27 novembre

 

Non ci restano che i cammelli

La missione Onu disposta a usare gli animali per sostituire gli aerei da trasporto in Darfur

L'ultima trovata dell'Onu, per sopperire alla mancanza di mezzi di trasporto per la missione di peacekeeping in Darfur, è stata chiedere all'India la disponibilità dei cammelli da combattimento, impiegati dall'esercito alle frontiere con il Pakistan. Nonostante il sostegno diplomatico alla missione, che dovrebbe sbarcare nella regione sudanese nei prossimi mesi, i Paesi occidentali sono restii a impegnarsi in prima persona, mettendo a disposizione i mezzi per garantirne il buon esito. Vanificando così un anno di sforzi diplomatici per far accettare a Khartoum l'invio dei caschi blu.

I cammelli da combattimento dell'esercito indiano

Missione. Non sono bastati gli appelli di Jean-Marie Guehenno, responsabile Onu per le missioni di peacekeeping, il quale aveva più volte avvertito che, senza mezzi adeguati, la missione Onu Unione Africana è destinata a fallire. A poche settimane dallo sbarco dei primi contingenti, che dovranno integrare la missione di 7.000 uomini dell'Ua già presente sul terreno, l'organizzazione è in alto mare. E così, l'Onu dovrà ricorre agli animali indiani, capaci di trasportare armi, munizioni, viveri e acqua per circa 80 km al giorno, addestrati a non impaurirsi in caso di scontri e a seguire le mosse dei soldati, strisciando per terra se necessario.
Oltre a mancare i mezzi aerei, l'installazione delle basi e delle infrastrutture necessarie non decolla, nonostante la comunità internazionale abbia investito molto, soprattutto a livello diplomatico, per far accettare al Sudan l'invio dei caschi blu. Un braccio di ferro, quello tra Khartoum e i membri del Consiglio di Sicurezza, durato più di un anno. Da una parte, i Paesi occidentali non hanno molta fiducia nella leadership militare (quasi tutta africana) che guiderà la missione, dall'altra il Sudan ha più volte annunciato che non tollererà contingenti non venuti dal continente, ad eccezione di qualche reparto di specialisti messo a disposizione dalla Thailandia e dai Paesi scandinavi.

Campi profughi. Intanto, oggi l'esercito sudanese darà il via a una vasta operazione di sicurezza, che nei sei giorni successivi dovrebbe portare al sequestro di tutte le armi illegali presenti nei campi di sfollati del Darfur. Il primo a essere interessato sarà il campo di Kalma, presso la città di Nyala, nel Darfur meridionale, una struttura che ospita circa 90.000 persone. I tre giorni di tempo, dati dall'esercito ai civili perché consegnassero spontaneamente le armi, non hanno sbloccato la situazione. Anzi, gli sfollati ne avrebbero approfittato per erigere barricate all'interno del campo e impedire così all'esercito di entrarvi. I civili temono i possibili abusi dei soldati, e hanno paura che il provvedimento sia un pretesto per evacuare il campo e trasferire la popolazione. Una pratica che, secondo alcune testimonianze, il governo avrebbe cominciato ad adottare dallo scorso mese.
Anche le trattative di pace sono al palo: il meeting di Tripoli, che avrebbe dovuto segnare la riconciliazione tra i gruppi ribelli e il governo, si è concluso con un nulla di fatto, con i gruppi armati che da quattro anni combattono il regime di Khartoum incapaci di trovare una posizione comune al tavolo dei negoziati. Per la fine della guerra, cominciata nel febbraio 2003 e costata finora almeno 200.000 vittime, bisognerà ancora attendere.

Matteo Fagotto

 

Afghanistan, stragi insabbiate

Le bugie della Nato sulle vittime civili dei bombardamenti

Assadullah è un contadino di Kakrak, un villaggio sulle montagne della provincia centrale di Uruzgan: una delle tante zone controllate dai talebani.
Una sera di fine settembre era uscito di casa per andare a trovare un suo amico poco lontano. Ero appena fuori dal mio villaggio quando ho sentito gli aerei e le esplosioni delle bombe. Sono corso indietro per vedere se la mia famiglia era sana e salva. Ho trovato la mia casa ridotta in macerie. Ho iniziato a scavare e ho trovato i miei quindici nipoti, maschi e femmine, stesi nei loro letti, morti nel sonno. Il più piccolo aveva sei mesi, il più grande diciassette anni. Poi ho trovato i corpi senza vita di mia madre, delle mie due mogli e dei miei due fratelli. In quel momento ho pensato che tutto il mondo fosse morto e mi chiedevo perché io fossi ancora vivo. Il giorno dopo ho scoperto che altri due villaggi vicini erano stati bombardati: sessantasette morti in totale.

La versione ufficiale della Nato. I giorni successivi i comandi Nato hanno diramato un bollettino nel quale si leggeva che laviazione e lartiglieria della Coalizione hanno bombardato le posizioni nemiche nella zona di Kakrak, provincia di Uruzgan, uccidendo 65 talebani. Tre civili sono rimasti feriti.
Il 17 novembre, Assadullah e altri capifamiglia della zona hanno ricevuto, senza clamori, un risarcimento monetario per i familiari uccisi.
Non fosse stato per linviato del Time magazine, la verità su quello che è successo a Kakrak non sarebbe mai venuta fuori. Sorge una domanda: quanti di quelle decine di talebani uccisi ogni giorno dalle bombe occidentali sono in realtà civili inermi?

Almeno mille civili uccisi questanno. Louise Arbour, capo della Commissione Onu per i diritti umani in questi giorni in visita a Kabul, ha definito allarmante la percentuale dei civili uccisi durante le azioni militari della missione Isaf-Nato: Una violazione del diritto internazionale e un fatto che erode il sostegno popolare alla missione Nato e al governo Karzai. La Arbour si riferisce ovviamente ai dati ufficiali sulle vittime civili dei bombardamenti: 337 dallinizio dellanno secondo le cifre fornite dalla Nato su un totale di oltre seimila morti. In realtà, se solo si tengono in considerazione le rare denunce fatte dalla popolazione afgana come quelle di Assadullah i civili uccisi risultano essere almeno un migliaio dal 1° gennaio 2007. Ma probabilmente si tratta ancora di una cifra ampiamente sottostimata. Sempre secondo i dati ufficiali forniti dalla Nato, questanno sono stati ufficialmente uccisi più di cinquemila talebani: quanti di loro, da vivi, erano civili?

 

23 novembre

 

Sempre più poveri?

di Paola Pilati

Perdita di potere d'acquisto. Aumento delle disparità a vantaggio dei lavoratori autonomi. Ma per 16 milioni di dipendenti il 2008 potrebbe andare meglio. Se non fosse per l'inflazione

Per gli economisti si chiama 'effetto tunnel'. Bloccato dal traffico in un tunnel a due corsie nello stesso senso di marcia, quando vedi che la corsia a fianco si muove, sei sollevato perché sai che tra un po' toccherà anche a te. Ma se questo non accade, ti sentirai imbrogliato, monterai su tutte le furie e alla fine cercherai di superare a tutti i costi la doppia striscia bianca che separa le due corsie. È la fotografia degli italiani del lavoro dipendente alle prese con gli stipendi, i conti di fine mese, e la percezione delle disuguaglianze: c'è una massa di lavoratori che sta da tempo nella corsia bloccata.

In attesa più o meno dal 2000-2002, cioè dall'ingresso dell'euro. Vedono con la coda dell'occhio muoversi la fila accanto, cioè le famiglie dei lavoratori autonomi e dei dirigenti, che hanno vistosamente migliorato la propria situazione economica dal momento che una fetta crescente delle risorse del Paese è finita nelle loro tasche, e tollerano.

Ma la loro fila non riparte. "Quanti decideranno di attraversare la doppia striscia bianca prima che questa fila torni a muoversi?", si chiedeva in un suo articolo ('Stato e Mercato', agosto 2005) Andrea Brandolini, economista della Banca d'Italia.

A due anni da questa osservazione, il tunnel sta per ripartire? O meglio, il governo Prodi ha messo in atto delle misure di riequilibrio tra le fasce sociali con le sue due leggi finanziarie? Insomma, se i conti del 2007 sono ormai quasi chiusi, e nonostante le parziali restituzioni del 'tesoretto' non è stato certo un anno di Bengodi per i lavoratori dipendenti, possiamo almeno sperare che nel 2008 le cose andranno meglio per i bilanci delle famiglie che in questi anni si sono dovuti beccare lo smog di quel dannato tunnel bloccato?

La risposta è no. Anche l'anno prossimo ci sarà poco da scialare: nelle tasche dei 16 milioni di italiani che vivono di ciò che incassano il 27 del mese, entreranno magari più quattrini, ma ne usciranno anche di più. Se la nuova legge finanziaria restituisce risorse ai redditi medi, fa sconti a chi ha la casa (l'Ici e il nuovo tetto di mutuo detraibile) e anche a chi non ce l'ha (sconti per l'affitto sotto i 30 mila euro), a chi va in autobus o è pendolare (detrazione Irpef del 19 per cento fino a 250 euro di spesa), e via dicendo, ci penseranno poi l'inflazione, i rincari di certi beni come la benzina, e gli aumenti delle tariffe (già in gran parte annunciati) a far stringere la cinghia. Insomma, nel 2008 il governo Prodi ci darà l'illusione di essere un po' più ricchi (non tutti, intendiamoci, ma quelli sotto una certa soglia di reddito, grosso modo 40 mila euro), ma sarà appunto solo un'illusione. Se non riparte la dinamica salariale, il potere d'acquisto perderà terreno. Più di quanto non abbia già fatto negli ultimi sei anni, secondo uno studio dell'Ires Cgil: dal 2002 al 2007, per una retribuzione di fatto media annua di 28.890 euro, l'effetto sommato del mancato adeguamento dei salari all'inflazione e del fiscal drag, ha portato alla perdita cumulata di 1.896 euro. Circa un euro perso al giorno.

L'immagine di un 2008 più povero emerge da un esercizio svolto dalla Cga (l'associazione Artigiani e Piccole Imprese) di Mestre per 'L'espresso'. Come si vede nelle tabelle in queste pagine, in tutti e tre i casi presi in considerazione, e che possono essere considerati situazioni tipo, i contribuenti ci guadagnano. I benefici della legge Finanziaria attualmente in discussione in Parlamento funzioneranno perfettamente quando si tratterà di fare la dichiarazione dei redditi nel 2008. Per i proprietari di casa il risparmio medio sarà di 60-90 euro, la detrazione per l'abbonamento per il trasporto pubblico sarà di 47,5 euro, e la detrazione degli interessi passivi sui mutui si tradurrà, secondo i calcoli dell'ufficio studi della Cgia, in un risparmio massimo di 73 euro per chi è ai primi anni di pagamento del mutuo, di solito i più pesanti.

Ma l'aumento di reddito disponibile che risulta dai calcoli (236, 134,97 e 197,50 euro di tasse in meno nei tre casi in esame) dovrà continuare a fare i conti con il rosicchiamento prodotto dall'inflazione, che il prossimo anno si stima sarà almeno del 2 per cento, ma che si spalmerà in modo diverso sui consumatori. Gli economisti di Mestre hanno immaginato panieri diversi a seconda dei diversi nuclei familiari, e hanno calcolato l'incremento della spesa media mensile. Come si vede nella tabella a pagina 181, i rincari si mangiano tutto il risparmio fiscale, e anche di più.

Per non perdere ancora terreno in termini di potere d'acquisto, quei redditi dovranno migliorare: e come, se non attraverso i contratti? Circa 30 contratti aspettano di essere rinnovati nel 2008, e coinvolgono quasi otto milioni di lavoratori (il 65 per cento del monte retribuzioni globale). Ebbene: per non andare sotto il livello attuale di potere d'acquisto, l'incremento, dicono i tecnici della Cgia, dovrà essere almeno del 2,5 per cento. Agostino Megale, che dirige l'Ires Cgil, rilancia al 3,5 per cento: con l'obiettivo di recuperare il terreno perduto in passato, di stare al passo con l'inflazione 2008, e per incassare nei contratti gli aumenti di produttività.

Realistico? Stando a Mario Vavassori, presidente della Od&m, società che fa periodiche indagini sulle retribuzioni nelle aziende italiane, nel 2008 l'incremento lordo degli stipendi dei dirigenti (250 mila in totale) sarà del 4,4 per cento, dei quadri (700 mila) e degli impiegati (5 milioni ) del 3 lordo, degli operai (5 milioni) del 2-2,5 per cento. Non solo, ma l'impressione è che le aziende tendano prima a verificare cosa prendono i lavoratori dallo Stato: "se hai qualcosa da lì, da me prenderai meno", è il ragionamento corrente.

"In realtà in passato il fisco ha sempre compensato i vuoti contrattuali", osserva Salvatore Tutino del Cer, il centro studi che sta per sfornare il suo nuovo Rapporto: "Se non fai rivendicazioni salariali ti diamo sgravi fiscali", era lo schema compensativo adottato di fatto. Nel 2007, questo schema si rompe: si apre al massimo la forbice tra salario lordo (che cresce del 2,5 per cento) e salario netto (che scende dell'1 per cento), osserva il Cer. Non solo. "Gli interventi del fisco, indirizzati a correggere il prelievo sui contribuenti con carichi di famiglia, lasciano il lavoratore single ai margini dell'area della tutela fiscale", scrive il centro studi.

Giusto o sbagliato? I single possono diventare soggetti a rischio povertà? In effetti la famiglia resta un grande ammortizzatore sociale. Altrimenti campare diventa a volte molto difficile. Se la 'linea di povertà' stabilita nel 2006 per una famiglia di due persone è pari a una spesa uguale o inferiore ai 970 euro, basta guardare i salari netti mensili che percepiscono 14 milioni di lavoratori secondo l'Ires-Cgil: vanno da 854 euro a 1.171 euro (vedi grafico a pag. 177). E la maggior parte sono giovani. Nelle statistiche, il 13 per cento della popolazione italiana è povero, ma tra i giovani (18-34 anni) la percentuale sale al 13,7.

A fare la differenza non è solo il lavoro, ma anche la casa. Così non c'è scelta, o si è condannati a restare 'bamboccioni', mantenendo in questo modo un tenore di vita accettabile e contribuendo alle economie di scala di genitori anziani (ma con un appartamento), o si è destinati entrambi all'indigenza: il giovane che esce, gli anziani che restano.

Nello studio dell'Istituto Cattaneo per il Mulino, intitolato'Povertà e benessere' (a cura di Andrea Brandolini e Chiara Saraceno) c'è un giudizio molto severo sull'efficacia delle riforme fiscali quanto a effetto redistributivo. "La debolezza dello Stato sociale italiano sul piano dell'equità appare derivare non tanto dal basso livello di spesa sociale, quanto da una sua concentrazione su strumenti poco efficaci sul piano redistributivo", sintetizzano i curatori. Insomma, le differenze si possono colmare soprattutto fornendo buoni servizi pubblici, dalla sanità alla scuola. È probabile che questo accadrà nel 2008? "Propongo di impostare la questione in altro modo", dice il direttore del Censis, Giuseppe Roma: "Nel 2008 non saremo più ricchi perché guadagneremo di più, poiché la dinamica dei redditi non cambierà. Non c'è più tanta voglia di secondo lavoro, e anche la 'famiglia spa' è in difficoltà. Quello che possiamo cambiare è il nostro modo di spendere". Ed ecco il nuovo trend individuato dal Censis: si mettono in campo strategie 'low cost' per una serie di consumi come l'alimentazione e l'abbigliamento (vedi grafici a pag. 179). Ma non si riesce a tenere dietro ai nuovi consumi richiesti dalla 'knowledge society': il corso di inglese, la palestra, che costano sempre di più. Se staremo meglio o peggio nel 2008 dipenderà anche da questo.

 

8 novembre

 

«La strage»

Sicurezza sul lavoro, ecco la vera emergenza

Cinque morti e due feriti in un giorno. Da Torino a Cosenza, il lavoro che uccide

Sara Farolfi

Cinque morti e due infortuni gravi. «Una strage», «un bollettino di guerra» - la si chiami come si vuole. Ma non si dica che c'è fatalità nel morire in un cantiere della metropolitana di Brescia, «precipitando in una buca profonda 20 metri che può essere dove c'è movimento macchine». O nel rimanere gravemente feriti alle Carrozzerie di Mirafiori, durante la manutenzione di un macchinario, nell'ora di inizio turno, «con la fretta del produttivismo a tutti i costi».
«E' una vergogna, non si può lavorare così», è la reazione tranchant di Francesco Cisarri, della Fillea di Brescia. Nei cantieri della metropolitana, ieri, si è registrato il secondo infortunio mortale nel giro di poche settimane. Un operaio di 40 anni, dipendente della ditta Astaldi (l'impresa che ha acquisito l'appalto per la realizzazione della metropolitana) è precipitato, mentre era alla guida di una ruspa, in una buca di 20 metri, rimanendo schiacciato. Il 26 settembre scorso era morto un altro operaio, dipendente di una delle ditte che lavorano in subappalto per Astaldi. 171 morti nell'edilizia dall'inizio dell'anno, 32 soltanto in Lombardia, 16 nel solo mese di ottobre, 3 nella sola giornata di ieri - il secondo infortunio mortale, a Rovigo, il terzo nel cosentino: sono questi i costi del nuovo boom economico, quello delle costruzioni. Oggi scioperano per l'intera giornata i lavoratori di tutti i cantieri Metrobus di Brescia.
Alle Carrozzerie di Mirafiori, reparto lastratura, un lavoratore di 55 anni è rimasto incastrato in un macchinario, durante i controlli prima dell'avvio degli impianti. L'incidente è avvenuto a inizio turno, «nella fretta di fare iniziare la produzione» spiega Giorgio Airaudo, segretario della Fiom torinese. L'uomo, un manutentore dipendente Fiat, ha riportato un trauma cranico toracico, ed è ricoverato in coma farmacologico indotto. L'impianto è stato posto sotto sequestro, e verifiche per accertare le cause del grave infortunio sono in corso. Fim, Fiom e Fismic però non hanno dubbi: «L'incidente è la conseguenza di un continuo taglio di organici che si riscontra in particolare nelle manutenzioni, attività che richiede un margine di sicurezza elevato». Per questo è stato proclamato immediatamente uno sciopero di un'ora, sul primo e sul secondo turno. Sciopero a cui non ha aderito la Uilm, che in maniera piuttosto contraddittoria ha parlato prima di uno sciopero inutile («lava coscienza», per esattezza), lanciando poi la proposta di una mobilitazione di 4 ore sul tema della sicurezza del lavoro.
Impietosi testimoni, i numeri dicono cosa sia il lavoro oggi. Ancora ieri, un operaio di 38 anni è morto nella provincia di Rovigo, cadendo e rimanendo schiacciato sotto il peso del rullo compressore su cui era al lavoro. In un cantiere edile della provincia di Cosenza, un lavoratore di 44 anni, al lavoro su una betoniera, è rimasto folgorato da un cavo elettrico. Un'operaia di 46 anni, madre di tre figli, è morta schiacciata da un macchinario nella ditta conserviera per cui lavorava ad Angri, in provincia di Salerno. In Alto Adige, un agricoltore è caduto in una vasca per il letame, e deceduto per le gravi lesioni riportate. In provincia di Imperia, infine, un operaio di 30 anni è rimasto ferito, cadendo dal terrazzino di un palazzo in costruzione: l'uomo è ricoverato all'ospedale di Sanremo.
Ieri, di morti sul lavoro, è tornato a parlare il presidente della Camera, Bertinotti: «Non si può smettere di pensare a cosa fare perchè non possa più accadere, altrimenti è la politica che muore». «La lotta agli infortuni resta prioritaria per il governo» ha detto il ministro Damiano.
Oggi a chiedere risposte c'è la protesta dell'Associazione nazionale mutilati e invalidi sul lavoro (Anmil), con due presidi al ministero del lavoro e dell'economia. Per chiedere al governo «azioni concrete che assicurino giusta tutela alle famiglie e ai lavoratori vittime di incidenti o di malattie professionali».

 

Salari: la straordinaria capacità tutta italiana di non pagare

Fernando Vianello

In un articolo comparso su il Sole-24Ore del 30 ottobre 2007 Innocenzo Cipolletta propone un semplice ragionamento, illustrato da un esempio numerico che proverò a riformulare per renderlo meno indigesto al lettore. Un'economia produce due sole merci, diciamo due tipi di automobili: un'utilitaria, venduta a 100, e una Ferrari, venduta a 2000. Si producono 10.000 utilitarie e 50 Ferrari. Se ora, restando costante l'occupazione complessiva, un certo numero di lavoratori viene spostato dalla produzione delle utilitarie (il cui numero, supponiamo, si dimezza) alla produzione delle Ferrari (il cui numero, supponiamo, raddoppia), è evidente che il numero complessivo di automobili diminuisce; e che diminuisce, a parità di tecniche impiegate, la produttività del lavoro, se quest'ultima è definita come il rapporto fra il numero delle automobili prodotte e il numero dei lavoratori. Altrettanto evidente è, tuttavia, che la produzione in valore e la produttività in valore risultano aumentate.
Il ragionamento di Cipolletta presenta un evidente punto di contatto con l'impostazione del problema che emerge da una serie di studi sulle esportazioni italiane promossi dalla Fondazione Manlio Masi e riuniti sotto il significativo titolo Eppur si muove (a cura di A. Lanza e B. Quintieri, Rubbettino editore, 2007). La perdita di quote di mercato delle esportazioni italiane, così spesso indicata come la prova irrefutabile del «declino» industriale del paese, è molto forte quando le esportazioni siano calcolate in volume (il numero di automobili dell'esempio), ma risulta allineata agli standard europei quanto le esportazioni siano calcolate in valore, tenendo così conto dell'innalzamento dei valori unitari conseguente ai miglioramenti qualitativi dei beni esportati e al riposizionamento degli esportatori su segmenti più "alti" del mercato.
«Il nostro sistema», ha affermato il governatore della Banca d'Italia nella recente lezione tenuta alla Società italiana degli economisti, «ha sofferto una crisi di competitività internazionale». E' una storia ben nota, ripetuta ad nauseam dai teorici del "«declino» industriale. Ma le cose stanno davvero così?
Un banchiere che ho citato altre volte, e che gode di un invidiabile punto di osservazione, Pietro Modiano, ha affermato: «Dal 2001 si è imposta la retorica del declino, basata sul pregiudizio che il nostro paese avesse una struttura di specializzazione arretrata e una dimensione di impresa troppo esigua. La prova provata era che il Pil non cresceva. Peccato che questo indicatore non possa misurare gli effetti più profondi dell'internazionalizzazione del Quarto Capitalismo» (Il Corriere della sera, 16 novembre 2006).
Manca qui lo spazio per esaminare in dettaglio i due aspetti della tesi del «declino» indicati da Modiano. Ma per vedere quanto utili siano le grandi classificazioni sulla cui base si giudica del carattere arretrato o avanzato del modello di specializzazione di un paese, è sufficiente osservare che le utilitarie e le Ferrari dell'esempio cadono nella medesima categoria di beni «a tecnologia matura»: se dunque si passa dalle prime alle seconde, il modello di specializzazione non se ne accorge. (Invece i componenti di un iPod prodotti da un'oscura impresa sudcoreana, che si appropria di una quota risibile del valore aggiunto complessivo, finiscono dritti nella categoria hi-tech).
Per quanto riguarda il secondo aspetto, quello relativo al «nanismo» delle imprese italiane, va purtroppo registrato il completo abbandono di una prospettiva di ricerca incentrata non sull'impresa isolata, ma sui sistemi di imprese. E cioè sulle complesse relazioni di collaborazione che legano fra loro imprese appartenenti alla stessa filiera, relazioni attraverso le quali il problema del coordinamento dell'attività produttiva viene risolto in modi non meno efficienti di quelli propri delle grande impresa.
Per sapere cosa succede nell'industria occorre (può parere una banalità) studiare l'industria, come hanno fatto i teorici dei distretti industriali e come fanno, per le medie imprese, gli autori dell'indagine Mediobanca-Unioncamere.
Chi segue questa strada si accorge facilmente che la struttura industriale italiana, pur dominata dalle piccole e medie imprese, mostra uno straordinario dinamismo e una forte capacità di innovare e di competere sui mercati internazionali.
Per questo ho sostenuto in un precedente articolo (il manifesto, 1° novembre 2007) che la spiegazione dei bassi salari italiani non va ricercata in menzognere statistiche della produttività. Negli anni '70 del secolo scorso si diceva che i bassi salari delle piccole imprese riflettevano la loro scarsa «capacità di pagare», dovuta a una bassa produttività. Quando le inchieste sul campo hanno mostrato che le piccole imprese subfornitrici impiegavano le stesse macchine che erano in uso nei corrispondenti reparti delle grandi imprese, si è compreso che non di limitata «capacità di pagare» si trattava, ma di una elevata «capacità di non pagare». Lo stesso si deve dire oggi delle imprese italiane, grandi medie e piccole, che pagano salari più bassi di loro concorrenti stranieri. Da dove nasce questa loro straordinaria «capacità di non pagare»? Provi, il lettore, a rispondere a questa domanda.

 

7 novembre

 

Uffici chiusi per malattia 'da ponte'. Ispezione all'Anagrafe

Quattro impiegati, tutti malati il 2 novembre, proprio in coincidenza con il ponte. E l'ufficio anagrafe del II municipio chiude. Una testimonianza che arriva dopo la denuncia dell'assessore al personale del Comune: "Ogni giorno mancano il 30% dei dipendenti"

E' il due novembre, e molti fanno il ponte: uffici a mezzo servizio, strade semivuote, tutto un po' rallentato. Ma fuori dagli uffici dell'anagrafe del II municipio, in piazza Grecia, c'è la coda: tutti gli impiegati sono malati, spiega il commesso, e nessuno può fare i certificati. La situazione si risolve quando scende un funzionario che chiude l'ufficio. "Fossi in voi reagirei alla stessa maniera", spiega. E tutti a casa. Un caso? Un'epidemia proprio il giorno dei morti, in coincidenza con il ponte? Evidentemente sì.

«L´anagrafe è un servizio a carattere istituzionale. La sua interruzione è un fatto di grande gravità. Per questo sono deciso ad andare fino in fondo e a far emergere tutte le responsabilità del caso». L´assessore al Personale di Roma, Lucio D´Ubaldo, ha letto la denuncia di Repubblica e provvede per un'ispezione.

I dati sulle presenze degli impiegati capitolini in ogni caso non sono testimoniano un'assidua presenza la lavoro. La denuncia arriva dall´assessore al Personale Lucio D´Ubaldo: ogni giorno dell´anno, in Campidoglio, mancano all´appello tra il 25 e il 30 per cento dei dipendenti comunali, assenti giustificati per le ragioni più varie, malattie, congedi, aspettative, ferie, permessi sindacali.

Per questo D'Ubaldo, insieme al direttore del Dipartimento, Pietro Barrera, sta mettendo a punto un "pacchetto efficienza" finalizzato a riorganizzare le risorse umane all´interno dell´amministrazione, che entro novembre sarà presentato ai sindacati. «Quando ti accorgi che nei nostri uffici, tutti i giorni, mancano in media 6-7mila persone a fronte di una platea di 25mila assunti e 2mila precari in via di stabilizzazione, ti spieghi come mai la produttività sia tanto bassa», spiega l´assessore D´Ubaldo.

 

Il rapporto dell'Agenzia europe per la sicurezza e la salute. Tutti i rischi degli impieghi saltuari. "Serve la prevenzione"

Il "mal di vivere" del precariato: quando il lavoro fa male alla salute

di TULLIA FABIANI

Gli effetti vanno dall'insicurezza psicologica, progressiva, allo stress eccessivo e possono seguire gastriti, disturbi cardio-circolatori, problemi nervosi. Prima ci sono contratti a progetto e lavori in affitto; c'è la questione sicurezza, la mancanza in molti casi di strumenti di protezione, la privazione di tutele e la relativa probabilità di infortuni. Perciò la diagnosi è molto seria: il lavoro precario fa male alla salute. Occorrono prevenzione e cura. Quanto prima.

A fare il check-up delle condizioni in cui versa il lavoro atipico e soprattutto delle conseguenze per i lavoratori così impiegati è uno studio dell'Osha, l'Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (http://osha.europa.eu), che evidenzia l'insorgere di vari rischi legati alle nuove forme di organizzazione del lavoro. Temporaneo o a progetto, prestazione d'opera, finto lavoro "in proprio", e outsourcing,: secondo l'indagine, pubblicata nelle settimane scorse, da queste nuove forme di contratto derivano altrettanti nuovi rischi per la salute dei lavoratori. E di fatto oggi chi è impiegato attraverso questo genere di contratti è più esposto.

Il malessere degli atipici. Nel corso della ricerca l'Agenzia ha interpellato esperti di vari paesi, (Europa e Stati Uniti) e professionisti dell'Ilo (l'agenzia dell'Onu per il lavoro) e ha chiesto loro di valutare la presenza, o meno, di nuovi rischi per la salute derivanti dalle forme di organizzazione del lavoro recenti e atipiche. Dalle risposte sono emersi vari elementi critici: i precari hanno occupazioni più rischiose, condizioni di lavoro più scarse, e raramente ricevono una formazione adeguata su salute e sicurezza. Inoltre, la sequenza spesso convulsa e scostante di contratti a breve termine "aumenta la sensazione di insicurezza e marginalità, provocando l'incremento di stress e preoccupazione, con rischi per la salute molto gravi".
Le interruzioni tra un contratto e l'altro rappresentano infatti una discontinuità della responsabilità legale del datore di lavoro. E questo, secondo gli esperti, finisce per essere ulteriore elemento di malessere.
Quindi, a confronto con coloro che sono impiegati in un lavoro stabile, i lavoratori precari risultano maggiormente vulnerabili. Molto più deboli. E non solo per quel che riguarda contributi, indennità, stipendi. "La lettura data - dichiarano i ricercatori dell'agenzia - è ampiamente supportata dalla letteratura scientifica in materia: ci sono dimostrazioni che le caratteristiche di queste nuove forme di lavoro non tradizionali portino a rischi peculiari per la salute".

Le condizioni di lavoro. Un altro aspetto riguarda i carichi di lavoro: le statistiche europee indicano che oltre metà degli occupati dichiara di lavorare ad alte velocità e pressione per tre quarti del tempo, con un trend che pare essere in aumento. A questo proposito lo studio sottolinea anche la frequente esclusione dei lavoratori precari dai tavoli sindacali su salute e sicurezza e il minore accesso (o del tutto assente) ad attrezzature e strumenti di protezione. I risultati di tale sistema si traducono dunque in condizioni fisiche di lavoro peggiori, insicurezza psicologica e stress eccessivo, un maggior carico d'impiego, incidenti più frequenti.

"Si va rafforzando una sorta di mal di vivere perché l'incertezza del lavoro e la precarietà continua finiscono per far morire la speranza nel futuro - sostiene Filomena Trizio, segretaria generale di Nidil-Cgil - le nuove generazioni sono circondate da questo tipo di contesto lavorativo e senza dubbio sono più esposte al malessere. Altro che bamboccioni, la condizione di disagio in cui si trovano i giovani è frutto di scelte politiche e sociali precise. E su queste si deve intervenire".

Ma oltre a ravvisare un legame tra i nuovi pericoli per i lavoratori (soprattutto lo stress e le conseguenti malattie psicosomatiche) e i nuovi equilibri economici e organizzativi, nella ricerca viene riscontrato anche un collegamento tra la maggiore competitività sul luogo di lavoro e gli episodi di bullismo e molestie; infine la sottolineatura di un altro aspetto: la connessione tra lo scarso equilibrio della vita professionale e quello della vita privata e famigliare.
Situazioni che fanno del lavoratore precario un soggetto a rischio e concorrono ad aumentare i danni alla salute derivanti dal lavoro. Sintomi che spingono gli operatori del settore, come l'Agenzia europea, a ribadire la necessità di trovare presto vaccini e terapie: un maggiore controllo degli ambienti di lavoro e un incremento reale di garanzie e tutele. In altre parole: nuove, differenti politiche per un lavoro diverso, stabile e sicuro.

 

6 novembre

I deportati del lavoro
Più di 4mila lavoratori stranieri saranno espulsi dagli Emirati per aver osato scioperare
Verranno puniti e serviranno da esempio. In modo che nessuno si permetta più di alzare la testa. Una punizione esemplare che colpirà, secondo quanto dichiarato dal ministro del Lavoro degli Emirati Arabi Uniti Humeid bin Deemas, più di 4mila lavoratori immigrati che verranno espulsi.
La loro colpa? Aver scioperato.

 
lavoratori stranieri all'opera negli emiratiDiritto allo sciopero. Lo scorso fine settimana, dopo mesi di relativa calma, era esplosa di nuovo la rabbia dei lavoratori immigrati negli Emirati, impiegati in massima parte nei cantieri edili. Singalesi, thailandesi, pakistani, indiani e bengalesi hanno incrociato le braccia, per chiedere condizioni più umane di lavoro e un aumento anche minimo della paga da fame. I più esagitati tra i dimostranti hanno occupato qualcuno dei sontuosi palazzi in costruzione e danneggiato alcune strutture dei cantieri. Questo è bastato perché arrivassero le forze di sicurezza che hanno represso nel sangue la dimostrazione. Ma era già capitato in passato, e il governo degli Emirati ha deciso che non si può tollerare oltre questa reazione di questi moderni servi della gleba, che si ribellano alle condizioni inumane di lavoro. “Gli organi competenti dello Stato sono stati interessati sulla vicenda”, ha dichiarato il ministro bin Deemas, “e prenderanno tutte le misure necessarie. Gli operai che non vogliono lavorare sono liberi di farlo, e non possono essere costretti a farlo. Quindi verranno accompagnati al confine”.

 
lo skyline degli emiratiDeportazione di massa. Che significa deportati. Sia lo sciopero che le rappresentanze sindacali sono proibite negli Emirati Arabi Uniti, che sfruttano questa situazione per imporre ai circa 700mila lavoratori immigrati, in gran parte dall'Estremo Oriente, condizioni di lavoro disumane: giornate lavorative di 15 ore, nessuna tutela sanitaria e di sicurezza sul luogo di lavoro, stipendi irrisori e condizioni abitative al limite della dignità umana. Grazie a tutto questo, il costo del lavoro è quasi nullo, e i sette ricchi emirati che formano il paese hanno conosciuto un boom economico senza precedenti, in particolare nel settore edilizio.
Ma negli ultimi anni gli operai hanno cominciato a ribellarsi, prima con manifestazioni di protesta come quella del fine settimana scorso, poi con il tentativo di dar vita a una rappresentanza sindacale. Pressato anche dalla comunità internazionale, il governo degli Emirati Arabi Uniti aveva promesso un giro di vite nel settore, impegnandosi a costringere le aziende a fornire condizioni di lavoro e di vita più umane agli operai. A giugno scorso, l'esecutivo ha varato un pacchetto di leggi che prevedeva anche la regolarizzazione di più di 280mila di questi lavoratori, ma non è successo nulla, e la tensione è tornata a salire.
Un quadro della complessità della situazione è dato da un documentario prodotto da al-Jazeera, che si chiama Blood, Sweat and Tears, che offre uno spaccato dell'inferno nel quale si genera lo sviluppo degli Emirati Arabi Uniti.

 

 

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