a scetticismo, a intervenire, su invito
della redazione, in difesa della libertà di stampa. Voglio dire: quando qualcuno
deve intervenire a difesa della libertà di stampa vuole dire che la società, e
con essa gran parte della stampa, è già malata. Nelle democrazie che definiremo
'robuste' non c'è bisogno di difendere la libertà di stampa, perché a nessuno
viene in mente di limitarla.
Questa la prima ragione del mio scetticismo, da cui discende un corollario. Il
problema italiano non è Silvio Berlusconi. La storia (vorrei dire da Catilina in
avanti) è stata ricca di uomini avventurosi, non privi di carisma, con scarso
senso dello Stato ma senso altissimo dei propri interessi, che hanno desiderato
instaurare un potere personale, scavalcando parlamenti, magistrature e
costituzioni, distribuendo favori ai propri cortigiani e (talora) alle proprie
cortigiane, identificando il proprio piacere con l'interesse della comunità. È
che non sempre questi uomini hanno conquistato il potere a cui aspiravano,
perché la società non glielo ha permesso. Quando la società glielo ha permesso,
perché prendersela con questi uomini e non con la società che li ha lasciati
fare?
Ricorderò sempre una storia che raccontava mia mamma che, ventenne, aveva
trovato un bell'impiego come segretaria e dattilografa di un onorevole liberale
- e dico liberale. Il giorno dopo la salita di Mussolini al potere quest'uomo
aveva detto: "Ma in fondo, con la situazione in cui si trovava l'Italia, forse
quest'Uomo troverà il modo di rimettere un po' d'ordine". Ecco, a instaurare il
fascismo non è stata l'energia di Mussolini (occasione e pretesto) ma
l'indulgenza e la rilassatezza di quell'onorevole liberale (rappresentante
esemplare di un Paese in crisi).
E quindi è inutile prendersela con Berlusconi che fa, per così dire, il proprio
mestiere. È la maggioranza degli italiani che ha accettato il conflitto di
interessi, che accetta le ronde, che accetta il lodo Alfano, e che ora avrebbe
accettato abbastanza tranquillamente - se il presidente della Repubblica non
avesse alzato un sopracciglio - la mordacchia messa (per ora sperimentalmente)
alla stampa. La stessa nazione accetterebbe senza esitazione, e anzi con una
certa maliziosa complicità, che Berlusconi andasse a veline, se ora non
intervenisse a turbare la pubblica coscienza una cauta censura della Chiesa -
che sarà però ben presto superata perché è da quel dì che gli italiani, e i
buoni cristiani in genere, vanno a mignotte anche se il parroco dice che non si
dovrebbe.
Allora perché dedicare a questi allarmi un numero de 'L'espresso' se sappiamo
che esso arriverà a chi di questi rischi della democrazia è già convinto, ma non
sarà letto da chi è disposto ad accettarli purché non gli manchi la sua quota di
Grande Fratello - e di molte vicende politico-sessuali sa in fondo pochissimo,
perché una informazione in gran parte sotto controllo non gliene parla neppure?
Già, perché farlo? Il perché è molto semplice. Nel 1931 il fascismo aveva
imposto ai professori universitari, che erano allora 1.200, un giuramento di
fedeltà al regime. Solo 12 (1 per cento) rifiutarono e persero il posto. Alcuni
dicono 14, ma questo ci conferma quanto il fenomeno sia all'epoca passato
inosservato lasciando memorie vaghe. Tanti altri, che poi sarebbero stati
personaggi eminenti dell'antifascismo postbellico, consigliati persino da
Palmiro Togliatti o da Benedetto Croce, giurarono, per poter continuare a
diffondere il loro insegnamento. Forse i 1.188 che sono rimasti avevano ragione
loro, per ragioni diverse e tutte onorevoli. Però quei 12 che hanno detto di no
hanno salvato l'onore dell'Università e in definitiva l'onore del Paese.
Ecco perché bisogna talora dire di no anche se, pessimisticamente, si sa che non
servirà a niente.
Almeno che un giorno si possa dire che lo si è detto
di Marco D'Eramo Uno stanco rituale
Se continua così, quando un leone scapperà dallo
zoo di Pechino, noi italiani saremo indotti a chiederci con ansia: «Ma per
Berlusconi questa notizia è buona o cattiva?». È infatti straordinario come ci
si possa scannare, insultare, ghignare su temi ineffabili quanto il sesso degli
angeli (chiacchierato almeno quanto quello del nostro anziano premier).
Già di per sé infatti il G8 è un involucro vuoto, obsoleto residuo di un passato
coloniale, che non corrisponde alla scala di potere del pianeta dove nulla può
essere deciso senza Cina, India, Brasile.
I leader europei più realisti lo sanno benissimo e la cancelliera tedesca Angela
Merkel propone da mesi di eliminare il G8 e riversare tutte le discussioni nel
G20, dotandolo di poteri decisionali. Già ora il G8 rispecchia solo nelle forme
e solo nel primo giorno il numero 8 (che è 2 al cubo), mentre già da tempo gli
osservatori internazionali sostengono che in realtà quel che conta è il G2, cioè
il vertice tra Usa e Cina.
Ma c'è di più: questo stanco rituale non riesce a conseguire neanche gli
obiettivi che si era prefisso. E i leader delle grandi potenze, gli uomini «più
potenti del mondo», alzano inermi bandiera bianca sul tema del riscaldamento
globale e aspettano fatalisti la catastrofe ambientale prossima ventura. Ci
ammanniranno certo le buone parole che concludono tutti i vertici di questa
terra: non ci saranno risparmiati commossi impegni di aiuto al Terzo mondo (che,
se avesse ricevuto un centesimo per ogni promessa sbandierata, nuoterebbe ormai
nell'oro). Sulla crisi ci diranno che stiamo sulla buona via, il peggio è
passato, ma il meglio ancora non si vede e ci aspettano ancora lacrime e sangue.
Ma niente paura: il lieto fine trionferà. Le decine (forse centinaia) di milioni
di disoccupati provocati dalla recessione sono una triste fatalità, come le
tendopoli sulla piana di Novelli.
A questa doppia vacuità, per quanto ci riguarda, si sovrappone la patetica
irrilevanza della vecchia preoccupazione che da sempre domina la commedia
all'italiana e che Alberto Sordi così formulava: «Ma che figura ci faremo con
gli stranieri?». Con tutti a disquisire sui comunicati della delegazione Usa,
sulle singole parole del presidente Barack Obama, persino sulle biografie
distribuite dall'Ufficio stampa della Casa bianca.
A confronto, i capziosi sofismi dei retori della Magna Grecia ci paiono di una
concretezza brutale: l'apprezzamento (di prammatica) degli Usa per l'Italia -
paese ospitante - sarà o no una «stampella per Berlusconi»? Al contrario, la
stringata biografia (7 righe) del nostro ineffabile primo ministro sarà invece
una «sconfessione velata» (in confronto alle tre pagine dedicate al presidente
Giorgio Napoletano)?
L'unico aspetto davvero evocativo di questo vertice aquilano è quindi quello
metaforico: se la crisi ha colpito il pianeta come il terremoto ha devastato
l'Abruzzo, allora siamo tutti sfollati della recessione e possiamo tutti fare
nostra l'incontrovertibile affermazione: «Yes, we camp».
di Angela Pascucci
XINJIANG Lo smacco di Hu Jintao
Una decisione di buon senso, quella presa dal
presidente Hu Jintao di rinunciare a partecipare al G8 e rientrare a Pechino,
dove presumibilmente i vertici cinesi sono riuniti in permanenza per
fronteggiare la crisi nello Xinjiang. Eppure quella partenza precipitosa
equivale a un grave smacco, una «perdita di faccia», per la leadership cinese
che aveva fatto della presenza ai vertici internazionali una conferma del ruolo
di nuova potenza globale senza la quale nessuna delle grandi questioni che
affliggono il pianeta può essere affrontata e risolta.
Vero è anche che le immagini della più alta carica della Repubblica popolare a
spasso per i fori romani o impegnata in colloqui non certo urgenti con le
autorità italiane o portoghesi (Lisbona avrebbe dovuto essere la tappa
successiva all'Italia) sarebbe stata controproducente in un momento di emergenza
nazionale. Le dinamiche interne del potere cinese sono insidiose e la spaccatura
al vertice tra il presidente Hu e il premier Wen Jiabao su una serie di
questioni, a partire dalla gestione dell'economia, è uno degli argomenti
preferiti di quei cinesi che sanno, o pensano di sapere, cosa accade dietro i
portoni serrati di Zhongnanhai, la cittadella del potere a ridosso della Città
proibita.
Le ragioni non mancavano dunque per spingere quello che è anche il capo della
Commissione militare centrale, quindi la suprema autorità delle forze armate, a
fare ritorno in patria quanto prima. E tuttavia resta la constatazione che una
simile decisione poteva essere presa solo davanti a una situazione di estrema
gravità.
Ieri le autorità locali hanno affermato che a Urumqi militarizzata la situazione
è finalmente «sotto controllo». Ma chi può crederci stante che la dinamica degli
scontri resta misteriosa e che, dopo ormai quattro giorni dall'inizio della
battaglia, è ancora impossibile sapere che cosa sia davvero accaduto, a quali
gruppi etnici appartenessero i morti e quanti ce ne siano davvero stati (c'è un
abisso, al solito, tra le cifre ufficiali e quelle dell'opposizione uigura ma
anche quella minima, 156 morti, data dal governo, resta una cifra enorme se si
considera che si sono verificate in un solo giorno di scontri, mentre appare
assai improbabile che i sanguinosi scontri all'arma bianca che si sono
susseguiti non abbiano provocato altre vittime). Tutto appare strano, persino il
fatto che l'apparato di sicurezza cinese in una zona considerata ad alto rischio
sia stato colto di sorpresa dal deflagrare degli scontri. Era avvenuto anche a
Lhasa, l'anno scorso, quando le prime ore di rivolta avevano trovato le truppe
cinesi impreparate, tanto da non poter arginare l'attacco agli han che aveva
segnato l'avvio della sollevazione tibetana.
Quel che accade adesso sotto gli occhi di tutti però è chiaro: la scintilla ha
appiccato il fuoco a una prateria arida che continua a bruciare. Le autorità
cinesi hanno di che riflettere e preoccuparsi. Stavano tirando il fiato, perché
in un anno di anniversari «sensibili», tutto era passato liscio, persino il
ventennale del massacro di Tian'anmen, e si preparavano a celebrare
trionfalmente i 60 anni dalla fondazione della Repubblica popolare. Invece si è
materializzato l'incubo uiguro, agitato forsennatamente prima delle Olimpiadi, e
non con spaventosi attentati ma con una vera ribellione, seguita da un'ancora
più inaspettata reazione incendiaria dell'etnia che teoricamente dovrebbe essere
sotto il loro controllo. E' il momento che i vertici cinesi guardino al proprio
interno per capire anche l'esasperazione dei loro governati.
Il 2008 è stato un anno di svolta, per la Cina, ma la leadership non sembra
averlo capito. La rivolta tibetana, i successivi attacchi alla fiaccola olimpica
che hanno suscitato la reazione indignata e specularmente violenta dei cinesi,
anche all'estero; lo shock del terremoto nel Sichuan (cheha suscitato anche
un'ondata di partecipazione popolare infrantasi poi contro il muro del controllo
innalzato dalle autorità), lo stesso orgoglio olimpico. Tutto questo ha dato il
via a un mix di dinamiche di tipo nazionalistico, o comunque identitarie, la cui
configurazione è ancora in pieno svolgimento. E se il governo centrale può
averne tratto finora motivo di rassicurazione, potrebbe presto accorgersi di
qualche amaro risvolto.
8 luglio
G8, Grande fratello
Loretta Napoleoni
Due giorni prima dell’inizio del G8 il
Presidente Obama firma a Mosca un accordo storico, le immagini, che fanno il
giro del mondo, sembrano un de-ja-vu della Guerra fredda. All’Aquila il sindaco
denuncia la mancata ricostruzione, si domanda che fine hanno fatto I soldi
promessi e mai arrivati e parla di una città in rovina, che teme una diaspora
dei terremotati, mandati a vivere in altre città e in altre regioni. I giornali
esteri, con il Guardian in testa, quegli stessi quindi che solo tre mesi fa
osannavano il governo Berlusconi per la risposta rapida ed efficiente al
terremoto, adesso lo deridono per la scelta dell’Aquila. Hanno scoperto che è
ancora una tendopoli. Cosa lega il processo di denuclearizzazione, i terremotati
abruzzesi e la facilità con la quale i media cambiano opinione riguardo al
nostro paese? Il G8.
I motivi per i quali il presidente russo e quello americano si sono incontrati
prima del G8 sono gli stessi che alimentano la denuncia del sindaco dell’Aquila
e le critiche dei giornali: questo evento è solo mediatico e le promesse che
elargisce sono quelle dei marinai. Questa settimana Kofi Annan l’ha ricordato in
una lettera a Berlusconi dove accusa l’Italia di non aver raddoppiato gli aiuti
all’Africa come stabilito a Gleneagle, al G8 del 2005, ma di averli dimezzati. A
che scopo incontrarsi quattro anni dopo all’Aquila per discutere degli stessi
problemi? Questa la domanda provocatoria di Annan.
Il G8 ormai serve solo a soddisfare gli istinti voyeristici degli abitanti del
villaggio globale, è il Grande Fratello della politica. Da incontro informale,
senza protocollo, dove i potenti del mondo potevano parlarsi guardandosi negli
occhi e sondare opinioni e intenzioni reciproche, è diventato la mecca dei
paparazzi, pronti a scattare foto da gita scolastica come quelle dell’ultimo
G20: Berlusconi che fa cucù tra Obama e Medvedev, la Merkel che lo sgrida perché
è al telefonino. D’altronde perché meravigliarci? Da anni la politica va a
braccetto con il mondo dello spettacolo, anzi fa spettacolo. A Greneagle, Tony
Blair invita un ex cantante punk, Bono, ed un mediocre cantante pop, Bob Geldof,
per risolvere i problemi dell’Africa. Il G8 si è trasformato in un evento rock.
Quest’anno la stampa mondiale si aspetta grandi cose da Silvio Berlusconi, lo
show man, il grande comunicatore, ma poco dall’uomo di Stato. L’evento mediatico
oscura quello politico al punto da farci dimenticare il motivo per il quale si
tiene il G8 all’Aquila: la crisi economica e il terremoto. Macerie su macerie,
quindi. Peccato, perché l’Italia una proposta di riforma del sistema economico e
finanziario la presenta: a prescindere dai contenuti che conosceremo nei
dettagli nei prossimi giorni, è un primo passo importante per uscire dalla
nebulosa delle politiche recessive improvvisate da ogni paese. Ma, a giudicare
dall’agenda, lo spazio riservatole è minore di quello per le foto di gruppo e i
convivi, meno di due ore, frazione infinitesimale delle tre settimane trascorse
a Bretton Woods per ridisegnare il sistema monetario mondiale. Allora tutto
avveniva a porte chiuse, lontano dagli occhi del mondo, ma si sa: allora il
Grande Fratello non esisteva.
PARTITO
DEL SUD: IL GRANDE INGANNO
di Agostino Spataro
Si torna a parlare di “partito
del Sud” come la panacea di tutti i mali che affliggono le regioni meridionali e
come contrappeso al “partito del Nord”, (la Lega) che farebbe man bassa di
finanziamenti anche di pertinenza del sud.
Il problema esiste, ma non può
imputarsi al solo Bossi ma a tutta la corte del Pdl che gli tiene bordone. A
cominciare dalla “guida suprema”.
Nei giorni scorsi ne ha parlato
il sottosegretario Micciché del Pdl che s’atteggia come uno che non è mai
entrato nel nuovo partito di Berlusconi e Fini.
E come a voler rassicurare i
perplessi ha sottolineato che dietro di lui c’è il sen. Dell’Utri.
Quanto rassicuri o inquieti la
“buona novella” è questione di punti di vista.
Sappiamo, inoltre, che a tale
ipotesi pensano anche alcuni governatori in affanno tra cui quelli della Sicilia
e della Campania.
E’ probabile, dunque, che
nei prossimi mesi saremo costretti ad occuparci del “partito del sud” ovvero di
un espediente velleitario che, se attuato, potrebbe rivelarsi per le regioni
meridionali più dannoso del governo Berlusconi che invece di dare prende dal
Meridione.
Non a caso, l’idea nasce nel
vivo di una crisi acuta che evidenzia i limiti e gli errori di un’impostazione
politica subalterna al gran capo e agli interessi personali e sociali che
rappresenta.
Un coacervo d’interessi,
largamente concentrati al nord, dove non c’è spazio per questo generoso Sud che
si è svenato per mantenere al potere la più ingorda coalizione nordista che si
ricordi nella storia repubblicana.
Alla quale- non bisogna
dimenticare- il centro-destra ha consegnato di recente un’arma micidiale, il
federalismo fiscale, puntata contro il sud e la Sicilia.
Questione meridionale o
dualismo meridionale?
Perciò, la gente, soprattutto
nel mezzogiorno, comincia ad essere nervosa, stanca di attendere, con le mani
vuote, che chi ha fatto il pieno di voti gliene renda conto.
E questi, non sapendo che dire,
ecco farsi venire l’idea del “partito del sud” da contrapporre al
malefico “partito del nord” col quale- per altro- sono state strette alleanze
elettorali anche nel Sud e in Sicilia e col quale tuttora si collabora al
governo del Paese.
A me sembra un diversivo,
una trovata per a tirare a campare per un altro paio di legislature e, al
contempo, evitare all’esercito di ministri, sottosegretari, parlamentari di
spiegare ai meridionali la loro passività politica che ha sacrificato i voti e
le speranze del Sud sull’altare dell’accordo Berlusconi - Bossi.
Ma entriamo nel merito di
questa “idea” ondivaga, fumosa che nemmeno i suoi fautori sanno definire.
Comincio con una domanda
provocatoria, ma non troppo: esiste ancora una questione meridionale?
Sicuramente non più nei termini
e nelle dimensioni di come è stata individuata e teorizzata dall’unità d’Italia
in poi e, più segnatamente, nell’ultimo mezzo secolo.
Diversi indicatori economici
dicono che fra le otto regioni meridionali è in atto un processo di
divaricazione che presto potrebbe portare ad una sorta di “dualismo
meridionale”.
Nel senso che almeno quattro
regioni (Sardegna, Abruzzo, Molise, Basilicata), seguite dalla Puglia,
potrebbero, economicamente, fuoriuscire dal Mezzogiorno, mentre Sicilia,
Calabria e Campania, buon ultime, resterebbero a testimoniare l’esistenza
dell’antico problema.
Restano, cioè, ferme le
regioni più segnate dalla “trimafia” (mi si passi il neologismo) col rischio che
taluni sprovveduti potrebbero far coincidere la residua questione meridionale
con la questione criminale.
La somma di più debolezze fa
una più grande debolezza
Curiosamente, è in queste
regioni che più s’insiste per creare un “partito del sud” da contrapporre al
“partito del nord”.
Provate a immaginare questa
nostra, cara Italia, preda delle lotte feroci di due partiti populisti e
impastati di razzismo egoista, come potrà stare dentro una moderna Europa
destinata a volgere verso la sua unione politica ed economica. Che barbarie!
Ma in concreto cosa potrebbe
essere il partito del sud?
Così come immaginato dai
suoi fautori vorrebbe dire l’unione di tante debolezze in una.
Ovvero il fiasco. Giacché,
la somma di più debolezze non fa una grande forza ma una più grande debolezza.
Se oggi il nord prevale non è
perché ci sono Bossi e le sue camice verdi, ma perché in questa lunga
transizione (dalla prima alla seconda Repubblica) a Roma non ci sono stati
governi capaci di garantire la solidarietà nazionale e quindi un’equa
distribuzione delle risorse e di frenare la bramosia dei centri fondamentali del
potere economico e finanziario che si trovano al nord.
Poteri forti che per
realizzare i loro disegni hanno “lanciato” Berlusconi e gonfiato il partitino di
Bossi. Tutto ciò non può essere scambiato per il “partito del nord” che non c’è.
In realtà, la Lega nord è un
movimento xenofobo, che si alimenta di un certo disagio sociale (in gran parte
gonfiato ad arte), voluto da certi gruppi economici del nord con l’obiettivo
d’indebolire, condizionare lo Stato democratico.
Basti ricordare che uno dei
primi importantifinanziamenti “coperti” in favore della Lega fu elargito
dalla Montedison.
In particolare, la Lega porta
la tremenda responsabilità d’avere infranto il principio della solidarietà
nazionale ed ha in programma d’infrangere, col pieno accordo di Berlusconi e
soci, altre solidarietà fondamentali come quella umana che è alla base di ogni
degna civiltà. Rilevato ciò, non possiamo però assolvere le gravissime
responsabilità dei ceti dominanti meridionali per avere trascinato il Sud nella
spaventosa crisi attuale. Anzi, prima d’andare a cercare nemici esterni,
bisognerebbe individuare e combattere quelli interni al Mezzogiorno. Che
sono tanti.
Non si deve imitare la Lega
di Bossi
Tuttavia – insisto- la Lega
non è il partito che esprime davvero lo spirito del Nord italiano, ma è solo uno
strumento usato da chi vuol condizionare maldestramente la vita democratica e il
governo del Paese. Un giochino avventuroso, pericoloso, anche per i veri
interessi del Nord, destinato a fallire. Perciò, ritengo che non si debba
imitare la Lega di Bossi.
Il Sud italiano ha tanti
problemi irrisolti, ma avrebbe anche le idee per trovare le soluzioni, ma non
può scendere ad un livello culturale pre-politico, razzista.
Qui sono fiorite, e da qui
trasmesse, le più grandiose civiltà mediterranee. Fra Palermo e Napoli, fra
Melfi e la terra di Puglia nacquero, per merito dell’illuminato, e laico,
imperatore Federico II, l’idea e i primi rudimenti giuridici della moderna
Europa.
Certo, oggi, siamo poveri, mal
governati, emarginati per colpa di un ceto dominante subalterno agli interessi
illeciti ed affaristici, tuttavia riusciamo a conservare una condizione di vita
più a misura d’uomo, a coltivare sentimenti altrove smarriti o confusi con
pessimi valori venali.
Il razzismo egoista non ci
appartiene e desideriamo che se ne liberino anche quelle aree infettate da
questo virus letale iniettato da chi vuol dividere i popoli, i lavoratori per
dominarli.
In conclusione. I problemi
del Sud e della Sicilia non si possono risolvere creando nuovi partiti
territoriali, ma rimettendo al centro della programmazione e della spesa la
nuova questione meridionale così come si va configurando nelle sue relazioni con
l’Europa e il Mediterraneo.
C’è necessità di progetti, idee
innovative, d’investimenti leciti e non di nuovi capetti populisti e clientelari
che andranno a Roma, con la coppola in mano, a questuare o a minacciare (che
cosa?).
La Sicilia e il mezzogiorno
hanno bisogno di partiti veramente democratici, nazionali e sovranazionali,
capaci di portare una ventata d’aria fresca che prosciughi il mefitico pantano
dell’affarismo e della sopraffazione.
Agostino Spataro
* testo ampliato
rispetto a quello pubblicato in “La Repubblica” del 4/7/2009
3 luglio
Relazioni pericolose
Il fatto. In una sera di maggio si incontrano a
cena due giudici costituzionali, il premier, il sottosegretario alla presidenza
del consiglio, il ministro della giustizia, i presidenti delle commissioni
affari costituzionali di camera e senato. Il luogo è la casa di uno dei giudici
costituzionali. Si discute, tra l'altro, la prospettiva di una radicale riforma
della giustizia, volta a ridisegnare in specie la figura del pubblico ministero,
non più magistrato. Nei giorni successivi circola una bozza di riforma
costituzionale in tal senso, si dice ispirata da uno dei giudici presenti alla
cena. E tra non molto la corte deciderà sul lodo Alfano, che impedisce per la
durata del mandato di sottoporre il presidente del consiglio a giudizio, o di
proseguire i giudizi in corso. Di tutto, la stampa dà notizia.
Il diritto. Interpellato, il giudice ospitante risponde con parole sprezzanti
che in casa sua invita chi gli pare. E comunque un giudice costituzionale
incontra politici di ogni calibro e colore. Da ultimo, invia al presidente del
consiglio una lettera aperta - come tale rivolta al popolo italiano - in cui
ribadisce anzitutto il «diritto umano» di invitarlo a cena, e di vederlo
«insieme a persone a me altrettanto care e conversare tutti insieme in
tranquilla amicizia». Ovviamente, le notizie di stampa sono «frottole»
raccontate a «ignari lettori». Il tutto condito con ampi riferimenti alla
libertà e alla democrazia.
Tutti argomenti privi di sostanza.
Partiamo dai fondamentali. La corte costituzionale è il principale organo di
garanzia del sistema. Deve essere - e mostrare di essere - assolutamente
autonoma e indipendente. Di mestiere, la corte si contrappone al legislatore,
quando valuta la conformità a Costituzione di una legge. Se la legge è recente,
si contrappone anche alla maggioranza politica del momento. Da qui la necessità
che nessuna contiguità ci sia o appaia tra i giudici e chi ha poteri formali o
sostanziali nella formazione della legge. Anzitutto, i titolari - come il
presidente del consiglio o un ministro - dell'iniziativa legislativa del
governo. Ovvero i presidenti di commissione, che sono il braccio armato della
maggioranza. Ancor più quando si discute di temi che direttamente toccano i
potenti. Ed in specie quando liste bloccate e scelta oligarchica dei
parlamentari rendono le assemblee legislative un obbediente parco buoi. Più è
asservito il parlamento, più indipendente e autonoma deve essere la corte in
difesa della Costituzione. E la notte della Repubblica che viviamo preclude a un
custode della Costituzione - come la corte - opinioni e suggerimenti su
eventuali e stravolgenti riforme della stessa Costituzione.
Né vale l'argomento che tra giudici e politici il contatto è inevitabile. Altro
è se il giudice incontra il politico in una occasione istituzionale, o a casa di
amici che hanno invitato entrambi. In tal caso il giudice si trova in una
situazione che non ha contribuito a determinare, non avendo in alcun modo scelto
i partecipanti. Nulla gli può essere imputato, ad esempio, se incontra il
presidente del consiglio a un ricevimento del Quirinale.
Diversamente, nel caso di una cena a casa del giudice. L'argomento «a casa mia
invito chi voglio» diventa decisivo. La libertà del domicilio rende la scelta
dell'invitato rilevante: si potrebbe decidere di non invitarlo. Dunque si è
responsabili della scelta degli invitati. Si risponde di una scelta per
qualsiasi motivo inappropriata.
Chi può escludere che siano state scambiate assicurazioni sul futuro voto dei
due giudici per il lodo Alfano? Non sfugge a nessuno che solo la sentenza della
corte separa Berlusconi dalla ripresa dei processi a suo carico. Né sfugge che
già la prima sentenza - quella sul lodo Schifani - non fu particolarmente
incisiva sul principio di eguaglianza. Il voto di due giudici potrebbe alla fine
determinare una maggioranza, e quindi la decisione della corte.
Stupisce che dell'accaduto si sia parlato - in fondo - poco. Qui non è questione
di tregua per il G8. Non di bassa cucina si tratta, ma della salute delle
istituzioni. E dov'è la torma di opinionisti e costituzionalisti veri o presunti
che di norma intasa carta stampata e talk show? Conformismo e autocensura calano
sul paese. Non si considera che l'etica pubblica pone parametri più stringenti
di quelli giuridici. Non si vuole vedere che il privato dei potenti ha spesso un
rilievo pubblico. E si richiama a sproposito la privacy, dimenticando che in
paesi di più solida democrazia rispetto al nostro si ritiene che per le figure
pubbliche debba prevalere l'informazione. Leggi in itinere apprestano bavagli
per la stampa e la magistratura, quando le cronache dimostrano l'assoluto
bisogno del contrario. Alla fine, accade in Italia quel che altrove sarebbe
impensabile.
Per questi motivi la cena de qua, e la lettera che ad essa ha dato seguito, sono
gravemente lesive del ruolo della corte costituzionale, e pericolose per la
Repubblica.
Sovversione di Stato
In un paese normale non dovrebbe stupire la
richiesta di condannare Gianni De Gennaro per le falsità dette e per quelle che
ordinò di dire ai suoi sottoposti sulla razzia poliziesca del 20 luglio 2001
alla scuola Diaz di Genova. Invece qui da noi rischia di essere considerato un
caso esemplare. Per la rilevanza e la storia di chi è alla sbarra, ma anche per
il rigore con cui è stata condotta un'inchiesta che proprio lo stesso imputato
ha cercato in tutti i modi di svuotare, utilizzando il proprio potere.
Del resto è anche vero che qui da noi di normale non c'è nulla, dalla macelleria
genovese di nove anni fa ai tentativi di ricondurre la magistratura a una
dependance dell'esecutivo e degli apparati di cui si circonda.
Gianni De Gennaro - capo della polizia nel 2001, poi promosso a capo Gabinetto
del Viminale, infine tra i massimi dirigenti dei servizi segreti - è uno degli
uomini più potenti d'Italia. La sua carriera ha attraversato governi di colore
diverso, la sua scalata ai vertici dello Stato non ha conosciuto freni.
Certamente possiede una grande professionalità, sicuramente conosce tutto di
tutti quelli che contano, senza dubbio sa usare le informazioni in suo possesso
e muoversi bene nelle stanze del potere. Insomma, non è l'ultimo arrivato, anzi.
Eppure nel tentativo di depistaggio del processo che ne metteva in discussione
l'agire durante il G8 di Genova e sotto accusa i suoi più stretti collaboratori,
si è mosso come un elefante in un negozio di porcellane. Come se avesse da
difendere ben di più che se stesso o l'onorabilità propria e del Corpo.
Da capo dei poliziotti ha ordinato ad altri poliziotti di mentire per evitare
che emergessero le sue responsabilità «politiche» nella mattanza della Diaz. Che
non fu solo un atto di violenza gratuita o una «lezione» da impartire a una
generazione per convincerla - con le cattive - a non occuparsi più dei destini
propri e del mondo, a starsene a casa. Ma che fu pure la pratica di un obiettivo
prodomo di un progetto: la messa a regime dell'indipendenza delle forze
dell'ordine rispetto all'organismo che - invece - dovrebbe lui sì essere
indipendente, la magistratura. Vale la pena di ricordare come l'irruzione
notturna alla scuola Diaz fu un atto criminale anche perché fatto al di fuori
delle minime regole del diritto: nessun magistrato era stato avvisato, la
polizia agì autonomamente, appropriandosi del potere d'arresto e di persecuzione
penale. Cosa che il nostro ordinamento non prevede, cosa che rovescia i dettami
costituzionali, come se un regime presidenziale prendesse il posto di uno
parlamentare.
Fu una sovversione di stato. Che poi De Gennaro - con la copertura di tutti i
governi che ne hanno scandito l'irresistibile carriera - cercò di coprire con
l'eversione istituzionale della menzogna come ordine di servizio.
Sono passati quasi nove anni. Durante i quali la democrazia è dovuta arretrare
lasciando spazio al populismo e all'autoritarismo. Le debolezze della sinistra,
le sue subalternità, ne portano parte delle responsabilità; l'ascesa e la crisi
del liberismo hanno avuto un ruolo. Ma le pratiche dispotiche che sono riuscite
a diventare egemonia nella società italiana hanno trovato negli apparati dello
stato delle sponde straordinarie. Ora - alla vigilia di un nuovo G8, mentre
l'accumulo di potere in poche mani assume caratteristiche da fine impero - la
richiesta di condanna per uno dei protagonisti di quella deriva autoritaria può
aprire due strade diverse e opposte tra loro: ristabilire un punto di diritto,
se l'imputato sarà trattato come un «comune cittadino»; sprofondare nel
verminaio delle lotte di potere, se la sua eversione istituzionale troverà il
conforto di una «considerazione speciale.
L'agente è gay? Va punita
di Paolo Tessadri Ha dichiarato di essere lesbica. Ha denunciato le discriminazioni subite. Ha
sfilato al Pride. E ora il questore di Padova vuole il suo licenziamento
Il
giorno prima aveva sfilato con altri 150 mila contro le discriminazioni sessuali
al Gay Pride di Genova. Una volta ritornata a casa però ha trovato ad attenderla
la lettera del suo 'capo', il questore di Padova, Luigi Savina, con cui si avvia
la pratica della sua destituzione dalla Polizia. Luana Zanaga, 39 anni di
Rovigo, in forza alla polizia patavina, nei mesi passati ha fatto coming out,
rivelando pubblicamente la propria omosessualità. E da ottobre dello scorso
anno, da quando ha reso pubblica la sua tendenza sessuale, per lei è cominciato
un calvario. Dapprima è stata 'processata' da una commissione di disciplina, che
ha proposto di punirla con una sospensione dal servizio 'fino a sei mesi'. Ma
ora, forse, non farà nemmeno in tempo a scontare quella sanzione, perché è
arrivata la nuova tegola: la destituzione. Che nei fatti significa
licenziamento.
Il questore Savina nega che nel provvedimento si parli di licenziamento, ma non
dice quale punizione intende infliggere all'agente Zanaga. Infatti con la
lettera si è solo avviata la pratica di contestazione degli addebiti, mentre i
provvedimenti adottati verranno resi noti solo successivamente. A parlare
apertamente di destituzione è invece il funzionario incaricato di seguire il
caso per conto del questore. E Savina infatti scrive che non è più sufficiente
la sola 'deplorazione' con la conseguente sospensione. D'altra parte in questi
giorni Luana Zanaga si è anche sentita rivolgere l'accusa di essere pericolosa.
Perché, come è scritto espressamente nella lettera del questore Savina, alla
fine di maggio ha rilasciato delle dichiarazioni, senza autorizzazione a 'L'espresso',
riportate nell'articolo 'Agente gay a rapporto' e poi riprese dal sito Dagospia.
Nell'articolo l'agente gay diceva di vivere in un ambiente omofobico, di aver
subito il mobbing e di essere stata sottoposta a vessazioni. Come successe anni
fa, quando la costrinsero ad andare dal medico per attestarne l'idoneità visto
che era omosessuale. "Mi chiedevano se stavo bene con la mia omosessualità e io
rispondevo che stavo benissimo", accennava nell'articolo.
Per il capo della Questura di Padova queste accuse sono fortemente denigratorie
e portano discredito alla Polizia. Nessun cenno invece, nella lettera, agli
altri giornali, riviste e tv che hanno riferito della poliziotta. O alla
solidarietà manifestatale dal presidente della Camera, Gianfranco Fini.
Pubblicazioni uscite nello stesso periodo e anche successivamente.
Più che per le dichiarazioni dell'agente Zanaga, viene il sospetto che
l'infrazione più grave sia aver parlato con il nostro giornale. Invece di
approfondire e verificare le accuse della poliziotta sull'ambiente omofobico, si
preferisce rimuovere chi solleva dubbi e parla di discriminazioni. Nessuno,
infatti, ha chiesto all'agente di portare le prove delle sue accuse. Una
denuncia, la sua, circostanziata, precisa e grave, come nel caso dei due
poliziotti che le scrissero che doveva "bruciare in un lager". Dunque non c'è
stato accertamento della verità, ma è comunque in arrivo una punizione esemplare
perché ha parlato.
Così Luana Zanaga rischia di veder svanire il sogno di una vita, cioè fare la
poliziotta, solo perché difende e rivendica la propria sessualità.
Le candidate di papi
di Marco Lillo Ronzulli, Matera, Comi. Prima nelle residenze del Cavaliere tra escort e
ballerine, poi elette al Parlamento europeo. Ecco come si sceglie la nuova
classe politica
La festa a villa La Certosa
Tutte sono passate per villa Certosa e palazzo Grazioli. Sia le bad girls,
Patrizia D'Addario e Barbara Montereale, che le angeliche Licia Ronzulli,
Barbara Matera e Lara Comi. Tutte hanno partecipato alle feste leggendarie del
Cavaliere ma solo poche fortunate (Ronzulli, Matera e Comi) sono arrivate
all'Europarlamento.
Per cinque anni avranno uno stipendio garantito di 20 mila euro con assistenti e
benefit a disposizione. Mentre le due protagoniste del sexgate barese, Patrizia
D'Addario e Barbara Montereale, si sono dovute accontentare di un posticino in
una lista apparentata al Pdl che correva per le comunali di Bari.
Dopo aver fallito l'elezione hanno deciso di raccontare tutto a stampa e
magistratura. A unire mondi così diversi in uno scenario unico però non sono
stati i pm e i giornalisti ma Berlusconi in persona. È stato lui a ospitare
contemporaneamente volontarie in partenza per il Bangladesh e ragazze di ritorno
da una trasferta a Dubai con lo sceicco.
Nemmeno il più fervido sceneggiatore della commedia italiana avrebbe potuto
immaginare a villa Certosa una comitiva che include la direttrice sanitaria
destinata all'Europarlamento, Licia Ronzulli, e la mangiatrice di fuoco Siria De
Fazio, più nota come la 'lesbica del Grande fratello'. Senza controllo e senza
filtro, tutte hanno avuto il privilegio di entrare nelle dimore del sultano. Le
bocconiane, come Lara Comi, ma anche le escort da duemila euro a notte come
Patrizia D'Addario.
Persone e storie totalmente diverse che dovevano restare distinte e che invece
sono state mescolate nel gran frullatore impazzito delle candidature 2009. A
imbastire questa matassa che lega insieme manager, letteronze, annunciatrici,
dirigenti e stelline dei reality ha contribuito l'incapacità del premier di
distinguere pubblico da privato, dovere da piacere, festa e politica. Le
protagoniste delle riunioni e delle cene, con le loro bugie e i loro silenzi,
hanno fatto il resto.
Paradossalmente a parlare sono le escort. Mentre le ragazze 'serie' restano
silenziose. E se parlano dicono bugie. La migliore allieva del Cavaliere da
questo punto di vista è certamente Licia Ronzulli. Questa infermiera 34enne ha
raccolto oltre 40 mila preferenze nel nord-ovest grazie anche alle indicazioni
che provenivano da Roma. I coordinatori locali dicevano che se non fosse stata
eletta, avrebbero perso il posto.
Quando 'L'espresso', la settimana scorsa, le ha chiesto cosa facesse sulla barca
di Berlusconi il 14 agosto 2008 con altre sei giovani che non hanno nulla a che
fare con la politica, lei ha risposto: "Sbaglia, non ci sono io. Ci sono tante
ragazze more. Mai stata a villa Certosa. Cado dalle nuvole".
Finché un'altra amica e ospite del Cavaliere, Barbara Montereale, l'ha smentita
su 'Repubblica': "A metà gennaio 2009 sono stata accolta a villa Certosa da
Licia Ronzulli. È lei che organizza la logistica dei viaggi delle ragazze. Che
decide chi arriva e chi parte e smista nelle varie stanze".
Invece di dimettersi all'istante l'europarlamentare-receptionist ha vergato un
comunicato per annunciare querela confermando en passant che la sua parola non
vale nulla: "Più di una volta, in occasione di vacanze, sono stata ospite a
villa Certosa con mio marito". Del quale nelle foto non c'è traccia.
Prodiga di particolari sulle sue umili origini nel quartiere Baggio di Milano,
sulla passione per il Milan, sul papà maresciallo dei carabinieri e sulle sue
attività di volontariato, Ronzulli non ha mai spiegato perché sia stata
incaricata dal premier di ricevere un tipino come Barbara Montereale, una
ragazza madre di 23 anni pagata per mostrarsi carina con gli ospiti del
Billionaire che non si tira indietro se c'è da accompagnare l'amica escort in
trasferta sul panfilo dello sceicco.
Spedita in villa dall'imprenditore barese Giampaolo Tarantini, indagato per
induzione alla prostituzione, è prima apprezzata da Emilio Fede, poi sistemata
da Licia Ronzulli e infine gratificata dal Cavaliere con una busta con dentro
diecimila euro. Montereale, che dice di non avere avuto rapporti sessuali con il
Cavaliere, riconosce tra le ospiti del premier anche Carolina Marconi, reduce
del Grande fratello, e Susanna Petrone, conduttrice del calcio su Mediaset. Ed è
un'altra strana coincidenza.
Pochi mesi prima, il 14 agosto sulla barca del premier ritroviamo la Petrone
accanto alla solita Ronzulli e alla futura protagonista del reality Mediaset:
Siria. Tutte e tre all'epoca non erano note al grande pubblico. Pochi mesi dopo
quella gita diverranno tutte famose ciascuna nel proprio settore.
Se si può sorvolare sui criteri di selezione delle reti televisive berlusconiane
(Siria è stata segnalata agli autori del Gf dalla segreteria del premier) non si
può fare lo stesso con le elezioni. Le candidature non sono casting e
l'Europarlamento non un reality né tanto meno un luogo da escort, come farebbe
pensare la storia raccontata da Patrizia D'Addario. La donna che ha passato la
notte del 4 novembre 2008 sul lettone donato da Putin a Silvio Berlusconi, ha
raccontato che pochi mesi dopo le sarebbe stata ventilata dal solito Tarantini
una candidatura alle europee.
Nonostante non avesse mai nascosto di avere registrato le sue trasferte romane e
nonostante tutti sapessero quale fosse il suo mestiere. Patrizia, dopo
l'intervento di Veronica Lario, non è poi stata candidata per Bruxelles ma solo
per le comunali con la lista 'Puglia prima di tutto', ora confluita nel Pdl.
Scelte come queste gettano un'ombra anche su candidature limpide come quella di
Lara Comi. Anche lei ha avuto l'onore di essere trasportata sull'aereoFininvest
in Sardegna? 'L'espresso' pubblica una serie di foto scattate il 14 ottobre 2006
all'aeroporto di Olbia nelle quali appare una donna mentre scende dal jet di
Berlusconi a lei molto somigliante. Il contesto però è ben diverso dalle foto in
barca. La ragazza è in compagnia di altre giovani azzurre e sembra diretta a una
riunione politica non a una convention di veline.
Lara Comi, a 26 anni può vantare una laurea in Bocconi con il massimo dei voti e
un impiego da manager alla Giochi preziosi, nessuno può accomunarla a una velina
o a un'esperta di 'logistica'. Probabilmente il presidente l'ha aiutata a
raggranellare 63 mila voti perché stima questa milanista temeraria che gli si è
presentata durante una partita di calcio nel giugno del 2004.
Più oscura l'origine della scintilla scoccata tra Berlusconi e Barbara Matera.
L'ex annunciatrice Rai in anni non troppo lontani non stravedeva per il suo
attuale mentore. Alla fine del 2003 la letteronza della Gialappa's era diventata
una delle annunciatrici di RaiUno insieme a Virginia Santjust di Teulada. In
quel periodo la sua collega era legata da una relazione sentimentale ('platonica',
dice lei) a Silvio Berlusconi e volava spesso a villa Certosa.
Nella foto pubblicata da 'L'espresso' a pagina 43, scattata nel settembre del
2006, si vede una ragazza in bianco che somiglia molto a Virginia scendere
dall'aereo con il deputato-segretario di Berlusconi Valentino Valentini. Una
scena consueta in quel periodo. Quando Virginia raggiungeva Silvio a Olbia,
Barbara era costretta a coprire gli annunci del week-end su RaiUno e non poteva
far visita ai genitori a Lucera, in provincia di Foggia.
In quei week end solitari si racconta anche di una breve storia sentimentale con
il marito separato di Virginia, l'agente segreto Federico Armati. Da allora sono
cambiate molte cose. Virginia Sanjust non è più nelle grazie del Cavaliere e non
se la passa bene. Barbara Matera è fidanzata con un altro agente segreto ed è
diventata la giovane promessa del Pdl.
Chissà se l'europarlamentare ricorda quei giorni lontani nei quali non lesinava
critiche al Cavaliere, a Virginia e alla Rai che la trattavano da brutto
anatroccolo rispetto all'amica del premier. Acqua passata. Oggi Berlusconi è
dalla sua parte. Nella vita, basta sapere aspettare.
1 luglio
L'Aquila tradita
di Riccardo Bocca
Da un lato lo
spiegamento di forze e l'efficienza per il G8. Dall'altro la
disperazione nelle tendopoli. Tra disagi, spaccio di droga e
violenze. Mentre la terra non smette di tremare
La sede della Prefettura
Sono le sette di mattina del 19 giugno, quando una Punto bianca
si ferma sul ciglio della statale 17 che attraversa L'Aquila. Al
volante c'è un uomo in giacca e cravatta che spegne il motore,
abbassa i finestrini e sfoglia il giornale appena acquistato.
Vita quotidiana, niente di strano. Eppure all'improvviso il
clima cambia, diventa teso. Dalla corsia opposta, spunta una
berlina metallizzata che fa inversione inchiodando davanti alla
Punto. Scende un giovane alto, palestrato, in jeans slavati e
maglietta attillata. Si affianca al conducente e chiede i
documenti senza qualificarsi. "Ma cosa sta succedendo? E lei chi
è?", replica allarmato il conducente. "Attenda", risponde lo
sconosciuto. Annota la targa della Punto, si attacca al
cellulare, e infine torna con un sorriso finto: "A posto, può
andare...".
L'assedio, lo chiamano gli aquilani. La soffocante
militarizzazione che sta stressando il territorio in vista del
G8. Migliaia di soldati, poliziotti, carabinieri, agenti dei
servizi segreti e paracadutisti calati in città nelle ultime
settimane. Forze operative giorno e notte. Per le strade, sulle
colline. Ovunque. Tutti ossessionati dalla sicurezza dei 23 capi
di Stato e di governo che, dall'8 al 10 luglio, si
confronteranno con le loro delegazioni nella caserma della
Guardia di finanza ?Vincenzo Giudice?. "Prevenzione
indispensabile", è definita dalla Protezione civile. Ma anche
una presenza che esaspera gli sfollati del post terremoto,
inchiodati a tutt'altre priorità. A quasi tre mesi
dall'apocalisse del 6 aprile, la terra continua a tremare. Tre
punto due, tre punto tre, fino a quattro punto cinque come
lunedì 22 giugno. Numeri che sulla carta dicono poco, ma da
queste parti sono muri che vibrano, angoscia che non passa,
riflesso a correre in strada. "Abbiamo sempre in testa l'odore
delle macerie, le urla dei feriti e lo strazio dei 300
cadaveri", dice Rinaldo Tordera, direttore generale della Cassa
di risparmio della provincia dell'Aquila. Lui per primo,
racconta, si è faticosamente imposto di non mollare, di
"annodare la cravatta e tirare avanti". Ma la volontà non basta.
Gli ostacoli sono tanti, in questo Abruzzo triste: a partire dal
crollo economico. "Per la prima volta in vent'anni", informa l'Istat,
"la regione segna un tasso di disoccupazione (9,7 per cento)
superiore a quello italiano (7,9)". Dal 2008 al 2009 sono
scomparsi 26 mila posti di lavoro. E a leggere questi dati, gli
artigiani, gli operai, ma anche i manager e i professionisti
ospitati dalle tendopoli tremano, sovrastati dal -14 della
produzione industriale.
"Superata la prima emergenza, dovrebbe essere questa la
principale preoccupazione ", dice il presidente della Provincia
Stefania Pezzopane (Pd). "Dovremmo concentrarci sulle necessità
pratiche e psicologiche delle 25 mila persone ancora accampate,
senza dimenticare le 35 mila esiliate sulla costa adriatica".
Invece non è così. Capita qualcosa di grottesco, e crudele,
davanti agli occhi dei terremotati: "La città si sta spaccando
in due", spiega Marco Morante del Collettivo 99 (composto da una
cinquantina di giovani ingegneri, architetti e geologi
aquilani). "In primo piano, sotto i riflettori, c'è l'efficentismo
sfrenato per adeguare la città al G8. E intanto in penombra,
trascurata della politica, cresce la frustrazione della gente
comune, vittima di una quotidianità invivibile e di una
ricostruzione avventata".
Parole che trovano continui riscontri, girando per l'Aquila.
Basta raggiungere la caserma della Guardia di finanza, in zona
Coppito, e chiedere alle imprese associate I platani e Todima
come hanno realizzato la strada che collegherà la sede del G8
all'aeroporto di Preturo. "In soli 24 giorni abbiamo allargato e
sistemato un percorso di due chilometri e 800 metri", dicono i
titolari. Il tutto con un impiego massiccio di mezzi: "60 tra
ruspe e scavatori", attivi sette giorni su sette, grazie ai
quali "abbiamo costruito anche tre rotatorie e un piccolo ponte
sul fiume Aterno". Il massimo, con i 3 milioni 200 mila euro
stanziati dal Provveditorato alle opere pubbliche. E altrettanto
apprezzabile è il rifacimento dell'aeroporto, fino a ieri
snobbato per mancanza di strumentazioni, e oggi "dotato di
ottimi sistemi radar e illuminazione della pista", assicura un
tecnico dell'aeronautica
Insomma: basta pronunciare la parola G8 e tutto scorre, tutto
funziona. "Sobrietà con efficienza", aveva promesso il capo della
Protezione civile Guido Bertolaso. Ed è stato di parola. Ha affidato
il coordinamento a Marcello Fiori, l'uomo che ha gestito i funerali
di papa Wojtyla, puntando su due fronti: "Il primo", spiega un
ufficiale della Guardia di finanza, "riguarda la caserma dove
alloggeranno i capi di Stato, presentata ai mass media come ideale
per il G8, ma in realtà bisognosa di forti interventi ". Altro che
rinfrescata generale o aggiunta di mobili: il piano di adeguamento,
riassunto in un documento del ministero delle Infrastrutture, mostra
ben cinque ditte abruzzesi (Iannini, Edilfrair costruzioni generali,
Mancini, Di Vincenzo Dino & C. e Iciet Engineering) all'opera per
reinventare le palazzine alloggi "B1, B2, D, E, E1, F4, F5, F6, H,
M, P1 e P2". Quanto al secondo fronte, quello della sicurezza fuori
dalla caserma, è tutto indicato in una mappa riservata e titolata
"Sistema delle misure interdittive ". Una cartina da cui si vede che
nei giorni cruciali sarà proibita la "circolazione veicolare,
pedonale e di sosta"in tre strade essenziali (la statale 80, viale
Fiamme Gialle e la provinciale 33), mentre in altre zone sarà
impossibile "il transito di mezzi pesanti" o si accederà a piedi.
"Complessivamente un'ottima organizzazione ", commenta un alto grado
dell'esercito. "Ma anche un cumulo di spese che offende gli
sfollati". Il riferimento, esplicito, è "alla disperazione che regna
in certe tendopoli ". Qualcosa di impossibile da immaginare, per chi
abita altrove, ma che diventa realtà allucinante entrando nel campo
di piazza d'Armi, gestito dalla Protezione civile e vietato alla
stampa. All'interno, un migliaio di senzatetto sopravvivono in tende
che bruciano quando c'è il sole (fino a 48 gradi) e si allagano
appena piove. "E c'è di peggio", testimonia un'anziana: "Le tende
hanno otto brande, e le famiglie vengono mischiate con i balordi".
Sere fa, racconta, è esploso uno scontro tra slavi con coltelli e
botte. Quanto alla droga, c'è l'imbarazzo della scelta tra leggera e
pesante. Così le retate aumentano (il 19 giugno sono finiti in
manette un invalido e un minorenne, che spacciavano nelle tendopoli
3 chili di hashish) e gli sfollati si rassegnano. Gli uomini, quelli
senza lavoro, avviliti, camminano avanti e indietro nell'afa come
animali in gabbia. Le mogli, mentre i bambini giocano, si arrangiano
con gli stendibiancheria, infilati tra tende appiccicate una
all'altra. E persino i poliziotti, dopo mesi di superlavoro, hanno
di che lamentarsi: "Una collega, sfollata nel centro di piazza
d'Armi, è costretta ad alloggiare davanti alla tenda di un
delinquente ai domiciliari. Possibile? Torna a fine turno, appoggia
la pistola sulla branda, e sa che qualcuno può rubargliela...".
Problemi che pochi conoscono, e ancora meno considerano. Nel caos
endemico del dopo terremoto, le sofferenze private non trovano
ascolto. Spariscono coperte dalle urgenze pubbliche, dal timore di
nuove scosse devastanti. Tanta è la confusione, in queste settimane,
che passano sotto silenzio anche questioni gravissime, come i
tentati stupri avvenuti nelle tendopoli. Fatti confermati dalle
forze dell'ordine, ma che non arrivano all'opinione pubblica. La
parola d'ordine è chiara, sia a livello politico che di Protezione
civile: costruire l'ottimismo. Puntare sul fascino del G8. Sul
futuro vincente dell'Abruzzo testardo. Che sarà anche una scelta
cinica, ma funziona: "Domenica scorsa, c'è stata la riapertura di un
minuscolo pezzo del centro storico", dice l'avvocato Luisa Leopardi,
dell'associazione "Un centro storico da salvare". "La notizia è
finita sui quotidiani nazionali, si è spiegato all'Italia intera che
era un segnale importante, tornare a bere il caffè in piazza Duomo
nel bar di Ninetto Nurzia. Si è scritto, anche, che gli aquilani
erano entusiasti, di passeggiare in centro per qualche centinaio di
metri (a gruppi di massimo 60 persone, dalle 11 alle 22, ndr)". Ma
non è vero, testimonia Leopardi. "Siamo stanchi di questi colpi
d'immagine. Il nostro centro è ancora macerie, infinite macerie, e
sofferenza viva. Tant'è che il sottosegretario Gianni Letta,
presente alla riapertura, è stato sonoramente fischiato".
Piuttosto, concordano i comitati cittadini, quello che
gli abruzzesi vorrebbero al più presto è una
ricostruzione ragionevole. Condivisa. Lungimirante. Ne
parlano di continuo, gli sfollati, ai margini della zona
rossa dove giacciono cumuli di mattoni e ferraglia.
Ripensano alle promesse del premier Berlusconi e
masticano amaro: "Dove sono le ville che dovevano
ospitarci?", urla un avvocato rimasto senza casa e
studio. "E le crociere che ci doveva pagare?", scuote la
testa Rita, 23 anni, sulla sedia a rotelle a causa del 6
aprile. In compenso, si potrebbe ribattere, sono
iniziati a L'Aquila i lavori per costruire 150 palazzine
antisismiche, finanziate con 700 milioni di euro,
destinate a circa 13 mila persone e sparse su venti siti
periferici. "Ma anche qui non c'è da gioire", dice
l'architetto Marco Morante. "Quello che resterà, alla
fine di questa storia, è un mostruoso stravolgimento
urbanistico; un intervento che massacra i piccoli centri
limitrofi, sopraffatti dalla nuova edilizia, senza
restituire un'identità cittadina". Ragionamenti che i
comitati popolari stanno girando ai politici, assieme a
progetti alternativi e meno invasivi. Ma ad accoglierli
ci sono disinteresse e sarcasmo. L'onorevole pidiellino
Giorgio Straquadanio, ad esempio, per giustificare
questa ricostruzione discutibile, ha replicato che
"quando si allaga una casa bisogna togliere l'acqua, non
salvare i quadri...". E se qualcuno non è d'accordo, ha
aggiunto, pazienza: deve prendere atto che "siamo in
democrazia, e che il Pdl alle europee ha ottenuto la
maggioranza aquilana" (verissimo, anche se a votare è
stato un misero 27,9 per cento, figlio proprio della
rivolta antipolitica). "Il pericolo", dice il presidente
della Provincia Pezzopane, "è che gli italiani credano
alla campagna d'immagine lanciata dal governo Berlusconi.
Che si convincano che tutto procede, che siamo
tranquilli, e ci lascino soli". Un rischio probabile.
Basti pensare al flusso di notizie fantasiose uscite in
questi mesi sulle scuole aquilane. Dopo il sisma, un
quotidiano nazionale ha titolato entusiasta ?Il miracolo
di palazzo Quinzi?. "Eppure questa struttura, che ospita
il mio liceo classico, è a pezzi", s'indigna il preside
Angelo Mancini, "sono crollate le volte a crociera e si
trovano danni ovunque, dalle scale alle aule agli
uffici". Poi è toccato al sottosegretario all'Ambiente,
Roberto Menia, dichiarare che "l'80 per cento delle
scuole è già praticabile". ("Anche se l'unico istituto
superiore completamente agibile", documenta Mancini, "è
l'Accademia di belle arti, mentre tra materne,
elementari e medie le scuole pronte sono 14 su 49").
Fino al paradosso di sabato 28 giugno, quando un
quotidiano abruzzese ha inserito nella tabella ?Scuole
agibili? 15 istituti classificati in fascia B: ossia
"temporaneamente inagibili, totalmentete o parzialmente
", per citare l'ordinanza 3.779 del presidente del
Consiglio.
Cambierà la situazione? Tornerà un barlume di vita
normale? Finiranno le polemiche attorno al decreto casa,
assicurando a tutti un sostegno sicuro? Finirà lo
strazio degli appartamenti sventrati, dei negozi chiusi,
degli anziani sacrificati in camper, dell'ospedale
improvvisato nelle tende accanto a quello inagibile di
San Salvatore, dove la gente attende stremata, in fila
sotto il sole, per l'accettazione?"Ci vorranno anni",
rispondono a registratore spento le istituzioni. Non
certo i pochi giorni "bastati per smontare a La
Maddalena un ottimo ospedale da campo (40 posti letto e
due sale operatorie) e trasferirlo a L'Aquila per il
G8". Ma si sa: tutto è possibile, in onore dei 23 leader
mondiali. Anche che Berlusconi sfoderi, nel bel mezzo
della tre giorni internazionale, la sua sorpresa più
ambiziosa: un lavoro preparato ad hoc dal ministero dei
Beni culturali, dalla Protezione civile e dalla
Direzione regionale per i beni culturali abruzzesi.
"Fotografie e schede", informa una nota riservata, con i
monumenti danneggiati "adottabili dai Paesi esteri".
Il colpo di teatro per un premier traballante. Ma anche
l'estrema speranza per una terra in ginocchio.
Iran, è una
lotta fra ayatollah
Khamenei
e Ahmadinejad agitano polverosi
fantasmi
capaci di accendere l'immaginazione
popolare
di
BERNARDO VALLI
LA PROTESTA è stata dispersa,
frantumata, almeno per ora,
dalle milizie islamiche, e
adesso, con le piazze deserte,
il regime basato su un voto
inquinato cerca di squalificare
quella protesta di massa. Non
era una spontanea collera
popolare, esplosa all'interno
della società, ma un complotto
ordito dai nemici storici
dell'Iran. Questo dicono, in
coro, la Guida suprema Khamenei
e il presidente Ahmadinejad, e
con loro tutti gli artefici
dell'elezione contestata. La
trionfante comitiva dei
repressori tenta di darsi una
legittimità denunciando la mano
straniera alle spalle dei
milioni di manifestanti che
hanno fatto barcollare la
Repubblica islamica. E, frugando
più nel passato che nel
presente, sceglie come bersaglio
principale delle invettive la
vecchia Inghilterra. La
riesumazione dell'ex potenza
coloniale, ormai più presente
nei testi di storia che nelle
memorie, equivale a un colpo di
scena.
Sembra un trucco teatrale ad uso
non soltanto interno. È un'idea
geniale mettere sotto accusa
l'ex impero britannico, un tempo
tanto presente nella regione, e
in particolare coautore, con la
Cia, nel 1953, del colpo di
Stato contro Mohammed Mossadegh,
colpevole di avere
nazionalizzato il petrolio e di
avere cacciato (temporaneamente)
lo shah e la moglie Soraya.
La storia alimenta così il
sempre vivo orgoglio della
patria persiana. Khamenei e
Ahmadinejad agitano polverosi
fantasmi capaci di accendere
l'immaginazione popolare:
espellono (la settimana scorsa)
due diplomatici britannici
provocando la risposta di
Londra, che espelle a sua volta
due diplomatici iraniani. È un
conflitto incruento destinato ad
avvalorare la tesi della mano
straniera dietro la protesta di
piazza.
Seguendo lo
stesso copione, viene messo alla
porta il corrispondente della
Bbc, voce della perfida Albione
che diffonde in lingua farsi
notizie ignorate o truccate
dalle emittenti iraniane.
Ulteriore colpo di teatro, nelle
ultime ore: l'arresto di
impiegati iraniani
dell'ambasciata di Gran
Bretagna, accusati di essere tra
gli ammiratori del complotto
contro la Repubblica islamica.
Questa è una prima lettura,
direi classica. Il regime
squalifica gli oppositori,
denunciando interessi stranieri
alle loro spalle, e rilancia lo
scontro con l'Occidente. È una
tattica elementare. Ma perché
indicare come principale nemico
la vecchia potenza coloniale, e
non il "grande satana", ossia
gli Stati Uniti? Anche a loro
sono indirizzate le accuse di
Teheran.
Barack Obama non è risparmiato.
Viene descritto come una brutta
copia di Bush Jr. E la Cia non è
trascurata. Sarebbe difficile
ignorarla.
La stessa stampa americana ha
più volte dato notizia dei
milioni di dollari destinati da
Washington, ai tempi di Bush
Jr., alla "destabilizzazione"
della Repubblica islamica,
sospettata di preparare armi
nucleari.
Tuttavia l'America non è il
bersaglio principale. Non è
risparmiata, è investita
frontalmente, ma l'Inghilterra
fa da schermo. Pur ricorrendo
agli stereotipi dei momenti di
crisi, ad uso interno,
l'ayatollah Khamenei e il
presidente Ahmadinejad esitano a
sbattere la porta in faccia a
Barack Obama.
Con lui dovranno affrontare un
giorno la questione nucleare, la
quale resta all'ordine del
giorno, chiunque sia
ufficialmente al potere a
Teheran.
Attaccare l'Inghilterra costa
poco. La vecchia potenza
coloniale è, appunto, uno
schermo ideale.
Il bersaglio inglese rivela
anche l'incerta situazione
interna al gruppo dirigente che,
secondo Mir Hussein Moussavi, il
leader dell'opposizione
repressa, ha preparato e
compiuto il "colpo elettorale".
L'Inghilterra è un bersaglio
provvisorio, nell'attesa che si
chiariscano gli equilibri tra le
varie correnti. I comandanti
della Guardia rivoluzionaria,
espressione dell'estrema destra
e della seconda generazione
dall'avvento della Repubblica
islamica, sarebbero i veri
autori del colpo elettorale.
Avevano vent'anni nel '78-'79,
quando l'ayatollah Khomeini
arrivò al potere, e hanno
vissuto tutte le successive
prove: la guerra contro l'Iraq
di Saddam Hussein; la
repressione interna avvenuta a
conclusione di quel conflitto;
la precedente eliminazione dei
Mujahiddin Khalq, gli islamici
di sinistra decimati ed
esiliati; la morte di Khomeini e
la nomina di Khamenei al suo
posto, come guida suprema, ossia
vero capo dello Stato. Nel corso
degli anni si è formata la forte
corrente di estrema destra che
ha via via preso il controllo
della Guardia rivoluzionaria.
I nomi più noti sono quelli oggi
alla sua testa: i generali
Jafari e Javani, che hanno
accusato Moussavi di promuovere
una "rivoluzione di velluto". Ex
della Guardia rivoluzionaria
hanno invece fatto carriera
nella burocrazia: il ministro
degli Interni Sadegh Mahsouli,
il suo vice Kamran Daneshjou,
supervisore delle elezioni, e lo
stesso presidente Ahmadinejad.
Il loro ispiratore è l'ayatollah
Mohammed Taghi Mesbah Yazdi, il
più conservatore dei grandi capi
religiosi. Molti si sono formati
nel suo seminario "la scuola
Haghani" a Qom. L'ayatollah
Mesbah, così è chiamato in Iran,
è noto per le sue sentenze. Ne
viene spesso citata una: "Non ha
importanza quel che pensa la
gente. La gente è ignorante come
una capra". Gli attuali capi
dell'intelligence, come non
pochi responsabili delle milizie
Bassiji, formazioni paramilitari
controllate dalla Guardia
rivoluzionaria, sono discepoli
dell'ayatollah Mesbah. Il quale,
prima delle elezioni, avrebbe
lanciato una fatwa che
autorizzava l'uso di qualsiasi
mezzo al fine di far rieleggere
Ahmadinejad.
L'ayatollah
Mesbah e lo stesso Ahmadinejad
citano di rado la Repubblica
islamica, preferiscono parlare
di governo islamico.
L'espressione "repubblica" non
va a genio né a l'uno né
all'altro, implica un
coinvolgimento popolare e quindi
elezioni che essi tendono a
rifiutare. Il potere discende
direttamente dalla volontà di
dio, e loro ne sono gli
interpreti. Per questo attendono
che l'ayatollah Khamenei,
malandato di salute e non del
tutto allineato sulle loro
posizioni, tolga il disturbo.
Per designare il successore. Ma
la lotta tra le varie correnti
non si è ancora conclusa.