27 settembre

Antipolitica, per chi suona la campana

EZIO MAURO


C'è qualcosa di impopolare e tuttavia necessario da dire ancora sull'assalto dell'antipolitica al cielo italiano di questo sgangherato 2007. Niente di ciò che sta avvenendo sarebbe possibile se sotto la crosta sottile di questa crisi dei partiti che diventa crisi di rappresentanza, si allarga alle istituzioni, corrode il discorso pubblico, non ci fosse un'altra crisi ben più profonda che continuiamo a ignorare perché non la vogliamo vedere. E' la decadenza del Paese, l'indebolimento della coscienza di sé e della percezione esteriore, la perdita di peso specifico e di identità culturale. Ciò che dà forma contemporanea ad un'idea dell'Italia, la custodisce aggiornandola nel passaggio delle generazioni, la testimonia nel mondo, garantendo una sostanza identitaria agli alti e bassi della politica, ai cicli dell'economia, all'autonoma rappresentazione del Paese che la cultura fa nel cinema, nella letteratura, nel teatro, nella musica, nei media o in televisione.

Se questa idea che il Paese ha di se stesso, e che il mondo ha di noi, non si fosse fiaccata fino a confondersi e smarrirsi, il sussulto di ribellione ai costi crescenti della politica, alla lottizzazione di ogni spazio pubblico con l'umiliazione del merito, all'esibizione pubblica dei privilegi avrebbe preso la strada di una spinta forzata al cambiamento e alla riforma. Non di un disincanto che si trasforma in disaffezione democratica mentre la protesta diventa una sorta di secessione dalla vita pubblica: un passaggio in una dimensione parallela - ecco il punto - dove l'idea stessa di cambiamento cede alla ribellione, e alla cattiva politica si risponde cancellando la politica e abrogando i partiti. Come se cambiare l'Italia fosse impossibile. O, peggio, inutile.

Un Paese che dedica quattro serate tv a miss Italia, riunisce una trentina di persone in un vertice di maggioranza attorno a Prodi, inventa un cartoon politico come la Brambilla per esorcizzare il problema politico della successione a Berlusconi, vede restare tranquillamente al suo posto il presidente di Mediobanca rinviato a giudizio con altri 34 per il crac Cirio, forma due partiti anche per discutere l'eredità Pavarotti e dà ogni sera al Papa uno spazio sicuro nel suo maggior telegiornale, ha la proiezione internazionale che questo triste perimetro autunnale disegna. Un'Italia in forte perdita di velocità, dove l'unico leader capace di innovazione è un manager straniero come Sergio Marchionne mentre il ceto politico è l'elemento più statico, immobile, in un sistema che perde peso e ruolo in Europa e nel mondo. Perché la moda, il Chianti e le Langhe non possono da soli sostenere e rinnovare la tradizione e l'ambizione di un Paese che non può essere soltanto l'atelier dell'Occidente, o la sua casa di riposo.

Ma se tutto questo è vero, e purtroppo lo è, l'antipolitica è soltanto una spia - e parziale - dell'indebolimento di un sentimento pubblico e di uno spirito nazionale, qualcosa che va molto al di là delle dimensione strettamente politica e istituzionale. È quel che potremmo chiamare il senso di una perdita progressiva di cittadinanza in un Paese che perde intanto ogni piattaforma identitaria comune, ogni appartenenza sicura, qualsiasi cultura di riferimento. Come può questo Paese non perdere sicurezza, coscienza, peso, capacità di rappresentare se stesso e di valorizzarsi, innovando e modernizzando?

Il "V-day", a mio giudizio, è una prova di questo impoverimento. Solitudini politiche sparse, delusioni individuali, secessioni personali si riuniscono in uno show, come se cercassero "soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche". È quella che Zygmunt Bauman chiama la comunità del talk-show, con gli idoli che sostituiscono i leader, mentre il potere dei numeri - la folla - consegna loro il carisma, capace a sua volta di trasformare gli spettatori in seguaci. Attorno, la celebrità sostituisce la fama, la notorietà vale più della stima, l'evento prende il posto della politica e trasforma i cittadini da attori a spettatori: pubblico.

Ma come si fa a non vedere che in questa atrofia del discorso politico, che cortocircuita se stesso trasformando il "vaffanculo" nella massima espressione di impegno civile dell'Italia 2007, c'è la decadenza di ogni autorità, il venir meno di ciò che si chiamava "l'onore sociale" dei servitori dello Stato, il logoramento vasto del potere nel suo senso più generale: il potere in forza della legalità, in forza "della disposizione all'obbedienza", nell'adempimento di doveri conformi a una regola.

Se è questo che è saltato, il vuoto allora riguarda tutti, non soltanto la classe politica. È l'establishment del Paese nel suo insieme che invece di sentirsi assolto dal pubblico processo al capro espiatorio politico, deve rendere conto di questo deficit complessivo di rappresentanza, di questo impoverimento del sistema-Italia, di questa secessione strisciante, dello smarrimento non solo del senso dello Stato ma anche di uno spirito repubblicano comune e condiviso. Troppo comodo partecipare al valzer dell'antipolitica dagli spalti di un capitalismo asfittico nelle sue scatole cinesi, di una finanza che cerca il comando senza il rischio, di un'industria che dello Stato conosce solo gli aiuti e mai le prerogative.

Quando la crisi è di sistema e l'indebolimento del Paese è l'unico risultato visibile ad occhio nudo, davanti alla secessione strisciante di troppi cittadini dalla cosa pubblica bisognerebbe che l'establishment italiano evitasse di contare in anticipo le monetine da lanciare contro la politica, aspettando la supplenza e sognando l'eredità. Meglio chiedersi, finché c'è tempo, per chi suona la campana.


 

Crawford, Texas: a un mese dal conflitto Bush
e Aznar si vedono per decidere la strategia

Iraq, come si prepara una guerra
I verbali segreti dell'attacco

Ecco le carte segrete che raccontano tutto ciò
che si dissero in quel giorno decisivo

Il 22 febbraio 2003, quattro settimane prima dell'invasione dell'Iraq, il presidente George Bush incontra nel suo ranch di Crawford, in Texas, l'allora premier spagnolo José Maria Aznar e lo informa che è giunto il momento di attaccare l'Iraq. Ecco il testo integrale della loro conversazione pubblicato su El País.

Bush: "Siamo favorevoli a ottenere una seconda risoluzione del Consiglio di sicurezza, e vorremmo farlo in fretta. Vorremmo annunciarla lunedì o martedì (24 o 25 febbraio del 2003, n. d. r.)".
Aznar: "Meglio martedì, dopo la riunione del Consiglio affari generali dell'Unione Europea. È importante mantenere il momentum [lo slancio] che abbiamo ottenuto per la risoluzione dal vertice dell'Unione Europea (a Bruxelles, lunedì 17 febbraio, n. d. r.)".
Bush: "Potrebbe essere lunedì sera. Comunque, la prossima settimana. Consideriamo la risoluzione scritta in modo che non contenga elementi vincolanti, che non menzioni l'uso della forza e che constati che Saddam Hussein non è stato in grado di rispettare i suoi obblighi. Una risoluzione di questo tipo la possono votare in molti".
Aznar:"Sarebbe presentata di fronte al Consiglio di sicurezza prima e indipendentemente da una dichiarazione parallela?"
Rice: "In effetti, non ci sarebbero dichiarazioni parallele. Stiamo pensando a una risoluzione il più semplice possibile, senza tanti dettagli di adempimento, che potrebbero servire a Saddam Hussein per utilizzarli come tappe e poi non rispettarle. Stiamo parlando con Blix (il capo degli ispettori dell'Onu, n. d. r.) e altri del suo team per ottenere delle idee utili per introdurre la risoluzione".


SBARAZZARSI DI LUI
Bush: "Saddam Hussein non cambierà, continuerà a giocare. È arrivato il momento di sbarazzarsi di lui. È così. Da parte mia, cercherò di usare una retorica il più sottile possibile, fintanto che cerchiamo di far approvare la risoluzione. Se qualcuno metterà il veto (Russia, Cina e Francia, con Stati Uniti e Regno Unito, hanno il diritto di veto al Consiglio di sicurezza, n. d. r.), noi andremo avanti. Saddam Hussein non si sta disarmando. Dobbiamo beccarlo adesso. Finora abbiamo mostrato una pazienza incredibile. Restano due settimane. In due settimane saremo pronti, dal punto di vista militare. Credo che ce la faremo con la seconda risoluzione. In Consiglio di sicurezza abbiamo i tre africani (Camerun, Angola e Guinea, n. d. r.), i cileni, i messicani. Parlerò con loro, e anche con Putin, naturalmente. Saremo a Bagdad a fine marzo. Ci sono un 15 per cento di possibilità che per quella data Saddam Hussein sia morto o fuggito. Ma queste possibilità non esistono finché non avremo mostrato la nostra risoluzione. Gli egiziani stanno parlando con Saddam Hussein. Sembra che abbia fatto sapere che è disposto ad andare in esilio se gli permetteranno di portare con sé un miliardo di dollari e tutte le informazioni che desidera sulle armi di distruzione di massa. Gheddafi ha detto a Berlusconi che Saddam se ne vuole andare. Mubarak ci dice che in queste circostanze ci sono forti probabilità che venga assassinato.

"Ci piacerebbe agire su mandato delle Nazioni Unite. Se agiremo militarmente lo faremo con grande precisione, e focalizzando i nostri obbiettivi. Decimeremo le truppe fedeli a Saddam, e l'esercito regolare capirà in fretta che sta succedendo. Abbiamo fatto arrivare un messaggio chiaro ai generali di Saddam Hussein: li tratteremo come criminali di guerra. Sappiamo che hanno accumulato enormi quantità di dinamite per far esplodere le infrastrutture e i pozzi petroliferi. Abbiamo previsto di occupare questi pozzi rapidamente. Anche i sauditi ci aiuterebbero, mettendo sul mercato il petrolio che sarà necessario. Stiamo elaborando un ingente pacchetto di aiuti umanitari. Possiamo vincere senza distruzioni. Stiamo progettando già l'Iraq del dopo Saddam, e credo che ci siano buone basi per un futuro migliore. L'Iraq dispone di una buona struttura burocratica e di una società civile relativamente forte. Potrebbe organizzarsi in una federazione. Nel frattempo, stiamo facendo tutto il possibile per soddisfare le esigenze politiche dei nostri amici e alleati".
Aznar: "È importante poter contare su una risoluzione. Agire senza una risoluzione non è la stessa cosa. Il contenuto della risoluzione dovrebbe constatare che Saddam ha perso la sua occasione".
Bush: "Sì, naturalmente. Sarebbe meglio così che fare riferimento ai "mezzi necessari"(si riferisce alla risoluzione tipo dell'Onu che autorizza a usare "tutti i mezzi necessari", n. d. r.)".
Aznar: "Saddam Hussein non ha cooperato, non si è disarmato, dovremmo fare un riassunto delle sue inadempienze e lanciare un messaggio più elaborato".
Bush: "La risoluzione sarà fatta in modo da poterti dare una mano. Del contenuto, a me importa poco".
Aznar: "Ti faremo arrivare alcuni testi".
Bush: "Noi abbiamo solo un criterio: che Saddam Hussein si disarmi. Non possiamo permettere che la tiri fino all'estate. In fin dei conti, ha già avuto quattro mesi".

IL MOMENTO DI AGIRE
Aznar: "Mercoledì prossimo (16 febbraio, n. d. r.) vedrò Chirac. La risoluzione avrà già cominciato a circolare".
Bush: "Mi sembra ottimo. Chirac conosce perfettamente la realtà. I servizi segreti gliel'hanno spiegata. Gli arabi stanno trasmettendo a Chirac un messaggio chiarissimo: Saddam Hussein se ne deve andare. Il problema è che Chirac crede di essere "Mister Arab", e in realtà sta rendendo loro la vita impossibile. Ma io non voglio avere nessuna rivalità con Chirac. Abbiamo punti di vista differenti, ma vorrei che ci si limitasse a questo. Porgigli i miei più cari saluti. Sinceramente! Meno rivalità sentirà tra noi e meglio sarà per tutti".
Aznar: "Come si combinerà la risoluzione con il rapporto degli ispettori?"
Rice: "Non ci sarà nessun rapporto il 28 febbraio, ma gli ispettori presenteranno un rapporto scritto il primo marzo, e comparirà di fronte al Consiglio di sicurezza non prima del 6 o 7 marzo 2003. Non ci aspettiamo grandi cose da questo rapporto. Ho l'impressione che Blix sarà più critico di prima rispetto alla buona volontà degli iracheni. Una settimana dopo che gli ispettori saranno comparsi davanti al Consiglio, dovremo prevedere il voto sulla risoluzione. Nel frattempo gli iracheni cercheranno di spiegare che stanno adempiendo ai loro obblighi. Il che non è vero e non sarà sufficiente, anche se annunceranno la distruzione di qualche missile".
Bush: "È come la tortura della goccia cinese. Dobbiamo mettere fine a questa storia".
Aznar: "Sono d'accordo, però sarebbe meglio contare su più gente possibile. Abbi un po' di pazienza".
Bush: "La mia pazienza è esaurita. Penso di non andare più in là di metà marzo".
Aznar: "Non ti chiedo di avere una pazienza infinita. Ti chiedo semplicemente di fare il possibile perché tutto quadri".
Bush: "Paesi come Messico, Cile, Angola e Camerun devono sapere che c'è in gioco la sicurezza degli Stati Uniti e agire con un sentimento di amicizia nei nostri confronti. Il presidente Lagos deve sapere che l'Accordo di libero scambio con il Cile è in attesa di conferma da parte del Senato, e che un atteggiamento negativo potrebbe metterne in pericolo la ratifica. L'Angola sta ricevendo fondi del Millennium Account, e anche questi potrebbero essere compromessi se non si mostreranno positivi. E Putin deve sapere che col suo atteggiamento sta mettendo in pericolo le relazioni tra Russia e Stati Uniti".
Aznar: "Tony vorrebbe arrivare fino al 14 marzo".
Bush: "Io preferisco il 10. È come il gioco del poliziotto cattivo e del poliziotto buono. Non mi importa di essere il poliziotto cattivo e che Blair sia quello buono".

UN CRIMINALE DI GUERRA
Aznar: "È vero che esistono possibilità che Saddam Hussein vada in esilio?"
Bush: "Sì, esiste questa possibilità. C'è anche la possibilità che venga assassinato".
Aznar: "Esilio con qualche garanzia?"
Bush: "Nessuna garanzia. È un ladro, un terrorista, un criminale di guerra. A confronto di Saddam, Milosevic sarebbe una Madre Teresa. Quando entreremo, scopriremo molti altri crimini e lo porteremo di fronte alla Corte internazionale di giustizia dell'Aja. Saddam Hussein crede già di averla scampata. Crede che Francia e Germania abbiano fermato il processo alle sue responsabilità. Crede anche che le manifestazioni della settimana scorsa (sabato 15 febbraio, n. d. r) lo proteggano. E crede che io sia molto indebolito. Ma la gente che gli sta intorno sa che le cose stanno in un altro modo. Sanno che il suo futuro è in esilio o in una cassa da morto. Per questo è importantissimo mantenere la pressione su di lui. Gheddafi ci dice indirettamente che questo è l'unico modo per farla finita con lui. L'unica strategia di Saddam Hussein è ritardare, ritardare, ritardare".
Aznar: "In realtà, il successo maggiore sarebbe vincere la partita senza sparare un solo colpo ed entrando a Bagdad".
Bush: "Per me sarebbe la soluzione perfetta. Io non voglio la guerra. Lo so che cosa sono le guerre. Conosco la distruzione e la morte che si portano dietro. Io sono quello che deve consolare le madri e le vedove dei morti. È naturale che per noi questa sarebbe la soluzione migliore. Inoltre, ci farebbe risparmiare 50 miliardi di dollari".
Aznar: "Abbiamo bisogno che ci diate una mano con la nostra opinione pubblica".
Bush: "Faremo tutto quello che possiamo. Mercoledì prossimo parlerò della situazione in Medio Oriente, proponendo un nuovo piano di pace, che conosci, e parlerò delle armi di distruzione di massa, dei benefici di una società libera e collocherò la storia dell'Iraq in un contesto più ampio. Forse vi servirà".
Aznar: "Stiamo attuando un cambiamento profondo per la Spagna e per gli spagnoli. Stiamo cambiando la politica che il Paese ha seguito negli ultimi 200 anni".

IL GIUDIZIO DELLA STORIA
Bush: "Io sono guidato da un senso di responsabilità storico, come te. Quando tra alcuni anni la Storia ci giudicherà non voglio che la gente si domandi perché Bush, o Aznar, o Blair non fecero fronte alle proprie responsabilità. In definitiva, quello che la gente vuole è godere di libertà.... Ho preso io la decisione di andare in Consiglio di sicurezza. Nonostante le divergenze nella mia amministrazione, ho detto ai miei che dovevamo lavorare insieme ai nostri amici. Sarebbe fantastico contare su una seconda risoluzione".
Aznar: "L'unica cosa che mi preoccupa di te è il tuo ottimismo".
Bush: "Sono ottimista perché credo di essere nel giusto. Sono in pace con me stesso. Ci è toccato affrontare una grave minaccia contro la pace. Mi irrita tantissimo vedere l'insensibilità degli europei riguardo alle sofferenze che Saddam Hussein infligge agli iracheni. Forse perché è scuro, lontano e musulmano, molti europei pensano che tutto vada bene con lui. Non mi dimenticherò quello che mi disse una volta Solana: perché noi americani pensiamo che gli europei siano antisemiti e incapaci di far fronte alle loro responsabilità? Questo atteggiamento difensivo è terribile. Devo riconoscere che con Kofi Annan ho degli ottimi rapporti".
Aznar: "Condivide le tue preoccupazioni etiche".
Bush: "Tanto più mi attaccano gli europei, tanto più sono forte qui negli Stati Uniti".

Aznar: "Dovremmo rendere compatibile questa tua forza con l'apprezzamento degli europei".
 

 

18 settembre

 

Manifestazione con Bertinotti a Casal di Principe
Saviano contestato: «La camorra non esiste»
E tra il pubblico il padre del boss

CASAL DI PRINCIPE (Caserta) — Sembra tutto come un anno fa, a Casal di Principe. Un anno fa c'era Bertinotti, c'era Roberto Saviano, e c'era una piazza piena di bambini e ragazzi, gli studenti di Casale e quelli dei paesi vicini e i loro professori e i genitori. Per inaugurare l'anno scolastico si parlava di camorra. Anche oggi s'inaugura l'anno scolastico, e anche oggi ci sono Bertinotti e Saviano, e ci sono gli studenti, anche quelli venuti da Locri, i primi a manifestare e a sfidare la 'ndrangheta («Adesso uccideteci tutti», recitava uno striscione) dopo l'omicidio del vicepresidente del consiglio regionale calabrese, Francesco Fortugno.

E anche oggi si parla di camorra. Sembra tutto uguale, ma soprattutto il peggio è rimasto uguale. Roberto Saviano, per esempio in qualcosa è stato costretto a cambiare. Un anno fa arrivò in piazza da solo, e da solo se ne andò. Ma quando spiegò ai giovani del suo paese che cos'è la camorra, dal palco si rivolse direttamente ai camorristi: «Non valete niente. Ve ne dovete andare da qui». Oggi Saviano arriva con l'auto blindata e la scorta, i poliziotti non lo perdono d'occhio nemmeno per un attimo, ci sono pure gli agenti con i fucili di precisione appostati sui terrazzi per proteggerlo, e per proteggere Bertinotti, ovviamente. Quelle parole all'autore di Gomorra (diventato un best seller pure in Olanda e in Germania, oltre che in Italia) i clan di Casal di Principe — clan più mafiosi che camorristici — non gliele hanno mai perdonate. Per quelle parole rischia la vita, Saviano.

Oggi non possono fargli niente, certo, ma come un anno fa anche i camorristi, o gli amici dei camorristi o i parenti dei camorristi, sono in questa piazza. Allora c'erano per ascoltare, per capire, ora sono qui per insultare, calunniare. A loro modo contestano, anche se non alzano la voce. Sono piccoli gruppi sparsi nella piazza. Dicono: «Qui stiamo bene, e Saviano scrive tutte fesserie. Vuole solo farsi pubblicità per andare a fare il deputato ». Oppure: «La camorra non esiste, la camorra sono i giornalisti e le loro infamità ». Nicola Schiavone, il padre del boss Francesco, soprannominato Sandokan, vorrebbe addirittura salire sul palco per dire la sua. Lo fermano, e allora lui approfitta del microfono dell'inviato delle Iene: «Saviano è solo un pagliaccio qui la camorra l'inventa lui».

Ecco che cosa è davvero uguale a un anno fa, a Casal di Principe: l'arroganza e il potere della camorra. Con arroganza i clan mandano i loro messaggi approfittando di microfoni e telecamere; con un potere ancora intatto i boss governano i grandi affari continuando a sfuggire alle ricerche di polizia e carabinieri. L'assessore regionale all'Istruzione Corrado Gabriele, l'uomo che ha organizzato questa manifestazione come quella di un anno fa, nei giorni scorsi aveva provocatoriamente invitato a Casale Michele Zagaria e Antonio Iovine, i capiclan latitanti, e alla manifestazione ha voluto lasciare due sedie vuote in prima fila con i loro nomi scritti sopra: «Vorremmo vederli seduti qui con un bel paio di manette, perché sono loro i principali responsabili di un Mezzogiorno che non funziona», dice Gabriele prima di lasciare la parola a Bertinotti e Saviano.

Il presidente della Camera parla della necessità di «un rinnovato patto tra istituzioni democratiche e cittadini », per poter sconfiggere camorra, mafia e 'ndrangheta. Saviano supera lo sconforto che pure gli è venuto di fronte alle parole che ha sentito e parla ai ragazzi di ciò che ai ragazzi più sta a cuore: il futuro. «Anche i giovani di Casal di Principe hanno diritto alla felicità ed in queste terre ciò significa poter lavorare senza la pressione continua del precariato, che nasce anche per volontà dei clan camorristi», dice. E chiude con un appello: «Il silenzio che troppo spesso c'è stato in questa terra ha lasciato sole moltissime persone. Ora occorre che questo silenzio venga riscattato».
 

13 settembre

 

Welfare, Giordano: "Governo ci ascolti"

Epifani al Prc: "Basta ingerenze"

E contro le proposte dell'esecutivo le varie sigle dell'ultrasinistra propongono lo sciopero generale

 

Il segretario generale della Fiom Gianni Rinaldini

ROMA - Mentre arriva dai direttivi unitari di Cgil Cisl e Uil il via libera all'accordo del 23 luglio 2007 sul welfare, che apre la consultazione tra i lavoratori e i pensionati che dovranno dare il via libera definitivo all'intesa, non si placano le polemiche sul "no" espresso dalla Fiom. Con Guglielmo Epifani che chiede ai partiti di fare "un passo indietro", lasciando autonomia alle organizzazioni sindacali. Il riferimento, ovviamente, è al Prc. Che, a sua volta, esorta il governo a tenere conto della bocciatura del pacchetto, da parte di una fetta di lavoratori.

Fiom: "No a crisi di governo". Il segretario generale della Fiom Gianni Rinaldini torna sulla questione, assicurando che il no all'accordo non ha l'obiettivo di provocare una crisi di governo. "Siamo contrari alla crisi di governo", dice Rinaldini, intervenendo a Rainews24. "Non c'è nessuna crisi nella Cgil", aggiunge inoltre Rinaldini. Il segretario dei metalmeccanici della Cgil spiega inoltre che l'ultima parola spetta ai lavoratori e che "non ci sarà nessun invito" a votare contro l'accordo nell'ambito delle consultazioni.
 
Prc: "Accordo da cambiare". Il capogruppo alla Camera di Rifondazione comunista, Gennaro Migliore, rilancia l'intento di modificare in Parlamento il protocollo sul Welfare varato dal governo: "Ribadiamo il nostro giudizio e il nostro impegno nell'iter parlamentare a modificare questo accordo", dichiara. Mentre il segretario Franco Giordano afferma che "La Fiom, il più grande sindacato di categoria in Italia, esprime la sofferenza e il malessere di tanti operai. La politica, che è in crisi di credibilità, dovrebbe avere l'umiltà di ascoltarli e il governo non può volgere lo sguardo dall'altra parte, deve interpretare e risolvere i problemi sollevati".

Epifani, stop ai partiti. "Le forze politiche devono fare un passo indietro quando al parola spetta ai lavoratori", stigmatizza però il leader della Cgil, Guglielmo Epifani, commentando la posizione di Rifondazione Comunista. Come a dire: nessuna interferisca con le decisioni del sindacato.

Gli altri sindacati. Con la decisione di ieri la Fiom "si prende una grave responsabilità e ne risponderà di fronte ai lavoratori, perché il movimento sindacale è altra cosa rispetto ai radicalismi e alla indisponibilità a qualsiasi sintesi che invece va ricercata con molta pazienza", accusa il segretario della Cisl Raffaele Bonanni. Dal segretario della Uil Luigi Angeletti arriva un appello per la ratifica dell'accordo: "Non possiamo permetterci il lusso di essere usati dalla politica. Noi dobbiamo chiedere ai lavoratori un giudizio sul merito di ciò che abbiamo negoziato. Questo accordo deve essere approvato".

"Sciopero generale". Una giornata di protesta nazionale contro l'accordo sul welfare, con manifestazioni in tutta Italia tra la fine di ottobre e novembre, promosso dai sindacati di base, dalle forze della sinistra di opposizione e da ampie aree del movimento no global a partire da quelle del nord-est di Luca Casarini. E' questa la proposta uscita dall'assemblea nazionale a Roma delle varie forze dell'ultrasinistra. Il primo passo sarà un'assemblea nazionale. Tra le sigle promotrici Cobas, Rdb-Cub, Sdl, Sinistra critica, Partito comunista dei lavoratori, Action.

 

Il volume presentato a Roma. Il nostro Paese cresce di un grado, contro lo 0,74 globale. Più ondate di calore e meno piogge, anche se quelle torrenziali sono in controtendenza

"L'Italia si scalda più del resto del mondo". Studio del Cnr su clima e ambiente

ROMA - Il riscaldamento della superficie terrestre è un problema globale. Però in Italia l'allarme è ancor più rosso, se si pensa che negli ultimi cento anni la temperatura nel nostro Paese è cresciuta di un grado, contro lo 0,74 della media mondiale. A rivelare questo dato è uno studio del Cnr, il centro nazionale delle richerche, contenuto nel volume presentato questa mattina a Roma nella sede dell'istituto.

Con il suo studio, il Cnr anticipa la conferenza nazionale sul clima, il prossimo 12-13 settembre a Roma. E' un contributo che mette insieme le principali ricerche su clima e ambiente, 205 articoli realizzati da circa 500 studiosi. "Il volume", spiega il direttore del Dta del Cnr, Giuseppe Cavarretta, "fornisce una rassegna dei risultati ottenuti, sia sulle problematiche generali ancora aperte, sia sugli effetti locali dei cambiamenti climatici". Le ricerche sul clima negli ultimi decenni hanno avuto una crescita esponenziale a livello internazionale, e l'Italia vuole fare la sua parte.

E' Michele Colacino, del dipartimento Terra e Ambiente, a spiegare le possibili cause del maggior riscaldamento italiano. La prima riguarda "l'aumento della temperatura superficiale del Mar Mediterraneo, che diminuisce il suo effetto di raffreddamento invernale della temperatura". La seconda è più contingente: "Molte stazioni per il rilevamento della temperatura sono ubicate all'interno delle città, per cui i dati potrebbero risentire delle isole di calore e dell'aumento delle dimensioni delle città".

Le ondate di calore aumentano, le piogge diminuiscono. Il numero dei giorni caldi registrati nei mesi estivi, da giugno a settembre, è passato dal 10% del decennio 1960-70 al 60% del decennio 1990-2000. Le precipitazioni, al contrario, negli ultimi 50-60 anni, si sono fortemente ridotte: nell'Italia meridionale piove il 12-13% in meno, in quella settentrionale la diminuzione è compresa tra 8 e 9%.

Un altro trend è molto interessante: le precipitazioni leggere o moderate (inferiori a 20 millimetri al giorno) calano, le piogge intense o torrenziali (maggiori di 70mm/g) crescono in maniera intensa. Dati che comportano per l'Italia una doppia penalizzazione: diminuisce l'acqua come risorsa e aumentano gli eventi estremi, quelli che provocano alluvioni, esondazioni, frane, smottamenti e altri dissesti idrogeologici.

Il Cnr analizza poi singoli casi: l'aumento delle alluvioni nel bacino dell'Arno, il raffronto tra Roma e Firenze per le emissioni-serra, le piogge in Calabria, la grandine in Toscana. E le conseguenze sulla fauna: il rischio estinzione per lo stambecco nel Parco Nazionale del Gran Paradiso e la fluttuazione delle sardine in relazione ai cambiamenti climatici.

Anche le acque profonde del Lago Maggiore si stanno riscaldando, mentre Pianosa, nell'arcipelago toscano, può essere considerata un pozzo per la Co2, perché l'assorbimento supera le emissioni. L'isola è un laboratorio talmente interessante da aver spinto il Cnr a creare un Pianosa Lab.

Per dare rispondere adeguate alla sfida del riscaldamento globale il ruolo della ricerca scientifica è essenziale. Ecco perché dal professor Franco Prodi, direttore dell'istituto Ibimet Cnr di Bologna, parte un invito alle giovani generazioni: "Il ruolo della ricerca non è mai sufficiente. Dobbiamo convincere i giovani che è questa del clima la sfida del secolo, che la scienza è ancora bella e utile". Altro che finanza creativa, è nella ricerca il futuro del Paese.

 

11 settembre

Il testamento di Salvador Allende
 
L'ultimo discorso del presidente cileno da Radio Magallanes.
 
"La storia è nostra e la fanno i popoli"; perché è troppo vero, è troppo bello, è troppo giusto ed opportuno.

"Pagherò con la mia vita la difesa dei principi che sono cari a questa patria. Cadrà la vergogna su coloro che hanno disatteso i propri impegni, venendo meno alla propria parola, rotto la disciplina delle Forze Armate. Il popolo deve stare all’erta, vigilare, non deve lasciarsi provocare, né massacrare, ma deve anche difendere le sue conquiste. Deve difendere il diritto a costruire con il proprio lavoro una vita degna e migliore.

Una parola per quelli che, autoproclamandosi democratici, hanno istigato questa rivolta, per quelli che, definendosi rappresentanti del popolo, hanno tramato in modo stolto e losco per rendere possibile questo passo che spinge il Cile nel baratro.

In nome dei più sacri interessi del popolo, in nome della patria vi chiamo per dirvi di avere fede.

La storia non si ferma né con la repressione né con il crimine; questa è una tappa che sarà superata, è un momento duro e difficile. E’ possibile che ci schiaccino, ma il domani sarà del popolo, sarà dei lavoratori. L’umanità avanza per la conquista di una vita migliore.

Compatrioti: è possibile che facciano tacere la radio, e mi accomiato da voi. In questo momento stanno passando gli aerei. E’ possibile che sparino su di noi. Ma sappiate che siamo qui, per lo meno con questo esempio, per mostrare che in questo paese ci sono uomini che compiono la loro funzione fino in fondo. Io lo farò per mandato del popolo e con la volontà cosciente di un presidente consapevole della dignità dell’incarico. Forse questa sarà l’ultima opportunità che avrò per rivolgermi a voi.

Le Forze Aeree hanno bombardato le antenne di radio Portales e di radio Corporacion. Le mie parole non sono amare ma deluse; esse saranno il castigo morale per quelli che hanno tradito il giuramento che fecero.

Soldati del Cile, comandanti in capo e associati - all’ammiraglio Merino - il generale Mendoza, generale meschino che solo ieri aveva dichiarato la sua solidarietà e lealtà al governo, si è nominato comandante generale dei Carabineros.

Di fronte a questi eventi posso solo dire ai lavoratori: io non rinuncerò. Collocato in un passaggio storico pagherò con la mia vita la lealtà del popolo.

E vi dico che ho la certezza che il seme che consegnammo alla coscienza degna di migliaia e migliaia di cileni non potrà essere distrutto definitivamente.

Hanno la forza, potranno asservirci, ma non si arrestano i processi sociali, né con il crimine, né con la forza.

La storia è nostra e la fanno i popoli.

Lavoratori della mia patria, voglio ringraziarvi per la lealtà che sempre avete avuto, la fiducia che avete riposto in un uomo che é stato soltanto interprete di grande desiderio di giustizia, che giurò che avrebbe rispettato la costituzione e la legge, così come in realtà ha fatto. In questo momento finale, l’ultimo nel quale io possa rivolgermi a voi, spero che sia chiara la lezione. Il capitale straniero, l’imperialismo, insieme alla reazione ha creato il clima perché le Forze Armate rompessero la loro tradizione: quella che mostrò Schneider e che avrebbe riaffermato il comandante Araya, vittima di quel settore che oggi starà nelle proprie case sperando di poter conquistare il potere con mano straniera a difendere le proprietà e i privilegi.

Mi rivolgo, soprattutto, alla semplice donna della nostra terra: alla contadina che ha creduto in noi; all’operaia che ha lavorato di più, alla madre che ha sempre curato i propri figli.

Mi rivolgo ai professionisti della patria, ai professionisti patrioti, a coloro che da giorni stanno lavorando contro la rivolta auspicata dagli ordini professionali, ordini di classe che solo vogliono difendere i vantaggi di una società capitalista.

Mi rivolgo alla gioventù, a quelli che hanno cantato la loro allegria e il loro spirito di lotta.

Mi rivolgo all’uomo del Cile, all’operaio, al contadino, all’intellettuale, a quelli che saranno perseguitati, perché nel nostro paese il fascismo è già presente da tempo negli attentati terroristici, facendo saltare ponti, interrompendo le vie ferroviarie, distruggendo oleodotti e gasdotti. Di fronte al silenzio di quelli che avevano l’obbligo di intervenire, la storia li giudicherà. Sicuramente radio Magallanes sarà fatta tacere e il suono tranquillo della mia voce non vi giungerà.

Non importa, continuerete ad ascoltarmi. Sarò sempre vicino a voi, per lo meno il ricordo che avrete di me sarà quello di un uomo degno che fu leale con la patria.

Il popolo deve difendersi ma non sacrificarsi. Il popolo non deve lasciarsi sterminare e non deve farsi umiliare.

Lavoratori della mia patria: ho fiducia nel Cile e nel suo destino. Altri uomini supereranno il momento grigio ed amaro in cui il tradimento vuole imporsi.

Andate avanti sapendo che, molto presto, si apriranno grandi viali attraverso cui passerà l’uomo libero, per costruire una società migliore. Viva il Cile, viva il popolo, viva i lavoratori!

Queste sono le mie ultime parole, ho la certezza che il sacrificio non sarà vano.

Ho la certezza che, per lo meno, ci sarà una punizione morale che castigherà la vigliaccheria, la codardia e il tradimento.

 

I segreti della Shoah

Entro il 2009 il più grande archivio sull'Olocausto si aprirà agli storici. Ma l'Italia non ha ancora ratificato il protocollo.

Scritto da
Veronica Fernand

L'archivio segreto di Bad Arolsen renderà disponibili le schede sulla Shoah che custodisce dal 1955: 47 milioni di file, di cui un terzo è già stato digitalizzato e inviato in doppia copia al Museo dell'Olocausto di Washington e allo Yed Vashem di Gerusalemme.

L'interno dell'archivioBad Arolsen. Situata al centro di quelle che erano le quattro zone di occupazione e con le infrastrutture in buono stato, questa città tedesca è stata scelta per raccogliere tutti i documenti rinvenuti nei campi di concentramento dopo l'arrivo degli Alleati. Nei 26 kilometri di archivio ci sono i registri trovati negli ospedali, negli alloggi della Gestapo e negli armadi delle SS: tutte le informazioni che qualcuno ha riportato su carta. Bad Arolsen contiene i registri di morte, l'elenco degli informatori e degli arresti, le motivazioni per cui una persona si trovava nel campo e anche la lista di chi aveva deciso di collaborare per sopravvivere. Una sezione è dedicata alle cartelle cliniche degli internati, di cui si possono sapere le malattie e le malformazioni, oltre a particolari degli esperimenti medici che venivano condotti nei campi. Le SS annotavano tutto, e si può risalire anche alla vita sessuale di molte vittime: chi faceva la prostituta, chi era accusato di reati come l'incesto o la pedofilia, chi era omosessuale. Tra queste informazioni di cittadini comuni, emergono anche informazioni famose come la Schindler's list (i 1000 ebrei salvati da Oskar Schilndler e raccontati da Spielberg), la scheda di Anna Frank e il Totenbuch di Mathausen. Fino a oggi agli studiosi era vietato l'ingresso, e delle 150.000 richieste di consultazione che ricevevano all'anno solo poche erano esaudite. Per entrare a Bad Arolsen le regole sono rigide. Entrano i sopravvissuti, chi ha avuto parenti scomparsi nei lager o i loro legali, chi era residente nel Reich tra il 1939 e 1945 e chi era minorenne negli anni della guerra ed è stato separato dai genitori. Ovviamente, possono consultare solo i file che li riguardano.

Reto MeisterChi fa le regole. Gli Alleati, alla fine della Seconda guerra mondiale, hanno affidato i documenti alla Croce rossa internazionale. Nel 1955, undici Paesi (Belgio, Olanda, Francia, Polonia, Germania, Lussemburgo, Usa, Germania, Grecia, Italia e Israele) si sono accordati per la gestione dell'archivio e hanno firmato il Trattato di Bonn, che ne ha vietato la divulgazione e la pubblicazione. Una minima parte era consultabile dalle famiglie delle vittime, il resto sotto chiave. A custodire l'archivio viene creato un organismo apposito, l'International tracking service (Its), con sede a Ginerva, e l'obbligo di avere uno svizzero alla poltrona di direttore.
Nel 1999 lo stesso Its ha iniziato a prendere posizione per l'apertura dell'archivio agli studiosi. "E' giusto dare libera circolazione e libero accesso a queste informazioni", ha detto il direttore Reto Meister. Concordano gli Usa con Edward O'Donnell, il responsabile per le questioni relative all'Olocausto, che ripete in più occasioni che "Il governo Usa auspica l'apertura di tutti i documenti sulla Shoah". A opporre resistenza è più che altro la Germania: teme di dover pagare ulteriori riparazioni, vuole prima chiarire la sua posizione legale. In più, ha una legge sulla privacy molto più restrittiva di quella statunitense. Ma dopo varie consultazioni con il direttore del Museo dell'Olocausto di Washington Sara Bloomfied, il ministro della Giustizia Brigitte Zypries annuncia che la Germania ha dato il suo assenso. E il 26 luglio del 2006 il Trattato di Bonn viene modificato: i 47 milioni di file di Bad Arolsen verranno digitalizzati e trasferiti in Usa e Israele. Per ora il lavoro è stato fatto su 12 milioni di schede, una prima tranche, mentre il progetto si concluderà nel 2009.

Corpi a DachauLa posizione dell'Italia. A un anno dalla firma, a Roma non si parla di ratifica delle modifiche al trattato. Il 4 aprile del 2007, in una seduta della Camera, il deputato del Nuovo Psi Lucio Barani propone di demandare la gestione dell'archivio all'Unione europea. Ma dato che Usa e Israele non ne fanno parte, qualsiasi decisione sarebbe mutilata. Liliana Picciotto, del Centro di documentazione ebraica di Milano, ha spiegato a Peacereporter che la reticenza dell'Italia é legata a cavilli legali. "Non teme di dover pagare nulla - ha detto - non ha coscienza delle sue responsabilità. A bloccare la ratifica sono la legge sulla privacy e il regolamento sugli archivi si stato", con cui il provvedimento dei firmatari di Bonn è incompatibile. All'articolo 122 del Decreto legislativo 42 del 21 gennaio 2004, si legge che "gli archivi storici contenenti dati sensibili sulla salute, la vita sessuale o rapporti riservati di tipo familiare possono essere aperti solo dopo 70 anni". Che dal 1955 non sono ancora passati. Quindi, nel dubbio e in buona compagnia (non hanno ratificato nemmeno Francia e Grecia), l'Italia temporeggia.

 

6 settembre

 

Il medico in mimetica

Richiamato alle armi il responsabile dell'ospedale di Bolzaneto durante il G8

Spiccate doti professionali. Esiste una speciale sezione, nelle Forze Armate italiane, di cui pochi sono a conoscenza. Si chiama 'Riserva Selezionata', fa parte delle Forze di completamento ed è costituita da civili, ai quali può venir conferita la nomina di ufficiale fino al grado di Maggiore. Della riserva fa parte chi è in possesso di spiccate doti professionali, abbia specializzazioni difficilmente reperibili in ambito militare e dia ampio affidamento per prestare la propria opera nelle Forze Armate. Così, deve essere stato perché in possesso di questi requisiti che il dottor Giacomo Toccafondi, medico chirurgo, nato a Genova il 6 marzo del '54, è stato scelto dalle Forze Armate italiane per partecipare alla missione italiana in Bosnia. E deve essere stato sempre per 'spiccate doti professionali' che il magistrato Alfonso Sabella, capomissione del Dap (Dipartimento per l'amministrazione penitenziaria), durante il G8 di Genova, lo nominò dirigente sanitario dell'ospedale all'interno del carcere di Bolzaneto, dove decine e decine di manifestanti feriti negli scontri arrivarono per subire ulteriori pestaggi e feroci umiliazioni.

Abusi e minacce. Il dottor Toccafondi è uno dei 45 imputati nel processo in corso a Genova per le torture inflitte a molte delle 250 persone, italiane e straniere, che nel luglio del 2001 furono 'ospitate' nel carcere provvisorio di Genova Bolzaneto. Carabinieri, agenti di polizia, agenti di custodia, medici ed infermieri carcerari sono accusati di un vasto campionario di reati: abuso d'ufficio, violenza privata, lesioni personali, percosse, ingiurie, minacce, falso ideologico, abuso di autorità contro i detenuti.

Nessun provvedimento a carico. Al medico Toccafondi, i Pm hanno contestato anche violazioni dell'ordinamento penitenziario e della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. In particolare, gli è stato contestato di "aver effettuato egli stesso, ed avere comunque consentito che altri medici effettuassero, i controlli e il cosiddetto 'triage' e le visite mediche al primo ingresso con modalità non conformi ad umanità e tali da non rispettare la dignità della persona visitata, così sottoponendo le persone ad un trattamento penitenziario anche sotto il profilo sanitario inumano e degradante". Nonostante i gravi capi di imputazione, il dottor Giacomo Toccafondi non è stato trasferito, rimosso o licenziato, ma, al contrario, è rimasto aiuto chirurgo nell’ospedale di Pontedecimo gestito dalla Asl n. 3 di Genova, continuando addirittura a svolgere la mansione di direttore sanitario nel carcere femminile di Pontedecimo. Come numerosi indagati o rinviati a giudizio, anche nei suoi confronti nessuna sanzione disciplinare è stata adottata. Come i poliziotti Alessandro Canterini, (capo del VII nucleo antisommossa responsabile dei pestaggi alla Diaz) e Alessandro Perugini (vice-capo della Digos genovese), promossi da dirigenti semplici a dirigenti superiori benché rinviati a giudizio; così, anche il dottor Toccafondi, poco più di un mese fa, è stato richiamato in servizio dallo Stato italiano, presso il ministero della Difesa, nella sezione Forze di completamento. Lo attesta una delibera dell'Asl 3 genovese, presso la quale il medico presta servizio con contratto a tempo indeterminato.

Missioni all'estero. Il Maggiore Toccafondi (tale è il suo grado nelle Forze di complemento dell'Esercito) è stato 'richiamato alle armi', prestando servizio presso il ministero della Difesa, dal 25 al 26 giugno di quest'anno. Lo attesta la delibera numero 909 della Asl 3 del 1 agosto 2007. Come è stato impiegato? In una nuova missione 'di pace' come in Bosnia? Per qualche perizia medica, per la quale erano indispensabili le sue 'spiccate doti professionali'? Per un colloquio di lavoro, in vista di un ulteriore e ben remunerato incarico da parte del ministero della Difesa? Dal Comando militare di Genova fanno sapere che in quei giorni il medico è stato convocato a Trieste, al Comando militare che lo 'arruolò' per la Bosnia, per una semplice 'sessione informativa'. Ma non è tutto. Andando a spulciare tra le delibere dell'Asl, si scopre che nel 2004 il medico, per il quale i Pm del G8 avevano già chiesto al Gip il rinvio a giudizio, era stato richiamato in servizio dall'Esercito per un incarico ben più importante e duraturo: il Kosovo. Della richiesta di 'congedo' dal lavoro, l'Asl prende atto nella delibera numero 854 del 22 giugno 2005. Il medico ha prestato servizio nel contingente militare italiano dal 29 settembre al 10 dicembre del 2004.

Nei confronti del dottor Toccafondi, l'Asl numero 3 di Genova ha avviato un procedimento disciplinare, che rimarrà tuttavia sospeso fino a quando non si concluderà l'iter giudiziario che lo vede imputato.

L'infermiere che lo denunciò. Delle 'gesta' del medico durante i giorni del G8, resta agli atti la testimonianza dell'infermiere che lavorò a stretto contatto con lui a Bolzaneto, Marco Poggi, oggi 55enne. Contattato da PeaceReporter, Poggi ha raccontato per l'ennesima volta come si svolsero i fatti. "Il medico era quasi sempre vestito con tuta mimetica, con una maglietta blu con scritto 'Polizia penitenziaria'. Io, in tanti anni, non ho mai visto un medico prendere servizio con la mimetica. Non aveva l'atteggiamento che dovrebbe tenere un medico in quelle circostanze, e cioè di mettere a proprio agio i pazienti, specie i traumatizzati. Aveva un modo di fare spavaldo. Diceva ai giovani manifestanti: 'Te lo dò io il Che Guevara', 'Sento puzza di comunismo', oppure 'Sei un brigatista'. Era un esaltato, uno che si sentiva onnipotente. Toccafondi aveva messo da parte alcuni oggetti dei manifestanti. Disse che erano 'trofei'. Si vantava anche dei trofei che aveva raccolto in Bosnia, e che conservava in un sacchetto. Un comportamento e un linguaggio che denunciano uno scarso rispetto della dignità umana. Nella mia decennale esperienza, sia in carcere che in manicomio, non ho mai visto un comportamento così. Mi ha segnato. E se ha segnato me, pensi quei poveri ragazzi, che arrivavano in infermeria feriti e terrorizzati". Cosa si aspetta dalla giustizia? "Per me, sinceramente, niente. Mi aspetto che ci sia giustizia per i ragazzi". Secondo lei il dottor Toccafondi è colpevole?. "Senza il minimo dubbio".

Luca Galassi

 

Chiuso per razzi

Gli studenti di Sderot entrano in sciopero per chiedere protezione dai razzi Qassam

“Un regalo per il nuovo anno scolastico dei bambini di Sderot”. Così i militanti palestinesi della Jihad Islamica hanno definito il razzo Qassam che ieri è caduto nei pressi di una scuola, nella cittadina che sorge a poca distanza dal confine della Striscia di Gaza, spaventando a morte 12 bambini israeliani. Oggi i circa 2500 studenti delle scuole superiori della cittadina hanno iniziato uno sciopero per chiedere più protezione da parte del governo. Se cadranno altri razzi, domani sciopereranno anche i ragazzini delle elementari. Sempre mercoledì è in programma una protesta davanti alla Knesset, il parlamento israeliano, dove il comitato dei genitori di Sderot monterà una specie di scuola e protesterà con quaderni in mano e zaini in spalla.

Sicurezza o ritorsione. I residenti di Sderot protestano da tempo per l'inefficenza del sistema di protezione della cittadina, provvista di un sistema di allarme antimissile che, spesso, suona un attimo prima che il razzo si schianti al suolo. Gli studenti chiedono inoltre che vengano accelerati i lavori per blindare le aule, un processo che a loro avviso va a rilento. La reazione del governo israeliano è stata però tutta politica e rivolta alla controparte palestinese. “Il governo israeliano sarà costretto ad agire” ha esortato il ministro degli Esteri Tzipi Livni alla vigilia dell'importante seduta di domani del Consiglio di Difesa. Il premier Olmert ha minacciato la ripresa degli omicidi mirati dei miliziani responsabili dei lanci di razzi, mentre il suo vice, Haim Ramon, ha ipotizzato una punizione collettiva per la popolazione di Gaza: “Per ogni razzo lanciato su Sderot -ha minacciato- taglieremo per due o tre ore l'erogazione di acqua, elettricità e carburante alla Striscia di Gaza”. Ritorsioni contro i palestinesi a parte, nella cittadina la gente è esasperata dalla situazione di minaccia continua: qualcuno chiede lo spostamento delle scuole fuori dalla portata dei razzi, mentre molti si dicono favorevoli al capo del Likud, Benyamin Netanyahu, che ha proposto una nuova offensiva terrestre, per occupare nuovamente le aree a nord della città di Gaza, da cui vengono lanciati i Qassam.

Occhio per occhio. “Lo sciopero di Sderot dimostra che i razzi Qassam sono in grado di turbare le vite degli israeliani, così come le azioni militari israeliane rovinano la vita dei palestinesi” ha dichiarato Abu Ahmet, il portavoce delle Brigate Al Quds -Gerusalemme- a un quotidiano israeliano. Rispetto alle minacce del governo israeliano il portavoce del braccio armato della Jihad Islamica replica che “non sono una novità. Se ci sarà un'operazione militare nella Striscia non sarà in risposta ai lanci dei razzi, perché l'esercito israeliano agisce già per impedirli. I soldati israeliani entrano nel territorio della Striscia ogni volta che hanno l'opportunità di assassinare dei miliziani”. Israele dispone di velivoli senza pilota, i droni, che sorvolano la Striscia 24 ore su 24 per individuare e colpire i responsabili dei lanci, ma i razzi continuano ugualmente a venire sparati. “Questo dimostra che abbiamo imparato le lezioni del passato e ora operiamo in modo più organizzato” risponde Ahmet, che poi conferma che la ripresa dei lanci proprio nel periodo dell'inizio delle scuole non è casuale: “Come l'embargo israeliano su Gaza impedisce agli studenti palestinesi di iniziare normalmente le scuole, oltre che di comperare vestiti, cartelle e cancelleria -sia per l'embargo che per la povertà diffusa- vogliamo che anche gli israeliani di Sderot non si sentano sicuri, nemmeno gli studenti delle elementari”.

Naoki Tomasini

Rallentano le retribuzioni delle forze dell'ordine (+0,3%), militari, difesa e assicurazioni (+0,6%)

Gli aumenti maggiori nell'energia elettrica, gas ed acqua (+5,1 per cento)

Gli stipendi a luglio crescono dell'1,8%

E' il valore più basso da quattro anni

Diminuisce la copertura contrattuale: solo il 25% dei contratti nazionali non è scaduto

Nei primi cinque mesi del 2007 scende del 63% il numero di ore non lavorate per scioperi

ROMA - Non sorridono i lavoratori italiani. Le retribuzioni contrattuali crescono ma a ritmi minimi. I più bassi degli ultimi quattro anni. Nel mese di luglio, le retribuzioni sono cresciute dello 0,1 per cento rispetto al mese precedente. Lo scostamento rispetto a luglio dell'anno scorso è invece dell'1,8 per cento, di un soffio sopra l'inflazione che nello stesso mese è stata pari all'1,6%. A renderlo noto è l'Istat. Per trovare un dato simile, spiegano dall'Istituto di statistica, è necessario andare indietro fino al giugno 2003 quando l'incremento fu dell1,7 per cento.

Chi rallenta di più. A subire il maggiore rallentamento sono state le retribuzioni delle forze dell'ordine che sono cresciute solo dello 0,3 per cento. Sono aumentati poco anche i valori contrattuali degli addetti del settore militare e della difesa e del comporato delle assicurazioni (+0,6%). Variazione nulla per i contratti di pubblici esercizi e alberghi, credito, scuola, ministeri, regioni, autonomie locali e servizio sanitario nazionale.

Chi sale di più. A crescere di più, tra luglio 2006 e luglio 2007, sono stati invece gli stipendi degli addetti del comparto dell'energia elettrica, gas ed acqua, dove l'incremento ha toccato il 5,1 per cento, seguiti da quelli dall'edilizia (+4,1%) e dai servizi alle famiglie (+3,5%).

Minore copertura contrattuale. Cresce il numero dei contratti scaduti in attesa di rinnovo. A luglio solo il 25% dei contratti era in vigore mentre nel mese di giugno erano il 40 per cento. Sono infatti solo 40 gli accordi non scaduti che regolano il trattamento economico e normativo di 3,4 milioni di dipendenti.

Sono invece 36 i contratti decaduti che regolano il rapporto di lavoro di circa 8,9 milioni di dipendenti e al 74,3% del monte retributivo totale.

Gli incrementi sul mese. Il rialzo dello 0,1% registrato nel mese di luglio è riconducibile agli aumenti tabellari di alcuni contratti vigenti (cemento, calce e gesso, gomma e plastiche, trasporti aerei-servizi a terra e banca centrale) e alla revisione degli importi dell'indennità di vacanza contrattuale per il settore del commercio, delle poste e dei servizi di smaltimento rifiuti. Hanno inciso anche lacune specifiche indennità per gli addetti del settore del vetro, dell'energia elettrica e dell'edilizia.

Gli scioperi. Nei primi cinque mesi del 2007 sono state 824 mila le ore non lavorate per conflitti causati dal rapporto di lavoro: il 63,4% in meno rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. La gran parte degli scioperi sono riconducili al rinnovo del contratto e alle altre cause residuali, con quote percentuali sul totale delle ore non lavorate rispettivamente pari al 26,2% e al 41,1%.

 

3 settembre

Terai, il business scappa dal conflitto
Nella regione più industrializzata e fertile del Paese, i conflitti tra Madhesi e Governo più l'anarchia degli ex ribelli maoisti fanno chiudere l'economia
 
Gli uomini d'affari vogliono lasciare la regione meridionale nepalese del Terai, stufi di ricatti, interruzioni alla produzione e blocchi continui dei trasporti dovuti allo stato di costante conflitto tra minoranza Madhesi e Kathmandu da una parte, e alle frazioni di Maoisti che continuano a vivere con le armi in pugno. La Camera di commercio nazionale ha preso atto del difficile momento economico, dicendo che è "il peggiore nell'ultimo decennio, sta andando peggio adesso che durante il conflitto tra Governo e Maoisti".
 
 il Terai è la regione più a Sud del NepalBlocco nei trasporti. Quasi tutte le aziende di trasporti hanno avuto ultimamente difficoltà a consegnare i loro carichi verso la capitale a causa dei taglieggiamenti degli ex ribelli maoisti incapaci di riciclarsi in una vita senza divisa. Nelle ultime settimane Kathmandu non ha quasi ricevuto mercanzie dalla ricca regione del Terai, cuore produttivo industriale ed agricolo del Nepal. IL 60 percento della produzione agricola di queste rare terre in piano nel Paese himalayano è diretto verso il distretto della capitale. "La situazione adesso è peggiorata rispetto alla guerra tra Maoisti e Re, perchè allora dovevamo contrattare solo con un gruppo di ribelli, mentre ora abbiamo perso il conto di quanti siano" ha detto a un operatore umanitario l'imprenditore Binod Shreshtra dal Terai. 
 
 incidenti causati dagli indipendentistiOppressi da estorsioni e ricatti  Le estorsioni dei gruppi maoisti sono adesso divenute mensili, da quando il comitato centrale del Partito è andato al potere nello scorso aprile in seguito all'applicazione degli accordi di pace, siglati nel novembre 2006. La ong nepalese Insec, (Centro servizi Informazione del terzo settore) ha raccolto un ampio dossier con le denunce degli operatori della regione al confine con l'India, che denunciano sistematicamente il 'pizzo' da pagare a elementi fuoriusciti dal partito e dal sindacato Maoista. Secondo questi rapporti, i leader del partito trasferitisi a Kathamndu non sono più in grado di controllare la loro truppa sciolta sul territorio. Scontri tra Maoisti e indipendentisti Madhesi come la Jtmm (Janatantrik Teerai Mukti Morcha) sono sempre più frequenti. I Maoisti avevano infatti appoggiato la lotta delle fazioni Madhesi per ottenere maggiore autonomia dalla maggioranza Pahadi che controlla Kathmandu, ma adesso che sono al potere nella capitale, non avrebbero bisogno di questi gruppi che reclamano maggiore potere per un gruppo etnico, di origini indiane, che rappresenta un terzo dei 27 milioni di nepalesi. I gruppi indipendentisti stanno portando avanti con costanza ricatti ed intimidazioni ai danni dei manager Pahadi; sono le élitès del gruppo maggioritario a dirigere quasi tutte le fabbriche con manovalanza Madhese. "La situazione è ormai fuori controllo e noi manager non abbiamo più nessuna garanzia contro questa anarchia, che ci costringerà ad abbandonare la regione" ha detto un componente del Cda della Confindustria nepalese, Damodar Acharya. E la situazione è pesante anche per i Madhesi: "Tra un mese non avrò più niente da mangiare per i miei figli: la mia fabbrica ha chiuso. Il mio unico futuro è emigrare in India" ha dichiarato alla Ong il sindacalista Ramu Biswakarma.
 

 

A pochi chilometri dal centro la capitale si fa povera e pericolosa
La polizia: "Dopo il terrorismo è il più grande problema che abbiamo
"

Londra, tra i dannati delle baby gang
"Tremila reati commessi da under 10"

ENRICO FRANCESCHINI


LONDRA - Queste non sono le strade conosciute dai turisti. Questa non è la città scintillante, dispendiosa, alla moda, percorsa da milioni di visitatori. Alle undici di un sabato sera, tra la stazioncina ferroviaria di Hackney e il parco dove si tiene una specie di campionato mondiale di calcio con squadre di ogni origine etnica, sembra di essere precipitati indietro nel tempo: in un'altra Inghilterra, dura, povera, squallida. E pericolosa. Qui vicino, due mesi fa, un ragazzo di 17 anni è stato assassinato mentre rientrava a casa. Dietro la stazione, la settimana scorsa, tre giovani sono rimasti feriti in una rissa.

E lungo il limitare di Hackney Marsh, il parco che prende il nome da un acquitrino, anche ora c'è gente che con quegli incidenti potrebbe avere a che fare: un branco di ragazzi dalla pelle scura, pantaloni troppo larghi che cadono sui fianchi, berretti da baseball in testa, catene d'oro al collo, musica rap che esce a tutto volume dagli stereo delle auto parcheggiate a portiere spalancate. Tutto intorno, casette divorate dall'umidità, muri coperti di graffiti, misere botteghe, ristorantini puzzolenti di fritto. Un mondo dimenticato dal boom degli anni di Blair e Brown. Il mondo in cui prosperano le gang.

"Provare a sopprimerle è come tenere un pallone sott'acqua, prima o poi salterà fuori colpendoti in faccia", dice il detective Barry Norman, responsabile di Scotland Yard per la violenza giovanile. "Con l'eccezione del terrorismo, è il più grosso problema d'ordine pubblico che abbiamo a Londra e in tutta la Gran Bretagna - ammette - In trent'anni di servizio non avevo mai visto niente del genere". Il quartiere di Hackney, nel nord-est della capitale, è la punta dell'iceberg: qui opera il maggior numero di bande, ventidue, e questo è l'epicentro della criminalità giovanile.

Ma il fenomeno è ovunque, in ogni sterminata periferia della metropoli: quelle che nelle mappe della metropolitana sono delimitate come "zona 5", "zona 6", e oltre, dove il metrò non arriva. E' in queste periferie che ci sono stati diciotto omicidi di minorenni dall'inizio dell'anno: l'ultimo una settimana fa. Un rapporto preparato in agosto dalla polizia indica che oggi a Londra esistono quasi 170 gang giovanili. Ciascuna ha in media da venti a trenta membri, ma le più grosse arrivano a cento. Sono suddivise etnicamente: afro-caraibici, i più numerosi, poi nell'ordine asiatici e bianchi. Prediligono le piccole pistole calibro 9. Vestono con colori che demarcano appartenenza e territorio, come i loro eroi, i Blood e i Crisp, le gang di Los Angeles diventate così famose da finire in un film di Hollywood. A Lewisham, quartiere a sud di Londra, i membri della banda vestono di blu. A Bromley, quartiere confinante, di verde. In uno scontro di frontiera tra "blu" e "verdi", in giugno, il 16enne Ben Hitchcok è stato ucciso a coltellate. Un delitto irrisolto, come la maggior parte di quelli di questo tipo.

"Il motivo per cui questi giovani si lasciano affascinare dalle gang è la mancanza di modelli positivi", osserva Raymond Stevenson, direttore di Dont' Trigger (Non tirare il grilletto), una campagna finanziata dal governo. "Sono figli di ragazze-madri o di padri alcolizzati. Smettono di andare a scuola. Considerano la società come un nemico. L'unico tipo di glamour che vedono attorno a sé è rappresentato dalle gang". Alcune offrono loro anche soldi e un impiego, mettendoli al servizio dei trafficanti di droga. Ma il narcotraffico non spiega perché così tanti ragazzi "di borgata", a Londra ma pure a Manchester, Liverpool, Birmingham, Glasgow, aderiscono a una gang o comunque ne sentono il richiamo.

"In una gang ti senti più sicuro, perché c'è qualcuno più vecchio che ti protegge", racconta Nathan, uno dei pochi che è riuscito a uscire dal giro. "La vita da queste parti è come una guerra e chi vorrebbe combattere una guerra tutto solo? In una gang, ti muovi sempre in gruppo. Hai un'identità. Hai un posto dove andare andare, gente con cui stare. E' perfino più facile trovarsi una ragazza".

Il concetto si insinua perfino fra chi sarebbe troppo giovane per pensare alle ragazze: in Inghilterra, nel 2006, quasi tremila reati sono stati commessi da bambini sotto i 10 anni, troppo piccoli per essere arrestati e processati. Lawrence Lee, avvocato di due ragazzini di 10 anni che rapirono e uccisero, dopo averlo seviziato, un vicino di casa di 2 anni, propone perciò di abbassare l'età minima per la responsabilità penale, che è già la più bassa d'Europa, da 10 anni a 8. Criticando la presunta passività del governo laburista di Gordon Brown, David Cameron, leader dell'opposizione conservatrice, chiede un pugno di ferro come quello con cui l'allora sindaco Giuliani ripulì New York dal crimine negli anni Novanta.

Ma proprio questo, probabilmente, è il punto: Londra e la Gran Bretagna, la capitale e la nazione più dinamiche d'Europa, somigliano più all'America che all'Europa in materia di alienazione giovanile, criminalità, violenza. Mancanza di una rete di aiuti familiari, minori protezioni del welfare, diversità socioeconomiche: tante possono essere le ragioni. C'è solo da augurarsi che questo trend, come molti che nascono oltre Atlantico e poi approdano sulle rive del Tamigi, non cominci ad arrivare anche da noi.

 

 

Casa Nostra

di Marco Lillo
Ministri, presidenti delle Camere, sindacalisti, politici. Attuali ed ex. Hanno acquistato attici e appartamenti da enti pubblici o da privati a prezzi di favore. Rendendo doppio il privilegio che spesso già avevano come inquilini. Ecco nomi e cifre dell'ultimo scandalo immobiliare
 
Ci sono ministri e leader di partito, ex presidenti del Parlamento e della Repubblica, magistrati e giornalisti. La nazionale dell'acquisto immobiliare scontato è talmente vasta e assortita che ci si potrebbe fare un ottimo governo di coalizione. Si va dall'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga ai presidenti della Camera e del Senato del primo governo Prodi: Luciano Violante e Nicola Mancino.

Dalla famiglia del presidente dell'Udc Pier Ferdinando Casini a quella del ministro della Giustizia Clemente Mastella passando per la figlia del deputato di An Francesco Proietti. C'è il candidato leader del Partito democratico, Walter Veltroni e il presidente del Senato Franco Marini. Non mancano la Borsa, con il presidente della Consob Lamberto Cardia e il mondo del lavoro con il segretario della Cisl Raffaele Bonanni. C'è il senatore Udc Mario Baccini e il responsabile della Margherita in Sicilia Salvatore Cardinale. Situazioni diverse tra loro che talvolta convivono nello stesso palazzo.

Prendiamo lo stabile Inpdai di via Velletri, a due passi da via Veneto. Al primo piano la moglie di Walter Veltroni ha comprato più o meno allo stesso prezzo pagato dall'ex sottosegretario Marianna Li Calzi che abita al quarto. Ma le due storie sono diverse. Li Calzi ha ottenuto il suo attico alla vigilia della svendita a seguito di una discussa procedura pubblica. Veltroni invece è nato nelle case dell'ente previdenziale dei dirigenti. L'Inpdai aveva affittato sin dal 1956 un appartamento al padre, dirigente Rai. Nel 1994 i Veltroni restituirono all'ente i due alloggi nei quali vivevano Walter e la mamma per averne in cambio uno più grande, il famoso primo piano di via Velletri da 190 metri quadrati che nel 2005 è stato acquistato dalla moglie del sindaco, Flavia Prisco, per 373 mila euro. Il prezzo è basso per effetto non di un'elargizione personale ma per il meccanismo degli sconti collettivi concessi a tutti allo stesso modo. Altra cosa ancora sono gli acquisti delle case dell'Ina ora finite a Generali e Pirelli. Questi colossi privati in alcuni casi si sono comportati come spietati alfieri del libero mercato.

Altre volte hanno fatto prezzi bassi per blocchi di appartamenti finiti poi a famiglie dai nomi noti come Mastella e Casini. Scelte discutibili per società quotate in Borsa come Pirelli e Generali che dovrebbero puntare solo al profitto e che, evidentemente, hanno pensato di fare gli interessi dei propri azionisti cedendo appartamenti ai politici e ai loro amici a valori bassi. Insomma, ci sono differenze radicali tra venditore privato e ente pubblico ma anche all'interno delle due categorie. Se non bisogna far di tutta l'erba un fascio però ci sono due cose che accomunano i protagonisti della nostra inchiesta: sono potenti che hanno pagato troppo poco ieri per l'affitto e oggi per l'acquisto.

Inoltre nella maggioranza dei casi in quegli immobili sono entrati grazie a conoscenze, entrature e amicizie. Questa disparità di trattamento con i comuni mortali non è una novità. Emerse con violenza populista nel 1996 durante il primo Governo Prodi grazie alla campagna 'Affittopoli' de 'il Giornale' di Vittorio Feltri. Oggi quegli stessi immobili affittati dieci anni fa ad equo canone sono stati svenduti definitivamente e il privilegio è stato reso eterno.

Per fare qualche esempio: Lamberto Cardia, presidente Consob, pagava 1 milione e 100 mila lire al mese di affitto nel 1996 e ha comprato nel 2002 a 328 mila euro 10 vani e due posti auto a due passi dal Palaeur. Maura Cossutta, onorevole dei Comunisti Italiani, pagava 1 milione e 50 mila lire allora e compra nel 2004 quattro camere, due bagni e balconi a due passi da San Pietro a 165 mila euro. Franco Marini pagava 1 milione e 700 mila lire allora e compra nel 2007 a un milione di euro due piani ai Parioli. A rendere 'svendopoli' ancora più odiosa di 'affittopoli' c'è il peggioramento drastico del mercato della casa. Il trattamento di favore diventa un'offesa insopportabile per chi è costretto a combattere ogni giorno con l'ufficiale giudiziario che vuole sfrattarlo.
 

L'ex presidente della camera
Pier Ferdinado Casini
Per capire 'svendopoli' bisogna iniziare il nostro viaggio da via Clitunno, nel quartiere Trieste. In questa strada immersa nel verde, ci sono due palazzi che facevano parte del patrimonio Ina-Assitalia e che rappresentano bene il confine tra i sommersi e i salvati delle dismissioni. Lì abitava, prima della separazione, Pier Ferdinando Casini con la prima moglie Roberta Lubich e le due figlie minorenni. Nello stabile accanto abitava una coppia di dipendenti Assitalia: Davide Morchio e la moglie Maria Teresa.

Negli anni Novanta le famiglie Morchio e Casini sono uguali: entrambi inquilini delle Generali, pagano un canone basso e sperano di poter comprare l'appartamento con lo sconto. Poi arrivano le vendite tanto attese e l'uguaglianza svanisce: la famiglia Lubich-Casini rileva a prezzi di saldo tutto il palazzo. Morchio insieme ad altre 19 famiglie deve andar via. Nessuna offerta per lui dalla nuova proprietà, che per ironia della sorte è Caltagirone, il nuovo suocero di Casini. Gran parte degli inquilini, come l'ex ministro verde Edo Ronchi che può permettersi di comprare lì vicino, lascia il campo. La famiglia Morchio invece resiste all'ufficiale giudiziario che chiede l'intervento della forza pubblica. "Abbiamo un contratto che ci dà il diritto di prelazione", spiega Davide Morchio, "ed è stato ignorato. Nel palazzo vicino hanno potuto comprare a prezzi di favore. È un'ingiustizia".

Anche l'immobile dove vive la prima moglie di Casini è stato ceduto in blocco ma con una procedura atipica. Ha comprato a un prezzo basso, 1 milione e 750 mila euro, la Clitunno Spa, società creata appositamente da un manager bolognese di area Udc, amico di Casini e della prima moglie. Si chiama Franco Corlaita e ha già rivenduto tutto. Indovinate a chi? Alla famiglia Lubich. Nel novembre del 2006 la mamma di Roberta compra per 586 mila euro il secondo piano. Ad aprile del 2007 la prima moglie di Casini compra il piano terra, a 323 mila euro. Passano due mesi e il 21 giugno scorso l'operazione si chiude con la cessione alle due figlie minori di Casini del terzo piano (306 mila euro per 5 vani catastali) e del primo piano (8,5 vani per 586 mila euro).

Casini partecipa all'atto (mediante un procuratore) in qualità di genitore anche se il notaio precisa che paga tutto la moglie. Per convincere il giudice tutelare ad autorizzare la stipula dell'atto, i genitori presentano una perizia da cui risulta che l'acquisto è 'molto conveniente'. Generali non fa una piega. Inutile dire che gli inquilini del palazzo vicino sono infuriati e ipotizzano una simulazione dietro questo strano giro. Nella sostanza, dicono, la famiglia Casini ha comprato con lo sconto e noi no. Alla beffa contro i vicini, si aggiunge quella agli inquilini, senza alcuna distinzione di rango. Al primo piano del palazzetto Lubich-Casini vive in affitto Roberto Barbieri, senatore del centrosinistra e presidente della Commissione parlamentare sui rifiuti. Paga un canone di ben 3 mila euro ma è stato trattato come gli altri. Nessuno gli ha detto che il suo appartamento è diventato della figlia di Casini. Nessuno gli ha proposto l'acquisto a 586 mila euro. Con tremila euro al mese avrebbe potuto accendere un mutuo per comprare. Invece a maggio del 2008 dovrà lasciare.

Anche il caso della famiglia Mastella dimostra che non sempre le società private sono così cattive. Il ministro della Giustizia abita all'ottavo piano di un palazzo sul lungotevere Flaminio che ha fatto la stesa trafila di quello di via Clitunno. Da Ina-Assitalia a Initium, società di Pirelli e Generali. Initium è proprietaria anche dei condomini di via Nicolai alla Balduina, dove abita l'ex ministro Baccini e di via Visconti a Prati, dove vive Francesco Cossiga. Gli inquilini di questi palazzi non sono stati trattati come quelli di via Clitunno. Stavolta Initium ha concesso prelazione e sconto. Così nel 2004 Baccini ha comprato la sua reggia da 15 vani, due terrazze e 4 bagni per 875 mila euro e Cossiga è diventato proprietario di casa, soffitta e magazzino per 710 mila euro.
 
 
Clemante Mastella con la moglie Sandra
Nel caso di Mastella però Initium ha fatto di più. Il 3 dicembre del 2004 nello studio del notaio Claudio Togna (dell'Udeur anche lui) c'era una riunione familiare. I Mastella al gran completo facevano la fila per stipulare atti e il povero Togna sfornava atti come una pizzeria di Ceppaloni. Sandra Mastella ha comprato l'appartamento dove dorme il marito e si è impegnata a prendere la residenza lì per ottenere le agevolazioni fiscali. Per lei un ottimo affare: 500 mila euro per un appartamento che include una veranda abusiva (condonata) e la terrazza su tre lati che guarda il Tevere e Monte Mario dall'ottavo piano. Subito dopo la moglie del ministro ecco arrivare i figli Elio e Pellegrino.

Comprano altri quattro appartamenti, due a testa. I prezzi erano davvero allettanti. A Pellegrino vanno il primo piano da 4,5 vani per 175 mila euro e altri 6 vani al quarto piano per 300 mila euro. Va ancora meglio al fratello che si accaparra un terzo piano con 5,5 vani per soli 200 mila euro e un miniappartamento con ingresso, camera, bagno e terrazza a livello per 67.500 euro, nemmeno il costo di un box in periferia. Le case sono state pagate in gran parte grazie ai mutui concessi da San Paolo (400 mila euro alla moglie) e Bnl (un milione e 100 mila euro ai figli che dovranno versare una rata mensile di 6.430 euro). E che nessuno vada in giro più a dire che Initium è cattiva con gli inquilini.

Anche Francesca Proietti, socia di Daniela Fini e figlia di Francesco, deputato di An e braccio destro di Gianfranco, ha comprato un appartamento a un prezzo d'occasione: 267 mila euro per un secondo piano con terrazza su tre lati, salone e due camere all'Eur. Sempre dal patrimonio ex Ina arrivano gli immobili di Nicola Mancino e Luciano Violante. L'ex magistrato torinese ha pagato con la moglie 327 mila euro nel 2003 un gioiello incastonato tra i Fori Imperiali e piazza Venezia: due terrazzette, tre livelli e una settantina di metri quadrati coperti.Nicola Mancino ha comprato insieme alla figlia Chiara nel 2001 una dimora da 10 vani più una soffitta autonoma su Corso Rinascimento, a due passi dal Senato per 1 miliardo e 550 mila lire del vecchio conio. Sempre dal gruppo Pirelli Giuliano Ferrara ha acquistato l'appartamento ex Ina da 7,5 vani in piazza dell'Emporio al Testaccio nel palazzo che un tempo veniva chiamato 'il Cremlino' per l'alta percentuale di comunisti. Ferrara, che un tempo tuonava contro De Mita per il suo affitto a Fontana di Trevi, ha rilevato un sesto piano con terrazzo a 890 mila euro.

Molto più bassi i prezzi praticati dagli enti previdenziali. Grazie al doppio sconto (30 per cento più 15 a chi compra tutto il palazzo) le parlamentari Franca Chiaromonte e Maura Cossutta hanno stipulato un atto collettivo per due appartamenti in via della stazione San Pietro rispettivamente per 113 mila e 165 mila euro. Notevole anche il caso di Raffaele Bonanni. Il segretario della Cisl ha conquistato nel 2005 un grande appartamento dell'Inps al sesto piano in via del Perugino, nel cuore del quartiere Flaminio: otto vani a 201 mila euro. Con quella cifra in zona si compra solo un garage.

L'anno scorso ha fatto il colpo del secolo anche l'ex ministro e deputato della Margherita siciliana Totò Cardinale. In via degli Avignonesi, una strada bellissima tra il Tritone e via Veneto, ha messo le mani su un terzo piano da otto vani con affaccio su via delle Quattro Fontane : un gioiellino da due milioni sul mercato libero portato via per 844 mila euro. L'ultimo è stato Franco Marini. Il presidente del Senato ha stipulato il rogito il 23 aprile scorso. Un milione di euro per aggiudicarsi la casa assegnata alla moglie dall'Inpdai in via Lima: due livelli per 14 vani nel cuore dei Parioli.

Se Marini è il politico che ha pagato il prezzo più alto (per una casa che vale comunque il doppio) l'oscar del rapporto qualità-prezzo spetta al senatore UdcFrancesco Pionati. L'uomo che ha sfornato per anni pastoni per i telespettatori del Tg1 ha comprato un attico e superattico da favola in via Traversari. L'appartamento è aggrappato alla collina di Monteverde ed è affacciato su Trastevere. Grazie al solito doppio sconto ha speso un'inezia. L'allora mezzobusto del Tg uno aveva fatto ricorso al Tar per ridurre ulteriormente la valutazione e in Parlamento gli amici dell'Udc avevano presentato pure un'interrogazione parlamentare per contestare il prezzo esorbitante: 509 milioni di lire nel 2001 per 10 vani con doppia terrazza. Sì, un prezzo veramente scandaloso

 

Uno studio choc pubblicato dal quotidiano inglese The Guardian: il rebus biocarburi
Il cambio di destinazione provoca l'aumento dei costi delle derrate

Il mondo rischia di finire il cibo
Troppi campi dedicati al biofuel

Meno prodotti agricoli, sempre più cari. Aggiungete carenza d'acqua
disastri naturali e sovrappopolazione: è la ricetta per il disastro
ENRICO FRANCESCHINI

LONDRA - Da anni viviamo con l'incubo del riscaldamento globale. Ma un'altra minaccia, ancora più immediata, potrebbe essere la fame globale: sempre meno prodotti alimentari disponibili, sempre più cari, contesi da una popolazione terrestre sempre più grande, in un periodo già reso critico da risorse idriche sempre più scarse e da un clima sempre più imprevedibile. "La fine del cibo", riassume il titolo del Guardian di Londra, puntando il dito contro un fenomeno che sta accelerando il deficit alimentare: sempre più terre, in America e in Occidente ma anche nel resto del pianeta, finora utilizzate per coltivare prodotti agricoli, adesso vengono adibite alla coltivazione di biocarburi, come l'etanolo e altri carburanti "puliti", sia per ridurre l'inquinamento atmosferico, sia per ridurre la dipendenza dall'energia petrolifera di un esplosivo e instabile Medio Oriente. E' questo, sostengono gli esperti, il fattore scatenante dell'aumento dei prezzi del cibo. Aggiungendovi il declino delle acque, i disastri naturali e la crescita della popolazione, ammonisce il quotidiano londinese, si arriva a "una ricetta per il disastro".

Lester Brown, presidente della think-tank Worldwatch Institute e autore del best-seller "Chi sfamerà la Cina?", presenta così la questione: "Siamo di fronte a un'epica competizione per le granaglie tra gli 800 milioni di automobilisti del pianeta e i due miliardi di poveri della terra". Come in quasi tutte le sfide tra ricchi e poveri, non è difficile immaginare chi la stia vincendo.

Esortati dal presidente Bush a produrre entro dieci anni un quarto dei carburanti non fossili di cui necessitano gli Stati Uniti, migliaia di agricoltori americani stanno trasformando il "granaio d'America" in una immensa tanica di biocarburi. L'anno scorso già il 20 per cento del raccolto di granoturco Usa è stato usato per la produzione di etanolo, i cui stabilimenti raddoppiano di anno in anno. Una politica analoga è in corso un po' ovunque, dall'Europa all'India, dal Sud Africa al Brasile. Diminuendo la terra destinata alla coltivazione di grano, il prezzo del frumento è aumentato del 100 per cento dal 2006, e ciò sta portando ad aumenti da record dei prezzi dei generi di prima necessità: pane, pollo, uova, latte, carne.

Ad accrescere le preoccupazioni del dottor Brown c'è il boom demografico ed economico di Cina e India, i due giganti in cui vive il 40 per cento della popolazione mondiale: anche perché cinesi ed indiani stanno abbandonando la loro tradizionale dieta ricca di verdure a favore di un'alimentazione più "americana", che contiene più carne e latticini. Non tutti condividono gli scenari catastrofici. "Il Brasile ha 3 milioni di chilometri quadrati di terra arabile, di cui solo un quinto è attualmente coltivato e di cui solo il 4 per cento produce etanolo", dice il presidente brasiliano Lula. Ma le Nazioni Unite calcolano che la richiesta di biocarburi aumenterà del 170 per cento solo nei prossimi tre anni. Ci sarà abbastanza cibo per tutti? O presto verrà il giorno in cui dovremo scegliere tra una pagnotta e un pieno di biocarburi per la nostra auto?

 

In vista del congresso del Partito comunista chiedono stampa libera
e scarcerazione dei prigionieri politici: non accadeva da Tienanmen

Cina, la rivolta degli intellettuali
L'appello: "Vogliamo democrazia"

dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI

<B>Cina, la rivolta degli intellettuali<br>L'appello: "Vogliamo democrazia"</B>Una parata in piazza Tienanmen
PECHINO - La Cina democratica esiste e non ha paura di sfidare il regime autoritario. Ieri il movimento per i diritti civili è uscito allo scoperto con un'iniziativa clamorosa, lanciata non appena il partito comunista ha convocato il suo prossimo congresso nazionale. Subito dopo che l'agenzia stampa Nuova Cina ha divulgato la data del congresso (15 ottobre), più di mille personalità hanno reso nota una lettera aperta al presidente della Repubblica e segretario generale del partito, Hu Jintao. I firmatari chiedono la liberazione immediata dei prigionieri politici e la libertà di stampa, come condizione per "creare una nuova immagine del paese".

"Secondo la Costituzione della Repubblica popolare - si legge nell'appello pubblico - il partito comunista si è impegnato solennemente a governare il paese come uno Stato di diritto, rispettando i diritti umani. In realtà la polizia e la magistratura sotto il comando del partito hanno continuato ad arrestare e condannare scrittori, giornalisti, avvocati e militanti democratici negli ultimi tre anni, per reati d'opinione, di parola, e per l'espressione di idee politiche".

La lettera aperta naturalmente è stata censurata da tutti i mezzi d'informazione e la massa dei cittadini cinesi non ne verrà mai a conoscenza. Tuttavia l'ampiezza del numero dei firmatari è significativa. Era dai tempi del movimento di Piazza Tienanmen (primavera 1989) che non si manifestava un fronte così ampio per chiedere al regime le riforme politiche e le libertà individuali.

La coraggiosa iniziativa ha coinciso ieri con l'ultimo giorno della visita a Pechino del cancelliere tedesco, Angela Merkel. A differenza del suo predecessore Gerard Schroeder che coi cinesi parlava solo di affari, la Merkel ha dato alla sua visita una forte impronta di impegno sui diritti umani. Ha incontrato un gruppo di giornalisti dissidenti, tra cui il celebre Li Datong, che fu licenziato dalla direzione del Quotidiano della Gioventù per non essere abbastanza "in linea" con Hu Jintao.

In un discorso pubblico prima di partire la Merkel ha dichiarato che "in preparazione delle Olimpiadi di Pechino del 2008 il mondo guarda alla Cina con un'attenzione senza precedenti. Resta da verificare come la Cina si presenterà a quell'appuntamento, sul terreno della libertà di espressione e della libertà di stampa. I diritti umani sono cruciali per la percezione della Cina in Germania".

Gli oltre mille firmatari dell'appello a Hu Jintao hanno voluto sfruttare la "finestra di opportunità" dei Giochi. Con l'avvicinarsi delle Olimpiadi, che il regime ha inteso sfruttare per consacrare definitivamente la sua rispettabilità internazionale, i dissidenti sperano di ottenere più attenzione nel resto del mondo. I promotori della lettera aperta si augurano che al prossimo congresso possa emergere un'ala riformista del partito, quella componente democratica che prima del massacro di Piazza Tienanmen aveva autorevoli esponenti anche al vertice della nomenklatura.

Il 17esimo congresso sarà un evento cruciale per gli equilibri di potere interni al regime. Hu Jintao, insieme con il fedele premier Wen Jiabao, si è preparato con cura negli ultimi anni. Da una parte Hu ha consolidato l'influenza di una nuova generazione di cinquantenni nei ruoli chiave della nazione. Questa leva di dirigenti ha quasi sempre una formazione tecnocratica, talvolta cosmopolita. Non solo Hu e Wen sono ingegneri, ma nell'ultimo rimpasto di governo hanno cooptato un ministro degli Esteri che ha studiato alla London School of Economics, e un ministro della ricerca scientifica laureato in Germania e con una lunga carriera nel management tedesco della Audi.

Un'altra caratteristica che unisce molti dirigenti della nuova generazione è la provenienza dalle file della Gioventù comunista di cui Hu Jintao fu a lungo il segretario generale. D'altra parte il numero uno del regime non ha esitato a usare metodi molto antichi per rafforzarsi, come le inchieste giudiziarie sulla corruzione, che hanno sistematicamente epurato esponenti del vecchio clan legato al precedente presidente Jiang Zemin, come il sindaco di Shanghai arrestato l'anno scorso.

L'ideologia di questo gruppo dirigente è stata enunciata con chiarezza da Hu Jintao negli ultimi tre anni. Sul fronte politico, nessuna concessione alle "concezioni occidentali della democrazia". Sul fronte economico Pechino punta a una moderata svolta in senso "socialdemocratico", riequilibrando la crescita in favore dei ceti più poveri e delle campagne, e riducendo i costi ambientali dello sviluppo. Ma finora queste ambizioni sono irrealizzate.

Una delle ragioni è proprio il rifiuto di affrontare la questione della democrazia. Senza i contrappesi di uno Stato di diritto la corruzione dilaga e i clan di potere locali disattendono le direttive del governo. Sul fronte dell'informazione l'approssimarsi del Congresso e delle Olimpiadi ha segnato addirittura una stretta del controllo autoritario. Sono state inasprite le leggi sulla censura di Internet e proprio da ieri è entrata in funzione una nuova cyber-polizia: immagini animate di poliziotti in divisa appaiono all'improvviso sugli schermi dei computer, per ammonire gli utenti a non visitare siti proibiti.

 

 

31 agosto

Le agende d'oro del Senato

Pera Ci sono due notizie sulle spese del Senato. Una buona e una cattiva. Entrambe riguardano un gadget che sa di privilegio: l'agenda che viene regalata a Natale, con il prestigioso logo di Palazzo Madama e che i rappresentanti eletti dal popolo donano a nostre spese. Quella buona è che grazie a una gara europea le rubriche del 2008 costeranno molto meno. Si risparmieranno 50 mila euro rispetto al 2007 e ben mezzo milione di euro rispetto al 2006. E' bastato fare quello che andrebbe sempre fatto, cioè evitare le trattative private, perchè le agendone da tavolo calassero da 33 euro a 14,20 mentre quelle piccole dimagrissero da 20,28 euro a 6,96. Ottimo.

La cattiva notizia è quanto il contribuente spreca per questo rituale. Il parco 2008 prevede un  esborso di 258.572 euro, mentre nel 2005 durante la presidenza di Marcello Pera erano stati buttati via ben 744.156 euro. Pensate: un miliardo e mezzo di vecchie lire soltanto per il cadeaux di fine anno. Ma i senatori potrebbero fare ancora di più. E concedere un regalo di natale a tutti gli italiani: rinunciare alle agende. Con quei soldi si potrebbe ripulire un'area archeologica. O modernizzare un reparto d'ospedale. O attrezzare un parco pubblico. Piccoli gesti, che sarebbero almeno un segnale di buona volontà per l'anno nuovo. 

 

Svimez: tra chi è emigrato al Nord accade solo nel 12% dei casi
Quasi inutile il collocamento. Nel Settentrione più contratti a termine

Nel Meridione un laureato su 4
trova lavoro solo per conoscenza

<B>Nel Meridione un laureato su 4<br>trova lavoro solo per conoscenza</B>
ROMA - Nel Sud un laureato su quattro trova lavoro, entro tre anni dalla tesi, grazie a canali "informali". Vale a dire, grazie alle conoscenze. Cosa che accade invece solo al 12 per cento dei ragazzi che si sono trasferiti a Nord per studiare. Lo rilevano le anticipazioni di uno studio di Margherita Scarlato che sarà pubblicato sul prossimo numero della Rivista Economica del Mezzogiorno, trimestrale della Svimez, Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno.

Nel Sud, infatti, laurearsi è importante, si legge nel rapporto, ma "se si proviene dalla famiglia 'giusta', non solo perché ricca ma pure perché inserita in un reticolo di rapporti sociali". Infatti i canali più utilizzati dai neo-laureati restano la conoscenza diretta, la segnalazione da parte di parenti o amici oppure la prosecuzione di un'attività familiare.

Immobilità sociale. Tuttavia la "raccomandazione" non ha solo conseguenze positive (trovare un posto): i "canali informali", infatti, funzionano bene su scala locale, e di solito in piccole imprese o per ruoli modesti. Chi entra nel mondo del lavoro per conoscenze rischia dunque di non fare carriera, anche perché i posti "alti" sono occupati da chi ha alle spalle famiglie più forti. E questo spiega perché la mobilità sociale è bassa: nel Mezzogiorno il 72 per cento dei lavoratori è "immobile", non avanza cioè professionalmente.

Canale fisiologico o patologia. Ma dare lavoro a qualcuno per conoscenza è giusto o sbagliato? Dipende, spiega lo studio. Le reti informali, infatti, sono "un canale fisiologico per rendere più fluido l'incontro tra domanda e offerta". Ma diventano un "problema patologico quando le credenziali del sistema scolastico e universitario sono poco utilizzabili dai datori di lavoro ai fini della valutazione dei giovani".

Collocamento. La conoscenza al Sud sembra però funzionare molto più degli altri metodi per iniziare a lavorare. Gli ultimi dati disponibili risalgono al 2004: allora il 15 per cento dei giovani ha fatto un concorso pubblico per trovare un impiego. Solo per una piccola percentuale il collocamento è servito a qualche cosa. Le società private hanno rimediato un posto a un esiguo 2,3 per cento, peggio ancora sono andate le liste pubbliche: utili solo nell'1,7 per cento dei casi.

Per tutti gli altri resta la "spintarella". Fondamentale è la famiglia che si ha alle spalle: per i nuclei dei ceti sociali più bassi, rileva lo studio, l'investimento negli studi universitari può essere rischioso. "La laurea - si legge nel rapporto - riduce il rischio che lo studente resti disoccupato, ma non riduce il rischio di trovare un'occupazione mal retribuita".

Nord e Sud. Inoltre restare in un luogo "protetto", evitando di allentare i legami familiari e di conoscenze, aiuta a puntare a un contratto a tempo indeterminato. Tra chi è emigrato al Nord si registra infatti la percentuale maggiore di contratti a termine: il 60,3 per cento contro il 41,7. E chi ha lasciato il Meridione risalendo la penisola corre anche maggiori rischi di lavorare senza contratto: si tratta dello 0,9 per cento dei casi contro lo 0,3.

Chi va al Nord, infatti, spesso lo fa proprio perché "l'emigrazione offre un'alternativa alla ricerca di una protezione locale". Chi non ha "agganci" dove è nato, dunque, cerca di farsi una carriera altrove. Anche se, fa notare lo studio, spesso si continuano a usare "le norme e le reti sociali di origine poiché il processo di apprendimento di codici nuovi di comportamento è lento".

 
La storia dei due anarchici è stata ripresa da cinema e teatro
La loro morte, 80 anni fa, è destinata a rimanere nella nostra mente

Sacco e Vanzetti, una sporca faccenda
nell'America della pena capitale

<B>Sacco e Vanzetti, una sporca faccenda<br>nell'America della pena capitale</B>

Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti

di ANDREA CAMILLERI
Il secolo che ci siamo lasciati alle spalle appena sette anni fa è stato brillantemente descritto dallo storico britannico Eric Hobsbawm "il secolo breve". Una definizione forse più esatta, però, sarebbe "il secolo compresso", perché mai un periodo di 100 anni ha visto così tante guerre mondiali, così tanti progressi scientifici e tecnologici, così tante rivoluzioni, così tanti eventi epocali ammonticchiati l'uno sull'altro. Il secolo passato sembra come una valigia troppo piccola per contenere tutto quello che è successo: è troppo piena di vestiti vecchi, e ce ne sono alcuni che ci impediscono di chiuderla e metterla via in soffitta una volta per tutte. Uno di questi è il caso di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. Nel secolo trascorso, milioni di uomini e donne sono morti in guerre, epidemie, genocidi e persecuzioni, e purtroppo la loro memoria corre serissimo rischio di scomparire.

Eppure la morte di Sacco e Vanzetti sulla sedia elettrica 80 anni fa, così come la morte di John e Robert Kennedy sotto i proiettili dei killer, sono destinate a rimanere nella nostra mente.

Forse perché, come per i fratelli Kennedy, troviamo ancora difficile accettare le ragioni, o la mancanza di ragioni, della loro morte. E in Italia, dove l'omicidio insensato (o fin troppo sensato) è stato per lungo tempo un elemento del panorama politico, questo disagio lo si avverte con asprezza.

Nel caso di Sacco e Vanzetti, sembrò subito chiaro a molti, in Europa e negli Stati Uniti, che il loro arresto, nel 1920 - inizialmente per possesso di armi e materiale sovversivo, poi con l'accusa di duplice omicidio commesso nel corso di una rapina nel Massachusetts - i tre processi che seguirono e le successive condanne a morte erano pensati per dare, attraverso di loro, un esempio. E questo nonostante la completa mancanza di prove a loro carico, e a dispetto della testimonianza a loro favore di un uomo che aveva preso parte alla rapina e che disse di non aver mai visto i due italiani.

La percezione era che Sacco, un calzolaio, e Vanzetti, un pescivendolo, fossero le vittime di un'ondata repressiva che stava investendo l'America di Woodrow Wilson. In Italia, comitati e organizzazioni contrari alla sentenza spuntarono come funghi non appena essa fu annunciata. Quando la sentenza fu eseguita, nel 1927, il fascismo era al potere in Italia da quasi cinque anni e consolidava brutalmente la propria dittatura, perseguitando e imprigionando chiunque fosse ostile al regime, inclusi naturalmente gli anarchici. Eppure, quando Sacco e Vanzetti furono giustiziati, il più grande quotidiano italiano, il Corriere della sera, non esitò a dedicare alla notizia un titolo a sei colonne. In bella evidenza tra occhielli e sottotitoli campeggiava un'affermazione: "Erano innocenti".

Non c'è probabilmente un solo quotidiano italiano che non abbia dedicato un articolo a questo caso, ogni 23 agosto, dal 1945 a oggi.

Nel 1977 fu dato grande risalto alla notizia che Michael Dukakis, all'epoca governatore del Massachusetts, aveva riconosciuto ufficialmente l'errore giudiziario e aveva riabilitato la memoria di Sacco e Vanzetti.

In Italia, la loro storia diventò il soggetto di uno spettacolo teatrale, che ebbe grande successo prima di venire trasformato, nel 1971, in un bellissimo film, diretto da Giuliano Montaldo, con splendide interpretazioni e una colonna sonora di Ennio Morricone, che comprendeva anche canzoni di Joan Baez. (Anche l'album di Woody Guthrie, Ballads of Sacco and Vanzetti, del 1960, ebbe un grande successo in Italia.). E nel 2005, la Rai, la televisione pubblica italiana, ha prodotto un lungo programma sui due italiani giustiziati. (Stranamente, per qualche ragione, la Rai non ha mai trasmesso, nonostante ne abbia acquisito i diritti molto tempo fa, The Sacco-Vanzetti Story, un film per la televisione girato nel 1960 da Sydney Lumet.)

E adesso un sito italiano ospita una vivace discussione sul caso dei due anarchici. Uno dei tanti partecipanti al dibattito scrive: "L'unica colpa di quei poveracci era di lottare contro il razzismo e la xenofobia".

E un altro: "Che cosa è cambiato? La pena di morte in America esiste ancora, certe volte perfino per degli innocenti, e il razzismo e la xenofobia sono in aumento". E un terzo: "È impossibile fare paragoni fra quel periodo e questo. Oggi i tribunali fanno errori, errori gravi, ma comunque errori, mentre allora fu commesso un omicidio bello e buono, a fini esclusivamente politici. E anche se il razzismo è ancora vivo e vegeto negli Stati Uniti, sono stati fatti grandi passi avanti". Infine, una conclusione: "Fu una faccenda sporca in un'epoca difficile".

Una faccenda sporca davvero se gli italiani, solitamente indulgenti verso la terra che ha accolto così tanti loro concittadini bisognosi che partivano emigranti, ci si soffermano ancora, dopo tutti questi anni. Il dibattito, a quanto sembra, è tuttora in corso. Un segnale, forse, che la ferita non si è ancora cicatrizzata. E che ancora, per quanto ci sforziamo, non riusciamo a chiudere quella valigia.

 
I manovali dell'autodistruzione

di MICHELE SERRA

<B>I manovali dell'autodistruzione</B>

La costa tirrenica della Sicilia in fiamme

Sul Sud che brucia per mano di alcuni suoi scellerati abitanti si è già detto tutto o quasi. Che la colpa è di interessi speculativi e malavitosi legati all'edilizia; di leggi buone ma tanto per cambiare inapplicate o inapplicabili; di cascami di una cultura agropastorale riottosa ai rimboschimenti; di mezzi di spegnimento mai abbastanza poderosi e moderni a fronte della progressione geometrica dei fronti di fuoco; del clima che rinsecchisce la Terra. Addirittura di qualche giovane idiota che appicca le fiamme per svago, divertimento congenere ai sassi dai cavalcavia.

Ma nessuna di queste ragioni, tutte purtroppo verosimili e molte già verificate, basta a spiegare una catastrofe così reiterata e sadica. Lo scarto tra i famosi "interessi speculativi" e lo scempio del tessuto ambientale e sociale è infatti così macroscopico, così mostruosamente empio, da far venire in mente piuttosto categorie psichiatriche: pazzia, istinto di autodistruzione, voglia di morte. Se un consesso umano è un organismo, potrà bene ammalarsi come un singolo individuo.

Nessuna persona sana di mente, per quanto disonesta o avida, vorrebbe ridotti in cenere il suo paese, le sue case, la sua gente, la sua terra, nel nome di qualche suo progettino commerciale. Per bruciare un pezzo di Italia con tanta determinazione, in più punti, profittando vigliaccamente del vento che moltiplica i focolai, bisogna avere perduto ogni nesso logico tra le proprie ambizioni, qualsiasi siano, e la realtà della vita. Non c'è mancanza di coscienza ecologica o di rispetto ambientale che possa davvero spiegare l'intenzione dei piromani, che non rimanda a una "normale" volontà criminale, o a una volgare indifferenza per la collettività e il paesaggio, quanto a una sorta di soluzione finale.
Terra bruciata. Esseri umani carbonizzati, boschi distrutti, attività economiche abortite, turismo in ginocchio, case abbandonate, campi improduttivi, pubblicità nefasta che fa il giro del mondo: come può tutto questo rientrare in una partita di giro economica, in un cinico calcolo su rimborsi e modifiche di piani regolatori? Siamo abituati (o rassegnati) a spiegare tutto con l'economia, che è diventata la sola disciplina in grado di mettere d'accordo il basso e l'alto, intellettuali e popolo, a scapito di vecchie scienze umane come l'antropologia o la psichiatria. Ma guardando i telegiornali, leggendo i giornali, ascoltando i racconti dei superstiti, passando lo sguardo su quelle ustioni che hanno preso il posto degli alberi, degli uomini e delle bestie, qualcosa ci dice che l'analisi non è completa, che il "cui prodest" pan-economico non basta più a entrare nel cuore di un crimine così spaventoso e funereo.

Di opinioni sentenziose e spesso para-razziste sulla deriva sociale inarrestabile del Mezzogiorno italiano se ne sono sentite a iosa. E anche, di contro, altrettante autogiustificazioni pietistiche e puerili, con la gnola secolare sullo "Stato che non fa abbastanza". (Ma lo Stato, questa volta, ha mandato l'esercito. Massima solennità simbolica, speriamo quasi altrettanta efficacia repressiva). Ma il mistero di una psicologia civile così autolesionista, di una comunità così ricca di risorse e qualità e così permeabile dal crimine, dalla sopraffazione, dal macello sociale, in questo caso perfino dall'autodistruzione, esiste e soprattutto resiste.

"Non si riesce a capire", in questo come in altri casi "non si riesce a capire" come fermare il fuoco che consuma questo pezzo meraviglioso e orrendo del nostro Paese, e si capisce soltanto che il groviglio è tutto interno a quella società e quei luoghi, che i soli in grado di spegnere le fiamme non sono i Canadair, non è "lo Stato" (che è quello che è anche perché assomiglia terribilmente ai suoi cittadini: e in questo caso, comunque, non appicca il fuoco ma si danna per spegnerlo), sono le persone che lì abitano, lì sognano e lì patiscono. I piromani hanno parenti, amici, figli a scuola, vanno negli stessi bar di chi ieri fuggiva terrorizzato, evacuava ospedali e abitazioni, malediceva la sorte. Un senso, una spiegazione (anche immateriale e terribile come una forma di follia sociale irrefrenabile) ci dovrà pure essere, e non è lo Stato che può, da solo, risolvere la faccenda come un Santo patrono. La faccenda è nelle mani di chi è costretto a camminare sulla cenere. Di chi viene considerato da suoi concittadini come stoppie da bruciare, rifiuti da eliminare, piccoli ingombri umani sulla terra calva.

 
La lesbica iraniana che Londra vuole cacciare
l'espulsione rinviata solo di pochi giorni

Salviamo Pegah dalla lapidazione

di JOHN LLOYD

<B>Salviamo Pegah dalla lapidazione</B>

Pegah Emambakhsh

LAPIDARE un uomo o una donna fino a farli morire può richiedere molto tempo, specialmente se coloro che scagliano le pietre desiderano di proposito prolungarne l'agonia. Il colpo di grazia alla testa, in grado di portare a uno stato di incoscienza o alla morte, può farsi attendere anche un'ora, mentre le pietre di piccole dimensioni che provocano contusioni sono rimpiazzate poco alla volta da pietre di dimensioni maggiori in grado di frantumare gli arti. Soltanto quando il corpo è in agonia in ogni sua parte può sopraggiungere la morte.

Questa è la sorte che potrebbe attendere Pegah Emambakhsh, una donna iraniana di quaranta anni, il cui crimine è quello di essere lesbica. Pegah Emambakhsh ha trovato rifugio nel Regno Unito nel 2005, in seguito all'arresto, alla tortura e alla condanna a morte per lapidazione della sua partner sessuale (non è chiaro, ad ogni buon conto, se la sentenza è stata eseguita o lo sarà in futuro). La sua domanda di asilo però è stata respinta: secondo l'Asylum Seeker Support Initiative di Sheffield, dove Pegah si trova rinchiusa in un centro di detenzione, quando le è stato chiesto di fornire le prove della sua omosessualità e lei non ha potuto farlo, le è stato riferito che doveva essere deportata. L'estradizione, che doveva avvenire oggi, all'ultimo momento è stata rinviata al 28 agosto: alla fine del mese potrebbe essere già morta.

La Repubblica Islamica Iraniana, si legge in un recente rapporto, è "più omofobica di qualsiasi altro paese al mondo o quasi. La tortura e la condanna a morte di lesbiche, gay e bisessuali, caldeggiate dal governo e contemplate dalla religione, fanno sì che l'Iran sembri agire in barba a tutte le convenzioni sottoscritte a livello internazionale in tema di diritti umani".

Leggere il rapporto, redatto da Simon Forbes dell'organizzazione londinese Outrage, è terribile: vi si leggono storie di giovani uomini e giovani donne perseguitati, arrestati, picchiati, torturati e giustiziati - spesso con soffocamento lento - per avere avuto rapporti omosessuali.

Il brutale giro di vite nei confronti dei gay iraniani - gruppo che non ha mai goduto di grande supporto nel suo stesso paese - è iniziato dopo il 1979 e l'arrivo al potere del regime religioso ispirato dall'Ayatollah Khomeini. All'epoca gli omosessuali colti in flagranza o sospettati di essere gay erano impiccati agli alberi sulla pubblica piazza. In linea di massima si trattava di uomini, ma non mancavano le donne. A quei tempi i diritti degli omosessuali non erano una causa granché popolare da nessuna parte e il nuovo regime, ispirato da un genere di fondamentalismo islamico che non poneva limiti al proprio radicalismo e che addossava a Stati Uniti e Occidente la responsabilità di tutti i suoi mali, non vedeva necessità alcuna di dissimulare le proprie azioni. Tutto ciò è andato avanti fino alla fine degli anni Ottanta, quando i diritti dei gay hanno riscosso ovunque maggiore comprensione: le proteste internazionali hanno iniziato a moltiplicarsi e il regime, preoccupato in maggior misura per la propria immagine a livello internazionale, è diventato meno radicale e ha posto fine a queste dimostrazioni.

Ciò non significa che le esecuzioni fossero cessate. Il 19 luglio 2005 due adolescenti gay della città iraniana di Mashhad sono stati impiccati in pubblico, giustiziati con un lento strozzamento. Sono stati condannati a morte per il fatto di essere gay. Le autorità li avevano accusati di aver rapito e stuprato un minore, ma a loro carico non è mai stata prodotta alcuna prova. La comunità gay iraniana e i gruppi di difesa dei diritti umani non hanno mai creduto alle accuse ufficiali. La loro condanna a morte è servita a rammentare a tutti che l'omosessualità, nell'Iran di Ahmadinejad, è tuttora considerata un reato punibile con la condanna a morte. Per gli uomini o le donne sposate la condanna a morte è eseguita tramite lapidazione, perché nel loro caso il reato è considerato più grave. (Pergah, che ha due figli, ha dovuto contrarre un matrimonio organizzato).

Quantunque negli ambienti della middle-class di Teheran una certa discreta attività gay sia ancora possibile, il rischio - estremo, di morte - lo si corre sempre. Il rapporto di Outrage così commenta: "Affermare che per gli omosessuali del 2006 alcune zone dell'Iran sono più sicure di altre equivale ad affermare che per gli ebrei del 1935 alcune zone della Germania erano più sicure di altre".

Deportare una donna sulla quale incombe una morte tramite lenta agonia per il fatto di esercitare le proprie preferenze sessuali non è azione degna di uno Stato civile: non possiamo che augurarci che le autorità britanniche facciano dietrofront. Una speranza ancora c'è: uno dei membri del Parlamento dell'area di Sheffield dove vive oggi Pegah, Richard Carbon, Ministro dello Sport, alcuni giorni fa ne aveva bloccato la deportazione e le autorità l'hanno rinviata a domani sera. Le associazioni gay hanno diffuso la notizia in tutto il mondo e i media di molti paesi, Italia inclusa, hanno sollevato il caso.

Per la Gran Bretagna in tutto ciò vi è un triste paradosso: essa è stata e rimane il rifugio di molti musulmani che professano apertamente di odiarla, in parte proprio per le sue opinioni relativamente liberali in fatto di omosessualità, e per le sue leggi sui diritti umani. Alcuni musulmani, accusati di istigare al terrorismo, sono stati deportati, la stragrande maggioranza no. Eppure, adesso una donna che in Gran Bretagna ha trovato salvezza da una pena efferata e che ha fatto appello alle autorità perché le considerava tolleranti, potrebbe essere rispedita indietro e, di fatto, mandata a morire. Deportare Pegah Emambakhsh non sarebbe semplicemente un'ingiustizia: sarebbe indegno di uno Stato civile.

 

Consulenti d'oro

di Marco Lillo
Un miliardo e mezzo l'anno speso da Stato e regioni per incarichi inutili. Concesso ad amici, politici, faccendieri. E Palazzo Chigi frena la trasparenza. La rete dello spreco
Una seduta della Corte dei Conti
Una città di 261 mila abitanti, tanti sono i consulenti esterni della nostra pubblica amministrazione. Una massa enorme che succhia ogni anno un miliardo e mezzo di euro dalle casse pubbliche. Architetti, ingegneri, avvocati, commercialisti, ma anche personaggi in cerca di contratto senza alcuna competenza, figli di ministri, amanti, clienti e famigli, portatori di voti, politici trombati e manager arrestati. Tutti in fila per incassare la loro fetta della grande torta. Il ministero della Funzione pubblica tra poche settimane presenterà in Parlamento la sua relazione sugli incarichi. 'L'espresso' è in grado di anticiparne il contenuto. A leggere le tabelle, riferite al 2005, ultimo anno censito, c'è da restare a bocca aperta.

I consulenti esterni sono 156 mila e 500, la popolazione di un capoluogo di regione come Cagliari, vecchi e bambini compresi, a cui vanno aggiunti i 105 mila pubblici dipendenti che eseguono prestazioni extra per altri enti fino ad arrivare a un totale di 261 mila persone. Una città grande come Venezia che galleggia sulla spesa pubblica. Basterebbe abolire le consulenze e si potrebbe rimborsare l'imposta sulla prima casa a due italiani su tre. Ma non si può. Il fenomeno è ormai strutturale: nulla riesce a combatterlo. Rispetto al 2004 la spesa è ferma a 1 miliardo e 500 milioni di euro. E anche se gli incarichi sembrerebbero diminuire, il condizionale è d'obbligo: i burocrati tardano nel consegnare gli elenchi degli ingaggi e quasi sempre il dossier finale lievita di mese in mese, con rialzi di centinaia di milioni.

La spesa per gli incarichi esterni è ormai una montagna difficile da ignorare anche per la politica italiana. La Finanziaria del 2005 aveva posto dei limiti precisi al potere discrezionale degli amministratori, poi erano intervenuti il ministero con una circolare e la Corte dei Conti. La Procura Regionale del Lazio, quella competente sugli organi centrali, ha dato un segnale inequivocabile, mettendo all'indice i vertici di 14 colossi pubblici. Si va dall'ex commissario dell'Unire, l'ente delle razze equine, al quale sono stati contestati 147 mila euro , fino alle consulenze elargite dai tre ultimi ministri della giustizia: Fassino, Diliberto e Castelli. Dal direttore generale dell'Istruzione, sotto accusa per 90 mila euro di parcelle, all'Asi, l'Agenzia spaziale italiana, che avrebbe mandato in orbita assegnazioni illegittime per un totale di 381 mila euro.


Chi non pubblica paga
L'onda però è proseguita ignorando anche i fulmini della magistratura contabile, fino a quando i senatori della Sinistra democratica, Cesare Salvi e Massimo Villone, hanno tirato fuori dal cilindro un'arma letale contro le consulenze facili dello Stato. Un comma inserito nella manovra per il 2007, che rappresenta una miccia accesa nel sottobosco della politica: "Nessuna consulenza può essere pagata se non sia stata resa nota, con tanto di nome e compenso, sul sito Web dell'amministrazione". E se l'incarico non viene pubblicizzato, scatta una punizione micidiale: chi ordina il pagamento e chi ne beneficia deve restituire i soldi di tasca sua.
 

La Farnesina
Sembrava l'uovo di Colombo, in grado di trasformare il Palazzo in una casa di vetro. Tutti avrebbero saputo in tempo reale con un click i nomi dei 223 consulenti delle agenzie fiscali, dei 14 mila uomini d'oro della sanità e soprattutto dei 4 mila e 563 prescelti dai ministeri. Purtroppo, l'Eden della trasparenza telematica non si è realizzato. Cavilli, circolari e ricorsi burocratici hanno depotenziato l'arma letale. E alla fine più della metà dei ministeri ha mantenuto il silenzio. Nella lista dei buoni figurano Funzione pubblica, Comunicazioni, Interno, Solidarietà sociale, Commercio estero, Salute, Sviluppo economico, Attuazione del programma, Affari regionali, Economia. Mentre tra i bocciati troviamo a sorpresa un paladino della lotta alle consulenze fasulle come Alfonso Pecoraro Scanio. Il ministero degli Esteri, pur non avendo ancora sul sito la lista, non ha avuto difficoltà a consegnarla a 'L'espresso', come hanno fatto anche l'Enav, l'Unire e l'Aams. Va detto però che il cattivo esempio viene dall'alto. I dipartimenti e gli uffici di Palazzo Chigi non hanno ancora pubblicato l'elenco dei consulenti. "Ma nel frattempo", spiega il segretario generale Carlo Malinconico, "i pagamenti degli incarichi conferiti dopo la finanziaria del 2007 sono sospesi".

I beneficiati
Chi è sul Web invece può incassare. Ed ecco spuntare una lista infinita di avvocati, ingegneri, commercialisti, architetti o semplici ragionieri. Pochi i nomi noti. Come Pellegrino Mastella, figlio del Guardasigilli e consulente di Bersani allo sviluppo economico per 32 mila euro. Nelle liste dell'Inpdap spunta il manager informatico Elio Schiavi. Chi è? Secondo Visco è stato una vittima dello spoils system di Tremonti. E Schiavi, definito dal viceministro diessino "l'inventore del fisco telematico", potrà consolarsi con un contratto da 150 mila euro. Alla Farnesina si segnala invece il rientro sulla scena dell'ex procuratore di Roma Vittorio Mele. Sottoposto a procedimento disciplinare nel 1998 per i suoi rapporti disinvolti con il re delle cliniche Luigi Cavallari, Mele aveva lasciato la magistratura evitando il giudizio del Csm. Ha appena firmato un contratto da 24 mila euro per quattro mesi e mezzo. Altri 25 mila euro andranno invece a Giovanni Lombardi, rappresentante dei Ds nel consiglio degli italiani all'estero, per progettare il museo dell'emigrazione.

Le Poste pubblicano la lista più completa: 194 gli incarichi e un paio di curiosità: i 200 mila euro a Maurizio Costanzo e gli 8 mila euro a Giovanni Floris. Gran parte dei soldi però vanno agli studi legali, come quello dell'onorevole di An Giuseppe Consolo (126 mila euro per il 2007) o quello fondato da Giulio Tremonti che ha preso 25 mila euro. L'Anas invece mostra un profilo fin troppo basso. Stando alle striminzite comunicazioni del sito, avrebbe speso finora poco più di 400 mila euro per sei incarichi. Una carestia rispetto ai 41 milioni del 2003 e ai 20,4 milioni dell'ultimo anno. Dov'è finita l'azienda sprecona che regalava 2 milioni e mezzo di euro in consulenze come buonuscita ai consiglieri? Basta fare un paio di verifiche per scoprire che il lupo cambia colore politico ma non il vizio. Sul sito non appare, per esempio, l'ingaggio da 100 mila euro all'ex consigliere Alberto Brandani, vicino all'Udc. Perché? Risposta burocratica: la commissione di cui fa parte è anteriore alla nuova legge. Esemplare la vicenda di Giuseppe D'Agostino. Un collaboratore da 50 mila euro l'anno, ignorato nella lista pubblica, ma attivo in tutto il mondo, dove incontra ministri per conto dell'Anas. In Moldavia ha presentato un accordo, seduto accanto al premier, per rifare tutte le strade . Non figurano sul sito neanche i due giovanissimi avvocati Sergio Fidanzia e Angelo Gigliola. Trent'anni a testa, iscritti all'albo dal 2005, hanno ricevuto dall'Anas un paio di arbitrati e la difesa della società nelle cause più importanti, quelle contro le autostrade davanti al Tar e alla Corte di giustizia europea. Per le stesse controversie è stato arruolato anche Marco Annoni, legale arrestato dal pool di Mani Pulite che ha patteggiato la sua condanna per tangenti. Il loro compenso è top secret. Ma quella degli avvocati in carriera non è un'eccezione. Perché con una direttiva firmata da Romano Prodi molte categorie sono state escluse dalla trasparenza. Una deroga che regala l'anonimato a tanti professionisti della parcella: tra loro artisti, società di revisione e soprattutto avvocati patrocinanti. Particolare piccante: il segretario generale di Palazzo Chigi che sta seguendo la partita delle consulenze è l'ex avvocato Carlo Malinconico, titolare dell'omonimo studio, chiuso dopo l'approdo a Palazzo Chigi, nel quale hanno mosso i primi passi i giovani Fidanzia e Gigliola.

Agenzie reticenti
L'Anas è in buona compagnia. Anche le agenzie fiscali seguono la linea dell'ermetismo. A fine agosto, territorio, dogane, monopoli ed entrate dichiarano sui rispettivi siti in tutto 21 consulenze. Nel 2004, secondo il ministero, le agenzie elargivano 223 incarichi. Che fine hanno fatto? Una parte importante si trova nel calderone della Sogei, che fornisce personale e servizi alle agenzie, e che però copre i suoi consulenti con il silenzio. È il caso del braccio destro del direttore dei Monopoli, Giorgio Tino. Si chiama Guido Marino e lo accompagna persino alle audizioni in Parlamento. Proprio a Marino, il direttore Tino ordina al telefono (intercettato dal solito pm Woodcock) nell'aprile del 2005: "Procurami tutte le carte. Poi leva da tutti i computer e lascia solo sul tuo senza farlo vedere ai colleghi". Oggi Marino sul sito non c'è, anche se il suo incarico, ottenuto da Sogei con una sorta di gara, potrebbe valere circa 2 milioni di euro.

Situazione analoga all'Ice. L'Istituto per il commercio estero non espone la sua lista e così è impossibile sapere quanto guadagna la società Triumph, controllata da Maria Criscuolo, imprenditrice molto amica di Umberto Vattani, come è emerso dalle intercettazioni di un'inchiesta contro il capo dell'Ice. Anche la Triumph sarebbe oscurata dalla solita direttiva Prodi. Attacca Cesare Salvi: "Quella circolare limita moltissimo l'obbligo di trasparenza e va contro la legge. Comunque non ci fermiamo. La strada è quella giusta e anche il premier lo sa. Ora vogliamo chiedere che nella Finanziaria si includa l'obbligo di pubblicare tutti gli atti di spesa. Anche se il vero problema sono gli enti locali, sui quali non possiamo intervenire. Lì accadono gli abusi peggiori".
 
 
Roberto Formigoni, presidente
della regione Lombardia
Bengodi locale
L'autonomia delle regioni è diventata libertà di spreco. L'Eldorado delle consulenze è in Lombardia: il censimento parziale del 2004 segnalava 45.500 incarichi con 185 milioni di euro liquidati. E tutto calcolato per difetto: un quinto del totale nazionale. Un sistema di potere parallelo, in parte all'insegna della cultura del fare, nella presunzione che il professionista esterno nominato direttamente faccia prima e meglio. Il modello caro a Letizia Moratti, che in un anno a Palazzo Marino ha assegnato 91 incarichi. In parte però questo network nutre anche il sottobosco del potere. L'ultimo scandalo è recentissimo, emerso alla vigilia di Ferragosto con un'istruttoria penale per truffa. Al centro un progetto finanziato dal Pirellone per costruire sul lago di Como il Museo di Leonardo. Viene perquisita la Glr Consulting, controllata dal consigliere regionale Gianluca Rinaldin di Forza Italia. In Piemonte, nel 2005, regione, province e comuni hanno inghiottito consulenze per 18 milioni di euro, un terzo dei quali ritenuto privo dei requisiti. A Genova, le Fiamme Gialle hanno contestato un danno erariale superiore ai 20 milioni: sotto accusa nove amministratori dell'Istituto tumori. La Guardia di finanza spiega che, "a fronte di enormi investimenti effettuati, non è stata prodotta alcuna attività scientifica". Nel Lazio il meccanismo si è evoluto per aggirare i controlli. E le designazioni vanno a carico delle società a partecipazione regionale. Secondo una denuncia dei sindacati, Sviluppo Lazio ne ha assegnate per un importo di 27 milioni; la Filas per 8,2 milioni, la Bic per 5. In Abruzzo tra gli ingaggi della giunta guidata da Ottaviano Del Turco si segnala il fotografo personale del presidente e il vignettista. Il primo costa 60 mila euro, il secondo 32 mila per occuparsi, tra l'altro, del cartoon 'Capitan Abruzzo'. Il fumettista è figlio del sindaco di Collelongo, comune della Marsica che ha dato i natali a Del Turco.

Certo, a Sud la situazione è peggiore. C'è il caso Calabria che spicca fra tutti. Quando i magistrati sono andati a mettere il naso negli incarichi della Regione, si sono messi a piangere. In soli tre mesi ne erano stati assegnati una valanga: metà con importi non specificati, l'altra metà per oltre 487 mila euro. E tutti, ma proprio tutti, illeciti. Persino quelli destinati all'attuazione del 'piano di legalità' non rispettavano le regole. In altre regioni gli incarichi sono quasi dei benefit. In Molise lo scorso anno il presidente della giunta ha nominato due consiglieri personali costati 115 mila euro. Nella lista non manca una ricerca sui molisani a Stoccarda per 41 mila euro e un intervento sperimentale sulle lepri da 15 mila.

In Sicilia, invece, consulenza è sinonimo di favore. Talvolta anche agli amici degli amici. Come nel caso di Francesco Campanella, il mafioso ed ex presidente del consiglio di Villabate, oggi collaboratore di giustizia. Anche lui non si lasciò sfuggire un bel contratto. Nessuno oggi è in grado di stabilire quanti siano i consulenti: c'è stato persino un esperto per la 'prevenzione dei rischi connessi al diffondersi del bioterrorismo'. Un caso limite? No: a Rosolini, comune in provincia di Siracusa, c'è stato l'esperto per la lettura delle bollette telefoniche. A Catania ancora ricordano l'affascinante Miriam Tekle. La splendida top model eritrea, dopo aver partecipato alle finali di Miss Italia nel mondo, venne nominata alle dirette dipendenze dell'assessorato comunale all'Industria, per svolgere funzioni di 'supporto dell'attività d'indirizzo'. Per quell'incarico, la bella Miriam avrebbe dovuto percepire poco più di 24 mila euro all'anno. Dopo le proteste non se fece nulla, perché Miriam, così c'è scritto, aveva 'poca attitudine al ruolo'.
 
L'isola che non c'era
Vicino al Polo Nord, con lo scioglimento dei ghiacci, emergono rocce non segnalate dalle mappe
A causa del riscaldamento globale dovremo ridisegnare cartine, planisferi e mappamondi. Almeno per quanto riguarda il Polo Nord e i suoi non più ghiacciati dintorni. Da quando la calotta polare ha cominciato a sciogliersi, nell'arcipelago delle Svalbard, in Norvegia, sono aumentate le isole: abbassandosi il livello delle acque, gli scienziati hanno potuto scoprirne l'esistenza. Il primo a trovarne una era stato il californiano Dennis Schmitt nel 2001.
 
Isole SvalbardGli studi. Da quando sono iniziate le misurazioni negli anni '70, il livello dei ghiacci è il più basso in assoluto. Secondo Carl Egede Boggild, docente all'Università di Svalbard, ogni anno se ne scioglie una superficie pari a tre volte l'estensione totale dei ghiacciai delle Alpi. Se il processo non si può invertire, con lo stesso ritmo del ritiro dei ghiacciai verranno scoperte nuove terre e nuove isole. E' proprio per cercare di prevedere quali nuovi fenomeni naturali avranno come teatro il Polo Nord che dal 20 al 22 agosto si sono riuniti a Ny Alesund, in Norvegia, i massimi esperti climatici del pianeta. Il pool di scienziati ha come obiettivo quello di disegnare una mappa, seppur provvisoria, della zona, in collaborazione con la Geological Survey of Denmark and Greenland. L'organizzazione, che dipende dal governo danese, si occupa di mappare il circolo polare artico in modo da localizzare le risorse minerarie, petrolifere e naturali.
 
Nave rompighiaccioChe cosa c'è sotto. Al Polo Nord, oltre alle isole, emergono anche le possibilità di guadagno. Protetti dai ghiacci ci sarebbero 50 miliardi di barili di petrolio o, se al conto si aggiunge il gas naturale, il 25 percento delle risorse energetiche mondiali non ancora scoperte. Lo ha dimostrato una ricerca della Us Geological Survey del 2005, che ha disegnato una mappa provvisoria dei tesori dei fondali marini artici. Uno studio analogo russo, che puntava a scoprire le riserve di gas naturale, ne rilevata una quantità pari a 10 miliardi di tonnellate. A questi dati, però, dicono gli esperti, va fatta la tara. Bisogna sottrarre i costi per la costruzione degli impianti estrattivi, il tempo necessario perché lavorino a pieno regime e l'effettiva quantità di risorse estraibile. Rimangono però i giacimenti di oro e diamanti, e di minerali. Secondo la Us Geological Survey sotto il Polo Nord ci dovrebbero anche imponenti giacimenti di uranio, oltre a rame, zinco, nichel e alluminio.
 
Isola di Hans, missione canadeseIl Polo della discordia. Scoperte le risorse, rimane il problema dell'attribuzione. Adesso il Circolo polare artico non è sotto la giurisdizione di nessuno stato ed è amministrato dall'Isa, l'Autorità internazionale per i fondali marini, con sede nella capitale giamaicana Kingston. Secondo la Convenzione Onu del 1982 sul diritto del mare, i Paesi che si affacciano sul Polo hanno diritto allo sfruttamento solo dei 320 km a nord della loro linea costiera, a meno che non provino un ulteriore collegamento sottomarino tra il loro territorio e l'artico. Di cui nessuno vuole perdere i tesori sottomarini. La Russia è stata la prima a conficcare la sua bandiera (di titanio) nella banchisa artica, a 4.300 metri di profondità. Subito dopo il premier canadese Stephen Harper ha lanciato "una politica aggressiva", come ha ribadito in una sequenza di conferenze stampa, da 5,3 miliardi di euro: costruirà 8 navi e una base militare per farle attraccare. E lui stesso è andato in visita ufficiale. Quello a cui punta il Canada sono i giacimenti diamantiferi di cui si è parlato: il settore, nel Paese, raggiunge all'anno un fatturato di due miliardi di dollari. Arrivata terza e grazie a un rompighiaccio svedese, la Danimarca. Helge Sander, il ministro delle Scienze, ha dato inizio a una missione di un mese per provare la connessione territoriale tra la Groenlandia, possedimento danese, e il Polo Nord. "I risultati sono promettenti - ha detto la Sander - e abbiamo già pianificato altre spedizioni per il 2009 e il 2011". Gli Stati Uniti, invece, si dicono fuori dalla corsa all'Artico, ma intanto venerdì scorso, dal porto di Barrow, in Alaska, è partito il rompighiaccio a stelle e strisce. E' la quarta spedizione in tre anni, dicono, e ha come obiettivo l'aggiornamento della mappatura delle risorse.
 
Nave rompighiaccio russaLe zone limitrofe. Nel frattempo, sono riemerse le dispute per i dintorni del Polo tra coppie di Paesi. Danimarca e Canada si contendono l'isola di Hans, nello stretto di Nares. Anche se nel 1973 si sono spartiti tutti i territori, quei 100 metri quadrati di roccia sono rimasti senza padrone e potrebbero rivelarsi strategici per lo sfruttamento delle risorse polari. Gli Usa, invece, non riconoscono la sovranità canadese sul famoso "passaggio a nord-ovest" che collega Atlantico e Pacifico, anche se sembra abbiano trovato un compromesso: Washington avvisa se una sua nave attraversa le acque contese, e Ottawa non può negare l'accesso. Sempre acqua anche tra Russia e Usa, secondo cui la porzione di mare controllata da Mosca nel "passaggio a nord-est", la via marittima che costeggia la Siberia settentrionale, è superiore a quanto consentito dalle leggi internazionali. Per provare la propria sovranità sul Polo Nord e sulle zone limitrofe, i Paesi hanno tempo fino al 2014 per raccogliere prove scientifiche, poi l'ultima parola spetterà alla Corte internazionale di Giustizia che deciderà a chi attribuire la sovranità sul Polo. Ma potrebbe rimanere una terra di nessuno.

 

 

La dittatura della violenza
A Rio de Janeiro, negli ultimi 14 anni, sono scomparse oltre diecimila persone
 
Sono oltre diecimila, esattamente 10.464, e di loro non si hanno più notizie. Sono i desaparecidos, gente scomparsa negli ultimi 14 anni, figli, fratelli, padri mai più tornati a casa, ingoiati dall'oblio. Siamo in Brasile, nel democratico Brasile, più precisamente a Rio de Janeiro, la città del carnevale e delle belle donne, ma anche delle 630 favelas, alveari di casupole di legno abitate da milioni di poveri che altro non conoscono se non l'arte di arrangiarsi. A qualunque costo. È in quella terra di nessuno, dove anche lo Stato deve sgomitare per farsi posto, che si registra questa tragica situazione.
 
favelas, dal film Città di DioCriminali punto e basta. È l'anarchia a farla da padrona nella periferia di Rio. La criminalità organizzata sguazza in uno stagno di povertà, impunità e desolazione, e si erge quale factotum che tutto controlla. Basata sul narcotraffico, sul contrabbando di armi, su pizzi e contributi estorti alla gente dei villaggi, la malavita si fa strada a suon di colpi d'arma da fuoco. Uccide l'adepto che ha sbagliato, o quello che ha tradito; si improvvisa in estemporanei duelli con pattuglie di polizia la squadre di militari spedite a dare quanto meno la parvenza della presenza statale; si scontra in quotidiani far west con bande rivali per il controllo del territorio ed si guarda le spalle da bande paramilitari, che si improvvisano tutori dell'ordine a suon di mitra. Tutto questo, alla faccia di donne, bambini, anziani, famiglie che tentato di vivere una vita decente in una zona che di decente ha ormai ben poco.
 
La guerra delle favelas. Il 70 percento dei desaparecidos denunciati dal dipartimento Omicidi della capitale carioca, e resi pubblici dal quotidiano brasiliano O Globo, sono vittime proprio di narcotrafficanti, polizia e milizie. E si tratta di un numero 54 volte superiore a quello riguardante le sparizioni durante la dittatura militare in Brasile. Se poi si aggiungono le migliaia di morti degli ultimi anni – 1631 solo da febbraio scorso, in base al conto tenuto dal sito internet made in Brasile Rio body count – il quadro è presto fatto. A Rio c’è una vera e propria guerra, che tiene fuori dalla porta democrazia e stato diritti. A Rio c’è una vera e propria dittatura, la dittatura del terrore.
 
criminali, favelas di rioAlmeno i corpi. Le famiglie degli scomparsi non si danno pace. Da anni reclamano informazioni sui loro congiunti, generalmente giovani, molti dei quali minorenni. Le regole del gioco criminale sono spietate: i cadaveri scomodi vengono sotterrati alla zitta in luoghi ameni per evitare problemi con la polizia. Chi è eliminato non ha nemmeno il diritto a un funerale. E, a quanto raccontato alla polizia da alcuni narcos ‘pentiti’, prima di essere uccisi, vengono persino torturati. Anzi, durante un processo, uno di questi delinquenti raccontò, davanti alla madre di uno dei giovani desaparecidos - la quale svenne - che prima di finirlo, al ragazzo furono tagliate le narici con le forbici. E, durante il percorso fino al luogo della sepoltura, li vennero tagliati uno a uno ogni dito, le orecchie e la lingua. Un'altra volta la vittima venne squartata ancora in vita e i pezzi del cadavere vennero poi sparpagliate.
 
criminale, favelas di rioLibertà d'informare. Una sorte simile toccò anche a un giornalista. Si chiamava Tim Lopes e lavorava per O Globo. Prima di venir ucciso a colpi in testa, venne barbaramente torturato. Poi i suoi resti vennero carbonizzati. A raccontarlo, uno dei delinquenti che prese parte al commando omicida, arrestato dalla polizia.
Nelle favelas, il narcotraffico “ha imposto il suo codice di leggi marzial”, ha commentato l’ex ministro della Giustizia e attuale presidente della Commissione diritti umani dello stato di San Paolo. La sparizione dei corpi non è che una delle conseguenze della violenza che impera nelle favelas, dove la gente ci vive e ci muore non gode degli stessi diritti fondamentali degli altri cittadini. Le favelas sono un posto altro dal Brasile delle cartoline. Sono la faccia oscura di una gigante in marcia verso il boom economico, energetico, alimentare. E i governanti lo sanno. Per questo Lula sta investendo fette copiose del bilancio federale nel risanamento urbano e nella lotta alla violenza. Ma poco si sta facendo, ancora, per combattere disoccupazione e analfabetismo. Non è militarizzando che si risolvono le gravi piaghe sociali. Questa gente dovrebbe prima di tutto avere il diritto di vedere la presenza dello Stato negli occhi di insegnanti e assistenti sociali, e non solo nelle canne di fucile in dotazione all’esercito.

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