
26 febbraio
Il leader di Corso Italia, dopo le
anticipazioni sul disegno di legge
che domani verrà approvato dal Cdm. La relazione dell'Authority
Epifani: "Il
governo stia attento
sciopero è libertà fondamentale"
Sacconi: "Ampia convergenza dei sindacati, Cgil unica eccezione"
Brunetta: "Domani il ddl di riforma verrà approvato dal
Consiglio dei ministri"
ROMA - Scontro tra il ministro del Lavoro Maurizio
Sacconi e il segretario generale della Cgil Guglielmo
Epifani sulla riforma del diritto di sciopero. Sul disegno
di legge messo a punto dal governo, ha detto Sacconi, c'è
"una larga convergenza con la gran parte delle
organizzazioni sindacali e dei datori di lavoro". "Temo però
che manchi la Cgil", aveva aggiunto stamane il ministro, a
margine della relazione dell'Authority sugli scioperi,
osservando subito dopo che "l'unanimità non è di questo
mondo, appartiene al mondo del nulla, del non fare".
Pronta la reazione di Epifani: "Stia attento, perché in
materia di libertà del diritto di sciopero
costituzionalmente garantito bisogna procedere con molta
attenzione. Se c'è qualcosa da aggiustare rispetto a una
normativa già rigida eventualmente lo si può vedere. Ma se
si vogliono introdurre forzature che limitano poteri e
prerogative è altra questione".
Il
disegno di legge che regolamenta il diritto di
sciopero è all'esame del governo, e dovrebbe essere
approvato già nel prossimo Consiglio dei Ministri, previsto
per domani, ha confermato nella trasmissione "Panorama del
giorno", su Canale 5, il ministro della Funzione Pubblica
Renato Brunetta.
"Non si tratta ovviamente di soffocare il diritto di
sciopero, ma di armonizzarlo con l'esercizio degli altri
diritti di tutti i cittadini, in un'opera di bilanciamento
che deve tener conto dell'evoluzione sociale", ha detto il
presidente della Camera Gianfranco Fini, nel presentare
stamane la relazione del presidente della Commissione di
garanzia dell'attuazione della legge sullo sciopero nei
servizi pubblici essenziali, Antonio Martone.
"E' auspicabile" che almeno alcuni aspetti dell'esercizio
del diritto dello sciopero "possano essere riassorbiti sul
terreno politico delle trattative tra datori di lavoro e
sindacati, ma è sempre più urgente avviare una riflessione
sulla 'tenuta' della vigente disciplina di settore per
individuarne lacune e prospettare ipotesi di adeguamento
alla nuova realtà", ha detto ancora Fini.
Nella sua relazione Martone ha ricordato che nel biennio
2007-2008 sono state oltre 4.000 le proclamazioni di
sciopero pervenute alla Commissione di Garanzia. Un ricorso
allo sciopero generale, dunque "mai avvenuto in precedenza",
ha sottolineato Martone, indicando anche le cause:
"L'eccessiva frammentazione della rappresentanza in
relazione anche all'articolazione del processo produttivio
dei servizi pubblici essenziali, come conseguentza della
spinta verso la liberalizzazione e la privatizzazione e, di
riflesso, della necessità di contenere i costi". Ma più che
la mole di proclamazioni di scioperi sembra pesare l'effetto
annuncio visto che delle 4.212 mobilitazioni annunciate ne
sono state poi revocate circa 1,587. Gli scioperi effettuati
dunque sono stati oltre 2600, poco più che la metà di quelli
proclamati.
Secondo Martone, sono in particolare i recenti scioperi
dell'Alitalia a far emergere "anomalie e inadeguatezza"
della disciplina vigente. Per Martone nel settore del
trasporto, infatti, "si sono verificati scioperi dove, pur
essendo la percentuale di adesione estremamente bassa, si è
verificata, nella stessa occasione, un'altissima percentuale
di assenza dal servizio dei dipenenti e, di riflesso, la
soppressione di centinaia di voli".
24 febbraio
Chiamiamola pure la vendetta dei due mascalzoni
L'America e il mondo
intero, negli anni a venire, dovranno convivere con le conseguenze
delle disastrose politiche di Bush e Cheney
Quando il mese scorso George W. Bush e Dick Cheney hanno
finalmente lasciato la Casa Bianca, non hanno potuto fare a meno
di notare quanto la stragrande maggioranza degli americani ? per
non parlare del resto del mondo ? fosse felice di vederli andar
via.
I due milioni di persone che secondo alcune stime si sono
accalcati in piedi per ore a quasi sette gradi sotto zero per
festeggiare l'inaugurazione della presidenza di Barack Obama - e
per fischiare in faccia a Bush ? l'hanno ampiamente dimostrato.
(Non vi è parso che Cheney, in sedia a rotelle e col cappello
nero in testa, incarnasse alla perfezione il gangster che i suoi
detrattori hanno sempre detto che era?). Anche il presidente
Obama non ha usato mezzi termini, allorché ha promesso l'avvento
di una "nuova era di responsabilità", che rimpiazzi "l'avidità"
e "le false promesse" degli ultimi otto anni.
L'amara verità è che non sarà così semplice lasciarsi Bush e
Cheney alle spalle: Obama, l'America e il mondo intero negli
anni a venire dovranno convivere con le conseguenze delle loro
disastrose politiche. (Attribuisco a entrambi la responsabilità
in egual misura e ne parlo come se fossero uno perché, come ha
documentato nel suo libro The Angler il giornalista del
Washington Post Barton Gellman, negli ultimi otto anni Cheney ha
esercitato il potere tanto quanto Bush).
L'influenza prolungata di Bush-Cheney è quanto mai
evidente nell'economia, dove i massicci sgravi fiscali - da loro
voluti - per i ricchi e i privilegiati hanno profondamente
indebitato gli Stati Uniti prima ancora che il loro fallimentare
sistema di regolamentazione di Wall Street spalancasse le porte
alla peggiore crisi economica dagli anni Trenta. Adesso
l'unica speranza per Obama di riportare il benessere è riposta
nell'approvazione di un imponente pacchetto di incentivi
economici che finirà con l'indebitare Washington ancor più.
Rispetto a ciò, molto meno lampante è la montagna molto erta e
scoscesa che Bush-Cheney hanno lasciato a Obama da scalare nella
lotta al cambiamento del clima: dopo aver negato per ben otto
anni l'esistenza del problema e aver procrastinato nel tempo
qualsiasi seria iniziativa volta a porvi rimedio, gli Stati
Uniti hanno finalmente un presidente che ha enormemente a cuore
il cambiamento del clima. Le sue prime dichiarazioni in
proposito indicano la rotta giusta: Obama ha promesso entro il
2020 di riportare ai livelli del 1990 le emissioni di gas serra
ed entro il 2050 di ridurle fino all'80 per cento, portandole a
livelli ancora inferiori a quelli del 1990.
Avendo compreso perfettamente che la battaglia contro il clima
non potrà essere vinta se a essa non si abbinerà la battaglia
per il benessere economico, il nuovo presidente intende
destinare una significativa percentuale del pacchetto di stimoli
economici a investimenti per posti di lavoro "verdi" e per lo
sviluppo energetico. Obama ha anche promesso di costruire
istituti scolastici rispettosi dell'ambiente, di incentivare
l'efficienza energetica, di coibentare milioni di abitazioni e
così facendo creare al contempo milioni di nuovi posti di lavoro
per gli americani. Ma ecco il disguido: considerato che con
Bush-Cheney l'America ha fatto meno di niente per ridurre le
emissioni, le proposte di Obama ? per quanto suonino
straordinarie dopo il silenzio assordante degli ultimi otto anni
? sono di fatto inadeguate rispetto a ciò che occorrerebbe fare
secondo gli scienziati per scongiurare un catastrofico
cambiamento del clima terrestre.
Con Bush-Cheney le emissioni dell'America, e di conseguenza
quelle dell'intero pianeta, sono aumentate a tal punto che
adesso si rendono necessarie drastiche riduzioni per modificare
la traiettoria presa. Rajendra Pachauri, presidente dell'Intergovernmental
Panel on Climate Change, ha sollevato proprio questo aspetto del
problema nella recente conferenza di Washington sponsorizzata
dal Worldwatch Institute, che pubblica il fondamentale rapporto
ambientale annuale intitolato State of the World. Per
intervenire, la Terra ha ormai una "strettissima finestra
temporale", se si vuole che il genere umano eviti le
ripercussioni più gravi del cambiamento del clima: lo ha
affermato Pachauri che ha poi aggiunto che già ora le
conseguenze si prospettano serie e inevitabili. Ma se intendiamo
far sì che non si verifichino scenari apocalittici da incubo ?
quali la scomparsa totale dei ghiacciai himalayani, che
comporterebbe la siccità per oltre 500 milioni di asiatici ?
l'aumento delle temperature globali dovrà a ogni costo essere
contenuto a 2.0-2.4 gradi Celsius al di sopra dei livelli
dell'era pre-industriale.
19 febbraio
La condanna
del legale accusato di aver mentito per favorire il premier
conquista ampio spazio sui giornali stranieri. "L'avvocato
corrotto dal cavaliere"
Mills
condannato, la stampa estera
"Berlusconi si è protetto col lodo Alfano"

ROMA - La condanna dell'ex
legale di Silvio Berlusconi David Mills a quattro anni e
mezzo di carcere per aver mentito, dietro compenso di
denaro, per favorire il premier, trova ampio risalto sulla
stampa straniera, che dedica diversi articoli e, in alcuni
casi, la prima pagina, al caso e al coinvolgimento diretto
del presidente del Consiglio.
"Avvocato condannato per corruzione per aver protetto
Berlusconi" titola l'International Herald Tribune.
Nel pezzo a firma di Rachel Donadio, apparso anche sul New
York Times, si mostra sorpresa per il fatto che la notizia,
"che avrebbe mandato in fibrillazione il sistema politico di
diversi Paesi", non abbia meritato l'apertura dei
telegiornali serali italiani, monopolizzati dalle dimissioni
di Walter Veltroni da segretario del Partito Democratico
dopo la sconfitta alle elezioni in Sardegna di Renato Soru.
"Così la notizia del giorno non era la corruzione, ma il
dominio sempre più esteso sull'Italia di Berlusconi", si
legge sul quotidiano, che sottolinea, in un lungo e duro
articolo, come da co-imputato nello stesso processo,
Berlusconi sia riuscito a garantirsi l'immunità grazie al
Lodo Alfano e come "in 15 anni di dominio della vita
politica italiana, sia riuscito a trasformare ogni sconfitta
legale in un capitale politico". E ancora: "Più Berlusconi
riesce a manipolare il sistema a suo vantaggio, più italiani
sembrano ammirarlo".
Ampio spazio alla sentenza su Mills sui giornali britannici.
Il Guardian alla vicenda dedica diversi servizi,
dalla caduta di Mills, "che dopo la tempesta giudiziaria in
Italia ha cercato di mantenere un basso profilo", al Lodo
Alfano, "considerato una priorità del governo Berlusconi"
grazie al quale il premier ha conquistato l'immunità, "e la
sentenza di ieri mostra quanto sia stato utile", anche se la
Corte costituzionale, rileva sempre il quotidiano
britannico, deve pronunciarsi ancora sulla sua legittimità.
Il tribunale ha riconosciuto Mills colpevole di aver
accettato 600mila euro da Silvio Berlusconi, si legge sull'Independent,
"in cambio di aver taciuto informazioni che avrebbero potuto
danneggiare il premier". Segue un ritratto dell'avvocato,
"brillante, dalle amicizie importanti, ma troppo impulsivo".
Anche sul francese Figaro si parla delle vicende
giudiziarie italiane. "Lo scorso ottobre, Silvio Berlusconi
si è messo al riparo della giustizia facendo approvare una
legge che gli garantisce l'immunità penale durante il suo
mandato alla guida del governo italiano. Immunità che non
copre però il suo ex avvocato, condannato per falsa
testimonianza in favore del Cavaliere", si legge sul
giornale, che sottolinea come Mills non sia l'unico legale
del premier ad essere condannato al carcere e cita Cesare
Previti, riconosciuto "colpevole di corruzione di magistrati
nell'affare Fininvest".
Per lo spagnolo El Pais, la sentenza "getta un'ombra
inquietante" sul Cavaliere, mentre El Mundo richiama
in prima pagina il caso Mills, "l'avvocato corrotto da
Berlusconi per mentire".
12 febbraio
I nuovi barbari sono tra noi
di Fabrizio Gatti
Aggressioni. Stupri.
Rappresaglie. La questione immigrazione fa esplodere paura e
ostilità. E la cultura della violenza trionfa
Bandiere con svastiche allo Stadio Olimpico
Alle cinque del mattino, sulla provinciale 101, c'è un solo bar
aperto. Il busto di Benito Mussolini osserva il viavai di
clienti da uno scaffale dietro la cassa. Una foto del duce
ribadisce le simpatie del proprietario che, sui 50 anni e
rigorosa camicia nera, batte gli scontrini. La vetrina non
espone liquori ma magliette e gadget del Ventennio. Caffè,
affari e fascio littorio. Questa è la banlieue appena fuori
Roma. Via dei Castelli Romani, la strada che dal mare sale alle
zone industriali. Una periferia che nella cronaca di questi
giorni sembra aver perso l'anima. La geografia della violenza
gira intorno a questi paesi. A pochi chilometri da qui, per
passatempo, una gang di italiani ha bruciato un disoccupato
indiano che dormiva alla stazione di Nettuno. Più a nord una
banda di romeni ha massacrato un ragazzo e violentato la sua
fidanzata italiana di 21 anni nelle campagne di Guidonia. Un
altro stupro a Primavalle. Le ritorsioni contro i negozi degli
immigrati. Gli striscioni di solidarietà allo stupratore
italiano arrestato per l'aggressione alla festa di Capodanno del
Comune di Roma. Una centrifuga che in pochi giorni ha mostrato
la faccia di un Paese in crisi economica e soprattutto di
identità.
I sintomi sono qui davanti: il busto di Mussolini e la testa
rasata del barista in camicia nera, unico ritrovo aperto per i
giovani operai del primo turno che salgono a lavorare nella zona
industriale di Pomezia. È il Nord-est dell'Italia centrale.
Fabbriche, contratti precari. E competizione al ribasso.
Immigrati e locali sono obbligati a convivere. E a volte i ruoli
si invertono: il capo è straniero, il sottoposto italiano. Basta
mandare un curriculum per scoprire quanto sia profonda la
trasformazione. Risponde una cooperativa che imballa i prodotti
di una grossa industria alimentare. La caposquadra è romena, una
signora minuta sulla quarantina. Lei decide i contratti e i
turni di lavoro. Il colloquio dura pochi minuti: "Seicento euro
al mese", dice la caposquadra: "Sei ore al giorno pagate, ma ne
facciamo almeno dieci. Si comincia alle sei del mattino. Un mese
di prova e tre mesi di contratto co.co.co". I suoi sottoposti
sono qualche immigrato e molti ragazzi della periferia romana.
Falliti a scuola, senza titolo di studio. Per raggiungere
800-900 euro al mese, quando ci sono commesse, lavorano anche
12, 13 ore al giorno. Non leggono giornali. Non ne hanno il
tempo e, dicono, nemmeno i soldi. Guardano poca tv. Dormono e
lavorano. Il calcio è l'unico argomento di cui parlano. Ma mai
un contatto con i colleghi stranieri. Su questo hanno le idee
chiare: "Se c'è lavoro per tutti bene. Altrimenti gli immigrati,
clandestini o no, se ne devono andare". Simpatizzano a destra.
Ma da queste parti la Lega che grida 'Roma ladrona' non può
attecchire. La tolleranza zero nei loro discorsi è il mito del
duce.
Italiani brava gente o fascisti incalliti? Dalla celebrazione di
Mussolini all'annuncio del ministro dell'Interno Roberto Maroni
per il quale contro i clandestini bisogna essere "cattivi": come
leggere tutto questo con quanto è avvenuto negli ultimi giorni?
Bastano la xenofobia o il razzismo? "Il contesto sicuramente
indirizza la violenza", osserva Anna Lisa Tota, professore
associato dell'Università Roma Tre e studiosa dei processi di
comunicazione e di integrazione culturale: "Il discorso
mediatico così forte contro gli immigrati e anche contro le
persone che vivono ai margini ha un peso molto forte nel far sì
che questi eventi siano possibili". Le autorità però minimizzano
l'aggressione di Nettuno escludendo il movente razzista. "Questa
sorta di visione soft è molto grave. Peggiora la situazione",
spiega la ricercatrice, "perché non dà nemmeno il nome al
fenomeno, non lo riconosciamo nemmeno. Il problema è
l'immaginario della violenza che circola. Ma può esserlo anche
il modo in cui i mezzi di informazione trattano la notizia". In
che senso? "La stampa aumenta la probabilità di costruire
razzismo. I media finiscono con il fare cassa di risonanza e
questo può avere effetti perversi. Diventa cruciale il fatto che
un senzatetto sia immigrato, oppure che in un atto criminale ci
sia l'appartenenza etnica". Allora come se ne esce?
"Minimizzando la componente etnica: fare quello che ha fatto
Tony Blair e hanno fatto gli inglesi dopo gli attentati a Londra
nel 2005. Dopo l'11 settembre ci si è accorti che i media erano
diventati funzionali al terrorismo. Colpita Londra, Blair chiese
ai media di non pubblicare foto degli attentati per ridurre
l'impatto emotivo e non scatenare ritorsioni razziste. Questo
tipo di strategia può essere vincente".
L'arresto di uno degli stupratori di Guidonia
Conosciamo i numeri delle violenze denunciate. Ma nessuno classifica
i reati in base a una eventuale matrice razzista. Mancano così le
serie storiche perché questi casi siano studiati. "Ciò che è
accertato è una profonda trasformazione negli ultimi vent'anni",
spiega il sociologo Marzio Barbagli, "che ha avuto un'accelerazione
negli ultimi cinque. Cioè la presenza di immigrati irregolari a cui
ha fatto fronte non la paura del diverso, ma il peggioramento di
alcune situazioni sociali. Consideriamo il peggioramento del
servizio sanitario che è sotto gli occhi di tutti da anni: è
aumentato il numero di utenti, ma non è aumentato il numero di
medici e infermieri. Oppure consideriamo le scuole materne ed
elementari: è aumentato il numero di alunni stranieri senza che le
risorse disponibili siano aumentate. Questo crea resistenza e
ostilità. Che gli immigrati siano una risorsa è stato ripetuto fino
alla nausea, ci sono però costi sociali che non ricadono su tutti
nello stesso modo ma ricadono su alcune fasce della popolazione che
sono le più deboli. Non c'è stato nessuno sforzo, che invece
dovrebbe essere messo in campo in grande stile, per integrare i
figli degli immigrati o per rendere più adeguato il servizio
sanitario nazionale. Se non risolviamo questo, è prevedibile che ci
siano atti di ostilità".
Gli italiani finiscono così per dare la colpa agli immigrati per
servizi che spesso erano già scadenti prima del loro arrivo. E le
zone dove questi servizi sono contesi, sono proprio le aree
metropolitane. "Quello dell'immigrazione dovrebbe essere il settore
dove raggiungere un consenso bipartisan", continua Barbagli, "invece
resta uno dei pochi settori che ancora suscitano passioni
ideologiche". Da cosa bisognerebbe partire? "Avviare l'espulsione
degli irregolari che commettono attività illecite e creare sistemi
che guidino l'integrazione. Ma non c'è mai stato un grande slancio,
nemmeno da parte della sinistra. Le leggi Turco-Napolitano e
Bossi-Fini hanno portato miglioramenti rispetto alla legge Martelli.
Ma ancora oggi è un fenomeno non sufficientemente governato".
Un dato significativo, che poi riemerge nella cronaca, sono le
violenze sessuali denunciate. Vent'anni fa, il 9 per cento era
commesso da stranieri. Nel 2007 la percentuale è salita al 40 per
cento. Non va sottovalutato che la maggior parte delle violenze
denunciate in Italia sono commesse da italiani. Ma quando la vittima
è italiana e gli autori sono stranieri, ecco che si scatena la paura
collettiva. "Le violenze contro le donne sono l'ennesimo sintomo che
si è ridotta la prevenzione", avverte Salvatore Palidda, docente di
sociologia della devianza e del controllo sociale all'Università di
Genova: "La repressione non è una risposta che risolve i problemi
perché li riproduce e i tassi di recidività dei reati si alzano.
Spendiamo risorse per la videosorveglianza ovunque. Ma le telecamere
non fanno prevenzione. Sono solo un business. Molto dipende
dall'atteggiamento delle autorità politiche e dalla voce che ne
danno i media: se ci sono sempre più segnali di giustificazione,
episodi come quelli accaduti negli ultimi giorni prendono piede". In
un momento di crisi, anche una battuta potrebbe scatenare violenze:
cosa succederà in Veneto dove gli italiani disoccupati sono ora in
competizione con gli immigrati che hanno lavoro? Un segnale è la
recente dichiarazione del capogruppo della Lega, Roberto Cota, a
sostegno delle proteste anti italiane in gran Bretagna: "Vedrete in
Veneto", ha detto Cota in una intervista.
"Quanto è accaduto è il disprezzo dei poveri, degli emarginati,
delle donne", dice Lorenza Maluccelli, docente di Metodologia della
ricerca sociale all'Università di Bologna: "La violenza è nei
rapporti sociali. Basterebbe considerare la relazione tra prostitute
e clienti: non ce n'è una, tra le donne incontrate nelle mie
ricerche, che non abbia subito violenze. E questo è un segnale molto
forte".
La mancanza di occasioni di integrazione è un problema con cui gli
immigrati devono fare i conti. Se ne parla in questi giorni nei blog
della comunità romena che ha trasferito in Italia la sua difficile
convivenza con i nomadi rom di Romania. "La confusione che si
continua a fare tra rom e romeni danneggia tutti quanti", sostiene
Liliana Iacob, 33 anni, da dieci a Torino, prima come colf
clandestina e ora consulente in amministrazione e gestione
aziendale: "In Romania si sente dire che in Italia la legge permette
di commettere reati e poi di trovarsi un buon avvocato per uscire
dal carcere. C'è un accordo che prevede che i detenuti romeni
scontino la pena in Romania, dove le pene sono più severe: perché
non viene rispettato?". Intanto ci sono immigrati che la sera non
escono di casa per paura di essere aggrediti per il colore della
loro pelle: "I giovani italiani che commettono questi reati non si
ricordano da dove vengono", osserva Geber Shawky, sindacalista a
Milano della Cgil: "Questo è il risultato della cultura che sta
cambiando: gli stranieri sono visti come braccia, non come testa. Di
giorno devono lavorare, di notte non devono esistere più".
10 febbraio
Viaggio nei "diplomifici"
campani. Nel programma "Presadiretta" di RaiTre
la vita di chi è disposto a tutto pur di non perdere il posto in
graduatoria
E il preside disse al
professore "Non disturbi i ragazzi..."
di
PAOLA COPPOLA
ROMA
- Fabbriche di diplomi, dove basta pagare alcune migliaia di euro per
ottenere un titolo di studi, i voti sono alti, la presenza in classe può
essere sporadica. Può costare fino 4500 euro fare l'esame di Stato in
uno dei tanti diplomifici della provincia campana. Circa 70 persone
hanno preso la maturità nell'ultimo anno in uno di questi centri,
nessuno è stato bocciato, e così è andata negli ultimi sei anni. In
un'altra scuola paritaria - che sforna 120 diplomati ogni anno - agli
studenti lavoratori è richiesta la presenza una volta al mese. "Gli
scritti glieli facciamo noi" garantisce un responsabile. In un altro
istituto lo sforzo richiesto per sostenere gli esami è imparare una
tesina di una ventina di pagine.
Un sistema che non viene alla luce perché non è nell'interesse di
nessuno denunciarlo, raccontato da Domenico Iannacone, autore
dell'inchiesta sui precari della scuola trasmessa ieri ne la puntata "La
scuola tagliata" dal programma "Presadiretta" su RaiTre.
Fuori dalle scuole paritarie gli studenti raccontano che i professori
non segnano le assenze e "i compiti in classe li facciamo con il libro
davanti". Un'università telematica promette a chi paga programmi di
studio ridotti a un terzo, esami solo scritti. Una laurea vale 7.900
euro. Le famiglie sborsano i soldi, i ragazzi sono promossi e se non
superano l'esame di stato alcune scuole promettono di non far pagare
l'ultimo anno per la seconda volta.
Qui il reclutamento degli insegnanti avviene in nero e nessuno denuncia
perché che il sistema funzioni conviene a tutti. Racconta una
professoressa: "Gli studenti devono avere una media alta, chi vuole in
classe può spiegare, se non si oppone il dirigente scolastico, perché i
ragazzi non devono essere disturbati". E denuncia: "Non sto lavorando,
sto barattando punti". E un'altra dice che quanti più ragazzi riescono a
far promuovere tanto più aumenta la possibilità che il suo contratto sia
rinnovato.
Gli insegnanti che bussano a queste scuole sono i precari che sono
rimasti fuori dagli incarichi statali. Entrano in una giungla dove si
lavora gratis: la busta paga c'è, ma la retribuzione è pari zero, se va
bene hanno contributi e rimborso spese, se va male pagano anche quelli.
Per i professori è l'ultima spiaggia per accumulare punti e non perdere
il posto in graduatoria. Fabbriche di schiavi, le definisce l'inchiesta
che racconta la vita di questi precari disposti a tutto. In attesa di un
posto fisso - che nella scuola può arrivare dopo i 40 anni - si adattano
anche a questo.
"Con i tagli introdotti dalla riforma Gelmini per loro andrà anche
peggio: nessuno li ha ascoltati, lamentano sui blog dove cova e si
diffonde la rabbia di chi deve affrontare questa condizione", dice
Iannacone. "Esiste un sistema di sfruttamento di questi professori senza
un contratto a tempo indeterminato", continua. Passa anche dai master
che portano punti per le graduatorie, e sono una scelta obbligata che
arricchisce gli istituti che li erogano. E finisce con delle giornate
paragonabili a un terno al lotto: da Aversa parte un treno chiamato
"treno del provveditorato" che arriva a Roma in tempo per entrare in
aula. Lo prende chi fa le supplenze nella capitale, e lo prendono anche
quelli che aspettano la "chiamata". Loro sono a disposizione dei circoli
didattici, contattati solo se c'è necessità. Si fermano alla stazione, e
vanno a lavorare solo se il telefonino squilla.
Euronorevoli
fannulloni
di Emiliano Fittipaldi
Sono i meno presenti e i più
pagati. La metà degli eletti si è dimessa per tornare in patria. Non
partecipano ai lavori. Ecco il primato negativo degli italiani a
Strasburgo. Dove si decide il nostro futuro
Il Parlamento europeo a Strasburgo
C'è seduta plenaria all'Europarlamento, ma Gianni De
Michelis è a Roma. Non tenta nemmeno di giustificarsi.
"La seduta a Strasburgo di oggi? Ma lo sanno tutti che quelle
del lunedì non contano niente. Parto domani". In effetti lunedì
non si vota, ma inglesi, francesi e tedeschi stanno discutendo
importanti dossier su energia, commercio, economia e
discriminazione etnica. A guardare bene, il deputato socialista
è stato poco assiduo anche altri giorni della settimana: durante
la legislatura che sta per finire una volta su due ha saltato
gli incontri al Parlamento. "Senta, il mio personale obiettivo
era quello di tornare nelle istituzioni nonostante l'accanimento
dei giudici, ed essere ammesso nel Partito socialista europeo.
Ci sono riuscito". Pure Vito Bonsignore, eletto con l'Udc e poi
passato in Forza Italia, 45 per cento di assenze, è in altre
faccende affaccendato. "In questo momento sta parlando in un
convegno sul programma elettorale per le amministrative in Val
di Susa, non posso passarglielo", dice l'assistente. La plenaria
è iniziata da un pezzo, Bonsignore parla a Torino. Chi è
partito, ma a sera inoltrata è fermo a Lione in attesa della
coincidenza, è l'ex diessino Mauro Zani. Nessuna relazioni in
quasi cinque anni di attività. "Lasci perdere le presenze, il
lavoro vero si fa a Bruxelles, nelle commissioni. Gli italiani
disertano anche quelle? Non posso contestarlo, non frequento
quelle degli altri. Di sicuro posso dirle che in Europa contiamo
come il due di coppe quando briscola è bastoni. Zero relazioni
all'attivo? Guardi che se uno vuole farle basta che si metta in
fila...". Iva Zanicchi, di Forza Italia, di
fare la coda non ci pensa proprio. È stata ripescata a maggio, e
in otto mesi ha collezionato 23 assenze (su 43 plenarie a
disposizione), e un solo intervento sulla povertà nel mondo.
Quando squilla il telefono la cantante è a Milano, l'Europa è
lontana. "Sta facendo una visita, solo un controllo per
l'influenza, la faccio richiamare", dice gentile l'addetto
stampa. Sanremo si avvicina, Iva vuole essere in forma.
Convocata da Paolo Bonolis, canterà 'Ti voglio senza amore', la
storia di una donna che decide di smettere di soffrire e
comincia a fare sesso senza preoccuparsi dei sentimenti. "Certo
che sta provando la canzone. Ma al Festival parteciperà a titolo
gratuito, lo scriva".
Record europeo De Michelis, la Zanicchi e gli
altri assenti giustificati e non, che tra indennità e spese
varie incassano più di 35 mila euro al mese, sono in ottima
compagnia. Rispettando la tradizione, anche nella legislatura in
corso gli eurodeputati italiani restano tra i più assenteisti
d'Europa. Secondo i dati ufficiali del Parlamento europeo, che
sul sito pubblica l'elenco dei presenti per ogni plenaria (e
sono appena 60 l'anno), i nostri eletti sono rimasti a casa una
volta su tre. 'L'espresso' ha preso in considerazione le sedute
tenute a Strasburgo e a Bruxelles dal luglio 2004 al 15 gennaio
2009, parametrando le presenze anche in relazione al periodo in
cui i deputati sono rimasti in carica: se secondo uno studio
Acli nel periodo 1999-2004 l'Italia era fanalino di coda con il
69 per cento di presenze sul totale delle assemblee (i
finlandesi, primi, sfioravano il 90 per cento; i francesi,
benché penultimi, ci staccavano di 10 punti), nella legislatura
corrente siamo migliorati di appena un punto. I calcoli non sono
facili, anche perché i politici italiani considerano le aule
europee poco più di un albergo: sui 78 parlamentari iniziali,
solo 48 sono tuttora in carica. Trenta, quasi tutti i big, sono
andati via in cerca di poltrone migliori, sostituiti dalle
seconde file. Di questi, sei sono fuggiti dopo poche settimane,
a loro volta rimpiazzati da altri peones. In tutto gli italiani
che hanno bivaccato a Bruxelles sono 114, una truppa
indisciplinata che è entrata e uscita dalle commissioni come se
fosse in un autogrill.
Ancor più gravi delle assenze, sono i tassi scandalosi
di produttività: 61 deputati non hanno mai presentato
una relazione (che, a differenza delle inutili interrogazioni,
sono testi 'legislativi' o 'di indirizzo'), e 17 non si sono mai
scomodati ad aprire bocca in assemblea. I sei europarlamentari
ciprioti, che guadagnano un quarto degli italiani, sono
intervenuti più di tutti i 'fuggitivi' e i loro sostituti messi
insieme. In totale un esercito silenzioso di 76 persone. La
delegazione slovena, sette persone che prendono un terzo dei
nostri eletti, ha portato a casa più relazioni e dichiarazioni
di tutti i 36 italiani entrati a Strasburgo grazie agli
avvicendamenti. Squadernando la classifica dei partiti, poi, si
capisce perché i parlamentari del Pdl siano stati tra i pochi ad
aver votato contro la proposta del radicale Marco Cappato, che
costringerà nel futuro prossimo venturo le istituzioni a una
maggiore trasparenza: se gli euroscettici della Lega non hanno
rivali, grazie a un tasso di assenze medio del 43 per cento, i
'virtuosi' sono i Verdi, quelli di Sinistra democratica, i
comunisti del Pdci e quelli di Rifondazione. Deputati diligenti
che, a causa dello sbarramento al 4 per cento voluto da
Berlusconi e Veltroni, alla tornata elettorale del 6 giugno
rischiano il posto. A vantaggio di An, Forza Italia e Pd,
partiti infarciti di fannulloni con percentuali di assenza che
in qualche caso superano il 70 per cento.
Lilli Gruber durante la campagna elettorale
Arance e cinghiali Nel quadro desolante, non
sorprende che Adriana Poli Bortone sia rimasta
a Lecce due volte su tre: caso unico nel Continente, la legge
italiana permette a sindaci e presidenti di provincia di
ricoprire anche l'incarico a Bruxelles. La Poli Bortone, durante
il mandato, non si è fatta mancare nulla: era contemporaneamente
vicepresidente dell'Anci, coordinatrice del partito in Puglia,
fondatrice della scuola di formazione dei dirigenti di An, prima
sindaco e poi vicesindaco della sua città, presidente
dell'Agenzia per il patrimonio culturale euromediterraneo. Ovvio
che per le plenarie ci fosse poco spazio in agenda. Giorgio
Carollo, ex forzista, di tempo invece ne aveva. Ma negli ultimi
anni si è occupato soprattutto del suo nuovo movimento politico,
Veneto per il Ppe. Nel suo carniere non c'è traccia di
interventi o relazioni, nonostante il deputato sul sito prometta
ai fan "di tenerli aggiornati su tutte le iniziative che
prenderemo". Attento ai settori della pesca e dell'agricoltura,
nel 2004 in campagna elettorale si è fatto notare come
organizzatore di un corso contro l'invasione di cinghiali
abusivi nei boschi veneti. Anche Nello Musumeci della Destra,
tra gli italiani più assenti, nel suo ultimo intervento in aula
si è occupato di agricoltura, chiedendo all'Europa unita il
riconoscimento della Dieta mediterranea come patrimonio dell'Unesco.
"L'arancia rossa di Sicilia, unica al mondo per i suoi pigmenti
ricchi di sostanze antiossidanti", ha ribadito, "occupa un posto
d'onore tra i prodotti della dieta".
I lobbisti che difendono gli interessi delle aziende italiane
sono disperati. "Abbiamo pochissimi interlocutori", racconta un
pr che preferisce restare anonimo, "la maggioranza dei nostri
non sa nemmeno parlare inglese, non sono capaci di difendere le
proposte e gli emendamenti in riunione. Non vanno alle sedute di
gruppo, disertano le commissioni economiche perché sono troppo
tecniche. Invece di gente preparata, qui arrivano leader che
devono svernare, politici trombati, fratelli di potenti e
seconde scelte. E se tra quadri intermedi e uscieri facciamo
furore, a livello di direttori generali facciamo pena.
Nonostante l'importante nomina di Marco Buti agli Affari
economici, il peso specifico resta inferiore a quello di Olanda
e Irlanda. Paradossalmente comandiamo l'ufficio 'Traduttori e
interpreti'".
I primi della classe "Neugierig auf mein
tagebuch?", dice dal suo sito un sorridente Sepp
Kusstatscher. Non è uno scherzo: l'europarlamentare
italiano più affidabile (che invita a leggere il suo diario
online) parla in tedesco. Sudtirolese, teologo ed ex esponente
della Svp, è passato nei Verdi altoatesini, e tra i nostri
detiene il record di presenze: 272 plenarie su 274, percentuale
del 99 per cento. "Meglio dei finlandesi", sospirano i
funzionari tricolori, tra cui Sepp è un mito, una bandiera, una
mosca bianca. Anche Pasqualina Napoletano è tra i pochi italiani
rispettati dai colleghi stranieri. Praticamente sconosciuta in
patria, nonostante sia stata a capo della segreteria di Veltroni
ai tempi del primo governo Prodi, fa la terapista del linguaggio
ed è stata eletta tre volte a Strasburgo. Una stakanov che è
diventata vicepresidente del Pse, con la responsabilità della
politica estera, e che ha lasciato il Pd per la Sinistra
democratica. Quarto in classifica, dopo il rifondarolo Musacchio,
c'è Luca Romagnoli, che riscatta l'onore degli
altri parlamentari di estrema destra: il geografo che insegna
alla Sapienza, accusato di essere un negazionista
dell'Olocausto, ligio al dovere è mancato solo sette volte su
cento, e ha straparlato con 238 interventi in plenaria. Solo
Mario Mauro ha premuto il pulsante rosso più
volte di lui: ben 357. Il forzista di Comunione e liberazione
non è solo un fanatico delle chiacchiere, ma uno dei
parlamentari più seri in circolazione: l'ultima battaglia,
combattuta insieme al democrat Gianni Pittella,
è per raccogliere le firme necessarie a varare gli eurobond, le
obbligazioni che permetterebbero ai paesi Ue di continuare a
investire in infrastrutture nonostante la crisi.
Hotel Strasburgo Per il resto, i successi degli
nostri deputati sono davvero pochini. Non solo per la
svogliatezza, come ha chiosato Gian Antonio Stella, con cui
partecipano ai lavori, ma anche perché spesso e volentieri
abbandonano Strasburgo per altri lidi. Un posto a Montecitorio,
la presidenza di una Regione, un'assessorato, una trasmissione
televisiva, qualsiasi cosa è preferibile al tedio
dell'Europarlamento. Complice, forse, anche il rigido clima
nordico, in quattro anni e mezzo su 78 seggi a disposizione
l'Italia ha visto fuggire ben 36 parlamentari. Dopo di noi i
francesi, con 11 abbandoni. I tedeschi, con 99 seggi di diritto,
contano appena otto fuggitivi, gli inglesi solo cinque. Inutile
invocare le elezioni politiche del 2006 e del 2008: nel
quinquennio si è votato quasi in ogni Stato membro, ma quasi
nessun europarlamentare straniero si è sognato di lasciare
Strasburgo. I nostri big, al contrario, si mettono in lista per
fare da specchietti per gli elettori, ma appena possono lasciano
il posto a sconosciuti. Per il Paese il turn-over selvaggio è un
disastro. In Parlamento vengono emendate tutte le decisioni
della Commissione Ue, e nelle commissioni si decidono norme che
diventeranno leggi nazionali. "L'altro ieri", ricorda il
lobbista, "a causa delle pressioni di inglesi, francesi e altri
ci siamo giocati un pacco di milioni, che invece di cantieri
nazionali andranno a finanziare opere strategiche straniere".
I primi a lasciare sono stati Ottaviano Del Turco
e Mercedes Bresso, eletti nel 2005 governatori
di Abruzzo e Piemonte. Sono stati sostituiti da Vincenzo
Lavarra e dall'ex calciatore Gianni Rivera.
Stessa scelta per l'Udc Antonio De Poli, che
non ha resistito a un'assessorato regionale alle Politiche
sociali offerto dal neo presidente Giancarlo Galan.
Michele Santoro, con all'attivo zero relazioni e due
interventi due in aula, tediato dall'esperienza dopo appena un
anno e mezzo ha lasciato baracca e burattini per partecipare
allo show di Celentano 'Rockpolitik'. Il sostituto,
Giovanni Procacci del Pd, è riuscito a fare peggio:
nessun intervento, niente relazioni, 45 per cento di assenze,
dopo cinque mesi viene eletto in Parlamento e lascia la poltrona
a Donato Veraldi. Per molti un miracolato, su
Internet viene definito "il parlamentare europeo calabrese più
votato nella storia".
La grande fuga Le elezioni dell'aprile 2006 che
riportano Romano Prodi al governo svuotano il team di
centrosinistra di tutte le punte. La girandola fa venire mal di
testa. Enrico Letta va a sostituire lo zio
Gianni come sottosegretario alla presidenza del Consiglio,
Massimo D'Alema lascia la delicata presidenza della delegazione
per le relazioni con il Mercosur (la Cee del Sudamerica) e
diventa ministro degli Esteri. Al loro posto Gianluca
Susta e Andrea Losco, da sempre vite da mediani. Fanno
le valigie, senza lasciare rimpianti, anche Bersani,
Cirino Pomicino, la Bonino e
l'Ucd Cesa. Per la sostituzione di Di Pietro,
altro campione di assenze, scoppia addirittura una guerra. Il
posto e il lauto stipendio toccherebbero ad Achille
Occhetto, che nel 2004 aveva lasciato spazio a
Giulietto Chiesa. Ma il leader dell'Italia dei Valori,
la cui amicizia con Occhetto è intanto finita sotto montagne di
carte bollate, pretende che la sua poltrona sia assegnata al
fedelissimo Beniamino Donnici. L'ex segretario del Pds ha
rinunciato anni prima, questa l'accusa, e ora non può tornare
sui suoi passi. Un voto ad hoc in plenaria è favorevole a
Occhetto, Di Pietro insiste e si rivolge nientemeno che alla
Corte di giustizia europea. "Si tratta di un affare di Stato che
se sottovalutato", esclamava, "rischia di calpestare le basi
costituzionali della nostra sovranità". Il tribunale accoglie il
ricorso di Donnici, il resto d'Europa assiste sconsolata.
Contro ogni logica a Strasburgo fanno una breve visita anche
Corrado Gabriele, che resta 40 giorni prima di
tornare a fare l'assessore con Antonio Bassolino, e il leghista
Gianpaolo Gobbo, che fa una capatina ma poi
preferisce indossare la fascia di primo cittadino di Treviso. Il
curriculum europeo del piddì Giuseppe Bova
segnala due presenze in due mesi: famoso in Calabria per aver
querelato i ragazzi del movimento antimafia di Locri, ha
preferito rimanere presidente del Consiglio regionale.
Superassenteista giustificato Umberto Bossi, che dopo l'ictus è
andato a Strasburgo 21 volte (per le elezioni di giugno conta di
ricandidarsi come capolista), mentre poche scuse possono
accampare Alessandra Mussolini e Lilli Gruber,
che prima di preferire il Parlamento e la conduzione di 'Otto e
mezzo' non si sono certo distinte per iperattivismo. Anche il
ministro Renato Brunetta non può fare la morale: assente una
volta su tre, nessuna relazione all'attivo. Non ha fatto meglio
la sua sostituta, quella Elisabetta Gardini che
faceva il portavoce di Forza Italia e che in Europa ha aperto
bocca solo una volta e si è fatta vedere di rado.
Il modello 'porte girevoli' inventato dagli 'italians'
di Strasburgo tocca quota 36 avvicendamenti lo scorso
novembre, quando viene regalata anche ad Antonio Mussa,
oncologo di An, l'ebbrezza di una gita nelle aule Ue. Mussa deve
ringraziare Romano La Russa. Il fratello del ministro Ignazio lo
scorso giugno non ha potuto resistere alla chiamata di Roberto
Formigoni, che lo ha voluto assessore regionale. Una delle sue
ultime apparizioni pubbliche come europarlamentare (ha mantenuto
il doppio incarico per mesi, chissà come si sarà regolato con
gli stipendi) è stata nel campionato di 'Calciobalilla umano':
La Russa era la stella del team Italy and friends. Non ci sono
tabellini delle partite, ma da Bruxelles giurano che la squadra
italiana, almeno con il pallone tra i piedi, si è fatta valere.
Ondata di polemiche contro Uribe dopo la liberazione di Jara
I rilasci avvengono dopo uno scambio epistolare durato sei mesi tra
le FARC e un gruppo d'intellettuali, giornalisti, professori e gente
comune preoccupati per la pace e il futuro del paese . Colombiane
e Colombiani per la pace, come hanno deciso di chiamarsi gli
oltre 130.000 firmanti, rappresentano un risveglio da quella atavica
indifferenza verso le violenze del conflitto interno, di cui
sembrano afflitti i Colombiani. Forse il secondo sintomo dopo le
enormi manifestazioni contro il sequestro del 2008.
Tra gli esponenti di Colombiane e Colombiani per la pace la
senatrice liberale Piedad Cordoba, già protagonista al tempo della
mediazione del presidente Venezuelano Hugo Chávez, ha guidato la
commissione umanitaria che si è incaricata di riportare a casa i
sequestrati.
Altra
novità sembra l'apertura al dialogo delle FARC dell'era di Alfonso
Cano, nuovo comandante massimo, dopo la morte dello storico capo
Manuel Marulanda, che ha guidato l'organizzazione per oltre 40 anni.
Cano e la maggior parte del segretariato delle FARC non sono
contadini che hanno impugnato il fucile per difendersi, come i loro
predecessori, ma ex studenti delle grandi città che hanno
abbracciato le idee rivoluzionarie. Domenica sono stati liberati
quattro rappresentanti delle forze dell'ordine, Martedì è stato il
turno di Alan Jara, ex governatore liberale della regione del Meta e
per Giovedì si aspetta Sigfrido López, uno dei dodici deputati del
Valle sequestrati da quasi 7 anni. López è l'unico dei 12 ancora in
vita, nel Giugno del 2007 si è appreso, infatti, che in circostanza
non chiare, gli altri 11 erano stati uccisi. Si spera che l'ex
deputato possa aiutare a chiarire questi eventi. Jara faceva parte
di quel gruppo di sequestrati in mano alla Farc cosiddetti
scambiabili, lo stesso di Ingrid Betancourt. Dopo sette anni e
mezzo di sequestro ha potuto riabbracciare sua moglie Claudia e suo
figlio Alan Felipe ormai adolescente. Nella conferenza stampa
immediatamente successiva al suo arrivo all'aeroporto di
Villavicencio a bordo di un elicottero offerto dal governo
Brasiliano, che, con la croce rossa internazionale, ha agito da
garante durante queste liberazioni, Jara non ha usato mezzi termini
con il governo di Álvaro Uribe Velez.
"Parlando in tutta sincerità - ha affermato - devo dire che penso
che Uribe non abbia fatto nulla per la nostra libertà [...] la sua
attitudine non ha aiutato in nessun modo affinché si produca uno
scambio umanitario." Jara, estremamente lucido e con la battuta
sempre pronta, si è spinto oltre nella sua analisi dell' attuale
congiuntura politica del paese: "io mi azzardo a dire che sembra che
al presidente Uribe convenga la situazione di guerra del paese e
che, qui sta la perversione, alla guerriglia serva il presidente
Uribe." Jara spiegando questo punto ha citato una conversazione con
il comandante guerrigliero incaricato della sua liberazione, durante
la quale il ribelle avrebbe affermato che la rivoluzione prospera in
una situazione di crisi, come quella che genera il governo Uribe,
rifacendosi alla categoria politica della situazione
rivoluzionaria Leninista, e che lui, personalmente, avrebbe
visto di buon occhio un eventuale terzo periodo del presidente. Jara
ha parlato anche della sua impressione sulla guerriglia più antica
del continente, le FARC: "non so che impressione abbiate voi da
fuori, ma io durante il mio cammino verso la libertà ho camminato
per sei settimane in un territorio dove c'erano guerriglieri ovunque
e quasi tutti molto giovani, alcuni minorenni". Secondo Jara le FARC
risentono dell'offensiva militare degli ultimi anni ma sono ben
lontane dall'essere sconfitte: "hanno una logistica invidiabile, una
rete di approvvigionamento funzionante e tanta gente". "Dico questo
- ha continuato - sentendo ancora il freddo della catena alla mia
caviglia". Rispondendo alle domande dei giornalisti l' ex
governatore del Meta spiega come mai, secondo lui, tanti giovani
continuano ad entrare nella guerriglia: "le ragioni sono tante, ma
si riassumono nella mancanza di opportunità: non hanno possibilità
di lavorare, di studiare, sono umiliati e non hanno alternative,
finché esisteranno queste condizioni esisterà la guerriglia."
Il
paese che vede il presidente Uribe è invece molto diverso e diversa
è la sua soluzione che per il conflitto: "se so che in qualche punto
del paese ci sono guerriglieri io mando gli aerei a bombardarli,
questo è chiaro", ha affermato dopo un'ora di conversazione con Alan
Jara, solo, sull'uscio della sua casa, in una iraconda conferenza
stampa. "Sarei ipocrita - ha continuato - se dicessi che l'esercito
non sta cercando i sequestrati nella foresta per liberarli". A
questa frase ha risposto il giorno seguente lo stesso Jara: "allora
speriamo che non li trovino, perché se c'è una cosa che i
guerriglieri sanno per certo e che non si lasceranno togliere gli
ostaggi vivi dalle mani [...] quando c'era un rumore nella foresta
il fucile lo puntavano su di noi e non verso il rumore. [...]A parte
il primo mese durante il quale avevo paura che mi uccidessero, ho
passato 7 anni in un mondo al contrario. La guerriglia ci
proteggeva e l'esercito ci bombardava o quasi ci faceva ammazzare."
Il paese sta vivendo una crescente polarizzazione tra i sostenitori
del presidente che vedono nella guerra e nella vittoria militare
l'unica soluzione e una parte della società civile di cui fa parte
Colombiane e Colombiani per la pace che invece crede sia
giunta l'ora per una negoziazione seria con il gruppo guerrigliero.
Quello che è chiaro è che nel settimo anno del governo di Uribe il
presidente sembra aver esaurito il capitale politico e anche quello
economico, per la crisi e i cambiamenti a Washington, per continuare
l'offensiva militare che caratterizzato la sua presidenza
5 febbraio
Alitalia/Cai: il
figlio di papà non resta a terra
 Qualcuno
nasce con la camicia, qualcuno con le ali ai piedi. Federico
Matteoli, figlio dell’Altero ministro alle Infrastrutture, può
vantare di avere sia le ali, sia la camicia: almeno quella con i
gradi di pilota della Cai di Roberto Colaninno & Company, che il
giovane aviatore è riuscito a strappare di dosso a colleghi più
titolati per anzianità aziendale, età, esperienza e figli a
carico. Come ha fatto? Matteoli junior era già stato graziato
una volta: nella defunta compagnia di bandiera era entrato solo
nel 2002, unico e ultimo assunto a tempo indeterminato, con le
assunzioni chiuse da mesi. Il papà allora era ministro
all’Ambiente. E il suo partito, An, nella vecchia Alitalia
contava su Silvano Manera, poi nominato direttore generale
dell’Ente per l’aviazione civile (Enac), e Luigi Martini, ex
parlamentare, oggi consulente personale di Rocco Sabelli, l’ad
della nuova compagnia. Questa volta però il Federico volante
sembrava destinato alla cassa integrazione, anche perché l’aereo
che guida, l’Md80, finirà in pensione. Invece ecco il colpo di
scena: i manager di Colaninno-Sabelli-Martini hanno inventato
una graduatoria di anzianità a parte a Milano, la città dove
Matteoli junior era stato assunto. E così il figlio del ministro
ha potuto scavalcare centinaia di colleghi davanti a lui. Un
buon inizio per un’operazione che già ci costa 3 miliardi e 300
milioni: 55 euro di debiti per ciascun italiano, compresi i
bambini. F. G.
"Per ogni donna
offesa, siamo tutte parte lesa"...
di Barbara Tummolo
Valanghe di parole e lacrime di comprensione dalle tv, dalla radio e
ai giornali. Tutto un mondo maschile che commisera, e si flagella in
diretta. Le ultime cronache di violenza carnale hanno innescato una
corsa senza precedenti alla solidarieta’ a mezzo stampa verso le
vittime, robustamente sostenuta da cifre, dati, opinioni degli esperti,
commenti sulla devianza giovanile e sulla criminalita’ degli immigrati.
Tutto bene, ma non di soli dati si vive…
Ci vogliono interventi concreti, per contrastare seriamente questo
reato. Interventi che invece non sembrano proprio all’orizzonte. Fatta
salva l'importante delibera del Consiglio comunale di Roma che permette
al Comune di costituirsi parte civile nei processi per stupro, oppure di
dare mandato a rappresentarlo alle associazioni attive sul territorio,
ne’ il Governo ne’ altre istituzioni, o altre amministrazioni comunali,
hanno sino ad oggi messo in piedi un qualsiasi piano d’intervento
concreto per prevenire il reato, mantenendo fermo il punto della
liberta’ femminile.
Proprio partendo dalla delibera romana, che realizza una vecchia
richiesta del movimento delle donne - la costituzione delle associazioni
ai processi per stupro -, cassata dal Parlamento al tempo
dell’approvazione della prima legge contro la violenza sessuale -
correva l’anno 1997 -, siamo andate a vedere che cosa succede sul piano
legislativo a proposito del reato di violenza sessuale. Che ne e' del
disegno di riforma della legge presentato in Parlamento, e attualmente
giacente in prima Commissione?
Ecco dunque il viaggio di women nella legislazione italiana che persegue
e punisce gli stupratori, vale a dire chi si rende attore e complice del
reato di violenza sessuale perpetrato ai danni della “persona donna”.
Non si tratta di una puntualizzazione fuori luogo, l’indagine sulla
sorte del disegno di riforma della legge sopracitato, rimanda pari pari
alla “vecchia legge del 1996, che il Parlamento approvò dopo ben
diciassette anni (avete letto bene, DICIASSETTE) di dibattito in Aula
sul testo di iniziativa popolare, presentato al Senato nel 1981 dopo la
raccolta firme organizzata dal movimento delle donne. Strada per strada.
Non c’e’ bisogno di sottolineare che, se quella legge arrivò in
Parlamento, fu perché le donne l’avevano fortemente voluta. Pensata e
scritta.
Sottolineiamo invece la pietra dello scandalo, che comportò un dibattito
durato quasi quanto una generazione. Prevedeva infatti quella legge che
il reato di violenza sessuale venisse considerato reato “contro la
persona” e non “contro la morale”, com’era sino a quel momento con buona
pace di tutti i conformismi. Come dire, offesa dal reato non era la
cittadina donna, persona titolare del diritto all’integrità del corpo,
ma la morale, vale a dire l’onore della famiglia e del contesto sociale.
Preistoria? Magari…. Temiamo però di no, e che i vecchi vizi di un Paese
privo della cultura dell’uguaglianza di genere, tornino ciclicamente
come il lupo sotto mentite spoglie…
Iniziamo dunque il nostro viaggio nelle due leggi, cominciando con il
riportare alla memoria similitudini inquietanti. Fu uno stupro di
gruppo, uguale e diverso da quello di Guidonia, ad accendere
l’attenzione sulla questione “violenza sessuale” e la reazione delle
donne che avrebbe portato alla legge d’iniziativa popolare del 1979…
29 settembre 1975. Due giovani ragazze, Donatella Colasanti e Rosaria
Lopez, invitate ad una festa in una villa sul Circeo, nel litorale
laziale, da tre giovani della Roma “pariolina”, Giovanni Guido, Angelo
Izzo e Andrea Ghira, vengono violentate, seviziate e picchiate per un
giorno intero. Gli aguzini, completamente drogati si scoprira’ dopo, le
chiudono alle fine nel bagagliaio di un’automobile. Rosaria vi muore
dentro, Donatella sara’ ritrovata dalla polizia con il corpo martoriato
ed in grave stato di choc. (Per la cronaca, i tre violentatori, poi
arrestati, tutti rei confessi, riusciranno in vario modo ad espatriare
ed ad evitare la galera. Clamoroso il caso di Izzo, autore di un altro
efferato stupro e duplice assassinio).
Parte dal massacro del Circeo, la reazione del movimento delle donne.
Nel 1976, una manifestazione notturna attraversa Roma; alla luce delle
fiaccole, le ragazze del movimento gridano un solo slogan “Riprendiamoci
la notte”.
Ancora in questi anni, vige nell’Italia repubblicana il Codice Rocco del
periodo fascista. Restera’ in vigore sino all’entrata in vigore
dell’attuale codice penale approvato solo nel 1989. Tramanda, il Codice
Rocco, la concezione familiare veicolata dal Fascismo apertamente
patriarcale. La donna ,“sposa e madre esemplare”, e’ soggetta al suo
destino biologico per il bene della Patria…. I reati di violenza
sessuale vengono di conseguenza rubricati come “reati contro la morale
pubblica e il buon costume”, non portanti perciò offesa alla persona che
li subisce. Lo stupro, per essere perseguito, necessita di querela della
parte offesa, ovvero la denuncia da parte della donna stuprata.
La legge seguirà due percorsi diversi, in Parlamento e nelle piazze. Il
movimento femminista e i movimenti storici fanno quadrato con le donne
parlamentari dei partiti della sinistra storica, PCI e PSI. Seguono
manifestazioni e iniziative, prese di posizione del movimento delle
donne nei processi per stupro. Fanno emergere gli abissi di silenzio in
cui vivono migliaia di donne “madri di famiglia”, vittime di stereotipi
culturali secolari.
Intanto, in piazza, il movimento delle donne rinito in un Comitato,
sollecitato dall’MLD - Movimento di Liberazione delle donne e dall’UDI -
Unione Donne Italiane, che si riunisce a Roma, a Governo Vecchio, nella
casa delle donne occupata dalle femministe, rivendicava l’approvazione
di una legge che configuri la violenza sessuale come reato grave, e
stabilisca nuove modalità processuali a protezione della vittima.
Anita Pasquali, militante dell’UDI in quegli anni, ricorda quell’anno,
il 1979, quando nacque l’idea di promuovere la legge di iniziativa
popolare della Repubblica contro la violenza sulle donne, la
costituzione del comitato promotore (a cui fecero parte l’MLD, UDI, il
collettivo Pompeo Magno, i giornali delle donne, le forze femminili del
sindacato CGIL), che dette vita ad una clamorosa raccolta di firme.
300.000 in poco tempo, senza alcun apporto nemmeno finanziario da parte
dei partiti di sinistra.
Storico è rimasto l’8 marzo del 1980, quando un corteo di donne, con le
carriole piene di fogli, arriva davanti al Senato per consegnare le
firme al Parlamento…
Lo stesso Parlamento che continuava a tentennare tra continui rinvii,
rifiuti, approvazioni parziali di altri disegni di legge presentati nel
frattempo da alcune forze politiche. Quelli erano gli anni in cui la DC
era ancora il partito principale in Italia, non esisteva un fronte laico
compatto, - Pli, Pri, Psdi sono tutti satelliti della DC che rifiuta la
questione della procedurabilità d’ufficio, come la querela nella coppia.
La legge sara’ approvata nel 1996, dopo ben sedici anni di dibattito,
monca rispetto al testo proposto dalla Commissione Giustizia. Riconosce
lo stupro come reato contro la persona e non più vs la morale, ma cassa
la procedurabilità d’ufficio per i reati commessi nel rapporto di
coppia, e la partecipazione delle associazioni come parte civile nei
processi.
Nel frattempo, molta acqua e’ passata sotto i ponti per la politica
delle donne, e non solo…
Il movimento femminista si e’ ritirato dalle piazze, il terrorismo entra
nella cronaca quotidiana e nella politica quotidiana, cosi’ la questione
“mafia” con i suoi delitti eccellenti, poi sara’ la volta di
tangentopoli, la fine della prima repubblica… La questione della
violenza sessuale conitnua a stare in soffitta…
Eccoci ai giorni nostri. Durante il secondo governo Prodi, Barbara
Pollastrini, nella sua qualita’ di minstra per le pari opportunita’,
presenta un progetto di riforma della legge sulla violenza sessuale. il
1 luglio 2008, per iniziativa del Governo Berlusconi, il progetto è
stato assegnato alla Commissione Giustizia, presieduta da Giulia
Buongiorno, PdL, che ha approvato un documento unificato, comprensivo di
alcuni compendi, che adesso è in attesa di passare alla Camera per la
prima discussione.
Le nuove disposizioni prevedono, all’articolo 1 (delitto di violenza
sessuale) che chiunque costringe con violenza, minaccia, abuso taluno a
compiere o subire atti sessuali è punito, con la reclusione da 5 a 12
anni, stessa pena se il reato è compiuto verso persona con inferiorità
fisica, psichica, in caso di recidiva gli anni di carcere possono
raddoppiare.
All’art.2 (circostanze aggravanti) la pena va dai 6 ai 12 anni, nel caso
in cui le violenze sono commesse contro minori di 16 anni, con l’uso di
droghe, armi, sostanze alcoliche… ,nei confronti di persona del quale il
colpevole è il genitore, tutore,l a pena sale ad una massimo di 16 anni,
se la persona offesa è minore di 10 anni, se dalla violenza è derivata
la morte della persona offesa la pena è l’ergastolo.
Altro compendio è all’art. 4 (violenza sessuale di gruppo) che prevede
la punizione, per chi prende parte ad atti di violenza in gruppo da 6 a
16 anni di carcere, che diventano 20 se la violenza è stata commessa su
un minore, se alla persona offesa sono conseguite lesioni personali
gravi, fino all’ergastolo se ne consegue la morte.
Il testo unificato prevede inoltre all’art.7 (intervento in giudizio) la
partecipazione in giudizio dell’ente locale impegnato direttamente o
tramite servizi di assistenza, centri antiviolenza alla cura della
persona offesa, cosi come se commesso nei confronti di minori o nella
famiglia. Ad intervenire in giudizio è la Presidenza del Consiglio dei
Ministri o l’Osservatorio per il contrasto alla pedofilia e pornografia.
Chiude l’art.9 con il gratuito patrocinio per le vittime di reati di
violenza sessuale….come ha già anticipato il Ministro della Giustizia
Alfano, dichiarando l’intezione del Governo Berlusconi di inserire nel
ddl sicurezza un emendamento che garantisca il patrocinio gratuito per
le vittime di violenza sessuale.
La legge c’è, per giunta in un testo unificato…e allora?... che cosa
manca per renderla effettiva? Manca l’impulso all’iter parlamentare,
sino all’approvazione.
Intanto, i numeri della violenza salgono: 6.271.000 le donne che hanno
subito violenze sessuali, fisiche, psicologiche dal partner, 5.000.000
solo quelle sessuali, 1.000.000 gli stupri o i tentati stupri, 2.077.000
le donne oggetto di stalking da parte di ex-mariti e fidanzati,
1.400.000 le minorenni vittime di violenze sessuali e fisiche, e dato
più amaro, solo il 7,3% le donne che hanno denunciato gli abusi da parte
dei partner.
In attesa della nuova legge, “..basterebbe applicare le norme già
esistenti, non tagliare risorse preziose al fondo antiviolenza, che ha
aiutato le “ case delle donne” dove le vittime di abusi possono
rifugiarsi, sfuggendo a mariti, amanti aguzzini”, ammonisce comunque
Emma Bonino,
E Vittoria Franco, senatrice del Pd, “occorre intervenire sulla
sicurezza ma anche sulla prevenzione, vogliamo che il Governo promuova
campagne antiviolenza per informare le donne sulle strutture di
prevenzione e contrasto, e nello stesso tempo istituisca corsi di
educazione al rispetto della differenza femminile nelle scuole,per
aiutare i giovani ad imparare il rispetto della dignità delle donne.”
A rimanere sempre valido, e’ sempre l’antico slogan delle femministe,
“per ogni donna offesa, siamo tutti parte lesa.”.
In citta'
Stupri, razzismo e
media
di Nella Condorelli
Domenica mattina, in un bar familiare a Roma. Atmosfera tranquilla,
poster giallorossi, la cassiera legge Gente, pigrizia nell’aria e
davanti al caffe”. Entra una signora sui cinquant’anni, biondina e
grassottella. Compra due bottiglie di latte fresco. La conosco, e’
rumena, abita oltre questo municipio, il marito e’ muratore, il cognato
capomastro, lei sta a casa con i due figli. Ogni tanto, viene da queste
parti e fa qualche servizio domestico. Ogni tanto torna in Romania (ma
tutto costa sempre di piu’, e si viaggia sempre meno). Ogni tanto,
racconta del villaggio che ha lasciato. E mostra qualche fotografia: una
valletta ondulata (potrebbe essere pascolo ma la terra e’ troppo dura),
un gruppo di case in un angolo (si potrebbe stare bene, ma e’ troppo
isolato e lontano da qualunque citta’, non c’e’ lavoro). Ogni tanto, si
fa prendere dalla nostalgia di casa, di quando la scuola e la salute
erano gratuiti, e tutti andavano con le scarpe ai piedi, facevano le
scuole, e imparavano pure un mestiere. Ogni tanto, porta un po’ di
biscotti tipici rumeni fatti in casa, e li conserva nella biscottiera
mulino qualcosa, contenta: “bella Romania, bella Romania”.
Entrano nel bar due ragazzotti, ordinano un caffe’ in vetro,
rumoreggiano spavaldi, la rumena va alla cassa a pagare. La cassiera
gentile le chiede se e’ straniera. Con un soffio di voce roca che non le
conosco, nel suo italiano eternamente stentato, la sento rispondere
“sono bosniaca”.
Vado via mentre il Gr Lazio calca in testa la notizia di una bomba carta
lanciata stanotte contro un negozietto gestito da rumeni, in un
quartiere della capitale. Rivedicazione dei soliti autori: vendetta per
lo stupro di Guidonia.
Ecco il teorema, penso incamminandomi verso casa. Stupri, media,
razzismo.
Ha ragione Natalia Aspesi (La Repubblica, 28 gennaio, “La barbarie dello
stupro in tv”): se la notizia degli stupri diventa la prima notizia dei
telegiornali, non c’e’ da stare allegri,. “Vuol dire che lo stupro e’
diventato arma politica”. E se diventa arma politica, cancella il
crimine, e utilizza il dramma individuale per altri fini. Aggiungiamoci
la struttura della nostra informazione televisiva che della cronaca nera
ha fatto il suo vessillo di liberta’, e’ il prisma e’ chiaro.
Ecco dunque, dalla Tv, l’ultimo utile modello femminile, la “vittima di
stupro”. Un modello uniforme (ai canali pubblici e privati, terrestri e
satellitari) che passa attraverso la proposizione di una categoria ben
definita. Donne-vittime. Donne da tutelare. Donne da proteggere. Donne
da raccontare con la solidarieta’ pelosa che si riserva ad un “minus
habens”. Donne da dimenticare un attimo dopo.
Quali informazioni, infatti, dietro l’effluvio di parole intrise di
commozione? Nulla. E’ qui, temo, che la questione si fa veramente
politica, nella direzione delle donne.
A mancare, infatti, e’ la parte propositiva. A mancare, sono tanto i
commenti e le analisi (per esempio, sui meccanismi di sviluppo della
violenza sessuale, a livello sociale e di genere, attraverso le
generazioni), quanto le informazioni su quello che la politica fa per
contrastare questo “reato”.
Ecco, la parola chiave. Reato. Parola semplice, che definisce cio’ che
in sostanza e’ la violenza sessuale. Un reato perpetrato ai danno di una
persona. Se fosse posta al centro del servizio informativo, questa
parola, quanto meno darebbe senso sociale alle tragedia individuali.
Forse, spianerebbe anche la strada all’educazione in famiglia, alla
chiarezza a scuola, alla generale definizione di “rispetto della persona
umana” da parte dello stato. Per non dire, dei concetti di parita’ e
uguaglianza.
Di notizie da approfondite, in questa direzione, ce ne sarebbero ad ufo,
e tutte di prima mano.
Dall’iter della riforma della legge sulla violenza sessuale che giace
alla 1.a Commissione in Parlamento, al dibattito innescato dalla
delibera approvata dal Consiglio comunale di Roma che permettera’ alla
Giunta (o ad associazioni designate a rappresentarla), di costituirsi
parte civile nei processi per stupro, - una norma richiesta una
trentina d’anni fa al movimento delle donne, e cassata dal Parlamento
nell’ approvazione della legge contro la violenza sessuale del 1996 -,
alla storia di quella legge.
Per l'appunto. Sarebbe istruttivo, vederci dedicato un programma di
approfondimento. La memoria aiuta a districarsi nel presente.
La memoria della prima legge italiana specificatamente rivolta a
definire e contrastare il reato di violenza sessuale racconta che il
nostro Parlamento impiego’ ben sedici per approvarla. Dal 1981, anno in
cui il testo di legge di iniziativa popolare ( fortemente voluta dal
movimento delle donne con un’imponente campagna di raccolta firme),
arrivo’ con le sue firme al Senato, al 1997 quando venne finalmente
licenziato, con modifiche e stravolgimenti rispetto alla stesura
originaria.
Il punto, ricordiamolo, e’ che introduceva un concetto fondamentale, uno
solo: la violenza sessuale e’ un “reato contro la persona”. Sembra
banale adesso, ma sino a poco piu’ di dieci anni fa, alle soglie del
Terzo Millennio, la violenza sessuale in Italia era ancora considerata
un reato ”contro la morale e la razza”. Inesistenti le donne, parte
offesa. In nome dell’onore, sede di tutti i patriarcati.
Con questo passato prossimo alla spalle, lasciatemi nutrire piu’ di un
sospetto sull’attuale stupro in tv. Temo che dietro il modello delle
donne-vttime si nasconda il vero oggetto dell’eterna contesa politica
tra uguaglianza e disparita’: il diritto alla liberta’. Che e’ liberta’
del corpo e della mente. Piagate dalla paura, ridotte al rango di
vittime mute (emblematica, l’evoluzione del messaggio trasmesso dalla
ragazza violentata per Capodanno, da giustiziera solitaria a
incappucciata in cucina), ghettizzate in massa nel nome taciuto del
"sesso violato", quel che rischiamo di perdere e’ la liberta’ femminile
insieme al diritto di piena cittadinanza.
Per questo, tornare a chiedere fermamente che la violenza sessuale sia
trattata, dunque considerata, un reato nella sua specifica dimensione di
reato (escludendo qualsiasi concessione all'eterno agguato della "sacralita'"
del sesso), rifiutarsi a strumentalizzazioni in nome della "sicurezza",
pretendere un linguaggio appropriato, opporsi ai compiacimenti
mediatici, mettere un punto fermo sugli appelli, i comunicati e le
marce finalizzate a sensibilizzare (chi?), rifiutarsi di partecipare a
programmi tv schiacciati sul nuovo sensazionalismo delle
poveredonne-poverevittime, diventa oggi piu’ che urgente, vitale,
morale.
Di mezzo, c’e’ la (ri)definizione dell’identita’ femminile, attraverso
il braccio secolare della paura. Ci passa accanto di tutto. Compresi
razzismi e intolleranze, vecchi e nuovi. La donna rumena che si finge
bosniaca docet.
di Enrico Piovesana
Il governo di Colombo rivendica il diritto di bombardare gli ospedali
Gli incessanti e indiscriminati
bombardamenti governativi su quel che rimane del territorio controllato
dai ribelli tamil dell'Ltte hanno provocato la morte di altri 52 civili
e costretto la Croce Rossa Internazionale a evacuare l'unico ospedale
della zona, nuovamente bombardato dall'artiglieria singalese. "Obiettivo
legittimo", per il governo di Colombo.
Croce
Rossa: "Violata la Convezione di Ginevra". di "Ieri sera il
nostro ospedale di Puthukkudiyiruppu è stato bombardato per la quarta
volta in pochi giorni, per sedici ore consecutive: la prima bomba ha
centrato la sala operatoria durante un intervento", ha riferito a
PeaceReporter Sophie Romanens, portavoce della Croce Rossa
Internazionale a Colombo. "I morti sono tanti ma non c'è stato il tempo
di contarli: questa mattina, appena sono finite di cadere le bombe,
l'ospedale è stato evacuato in gran fretta. I nostri coordinatori
medici, il personale locale e circa trecento pazienti si sono mossi in
convoglio, allontanandosi dalla linea del fonte e dirigendosi a nord,
verso Puttamatalam, sempre all'interno del territorio ribelle, alla
ricerca di un posto più sicuro dove allestire un ospedale di fortuna.
Bombardare un ospedale civile costituisce una flagrante violazione
dell'articolo 18 della Quarta Convenzione di Ginevra sulla protezione
dei civili in teatro di guerra".
L'Onu
conferma: 52 civili tamil uccisi ieri. Intervistato da
SkyNews, il ministro della Difesa Gotabaya Rajapaksa aveva
esplictamente rivendicato la legittimità dei bombardamenti
sull'ospedale: "Nessun ospedale dovrebbe operare all'esterno dalla
'No Fire Zone', tutto ciò che si trova fuori dalla zona di
sicurezza è un obiettivo legittimo", ha dichiarato davanti alla
telecamere PeaceReporter ha chiesto un commento al portavoce
delle Nazioni Unite in Sri Lanka, Gordon Weiss. "La legge umanitaria
internazionale è molto chiara: nessun ospedale, ovunque si trovi, per
nessuna ragione può essere considerato un obiettivo militare".
Weiss ha anche confermato l'uccisione di 52 civili nei bombardamenti di
ieri, smentita dall'esercito singalese che ha accusato i ribelli dell'Ltte
di mostrare come civili i suoi combattenti uccisi dopo aver loro tolto
armi e uniformi. "La notizia di questo ennesimo massacro di civili,
avvenuto nella zona di Sudanthirapuram, mi è stata riferita dal nostro
personale in loco ed è quindi da ritenere assolutamente attendibile".
Il
governo rifiuta la tregua umanitaria. Ieri sera il segretario
di Stato Usa, Hillary Clinton, e il ministro degli Esteri britannico,
David Miliband hanno emesso una dichiarazione congiunta in cui chiedono
una tregua umanitaria immediata per portare aiuto ed evacuare i 250 mila
civili intrappolati nella zona di conflitto.
Ma il governo dello Sri Lanka ha risposto che un cessate il fuoco è
fuori discussone e che l'obiettivo è "schiacciare i ribelli".
Santità e pedofilia
di Paolo Tessadri
Le accuse di molestie
coinvolgono l'ex vescovo di Verona. La Curia replica: menzogne
Il vescovo Giuseppe Zenti
Bruno, il 'bello' del collegio, viso angelico e occhi azzurri,
capelli ricci biondo-castani, lo ha indicato tra coloro che
avrebbero abusato di lui. Un alto prelato che si sarebbe
intrattenuto con lui nel 1959, quando aveva 11 anni e viveva con
altri bambini sordi nell'Istituto Provolo. Una denuncia
circostanziata, quella di Bruno, che indica l'alto prelato in
monsignor Giuseppe Carraro, vescovo di Verona morto nel 1981, per il
quale è stato avviato quattro anni fa un processo di beatificazione.
Ma dopo le accuse di 15 degli ex allievi sordomuti riuniti
nell'Associazione Provolo contro sacerdoti pedofili rivelate da 'L'espresso'
nel numero della scorsa settimana, il processo di beatificazione è
stato sostanzialmente sospeso. La Curia, che ha reso noto il nome
del monsignore, dovrà trasmettere al Vaticano i nuovi elementi
perché vengano valutati.
Gli ex allievi, bambini e bambine affidati all'Istituto per sordi,
hanno descritto tre decenni di molestie commesse da 25 tra religiosi
e fratelli laici: l'ultima risale al 1984. Fatti che per il codice
penale non costituiscono più reato. Ma le accuse rivolte contro
monsignor Carraro sono l'elemento che ha maggiormente indignato
l'attuale vescovo di Verona, Giuseppe Zenti. Dopo un primo
comunicato in cui parlava di "profonda sofferenza e di accertamento
della verità", ha poi alzato i toni: "Una montatura infamante,
menzogne". Il vescovo ha attaccato il presidente dell'Associazione,
Giorgio Dalla Bernardina, che avrebbe "plagiato" i sordi: "Sospetto
che le dichiarazione le abbia firmate lui". Inoltre ha ribadito le
accuse di "ricatto" per ottenere una serie di richieste economiche.
Richieste che s'incentrano sulla sede dell'Associazione, di
proprietà dell'Istituto Provolo, da dove sono stati sfrattati.
Immediata la riposta dell'Associazione: "Il problema della sede è
inesistente, ci hanno domandato 200 euro al mese, dopo una prima
richiesta di 3 mila. Noi non abbiamo accettato e ne abbiamo trovata
un'altra. Un ricatto per 200 euro, ma siamo matti? E perché non ci
ha denunciato?". La loro versione è opposta a quella della Curia: "I
nostri problemi sono cominciati più di tre anni fa, quando abbiamo
denunciato i casi di pedofilia all'arcivescovado. Da allora hanno
cercato di cancellare la nostra presenza e la nostra voce. Ma i
sordi parlavano di abusi già 30 anni fa. Visto che il vescovo parla
di ricatto, l'Associazione è pronta a querelarlo", riferiscono i
portavoce Giorgio Della Bernardina e Marco Lodi Rizzini.
Nella loro sede il clima è sereno. Ogni sera qui si ritrovano più di
cento persone, di tutte le età. Giuseppe è uno dei 15 ex allievi del
Provolo che hanno scritto l'atto d'accusa. Fa parte dell'Ente
nazionale sordi e non nasconde l'irritazione per le parole del
vescovo: "Io ho firmato tutto volontariamente e consapevolmente.
L'ho confessato a mia moglie tre anni fa che sono stato sodomizzato
e all'epoca abbiamo denunciato tutto alla Curia. Dopo l'uscita de
'L'espresso' ne ho parlato anche con mia madre, che ha 88 anni. Così
mi sono finalmente tolto questo peso dalla coscienza. Ma non ho mai
voluto figli, perché non nascessero sordi e potesse accadere anche a
loro". Bruno quando parla di quegli incontri in Curia non riesce a
fermare le lacrime. Sessant'anni, timido per carattere, ha paura di
rendere pubblico il suo nome: "Avrei troppa vergogna, come allora".
È pronto a ripetere le sue accuse davanti a qualunque giudice, ma in
Curia "no, mai più". Ricorda bene quel prelato e quegli incontri,
cominciati poco prima del Natale 1959. Era arrivato, verso le 22,
accompagnato da un fratello, oggi ancora in vita. Partivano dal
Provolo a piedi o in auto. Cinque incontri dagli 11 ai 14 anni,
sempre di sera, ad esclusione di uno, il giorno del diploma di terza
media. Il vescovo lo fa accompagnare alle 10, poco prima
dell'interrogazione. L'esame non lo fece, tuttavia il vescovo
avrebbe telefonato in sua presenza al Provolo e ricevette lo stesso
il diploma. Lui non è iscritto a nessuna associazione: in questi
anni si è tenuto dentro il dolore. "Ma ora", dichiara, "è giusto
parlare".
Vera Tim e false sim
di Vittorio Malagutti
Migliaia di telefonini
intestati dai dealer a nomi di fantasia. Per incassare i premi
dell'azienda. Così Bernabè è stato costretto a cambiare tutta la
prima fila dei manager. E il sistema degli incentivi
Il primo affondo degli investigatori risale a qualche mese fa,
in piena estate, quando, per due volte, una squadra della
Guardia di Finanza ha perquisito le sedi romane di Telecom
Italia. Le Fiamme Gialle cercavano documenti utili a
un'inchiesta giudiziaria nata qualche tempo prima nel Nord-est,
dalle parti di Vicenza. Una brutta storia: migliaia di
telefonini intestati a nomi di fantasia oppure con proprietari e
utilizzatori che non corrispondevano ai titolari della carta
sim. Tutto faceva pensare a una gigantesca truffa in violazione,
tra l'altro, delle recenti norme antiterrorismo che hanno reso
ancora più stringenti le procedure per identificare chi usa un
cellulare. Partita da un controllo di routine, l'indagine si è
poi concentrata su cinque dealer veneti della rete commerciale
di Telecom Italia. E infine, come era facile prevedere, l'onda
lunga dell'inchiesta ha raggiunto anche i piani alti del gruppo
telefonico guidato da Franco Bernabè.
Nel novembre scorso è stato sospeso, e quindi rimosso
dall'incarico, Daniele Scaramastra, il manager con base a Padova
che dirigeva l'intera rete di vendita di Tim per il Nord-est. A
dicembre, invece, ha perso il posto, licenziato in tronco, Lucio
Golinelli, 45 anni, un nome di peso nell'organigramma aziendale.
A lui, infatti, faceva capo tutto il network commerciale dei
telefonini. In sostanza, dopo le verifiche degli ispettori
interni guidati da Federico Maurizio D'Andrea, il vertice di
Telecom ha contestato a Golinelli la mancata vigilanza sui suoi
dipendenti. Sembra esclusa, quindi, la complicità con i presunti
truffatori. Il manager avrebbe dovuto controllare e invece non
l'ha fatto. Queste, in breve, le accuse che hanno portato al
licenziamento, che è stato accompagnato da un riassetto
complessivo della struttura commerciale. Oltre a Scaramastra
sono usciti di scena altri importanti capo area come Roberto
Vergari e Alessandro Turco, responsabili, rispettivamente, per
il sud e il centro Italia.
Insomma, l'indagine penale ha innescato un vero ribaltone. I
collaboratori di Bernabè, però, hanno scelto di tenere un
profilo basso, bassissimo sulla vicenda. Nessuna dichiarazione,
nessun comunicato ufficiale. E anche l'uscita di Golinelli è
emersa nei giorni scorsi soltanto in occasione della nomina del
suo successore. La direzione 'sales' è infatti stata affidata al
sessantenne Roberto Pellegrini, un dirigente di lungo corso che
aveva perso la poltrona qualche anno fa, dopo la fusione tra
Telecom e Tim ai tempi della presidenza di Marco Tronchetti
Provera.
Tra i dipendenti del gruppo l'improvviso avvicendamento al
vertice di un'area strategica come quella commerciale ha
suscitato un'ondata di voci e interpretazioni. Non è un caso. Da
tempo la rete di vendita viene chiamata in causa per vicende
poco chiare. Per esempio i furti in serie di telefonini durante
il trasporto ai negozi. Oppure il traffico fasullo verso numeri
cosiddetti a valore aggiunto (178, 199, 899) che va a gonfiare i
bilanci di società off shore controllate da misteriosi
azionisti. E, infine, l'attivazione di carte sim a nome di
persone inesistenti o diverse dal reale proprietario.
L'indagine veneta (ancora in corso) che ha portato al
siluramento di Golinelli lascia per il momento senza risposta
almeno un interrogativo. Perché mai i dealer sotto accusa si
sarebbero prestati a una simile frode? Perché moltiplicare le
intestazioni fittizie? Questione di benefit, probabilmente.
Ovvero i premi destinati ai venditori che raggiungono i target
commerciali fissati anno per anno dall'azienda. In altre parole,
i guadagni aumentano in base al numero di sim attivate. Il
sospetto è che la frode fosse incominciata parecchio tempo fa.
Una volta scoperto il sistema per aggirare i controlli,
evidentemente non proprio accurati, i dealer sarebbero riusciti
ad attivare migliaia di carte taroccate moltiplicando i loro
profitti. Ma c'è di più. Il mercato delle sim 'anonime' è
potenzialmente molto ricco. E tra i clienti più affezionati ci
sono le organizzazioni criminali.
Va detto che i manager di Bernabè, messi sotto pressione
dall'inchiesta veneta, nei mesi scorsi sono corsi ai ripari. Il
meccanismo di incentivazione commerciale è stato completamente
rivisto, premiando il volume di traffico generato dalle sim,
piuttosto che il numero delle attivazioni. E c'è stato anche un
giro di vite sui controlli.
Intanto Golinelli ha perso il posto. La sua sostituzione è stata
decisa in una fase molto delicata per gli equilibri interni al
gruppo. Luca Luciani, capo della telefonia mobile e quindi
diretto superiore di Golinelli, è stato dirottato oltreoceano
alla Tim Brasil. Luciani, assai rampante durante l'era
Tronchetti, mesi fa era diventato (ma ne avrebbe fatto
volentieri a meno) il protagonista di un esilarante caso
mediatico. "A Waterloo vinse Napoleone", disse il top manager
durante una convention, finendo su YouTube e poi anche in tv.
Luciani a parte (definito da Bernabè in una recente intervista
"il migliore dei nostri manager del mobile"), nelle settimane
scorse sono state varate una serie di nomine importanti
nell'organigramma manageriale. L'effetto finale è stato quello
di rafforzare la presa di Oscar Cicchetti sull'azienda
telefonica.
Veterano della Telecom, che lasciò quasi un decennio fa per
seguire Bernabè nelle sue iniziative da imprenditore in proprio,
l'abruzzese Cicchetti, 56 anni, da fine dicembre guida la nuova
direzione domestic market. Come dire che dipende da lui la
gestione operativa delle due aree di attività principali del
gruppo: la telefonia fissa e quella mobile. Che adesso sono
organizzate secondo il tipo di clientela. Pietro Labriola si
occupa del settore business, cioè le aziende. I top clients
(istituzioni e grandi gruppi) fanno capo a Gianfilippo
D'Agostino, mentre lo spagnolo (basco) Carlos Lambarri è stato
appena nominato al vertice l'area consumer. Toccherà a lui
rimettere ordine nella rete di vendita dopo la truffa delle
carte sim taroccate.
4 febbraio
Chiude Indesit, 600 persone a casa
 |
La Indesit di
None
|
Annuncio a sorpresa dell'azienda.
I sindacati: domani 2 ore di sciopero
TORINO
La Indesit, azienda di elettrodomestici di Vittorio Merloni, ha
annunciato l’intenzione di chiudere lo stabilimento di None, nel
Torinese, dove lavorano circa 600 persone. La Indesit, che ha un
altro stabilimento nell’Est europeo, produce a None fino a 900 mila
lavastoviglie all’anno. I dipendenti sono in gran parte giovani e
sono numerose le donne.
«Colpisce che l’annuncio venga da un gruppo che non ha mai chiuso
uno stabilimento in Italia - commenta il segretario generale della
Fiom torinese, Giorgio Airaudo - in un momento di crisi in cui
dovrebbe esserci da parte degli imprenditori un sostegno
all’economia del Paese. Il territorio torinese, già fortemente
gravato dalla cassa, non può sopportare la chiusura di uno
stabilimento, soprattutto se diversificato dall’auto e con un
prodotto innovativo. Va respinta qualunque ipotesi di chiusura,
perchè le aziende che chiuderanno in questa crisi non riapriranno
più».
«Ritengo sia inaccettabile questa prospettiva - osserva Dario Basso
della segreteria della Uilm piemontese - in quanto fino ad ieri
l’azienda era data per sana, progettava e investiva per il futuro.
Non è accettabile che si disattendano gli impegni senza spiegazioni.
Il territorio non vive, così come tutto il comparto metalmeccanico,
un momento tranquillo e i lavoratori impiegati alla Merloni sono in
prevalenza monoreddito. Il sindacato si opporrà a questa decisione
cercando di favorire soluzioni che non gravino sui lavoratori».
«Purtroppo non si tratta di un caso isolato. Faremo di tutto per
tutelare e difendere i posti di lavoro», afferma il segretario
nazionale della Uilm Giancarlo Ficco, responsabile del settore.
La Indesit - secondo dati sindacali - aveva previsto un aumento dei
volumi produttivi del 5% tra il 2008 e il 2010, effettuando
investimenti in una nuova piattaforma e per un nuovo prodotto. I
sindacati immediatamente annunciano il via alla mobilitazione. Fim,
Fiom, Uilm nazionali ed il Coordinamento nazionale delle Rsu del
gruppo Indesit esprimono «netta contrarietà ad ogni ipotesi di
chiusura degli stabilimenti per affrontare la crisi in atto». Questa
la posizione dei sindacati in merito all’ipotesi prospettata dalla
stessa azienda, riferiscono i sindacati, di chiusura dello
stabilimento di None (Torino) dove sono occupati 600 dipendenti, per
concentrare la produzione di lavastoviglie nel nuovo stabilimento
costruito in Polonia, a Radomsko. «A sostegno di tale impostazione,
Fim, Fiom, Uilm e il Coordinamento nazionale del gruppo Indesit
proclamano 2 ore di sciopero con cui convocare e svolgere assemblee
in tutti gli stabilimenti italiani del gruppo.»
Una dottoressa denuncia: ho visto tutto.
«I carcerati malmenati tacciono
per paura» I sindacati: non è vero
MASSIMO NUMA
TORINO
Squadrette» di agenti picchiatori,
scene-horror nei reparti pschiatrici, medici complici o conniventi dei
violenti o costretti a dimettersi se non «allineati». E’ la sintesi
della pubblica denuncia di un ex medico delle Vallette, Ilaria Bologna.
Adesso la senatrice pd Donatella Porretti presenterà un’interrogazione
al ministro della Giustizia, Angelino Alfano. «Se vera, la situazione è
a dir poco gravissima. Mi sono già messa in contatto con la dottoressa.
Vogliamo sapere la verità».
Scrive Bologna: «...Mi sento di sottolineare che all’interno delle
strutture carcerarie i pestaggi da parte degli agenti, addirittura
organizzati in apposite “squadrette”, sono all’ordine del giorno, sono
l’ovvietà...». Poi: «...Nella maggior parte delle Case Circondariali il
medico, presente 24 ore su 24, volente o nolente a stretto contatto con
gli agenti, ha un ruolo da “manutentore”... L’istituzione per cui lavora
esige ordine, e non esiste ordine se non attraverso “la salute” del
detenuto...». Ancora: «...Il pestaggio raramente avviene nella totale
ignoranza del medico: è piuttosto frequente che il detenuto picchiato
venga poi portato in infermeria per “un controllo” e che siano palesi
segni che rendono possibile, e francamente non solo al cosiddetto
“occhio clinico”, risalire all’accaduto. A seconda di quanta
complicità-connivenza esista tra il medico e gli agenti, più o meno
espliciti nel riconoscere cosa è effettivamente successo: potranno
sostenere che “sono stati costretti”, che “il detenuto era agitato e
aggressivo”, o addirittura apertamente compiacersi di “aver dato una
lezione”». E i detenuti pestati? «Non parlano per paura - osserva il
medico - e in alcuni casi non vengono nemmeno portati in infermeria».
Quindi l’agghiacciante capitolo delle «violenze praticate nei Reparti di
Osservazione Psichiatrica: «...La contenzione a mezzo di manette, la
sedazione non consensuale con iniezioni di psicofarmaci, la rimozione
degli oggetti personali e di abiti, lenzuola e coperte “a scopo
precauzionale” sono comuni ed “automatiche”, e anche quando sono
iniziative autonome degli agenti di polizia penitenziaria devono
comunque essere confermate ed autorizzate in cartella clinica dal
medico, quasi sempre uno psichiatra».
E i medici? «La risposta è duplice...I medici penitenziari si dividono
grossolanamente in due categorie. Alcuni, sia per convinzione, comodità
o quieto vivere, assumono totalmente il ruolo dei garanti dell’ordine e
nella pratica...indistinguibili dagli agenti, se non perché rispetto a
loro hanno più potere. Certamente non saranno loro a denunciare i
pestaggi. Altri, la minoranza, pur riconoscendo la realtà della
sistematica violenza di Stato, arrivano comunque presto a considerarla
la “tragica quotidianità” con cui devono avere a che fare...I pochi che
condannano e tentano di denunciare sono voci sole facilmente zittite,
anche con la perdita del posto di lavoro: un medico “disallineato” crea
diseconomia nel sistema».
La dottoressa Bologna non lavora più nel carcere, per una «sua scelta...francamente
anche indotta». Dopo avere realizzato «...l’enormità dell’aberrante
meccanismo...». Gelida la reazione dei sindacati della polizia
penitenziaria. Dice Gerardo Romano, segretario regionale Osap: «E’ tutto
falso. Ma ora si rischia di pregiudicare ulteriormente la già difficile
situazione che c’è nel carcere, dove le condizioni di lavoro sono
pesantissime. Viene infangata l’immagine degli agenti, che in passato
hanno pagato un alto tributo di sangue nel nome delle istituzioni. A
questo punto, solo la magistratura potrà fare chiarezza».
03/02/2009
Il leader dell'opposizione chiede la destituzione del presidente
Ravalomanana e annuncia un nuovo governo
scritto da
Matteo Fagotto
Dopo le violenze della scorsa settimana è tornata la calma nella
capitale malgascia Antananarivo. I negozi hanno riaperto, così come gli
uffici e le scuole, e le 68 vittime provocate dai disordini e dagli
scontri tra manifestanti dell'opposizione e forze dell'ordine sembrano
solo un ricordo. Ma Andry Rajoelina, il sindaco della capitale e anima
del movimento di contestazione al presidente Marc Ravalomanana, è deciso
ad andare fino in fondo. Rovesciando il capo di stato e ponendosi a capo
di un governo di transizione.
Nulla
sembra poter fermare il TGV malgascio, come è soprannominato Rajoelina
per analogia con il treno superveloce francese. Ieri, per nulla
sconfortato dalla scarsa risposta della popolazione allo sciopero
generale da lui proclamato, il sindaco ha presentato alla Corte
Costituzionale una richiesta ufficiale di rimozione dall'incarico per il
presidente, accusato di ripetute violazioni della Costituzione. Per
sabato prossimo, inoltre, Rajoelina ha annunciato la nascita del nuovo
governo di transizione da lui stesso presieduto. Passi che difficilmente
otterranno qualche risultato concreto: nessuno ha infatti dato al leader
dell'opposizione l'incarico di formare un nuovo esecutivo, mentre la
richiesta di impeachment per il presidente dovrebbe partire dal
Parlamento, dove Ravalomanana ha una solida maggioranza.
Le iniziative di Rajoelina sembrano più mirate a mantenere calda la
piazza che a ottenere risultati concreti: la scorsa settimana,
denunciando l'operato del presidente e accusandolo di governare tramite
una pseudo-dittatura, Rajoelina era riuscito a mobilitare per diversi
giorni migliaia di persone. L'inizio dell'attuale settimana ha però
fatto registrare un deciso ritorno alla normalità che va a tutto
vantaggio del presidente. Inoltre, oggi sei leader dell'opposizione
sarebbero stati arrestati nella città portuale di Tamatave mentre
tentavano di organizzare una marcia di protesta contro il presidente,
secondo quanto riferito dal quotidiano locale L'Express.
A
livello internazionale, intanto, si moltiplicano le richieste per una
soluzione pacifica della crisi. In questo senso si sono espresse sia la
ex-madrepatria coloniale francese che l'Onu e l'Unione Africana. Per il
momento, però, non sembra ci siano margini di trattativa tra il
presidente e il sindaco di Antananarivo, che si rifiuta di incontrare
Ravalomanana finché non sarà fatta luce sulle violenze avvenute la
scorsa settimana. La grande maggioranza delle vittime sarebbe morta nei
roghi causati dal saccheggio dei negozi del centro, condotto dai
manifestanti, ma secondo l'opposizione almeno un ragazzo sarebbe stato
ucciso dalle forze di sicurezza durante l'assalto ai locali
dell'emittente televisiva Madagascar Broadcasting System, di proprietà
del presidente.
3 febbraio
La Spagna incrimina Israele per un omicidio mirato a Gaza nel
2002. Morirono quattordici persone
Mentre in tutto il mondo infuria il dibattito sulla possibilità o meno
di incriminare lo stato d'Israele per crimini di guerra e contro
l'umanità per l'operazione Piombo Fuso che ha causato la morte di almeno
1300 persone, in Spagna viene aperta un'inchiesta rispetto a un omicidio
mirato del 2002.
In
mezzo ai civili. L'obiettivo del caccia bombardiere F-16 era
Salah Shehadeh, ritenuto il capo e fondatore delle brigate Izzedine al
Qassam, braccio armato di Hamas. Arrestato dagli israeliani negli anni
Ottanta, il militante era stato poi dato in custodia all'Autorità
palestinese che l'aveva liberato nel 1990. Nel 2002, in piena Seconda
Intifada, l'aviazione israeliana sganciò una bomba da una tonnellata
sulla sua abitazione, ma con lui persero la vita anche 14 civili, fra
cui nove bambini. I feriti furono 150. L'alta densità abitativa della
zona dell'attacco, secondo il Centro palestinese per i diritti umani (Pchr),
un'organizzazione non governativa di Gaza del network International
Commission of Jurist, era un elemento noto alle forze armate
israeliane che hanno deliberatamente deciso di agire lo stesso. Questo
elemento configurerebbe, per lo stato d'Israele, un crimine contro
l'umanità e il ricorso è stato presentato in Spagna, per la
giurisdizione universale che lo stato iberico riconosce alla materia.
Dura
motivazione. Il giudice Fernando Andreu dell'Audiencia
Nacional, tribunale speciale spagnolo, ha accolto oggi il ricorso
presentato dal Pchr e da alcuni parenti delle vittime palestinesi.
Andreu, nel depositare l'istanza, ha motivato la sua decisione
dichiarandosi competente in base alla Ley organica del Poder
Judicial che, all'articolo 23, ritiene i magistrati spagnoli
competenti in casi di terrorismo, genocidio e altri reati commessi anche
fuori dal territorio nazionale ma che violano trattati internazionali.
Andreu ha citato anche lo Statuto della Corte penale internazionale che,
all'articolo 8, definisce 'crimine di guerra' un attacco premeditato
contro civili o non militari o un attacco contro un obiettivo militare
sapendo in anticipo che ci saranno vittime civili. Andreu conclude che
nel caso di Shehadeh lo stato d'Israele ha commesso ''un attacco contro
la popolazione civile che ha come origine un altro fatto illecito e cioè
l'omicidio del dirigente di Hamas, che rientra in una decisione
eccessiva e sproporzionata''.
Scarse
aspettative. Adesso, secondo procedura, l'ordinanza sarà
notificata alle parti, l'Autorità Nazionale Palestinese e lo stato
israeliano. Il giudice spagnolo ha presentato una rogatoria
internazionale e, tra gli inquisiti, figurano personaggi di primo piano
come l'attuale ministro delle Infrastrutture, allora titolare della
Difesa Benyamin Ben Eliezer, e l'ex capo di Stato maggiore Dan Halutz.
Andreu ha anche aggiunto che, appena possibile, verrà inviata a Gaza una
commissione d'inchiesta per raccogliere le testimonianze di persone che
erano presenti al momento dell'attacco. Le possibilità che l'inchiesta
vada in porto sono poche, tanto che lo stesso giudice Andreu ha
ricordato come già in passato ha presentato al governo d'Israele notizia
dell'indagine e non ha ottenuto risposta. E oggi, giusto per capire che
aria tira, Benjamin Netanyahu, leader del partito Likud, in testa ai
sondaggi per le prossime elezioni in Israele, ha definito ''ridicolo''
il procedimento.
Christian Elia
La tutela del popolo della rete è necessaria per garantire la
convivenza tra libertà e privacy
Sai che guaio se l'ultimo colloquio di lavoro è andato bene ma hai messo
su internet le foto dell'ultima festa con gli amici, ovviamente
sbracate. Il pericolo che anche questa sia l'ultima occasione di lavoro
mancata è dietro l'angolo. E il perché lo spiega l'autorità garante
della privacy che mette in guardia i fan della rete e del social network
più amato, Facebook, dati alla mano. Secondo una ricerca, infatti, il
77% di chi recluta personale cerca possibili candidati sul web e il 35%
di loro afferma di aver eliminato un candidato sulla base di
informazioni scoperte navigando in rete.
Insomma,
nell'era di internet, con l'avvento della realtà virtuale, la tutela del
popolo della rete è necessaria per garantire la convivenza tra libertà e
privacy. Il 2008 è stato l'anno del consolidamento dei social network,
non più solo fenomeno per teen-agers e di nicchia, ma strumento di
condivisione di pensieri, ricordi, abitudini e immagini per utenti di
ogni età. E sono più di 580 milioni le persone che, al giugno 2008,
secondo i dati comScore, hanno utilizzato i siti dei social network.
Caso emblematico Facebook che, ad oggi, secondo Alexa.com, conta solo in
Italia 6 milioni e mezzo di profili personali registrati. I social
network sono "piazze virtuali", luoghi di socializzazione senza limiti
di spazio, straordinari strumenti di innovazione sociale. Ma chi si
mette in rete e condivide informazioni sa a quali rischi espone se
stesso e gli altri?
La risposta è no, come ricorda il Garante italiano per la privacy
che, in occasione della Giornata Europea della protezione dei dati
personali, ha invitato tutti gli utilizzatori dei social network ad
adottare l'unico vero "antivirus": diventare utenti più consapevoli dei
rischi che possono derivare da un uso senza criterio della rete.
L'invito a non caderci dentro parte dall'individuazione delle
trappole disseminate sul web. Per esempio, ritrovare on line immagini e
informazioni che ci riguardano ma che non vorremmo rendere note, mentre
non tutti sanno che è impossibile eliminare totalmente dati e immagini
immessi nel social network. Senza contare il fatto che ogni informazione
si presta a furti d'identità o al suo utilizzo a fini commerciali senza
il nostro consenso. Il rischio maggiore, però, è soprattutto per i
giovani: la permanenza illimitata nella rete di informazioni o immagini
che non corrispondono più alla propria persona potrebbe creare grossi
problemi in futuro.
In
verità, la percezione che i giovani hanno di uno spazio privato o di una
piccola comunità, alla quale si rivolgono sul web, falsa la prospettiva
generale: scrivendo, in realtà, non sapremo mai qual è veramente la
nostra platea. Infatti, una delle garanzie che, secondo l'Autorità, i
gestori dei social network devono assicurare è che i dati degli utenti
non siano rintracciabili dai motori di ricerca, se non con il loro
previo consenso. Se così non fosse, qualunque navigatore della rete
potrebbe recuperare i nostri dati personali, le nostre fotografie e le
nostre informazioni. La nostra platea, a quel punto, diventerebbe
indefinita e sconosciuta.
Senza demonizzare il mezzo, è stato lo stesso Garante, Franco
Pizzetti, a scoprire le carte: «Esiste la necessità di promuovere
un'azione comune e internazionale a tutela di chi naviga sulla rete,
perché internet è un medium globale e, come tale, ha bisogno di regole
condivise dalla comunità internazionale». Ad oggi la rete non è
assistita da un soggetto come potrebbe essere un'autorità garante
mondiale che vada oltre l'ordinamento degli stati-nazione. Ecco la
contraddizione. Come per la crisi finanziaria, anche per la rete non
esistono convenzioni che regolino un fenomeno così planetario. «Di
fronte a questa mancanza - aggiunge Pizzetti -, le autorità garanti e le
leggi nazionali sono estremamente deboli e, ancora una volta, non
adeguate allo sviluppo della globalizzazione. Ma, dall'ottobre 2008,
discutiamo a Strasburgo una serie di strategie internazionali comuni sul
fenomeno Facebook ». Vale a dire: stiamo lavorando per voi. Prima che
nasca il prossimo social network.
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