Lo sapevate che...

 

29 settembre

 

Il consorzio degli "Automobile Club" pubblica una ricerca su 10 Paesi. In testa alla graduatoria dei lavori in corso c'è l'Inghilterra. Giudizi negativi sull'Italia

Cantieri stradali, le pagelle di Eurotest

Vince Birmingham, Eboli è maglia nera

ROMA - Quante volte, passando vicino a un cantiere stradale, ci si trova davanti a strettoie, tratti poco illuminati o indicazioni incomprensibili e capita di pensare che forse sulle strade del resto d'Europa queste difficoltà per gli automobilisti non ci sono? I risultati di una ricerca condotta dal consorzio EuroTest sembrano indicare che queste riflessioni non sono poi così distanti dalla realtà. L'analisi di 53 cantieri in dieci Paesi europei ha mostrato che le peggiori segnalazioni si trovano in Italia. In particolare, il titolo di strada con il peggior "lavoro in corso" è andato alla A3, nei pressi di Eboli (Salerno).
Allo studio hanno partecipato 16 "Automobile Club" europei, membri di EuroTest. I sopralluoghi sono stati effettuati tra aprile e luglio su cantieri di "lunga durata di almeno 1 km". Nello stilare le graduatorie, si è tenuto conto di criteri come la frequenza e la chiarezza dei segnali e delle indicazioni sul manto stradale, la larghezza delle corsie, le condizioni dell'asfalto, la visibilità di notte e le informazioni sulla durata dei lavori.
Dei cinque cantieri italiani presi in considerazione, il migliore è quello sulla A4 nei pressi di Novara, che è stato giudicato "buono". "Accettabili" quello sulla A22 dalle parti di Trento e quello sulla A3 nei pressi di Mileto (Vibo Valentia). Bocciato invece il cantiere sul Grande raccordo anulare di Roma all'altezza di Via Cassia.
I più sfortunati sono gli automobilisti che transitano sulla A3 nei pressi di Eboli. Lì, dice un comunicato della British AA (l'Automobile club britannico), si trova la situazione "peggiore di tutto il sondaggio, per mancanza di segnali che spieghino i lavori, frequenti e improvvisi cambi di velocità, segnali delle corsie poco chiari e mancanza di luci lampeggianti".
Completamente diverse le condizioni dei cantieri in Gran Bretagna. Dei nove siti analizzati nel Regno Unito, otto sono stati giudicati "buoni" o "molto buoni", mentre uno era "accettabile". Lì si trova anche il migliore in assoluto: quello sulla M42 vicino a Birmingham.
Al termine della ricerca, sono emersi anche alcuni problemi da risolvere a livello europeo. In particolare, sostiene l'Aci, non ci sono "regole certe, chiare e comuni a livello europeo: elementi di sicurezza come le barriere in cemento, fondamentali per scongiurare salti di carreggiata o invasioni delle zone di lavoro, sono solo raccomandati da alcuni ordinamenti e non resi obbligatori. In Italia, per esempio, il Codice della Strada non impone l'utilizzo di barriere vere e proprie per separare le corsie ma si limita a disporre l'utilizzo di coni o cordoli, anche per i cantieri di lunga durata".

 

Niente più fondi ai padroni di schiavi

di Fabrizio Gatti

In Puglia regole infrante e crimini contro l'umanità. Ora Bruxelles deve avviare un'indagine. E i sussidi agli agricoltori vanno sospesi. Parla l'eurodeputato inglese, Stephen Hughes
La vergogna degli schiavi in Puglia ha raggiunto Bruxelles. Adesso l'Italia rischia di pagare un conto salato davanti al Parlamento europeo. L'inglese Stephen Hughes, membro ed ex presidente della commissione Occupazione e Affari sociali, chiede che siano sospesi i sussidi ai coltivatori italiani di pomodori: fino a quando l'Italia non dimostrerà di aver debellato lo sfruttamento disumano dei braccianti. Il deputato laburista, iscritto nel Gruppo socialista europeo, non è l'unico a pensarla così. Nonostante il ministro dell'Interno, Giuliano Amato, abbia annunciato provvedimenti immediati. Pochi giorni fa l'inchiesta pubblicata da "L'espresso" (n. 35) sullo sfruttamento degli immigrati in provincia di Foggia è finita davanti all'Intergruppo tra parlamentari e sindacati europei. A parte due assistenti dei Verdi, gli italiani non hanno partecipato all'incontro. "Il caso è così grave", dice Hughes, "che la Commissione europea dovrebbe incriminare il governo italiano e inviare l'intera materia con procedura d'urgenza alla Corte europea di Giustizia".
Gli agricoltori italiani rischiano non poco. L'Unione europea, in base al raccolto previsto, verserà quest'anno circa 137 milioni di euro ai coltivatori di pomodori. E i sussidi andranno anche a quelle aziende che invece di assumere regolarmente gli stagionali hanno ridotto in schiavitù migliaia di stranieri.
Mister Hughes, il Parlamento europeo sta a guardare?
"No. Ora che questi fatti spaventosi stanno venendo alla luce, l'Unione europea deve agire davvero per mettere fine il più presto possibile a questo affare disumano e vergognoso. Bisogna che la Commissione europea così come il Parlamento si rendano pienamente conto della situazione e intervengano con urgenza. La schiavitù in uno Stato membro fondatore dell'Unione europea è un crimine contro l'umanità. Deve essere fermato".
Cosa farete? Riuscirete ad avviare un'inchiesta?
"Ho chiesto che sia organizzata un'audizione su questo argomento davanti alla commissione Occupazione e Affari sociali del Parlamento europeo e che sia nominato un relatore perché indaghi sulla questione in profondità. Ma questo scandalo coinvolge non soltanto la commissione Occupazione".
Quale altra commissione dovrebbe intervenire?
"Abbiamo allertato anche le commissioni Controllo dei bilanci e Agricoltura. Dovranno condurre le loro indagini e spero che chiedano una sospensione dei sussidi agricoli".
Lei chiede dunque la sospensione per il 2006 del contributo europeo ai coltivatori italiani di pomodoro?
"Fino a quando non ci saranno prove certe che queste pratiche sono terminate. La Commissione europea deve potersi fidare totalmente delle autorità nazionali e regionali per assicurarsi che i sussidi siano usati propriamente. E su questo caso denunciato dal vostro settimanale c'è stato chiaramente un totale sfacelo nei controlli e nelle ispezioni nazionali e regionali. Ma ora che i fatti sono stati resi noti alla Commissione europea, non possono guardare dall'altra parte. La Commissione dovrà agire e, come dico, i sussidi agricoli dovrebbero essere sospesi fino a quando non verrà messa fine a questa spaventosa rete di affari".
Lo sfruttamento degli schiavi in Puglia annulla conquiste consolidate in Europa sui diritti umani, sull'occupazione, sui principi della libera concorrenza. L'Italia rischia una procedura di infrazione?
"Alla luce di quanto sta succedendo in Puglia sono stati violati un mucchio di leggi dell'Unione europea, gli obblighi del Trattato e i diritti tutelati dalla Convenzione europea. La Commissione europea dovrebbe incriminare il governo italiano e inviare l'intera materia con procedura d'urgenza alla Corte europea di Giustizia".
I coltivatori di pomodori in Puglia producono anche olive e uva da vino. Secondo un rapporto sanitario di Medici senza frontiere, immigrati-schiavi vengono sfruttati anche in Campania, Calabria e Sicilia. Gli agricoltori si difendono accusando l'industria alimentare e i prezzi bassi stabiliti dal governo...
"Qualunque sia il raccolto o qualunque sia il settore, i finanziamenti europei non devono essere usati per consolidare la schiavitù o lo sfruttamento dei lavoratori. Le leggi e i regolamenti europei devono essere applicati rigorosamente per fermare quanto sta accadendo e per evitare che possa succedere ancora".
Temete che lo sfruttamento sistematico di immigrati si possa estendere ad altri Stati dell'Unione?
"Il pericolo è che questo tipo di pratiche si diffonda se non vengono soffocate ora. Perché altri produttori in altre regioni troveranno i loro prezzi perdenti rispetto a quelli praticati dai padroni di schiavi. Il modo più rapido per mettere fine a questo è tagliare i finanziamenti europei. Fino a quando non verranno mostrate le prove che queste pratiche sono state soffocate".
Il 50 per cento dei braccianti stranieri in Italia vive senza acqua corrente. Il 40 per cento dorme in baracche. Il 43,2 non ha gabinetti. Il 30 non ha elettricità. E un altro 30 per cento è stato aggredito o maltrattato. Che effetto le fanno questi numeri?
"È incredibile che migliaia di braccianti vivano, lavorino e muoiano in condizioni barbariche nell'Italia moderna e benestante".
Dopo la pubblicazione dell'inchiesta de "L'espresso", il governo Prodi ha annunciato immediate modifiche alla legge sull'immigrazione e una commissione d'inchiesta. Le autorità locali hanno aumentato i controlli. Viste da Bruxelles, sono misure sufficienti?
"Sono sollevato dal fatto che il nuovo governo italiano ha cominciato a prendere provvedimenti: è difficile immaginare il governo Berlusconi prendere qualsiasi provvedimento del genere. Queste pratiche si sono chiaramente impiantate molto prima che Prodi arrivasse al potere. Ma ora è evidente come sia necessario prendere provvedimenti urgenti per portare davanti alla giustizia quanti hanno organizzato questo traffico. Ma non basta".
Cosa serve ancora?
"Bisogna ripensare le regole sull'immigrazione e l'integrazione nell'Unione come un tutt'uno. Questo per impedire che le persone siano spinte verso lo sfruttamento da parte dell'economia fantasma".
In Puglia sono scomparsi almeno 13 lavoratori polacchi. Altri braccianti sono stati uccisi. La diplomazia polacca ha criticato la lentezza con cui le autorità italiane hanno avviato le indagini su alcuni casi. L'unione tra polizie europee è così lontana?
"La cooperazione giudiziaria e di polizia a livello di Unione europea si sta sviluppando lentamente. Finora ha avuto una natura intergovernativa. È necessario portarla sotto una supervisione democratica. Esempi come quelli avvenuti in Puglia dimostrano che in questo campo la cooperazione si sta sviluppando troppo lentamente".
La commissione in cui opera conosce altri casi in cui la cosiddetta economia ufficiale sfrutta la nuova schiavitù?
"Il caso dei raccoglitori cinesi di molluschi annegati nel mio Paese dimostra che questo non è soltanto un problema italiano. Non conosco però altri Stati membri dove la schiavitù è sfruttata su scala così vasta. Comunque nella maggior parte degli Stati membri, se non in tutti, funziona un mercato del lavoro a due livelli. E i lavoratori migranti sono sfruttati al livello più basso".
Lo staff di Mariann Fischer Boel, commissario per l'Agricoltura e lo sviluppo rurale, sta esaminando il caso Puglia. La Commissione europea sta facendo abbastanza per fermare il ritorno della schiavitù?
"Non sono al corrente se la Commissione europea abbia finora preso provvedimenti e quali. Ma adesso avrà di fronte un fuoco di interrogazioni. E dovrà agire davvero con urgenza".

 

28 settembre

 

Villa abusiva in costiera

Poco lontano da Amalfi la Guardia di Finanza pone i sigilli a una struttura di tre livelli: un rudere ampliato di 180 metri quadrati. Tre persone denunciate con l'accusa è di deturpamento e danneggiamento ambientale

Una villa su tre livelli, completamente abusiva, è stata sequestrata dalla Guardia di Finanza a Maiori, in costiera amalfitana. Le opere sono state realizzate con una autorizzazione che prevedeva solo lavori di ripristino di un vecchio fabbricato rurale.

In realtà il rudere è stato del tutto trasformato con la creazione anche di nuovi locali che ne hanno aumentato il volume. Le opere sequestrate si estendono per circa 180 metri quadrati. Sono tre le persone denunciate, il proprietario dell'immobile residente a Roma, il direttore dei lavori e il responsabile della detta edile esecutrice. Dovranno tutti rispondere, in concorso, di deturpamento e danneggiamento ambientale nonché di violazione delle leggi sull'urbanistica.

 

Da Scampia si vede Pechino

di Roberto Saviano
I boss camorristi hanno scoperto la Cina prima di tutti. E creato ambasciate e società miste. Che dal porto di Napoli invadono di merci l'Europa

E si racconta che i cinesi sono i napoletani d'Oriente. Nel gioco delle similitudini impossibili o persino dei modelli folkloristici esportati. E pare sia proprio così: la convivialità, la socievolezza, la simpatia d'impatto. Sembrano le stesse. Un'immagine che elimina gran parte dei pregiudizi, anche in una terra dove basta avere gli occhi leggermente a mandorla per essere definito 'o' cinese'. Eppure la diffidenza della comunità cinese sul territorio napoletano è enorme. Una comunità silenziosa, ma che è capace di creare un quasi invisibile impero, molto più invisibile che a Prato piuttosto che a Roma o nel dedalo milanese di via Paolo Sarpi. Quelle sono le Chinatown che si lasciano vedere, ma è a Napoli che si trova il cuore dell'impero.

Il primo rapporto tra una certa economia cinese e l'Occidente non sono i patti, non sono le cene, non sono neanche i contatti diplomatici. Sono i porti a fare il legame. Non è un caso se i colossi del settore dai grattacieli di Hong Kong adesso vogliono fare compere da noi: sognano di mettere le mani sui moli di Gioia Tauro, di Palermo o di Augusta. Ma Napoli è stato il primo porto a diventare completamente cinese, una vera e propria colonia economica, colonia di investimento ovviamente perché di cittadini cinesi non se ne vedono molti.

Il risultato è che non v'è prodotto che non passa per il porto di Napoli: è il punto finale dei viaggi delle merci cinesi, vere o false, originali o tarocche. Il solo porto di Napoli movimenta il 20 per cento del valore dell'import tessile dalla Cina. Ma bisogna fare attenzione ai dati: perché in realtà oltre il 70 per cento della quantità del prodotto passa di qui. È una stranezza complicata da comprendere, ma le merci nel porto di Napoli riescono a essere non essendoci, ad arrivare pur non giungendo mai, a essere costose al cliente pur essendo scadenti. Basta un tratto di penna sulla bolletta d'accompagnamento per abbattere i costi e l'Iva radicalmente.

La merce deve arrivare nelle mani del compratore subito, presto, prima che il tempo possa iniziare, il tempo che potrebbe ospitare un controllo. Quintali di merce si muovono come fossero un pacco contrassegno che viene recapitato a mano dal postino a domicilio. È come se nel porto di Napoli si aprissero dimensioni temporali inesistenti, nei suoi 1.336.000 metri quadrati per 11,5 chilometri il tempo ha dilatazioni uniche.

Proprio in questi pontili opera il più grande armatore di Stato cinese, la Cosco, che possiede la terza flotta più grande al mondo e ha preso in gestione il più grande terminal per container, consorziandosi con la Msc, che possiede la seconda flotta più grande al mondo con sede a Ginevra. Svizzeri e cinesi si sono consorziati e a Napoli hanno deciso di investire la parte maggiore dei loro affari. Qui dispongono di oltre 950 metri di banchina, 130 mila metri quadri di terminal container e 30 mila metri quadri esterni, assorbendo la quasi totalità del traffico in transito nel centro campano. A Napoli ormai si scarica quasi esclusivamente merce proveniente dalla Cina: 1 milione 600 mila tonnellate. Quella registrata. Perché almeno un altro milione passa senza lasciare traccia.

Nel solo porto campano, il 60 per cento della merce sfugge al controllo della dogana, il 20 per cento delle bollette non viene controllato e vi sono 50 mila contraffazioni di documenti: il 99 per cento dei materiali che si infilano in questo buco nero è di provenienza cinese e si calcolano, con riferimento soltanto a questa dogana, 200 milioni di euro di tasse evase a semestre.

Il trucco con cui entra la merce non è complicato, e basta passeggiare qualche settimana la mattina presto tra i container che vengono svuotati o a volte controllati per comprenderne il congegno. Tutto arriva e parte con gli Iso ossia i container. Iso sta per International Organization for Standardization: ogni Iso è regolarmente numerato e registrato con una formula: quattro lettere (delle quali le prime tre corrispondono alla sigla della compagnia proprietaria) - sette numeri - un numero finale. Spesso però ci sono Iso con la stessa identica numerazione. Così un container già ispezionato battezza tutti i suoi omonimi illegali. Semplice, efficacissimo, milionario.
Poteva sfuggire un'occasione del genere ai signori della camorra imprenditrice? Loro hanno tutto, e ben prima dei politici italiani e di Confindustria che si affaticano per rincorrere il mercato cinese. Senza sapere che il clan Di Lauro li ha preceduti, li ha distanziati di brutto: i padroni di Secondigliano e guerrieri di Scampia sono stati i primi.

Tutto cominciò con uno scatto. Importarono macchine fotografiche, videocamere. Lo fecero dieci anni prima che Confindustria spingesse gli imprenditori italiani ad andare laggiù. Un rapporto della Direzione antimafia campana mette insieme tutte le facce di questo affare e i nuovi Marco Polo partiti dalla periferia vesuviana. Con basi piantate pure a Taiwan dove Pietro Licciardi, detto 'l'imperatore romano', aveva aperto un negozio con giacche di alta sartoria.

La dialettica dei clan ha avuto questo vettore da subito. Nelle fabbriche cinesi si produceva per conto delle migliori marche del mondo, bisognava saper approfittare dei loro indotti, e sfruttarli a proprio vantaggio. Un'industria che produce per sei mesi un tipo di macchina fotografica, può fabbricarla per altri sei mesi. Ma non può farlo per lo stesso marchio. Può produrre il medesimo modello, con l'identica qualità tecnologica mettendoci sopra un logo differente. E su questo meccanismo entrano in gioco i clan. Contini, Licciardi e Di Lauro. Le famiglie secondiglianesi. Ricche grazie alla droga e agli investimenti nel tessile, nel turismo e nell'edilizia. Potenti grazie alle batterie di killer ragazzini e di ancor più giovani vedette. Rapide come imprenditori del mercato globale.

Così la Cina è divenuto un serbatoio di produzione per i camorristi molto prima che per gli industriali italiani. Tutto a partire da quelle macchine fotografiche digitali che hanno 'monopolizzato', secondo le ricostruzioni dei magistrati, il mercato dell'Europa Orientale: la famosa Canon Matic, fatta produrre in Cina direttamente dai Di Lauro che ne gestiscono anche l'importazione.

Poi sulla stessa rotta e con lo stesso sistema sono arrivati televisori giganti al plasma, telefonini, scarpe da ginnastica e pantaloni griffati. Sovrapprodotti dalle catene di montaggio asiatiche che li realizzano per i grandi marchi, fatti arrivare a Napoli e smaltiti in tutto l'Est della nuova Europa.

Forse ad agevolare la scoperta della Cina è stata anche la predilezione della camorra per le economie del socialismo reale. I clan legati al boss Bardellino e poi i secondiglianesi furono i primi gruppi criminali a mettere piede nell'allora Ddr e poi in Polonia, Romania. Ma si sono fermati alla frontiera dell'Urss: il pentito Gaetano Conte ha raccontato che i mafiosi russi hanno impedito l'ingresso degli investimenti napoletani. Altra sapienza antica, la mafia russa ben sa che dove investono i camorristi poi il territorio tutto diventa roba loro.

Il triangolo cinese a Napoli si trova alle pendici del Vesuvio. Ottaviano, Terzigno, San Giuseppe. Paesi cancellati dalla lava e poi risorti più volte nella storia adesso cambiano vita per l'ennesima colata. È lì che si riversa l'imprenditoria tessile venuta dall'Asia. Tutto quello che accade nelle comunità cinesi d'Italia è accaduto prima a Terzigno. Le prime lavorazioni, le qualità di produzione crescenti, e anche i primi assassinii.

La mafia cinese è complesso definirla, configurarla. A Napoli fu uccisa la prima 'testa di serpente' individuata in Italia, Wang Dingjm, un immigrato quarantenne arrivato in auto da Roma per partecipare a una festa tra connazionali a Terzigno. Le teste di serpente sono una delle forze d'alleanza tra camorra e criminalità asiatica. Si chiamano così perché importano manodopera. Seguire una testa di serpente significa intravedere una sorta di venditore di bestiame. Vende esseri umani alle fabbriche. Fornisce a chiunque voglia, cinese o napoletano, tentare la strada dell'imprenditoria, manodopera numerosa e a basso costo. Le teste di serpente spesso però barano.

Prendono soldi per portare un numero di persone e si presentano con la metà degli uomini promessi spesso adducendo giustificazioni tra le più varie. Ma le scuse con la camorra non funzionano e le teste di serpente spesso rischiano la punizione finale quando barano. Garantiscono a imprenditori un quantitativo di persone che poi in realtà non portano. Prendono i soldi da tutti i committenti per un'ordinazione di manodopera, cento operai per ogni fabbrica; poi in realtà fanno entrare cento lavoratori da distribuire fra tutte le fabbriche. Come si uccide uno spacciatore quando ha tenuto per sé una parte del guadagno, così si uccide una testa di serpente perché ha barato sulla sua mercanzia, sugli esseri umani che smercia.

Poteva sfuggire un'occasione del genere ai signori della camorra imprenditrice? Loro hanno tutto, e ben prima dei politici italiani e di Confindustria che si affaticano per rincorrere il mercato cinese. Senza sapere che il clan Di Lauro li ha preceduti, li ha distanziati di brutto: i padroni di Secondigliano e guerrieri di Scampia sono stati i primi.

Tutto cominciò con uno scatto. Importarono macchine fotografiche, videocamere. Lo fecero dieci anni prima che Confindustria spingesse gli imprenditori italiani ad andare laggiù. Un rapporto della Direzione antimafia campana mette insieme tutte le facce di questo affare e i nuovi Marco Polo partiti dalla periferia vesuviana. Con basi piantate pure a Taiwan dove Pietro Licciardi, detto 'l'imperatore romano', aveva aperto un negozio con giacche di alta sartoria.

La dialettica dei clan ha avuto questo vettore da subito. Nelle fabbriche cinesi si produceva per conto delle migliori marche del mondo, bisognava saper approfittare dei loro indotti, e sfruttarli a proprio vantaggio. Un'industria che produce per sei mesi un tipo di macchina fotografica, può fabbricarla per altri sei mesi. Ma non può farlo per lo stesso marchio. Può produrre il medesimo modello, con l'identica qualità tecnologica mettendoci sopra un logo differente. E su questo meccanismo entrano in gioco i clan. Contini, Licciardi e Di Lauro. Le famiglie secondiglianesi. Ricche grazie alla droga e agli investimenti nel tessile, nel turismo e nell'edilizia. Potenti grazie alle batterie di killer ragazzini e di ancor più giovani vedette. Rapide come imprenditori del mercato globale.

Così la Cina è divenuto un serbatoio di produzione per i camorristi molto prima che per gli industriali italiani. Tutto a partire da quelle macchine fotografiche digitali che hanno 'monopolizzato', secondo le ricostruzioni dei magistrati, il mercato dell'Europa Orientale: la famosa Canon Matic, fatta produrre in Cina direttamente dai Di Lauro che ne gestiscono anche l'importazione.

Poi sulla stessa rotta e con lo stesso sistema sono arrivati televisori giganti al plasma, telefonini, scarpe da ginnastica e pantaloni griffati. Sovrapprodotti dalle catene di montaggio asiatiche che li realizzano per i grandi marchi, fatti arrivare a Napoli e smaltiti in tutto l'Est della nuova Europa.

Forse ad agevolare la scoperta della Cina è stata anche la predilezione della camorra per le economie del socialismo reale. I clan legati al boss Bardellino e poi i secondiglianesi furono i primi gruppi criminali a mettere piede nell'allora Ddr e poi in Polonia, Romania. Ma si sono fermati alla frontiera dell'Urss: il pentito Gaetano Conte ha raccontato che i mafiosi russi hanno impedito l'ingresso degli investimenti napoletani. Altra sapienza antica, la mafia russa ben sa che dove investono i camorristi poi il territorio tutto diventa roba loro.

Il triangolo cinese a Napoli si trova alle pendici del Vesuvio. Ottaviano, Terzigno, San Giuseppe. Paesi cancellati dalla lava e poi risorti più volte nella storia adesso cambiano vita per l'ennesima colata. È lì che si riversa l'imprenditoria tessile venuta dall'Asia. Tutto quello che accade nelle comunità cinesi d'Italia è accaduto prima a Terzigno. Le prime lavorazioni, le qualità di produzione crescenti, e anche i primi assassinii.

La mafia cinese è complesso definirla, configurarla. A Napoli fu uccisa la prima 'testa di serpente' individuata in Italia, Wang Dingjm, un immigrato quarantenne arrivato in auto da Roma per partecipare a una festa tra connazionali a Terzigno. Le teste di serpente sono una delle forze d'alleanza tra camorra e criminalità asiatica. Si chiamano così perché importano manodopera. Seguire una testa di serpente significa intravedere una sorta di venditore di bestiame. Vende esseri umani alle fabbriche. Fornisce a chiunque voglia, cinese o napoletano, tentare la strada dell'imprenditoria, manodopera numerosa e a basso costo. Le teste di serpente spesso però barano.
Prendono soldi per portare un numero di persone e si presentano con la metà degli uomini promessi spesso adducendo giustificazioni tra le più varie. Ma le scuse con la camorra non funzionano e le teste di serpente spesso rischiano la punizione finale quando barano. Garantiscono a imprenditori un quantitativo di persone che poi in realtà non portano. Prendono i soldi da tutti i committenti per un'ordinazione di manodopera, cento operai per ogni fabbrica; poi in realtà fanno entrare cento lavoratori da distribuire fra tutte le fabbriche. Come si uccide uno spacciatore quando ha tenuto per sé una parte del guadagno, così si uccide una testa di serpente perché ha barato sulla sua mercanzia, sugli esseri umani che smercia.

Ma non ci sono solamente schiavi. Quella è un'altra immagine che rischia di diventare passato, archeologia industriale come molti dei luoghi comuni sull'economia asiatica. Al quartiere Sanità qualche tempo fa avevo incontrato una ragazzina napoletana che si era messa a lavorare in una fabbrica cinese. Raccontò il suo nuovo mestiere dicendo: "Mi sono messa a fare la cinese". Un tempo il quartiere Sanità era il regno delle fabbriche dei guantai, raccontavano che persino i guanti della principessa Sissi erano stati prodotti in questi vicoli. E ora lentamente arrivano i cinesi, riescono a ridare energia a produzioni di qualità che in Italia sono scomparse per l'aumento del costo della manodopera sentito anche nel lavoro nero.

E per la prima volta in Italia accade la rivoluzione: cittadini italiani iniziano a lavorare per i cinesi, nelle loro fabbriche, e i cinesi stanno cercando con i loro prezzi di far decollare la qualità dei manufatti. Gli imprenditori arrivati dall'Asia cercano maestri per formare i loro artigiani goffi. Pagano meglio dei padroni di Secondigliano per rubare l'arte a quelle maestranze che nei laboratori di Arzano tagliano gli abiti di prima scelta. Capolavori dell'italian style disegnati da sarti famosi e finiti poi addosso a stelle di prima grandezza. Come quando Angelina Jolie comparve sulla passerella degli Oscar indossando un completo di raso bianco, bellissimo. Uno di quelli su misura, di quelli che gli stilisti italiani, contendendosele, offrono alle star.

Quel vestito l'aveva cucito un mastro napoletano, Pasquale, in una fabbrica in nero ad Arzano. Gli avevano detto solo: "Questo va in America". Pasquale aveva lavorato su centinaia di vestiti andati negli Usa. Si ricordava bene quel tailleur bianco. Si ricordava ancora le misure, tutte le misure. Il taglio del collo, i millimetri dei polsi. Ed era proprio Pasquale quello che serviva ai cinesi per fare il grande salto. Per diventare più bravi degli italiani. Pasquale insegnava la qualità. Lo usavano per insegnare alle sarte venute dall'Asia. Lezioni clandestine, nascosto nel cofano come un latitante. Mentre al volante c'è un Minotauro con la pistola tra le gambe, perché così si spara più in fretta. Ai camorristi non piace che i cinesi gli rubino l'arte. Mentre invece i clan si sono messi a fare i cinesi. Copiano i loro sistemi economici che danno vita a consorzi di piccole imprese, con gare al ribasso nei costi e nei tempi pur di accaparrarsi una commessa. Con vincoli aperti dal prestito a usura e cementati dalla minaccia. Con lavoranti praticamente senza diritti. È il segreto dell'oro di Las Vegas, la zona industriale nata dal nulla nella periferia nord della metropoli.

E oltre all'import i camorristi fanno l'export. Lo fanno i clan del Casertano. I feroci in grado di monopolizzare il mercato di rifiuti. Esportano spazzatura, morchie così tossiche che nemmeno i criminali vogliono averle in casa. Al porto di Napoli sono stati trovati, come segnala Legambiente nei dossier 2004 e 2005, container zeppi di rifiuti in partenza per la Cina. Materia da intombare in Cina. Un affare florido e quasi inesplorato dagli investigatori: la nuova frontiera di un business che non conosce confini né scrupoli. Ma soltanto guadagni.

 

Infortuni
Tre morti e due feriti
Continuano senza sosta gli infortuni sul lavoro. L'Ilva di Taranto è, purtroppo, sempre protagonista: ieri è morto
un imprenditore di 55 anni, Luciano Di Natale, titolare della Tecnocis, azienda che opera nell'indotto; stava eseguendo un sopralluogo su uno dei nastri trasportatori dello stabilimento, quando
è stato trascinato e stritolato.
A Casteltermini (Agrigento)  è morto Biagio Savarino, edile di 49 anni: è caduto da un'impalcatura alta 8 metri. Un agricoltore di 76 anni
è invece morto ad Antria (Arezzo), schiacciato dal suo trattore. Edmir Leka, immigrato di 24 anni, è stato travolto da una gru in un cantiere di Novafeltria: ha riportato un trauma cranico e diverse fratture, dovrebbe guarire in 60 giorni. Infine, un camionista è rimasto ustionato a Pomezia, investito da una fiammata mentre controllava il livello dell'olio del suo mezzo.


Reportage
Tra olivi e cemento, il commercio degli schiavi rumeni
Nel triangolo Palma di Montechiaro, Canicattì, Licata, dove lavorano al nero migliaia di migranti dall'est Europa
Braccianti e operai. Nella piazza di Agrigento in attesa del «trasportatore». E di una paga da fame

Alfredo Pecoraro
Agrigento
Sono quasi le due del pomeriggio, sugli scalini del Cine Astor gli studenti aspettano il bus. Qualcuno fuma una sigaretta, gli autisti si danno il cambio. Sara e Stefania sorseggiano un'aranciata in un angolo d'ombra, a pochi metri dal gommista di piazza Rosselli. «Non si fanno vedere molto in giro, ma ci sono. Basta entrare in un bar o in una sala giochi. Laggiù... vedi quei due? Sono sicuramente rumeni». Uno è biondo, ha gli occhi azzurri, indossa jeans e maglietta; l'altro è ben vestito, giacca e pantaloni blu, pelle scura. Sara aveva ragione: sono rumeni. Mihai ha 25 anni, Bogdan ne ha 34. Per loro oggi è andata male. Sono arrivati nella stazione dei pullman troppo tardi e hanno saltato la corsa. «Siamo qui da circa sei mesi - racconta Mihai, fisico magro e grossi calli alle mani - Io e il mio amico sappiamo fare tutto: lavoriamo nei campi, saldiamo, prepariamo la calce, tagliamo il legno. Cosa ti serve?» Quando capisce di non trovarsi di fronte a un caporale, Mihai cambia tono. «Non so niente, io lavoro e basta - dice - Qui si sta bene, non so altro. Dobbiamo andare». I due si allontanano senza mai voltarsi indietro, sotto un sole cocente. «Sono come fantasmi - riprende Sara - Arrivano ad Agrigento e poi spariscono. Qualcuno lo trovi qui alla stazione dei bus ad aspettare non si sa chi e cosa».
Mihai e Bogdani aspettavano il loro Ivan (solo il nome è di fantasia), un rumeno che di professione fa il «trasportatore» di uomini, molto conosciuto a Palma di Montechiaro, comune di 24 mila anime e tonnellate di cemento su una collina rocciosa dove basta costruire tanto poi arriva la sanatoria. «Quell'uomo è una brava persona - racconta Rosario Gallo, sindaco di Palma di Montechiaro - Non so da quanto tempo viva qui, ma si è organizzato. So che va in giro con un furgoncino bianco e fa il trasportatore». In realtà, Ivan il rumeno è uno dei tanti addetti al trasporto dei nuovi schiavi del terzo millennio. Tutti lo conoscono, nessuno però sa dove viva. E' uno dei mille, 5 mila, forse 10 mila rumeni che sopravvivono come fantasmi intorno ad Agrigento. Si vedono nei campi, nelle cave, nei cantieri, nelle centinaia di palazzine in costruzione. «Un business gestito dalla mafia», giura Gaetano Bonvissuto, segretario della Cgil a Licata, città di 40 mila abitanti, dove il Prc e il Pdci sono quasi scomparsi e ad occuparsi di braccianti, operai e immigrati sono rimasti davvero in pochi.
«Non so quanti siano gli immigrati dell'est - afferma il sindaco - nessuno può fornire cifre esatte». Gallo, area Ds, è più interessato a parlare delle trame di palazzo ordite dalla sua stessa maggioranza («non riesco a formare la giunta, molti consiglieri mi vogliono imporre amici e parenti») che al fenomeno degli schiavi, esploso nella sua drammaticità dopo la morte di Mircea Spiradon, l'operaio rumeno deceduto dopo l'amputazione dei piedi per il crollo di una palazzina a Licata.
Nessuno azzarda stime sul numero di immigrati che lavorano nell'agrigentino, eppure basterebbe dare un'occhiata lungo il perimetro del triangolo Palma-Canicattì-Licata per farsi un'idea. Lungo la statale 115 Agrigento-Siracusa si può ammirare un panorama di terra e cemento. Gli immensi campi coltivati a cantapulo - tra le produzioni più floride da queste parti - uva e olivo si alternano a desolanti ammassi di conci di tufo, decine e decine di case, villette, garage, edifici in costruzione e scheletri abbandonati. «E' qui che lavorano i migranti dell'est - spiega Carmelo Cipolla, segretario provinciale degli edili-Cgil di Agrigento - Sono impiegati come braccianti e come operai, con paghe che non superano i 25 euro al giorno, senza alcuna garanzia e tra il disinteresse assoluto delle istituzioni regionali e locali. Basta avere gli occhi e venire a guardare da queste parti, il resto è retorica politica». Qualche denuncia la Cgil in passato l'ha fatta, ma non è successo nulla. Nel mercatino di Palma o nelle stradine di Licata è facile incontrare donne rumene, polacche, slave. Molte vivono alla luce del sole, alcune servono a giustificare gli stipendi degli operatori dei centri di accoglienza, ben quattro a Licata. Gli sguardi furtivi degli uomini, invece, si incrociano nei bar. Ma appena si accorgono di essere osservati svaniscono. Come fantasmi.
Ilie in Sicilia è arrivato per la prima volta due anni fa: «All'inizio ero spaesato - dice - Poi grazie all'aiuto di alcuni connazionali ho capito come si può trovare un lavoro e mi sono dato sempre da fare. Per ora vivo in una piccola casa vicino Agrigento, pago 50 euro d'affitto. Mi alzo alle 5 del mattino, vengono a prendermi, come fanno con gli altri, con un furgone. Ognuno di noi scende lì dove è previsto. Fino a pochi giorni fa ho raccolto i cantalupo, 10-11 ore di lavoro al giorno. La paga è buona: 25 euro, in Romania chi lavora nei campi guadagna 8 euro. Finito il turno di lavoro ci vengono a riprendere e ci lasciano in un punto diverso da quello dove ci avevano preso la mattina. Se non sono troppo stanco vado al bar con qualche amico e poi a dormire». Tra qualche giorno Ilie comincerà un nuovo lavoro: «Vado a fare la vendemmia, poi spero di andare in Romania dove ho due figli, ma spero di tornare a marzo dell'anno prossimo». Ad Agrigento in pochi parlano, ma molti sanno come funzionano le cose. Del resto è una delle province più ricche di tradizione, cultura e abusivismo, un territorio ampio che ha dato i natali a Pirandello ma anche al presidente della Regione (centrodestra) e a un vice ministro del governo Prodi (centrosinistra).

26 settembre

A Vicenza comanda Bush

di Roberto Di Caro

Il Pentagono vuole costruire nella città la base più importante. Da dove partirà ogni attacco in Medio Oriente. E forse in Iran

Il 'pugno di combattimento', come lo chiamano al Pentagono, di un ipotetico conflitto con Teheran. Il cuore e il cervello della risposta bellica di pronto intervento sull'intero scacchiere mediorientale, Iraq e Afghanistan inclusi. La leggenda dell'esercito statunitense, la 173a Brigata aerotrasportata del capitano di 'Apocalypse now', rifondata e riunificata. Dove? A Vicenza, nel cuore della città. Alla caserma Ederle, dove già sono in 6 mila, e in un'intera nuova base da costruire entro l'area dell'aeroporto Dal Molin, 1.300 metri da piazza dei Signori e dalla Basilica palladiana. Prima tranche entro il 2007, a pieno regime entro il 2010.
Su scelte del genere una nazione magari si scanna, ma le fa inalberando e urlando le ragioni del sì e del no. Da noi invece la vicenda è stata tenuta sottotraccia per tre anni, e sulla decisione si sta ora imbastendo un delicato minuetto. Ma per carità, caro ministro, veda lei se dare o no agli americani il Dal Molin: la decisione le tocca per legge, e mai io anteporrei i nostri interessi locali a quelli sacri dell'Italia. Ci mancherebbe altro, caro sindaco, decida lei: non voglio imporre alcunché ai vicentini, mi rimetto anzi alla loro e alla sua volontà... Colombina e Mirandolina? Macché. I protagonisti sono due tosti politici come Enrico Hüllweck, forzista, ex deputato, da due mandati primo cittadino di Vicenza, e Arturo Mario Luigi Parisi (così si firma e così lo citiamo), ministro della Difesa dal piglio marziale, che passi in rassegna i picchetti o annunci l''arrivano i nostri' in Libano.
Come se in ballo ci fosse giusto qualche appalto da spartire, una manciata di voti di residenti e le solite melmose contrattazioni politiche col bilancino in seno alla maggioranza: si tratta invece, tout court, della completa riconversione della strategia e della dislocazione delle forze armate americane in Europa. La Vicenza americana già ora ospita, oltre ai 6 mila della Ederle, un quartiere blindato e vietato detto Villaggio della pace, vari magazzini in zona industriale, più due siti in provincia a Tormeno e Longare, incluso il Pluto dove per vent'anni sono stati stoccati missili in giardino a testata nucleare. Nella prevista riorganizzazione, acquisendo il Dal Molin attualmente aeroporto militare italiano in via di dismissione e insieme civile senza voli dopo un anno di funzionamento claudicante con i conti in rosso, Vicenza diverrebbe la più potente base americana in Europa. Qui verrebbe costruita la nuova 173a Brigata aerotrasportata, che triplica la forza e gli organici di quella ora divisa tra qui e le basi tedesche di Bamberga e Schweinfurt. Rafforzata come organico (è previsto l'arrivo di altri 1.800 militari) e come dotazioni: 55 tank M1 Abrams, 85 veicoli corazzati da combattimento, 14 mortai pesanti semoventi, 40 jeep humvee con sistemi elettronici da ricognizione, due nuclei di aerei spia telecomandati Predator, una sezione di intelligence con ogni diavoleria elettronica, due batterie di artiglieria con obici semoventi i micidiali lanciarazzi multipli a lungo raggio Mrls, quanto basta per cancellare una metropoli. A parte il nome della brigata, cambia tutto e la forza bellica cresce a dismisura.
Nelle parole del generale James L. Jones, comandante delle forze armate Usa in Europa, pronunciate davanti al Senato americano già nel marzo 2005, "la 173a Brigata aerotrasportata sarà ampliata in Brigade Combat Team", cioè una sorta di maglio mobile con la potenza di fuoco di una divisione, "e rimarrà in Italia, in prossimità della base aerea di Aviano, suo centro d'impiego primario. Usareur (U. S. Army Europe, ndr) ha piani per espandere impianti e infrastrutture nell'area di Vicenza, includendo le strutture militari americane all'aeroporto Dal Molin favorendone la crescita attraverso la ristrutturazione".
Si badi alla data: marzo 2005, un anno e mezzo fa. Il generale ha già pronti tutti i piani per ristrutturare il Dal Molin, e infatti chiede al Senato i fondi per attuarli. Una svista? Arroganza? No. L'allora premier Silvio Berlusconi aveva dato il suo benestare, non è chiaro se con una pacca sulle spalle o con un impegno segreto, visto che nessuno ha fino a ora esibito protocolli sottoscritti da entrambi i paesi contraenti.
Adesso, nel minuetto su chi debba dire di sì o di no, sembrano cadere tutti dalle nuvole. Il sindaco Hüllweck non è contrario a cedere parte dell'area del Dal Molin: "Ma se sono io a dire di sì, poi chi me li dà i milioni di euro per il necessario completamento della tangenziale, le altre strade, gli scavi, i sottoservizi di acqua, gas e energia elettrica?". Il ministro Parisi preferirebbe certo sottrarsi alle ire di Oliviero Diliberto che a giugno è arrivato a Vicenza in veste di capopopolo contro il nuovo insediamento militare yankee: ma come spiegare un rifiuto all'alleato americano e al buon amico di Condy Rice, il ministro degli Esteri Massimo D'Alema? Fosse il Comune a dire di no gli toglierebbe le castagne dal fuoco. Ecco allora, lo segnaliamo per il 'libro delle prime volte', che la risposta di Parisi al sindaco inaugura la formula del silenzio-dissenso: "In assenza di un riscontro si riterrà che il Comune di Vicenza abbia espresso parere negativo".
Come si è arrivati a un tale mirabile esempio di patafisica della politica? "Me ne accennò la prima volta, nel marzo 2004, il consigliere politico del comando militare Usa a Vicenza, Vincent Figliomeni, durante una rituale visita di cortesia del comandante della Ederle", racconta il sindaco. Quando gliene riparlano, un anno dopo nel marzo 2005, chiede perché vogliano proprio il Dal Molin. "Non intendiamo usare la pista, i nostri soldati si sposteranno alla base aerea di Aviano in pullman e solo di notte", gli assicurano: lo ribadiranno ufficialmente a più riprese, anche al ministero della Difesa italiano. Affermazione plausibile in termini di procedure e costi, ma curiosa visto che per arrivare ad Aviano in autostrada c'è di mezzo il perenne ingorgo del passante di Mestre: ve la vedete la Brigata d'assalto di punta dell'US Army pronta a essere paracadutata d'urgenza in teatro di combattimento, traffico mestrino permettendo? Nella ricostruzione di Hüllweck, è lui a parlarne a Gianni Letta, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, che a sua volta incontra l'ambasciatore americano: nega così, il sindaco, che l'imput gli sia venuto da Silvio Berlusconi, proprio nel marzo 2003 testimone alle sue seconde nozze. Il Comune risponde invece picche alla richiesta Usa di costruire anche un reparto ostetricia tutto per loro, in modo che i pargoli della 173a potessero nascere in suolo americano, ancorché oltreoceano.
Solo nel marzo di quest'anno cominciano a uscire le prime notizie sulla prossima rivoluzione militare americana a Vicenza. E a formarsi i primi Comitati del No, ormai sei riuniti in un coordinamento, negli ultimi giorni presenti con cartelli e cortei, e una raccolta di 10 mila firme, dalla riunione del Consiglio comunale all'arrivo del ministro Francesco Rutelli per il premio Eti, l'Oscar del teatro italiano, in quel gioiellino che è l'Olimpico. "Ma scherziamo? Un'altra base del genere in piena città, in un'area congestionata dove nelle ore di punta già si formano chilometri di coda, contro il parere del comune confinante di Caldogno, distruggendo per le infrastrutture anche l'argine del fiume Bacchiglione? E i problemi di sicurezza? L'Unione non doveva ridurre le servitù militari? Vale solo per l'isola sarda della Maddalena?", attaccano Cinzia Bottene e Viviana Varischio, presidenti di due dei sei comitati.
A maggio arrivano in Consiglio comunale tre colonnelli Usa e spiattellano un malloppo di trecento pagine con tutti i progetti delle nuove strutture previste al Dal Molin: c'è disegnato ogni muro, pilastro, pensilina, tipo di tegola, rubinetto, linea e presa elettrica, dalla caserma a otto palazzine a pettine di quattro piani più uno alla mensa per 801-1.300 persone, più due autopark di sei piani, depositi, negozi, due ristoranti, fast food, barbiere, fino ai 14 metri quadri per la pompa di benzina. Gli americani le cose le fanno così: hanno messo nero su bianco persino le modalità con cui selezionare i dentisti italiani in considerazione delle differenze tra i nostri e i loro medicinali. L'investimento Usa è pari a 306 milioni di dollari per la sola prima fase da chiudere entro il 2007: la tabella sta nella relazione del citato generale Jones alla Commissione Forze armate del Senato americano del 7 marzo scorso, dove si dettagliano anche 26 milioni per il Centro fitness, 52 per il mini-ospedale, 31 per la scuola elementare americana all Ederle. Il complesso dovrebbe operare a pieno regime nel 2010, con una spesa finale sul miliardo di dollari.
Per gli americani è tutto deciso, per gli italiani tutto da decidere. "Che vuole, Vicenza è il cuore della tradizione dorotea, cioè della mediazione infinita per accontentare tutti. Oggi che i democristiani non ci sono più è anche peggio: alla composizione degli interessi s'è sostituita la reticenza, non si sa mai chi, come e quando decide", annota Ilvo Diamanti, vicentino, politologo, prorettore all'ateneo di Urbino.
E infatti la scelta non ha né padri né madri. "Sì, ho tenuto io i rapporti con gli americani della base, specie con i tecnici", dice Claudio Cicero, assessore di An a mobilità, trasporti e infrastrutture, nel cui ufficio già campeggia il tracciato della tangenziale che vorrebbe costruire coi soldi degli States, del governo italiano, della Regione, facciano loro, purché non con le casse del Comune: ma neanche lui annuncia battaglia in caso di un 'no' del governo. Più sottilmente, insinua il dubbio che impedire il ricongiungimento della 173a a Vicenza potrebbe spingere gli americani a spostare tutto altrove, in Germania o magari in Romania: "Alla Ederle lavorano oggi 750 italiani come personale civile. Se perdessero il lavoro, solo un terzo potrebbe essere ricollocato altrove". Del resto è in quel bacino che Cicero prende i voti, non certo tra i catilinari antiguerra e antibase. Ma in questa sua posizione si ritrova come alleati Cisl e Uil, anima del comitato per il 'sì' che ha anch'esso raccolto le sue brave 10 mila firme.
A sentire gli esperti, non sembra probabile che in caso di rifiuto gli americani per ripicca dislochino la 173a in Romania o in Bulgaria, e a Vicenza smantellino anche la Ederle. I soldati si spostano in aereo, ma tanks e rifornimenti si muovono via nave, e ai porti di Livorno o Trieste si arriva facilmente, tra il Mediterraneo e il Mar Nero c'è invece di mezzo il Bosforo: basterebbe allora un colpo d'ala del premier turco Erdogan o di chi per lui a inceppare l'intera strategia di intervento rapido in Medio Oriente. Ma le minacce più sono velate e meglio funzionano, in casi come questo.
A margine, un piccolo italianissimo interrogativo: giacché tutta la storia nasce con Berlusconi presidente del Consiglio, che farà per tener fede all'impegno, ancorché informale, da lui preso con il suo amicone americano? "L'ho sentito giovedì scorso", risponde il sindaco Hüllweck: "'Come sei messo?', mi ha chiesto, 'so che hai dei problemi. Vuoi magari parlarne con l'ambasciatore americano?'". Detto fatto, l'incontro ha luogo a Roma il mercoledì. Ovvero: come un'incontenibile esuberanza, forse la nostalgia di quando queste cose le faceva da premier, dà luogo a una diplomazia parallela da Repubblica delle banane.

 

Nicolas Maduro bloccato dagli agenti per quasi due ore all'aeroporto JFK

E il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti esprime il suo "dispiacere"

Gaffe col ministro venezuelano

Gli Usa costretti alle scuse

Nicolas Maduro, ministro degli Esteri venezuelano

CARACAS - Incidente diplomatico tra il Venezuela e gli Stati Uniti. Il ministro degli Esteri venezuelano Nicolas Maduro ha deununciato di essere stato trattenuto per un'una e quaranta minuti all'aeroporto internazionale JFK di New York e privato dei documenti di viaggio. "I funzionari dell'aeroporto hanno cominciato a insultarmi, a urlare, hanno fatto venire un poliziotto e hanno cominciato a minacciarmi", ha spiegato il ministro. "Esigo che il governo americano rispetti le regole del diritto internazionale".
Il vicepresidente venezuelano Josè Vicente Rangel ha collegato l'incidente accaduto al suo collega al discorso pronunciato mercoledì scorso all'Assemblea generale dell'Onu dal presidente Hugo Chavez, che aveva definito il collega statunitense George Bush "diavolo".
Gli Stati Uniti ammettono la gaffe e avanzano scuse ufficiali ma tacciano sul motivo che ha indotto l'autorità di polizia a trattenere il il ministro degli Esteri venezuelano. Il portavoce del ministero degli affari esteri americano Gonzalo Gallegos ha ammesso che "il Dipartimento di Stato è dispiaciuto per l'incidente". Non nasconde il Dipartimento di Stato che i servizi di sicurezza dell'aeroporto hanno interrogato il ministro e richiesto conferme sulla sua identità ma precisano che non hanno prove per poter affermare che gli siano stati ritirati i documenti di viaggio, che sia stato aggredito o che sia stato trattenuto".

 

Il lavoro stabile si allontana. Isfol-Cnel: per gli "under 25" crolla il numero dei contratti a termine che si trasformano in posti a tempo indeterminato

La "gavetta"? Serve sempre meno

Non si assumono i giovani precari

La stabilità nel lavoro arriva a 38 anni. Interviste a Centra e Dell'Aringa

di FEDERICO PACE

C'è modo di rendere ancor più piena di ostacoli una strada già molto impervia? A quanto pare sì. Tanto che la via che dovrebbe portare i giovani verso un posto stabile si è andata complicando ancor di più. Fino a qualche anno fa si faceva un po' di gavetta, si accettava un po' di flessibilità, e dopo un paio di anni si poteva ad approdare a qualcosa di certo. Ora però il numero di quelli che riescono nell'impresa è sempre più basso. "Tra il 2003 e il 2005 la quota dei contratti a termine degli 'under' che si è trasformata in contratti a tempo indeterminato - ci ha detto Marco Centra, responsabile Isfol per l'analisi e valutazione delle politiche per l'occupazione - è diminuita in maniera preoccupante. Due anni fa era il 40 per cento. Ora invece viene stabilizzato solo il venticinque per cento dei giovani. "Se si guarda ai contratti di collaborazione ci si accorge che la quota degli 'under 25' che riesce a passare a un contratto permanente è pari a un misero undici per cento.
Al Sud nel 2005, secondo i dati della ricerca presentata in questi giorni dalla Svimez, un ragazzo su cinque non cerca lavoro e non studia: in tutto 824mila giovani. Lo scorso anno, dicono gli esperti Svimez, il Mezzogiorno ha assistito ad un calo degli occupati tra i 15 e i 34 anni pari a 221mila unità. Tre giovani su quattro hanno visto peggiorare la propria posizione professionale e solo il 19,6 per cento dei giovani è riuscito a vincere la sua personale lotteria: vedere trasformato il contratto atipico in uno a tempo indeterminato.
Così, quegli strumenti che dovevano permettere un più agevole accesso del mercato, quegli strumenti che parevano chiedere ai ragazzi e alla ragazze solo qualche sacrificio da sostenere nei primi tempi, dal 2003 hanno preso a tradire le promesse. Tanto che da allora è cresciuta anche la quota degli under 25 che fanno il percorso inverso e, dal lavoro "a tempo", escono per andare nella grigia area degli inattivi o in quella di chi cerca lavoro: nel 2002-2003 erano l'11 per cento ora sono quasi il venti per cento
Ma cosa è successo? Quali sono le ragioni? "Alle imprese - spiega Centra - non conviene più assumere i giovani perché non hanno più gli incentivi economici previsti per il contratto di formazione e lavoro mentre il 'nuovo' apprendistato è praticamente bloccato." Il fenomeno sembra ancora più acuto proprio in uno dei più importanti mercati del lavoro. Nel Nord Ovest le "speranze" dei giovani si scontrano con una realtà quasi paradossale: solo il 26,2 dei contratti dei temporanei si trasforma in contratti stabili mentre succede lo stesso al 33,2% per la media totale . I giovani ormai paiono condividere lo stesso destino dei loro colleghi più maturi. E la stabilizzazione arriva sempre più tardi: nel 1998 si raggiungeva a 36 anni mentre ora si riesce a conquistarla solo a 38 anni.
Il Nord Est sembra essere l'unica area territoriale dove le imprese utilizzano ancora i contratti a termine per avviare i giovani verso un percorso professionale stabile. Qui, negli ultimi anni, la percentuale di conversione per gli "under 25" è stata del 35,1% rispetto al 30,6% del totale dei lavoratori.
Anche secondo il rapporto Ocse ("Boosting Jobs and Incomes") i posti a tempo determinato, seppure possono produrre benefici effetti sul mercato del lavoro, rischiano di intrappolare certi lavoratori in situazioni di impieghi instabili con retribuzioni incerte. In media la penalizzazione retributiva è nei paesi dell'Unione europea pari al 15% (si va dal 6% in Danimarca al 24% in Olanda).
Cosa fare allora? "Bisogna puntare sul rilancio dell'apprendistato - ci ha detto l'economista Carlo Dell'Aringa - Nel momento in cui Regioni, sindacati e parti sociali si metteranno d'accordo, questo istituto sarà molto utilizzato e la stabilizzazione tornerà ai livelli di prima. Se non esiste un contratto del genere le imprese ne approfittano e tengono un atteggiamento di eccessiva attesa nei confronti dei giovani. Non va bene però lasciare le nuove generazioni a macerare. Non va bene dal punto di vista sociale e non risponde nemmeno a esigenze forti delle aziende".

 

Cannoni d'Italia, business in Cina

Come l'Italia partecipa al gran mercato mondiale

Prodi chiede la fine dell'embargo sulla vendita delle armi alla Cina. Dietro di lui, potenti interessi privati e di stato. Ma il business degli armamenti non conta solo sull'export: le spese militari in continua crescita ne sono il traino principale

Giulio Marcon*

Le parole di Prodi che invitano a porre fine all'embargo europeo (ed italiano) sulla vendita di armi alla Cina non può che essere messo in relazione - oltre che con la finalità generale del miglioramento delle relazioni politiche ed economiche con la Repubblica popolare cinese - anche con l'obiettivo specifico del rilancio dell'industria militare italiana. Si tratta di un business in grande crescita. Gli ultimi dati disponibili (la relazione tecnica del 2006 sulla legge 185 che regola il commercio delle armi) parlano, per il 2005, di ben 1.361 milioni di euro relativi ad autorizzazioni concesse per la vendita di armi ad oltre 60 paesi. Si tratta di un calo di poco più del 9% rispetto all'anno precedente (quando si era sfiorata la cifra record di quasi 1.500 milioni), ma va ricordato che negli ultimi 5 anni l'esportazione di armi era vertiginosamente aumentata di oltre il 60% e che comunque nel 2005, nonostante il calo di autorizzazioni, le consegne effettive di armi (non sempre le autorizzazioni si concludono positivamente) sono praticamente raddoppiate: da 480 a 830 milioni di euro (www.disarmo.org).
Quel che l'Italia vende
Che cosa vendiamo? Non certo solo componenti o sistemi tecnologici, ma prodotti finiti di ogni genere come: elicotteri, cannoni navali, radar, blindati, proiettili per cannoni, mine marine, 40mila bombe da mortaio, 5 navi da pattugliamento, 200 siluri e via dicendo. Tra le aziende più attive: la Agusta (169 milioni di euro), la Galileo Avionica (166milioni), la Iveco (130), la Alenia Aeronautica (101), la Oerlikon Contraves (78), ecc.
Tra i protagonisti del business ci sono le aziende del settore pubblico della Finmeccanica (che Prodi conosce bene dai tempi dell'Iri), di cui è azionista di riferimento il ministro dell'economia; e nel campo dei finanziamenti (ben 164 milioni quelli autorizzati, al secondo posto dopo Capitalia) c'è la Banca San Paolo, la cui fusione con Banca Intesa è stata salutata con entusiasmo dal presidente del consiglio - che da alcuni è stato anche identificato come beneficiario (politico) dell'operazione. In realtà l'Italia ha già rotto l'embargo con la Cina; nel 2005 ha venduto armi a Pechino per 400mila euro, nel 2004 per 2 milioni e nel 2003 per ben 126 milioni. Inoltre nella scorsa legislatura era già stato approvato dalle Commissioni esteri il testo dell'accordo militare con la Cina che prevedeva scambi di equipaggiamenti, sistemi d'arma e tecnologia: fortunatamente l'accordo è rimasto in sospeso.
L'allora ministro degli esteri Frattini aveva dichiarato nell'occasione: «La Cina merita la dovuta attenzione per gli sforzi ed i successi evidenziati nell'ultimo decennio in favore della stabilità e della pace, anzitutto al suo interno...». In realtà la Commissione Diritti Umani dell'Onu, il Consiglio d'Europa ed Amnesty International non se ne sono accorti, viste le ripetute condanne alla Cina per la violazione dei diritti umani nel paese. Tra l'altro va ricordato che se noi vendiamo illegalmente armi alla Cina non è escluso che queste possano essere poi rivendute o girate da Pechino ai numerosi paesi in guerra e alle numerose dittature con cui la Cina ha un ricco export di sistemi d'arma (tra questi: Sudan e Myanmar).
In questa rottura dell'embargo - continuando a vendere le armi alla Cina - l'Italia non solo viene meno alla decisione europea, ma anche alla legge 185 che regola il commercio delle armi e che vieta di vendere armi a paesi in guerra e che violano i diritti umani. Violazione che in realtà riguarda altri paesi che in questi anni sono stati o sono ancora interessati da guerre, violenze interne e violazioni dei diritti umani. Giusto per citarne alcuni: l'Italia vende armi ad Algeria, Turchia, Arabia Saudita, Libia, Pakistan, Singapore (che recentemente ha impedito agli attivisti italiani di partecipare al contro-forum della Banca Mondiale). Tra l'altro si legge nella relazione sulla legge 185 che è stata concessa un'autorizzazione per la vendita (non si sa a chi) di 20mila cartucce/candelotti lacrimogeni che sono molto utili nella repressione delle manifestazioni: speriamo che non vadano in mano ad uno dei paesi che calpesta sistematicamente i diritti civili e politici.
Se è vero che le aziende principali italiane del settore armiero fanno in qualche modo riferimento al settore pubblico e se una parte delle armi viene venduto a paesi in guerra, retti da dittature e che violano i diritti umani, si può dedurre che lo Stato italiano realizza degli utili in modo illegale, violando una propria legge e sulla pelle delle persone che sotto quelle armi cadono o vengono incarcerate e perseguitate.
Il business delle armi non è legato solo alle esportazioni, ma anche alle spese per la difesa, che in Italia non mancano (poco meno di 20 miliardi di euro, esclusi i finanziamenti extra bilancio) e che dal 2000 ad oggi sono aumentate di oltre il 20 per cento. Si odono tante lamentele di militari e di politici amici di militari sulla tendenza al ribasso delle spese. Si sparano cifre e percentuali al ribasso, per poter chiedere più soldi. In realtà l'Italia si posiziona stabilmente nel G7 delle spese militari (cioè nel club dei 7 paesi che nel mondo spendono più per le Forze Armate) e la spesa procapite per le armi è superiore a quella della Germania: da noi si spendono 468 dollari all'anno per persona e in Germania 401 (www.sipri.org). Secondo la Nato (che conteggia non solo i soldi spesi dal ministero della difesa, ma anche le spese extra bilancio: ad esempio le spese per le missioni militari all'estero che vengono finanziate con fondi ad hoc) la percentuale della spesa militare sul Pil è oggi vicina al 2%, percentuale non molto lontana da quella di altri paesi europei di media grandezza (www.sbilanciamoci.org).
Tralasciando l'aspetto politico (pur non di poco conto) della funzione delle Forze Armate (per esempio quella svolta in Iraq e in Afghanistan), quello che va registrato è il sovradimensionamento dell'organico (190mila persone - come prevede la riforma - sono un numero troppo alto rispetto alle esigenze reali); l'inefficienza operativa e gestionale, più volte denunciata dalla Corte dei Conti; e la sproporzione tra ufficiali e soldati semplici (l'Italia ha in proporzione più generali degli Stati niti, per cui alla fine l'alto organico serve solo a legittimare il «posto» di ufficiali e sottufficiali). Per dare un esempio: il ministero della difesa prevede che a riforma completata le 190mila unità saranno così ripartite: 103.803 soldati semplici (i cosiddetti «volontari», in ferma breve o permanente) e 86.197 tra ufficiali (più di 22mila) e sottufficiali. Più o meno un comandante per ogni comandato.
Non solo l'italiano dei valori Sergio De Gregorio - Presidente della Commissione difesa al senato - ma anche il sottosegretario Ds alla difesa, Giovanni Forcieri, hanno lamentato le scarse risorse per le Forze Armate e hanno rimproverato alla Casa della Libertà di avere ridotto (sic) in questi anni le spese militari.
Aumentiamo le spese
Ma va ricordato che - pur nell'ambito di un contesto di integrazione europea degli apparati della difesa e anche se in modo contraddittorio con quanto affermato in altri passaggi - il programma dell'Unione con il quale Prodi ha vinto le elezioni recita: «L'Unione si impegna, nell'ambito della cooperazione europea, a sostenere una politica che consenta la riduzione delle spese per armamenti». E però si rischia di fare esattamente l'opposto e diversi parlamentari in chiave bipartisan, in queste ore di definizione della legge finanziaria, si battono per una politica che aumenti le spese per gli armamenti nel bilancio della difesa.
La campagna «Sbilanciamoci!» ha fatto in questi anni proposte che vanno nella direzione opposta: in primo luogo la progressiva riduzione - bloccando concorsi ed assunzioni - delle Forze Armate da 190 a 120mila unità (tra l'altro era una vecchia proposta del Cespi, poi finita in qualche cassetto) che permetterebbe di assolvere - in un quadro di operatività e di reale efficienza - ai compiti costituzionali di difesa del paese e agli impegni internazionali delle missioni di pace, ma quelle vere sotto la guida e il mandato delle Nazioni unite. Si risparmierebbero diversi miliardi di euro: l'unico contraccolpo sarebbe quello di dover prepensionare un po' di generali e colonnelli, ma è un piccolo lusso che ancora ci possiamo permettere. Soprattutto se a beneficiarne è la prospettiva di una politica di pace, di un nuovo multilateralismo democratico, della solidarietà internazionale.
*Campagna Sbilanciamoci!

www.sbilanciamoci.org

 

Amianto, condanna per Trenitalia

Bonifiche amianto. Il tribunale di Bologna ha disposto l'assegnazione di 500mila euro per gli eredi di un operaio morto per mesotelioma pleurico. Aveva lavorato 16 anni nelle Officine Grandi Riparazioni e respirato la fibra killer
Il Tribunale civile di Bologna, sezione esecuzioni mobiliari, ha disposto l'assegnazione di 500 mila euro, più gli interessi e le rivalutazioni, agli eredi di M.U., operaio impiegato alle Officine Grandi Riparazioni delle Ferrovie dal '74 al 2000, deceduto a 51 anni nel dicembre 2001 per mesotelioma pleurico per aver respirato le fibre d'amianto con cui erano rivestite le carrozze dei treni. L'uomo aveva lavorato come addetto alla decoibentazione delle carrozze rivestite di fibre d'amianto.
Il provvedimento arriva a conclusione di una lunga battaglia giudiziaria portata avanti dai legali del lavoratore deceduto, gli avv.Vittorio Casali, Maria Rita Serio e Michela Giaquinto, per ottenere un risarcimento adeguato per la famiglia del lavoratore. Il 18 maggio scorso il Tribunale del Lavoro di Bologna aveva condannato Trenitalia a risarcire 500.000 euro in favore degli eredi. Di fronte al mancato pagamento, i legali della famiglia dell'operaio deceduto avevano pignorato un conto corrente di un milione di euro aperto da Trenitalia presso la banca Bnl di Bologna. Ancor prima del deposito delle motivazioni della sentenza di primo grado, i legali dell'azienda, ritenendo eccessivo l'importo stabilito dal giudice, avevano fatto ricorso in appello e contestualmente avevano presentato un'istanza di sospensione dell'esecutività della sentenza e quindi del pignoramento.
Venerdì scorso la Corte d'Appello di Bologna, sezione lavoro, ha emesso un'ordinanza di rigetto del ricorso di Trenitalia, dando così il via libera al risarcimento. Oggi pomeriggio il giudice dell'esecuzione ha definitivamente dato il via libera al pagamento della somma statuita che, considerando interessi e rivalutazioni, sfiora ormai i 700.000 euro.
Arresti in Costa d'Avorio

 

Costa d'Avorio, emergenza rifiuti

Presi i funzionari della compagnia della nave dei veleni. Le sostanze tossiche smaltite illegalmente hanno ucciso sette persone. La vicenda ha fatto cadere il governo ivoriano
Le autorità della Costa d'Avorio hanno arrestato due funzionari francesi della Trafigura, compagnia olandese proprietaria della nave che ha scaricato i rifiuti tossici all'origine della recente catastrofe ambientale nello Stato africano. Lo ha comunicato oggi il ministro della Giustizia ivoriano. I due uomini, il direttore Claude Dauphin e il responsabile per l'Africa occidentale Jean Pierre Valentini, sono stati accusati di aver violato le leggi del Paese in materia di rifiuti tossici e avvelenamento, e sono stati tratti in arresto; attualmente si trovano nel penitenziario di Abidjan. La compagnia, che gestisce il commercio di petrolio e dei suoi derivati, in una nota si è detta sconvolta" per l'arresto dei due funzionari ai quali, nei giorni scorsi, era stato ritirato il passaporto ed era stato vietato di lasciare il Paese.
La Trafigura ha descritto i rifiuti tossici scaricati dalla nave come «una mistura di benzina, acqua e sostanze caustiche». La compagnia, inoltre, ha ricordato di aver inviato le sostanze ad un'azienda locale che si occupa di smaltimento dei rifiuti, regolarmente autorizzata dal governo a gestire quel tipo di sostanze. Gli esperti che hanno analizzato il composto hanno dichiarato che conteneva acido solfidrico, sostanza che, ad alte concentrazioni, può essere mortale. Il mese scorso, il 'Probo Koala', un mercantile noleggiato dalla Trafigura, aveva scaricato nel porto di Abidjan delle sostanze tossiche, poi trasportate in alcune discariche a cielo aperto della città. Nelle settimane successive più di 30 mila persone hanno invaso gli ospedali manifestando sintomi di intossicazione: vomito, dolori di stomaco, nausea, difficoltà respiratorie. Sette persone, a causa dell'intossicazione, hanno perso la vita. Pochi giorni fa, il governo del Paese è stato costretto a dimettersi in seguito alle proteste popolari divampate dopo lo scandalo.

 

22 settembre 2006

 

Sudan, l'Onu denuncia: «bombe sui civili»
Profughi in Darfur Aerei governativi bombardano i villaggi del nord Darfur. Il portavoce delle Nazioni unite: «la campagna contro i ribelli continua causando vittime e sfollati»
Aerei del governo del Sudan continuano a bombardare in modo indiscriminato villaggi nel nord del Darfur: lo ha affermato oggi il portavoce dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr), José Diaz. Nella regione del Sudan occidentale, teatro di un violento conflitto, «la campagna militare contro i ribelli del nord del Darfur che non hanno firmato l'accordo di pace è continuata nelle prime settimane di settembre con attacchi indiscriminati contro i villaggi, causando vittime e nuovi sfollati», ha detto il portavoce citando un rapporto degli osservatori dell'Onu in Sudan.
Inoltre, le violenze sessuali contro i civili continuano e le donne restano vulnerabili agli attacchi delle milizie armate. Un evento positivo è tuttavia costituito dalla condanna da parte di una corte del Nord del Darfur di un soldato accusato di aver stuprato una bambina di 11 anni, ha aggiunto il portavoce.

 

Infrazioni, Italia prima nel 2005
Diminuiscono in Europa le procedure aperte per violazione della normativa ambientale. Ma il Belpaese guida la negativa classifica con 77 atti
Migliora l’attuazione della legislazione ambientale nell'Unione europea. Lo dice la nuova relazione della Commissione europea in materia. Ma il miglioramento non riguarda l’Italia: il Belpaese guida ancora la classifica degli Stati europei contro cui è stato avviato il maggior numero di procedimenti di infrazione. I dati si riferiscono al 2005 e testimoniano una diminuzione a livello comunitario rispetto all'anno precedente delle procedure aperte per violazione della normativa ambientale. L'Italia, in confronto al 2004, si è vista comminare due infrazioni in più, attestandosi a quota 77 a fine 2005. Seconda la Spagna con nove infrazioni in meno e ferma a 57 procedimenti. Seguono Irlanda (45), Francia (42), Grecia (36), Portogallo (35), Gran Bretagna (31), Germania (24). Tutti questi Stati hanno visto diminuire a fine 2005 il numero di infrazioni a loro carico (la Germania ne ha registrati undici in meno).
Il miglioramento generale, secondo la Commissione europea, è dovuto ad una gestione più efficiente delle denunce e dei procedimenti di infrazione da parte della Commissione e ad un intervento più tempestivo degli Stati membri nell'adempiere ai propri obblighi. La Commissione ha adottato un approccio più strategico, raggruppando i casi riguardanti lo stesso problema e incentrando l'attenzione su casi generali che riguardano vari settori. La Commissione ha inoltre intensificato l'assistenza fornita agli Stati membri, organizzando un maggior numero di incontri con le autorità nazionali e fornendo loro documentazione di supporto. Alla fine del 2005 la Commissione aveva avviato 489 procedimenti di infrazione nel settore ambientale rispetto ai 570 della fine del 2004, pari ad una riduzione del 14%.

 

21 settembre

Amazon.com diventa pusher di farmaci?
Di Mike Adams, tratto dalla newsletter di www.newstarget.com
Tradotto e adattato per www.disinformazione.it da Stefano Pravato
Vedi anche questa pagina originale on line

Questa settimana, Amazon.com ha cominciato a spingere farmaci per l'ADHD sulla sua home page mediante un “Amazon survey” che promuove farmaci ADHD (Disordine da Deficit di Attenzione con Iperattività: presunta malattia "inventata" dagli psichiatri statunitensi intorno agli anni '80, ndT) che hanno note controindicazioni. L'annuncio non è visibile a tutti, in quanto sembra che Amazon stia testando la reazione del mercato. Potete vedere una copia dell'annuncio a questo indirizzo:
http://www.newstarget.com/gallery/articles/amazonadhd.jpg

Perché Amazon.com, inizialmente solo libreria, presta il suo nome a una campagna commerciale che promuove farmaci anfetaminici per bambini? Per soldi, ovviamente! Si tratta di un nuovo punto di minimo per Amazon.com e Jeff Bezos.

PER SAPERNE di più sull'ADHD...
Si trovano moltissimi articoli sull'ADHD, che rivelano la verità su queste “malattie” fittizie il cui unico scopo è quello di generare profitti alle lobbies chimico-farmaceutiche, intossicando i bambini. Potete dare un'occhiata a: http://www.disinformazione.it/paginaadhd.htm

DITE ad Amazon.com cosa ne pensate!
Siete un cliente di Amazon.com? Io si. Mi sono collegato col mio account e ho fatto click su “Need help”, quindi su “By e-mail” della finestra “Contact us”. E ho inserito qualche commento in proposito. Se volete potete unirvi a me in questo sforzo e dire ad Amazon quello che ne pensate (mediante il vostro account, se ne avete uno)
Fate sentire la vostra voce!

Nel mio caso il “Customer service” ha risposto poco dopo:
...Il nostro scopo come rivenditori e di fornire ai clienti la più ampia selezione possibile in modo che essi possano trovare, scoprire e acquistare qualsiasi cosa stiano cercando. Una selezione talmente vasta include inevitabilmente qualche articolo che qualcuno potrebbe trovare sgradevole o in altra maniera detestabile...
Una risposta piuttosto generica e che cerca di mantenere un profilo basso nell'invasione di Big Pharma all'interno di Amazon.com.

Big Pharma praticamente governa la FDA, le scuole mediche e i media convenzionali. Non lasciamo che prenda il sopravvento anche sui rivenditori al dettaglio, trasformando i nostri siti per lo shopping in pusher di farmaci. E poniamoci un'ovvia domanda: Jeff Bezos (il fondatore di Amazon) è a favore di un aumento dell'avvelenamento dei nostri bambini con farmaci pericolosi? Se è così, non si merita che continuiamo a fare affari con lui.
Proteggiamo i bambini dai farmaci pericolosi. Alziamo la voce contro amazon.com.

 

20 settembre

Pubblicato un dossier su 27 alimenti acquistati in sette stati europei
L'associazione ambientalista chiede alla Ue un intervento normativo

Nel piatto 119 sostanze tossiche
WWF: "Legislazione più severa"

<B>Nel piatto 119 sostanze tossiche<br>WWF: "Legislazione più severa"</B>

Secondo il WWF in 27 alimenti in Europa rintracciati 119 elementi tossici

ROMA - I veleni sono serviti: DDT nel pesce, nel burro e nel formaggio; refrigeranti nel miele. Dopo dieci anni di lavoro, il WWF pubblica il dossier sulla contaminazione alimentare. In 27 campioni di alimenti comuni acquistati nei supermercati di sette stati europei, i chimici dell'associazione hanno evidenziato 119 sostanze tossiche: ftalati nell'olio d'oliva, nei formaggi e nella carne; pesticidi organoclorurati, come il DDT, nel pesce e nel burro; muschi artificiali nel pesce; ritardanti di fiamma nella carne. "Neanche la dieta più salutare ci mette al riparo dagli inquinanti chimici tossici", commenta Michele Candotti, segretario generale del WWF Italia.

"Leggi più severe". Per salvaguardare la salute dei consumatori, serve un intervento legislativo più restrittivo: questa è la convinzione del WWF. "Siamo alla vigilia del voto su Reach, lo strumento della Ue per la regolamentazione delle sostanze chimiche", spiega il portavoce della sezione italiana dell'associazione. "Chiediamo ai parlamentari europei che siano bandite le sostanze più pericolose e applicato il principio di sostituzione.

E' necessario che il consumatore sappia quali sostanze sono presenti nei prodotti di uso quotidiano".

Ventisette alimenti sotto il microscopio.
I 27 campioni di alimenti analizzati provengono dall'Italia ma anche da Gran Bretagna, Polonia, Svezia, Spagna, Grecia e Finlandia. Sono prodotti di largo consumo: latte, burro e formaggio, salsicce, petti di pollo, salame, bacon, salmone, tonno, aringhe, e ancora pane, olio d'oliva, miele e succo d' arancia. "Nessuno dei prodotti, tutti comprati in supermercati e di marche comuni - afferma il Wwf - è risultato esente da tracce di sostanze chimiche. Al contrario, in tutti sono stati rinvenuti, in varia misura e secondo miscele differenti, 119 composti tossici".


"Studiamo gli effetti sui neonati".
Cosa fare allora? Non mangiare più? Il WWF tranquillizza: "I livelli di contaminanti rilevati negli alimenti analizzati non sono in grado di causare conseguenze dirette o immediate sulla salute. Noi non diciamo che i consumatori devono evitare il cibo. Piuttosto chiediamo una seria analisi sugli effetti di un'esposizione cronica, anche a basse dosi, di un cocktail di sostanze contaminanti, soprattutto sui feti e sui neonati".

 

19 settembre

Il fantasma Bolkestein si aggira per l'Europa
Francesco Piccioni
E' già tra di noi? La più devastante delle «direttive europee» in corso di approvazione - la famigerata Bolkestein sulla «liberalizzazione dei servizi» - prevede infatti che un qualsiasi lavoratore, cittadino di uno dei 25 paesi dell'Unione, possa lavorare in qualsiasi altro paese europeo sottostando alle regole contrattuali del «paese d'origine». anziché di quello in cui va a lavorare. A un occhio poco allenato può sembrare una norma innocua, o addirittura pensata per «facilitare» l'approccio del singolo lavoratore a un ambiente per lui ignoto.
La morte di Zbigniew, ieri a San Salvo, fa carta straccia delle panzane ideologiche con cui i sostenitori della Bolkestein hanno fin qui avvolto la sostanza di quelle norme. Il principio del «paese d'origine» serve soltanto alle imprese, che potranno così vincere un appalto in un paese «avanzato» - con più diritti e più alti salari - impiegandovi lavoratori presi dai paesi più «arretrati» (con pochi diritti e salari più bassi). Ci guadagna sia l'impresa che «esporta lavoro», sia quella che lo importa. La prima guadagna all'estero più di quanto non possa fare in patria; la seconda ottiene a prezzi più bassi lo stesso «servizio».
Ci rimettono i lavoratori di entrambi i paesi. Quelli che emigrano - per un pugno di euro in più - vanno a correre più rischi di quanti già non ne corrano in patria: devono infatti dimostrare «galoppando» che utilizzarli è un vero affare. Quelli del paese «importatore», invece, si ritrovano a fare i conti con meno posti di lavoro, meno garanzie (a partire dalla sicurezza), salari congelati, crescente offerta di lavoro «in nero» per «battere la concorrenza». Dumping sociale legalizzato, insomma. O allargamento a dismisura delle fila dell'«esercito salariale di riserva» che deve contenere le «pretese» del lavoro dipendente in tutta Europa.
A San Salvo un'impresa inglese ha trovato manodopera stabile più economica che non in Gran Bretagna. Per la ristrutturazione del «cuore» dell'impianto ha fatto una gara d'appalto «europea». L'ha vinta una società finlandese - paese di alta civiltà, con garanzie e salari in proporzione. Per stare dentro i costi promessi nella gara i finlandesi hanno dovuto far ricorso a una società polacca. Una catena di santantonio che avrebbe forse potuto essere anche più lunga, in nome del risparmio.
Può darsi che la presenza di Zbigniew a San Salvo sia del tutto «legale». Ma - se ci pensate bene - questa è l'ipotesi più preoccupante.

Fede, ragione e lapsus
Rossana Rossanda
Era dunque un lapsus, con il relativo significato involontario e profondo, voce dal sen sfuggita: la rozza battuta su Maometto e l'imperatore greco non era né necessaria né funzionale alla tesi che Benedetto XVI ha sviluppato a Regensburg, e cioè che tra fede e ragione non c'è contrasto, la fede arriva là dove ragione e scienza si fermano, ma esse sono una grande conquista dell'umanità, resa possibile da quell'ordine intellettuale che il creatore ha dato all'universo e del quale all'uomo, fatto a sua immagine e somiglianza, ha concesso la chiave.
Il fine politico della lectio era di allargare la famosa questione delle radici dell'Europa alla Grecia, nella veste dell'ellenismo. Alla tradizione del Vecchio e del Nuovo Testamento la tradizione greca dei «Settanta» avrebbe dato non solo il passaggio da una lingua all'altra, ma qualcosa di più. Il duplice senso di logos, parola e ragione, che sta all'inizio del vangelo di Giovanni, non sarebbe casuale: l'evangelista voleva significare, fa intendere Benedetto XVI, le due cose; discutibile, come Barbaglio osserva: per Giovanni logos è parola, messaggio. In ogni modo, prosegue Ratzinger, l'ellenismo sarebbe la prima felice inculturazione, nel senso di innesto, nel e del cristianesimo. Che invano «tre ondate» critiche hanno cercato nei secoli di azzerare. La Costituzione europea, si può intendere, le deve riconoscere tutte e tre, anzi nel cristianesimo ellenizzato trova una felice sintesi.
Allo scopo dell'intreccio tra fede e ragione, se proprio Joseph Ratzinger voleva citare il dialogo fra il Paleologo e il persiano - per il vezzo di informare dell'ultimo libro letto - poteva ricordarne soltanto la conclusione, che non avrebbe destato ire funeste tra i musulmani, mentre la definizione di Maometto come colui che nulla apporta se non il fatale concetto di guerra santa è francamente insultante.
Da laici maliziosi possiamo aggiungere che ci voleva una notevole sfacciataggine dell'imperatore bizantino per affibbiare nel 1391 a Maometto la guerra in nome di Dio: erano appena terminate le otto o nove crociate contro l'Islam indette dai papi di Roma, e non c'era stata nessuna jihad contro l'occidente. (Lui in persona, il Paleologo, sarebbe corso a cercare aiuto in Europa contro i turchi, che avrebbero vinto lui e gli altri cristiani a Nikopolis. Vero è che quella nessuno la chiamò una guerra santa ma, come era, una vera e propria guerra territoriale che avrebbe visto la fine dell'impero bizantino e il formarsi e l'avanzare di quello ottomano su ambedue le sponde del Mediterraneo, fino a Vienna). Perché Ratzinger s'è ficcato in questo ginepraio?
Lascio ad altre competenze altri aspetti della lezione a Regensburg. Nel primo secolo ebraismo, cristianesimo ed ellenismo, osserva Barbaglio, erano universi in reciproca circolazione. Mi pare invece poco dimostrabile il legame fra l'asse portante del pensiero greco, cinque secoli prima di Cristo, e l'ebraismo e poi il cristianesimo. E' persuasivo su questo Oliver Roy. Mi preme osservare che la ragione critica e la scienza moderna non evitano la domanda «da dove veniamo» e «dove andiamo», come pensa Benedetto XVI. Rispondono che la vita viene da un processo fisico-chimico che datano a tre miliardi di anni, che la specie umana deriva dal suo articolarsi e che probabilmente andrà verso una fine, come le altre specie viventi.
E' più consolante pensare che un'intelligenza fuori del tempo e dello spazio ci abbia creato con un atto di volontà e ci riaccoglierà nel suo grembo, ma il pensiero freddo e l'accettazione della finitudine è appunto quel che distingue credenti e non credenti. E sarebbe utile ascoltarsi senza tentare reciprocamente di convertirsi.

 

Secondo l'indagine della Federconsumatori, le tariffe elettriche nel 2006
sono aumentate in media di 53 euro e quelle del gas di 104
Bollette record nel 2006
Gli aumenti più alti in 10 anni

Fondamentale "sbloccare il processo di concorrenza" e "puntare
su una politica energetica che faccia perno su quella europea"
di ROSARIA AMATO

<B>Bollette record nel 2006<br>Gli aumenti più alti in 10 anni</B>


ROMA - Un aumento medio di oltre 53 euro a famiglia rispetto al 2005, la metà della cifra corrispondente alla somma degli aumenti degli ultimi 10 anni (106 euro): la Federconsumatori denuncia ancora una volta, con l'indagine presentata stamane a Roma, il caro-bollette elettriche, puntando il dito anche contro tutto quello che sta a monte, a cominciare dai monopoli che ancora dominano il settore e, in ultima analisi, dalla mancanza di una seria politica energetica italiana.

Va ancora peggio per le bollette del gas: secondo i dati dell'Osservatorio nazionale tariffe e servizi della Federconsumatori, quest'anno rispetto al 2005 l'aumento della spesa su base annua è di 104 euro, considerando una famiglia tipo che consuma 1400 metri cubi di metano.

Altri aumenti dall'1 ottobre. Gli aumenti monitorati, avverte la Federconsumatori, non sono definitivi dal momento che dall'1 ottobre di quest'anno è previsto un ulteriore rialzo per effetto dell'adeguamento trimestrale delle tariffe previsto dall'Autorità dell'Energia e del Gas. In definitiva, una famiglia media spenderà quest'anno circa 400 euro per la bolletta elettrica e 1044 euro per quella del gas metano. In percentuale, dal '95 a oggi le bollette elettriche sono aumentate del 34,5%, mentre quelle del metano nello stesso periodo del 40%.

Bollette ancora più care nel 2007. Gli aumenti tariffari, riconosce la Federconsumatori, sono stati "attenuati dai provvedimenti dell'Autorità dell'Energia", e tuttavia, ha detto il presidente dell'associazione Rosario Trefiletti, "si prevede che le bollette saranno ancora più care per il 2007". Per questo, "è necessario accelerare gli interventi sia di carattere strutturale che fiscale".

Necessaria politica energetica europea. Cioè "basta con gli spot su come risparmiare energia elettrica, o abbassare di un grado in inverno la temperatura degli appartamenti". Piuttosto, bisogna puntare su "una politica energetica che faccia perno su quella europea, che per volume di produzione e consumi può avere un ruolo nel mercato mondiale del gas e del petrolio e nei rapporti fra paesi consumatori e fornitori". A tutt'oggi, ha ricordato Trefiletti, le bollette italiane sono più care del 30/40% rispetto a quelle europee. Solo con un adeguato piano energetico si può "sbloccare il processo di concorrenza dai monopoli per un mercato regolato a vantaggio dei consumatori e competitivo".

Energia elettrica: le proposte. Per venire incontro ai consumatori, ma non solo perchè, ha ricordato Trefiletti, ormai quella energetica "è un'emergenza nazionale", la Federconsumatori propone ancora di introdurre strumenti effettivi di tutela degli utenti. In particolare: la trasparenza delle bollette e l'applicazione del nuovo codice di condotta commeciale, un piano poliennale di risparmio energetico affiancato dall'introduzione di tariffe multiorario, l'introduzione della tariffa sociale per le famiglie economicamente svantaggiate.

Gas metano: le proposte. Quanto al gas metano, la Federconsumatori ritiene che bisognerebbe decisamente puntarvi, però "intervenendo sulle cause infrastrutturali e commerciali in Italia e in Europa in modo d'abbattere gli ostacoli per creare un mercato competitivo a livello europeo, coinvolgendo i Paesi produttori di metano".

Per superare i ritardi infrastrutturali, bisognerebbe poi costruire "almeno cinque rigassificatori in tempi certi nel quadro di previsioni con prospettive lungimiranti nonchè aumentare lo stoccaggio per far fronte alla modulazione stagionale".

Ridurre l'imposizione fiscale. Al governo, infine, la Federconsumatori chiede di "ridurre l'eccessiva imposizione fiscale che incide su ogni metro cubo di metano consumato per il 42%", e di ridurre l'Iva dal 20 al 10% per tutte le utenze domestiche.

18 settembre

Precari, aumentano in Europa
passano dal 13,7% al 14,5%

In Europa avanza il popolo dei precari: nel 2005 un salario su sette derivava da lavoro temporaneo, il 14,5% contro il 13,7% del 2004. Il lavoro precario dunque non rappresenta ancora la maggioranza degli occupati, ma la tendenza in tutti i paesi Ue è quella di un aumento costante dell'occupazione a termine. Anche in Italia (12,3%), dove tra l'altro il tasso di occupazione resta tra i più bassi del vecchio continente (57,6%) e dove si ingrossano le fila dei giovani in cerca di lavoro (33,6%). I dati vengono dall'Eurostat: il tasso di occupazione nella Ue-25 è del 63,8%, in leggero aumento rispetto al 2004 (63,2%). Pochi sono i paesi che hanno già raggiunto l'obiettivo indicato dall'agenda di Lisbona (70% entro il 2010), con la Danimarca che nel 2005 ha fatto registrare un tasso di occupazione del 75,9%. L'Italia, col il 57,6%, è al terzultimo posto: peggio del nostro paese solo Malta e Polonia. La Spagna sembra invece essere la «patria dei precari»: nel 2005 ben il 33,3% dei salari scaturiva da occupazione temporanea. Il lavoro a termine in tutta Europa riguarda soprattutto le donne, che in 17 stati membri sui 25 dell'Unione superano la quota degli uomini a tempo determinato. L'Italia, infine, appare in fondo alla classifica anche sul fronte dei disoccupati in cerca di lavoro: il 33,6% contro una media Ue-25 del 18,3%. Peggio di noi solo la Grecia (37,3%) a cui va la maglia nera.

 

I tedeschi mangiano riso ogm
Biotech Greenpeace scopre ogm illegali made in Usa in alcuni supermercati della Germania
Chicchi «firmati» Bayer Il riso illegale, vietato dall'Unione europea, è già nella catena alimentare. E proprio ieri il colosso tedesco, che ha messo in ginocchio i contadini americani, ha chiesto di regolarizzare il suo prodotto a contaminazione avvenuta. Coldiretti chiede più controlli ma rassicura i consumatori, le industrie invece tacciono
Luca Fazio
Chi cerca trova. E non deve essere troppo complicato, ironizzano gli attivisti di Greenpeace, se in pochi giorni un povera associazione ambientalista scopre per l'ennesima volta organismi geneticamente modificati illegali in territorio europeo. La nave bloccata nel porto di Rotterdam con 20 mila tonnellate di riso proveniente dagli Stati Uniti e inquinato dalla BayerCropScience, ai più ottimisti, poteva far pensare che in fondo i controlli funzionano. Invece è vero il contrario. Lo dimostra il fatto che anche il riso ogm della Bayer (il Liberty Link 601, «sfuggito» dai laboratori nel 2001 e mai approvato per il consumo) è stato trovato in un supermercato tedesco.
Le analisi, ieri mattina, hanno confermato tracce in alcune confezioni di riso parboiled a grana lunga Bon-Ri acquistate nei supermercati Aldi (la settimana scorsa, in Francia, Inghilterra e Germania, è stato trovato riso gm proveniente dalla Cina, con una proteina che aveva prodotto reazioni allergiche nei topi). Una notizia poco confortante proprio nel giorno in cui, a Bruxelles, la Commissione europea si è riunita per cercare di mettere a fuoco una situazione che ormai sembra sfuggita totalmente di mano.
Federica Ferrario, responsabile per la campagna ogm di Greenpeace Italia, ricorda che la Bayer è recidiva, sollecita le industrie ad analisi più puntuali e invita l'Unione europea a ritirare immediatamente dal mercato i prodotti che contengono riso statunitense contaminato. «La negligenza della Bayer - spiega - avrà pesanti conseguenze sull'industria del riso statunitense. Questo test positivo potrebbe essere solo il primo di una lunga serie. Esportatori, grossisiti e dettaglianti rischiano ora di fronteggiare pesanti costi per effettuare analisi e ritiri di prodotti, per non parlare di diminuzione delle vendite, riduzione dei prezzi, e diffidenza dei consumatori. Lo scandalo legato alla contaminazione con mais illegale StarLink, ha causato nel 2001 danni di circa mezzo miliardo di dollari. L'attuale vasta contaminazione del riso fa presagire un impatto ancora più pesante sull'industria del riso».
Il colosso tedesco, proprio ieri, con una mossa che ha dell'incredibile, ha cercato di correre ai ripari presentando una domanda formale al Dipartimento per l'Agricoltura degli Stati Uniti affinchè venga riconosciuto - a inquinamento avvenuto - il suo riso modificato. Una scorrettezza che sconcerta Simona Capogna, di Verdi Ambiente e Società. «Le autorità statunitensi - spiega - non solo sono state incapaci di evitare la contaminazione, ma sembrano ora voler stare al gioco dell'azienda, orientandosi verso la concessione dell'autorizzazione per il riso LL RICE 601. Come se non bastasse, dal rapporto fornito dalla Bayer, e ipocritamente pubblicato sul sito del Dipartimento, mancano pagine e dati cruciali».
Le industrie italiane non importano quel tipo di riso dagli Usa, ma l'ampiezza della contaminazione è tale che, sostiene Federica Ferrario, «si tratta di un chiaro messaggio per tutto il comparto risicolo: se non sta alla larga dagli ogm rischia danni enormi, perché, una volta che gli ogm entrano nella filiera alimentare, per rimuoverli bisogna affrontare un lavoro costoso, dunque è meglio prevenire a monte». Un discorso che però non viene recepito da tutte le aziende nostrane, visto che il presidente dell'Associazione Industrie Risiere Italiane, in questi giorni, ha ribadito la sua apertura nei confronti degli ogm.
Coldiretti, da parte sua, si affanna a ribadire che l'Italia è autosufficiente dagli Usa quanto a fabbisogno di riso. Rassicurati i consumatori nostrani, Coldiretti ritiene comunque necessario «rafforzare il sistema dei controlli con la rintracciabilità delle produzioni e l'etichettatura di origine degli alimenti». A questo punto è il minimo che si possa fare per «valorizzare la scelta ogm free fatta dall'agricoltura nazionale», come auspica la stessa organizzazione. Sempre che tutti i soggetti interessati siano dello stesso avviso.

 

Iran, chiuso l'ultimo giornale riformista
Due anni fa Shargh aveva accettato di autolimitarsi pur di restare in edicola, unica voce critica. Ora è al bando
Marina Forti
Una delle poche voci indipendenti della stampa iraniana è di nuovo zittita. Il «Consiglio per il controllo della stampa» presso il Ministero della cultura ha ordinato ieri la chiusura di Shargh («Oriente»), il più noto e diffuso quotidiano vicino all'opposizione riformista pubblicato a Tehran. Il direttore responsabile Mehdi Rahmanian ha dichiarato che farà appello, ma tra i giornalisti e collaboratori della testata pochi credono che il giornale possa tornare in edicola in tempi brevi - o forse mai. E tutti lo prendono come un ammonimento rivolto a tutte le voci dissenzienti verso l'attuale governo iraniano.
Il comunicato del Consiglio per il controllo della stampa afferma che i responsabili di Shargh erano stati avvisati. In effetti in agosto il Consiglio aveva emesso un ultimatum: «A causa di 70 casi di violazioni, tra cui insulti a dirigenti dello stato e figure religiose e nazionali, la pubblicazione di articoli blasfemi e di articoli atti a creare discordia», il Consiglio aveva ordinato al giornale di sostituire il direttore responsabile entro un mese. L'ultimatum scadeva appunto ieri. Rahmanian nega di aver contravvenuto all'ordine: proprio domenica aveva chiesto una proroga di due mesi per trovare un successore a se stesso. Nel suo comunicato, il Consiglio dei censori se la prende anche con una vignetta pubblicata giovedì scorso dal quotidiano, in cui si vede una scacchiera ai cui lati si guardano un cavallo e un asinello con un alone di luce attorno alla testa. Un riferimento derisorio al presidente della repubblica? Pare che l'anno scorso Mahmoud Ahmadi-Nejad abbia detto ai suoi collaboratori che durante il suo discorso all'Assemblea generale dell'Onu a New York si era sentito circondato da un alone di luce divina; la notizia era ampiamente circolata sui blog iraniani anche se fonti ufficiali l'hanno smentita.
Forse la vignetta è stata la goccia finale agli occhi del Comitato dei censori, ma la chiusura di Shargh fa parte di un attacco a ogni voce critica in Iran. La stampa è da sempre terreno di scontro politico - fin da quando le testate indipendenti erano fiorite con la presidente dal riformista Mohammad Khatami e la magistratura, controllata dai settori più conservatori dello stato, si era accanita: dal 1999-2000 almeno un centinaio di giornali sono stati chiusi, decine di giornalisti arrestati, anche se nuove testate sono state aperte in un braccio di ferro continuo. I censori hanno poi preso di mira i notiziari online e perseguito i «giornalisti internet». Da quando poi si è insediato il governo di Ahmadi-Nejad, i direttori sono stati convocati regolarmente per sentirsi dire quali argomenti trattare e come; inutile dire che su questioni come il nucleare non sono ammesse voci discordanti. Proprio ieri il giornale online Rooz (notizie e commenti sia dall'Iran che dalla diaspora democratica) riferiva che il Ministero della cultura ha emanato una nuova direttiva in cui si elencano le fonti «affidabili e valide» a cui la stampa dovrà attenersi, cioè le sole agenzie di stampa governative: in sostanza fa divieto di citare qualunque fonte indipendente.
Shargh restava come una voce relativamente aperta, l'unica dove si trovano commenti critici sui fatti della vita nazionale (benché sempre un po' tra le righe). Il direttore Mohammad Ghouchani e il caporedattore politico Mohammad Atrianfar sono noti intellettuali d'opposizione.
La pubblicazione era il risultato di una sorta di contrattazione politica: Shargh (che secondo notizie difficili da confermare era sostenuto da imprenditori vicini al «pragmatico» ex presidente Hashemi Rafsanjani) era stato chiuso dalla magistratura il 18 febbraio 2004, due giorni prima delle elezioni legislative, per aver pubblicato il testo di una dura lettera alla Guida Suprema, l'ayatollah Khamenei, letta in parlamento dai deputati ribelli che criticavano il Consiglio dei Guardiani per aver escluso i candidati riformisti. Quella volta il direttore Rahmanian era andato a incontrare il procuratore generale di Tehran (ed ex capo del tribunale per la stampa) Saeed Mortazavi, aveva accettato di fare tante scuse per aver quel testo «offensivo», e il giornale era stato autorizzato a tornare in edicola. Ovvero, i giornalisti di Shargh avevano deciso che un giornale con qualche autocensura era pur sempre meglio che nessun giornale. Questa volta sembra che anche lo spazio di contrattazione politica dell'autocensura sia finito.

 

Incontaminato e difficilmente raggiungibile
il Sani Pass collega il Sudafrica al Lesotho
In nome del Mondiale del 2010 asfaltano il passo più alto d'Africa
Le proteste delle comunità locali e degli ambientalisti
Le leggende intorno a questo colle, i riti che ancora resistono

FABIO MARZANO

Quando la sterrata finisce, ai lati iniziano le colate di ghiaccio. Poi si apre l'altipiano, un circo senza orizzonte e senza alberi costellato da montagne e picchiato dal vento. Una decina di capanne spesso immerse nella neve ospitano i funzionari di frontiera, uno chalet accoglie i pochi turisti infreddoliti che si avventurano a quota 2900, fino al Sani Pass, passaggio di confine tra il Sudafrica e il Lesotho. E' uno dei luoghi più incontaminati dell'Africa del sud, protetto perché quasi inaccessibile.
Le jeep procedono con cautela, la strada non ha protezioni, la carreggiata non lascia spazi a manovre e impone un certo virtuosismo al volante. Un isolamento che ha fatto di questo colle una leggenda. Ora però i lavori per asfaltare il Sani Pass, finanziati dai governi dei due paesi, partiranno verso Natale per concludersi in tempo per i Mondiali di calcio del 2010 in Sudafrica.
Il progetto dovrebbe incentivate il turismo in Lesotho, una monarchia di pastori che si sviluppa su un territorio oltre i 1000 metri di altitudine. Un intervento contestato da comunità locali, associazioni ecologiste e dai tour operator della zona.

L'assenza di una valutazione preliminare sull'impatto ambientale, il via-vai dei camion e il traffico rischiano di compromettere un'area unica per storia e biodiversità. Dall'altra, il governo del Lesotho è deciso a sfruttare l'opportunità della Coppa del Mondo per farsi spazio nel mercato dell'accoglienza, e il Sani Pass dovrebbe essere una delle punte di diamante di questa operazione di restyling.
Unica via di collegamento tra il Lesotho e la provincia sudafricana del KwaZulu-Natal, sarà candidata a sito di interesse nazionale e a patrimonio dell'umanità. In oltre 10 anni ci sono stati solo 14 incidenti. Ma operatori turistici e amministratori temono che si tratti di cifre destinate ad aumentare quando sarà percorribile da tutte le auto.
Oggi i visitatori, oltre la linea di frontiera possono fermarsi al Sani Top Chalet (www. sanitopchalet. co. za), considerato il pub più alto d'Africa, e punto di partenza privilegiato per salire sulla cima del Thabana Ntlenyana (3482 metri), l'elevazione più importante a sud del Kilimanjaro.
L'ultimo San della zona, la tribù di boscimani che da sempre viveva su queste montagne e da cui prende il nome il passo oggi abitato dalla popolazione Sotho, è stato ucciso dai coloni a metà Ottocento. Nel 1955 il primo varco venne aperto da David Alexander, il fondatore di una compagnia di trasporti che garantiva gli scambi tra Lesotho e Sudafrica. Negli anni Settanta, poi, la strada viene ampliata fino a Mokhotlong, primo centro abitato a oltre 100 chilometri dal Sani Pass.

Una località remota, in passato epicentro del liretlo, il cosiddetto omicidio medicinale, uno dei riti più controversi di questo territorio. Per assicurare efficacia a sortilegi e pozione veniva asportata la carne di un uomo assassinato, non sacrificato. Un fenomeno a cui i due antropologi Colin Murray e Peter Sanders hanno di recente dedicato lo studio più completo, "Medicine murder in Lesotho: the anatomy of a moral crisis" (Edinburgh University Press, 2005).

 

Sfruttamento, degrado: un lungo elenco di mancanze
Il nostro Paese detiene il record di segnalazioni dell'agenzia Onu
"Allarme abusivismo e incuria"
l'Unesco boccia i siti italiani
di MARIA NOVELLA DE LUCA

ROMA - "Sapete quale è l'ultima beffa? Case costruite su terreni vincolati, in aree definite patrimonio dell'umanità, e poi vendute con il marchio Unesco come valore aggiunto. Senza vergogna...". Scherza amaro il professor Giovanni Puglisi, presidente della commissione italiana per l'Unesco, riferendosi alle nuove speculazioni edilizie della Val D'Orcia, alla fine di un'estate dove gli allarmi sul degrado dei siti inseriti nelle liste del world heritage, sono diventati una vera e propria emergenza.

Dai centri storici snaturati dal turismo di massa come San Gimignano, che ad agosto ha registrato un tale incremento di presenze "mordi e fuggi"da far temere per la sopravvivenza del borgo stesso, alle 42 villette con piscina pronte ad essere edificate a Corniglia, nelle Cinque Terre, in quel fragile lembo di Liguria ancora immune (quasi) dagli sfregi del cemento, l'intera lista italiana dei 41 siti che vantano il marchio di patrimonio dell'umanità gode di cattiva salute. L'ultima notizia, in ordine di tempo, arriva da Matera, dove Legambiente ha denunciato la costruzione di un parcheggio sotto i Sassi, inseriti nella lista Unesco nel 1993, recuperati, restaurati, ora di nuovo in pericolo.

Ma questi sono solo gli ultimi esempi, perché ricorda Giovanni Puglisi, "ci sono luoghi non soltanto a rischio ma che potrebbero essere espulsi dalle liste del patrimonio mondiale, come Lipari, dove tuttora non è risolta l'annosa questione delle cave di pomice, o l'area delle Ville Palladiane, se verrà approvato il progetto di un'autostrada che dovrebbe tagliare in due tutta la zona, e quindi distruggere giardini e paesaggi". E perdere il "marchio" Unesco non è cosa da poco se si pensa che poter scrivere su un depliant che quel borgo, quel castello, quel centro storico, quell'isola fanno parte del world heritage, fa aumentare del 30% i flussi turistici. E invece è proprio a ridosso di quei siti che si concentra la corsa al mattone, si continua a costruire attorno, vicino, a ridosso all'opera d'arte, per riuscire a portare il turismo dei pullman e dei grandi numeri proprio sul luogo, quasi dentro l'area archeologica, incuranti di vincoli e bellezza, come è avvenuto nella Valle dei Templi ad Agrigento.

Ma che cosa può fare l'Unesco? Puglisi è realista: "Io sono sommerso da un martellamento costante di segnalazioni di abusi e violazioni, che possono portare anche all'espulsione dalle liste. Eppure questo non sembra essere un deterrente abbastanza forte, perché in realtà si continua a costruire dappertutto, ad ogni condono edilizio c'è un pezzo di Italia che scompare. Attenzione, non è giusto museificare i luoghi artistici e storici, ma so deve fare una tutela vera, a cominciare da un turismo di flussi programmati, quella che io chiamo versione omeopatica del numero chiuso".

In realtà quello che sta succedendo è che si cominciano a vedere gli effetti del condono approvato dal governo Berlusconi, l'edilizia sembra avere un nuovo boom, una valanga di cemento che non risparmia neppure, appunto, i siti patrimonio dell'umanità. Ma l'attacco al Belpaese non è appannaggio soltanto del centrodestra. A Monticchiello è un sindaco Ds a difendere il nuovo insediamento abitativo di 95 villette già in costruzione alle porte del minuscolo borgo di 150 abitanti, affermando che si tratta di case per le giovani coppie del paese, altrimenti costrette ad emigrare. E forse era questo il progetto iniziale, eppure le vendite sul mercato locale sono state pochissime, e le abitazioni vengono invece cedute a stranieri e forestieri anche, come raccontava Giovanni Puglisi, con la segnalazione che si tratta di appartamenti che "sorgono in una zona definita patrimonio dell'umanità". A Corniglia la battaglia sui seimilacinquecento metri quadrati di villaggio turistico che dovrebbe essere costruito su un pezzo di costa a ridosso di una collina franosa, è tutta interna alla sinistra, che difende il progetto, e gli ambientalisti che, in parte, cercano di impedirne l'attuazione.

Sono soltanto alcuni casi. Perché si dovrebbe parlare di Ercolano, del Cilento, della Costiera Amalfitana... "Il marchio dell'Unesco - conclude Puglisi - ha una forte valenza culturale e simbolica, e la commissione può decidere di espellere dalla lista i siti non adeguatamente tutelati, ma sugli abusi devono intervenire le soprintendenze e le procure della Repubblica, e ci vogliono sanzioni forti". Chissà. Per adesso tra le "vestigia" dell'umanità spuntano residence, alberghi, casette a schiera e campi da tennis.

 

12 settembre

Più scippi che progetti

di Leo Sisti
Gli incontri di Napolitano. Le richieste a Prodi. Ma criminalità e spazzatura dilagano. Un anno dopo, stessi problemi. E si spera nel soccorso del governo

Sconti fiscali e le aziende verranno

Colloquio con Antonio Bassolino
"A Scampia sorgerà la nuova sede della facoltà di Medicina per il corso di laurea di Scienza della nutrizione. È un progetto dell'architetto Vittorio Gregotti, un investimento da 21,4 milioni di euro, già assegnati, proveniente dai fondi europei". Parla Antonio Bassolino (nella foto a destra), presidente della Regione Campania. Non nasconde la sua reazione al servizio de 'L'espresso' del settembre 2005. E dice: "Napoli è una città che ha diverse facce. Si sbaglia quando se ne vede una sola. Il turismo cresce. Ci sono scippi e furti. Ma c'è anche una realtà culturale". Basta alzare gli occhi dietro di lui, nella sede di Santa Lucia, per scorgere un'opera di Mimmo Paladino, artista campano, di un rosso intenso. Ed è proprio sui grandi progetti che il governatore preferisce disgnare il futuro della Campania e di Napoli. ...
 
Per il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano doveva essere un tranquillo periodo di relax. Dal 20 al 30 agosto dieci giorni da trascorrere nella sua Napoli, a Posillipo nella quiete di Villa Rosebery, il 'Quirinale estivo'. Un'occasione anche per incontrare personaggi delle istituzioni e amici, scambiare idee e affrontare i problemi della città, prima di tutto con Antonio Bassolino, presidente della Campania. Ma la lettura della cronaca dei giornali deve aver provocato nel capo dello Stato pur dotato di aplomb inglese, un senso di irritazione. Martedì 22 agosto: 'Turisti norvegesi scippati e picchiati', in piazza Garibaldi. Mercoledì 23: 'Scippa quattro donne in un'ora'. In serata il primo cittadino d'Italia riceve un altro ospite locale, il vicesindaco Tino Santangelo. Giovedì 24, alle 10 del mattino accoglie a Villa Rosebery il cardinale Crescenzio Sepe. Nell'arco di poche ore succede di tutto: baby gang in azione; una ragazzina di 17 anni con i capelli impigliati nello scooter di un teppista che voleva arraffare la sua borsetta. Stesso genere di notizie nei quotidiani del 25, 26, 27 e 28 agosto, un lunedì quando il presidente visita le sale del Madre, il nuovo Museo d'Arte Contemporanea voluto da Bassolino e ricco di opere di Kounellis, Paladino, Schifano, Rauschenberg, Fontana e altri. La cultura, almeno quella, c'è.

Un anno dopo 'Napoli addio', il servizio di copertina che ha denunciato la drammatica situazione del capoluogo campano ed è stato accolto da insulti, ma anche da plausi, 'L'espresso' ritorna sul 'luogo del delitto'. Per verificare che cosa è cambiato. Per registrare umori e malumori. Per vedere quali idee circolano per uscire dal tunnel. Perché oggi, se le tante emergenze della città rimangono a livello di guardia, lo scenario politico intorno a Napoli e alla Campania è cambiato parecchio: Romano Prodi ha vinto le elezioni; al Quirinale è salito appunto Napolitano. Al Comune Rosa Russo Iervolino è stata riconfermata sindaco. Come Antonio Bassolino, rinominato alla guida della Regione nel 2005. Il centrosinistra governa quindi dappertutto, a Roma come a Napoli.
 
Almeno sulla carta, quindi, la città può contare su sponsor eccellenti. Che per ora moltiplicano incontri e segnali di attenzione. Lo scorso primo agosto Bassolino, insieme ai presidenti delle altre regioni meridionali, ha discusso con Prodi, Confindustria e sindacati il cosiddetto Patto per il Mezzogiorno, ovvero un pacchetto di proposte per lo sviluppo: infrastrutture, fiscalità differenziata, recupero aree urbane degradate, ricerca e innovazione. Il 30 agosto c'è stato un meeting tra il sottosegretario Enrico Letta e l'assessore regionale ai Trasporti Ennio Cascetta. Il 4 settembre la Iervolino ha visto Prodi. Il sindaco tiene molto ad alcune misure urgenti: legge speciale e dichiarazione dello stato di emergenza per traffico e viabilità. Nello stesso giorno vertice tra Iervolino, Bassolino e il ministro, anche lui napoletano, dell'Innovazione, Luigi Nicolais. L'8 settembre, è previsto un Consiglio dei ministri dedicato al Mezzogiorno. Mentre in ottobre il Consiglio dei ministri si riunirà in trasferta a Napoli.

Progetti, finanziamenti, grandi opere. È questa la ricetta sul tavolo. I programmi sui trasporti li spiega a 'L'espresso' l'assessore Cascetta: "Dal dicembre 2005 con un treno di alta velocità Roma e Napoli sono collegate in un'ora e 15 minuti. Dal 2008 in sessanta minuti. Il 27 luglio i ministri Di Pietro e Bianchi hanno firmato il protocollo per la realizzazione della Napoli-Bari. Se tutto va bene, entrerà in funzione nel 2013. Tempo di percorrenza: meno di due ore". Poi c'è il capitolo sugli aeroporti. Capodichino si trasformerà in 'City airport', non potendo estendersi più di tanto. Un ruolo più strategico lo giocherà il nuovo aeroporto di Grazzanise, nel Casertano, per i voli intercontinentali, se mai vedrà la luce. Terzo polo aeroportuale, per voli turistici, Pontecagnano. Sono grandi progetti da un miliardo di euro, già avanzati al ministero delle Infrastrutture.

E la metropolitana di Napoli? Dal '94 a oggi inaugurati 15 chilometri di binari e 20 stazioni. Bisognerà attendere però fino al 2011 per avere, giurano gli esperti, nove linee, 100 stazioni e 90 chilometri di binari. Ma occorrono subito due miliardi di euro. Ora tutto questo, se avverrà, rientrerà nel grande piano che vede la Campania avviare un programma di investimenti per 22 miliardi di euro, di cui già 4,5 spesi, al ritmo di 800-900 milioni all'anno, tra fondi europei, nazionali e regionali, con cantieri che generano 6-7 mila posti di lavoro all'anno. "Abbiamo imparato a utilizzare le risorse dell'Unione europea", commenta Isaia Sales, consigliere economico di Bassolino, ex sottosegretario ds nel primo governo Prodi. Eppure i fondi della Ue non bastano, ci vogliono anche quelli di Roma: per battere la discoccupazione. E qui entra ancora in ballo Prodi. Perché la Finanziaria, entro la fine di settembre, dovrebbe ulteriormente aprire i cordoni della borsa.

Poi ci sono le dolenti note. Prima di tutto, il destino della aree urbane di Bagnoli e Napoli est: troppi i ritardi accumulati per una soluzione riguardante zone inquinate da precedenti insediamenti industriali, Italsider e raffinerie. Le altre preoccupazioni della città sono quelle di tutti: sicurezza e rifiuti. Il 4 settembre tre omicidi, uno nel quartiere bene del Vomero. I furti in generale saranno pure in calo, ma sono in consistente aumento quelli nei negozi e nei supermercati. Perché? Oscar Fioriolli, questore di Napoli, lo spiega a 'L'espresso': "Non sono solo i 'professionisti' ad agire, ma anche chi ha esigenze di sopravvivenza". E poi le rapine. Continua Fioriolli: "Quelle di strada sono sempre di più commesse da minori, tra i 14 e i 18 anni. Anche lo scippo sta cambiando modalità di esecuzione, spesso entra in ballo la violenza gratuita". Altro fatto. Il giorno di Ferragosto sono state controllate, a caso, 350 persone. Di queste ben 215 erano pregiudicati. Per il controllo del territorio ora si punta molto su una novità di queste settimane: in alcuni quartieri di Napoli verranno installate le prime videocamere, collegate con la polizia. Tra l'altro i loro lettori ottici 'leggeranno' le targhe delle auto, individuando quelle rubate.

E poi l'infinita emergenza rifiuti, che sta tanto a cuore al presidente Napolitano: è un nodo irrisolto da ben 14 anni. Odori, miasmi, tossicità e roghi per le strade. Con, sullo sfondo, l'occhio vigile della camorra. Attualmente a Napoli la raccolta differenziata è appena all'8 per cento. I rari cassonetti destinati a vetro, plastica e carta, piazzati nelle vie, traboccano. Le altre immondizie invece contribuiscono a formare cloache a cielo aperto. "Bisognerebbe arrivare alla sufficienza, che è una media del 35 per cento", dichiara a 'L'espresso' Corrado Catenacci, commissario straordinario per questa emergenza in Campania. Poi ci vogliono gli impianti per trattare i rifiuti della raccolta differenziata. Ma dove finisce il resto della monnezza? Il 55 per cento nelle discariche, tra le proteste della popolazione locale. Ecco allora la necessità dei termovalorizzatori che trasformano rifiuti in energia. Nella primavera 2007 entrerà in funzione quello di Acerra. Per gli altri due altri ci vorrà più tempo, uno a fine 2008 e l'altro nel 2009. Troppo.

Napoli è oggi tutto questo. A differenza di un anno fa però si trova in mezzo a una congiuntura politica senza precedenti. Marco Oddati, assessore comunale al Lavoro e alla Cultura, ne è convinto: "Con il mio 'Laboratorio', un osservatorio locale, siamo partiti dalle reazioni contrarie al vostro reportage, non scandalistico, che avrebbe dovuto spronare la città e spingere i centri di potere ad avere coraggio. Quando, se non adesso, Napoli può fare il salto di qualità?". In altre parole, non ci sono più alibi.

ha collaborato Mario Fabbroni

11 settembre

Triste primato nel Sud e nelle isole. Sotto accusa uscite di emergenza,
facciate e misure antisisma. Dossier annuale di Cittadinanzattiva

Scuole, allarme sicurezza
fuorilegge un edificio su due


ROMA- La classifica della sicurezza nelle scuole non è certo incoraggiante: è più di una scuola su dieci, infatti, ad essere poco sicura e più di un quarto degli edifici a non raggiungere nemmeno la sufficienza. E' quanto emerge dall'ultimo Rapporto sulla sicurezza scolastica di Cittadinanzattiva, che sarà presentato il prossimo 28 settembre con una conferenza stampa a Roma.
Se la maglia nera è certamente 'indossata' dagli istituti del Sud e delle isole, la mappa dell'insicurezza scolastica non risparmia, però, nessuna regione della Penisola.

I certificati mancanti. Le scuole incriminate mancano soprattutto di certificati di agibilità statica (il 53% degli edifici ne è privo, una scuola su due), di agibilità igienico-sanitaria (assente nel 52% dei casi) e di prevenzione incendi (assente nel 64% delle scuole).

Uscite di emergenza. Nel 17% dei casi, in particolare, sono le uscite di emergenza a mancare, nel 12% le scuole non possiedono scale di sicurezza oppure, nel 15% le scale sono riservate solo ad alcune parti dell'edificio e non ne coprono, quindi, la totalità.
E non sono solo uscite e scale ad essere danneggiate o fuori norma, anche le facciate interne o esterne del 25% delle scuole versano in condizioni di degrado, con lesioni strutturali, e nel 41% si riscontrano crolli dell'intonaco.

Misure antisisma: il forum di Constructa. E un altro tema caldo in termini di sicurezza nelle scuole è l'attrezzatura degli edifici in caso di sisma, fanno sapere gli esperti di Constructa, forum delle costruzioni attento alle innovazioni a 'misura d'uomo'. In Italia, infatti, circa il 70% degli edifici scolastici non sono stati progettati per resistere al terremoto. Il 60% può sopportare scosse medie, ma solo il 30% di quelli costruiti dopo il 2003 rispetta criteri antisismici adeguati, come prevedeva la normativa entrata in vigore in quell' anno. A novembre il forum chiamerà a raccolta i protagonisti delle costruzioni, invitandoli a discutere delel tecnologiche e delle ricerche volte a migliorare gli edifici scolastici.

Le richieste di Ciitadinanzattiva. "Al ministro, che in questi giorni ha ribadito la impraticabilità dei tagli per la nostra scuola, chiederemo risorse aggiuntive per mettere in sicurezza gli edifici -dice Adriana Bizzarri, responsabile Scuola di Cittadinanzattiva - Fondi da reperire, ad esempio, facendo ricorso alla fiscalità ai diversi livelli o rinunciando ad alcune grandi opere, oppure proponendo ad imprese private e cooperative, nell'ambito di programmi di responsabilità sociale, di contribuire all'adeguamento delle nostre scuole, mediante forme di adozione di esse o parte di esse'.

Fioroni: questione prioritaria. Il ministro della Pubblica Istruzione ha più volte ribadito la sua consapevolezza riguardo il problema della sicurezza degli edifici scolastici. Anche oggi, in occasione dell'apertura dell'anno scolastico, ha ribadito che per il governo questa deve essere una priorità per la quale stanziare fondi.

9 settembre

Bush lancia l'offensiva della paura
Stati uniti «Ci voleva tanto per arrivare a questo?» Le «rivelazioni» di Bush sulle carceri segrete non scaldano Washington. E ora parte la lotta per celebrare i processi ai «terroristi», con le elezioni alle porte
Franco Pantarelli
«Spurgato da tutta la retorica, il discorso di George Bush è stato sostanzialmente un mea culpa», ha detto la senatrice democratica della California Dianne Feinstein. «Che per arrivare a questo ci siano voluti una senteneza della Corte suprema, una legge che bandisce la tortura e il pubblico sdegno è semplicemente vergognoso», ha fatto eco la deputata Jane Harman, anche lei democratica della California. Dopo che l'altro giorno il presidente americano Bush ha «rivelato» l'esistenza delle prigioni segrete della Cia, di commenti simili ieri ce ne sono stati a bizzeffe e i cronisti che passano le loro giornate fra Congresso e Casa bianca li hanno diligentemente annotati. Per loro, oltre tutto, c'è stato il tempo per un piccolo rituale. Ogni volta che un cronista arrivava in sala-stampa trovava subito un collega che gli mostrava un foglietto e poi attendeva la reazione. La quale arrivava subito sotto forma di una fragorosa risata: il foglietto era una dichiarazione del portavoce della Casa bianca in cui si spiegava che «l'iniziativa del presidente» non aveva niente a che fare con le elezioni in arrivo.
Chi invece non rideva per niente erano i politici che dalle elezioni si aspettano una conferma del loro posto al Congresso. La mossa di Bush, per scoperta che sia, ha infatti la possibilità di influenzare il dibattito elettorale soppiantando nel rango di «tema numero uno» il problema Iraq con quello della «lotta al terrore», che significa lo sfruttamento, ancora una volta, della «carta del terrore», sicuramente meno efficace di un tempo ma pur sempre meglio di qualsiasi altra. L'altro ieri la Casa bianca - praticamente nello stesso momento in cui Bush stava dicendo che alcuni detenuti delle prigioni segrete erano stati trasferiti a Guantanamo, che nei loro confronti sarebbero state rispettate le norme della convenzione di Ginevra e che le istruzioni che verranno date agli addetti agli interrogatori saranno improntate a un «principio di umanità» - ha fatto pervenire al Congresso una proposta di legge che stabilisce ufficialmente la nascita delle «commissioni militari», cioè quelle che Bush ha creato a suo tempo senza chiedere il permesso a nessuno e che la Corte suprema ha bollato come illegali.
Erano svariate le ragioni della loro illegalità elencate dall'alta corte, ma Bush ne ha accolta solo una: il fatto che le commissioni militari non fossero state create con una legge votata dal Congresso. Ora la possibilità di correggere le cose c'è, ha detto in pratica la Casa bianca. Basta votare la legge da noi proposta. E' un trucco, naturalmente, perché nella legge presentata le brutture delle commissioni militari che nessun tribunale «normale», civile o militare che sia, contempla, sono tutte ancora lì: contro gli imputati possono essere presentate come prove effettive le informazioni estorte con la tortura, si possono formulare le accuse senza provarle in nome della sicurezza nazionale (in pratica, sei colpevole perché lo dico io) e si prevede anche l'immunità per i torturatori che finora hanno lavorato indisturbati.
I democratici una cosa del genere non possono ovviamente accettarla, né possono farlo personaggi come i senatori repubblicani John McCain, Lindsay Ghraham e John Warner che hanno già presentato una loro proposta di legge sulle commissioni militari che fa a pugni con quella di Bush. Ma il dilemma, come hanno detto un po' tutti commentato dopo l'uscita di Bush, «non è sui principi ma sulla convenienza elettorale». E' possibile conciliare la resistenza contro la legge che Bush vuole (i deputati e senatori a lui vicini hano già cominciato a spingere per approvarla prima della chiusura elettorale del Congresso) e la propria rielezione? Se il pubblico si farà di nuovo prendere dalla paura e mostrerà di voler vedere sulla forca i detenuti «di alto profilo» che sono stati trasferiti a Guantanamo, le due cose non si conciliano: o si approva la legge di Bush o si viene sconfitti nel voto. Se invece gli americani rifiuteranno di farsi prendere in giro ancora una volta, non solo resistenza a Bush e rielezione si concilieranno ma addirittura si aiuteranno a vicenda.
Gli ultimi sondaggi (se ne parlava già ieri) mostrano che la gente disposta a credere ancora a Bush diminuisce costantemente, ma la grande «offensiva della paura» della Casa Bianca è appena cominciata.

 
Carceri Cia, l'Europa si sveglia
Dopo le ammissioni di Bush, alcuni europarlamentari cominciano a pretendere spiegazioni
La Commissione europea continua con le mezze parole, i parlamentari di sinistra vogliono dati, luoghi e complicità, quelli di destra zittiscono di colpo

Alberto D'Argenzio
Le parole di Bush non smuovono ancora Bruxelles, lato Commissione, mentre da Strasburgo il parlamento europeo e il Consiglio d'Europa chiedono con maggior vigore alle capitali del vecchio continente di fare chiarezza sulla loro ormai inevitabile implicazione nelle attività della Cia. «E'proprio dei criminali e non dei governi democratici» sequestrare e torturare delle persone in centri segreti, accusa René Van der Linden, presidente dell'assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa, l'istituzione (che non ha nulla a che vedere con la Ue) che per prima ha lanciato il sasso delle indagini sulle operazioni segrete dell'intelligence Usa. Claudio Fava, eurodeputato Ds e relatore del rapporto sulla Cia per conto della Commissione ad hoc del parlamento europeo, usa l'ironia e invita Bush «a presentarsi come prossimo ospite» nelle audizioni della sua commissione. Dall'Eurocamera si levano altre affermazioni fatte di un misto di soddisfazione per averci visto giusto e di preoccupazione per le reticenze delle capitali europee, ma sono voci che si levano quasi solo dal centro-sinistra mentre la destra in gran parte tace. I suoi argomenti, riassunti nello slogan «è propaganda antiamericana», sono di colpo invecchiati.
Tra parlare e tacere, la Commissione invece sceglie di dire poco, e sempre le stesse cose. Ieri Friso Roscam-Abbing, portavoce del commissario alla giustizia Franco Frattini, ha infatti ripetuto la solita litania: «Noi non abbiamo poteri di inchiesta, possiamo solo chiedere agli stati membri la piena cooperazione nelle indagini, visto che in alcuni paesi sono in corso inchieste penali e parlamentari. Da novembre Frattini in ogni riunione dei ministri degli interni dei 25 ha chiesto questa piena collaborazione». In cambio le capitali hanno offerto solo reticenza o giuramenti di non saperne nulla. Poi la difesa si fa ancora più precaria: «Bush non ha precisato dove si trovano queste prigioni, sappiamo che si tratta anche di Europa ma niente è ancora chiaro per ora».
Le parole sono misurate, studiate, imbarazzate, una reazione che rispecchia l'ampiezza della posta in gioco. Da un lato la faccia dell'Europa, le sue velleità di superiorità morale sventolate in giro per il pianeta e che impongono chiarezza sulla vicenda, e dall'altro le conseguenze che potrebbero (e dovrebbero) essere durissime per alcuni paesi, qualora le accuse di complicità con la Cia venissero confermate. L'articolo 7 del Trattato prevede infatti delle severe sanzioni, che possono arrivare fino alla sospensione del potere di voto nel consiglio, per quei paesi che si macchiano di «violazioni gravi e persistenti dei diritti fondamentali e dello stato di diritto». «Si potrebbe applicare l'articolo 7 - si lascia andare il portavoce di Frattini - ma è presto, bisogna capire chi è il responsabile». Per ora vengono naturali i nomi di Polonia e Romania, i due paesi in cui si troverebbero le carceri segrete, che hanno sempre fieramente negato qualsiasi implicazione e che saranno a breve visitati dalla commissione del parlamento europeo. Se le carceri e le coperture governative venissero individuate, Varsavia rischierebbe le sanzioni (anche se il meccanismo non è proprio semplice) mentre Bucarest, in predicato di entrare nella Ue l'anno prossimo, potrebbe vedersi rimandare l'agognato ingresso nel club europeo. Ma anche altri paesi possono vedersela brutta, sia per i voli che per i sequestri, come quello di Abu Omar.
Su questa strada procedono invece con decisione il parlamento europeo e il Consiglio d'Europa. «I governi europei ora devono dire dove si trovano le prigioni utilizzate dalla Cia per il sequestro dei presunti terroristi», afferma Giusto Catania, eurodeputato di Rifondazione comunista. «E' necessario andare fino in fondo per accertare le responsabilità degli esecutivi europei e di quello italiano nella creazione e gestione delle prigioni segrete illegali», insiste Marco Cappato della Rosa nel pugno.

Russia
Sommergibili atomici, doppio disastro
Giornata catastrofica per la marina militare russa e in particolare per i suoi sommergibili nucleari. Ieri mattina uno di essi, il St. Daniil, in navigazione nel Mar di Barents, ha visto svilupparsi un incendio a bordo (pare per un corto circuito elettrico): nel tentativo di spegnerlo due marinai sono morti asfissiati. L'incendio è stato successivamente domato senza perdite di radioattività, secondo il comandante della flotta Vladimir Masorin, e l'unità rimorchiata senza problemi fino al porto di Vidyaijevo. Lo stesso ammiraglio ha poi ammesso che il sommergibile non aveva svolto le operazioni di manutenzione nel tempo previsto. Nel pomeriggio un altro sommergibile - il Dmitrij Donskoi, cioè il «top» della flotta strategica russa - ha eseguito un test di lancio del nuovo missile balistico strategico Bulava (capace di portare dieci testate nucleari per 8mila km), che però è fallito, come ha confermato lo stato maggiore della marina.  

7 settembre

L'ex premier scocciato dalle beghe interne e dall'approssimarsi del settantesimo compleanno
Solo poche settimane fa il Cavaliere si è detto stanco di pagare da solo il prezzo delle sconfitte

L'afasia politica del Cavaliere
"All'opposizione ci si ammala"

dal nostro inviato FILIPPO CECCARELLI

<B>L'afasia politica del Cavaliere<br>"All'opposizione ci si ammala"</B>

Silvio Berlusconi

CAORLE - Quando un uomo pubblico sta per compiere settant'anni ogni debolezza, ogni cautela, ogni rinvio, ogni diniego, ogni malanno, insomma tutto non solo si nota di più, ma finisce anche per acquistare un inesorabile, imprevedibile e incontrollabile valore simbolico. Così, patologica o diplomatica che sia, la tracheite che ieri ha tenuto lontano Berlusconi dal festival della Margherita rivela come meglio non si potrebbe l'afasia della politica del Cavaliere.

La sua rinuncia, il suo silenzio, il suo imbarazzo. E magari perfino la sua paura è stata messa a nudo da quella sua presunta indisposizione bronchiale. Non si è perso moltissimo, è vero. Il maestoso campanile nella piazza dell'arcivescovado al tramonto; le sapide battute di Mentana sugli incidenti alle corde vocali dei tenori; gli allegri ricordi di Rutelli su altri due confronti andati a monte; l'applauso di una platea senz'altro civile e ospitale, applauso che il leader della Margherita ha sollecitato giulivo in assenza del suo contraddittore; e il calamaro fritto "da passeggio", specialità gastronomica locale.

Ma poi, soprattutto: cosa mai avrebbe potuto dire di convincente Berlusconi? E più in generale: cosa trattiene "nonno Silvio" dal sentirsi di colpo irrilevante, se non addirittura superfluo?
In politica estera il governo di centrosinistra gli ha rovesciato del tutto la linea dall'Europa al Medioriente; e contro le sue previsioni gli Stati Uniti continuano a fare buon viso. E buonissimo - non dev'essergli sfuggito - appare il viso di Condoleezza Rice nei confronti di D'Alema, mentre Cossiga chiama Rutelli "l'amerikano". Sull'economia, tutto si svolge ormai nel campo della maggioranza, allargato al massimo a qualche professore di sinistra.

Nessuno gli chiede nemmeno un consiglio sulle pensioni. Gli industriali guardano da un'altra parte. Le gerarchie ecclesiastiche alzano gli occhi al cielo. Per quanto riguarda Forza Italia, ancora poche settimane orsono Berlusconi s'è detto "stanco" - ed era un eufemismo - di pagare tutto sempre solo lui. Come risposta, qualche ingrato ha proposto la rivoluzione. Nel frattempo diverse fazioni di parassiti si guardano in cagnesco.

In tali condizioni, si capisce, è normale - per non dire umano - perdere la voce e dare forfait. Ma qualcosa di significativo filtra lo stesso dalla cortina di silenzio. Una frase che qui si riporta di seconda mano, quasi di contrabbando, e che il Cavaliere ha forse pronunciato, nel corso di una comunicazione pure a base di cortisone e altre articolazioni sanitarie, per farsi perdonare la buca. Una sentenza un po' scherzosa e un po' amara, di quelle che possono venire in mente solo a chi possiede a fondo il gusto del comando: "Sai - ha dunque detto Berlusconi al suo perplesso interlocutore - ritrovarsi all'opposizione fa ammalare".

A occhio sembra la variante post-moderna, e quindi al tempo stesso evocativa e carnale, dell'antico e cinico adagio andreottiano, "il potere logora chi non ce l'ha". Gli americani lo misero anche in bocca a un killer che nel Padrino (parte 3) strangolava un rivale con un filo di nylon. Nel Cavaliere, certo meno elegante del Divo Giulio, il motto si riveste di un qualche vittimismo infantile, lamentoso, piagnucolante. Ma il senso è lo stesso, e per una volta ha anche il pregio di suonare sincero. Perdere il comando fa venire fuori un sacco di acciacchi.

Se Berlusconi non ha voce né parole, è anche perché in quest'ultimo scorcio d'estate è di cattivo umore. Com'è noto, il prossimo 29 settembre, giorno dedicato all'Arcangelo oltre che ricordato per una fortunata canzone dell'Equipe 84, compie 70 anni. E tanto quella scadenza conferma quello stato d'animo nero, tanto quella cifra tonda condiziona i pensieri del Cavaliere, che Vittorio Feltri, telefonando in leggero anticipo, ma si suppone ben augurante, si è sentito rispondere: "Una rottura".

Ora davvero nessuno si può permettere di contestargli nulla riguardo all'età e ai compleanni. L'invecchiamento, del resto, non è una categoria della politica. Ma dei politici sì. E inevitabilmente la sedia vuota di Caorle ne richiama una piena. Fatto sta che nell'estate del 1995, quando di anni ne aveva meno di 60, con allegro entusiasmo sportivo e compiuta sicurezza seduttoria, Berlusconi scese negli Inferi di un congresso dell'allora Pds. Lì afferrò il microfono, parlò, scherzò, e fu anche applaudito. Nella tana del lupo, si disse, nella fossa dei leoni.

A settant'anni ha tutto il diritto di essere stanco. E di accusare storte, sciatalgie, intossicazioni, mal di denti, reumatismi, tracheite. Come pure si può permettere il lusso di mettere in scena - e non sarebbe la prima volta - strategie comunicative che costruiscono l'aspettativa sulla separazione prolungata, e la curiosità sull'assenza misteriosa.

Eppure, se si ripensa alla radiosa estate berlusconiana, c'è qualcosa che non torna. Non si capisce se il Cavaliere si sente ancora in vacanza o già all'Elba, in attesa di finire a Sant'Elena. Non si capisce se sta trattando il destino di Mediaset o se - come da canzone composta con il fido Apicella - ne ha sul serio le scatole piene di tutto e di tutti. Certo non quadra, l'afasia politico-bronchiale di Caorle, con la smania energetica e godereccia della vita smeralda. Perché ai limiti del disturbo bipolare della personalità, l'ex premier oggi muto e depresso si è ieri travestito da gnaua al compleanno di Veronica, per poi cantare al matrimonio della Melillo e ballare alla festa dello sceicco. Ha fatto spesso le ore piccole con veline e meteorine, non di rado facendo finta di sorprendersi per tante belle ragazze che mostravano l'ombelico o meglio "non avevano freddo - come dice lui - con il pancino di fuori".

Tra eruzioni vulcaniche, battesimi di cocktail, pizze infornate e distribuzioni di gelati, Berlusconi ha continuato ad accendere la fantasia senza più uno straccio di linea che non fosse la tiritera sulla tentazione di mollare tutto e la condanna a tenere dura. In un attimo di nausea o di smarrimento, s'immagina, ha prenotato un jet da 33 milioni di euro. Prima di mostrare la sospirata ricrescita al meeting dell'amicizia fra i popoli, ma dopo che Libero aveva adombrato l'ennesimo lifting, stavolta al collo.
Sempre più questa di inibire l'anagrafe, di fermare il tempo, sembra l'ultima e più drammatica partita di Berlusconi, settantenne esuberante, ma ora pieno di acciacchi.

In fondo, ha scritto Renard, la vecchiaia "è quando si comincia a dire: non mi sono mai sentito così giovane". Afasia e trachea, dopo tutto, stanno lì a rimettere le cose al loro posto.

Enti ecclasiatici, evasione per 6 miliardi l'anno

Il governo Prodi mantiene i privilegi concessi da Berlusconi, basta che le strutture commerciali facciano anche altro

Stefano Raiola

Sconto del 50% dell'imposta sul reddito delle persone giuridiche, esenzione dall'Iva, esenzione dall'imposta sui terreni e - nonostante le promesse fatte in campagna elettorale dal premier, Romano Prodi - esenzione dall'imposta comunale sugli immobili (la famigerata Ici). Non si tratta di un'anticipo delle promesse della nuova campagna elettorale di Silvio Berlusconi, ma sono solo alcune delle gentili concessioni fiscali che lo stato italiano riconosce agli enti ecclesiastici, i quali otterrebbero grazie a ciò benefici per almeno 6 miliardi di euro annui.

Dallo studio effettuato dall'Ares (agenzia ricerca economica e sociale) intitolato «Enti ecclesiastici: le cifre dell'evasione fiscale» emerge infatti che se le attività commerciali possedute e gestite dalla chiesa fossero sottoposte allo stesso regime di tassazione di quelle gestite dai comuni mortali, il 20% del fabbisogno per la prossima finanziaria sarebbe già nelle casse dell'erario.

La norma che rende possibile questa inspiegabile e intollerabile disparità di trattamento è contenuta nella legge 121/85 che considera «non commerciali» - quindi meritevoli di una tassazione soft - gli enti ecclesiastici con strutture dedicate al culto o ad attività religiose.

In Italia la santa sede e gli enti ecclesiastici possederebbero non meno di 90mila immobili, anche se un censimento preciso non è mai stato fatto e molti di questi non figurano nel catasto. Un patrimonio valutabile nella stratosferica cifra di 30 miliardi di euro, che viene utilizzato per ospitare chiese e parrocchie, ma anche veri e propri esercizi commerciali. Non solo strutture ricettive di ogni genere - da alberghi a case di cura - ma anche negozi, appartamenti e interi stabili «di pregio» destinati all'uso commerciale.

Nella sola Roma, ad esempio, ci sono centinaia di pensionati per studenti gestiti secondo le più ferree logiche di mercato: i costi sono ridotti all'osso - grazie all'utilizzo di personale religioso che non ha molte pretese -, ma sul lato dei prezzi la politica è totalmente diversa. Per un posto letto in una stanza doppia, i caritatevoli ordini cattolici sono pronti a chiedere il pagamento di una retta che supera agevolmente i 500 euro al mese. Facendo due calcoli è lecito ipotizzare che tali strutture siano capaci di accumulare utili abbondanti; che però sfuggono per grandissima parte alle maglie del sistema impositivo. E' assai difficile, infatti, dimostrare che l'ente, accanto all'attività lucrativa, non eserciti anche attività di culto o religiosa, quella che dà diritto alle esenzioni fiscali. Per di più la classe politica italiana non ha mai esitato a schierarsi dalla parte del Vaticano quando qualcuno ha cercato di limitarne i privilegi: nel 2005 il governo Berlusconi decideva di stanziare 25 milioni di euro nella finanziaria per saldare il debito che la santa sede aveva nei confronti dell'Acea (società che fornisce acqua potabile e gestione delle acque reflue). Ma l'ultimo intervento «provvidenziale» in favore del Vaticano è arrivato da parte del governo di centrosinistra di Romano Prodi. Dopo aver dichiarato guerra al regime di esenzione totale dall'Ici - favorito dal governo precedente - per i beni immobili della chiesa, l'esecutivo di centrosinistra è riuscito ad approvare un inutile decreto legge che non ha cambiato di una virgola la situazione precedente. Nel decreto si legge infatti che «l'esenzione si applica solo nel caso in cui nei locali degli enti le attività svolte non abbiano natura esclusivamente commerciale». Grazie a quella parolina «esclusivamente» l'esenzione viene mantenuta per quasi tutti gli enti, e le casse dei comuni continuano a restare vuote.

Basta infatti che una clinica privata (o un labergo) di proprietà ecclesiastica riservi una struttura alle funzioni religiose per neutralizzare l'«esclusività commerciale» ed evitare il pagamento dell'Ici.

Spagna: riaperta l'inchiesta contro Berlusconi

MADRID - Il giudice istruttore spagnolo Baltasar Garzon ha deciso di riaprire la sua inchiesta contro l'ex presidente del consiglio Silvio Berlusconi per il caso di frode fiscale legato al canale televisivo Telecinco. Lo si apprende da una fonte giudiziaria.

5 settembre

Una media di sette giorni di vacanze all'anno
recordi di ore lavorate ogni settimana
Poche ferie, troppo lavoro
gli americani non rendono più

Lo stress danneggia la produzione. E' allarme
dal nostro inviato VITTORIO ZUCCONI

<B>Poche ferie, troppo lavoro<br>gli americani non rendono più</B>
NELLA FESTA ghigliottina che ogni anno tronca l'estate americana, quella festa crudelmente chiamata "Labour Day", il giorno del lavoro, 300 milioni di persone hanno dato ieri un addio corale a quello che non hanno fatto: le ferie. Accade ogni fine estate, nel primo lunedì di settembre, con una pioggia di statistiche e di lamentazioni e di inutili consigli che riscoprono l'acqua calda di una verità faticosa: gli americani sono, tra le nazioni del cosiddetto Occidente, i lavoratori che fanno meno vacanze.

Un popolo di workaholic, di tossici dal lavoro, che si accontentano in media di sette giorni di feria annuale, la metà rispetto a francesi, inglesi, italiani, tedeschi e persino cinesi.

Come nel Giappone degli anni 80, quando le grandi aziende dovettero rassegnarsi a chiudere gli stabilimenti per costringere i dipendenti a non presentarsi in fabbrica o in un ufficio, così l'America della "corsa dei topi" 2006 comincia a studiare metodi draconiani per imporre alla gente di riposarsi. Non in omaggio ai "diritti dei lavoratori", non esistendo quasi nessuno che li difenda oltre gli anemici sindacati, ma in ossequio alla produttività e alla qualità del lavoro che i workaholic mettono a rischio con la loro incapacità di riposarsi. Il numero di ore lavorate settimanali ha raggiunto il record post bellico di 50, sbriciolando il mito del week end, dei due giorni liberi ogni settimana.

Proprio il week-end, il sogno del tempo libero american style, consumato nella ricostituente pigrizia dello shopping, del pic nic, della partita in tv con birra, patatine e hot dog, - la specie minacciata dalla nuova era della produttività estesa dalla tecnologia oltre il solito orario d'ufficio. Se un metalmeccanico difficilmente può portarsi il lavoro a casa, per tutte le professioni dei servizi che ormai sono i due terzi dell'occupazione in America, orologi e calendari non hanno più senso, distrutti da quel "telelavoro" che in teoria avrebbe dovuto liberare e in realtà ha soltanto allungato all'infinito il guinzaglio del lavoro. Telefonini, internet, telecommuting, fax, ricerche on line e soprattutto quello strumento satanico chiamato blackberry, il telefonino che funge in pratica da computer tascabile e obbliga tutti i possessori a essere sempre in contatto con tutti, hanno espanso i cubicoli di plastica che ora passano per uffici, inghiottendo la casa, le ore del fuori servizio, il tempo non più libero.

La produttività, ovviamente, cresce. Il 14% in più nel 2005, un balzo formidabile, e di conseguenza diminuisce il costo del lavoro e con esso i salari reali, diminuiti in media del 2 per cento nello stesso anno, nonostante la crescita del prodotto interno lordo, come aumenta la povertà, il grande pungolo alla agitazione dei topi. Ma se questi sono dati che farebbero piangere di gioia ogni consiglio d'amministrazione, le lacrime si asciugano davanti al rischio dei diminishing return, il paradosso del "chi più lavora peggio produce". In un'economia sempre meno manufatturiera, dove il prodotto non si misura più in bulloni e reparti verniciatura, l'eccesso di lavoro e la mancanza di riposo deteriorano il risultato finale di tanta fatica.

Il medico di famiglia (specie in via di estinzione) vede in media 40 pazienti al giorno e non potrà fare lo stesso, buon lavoro diagnostico su tutti loro. Li scaricherà, al primo raffreddore o mal di testa, sullo specialista, così aumentando spesso inutilmente quei costi clinici che si vorrebbero contenere.

L'avvocato che alle 4 del mattino, dopo una raffica di messaggi arrivati via blackberry scriverà un brief un'opinione legale importante per un cliente, sarà certamente più esposto a commettere errori di quanto non sarebbe alle 11 del mattino, dopo una notte di buon sonno. Ma la sua carriera sarà misurata nel numero di ore caricate al cliente. Il percorso del topo è implacabile.

Si accumulano le giornate di vacanza non godute. In cifre e soldoni, queste ferie mancate ammontano a 547 milioni di giorni e a 75 miliardi di dollari in equivalente retribuzioni. Il problema, dunque, non è concedere più giorni di vacanza, che ci sarebbero, ma di convincere la gente a farle, a staccare, a gettare il telefonino e il blackberry palmare, a valutare la qualità, oltre la quantità del lavoro. La Price Waterhouse, una delle grande società di contabilità e revisione finanziaria, ha deciso di chiudere per una settimana a fine anno e proibire comunicazioni di servizio in quei giorni. Una decisione che ha scatenato un'alluvione di e-mail e di lettere di ringraziamento all'amministratore delegato dell'azienda.

Un grande hotel di Chicago offre ai propri ospiti di sequestrare telefonini, palmari e portatili fino alla fine del soggiorno, per il "non c'indurre in tentazione". Più severa, la American Management Association, proprio la lobby dei manager, toglie punti alla valutazione degli impiegati che non si prendono l'intero pacchetto di ferie, considerandolo un demerito.

Altre creano "conti vacanze" non godute, dai quali si possono prelevare giorni da sfruttare anche per malattie o maternità. Nell'Oregon, alcune società hanno lanciato una pratica che scandalizza i profeti puritani e calvinisti del "lavorare duro, lavorare sempre". Hanno aumentato a 18, da 14 che erano, i giorni di ferie, aggiungendo un "ponte", un giorno in più dopo le grandi feste, dalle quali notoriamente tutti rientrano suonati. La produttività dei dipendenti è aumentata del 30%.

Persino i cinesi, con tre settimane all'anno, e i giapponesi hanno sulla carta più ferie degli Americani che in media ne hanno una. L'incubo di apparire uno slacker, un lavativo, destinato al licenziamento frusta e pungola. E vagare per un aereoporto compulsando il blackberry per messaggi urgenti dalla sede è ormai un simbolo della propria laboriosità e del proprio essere indispensabili. Anche se l'importante personaggio sta cercando di sapere i risultati della partita. "Siamo il paese più sottosviluppato del mondo, in materia di vacanze" osserva l'economista Paul Samuelson. Come mi disse anni addietro il grande giornalista del New York Times John Apple, dopo avere saputo che ogni giornalista italiano ha un mese di ferie all'anno: "Se rinasco, voglio fare il giornalista italiano".

 

4 settembre

Crollo degli iscritti tra Fisica, Chimica e Matematica
Iscrizioni in calo da anni. Gli atenei corrono ai ripari

Università, fuga dalla scienza
"Siamo sotto la media Ue"

Molte accademie hanno lanciato sconti per invogliare i giovani
Dal 2004 borse di studio dal ministero per tre milioni
di MARIO REGGIO
<B>Università, fuga dalla scienza<br>"Siamo sotto la media Ue"</B>
ROMA - Qualche ateneo ha inventato la formula: frequenti tre anni e ne paghi solo due. Il ministero dell'Università ha stanziato 3 milioni di euro per incentivare la permanenza degli studenti meritevoli. L'università di Camerino, la Libera università di Bari, l'ateneo di Cosenza hanno deciso di non far pagare le tasse alle matricole, e in casi particolari, danno gratis anche l'alloggio ed il computer. La Federico II di Napoli ha scelto lo sconto delle tasse per gli studenti meritevoli.

Ma tutto questo basterà a far uscire le facoltà di Fisica, Chimica e Matematica dal tunnel della crisi di vocazioni? A dire il vero il momento più buio sembra essere passato, anche se oggi, rispetto agli Paesi sviluppati le distanze restano abissali. Gli anni "tragici" sono stati dal '93 al 2001, poi con la riforma della laurea triennale e il biennio di specialistica, le immatricolazioni hanno preso lentamente a salire. Ma parliamo sempre di poche centinaia di studenti in più.

Perché le tre facoltà scientifiche sono così poco attrattive per i giovani che finiscono le scuole superiori. Un dato è certo: l'impegno didattico è tale da non permettere distrazioni, non consente ai giovani di lavorare mentre si preparano agli esami. Quindi, oltre al forte impegno personale, le famiglie devono essere in grado mantenere agli studi il giovane per 4 o cinque anni. E qui avviene la prima selezione: quella sociale.

C'è anche chi ci prova. Ma lo scotto pagato è molto duro: più di un terzo delle matricole lascia al termine del primo anno. Abbandona gli studi o sceglie una facoltà più facile.

Eppure chi ce la fa prendere la tanto agognata laurea poi trova molti meno ostacoli di chi ha frequentato facoltà umanistiche o sociali.

Lo conferma il più recente studio di Alma Laurea che ha preso in esame i livelli occupazionali, gli stipendi, il livello di gradimento degli studi appena terminati. "I laureati in Fisica, Chimica e Matematica hanno il tasso di occupazione più elevato, gli stipendi più alti ed esprimono un indici di gradimento molto elevato - commenta il professor Andrea Cammelli, direttore di Alma Laurea, il Consorzio che associa 48 atenei italiani - anche se gli obiettivi raggiunti beneficiano anche del numero ridotto dei laureati nelle tre facoltà".

Ma se aumentassero in maniera significativa il sistema sarebbe in grado di assorbirli?

"In questo momento no. Il sistema produttivo italiano, almeno ora, si trova in mezzo al guado - commenta il professor Cammelli - le aziende che hanno vissuto grazie ai sussidi pubblici stanno uscendo dal mercato per effetto della globalizzazione. Se non ci sarà una forte ripresa del sistema industriale le cose si metteranno davvero male. Anche l'università si sta muovendo, cerca di fare il possibile per riparare i danni, l'industria un po' meno".

Per il momento l'unica iniziativa per ridare ossigeno alle tre facoltà cenerentola è il piano d'investimenti di 3 milioni di euro, destinati agli studenti che hanno superato il primo anno di corso di laurea con un alto profitto. Borse di studio, prestiti d'onore. Ma ancora poco. E poi il sistema universitario italiano, tra le altre, soffre di una stortura macroscopica. La media degli studenti laureati che hanno usufruito di una borsa di studio è del 24 per cento. Ma a Fisica scende al 19, a Matematica supera di poco il 23 per cento. Solo a Chimica supera il 27 per cento.

"E negli altri Paesi, dove l'incremento delle lauree scientifiche è esponenziale - afferma il professor Andrea Cammelli - numerosi giovani provengono da famiglie disagiate, ma sono molto motivati dal desiderio di promozione sociale e sostenuti finanziariamente dagli atenei. Ecco perché negli Stati Uniti le nuove leve delle facoltà scientifiche che primeggiano vengono dalla Cina, dall'India o dal Messico".

1 settembre

 LA SICILIA AL CENTRO DELLE NUOVE ROTTE DEL GAS

 di Agostino Spataro

 Con la decisione, ormai consolidata, di realizzare due impianti di rigassificazione a Priolo e a Porto Empedocle, si rafforza il ruolo della Sicilia nella strategia nazionale ed europea di approvvigionamento e di distribuzione di gas naturale.

L’Isola diventerà uno fra i più importanti punti d'approdo e di snodo della zona euromediterranea per notevoli quantitativi di gas importati da varie regioni del mondo. I rigassificatori, infatti, oltre a incrementare l’import, consentono di ampliare la lista dei paesi fornitori e di diversificare le modalità d’approvvigionamento.

I due nuovi impianti potranno trattare circa 17 miliardi di metri cubi annui che sommati ai circa 30 miliardi importati, via pipeline, dall’Algeria e dalla Libia, porteranno i volumi di gas importati in Sicilia a 47 miliardi di mc/anno. Una quantità davvero ragguardevole, corrispondente al  73% dell’attuale import italiano di gas.

Per altro, è prevedibile un incremento delle importazioni dalla Libia e dall’Algeria tramite i gasdotti esistenti o programmati, per soddisfare la crescente domanda europea di gas che, nel 2020, dovrebbe essere coperta al 60% dalle importazioni extra UE.

Oggi c’è un gran movimento nel mercato mondiale del gas e in quello europeo in particolare. L’ultimo importante evento è stato l’accordo fra i due principali fornitori della U.E: il colosso russo Gasprom e la Sonatrach algerina destinato ad influenzare l’andamento dei flussi e il mercato interno europeo e a controllare direttamente anche settori della distribuzione interna.

Legittimamente direi visto che cartelli, fusioni e concentrazioni avvengono in quasi tutti i settori strategici delle materie prime e dei beni tecnologici e finanziari.

Certo, l’accordo russo-algerino qualche problema lo potrà creare, perciò è giusto assumere talune precauzioni (quali i rigassificatori), ma senza farsi prendere dal  panico e giungere a percepirlo addirittura come una minaccia. Per altro, fra le ragioni della sua stipula- credo- vi sia anche la volontà di scoraggiare eventuali tentazioni di esportare in questi paesi la “democrazia” anglo-americana, sulla punta dei cannoni.

Forte di tale accordo, l’Algeria si candida a divenire il pilastro mediterraneo di questa strategia, anche in virtù degli accordi di cooperazione già sottoscritti con vari paesi produttori africani che desiderano esportare in Europa, attraverso la rete di gasdotti algero-ispanica e algero-italiana che- com’è noto- si biforca lungo due direttrici: Sicilia (già operativa) e Sardegna (in corso di realizzazione).

In questo contesto, particolare importanza assume il recente trattato di cooperazione stipulato fra Algeria e Nigeria che prevede- fra l’altro- la costruzione di un metanodotto che, attraversando il Sahara, trasporterà il gas dei grandi giacimenti nigeriani fin sulle rive del Mediterraneo dove incrocerà il costruendo anello “mediterraneo del gas” (dalla Turchia al Marocco) e da qui essere esportato in varie direzioni, soprattutto verso l’Europa.   

Un’opera colossale, altamente strategica, che, modestamente, avevamo prospettato circa venti anni addietro al fine di  rinsaldare i legami di cooperazione e di scambio con l’Algeria e con altri paesi della regione ed anche per agevolare e incrementare l’importazione del gas nigeriano che l’Eni realizza via nave. La Sicilia poteva (e può) divenire una tappa di questa nuova via del gas africano verso l’Europa. Italia ed Eni sarebbero stati partner promotori del grandioso progetto e non spettatori inerti e un tantino spaventati. Ma tant’è.

In ogni caso, l’importanza del ruolo energetico della Sicilia è destinato a crescere nel quadro della  creazione del mercato euromediterraneo del gas e dell’elettricità da mettere al servizio della zona di libero scambio del 2010 che coinvolgerà una popolazione di oltre 600 milioni d' abitanti. Vi sono diversi progetti e studi che interessano la Sicilia, fra i quali la costruzione di un gasdotto Sicilia- Malta (il relativo memorandum d’intesa è stato sottoscritto fra Eni e Enemalta, nel 2002) e il progetto d’interconnessione delle reti elettriche tunisine e italiane, con una capacità di 500 kV.

Altre ipotesi stanno maturando o potranno maturare anche nel campo delle energie pulite e rinnovabili dove la cooperazione con i paesi rivieraschi potrebbe far fare all’Italia e alla Sicilia un salto ragguardevole, recuperando un ritardo incomprensibile e una ritrosia davvero colpevole.

Di fronte a questo nuovo scenario, segnato da grandi potenzialità per lo sviluppo, sorgono alcune  domande alle quali bisognerebbe rispondere con serietà.

La Sicilia e a sua classe dirigente, politica e imprenditoriale, riusciranno a mettere  a frutto gli effetti diretti e le ricadute derivati da questo ruolo strategico?

La Regione metterà in campo idee e progetti di sviluppo credibili o si limiterà a chiedere- com’è consuetudine- royalties, imposte e prebende per  rimpinguare un bilancio, in gran parte, destinato ad alimentare il pozzo senza fondo di un sistema di potere  affaristico, clientelare e consociativo?

Vedremo. Ma se l’impegno mediterraneista del governo della Regione è quello che si può desumere dai suoi vacui proclami assistenziali e dalle nomine elettoralistiche effettuate nei vari enti, agenzie e uffici di pertinenza c’è poco da sperare.

                                   

Altamura, i 110 operai di un salottificio hanno trovato i cancelli sbarrati
Fine ferie, ma la fabbrica è chiusa
Michele Simeone
Gli operai hanno fatto buone vacanze e ieri erano pronti per tornare al lavoro nella fabbrica di salotti Ntl di Altamura, in provincia di Bari. Ma arrivati davanti al cancello dell'azienda, sorpresa: era chiuso. I proprietari dell'azienda non avevano dimenticato il giorno del rientro dei lavoratori, ma sono scappati senza dire niente a nessuno, come se il salottificio fosse una casa privata e gli impiegati non esistessero. La doccia fredda ha colpito 110 famiglie, che si trovano senza stipendio.
L'accaduto è stato denunciato dalla Filca-Cisl di Bari, attraverso il suo segretario provinciale Emilio di Conza, che ha ricordato che «i proprietari dell'azienda non si trovano. Quello che è accaduto è un illecito civile antisindacale, previsto dall'articolo 28 dello statuto dei lavoratori». La chiusura dell'azienda si ripercuoterà anche su altre piccole attività artigianali collegate alla Ntl, che potranno portare altre famiglie a trovarsi senza un reddito. La Filca-Cisl ha chiesto al prefetto di Bari, Carlo Schilardi, un incontro per la mattinata di domani e un intervento deciso dei sindaci di Altamura e Gravina, i due comuni maggiormente coinvolti. La Ntl non è una azienda solida, fino all'anno scorso si chiamava Ferma e in autunno vari dipendenti erano stati lasciati a casa.
La situazione dell'industria dell'imbottitura nella zona pugliese è in crisi da 4 anni, insieme ai settori della calzatura e del tessile. Una depressione che riguarda le micro e medie aziende, formate da vari azionisti che non riescono a resistere alla concorrenza straniera, in primo luogo a quella cinese. Un'altra azienda di grande dimensione come la Natuzzi l'anno scorso ha messo in cassa integrazione ben 1200 operai e dopo un vertenza sindacale si è riusciti a far reintegrare nelle loro mansioni 700 dipendenti, gli altri 500 invece continuano con la cassa integrazione.
Per il segretario provinciale di Bari della Fillea Cgil, Franco Panza, «la situazione è dovuta anche all'incapacità di alcuni imprenditori di gestire la propria azienda. A volte sono gli stessi operai o piccoli artigiani, che si mettono insieme e formano una piccola fabbrica, senza avere la capacità imprenditoriale».
I sindacati hanno più volte chiesto al precedente governo di intervenire nella zona, ma senza alcun risultato; adesso continuano a insistere con l'attuale esecutivo: «Bisogna intervenire con infrastrutture, agevolazioni e incentivi, soprattutto per le piccole aziende, dove gli operai non hanno la garanzia della cassaintegrazione - ha concluso Panza - La Regione Puglia ha già stanziato 50 milioni di euro per le imprese che risentono della concorrenza estera, 10 milioni sono andati all'industria dell'imbottitura. Il finanziamento toccherà le micro imprese per tutelare quei dipendenti che non possono usufruire degli ammortizzatori sociali».

Chad e Bolivia si riprendono il petrolio
Il paese africano caccia via Chevron e Petronas. Respol denunciata per saccheggio delle risorse boliviane. Guai per la Bp
Stefano Raiola
Appena pochi mesi fa festeggiavano i profitti stratosferici registrati nella seconda metà del 2006, miliardi di dollari accumulati in tempi brevissimi che hanno fatto la gioia dei propri azionisti. Ma la ruota della fortuna gira per tutti, e così le inarrestabili compagnie petrolifere si trovano adesso a fronteggiare tempi duri.
A preoccuparle non c'è solo la caduta del prezzo del petrolio, rientrato sotto la soglia dei 70 dollari al barile, ma soprattutto le nuove, quanto legittime, pretese avanzate da Chad e Bolivia - paesi in cui si localizzano grandi riserve di greggio - riguardo alla gestione delle loro risorse.
La prima cattiva notizia per l'industria dell'oro nero (ma vero sollievo per tutto il resto dell'umanità), è che l'uragano Ernesto, che tra le altre cose minacciava anche gli impianti del Golfo del Messico, è stato declassato a tempesta tropicale, cosa che scongiurerebbe le devastazioni temute nei giorni scorsi e che avevano fatto lievitare il prezzo del greggio. Lo scampato pericolo ha fatto sì che ieri per un barile di Brent si pagassero 69,85 dollari, la quotazione più bassa dal mese di giugno.
Poi è arrivato l'annuncio, confermato ieri, che il Chad ha espulso la Chevron Corp. - seconda compagnia petrolifera Usa - e la Malaysia's Petronas dai propri confini per dispute legate al mancato pagamento delle imposte. Il presidente del paese centroafricano, Idriss Deby, ha promesso una vera e propria «rivoluzione che salverà il paese e i suoi abitanti», rivoluzione destinata a passare attraverso gli oleodotti controllati fino a oggi dalle multinazionali straniere. «Il Chad deve partecipare al 60% nella produzione di petrolio», ha affermato Deby, aggiungendo di aver ricevuto «solo briciole», insufficienti a risollevare il paese dalla povertà, dal consorzio straniero che gestiva l'industria. La Chevron dal canto suo si è difesa assicurando di essere totalmente in regola con le obbligazioni fiscali. Mentre un portavoce della Petronas ha dichiarato che stanno richiedendo spiegazioni sul provvedimento.
Sempre ieri il vice ministro degli idrocarburi boliviano, Julio Gomez, ha minacciato la Ibero-Argentina Repsol di trascinarla di fronte ai tribunali internazionali con l'accusa di «saccheggiare» le risorse naturali del paese sudamericano. Da quando il presidente Evo Morales, l'1 maggio scorso, ha decretato la nazionalizzazione degli idrocarburi, le relazioni con Repsol e Petrobras, i maggiori investitori nel paese, si mantengono in un costante stato di tensione; tensione che ha toccato il culmine l'estate scorsa, quando i giudici boliviani ordinarono l'arresto - poi evitato - dell'allora presidente di Repsol, Julio Gavito, accusato di aver contrabbandato greggio tra il 2004 e il 2005 per un valore di 9,2 milioni di dollari.
Nel frattempo dagli Usa arriva una nuova stangata per la British Petroleum - la terza compagnia petrolifera del globo - investigata dalle autorità americane per «possibile manipolazione del mercato dei combustibili». Il gigante britannico, già finito nell'occhio del ciclone per il recente incidente ai suoi oleodotti in Alaska e per una esplosione in una raffineria texana di sua proprietà che nel 2005 causò la morte di 15 lavoratori, è sospettato di aver speculato sui contratti futures del greggio aprrofittando di informazioni confidenziali di cui era in possesso. Sospetto che si estenderebbe ad altre compagnie del settore.

Lopez Obrador: «E' un colpo di Stato»
In Messico il Tribunale elettorale ha prevedibilmente confermato la vittoria fraudolenta del conservatore Felipe Calderon.Il candidato di centro-sinistra rifiuta di riconoscere il risultato
Gianni Proiettis
Città del Messico
Il conservatore Felipe Calderon è stato praticamente impalmato presidente del Messico. La decisione, che spettava il 2 luglio scorso a più di 70 milioni di votanti, è finita, dopo un'elezione sotto il segno della frode, in mano a sette giudici che hanno deciso in quattro e quattr'otto che il parzialissimo riconteggio dei voti chiesto da Lopez Obrador (meno del 10% del totale) non ha mostrato le prove di frodi e errori tali da inficiare il risultato ufficiale delle urne che aveva visto la vittoria di Calderon per lo 0.58% dei voti.
Lopez Obrador si è rifiutato di accettare il risultato e la sentenza dei 7 giudici nonché di riconoscere la vittoria di Calderon. In un discorso di fronte alla massa dei suoi sostenitori nello Zozalo, la grande piazza di Città del Messico, ha annunciato che la sua sfida contro le frodi andrà avanti. «Nonostante l'evidenza della frode, il Tribunale elettorale si è opposto a ripulire le elezioni e rifare il conteggio voto per voto, nonostante che questa fosse la richiesta di milioni di messicani e avesse il potere di farlo», ha detto. E ora ha emesso una sentenza che «per milioni di messicani è offensiva e inaccettabile», «non solo una vergogna per la storia del nostro paese ma anche una violazione dell'ordine costituzionale e un vero colpo di stato».
Il Tribunal Electoral del Poder Judicial de la Federación, denominato Trife per brevità, ha deliberato lunedì sui 375 ricorsi presentati dai due maggiori partiti: il Prd, Partido de la Revolución Democrática, di centro-sinistra, del candidato Andrés Manuel Lopez Obrador, ex-sindaco della capitale, ne aveva presentati 240; il Pan, Partido de Acción Nacional, espressione della destra cattolica e imprenditoriale che sostiene Calderón, 133. Gli altri due ricorsi provenivano da semplici elettori.
La decisione del tribunale non altera nella sostanza i risultati già noti, che attribuivano la vittoria a Felipe Calderón con un vantaggio di 240mila voti - lo 0,58% del totale - e apporta solo alcune modificazioni, apparentemente salomoniche, sottraendo 77 mila voti al Prd e 81 mila al Pan. La distanza fra i due partiti si riduce così di 4 mila voti ma la sentenza non capovolge il risultato, come sperava il Prd, e apre la porta all'instabilità e a una lunga stagione di conflitti.
Non ha tortro Lopez Obrador parlando di «colpo di Stato» (del resto non è il primo nella lunga storia del Messico) e, sostenuto da un forte movimento di resistenza civile che occupa da un mese il centro della capitale, rifiuta l'imposizione di un presidente spurio. Il popolarissimo Amlo conta non solo sull'appoggio di milioni di elettori che si sentono defraudati e decisi a non permettere un'usurpazione come quella che diede la presidenza a Carlos Salinas nel 1988, ma anche su solidi argomenti.
Ricostruito a posteriori pezzo per pezzo, il puzzle delle elezioni del 2 luglio proietta l'ombra di una frode gigantesca, ormai a nudo dopo il riconteggio dei voti nel 9% dei seggi: migliaia di sezioni in cui le schede non corrispondevano al numero di votanti registrati, verbali riassuntivi con dati palesemente falsi, schede che non presentano le piegature indispensabili per essere introdotte nelle urne, pacchi aperti e manomessi, sezioni in cui una parte degli scrutatori designati sono stati sostituiti all'ultimo minuto. Per non parlare della presentazione di più di venti video che mostrano aperte manomissioni dei plichi elettorali da parte degli scrutatori.
A poco serve, a questo punto, che il Pan invochi la presenza di una legione di osservatori il giorno delle votazioni, fra cui un gruppo di euro-parlamentari, guidati dallo spagnolo José Salafranca (membro del Pp di Aznar, partito di destra affine al Pan). Nei giorni scorsi, il rapporto di Salafranca, che aveva dichiarato di non aver avvertito alcuna irregolarità il giorno delle elezioni, è stato duramente questionato da Tobias Pfluger, membro della commissione esteri dell'Unione europea, che ha denunciato il «persistente silenzio» degli osservatori di fronte all'evidenza dei brogli.
Tra l'altro, la giornata elettorale, costellata da una miriade di irregolarità, e gli scrutini fraudolenti, permessi e incentivati dall'Instituto Federal Electoral responsabile delle elezioni (e sotto diretto controllo del presidente uscente Vicente Fox, anche lui del Pan), sono solo l'ultimo atto di un'operazione iniziata quasi tre anni fa, alla fine del 2003. E' stato lo stesso Amlo a ricordarlo, nel discorso di fronte ai suoi sostenitori nello Zocalo, subito dopo la sentenza del Trife.
Il complotto per escluderlo dalla presidenza, ordito dall'ex-presidente Salinas, da Fox e dal senatore panista Fernandez de Cevallos, è cominciato con una serie di «rivelazioni» attraverso dei video che mostravano alcuni collaboratori di Lopez Obrador, all'epoca sindaco di Città del Messico, mentre ricevevano mazzette da Carlos Ahumada, un faccendiere argentino attualmente in carcere. Lo scandalo, divulgato con colorito sensazionalismo dalle servizievoli Televisa e TvAzteca, non riuscì a scalfire l'enorme popolarità di Amlo, in testa a tutti sondaggi.
La mossa successiva fu quella del desafuero, un tentativo di escludere l'ex-sindaco con una montatura giudiziaria chiaramente pretestuosa, dalla corsa alla presidenza. Ma la nuova macchinazione, oltre ad essere mal architettata si scontrò con un movimento di protesta che portò in piazza più di un milione di persone nell'aprile 2005. I tre poteri, uniti nella conventio ad excludendum, furono costretti a fare marcia indietro.
Poi venne la campagna elettorale, dove la destra giocò sporco: le intromissioni illegali di Fox, la propaganda del Pan orchestrata da consiglieri spagnoli e statunitensi basata sull'odio e la paura, il martellamento di spot tv pagati dagli imprenditori che presentavano Amlo come «un pericolo per il Messico», i programmi di assistenza sociale usati per promuovere il voto a destra.
Non solo. Nella formazione dell'Instituto Federal Electoral, attualmente soggetto a una denuncia penale per aver manipolato l'intero processo elettorale, nessuno spazio ai rappresentanti del Prd. E, dulcis in fundo, il software per il conteggio preliminare dei voti affidato a una ditta di proprietà dell'industriale Diego Zavala, cognato di Calderón.
L'arrogante tentativo del governo Fox di deviare la storia nazionale a favore di una destra rapace e rissosa si scontra oggi con una reazione popolare di dimensioni inedite. Hanno un bel dire Fox che la protesta si limita «al blocco di una strada», riferendosi all'immensa tendopoli che occupa il centro della capitale, e il suo portavoce ad affermare che la volontà popolare non può piegarsi «ai capricci e all'arbitrarietà di una sola persona». Lopez Obrador disconosce il verdetto del tribunale elettorale, viziato dalla parzialità e dal sospetto di corruzione, ed è disposto, costituzione alla mano, ad andare fino in fondo con il suo movimento di resistenza civile e pacifica, ispirato a Gandhi e Luther King. Di fronte alla prossima proclamazione della vittoria fraudolenta di Calderón, entro il 6 settembre, la Convención Nacional Democrática, il 16 settembre, deciderà se costituire un governo alternativo o un coordinamento della resistenza.

Bush torna a New Orleans un anno dopo: a mani vuote
Franco Pantarelli
New York
«Ce la faremo. Tutti insieme ce la faremo», diceva ieri mattina nel municipio di New Orleans Ray Nagin, da poco rieletto sindaco, nella cerimonia per ricordare il primo anniversario della tragedia chiamata Katrina. Un po' più in là, nella chiesa di St. Louis, George Bush e la moglie Laura cantavano inni religiosi, chinavano il capo e accendevano candeline per onorare i morti. Poco prima i tre avevano fatto colazione assieme nella Betsy's Pankece House, un caffè rintanato nel downtown disastrato più o meno come un anno fa, dove il corteo presidenziale aveva faticato non poco a districarsi fra macerie che nessuno si è mai curato di portar via, lampioni caduti che nessuno ha rimesso in piedi ché tanto la corrente elettrica non arriva e mucchi di rifiuti che i pochi tornati nelle loro case lasciano speranzosi sui cigli delle strade ma nessuno si cura di ritirare.
Da Betsy a un certo punto c'è stato anche un siparietto. Bush, cercando di farsi largo tra la piccola folla che le sue guardie del corpo stentavano a tenere a bada, ha tagliato la strada a una cameriera e lei lo ha apostrofato: «Che fa, signor presidente, mi volta le spalle?». Lui è rimasto un attimo interdetto e poi ha replicato: «No, signora. Non questa volta». Un modo «alla Bush» di riconoscere la lentezza (chiamiamola così) della sua reazione alla tragedia.
Un anno fa, per fargli capire che ciò che stava accadendo a New Orleans era una cosa terribilmente seria l'ex capo del suo staff Andrew Card decise di assemblare in un dvd i servizi delle varie emittenti televisive e lo costrinse a guardarlo. Poi, tramortito dall'esecrazione pressoché generale e per mostrare che lui si preoccupava eccome, Bush si ingaggò in un buffo andirivieni fra Washington e New Orleans (otto viaggi in due settimane) facendo tante promesse e il tutto fu riassunto - con un discorso in una Jackson Square trasformata in studio televisivo - in tre «idee forza»: esonero fiscale per i piccoli imprenditori; un programma di scuole, di riqualificazione professionale e di asili per consentire di trovare presto un lavoro a coloro che lo avevano perduto e una distribuzione di appezzamenti di terreno a chi voleva costruirsi una nuova casa con le proprie finanze o attraverso dei programmi di prestiti a basso interesse.
Solo la prima, quella degli esoneri fiscali, ha funzionato. Le altre non hanno mai preso quota, proprio come i «numeri» dei sondaggi, che ancora ieri hanno ribadito il malcontento popolare nei confronti di Bush: il 67% degli interpellati. A New Orleans oggi vive meno della metà della popolazione che c'era prima dell'uragano. Ci sono almeno 250.000 persone disperse in tutto il resto degli Stati Uniti. Alcune hanno trovato una sistemazione altrove aiutati da parenti a amici, altre sono ancora raggruppate negli alloggi di fortuna e altre si sono smarrite chissà dove. I rimasti, o i ritornati, sono quelli che vivevano nelle poche zone della città rimaste indenni perché collocate in alto e quelli che avevano i mezzi per provvedere da soli a riparare le loro case. Inutile dire che sono in gran parte benestanti e in grandissima parte bianchi.
Bush, nel discorso che ha pronunciato ieri ha concesso qualcosa ai problemi reali. «Capisco che la gente non sa ancora come tornare a casa, che sente parlare degli aiuti e si chiede dove siano. Lo capisco benissimo», ha detto. Ma dopo quella concessione è riaffiorato il Bush dei «continui progressi» in Iraq. «Il mio messaggio alla gente di qui - ha detto - è che noi capiamo che molto lavoro deve ancora essere fatto. Questo è un anniversario che non segna la fine ma l'inizio di quello che sarà un lungo recupero. Ma io sono compiaciuto da questa opportunità. Sono compiaciuto dalla speranza che sento qui». Nel pomeriggio era previsto un incontro con esperti e amministratori locali per rendere più «operativo» questo ritorno di Bush a New Orleans.

 

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