Lo sapevate che...
29
settembre
Il consorzio degli "Automobile Club"
pubblica una ricerca su 10 Paesi. In testa alla graduatoria dei
lavori in corso c'è l'Inghilterra. Giudizi negativi sull'Italia
Cantieri
stradali, le pagelle di Eurotest
Vince Birmingham, Eboli è maglia nera
ROMA - Quante volte, passando vicino a
un cantiere stradale, ci si trova davanti a strettoie, tratti poco
illuminati o indicazioni incomprensibili e capita di pensare che
forse sulle strade del resto d'Europa queste difficoltà per gli
automobilisti non ci sono? I risultati di una ricerca condotta dal
consorzio EuroTest sembrano indicare che queste riflessioni non sono
poi così distanti dalla realtà. L'analisi di 53 cantieri in dieci
Paesi europei ha mostrato che le peggiori segnalazioni si trovano in
Italia. In particolare, il titolo di strada con il peggior "lavoro
in corso" è andato alla A3, nei pressi di Eboli (Salerno).
Allo studio hanno partecipato 16 "Automobile Club" europei, membri
di EuroTest. I sopralluoghi sono stati effettuati tra aprile e
luglio su cantieri di "lunga durata di almeno 1 km". Nello stilare
le graduatorie, si è tenuto conto di criteri come la frequenza e la
chiarezza dei segnali e delle indicazioni sul manto stradale, la
larghezza delle corsie, le condizioni dell'asfalto, la visibilità di
notte e le informazioni sulla durata dei lavori.
Dei cinque cantieri italiani presi in considerazione, il migliore è
quello sulla A4 nei pressi di Novara, che è stato giudicato "buono".
"Accettabili" quello sulla A22 dalle parti di Trento e quello sulla
A3 nei pressi di Mileto (Vibo Valentia). Bocciato invece il cantiere
sul Grande raccordo anulare di Roma all'altezza di Via Cassia.
I più sfortunati sono gli automobilisti che transitano sulla A3 nei
pressi di Eboli. Lì, dice un comunicato della British AA
(l'Automobile club britannico), si trova la situazione "peggiore di
tutto il sondaggio, per mancanza di segnali che spieghino i lavori,
frequenti e improvvisi cambi di velocità, segnali delle corsie poco
chiari e mancanza di luci lampeggianti".
Completamente diverse le condizioni dei cantieri in Gran Bretagna.
Dei nove siti analizzati nel Regno Unito, otto sono stati giudicati
"buoni" o "molto buoni", mentre uno era "accettabile". Lì si trova
anche il migliore in assoluto: quello sulla M42 vicino a Birmingham.
Al termine della ricerca, sono emersi anche alcuni problemi da
risolvere a livello europeo. In particolare, sostiene l'Aci, non ci
sono "regole certe, chiare e comuni a livello europeo: elementi di
sicurezza come le barriere in cemento, fondamentali per scongiurare
salti di carreggiata o invasioni delle zone di lavoro, sono solo
raccomandati da alcuni ordinamenti e non resi obbligatori. In
Italia, per esempio, il Codice della Strada non impone l'utilizzo di
barriere vere e proprie per separare le corsie ma si limita a
disporre l'utilizzo di coni o cordoli, anche per i cantieri di lunga
durata".
Niente più fondi
ai padroni di schiavi
di Fabrizio Gatti
In Puglia regole infrante e crimini
contro l'umanità. Ora Bruxelles deve avviare un'indagine. E i
sussidi agli agricoltori vanno sospesi. Parla l'eurodeputato
inglese, Stephen Hughes
La vergogna degli schiavi in Puglia ha raggiunto Bruxelles. Adesso
l'Italia rischia di pagare un conto salato davanti al Parlamento
europeo. L'inglese Stephen Hughes, membro ed ex presidente della
commissione Occupazione e Affari sociali, chiede che siano sospesi i
sussidi ai coltivatori italiani di pomodori: fino a quando l'Italia
non dimostrerà di aver debellato lo sfruttamento disumano dei
braccianti. Il deputato laburista, iscritto nel Gruppo socialista
europeo, non è l'unico a pensarla così. Nonostante il ministro
dell'Interno, Giuliano Amato, abbia annunciato provvedimenti
immediati. Pochi giorni fa l'inchiesta pubblicata da "L'espresso"
(n. 35) sullo sfruttamento degli immigrati in provincia di Foggia è
finita davanti all'Intergruppo tra parlamentari e sindacati europei.
A parte due assistenti dei Verdi, gli italiani non hanno partecipato
all'incontro. "Il caso è così grave", dice Hughes, "che la
Commissione europea dovrebbe incriminare il governo italiano e
inviare l'intera materia con procedura d'urgenza alla Corte europea
di Giustizia".
Gli agricoltori italiani rischiano non poco. L'Unione europea, in
base al raccolto previsto, verserà quest'anno circa 137 milioni di
euro ai coltivatori di pomodori. E i sussidi andranno anche a quelle
aziende che invece di assumere regolarmente gli stagionali hanno
ridotto in schiavitù migliaia di stranieri.
Mister Hughes, il Parlamento europeo sta a guardare?
"No. Ora che questi fatti spaventosi stanno venendo alla luce,
l'Unione europea deve agire davvero per mettere fine il più presto
possibile a questo affare disumano e vergognoso. Bisogna che la
Commissione europea così come il Parlamento si rendano pienamente
conto della situazione e intervengano con urgenza. La schiavitù in
uno Stato membro fondatore dell'Unione europea è un crimine contro
l'umanità. Deve essere fermato".
Cosa farete? Riuscirete ad avviare un'inchiesta?
"Ho chiesto che sia organizzata un'audizione su questo argomento
davanti alla commissione Occupazione e Affari sociali del Parlamento
europeo e che sia nominato un relatore perché indaghi sulla
questione in profondità. Ma questo scandalo coinvolge non soltanto
la commissione Occupazione".
Quale altra commissione dovrebbe intervenire?
"Abbiamo allertato anche le commissioni Controllo dei bilanci e
Agricoltura. Dovranno condurre le loro indagini e spero che chiedano
una sospensione dei sussidi agricoli".
Lei chiede dunque la sospensione per il 2006 del contributo europeo
ai coltivatori italiani di pomodoro?
"Fino a quando non ci saranno prove certe che queste pratiche sono
terminate. La Commissione europea deve potersi fidare totalmente
delle autorità nazionali e regionali per assicurarsi che i sussidi
siano usati propriamente. E su questo caso denunciato dal vostro
settimanale c'è stato chiaramente un totale sfacelo nei controlli e
nelle ispezioni nazionali e regionali. Ma ora che i fatti sono stati
resi noti alla Commissione europea, non possono guardare dall'altra
parte. La Commissione dovrà agire e, come dico, i sussidi agricoli
dovrebbero essere sospesi fino a quando non verrà messa fine a
questa spaventosa rete di affari".
Lo sfruttamento degli schiavi in Puglia annulla conquiste
consolidate in Europa sui diritti umani, sull'occupazione, sui
principi della libera concorrenza. L'Italia rischia una procedura di
infrazione?
"Alla luce di quanto sta succedendo in Puglia sono stati violati un
mucchio di leggi dell'Unione europea, gli obblighi del Trattato e i
diritti tutelati dalla Convenzione europea. La Commissione europea
dovrebbe incriminare il governo italiano e inviare l'intera materia
con procedura d'urgenza alla Corte europea di Giustizia".
I coltivatori di pomodori in Puglia producono anche olive e uva da
vino. Secondo un rapporto sanitario di Medici senza frontiere,
immigrati-schiavi vengono sfruttati anche in Campania, Calabria e
Sicilia. Gli agricoltori si difendono accusando l'industria
alimentare e i prezzi bassi stabiliti dal governo...
"Qualunque sia il raccolto o qualunque sia il settore, i
finanziamenti europei non devono essere usati per consolidare la
schiavitù o lo sfruttamento dei lavoratori. Le leggi e i regolamenti
europei devono essere applicati rigorosamente per fermare quanto sta
accadendo e per evitare che possa succedere ancora".
Temete che lo sfruttamento sistematico di immigrati si possa
estendere ad altri Stati dell'Unione?
"Il pericolo è che questo tipo di pratiche si diffonda se non
vengono soffocate ora. Perché altri produttori in altre regioni
troveranno i loro prezzi perdenti rispetto a quelli praticati dai
padroni di schiavi. Il modo più rapido per mettere fine a questo è
tagliare i finanziamenti europei. Fino a quando non verranno
mostrate le prove che queste pratiche sono state soffocate".
Il 50 per cento dei braccianti stranieri in Italia vive senza acqua
corrente. Il 40 per cento dorme in baracche. Il 43,2 non ha
gabinetti. Il 30 non ha elettricità. E un altro 30 per cento è stato
aggredito o maltrattato. Che effetto le fanno questi numeri?
"È incredibile che migliaia di braccianti vivano, lavorino e muoiano
in condizioni barbariche nell'Italia moderna e benestante".
Dopo la pubblicazione dell'inchiesta de "L'espresso", il governo
Prodi ha annunciato immediate modifiche alla legge sull'immigrazione
e una commissione d'inchiesta. Le autorità locali hanno aumentato i
controlli. Viste da Bruxelles, sono misure sufficienti?
"Sono sollevato dal fatto che il nuovo governo italiano ha
cominciato a prendere provvedimenti: è difficile immaginare il
governo Berlusconi prendere qualsiasi provvedimento del genere.
Queste pratiche si sono chiaramente impiantate molto prima che Prodi
arrivasse al potere. Ma ora è evidente come sia necessario prendere
provvedimenti urgenti per portare davanti alla giustizia quanti
hanno organizzato questo traffico. Ma non basta".
Cosa serve ancora?
"Bisogna ripensare le regole sull'immigrazione e l'integrazione
nell'Unione come un tutt'uno. Questo per impedire che le persone
siano spinte verso lo sfruttamento da parte dell'economia fantasma".
In Puglia sono scomparsi almeno 13 lavoratori polacchi. Altri
braccianti sono stati uccisi. La diplomazia polacca ha criticato la
lentezza con cui le autorità italiane hanno avviato le indagini su
alcuni casi. L'unione tra polizie europee è così lontana?
"La cooperazione giudiziaria e di polizia a livello di Unione
europea si sta sviluppando lentamente. Finora ha avuto una natura
intergovernativa. È necessario portarla sotto una supervisione
democratica. Esempi come quelli avvenuti in Puglia dimostrano che in
questo campo la cooperazione si sta sviluppando troppo lentamente".
La commissione in cui opera conosce altri casi in cui la cosiddetta
economia ufficiale sfrutta la nuova schiavitù?
"Il caso dei raccoglitori cinesi di molluschi annegati nel mio Paese
dimostra che questo non è soltanto un problema italiano. Non conosco
però altri Stati membri dove la schiavitù è sfruttata su scala così
vasta. Comunque nella maggior parte degli Stati membri, se non in
tutti, funziona un mercato del lavoro a due livelli. E i lavoratori
migranti sono sfruttati al livello più basso".
Lo staff di Mariann Fischer Boel, commissario per l'Agricoltura e lo
sviluppo rurale, sta esaminando il caso Puglia. La Commissione
europea sta facendo abbastanza per fermare il ritorno della
schiavitù?
"Non sono al corrente se la Commissione europea abbia finora preso
provvedimenti e quali. Ma adesso avrà di fronte un fuoco di
interrogazioni. E dovrà agire davvero con urgenza".
28
settembre
Villa abusiva in
costiera
Poco lontano da Amalfi la Guardia di
Finanza pone i sigilli a una struttura di tre livelli: un rudere
ampliato di 180 metri quadrati. Tre persone denunciate con l'accusa
è di deturpamento e danneggiamento ambientale
Una villa su tre livelli,
completamente abusiva, è stata sequestrata dalla Guardia di Finanza
a Maiori, in costiera amalfitana. Le opere sono state realizzate con
una autorizzazione che prevedeva solo lavori di ripristino di un
vecchio fabbricato rurale.
In realtà il rudere è stato del tutto
trasformato con la creazione anche di nuovi locali che ne hanno
aumentato il volume. Le opere sequestrate si estendono per circa 180
metri quadrati. Sono tre le persone denunciate, il proprietario
dell'immobile residente a Roma, il direttore dei lavori e il
responsabile della detta edile esecutrice. Dovranno tutti
rispondere, in concorso, di deturpamento e danneggiamento ambientale
nonché di violazione delle leggi sull'urbanistica.
Da Scampia si vede
Pechino
di Roberto Saviano
I boss camorristi hanno scoperto
la Cina prima di tutti. E creato ambasciate e società miste. Che dal
porto di Napoli invadono di merci l'Europa
E si racconta che i cinesi sono i
napoletani d'Oriente. Nel gioco delle similitudini impossibili o
persino dei modelli folkloristici esportati. E pare sia proprio
così: la convivialità, la socievolezza, la simpatia d'impatto.
Sembrano le stesse. Un'immagine che elimina gran parte dei
pregiudizi, anche in una terra dove basta avere gli occhi
leggermente a mandorla per essere definito 'o' cinese'. Eppure la
diffidenza della comunità cinese sul territorio napoletano è enorme.
Una comunità silenziosa, ma che è capace di creare un quasi
invisibile impero, molto più invisibile che a Prato piuttosto che a
Roma o nel dedalo milanese di via Paolo Sarpi. Quelle sono le
Chinatown che si lasciano vedere, ma è a Napoli che si trova il
cuore dell'impero.
Il primo rapporto tra una certa economia cinese e l'Occidente non
sono i patti, non sono le cene, non sono neanche i contatti
diplomatici. Sono i porti a fare il legame. Non è un caso se i
colossi del settore dai grattacieli di Hong Kong adesso vogliono
fare compere da noi: sognano di mettere le mani sui moli di Gioia
Tauro, di Palermo o di Augusta. Ma Napoli è stato il primo porto a
diventare completamente cinese, una vera e propria colonia
economica, colonia di investimento ovviamente perché di cittadini
cinesi non se ne vedono molti.
Il risultato è che non v'è prodotto che non passa per il porto di
Napoli: è il punto finale dei viaggi delle merci cinesi, vere o
false, originali o tarocche. Il solo porto di Napoli movimenta il 20
per cento del valore dell'import tessile dalla Cina. Ma bisogna fare
attenzione ai dati: perché in realtà oltre il 70 per cento della
quantità del prodotto passa di qui. È una stranezza complicata da
comprendere, ma le merci nel porto di Napoli riescono a essere non
essendoci, ad arrivare pur non giungendo mai, a essere costose al
cliente pur essendo scadenti. Basta un tratto di penna sulla
bolletta d'accompagnamento per abbattere i costi e l'Iva
radicalmente.
La merce deve arrivare nelle mani del
compratore subito, presto, prima che il tempo possa iniziare, il
tempo che potrebbe ospitare un controllo. Quintali di merce si
muovono come fossero un pacco contrassegno che viene recapitato a
mano dal postino a domicilio. È come se nel porto di Napoli si
aprissero dimensioni temporali inesistenti, nei suoi 1.336.000 metri
quadrati per 11,5 chilometri il tempo ha dilatazioni uniche.
Proprio in questi pontili opera il più grande armatore di Stato
cinese, la Cosco, che possiede la terza flotta più grande al mondo e
ha preso in gestione il più grande terminal per container,
consorziandosi con la Msc, che possiede la seconda flotta più grande
al mondo con sede a Ginevra. Svizzeri e cinesi si sono consorziati e
a Napoli hanno deciso di investire la parte maggiore dei loro
affari. Qui dispongono di oltre 950 metri di banchina, 130 mila
metri quadri di terminal container e 30 mila metri quadri esterni,
assorbendo la quasi totalità del traffico in transito nel centro
campano. A Napoli ormai si scarica quasi esclusivamente merce
proveniente dalla Cina: 1 milione 600 mila tonnellate. Quella
registrata. Perché almeno un altro milione passa senza lasciare
traccia.
Nel solo porto campano, il 60 per cento della merce sfugge al
controllo della dogana, il 20 per cento delle bollette non viene
controllato e vi sono 50 mila contraffazioni di documenti: il 99 per
cento dei materiali che si infilano in questo buco nero è di
provenienza cinese e si calcolano, con riferimento soltanto a questa
dogana, 200 milioni di euro di tasse evase a semestre.
Il trucco con cui entra la merce non è complicato, e basta
passeggiare qualche settimana la mattina presto tra i container che
vengono svuotati o a volte controllati per comprenderne il congegno.
Tutto arriva e parte con gli Iso ossia i container. Iso sta per
International Organization for Standardization: ogni Iso è
regolarmente numerato e registrato con una formula: quattro lettere
(delle quali le prime tre corrispondono alla sigla della compagnia
proprietaria) - sette numeri - un numero finale. Spesso però ci sono
Iso con la stessa identica numerazione. Così un container già
ispezionato battezza tutti i suoi omonimi illegali. Semplice,
efficacissimo, milionario.
Poteva sfuggire un'occasione
del genere ai signori della camorra imprenditrice? Loro
hanno tutto, e ben prima dei politici italiani e di
Confindustria che si affaticano per rincorrere il mercato
cinese. Senza sapere che il clan Di Lauro li ha preceduti,
li ha distanziati di brutto: i padroni di Secondigliano e
guerrieri di Scampia sono stati i primi.
Tutto cominciò con uno scatto. Importarono macchine
fotografiche, videocamere. Lo fecero dieci anni prima che
Confindustria spingesse gli imprenditori italiani ad andare
laggiù. Un rapporto della Direzione antimafia campana mette
insieme tutte le facce di questo affare e i nuovi Marco Polo
partiti dalla periferia vesuviana. Con basi piantate pure a
Taiwan dove Pietro Licciardi, detto 'l'imperatore romano',
aveva aperto un negozio con giacche di alta sartoria.
La dialettica dei clan ha avuto questo vettore da subito.
Nelle fabbriche cinesi si produceva per conto delle migliori
marche del mondo, bisognava saper approfittare dei loro
indotti, e sfruttarli a proprio vantaggio. Un'industria che
produce per sei mesi un tipo di macchina fotografica, può
fabbricarla per altri sei mesi. Ma non può farlo per lo
stesso marchio. Può produrre il medesimo modello, con
l'identica qualità tecnologica mettendoci sopra un logo
differente. E su questo meccanismo entrano in gioco i clan.
Contini, Licciardi e Di Lauro. Le famiglie secondiglianesi.
Ricche grazie alla droga e agli investimenti nel tessile,
nel turismo e nell'edilizia. Potenti grazie alle batterie di
killer ragazzini e di ancor più giovani vedette. Rapide come
imprenditori del mercato globale.
Così la Cina è divenuto un serbatoio di produzione per i
camorristi molto prima che per gli industriali italiani.
Tutto a partire da quelle macchine fotografiche digitali che
hanno 'monopolizzato', secondo le ricostruzioni dei
magistrati, il mercato dell'Europa Orientale: la famosa
Canon Matic, fatta produrre in Cina direttamente dai Di
Lauro che ne gestiscono anche l'importazione.
Poi sulla stessa rotta e con
lo stesso sistema sono arrivati televisori giganti al
plasma, telefonini, scarpe da ginnastica e pantaloni
griffati. Sovrapprodotti dalle catene di montaggio asiatiche
che li realizzano per i grandi marchi, fatti arrivare a
Napoli e smaltiti in tutto l'Est della nuova Europa.
Forse ad agevolare la scoperta della Cina è stata anche la
predilezione della camorra per le economie del socialismo
reale. I clan legati al boss Bardellino e poi i
secondiglianesi furono i primi gruppi criminali a mettere
piede nell'allora Ddr e poi in Polonia, Romania. Ma si sono
fermati alla frontiera dell'Urss: il pentito Gaetano Conte
ha raccontato che i mafiosi russi hanno impedito l'ingresso
degli investimenti napoletani. Altra sapienza antica, la
mafia russa ben sa che dove investono i camorristi poi il
territorio tutto diventa roba loro.
Il triangolo cinese a Napoli si trova alle pendici del
Vesuvio. Ottaviano, Terzigno, San Giuseppe. Paesi cancellati
dalla lava e poi risorti più volte nella storia adesso
cambiano vita per l'ennesima colata. È lì che si riversa
l'imprenditoria tessile venuta dall'Asia. Tutto quello che
accade nelle comunità cinesi d'Italia è accaduto prima a
Terzigno. Le prime lavorazioni, le qualità di produzione
crescenti, e anche i primi assassinii.
La mafia cinese è complesso definirla, configurarla. A
Napoli fu uccisa la prima 'testa di serpente' individuata in
Italia, Wang Dingjm, un immigrato quarantenne arrivato in
auto da Roma per partecipare a una festa tra connazionali a
Terzigno. Le teste di serpente sono una delle forze
d'alleanza tra camorra e criminalità asiatica. Si chiamano
così perché importano manodopera. Seguire una testa di
serpente significa intravedere una sorta di venditore di
bestiame. Vende esseri umani alle fabbriche. Fornisce a
chiunque voglia, cinese o napoletano, tentare la strada
dell'imprenditoria, manodopera numerosa e a basso costo. Le
teste di serpente spesso però barano.
Prendono soldi per portare
un numero di persone e si presentano con la metà degli
uomini promessi spesso adducendo giustificazioni tra le più
varie. Ma le scuse con la camorra non funzionano e le teste
di serpente spesso rischiano la punizione finale quando
barano. Garantiscono a imprenditori un quantitativo di
persone che poi in realtà non portano. Prendono i soldi da
tutti i committenti per un'ordinazione di manodopera, cento
operai per ogni fabbrica; poi in realtà fanno entrare cento
lavoratori da distribuire fra tutte le fabbriche. Come si
uccide uno spacciatore quando ha tenuto per sé una parte del
guadagno, così si uccide una testa di serpente perché ha
barato sulla sua mercanzia, sugli esseri umani che smercia.
Poteva sfuggire
un'occasione del genere ai signori della camorra
imprenditrice? Loro hanno tutto, e ben prima dei
politici italiani e di Confindustria che si
affaticano per rincorrere il mercato cinese. Senza
sapere che il clan Di Lauro li ha preceduti, li ha
distanziati di brutto: i padroni di Secondigliano e
guerrieri di Scampia sono stati i primi.
Tutto cominciò con uno scatto. Importarono macchine
fotografiche, videocamere. Lo fecero dieci anni
prima che Confindustria spingesse gli imprenditori
italiani ad andare laggiù. Un rapporto della
Direzione antimafia campana mette insieme tutte le
facce di questo affare e i nuovi Marco Polo partiti
dalla periferia vesuviana. Con basi piantate pure a
Taiwan dove Pietro Licciardi, detto 'l'imperatore
romano', aveva aperto un negozio con giacche di alta
sartoria.
La dialettica dei clan ha avuto questo vettore da
subito. Nelle fabbriche cinesi si produceva per
conto delle migliori marche del mondo, bisognava
saper approfittare dei loro indotti, e sfruttarli a
proprio vantaggio. Un'industria che produce per sei
mesi un tipo di macchina fotografica, può
fabbricarla per altri sei mesi. Ma non può farlo per
lo stesso marchio. Può produrre il medesimo modello,
con l'identica qualità tecnologica mettendoci sopra
un logo differente. E su questo meccanismo entrano
in gioco i clan. Contini, Licciardi e Di Lauro. Le
famiglie secondiglianesi. Ricche grazie alla droga e
agli investimenti nel tessile, nel turismo e
nell'edilizia. Potenti grazie alle batterie di
killer ragazzini e di ancor più giovani vedette.
Rapide come imprenditori del mercato globale.
Così la Cina è divenuto un serbatoio di produzione
per i camorristi molto prima che per gli industriali
italiani. Tutto a partire da quelle macchine
fotografiche digitali che hanno 'monopolizzato',
secondo le ricostruzioni dei magistrati, il mercato
dell'Europa Orientale: la famosa Canon Matic, fatta
produrre in Cina direttamente dai Di Lauro che ne
gestiscono anche l'importazione.
Poi sulla stessa
rotta e con lo stesso sistema sono arrivati
televisori giganti al plasma, telefonini, scarpe da
ginnastica e pantaloni griffati. Sovrapprodotti
dalle catene di montaggio asiatiche che li
realizzano per i grandi marchi, fatti arrivare a
Napoli e smaltiti in tutto l'Est della nuova Europa.
Forse ad agevolare la scoperta della Cina è stata
anche la predilezione della camorra per le economie
del socialismo reale. I clan legati al boss
Bardellino e poi i secondiglianesi furono i primi
gruppi criminali a mettere piede nell'allora Ddr e
poi in Polonia, Romania. Ma si sono fermati alla
frontiera dell'Urss: il pentito Gaetano Conte ha
raccontato che i mafiosi russi hanno impedito
l'ingresso degli investimenti napoletani. Altra
sapienza antica, la mafia russa ben sa che dove
investono i camorristi poi il territorio tutto
diventa roba loro.
Il triangolo cinese a Napoli si trova alle pendici
del Vesuvio. Ottaviano, Terzigno, San Giuseppe.
Paesi cancellati dalla lava e poi risorti più volte
nella storia adesso cambiano vita per l'ennesima
colata. È lì che si riversa l'imprenditoria tessile
venuta dall'Asia. Tutto quello che accade nelle
comunità cinesi d'Italia è accaduto prima a Terzigno.
Le prime lavorazioni, le qualità di produzione
crescenti, e anche i primi assassinii.
La mafia cinese è complesso definirla, configurarla.
A Napoli fu uccisa la prima 'testa di serpente'
individuata in Italia, Wang Dingjm, un immigrato
quarantenne arrivato in auto da Roma per partecipare
a una festa tra connazionali a Terzigno. Le teste di
serpente sono una delle forze d'alleanza tra camorra
e criminalità asiatica. Si chiamano così perché
importano manodopera. Seguire una testa di serpente
significa intravedere una sorta di venditore di
bestiame. Vende esseri umani alle fabbriche.
Fornisce a chiunque voglia, cinese o napoletano,
tentare la strada dell'imprenditoria, manodopera
numerosa e a basso costo. Le teste di serpente
spesso però barano.
Prendono soldi per portare un numero di persone e si
presentano con la metà degli uomini promessi spesso
adducendo giustificazioni tra le più varie. Ma le
scuse con la camorra non funzionano e le teste di
serpente spesso rischiano la punizione finale quando
barano. Garantiscono a imprenditori un quantitativo
di persone che poi in realtà non portano. Prendono i
soldi da tutti i committenti per un'ordinazione di
manodopera, cento operai per ogni fabbrica; poi in
realtà fanno entrare cento lavoratori da distribuire
fra tutte le fabbriche. Come si uccide uno
spacciatore quando ha tenuto per sé una parte del
guadagno, così si uccide una testa di serpente
perché ha barato sulla sua mercanzia, sugli esseri
umani che smercia.
Ma non ci sono
solamente schiavi. Quella è un'altra
immagine che rischia di diventare passato,
archeologia industriale come molti dei
luoghi comuni sull'economia asiatica. Al
quartiere Sanità qualche tempo fa avevo
incontrato una ragazzina napoletana che si
era messa a lavorare in una fabbrica cinese.
Raccontò il suo nuovo mestiere dicendo: "Mi
sono messa a fare la cinese". Un tempo il
quartiere Sanità era il regno delle
fabbriche dei guantai, raccontavano che
persino i guanti della principessa Sissi
erano stati prodotti in questi vicoli. E ora
lentamente arrivano i cinesi, riescono a
ridare energia a produzioni di qualità che
in Italia sono scomparse per l'aumento del
costo della manodopera sentito anche nel
lavoro nero.
E per la prima volta in Italia accade la
rivoluzione: cittadini italiani iniziano a
lavorare per i cinesi, nelle loro fabbriche,
e i cinesi stanno cercando con i loro prezzi
di far decollare la qualità dei manufatti.
Gli imprenditori arrivati dall'Asia cercano
maestri per formare i loro artigiani goffi.
Pagano meglio dei padroni di Secondigliano
per rubare l'arte a quelle maestranze che
nei laboratori di Arzano tagliano gli abiti
di prima scelta. Capolavori dell'italian
style disegnati da sarti famosi e finiti poi
addosso a stelle di prima grandezza. Come
quando Angelina Jolie comparve sulla
passerella degli Oscar indossando un
completo di raso bianco, bellissimo. Uno di
quelli su misura, di quelli che gli stilisti
italiani, contendendosele, offrono alle
star.
Quel vestito l'aveva cucito un mastro
napoletano, Pasquale, in una fabbrica in
nero ad Arzano. Gli avevano detto solo:
"Questo va in America". Pasquale aveva
lavorato su centinaia di vestiti andati
negli Usa. Si ricordava bene quel tailleur
bianco. Si ricordava ancora le misure, tutte
le misure. Il taglio del collo, i millimetri
dei polsi. Ed era proprio Pasquale quello
che serviva ai cinesi per fare il grande
salto. Per diventare più bravi degli
italiani. Pasquale insegnava la qualità. Lo
usavano per insegnare alle sarte venute
dall'Asia. Lezioni clandestine, nascosto nel
cofano come un latitante. Mentre al volante
c'è un Minotauro con la pistola tra le
gambe, perché così si spara più in fretta.
Ai camorristi non piace che i cinesi gli
rubino l'arte. Mentre invece i clan si sono
messi a fare i cinesi. Copiano i loro
sistemi economici che danno vita a consorzi
di piccole imprese, con gare al ribasso nei
costi e nei tempi pur di accaparrarsi una
commessa. Con vincoli aperti dal prestito a
usura e cementati dalla minaccia. Con
lavoranti praticamente senza diritti. È il
segreto dell'oro di Las Vegas, la zona
industriale nata dal nulla nella periferia
nord della metropoli.
E oltre all'import i camorristi fanno
l'export. Lo fanno i clan del Casertano. I
feroci in grado di monopolizzare il mercato
di rifiuti. Esportano spazzatura, morchie
così tossiche che nemmeno i criminali
vogliono averle in casa. Al porto di Napoli
sono stati trovati, come segnala Legambiente
nei dossier 2004 e 2005, container zeppi di
rifiuti in partenza per la Cina. Materia da
intombare in Cina. Un affare florido e quasi
inesplorato dagli investigatori: la nuova
frontiera di un business che non conosce
confini né scrupoli. Ma soltanto guadagni.
Infortuni
Tre morti e due feriti
Continuano senza
sosta gli infortuni sul lavoro. L'Ilva di Taranto è, purtroppo,
sempre protagonista: ieri è morto
un imprenditore di 55 anni, Luciano Di Natale, titolare della
Tecnocis, azienda che opera nell'indotto; stava eseguendo un
sopralluogo su uno dei nastri trasportatori dello stabilimento,
quando
è stato trascinato e stritolato.
A Casteltermini (Agrigento) è morto Biagio Savarino, edile di 49
anni: è caduto da un'impalcatura alta 8 metri. Un agricoltore di 76
anni
è invece morto ad Antria (Arezzo), schiacciato dal suo trattore.
Edmir Leka, immigrato di 24 anni, è stato travolto da una gru in un
cantiere di Novafeltria: ha riportato un trauma cranico e diverse
fratture, dovrebbe guarire in 60 giorni. Infine, un camionista è
rimasto ustionato a Pomezia, investito da una fiammata mentre
controllava il livello dell'olio del suo mezzo.
Reportage
Tra olivi e cemento, il commercio degli
schiavi rumeni
Nel triangolo Palma di Montechiaro, Canicattì,
Licata, dove lavorano al nero migliaia di migranti dall'est Europa
Braccianti e operai. Nella piazza di Agrigento in attesa del
«trasportatore». E di una paga da fame
Alfredo Pecoraro
Agrigento
Sono quasi le due del
pomeriggio, sugli scalini del Cine Astor gli studenti aspettano il
bus. Qualcuno fuma una sigaretta, gli autisti si danno il cambio.
Sara e Stefania sorseggiano un'aranciata in un angolo d'ombra, a
pochi metri dal gommista di piazza Rosselli. «Non si fanno vedere
molto in giro, ma ci sono. Basta entrare in un bar o in una sala
giochi. Laggiù... vedi quei due? Sono sicuramente rumeni». Uno è
biondo, ha gli occhi azzurri, indossa jeans e maglietta; l'altro è
ben vestito, giacca e pantaloni blu, pelle scura. Sara aveva
ragione: sono rumeni. Mihai ha 25 anni, Bogdan ne ha 34. Per loro
oggi è andata male. Sono arrivati nella stazione dei pullman troppo
tardi e hanno saltato la corsa. «Siamo qui da circa sei mesi -
racconta Mihai, fisico magro e grossi calli alle mani - Io e il mio
amico sappiamo fare tutto: lavoriamo nei campi, saldiamo, prepariamo
la calce, tagliamo il legno. Cosa ti serve?» Quando capisce di non
trovarsi di fronte a un caporale, Mihai cambia tono. «Non so niente,
io lavoro e basta - dice - Qui si sta bene, non so altro. Dobbiamo
andare». I due si allontanano senza mai voltarsi indietro, sotto un
sole cocente. «Sono come fantasmi - riprende Sara - Arrivano ad
Agrigento e poi spariscono. Qualcuno lo trovi qui alla stazione dei
bus ad aspettare non si sa chi e cosa».
Mihai e Bogdani aspettavano il loro Ivan (solo il nome è di
fantasia), un rumeno che di professione fa il «trasportatore» di
uomini, molto conosciuto a Palma di Montechiaro, comune di 24 mila
anime e tonnellate di cemento su una collina rocciosa dove basta
costruire tanto poi arriva la sanatoria. «Quell'uomo è una brava
persona - racconta Rosario Gallo, sindaco di Palma di Montechiaro -
Non so da quanto tempo viva qui, ma si è organizzato. So che va in
giro con un furgoncino bianco e fa il trasportatore». In realtà,
Ivan il rumeno è uno dei tanti addetti al trasporto dei nuovi
schiavi del terzo millennio. Tutti lo conoscono, nessuno però sa
dove viva. E' uno dei mille, 5 mila, forse 10 mila rumeni che
sopravvivono come fantasmi intorno ad Agrigento. Si vedono nei
campi, nelle cave, nei cantieri, nelle centinaia di palazzine in
costruzione. «Un business gestito dalla mafia», giura Gaetano
Bonvissuto, segretario della Cgil a Licata, città di 40 mila
abitanti, dove il Prc e il Pdci sono quasi scomparsi e ad occuparsi
di braccianti, operai e immigrati sono rimasti davvero in pochi.
«Non so quanti siano gli immigrati dell'est - afferma il sindaco -
nessuno può fornire cifre esatte». Gallo, area Ds, è più interessato
a parlare delle trame di palazzo ordite dalla sua stessa maggioranza
(«non riesco a formare la giunta, molti consiglieri mi vogliono
imporre amici e parenti») che al fenomeno degli schiavi, esploso
nella sua drammaticità dopo la morte di Mircea Spiradon, l'operaio
rumeno deceduto dopo l'amputazione dei piedi per il crollo di una
palazzina a Licata.
Nessuno azzarda stime sul numero di immigrati che lavorano nell'agrigentino,
eppure basterebbe dare un'occhiata lungo il perimetro del triangolo
Palma-Canicattì-Licata per farsi un'idea. Lungo la statale 115
Agrigento-Siracusa si può ammirare un panorama di terra e cemento.
Gli immensi campi coltivati a cantapulo - tra le produzioni più
floride da queste parti - uva e olivo si alternano a desolanti
ammassi di conci di tufo, decine e decine di case, villette, garage,
edifici in costruzione e scheletri abbandonati. «E' qui che lavorano
i migranti dell'est - spiega Carmelo Cipolla, segretario provinciale
degli edili-Cgil di Agrigento - Sono impiegati come braccianti e
come operai, con paghe che non superano i 25 euro al giorno, senza
alcuna garanzia e tra il disinteresse assoluto delle istituzioni
regionali e locali. Basta avere gli occhi e venire a guardare da
queste parti, il resto è retorica politica». Qualche denuncia la
Cgil in passato l'ha fatta, ma non è successo nulla. Nel mercatino
di Palma o nelle stradine di Licata è facile incontrare donne
rumene, polacche, slave. Molte vivono alla luce del sole, alcune
servono a giustificare gli stipendi degli operatori dei centri di
accoglienza, ben quattro a Licata. Gli sguardi furtivi degli uomini,
invece, si incrociano nei bar. Ma appena si accorgono di essere
osservati svaniscono. Come fantasmi.
Ilie in Sicilia è arrivato per la prima volta due anni fa:
«All'inizio ero spaesato - dice - Poi grazie all'aiuto di alcuni
connazionali ho capito come si può trovare un lavoro e mi sono dato
sempre da fare. Per ora vivo in una piccola casa vicino Agrigento,
pago 50 euro d'affitto. Mi alzo alle 5 del mattino, vengono a
prendermi, come fanno con gli altri, con un furgone. Ognuno di noi
scende lì dove è previsto. Fino a pochi giorni fa ho raccolto i
cantalupo, 10-11 ore di lavoro al giorno. La paga è buona: 25 euro,
in Romania chi lavora nei campi guadagna 8 euro. Finito il turno di
lavoro ci vengono a riprendere e ci lasciano in un punto diverso da
quello dove ci avevano preso la mattina. Se non sono troppo stanco
vado al bar con qualche amico e poi a dormire». Tra qualche giorno
Ilie comincerà un nuovo lavoro: «Vado a fare la vendemmia, poi spero
di andare in Romania dove ho due figli, ma spero di tornare a marzo
dell'anno prossimo». Ad Agrigento in pochi parlano, ma molti sanno
come funzionano le cose. Del resto è una delle province più ricche
di tradizione, cultura e abusivismo, un territorio ampio che ha dato
i natali a Pirandello ma anche al presidente della Regione
(centrodestra) e a un vice ministro del governo Prodi
(centrosinistra).
26
settembre
A Vicenza
comanda Bush
di Roberto Di Caro
Il Pentagono vuole costruire nella
città la base più importante. Da dove partirà ogni attacco in Medio
Oriente. E forse in Iran
Il 'pugno di combattimento', come lo
chiamano al Pentagono, di un ipotetico conflitto con Teheran. Il
cuore e il cervello della risposta bellica di pronto intervento
sull'intero scacchiere mediorientale, Iraq e Afghanistan inclusi. La
leggenda dell'esercito statunitense, la 173a Brigata aerotrasportata
del capitano di 'Apocalypse now', rifondata e riunificata. Dove? A
Vicenza, nel cuore della città. Alla caserma Ederle, dove già sono
in 6 mila, e in un'intera nuova base da costruire entro l'area
dell'aeroporto Dal Molin, 1.300 metri da piazza dei Signori e dalla
Basilica palladiana. Prima tranche entro il 2007, a pieno regime
entro il 2010.
Su scelte del genere una nazione magari si scanna, ma le fa
inalberando e urlando le ragioni del sì e del no. Da noi invece la
vicenda è stata tenuta sottotraccia per tre anni, e sulla decisione
si sta ora imbastendo un delicato minuetto. Ma per carità, caro
ministro, veda lei se dare o no agli americani il Dal Molin: la
decisione le tocca per legge, e mai io anteporrei i nostri interessi
locali a quelli sacri dell'Italia. Ci mancherebbe altro, caro
sindaco, decida lei: non voglio imporre alcunché ai vicentini, mi
rimetto anzi alla loro e alla sua volontà... Colombina e Mirandolina?
Macché. I protagonisti sono due tosti politici come Enrico Hüllweck,
forzista, ex deputato, da due mandati primo cittadino di Vicenza, e
Arturo Mario Luigi Parisi (così si firma e così lo citiamo),
ministro della Difesa dal piglio marziale, che passi in rassegna i
picchetti o annunci l''arrivano i nostri' in Libano.
Come se in ballo ci fosse giusto qualche appalto da spartire, una
manciata di voti di residenti e le solite melmose contrattazioni
politiche col bilancino in seno alla maggioranza: si tratta invece,
tout court, della completa riconversione della strategia e della
dislocazione delle forze armate americane in Europa. La Vicenza
americana già ora ospita, oltre ai 6 mila della Ederle, un quartiere
blindato e vietato detto Villaggio della pace, vari magazzini in
zona industriale, più due siti in provincia a Tormeno e Longare,
incluso il Pluto dove per vent'anni sono stati stoccati missili in
giardino a testata nucleare. Nella prevista riorganizzazione,
acquisendo il Dal Molin attualmente aeroporto militare italiano in
via di dismissione e insieme civile senza voli dopo un anno di
funzionamento claudicante con i conti in rosso, Vicenza diverrebbe
la più potente base americana in Europa. Qui verrebbe costruita la
nuova 173a Brigata aerotrasportata, che triplica la forza e gli
organici di quella ora divisa tra qui e le basi tedesche di Bamberga
e Schweinfurt. Rafforzata come organico (è previsto l'arrivo di
altri 1.800 militari) e come dotazioni: 55 tank M1 Abrams, 85
veicoli corazzati da combattimento, 14 mortai pesanti semoventi, 40
jeep humvee con sistemi elettronici da ricognizione, due nuclei di
aerei spia telecomandati Predator, una sezione di intelligence con
ogni diavoleria elettronica, due batterie di artiglieria con obici
semoventi i micidiali lanciarazzi multipli a lungo raggio Mrls,
quanto basta per cancellare una metropoli. A parte il nome della
brigata, cambia tutto e la forza bellica cresce a dismisura.
Nelle parole del generale James L. Jones, comandante delle forze
armate Usa in Europa, pronunciate davanti al Senato americano già
nel marzo 2005, "la 173a Brigata aerotrasportata sarà ampliata in
Brigade Combat Team", cioè una sorta di maglio mobile con la potenza
di fuoco di una divisione, "e rimarrà in Italia, in prossimità della
base aerea di Aviano, suo centro d'impiego primario. Usareur (U. S.
Army Europe, ndr) ha piani per espandere impianti e infrastrutture
nell'area di Vicenza, includendo le strutture militari americane
all'aeroporto Dal Molin favorendone la crescita attraverso la
ristrutturazione".
Si badi alla data: marzo 2005, un anno e mezzo fa. Il generale ha
già pronti tutti i piani per ristrutturare il Dal Molin, e infatti
chiede al Senato i fondi per attuarli. Una svista? Arroganza? No.
L'allora premier Silvio Berlusconi aveva dato il suo benestare, non
è chiaro se con una pacca sulle spalle o con un impegno segreto,
visto che nessuno ha fino a ora esibito protocolli sottoscritti da
entrambi i paesi contraenti.
Adesso, nel minuetto su chi debba dire di sì o di no, sembrano
cadere tutti dalle nuvole. Il sindaco Hüllweck non è contrario a
cedere parte dell'area del Dal Molin: "Ma se sono io a dire di sì,
poi chi me li dà i milioni di euro per il necessario completamento
della tangenziale, le altre strade, gli scavi, i sottoservizi di
acqua, gas e energia elettrica?". Il ministro Parisi preferirebbe
certo sottrarsi alle ire di Oliviero Diliberto che a giugno è
arrivato a Vicenza in veste di capopopolo contro il nuovo
insediamento militare yankee: ma come spiegare un rifiuto
all'alleato americano e al buon amico di Condy Rice, il ministro
degli Esteri Massimo D'Alema? Fosse il Comune a dire di no gli
toglierebbe le castagne dal fuoco. Ecco allora, lo segnaliamo per il
'libro delle prime volte', che la risposta di Parisi al sindaco
inaugura la formula del silenzio-dissenso: "In assenza di un
riscontro si riterrà che il Comune di Vicenza abbia espresso parere
negativo".
Come si è arrivati a un tale mirabile esempio di patafisica della
politica? "Me ne accennò la prima volta, nel marzo 2004, il
consigliere politico del comando militare Usa a Vicenza, Vincent
Figliomeni, durante una rituale visita di cortesia del comandante
della Ederle", racconta il sindaco. Quando gliene riparlano, un anno
dopo nel marzo 2005, chiede perché vogliano proprio il Dal Molin.
"Non intendiamo usare la pista, i nostri soldati si sposteranno alla
base aerea di Aviano in pullman e solo di notte", gli assicurano: lo
ribadiranno ufficialmente a più riprese, anche al ministero della
Difesa italiano. Affermazione plausibile in termini di procedure e
costi, ma curiosa visto che per arrivare ad Aviano in autostrada c'è
di mezzo il perenne ingorgo del passante di Mestre: ve la vedete la
Brigata d'assalto di punta dell'US Army pronta a essere paracadutata
d'urgenza in teatro di combattimento, traffico mestrino permettendo?
Nella ricostruzione di Hüllweck, è lui a parlarne a Gianni Letta,
sottosegretario alla presidenza del Consiglio, che a sua volta
incontra l'ambasciatore americano: nega così, il sindaco, che l'imput
gli sia venuto da Silvio Berlusconi, proprio nel marzo 2003
testimone alle sue seconde nozze. Il Comune risponde invece picche
alla richiesta Usa di costruire anche un reparto ostetricia tutto
per loro, in modo che i pargoli della 173a potessero nascere in
suolo americano, ancorché oltreoceano.
Solo nel marzo di quest'anno cominciano a uscire le prime notizie
sulla prossima rivoluzione militare americana a Vicenza. E a
formarsi i primi Comitati del No, ormai sei riuniti in un
coordinamento, negli ultimi giorni presenti con cartelli e cortei, e
una raccolta di 10 mila firme, dalla riunione del Consiglio comunale
all'arrivo del ministro Francesco Rutelli per il premio Eti, l'Oscar
del teatro italiano, in quel gioiellino che è l'Olimpico. "Ma
scherziamo? Un'altra base del genere in piena città, in un'area
congestionata dove nelle ore di punta già si formano chilometri di
coda, contro il parere del comune confinante di Caldogno,
distruggendo per le infrastrutture anche l'argine del fiume
Bacchiglione? E i problemi di sicurezza? L'Unione non doveva ridurre
le servitù militari? Vale solo per l'isola sarda della Maddalena?",
attaccano Cinzia Bottene e Viviana Varischio, presidenti di due dei
sei comitati.
A maggio arrivano in Consiglio comunale tre colonnelli Usa e
spiattellano un malloppo di trecento pagine con tutti i progetti
delle nuove strutture previste al Dal Molin: c'è disegnato ogni
muro, pilastro, pensilina, tipo di tegola, rubinetto, linea e presa
elettrica, dalla caserma a otto palazzine a pettine di quattro piani
più uno alla mensa per 801-1.300 persone, più due autopark di sei
piani, depositi, negozi, due ristoranti, fast food, barbiere, fino
ai 14 metri quadri per la pompa di benzina. Gli americani le cose le
fanno così: hanno messo nero su bianco persino le modalità con cui
selezionare i dentisti italiani in considerazione delle differenze
tra i nostri e i loro medicinali. L'investimento Usa è pari a 306
milioni di dollari per la sola prima fase da chiudere entro il 2007:
la tabella sta nella relazione del citato generale Jones alla
Commissione Forze armate del Senato americano del 7 marzo scorso,
dove si dettagliano anche 26 milioni per il Centro fitness, 52 per
il mini-ospedale, 31 per la scuola elementare americana all Ederle.
Il complesso dovrebbe operare a pieno regime nel 2010, con una spesa
finale sul miliardo di dollari.
Per gli americani è tutto deciso, per gli italiani tutto da
decidere. "Che vuole, Vicenza è il cuore della tradizione dorotea,
cioè della mediazione infinita per accontentare tutti. Oggi che i
democristiani non ci sono più è anche peggio: alla composizione
degli interessi s'è sostituita la reticenza, non si sa mai chi, come
e quando decide", annota Ilvo Diamanti, vicentino, politologo,
prorettore all'ateneo di Urbino.
E infatti la scelta non ha né padri né madri. "Sì, ho tenuto io i
rapporti con gli americani della base, specie con i tecnici", dice
Claudio Cicero, assessore di An a mobilità, trasporti e
infrastrutture, nel cui ufficio già campeggia il tracciato della
tangenziale che vorrebbe costruire coi soldi degli States, del
governo italiano, della Regione, facciano loro, purché non con le
casse del Comune: ma neanche lui annuncia battaglia in caso di un
'no' del governo. Più sottilmente, insinua il dubbio che impedire il
ricongiungimento della 173a a Vicenza potrebbe spingere gli
americani a spostare tutto altrove, in Germania o magari in Romania:
"Alla Ederle lavorano oggi 750 italiani come personale civile. Se
perdessero il lavoro, solo un terzo potrebbe essere ricollocato
altrove". Del resto è in quel bacino che Cicero prende i voti, non
certo tra i catilinari antiguerra e antibase. Ma in questa sua
posizione si ritrova come alleati Cisl e Uil, anima del comitato per
il 'sì' che ha anch'esso raccolto le sue brave 10 mila firme.
A sentire gli esperti, non sembra probabile che in caso di rifiuto
gli americani per ripicca dislochino la 173a in Romania o in
Bulgaria, e a Vicenza smantellino anche la Ederle. I soldati si
spostano in aereo, ma tanks e rifornimenti si muovono via nave, e ai
porti di Livorno o Trieste si arriva facilmente, tra il Mediterraneo
e il Mar Nero c'è invece di mezzo il Bosforo: basterebbe allora un
colpo d'ala del premier turco Erdogan o di chi per lui a inceppare
l'intera strategia di intervento rapido in Medio Oriente. Ma le
minacce più sono velate e meglio funzionano, in casi come questo.
A margine, un piccolo italianissimo interrogativo: giacché tutta la
storia nasce con Berlusconi presidente del Consiglio, che farà per
tener fede all'impegno, ancorché informale, da lui preso con il suo
amicone americano? "L'ho sentito giovedì scorso", risponde il
sindaco Hüllweck: "'Come sei messo?', mi ha chiesto, 'so che hai dei
problemi. Vuoi magari parlarne con l'ambasciatore americano?'".
Detto fatto, l'incontro ha luogo a Roma il mercoledì. Ovvero: come
un'incontenibile esuberanza, forse la nostalgia di quando queste
cose le faceva da premier, dà luogo a una diplomazia parallela da
Repubblica delle banane.
Nicolas Maduro bloccato dagli agenti
per quasi due ore all'aeroporto JFK
E il Dipartimento di Stato degli Stati
Uniti esprime il suo "dispiacere"
Gaffe col
ministro venezuelano
Gli Usa costretti alle scuse
Nicolas Maduro, ministro degli Esteri
venezuelano
CARACAS - Incidente diplomatico tra il
Venezuela e gli Stati Uniti. Il ministro degli Esteri venezuelano
Nicolas Maduro ha deununciato di essere stato trattenuto per un'una
e quaranta minuti all'aeroporto internazionale JFK di New York e
privato dei documenti di viaggio. "I funzionari dell'aeroporto hanno
cominciato a insultarmi, a urlare, hanno fatto venire un poliziotto
e hanno cominciato a minacciarmi", ha spiegato il ministro. "Esigo
che il governo americano rispetti le regole del diritto
internazionale".
Il vicepresidente venezuelano Josè Vicente Rangel ha collegato
l'incidente accaduto al suo collega al discorso pronunciato
mercoledì scorso all'Assemblea generale dell'Onu dal presidente Hugo
Chavez, che aveva definito il collega statunitense George Bush
"diavolo".
Gli Stati Uniti ammettono la gaffe e avanzano scuse ufficiali ma
tacciano sul motivo che ha indotto l'autorità di polizia a
trattenere il il ministro degli Esteri venezuelano. Il portavoce del
ministero degli affari esteri americano Gonzalo Gallegos ha ammesso
che "il Dipartimento di Stato è dispiaciuto per l'incidente". Non
nasconde il Dipartimento di Stato che i servizi di sicurezza
dell'aeroporto hanno interrogato il ministro e richiesto conferme
sulla sua identità ma precisano che non hanno prove per poter
affermare che gli siano stati ritirati i documenti di viaggio, che
sia stato aggredito o che sia stato trattenuto".
Il lavoro stabile si allontana.
Isfol-Cnel: per gli "under 25" crolla il numero dei contratti a
termine che si trasformano in posti a tempo indeterminato
La "gavetta"?
Serve sempre meno
Non si assumono i giovani precari
La stabilità nel lavoro arriva a 38
anni. Interviste a Centra e Dell'Aringa
di FEDERICO PACE
C'è modo di rendere ancor più piena di
ostacoli una strada già molto impervia? A quanto pare sì. Tanto che
la via che dovrebbe portare i giovani verso un posto stabile si è
andata complicando ancor di più. Fino a qualche anno fa si faceva un
po' di gavetta, si accettava un po' di flessibilità, e dopo un paio
di anni si poteva ad approdare a qualcosa di certo. Ora però il
numero di quelli che riescono nell'impresa è sempre più basso. "Tra
il 2003 e il 2005 la quota dei contratti a termine degli 'under' che
si è trasformata in contratti a tempo indeterminato - ci ha detto
Marco Centra, responsabile Isfol per l'analisi e valutazione delle
politiche per l'occupazione - è diminuita in maniera preoccupante.
Due anni fa era il 40 per cento. Ora invece viene stabilizzato solo
il venticinque per cento dei giovani. "Se si guarda ai contratti di
collaborazione ci si accorge che la quota degli 'under 25' che
riesce a passare a un contratto permanente è pari a un misero undici
per cento.
Al Sud nel 2005, secondo i dati della ricerca presentata in questi
giorni dalla Svimez, un ragazzo su cinque non cerca lavoro e non
studia: in tutto 824mila giovani. Lo scorso anno, dicono gli esperti
Svimez, il Mezzogiorno ha assistito ad un calo degli occupati tra i
15 e i 34 anni pari a 221mila unità. Tre giovani su quattro hanno
visto peggiorare la propria posizione professionale e solo il 19,6
per cento dei giovani è riuscito a vincere la sua personale
lotteria: vedere trasformato il contratto atipico in uno a tempo
indeterminato.
Così, quegli strumenti che dovevano permettere un più agevole
accesso del mercato, quegli strumenti che parevano chiedere ai
ragazzi e alla ragazze solo qualche sacrificio da sostenere nei
primi tempi, dal 2003 hanno preso a tradire le promesse. Tanto che
da allora è cresciuta anche la quota degli under 25 che fanno il
percorso inverso e, dal lavoro "a tempo", escono per andare nella
grigia area degli inattivi o in quella di chi cerca lavoro: nel
2002-2003 erano l'11 per cento ora sono quasi il venti per cento
Ma cosa è successo? Quali sono le ragioni? "Alle imprese - spiega
Centra - non conviene più assumere i giovani perché non hanno più
gli incentivi economici previsti per il contratto di formazione e
lavoro mentre il 'nuovo' apprendistato è praticamente bloccato." Il
fenomeno sembra ancora più acuto proprio in uno dei più importanti
mercati del lavoro. Nel Nord Ovest le "speranze" dei giovani si
scontrano con una realtà quasi paradossale: solo il 26,2 dei
contratti dei temporanei si trasforma in contratti stabili mentre
succede lo stesso al 33,2% per la media totale . I giovani ormai
paiono condividere lo stesso destino dei loro colleghi più maturi. E
la stabilizzazione arriva sempre più tardi: nel 1998 si raggiungeva
a 36 anni mentre ora si riesce a conquistarla solo a 38 anni.
Il Nord Est sembra essere l'unica area territoriale dove le imprese
utilizzano ancora i contratti a termine per avviare i giovani verso
un percorso professionale stabile. Qui, negli ultimi anni, la
percentuale di conversione per gli "under 25" è stata del 35,1%
rispetto al 30,6% del totale dei lavoratori.
Anche secondo il rapporto Ocse ("Boosting Jobs and Incomes") i posti
a tempo determinato, seppure possono produrre benefici effetti sul
mercato del lavoro, rischiano di intrappolare certi lavoratori in
situazioni di impieghi instabili con retribuzioni incerte. In media
la penalizzazione retributiva è nei paesi dell'Unione europea pari
al 15% (si va dal 6% in Danimarca al 24% in Olanda).
Cosa fare allora? "Bisogna puntare sul rilancio dell'apprendistato -
ci ha detto l'economista Carlo Dell'Aringa - Nel momento in cui
Regioni, sindacati e parti sociali si metteranno d'accordo, questo
istituto sarà molto utilizzato e la stabilizzazione tornerà ai
livelli di prima. Se non esiste un contratto del genere le imprese
ne approfittano e tengono un atteggiamento di eccessiva attesa nei
confronti dei giovani. Non va bene però lasciare le nuove
generazioni a macerare. Non va bene dal punto di vista sociale e non
risponde nemmeno a esigenze forti delle aziende".
Cannoni
d'Italia, business in Cina
Come l'Italia partecipa al gran
mercato mondiale
Prodi chiede la fine dell'embargo
sulla vendita delle armi alla Cina. Dietro di lui, potenti interessi
privati e di stato. Ma il business degli armamenti non conta solo
sull'export: le spese militari in continua crescita ne sono il
traino principale
Giulio Marcon*
Le parole di Prodi che invitano a
porre fine all'embargo europeo (ed italiano) sulla vendita di armi
alla Cina non può che essere messo in relazione - oltre che con la
finalità generale del miglioramento delle relazioni politiche ed
economiche con la Repubblica popolare cinese - anche con l'obiettivo
specifico del rilancio dell'industria militare italiana. Si tratta
di un business in grande crescita. Gli ultimi dati disponibili (la
relazione tecnica del 2006 sulla legge 185 che regola il commercio
delle armi) parlano, per il 2005, di ben 1.361 milioni di euro
relativi ad autorizzazioni concesse per la vendita di armi ad oltre
60 paesi. Si tratta di un calo di poco più del 9% rispetto all'anno
precedente (quando si era sfiorata la cifra record di quasi 1.500
milioni), ma va ricordato che negli ultimi 5 anni l'esportazione di
armi era vertiginosamente aumentata di oltre il 60% e che comunque
nel 2005, nonostante il calo di autorizzazioni, le consegne
effettive di armi (non sempre le autorizzazioni si concludono
positivamente) sono praticamente raddoppiate: da 480 a 830 milioni
di euro (www.disarmo.org).
Quel che l'Italia vende
Che cosa vendiamo? Non certo solo componenti o sistemi tecnologici,
ma prodotti finiti di ogni genere come: elicotteri, cannoni navali,
radar, blindati, proiettili per cannoni, mine marine, 40mila bombe
da mortaio, 5 navi da pattugliamento, 200 siluri e via dicendo. Tra
le aziende più attive: la Agusta (169 milioni di euro), la Galileo
Avionica (166milioni), la Iveco (130), la Alenia Aeronautica (101),
la Oerlikon Contraves (78), ecc.
Tra i protagonisti del business ci sono le aziende del settore
pubblico della Finmeccanica (che Prodi conosce bene dai tempi dell'Iri),
di cui è azionista di riferimento il ministro dell'economia; e nel
campo dei finanziamenti (ben 164 milioni quelli autorizzati, al
secondo posto dopo Capitalia) c'è la Banca San Paolo, la cui fusione
con Banca Intesa è stata salutata con entusiasmo dal presidente del
consiglio - che da alcuni è stato anche identificato come
beneficiario (politico) dell'operazione. In realtà l'Italia ha già
rotto l'embargo con la Cina; nel 2005 ha venduto armi a Pechino per
400mila euro, nel 2004 per 2 milioni e nel 2003 per ben 126 milioni.
Inoltre nella scorsa legislatura era già stato approvato dalle
Commissioni esteri il testo dell'accordo militare con la Cina che
prevedeva scambi di equipaggiamenti, sistemi d'arma e tecnologia:
fortunatamente l'accordo è rimasto in sospeso.
L'allora ministro degli esteri Frattini aveva dichiarato
nell'occasione: «La Cina merita la dovuta attenzione per gli sforzi
ed i successi evidenziati nell'ultimo decennio in favore della
stabilità e della pace, anzitutto al suo interno...». In realtà la
Commissione Diritti Umani dell'Onu, il Consiglio d'Europa ed Amnesty
International non se ne sono accorti, viste le ripetute condanne
alla Cina per la violazione dei diritti umani nel paese. Tra l'altro
va ricordato che se noi vendiamo illegalmente armi alla Cina non è
escluso che queste possano essere poi rivendute o girate da Pechino
ai numerosi paesi in guerra e alle numerose dittature con cui la
Cina ha un ricco export di sistemi d'arma (tra questi: Sudan e
Myanmar).
In questa rottura dell'embargo - continuando a vendere le armi alla
Cina - l'Italia non solo viene meno alla decisione europea, ma anche
alla legge 185 che regola il commercio delle armi e che vieta di
vendere armi a paesi in guerra e che violano i diritti umani.
Violazione che in realtà riguarda altri paesi che in questi anni
sono stati o sono ancora interessati da guerre, violenze interne e
violazioni dei diritti umani. Giusto per citarne alcuni: l'Italia
vende armi ad Algeria, Turchia, Arabia Saudita, Libia, Pakistan,
Singapore (che recentemente ha impedito agli attivisti italiani di
partecipare al contro-forum della Banca Mondiale). Tra l'altro si
legge nella relazione sulla legge 185 che è stata concessa
un'autorizzazione per la vendita (non si sa a chi) di 20mila
cartucce/candelotti lacrimogeni che sono molto utili nella
repressione delle manifestazioni: speriamo che non vadano in mano ad
uno dei paesi che calpesta sistematicamente i diritti civili e
politici.
Se è vero che le aziende principali italiane del settore armiero
fanno in qualche modo riferimento al settore pubblico e se una parte
delle armi viene venduto a paesi in guerra, retti da dittature e che
violano i diritti umani, si può dedurre che lo Stato italiano
realizza degli utili in modo illegale, violando una propria legge e
sulla pelle delle persone che sotto quelle armi cadono o vengono
incarcerate e perseguitate.
Il business delle armi non è legato solo alle esportazioni, ma anche
alle spese per la difesa, che in Italia non mancano (poco meno di 20
miliardi di euro, esclusi i finanziamenti extra bilancio) e che dal
2000 ad oggi sono aumentate di oltre il 20 per cento. Si odono tante
lamentele di militari e di politici amici di militari sulla tendenza
al ribasso delle spese. Si sparano cifre e percentuali al ribasso,
per poter chiedere più soldi. In realtà l'Italia si posiziona
stabilmente nel G7 delle spese militari (cioè nel club dei 7 paesi
che nel mondo spendono più per le Forze Armate) e la spesa procapite
per le armi è superiore a quella della Germania: da noi si spendono
468 dollari all'anno per persona e in Germania 401 (www.sipri.org).
Secondo la Nato (che conteggia non solo i soldi spesi dal ministero
della difesa, ma anche le spese extra bilancio: ad esempio le spese
per le missioni militari all'estero che vengono finanziate con fondi
ad hoc) la percentuale della spesa militare sul Pil è oggi vicina al
2%, percentuale non molto lontana da quella di altri paesi europei
di media grandezza (www.sbilanciamoci.org).
Tralasciando l'aspetto politico (pur non di poco conto) della
funzione delle Forze Armate (per esempio quella svolta in Iraq e in
Afghanistan), quello che va registrato è il sovradimensionamento
dell'organico (190mila persone - come prevede la riforma - sono un
numero troppo alto rispetto alle esigenze reali); l'inefficienza
operativa e gestionale, più volte denunciata dalla Corte dei Conti;
e la sproporzione tra ufficiali e soldati semplici (l'Italia ha in
proporzione più generali degli Stati niti, per cui alla fine l'alto
organico serve solo a legittimare il «posto» di ufficiali e
sottufficiali). Per dare un esempio: il ministero della difesa
prevede che a riforma completata le 190mila unità saranno così
ripartite: 103.803 soldati semplici (i cosiddetti «volontari», in
ferma breve o permanente) e 86.197 tra ufficiali (più di 22mila) e
sottufficiali. Più o meno un comandante per ogni comandato.
Non solo l'italiano dei valori Sergio De Gregorio - Presidente della
Commissione difesa al senato - ma anche il sottosegretario Ds alla
difesa, Giovanni Forcieri, hanno lamentato le scarse risorse per le
Forze Armate e hanno rimproverato alla Casa della Libertà di avere
ridotto (sic) in questi anni le spese militari.
Aumentiamo le spese
Ma va ricordato che - pur nell'ambito di un contesto di integrazione
europea degli apparati della difesa e anche se in modo
contraddittorio con quanto affermato in altri passaggi - il
programma dell'Unione con il quale Prodi ha vinto le elezioni
recita: «L'Unione si impegna, nell'ambito della cooperazione
europea, a sostenere una politica che consenta la riduzione delle
spese per armamenti». E però si rischia di fare esattamente
l'opposto e diversi parlamentari in chiave bipartisan, in queste ore
di definizione della legge finanziaria, si battono per una politica
che aumenti le spese per gli armamenti nel bilancio della difesa.
La campagna «Sbilanciamoci!» ha fatto in questi anni proposte che
vanno nella direzione opposta: in primo luogo la progressiva
riduzione - bloccando concorsi ed assunzioni - delle Forze Armate da
190 a 120mila unità (tra l'altro era una vecchia proposta del Cespi,
poi finita in qualche cassetto) che permetterebbe di assolvere - in
un quadro di operatività e di reale efficienza - ai compiti
costituzionali di difesa del paese e agli impegni internazionali
delle missioni di pace, ma quelle vere sotto la guida e il mandato
delle Nazioni unite. Si risparmierebbero diversi miliardi di euro:
l'unico contraccolpo sarebbe quello di dover prepensionare un po' di
generali e colonnelli, ma è un piccolo lusso che ancora ci possiamo
permettere. Soprattutto se a beneficiarne è la prospettiva di una
politica di pace, di un nuovo multilateralismo democratico, della
solidarietà internazionale.
*Campagna Sbilanciamoci!
www.sbilanciamoci.org
Amianto,
condanna per Trenitalia
Bonifiche amianto. Il tribunale di
Bologna ha disposto l'assegnazione di 500mila euro per gli eredi di
un operaio morto per mesotelioma pleurico. Aveva lavorato 16 anni
nelle Officine Grandi Riparazioni e respirato la fibra killer
Il Tribunale civile di Bologna, sezione esecuzioni mobiliari, ha
disposto l'assegnazione di 500 mila euro, più gli interessi e le
rivalutazioni, agli eredi di M.U., operaio impiegato alle Officine
Grandi Riparazioni delle Ferrovie dal '74 al 2000, deceduto a 51
anni nel dicembre 2001 per mesotelioma pleurico per aver respirato
le fibre d'amianto con cui erano rivestite le carrozze dei treni.
L'uomo aveva lavorato come addetto alla decoibentazione delle
carrozze rivestite di fibre d'amianto.
Il provvedimento arriva a conclusione di una lunga battaglia
giudiziaria portata avanti dai legali del lavoratore deceduto, gli
avv.Vittorio Casali, Maria Rita Serio e Michela Giaquinto, per
ottenere un risarcimento adeguato per la famiglia del lavoratore. Il
18 maggio scorso il Tribunale del Lavoro di Bologna aveva condannato
Trenitalia a risarcire 500.000 euro in favore degli eredi. Di fronte
al mancato pagamento, i legali della famiglia dell'operaio deceduto
avevano pignorato un conto corrente di un milione di euro aperto da
Trenitalia presso la banca Bnl di Bologna. Ancor prima del deposito
delle motivazioni della sentenza di primo grado, i legali
dell'azienda, ritenendo eccessivo l'importo stabilito dal giudice,
avevano fatto ricorso in appello e contestualmente avevano
presentato un'istanza di sospensione dell'esecutività della sentenza
e quindi del pignoramento.
Venerdì scorso la Corte d'Appello di Bologna, sezione lavoro, ha
emesso un'ordinanza di rigetto del ricorso di Trenitalia, dando così
il via libera al risarcimento. Oggi pomeriggio il giudice
dell'esecuzione ha definitivamente dato il via libera al pagamento
della somma statuita che, considerando interessi e rivalutazioni,
sfiora ormai i 700.000 euro.
Arresti in Costa d'Avorio
Costa d'Avorio,
emergenza rifiuti
Presi i funzionari della compagnia
della nave dei veleni. Le sostanze tossiche smaltite illegalmente
hanno ucciso sette persone. La vicenda ha fatto cadere il governo
ivoriano
Le autorità della Costa d'Avorio hanno arrestato due funzionari
francesi della Trafigura, compagnia olandese proprietaria della nave
che ha scaricato i rifiuti tossici all'origine della recente
catastrofe ambientale nello Stato africano. Lo ha comunicato oggi il
ministro della Giustizia ivoriano. I due uomini, il direttore Claude
Dauphin e il responsabile per l'Africa occidentale Jean Pierre
Valentini, sono stati accusati di aver violato le leggi del Paese in
materia di rifiuti tossici e avvelenamento, e sono stati tratti in
arresto; attualmente si trovano nel penitenziario di Abidjan. La
compagnia, che gestisce il commercio di petrolio e dei suoi
derivati, in una nota si è detta sconvolta" per l'arresto dei due
funzionari ai quali, nei giorni scorsi, era stato ritirato il
passaporto ed era stato vietato di lasciare il Paese.
La Trafigura ha descritto i rifiuti tossici scaricati dalla nave
come «una mistura di benzina, acqua e sostanze caustiche». La
compagnia, inoltre, ha ricordato di aver inviato le sostanze ad
un'azienda locale che si occupa di smaltimento dei rifiuti,
regolarmente autorizzata dal governo a gestire quel tipo di
sostanze. Gli esperti che hanno analizzato il composto hanno
dichiarato che conteneva acido solfidrico, sostanza che, ad alte
concentrazioni, può essere mortale. Il mese scorso, il 'Probo Koala',
un mercantile noleggiato dalla Trafigura, aveva scaricato nel porto
di Abidjan delle sostanze tossiche, poi trasportate in alcune
discariche a cielo aperto della città. Nelle settimane successive
più di 30 mila persone hanno invaso gli ospedali manifestando
sintomi di intossicazione: vomito, dolori di stomaco, nausea,
difficoltà respiratorie. Sette persone, a causa dell'intossicazione,
hanno perso la vita. Pochi giorni fa, il governo del Paese è stato
costretto a dimettersi in seguito alle proteste popolari divampate
dopo lo scandalo.
22
settembre 2006
Sudan, l'Onu
denuncia: «bombe sui civili»
Profughi in Darfur Aerei governativi bombardano i villaggi del nord
Darfur. Il portavoce delle Nazioni unite: «la campagna contro i
ribelli continua causando vittime e sfollati»
Aerei del governo del Sudan continuano a bombardare in modo
indiscriminato villaggi nel nord del Darfur: lo ha affermato oggi il
portavoce dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti
umani (Ohchr), José Diaz. Nella regione del Sudan occidentale,
teatro di un violento conflitto, «la campagna militare contro i
ribelli del nord del Darfur che non hanno firmato l'accordo di pace
è continuata nelle prime settimane di settembre con attacchi
indiscriminati contro i villaggi, causando vittime e nuovi
sfollati», ha detto il portavoce citando un rapporto degli
osservatori dell'Onu in Sudan.
Inoltre, le violenze sessuali contro i civili continuano e le donne
restano vulnerabili agli attacchi delle milizie armate. Un evento
positivo è tuttavia costituito dalla condanna da parte di una corte
del Nord del Darfur di un soldato accusato di aver stuprato una
bambina di 11 anni, ha aggiunto il portavoce.
Infrazioni,
Italia prima nel 2005
Diminuiscono in Europa le procedure aperte per violazione della
normativa ambientale. Ma il Belpaese guida la negativa classifica
con 77 atti
Migliora l’attuazione della legislazione ambientale nell'Unione
europea. Lo dice la nuova relazione della Commissione europea in
materia. Ma il miglioramento non riguarda l’Italia: il Belpaese
guida ancora la classifica degli Stati europei contro cui è stato
avviato il maggior numero di procedimenti di infrazione. I dati si
riferiscono al 2005 e testimoniano una diminuzione a livello
comunitario rispetto all'anno precedente delle procedure aperte per
violazione della normativa ambientale. L'Italia, in confronto al
2004, si è vista comminare due infrazioni in più, attestandosi a
quota 77 a fine 2005. Seconda la Spagna con nove infrazioni in meno
e ferma a 57 procedimenti. Seguono Irlanda (45), Francia (42),
Grecia (36), Portogallo (35), Gran Bretagna (31), Germania (24).
Tutti questi Stati hanno visto diminuire a fine 2005 il numero di
infrazioni a loro carico (la Germania ne ha registrati undici in
meno).
Il miglioramento generale, secondo la Commissione europea, è dovuto
ad una gestione più efficiente delle denunce e dei procedimenti di
infrazione da parte della Commissione e ad un intervento più
tempestivo degli Stati membri nell'adempiere ai propri obblighi. La
Commissione ha adottato un approccio più strategico, raggruppando i
casi riguardanti lo stesso problema e incentrando l'attenzione su
casi generali che riguardano vari settori. La Commissione ha inoltre
intensificato l'assistenza fornita agli Stati membri, organizzando
un maggior numero di incontri con le autorità nazionali e fornendo
loro documentazione di supporto. Alla fine del 2005 la Commissione
aveva avviato 489 procedimenti di infrazione nel settore ambientale
rispetto ai 570 della fine del 2004, pari ad una riduzione del 14%.
21
settembre
Amazon.com diventa
pusher di farmaci?
Di Mike Adams,
tratto dalla newsletter di
www.newstarget.com
Tradotto e adattato per
www.disinformazione.it da Stefano Pravato
Vedi anche questa pagina
originale on line
Questa settimana,
Amazon.com ha cominciato a spingere farmaci per l'ADHD sulla sua
home page mediante un “Amazon survey” che promuove farmaci ADHD (Disordine
da Deficit di Attenzione con Iperattività: presunta malattia "inventata"
dagli psichiatri statunitensi intorno agli anni '80, ndT) che hanno note
controindicazioni. L'annuncio non è visibile a tutti, in quanto sembra che
Amazon stia testando la reazione del mercato. Potete vedere una copia
dell'annuncio a questo indirizzo:
http://www.newstarget.com/gallery/articles/amazonadhd.jpg
Perché Amazon.com,
inizialmente solo libreria, presta il suo nome a una campagna commerciale
che promuove farmaci anfetaminici per bambini? Per soldi, ovviamente! Si
tratta di un nuovo punto di minimo per Amazon.com e Jeff Bezos.
PER SAPERNE
di più
sull'ADHD...
Si trovano moltissimi articoli sull'ADHD, che rivelano la verità su
queste “malattie” fittizie il cui unico scopo è quello di generare profitti
alle lobbies chimico-farmaceutiche, intossicando i bambini. Potete dare
un'occhiata a:
http://www.disinformazione.it/paginaadhd.htm
DITE ad Amazon.com cosa ne pensate!
Siete un cliente di Amazon.com? Io si. Mi sono collegato col mio account
e ho fatto click su “Need help”, quindi su “By e-mail” della finestra
“Contact us”. E ho inserito qualche commento in proposito. Se volete potete
unirvi a me in questo sforzo e dire ad Amazon quello che ne pensate
(mediante il vostro account, se ne avete uno)
Fate sentire la vostra voce!
Nel
mio caso il “Customer service” ha risposto poco dopo:
...Il nostro
scopo come rivenditori e di fornire ai clienti la più ampia selezione
possibile in modo che essi possano trovare, scoprire e acquistare qualsiasi
cosa stiano cercando. Una selezione talmente vasta include inevitabilmente
qualche articolo che qualcuno potrebbe trovare sgradevole o in altra maniera
detestabile...
Una risposta
piuttosto generica e che cerca di mantenere un profilo basso nell'invasione
di Big Pharma all'interno di Amazon.com.
Big Pharma praticamente
governa
la FDA, le
scuole mediche e i media convenzionali. Non lasciamo che prenda il
sopravvento anche sui rivenditori al dettaglio, trasformando i nostri siti
per lo shopping in pusher di farmaci. E poniamoci un'ovvia domanda: Jeff
Bezos (il fondatore di Amazon) è a favore di un aumento dell'avvelenamento
dei nostri bambini con farmaci pericolosi? Se è così, non si merita che
continuiamo a fare affari con lui.
Proteggiamo i bambini dai farmaci pericolosi. Alziamo la voce contro
amazon.com.
20
settembre
Pubblicato un dossier su 27
alimenti acquistati in sette stati europei
L'associazione ambientalista chiede alla Ue un intervento
normativo
Nel piatto 119
sostanze tossiche
WWF: "Legislazione più severa"
Secondo
il WWF in 27 alimenti in Europa rintracciati 119 elementi
tossici
ROMA -
I veleni sono serviti: DDT nel pesce, nel burro e nel formaggio;
refrigeranti nel miele. Dopo dieci anni di lavoro, il WWF
pubblica il
dossier sulla contaminazione alimentare. In 27
campioni di alimenti comuni acquistati nei supermercati di sette
stati europei, i chimici dell'associazione hanno evidenziato 119
sostanze tossiche: ftalati nell'olio d'oliva, nei formaggi e
nella carne; pesticidi organoclorurati, come il DDT, nel pesce e
nel burro; muschi artificiali nel pesce; ritardanti di fiamma
nella carne. "Neanche la dieta più salutare ci mette al riparo
dagli inquinanti chimici tossici", commenta Michele Candotti,
segretario generale del WWF Italia.
"Leggi più severe". Per salvaguardare la salute dei
consumatori, serve un intervento legislativo più restrittivo:
questa è la convinzione del WWF. "Siamo alla vigilia del voto su
Reach, lo strumento della Ue per la regolamentazione delle
sostanze chimiche", spiega il portavoce della sezione italiana
dell'associazione. "Chiediamo ai parlamentari europei che siano
bandite le sostanze più pericolose e applicato il principio di
sostituzione.
E' necessario che il consumatore sappia quali sostanze sono
presenti nei prodotti di uso quotidiano".
Ventisette alimenti sotto il microscopio. I 27 campioni di
alimenti analizzati provengono dall'Italia ma anche da Gran
Bretagna, Polonia, Svezia, Spagna, Grecia e Finlandia. Sono
prodotti di largo consumo: latte, burro e formaggio, salsicce,
petti di pollo, salame, bacon, salmone, tonno, aringhe, e ancora
pane, olio d'oliva, miele e succo d' arancia. "Nessuno dei
prodotti, tutti comprati in supermercati e di marche comuni -
afferma il Wwf - è risultato esente da tracce di sostanze
chimiche. Al contrario, in tutti sono stati rinvenuti, in varia
misura e secondo miscele differenti, 119 composti tossici".
"Studiamo gli effetti sui neonati".
Cosa fare allora? Non mangiare
più? Il WWF tranquillizza: "I livelli di contaminanti rilevati
negli alimenti analizzati non sono in grado di causare
conseguenze dirette o immediate sulla salute. Noi non diciamo
che i consumatori devono evitare il cibo. Piuttosto chiediamo
una seria analisi sugli effetti di un'esposizione cronica, anche
a basse dosi, di un cocktail di sostanze contaminanti,
soprattutto sui feti e sui neonati".
19
settembre
Il fantasma Bolkestein si aggira per l'Europa
Francesco Piccioni
E' già tra di noi? La più
devastante delle «direttive europee» in corso di approvazione - la
famigerata Bolkestein sulla «liberalizzazione dei servizi» - prevede infatti
che un qualsiasi lavoratore, cittadino di uno dei 25 paesi dell'Unione,
possa lavorare in qualsiasi altro paese europeo sottostando alle regole
contrattuali del «paese d'origine». anziché di quello in cui va a lavorare.
A un occhio poco allenato può sembrare una norma innocua, o addirittura
pensata per «facilitare» l'approccio del singolo lavoratore a un ambiente
per lui ignoto.
La morte di Zbigniew, ieri a San Salvo, fa carta straccia delle panzane
ideologiche con cui i sostenitori della Bolkestein hanno fin qui avvolto la
sostanza di quelle norme. Il principio del «paese d'origine» serve soltanto
alle imprese, che potranno così vincere un appalto in un paese «avanzato» -
con più diritti e più alti salari - impiegandovi lavoratori presi dai paesi
più «arretrati» (con pochi diritti e salari più bassi). Ci guadagna sia
l'impresa che «esporta lavoro», sia quella che lo importa. La prima guadagna
all'estero più di quanto non possa fare in patria; la seconda ottiene a
prezzi più bassi lo stesso «servizio».
Ci rimettono i lavoratori di entrambi i paesi. Quelli che emigrano - per un
pugno di euro in più - vanno a correre più rischi di quanti già non ne
corrano in patria: devono infatti dimostrare «galoppando» che utilizzarli è
un vero affare. Quelli del paese «importatore», invece, si ritrovano a fare
i conti con meno posti di lavoro, meno garanzie (a partire dalla sicurezza),
salari congelati, crescente offerta di lavoro «in nero» per «battere la
concorrenza». Dumping sociale legalizzato, insomma. O allargamento a
dismisura delle fila dell'«esercito salariale di riserva» che deve contenere
le «pretese» del lavoro dipendente in tutta Europa.
A San Salvo un'impresa inglese ha trovato manodopera stabile più economica
che non in Gran Bretagna. Per la ristrutturazione del «cuore» dell'impianto
ha fatto una gara d'appalto «europea». L'ha vinta una società finlandese -
paese di alta civiltà, con garanzie e salari in proporzione. Per stare
dentro i costi promessi nella gara i finlandesi hanno dovuto far ricorso a
una società polacca. Una catena di santantonio che avrebbe forse potuto
essere anche più lunga, in nome del risparmio.
Può darsi che la presenza di Zbigniew a San Salvo sia del tutto «legale». Ma
- se ci pensate bene - questa è l'ipotesi più preoccupante.
Fede,
ragione e lapsus
Rossana Rossanda
Era dunque un lapsus, con il
relativo significato involontario e profondo, voce dal sen sfuggita: la
rozza battuta su Maometto e l'imperatore greco non era né necessaria né
funzionale alla tesi che Benedetto XVI ha sviluppato a Regensburg, e cioè
che tra fede e ragione non c'è contrasto, la fede arriva là dove ragione e
scienza si fermano, ma esse sono una grande conquista dell'umanità, resa
possibile da quell'ordine intellettuale che il creatore ha dato all'universo
e del quale all'uomo, fatto a sua immagine e somiglianza, ha concesso la
chiave.
Il fine politico della lectio era di allargare la famosa questione
delle radici dell'Europa alla Grecia, nella veste dell'ellenismo. Alla
tradizione del Vecchio e del Nuovo Testamento la tradizione greca dei
«Settanta» avrebbe dato non solo il passaggio da una lingua all'altra, ma
qualcosa di più. Il duplice senso di logos, parola e ragione, che sta
all'inizio del vangelo di Giovanni, non sarebbe casuale: l'evangelista
voleva significare, fa intendere Benedetto XVI, le due cose; discutibile,
come Barbaglio osserva: per Giovanni logos è parola, messaggio. In
ogni modo, prosegue Ratzinger, l'ellenismo sarebbe la prima felice
inculturazione, nel senso di innesto, nel e del cristianesimo. Che invano
«tre ondate» critiche hanno cercato nei secoli di azzerare. La Costituzione
europea, si può intendere, le deve riconoscere tutte e tre, anzi nel
cristianesimo ellenizzato trova una felice sintesi.
Allo scopo dell'intreccio tra fede e ragione, se proprio Joseph Ratzinger
voleva citare il dialogo fra il Paleologo e il persiano - per il vezzo di
informare dell'ultimo libro letto - poteva ricordarne soltanto la
conclusione, che non avrebbe destato ire funeste tra i musulmani, mentre la
definizione di Maometto come colui che nulla apporta se non il fatale
concetto di guerra santa è francamente insultante.
Da laici maliziosi possiamo aggiungere che ci voleva una notevole
sfacciataggine dell'imperatore bizantino per affibbiare nel 1391 a Maometto
la guerra in nome di Dio: erano appena terminate le otto o nove crociate
contro l'Islam indette dai papi di Roma, e non c'era stata nessuna jihad
contro l'occidente. (Lui in persona, il Paleologo, sarebbe corso a cercare
aiuto in Europa contro i turchi, che avrebbero vinto lui e gli altri
cristiani a Nikopolis. Vero è che quella nessuno la chiamò una guerra santa
ma, come era, una vera e propria guerra territoriale che avrebbe visto la
fine dell'impero bizantino e il formarsi e l'avanzare di quello ottomano su
ambedue le sponde del Mediterraneo, fino a Vienna). Perché Ratzinger s'è
ficcato in questo ginepraio?
Lascio ad altre competenze altri aspetti della lezione a Regensburg. Nel
primo secolo ebraismo, cristianesimo ed ellenismo, osserva Barbaglio, erano
universi in reciproca circolazione. Mi pare invece poco dimostrabile il
legame fra l'asse portante del pensiero greco, cinque secoli prima di
Cristo, e l'ebraismo e poi il cristianesimo. E' persuasivo su questo Oliver
Roy. Mi preme osservare che la ragione critica e la scienza moderna non
evitano la domanda «da dove veniamo» e «dove andiamo», come pensa Benedetto
XVI. Rispondono che la vita viene da un processo fisico-chimico che datano a
tre miliardi di anni, che la specie umana deriva dal suo articolarsi e che
probabilmente andrà verso una fine, come le altre specie viventi.
E' più consolante pensare che un'intelligenza fuori del tempo e dello spazio
ci abbia creato con un atto di volontà e ci riaccoglierà nel suo grembo, ma
il pensiero freddo e l'accettazione della finitudine è appunto quel che
distingue credenti e non credenti. E sarebbe utile ascoltarsi senza tentare
reciprocamente di convertirsi.
Secondo l'indagine della Federconsumatori, le tariffe elettriche nel 2006
sono aumentate in media di 53 euro e quelle del gas di 104
Bollette record nel 2006
Gli aumenti più alti in 10 anni
Fondamentale "sbloccare il
processo di concorrenza" e "puntare
su una politica energetica che faccia perno su quella europea"
di ROSARIA AMATO
ROMA - Un
aumento medio di oltre 53 euro a famiglia rispetto al 2005, la metà della cifra
corrispondente alla somma degli aumenti degli ultimi 10 anni (106 euro): la
Federconsumatori denuncia ancora una volta, con l'indagine presentata stamane a
Roma, il caro-bollette elettriche, puntando il dito anche contro tutto quello
che sta a monte, a cominciare dai monopoli che ancora dominano il settore e, in
ultima analisi, dalla mancanza di una seria politica energetica italiana.
Va ancora peggio per le bollette del gas: secondo i dati dell'Osservatorio
nazionale tariffe e servizi della Federconsumatori, quest'anno rispetto al 2005
l'aumento della spesa su base annua è di 104 euro, considerando una famiglia
tipo che consuma 1400 metri cubi di metano.
Altri aumenti dall'1 ottobre. Gli aumenti monitorati, avverte la
Federconsumatori, non sono definitivi dal momento che dall'1 ottobre di quest'anno
è previsto un ulteriore rialzo per effetto dell'adeguamento trimestrale delle
tariffe previsto dall'Autorità dell'Energia e del Gas. In definitiva, una
famiglia media spenderà quest'anno circa 400 euro per la bolletta elettrica e
1044 euro per quella del gas metano. In percentuale, dal '95 a oggi le bollette
elettriche sono aumentate del 34,5%, mentre quelle del metano nello stesso
periodo del 40%.
Bollette ancora più care nel 2007. Gli aumenti tariffari, riconosce la
Federconsumatori, sono stati "attenuati dai provvedimenti dell'Autorità
dell'Energia", e tuttavia, ha detto il presidente dell'associazione Rosario
Trefiletti, "si prevede che le bollette saranno ancora più care per il 2007".
Per questo, "è necessario accelerare gli interventi sia di carattere strutturale
che fiscale".
Necessaria politica energetica europea. Cioè "basta con gli spot su come
risparmiare energia elettrica, o abbassare di un grado in inverno la temperatura
degli appartamenti". Piuttosto, bisogna puntare su "una politica energetica che
faccia perno su quella europea, che per volume di produzione e consumi può avere
un ruolo nel mercato mondiale del gas e del petrolio e nei rapporti fra paesi
consumatori e fornitori". A tutt'oggi, ha ricordato Trefiletti, le bollette
italiane sono più care del 30/40% rispetto a quelle europee. Solo con un
adeguato piano energetico si può "sbloccare il processo di concorrenza dai
monopoli per un mercato regolato a vantaggio dei consumatori e competitivo".
Energia elettrica: le proposte. Per venire incontro ai consumatori, ma
non solo perchè, ha ricordato Trefiletti, ormai quella energetica "è
un'emergenza nazionale", la Federconsumatori propone ancora di introdurre
strumenti effettivi di tutela degli utenti. In particolare: la trasparenza delle
bollette e l'applicazione del nuovo codice di condotta commeciale, un piano
poliennale di risparmio energetico affiancato dall'introduzione di tariffe
multiorario, l'introduzione della tariffa sociale per le famiglie economicamente
svantaggiate.
Gas metano: le proposte. Quanto al gas metano, la Federconsumatori
ritiene che bisognerebbe decisamente puntarvi, però "intervenendo sulle cause
infrastrutturali e commerciali in Italia e in Europa in modo d'abbattere gli
ostacoli per creare un mercato competitivo a livello europeo, coinvolgendo i
Paesi produttori di metano".
Per superare i ritardi infrastrutturali, bisognerebbe poi costruire "almeno
cinque rigassificatori in tempi certi nel quadro di previsioni con prospettive
lungimiranti nonchè aumentare lo stoccaggio per far fronte alla modulazione
stagionale".
Ridurre l'imposizione fiscale. Al governo, infine, la
Federconsumatori chiede di "ridurre l'eccessiva imposizione fiscale che incide
su ogni metro cubo di metano consumato per il 42%", e di ridurre l'Iva dal 20 al
10% per tutte le utenze domestiche.
18
settembre
Precari,
aumentano in Europa
passano dal 13,7% al 14,5%
In Europa avanza il popolo dei
precari: nel 2005 un salario su sette derivava da lavoro temporaneo,
il 14,5% contro il 13,7% del 2004. Il lavoro precario dunque non
rappresenta ancora la maggioranza degli occupati, ma la tendenza in
tutti i paesi Ue è quella di un aumento costante dell'occupazione a
termine. Anche in Italia (12,3%), dove tra l'altro il tasso di
occupazione resta tra i più bassi del vecchio continente (57,6%) e
dove si ingrossano le fila dei giovani in cerca di lavoro (33,6%). I
dati vengono dall'Eurostat: il tasso di occupazione nella Ue-25 è
del 63,8%, in leggero aumento rispetto al 2004 (63,2%). Pochi sono i
paesi che hanno già raggiunto l'obiettivo indicato dall'agenda di
Lisbona (70% entro il 2010), con la Danimarca che nel 2005 ha fatto
registrare un tasso di occupazione del 75,9%. L'Italia, col il
57,6%, è al terzultimo posto: peggio del nostro paese solo Malta e
Polonia. La Spagna sembra invece essere la «patria dei precari»: nel
2005 ben il 33,3% dei salari scaturiva da occupazione temporanea. Il
lavoro a termine in tutta Europa riguarda soprattutto le donne, che
in 17 stati membri sui 25 dell'Unione superano la quota degli uomini
a tempo determinato. L'Italia, infine, appare in fondo alla
classifica anche sul fronte dei disoccupati in cerca di lavoro: il
33,6% contro una media Ue-25 del 18,3%. Peggio di noi solo la Grecia
(37,3%) a cui va la maglia nera.
I tedeschi
mangiano riso ogm
Biotech Greenpeace scopre ogm illegali made in Usa in alcuni
supermercati della Germania
Chicchi «firmati» Bayer Il riso illegale, vietato dall'Unione
europea, è già nella catena alimentare. E proprio ieri il colosso
tedesco, che ha messo in ginocchio i contadini americani, ha chiesto
di regolarizzare il suo prodotto a contaminazione avvenuta.
Coldiretti chiede più controlli ma rassicura i consumatori, le
industrie invece tacciono
Luca Fazio
Chi cerca trova. E non deve essere troppo complicato, ironizzano gli
attivisti di Greenpeace, se in pochi giorni un povera associazione
ambientalista scopre per l'ennesima volta organismi geneticamente
modificati illegali in territorio europeo. La nave bloccata nel
porto di Rotterdam con 20 mila tonnellate di riso proveniente dagli
Stati Uniti e inquinato dalla BayerCropScience, ai più ottimisti,
poteva far pensare che in fondo i controlli funzionano. Invece è
vero il contrario. Lo dimostra il fatto che anche il riso ogm della
Bayer (il Liberty Link 601, «sfuggito» dai laboratori nel 2001 e mai
approvato per il consumo) è stato trovato in un supermercato
tedesco.
Le analisi, ieri mattina, hanno confermato tracce in alcune
confezioni di riso parboiled a grana lunga Bon-Ri acquistate nei
supermercati Aldi (la settimana scorsa, in Francia, Inghilterra e
Germania, è stato trovato riso gm proveniente dalla Cina, con una
proteina che aveva prodotto reazioni allergiche nei topi). Una
notizia poco confortante proprio nel giorno in cui, a Bruxelles, la
Commissione europea si è riunita per cercare di mettere a fuoco una
situazione che ormai sembra sfuggita totalmente di mano.
Federica Ferrario, responsabile per la campagna ogm di Greenpeace
Italia, ricorda che la Bayer è recidiva, sollecita le industrie ad
analisi più puntuali e invita l'Unione europea a ritirare
immediatamente dal mercato i prodotti che contengono riso
statunitense contaminato. «La negligenza della Bayer - spiega - avrà
pesanti conseguenze sull'industria del riso statunitense. Questo
test positivo potrebbe essere solo il primo di una lunga serie.
Esportatori, grossisiti e dettaglianti rischiano ora di fronteggiare
pesanti costi per effettuare analisi e ritiri di prodotti, per non
parlare di diminuzione delle vendite, riduzione dei prezzi, e
diffidenza dei consumatori. Lo scandalo legato alla contaminazione
con mais illegale StarLink, ha causato nel 2001 danni di circa mezzo
miliardo di dollari. L'attuale vasta contaminazione del riso fa
presagire un impatto ancora più pesante sull'industria del riso».
Il colosso tedesco, proprio ieri, con una mossa che ha
dell'incredibile, ha cercato di correre ai ripari presentando una
domanda formale al Dipartimento per l'Agricoltura degli Stati Uniti
affinchè venga riconosciuto - a inquinamento avvenuto - il suo riso
modificato. Una scorrettezza che sconcerta Simona Capogna, di Verdi
Ambiente e Società. «Le autorità statunitensi - spiega - non solo
sono state incapaci di evitare la contaminazione, ma sembrano ora
voler stare al gioco dell'azienda, orientandosi verso la concessione
dell'autorizzazione per il riso LL RICE 601. Come se non bastasse,
dal rapporto fornito dalla Bayer, e ipocritamente pubblicato sul
sito del Dipartimento, mancano pagine e dati cruciali».
Le industrie italiane non importano quel tipo di riso dagli Usa, ma
l'ampiezza della contaminazione è tale che, sostiene Federica
Ferrario, «si tratta di un chiaro messaggio per tutto il comparto
risicolo: se non sta alla larga dagli ogm rischia danni enormi,
perché, una volta che gli ogm entrano nella filiera alimentare, per
rimuoverli bisogna affrontare un lavoro costoso, dunque è meglio
prevenire a monte». Un discorso che però non viene recepito da tutte
le aziende nostrane, visto che il presidente dell'Associazione
Industrie Risiere Italiane, in questi giorni, ha ribadito la sua
apertura nei confronti degli ogm.
Coldiretti, da parte sua, si affanna a ribadire che l'Italia è
autosufficiente dagli Usa quanto a fabbisogno di riso. Rassicurati i
consumatori nostrani, Coldiretti ritiene comunque necessario
«rafforzare il sistema dei controlli con la rintracciabilità delle
produzioni e l'etichettatura di origine degli alimenti». A questo
punto è il minimo che si possa fare per «valorizzare la scelta ogm
free fatta dall'agricoltura nazionale», come auspica la stessa
organizzazione. Sempre che tutti i soggetti interessati siano dello
stesso avviso.
Iran, chiuso
l'ultimo giornale riformista
Due anni fa Shargh aveva accettato di autolimitarsi pur di restare
in edicola, unica voce critica. Ora è al bando
Marina Forti
Una delle poche voci indipendenti della stampa iraniana è di nuovo
zittita. Il «Consiglio per il controllo della stampa» presso il
Ministero della cultura ha ordinato ieri la chiusura di Shargh
(«Oriente»), il più noto e diffuso quotidiano vicino all'opposizione
riformista pubblicato a Tehran. Il direttore responsabile Mehdi
Rahmanian ha dichiarato che farà appello, ma tra i giornalisti e
collaboratori della testata pochi credono che il giornale possa
tornare in edicola in tempi brevi - o forse mai. E tutti lo prendono
come un ammonimento rivolto a tutte le voci dissenzienti verso
l'attuale governo iraniano.
Il comunicato del Consiglio per il controllo della stampa afferma
che i responsabili di Shargh erano stati avvisati. In effetti in
agosto il Consiglio aveva emesso un ultimatum: «A causa di 70 casi
di violazioni, tra cui insulti a dirigenti dello stato e figure
religiose e nazionali, la pubblicazione di articoli blasfemi e di
articoli atti a creare discordia», il Consiglio aveva ordinato al
giornale di sostituire il direttore responsabile entro un mese.
L'ultimatum scadeva appunto ieri. Rahmanian nega di aver
contravvenuto all'ordine: proprio domenica aveva chiesto una proroga
di due mesi per trovare un successore a se stesso. Nel suo
comunicato, il Consiglio dei censori se la prende anche con una
vignetta pubblicata giovedì scorso dal quotidiano, in cui si vede
una scacchiera ai cui lati si guardano un cavallo e un asinello con
un alone di luce attorno alla testa. Un riferimento derisorio al
presidente della repubblica? Pare che l'anno scorso Mahmoud
Ahmadi-Nejad abbia detto ai suoi collaboratori che durante il suo
discorso all'Assemblea generale dell'Onu a New York si era sentito
circondato da un alone di luce divina; la notizia era ampiamente
circolata sui blog iraniani anche se fonti ufficiali l'hanno
smentita.
Forse la vignetta è stata la goccia finale agli occhi del Comitato
dei censori, ma la chiusura di Shargh fa parte di un attacco a ogni
voce critica in Iran. La stampa è da sempre terreno di scontro
politico - fin da quando le testate indipendenti erano fiorite con
la presidente dal riformista Mohammad Khatami e la magistratura,
controllata dai settori più conservatori dello stato, si era
accanita: dal 1999-2000 almeno un centinaio di giornali sono stati
chiusi, decine di giornalisti arrestati, anche se nuove testate sono
state aperte in un braccio di ferro continuo. I censori hanno poi
preso di mira i notiziari online e perseguito i «giornalisti
internet». Da quando poi si è insediato il governo di Ahmadi-Nejad,
i direttori sono stati convocati regolarmente per sentirsi dire
quali argomenti trattare e come; inutile dire che su questioni come
il nucleare non sono ammesse voci discordanti. Proprio ieri il
giornale online Rooz (notizie e commenti sia dall'Iran che dalla
diaspora democratica) riferiva che il Ministero della cultura ha
emanato una nuova direttiva in cui si elencano le fonti «affidabili
e valide» a cui la stampa dovrà attenersi, cioè le sole agenzie di
stampa governative: in sostanza fa divieto di citare qualunque fonte
indipendente.
Shargh restava come una voce relativamente aperta, l'unica dove si
trovano commenti critici sui fatti della vita nazionale (benché
sempre un po' tra le righe). Il direttore Mohammad Ghouchani e il
caporedattore politico Mohammad Atrianfar sono noti intellettuali
d'opposizione.
La pubblicazione era il risultato di una sorta di contrattazione
politica: Shargh (che secondo notizie difficili da confermare era
sostenuto da imprenditori vicini al «pragmatico» ex presidente
Hashemi Rafsanjani) era stato chiuso dalla magistratura il 18
febbraio 2004, due giorni prima delle elezioni legislative, per aver
pubblicato il testo di una dura lettera alla Guida Suprema,
l'ayatollah Khamenei, letta in parlamento dai deputati ribelli che
criticavano il Consiglio dei Guardiani per aver escluso i candidati
riformisti. Quella volta il direttore Rahmanian era andato a
incontrare il procuratore generale di Tehran (ed ex capo del
tribunale per la stampa) Saeed Mortazavi, aveva accettato di fare
tante scuse per aver quel testo «offensivo», e il giornale era stato
autorizzato a tornare in edicola. Ovvero, i giornalisti di Shargh
avevano deciso che un giornale con qualche autocensura era pur
sempre meglio che nessun giornale. Questa volta sembra che anche lo
spazio di contrattazione politica dell'autocensura sia finito.
Incontaminato e difficilmente
raggiungibile
il Sani Pass collega il Sudafrica al Lesotho
In nome
del Mondiale del 2010 asfaltano il passo più alto d'Africa
Le proteste delle comunità locali e degli ambientalisti
Le leggende intorno a questo colle, i riti che ancora resistono
FABIO MARZANO
Quando la sterrata finisce, ai lati
iniziano le colate di ghiaccio. Poi si apre l'altipiano, un circo
senza orizzonte e senza alberi costellato da montagne e picchiato
dal vento. Una decina di capanne spesso immerse nella neve ospitano
i funzionari di frontiera, uno chalet accoglie i pochi turisti
infreddoliti che si avventurano a quota 2900, fino al Sani Pass,
passaggio di confine tra il Sudafrica e il Lesotho. E' uno dei
luoghi più incontaminati dell'Africa del sud, protetto perché quasi
inaccessibile.
Le jeep procedono con cautela, la strada non ha protezioni, la
carreggiata non lascia spazi a manovre e impone un certo virtuosismo
al volante. Un isolamento che ha fatto di questo colle una leggenda.
Ora però i lavori per asfaltare il Sani Pass, finanziati dai governi
dei due paesi, partiranno verso Natale per concludersi in tempo per
i Mondiali di calcio del 2010 in Sudafrica.
Il progetto dovrebbe incentivate il turismo in Lesotho, una
monarchia di pastori che si sviluppa su un territorio oltre i 1000
metri di altitudine. Un intervento contestato da comunità locali,
associazioni ecologiste e dai tour operator della zona.
L'assenza di una valutazione preliminare sull'impatto ambientale, il
via-vai dei camion e il traffico rischiano di compromettere un'area
unica per storia e biodiversità. Dall'altra, il governo del Lesotho
è deciso a sfruttare l'opportunità della Coppa del Mondo per farsi
spazio nel mercato dell'accoglienza, e il Sani Pass dovrebbe essere
una delle punte di diamante di questa operazione di restyling.
Unica via di collegamento tra il Lesotho e la provincia sudafricana
del KwaZulu-Natal, sarà candidata a sito di interesse nazionale e a
patrimonio dell'umanità. In oltre 10 anni ci sono stati solo 14
incidenti. Ma operatori turistici e amministratori temono che si
tratti di cifre destinate ad aumentare quando sarà percorribile da
tutte le auto.
Oggi i visitatori, oltre la linea di frontiera possono fermarsi al
Sani Top Chalet (www. sanitopchalet. co. za), considerato il pub più
alto d'Africa, e punto di partenza privilegiato per salire sulla
cima del Thabana Ntlenyana (3482 metri), l'elevazione più importante
a sud del Kilimanjaro.
L'ultimo San della zona, la tribù di boscimani che da sempre viveva
su queste montagne e da cui prende il nome il passo oggi abitato
dalla popolazione Sotho, è stato ucciso dai coloni a metà Ottocento.
Nel 1955 il primo varco venne aperto da David Alexander, il
fondatore di una compagnia di trasporti che garantiva gli scambi tra
Lesotho e Sudafrica. Negli anni Settanta, poi, la strada viene
ampliata fino a Mokhotlong, primo centro abitato a oltre 100
chilometri dal Sani Pass.
Una località remota, in passato epicentro del liretlo, il cosiddetto
omicidio medicinale, uno dei riti più controversi di questo
territorio. Per assicurare efficacia a sortilegi e pozione veniva
asportata la carne di un uomo assassinato, non sacrificato. Un
fenomeno a cui i due antropologi Colin Murray e Peter Sanders hanno
di recente dedicato lo studio più completo, "Medicine murder in
Lesotho: the anatomy of a moral crisis" (Edinburgh University Press,
2005).
Sfruttamento, degrado: un lungo elenco
di mancanze
Il nostro Paese detiene il record di segnalazioni dell'agenzia Onu
"Allarme abusivismo e incuria"
l'Unesco boccia i siti italiani
di MARIA NOVELLA DE LUCA
ROMA - "Sapete quale è l'ultima beffa? Case costruite su terreni
vincolati, in aree definite patrimonio dell'umanità, e poi vendute
con il marchio Unesco come valore aggiunto. Senza vergogna...".
Scherza amaro il professor Giovanni Puglisi, presidente della
commissione italiana per l'Unesco, riferendosi alle nuove
speculazioni edilizie della Val D'Orcia, alla fine di un'estate dove
gli allarmi sul degrado dei siti inseriti nelle liste del world
heritage, sono diventati una vera e propria emergenza.
Dai centri storici snaturati dal turismo di massa come San Gimignano,
che ad agosto ha registrato un tale incremento di presenze "mordi e
fuggi"da far temere per la sopravvivenza del borgo stesso, alle 42
villette con piscina pronte ad essere edificate a Corniglia, nelle
Cinque Terre, in quel fragile lembo di Liguria ancora immune (quasi)
dagli sfregi del cemento, l'intera lista italiana dei 41 siti che
vantano il marchio di patrimonio dell'umanità gode di cattiva
salute. L'ultima notizia, in ordine di tempo, arriva da Matera, dove
Legambiente ha denunciato la costruzione di un parcheggio sotto i
Sassi, inseriti nella lista Unesco nel 1993, recuperati, restaurati,
ora di nuovo in pericolo.
Ma questi sono solo gli ultimi esempi, perché ricorda Giovanni
Puglisi, "ci sono luoghi non soltanto a rischio ma che potrebbero
essere espulsi dalle liste del patrimonio mondiale, come Lipari,
dove tuttora non è risolta l'annosa questione delle cave di pomice,
o l'area delle Ville Palladiane, se verrà approvato il progetto di
un'autostrada che dovrebbe tagliare in due tutta la zona, e quindi
distruggere giardini e paesaggi". E perdere il "marchio" Unesco non
è cosa da poco se si pensa che poter scrivere su un depliant che
quel borgo, quel castello, quel centro storico, quell'isola fanno
parte del world heritage, fa aumentare del 30% i flussi turistici. E
invece è proprio a ridosso di quei siti che si concentra la corsa al
mattone, si continua a costruire attorno, vicino, a ridosso
all'opera d'arte, per riuscire a portare il turismo dei pullman e
dei grandi numeri proprio sul luogo, quasi dentro l'area
archeologica, incuranti di vincoli e bellezza, come è avvenuto nella
Valle dei Templi ad Agrigento.
Ma che cosa può fare l'Unesco? Puglisi è realista: "Io sono sommerso
da un martellamento costante di segnalazioni di abusi e violazioni,
che possono portare anche all'espulsione dalle liste. Eppure questo
non sembra essere un deterrente abbastanza forte, perché in realtà
si continua a costruire dappertutto, ad ogni condono edilizio c'è un
pezzo di Italia che scompare. Attenzione, non è giusto museificare i
luoghi artistici e storici, ma so deve fare una tutela vera, a
cominciare da un turismo di flussi programmati, quella che io chiamo
versione omeopatica del numero chiuso".
In realtà quello che sta succedendo è che si cominciano a vedere gli
effetti del condono approvato dal governo Berlusconi, l'edilizia
sembra avere un nuovo boom, una valanga di cemento che non risparmia
neppure, appunto, i siti patrimonio dell'umanità. Ma l'attacco al
Belpaese non è appannaggio soltanto del centrodestra. A
Monticchiello è un sindaco Ds a difendere il nuovo insediamento
abitativo di 95 villette già in costruzione alle porte del minuscolo
borgo di 150 abitanti, affermando che si tratta di case per le
giovani coppie del paese, altrimenti costrette ad emigrare. E forse
era questo il progetto iniziale, eppure le vendite sul mercato
locale sono state pochissime, e le abitazioni vengono invece cedute
a stranieri e forestieri anche, come raccontava Giovanni Puglisi,
con la segnalazione che si tratta di appartamenti che "sorgono in
una zona definita patrimonio dell'umanità". A Corniglia la battaglia
sui seimilacinquecento metri quadrati di villaggio turistico che
dovrebbe essere costruito su un pezzo di costa a ridosso di una
collina franosa, è tutta interna alla sinistra, che difende il
progetto, e gli ambientalisti che, in parte, cercano di impedirne
l'attuazione.
Sono soltanto alcuni casi. Perché si dovrebbe parlare di Ercolano,
del Cilento, della Costiera Amalfitana... "Il marchio dell'Unesco -
conclude Puglisi - ha una forte valenza culturale e simbolica, e la
commissione può decidere di espellere dalla lista i siti non
adeguatamente tutelati, ma sugli abusi devono intervenire le
soprintendenze e le procure della Repubblica, e ci vogliono sanzioni
forti". Chissà. Per adesso tra le "vestigia" dell'umanità spuntano
residence, alberghi, casette a schiera e campi da tennis.
12 settembre
Più scippi che progetti
di Leo Sisti
Gli incontri di Napolitano. Le richieste a Prodi. Ma criminalità e
spazzatura dilagano. Un anno dopo, stessi problemi. E si spera nel
soccorso del governo
Sconti fiscali e le aziende verranno
Colloquio con Antonio Bassolino
"A Scampia sorgerà la nuova sede della facoltà di Medicina
per il corso di laurea di Scienza della nutrizione. È un
progetto dell'architetto Vittorio Gregotti, un investimento
da 21,4 milioni di euro, già assegnati, proveniente dai
fondi europei". Parla Antonio Bassolino (nella foto a
destra), presidente della Regione Campania. Non nasconde la
sua reazione al servizio de 'L'espresso' del settembre 2005.
E dice: "Napoli è una città che ha diverse facce. Si sbaglia
quando se ne vede una sola. Il turismo cresce. Ci sono
scippi e furti. Ma c'è anche una realtà culturale". Basta
alzare gli occhi dietro di lui, nella sede di Santa Lucia,
per scorgere un'opera di Mimmo Paladino, artista campano, di
un rosso intenso. Ed è proprio sui grandi progetti che il
governatore preferisce disgnare il futuro della Campania e
di Napoli. ...
Per il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano doveva essere
un tranquillo periodo di relax. Dal 20 al 30 agosto dieci giorni da
trascorrere nella sua Napoli, a Posillipo nella quiete di Villa
Rosebery, il 'Quirinale estivo'. Un'occasione anche per incontrare
personaggi delle istituzioni e amici, scambiare idee e affrontare i
problemi della città, prima di tutto con Antonio Bassolino,
presidente della Campania. Ma la lettura della cronaca dei giornali
deve aver provocato nel capo dello Stato pur dotato di aplomb
inglese, un senso di irritazione. Martedì 22 agosto: 'Turisti
norvegesi scippati e picchiati', in piazza Garibaldi. Mercoledì 23:
'Scippa quattro donne in un'ora'. In serata il primo cittadino
d'Italia riceve un altro ospite locale, il vicesindaco Tino
Santangelo. Giovedì 24, alle 10 del mattino accoglie a Villa
Rosebery il cardinale Crescenzio Sepe. Nell'arco di poche ore
succede di tutto: baby gang in azione; una ragazzina di 17 anni con
i capelli impigliati nello scooter di un teppista che voleva
arraffare la sua borsetta. Stesso genere di notizie nei quotidiani
del 25, 26, 27 e 28 agosto, un lunedì quando il presidente visita le
sale del Madre, il nuovo Museo d'Arte Contemporanea voluto da
Bassolino e ricco di opere di Kounellis, Paladino, Schifano,
Rauschenberg, Fontana e altri. La cultura, almeno quella, c'è.
Un anno dopo 'Napoli addio', il servizio di copertina che ha
denunciato la drammatica situazione del capoluogo campano ed è stato
accolto da insulti, ma anche da plausi, 'L'espresso' ritorna sul
'luogo del delitto'. Per verificare che cosa è cambiato. Per
registrare umori e malumori. Per vedere quali idee circolano per
uscire dal tunnel. Perché oggi, se le tante emergenze della città
rimangono a livello di guardia, lo scenario politico intorno a
Napoli e alla Campania è cambiato parecchio: Romano Prodi ha vinto
le elezioni; al Quirinale è salito appunto Napolitano. Al Comune
Rosa Russo Iervolino è stata riconfermata sindaco. Come Antonio
Bassolino, rinominato alla guida della Regione nel 2005. Il
centrosinistra governa quindi dappertutto, a Roma come a Napoli.
Almeno sulla carta, quindi, la città può contare su sponsor
eccellenti. Che per ora moltiplicano incontri e segnali di
attenzione. Lo scorso primo agosto Bassolino, insieme ai presidenti
delle altre regioni meridionali, ha discusso con Prodi,
Confindustria e sindacati il cosiddetto Patto per il Mezzogiorno,
ovvero un pacchetto di proposte per lo sviluppo: infrastrutture,
fiscalità differenziata, recupero aree urbane degradate, ricerca e
innovazione. Il 30 agosto c'è stato un meeting tra il
sottosegretario Enrico Letta e l'assessore regionale ai Trasporti
Ennio Cascetta. Il 4 settembre la Iervolino ha visto Prodi. Il
sindaco tiene molto ad alcune misure urgenti: legge speciale e
dichiarazione dello stato di emergenza per traffico e viabilità.
Nello stesso giorno vertice tra Iervolino, Bassolino e il ministro,
anche lui napoletano, dell'Innovazione, Luigi Nicolais. L'8
settembre, è previsto un Consiglio dei ministri dedicato al
Mezzogiorno. Mentre in ottobre il Consiglio dei ministri si riunirà
in trasferta a Napoli.
Progetti, finanziamenti, grandi opere. È questa la ricetta sul
tavolo. I programmi sui trasporti li spiega a 'L'espresso'
l'assessore Cascetta: "Dal dicembre 2005 con un treno di alta
velocità Roma e Napoli sono collegate in un'ora e 15 minuti. Dal
2008 in sessanta minuti. Il 27 luglio i ministri Di Pietro e Bianchi
hanno firmato il protocollo per la realizzazione della Napoli-Bari.
Se tutto va bene, entrerà in funzione nel 2013. Tempo di
percorrenza: meno di due ore". Poi c'è il capitolo sugli aeroporti.
Capodichino si trasformerà in 'City airport', non potendo estendersi
più di tanto. Un ruolo più strategico lo giocherà il nuovo aeroporto
di Grazzanise, nel Casertano, per i voli intercontinentali, se mai
vedrà la luce. Terzo polo aeroportuale, per voli turistici,
Pontecagnano. Sono grandi progetti da un miliardo di euro, già
avanzati al ministero delle Infrastrutture.
E la metropolitana di Napoli? Dal '94 a oggi inaugurati 15
chilometri di binari e 20 stazioni. Bisognerà attendere però fino al
2011 per avere, giurano gli esperti, nove linee, 100 stazioni e 90
chilometri di binari. Ma occorrono subito due miliardi di euro. Ora
tutto questo, se avverrà, rientrerà nel grande piano che vede la
Campania avviare un programma di investimenti per 22 miliardi di
euro, di cui già 4,5 spesi, al ritmo di 800-900 milioni all'anno,
tra fondi europei, nazionali e regionali, con cantieri che generano
6-7 mila posti di lavoro all'anno. "Abbiamo imparato a utilizzare le
risorse dell'Unione europea", commenta Isaia Sales, consigliere
economico di Bassolino, ex sottosegretario ds nel primo governo
Prodi. Eppure i fondi della Ue non bastano, ci vogliono anche quelli
di Roma: per battere la discoccupazione. E qui entra ancora in ballo
Prodi. Perché la Finanziaria, entro la fine di settembre, dovrebbe
ulteriormente aprire i cordoni della borsa.
Poi ci sono le dolenti note. Prima di tutto, il destino della aree
urbane di Bagnoli e Napoli est: troppi i ritardi accumulati per una
soluzione riguardante zone inquinate da precedenti insediamenti
industriali, Italsider e raffinerie. Le altre preoccupazioni della
città sono quelle di tutti: sicurezza e rifiuti. Il 4 settembre tre
omicidi, uno nel quartiere bene del Vomero. I furti in generale
saranno pure in calo, ma sono in consistente aumento quelli nei
negozi e nei supermercati. Perché? Oscar Fioriolli, questore di
Napoli, lo spiega a 'L'espresso': "Non sono solo i 'professionisti'
ad agire, ma anche chi ha esigenze di sopravvivenza". E poi le
rapine. Continua Fioriolli: "Quelle di strada sono sempre di più
commesse da minori, tra i 14 e i 18 anni. Anche lo scippo sta
cambiando modalità di esecuzione, spesso entra in ballo la violenza
gratuita". Altro fatto. Il giorno di Ferragosto sono state
controllate, a caso, 350 persone. Di queste ben 215 erano
pregiudicati. Per il controllo del territorio ora si punta molto su
una novità di queste settimane: in alcuni quartieri di Napoli
verranno installate le prime videocamere, collegate con la polizia.
Tra l'altro i loro lettori ottici 'leggeranno' le targhe delle auto,
individuando quelle rubate.
E poi l'infinita emergenza rifiuti, che sta tanto a cuore al
presidente Napolitano: è un nodo irrisolto da ben 14 anni. Odori,
miasmi, tossicità e roghi per le strade. Con, sullo sfondo, l'occhio
vigile della camorra. Attualmente a Napoli la raccolta differenziata
è appena all'8 per cento. I rari cassonetti destinati a vetro,
plastica e carta, piazzati nelle vie, traboccano. Le altre
immondizie invece contribuiscono a formare cloache a cielo aperto.
"Bisognerebbe arrivare alla sufficienza, che è una media del 35 per
cento", dichiara a 'L'espresso' Corrado Catenacci, commissario
straordinario per questa emergenza in Campania. Poi ci vogliono gli
impianti per trattare i rifiuti della raccolta differenziata. Ma
dove finisce il resto della monnezza? Il 55 per cento nelle
discariche, tra le proteste della popolazione locale. Ecco allora la
necessità dei termovalorizzatori che trasformano rifiuti in energia.
Nella primavera 2007 entrerà in funzione quello di Acerra. Per gli
altri due altri ci vorrà più tempo, uno a fine 2008 e l'altro nel
2009. Troppo.
Napoli è oggi tutto questo. A differenza di un anno fa però si trova
in mezzo a una congiuntura politica senza precedenti. Marco Oddati,
assessore comunale al Lavoro e alla Cultura, ne è convinto: "Con il
mio 'Laboratorio', un osservatorio locale, siamo partiti dalle
reazioni contrarie al vostro reportage, non scandalistico, che
avrebbe dovuto spronare la città e spingere i centri di potere ad
avere coraggio. Quando, se non adesso, Napoli può fare il salto di
qualità?". In altre parole, non ci sono più alibi.
ha collaborato Mario Fabbroni
11 settembre
Triste
primato nel Sud e nelle isole. Sotto accusa uscite di emergenza,
facciate e misure antisisma. Dossier annuale di
Cittadinanzattiva
Scuole, allarme
sicurezza
fuorilegge un edificio su due
ROMA- La classifica della sicurezza
nelle scuole non è certo incoraggiante: è più di una scuola su
dieci, infatti, ad essere poco sicura e più di un quarto degli
edifici a non raggiungere nemmeno la sufficienza. E' quanto
emerge dall'ultimo Rapporto sulla sicurezza scolastica di
Cittadinanzattiva, che sarà presentato il prossimo 28
settembre con una conferenza stampa a Roma.
Se la maglia nera è certamente 'indossata' dagli istituti del
Sud e delle isole, la mappa dell'insicurezza scolastica non
risparmia, però, nessuna regione della Penisola.
I certificati mancanti. Le scuole incriminate mancano
soprattutto di certificati di agibilità statica (il 53% degli
edifici ne è privo, una scuola su due), di agibilità
igienico-sanitaria (assente nel 52% dei casi) e di prevenzione
incendi (assente nel 64% delle scuole).
Uscite di emergenza. Nel 17% dei casi, in particolare,
sono le uscite di emergenza a mancare, nel 12% le scuole non
possiedono scale di sicurezza oppure, nel 15% le scale sono
riservate solo ad alcune parti dell'edificio e non ne coprono,
quindi, la totalità.
E non sono solo
uscite e scale ad essere danneggiate o fuori norma, anche le
facciate interne o esterne del 25% delle scuole versano in
condizioni di degrado, con lesioni strutturali, e nel 41% si
riscontrano crolli dell'intonaco.
Misure antisisma: il forum di Constructa. E un altro tema
caldo in termini di sicurezza nelle scuole è l'attrezzatura
degli edifici in caso di sisma, fanno sapere gli esperti di
Constructa, forum delle costruzioni attento alle innovazioni
a 'misura d'uomo'. In Italia, infatti, circa il 70% degli
edifici scolastici non sono stati progettati per resistere al
terremoto. Il 60% può sopportare scosse medie, ma solo il 30% di
quelli costruiti dopo il 2003 rispetta criteri antisismici
adeguati, come prevedeva la normativa entrata in vigore in
quell' anno. A novembre il forum chiamerà a raccolta i
protagonisti delle costruzioni, invitandoli a discutere delel
tecnologiche e delle ricerche volte a migliorare gli edifici
scolastici.
Le richieste di Ciitadinanzattiva. "Al ministro, che in
questi giorni ha ribadito la impraticabilità dei tagli per la
nostra scuola, chiederemo risorse aggiuntive per mettere in
sicurezza gli edifici -dice Adriana Bizzarri, responsabile
Scuola di Cittadinanzattiva - Fondi da reperire, ad
esempio, facendo ricorso alla fiscalità ai diversi livelli o
rinunciando ad alcune grandi opere, oppure proponendo ad imprese
private e cooperative, nell'ambito di programmi di
responsabilità sociale, di contribuire all'adeguamento delle
nostre scuole, mediante forme di adozione di esse o parte di
esse'.
Fioroni: questione prioritaria. Il ministro della
Pubblica Istruzione ha più volte ribadito la sua consapevolezza
riguardo il problema della sicurezza degli edifici scolastici.
Anche oggi, in occasione dell'apertura dell'anno scolastico, ha
ribadito che per il governo questa deve essere una priorità per
la quale stanziare fondi.
9 settembre
Bush lancia l'offensiva della
paura
Stati uniti «Ci voleva tanto per
arrivare a questo?» Le «rivelazioni» di Bush sulle carceri segrete non
scaldano Washington. E ora parte la lotta per celebrare i processi ai
«terroristi», con le elezioni alle porte
Franco Pantarelli
«Spurgato da tutta la retorica, il discorso di George
Bush è stato sostanzialmente un mea culpa», ha detto la senatrice
democratica della California Dianne Feinstein. «Che per arrivare a questo ci
siano voluti una senteneza della Corte suprema, una legge che bandisce la
tortura e il pubblico sdegno è semplicemente vergognoso», ha fatto eco la
deputata Jane Harman, anche lei democratica della California. Dopo che
l'altro giorno il presidente americano Bush ha «rivelato» l'esistenza delle
prigioni segrete della Cia, di commenti simili ieri ce ne sono stati a
bizzeffe e i cronisti che passano le loro giornate fra Congresso e Casa
bianca li hanno diligentemente annotati. Per loro, oltre tutto, c'è stato il
tempo per un piccolo rituale. Ogni volta che un cronista arrivava in
sala-stampa trovava subito un collega che gli mostrava un foglietto e poi
attendeva la reazione. La quale arrivava subito sotto forma di una fragorosa
risata: il foglietto era una dichiarazione del portavoce della Casa bianca
in cui si spiegava che «l'iniziativa del presidente» non aveva niente a che
fare con le elezioni in arrivo.
Chi invece non rideva per niente erano i politici che dalle elezioni si
aspettano una conferma del loro posto al Congresso. La mossa di Bush, per
scoperta che sia, ha infatti la possibilità di influenzare il dibattito
elettorale soppiantando nel rango di «tema numero uno» il problema Iraq con
quello della «lotta al terrore», che significa lo sfruttamento, ancora una
volta, della «carta del terrore», sicuramente meno efficace di un tempo ma
pur sempre meglio di qualsiasi altra. L'altro ieri la Casa bianca -
praticamente nello stesso momento in cui Bush stava dicendo che alcuni
detenuti delle prigioni segrete erano stati trasferiti a Guantanamo, che nei
loro confronti sarebbero state rispettate le norme della convenzione di
Ginevra e che le istruzioni che verranno date agli addetti agli
interrogatori saranno improntate a un «principio di umanità» - ha fatto
pervenire al Congresso una proposta di legge che stabilisce ufficialmente la
nascita delle «commissioni militari», cioè quelle che Bush ha creato a suo
tempo senza chiedere il permesso a nessuno e che la Corte suprema ha bollato
come illegali.
Erano svariate le ragioni della loro illegalità elencate dall'alta corte, ma
Bush ne ha accolta solo una: il fatto che le commissioni militari non
fossero state create con una legge votata dal Congresso. Ora la possibilità
di correggere le cose c'è, ha detto in pratica la Casa bianca. Basta votare
la legge da noi proposta. E' un trucco, naturalmente, perché nella legge
presentata le brutture delle commissioni militari che nessun tribunale
«normale», civile o militare che sia, contempla, sono tutte ancora lì:
contro gli imputati possono essere presentate come prove effettive le
informazioni estorte con la tortura, si possono formulare le accuse senza
provarle in nome della sicurezza nazionale (in pratica, sei colpevole perché
lo dico io) e si prevede anche l'immunità per i torturatori che finora hanno
lavorato indisturbati.
I democratici una cosa del genere non possono ovviamente accettarla, né
possono farlo personaggi come i senatori repubblicani John McCain, Lindsay
Ghraham e John Warner che hanno già presentato una loro proposta di legge
sulle commissioni militari che fa a pugni con quella di Bush. Ma il dilemma,
come hanno detto un po' tutti commentato dopo l'uscita di Bush, «non è sui
principi ma sulla convenienza elettorale». E' possibile conciliare la
resistenza contro la legge che Bush vuole (i deputati e senatori a lui
vicini hano già cominciato a spingere per approvarla prima della chiusura
elettorale del Congresso) e la propria rielezione? Se il pubblico si farà di
nuovo prendere dalla paura e mostrerà di voler vedere sulla forca i detenuti
«di alto profilo» che sono stati trasferiti a Guantanamo, le due cose non si
conciliano: o si approva la legge di Bush o si viene sconfitti nel voto. Se
invece gli americani rifiuteranno di farsi prendere in giro ancora una
volta, non solo resistenza a Bush e rielezione si concilieranno ma
addirittura si aiuteranno a vicenda.
Gli ultimi sondaggi (se ne parlava già ieri) mostrano che la gente disposta
a credere ancora a Bush diminuisce costantemente, ma la grande «offensiva
della paura» della Casa Bianca è appena cominciata.
Carceri
Cia, l'Europa si sveglia
Dopo le ammissioni di Bush, alcuni europarlamentari cominciano a pretendere
spiegazioni
La Commissione europea continua con le mezze parole, i parlamentari di
sinistra vogliono dati, luoghi e complicità, quelli di destra zittiscono di
colpo
Alberto D'Argenzio
Le parole di Bush non smuovono
ancora Bruxelles, lato Commissione, mentre da Strasburgo il parlamento
europeo e il Consiglio d'Europa chiedono con maggior vigore alle capitali
del vecchio continente di fare chiarezza sulla loro ormai inevitabile
implicazione nelle attività della Cia. «E'proprio dei criminali e non dei
governi democratici» sequestrare e torturare delle persone in centri
segreti, accusa René Van der Linden, presidente dell'assemblea parlamentare
del Consiglio d'Europa, l'istituzione (che non ha nulla a che vedere con la
Ue) che per prima ha lanciato il sasso delle indagini sulle operazioni
segrete dell'intelligence Usa. Claudio Fava, eurodeputato Ds e
relatore del rapporto sulla Cia per conto della Commissione ad hoc
del parlamento europeo, usa l'ironia e invita Bush «a presentarsi come
prossimo ospite» nelle audizioni della sua commissione. Dall'Eurocamera si
levano altre affermazioni fatte di un misto di soddisfazione per averci
visto giusto e di preoccupazione per le reticenze delle capitali europee, ma
sono voci che si levano quasi solo dal centro-sinistra mentre la destra in
gran parte tace. I suoi argomenti, riassunti nello slogan «è propaganda
antiamericana», sono di colpo invecchiati.
Tra parlare e tacere, la Commissione invece sceglie di dire poco, e sempre
le stesse cose. Ieri Friso Roscam-Abbing, portavoce del commissario alla
giustizia Franco Frattini, ha infatti ripetuto la solita litania: «Noi non
abbiamo poteri di inchiesta, possiamo solo chiedere agli stati membri la
piena cooperazione nelle indagini, visto che in alcuni paesi sono in corso
inchieste penali e parlamentari. Da novembre Frattini in ogni riunione dei
ministri degli interni dei 25 ha chiesto questa piena collaborazione». In
cambio le capitali hanno offerto solo reticenza o giuramenti di non saperne
nulla. Poi la difesa si fa ancora più precaria: «Bush non ha precisato dove
si trovano queste prigioni, sappiamo che si tratta anche di Europa ma niente
è ancora chiaro per ora».
Le parole sono misurate, studiate, imbarazzate, una reazione che rispecchia
l'ampiezza della posta in gioco. Da un lato la faccia dell'Europa, le sue
velleità di superiorità morale sventolate in giro per il pianeta e che
impongono chiarezza sulla vicenda, e dall'altro le conseguenze che
potrebbero (e dovrebbero) essere durissime per alcuni paesi, qualora le
accuse di complicità con la Cia venissero confermate. L'articolo 7 del
Trattato prevede infatti delle severe sanzioni, che possono arrivare fino
alla sospensione del potere di voto nel consiglio, per quei paesi che si
macchiano di «violazioni gravi e persistenti dei diritti fondamentali e
dello stato di diritto». «Si potrebbe applicare l'articolo 7 - si lascia
andare il portavoce di Frattini - ma è presto, bisogna capire chi è il
responsabile». Per ora vengono naturali i nomi di Polonia e Romania, i due
paesi in cui si troverebbero le carceri segrete, che hanno sempre fieramente
negato qualsiasi implicazione e che saranno a breve visitati dalla
commissione del parlamento europeo. Se le carceri e le coperture governative
venissero individuate, Varsavia rischierebbe le sanzioni (anche se il
meccanismo non è proprio semplice) mentre Bucarest, in predicato di entrare
nella Ue l'anno prossimo, potrebbe vedersi rimandare l'agognato ingresso nel
club europeo. Ma anche altri paesi possono vedersela brutta, sia per i voli
che per i sequestri, come quello di Abu Omar.
Su questa strada procedono invece con decisione il parlamento europeo e il
Consiglio d'Europa. «I governi europei ora devono dire dove si trovano le
prigioni utilizzate dalla Cia per il sequestro dei presunti terroristi»,
afferma Giusto Catania, eurodeputato di Rifondazione comunista. «E'
necessario andare fino in fondo per accertare le responsabilità degli
esecutivi europei e di quello italiano nella creazione e gestione delle
prigioni segrete illegali», insiste Marco Cappato della Rosa nel pugno.
Russia
Sommergibili atomici, doppio disastro
Giornata catastrofica per la marina militare russa e in particolare per i
suoi sommergibili nucleari. Ieri mattina uno di essi, il St. Daniil, in
navigazione nel Mar di Barents, ha visto svilupparsi un incendio a bordo
(pare per un corto circuito elettrico): nel tentativo di spegnerlo due
marinai sono morti asfissiati. L'incendio è stato successivamente domato
senza perdite di radioattività, secondo il comandante della flotta Vladimir
Masorin, e l'unità rimorchiata senza problemi fino al porto di Vidyaijevo.
Lo stesso ammiraglio ha poi ammesso che il sommergibile non aveva svolto le
operazioni di manutenzione nel tempo previsto. Nel pomeriggio un altro
sommergibile - il Dmitrij Donskoi, cioè il «top» della flotta strategica
russa - ha eseguito un test di lancio del nuovo missile balistico strategico
Bulava (capace di portare dieci testate nucleari per 8mila km), che però è
fallito, come ha confermato lo stato maggiore della marina.
7 settembre
L'ex premier scocciato dalle
beghe interne e dall'approssimarsi del settantesimo compleanno
Solo poche settimane fa il Cavaliere si è detto stanco di pagare
da solo il prezzo delle sconfitte
L'afasia politica
del Cavaliere
"All'opposizione ci si ammala"
dal nostro inviato FILIPPO CECCARELLI
Silvio
Berlusconi
CAORLE -
Quando un uomo pubblico sta per compiere settant'anni ogni
debolezza, ogni cautela, ogni rinvio, ogni diniego, ogni
malanno, insomma tutto non solo si nota di più, ma finisce anche
per acquistare un inesorabile, imprevedibile e incontrollabile
valore simbolico. Così, patologica o diplomatica che sia, la
tracheite che ieri ha tenuto lontano Berlusconi dal festival
della Margherita rivela come meglio non si potrebbe l'afasia
della politica del Cavaliere.
La sua rinuncia, il suo silenzio, il suo imbarazzo. E magari
perfino la sua paura è stata messa a nudo da quella sua presunta
indisposizione bronchiale. Non si è perso moltissimo, è vero. Il
maestoso campanile nella piazza dell'arcivescovado al tramonto;
le sapide battute di Mentana sugli incidenti alle corde vocali
dei tenori; gli allegri ricordi di Rutelli su altri due
confronti andati a monte; l'applauso di una platea senz'altro
civile e ospitale, applauso che il leader della Margherita ha
sollecitato giulivo in assenza del suo contraddittore; e il
calamaro fritto "da passeggio", specialità gastronomica locale.
Ma poi, soprattutto: cosa mai avrebbe potuto dire di convincente
Berlusconi? E più in generale: cosa trattiene "nonno Silvio" dal
sentirsi di colpo irrilevante, se non addirittura superfluo?
In politica estera il governo di centrosinistra gli ha
rovesciato del tutto la linea dall'Europa al Medioriente; e
contro le sue previsioni gli Stati Uniti continuano a fare buon
viso. E buonissimo - non dev'essergli sfuggito - appare il viso
di Condoleezza Rice nei confronti di D'Alema, mentre Cossiga
chiama Rutelli "l'amerikano". Sull'economia, tutto si svolge
ormai nel campo della maggioranza, allargato al massimo a
qualche professore di sinistra.
Nessuno gli chiede nemmeno un
consiglio sulle pensioni. Gli industriali guardano da un'altra
parte. Le gerarchie ecclesiastiche alzano gli occhi al cielo.
Per quanto riguarda Forza Italia, ancora poche settimane orsono
Berlusconi s'è detto "stanco" - ed era un eufemismo - di pagare
tutto sempre solo lui. Come risposta, qualche ingrato ha
proposto la rivoluzione. Nel frattempo diverse fazioni di
parassiti si guardano in cagnesco.
In tali condizioni, si capisce, è normale - per non dire umano -
perdere la voce e dare forfait. Ma qualcosa di significativo
filtra lo stesso dalla cortina di silenzio. Una frase che qui si
riporta di seconda mano, quasi di contrabbando, e che il
Cavaliere ha forse pronunciato, nel corso di una comunicazione
pure a base di cortisone e altre articolazioni sanitarie, per
farsi perdonare la buca. Una sentenza un po' scherzosa e un po'
amara, di quelle che possono venire in mente solo a chi possiede
a fondo il gusto del comando: "Sai - ha dunque detto Berlusconi
al suo perplesso interlocutore - ritrovarsi all'opposizione fa
ammalare".
A occhio sembra la variante post-moderna, e quindi al tempo
stesso evocativa e carnale, dell'antico e cinico adagio
andreottiano, "il potere logora chi non ce l'ha". Gli americani
lo misero anche in bocca a un killer che nel Padrino (parte 3)
strangolava un rivale con un filo di nylon. Nel Cavaliere, certo
meno elegante del Divo Giulio, il motto si riveste di un qualche
vittimismo infantile, lamentoso, piagnucolante. Ma il senso è lo
stesso, e per una volta ha anche il pregio di suonare sincero.
Perdere il comando fa venire fuori un sacco di acciacchi.
Se Berlusconi non ha voce né parole, è anche perché in quest'ultimo
scorcio d'estate è di cattivo umore. Com'è noto, il prossimo 29
settembre, giorno dedicato all'Arcangelo oltre che ricordato per
una fortunata canzone dell'Equipe 84, compie 70 anni. E tanto
quella scadenza conferma quello stato d'animo nero, tanto quella
cifra tonda condiziona i pensieri del Cavaliere, che Vittorio
Feltri, telefonando in leggero anticipo, ma si suppone ben
augurante, si è sentito rispondere: "Una rottura".
Ora davvero nessuno si può permettere di contestargli nulla
riguardo all'età e ai compleanni. L'invecchiamento, del resto,
non è una categoria della politica. Ma dei politici sì. E
inevitabilmente la sedia vuota di Caorle ne richiama una piena.
Fatto sta che nell'estate del 1995, quando di anni ne aveva meno
di 60, con allegro entusiasmo sportivo e compiuta sicurezza
seduttoria, Berlusconi scese negli Inferi di un congresso
dell'allora Pds. Lì afferrò il microfono, parlò, scherzò, e fu
anche applaudito. Nella tana del lupo, si disse, nella fossa dei
leoni.
A settant'anni ha tutto il diritto di essere stanco. E di
accusare storte, sciatalgie, intossicazioni, mal di denti,
reumatismi, tracheite. Come pure si può permettere il lusso di
mettere in scena - e non sarebbe la prima volta - strategie
comunicative che costruiscono l'aspettativa sulla separazione
prolungata, e la curiosità sull'assenza misteriosa.
Eppure, se si ripensa alla radiosa estate berlusconiana, c'è
qualcosa che non torna. Non si capisce se il Cavaliere si sente
ancora in vacanza o già all'Elba, in attesa di finire a Sant'Elena.
Non si capisce se sta trattando il destino di Mediaset o se -
come da canzone composta con il fido Apicella - ne ha sul serio
le scatole piene di tutto e di tutti. Certo non quadra, l'afasia
politico-bronchiale di Caorle, con la smania energetica e
godereccia della vita smeralda. Perché ai limiti del disturbo
bipolare della personalità, l'ex premier oggi muto e depresso si
è ieri travestito da gnaua al compleanno di Veronica, per poi
cantare al matrimonio della Melillo e ballare alla festa dello
sceicco. Ha fatto spesso le ore piccole con veline e meteorine,
non di rado facendo finta di sorprendersi per tante belle
ragazze che mostravano l'ombelico o meglio "non avevano freddo -
come dice lui - con il pancino di fuori".
Tra eruzioni vulcaniche, battesimi di cocktail, pizze infornate
e distribuzioni di gelati, Berlusconi ha continuato ad accendere
la fantasia senza più uno straccio di linea che non fosse la
tiritera sulla tentazione di mollare tutto e la condanna a
tenere dura. In un attimo di nausea o di smarrimento,
s'immagina, ha prenotato un jet da 33 milioni di euro. Prima di
mostrare la sospirata ricrescita al meeting dell'amicizia fra i
popoli, ma dopo che Libero aveva adombrato l'ennesimo lifting,
stavolta al collo.
Sempre più questa di inibire l'anagrafe, di fermare il tempo,
sembra l'ultima e più drammatica partita di Berlusconi,
settantenne esuberante, ma ora pieno di acciacchi.
In fondo, ha scritto Renard, la vecchiaia "è
quando si comincia a dire: non mi sono mai sentito così
giovane". Afasia e trachea, dopo tutto, stanno lì a rimettere le
cose al loro posto.
Enti
ecclasiatici, evasione per 6 miliardi l'anno
Il governo Prodi mantiene i privilegi
concessi da Berlusconi, basta che le strutture commerciali facciano
anche altro
Stefano Raiola
Sconto del 50% dell'imposta sul
reddito delle persone giuridiche, esenzione dall'Iva, esenzione
dall'imposta sui terreni e - nonostante le promesse fatte in
campagna elettorale dal premier, Romano Prodi - esenzione
dall'imposta comunale sugli immobili (la famigerata Ici). Non si
tratta di un'anticipo delle promesse della nuova campagna elettorale
di Silvio Berlusconi, ma sono solo alcune delle gentili concessioni
fiscali che lo stato italiano riconosce agli enti ecclesiastici, i
quali otterrebbero grazie a ciò benefici per almeno 6 miliardi di
euro annui.
Dallo studio effettuato dall'Ares
(agenzia ricerca economica e sociale) intitolato «Enti
ecclesiastici: le cifre dell'evasione fiscale» emerge infatti che se
le attività commerciali possedute e gestite dalla chiesa fossero
sottoposte allo stesso regime di tassazione di quelle gestite dai
comuni mortali, il 20% del fabbisogno per la prossima finanziaria
sarebbe già nelle casse dell'erario.
La norma che rende possibile questa
inspiegabile e intollerabile disparità di trattamento è contenuta
nella legge 121/85 che considera «non commerciali» - quindi
meritevoli di una tassazione soft - gli enti ecclesiastici con
strutture dedicate al culto o ad attività religiose.
In Italia la santa sede e gli enti
ecclesiastici possederebbero non meno di 90mila immobili, anche se
un censimento preciso non è mai stato fatto e molti di questi non
figurano nel catasto. Un patrimonio valutabile nella stratosferica
cifra di 30 miliardi di euro, che viene utilizzato per ospitare
chiese e parrocchie, ma anche veri e propri esercizi commerciali.
Non solo strutture ricettive di ogni genere - da alberghi a case di
cura - ma anche negozi, appartamenti e interi stabili «di pregio»
destinati all'uso commerciale.
Nella sola Roma, ad esempio, ci sono
centinaia di pensionati per studenti gestiti secondo le più ferree
logiche di mercato: i costi sono ridotti all'osso - grazie
all'utilizzo di personale religioso che non ha molte pretese -, ma
sul lato dei prezzi la politica è totalmente diversa. Per un posto
letto in una stanza doppia, i caritatevoli ordini cattolici sono
pronti a chiedere il pagamento di una retta che supera agevolmente i
500 euro al mese. Facendo due calcoli è lecito ipotizzare che tali
strutture siano capaci di accumulare utili abbondanti; che però
sfuggono per grandissima parte alle maglie del sistema impositivo.
E' assai difficile, infatti, dimostrare che l'ente, accanto
all'attività lucrativa, non eserciti anche attività di culto o
religiosa, quella che dà diritto alle esenzioni fiscali. Per di più
la classe politica italiana non ha mai esitato a schierarsi dalla
parte del Vaticano quando qualcuno ha cercato di limitarne i
privilegi: nel 2005 il governo Berlusconi decideva di stanziare 25
milioni di euro nella finanziaria per saldare il debito che la santa
sede aveva nei confronti dell'Acea (società che fornisce acqua
potabile e gestione delle acque reflue). Ma l'ultimo intervento
«provvidenziale» in favore del Vaticano è arrivato da parte del
governo di centrosinistra di Romano Prodi. Dopo aver dichiarato
guerra al regime di esenzione totale dall'Ici - favorito dal governo
precedente - per i beni immobili della chiesa, l'esecutivo di
centrosinistra è riuscito ad approvare un inutile decreto legge che
non ha cambiato di una virgola la situazione precedente. Nel decreto
si legge infatti che «l'esenzione si applica solo nel caso in cui
nei locali degli enti le attività svolte non abbiano natura
esclusivamente commerciale». Grazie a quella parolina
«esclusivamente» l'esenzione viene mantenuta per quasi tutti gli
enti, e le casse dei comuni continuano a restare vuote.
Basta infatti che una clinica privata
(o un labergo) di proprietà ecclesiastica riservi una struttura alle
funzioni religiose per neutralizzare l'«esclusività commerciale» ed
evitare il pagamento dell'Ici.
Spagna:
riaperta l'inchiesta contro Berlusconi
MADRID - Il giudice istruttore
spagnolo Baltasar Garzon ha deciso di riaprire la sua inchiesta
contro l'ex presidente del consiglio Silvio Berlusconi per il caso
di frode fiscale legato al canale televisivo Telecinco. Lo si
apprende da una fonte giudiziaria.
5 settembre
Una media di sette giorni di
vacanze all'anno
recordi di ore lavorate ogni settimana
Poche ferie,
troppo lavoro
gli americani non rendono più
Lo stress danneggia la produzione. E'
allarme
dal nostro inviato
VITTORIO ZUCCONI
NELLA FESTA
ghigliottina che ogni anno tronca l'estate americana, quella
festa crudelmente chiamata "Labour Day", il giorno del lavoro,
300 milioni di persone hanno dato ieri un addio corale a quello
che non hanno fatto: le ferie. Accade ogni fine estate, nel
primo lunedì di settembre, con una pioggia di statistiche e di
lamentazioni e di inutili consigli che riscoprono l'acqua calda
di una verità faticosa: gli americani sono, tra le nazioni del
cosiddetto Occidente, i lavoratori che fanno meno vacanze.
Un popolo di workaholic, di tossici dal lavoro, che si
accontentano in media di sette giorni di feria annuale, la metà
rispetto a francesi, inglesi, italiani, tedeschi e persino
cinesi.
Come nel Giappone degli anni 80, quando le grandi aziende
dovettero rassegnarsi a chiudere gli stabilimenti per
costringere i dipendenti a non presentarsi in fabbrica o in un
ufficio, così l'America della "corsa dei topi" 2006 comincia a
studiare metodi draconiani per imporre alla gente di riposarsi.
Non in omaggio ai "diritti dei lavoratori", non esistendo quasi
nessuno che li difenda oltre gli anemici sindacati, ma in
ossequio alla produttività e alla qualità del lavoro che i
workaholic mettono a rischio con la loro incapacità di
riposarsi. Il numero di ore lavorate settimanali ha raggiunto il
record post bellico di 50, sbriciolando il mito del week end,
dei due giorni liberi ogni settimana.
Proprio il week-end, il sogno del tempo libero american style,
consumato nella ricostituente pigrizia dello shopping, del pic
nic, della partita in tv con birra, patatine e hot dog, - la
specie minacciata dalla nuova era della produttività estesa
dalla tecnologia oltre il solito orario d'ufficio. Se un
metalmeccanico difficilmente può portarsi il lavoro a casa, per
tutte le professioni dei servizi che ormai sono i due terzi
dell'occupazione in America, orologi e calendari non hanno più
senso, distrutti da quel "telelavoro" che in teoria avrebbe
dovuto liberare e in realtà ha soltanto allungato all'infinito
il guinzaglio del lavoro. Telefonini, internet, telecommuting,
fax, ricerche on line e soprattutto quello strumento satanico
chiamato blackberry, il telefonino che funge in pratica da
computer tascabile e obbliga tutti i possessori a essere sempre
in contatto con tutti, hanno espanso i cubicoli di plastica che
ora passano per uffici, inghiottendo la casa, le ore del fuori
servizio, il tempo non più libero.
La produttività, ovviamente, cresce. Il 14% in più nel 2005, un
balzo formidabile, e di conseguenza diminuisce il costo del
lavoro e con esso i salari reali, diminuiti in media del 2 per
cento nello stesso anno, nonostante la crescita del prodotto
interno lordo, come aumenta la povertà, il grande pungolo alla
agitazione dei topi. Ma se questi sono dati che farebbero
piangere di gioia ogni consiglio d'amministrazione, le lacrime
si asciugano davanti al rischio dei diminishing return, il
paradosso del "chi più lavora peggio produce". In un'economia
sempre meno manufatturiera, dove il prodotto non si misura più
in bulloni e reparti verniciatura, l'eccesso di lavoro e la
mancanza di riposo deteriorano il risultato finale di tanta
fatica.
Il medico di famiglia (specie in via di estinzione) vede in
media 40 pazienti al giorno e non potrà fare lo stesso, buon
lavoro diagnostico su tutti loro. Li scaricherà, al primo
raffreddore o mal di testa, sullo specialista, così aumentando
spesso inutilmente quei costi clinici che si vorrebbero
contenere.
L'avvocato che alle 4 del mattino, dopo una raffica di messaggi
arrivati via blackberry scriverà un brief un'opinione legale
importante per un cliente, sarà certamente più esposto a
commettere errori di quanto non sarebbe alle 11 del mattino,
dopo una notte di buon sonno. Ma la sua carriera sarà misurata
nel numero di ore caricate al cliente. Il percorso del topo è
implacabile.
Si accumulano le giornate di vacanza non godute. In cifre e
soldoni, queste ferie mancate ammontano a 547 milioni di giorni
e a 75 miliardi di dollari in equivalente retribuzioni. Il
problema, dunque, non è concedere più giorni di vacanza, che ci
sarebbero, ma di convincere la gente a farle, a staccare, a
gettare il telefonino e il blackberry palmare, a valutare la
qualità, oltre la quantità del lavoro. La Price Waterhouse, una
delle grande società di contabilità e revisione finanziaria, ha
deciso di chiudere per una settimana a fine anno e proibire
comunicazioni di servizio in quei giorni. Una decisione che ha
scatenato un'alluvione di e-mail e di lettere di ringraziamento
all'amministratore delegato dell'azienda.
Un grande hotel di Chicago offre ai propri ospiti di sequestrare
telefonini, palmari e portatili fino alla fine del soggiorno,
per il "non c'indurre in tentazione". Più severa, la American
Management Association, proprio la lobby dei manager, toglie
punti alla valutazione degli impiegati che non si prendono
l'intero pacchetto di ferie, considerandolo un demerito.
Altre creano "conti vacanze" non godute, dai quali si possono
prelevare giorni da sfruttare anche per malattie o maternità.
Nell'Oregon, alcune società hanno lanciato una pratica che
scandalizza i profeti puritani e calvinisti del "lavorare duro,
lavorare sempre". Hanno aumentato a 18, da 14 che erano, i
giorni di ferie, aggiungendo un "ponte", un giorno in più dopo
le grandi feste, dalle quali notoriamente tutti rientrano
suonati. La produttività dei dipendenti è aumentata del 30%.
Persino i cinesi, con tre settimane all'anno, e i giapponesi
hanno sulla carta più ferie degli Americani che in media ne
hanno una. L'incubo di apparire uno slacker, un lavativo,
destinato al licenziamento frusta e pungola. E vagare per un
aereoporto compulsando il blackberry per messaggi urgenti dalla
sede è ormai un simbolo della propria laboriosità e del proprio
essere indispensabili. Anche se l'importante personaggio sta
cercando di sapere i risultati della partita. "Siamo il paese
più sottosviluppato del mondo, in materia di vacanze" osserva
l'economista Paul Samuelson. Come mi disse anni addietro il
grande giornalista del New York Times John Apple, dopo
avere saputo che ogni giornalista italiano ha un mese di ferie
all'anno: "Se rinasco, voglio fare il giornalista italiano".
4
settembre
Crollo degli iscritti tra
Fisica, Chimica e Matematica
Iscrizioni in calo da anni. Gli atenei corrono
ai ripari
Università, fuga dalla scienza
"Siamo sotto la media Ue"
Molte
accademie hanno lanciato sconti per invogliare i
giovani
Dal 2004 borse di studio dal ministero per tre
milioni
di
MARIO REGGIO
ROMA - Qualche ateneo ha inventato la
formula: frequenti tre anni e ne paghi solo due.
Il ministero dell'Università ha stanziato 3
milioni di euro per incentivare la permanenza
degli studenti meritevoli. L'università di
Camerino, la Libera università di Bari, l'ateneo
di Cosenza hanno deciso di non far pagare le
tasse alle matricole, e in casi particolari,
danno gratis anche l'alloggio ed il computer. La
Federico II di Napoli ha scelto lo sconto delle
tasse per gli studenti meritevoli.
Ma tutto questo basterà a far uscire le facoltà
di Fisica, Chimica e Matematica dal tunnel della
crisi di vocazioni? A dire il vero il momento
più buio sembra essere passato, anche se oggi,
rispetto agli Paesi sviluppati le distanze
restano abissali. Gli anni "tragici" sono stati
dal '93 al 2001, poi con la riforma della laurea
triennale e il biennio di specialistica, le
immatricolazioni hanno preso lentamente a
salire. Ma parliamo sempre di poche centinaia di
studenti in più.
Perché le tre facoltà scientifiche sono così
poco attrattive per i giovani che finiscono le
scuole superiori. Un dato è certo: l'impegno
didattico è tale da non permettere distrazioni,
non consente ai giovani di lavorare mentre si
preparano agli esami. Quindi, oltre al forte
impegno personale, le famiglie devono essere in
grado mantenere agli studi il giovane per 4 o
cinque anni. E qui avviene la prima selezione:
quella sociale.
C'è anche chi ci prova. Ma lo scotto pagato è
molto duro: più di un terzo delle matricole
lascia al termine del primo anno. Abbandona gli
studi o sceglie una facoltà più facile.
Eppure chi ce la fa prendere la tanto agognata
laurea poi trova molti meno ostacoli di chi ha
frequentato facoltà umanistiche o sociali.
Lo conferma il più recente studio di Alma Laurea
che ha preso in esame i livelli occupazionali,
gli stipendi, il livello di gradimento degli
studi appena terminati. "I laureati in Fisica,
Chimica e Matematica hanno il tasso di
occupazione più elevato, gli stipendi più alti
ed esprimono un indici di gradimento molto
elevato - commenta il professor Andrea Cammelli,
direttore di Alma Laurea, il Consorzio che
associa 48 atenei italiani - anche se gli
obiettivi raggiunti beneficiano anche del numero
ridotto dei laureati nelle tre facoltà".
Ma se aumentassero in maniera significativa il
sistema sarebbe in grado di assorbirli?
"In questo momento no. Il sistema produttivo
italiano, almeno ora, si trova in mezzo al guado
- commenta il professor Cammelli - le aziende
che hanno vissuto grazie ai sussidi pubblici
stanno uscendo dal mercato per effetto della
globalizzazione. Se non ci sarà una forte
ripresa del sistema industriale le cose si
metteranno davvero male. Anche l'università si
sta muovendo, cerca di fare il possibile per
riparare i danni, l'industria un po' meno".
Per il momento l'unica iniziativa per ridare
ossigeno alle tre facoltà cenerentola è il piano
d'investimenti di 3 milioni di euro, destinati
agli studenti che hanno superato il primo anno
di corso di laurea con un alto profitto. Borse
di studio, prestiti d'onore. Ma ancora poco. E
poi il sistema universitario italiano, tra le
altre, soffre di una stortura macroscopica. La
media degli studenti laureati che hanno
usufruito di una borsa di studio è del 24 per
cento. Ma a Fisica scende al 19, a Matematica
supera di poco il 23 per cento. Solo a Chimica
supera il 27 per cento.
"E negli altri Paesi, dove
l'incremento delle lauree scientifiche è
esponenziale - afferma il professor Andrea
Cammelli - numerosi giovani provengono da
famiglie disagiate, ma sono molto motivati dal
desiderio di promozione sociale e sostenuti
finanziariamente dagli atenei. Ecco perché negli
Stati Uniti le nuove leve delle facoltà
scientifiche che primeggiano vengono dalla Cina,
dall'India o dal Messico".
1 settembre
LA SICILIA AL CENTRO DELLE NUOVE ROTTE DEL GAS
di Agostino
Spataro
Con la
decisione, ormai consolidata, di realizzare due impianti di
rigassificazione a Priolo e a Porto Empedocle, si rafforza il
ruolo della Sicilia nella strategia nazionale ed europea di
approvvigionamento e di distribuzione di gas naturale.
L’Isola
diventerà uno fra i più importanti punti d'approdo e di snodo
della zona euromediterranea per notevoli quantitativi di gas
importati da varie regioni del mondo. I rigassificatori,
infatti, oltre a incrementare l’import, consentono di ampliare
la lista dei paesi fornitori e di diversificare le modalità
d’approvvigionamento.
I due nuovi
impianti potranno trattare circa 17 miliardi di metri cubi annui
che sommati ai circa 30 miliardi importati, via pipeline,
dall’Algeria e dalla Libia, porteranno i volumi di gas importati
in Sicilia a 47 miliardi di mc/anno. Una quantità davvero
ragguardevole, corrispondente al 73% dell’attuale import
italiano di gas.
Per altro, è
prevedibile un incremento delle importazioni dalla Libia e
dall’Algeria tramite i gasdotti esistenti o programmati, per
soddisfare la crescente domanda europea di gas che, nel 2020,
dovrebbe essere coperta al 60% dalle importazioni extra UE.
Oggi c’è un
gran movimento nel mercato mondiale del gas e in quello europeo
in particolare. L’ultimo importante evento è stato l’accordo fra
i due principali fornitori della U.E: il colosso russo Gasprom e
la Sonatrach algerina destinato ad influenzare l’andamento dei
flussi e il mercato interno europeo e a controllare direttamente
anche settori della distribuzione interna.
Legittimamente direi visto che cartelli, fusioni e
concentrazioni avvengono in quasi tutti i settori strategici
delle materie prime e dei beni tecnologici e finanziari.
Certo,
l’accordo russo-algerino qualche problema lo potrà creare,
perciò è giusto assumere talune precauzioni (quali i
rigassificatori), ma senza farsi prendere dal panico e giungere
a percepirlo addirittura come una minaccia. Per altro, fra le
ragioni della sua stipula- credo- vi sia anche la volontà di
scoraggiare eventuali tentazioni di esportare in questi paesi la
“democrazia” anglo-americana, sulla punta dei cannoni.
Forte di tale
accordo, l’Algeria si candida a divenire il pilastro
mediterraneo di questa strategia, anche in virtù degli accordi
di cooperazione già sottoscritti con vari paesi produttori
africani che desiderano esportare in Europa, attraverso la rete
di gasdotti algero-ispanica e algero-italiana che- com’è noto-
si biforca lungo due direttrici: Sicilia (già operativa) e
Sardegna (in corso di realizzazione).
In questo
contesto, particolare importanza assume il recente trattato di
cooperazione stipulato fra Algeria e Nigeria che prevede- fra
l’altro- la costruzione di un metanodotto che, attraversando il
Sahara, trasporterà il gas dei grandi giacimenti nigeriani fin
sulle rive del Mediterraneo dove incrocerà il costruendo anello
“mediterraneo del gas” (dalla Turchia al Marocco) e da qui
essere esportato in varie direzioni, soprattutto verso
l’Europa.
Un’opera
colossale, altamente strategica, che, modestamente, avevamo
prospettato circa venti anni addietro al fine di rinsaldare i
legami di cooperazione e di scambio con l’Algeria e con altri
paesi della regione ed anche per agevolare e incrementare
l’importazione del gas nigeriano che l’Eni realizza via nave. La
Sicilia poteva (e può) divenire una tappa di questa nuova via
del gas africano verso l’Europa. Italia ed Eni sarebbero stati
partner promotori del grandioso progetto e non spettatori inerti
e un tantino spaventati. Ma tant’è.
In ogni caso,
l’importanza del ruolo energetico della Sicilia è destinato a
crescere nel quadro della creazione del mercato
euromediterraneo del gas e dell’elettricità da mettere al
servizio della zona di libero scambio del 2010 che coinvolgerà
una popolazione di oltre 600 milioni d' abitanti. Vi sono
diversi progetti e studi che interessano la Sicilia, fra i quali
la costruzione di un gasdotto Sicilia- Malta (il relativo
memorandum d’intesa è stato sottoscritto fra Eni e Enemalta, nel
2002) e il progetto d’interconnessione delle reti elettriche
tunisine e italiane, con una capacità di 500 kV.
Altre ipotesi
stanno maturando o potranno maturare anche nel campo delle
energie pulite e rinnovabili dove la cooperazione con i paesi
rivieraschi potrebbe far fare all’Italia e alla Sicilia un salto
ragguardevole, recuperando un ritardo incomprensibile e una
ritrosia davvero colpevole.
Di fronte a
questo nuovo scenario, segnato da grandi potenzialità per lo
sviluppo, sorgono alcune domande alle quali bisognerebbe
rispondere con serietà.
La Sicilia e
a sua classe dirigente, politica e imprenditoriale, riusciranno
a mettere a frutto gli effetti diretti e le ricadute derivati
da questo ruolo strategico?
La Regione
metterà in campo idee e progetti di sviluppo credibili o si
limiterà a chiedere- com’è consuetudine- royalties, imposte e
prebende per rimpinguare un bilancio, in gran parte, destinato
ad alimentare il pozzo senza fondo di un sistema di potere
affaristico, clientelare e consociativo?
Vedremo. Ma
se l’impegno mediterraneista del governo della Regione è quello
che si può desumere dai suoi vacui proclami assistenziali e
dalle nomine elettoralistiche effettuate nei vari enti, agenzie
e uffici di pertinenza c’è poco da sperare.
Altamura, i 110 operai di un
salottificio hanno trovato i cancelli sbarrati
Fine
ferie, ma la fabbrica è chiusa
Michele Simeone
Gli operai hanno fatto buone
vacanze e ieri erano pronti per tornare al lavoro nella fabbrica di salotti Ntl
di Altamura, in provincia di Bari. Ma arrivati davanti al cancello dell'azienda,
sorpresa: era chiuso. I proprietari dell'azienda non avevano dimenticato il
giorno del rientro dei lavoratori, ma sono scappati senza dire niente a nessuno,
come se il salottificio fosse una casa privata e gli impiegati non esistessero.
La doccia fredda ha colpito 110 famiglie, che si trovano senza stipendio.
L'accaduto è stato denunciato dalla Filca-Cisl di Bari,
attraverso il suo segretario provinciale Emilio di Conza, che ha ricordato che
«i proprietari dell'azienda non si trovano. Quello che è accaduto è un illecito
civile antisindacale, previsto dall'articolo 28 dello statuto dei lavoratori».
La chiusura dell'azienda si ripercuoterà anche su altre piccole attività
artigianali collegate alla Ntl, che potranno portare altre famiglie a trovarsi
senza un reddito. La Filca-Cisl ha chiesto al prefetto di Bari, Carlo Schilardi,
un incontro per la mattinata di domani e un intervento deciso dei sindaci di
Altamura e Gravina, i due comuni maggiormente coinvolti. La Ntl non è una
azienda solida, fino all'anno scorso si chiamava Ferma e in autunno vari
dipendenti erano stati lasciati a casa.
La situazione dell'industria dell'imbottitura nella zona
pugliese è in crisi da 4 anni, insieme ai settori della calzatura e del tessile.
Una depressione che riguarda le micro e medie aziende, formate da vari azionisti
che non riescono a resistere alla concorrenza straniera, in primo luogo a quella
cinese. Un'altra azienda di grande dimensione come la Natuzzi l'anno scorso ha
messo in cassa integrazione ben 1200 operai e dopo un vertenza sindacale si è
riusciti a far reintegrare nelle loro mansioni 700 dipendenti, gli altri 500
invece continuano con la cassa integrazione.
Per il segretario provinciale di Bari della Fillea Cgil,
Franco Panza, «la situazione è dovuta anche all'incapacità di alcuni
imprenditori di gestire la propria azienda. A volte sono gli stessi operai o
piccoli artigiani, che si mettono insieme e formano una piccola fabbrica, senza
avere la capacità imprenditoriale».
I sindacati hanno più volte chiesto al precedente governo
di intervenire nella zona, ma senza alcun risultato; adesso continuano a
insistere con l'attuale esecutivo: «Bisogna intervenire con infrastrutture,
agevolazioni e incentivi, soprattutto per le piccole aziende, dove gli operai
non hanno la garanzia della cassaintegrazione - ha concluso Panza - La Regione
Puglia ha già stanziato 50 milioni di euro per le imprese che risentono della
concorrenza estera, 10 milioni sono andati all'industria dell'imbottitura. Il
finanziamento toccherà le micro imprese per tutelare quei dipendenti che non
possono usufruire degli ammortizzatori sociali».
Chad e Bolivia si riprendono
il petrolio
Il paese africano caccia
via Chevron e Petronas. Respol denunciata per saccheggio delle risorse
boliviane. Guai per la Bp
Stefano Raiola
Appena pochi mesi fa
festeggiavano i profitti stratosferici registrati nella seconda metà del 2006,
miliardi di dollari accumulati in tempi brevissimi che hanno fatto la gioia dei
propri azionisti. Ma la ruota della fortuna gira per tutti, e così le
inarrestabili compagnie petrolifere si trovano adesso a fronteggiare tempi duri.
A preoccuparle non c'è solo la caduta del prezzo del
petrolio, rientrato sotto la soglia dei 70 dollari al barile, ma soprattutto le
nuove, quanto legittime, pretese avanzate da Chad e Bolivia - paesi in cui si
localizzano grandi riserve di greggio - riguardo alla gestione delle loro
risorse.
La prima cattiva notizia per l'industria dell'oro nero (ma
vero sollievo per tutto il resto dell'umanità), è che l'uragano Ernesto, che tra
le altre cose minacciava anche gli impianti del Golfo del Messico, è stato
declassato a tempesta tropicale, cosa che scongiurerebbe le devastazioni temute
nei giorni scorsi e che avevano fatto lievitare il prezzo del greggio. Lo
scampato pericolo ha fatto sì che ieri per un barile di Brent si
pagassero 69,85 dollari, la quotazione più bassa dal mese di giugno.
Poi è arrivato l'annuncio, confermato ieri, che il Chad ha
espulso la Chevron Corp. - seconda compagnia petrolifera Usa - e la Malaysia's
Petronas dai propri confini per dispute legate al mancato pagamento delle
imposte. Il presidente del paese centroafricano, Idriss Deby, ha promesso una
vera e propria «rivoluzione che salverà il paese e i suoi abitanti», rivoluzione
destinata a passare attraverso gli oleodotti controllati fino a oggi dalle
multinazionali straniere. «Il Chad deve partecipare al 60% nella produzione di
petrolio», ha affermato Deby, aggiungendo di aver ricevuto «solo briciole»,
insufficienti a risollevare il paese dalla povertà, dal consorzio straniero che
gestiva l'industria. La Chevron dal canto suo si è difesa assicurando di essere
totalmente in regola con le obbligazioni fiscali. Mentre un portavoce della
Petronas ha dichiarato che stanno richiedendo spiegazioni sul provvedimento.
Sempre ieri il vice ministro degli idrocarburi boliviano,
Julio Gomez, ha minacciato la Ibero-Argentina Repsol di trascinarla di fronte ai
tribunali internazionali con l'accusa di «saccheggiare» le risorse naturali del
paese sudamericano. Da quando il presidente Evo Morales, l'1 maggio scorso, ha
decretato la nazionalizzazione degli idrocarburi, le relazioni con Repsol e
Petrobras, i maggiori investitori nel paese, si mantengono in un costante stato
di tensione; tensione che ha toccato il culmine l'estate scorsa, quando i
giudici boliviani ordinarono l'arresto - poi evitato - dell'allora presidente di
Repsol, Julio Gavito, accusato di aver contrabbandato greggio tra il 2004 e il
2005 per un valore di 9,2 milioni di dollari.
Nel frattempo dagli Usa arriva una nuova stangata per la
British Petroleum - la terza compagnia petrolifera del globo - investigata dalle
autorità americane per «possibile manipolazione del mercato dei combustibili».
Il gigante britannico, già finito nell'occhio del ciclone per il recente
incidente ai suoi oleodotti in Alaska e per una esplosione in una raffineria
texana di sua proprietà che nel 2005 causò la morte di 15 lavoratori, è
sospettato di aver speculato sui contratti futures del greggio
aprrofittando di informazioni confidenziali di cui era in possesso. Sospetto che
si estenderebbe ad altre compagnie del settore.
Lopez Obrador: «E' un colpo di Stato»
In Messico il Tribunale
elettorale ha prevedibilmente confermato la vittoria fraudolenta del
conservatore Felipe Calderon.Il candidato di centro-sinistra rifiuta di
riconoscere il risultato
Gianni Proiettis
Città del Messico
Il conservatore Felipe
Calderon è stato praticamente impalmato presidente del Messico. La decisione,
che spettava il 2 luglio scorso a più di 70 milioni di votanti, è finita, dopo
un'elezione sotto il segno della frode, in mano a sette giudici che hanno deciso
in quattro e quattr'otto che il parzialissimo riconteggio dei voti chiesto da
Lopez Obrador (meno del 10% del totale) non ha mostrato le prove di frodi e
errori tali da inficiare il risultato ufficiale delle urne che aveva visto la
vittoria di Calderon per lo 0.58% dei voti.
Lopez Obrador si è rifiutato di accettare il risultato e la
sentenza dei 7 giudici nonché di riconoscere la vittoria di Calderon. In un
discorso di fronte alla massa dei suoi sostenitori nello Zozalo, la grande
piazza di Città del Messico, ha annunciato che la sua sfida contro le frodi
andrà avanti. «Nonostante l'evidenza della frode, il Tribunale elettorale si è
opposto a ripulire le elezioni e rifare il conteggio voto per voto, nonostante
che questa fosse la richiesta di milioni di messicani e avesse il potere di
farlo», ha detto. E ora ha emesso una sentenza che «per milioni di messicani è
offensiva e inaccettabile», «non solo una vergogna per la storia del nostro
paese ma anche una violazione dell'ordine costituzionale e un vero colpo di
stato».
Il Tribunal Electoral del Poder Judicial de la
Federación, denominato Trife per brevità, ha deliberato lunedì sui 375
ricorsi presentati dai due maggiori partiti: il Prd, Partido de la Revolución
Democrática, di centro-sinistra, del candidato Andrés Manuel Lopez Obrador,
ex-sindaco della capitale, ne aveva presentati 240; il Pan, Partido de Acción
Nacional, espressione della destra cattolica e imprenditoriale che sostiene
Calderón, 133. Gli altri due ricorsi provenivano da semplici elettori.
La decisione del tribunale non altera nella sostanza i
risultati già noti, che attribuivano la vittoria a Felipe Calderón con un
vantaggio di 240mila voti - lo 0,58% del totale - e apporta solo alcune
modificazioni, apparentemente salomoniche, sottraendo 77 mila voti al Prd e 81
mila al Pan. La distanza fra i due partiti si riduce così di 4 mila voti ma la
sentenza non capovolge il risultato, come sperava il Prd, e apre la porta
all'instabilità e a una lunga stagione di conflitti.
Non ha tortro Lopez Obrador parlando di «colpo di Stato»
(del resto non è il primo nella lunga storia del Messico) e, sostenuto da un
forte movimento di resistenza civile che occupa da un mese il centro della
capitale, rifiuta l'imposizione di un presidente spurio. Il popolarissimo Amlo
conta non solo sull'appoggio di milioni di elettori che si sentono defraudati e
decisi a non permettere un'usurpazione come quella che diede la presidenza a
Carlos Salinas nel 1988, ma anche su solidi argomenti.
Ricostruito a posteriori pezzo per pezzo, il puzzle delle
elezioni del 2 luglio proietta l'ombra di una frode gigantesca, ormai a nudo
dopo il riconteggio dei voti nel 9% dei seggi: migliaia di sezioni in cui le
schede non corrispondevano al numero di votanti registrati, verbali riassuntivi
con dati palesemente falsi, schede che non presentano le piegature
indispensabili per essere introdotte nelle urne, pacchi aperti e manomessi,
sezioni in cui una parte degli scrutatori designati sono stati sostituiti
all'ultimo minuto. Per non parlare della presentazione di più di venti video che
mostrano aperte manomissioni dei plichi elettorali da parte degli scrutatori.
A poco serve, a questo punto, che il Pan invochi la
presenza di una legione di osservatori il giorno delle votazioni, fra cui un
gruppo di euro-parlamentari, guidati dallo spagnolo José Salafranca (membro del
Pp di Aznar, partito di destra affine al Pan). Nei giorni scorsi, il rapporto di
Salafranca, che aveva dichiarato di non aver avvertito alcuna irregolarità il
giorno delle elezioni, è stato duramente questionato da Tobias Pfluger, membro
della commissione esteri dell'Unione europea, che ha denunciato il «persistente
silenzio» degli osservatori di fronte all'evidenza dei brogli.
Tra l'altro, la giornata elettorale, costellata da una
miriade di irregolarità, e gli scrutini fraudolenti, permessi e incentivati
dall'Instituto Federal Electoral responsabile delle elezioni (e sotto
diretto controllo del presidente uscente Vicente Fox, anche lui del Pan), sono
solo l'ultimo atto di un'operazione iniziata quasi tre anni fa, alla fine del
2003. E' stato lo stesso Amlo a ricordarlo, nel discorso di fronte ai suoi
sostenitori nello Zocalo, subito dopo la sentenza del Trife.
Il complotto per escluderlo dalla presidenza, ordito
dall'ex-presidente Salinas, da Fox e dal senatore panista Fernandez de Cevallos,
è cominciato con una serie di «rivelazioni» attraverso dei video che mostravano
alcuni collaboratori di Lopez Obrador, all'epoca sindaco di Città del Messico,
mentre ricevevano mazzette da Carlos Ahumada, un faccendiere argentino
attualmente in carcere. Lo scandalo, divulgato con colorito sensazionalismo
dalle servizievoli Televisa e TvAzteca, non riuscì a scalfire
l'enorme popolarità di Amlo, in testa a tutti sondaggi.
La mossa successiva fu quella del desafuero, un
tentativo di escludere l'ex-sindaco con una montatura giudiziaria chiaramente
pretestuosa, dalla corsa alla presidenza. Ma la nuova macchinazione, oltre ad
essere mal architettata si scontrò con un movimento di protesta che portò in
piazza più di un milione di persone nell'aprile 2005. I tre poteri, uniti nella
conventio ad excludendum, furono costretti a fare marcia indietro.
Poi venne la campagna elettorale, dove la destra giocò
sporco: le intromissioni illegali di Fox, la propaganda del Pan orchestrata da
consiglieri spagnoli e statunitensi basata sull'odio e la paura, il
martellamento di spot tv pagati dagli imprenditori che presentavano Amlo come
«un pericolo per il Messico», i programmi di assistenza sociale usati per
promuovere il voto a destra.
Non solo. Nella formazione dell'Instituto Federal
Electoral, attualmente soggetto a una denuncia penale per aver manipolato
l'intero processo elettorale, nessuno spazio ai rappresentanti del Prd. E,
dulcis in fundo, il software per il conteggio preliminare dei voti affidato
a una ditta di proprietà dell'industriale Diego Zavala, cognato di Calderón.
L'arrogante tentativo del governo Fox di deviare la storia
nazionale a favore di una destra rapace e rissosa si scontra oggi con una
reazione popolare di dimensioni inedite. Hanno un bel dire Fox che la protesta
si limita «al blocco di una strada», riferendosi all'immensa tendopoli che
occupa il centro della capitale, e il suo portavoce ad affermare che la volontà
popolare non può piegarsi «ai capricci e all'arbitrarietà di una sola persona».
Lopez Obrador disconosce il verdetto del tribunale elettorale, viziato dalla
parzialità e dal sospetto di corruzione, ed è disposto, costituzione alla mano,
ad andare fino in fondo con il suo movimento di resistenza civile e pacifica,
ispirato a Gandhi e Luther King. Di fronte alla prossima proclamazione della
vittoria fraudolenta di Calderón, entro il 6 settembre, la Convención
Nacional Democrática, il 16 settembre, deciderà se costituire un governo
alternativo o un coordinamento della resistenza.
Bush torna a New Orleans un anno dopo: a mani vuote
Franco Pantarelli
New York
«Ce la faremo. Tutti insieme
ce la faremo», diceva ieri mattina nel municipio di New Orleans Ray Nagin, da
poco rieletto sindaco, nella cerimonia per ricordare il primo anniversario della
tragedia chiamata Katrina. Un po' più in là, nella chiesa di St. Louis, George
Bush e la moglie Laura cantavano inni religiosi, chinavano il capo e accendevano
candeline per onorare i morti. Poco prima i tre avevano fatto colazione assieme
nella Betsy's Pankece House,
un caffè rintanato nel downtown
disastrato più o meno come un anno fa, dove il corteo presidenziale aveva
faticato non poco a districarsi fra macerie che nessuno si è mai curato di
portar via, lampioni caduti che nessuno ha rimesso in piedi ché tanto la
corrente elettrica non arriva e mucchi di rifiuti che i pochi tornati nelle loro
case lasciano speranzosi sui cigli delle strade ma nessuno si cura di ritirare.
Da Betsy a un certo punto c'è stato anche un
siparietto. Bush, cercando di farsi largo tra la piccola folla che le sue
guardie del corpo stentavano a tenere a bada, ha tagliato la strada a una
cameriera e lei lo ha apostrofato: «Che fa, signor presidente, mi volta le
spalle?». Lui è rimasto un attimo interdetto e poi ha replicato: «No, signora.
Non questa volta». Un modo «alla Bush» di riconoscere la lentezza (chiamiamola
così) della sua reazione alla tragedia.
Un anno fa, per fargli capire che ciò che stava accadendo a
New Orleans era una cosa terribilmente seria l'ex capo del suo staff Andrew Card
decise di assemblare in un dvd i servizi delle varie emittenti televisive e lo
costrinse a guardarlo. Poi, tramortito dall'esecrazione pressoché generale e per
mostrare che lui si preoccupava eccome, Bush si ingaggò in un buffo andirivieni
fra Washington e New Orleans (otto viaggi in due settimane) facendo tante
promesse e il tutto fu riassunto - con un discorso in una Jackson Square
trasformata in studio televisivo - in tre «idee forza»: esonero fiscale per i
piccoli imprenditori; un programma di scuole, di riqualificazione professionale
e di asili per consentire di trovare presto un lavoro a coloro che lo avevano
perduto e una distribuzione di appezzamenti di terreno a chi voleva costruirsi
una nuova casa con le proprie finanze o attraverso dei programmi di prestiti a
basso interesse.
Solo la prima, quella degli esoneri fiscali, ha funzionato.
Le altre non hanno mai preso quota, proprio come i «numeri» dei sondaggi, che
ancora ieri hanno ribadito il malcontento popolare nei confronti di Bush: il 67%
degli interpellati. A New Orleans oggi vive meno della metà della popolazione
che c'era prima dell'uragano. Ci sono almeno 250.000 persone disperse in tutto
il resto degli Stati Uniti. Alcune hanno trovato una sistemazione altrove
aiutati da parenti a amici, altre sono ancora raggruppate negli alloggi di
fortuna e altre si sono smarrite chissà dove. I rimasti, o i ritornati, sono
quelli che vivevano nelle poche zone della città rimaste indenni perché
collocate in alto e quelli che avevano i mezzi per provvedere da soli a riparare
le loro case. Inutile dire che sono in gran parte benestanti e in grandissima
parte bianchi.
Bush, nel discorso che ha pronunciato ieri ha concesso
qualcosa ai problemi reali. «Capisco che la gente non sa ancora come tornare a
casa, che sente parlare degli aiuti e si chiede dove siano. Lo capisco
benissimo», ha detto. Ma dopo quella concessione è riaffiorato il Bush dei
«continui progressi» in Iraq. «Il mio messaggio alla gente di qui - ha detto - è
che noi capiamo che molto lavoro deve ancora essere fatto. Questo è un
anniversario che non segna la fine ma l'inizio di quello che sarà un lungo
recupero. Ma io sono compiaciuto da questa opportunità. Sono compiaciuto dalla
speranza che sento qui». Nel pomeriggio era previsto un incontro con esperti e
amministratori locali per rendere più «operativo» questo ritorno di Bush a New
Orleans.
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