Archivio notizie ottobre 2007

 

30 ottobre

India, la marcia per la terra

Circa 25mila persone hanno marciato pacificamente su Delhi chiedendo condizioni di lavoro più dignitose al Governo

Anche senza casa La battaglia degli oltre 20mila senza terra indiani sembra abbia avuto un esito positivo. Dopo l'arrivo a delhi domenica 28 ottobre di circa 25mila persone indigene che protestavano per la loro esclusione dalla coltivazione delle terre a beneficio del latifondo, il governo del partito induista al comando ha deciso di avviare una riforma agraria. Il governo ha concesso al movimento dei senzaterra un 'Tavolo di confronto sulla riforma della Terra coltivabile, che studi punto per punto le proposte dei senza terra e dei popoli indigeni, molto sensibili sulle lotte per i terreni coltivabili, a discapito delle aree boschive. Gli aborigeni e i contadini delle caste più basse e meno abbienti, hanno marciato per quattro settimane attraverso le giungle per arrivare fino a Nuova Delhi dai politici. Sostengono di essere gli unici nel miliardo di persone del Paese, a non essere nemmeno sfiorati dal benessere che sta investendo tutta l'India.

Soddisfatti e ben accolti “Le nostre richieste sono state accolte. Al momento possiamo dirci soddisfatti” ha detto Bharat Bhushan Thakum, uno dei capi della rivolta “le misure previste abbasseranno drammaticamente i tempi per l'assegnazione di terreni ai senza terra. Adesso ce ne possiamo tornare contenti ai nostri campi” ha detto alle agenzie di stampa il campione sportivo. Il governo indiano ha informato che circa metà dei seggi nel Tavolo permanente dovranno rimanere sotto il controllo del Cremlino, se non effettivamente dell'uomo che in quel momento sta in cima al vertice del potere”. Ma inodi irrisolti verranno al pettine, sostengono molti corrispondenti stranieri, principalmente perché il Governo non ha ancora fornito delle date certe per scandire secondo un tragitto di Pace (come la Road map in Terra Santa). La composizione sociale della folla dei protestanti era formata, in primo luogo, da persone realmente bisognose, che finora non avevano ottenuto niente, se non che il conflitto venisse portato a casa loro attraverso la tv. Adesso anche chi arriva dalle regioni meno povere può passare delle ore seduto da solo, senza che i suoi maestri, o professori, non la mettano sul pignolo.

Gianluca Ursini

25 ottobre

 

Democrazia e religione

di EZIO MAURO

"Finiamola". Con questo invito che ricorda un ordine il Cardinal Segretario di Stato della Santa Sede, Tarcisio Bertone ha preso ieri pubblicamente posizione contro l'inchiesta di Repubblica sul costo della Chiesa per i contribuenti italiani, firmata da Curzio Maltese. "Finiamola con questa storia dei finanziamenti alla Chiesa - ha detto testualmente il cardinal Bertone - : l'apertura alla fede in Dio porta solo frutti a favore della società". Per poi aggiungere: "C'è un quotidiano che ogni settimana deve tirare fuori iniziative di questo genere. L'ora di religione è sacrosanta".

Non ci intendiamo di santità, dunque non rispondiamo su questo punto. Ma non possiamo non notare come il tono usato da Sua Eminenza sia perentorio e inusuale in qualsiasi democrazia: più adatto a un Sillabo.
L'attacco vaticano riguarda un'inchiesta giornalistica che analizza i costi a carico dei cittadini italiani per la Chiesa cattolica, dalle esenzioni fiscali all'otto per mille, al finanziamento alle scuole private, all'ora di religione: altre puntate seguiranno, finché il piano di lavoro non sia compiuto.

Finiamola? E perché? Chi lo decide? In nome di quale potestà? Forse la Santa Sede ritiene di poter bloccare il libero lavoro di un giornale a suo piacimento? Pensa di poter decidere se un'inchiesta dev'essere pubblicata "ogni settimana" o con una diversa cadenza? E' convinta che basti chiedere la chiusura anticipata di un'indagine giornalistica per evitare che si discuta di "questa storia"? Infine, e soprattutto: non esiste più l'imprimatur, dunque persino in Italia, se un giornale crede di "tirar fuori iniziative di questo genere" può farlo. Salvo incorrere in errori che saremo ben lieti di correggere, se riceveremo richieste di rettifiche che non sono arrivate, perché nessun punto sostanziale del lavoro d'inchiesta è stato confutato.

La confutazione, a quanto pare, anche se è incredibile dirlo, riguarda la legittimità stessa di affrontare questi temi. Come se esistesse, lo abbiamo già detto, un'inedita servitù giornalistica dell'Italia verso la Santa Sede, non prevista per le altre istituzioni italiane e straniere, ma tipica soltanto di Paesi non democratici. In più, Sua Eminenza è il Capo del governo di uno Stato straniero che chiede di "finirla" con il libero lavoro d'indagine (naturalmente opinabile, ma libero) di un giornale italiano. Dovrebbe sapere che in Occidente non usa. Mai.

Stupisce questa reazione quando si parla non dei fondamenti della fede, ma di soldi. E tuttavia se la Chiesa - com'è giusto - vuole far parte a pieno titolo del discorso pubblico in una società democratica e trasparente, non può poi sottrarsi in nome di qualche sacra riserva agli obblighi che quel discorso pubblico comporta: per tutti i soggetti, anche quelli votati al bene comune. Anche questo è un aspetto della sfida perenne, e contemporanea, tra democrazia e religione.

 

I dati dell'Osservatorio del mercato immobiliare pubblicati dall'Agenzia del Territorio. Solo un lieve rallentamento della crescita delle quotazioni: in tre anni +26,5% per i capoluoghi

I prezzi delle case continuano a crescere. Ma le vendite calano del 3,4% sul semestre

ROMA - Da tempo si parla di una diminuzione dei prezzi delle case, quantomeno di una frenata, ma intanto dalle rilevazioni continuano a emergere solo ulteriori aumenti. In soli tre anni, i prezzi delle case solo saliti di oltre un quarto e continuano a crescere, rileva l'Osservatorio del mercato immobiliare pubblicato dall'Agenzia del Territorio: in particolare, per i capoluoghi si tratta di un aumento del 26,5% dal 2004 mentre per i comuni non capoluogo l'incremento è stato del 23,2%. Nei primi sei mesi dell'anno i prezzi delle case sono saliti del 6,6 per cento.

A scendere, nello stesso periodo, è solo il numero delle compravendite nel settore residenziale del 3,4%: questo perché probabilmente c'è un atteggiamento 'attendista' degli aspiranti acquirenti, che stanno rimandando la stipula del contratto in attesa della sospirata discesa dei prezzi, auspicata anche dagli agenti immobiliari.

Il volume delle compravendite complessivo è stato di 884.442 transazioni. I dati, sottolinea il direttore dell'Osservatorio Gianni Guerrieri, fotografano comunque "una inversione di ciclo già preannunciata, che si riflette innanzitutto sulle compravendite e poi sui prezzi, per i quali si assiste ad un lieve rallentamento del tasso di crescita, che comunque resta positivo".

Per quanto riguarda la quotazione media di riferimento, relativa al settore residenziale, essa risulta pari a 1.518 euro al metro quadro, in crescita del 2,8% rispetto al semestre precedente e del 6,6% su base annua, ma in rallentamento rispetto al secondo semestre 2006 (quando si era registrato un +3,7% semestrale e un +8,8% annuo).

Tale rallentamento, sottolinea l'Osservatorio del mercato immobiliare, è "più sensibile" per i capoluoghi che pure hanno registrato un incremento pari al 2,7% sul semestre precedente (+4,1% nel secondo semestre 2006) e al 6,9% su base annua (+10,5% nel secondo semestre 2006).

Nei comuni non capoluogo, invece, le quotazioni aumentano del 2,9% nel semestre (+3,4% nel secondo semestre 2006) e del 6,4% su base annua (+8,1% nel secondo semestre 2006), con un incremento dal 2004 pari al +23,2%.

Sul piano territoriale, il Sud conta due primati. Uno, per il boom dei prezzi negli ultimi anni; il secondo per il calo consistente delle compravendite.

Nel dettaglio, nel Mezzogiorno, dal 2004 le quotazioni sono aumentate del 32,7% nelle città e del 29,9% nella provincia e le compravendite nel settore residenziale sono diminuite del 4,6% contro il -2,6% del Centro e il -3,1% del Nord (in linea con il dato nazionale). Sempre al Sud, i volumi di compravendite sono calati del 4,5% per le città e aumentati del 6,8% nei comuni minori. In alcuni capoluoghi - come Napoli e Palermo - si sono avuti cali rispettivamente del 14,2% e del 13,7%, seguiti subito dopo da Milano (-13,5%) e Roma (-10,1%).

 

Chi controlla Bassora?

Primo test per le forze irachene che controllano Bassora al posto del contingente britannico

Questa mattina la città sembra tranquilla, ma i disordini di ieri hanno lasciato tra la popolazione un clima di insicurezza generale. Questa la situazione a Bassora, nel sud dell'Iraq, dove ieri si è svolto il primo vero test per le forze di sicurezza irachene, dopo il passaggio di consegne con il contingente britannico, ritirato da settembre nella base creata all'interno dell'aeroporto cittadino.

I fatti. Ieri la polizia locale ha dovuto affrontare scontri a fuoco contro l'esercito del Mahdi, la milizia controllata da Moqtada Sadr che, a un certo punto della serata, annunciava di aver preso il controllo della città. Secondo l'emittente al Jazeera il capo della polizia locale, Muhammad Qaji, è stato costretto alla fuga e per qualche ora i miliziani sciiti hanno presidiato i palazzi del potere e le vie del centro al posto della polizia. Il bilancio degli scontri sarebbe di quattro morti e almeno dieci feriti. Pare inoltre che i miliziani abbiano catturato 50 agenti della sicurezza. Stando alle prime ricostruzioni la battaglia è iniziata quando la polizia ha fermato uno dei capi dell'esercito del Mahdi, apparentemente per una violazione stradale, e lo ha arrestato. A quel punto i miliziani sadristi hanno attaccato la polizia per liberarlo, inssescando scontri a fuoco in diverse parti della città, in particolare nel quartiere al-Andalus e attorno al quartier generale delle forze di sicurezza. La situazione è stata riportata sotto controllo grazie alla mediazione del generale Mohan Firaji, comandante delle forze di sicurezza irachene a Bassora. é stato un incidente, un malinteso ha poi dichiarato Haider Jaberi, un membro dell'esercito del Mahdi.

Milizie sciite contro. La scaramuccia di ieri tra milizie e sicurezza irachena è scoppiata per un motivo di poco conto ma si è conclusa con una schiacciante dimostrazione di superiorità da parte delle milizie, che tra l'altro si ritiene abbiano ampiamente infiltrato la polizia irachena. Negli ultimi mesi Bassora è stata teatro di scontri tra i diversi gruppi sciiti: che fanno capo al partito di Sadr, al Supremo Consiglio Islamico Iracheno e al Fadhila, che governa ufficialmente la provincia. Mentre le forze britanniche dallo scorso settembre si sono ritirate in una base fortificata fuori dall'abitato di Bassora e hanno avviato un progressivo ridimensinamento del contingente. Finchè la polizia non sarà in grado di controllare il territorio la situazione nella città, ambita da tutte le fazioni sciite e filo-iraniane per le sue immense risorse petrolifere, è destinata a rimanere incendiaria. I britannici tuttavia non mostrano particolare preoccupazione. Dopo gli scontri il maggiore Jamie Halford-Macleod, uno dei portavoce del contingente di Londra, ha dichiarato che manteniamo la responsabilità complessiva sulla provincia di Bassora, e risponderemo come riterremo sia necessario. Il contingente britannico non è in grado di gestire la sicurezza dell'intera provincia meridionale e mantiene la sua presenza nelle basi solo per controllare i pozzi, gli oleodotti e le raffinerie. La popolazione civile si trova sempre più spesso tra due fuochi, ma per le forze della coalizione e il governo di Baghdad l'importante è che il petrolio del sud non finisca nelle mani delle milizie sciite, o peggio, degli iraniani.

 

100 miliardi evasi

100 miliardi, pari a 7 punti di pil. E' quanto brucia in una anno l'evasione fiscale in Italia. Ma tra il 2006 e il 2007 un quinto delle «mancate entrate» è stato recuperato. E' il dato saliente del Rapporto al parlamento redatto dal viceministro del'economia Vincezo Visco. Finita la stagione dei condoni, i 23 miliardi di maggiori incassi sono dovuti sia all'incremento degli accertamenti che all'adeguamento «spontaneo» da parte dei contribuenti. Un risultato positivo che Visco definisce «acquisito e non temporaneo». Diventerà consolidato solo se continuerà la lotta all'evasione fiscale.
Il sommerso fiscale italiano supera almeno del 60% la media dei paesi dell'Ocse. L'evasione coinvolge tutti i settori dell'economia. Un buon 80% è generato nel settore dei servizi (alle imprese e alle famiglie) e nel commercio. Costruzioni e servizi immobiliari celano il 50% dell'imponibile, l'agricoltura nasconde il 39% del valore aggiunto dell'Irap). Le grandi imprese evadono di più in valore assoluto, ma in percentuale le piccole e medie si comportano peggio: occultano il 55% in più di base imponibile delle grandi. Le differenze tra Nord e Sud sono «minime», sostiene il rapporto, rompendo lo stereotipo secondo cui al Sud si evade più che al Nord. L'evaso Irap, in termini assoluti, è simile in Campania, Puglia, Lombardia e Veneto. In alcune province sia del Nord che del Sud il valore aggiunto evaso supera quello dichiarato.
Nel 2007 i controlli sostanziali antievasione sono stati 321mila (+34%), quasi 9 mila le verifiche complesse (+29%.).

 

I maccheroni al «cartello»

L'Autorità per la concorrenza indaga sugli aumenti concordati dei prezzi

Roberta Carlini

Stavolta li hanno presi proprio con le mani nel sacco. Di farina. I pastai italiani, riuniti nell'associazione detta Unipi, sono da ieri ufficialmente sotto indagine dell'antitrust per il rincaro dei prezzi della pasta. L'accusa fatta dall'autorità antitrust agli industriali della pasta è quella di aver concordato e deliberato l'aumento dei prezzi.
Com'è noto, e come da qualche mese non mancano di sottolineare produttori e venditori, all'origine del rincaro degli spaghetti - così come del pane - c'è l'aumento del costo della materia prima, la farina, nella versione grano duro e grano tenero. Però i pastai sono accusati di aver deciso al vertice il come, il quando e il quanto del trasferimento del rincaro della materia prima al consumatore. Cancellando così qualsiasi parvenza di quella libera concorrenza sul mercato alla quale tutti fanno ferventi professioni di fede, a partire dalla casa madre della stessa associazione dei pastai - la Confindustria.
I fatti che hanno portato l'Autorithy garante della concorrenza e del mercato guidata da Antonio Catricalà ad aprire l'istruttoria annunciata ieri risalgono al 18 luglio 2007. Quel giorno, si legge nel provvedimento dell'Antitrust che a sua volta cita il ricorso della Federconsumatori della Puglia, si sono riunite a Roma una cinquantina di imprese aderenti all'Unipi, l'Unione Industriale Pastai Italiani, associazione di 160 imprese aderente a Confindustria, che raccoglie l'85% della produzione complessiva delle paste secche. In quest'incontro i padroni del maccherone hanno preso in esame il rincaro del prezzo del grano che, a loro dire, è stato del 50% dall'inizio dell'anno; il prezzo di un chilo di farina, da gennaio all'estate, è salito da 24 a 35 centesimi di euro. Di qui la decisione, presa in quella riunione, di aumentare il prezzo della pasta: a fronte di un 50% di aumento della materia prima, avrebbero deciso un 20% di aumento dei listini. Dunque, l'associazione di categoria avrebbe agito come un vero e proprio cartello, decidendo sui prezzi da applicare all'intero settore, in barba alla concorrenza.
Questo il sospetto dei ricorrenti e della stessa autorità Antitrust, che non ha per ora avuto bisogno di assumere Sherlock Holmes per scoprire il fattaccio, dato che all'uscita di quella riunione fu lo stesso presidente dell'Unipi Mario Rummo a dare pubblico annuncio della decisione: «C'è bisogno di un ritocco dei listini del 20%, riscontrabile sugli scaffali di vendita da settembre». Seguito a ruota dal suo vicepresidente che precisò all'Ansa: «Parte degli aumenti sono già stati applicati, i restanti aumenti saranno graduali per arrivare a un aumento finale di 12-14 centesimi».
Detto, fatto: al rientro dalle vacanze è esploso il caro-pasta, contemporaneamente al caro-pane. Ora, se è del tutto comprensibile che l'aumento della materia prima - il grano - comporti prima o poi un aumento anche dei prezzi al consumatore, è altrettanto evidente che il peso del costo della materia prima può essere diverso da produttore a produttore, e che ciascuno di questi può decidere, nell'ambito della sua impresa, qua[ nta parte del rincaro trasferire sui prezzi e quando farlo. Mettersi d'accordo per farlo tutti insieme, è la semplificazione più chiara del "cartello", del patto ai danni del consumatore: chi garantisce che davvero i prezzi del grano sono saliti del 50% (gli agricoltori smentiscono)? E chi dice che su tutti i produttori quell'incremento pesa esattamente allo stesso modo?
Per indagare su questi fattacci, l'Antitrust ha preso un anno di tempo: entro il 2008 infatti dovrà chiudersi l'istruttoria aperta ieri. Che è diretta non già contro i singoli produttori - Barilla, Divella, De Cecco, Amato, Agnesi ... - ma contro la loro associazione, Unipi, nonché contro la corrispondente associazione delle piccole e medie imprese, l'UnionAlimentari. Nel frattempo, niente obbliga i singoli produttori ad abbassare i prezzi, anche se potrebbero essere indotti a farlo per addolcire il verdetto finale dell'Autorità. Che però è indebolita anche dalle regole sulla determinazione della sanzione. Infatti questa dovrà essere inflitta all'associazione, e non ai singoli produttori (le grandi industrie), e dunque commisurata al suo (misero) fatturato.
Alla sbarra dell'Antitrust non c'è infatti mister Barilla, che con la sua produzione di pasta secca copre il 40% del mercato, né il signor Divella o la De Cecco o gli altri medi produttori. Al contrario di quanto è previsto per l'antitrust europeo, la legge antitrust italiana non consente di trasferire l'onere dall'associazione agli associati, a meno di non prendere anche questi platealmente con le mani nel sacco di farina.
Forse è per questo che, nel luglio di quest'anno, i rappresentanti dei pastai non hanno fatto niente per nascondere quel che stavano tramando dietro gli scaffali: sapendo che al massimo rischiavano una piccola multa. E una gran brutta figura: l'apertura dell'indagine antitrust non è proprio un bel viatico per le celebrazioni del «World Pasta Day», che si terranno domani a Roma con gran finale gastronomico alla casina Valadier.

 

Le ricchezze eccessive di Piazzaffari

Mediobanca offre gli indici e i dati dei successi azionari di banche forti e altre imprese scampate

g. ra.

Le banche italiane quotate in borsa pagavano nel 1997 agli azionisti 1,7 miliardi di euro, in lire naturalmente, perché l'euro non era ancora stato inventato. Nel 2001 l'ammontare era salito a 4,5 miliardi, per raggiungere i 12 miliardi nel 2006. Oltre il 60% è la parte di due banche soltanto per il 2006: Intesa Sanpaolo con 4,9 miliardi e Unicredit con la metà, 2,5 miliardi di euro.
Oltre che offrire lauti dividendi, le banche hanno anche divorato altre banche, tanto che di 51 istituti quotati nel corso dei dieci anni presi in considerazione, ne sono in funzione ormai soltanto 26. Ricchezza fragorosa e cannibalizzazione delle banche sono descritte con il rigore delle cifre dall'edizione 2007 degli «Indici e dati» di Mediobanca, presentati ieri e da ieri in rete.
Anche le compagnie di assicurazione si sono praticamente dimezzate, riducendosi a 9. I dividendi lordi sono passati dai 686 milioni del 1997 ai 1.093 milioni di 2001, fino ai 2.221 milioni del 2006. Va notato che nel 2005 il risultato complessivo era più ricco, e arrivava a 2.692 milioni, per la presenza nel listino di due assicuratrici storiche, Ras e Toro che sono sparite dal listino di borsa.
Banche e assicurazioni coprono poco meno di metà dei dividendi complessivi della borsa nel 2006. Questi infatti superano i 30 miliardi. Nel corso di 10 anni il dividendo complessivo si è mioltiplicato per 5 o quasi. Era infatti di 6,5 miliardi nel 1997, per crescere fino a 18,6 miliardi nel 2001 e agli attuali 30,4 miliardi di euro. Le altre società, cosiddette industriali (almeno questa è la dizione di Mediobanca) sono 223, la prima è As Roma, l'ultima è Zignago vetro, mentre altre 105, depennate, rimangono solo per via del nome conservato negli elenchi per la storia. Spesso furono imprese importanti, come Ferruzzi e Montedison e Pirelli e Parmalat.
I dividendi pagati nell'ultimo quinquennio, tra 2002 e 2006 pari a 120 miliardi, sono poco meno del doppio di quelli pagati tra 1997 e 2001, pari a 67 miliardi. Tra le imprese industriali si può ricordare l'andamento della Fiat che paga tra 1997 e 2000 un dividendo complessivo immutato di 353 milioni annui. Nel 2001 riduce la cifra quasi a metà, distribuendo 202 milioni. Poi per 4 anni non paga dividendi, e sono gli anni del disastro industriale; e in corrispondenza il valore delle azioni si riduce ampiamente, per poi risalire negli ultimi tre anni, nell'epoca di Sergio Marchionne, finché in relazione al 2006, viene distribuito un dividendo di 275 milioni.
Può essere interessante ricordare anche i risultati di Eni ed Enel. La prima società quadruplica il dividendo nel corso dei dieci anni considerati, passando dai 1.156 milioni del 1997 ai 2.876 milioni del 2001 e ai 4.595 milioni di euro del 2006. Non troppo diverso l'andamento dei dividendi dell'Enel. Evidentemente l'aumento di prezzo del petrolio e del gas aumenta i successi della compagnia elettrica che dai 1.453 milioni del 1999 (nel 1997 non era in borsa), passa ai 2.183 milioni del 2001 e ai 3028 del 2006.
Una notazione soltanto. Una borsa così aumenta il divario di redditi tra chi ha azioni e chi non ne ha.

 

23 ottobre

 

Gli Usa cacciati da Manta

Costretti a lasciare l'Ecuador, puntano a costruire una base in Perù

L'Ecuador di Rafael Correa sta per segnare un altro punto nel braccio di ferro con il cosiddetto primo mondo. Dal 1999, la base di Manta è usata dagli Stati Uniti, che la considerano punto strategico per il controllo della regione. Ma fra poco, quell'accordo scadrà e il governo non ha nessuna intenzione di rinnovarlo. A spiegarci come la Casa Bianca abbia reagito a questa presa di posizione del piccolo paese sudamericano è Ana Esther Cecena, ricercatrice messicana esperta in materia.

I fatti. L'accordo sulla base di Manta con gli Stati Uniti è decennale, dunque scadrà nel 2009 racconta - Tutto andava a gonfie vele per Washingotn fino all'arrivo di Correa alla presidenza dell'Ecuador, che ha coinciso con una forte pressione del movimento contro la guerra, di quello contro le basi militari e della campagna per la smilitarizzazione delle Americhe. Questi hanno cercato di convincere il presidente a non ratificare un nuovo accordo con gli Usa e lui li ha ascoltati. Così, per la prima volta nella storia latinoamericana, un presidente ha detto no a una collaborazione militare con gli Stati Uniti. E i militari nordamericani non potranno fare altro che andarsene da Manta, uscendo definitivamente dal territorio ecuadoriano.

Soldato del comando Usa del sud, Ecuador

La reazione. Adesso è però importante vedere quale sia il progetto Usa per sostituire Manta, dato che quella base ha una posizione molto strategica racconta Cecena - Da lì controllano una grande fetta del territorio. Perderla, dunque, implica due possibilità: o rinunciare a quel potere di supervisione o conquistare altre posizioni che permettano loro di coprire almeno il medesimo raggio di azione, se non di più. E chiaramente gli Usa hanno puntato sulla seconda opzione. Quando gli Stati Uniti decisero di trasferirsi a Manta riprende l'esperta messicana - fu perché dovettero ritirarsi da Panama. Ma per supplire a tale perdita crearono un triangolo che moltiplicò la loro influenza. Costruirono la base Compalapa in Salvador, la Reina Beatriz in Aruba, isola dei Caraibi a nord del Venezuela, la Hato Rey in Curacao e, appunto, Manta in Ecuador. Quindi, lasciarono, sì, un luogo strategico, ma solo fisicamente, dato che continuarono a controllarlo spostandosi poco più in là e conquistando, in più, molte altre postazioni, col risultato di ampliare la loro influenza sulla regione. E, secondo Esther Cecena, con Manta sta succedendo qualcosa di molto simile. Per rimediare alla perdita della base ecuadoriana c'è già il progetto di costruirne una in Perù e un'altra in Colombia, col risultato di ampliamento del loro raggio di azione. Se in Colombia non vanno che a rafforzare una presenza già massiccia, quella del Perù è una novità importante. La Casa Bianca precisa la studiosa - è ultimamente molto preoccupata per quanto sta avvenendo in quell'area. Quella del Cono Sud è una zona dove guadagnare posizione è costato molta fatica. E adesso, questa sorta di fuoco rosso incrociato fra Morales in Bolivia, Correa e il venezuelano Chavez complica molto le cose. Per questo mettere piede in Perù è fondamentale. Da un lato garantisce la loro presenza nello stesso paese andino, da sempre molto inquieto; e dall'altro permette loro di pressare l'Ecuador e di tenersi a due passi dalla Bolivia. Quella da Manta è dunque contemporaneamente un'uscita e un riposizionamento.

Uscita e riposizionamento. Ma Ana Esther Cecena tiene a precisare che la presa di posizione inedita di Correa non perde, comunque, di importanza. Il no dell'Ecuador segna una sconfitta storica degli Stati Uniti, che di fatto vengono cacciati fuori spiega -. E questo è importantissimo. La reazione che sta avendo Washington non sminuisce la politica di Correa, bensì conferma quante risorse abbiano gli Usa, dimostra come ancora possano contare su paesi alleati che lo lasciano entrare, fare e disfare. Il Perù, per esempio, in cambio di aiuti umanitari, ha permesso agli Stati Uniti non solo di iniziare a costruire la base, ma anche di stanziarsi nel nord del paese dove avvengono, da due anni, esercitazioni di ogni genere. Si tratta di vere e proprie ricognizioni militari sul territorio, molto meticolose. E non solo: parlano con la gente, si inseriscono nella società e magari, capita pure che costruiscono anche qualche scuola o centro medico, dove tutti vengono curati con gli analgesici. Intanto, occupano un'area fondamentale nello scacchiere geopolitico: non dimentichiamo l'importanza strategica del nord del Perù e le sue risorse naturali. Stando là si ha accesso all'area amazzonica e quindi a tutte le sue risorse. È un modo per occupare il territorio.

Paesi amici. Attualmente in America Latina le basi più importanti, oltre a Manta sono otto: 5 in Colombia, ossia due al nord-est, al confine con il Venezuela, due a sud, al confine con l'Ecuador, e una nei pressi di Panama, nel Choco, area indigena e di afrodiscendenti, dove si registra un numero impressionante di sfollati; una in Honduras, una in Salvador, e quella di Guantanamo. Ma Ester elenca anche Haiti, che in qualche modo è un paese occupato, che si può paragonare a una sorta di base militare di controllo regionale. Mentre, nella tanto agognata Triple Frontera, Brasile-Paraguay-Argentina, ancora non hanno potuto costruire una vera e propria base, grazie alle reticenze argentine. Ma in compenso sottolinea Cecena - hanno costruito l'ufficio della Cia e della Dea e hanno stretto un accordo bilaterale con il Paraguay che dà alle truppe nordamericane la totale immunità. C'è anche un accordo per ripristinare una vera e propria base militare in Paraguay, ma è stato sospeso per le proteste del movimento pacifista, arrivate proprio in periodo elettorale. Ugualmente, la presenza Usa nel paese latinoamericano si fa sentire con l'occupazione di un areoporto immenso che permette l'atterraggio degli aerei Galaxy, quelli che trasportano squadroni, carrarmati e via dicendo. E comunque conclude - in tutti i luoghi più importanti per le risorse energetiche e ambientali ci sono truppe Usa. Nell'acquifero Guarani, per esempio, ci sono le basi operative della Dea. E così è per ogni zona calda del continente.

Stella Spinelli

 

Gli sconcertanti dati della Confesercenti sugli affari criminali: "La 'Mafia 'Spa è l'industria italiana che risulta più produttiva"

"La mafia? E' la prima azienda italiana". Per Sos Impresa 90 mld di utili l'anno

ROMA - Con un utile annuo pari a 90 miliardi di euro, una cifra equivalente a cinque manovre finanziarie o, se si preferisce, alla somma di otto "tesoretti", l'"azienda mafiosa" si classifica al primo posto nella classifica dell'imprenditoria italiana. Un primato difficile da spodestare, dato che il giro d'affari che ruota intorno a sfruttamento della prostituzione, traffico di droga e armi, estorsione, rapine e usura non sembra conoscere crisi.

Il rapporto sulla criminalità di "Sos Impresa" della Confesercenti delinea un quadro drammatico. In base ai dati raccolti, l'usura rappresenta la principale fonte di business criminale per la mafia, con circa 30 miliardi di fatturato. Il racket frutta ai clan 10 miliardi, 7 miliardi arrivano dai furti e dalle rapine, 4,6 dalle truffe, 2 dal contrabbando, 7,4 dalla contraffazione e dalla pirateria, 13 dall'abusivismo, 7,5 dalle mafie agricole, 6,5 dagli appalti e "solo" 2,5 dai giochi e dalle scommesse.

Dati che fanno ancora più impressione, se messi in relazione a tutti gli organismi e ai cittadini coinvolti nel giro dell'illegalità. Il racket delle estorsioni coinvolge 160 mila commercianti italiani, con una quote di oltre il 20 per cento dei negozi e punte dell'80 per cento negli esercizi di Catania e di Palermo. I commercianti e gli imprenditori subiscono 1.300 reati al giorno, praticamente 50 l'ora.

La collusione degli imprenditori. "Uno degli elementi che colpisce maggiormente - sottolinea il documento - è l'espansione della cosiddetta "collusione partecipata", un fenomeno che investe il gotha della grande impresa italiana, soprattutto quella impegnata nei grandi lavori pubblici. Gli imprenditori preferiscono venire a patti con la mafia piuttosto che denunciare i ricatti".

Confesercenti fa anche alcuni nomi di aziende che hanno "ceduto" alla criminalità. "Il colosso Italcementi - si legge nel rapporto - è uno di quelli che ha ceduto alla morsa, supportando maggiori costi, assumendosi numerosi rischi ed agevolando, così, l'espansione economica della cosca dei Mazzagatti.

Anche per i lavori della Salerno-Reggio Calabria gli imprenditori sono stati costretti a trattare con le cosche calabresi. La Impregilo - sempre secondo Sos Impresa - aveva insediato nelle società personaggi che, secondo gli inquirenti "da sempre avevano avuto a che fare con esponenti della criminalità organizzata e con imprese di riferimento alle cosche".

 

Aggressioni, risse e raduni segreti. Centinaia di denunce sono arrivate negli ultimi sei mesi. Tra Varese e Milano il nuovo laboratorio degli aspiranti resuscitatori del Terzo Reich

Noi, nazisti della porta accanto. Ecco i nuovi estremisti di destra

dal nostro inviato PAOLO BERIZZI

VARESE - La bambina ha sei anni e il braccio teso nel saluto nazista. I capelli biondi che le accarezzano le spalle, la frangetta, un vestito bianco, il sorriso inconsapevole come se stesse giocando alle belle statuine. In un'altra immagine è in piedi accanto al padre. Riproduce il gesto che le ha insegnato papà, camerata varesotto e nostalgico regimista. Poi ci sono i politici. Gente che ricopre incarichi istituzionali, che siede nei consigli comunali di importanti comuni lombardi. Nelle file di Alleanza Nazionale o del Movimento nazionalsocialista dei lavoratori (la riproduzione del partito nazista di Adolf Hitler, attivo dal 2002, tre seggi tra Nosate e Belgirate alle ultime elezioni amministrative).

Le foto di cui Repubblica è entrata in possesso li ritraggono a volto scoperto, sprezzanti di fronte all'obiettivo, in pose ardite. La più truce è a metà tra una parata delle SS e un'istantanea di terroristi Nar. I quattro nazisti, giubbotto e occhiali scuri, uno di fianco all'altro, le mascelle serrate, salutano romanamente. Con una mano. Con l'altra impugnano pistole semiautomatiche. Sono puntate verso il fotografo. Uno la brandisce inclinandola in orizzontale; un altro la tiene appoggiata al petto. Sono nazisti d'Italia. Soldati delle nuova ultradestra del nostro Paese, una galassia che, tra partiti ufficiali, movimenti e sigle minori, conta qualcosa come 15 mila tra iscritti e simpatizzanti. Ben 97 episodi criminali del 2006 sono riconducibili a gruppi neofascisti, quasi il doppio di quelli registrati nel 2005. Un centinaio tra indagati, denunciati e arrestati solo negli ultimi sei mesi di quest'anno, in un'escalation di aggressioni e attentati soprattutto contro immigrati e avversati politici.

I nazi che vi stiamo raccontando abitano nelle provincie di Varese e Milano. E' il nuovo laboratorio degli aspiranti resuscitatori del Terzo Reich. La Procura varesina li ha indagati per istigazione all'odio razziale. Una cinquantina di persone. Non solo e non tanto ragazzotti dai bicipiti gonfi e tatuati.

Piuttosto professionisti, 40-50 anni, commercianti, antiquari, gioiellieri, politici noti, ben inseriti nel ricco tessuto sociale brianzolo. Tutti con una passione comune: il culto del Fuhrer e del Ventennio nazifascista. Li vedete immortalati in momenti di vita quotidiana: il giorno del matrimonio e assieme ai figli, in gita in montagna. Impegnati in parate militari nei boschi del varesotto, davanti a svastiche e falò. O al pub, tutti insieme, uniti dal "Sieg Heil!" e dal "Me ne frego!". Di fronte all'immagine di Hitler a grandezza naturale. Avvolti in bandiere con croci celtiche e uncinate e con il simbolo della Repubblica sociale italiana. Sono prodotti di un vento nero e denso che spira sull'Italia democratica del terzo millennio. Un vento che s'introduce nelle pieghe dell'antipolitica, punge le memorie e si insinua, infestandoli, in molti luoghi, e lì deposita una crosta sempre più spessa. Nelle curve degli stadi e nei consigli comunali. Nei pub di provincia e nelle sezioni dei partiti istituzionali (Fiamma tricolore, Forza Nuova, Fronte Nazionale). Nelle borgate e nei pensatoi della droite ezrapoundiana, lepeniana e franchista. Nei campi hobbit dove si formano i moderni balilla e in quelli rom presi di mira a colpi di molotov.

La galassia nera è in fermento, sempre più nostalgica, sempre più violenta, sempre più sdoganata. In un hotel di Brescia sabato scorso è nato il Partito fascista repubblicano, fondatore tal Salvatore Macca, già combattente della Rsi e presidente emerito della Corte d'appello bresciana. A Sassari hanno varato il collettivo Azione fascista nazionalsocialista. A Latina è venuta al mondo Rifondazione fascista. E questo per dire solo i battesimi. Poi c'è tutto il resto: i raduni, i campi d'azione, i pestaggi rivendicati, i pellegrinaggi nei campi di concentramento per farsi ritrarre con l'accendino sotto le immagini delle sinagoghe bruciate (come i nazi-irredentisti altoatesini raccontati da L'Espresso in gita nel lager di Dachau). I negozi che vendono le felpe con il soldato SS che spara da sdraiato e i convegni come quello promosso il 29 settembre a Roma. Titolo: "Il passaggio del testimone - Dalla Rsi ai militanti del terzo millennio".

Ai nazisti piacciono le birrerie. 24 febbraio 1920: nella birreria Hofbrauhaus di Monaco si proclama il manifesto del Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori. Un anno dopo la guida del partito viene affidata a Adolf Hitler. 23 aprile 2007: al pub Biergarden di Buguggiate, Varese, si celebra la nascita del Fuhrer. Sono un centinaio a sbronzarsi di birra per festeggiare il compleanno del Capo. Intonano cori contro ebrei e comunisti, decantano la superiorità della razza ariana sui tavoli di legno del locale di Francesco Checco Lattuada, capogruppo di An a Busto Arsizio. "Sì, quella sera c'ero, ma solo perché il locale era mio" (ora è chiuso), si difende con qualche imbarazzo Lattuada. C'erano anche due suoi colleghi di partito, alla festicciola, Roberto Baggio e Alessandro Stazi, consiglieri aennini rispettivamente a Legnano e Rieti. Quest'ultimo accompagnato da un folto gruppo di camerati saliti dal Lazio. Sono stati tutti denunciati a piede libero, ma restano politicamente in carica.

Sembrava di stare a Braunau (paese natale di Hitler) quella sera a Buguggiate. Ma il nazismo che andava in scena, spiato dalle cimici della Digos di Varese, era tutto italiano. Odorava di periferia, tracimava di odio contro gli immigrati. La bile che smuove il naziskin 25enne che incontriamo in un bar di Busto Arsizio. Sta piantato sugli anfibi con postura mussoliniana. "Di cosa parliamo...?", taglia corto. Cranio lucido, jeans aderenti, maglietta Blood and Honour (organizzazione internazionale per la difesa della razza ariana, simbolo una svastica nera in campo rosso). Solo la esse moscia lo umanizza un po', Andrea, il nome è inventato. Il resto è trucidismo puro. "Gli immigrati? Sono come gli ebrei, schifosi. Sterminarli tutti! Porco...", e giù una bestemmia, il motore dell'odio a pieni giri.

Varese un po' più su. Gavirate. Agriturismo vista lago. Davanti a una tavola apparecchiata con salumi e formaggi, il padrone di casa Rainaldo Graziani, romano, figlio "orgoglioso" di Clemente, fondatore di Ordine Nuovo, leader degli ultradestricattolici di Compagnia Militante, prova a volare alto. "La nostra è una destra pensata, come dire: colta, che va sui contenuti". Quali siano questi contenuti un'idea se la sono fatta Maurizio Grigo e Luca Petrucci, procuratore capo e sostituto procuratore di Varese, titolari dell'inchiesta che ha stroncato, almeno per ora, il Movimento nazionalsocialista dei lavoratori. In cambio, tante lettere di minaccia. Graziani, pure indagato, se ne frega, atteggiamento che in fondo ha una sua coerenza storica. Dice: "Qui abbiamo ospitato due edizioni dell'Università d'estate, un forum di tutte le destre radicali europee. Non mi importa se mi danno del nazista. A me interessano altre cose: i valori naturali, la Fede, la patria, l'onore del nostro popolo".
Altre parole, altri orizzonti. "Questo è l'avamposto dal quale partire alla conquista dell'Italia" confida a un amico il "generale" Pierluigi Pagliughi. 45 anni, commerciante da tempo convertito al nazismo, Pagliughi è il leader del Movimento lavoratori, di cui è consigliere comunale a Nosate. Secondo gli investigatori è lui l'ideologo della nuova culla nazista brianzola. Il programma politico? Un impasto di proposte di facile presa ("Tagliare i costi della burocrazia") e slogan di ammirazione per Hitler ("Avrebbe dato una Volkswagen gratis a tutti i tedeschi!"). Ma chi si muove alle spalle di Pagliughi? Solo giovani teste rasate o anche padri di famiglia con la camicia bruna nel cassetto? "Quello dei neonazisti è un ambiente molto eterogeneo", dice Fabio Mondora, dirigente della Digos di Varese. "Hanno un'organizzazione ben strutturata e collegata con gruppi estremisti stranieri" - aggiunge il sostituito procuratore Luca Petrucci.

Dalla Brianza al Veneto. Anzi, al Veneto Fronte Skinhead. Vi ricordate il movimento nero più duro d'Italia, fondato nel 1986 e capace di intercettare e amalgamare giovani squadristi curvaioli e reduci repubblichini? Se lo davate per morto e sepolto, vi siete sbagliati. Il Fronte c'è, e lotta. Giordano Caracino, 27 anni, di lavoro fa il corriere. Guida il furgone dieci ore al giorno, poi, al motto di "Mai domi!", riunisce i suoi, 200 sparsi in tutto il Veneto, nei locali dell'hinterland vicentino. "Oggi il coraggio vero è affrontare la vita come gli arditi del Piave - dice - Arrivare a fine mese con i salari bassi e i mutui alti. Siamo noi i rappresentanti della working class".
In passato il Fronte ha collaborato "in piazza" con il partito egemone della destra radicale italiana: Forza Nuova. Diecimila iscritti, il partito di Roberto Fiore ha messo il cappello sul "movimentismo" nero anti immigrati: "Ormai non ci picchiamo più coi "compagni", è più facile che ci siano risse con le compagnie interetniche - dice Paolo Caratossidis, nel direttivo nazionale forzanovista - Dove ci sono problemi di immigrazione, noi ci siamo". Se volano calci e pugni, fa niente. "Calci e pugni" d'altronde è anche il nome di una linea d'abbigliamento da stadio. La indossano i picchiatori neri delle curve romane e i militanti milanesi di "Cuore Nero". Alessandro "Todo" Todisco, 34 anni, operaio, ultrà interista, è il leader: "Ci hanno incendiato la sede prima che la inaugurassimo. Pensavano che avremmo sparato. Invece abbiamo fatto una festa. Vuole sapere cosa penso del nazismo? Sono stati nostri alleati, per questo dobbiamo rispettarli". Milano, Varese, Italia. I nazisti al tricolore.

 

Emeriti benefici: 30 uomini per ogni ex presidente

Ciampivacanza150_4 Si parla di tagli e volano le polemiche. Fino a investire il Colle più alto della Repubblica, quello del Quirinale. Francesco Cossiga non ha peli sulla lingua: «Non metterò più piede là dentro nemmeno quando quelli lì mi convocheranno per le consultazioni di rito in caso di crisi di governo». Cossiga tuona, ma non è il solo a sentirsi colpito. Anche Oscar Luigi Scalfaro e Carlo Azeglio Ciampi, gli altri due ex presidenti della Repubblica, celano a fatica il loro disappunto e in privato si lamentano delle ultime iniziative del Colle.
Nella corsa ai risparmi che dovrebbe portare a un dimagrimento dei costi del Quirinale (217 milioni nel 2006), è stato preso di mira il trattamento concesso agli ex capi dello Stato. Una voce di spesa che per ragioni di riservatezza la presidenza della Repubblica preferisce non divulgare: a Lespresso è stato opposto un cortese rifiuto.
Cosa cè in ballo esattamente? A ciascuno dei presidenti cessati dalla carica spetta una lunga serie di servizi a spese del Quirinale: un dipendente della presidenza della Repubblica, con funzioni di segretario, distaccato (in posizione di comando) nel suo staff; due dipendenti, con funzioni di guardarobiere e di addetto alla persona, distaccati presso labitazione privata. Ancora: un telefono cellulare o satellitare, un fax, una linea urbana riservata, un collegamento punto punto con il centralino della presidenza, uno con la batteria del Viminale e una connessione diretta con la centrale dei servizi di sicurezza del Quirinale. Con una particolarità: la duplicazione di questi impianti, uno installato presso lo studio e laltro presso labitazione. E non è finita: agli ex spettano anche collegamenti (sempre duplicati) telematici per la consultazione delle agenzie di stampa e di banche dati, e televisivi in bassa frequenza. Infine, cè lauto, «dotata di telefono veicolare» e con autista, spettante anche alla vedova dellex presidente o al primo dei suoi figli.
A questa dote a carico del Quirinale gli ex presidenti sommano (oltre alluso di navi, aerei e treni a cura della presidenza del Consiglio) pure le garanzie per i senatori a vita previste da Palazzo Madama: un ufficio (tra i 150 e i 200 metri quadrati) e segreterie particolari con un capufficio, tre funzionari, due addetti alle mansioni esecutive, altri due addetti alle mansioni ausiliari più, a scelta, un consigliere militare o diplomatico. Senza contare le scorte: contando le postazione fisse davanti alle case, ci sono una ventina di poliziotti e carabinieri. Insomma: oltre 30 persone al servizio di ciascun ex presidente.

 

Vaticano: «Su Eluana sentenza inaccettabile»

Duro attacco dell'Osservatore romano alla Cassazione: «Orienta il legislatore verso l'eutanasia». Un «relativismo di valori» da respingere

Mimmo de Cillis

Il nuovo corso dell'Osservatore Romano inaugura il suo lavoro usando lo scudiscio. Non è andato per il sottile il quotidiano della Santa Sede, diretto da qualche settimana dal nuovo ticket Vian-Di Cicco, nel commentare la sentenza della Cassazione sul «caso Eluana». Parola d'ordine: «inaccettabile», per una serie di ragioni che, se possono sembrare ben argomentate e legittime da un punto di vista filosofico-morale (la posizione della Chiesa in merito è arcinota), non lo sono se si considera una premessa: un organo di stampa vaticano sta dettando legge e stigmatizzando la magistratura di uno stato sovrano, che ha il compito di garantire l'applicazione della legge. La colpa della Cassazione è, secondo l'Osservatore, che «nel vuoto legislativo, una tale posizione, significa orientare fatalmente il legislatore verso l'eutanasia», all'insegna di un «relativismo dei valori», «inaccettabile soprattutto se questi riguardano la conservazione o meno della vita».
Il quotidiano vaticano critica soprattutto le basi su cui si fonda la decisione della Cassazione: «Attribuire a ognuno una potestà indeterminata sulla propria esistenza», infatti avrebbe «conseguenze facilmente immaginabili, anche solo ragionando dal punto di vista etico». Di più: introdurre il concetto di «pluralismo dei valori significa aprire una zona vuota dai confini non più tracciabili». In altre parole, l'uomo non è padrone della propria vita, che appartiene solo a Dio. E dunque anche lo stato vegetativo in cui si trova un essere umano potrebbe essere in qualche modo reversibile («nessun esperto potrebbe dichiarare l'irreversibilità», si legge nella nota, «se non in base a una scelta puramente soggettiva»). Allora nessuno, nemmeno i familiari più vicini, hanno il diritto di staccare la spina a Eluana, soprattutto esaminando il caso specifico della ragazza, di cui non si può presumere la volontà, «riguardo a un trattamento che fra l'altro si pone al limite fra terapia e nutrizione».
L'approccio del quotidiano vaticano, non è certo dei più morbidi, e la nuova leadership - che agisce sotto l'ala protettiva di mamma cardinal Bertone (il segretario di stato che segue da vicino le pubblicazioni della Santa sede) - ha voluto mostrare ben presto di che pasta è fatta. Nessuno sconto, nessun indugio. Nessuna remora a intervenire (e interferire) su questioni che sono appannaggio del potere legislativo e giudiziario del bel paese.
Facile sponda alla nota dell'Osservatore sono state le parole del Segretario generale della Cei, Giuseppe Betori, che aveva ricordato il principio cardine «la vita va difesa sempre», proprio mentre la chiesa italiana riceveva la splendida notizia dell'elevazione cardinalizia del presidente dei vescovi italiano, Angelo Bagnasco. Un'eco alle dichiarazioni vaticane è giunto dall'associazione «Scienza e Vita», che ha parlato di «accanimento ideologico nei confronti di Eluana Englaro», dicendosi «preoccupata dalla palese strumentalizzazione di un caso umano per forzare la mano al legislatore». «Con l'invito a ricostruire la volontà pregressa del malato, stabilita dalla Cassazione - dice l'associazione - in realtà si tira la volata al testamento biologico che proprio in questo caso si manifesta per quello che è: l'anticamera dell'eutanasia.

 

20 ottobre

 

Paura al capolinea

di Fabrizio Gatti

Aggressioni. Molestie sessuali. Furti. Ubriachi minacciosi. Così autobus e metrò si trasformano di notte. I controlli scarseggiano. E sempre più italiani disertano i mezzi pubblici

L'ultima moda è il film porno sul telefonino. Grida e versi da Kamasutra a tutto volume hanno preso il posto della classica manomorta: l'adattamento tecnologico di una squallida violenza da mettere in scena su autobus, tram e metrò. Come stasera sul 105 che ha appena lasciato alle spalle le luci di Roma e punta verso la periferia di Tor Bella Monaca. Il maniaco di turno potrebbe stancarsi in pochi minuti. Oppure continuare a tormentare la ragazza biondo tinto con accento dell'Est e pedinarla alla sua fermata. Infatti lui non si stanca. Lei, seduta di fronte allo snodo centrale dell'autobus, urla spaventata: "Basta". Si alza, cerca di farsi largo per avvicinarsi all'autista. Il maniaco, età sulla trentina, odore di birra nel raggio di un metro e provenienza indefinita, la segue. La folla di passeggeri sembra indifferente. Invece qualcosa succede. Un pachistano non si sposta. Impedisce all'ubriaco di raggiungere la ragazza. Un italiano lo aiuta. Sono vicini all'uscita. Arriva la fermata. Si aprono le porte. L'autista guarda nei monitor e non riparte subito. I passeggeri qui davanti, nove su dieci stranieri, fanno muro. Il maniaco può solo scendere i gradini. Le porte si richiudono.

La ragazza bionda sorride e ringrazia. Forse è finalmente il sintomo di una nuova società civile. Italiani e immigrati uniti da un senso comune. Peccato che avvenga soltanto su un autobus. Una volta scesi, anche questo sottile legame tra sconosciuti si scioglie. Anzi, le campagne sulla sicurezza hanno contagiato i mezzi pubblici. Tanto che pochi italiani se ne servono la sera tardi o nei fine settimana. Una conseguenza paradossale che aumenta traffico e inquinamento. E soprattutto divide il Paese. Tra benestanti e nuovi poveri, tra chi ha l'auto e chi non ce l'ha. Così alla fine, anche senza volerlo, la differenza più apparente è tra chi è nato in Italia e chi è immigrato da poco.

Un viaggio sulle linee della paura. Una discesa nelle stazioni del metrò che a Milano, nonostante i pericoli, restano a volte incustodite. Si può partire dalla metropoli lombarda, capitale nazionale della sicurezza trasformata in politica. Proprio l'Atm, l'azienda dei trasporti pubblici in città, è il luogo dove tutto questo ha inizio. Primo giugno 1991, deposito di via Padova: pochi tranvieri di un sindacato autonomo protestano contro una vicina baraccopoli abitata da stranieri. Arriva il sindaco, Paolo Pillitteri, socialista, cognato di Bettino Craxi. Fino ad allora la politica di governo non si è mai spinta più a destra del Partito liberale. E Pillitteri reagisce di conseguenza: "Sporchi fascisti", grida il sindaco davanti alle telecamere del tg, "squadristi, nazisti. Siete la vergogna di Milano. Straccioni, siete uno pseudosindacato". Seguono querele e interrogazioni in Parlamento. Di quei sindacalisti qualcuno ha fatto carriera nei comitati contro gli stranieri, altri in An. E 16 anni dopo quel primo giugno, complice la cronaca, il rapporto tra italiani e immigrati è quello che tutti conosciamo.

L'aggressione può capitare su qualunque percorso, a qualunque ora. Pochi giorni fa un'insegnante di 25 anni è sull'autobus che porta a Baggio. Quando vede che sta andando in periferia, capisce di avere sbagliato linea. Scende. Aspetta la coincidenza. È un martedì, metà pomeriggio. Si avvicina un romeno di 36 anni che forse sta seguendo la ragazza da qualche fermata. La trascina in un campo e la violenta. L'uomo lo arrestano dopo qualche ora alla Stazione Centrale. Le altre aggressioni dell'ultima settimana a Milano fanno parte della quotidianità. Due controllori picchiati a colpi di karate sulla linea 90 da un cinese senza biglietto. Una capotreno di 23 anni presa per il collo da un italiano su una carrozza del Passante metropolitano. Più la solita rassegna di borseggi, molestie sessuali, minacce.

Il sindaco Letizia Moratti l'ha ripetuto più volte nella campagna che le ha fatto vincere le elezioni: la sicurezza è un diritto dei cittadini. Ma chi prende i mezzi pubblici a Milano non può conoscere quanti rischi corra davvero. Nemmeno quali siano le linee più pericolose. L'Atm non dà aggiornamenti sui reati. "Sono dati sensibili", spiega ufficialmente l'azienda. Il perché è chiaro. Vengono censurate tutte le informazioni che potrebbero creare allarme e ridurre la vendita di biglietti. Passano soltanto le notizie rassicuranti. Come il comunicato in cui si annuncia che entro il 2008 gli addetti ai controlli e alla sicurezza a bordo aumenteranno da 120 a 240. Le prime sette squadre di rinforzo sono già al lavoro: hanno scoperto che su tre importanti linee urbane (90, 91 e 57) il 20 per cento dei passeggeri fermati non paga il biglietto. Un'evasione spaventosa che, secondo l'azienda, riguarda italiani e stranieri. Contro una media fisiologica che non dovrebbe superare il 4 per cento.
Raddoppiare le squadre non è uno sforzo da poco in un'azienda che non può aumentare il personale. Così sono stati ridotti gli agenti di stazione nella metropolitana. 'L'espresso' ha scoperto che alcuni ingressi ai treni restano incustoditi. Sono tra le fermate più affollate della città: Loreto, Lambrate, Porta Venezia, Duomo. I monitor nella cabina accanto ai tornelli li lasciano accesi, ma non c'è nessuno a guardarli. Il controllo in realtà esiste: dovrebbe essere fatto a distanza con le telecamere. Ma le inquadrature sono troppo strette. Basta mettersi bene in vista nei mezzanini del metrò, scattare fotografie e aspettare la reazione. Fare foto è vietato. Soltanto una volta, però, a Lambrate l'addetto ai monitor se ne accorge e avvia la procedura d'allarme. Arrivano due agenti di stazione. Avvertono la polizia. Poi chiedono gentilmente di cancellare le immagini: "Misure antiterrorismo", spiegano. Il sabato e la domenica si può tornare con macchina fotografica e telecamera senza che intervenga nessuno. Dall'alba alle sette di sera questi mezzanini sono senza personale. Meglio non dare altri particolari sulle vie di accesso. Il metrò è il mezzo di trasporto più vulnerabile in una città. Nel 2002 uno squilibrato in nome di Allah ha incendiato una bombola di gas all'ingresso della stazione Duomo. Una sera di queste quella bombola sarebbe potuta finire sul treno.

Il pericolo non è solo legato alle minacce del terrorismo. In caso di emergenza, chiunque potrebbe correre a chiedere aiuto all'agente di stazione. Se si sale la scala sbagliata, in alcuni orari della settimana ci si ritrova in un mezzanino completamente vuoto. Inutile tentare di telefonare al 113: nei sotterranei della metropolitana di Milano (ma anche a Roma), i telefonini non hanno campo. Nemmeno nei punti più delicati come sotto il consolato americano (o sotto piazza San Pietro a Roma). Così, per mostrare più sicurezza in superficie si è ridotta la sorveglianza nel sottosuolo. Il personale parla malvolentieri di questi aspetti. Un agente di stazione, Andrea Pianeta, 56 anni, ci ha provato prima degli attentati a Madrid e a Londra. Nel 2004 il consiglio di disciplina dell'Atm ha deciso il suo licenziamento nonostante Pianeta fosse il rappresentante di un sindacato autonomo. Denunciato per divulgazione di notizie false e tendenziose, il Tribunale gli ha invece dato ragione. Pianeta ha dunque presentato ricorso alla sezione del lavoro per essere riassunto: il suo caso verrà discusso nel 2009. Intanto, rimasto senza stipendio, ha perso la casa dove abitava in affitto. L'azienda sostiene che il sindacalista sia venuto meno al vincolo fiduciario. L'ex agente di stazione oggi vive alla giornata in un dormitorio.

La situazione dei trasporti urbani a Milano è molto simile a quella romana. L'Atac, l'azienda della capitale, nonostante il corposo ufficio pubbliche relazioni non è in grado di fornire dati sui reati a bordo. Secondo le segnalazioni di autisti e pendolari, le linee su cui è più facile assistere o essere vittima di molestie e aggressioni sono la 105, la 55 notturna, la 784 per il quartiere popolare di Corviale. Dopo un vertice in prefettura l'azienda da qualche settimana ha modificato il percorso dei collegamenti locali a Tor Bella Monaca. "Siamo stati più volte bloccati e rapinati da una banda di ragazzini del posto", racconta un autista della linea 055, "non volevano soldi. Prendevano l'estintore di bordo e se ne andavano. Oppure tiravano sassi contro il parabrezza. Così l'azienda ha deciso di cambiare strada. L'altro problema sono gli ubriachi. Salgono alla stazione Termini e quando arrivano al capolinea se la prendono con noi perché vogliono tornare indietro".

Gli atti vandalici sono una spesa in più per i cittadini anche a Napoli: 207 denunce nel 2006, 148 al 30 settembre di quest'anno. L'Anm napoletana ha installato sistemi di videosorveglianza su 160 mezzi destinati alle zone a rischio come Secondigliano, Scampia, i quartieri flegrei. Le immagini vengono conservate per 48 ore. Tutti gli autobus sono collegati alla centrale con un sistema di telecontrollo satellitare.
Gli autisti di Bologna chiedono cabine di guida separate dai passeggeri. Qualche sera fa un loro collega si è trovato intorno al collo le mani di un ubriaco che voleva scendere a una fermata non prevista. "Dall'accento era bolognese", racconta Anna, 26 anni, alla guida di un autobus della linea che porta al quartiere Pilastro: "A noi non importa se siano italiani o stranieri. Quello che avvertiamo è l'aumento di piccole aggressioni nei nostri confronti da parte di gente ubriaca. La maggior parte, va detto, sono stranieri che salgono nella zona della stazione". Il 14 agosto a Bologna un autobus con una ventina di passeggeri è stato dirottato da un ragazzo armato di siringa. Nei mesi precedenti due ragazze sono state seguite e, una volta scese, violentate.

L'Atc, l'azienda dei trasporti pubblici a Bologna, è la più trasparente nel fornire dati, tra quelle interpellate da 'L'espresso'. Le linee più critiche sono: 11, 13, 14, 19, 20, 25, 27 e 36. Sono le stesse segnalate in un'indagine del 1994 e a fine degli anni Ottanta: un problema fisiologico nella città, legato al tipo di vita nei quartieri. Eppure di tutto questo, oggi viene data colpa solo all'immigrazione. Nel 1994 Mike Davis, il sociologo urbano americano, in un'intervista alla rivista 'Sicurezza e territorio' di Bologna, inquadrava così la questione: "L'intero dibattito sulla criminalità è in realtà un discorso sulla situazione razziale... La sicurezza è anche sempre di più parte di uno stile di vita dove si è protetti non dal contatto con ciò che è pericoloso, ma da quello che è semplicemente fastidioso". Lorenza Maluccelli, l'autrice dell'intervista, oggi lavora per il dipartimento di Scienze umane dell'Università di Ferrara: "Anche se italiani e stranieri salgono sullo stesso autobus, il legame sociale non si può solo evocare. Esistono distanze oggettive: culturali, economiche. Questo è un problema reale: la crisi è nella mediazione sociale". Mike Davis parlava di Los Angeles. Ma le sue parole potrebbero valere oggi per gli autobus di Bologna, Milano, Roma e città ad alta percentuale di immigrati come Brescia: l'unico luogo dove italiani e stranieri mettono in contatto i loro percorsi. E le loro paure.

 

Sono i piccoli figli di donne carcerate. 42 in tutta Italia. Con le norme attuali, a tre anni devono lasciare la madre

Quei bambini dietro le sbarre, una legge potrebbe liberarli

Un ddl in discussione prevede la detenzione in case famiglia protette, senza sbarre alle finestre e con guardie in borghese

di ANNA MARIA DE LUCA

BAMBINI in carcere, in attesa di una legge che li liberi. Sono 42 in tutta Italia, venti soltanto a Roma. Da più di un anno alla Camera giace un disegno di legge che permetterebbe di porre fine alla loro detenzione in quanto figli di donne carcerate. Ma mentre i tempi della politica procedono lenti, i piccoli continuano a vivere dietro le sbarre. Questa mattina, l'associazione Antigone e Rifondazione hanno presentato alla Camera un video girato nel nido di Rebibbia, dove vivono diciassette bimbi rom e tre stranieri. Un tentativo per convincere il mondo della politica ad accelerare i ritmi di risoluzione del problema. Nella speranza che le immagini sappiano convincere più delle parole.

Il ddl "in panchina" interverrebbe nel perfezionare la legge Finocchiaro (40/01). Infatti il problema da affrontare riguarda non le madri condannate in via definitiva - per le quali sono già previste misure alternative aldilà degli ordinari limiti - ma quelle in attesa di giudizio. Per loro, il testo approvato in Commissione giustizia della Camera il 13 dicembre del 2006 prevede la possibilità di scontare la pena con i propri figli in case famiglia protette. Con personale in borghese al posto delle divise, senza sbarre alle finestre. Per alleviare ai bambini il disagio della carcerazione.

Oggi nelle sezioni nido sono rinchiusi, tra divise e sbarre, bimbi molto piccoli, in attesa di compiere il loro terzo anno. Un compleanno drammatico, perché segna il distacco dalle madri per l'affidamento alle famiglie. Con la nuova legge, invece, alloggeranno presso le case famiglia tutte le detenute - sia quelle condannate in via definitiva che quelle in attesa di giudizio - che hanno figli con meno di dieci anni. E, in caso di malattia del piccolo, si prevede che l'autorizzazione ad accompagnare il bimbo in ospedale possa essere concessa anche dal direttore dell'istituto e non solo dal magistrato di sorveglianza. Affinché non accada mai più quel che è successo questa estate a Rebibbia, dove due detenute straniere si sono trovate costrette a partorire nell'infermeria del carcere perché la magistratura di sorveglianza non ha fatto in tempo ad autorizzare il trasferimento in ospedale.

La situazione varia da città a città. "Si va da realtà come Roma - spiega Gennaro Santoro di "Antigone" e del settore carcere di Prc - dove il sabato i bambini di Rebibbia vengono portati fuori dai volontari per vivere un giorno di normalità - a realtà come Avellino, dove non esiste una convenzione tra carcere e asili pubblici e quindi i bambini restano sempre rinchiusi". A Milano, in attesa dell'approvazione del disegno di legge, è stata aperta una casa famiglia senza sbarre né divise. Roma, Firenze e Venezia stanno cercando di seguire la stessa via.

 

Il nervo scoperto di Pechino

Il Dalai Lama visita Bush, suscitando l'ira delle autorità cinesi

Scritto da Paolo Valori

Si è riaccesa la polemica fra la Cina e il Dalai Lama. La concessione di una medaglia d'oro da parte del Congresso degli Stati Uniti al leader tibetano, che vive in esilio in India dal 1959 ha mandato su tutte le furie il governo cinese. Parlando in una conferenza stampa a Pechino, il portavoce del ministero degli Esteri Liu Jinchao ha detto che la Cina si oppone con forza a qualsiasi paese e qualsiasi persona che usa il Dalai Lama per interferire negli affari interni della Cina. Abbiamo già comunicato solennemente questo agli Stati Uniti, ha aggiunto Liu. Il Dalai Lama, al quale nel 1979 è stato conferito il premio Nobel per la pace, chiede per il Tibet una vera autonomia, ma Pechino continua a considerarlo un secessionista. Alla cerimonia che si svolgerà domani al Campidoglio di Washington prenderà parte il presidente degli Stati Uniti George W. Bush. La notizia della partecipazione di Bush, che ha già ricevuto due volte il leader tibetano, ha scatenato una pesante reazione da parte di Pechino, che ha ammonito gli Usa che l'incontro potrebbe danneggiare le relazioni tra i due paesi.

Legge sulla reincarnazione. Le polemiche erano iniziate la scorsa settimana, quando i principali mezzi di comunicazione cinesi hanno rivolto pesanti attacchi al premio Nobel, accusandolo tra l'altro di aver fatto assassinare una decina di persone e di essere stato un promotore della setta giapponese Aum Shirikyo, i cui attentati hanno causato la morte di decine di persone. A completare il quadro c'è stata anche l'approvazione della nuova legge che regola la reincarnazione dei lama e la pone sotto il diretto controllo delle autorità cinesi. Tale emendamento ha scatenato la rabbia di 35 giovani tibetani esiliati in India, che giovedì scorso hanno attaccato l'ambasciata cinese a Nuova Deli. I giovani hanno urlato slogan contro la repressione cinese nella regione, scritto sui muri dell'ambasciata Liberate il Tibet e distribuito volantini ai passanti. La protesta si è conclusa con l'arresto di 20 attivisti, rinchiusi nel carcere della capitale indiana.

La scelta del successore. I giovani tibetani hanno espresso la loro indignazione per i nuovi regolamenti religiosi del governo cinese, che rappresentano un aumento dell'oppressione nei confronti del Tibet e cercano di minare l'autorità del Dalai Lama. Infatti, secondo il testo di legge, saranno le autorità comuniste a decidere chi sarà il loro prossimo capo del buddismo tibetano. Fino all'arrivo dell'attuale quattordicesimo Dalai Lama, Tenzin Gyatso, il successore veniva trovato grazie alle premonizioni, ai responsi degli oracoli e ai segni divini. Il potenziale candidato era sottoposto a una serie di prove atte a ricordare la vita precedente. Se l'esito risultava positivo egli era riconosciuto come reincarnazione del suo predecessore. Tenzin Gyatso ha però dichiarato ufficialmente che, finchè la Cina non concederà l'autonomia al Tibet, non si reincarnerà nella sua terra natia, e che al completamento della democratizzazione del governo tibetano in esilio il ruolo del Dalai Lama potrebbe diventare superfluo. Il 7 agosto 2006 ha proposto che la scelta del suo successore avvenga mediante un'Assemblea composta dai più autorevoli Lama in esilio.

Problemi anche in India. Da quando Hu Jintao è divenuto presidente, la Cina ha imposto misure ancora più severe al Tibet. Il Panchen Lama, la seconda carica spirituale del buddismo tibetano, sequestrato dal governo cinese e rimpiazzato con un monaco scelto dai funzionari di Partito, è ancora disperso e vi sono centinaia di monaci e fedeli arrestati senza motivo. L'India ospita il governo tibetano dal 1959, anno in cui fallì una rivolta popolare anti-cinese in Tibet. Da allora, il Dalai Lama e i funzionari governativi vivono a Dharamsala, nel nord dell'India. Da alcuni anni, tuttavia, il governo di Deli ha deciso di raffreddare le relazioni con gli esiliati, per cercare di migliorare i suoi rapporti con la Cina. Lo scorso anno, in occasione della visita di stato del presidente Hu Jintao, il governo ha impedito ai tibetani di manifestare contro Pechino.

 

Distruzione per tutti

Dopo 4 anni la legge sugli standard educativi voluta da Bush mostra tutti i suoi limiti

Non avranno esaminato con la dovuta attenzione e il necessario scrupolo l'attuale condizione scolastica del proprio Paese gli estensori della legge 'No child left behind', se la premessa di partenza è il raggiungimento di un 'buon grado di istruzione 'entro il 2014. Solo una percentuale infima delle scuole statunintensi è sinora riuscita a raggiungere gli obiettivi prefissati dal provvedimento quattro anni fa, quando il presidente Usa, George Bush, propose un ambizioso progetto per migliorare il livello di preparazione degli studenti statunitensi, ideando di conseguenza il 'No Child left behind' (Nessuno studente sia lasciato indietro). In via di rinnovo da parte del Congresso Usa, la legge è arrivata al quarto anno di 'applicazione', ovvero alla resa dei conti. Scaduto il quinquennio senza che gli standard vengano raggiunti, insegnanti e dirigenti potrebbero venire licenziati, e gli istituti affidati a società private, gestori provvisori o passare direttamente allo Stato.

Legge inapplicata. La situazione non è rosea per nessuno, rivela un recente articolo del Washington Post. In California, per esempio, in più di mille istituti su 9.500 la situazione è stata descritta come 'fallimentare'. In Florida, 441 scuole potrebbero chiudere. Nel Maryland, nella sola Baltimora, 49 scuole risultano palesemente al di sotto degli standard. Nello Stato di New York, 77 scuole necessitano di 'urgenti ristrutturazioni'. Mentre si sprecano i giudizi e le valutazioni di merito, nessun cambiamento radicale, come promesso da Bush ai genitori degli studenti, verrà adottato. Finora gli Stati sono restii a farsi carico degli istituti inefficienti, poichè sollevare i distretti scolastici, ovvero gli organi che li amministrano, da tale compito, equivale a trasferire la patata bollente in altre mani, quelle statali, che molto spesso piangono miseria nel campo dell'istruzione o, più semplicemente, non applicano la legge. Un'inchiesta condotta lo scorso anno da un'agenzia federale ha messo in evidenza che nell'87 per cento dei casi di 'inefficienza', gli Stati hanno sempre evitato di applicare le sanzioni della legge, se si trattava di licenziare o 'ristrutturare' l'istituto.

Obiettivi lontani. Secondo il provvedimento, una scuola etichettata come 'low-performing' per tre anni di seguito deve offrire ai propri studenti insegnanti di sostegno gratuiti o dare loro la possibilità di cambiare istituto. Dopo cinque, tali scuole vengono classificate come 'senza speranza', ovvero, si azzera tutto e si ricomincia: nuova struttura, nuovo direttore didattico, nuovi insegnanti. A Los Angeles, l'obiettivo degli 'standard' di istruzione universali previsti dalla legge per il 2014 sono più lontani che mai: 59 scuole, sulle 91 della città californiana, sono 'al di sotto degli standard', con aule che scoppiano di studenti provenienti da famiglie a basso reddito, anni scolastici sfalsati e 20 giorni di istruzione in meno all'anno per mancanza di fondi. "E poi ci si chiede perché i nostri ragazzi non passino gli esami finali", è l'amaro commento dei genitori.

Luca Galassi

 

17 ottobre

 

Gli sfollati di Mir Ali

Waziristan, ancora isolati 50mila sfollati di Mir Ali, dopo il raid militare che uccise 200 talebani "o presunti tali"

I generi alimentari non arrivano da una settimana in quella zona del Waziristan; ci sono interruzioni all'energia elettrica continue; anche l'acqua corrente va e viene. La gente di Mir Ali spesso ha dovuto portare i suoi feriti fino all'ospedale coricandoli sui letti di casa e portandoli a braccia per 50 chilometri. Una fonte di PeaceReporter nelle zone afgane vicino il confine con la provincia pachistana NwFp spiega in che condizioni si viva nei dintorni del capoluogo MiranShah da mercoledì scorso, quando una dozzina di EuroFighter F-16 hanno preso di mira la Provincia di Nord Est, luogo di frontiera dove vige la legge dei talebani.

Talebani o presunti? L'esercito ha parlato di oltre 50 soldati pachistani morti e 250 vittime totali; 50 sarebbero civili innocenti per ammissione di Islamabad, ma secondo indiscrezioni dei capi talebani della zona i ribelli islamici avrebbero conosciuto pochissime perdite. I morti sarebbero così una triste riedizione pachistana della versione talebani o presunti tali con la quale in Afghanistan si sentono spesso definire dei morti in abiti civili che si vuole far passare per combattenti insorti.

Evacuati Mir Ali, cittadina 25 chilometri a nord del capoluogo Miranshah, ha conosciuto gli attacchi peggiori, dopo che un convoglio dell'esercito pachistano aveva subito un agguato in una strada di zona sabato 5 ottobre. Degli oltre 50mila abitanti della cittadina, dopo il massiccio bombardamento dell'esercito, non è rimasto quasi nessuno. Mir Ali e il vicino villaggio di Epi sono abitati fantasma adesso; parecchie famiglie si sono trasferite 50 chilometri a Est verso Bannu, dove quasi tutti i feriti sono stati trasportati. E' il primo caso di sfollati interni nella lotta ormai senza quartiere del rieletto presidente Pervez Musharraf ai talebani , che hanno il controllo delle aree al confine con l'Aghanistan. E' stata anche la prima volta in 50 anni di storia indipendente che i jet pachistani hanno colpito sul territorio del proprio stato.

Sharia la comanda Intanto il controllo del Sud Waziristan e delle zone limitrofe è del tutto sfuggito a Islamabad. Si teme per i 250 soldati regolari sequestrati nella provincia il 25 agosto per ritorsione contro un giro di vite militare; oggi arriva la notizia del rilascio di altri 30, in viaggio verso la loro caserma di Laddah. Ma altri tre erano stati uccisi in questi giorni, dopo che i 25 rilasciati la passata settimana sembravano aprire uno spiraglio per trattative. I talebani dettano in zona la loro legge e si fanno giustizia da soli, applicando la Sharia. Venerdì scorso a Pandalai, nella zona di Mohmand (Nwfp, North west frontier province) hanno attaccato la roccaforte del bandito Yusufa Khan; 4 di loro sono morti nell'assalto, nel quale è stato ucciso il capofamiglia e altri 5 membri del clan che non si volevano arrendere. Altri 6 sono stati arrestati, e decapitati il giorno dopo sulla pubblica piazza del villaggio. Un altro caso di Sharia applicata è arrivato domenica 14, con tre capiclan condannati alla frusta nella valle di Swat da un capo talebano per aver rapito una ragazza da dare in sposa ad un membro della loro cosca. Shamroz, Bukhtyar e Muhammar Sher, di Matta, hanno ricevuto 35, 30 e 25 frustate a testa, su condanna della corte di Maulana (mullah) Fazlullah il nuovo vero capo talebano della regione, che sta applicando oramai per contro proprio la giustizia.

Gianluca Ursini

 

13 ottobre

 

Mogli e amici a bordo di un aereo del corpo, e poi di un elicottero per una gara di sci sulle Dolomiti. Una trasferta filmata: ecco il video

Gite in montagna e pesce fresco in baita

così Speciale usava l'Atr della Finanza

di CARLO BONINI

ROBERTO Speciale con coppola e montone. Le signore in pelliccia. Tutti a Passo Rolle. Per la festa sulla neve. A bordo dell'Atr 42 della Guardia di Finanza. E a cena pesce freschissimo. In casse caricate all'aeroporto di Pratica di Mare e spedite con volo militare. L'ex comandante della Guardia di Finanza ha chiesto al Paese cinque milioni di euro perché il suo onore di "uomo delle Istituzioni" e di "ufficiale" con la schiena dritta trovi giusto ristoro al "massacro" che ne avrebbero fatto in Parlamento il ministro dell'Economia Padoa-Schioppa e il suo vice Vincenzo Visco.

Un giudice amministrativo deciderà di qui a tre settimane del risarcimento. E' un fatto che, liberi dalla sua ombra, gli archivi della Guardia di Finanza cominciano a restituire qualche documento che racconta chi è Roberto Speciale. Come ha interpretato il suo comando. Quale uso abbia fatto delle risorse destinate al lavoro di un Corpo che, spesso, a fine anno, non ha risorse per mettere la benzina nelle sue macchine.

Parliamo di un filmato ufficiale girato in una fredda mattina del febbraio 2005. A passo Rolle (Trentino Alto Adige) si apre la 55esima edizione delle "gare invernali di sci" del Corpo. Un operatore delle Fiamme Gialle rivolge l'obiettivo della telecamera sull'orizzonte cobalto della pista di atterraggio dell'aeroporto di Bolzano. Nell'assolo trionfale e lancinante di una chitarra elettrica che fa da colonna sonora alle immagini, un Atr 42 turboelica del Corpo (aereo destinato, secondo le informazioni diffuse dal sito istituzionale della Finanza, al "contrasto del contrabbando", alla "sorveglianza delle coste", alle "missioni umanitarie", giocattolo da 3.500 euro l'ora, escluso il costo dell'equipaggio) si posa a terra. Il bestione rulla, avvicinandosi lentamente all'aerostazione e la musica cresce. Cresce nell'enfasi compiaciuta della regia.

Un drappello di infreddoliti ufficiali si avvicina al portellone posteriore, guidato dal generale Giulio Abati (allora comandante regionale del Trentino Alto Adige). Attesa. Poi, ecco il primo passeggero. Una signora avvolta in una pelliccia di volpe. La moglie di Roberto Speciale. Ecco il secondo. Un'altra pelliccia di volpe. La signora D'Amato, moglie del generale Salvatore D'Amato (all'epoca comandante interregionale di Napoli). Ora, la terza pelliccia. Volpe come sopra, ma rovesciata. Una giovane donna che nessuno dei presenti sembra conoscere o riconoscere, salvo l'autista del comandante generale che aspetta sottobordo e con cui scambia un affettuoso bacio.

Quindi tocca agli uomini. Un ragazzone dall'abito sportivo con una sporta di carta; un uomo di mezza età che sembra accompagni la più giovane delle signore; il generale D'Amato, in giacca a vento e quindi lui, il Comandante. Immagini di vederlo fare capolino in alta uniforme. E invece il generale si è "messo" da montagna. Coppola, giacca di montone con bottoni in osso, morbidi pantaloni in velluto verde petrolio. Lo salutano militarmente. Lui risponde allungando morbidamente la mano nel gesto dell'omaggio.

Da Bolzano a Passo Rolle sono 50 minuti di auto. La giornata è serena. In fondovalle non c'è neve. Ma la comitiva, visibilmente compiaciuta, non si nega lo spettacolo delle cime. Si accomoda su un elicottero Ab 412 del Corpo che attende a bordo pista. La chitarra elettrica della colonna sonora pesta in un ennesimo assolo, mentre l'obiettivo stringe sulle signore in pelliccia issate a bordo, su un comandante chino ad allacciare le cinture di sicurezza a chi non sa neppure da dove si cominci. Su Speciale, che ora ha tolto la coppola e inforcato dei "Rayban" a goccia con cui osserva compiaciuto il lavoro agiografico del cine-operatore.

Di nuovo in aria. Il Cimon della Pala è magnifico. I tre generali che attendono a Malga Fossa (Nino Di Paolo, generale di corpo d'armata, comandante a Firenze; Luciano Pezzi, generale di divisione, Lucio Macchia, generale di corpo d'armata) sono tre deferenti statue di ghiaccio. Alla malga, ai piedi dell'elicottero appena atterrato in una nuvola di neve farinosa, il cerimoniale si ripete nella sua sequenza grottesca. Nessuno sa bene chi salutare. Anche perché alcuni di quelle signore e signori non li conosce nessuno. Finche una Land Rover blu notte tirata a lucido se ne va con gli ospiti.

Non sembra questa la sola pagina umiliante scritta a Passo Rolle. Di storie, nel Corpo, se ne raccontano di tutti i colori. E almeno una ha lasciato tracce documentali e testimoniali. Speciale ama il pesce fresco. E, si sa, le malghe non ne offrono. In un'occasione, dunque, dall'aeroporto di Pratica di Mare viene fatto sollevare un Atr 42 con a bordo un metro cubo di pesce. Il piano di volo prevede l'atterraggio a Bolzano, quindi il disimbarco e la consegna del prezioso carico in montagna.

Il pilota è il maggiore Aldo Venditti. Ma il poveretto non ha fortuna. Le condizioni meteo su Bolzano lo obbligano ad atterrare a Verona, dove nessuno aspetta pesce. Tantomeno un drappello di sconcertati "baschi verdi" che rifiutano di farsi facchini. Tocca al pilota. E la storia smette di essere un segreto.

 

L'impero dei super ricchi

Dal messicano Slim ai magnati ucraini, dalla Thailandia a Mosca: la scalata dei miliardari favorita dagli stretti rapporti con i governi. Con una fitta rete di privilegi che stravolge le regole del mercato

Il numero dei miliardari è in rapidissima ascesa. Ogni qualvolta si aggiorna l'elenco mondiale dei super-ricchi vediamo emergere nuove facce, a volte dai luoghi più impensati. Un esempio: il tycoon messicano Carlos Slim, spesso citato come l'uomo più ricco del mondo, ha superato persino gli americani Bill Gates e Warren Buffett, che possiedono una sessantina di miliardi a testa. È vero che i tre generalmente si alternano nei primissimi posti in classifica, a seconda delle vicende del mercato azionario. Ma il patrimonio di Carlos Slim è cresciuto a un ritmo molto più rapido di quelli di Gates e di Buffett: secondo il 'Financial Times', in quest'ultimo anno Slim ha incamerato più di 52 milioni di dollari Usa al giorno.

Secondo i dati emersi da un'inchiesta della rivista 'Forbes', nel 2007 il numero dei re di denari è aumentato fino a raggiungere un record: sono ormai 946 gli individui che possiedono beni per un valore superiore a un miliardo. Tra i 178 nuovi arrivati in quest'elenco figurano 19 russi, 14 indiani, 13 cinesi, e per la prima volta anche un rumeno, un serbo e un cipriota. La somma dei patrimoni di questi super-ricchi ammonta a 3,5 trilioni di dollari Usa. Per rendersi conto delle proporzioni basti pensare che nel 2006 l'intera produzione economica di paesi quali la Germania o l'Italia ha raggiunto, rispettivamente, un valore di 2,6 e di 1,8 trilioni di dollari.

Ovviamente, il fatto che in ogni paese esistano individui o famiglie in possesso di favolose ricchezze non è una novità. E purtroppo, oggi come ieri in molte nazioni questi grandi ricchi coesistono con situazioni di inimmaginabile miseria. Dagli zar russi ai maraja indiani o alle dinastie cinesi, la storia mondiale fornisce infiniti esempi di famiglie smisuratamente ricche che hanno vissuto e prosperato in mezzo a popolazioni affamate.

La novità è che in alcuni paesi le maggiori fonti di ricchezza non sono più le stesse. Ad esempio, il più delle volte la proprietà di vasti terreni agricoli non basta a garantire un posto nell'elenco dei nababbi; meglio possedere un qualche brevetto per le tecnologie più richieste dal mercato globale. Ma per accumulare in poco tempo masse di denaro c'è un altro modo, diffuso in particolare nei Paesi emergenti quali la Cina, la Russia, la Grecia o l'Argentina: l'accesso privilegiato ai settori dello Stato che regolano le attività economiche, o anche a chi gestisce i processi di privatizzazione di aziende di proprietà statale.
Nei paesi emergenti, alcune compagnie relativamente recenti stanno trasformando il paesaggio economico planetario. Se alcune devono i loro successi alla capacità di imporsi sui nuovi mercati globali, o di affermarsi in vari settori produttivi nella competizione con altri operatori, anche tradizionali; molte riescono a farsi largo ottenendo dai rispettivi governi favori e privilegi, che consentono ai loro proprietari di schizzare da un giorno all'altro in vetta alle classifiche degli uomini più ricchi del mondo.

Il caso della società Infosys (India) illustra bene il primo caso: quello di un'impresa che si è affermata puntando non su favoritismi, ma sulle proprie capacità di competere sul mercato globale. Infosys deve la sua rapida crescita alla grande espansione dell'outsourcing internazionale, reso possibile dalla disponibilità di una forza lavoro molto qualificata a costi bassissimi. Grazie al calo verticale delle tariffe delle telecomunicazioni, questa società può offrire a clienti di tutto il mondo servizi molto competitivi in campo informatico. Un altro esempio è quello della sudafricana Sab Miller, divenuta un gigante globale non solo grazie al nuovo mercato mondiale reso possibile dalla moderna tecnologia, ma anche perché ha saputo imporsi nella competizione con le maggiori industrie di un settore antico: quello della birra. Ha infatti acquistato stabilimenti un po' dovunque (compresi quelli dell'italiana Peroni), ed è oggi una delle maggiori produttrici di birra a livello mondiale. Inutile dire che gli azionisti della Infosys e della Sab Miller hanno visto crescere notevolmente i loro conti in banca.
Mai però come il 46enne Viktor Pinchuk, residente a Dniepropetrovsk (Ucraina), che secondo il 'Financial Times' ha ammassato un patrimonio personale di ben 7 miliardi di dollari. Come? Vendendo tubi d'acciaio. Nel 1990, forte della sua qualità di esperto del settore, Pinchuk ha fondato la Interpipe, che in poco tempo è diventata una grossa azienda; e ovviamente non ha mancato di diversificare le sue attività, spaziando in numerosi altri campi, compresa la politica. Genero dell'ex presidente ucraino Leonid Kuchma, è stato deputato fino alla 'rivoluzione arancio'. Ma Mr. Pinchuk non è l'uomo più ricco dell'Ucraina. Lo ha superato il quarantunenne Rinat Akhmetov, che opera nei settori siderurgico, carbonifero, energetico, bancario, alberghiero, televisivo, delle telecomunicazioni e del calcio, e ha messo insieme un patrimonio valutato a 16 miliardi di dollari. Non c'è da sorprendersi se a parere dei critici, la rapidissima ascesa di questi magnati è dovuta più agli appoggi politici di cui godono che alla loro abilità negli affari.

La stessa diagnosi si applica ovviamente anche ai nuovi super-ricchi di altri paesi, quali la Russia, la Cina, il Messico, l'Egitto, la Romania, la Nigeria o gli Stati petroliferi del Medio Oriente. E notoriamente la questione è molto discussa in Italia. A volte è più facile far soldi a palate 'lavorando' i politici - o magari diventando un politico - che servendo al meglio i bisogni dei consumatori per affermarsi su un mercato concorrenziale. Il trucco è semplice: basta fare in modo che il governo sbarri la strada ai rivali, li privi dei presupposti per poter competere sul mercato a pari condizioni. Ad esempio, Carlos Slim è riuscito a escludere dal sistema telefonico messicano ogni possibile concorrenza. La sua compagnia gode di una posizione di assoluto dominio, che ha fatto di lui l'uomo più ricco del mondo. Ma questa situazione di monopolio ha conseguenze gravose non solo sulle tariffe telefoniche (che in Messico sono superiori alla media), ma anche sullo sviluppo dell'intero paese, come risulta da un'inchiesta del 'Wall Street Journal'.Indubbiamente Carlos Slim è abile negli affari, ma lo è più ancora nel gestire i rapporti con i politici; altrimenti non si spiegherebbe come mai tutti i governi che si sono succeduti in Messico gli hanno consentito di prosperare senza mai dover fare i conti con la concorrenza.
In molti paesi i maggiori operatori economici, non paghi di esercitare la loro influenza sugli uomini di governo, decidono a volte di eliminare ogni intermediazione per candidarsi a rivestire cariche politiche. Questo fenomeno è ben illustrato dai molti deputati milionari o miliardari del parlamento ucraino. Un altro politico a nove zeri è il magnate thailandese Thaksin Shinawatra, che col suo partito Thai Rak Thai (nome che significa Thais ama Thais) vinse le elezioni del 2001 e quelle del 2005. Ma in quello stesso anno, a pochi mesi dal voto, una serie di massicce dimostrazioni di piazza contro il suo governo diede il via a un colpo di Stato militare. Thaksin venne incarcerato e quindi esiliato, e il suo partito fu sciolto e messo al bando. Oggi il magnate thailandese, che dopo aver esordito come semplice poliziotto ha costruito un impero economico, si è stabilito a Londra. E benché in teoria tutti i suoi averi siano stati congelati dal nuovo governo thailandese, nel luglio scorso si è tolto la soddisfazione di acquistare, per 164,5 milioni di dollari, il club di calcio Manchester City; dopo di che ha annunciato di aver reclutato come nuovo manager della squadra l'ex allenatore della nazionale inglese Sven-Göran Eriksson.

Senza alcun dubbio, la grande ondata della globalizzazione, che dagli anni Novanta ha cambiato la faccia del pianeta, ha creato più mercati e più concorrenza internazionale, riducendo l'ingerenza degli Stati nella vita economica. Le nuove tecnologie hanno dato vita a nuove industrie, offrendo a nuovi attori la possibilità di entrare in concorrenza con gli operatori tradizionali. Molte aziende di proprietà statale sono state vendute a investitori privati, e si è facilitato l'accesso a nuovi concorrenti. Il mondo degli affari è oggi più globale, più ampio e competitivo. Ma non dappertutto.

In taluni paesi, le nuove regole non hanno fatto altro che creare nuove oligarchie di super-ricchi, che hanno avuto modo di prosperare grazie alla loro abilità nell'influenzare i governi, manipolare i mercati e ostacolare, se non bloccare del tutto la concorrenza. È una realtà che appare evidente a chiunque voglia dare uno sguardo all'elenco degli uomini più ricchi del mondo, e interrogarsi sull'origine delle loro fortune. Il fatto positivo è che molti dei detentori di questi immensi patrimoni hanno creato nuove tecnologie e prodotti innovativi, grazie ai quali la nostra vita è più facile e piacevole; e vari altri figurano in quell'elenco per diritto ereditario. Ma non sono pochi quelli che devono la loro fortuna non ai mercati, bensì ai favori ricevuti dai politici. Con conseguenze negative per tutti noi.

Moises Naim è direttore della rivista 'Foreign Policy'
traduzione di Elisabetta Horvat

 

Corrotti impuniti e felici

di Leo Sisti

Nell'Italia delle tangenti, in 20 anni solo il 2 per cento ha pagato con il carcere. In alcune regioni non ci sono state condanne. E oggi nessuno indaga. I dati choc di uno scandalo

C'era una volta la lotta alla corruzione. Lotta dura, simboleggiata da Mani pulite. Lotta che ha sconvolto l'Italia della politica e dell'impresa nella metà degli anni Novanta. Memorabile l'immagine di quell'industriale che usciva dal carcere milanese di San Vittore, borsa Vuitton in alto, simbolo di ricchezza e del suo potere. Aveva resistito poche ore alle manette. E giù una confessione-fiume sulle mazzette da lui girate a questo o quell'uomo politico. Purché si aprissero dietro lui le porte della prigione, in vista del processo. Ma, dopo le sentenze, quanti corruttori o corrotti hanno veramente pagato? Quanti gironi infernali hanno dovuto attraversare prima di riavere la libertà definitiva? La sensazione che pochissimi fossero gli sfortunati era diffusa. Ora c'è la certezza.

La legge non è uguale per tutti

Nell'arco di vent'anni, dal 1983 al 2002, compreso quindi il periodo di Tangentopoli, solo il 2 per cento ha scontato pene in carcere, mentre il 98 per cento l'ha fatta franca. O perché è scattata la sospensione condizionale (sotto i due anni) o perché sono state riconosciute misure alternative (servizi sociali: tra due e tre anni). E soprattutto perchè nell'87 per cento dei casi la sentenza è stata mite: sempre meno di due anni.

Sono cifre rese pubbliche da una ricerca condotta dall'ex pm Piercamillo Davigo, uno dei protagonisti di Mani pulite, ora giudice di Cassazione, e Grazia Mannozzi, docente di diritto penale all'Università dell'Insubria (Como e Varese). Ricerca riversata nel libro 'La corruzione in Italia', editore Laterza, in libreria dal 5 ottobre. Due anni per un lavoro tutto sui numeri, tratti dal Casellario giudiziale centrale. Una miniera di dati che inizialmente dovevano dar vita a una smilza analisi destinata a una rivista specializzata di diritto. Ne è venuto fuori invece un volume di 373 pagine, ricco di grafici e tabelle. Dentro, un inedito censimento sulle tangenti 'made in Italy'. Con risultati choc. Ad esempio, solo due condanne a Reggio Calabria (in vent'anni!). Ancora. Nessuno riesce a immaginare che la Finlandia, il paese più 'virtuoso' in Europa, secondo le statistiche di Transparency International, possa registrare condanne per corruzione quasi uguali a quelle dell'Italia. Che invece, sempre secondo Transparency International (classifiche elaborate sulla base di indici di 'percezione'), è al penultimo posto, davanti al fanalino di coda Grecia, la più corrotta.

Strano. Forse il Casellario ha dimenticato di censire parte della documentazione? Difficile, anzi impossibile. La realtà è un'altra. Mentre una parte della vecchia classe politica della Prima Repubblica, dal Psi di Bettino Craxi alla Dc di Arnaldo Forlani, cadeva sotto i colpi delle procure più attive (pochissime. come si vedrà), un'altra parte studiava come creare degli 'anticorpi'. Gli 'anticorpi' sono solo le manovre sfociate nel cosiddetto 'giusto processo'. Ovvero nelle modifiche di alcune norme della Costituzione (articolo 111) , e del codice penale. Cardine della riforma: l'obbligo, per gli imprenditori che hanno versato tangenti, di ripetere in fase di dibattimento quanto avevano messo a verbale durante la fase delle indagini. Non è più sufficiente che il pm presenti in aula il testo delle dichiarazioni rese in precedenza.

Insomma prima della riforma tutto questo bastava perché l'imprenditore negoziasse il patteggiamento e potesse abbandonare i tribunali il più presto possibile. Dopo avrebbe dovuto tornare nelle stesse aule e rievocare spiacevoli episodi della propria vita, tutti da dimenticare. Ma quando mai... Di colpo, un nuovo scenario si affaccia nelle corti di giustizia: chi dovrebbe aprire la bocca additando i corrotti fa invece scena muta. Grazie al giusto processo e alle sue innovazioni vengono azzerate le prove. Morale: tante belle assoluzioni.

E non è tutto. Nella prefazione al libro di Davigo e Mannozzi, Vittorio Grevi, professore di procedura penale a Pavia, scrive: "I risultati concreti dell'attività investigativa (...) sono stati inferiori alle attese, a causa dell'ampiezza della 'cifra grigia' dei fatti criminosi scoperti e accertati, ma non sanzionati da condanna definitiva, molto spesso per via della prematura scadenza dei termini di prescrizione". A proposito di risultati. I due autori bacchettano i corpi di polizia che "tendono a privilegiare l'attività di sicurezza pubblica rispetto a quella di polizia giudiziaria", ossia trascurano le indagini delle procure. Per questo annotano: "Non riteniamo di poter correlare alla (loro) attività la massiccia emersione della corruzione negli anni '92-94". A buon intenditor...

 

9 ottobre

 

Esplosione alla Simmel, un morto e 15 feriti

L'incidente si è verificato stamani nella fabbrica produttrice di missili e bombe a frammentazione

E' di un morto e 15 feriti, alcuni dei quali in gravi condizioni, il bilancio dell'esplosione verificatasi stamani nell'industria bellica 'Simmel Difesa' di Colleferro, in provincia di Roma. Le cause dell'incidente non sono ancora state chiarite. La vittima dell'esplosione aveva 35 anni, stava lavorando a un macchinario che serve per la lavorazione delle polveri. La fabbrica, attiva dal 1948, con un fatturato di 80 milioni di euro all'anno, è specializzata in produzione di munizioni e spolette di medio e grosso calibro, in particolare per i cannoni navali. Concentra le proprie attività nella progettazione, sviluppo, produzione e vendita di munizionamento convenzionale ed avanzato, spolette meccaniche ed elettroniche, propellenti, esplosivi, teste missilistiche, razzi e sistemi d'arma a razzo (Firos 30) alle Forze Armate Italiane e del mondo. Ha circa 200 dipendenti negli stabilimenti di Colleferro e Anagni, in provincia di Frosinone. Nel maggio di quest'anno, l'intero pachetto azionario della ditta è stato ceduto al gruppo britannico Chemring.

Spolette. Da tempo l'industria di Colleferro è nel mirino di associazioni pacifiste perchè accusata di produrre "cluster bombs", ordigni esplosivi che disseminano centinaia di submunizioni che possono rimanere inesplose nel terreno, minacciando per anni la popolazione. L'azienda ha però negato di produrre questi armamenti ed ha fatto sapere di averli tolti dal proprio catalogo. Secondo quanto riportano le ricerce condotto dal 'Coordinamento contro la guerra di Valle del Sacco e Colleferro', tra alcuni degli armamenti più letali nel catalogo prodotti della Simmel, figurerebbero bombe da mortaio da 81 mm, razzi 'Medusa', razzi 'Firos' contenente 77 submunizioni e Bcr (Bomblets cargo round) da 155 mm contenente 63 submunizioni. Secondo il Comitato, l'industria produce spolette e munizonamento per Stati come Gran Bretagna, Kuwait, Venezuela, Messico, Corea del Sud, Turchia e Oman. Per il ministero della Difesa italiano, la Simmel produce munizionamento per il veicolo 'Dardo', un blindato da combattimento utilizzato in Iraq. Ma la presenza dell'azienda nella valle del Sacco è criticata soprattutto per l'impatto ambientale delle sue produzioni.

Inquinamento ambientale? Nel 2005, la Simmel ha acquistato un macchinario per la macinazione del perclorato di ammonio, componente chimico utilizzato come combustibile solido per razzi e missili. Negli Stati Uniti, il composto è sotto osservazione da parte dell'ente protezione ambientale in seguito a dati analitici rilevati dal controllo delle acque e nei siti in cui sono presenti industrie di armamenti o poligoni di tiro. Il perclorato può avere effetti nocivi sulla salute umana, diffondendosi nell'ambiente attraverso l'inquinamento delle falde acquifere. Alcuni studi epidemiologici condotti nel complesso industriale di Colleferro, dove sono presenti anche fabbriche di produzione di Ddt, hanno evidenziato un'elevata mortalità nei lavoratori di alcune industrie dellarea e nella popolazione residente. Altri studi condotti dall'Asl Lazio hanno riportato unassociazione tra lesposizione a sostanze organoclorurate (derivati dal cloro), in particolare PCB (policlorobifenili) e DDT, ed effetti nocivi sulla salute delluomo, tra cui il tumore del cervello, del pancreas, della tiroide, e sarcomi dei tessuti molli, il morbo di Parkinson, lalterazione dello sviluppo nei bambini, eventi avversi della riproduzione ed asma bronchiale. Non esistono tuttavia ricerche sulla presenza di perclorato di ammonio nelle acque del fiume Sacco, per cui un collegamento tra la nocività delle produzioni della Simmel e l'elevata incidenza di tumori è per ora solo ipotetico.

Luca Galassi

 

Lo scandalo Eads raggiunge i vertici dello stato

Il colosso aeronautico francese al centro di un'indagine per insider trading che coinvolge dirigenti della società e Lagardere, l'amico fraterno di Sarkozy

Anna Maria Merlo

Parigi

Lo stato francese rifiuta ogni implicazione nel nuovo scandalo che sta scuotendo Eads, il primo gruppo aeronautico europeo, casa madre di Airbus. L'Amf (autorità dei mercati finanziari) si è rivolta alla magistratura dopo aver scoperto un enorme caso di insider trading, che ha coinvolto, tra il novembre 2005 e il marzo 2006, i 21 principali dirigenti del gruppo e della filiale Airbus, oltre a altre 1200 persone, al corrente delle difficoltà a venire e che hanno «venduto più di 10 milioni di azioni e intascato circa 90 milioni di euro di plusvalore». Ieri la ministra delle finanze, Christine Lagarde, ha ripetuto di fronte ai deputati quello che ha affermato il suo precedessore, Thierry Breton : «lo stato ha sempre considerato la partecipazione in Eads un investimento strategico e per questa ragione lo stato non ha mai venduto titoli. A causa del patto tra azionisti, lo stato non doveva né autorizzare né impedire la vendita di azioni da parte di altri azionisti, che erano totalmente liberi nella loro strategia. E' quindi falso dire che lo stato abbia autorizzato questa operazione. Lo stato ha avuto un comportamento senza macchia».
Ma l'Amf accusa lo stato francese di essere stato al corrente di questi movimenti. Una nota, redatta dopo una riunione tra i dirigenti di Eads e l'agenzia pubblica di partecipazione di stato, del 2 dicembre 2005, suggerisce addirittura allo stato di disinvestire «per approfittare della valorizzazione attuale del titolo», destinato a scendere a causa della «zona di turbolenze» che Eads vrebbe attraversato per l'accumulazione di ritardi nella costruzione dell'A380 e le difficoltà dell'A350. Il gruppo Lagardère, l'azionista privato chiamato in causa, ha deciso ieri di sporgere a sua volta denuncia. Nel governo, solo l'ex socialista Jean-Pierre Jouyet, sottosegretario agli affari europei, ammette qualcosa: «se questi fatti verranno confermati, sono estremamente gravi».
Le informazioni sull'inchiesta Amf arrivano in un momento delicato. Eads ha cambiato presidente cinque volte in due anni. L'equilibrio tra francesi e tedeschi è scosso da forti tensioni, mentre cresce la preoccupazione tra i dipendenti, minacciati dal piano di risanamento «Power 8», che prevede migliaia di licenziamenti. Tra meno di due settimane, Airbus avrebbe dovuto consegnare, con mesi di ritardo, il primo Airbus A380 a Singapore Airlines. Ma il nuovo scandalo rischia di guastare la festa. Arnaud Lagardère, l'amico fraterno di Sarkozy, implicato in prima persona (ha venduto nell'aprile 2006 il 7,5% di Eads), ha intenzione di disimpegnarsi dal gruppo aeronautico. Se i sospetti raggiuneranno anche i vertici dell'azionista tedesco DeimlerChrisler - che ha anch'esso venduto il 7,5% nell'aprile 2006 - ci saranno conseguenze nel fragile equilibrio raggiunto pochi mesi fa. Il 2 luglio, il presidente Noël Forgeard, l'amico di Chirac che aveva suscitato scandalo con la vendita delle stock options, era stato sostituito da Louis Gallois, ex presidente della Sncf, l'unico dirigente che non è messo in causa dall'inchiesta dell'Amf, perché arrivato dopo il crollo del titolo in Borsa. Nei primi sei mesi di quest'anno, il gruppo Eads ha visto gli utili crollare del 93%, a soli 71 milioni di euro, a causa delle difficoltà di Airbus e del ramo di aeronautica militare (malgrado il contratto con la Libia per i missili Milan, firmato come contropartita «segreta» nella trattativa per la liberazione delle infermiere bulgare, cui hanno dato la spinta finale Nicolas e Cécilia Sarkozy).

 

Bush taglia la sanità per l'Iraq

Il presidente ha posto il veto a una legge che estenderebbe l'assicurazione sanitaria ai bambini. Ma intanto spende 700 miliardi di dollari per la guerra in Mesopotamia

Matteo Bosco Bortolaso

New York

Il presidente degli Stati uniti George W. Bush ha posto il veto su una legge approvata dal Congresso americano da democratici e repubblicani, bloccando l'espansione del programma pubblico per l'assistenza sanitaria per i bambini statunitensi. Il disegno di legge avrebbe garantito la famigerata health care a circa dieci milioni di bimbi americani, contro gli attuali 6,6 milioni. Le famiglie che avrebbero ricevuto l'aiuto statale «non si possono permettere l'assicurazione sanitaria, ma non si qualificano nemmeno per il programma pubblico Medicaid a causa del loro reddito che è poco sopra la soglia di povertà» spiega il notiziario specializzato Medical News Today. Secondo il disegno vetato da Bush, la spesa per espandere l'assistenza sanitaria sarebbe stata di 60 miliardi di dollari per i prossimi cinque anni. Attualmente se ne spendono 25 miliardi.
Il presidente propone invece di non allargare il programma di assistenza pubblica e di stanziare soltanto 5 miliardi, garantendo solo 30 miliardi per il prossimo lustro. Bush ha firmato il veto senza grandi fanfare, quasi alla chetichella, prima di partire per Lancaster, in Pennsylvania. Sempre secondo Medical News Today, il presidente aveva ribadito più volte di non voler approvare l'allargamento del programma pubblico perché «espande il ruolo del governo nell'assistenza sanitaria ed è finanziato da un enorme incremento di tasse, mentre Bush preferisce un sistema di deduzioni delle tasse per spingere verso le assicurazioni private», che in questo modo non vengono danneggiate dalle scelte dello stato.
Sulla Casa bianca, intanto, piovono fiumi di polemiche. «Oggi abbiamo imparato che lo stesso presidente che ha intenzione di buttar via cinquecento miliardi di dollari in Iraq, non vuole spendere meno di un decimo di questa cifra per portare assistenza sanitaria ai bambini americani», ha tuonato il senatore Edward Kennedy, capo della commissione parlamentare per istruzione, lavoro e pensioni. Secondo alcuni, Bush spenderà ancora di più di quanto ha dichiarato il senatore Kennedy. Le priorità del presidente, secondo Rahm Emanuel, responsabile del Caucus democratico della Camera, sono «700 miliardi di dollari per una guerra in Iraq, ma niente health care per i bimbi meno abbienti». Il leader della maggioranza democratica al senato Harry Reid ha detto che questo «veto senza cuore» mostra quanto Bush sia «distaccato dalle priorità del popolo americano».
La conferenza dei sindaci americani, guidata dal primo cittadino di Trenton, in New Jersey, si è detta «scioccata e incredula» di fronte al rifiuto di firmare un assegno di 35 miliardi di dollari per l'espansione dello State Childrens Health Insurance, chiamato anche Schip. »Questa azione non fa altro che colpire i bambini, il futuro dell'America - ha dichiarato il presidente della conferenza, Douglas Palmer - mentre il governo sta spendendo miliardi di dollari per finanziare la guerra in Iraq, è un imperativo che l'amministrazione riconosca la necessità di prendersi cura anche dei cittadini che sono rimasti a casa».
Il veto è arrivato nonostante un tentativo di mediazione della commissione finanze del senato, che aveva approvato - con un voto di 17 a 4 - un disegno che finanziava l'assistenza sanitaria ai bambini attraverso un incremento delle tasse sul tabacco. La maggior parte dei repubblicani avevano votato la proposta assieme ai democratici. Attualmente si applica una tassa di 39 centesimi per ogni pacchetto di sigarette. La proposta chiedeva di alzare il balzello ad un dollaro per pacchetto e di tassare i sigari non cinque centesimi, come avviene adesso, ma ben dieci dollari l'uno. Uno degli autori del disegno, il senatore Charles Grassley, un repubblicano dell'Iowa, ha detto che il piano di Bush sulla sanità è «irrealistico» e che si non riesce a capire come un incremento di soli cinque miliardi - nemmeno un centesimo di quanto si spende per l'Iraq - possa aiutare a migliorare la situazione. Il presidente, però, ha preferito non intralciare gli affari delle aziende del tabacco.
Sicko e Thank you for smoking, probabilmente, non vengono proiettati alla Casa bianca, che adesso potrebbe ricevere un nuovo assedio parlamentare. Il senato può facilmente aggirare il veto perché il disegno bipartisan è stato approvato con più di due terzi dei voti (67 contro 29).
Più complessa la situazione alla Camera, dove ci sono stati 265 sì contro 159 no. Servono almeno una ventina di altri voti per riuscire a superare lo stop imposto da Bush.

 

Aste immobiliari in mano alle banche

Il ministero di giustizia taglia i vecchi informatici precari e affida il servizio a una società controllata dall'Abi (associazione delle banche). Che, generosamente, lo farà gratis

Tommaso De Berlanga

Privatizziamo tutto, ma sì! Si sa che i privati fanno tutto meglio del «pubblico» intrallazzone, che ruba a man bassa e si fa gli affari suoi.
Non siamo impazziti. Il sospetto che dietro questi discorsi mainstream si nascondano interessi corposi e maleodoranti lo avevamo già. Vederseli comparire davanti, mentre alcuni precari protestano davanti alla sede del ministero di giustizia (la «grazia» era già stata abolita da un ingegnere leghista, Castelli), è comunque una sorpresa.
La storia dei precari è semplice, nel suo ripresentarsi sempre simile. Ma questi lavorano da anni, almeno otto, nei tribunali. Per conto di due società private diverse - la Insiel e Data Service - dovevano occuparsi di «formare» personale di ruolo nell'utilizzo dei sistemi informatici: scannerizzazione degli atti processuali, archiviazione elettronica, data entry, ecc. Naturalmente si sono ritrovati ben presto a fare lavoro di cancelleria come gli altri (con la già importante differenza di non essere entrati per concorso e di non aver dovuto «prestare giuramento di fedeltà» allo Stato) in gangli alquanto delicati come le esecuzioni immobiliari, le procedure fallimentari, gli uffici dei giudici di pace, le corti d'appello sia civili che penali, le stesse procure.
Con la finanziaria 2007 (l'anno scorso) sono stati tagliati un po' di fondi anche alla giustizia e loro sono stati i primi a saltare. Fin qui sono andati avanti a forza di proroghe, ma ormai i giochi sono giunti al termine. Per quelli di Data Service c'è la cassa integrazione e poi la mobilità; per quelli di Insiel niente di niente. L'unico sindacato che ha cercato di difenderli è stato finora la Cub-RdB.
Domanda: chi sostituirà questi tecnici (visto che al ministero non ne hanno in organico)? Risposta semplice, almeno in alcuni uffici: la Asteimmobili Servizi spa, società «basata» a Biassono, in provincia di Milano. A favore di questa scelta sembra abbia pesato un vantaggio competitivo imbattibile: il servizio è offerto gratuitamente. Non avete letto male: gratis.
Seconda domanda, perciò: come mai un imprenditore dovrebbe offrire una prestazione gratuita allo stato? Beh, la risposta è seccante: perché la Asteimmobili ecc. è proprietà dell'Abi, l'associazione delle banche italiane, che avrebbe investito 3,5 milioni di euro in questa operazione. Un'offerta veramente generosa, segno inequivocabile di quanto venga sentita la «responsabilità sociale» ai vertici dei nostri istituti di credito.
Fatto sta che a Roma, Genova e Milano, all'interno di alcune stanze dei tribunali, si sono già installati un po' dipendenti di questa nuova società - precari, of course, con contratti a progetto e 950 euro al mese - tenuti rigorosamente separati dai «pubblici». I precari vecchi, nonostante fossero ormai altamente qualificati, sono stati scartati dopo un colloquio pro forma in quanto «troppo sindacalizzati».
E così si va allargando a macchia d'olio questa occupazione bancaria - privatissima, ne siamo certi - di attività piuttosto sensibili come la trasformazione dei pignoramenti degli immobili (chiesti al 99% dalle stesse banche!) in vendite all'asta; oppure le procedure fallimentari di società (che devono soldi alle banche, altrettanto spesso); l'archiviazione (o no, si potrebbe anche sospettare, visto che non sempre il deposito di un atto processuale di diritto civile prevede rilascio di una ricevuta) degli atti e delle sentenze. Non c'è dubbio: le banche gestiranno questi servizi con molta più efficienza. Magari con un po' di minore attenzione per l'«interesse pubblico». Come mettere Dracula a gestire la banca del sangue...
E' naturalmente possibile affermare che non ci sia qui un «interesse privato in atti d'ufficio» e che le banche si siano convertite alla beneficienza. Ma sarebbe veramente troppo chiedere a tutti noi di crederci. E di chiedere a nostra volta: chi ha preso la decisione politica di fare questo regalo incalcolabile alle banche? E ancora: perché tutti, sindacati compresi, tacciono?

 

Ordine di arresto per la famiglia Pinochet

L'accusa è sempre quella: peculato, nell'ambito dell'ormai noto 'caso Riggs'

L'intera famiglia del dittattore Augusto Pinochet, morto il 10 dicembre dello scorso anno, è stata raggiunta da un ordine di arresto. L'accusa è di peculato, reato per il quale era sotto processo anche il vecchio generale, autore del golpe militare dell'11 settembre 1973, che portò alla morte del presidente democraticamente eletto Salvador Allende. Durante la dittatura, più di 3.000 persone furono uccise dalle forze di sicurezza.

Augusto Pinochet

La svolta. A ordinare la detenzione dei cinque figli e della vedova Pinochet, il giudice Carlos Cerda, titolare dell'inchiesta sui fondi statali cileni depositati dagli uomini della giunta militare in alcuni conti della banca statunitense Riggs. Un procedimento che vede coinvolte 23 persone, che all'epoca lavoravano a stretto contatto con il generalissimo. Fra questi 5 generali, 7 colonnelli e un capitano dell'esercito. A questi si aggiungono l'ex diplomatico Patricio Madariaga Gutierrez, due avvocati, l'esecutore testamentario di Pinochet, Oscar Altken e la segretaria personale del dittatore, Monica Ananias. Ad attendere gli uomini in divisa, il carcere militare, i civili, invece, dovranno restare a disposizione della Gendarmeria che deciderà dove rinchiuderli.

Le origini. Il caso Riggs, per il quale Augusto Pinochet venne pure processato, trae origine da un'indagine del Senato degli Stati Uniti del luglio 2004, dalla quale emerse che l'ex dittatore cileno possedeva conti segreti nella Banca Riggs. Da questa prima scoperta, emerse che Pinochet era arrivato a possedere 125 conti bancari fuori dal Cile, per una fortuna stimata intorno ai 28 milioni di dollari.
Secondo quanto stabilirono le indagini, la Banca Riggs aveva nascosto i conti del dittatore, molto tempo dopo la sua detenzione a Londra, iniziata nel 1998 e ordinata dal giudice spagnolo Baltasar Garzón per il delitto di genocidio, e dell'ordine internazionale che ne scaturì per il congelamento dei fondi. Per impedirne l'intercettazione, la banca cambiò il nome dell'intestatario da "Augusto Pinochet Ugarte" a "A.P.Ugarte". Ma nel 2002, gli statunitensi scoprirono il giochino e a quel punto la banca tentò di occultare l'informazione chiudendo i conti e restituendo i soldi a Pinochet, affinché potesse depositarli nuovamente con un'altra identità, come dichiarò l'allora senatore Usa Carl Levin.

Gli ultimi passi. Le ulteriori fasi del processo sono concitate e terminano adesso, con questa decisione epocale. Durante il procedimento, infatti, la moglie e il figlio minore già erano stati coinvolti per complicità nella frode. Era il giugno del 2005. Ma allora erano stati poi scagionati dalla dichiarazione di Pinochet, che si era assunto tutta la responsabilità dei conti. Una svolta si intravide, poi, il 9 settembre dello stesso anno, quando il Consiglio della difesa dello Stato affermò che esisteva una connessione fra i conti di Pinochet e supposte commissioni per la compravendita di armi. Il 19 ottobre 2005, la Corte suprema dette il via a un giudizio contro il dittatore, per frode tributaria e per altri delitti. Due giorni dopo, vennero processati anche il figlio Marco Antonio Pinochet Hiriart e la moglie, Lucía Hiriart, per complicità. Anche allora, titolare dell'inchiesta è Carlos Cerda, che interrogò Augusto Pinochet quattro volte in nove giorni. Il caso Riggs, dunque, portò l'ex dittatore alla sbarra per evasione tributaria, falsificazione di strumento pubblico, falsificazione di passaporti e omissione di beni. Il 3 gennaio di questanno, la Corte d'Appello di Santiago ha però annullato quasi tutti i procedimenti contro i familiari e i colleghi del defunto generale.
Poi, ieri, la svolta.

Stella Spinelli

 

6 ottobre

 

Le relazioni pericolose

Erik Prince, presidente della Blackwater

Il presidente della Blackwater difende i suoi uomini in Iraq, ma la stampa Usa chiede di chiarezza nei rapporti con la Casa Bianca

E' arrivato il giorno dell'avvocato del diavolo, nel senso del presidente della Blackwater, il quale dopo un periodo che ha visto la principale azienda di contractors del mondo nell'occhio del ciclone, ha deciso di uscire allo scoperto venendo meno all'abituale riservatezza della compagnia di sicurezza privata per difenderne pubblicamente l'operato.

Difesa accorata. Ogni vita, compresa quella degli statunitensi in Iraq, è preziosa. E' normale che si consideri quello che è accaduto una tragedia, ma secondo le nostre informazioni il 16 settembre non è avvenuto nulla che non rientrasse in una normale operazione in una situazione di guerra complicata come l'Iraq. A parlare è Erik Prince, 38 anni, ex incursore dei temuti commando della Marina Usa, fondatore (nel 1997) e attuale presidente della Blackwater, checommenta così le polemiche emerse dopo la strage del 16 settembre scorso, quando alcuni uomini dell'azienda Usa, di scorta a un uomo d'affari, hanno aperto il fuoco a Baghdad contro la folla uccidendo 11 civili.
Prince ha difeso i suoi uomini, scegliendo la linea del 'deprecabile incidente', e ha sottolineato come la stessa Blackwater, dall'inizio della guerra, abbia perso 30 uomini mentre nessuna delle persone che l'azienda ha scortato ha subito danni.

Un buon lavoro. Un 'good job' insomma, che non merita le critiche piovute addosso alla compagnia negli ultimi giorni. Non la pensa così Henry A. Waxman, deputato democratico che presiede la commissione bipartisan del Congresso Usa che indaga su quanto accaduto in Iraq con i contractors. Nei giorni scorsi la commissione ha pubblicato un rapporto sulla Blackwater, che censura l'attività degli specialisti della sicurezza privata in Iraq, accusando al contempo l'amministrazione Bush di voler proteggere e coprire l'operato dell'azienda. Nel rapporto è citata una missiva del Dipartimento di Stato che faceva pressioni sulla Blackwater, ordinandole di non diffondere informazioni sulle operazioni condotte in Iraq senza autorizzazione dellamministrazione Bush.

Protezioni in alto. La procedura, piuttosto irrituale, è stata censurata anche dai militari Usa che, secondo il Washington Post, tollerano sempre meno la presenza di queste guardie private in Iraq, che hanno creato spesso problemi ai militari causando danni come la strage del 16 settembre, definita da una fonte vicina al Pentagono citata dal quotidiano Usa un danno d'immagine peggiore di quello di Abu Ghraib. Secondo l'inchiesta del Washington Post, dal 2004 a oggi, le spese sostenute per i contractors dal Dipartimento di Stato superano quelle sostenute per il Pentagono. La Blackwater ha incassato più di 800 milioni di dollari da Washington, mentre sono circa 100 milioni di dollari quelli incassati dal Pentagono.
Una somma enorme, per un lavoro che ha portato per 195 volte a scontri a fuoco in Iraq, e in 163 occasioni sono stati i contractors ad aprire il fuoco per primi. In 25 casi i dipendenti della compagnia di sicurezza privata Usa sono finiti sotto inchiesta in Iraq per reati connessi all'abuso di droga e alcool, e in 28 casi sono stati accusati di utilizzo disinvolto delle armi.
L'aspetto che incuriosisce di più la Commissione Waxman, e la stampa Usa, è lo strano rapporto che pare legare la Blackwater all'amministrazione Bush, dalla quale la compagnia di sicurezza privata ha ricevuto dal 2001 appalti per un miliardo di dollari, nonostante un rendimento non sempre soddisfacente.

Christian Elia

 

La guerra del cibo

di Carlotta Mismetti Capua

Stop alle multinazionali, sì alla biodiversità dell'agricoltura. L'indiana Vandana Shiva e l'africana Aminata Traoré combattono le stesse battaglie

Vandana Shiva con il sari arrotolato intorno al corpo e il bindi rosso sulla fronte. Aminata Traoré con il copricapo in testa e il boubou colorato fino ai piedi. Vestiti tradizionali e un carisma fuori dall'ordinario: così queste due donne girano il mondo per difendere la loro terra, raccontando altre verità.

L'una, Vandana Shiva, voce autorevole dell'India dei contadini. L'altra, Aminata Traoré, leader radicale dell'Africa di chi non ha voce. Sono due combattenti, volano da un continente all'altro come ambasciatrici contro la globalizzazione. Parlano forte e chiaro, e lo fanno in Paesi dove le donne non parlano affatto. Le loro sono battaglie diverse ma in fondo simili perché combattute con strumenti identici. Il nemico è lo stesso: i governi corrotti, le multinazionali, il Wto, l'Occidente dei monopoli e del capitalismo col turbo. Vandana Shiva è una fisica e una delle scienziate più note del suo Paese: attivista lo è diventata dopo. Si batte per la biodiversità in agricoltura, contro i semi geneticamente modificati che vengono venduti agli agricoltori indiani e che li mandano in rovina. Coordina una comunità che fa il possibile per aiutare i coltivatori dei villaggi a liberarsi dalla schiavitù della multinazionale Monsanto.
Ma lavora con i governi di tanti Paesi, in Italia con la Regione Toscana (al progetto di San Rossore, luogo di elaborazione del pensiero new global). "Il suicidio dei contadini indiani, che hanno seminato i loro campi con gli Ogm venduti dagli americani", racconta, "è il mio dolore, il mio pensiero quotidiano. Nell'ultimo decennio, in India, più di 40mila agricoltori si sono suicidati - anche se sarebbe più esatto parlare di omicidio, o addirittura di genocidio", racconta Shiva, che con la sua organizzazione ha salvato cinque villaggi, convincendo i loro abitanti a riconvertirsi ai semi biologici. "La vita dei contadini è diventata molto difficile. Perché le politiche economiche del governo non li aiutano. Vedo le donne che non sanno come sopravvivere, che vedono il proprio lavoro distrutto".

Per cercare soluzioni a questi problemi macroeconomici Shiva parte dalle piccole cose. Per esempio si preoccupa del compost, il fertilizzante che viene preparato partendo dagli escrementi delle mucche. "Le donne indiane hanno sempre avuto il compito di preparare il compost per nutrire i terreni. Oggi invece le multinazionali vendono veleni: fertilizzanti che promettono miracoli. Ma che come primo risultato di fatto estromettono le donne dal lavoro nei campi. Il loro ruolo viene cancellato dalla chimica. Una chimica guerrafondaia per origine e vocazione: i fertilizzanti furono inventati in campo militare, e usati in Vietnam contro la popolazione. Fanno male alla terra, fanno male alla salute, fanno male alle donne".

Vandana è convinta che la biodiversità dell'agricoltura, i semi, i sistemi di lavorazione, gli aratri, i trattori, i campi, i vigneti, il granoturco potranno cambiare il mondo. "Certo, non è un risultato al quale si arriva senza lottare", dice. "Credo che oggi sia in corso una nuova Guerra mondiale: quella del cibo". Aminata Traoré è un'intellettuale, una scrittrice. Ha la bellezza imponente di molte donne africane: la voce è potente, rotta dalla rabbia spesso, qualche volta dall'emozione. Quando parla è come se stesse arringando le folle, come fosse sempre su un palcoscenico. È stata ministro della Cultura del Mali, il suo Paese natale, poi consulente economica di tantissime organizzazioni internazionali. Ha studiato psicologia a Parigi, ha scritto molti libri denuncia, tutti tradotti nelle varie lingue europee, italiano compreso. Ha anche inventato e creato il Forum sociale africano, ed è stato un successo: si è tenuto, nella prima edizione, a Bamako, prima di sbarcare quest'anno a Nairobi.
"Un'altra Africa è possibile" era lo slogan delle duemila persone che vi si sono ritrovate. Lo scopo era quello di parlare, conoscere e dare obiettivi comuni agli attivisti sociali africani. Le battaglie che li hanno uniti sono state quelle contro la povertà assoluta, la corruzione, l'assenza di sicurezza sociale, le politiche per l'Aids. "Ma soprattutto abbiamo dato al mondo un'immagine diversa dell'Africa, un'Africa pronta a combattere e a difendersi", racconta, sistemandosi ogni tanto il turbante che porta come una corona. "Abbiamo bisogno di costruire una politica diversa, libera, che parta dal basso", sostiene. "In Africa non abbiamo la possibilità di spiegare, di far comprendere alla gente cosa succede e perché. Le cose accadono senza che se ne conosca il motivo. È questa la cosa più terribile".

Vandana Shiva è una scienziata che ha deciso di fare politica, Aminata è un'intellettuale dalle teorie estreme: "Oggi il pianeta vive le stesse difficoltà, ovunque: la sofferenza di un giovane africano non è così diversa, né lontana, da quella di un giovane italiano. Forse è utopico pensare che il Terzo mondo salverà i primi due", dice, "ma quel che è certo è che la soluzione, la strada per la salvezza del pianeta, non arriveranno da chi comanda ora. Io ho diritto alla mia utopia, ovvero che l'Africa possa indicare a ogni Paese la via di salvezza da questo mondo così tormentato. Penso all'Africa delle relazioni umane, pacifiche, solidali, semplici: se il continente da cui provengo non è precipitato nel caos più totale è proprio grazie a questi legami deboli ma costanti tra la gente". Nel libro L'immaginario violato (Ponte alle Grazie) Aminata Traoré ha esposto chiaramente le sue teorie. E, prima di tutto ha sottolineato che l'Africa, per le violazioni dei colonizzatori che ha dovuto subire, non ha imparato a pensarsi. A immaginare un futuro per se stessa, senza colonizzatori. Perché, secondo la Traoré, le colonizzazioni in Africa non sono mai finite.

Aminata Traoré racconta di "provare dolore quando guardo la televisione, non a casa mia, ma in Europa, nelle stanze d'albergo. Perché nei telegiornali vedo cose che nel mio Paese non si vedono. Per strada, seduta sulla mia veranda, vedo le donne andare al mercato, i bambini a scuola. Non la miseria e la morte che viene mostrata in Occidente. Certo, vedo i gommoni, le carrette, i naufragi in mare, i nostri giovani che annegano. I figli dell'Africa ci vengono tolti. Partono per pulire i cessi dei Paesi ricchi. Siamo depredati delle nostre risorse: l'oro, i diamanti, il cotone. Non vivo in un Paese in guerra, produciamo cotone di prima qualità, del quale siamo i primi esportatori al mondo. Eppure restiamo poveri. Tutto ci viene tolto. Ma più di ogni altra cosa siamo depredati della risorsa più grande, i nostri ragazzi". La parola preferita di Aminata è "speranza".

Quella di Vandana è "shanti", pace. "l'India è il Paese della pace, della tolleranza. Sono valori che l'India può insegnare al mondo. Anche l'incertezza, che ti spinge ad aprirti, ad adattarti, è un valore. È la condizione primaria della vita in India, e l'incertezza genera speranza". Le chiediamo infine cosa farebbe se fosse lei a guidare il mondo. "Per prima cosa deciderei che non esistono "capi del mondo". E, se anche così fosse, non vorrei essere il capo del mondo", scuote la testa. "Voglio invece centinaia, milioni di capi del mondo. Tutti diversi. Di legge ne farei una sola: vietato fare la guerra".

 

5 ottobre

 

Rangoon: che fine hanno fatto i morti?

I bloggers: cadaveri cremati dall'esercito per cancellare ogni traccia

La definizione che si avvicina di più alla realtà, riguardo ai fatti birmani, è stata data ieri dall'ambasciatore britannico a Rangoon, Mark Canning: "Hanno messo il tappo alla bottiglia, ma la pressione è pronta a farlo saltare di nuovo". E' la rabbia dei birmani pronta a esplodere di nuovo, dopo che ieri decine di migliaia di soldati hanno reso impossibile qualsiasi mobilitazione di grandi dimensioni. Per evitare nuovi spargimenti di sangue, l'opposizione cambia strategia, ma le ragioni della protesta rimangono intatte: libertà, democrazia, diritti. Ciò che ai birmani è stato negato in questi decenni di dittatura. Piccole proteste, isolate ma efficaci, azioni dimostrative mordi e fuggi. Laddove ne termina una, se ne accende rapida un'altra: sarà questo, nel passaparola clandestino che in queste ore rimbalza di casa in casa, il nuovo tentativo dei birmani per convincere i militari ad abbassare la guardia, a non sparare sui civili. Ma intanto, nel giorno dello sciopero generale, dalla capitale giungono notizie che - se confermate - aprirebbero scenari orribili sulle operazioni di occultamento dei cadaveri compiute dalle forze speciali del generale Than Shwe, durante e dopo i giorni delle grandi manifestazioni.

Dove sono finiti i morti? Alcuni bloggers sarebbero riusciti a contattare i residenti a Rangoon. Da una trascrizione telefonica pubblicata su uno dei rari siti ancora in grado di fornire aggiornamenti quotidiani sulla situazione sembrerebbe che numerosi cadaveri di manifestanti siano stati bruciati nel crematorio di Yaeway. I parenti avrebbero appreso la notizia dallo stesso personale del crematorio, che ha ricevuto ordine dai militari a far scomparire ogni traccia dei cadaveri. I dissidenti in esilio non confermano né escludono tale notizia. "E' un fatto di cui non mi è giunta una testimonianza diretta - ha riferito a PeaceReporter da Bangkok un membro del National Coalition Government Union of Burma (Ncgub) - ma potrebbe non essere escluso per un semplice motivo: secondo la nostra esperienza, nel 1988, durante la feroce repressione morirono centinaia, forse migliaia di persone, ma i loro cadaveri non furono mai trovati. Perchè? I militari li bruciarono. Per eliminare ogni traccia di un simile genocidio. Secondo alcuni soldati, numerosi oppositori feriti furono cremati mentre erano ancora in vita. Un'altro modo per fare scomparire i morti di questi giorni, a mio giudizio, potrebbe essere stato quello di caricarli sulle navi della Marina, portarli al largo e buttarli in mare".

Una lunga prigionia. Un'altra fonte contattata da PeaceReporter in Thailandia, K. M., che si autodefinisce un 'attivista individuale' e non desidera che il suo nome compaia per intero per ragioni di sicurezza, ha riferito di aver sentito la notizia delle cremazioni alla radio, ma di non averne avuto conferma da testimoni oculari. K. M. sa invece cosa accadrà alle persone arrestate nei giorni scorsi. "Le prigioni birmane sono luoghi senza speranza, noti per la rudezza e la brutalità delle guardie carcerarie. I detenuti si potrebbero vedere inflitti pene molto dure e scontare un lungo periodo di detenzione, e forse non essere nemmeno sottoposti a un regolare processo. Secondo le mie fonti, sono morte oltre un centinaio di persone. Trentacinque nel Rangoon General Hospital, secondo il registro dell'obitorio. Una trentina sono poi i cadaveri trovati per le strade. Dei feriti, o delle eventuali vittime portate altrove, non si ha notizia. I parenti chiedono costantemente informazioni alle autorità sanitarie. Ma, costantemente, i militari fanno calare un velo di silenzio sulla loro sorte".

 

Linferno fra le mura di casa

Nonostante alcuni risultati legislativi incoraggianti, continua l'allarme della violenza di genere in Spagna

Scritto da Aura Tiralongo

Torna a imporsi allattenzione della cronaca spagnola lemergenza violenza domestica sulle donne, fenomeno che negli ultimi tre anni ha giustificato una mobilitazione istituzionale senza precedenti in tutto il Paese. Solo nei dieci giorni che vanno dall8 al 18 settembre, sono stati quattro gli uxoricidi, ognuno di questi consumato in una diversa città della Spagna.

Violenza di genere. Da Madrid a Barcellona colpisce ancora, nonostante limpegno congiunto di amministrazioni pubbliche, associazioni di donne e organizzazioni non governative, la mannaia della violenza di genere, problema spesso nascosto dalle mura domestiche e dallimpenetrabile rete delle relazioni affettive. Dopo i dati allarmanti diffusi dallOsservatorio nazionale della violenza sulla donna, che riportano circa una vittima ogni sei giorni, arriva la notizia dellultimo omicidio, riguardante una ventottenne di Barcellona, uccisa dal marito coetaneo a pochi metri dalla figlia di due anni. Quando le autorità hanno interpellato i familiari della coppia, la risposta allunisono è stata che il matrimonio fra i due sembrava come tutti gli altri. Di fronte agli episodi dellultimo periodo, e alle 56 donne assassinate da gennaio a oggi (pugnalate, strangolate e più spesso picchiate a morte), si ripropone il dibattito sulla Legge organica sulla violenza di genere, misura demergenza introdotta nel dicembre del 2004 dal premier Zapatero e completata dalla più recente Legge organica sulla parità effettiva fra uomini e donne, approvata nel marzo di questanno.

Le leggi organiche. La nuova giurisdizione, che per la prima volta introduce uno specifico principio di illegalità per le violenze di genere, ha introdotto prima di tutto un inasprimento delle sanzioni per gli uomini giudicati colpevoli di lesioni e maltrattamenti, soggetti ora a un periodo di reclusione che va dai due ai cinque anni. Rilevante inoltre la punibilità della minaccia, da sei mesi a un anno di carcere, insieme alla sospensione (minimo cinque anni) della patria potestà, nei casi più gravi.A sei mesi dallapprovazione, la Prof.ssa Mercedes Arriaga, presidentessa dellAssociazione universitaria di studi sulle donne (Audem), conferma la portata dellimpegno istituzionale e lefficacia del nuovo corpus di leggi, peraltro accolto da un ampissimo consenso sociale. I fatti di cronaca - precisa Arriaga - dimostrano che la portata del fenomeno lascia poco spazio al dibattito. Il numero delle donne uccise parlano da soli e il problema è talmente complesso e radicato nel tessuto sociale, che non ci si può aspettare unimmediata e drastica diminuzione dei crimini. Daltra parte, riteniamo i dati incoraggianti, poichè riscontriamo nellultimo anno un aumento del 70 per cento delle denunce di violenze allinterno della famiglia. Prima delle nuove normative, infatti, il fenomeno era assolutamente sotterraneo (e attualmente resta tale in molti paesi europei) e spesso avallato proprio dalle donne, incapaci di rompere la gabbia di omertà delle loro stesse famiglie perché prive di protezione o, peggio, abituate a ritenere normali gli abusi.

La mobilitazione internazionale. Nel corso di una conferenza svoltasi a Madrid nello scorso dicembre, Zapatero ha raccolto il consenso della comunità internazionale, proponendo una comune campagna di sensibilizzazione al problema e ribadendo il richiamo alle persone decenti di vincere la violenza machista, creando leggi più avanzate. La parità fra uomini e donne, dovrà quindi dora in poi essere effettiva, così come viene precisato nel testo della Legge Costituzionale del 22 marzo 2007, in cui il richiamo alla denuncia delle violenze viene affiancato allaffermazione del diritto alla parità e alla non discriminazione basata sul sesso, principio cardine dell Unione europea e dei vari testi internazionali sui diritti umani.

Luca Galassi

 

Esecuzioni extragiudiziali

Guatemala, la polizia sequestra e uccide senza un apparente motivo cinque giovani che giocavano a calcio in un quartiere malfamato della capitale

I cadaveri di cinque giovani sequestrati lo scorso fine settimana mentre giocavano a calcio in un quartiere malfamato sono stati ritrovati ieri in una zona boschiva nella zona meridionale della capitale guatemalteca.
Sui corpi delle vittime erano ben visibili i segni di uno strangolamento. Anche per gli inquirenti, infatti, i giovani sarebbero stati uccisi per soffocamento.
Isabel Mendoza, direttrice della Seguridad Publica della Policia Nacional Civil ha fatto sapere che le autorità avrebbero ricevuto una telefonata anonima che segnalava la presenza dei cinque cadaveri e da qul momento sarebbero iniziate le ricerche.
Un giro veloce delle pattuglie di polizia nella zona citata nella telefonata e l'ipotesi paventata dalla voce oltre la cornetta si è trasformata in una macabra realtà.

I due agenti arrestatiLe ipotesi. Inizialmente, secondo la Mendoza i dubbi erano veramente pochi: i giovani potevano essere stati uccisi dalle bande criminali che gestiscono il voluminoso giro d'affari legato allo spaccio della droga in uno dei quartieri più disagiati della città, El Gatillo. E proprio a El Gatillo vivevano i ragazzi ritrovati uccisi come conferma la denuncia arrivata al distretto di polizia del quartiere.
Ma i dubbi hanno da subito alimentato le ipotesi sul reale accadimento dei fatti, soprattutto se si pesano le parole dei familiari delle vittime.
Secondo loro, come già hanno raccontato a diverse emittenti radiofoniche locali, i ragazzi sarebbero stati sequestrati e caricati con la forza su un'auto di grossa cilindrata che avrebbe riportato la sigla Gar, Grupo de Accion Rapida, in pratica un veicolo della polizia guatemalteca. Ci sarebbe stato anche un tentativo di inseguimento non andato a buon fine per via dell'intrusione di un'auto dell'esercito che ha in pratica sbarrato al strada agli inseguitori.

Le novità dell'ultima ora. Un omicidio extragiudiziale commesso da due agenti della polizia. Sarebbe questa la realtà dei fatti. Quello che all'inizio sembrava un caso di sequestro e omicidio nato e cresciuto negli ambienti della malavita via via è andato delineandosi come un'azione commessa da due agenti di polizia. Wilson Tobar Valenzuela e Sabino Ramos Ramirez, rispettivamente ispettore e agente semplice della Pnc sono già stati posti in stato di fermo (traditi forse dal localizzatore gprs presente sulla loro auto pattuglia) e le polemiche non sono mancate.
Per nessun motivo al mondo tolleriamo abusi da parte dei membri della polizia ha detto ai margini della conferenza stampa convocata dopo gli arresti, il direttore della Pnc, Julio Hernandez Chavez.
Inoltre, Chavez ha voluto sottolineare che dal momento in cui sono arrivate le prime segnalazioni sulla possibile complicità di agenti della polizia l'Oficina de Responsabilidad Profesional della Policia avrebbe iniziato le indagini che avrebbero portato all'arresto dei due poliziotti.
Alessandro Grandi

4 ottobre

 

Cessate il fuoco

Questa settimana, in tutti i paesi ancora in guerra, sono morte almeno 1.079 persone

Iraq
Questa settimana sono morte almeno 546 persone (533 iracheni e 13 militari della Coalizione).
Dallinizio dellanno i morti sono almeno 24.137

Israele e Palestina
Questa settimana sono stati uccisi 6 palestinesi nella Striscia di Gaza. Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 386

Afghanistan
Questa settimana sono morte almeno 307 persone (di cui 18 civili, 276 talibani o presunti tali, 10 militari afgani e 9 soldati della Nato).
Dallinizio dellanno i morti sono almeno 5.422 (1.175 civili, 3.506 talibani o presunti tali, 571 militari afgani, 182 soldati della Nato)

Turchia
Questa settimana sono morte almeno 10 persone.
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 355

India Nord Est
Questa settimana sono morte almeno 14 persone. Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 775

India Kashmir
Questa settimana sono morte almeno 16 persone. Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 560

Nepal Maoisti
Questa settimana sono morte almeno 26 persone. Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 104

Pakistan aree tribali
Questa settimana sono morte almeno 28 persone. Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 1.979

Sri Lanka
Questa settimana sono morte almeno 74 persone. Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 2.314

Thailandia del Sud
Questa settimana sono morte almeno 9 persone. Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 378

Filippine Islamici
Questa settimana sono morte almeno 3 persone. Dall'inizio dell'anno i morti sono 335

Filippine Npa
Questa settimana sono morte almeno 3 persone. Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 122

Cecenia e Inguscezia
Questa settimana sono morte almeno 6 persone. Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 633

Sudan
Questa settimana sono morte almeno 11 persone. Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 512

Somalia
Questa settimana sono morte almeno 7 persone. Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 1.837

Rep. Dem. Congo
Questa settimana sono morte almeno 6 persone. Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 625

Colombia
Questa settimana sono morti 7 guerriglieri dell'Esercito di Liberazione Nazionale. Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 390

 

 

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