Lo sapevate che...

 

Archivio giugno 2006

 

22 giugno

 

L'ex presidente : "La Carta è viva e attuale. E' la mia Bibbia civile
Opporsi al nuovo testo non significa essere conservatori"

Ciampi: "Una riforma fuori dalle regole
ecco perché voterò contro"

Prodi: ridurremo il numero dei parlamentari
di MASSIMO GIANNINI

<B>Ciampi: "Una riforma fuori dalle regole <br>ecco perché voterò contro"</B>
ROMA - "L'ho già detto pubblicamente, e non ho mai avuto dubbi: andrò a votare al referendum, perché sono un cittadino italiano. E voterò "no", per difendere la nostra Costituzione, che è bella, è viva e più attuale che mai". Nel giorno della qualificazione della nazionale italiana ai mondiali di calcio, e a due giorni dal referendum sulla riforma del Polo, che riscrive ben 54 articoli della nostra Carta fondamentale, in casa Ciampi circola un'aria di sano "patriottismo costituzionale", secondo la felice definizione di Jurgen Habermas rilanciata ieri su questo giornale da Pietro Scoppola e sul "Corriere della Sera" da Claudio Magris.

L'ex presidente della Repubblica non fa mistero della sua soddisfazione per la vittoria degli azzurri, ma non nasconde la sua preoccupazione per i ripetuti tentativi, sempre più frequenti in queste ultime ore, di politicizzare e insieme svalorizzare la Costituzione. Di piegarla a strumento di propaganda politica. Di farne un uso "congiunturale", di parte e di partito.

"Lo sapete - ripete ancora una volta Carlo Azeglio Ciampi - nel corso del mio settennato la Costituzione è sempre stata la mia Bibbia civile. E continuerà ad esserlo". Per questo il predecessore di Giorgio Napolitano al Quirinale è più che mai convinto di dover votare no al "colpo di spugna" voluto dal centrodestra nella passata legislatura. Per questo l'attuale senatore a vita non raccoglie l'ultima provocazione lanciata da Silvio Berlusconi, che aveva definito "indegno" chi non voterà sì a quella sedicente "riforma".

"Per carità - si schernisce adesso Ciampi - a queste parole non voglio rispondere. Non voglio entrare in questa polemica, anche perché mi pare che chi l'ha sollevata sia già stato costretto ad autosmentirla". Ci tiene, il presidente emerito, a non farsi travolgere dal chiacchiericcio del teatrino politico. A mantenere un profilo alto, istituzionale. Ma non per questo intende rinunciare ad esprimere il suo giudizio sull'oggetto del referendum, che resta fortemente negativo. "E il mio è un no ragionato, non un no acritico", conferma Ciampi, che sulla questione sta studiando da tempo, e ha maturato una convinzione che gli deriva dai pareri e dagli scritti dei più importanti giuristi italiani.

Secondo Ciampi, il "pacchetto" di modifiche costituzionali messo insieme dalla Casa delle Libertà - come ha detto l'ex presidente della Consulta Valerio Onida - rischia in effetti di "minare il funzionamento delle istituzioni". Lo confermano i più grandi costituzionalisti italiani, a partire da Gustavo Zagrebelski fino ad arrivare a Andrea Manzella. Lo ha ribadito, proprio in questi ultimi giorni, Francesco Paolo Casavola. "Andate a rileggere quello che ha scritto sul 'Mattino' di Napoli - commenta Ciampi - e capirete perché non si può non votare no a questo referendum".

Di quell'articolo, uscito sul quotidiano partenopeo martedì scorso, l'ex Capo dello Stato condivide dalla prima all'ultima riga. A partire da una premessa fondamentale: la riforma del Polo, passata con la formula della revisione costituzionale prevista dall'articolo 138 della stessa Carta, è di fatto illegittima. Il testo approvato dalla Cdl, infatti, mira a cambiare la forma di Stato e di governo, ma così facendo viola l'articolo 139 della stessa Costituzione: "La forma repubblicana - c'è scritto - non può essere oggetto di revisione costituzionale".

Questo "istituto", secondo l'articolo 138, era stato pensato dai costituenti per introdurre modifiche "puntuali e circoscritte" della nostra Costituzione. La riforma del Polo è invece una riscrittura radicale, confusa e contraddittoria, della Carta del '48. Qui sta il rimando fondamentale, e di metodo, che Ciampi fa allo scritto di Casavola: "Passare dallo Stato unitario allo Stato federale, dal governo parlamentare al premierato che non ha contrappesi né nel presidente della Repubblica né nel Parlamento, non si può con revisione della Costituzione, perché la Costituzione lo vieta".

Meglio di così non si poteva dire. E a chi obietta perché Ciampi, quand'era sul Colle, abbia dato via libera e abbia promulgato questo inaccettabile stravolgimento della sua "Bibbia civile", l'ex Capo dello Stato risponde a tono: "Anche questa - dice - è una polemica strumentale. Quel testo, dopo la sua quarta approvazione parlamentare, non è mai passato al Quirinale. E' stato pubblicato direttamente sulla Gazzetta Ufficiale, perché gli italiani potessero poi richiedere il referendum confermativo. E dunque non è mai transitato né sulla mia scrivania, né su quella dei miei uffici giuridici".

Se in via del tutto ipotetica questo fosse stato permesso dalle procedure costituzionali, l'ex presidente della Repubblica non avrebbe esitato ad opporre il suo "no" alla promulgazione dell'ennesimo strappo legislativo voluto dal centrodestra, dopo la Gasparri sulle tv, la Castelli sulla giustizia e la Cirielli sulla prescrizione. Perché a Ciampi, anche nel merito, questa riforma sembra inaccettabile. Il senatore a vita non vuole addentrarsi nei dettagli. Ma ancora una volta invita alla lettura dell'articolo di Casavola.

La devolution non farà altro che privare il cittadino del principio di uguaglianza di fronte a beni essenziali come la salute, l'istruzione, la sicurezza, "disponibili solo da quell'unico sovrano che è la Nazione". Il premierato "forte" significa solo "l'uscita dal principio delle democrazie costituzionali", secondo cui "ogni potere è bilanciato da un altro potere". Ciampi l'ha detto più volte nel corso del suo settennato, ed oggi ne è ancora più convinto: "La nostra Costituzione è viva e attuale, perché in essa gli italiani si riconoscono ogni giorno".

Questo non vuol dire che l'ex Capo dello Stato appartenga alla schiera dei cultori del "dogma dell'inviolabilità della Costituzione". Nel corso del suo settennato ha ripetuto più volte, e oggi ne è ancora più convinto, che si possa anche "pensare di ritoccarla, di fare delle correzioni, ma nel rispetto della sua essenza". E purché se ne rispetti il "valido telaio sul quale operare le modifiche necessarie in un mondo che cambia, senza disperderne i principi e i valori fondamentali". Insomma, Ciampi rifiuta lo schema demagogico e ideologico di chi, sul versante dell'attuale opposizione, oggi sostiene che votare sì al referendum significa essere "progressisti e moderni", mentre votare no equivale a qualificarsi come "vecchi e conservatori".

"Le modifiche alla Costituzione - ragiona in queste ore l'ex Capo dello Stato - sono possibili nei limiti previsti dall'articolo 138 combinato con l'articolo 139". Modifiche di portata più ampia, come ha detto durante la sua permanenza sul Colle e come continua a dire anche oggi, "non possono essere affidate solamente ad una parte, sostenendo che vi è una maggioranza che ha i voti e le fa passare a tutti i costi, salvo poi fare ricorso al referendum finale del cittadino". E comunque qualunque modifica dovrebbe assicurare "la coerenza e la funzionalità del quadro costituzionale, nel suo insieme e in tutte le sue parti".

E' esattamente questa, la coerenza che manca al disegno "pseudo - riformatore" della Cdl. Che invece, come afferma Casavola e come conviene Ciampi, mira solo a "scambiare per Costituzione un'autorizzazione a governare, per interessi congiunturali o particolari". Ecco perché, una volta di più, il senatore a vita, domenica prossima, scriverà sulla scheda il suo no. Un no che non vuole chiudere, ma semmai aprire una fase di confronto. Rimettere in moto un processo di revisione coerente con i valori irrinunciabili di uno Stato costituzionale. Ci ha lavorato per sette anni, purtroppo inutilmente. Far dialogare i due poli, per garantire una "difesa dinamica dei nostri valori costituzionali".

Quel dialogo andrebbe ripreso. Il no al referendum lo consente, il sì rischia di precluderlo per sempre. Sarebbe il peggiore dei mali, secondo Ciampi, convinto insieme a Casavola che "la Costituzione non è di destra né di sinistra, ma è di tutti e per tutti". Si finisce da dove tutto era cominciato: "patriottismo costituzionale". Non c'è altra formula, per descrivere le parole e i pensieri di Ciampi alla vigilia del referendum. C'è giusto il tempo, prima del voto di domenica prossima, per brindare al raddoppio di Inzaghi contro la Repubblica Ceca. "Bella partita", commenta il senatore a vita.
Allora, forza Italia. Ciampi sorride, ci pensa un attimo e poi aggiunge: "Sì, sì, forza Italia. Ma non equivochiamo: lo dico in senso calcistico".

 

Indagine Merrill Lynch e Capgemini: gli Usa sempre in testa
ma il salto più consistente in Sud Corea, India e Russia

Aumentano i Paperoni
sono 8,7 milioni nel mondo

In Italia sono quasi 200.000 ma rallenta la crescita

WASHINGTON - Cresce il numero dei milionari nel mondo e cambia la geografia del denaro. Secondo un'indagine Merrill Lynch e Capgemini, nel 2006 i titolari di patrimoni finanziari netti superiori al milione di dollari sono aumentati del 6,5% arrivando a quota 8,7 milioni. Signori, quest'ultimi, che sarebbero detentori di 33.300 miliardi di dollari (+8,5%), residenze e beni privati ovviamente esclusi.

Quello che però maggiormente colpisce del decimo rapporto annuale sulla "Ricchezza nel mondo" è il salto in avanti fatto dalle economie dei paesi in via di sviluppo, dalla Cina all'India, passando per il Brasile e la Russia. Nonostante, infatti, gli Stati Uniti continuino a dominare il panorama con ben 2,67 milioni di milionari in casa - circa un terzo di quelli sparsi in tutto il pianeta - il numero di millionnaires negli States è diminuito dal 9,9% del 2004 al 6,8% del 2005.

Il salto in avanti più evidente è quello della Corea del Sud, dove i Paperon de Paperoni sono il 23,3% in più da un anno all'altro. Seguono l'incremento indiano del 19,3% per un totale di 83.000 milionari; quello russo, del 17,4% rispetto al 2004 arrivando a quota 103.000, e quello cinese, del 6,8% pari a 320.000 profumatissimi conti in banca.

Rallenta invece l'Italia, dove i 198.300 milionari rappresentano una crescita inferiore di due punti percentuali rispetto alla precedente indagine: dal +3,7% del 2004 si è passati al +1,7% del 2005. Nello stesso periodo l'Europa ha registrato un +4,5%, l'Asia-Pacifico un +7,3%, l'America Latina un +9,7% e il Medio Oriente un +9,8%.

Se dividiamo il pianeta in macro-regioni 2,9 milioni di milionari si trovano nel Nord America, 2,8 in Europa, 2,4 in Asia, 300.000 in America Latina, altrettanti in Medio Oriente e 100.000 in Africa.

Quelli che noi chiameremmo super-milionari, ovvero persone con attività finanziarie superiori ai 30 milioni di dollari (per questo definiti nel rapporto "ultra high net worth individuals", ovvero i possessori di redditi altissimi) sono cresciuti del 10,2%, per un totale di 85.400.

"In America - precisa Gianluca Bussolati, responsabile Merrill Lynch Wealth Management - la prima causa di ricchezza è il reddito da lavoro (per il 32%), mentre in Europa il 50% dei patrimoni è frutto della creazione di imprese". Per quanto riguarda gli investimenti, invece, i grandi ricchi nell'anno appena concluso "hanno preso decisioni di investimento più aggressive - ha sottolineato Bussolati - pur mantenendo un'elevata diversificazione per massimizzare la protezione dei capitali investiti".

Per i prossimi anni "si prevede che gli investimenti negli Usa e in Europa continueranno a diminuire con il progressivo riposizionamento in Asia-Pacifico e America Latina. I grandi ricchi preferiranno un portafoglio leggermente più aggressivo, alleggerendo le posizioni in liquidità e immobili, e spostando gli investimenti su 'equity' e investimenti alternativi".

Secondo le previsioni del rapporto la ricchezza finanziaria dei milionari raggiungerà i 44.600 miliardi di dollari entro il 2010, crescendo del 6% ogni anno.

 

21 giugno

L'ex premier: "Indegni" gli italiani che bocciano la riforma costituzionale
Immediata la replica del web con il sito sonounindegno.com

Berlusconi insulta chi vota No
in Rete il blog degli indegni

 
<B>Berlusconi insulta chi vota No<br>in Rete il blog degli indegni</B>
di CLOTILDE VELTRI
Non ha fatto neanche in tempo a pronunciare l'insulto che i blogger si sono scatenati online dando vita a sonounindegno.com. Berlusconi dà degli indegni agli italiani che voteranno No al referendum. La Rete coglie l'attimo e risponde a tono. Aprendo un blog e, di conseguenza, il dibattito.

Come un déjà vu. Sembra ieri che l'allora presidente del consiglio definiva "coglioni" gli elettori del centrosinistra colpevoli di non votarlo. Allora, per protesta, la Rete si ribellò. Nacque sonouncoglione.com che fece migliaia di proseliti e un esercito di utenti (non solo di sinistra) arrabbiati, offesi, pronti a dire la propria.

Oggi Berlusconi replica. E il web pure. Nel pomeriggio il leader di Forza Italia apre la manifestazione romana per il sì al referendum e si lascia andare a uno dei suoi apprezzamenti verso chi non la pensa come lui. Dice alla folla: "Nessun italiano può sentirsi degno di essere tale se domenica non sarà andato a dare il proprio sì alla riforma costituzionale".

Insomma, quelli che voteranno No sono indegni di essere italiani. I blogger colgono al volo. E, appena un'ora dopo la dichiarazione, compare online il sito sonounindegno.com.

Autori, gli stessi di sonouncoglione.com. Che si definiscono come "un gruppo di amici che in un pomeriggio della primavera romana, scoprirono d'essere dei coglioni. Adesso che l'estate sta cominciando, apprendiamo d'esser diventati altro: non più dei coglioni, ma finalmente degli indegni".

Il blog ha già qualche commento perché gli internauti sono veloci e hanno voglia di comunicare. C'è chi ironizza: "Per fortuna che c'è Silvio".

 

La malattia di Mirafiori

Le ragioni della sconfitta di Fim, Fiom e Uilm L'uscita dalla crisi Fiat premia l'aziendalismo
Quale sindacato? La Fiom si interroga sui motivi del calo di consensi in fabbrica

Loris Campetti
La sconfitta dei sindacati confederali alle Carrozzerie di Mirafiori, per le sue dimensioni e il contesto in cui è maturata, merita attenzione. Partiamo dai numeri: la Fim scende dal 30 al 26,7%, la Fiom dal 28,1 al 23,6% e la Uilm dal 17,2 al 14,3%, cedendo la terza posizione al Fismic che sale dal 13,9% al 19,9%. A guadagnare in voti e in percentuale, insieme al sindacato giallo (il Fismic è l'erede del sindacato aziendalista che si chiamava Sida), troviamo l'Ugl, il sindacato di destra erede della Cisnal che sale dal 6,9% al 9,8% e i Cobas in salita dal 3,7% al 5,5%. Lo schiaffo preso dai confederali al voto per il rinnovo delle Rsu segue di pochi mesi un altro segnale negativo per Fim, Fiom e Uilm: nella più grande fabbrica italiana, al referendum per l'approvazione dell'accordo sul contratto nazionale, solo poco più della metà dei lavoratori aveva votato sì. Per onestà di cronaca va detto che in diversi stabilimenti Fiat il contratto è stato addirittura bocciato.
Dunque, Fim Fiom e Uilm perdono il 10,7%. La Fiom scende in tutti i settori delle carrozzerie, dalla lastratura alla verniciatura, al montaggio. Cresce soltanto - ed è curioso - tra gli impiegati e tra i vigilanti. Che succede a Mirafiori? Innanzitutto va detto che le dichiarazioni del ministro del lavoro Cesare Damiano, torinese ed ex segretario della Fiom piemontese, conoscitore attento della realtà di Mirafiori, vengono contestate dal segretario della Fiom torinese Giorgio Airaudo: non è vero che i meccanici della Cgil passano dalla maggioranza assoluta al 23%. Il massimo dei consensi nelle elezioni delle Rsu dall'84 (le prime dopo fine dell'esperienza dei consigli di fabbrica, con i delegati eletti dai gruppi omogenei) è il 29%. Evidentemente Guglielmo Epifani che parla di discesa «dalla maggioranza a poco più del 20%» è stato «sviato dalle dichiarazioni di Damiano», insiste Airaudo. Anche secondo il segretario generale della Fiom Gianni Rinaldini, quello di Damiano «è un commemnto che nulla ha a che vedere con la realtà espressa dai voti dei lavoratori ma riguarda il giudizio sulla Fiom, fino al punto di fornire dati sbagliati». Non è la prima volta, aggiungiamo noi, che viene tentata un'operazione di attacco-normalizzazione nei confronti della Fiom. Anche per Rinaldini, lo schema per leggere il voto di Mirafiori non è quello consunto moderati/radicali. E' in gioco la natura stessa del sindacato, il suo futuro: «La capacità di esercitare un ruolo sulla prestazione lavorativa che non può prescindere dall'attivazione dei lavoratori e dei delegati.
Pur senza esagerare sui numeri, la sconfitta c'è e va analizzata. La prima considerazione che ci viene dai delegati e dai dirigenti sindacali a cui abbiamo chiesto «che succede a Mirafiori?» è che tra il voto per l'elezione delle Rsu di tre anni fa e quello della scorsa settimana, alla Fiat è cambiato quasi tutto. Quando a Mirafiori si lottava contro la chiusura, in piena crisi Fiat, crescevano i consensi all'organizzazione che più si è battuta in difesa del posto di lavoro e della continuità della produzione automobilistica, cioè la Fiom. Quando si è vista la fine del tunnel, quando è arrivata una nuova linea per la Grande Punto, quando la cassa integrazione è stata riassorbita (salvo tra gli impiegati, quelli che, soli, hanno fatto crescere i voti della Fiom)), «si è tornati all'antico», dice Airaudo. Lo spiega bene Fabio Di Gioia, delegato degli impiegati a Volvera: «Quando c'è da lottare stanno con noi, quando c'è un po' di grasso da condividere rispunta l'aziendalismo e molti scelgono i sindacati più vicini all'azienda, quelli che riescono a ottenere "favori"». I favori sono poi un cambiamento di turno, un po' di straordinari per chi ha più problemi economici in famiglia. Su questo terreno, il Fismic funziona meglio di Fiom, Fim e Uilm.
Però cresce anche il sindacato di destra, l'Ugl. Due le spiegazioni, una sindacale e una politica. Quella sindacale non si discosta dalle riflessioni di Rinaldini: «Da 10 anni non riusciamo a contrattare nulla, non si rinnova l'integrativo, non si contratta l'organizzazione del lavoro». Al massimo riesci a trattare le ferie e la festività per il santo patrono», dice Di Gioia. Airaudo aggiunge che il sindacato ha un ruolo più politico che non legato alle condizioni di lavoro. In più, non funziona nelle grandi fabbriche il sistema di rappresentanza delle Rsu: 45 delegati per 5.300 dipendenti, «intere linee e settori non hanno un delegato». Contrattazione, e rappresentanza: «nei grandi stabilimenti il sistema delle Rsu non funziona». Per Rinaldini come per Airaudo, il sindacato deve strutturarsi in modo da tornare a incidere, rimettendo radici nei reparti».
Infine, un problema politico: lo schema «sindacato rosso» e voto a destra non funziona più, anche a Torino: «La novità non è che parte dei lavoratori vota a destra, ma che ora rivendicano questa scelta, e magari anche l'adesione al sindacato di classe comincia a venir meno». Qualcuno ricorderà l'inchiesta del manifesto sul voto a destra degli operai del Nord.


Ferrovieri in sciopero per la sicurezza

Fs fa fallire la procedura di conciliazione e non riassume De Angelis, delegato e licenziato
Francesco Piccioni
Un braccio di ferro tutto politico. Quella in corso tra le Ferrovie dello stato e il Coordinamento dei delegati Rsu e Rls non è una vertenza qualsiasi.In gioco c'è - all'interno di un'azienda ancora di prorietà pubblica - la possibilità o meno di ogni singolo lavoratore di far rispettare il diritto alla sicurezza propria e dei passeggeri.
Ieri mattina è stato esperito il «tentativo di conciliazione» obbligatorio tra le Fs e i rappresentanti legali di Dante De Angelis, macchinista e delegato alla sicurezza licenziato per essersi rifiutato di guidare un eurostar dotato del «pedale a uomo morto» (vedi l'intervento a pag. 2). Con alle spalle un proscioglimento pieno da parte del tribunale di Bologna, che aveva giudicato il suo comportamento perfettamente legittimo, si pensava che l'azienda avrebbe accettato di minimizzare la sconfitta, accettando di riassumere Dante, con mansioni e stipendio identici. Per facilitare la conciliazione Dante si era detto perfino disposto a rinunciare agli stipendi fin qui perduti. Incredibilmente, però, si è trovato di fronte all'offerta di essere riassunto, ma solo come usciere in una società secondaria del gruppo; con in più l'insulto di presentare questo gesto come un atto caritatevole «per garantire la sussistenza economica» della sua famiglia. Un insulto gratuito e autocontraddittorio, come ha rilevato Piergiovanni Alleva, coordinatore nazionale dell'ufficio giuridico della Cgil e difensore di Dante. Una «offerta di riassunzione presuppone la ricostruzione del rapporto di fiducia» con il dipendente e rende illogico il «diniego di reintegro nelle mansioni». L'azienda, insomma, vuole continuare a usare questo caso come un «esempio» per piegare gli altri macchinisti a usare l'«uomo morto» e accettare di viaggiare soli in macchina (oggi si va in due, «per sicurezza»). Tutto per ridorre il personale.
L'incontro fallito di ieri mattina era decisivo per scongiurare lo sciopero che inizierà stasera alle 21 e proseguirà fino alla stessa ora di domani. L'agitazione è stata decisa dal Coordinamento dei delegati (oltre che dai sindacati di base Cub e Sult), una struttura informale di iscritti un po' a tutti i sindacati, e che si è formata all'indomani del tremendo incidente di Crevalcore, alle porte di Bologna, dove persero la vita 17 persone, tra cui quattro macchinisti. La questione della sicurezza, da allora, ha provocato più scioperi di quanti ne siano stati fatti per il contratto. Un argomento che ha rafforzato notevolmente il rapporto tra ferrovieri e passeggeri - diverse associazioni di pendolari hanno solidarizzato apertamente, protestando con le Fs - ma che viene maneggiato con qualche difficoltà dai sindacati firmatari di contratto. Si deve aggiunge poi che la stessa «timidezza» è stata mostrata dai sindacati nel difendere i quattro ferrovieri licenziati per aver collaborato con la trasmissione
Report di raiTre, due anni fa; e anche nella vicenda di Dante. A quel punto il movimento spontaneo dei ferrovieri ha preso l'iniziativa, provocando qualche scossone alle organizzazioni meno «centralistiche». L'Orsa, per esempio, non aderisce ufficialmente allo sciopero di oggi (come Cgil, Cisl, Uil, Ugl); ma molte strutture locali, tra cui quella regionale toscana, sì. Sulla questione dei licenziati è mosso, infine, anche il neo ministro delle infrastrutture, Alessandro Bianchi. Il quale ha inviato una lettera all'amministratore delegato delle Fs, Elio Catania, per chiedere - «anche in seguito a ripetute sollecitazioni ricevute dalle organizzazioni sindacali» - «una nota informativa circa la situazione contrattuale dei lavoratori in questione». Il vertice di Fs ha voluto fare di quella con De Angelis una vertenza esemplare; logica vorrebbe che ne pagasse le conseguenze.

 

Pakistan La protesta dei giornalisti

Centinaia di giornalisti e oppositori hanno manifestato ieri in Pakistan: chiedono un'indagine della Corte suprema sull'uccisione di un giornalista rapito mesi fa e trovato cadavere venerdì scorso. Hayatullah Khan lavorava in Nord Waziristan, zona tribale teatro di un'offensiva dell'esercito pakistano contro al Qaeda; aveva riferito dell'uccisione di un presunto leader di al Qaeda dando una versione diversa da quella ufficiale. «E' un avvertimento a tutti noi a chiudere la bocca», protestano i giornalisti.


Ai palestinesi «beneficenza» Ue: 200 dollari a famiglia

Aiuti per 126 milioni di dollari, ecco i «doni» di Ferrero Waldner. Mentre Hamas distribuisce 30 milioni e parla «in modo positivo» con Abu Mazen
Michele Giorgio
Gerusalemme
Nutritevi, consumate, e la prossima volta votate per i partiti «giusti» e non per Hamas. E' questo il senso del viaggio in Israele e Territori occupati del Commissario per l'Ue, Benita Ferrero-Waldner, che ieri ha promesso, a nome dei governi europei, donazioni (200 dollari al mese) per 180.000 famiglie di Cisgiordania e Gaza alla fame dopo quattro mesi di boicottaggio e di interruzione dei finanziamenti all'Anp. 126 milioni di dollari di aiuti d'emergenza per tamponare le conseguenze umanitarie delle drastiche decisioni prese da Usa e Ue dopo la vittoria elettorale del movimento islamico.
Applaude il presidente Abu Mazen pronto a raccogliere i frutti del «regalo» fatto dagli europei ai palestinesi aggirando Hamas. Ma il movimento islamico viaggia sullo stesso binario. Nello stesso giorno dell'arrivo di Benita Ferrero-Waldner, il governo di Ismail Haniyeh ha annunciato che decine di migliaia di dipendenti pubblici riceveranno un anticipo di circa 240 euro sugli stipendi arretrati. I milioni di dollari, circa una trentina, portati nei giorni scorsi a Gaza da alcuni ministri di Hamas passando per il valico di Rafah, rappresentano una sorta di risposta alle donazioni europee e mantengono elevato il consenso al governo.
Rahwi Fattuh da parte sua non ha dubbi. L'ex presidente del Consiglio legislativo e ora inviato speciale di Abu Mazen, continua a ripetere che i colloqui degli ultimi giorni tra Hamas e Al-Fatah «sono stati positivi» e che le due parti hanno raggiunto un accordo «su quasi tutti i punti» del «documento di pace» elaborato dai prigionieri palestinesi in Israele. A voler dare pieno credito alle dichiarazioni di Fattuh, dopo settimane di violenti scambi di accuse e di scontri a fuoco con morti e feriti a Gaza, i leader di Al-Fatah ed Hamas sarebbero pronti a sotterrare l'ascia di guerra.
Il referendum sul documento dei prigionieri convocato da Abu Mazen a questo punto potrebbe essere revocato e non solo per l'intesa imminente. I sondaggi danno segnali negativi al presidente. L'ultimo rivela che se il 75% dei palestinesi è favorevole a quanto proposto dai detenuti - incluso il riconoscimento di Israele - solo il 47% voterebbe «sì» al referendum poiché vi vede la volontà di Abu Mazen di sottomettere Hamas.
Scettico sulle possibilità di una intesa «vera» tra Al-Fatah e Hamas è l'analista Ghassan Khatib. «Hamas e Al-Fatah sono separati da differenze ideologiche enormi - afferma - temo che l'intesa di cui si parla si fondi su termini molti vaghi che, di conseguenza, la rendono fragile». I nodi veri, lascia intendere Khatib, non sono stati ancora sciolti, a cominciare dal ruolo dell'Olp nella soluzione del conflitto con Israele, senza dimenticare che Hamas non ha alcuna intenzione, almeno per il momento, di riconoscere lo Stato ebraico. «Non è escluso che le due parti stiano cercando un compromesso allo scopo di agevolare lo stanziamento dei fondi europei, rinviando ad un secondo momento lo scontro per il potere», aggiunge Khatib. Compromesso che consisterebbe nell'accettazione da parte di tutte le forze politiche palestinesi della risoluzione del vertice arabo di Beirut (2002) che a Israele offre pace e riconoscimento in cambio del suo ritiro dai territori arabi occupati nel 1967. Hamas nel frattempo non conferma né smentisce le voci che vorrebbero imminenti le dimissioni del governo Haniyeh e la formazione di un esecutivo di unità nazionale.

 

15 giugno

Il Guardian compra in Rete l'agente patogeno. Costo: 33 sterline

In assenza di leggi adeguate i laboratori vendono pezzi di Dna a chiunque

Terrorismo, il virus del vaiolo si può acquistare via Internet

LONDRA - Qualunque gruppo terroristico può acquistare con facilità via Internet alcuni dei maggiori agenti patogeni utili alla realizzazione di armi batteriologiche. E questo, a causa dell'assenza di regole certe che impediscano l'acquisto in Rete di virus mortali per l'uomo.
La scoperta è del quotidiano britannico The Guardian che, per provare come sia facile realizzare un'arma batteriologica, non ha fatto altro che acquistare via Internet una piccola sequenza di Dna del virus del vaiolo. Questo virus, essendo stato debellato circa 30 anni fa, esiste solo nelle versione realizzata in laboratorio.
Il Guardian ha acquistato online la sequenza di Dna dalla VH Bio Ltd, una società che ha sede a Gateshead (U.K.) e che fornisce strumentazioni e sostanze chimiche usate nei laboratori genetici. Attraverso una semplice email il quotidiano si è garantito una sequenza di 78 lettere di Dna della proteina del vaiolo al modico prezzo di 33 sterline e 8 centesimi, più 7 sterline di spese postali.
Uno studio dimostrerebbe che ormai è praticamente impossibile per l'uomo resistere al vaiolo e che anche se solo dieci persone fossero contagiate, il virus si propagherebbe velocemente: in 180 giorni sarebbe in grado di infettare due milioni di persone.
Secondo il Guardian in realtà, qualsiasi terrorista, può acquistare sequenze di Dna di agenti patogeni o virus mortali e poi assemblarle creando un arsenale micidiale. I laboratori che vendono questi piccoli pezzi di codice genetico, infatti, non sono tenuti per legge a verificare che tipo di frammento di Dna stanno vendendo, nè tanto meno chi lo sta acquistando.
Nessuna delle quattro principali società inglesi che operano in questo campo verificano in modo regolare l'origine degli ordini, spiega il Guardian. E lo stesso vale per le 39 società che lavorano negli Stati Uniti e in Canada.
Insomma, è la tesi del quotidiano, esiste un pericoloso gap tra tecnologia e legge che andrebbe colmato al più presto. In realtà il problema è sorto per la prima volta nel 2002 quando i ricercatori americani misero insieme il genoma della poliomielite usando, appunto, corte sequenze di Dna, mentre lo scorso anno un pool di ricercatori ha ricreato in laboratorio il virus dell'influenza che nel 1918 fece circa 20 milioni di morti, più della prima guerra mondiale.

 

Un po' giocattoli un po' assassini

di Alessandro Gilioli

Si chiamano Soft air. Sono identiche alle armi vere. Sparano proiettili di plastica o metallo. Piacciono alla malavita. Ma anche ai ragazzini. Perché si vendono liberamente Beretta 92 calibro noveDue gocce d'acqua, anzi di piombo
Stesse dimensioni, fino al millimetro. Persino stesso peso, a caricatore vuoto: 975 grammi. E materiali molto somiglianti. La Beretta 92 per Soft air prodotta dalla Tokyo Marui è un capolavoro di precisione nipponica. Senza il tappo rosso, anche un esperto per distinguerla da un'arma vera deve riuscire a guardare nella canna.
La Beretta 92 in calibro nove è la pistola più diffusa e famosa del mondo, adottata anche dalle forze armate americane come nella versione qui illustrata. Unica differenza tra l'arma reale e quella soft air è la scritta incisa sulla fiancata: quella vera ha il nome della Beretta, la replica ha quello della Tokyo Marui. Una differenza quasi invisibile.
Stampa questa scheda
La legge è chiara: non si capisce niente
A sentire commercianti e appassionati, le Soft air sono del tutto legali, e in effetti si vendono in tutta Italia. In realtà la situazione è un po' più complessa, perché se è vero che la potenza di questi arnesi è inferiore al Joule (quindi sono classificati 'armi non offensive', in libera vendita) è anche vero che l'articolo 5 della legge del 18 aprile 1975 dice che "i giocattoli riproducenti armi non possono essere fabbricati con l'impiego di tecniche e di materiali che ne consentano la trasformazione in armi da sparo o che consentano il lancio di oggetti idonei all'offesa della persona". Fino a oggi, più che altro per superficialità, le autorità non hanno ritenuto di applicare questa norma alle Soft air, che tuttavia possono facilmente essere modificate in modo pericoloso e soprattutto possono sparare palllini di metallo (come quelli dei cuscinetti a sfera) "idonei all'offesa della persona" . Ammesso e non concesso che siano invece innocui i pallini di plastica, che possono cavare un occhio. ...
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Sonni profondi al Viminale?
La questione delle finte armi giocattolo - in grado di ferire e identiche alle originali - è un ennesimo esempio della scarsa capacità del legislatore di stare al passo con le evoluzioni del costume. Entrate sul mercato nei primi anni Novanta e via via cresciute come fenomeno di massa, le Soft air non esistono né per la legge né per i suoi regolamenti. Se ne interessa giusto qualche circolare di Polizia, in modo peraltro assai vago. Il vecchio governo - che pure aveva fatto della lotta alla microcriminalità uno dei suoi impegni - non se n'è mai occupato, lasciando che queste repliche perfette proliferassero a ogni livello, anche nella piccola malavita. Nessuno si è accorto che giovani 'guappi' e delinquenti di periferia hanno trovato la loro Mecca, potendo comprarsi come e quando vogliono, a basso prezzo e senza mostrare un documento, questi stupefacenti fac-simili di mitra e revolver, magari poi modificandoli per renderli più potenti. Non esistendo per legge, le Soft air hanno approfittato della propria eludibilità, sicché non si è neppure pensato di rendere obbligatorie sulla confezione delle chiare avvertenze in italiano che potessero mettere in guardia i genitori su quel che maneggiano i loro figli: una superficialità che mal si concilia con le tante parole sulla tutela dei minori e della famiglia. ...
Leggi tutta la schedaL'ultimo incidente è avvenuto un paio di settimane fa in un appartamento di Milano, zona porta Romana. Edoardo T., 15 anni, liceale del Berchet, va a trovare un amico, anche lui minorenne. Che, per scherzo, gli punta contro la sua Beretta 'giocattolo' in metallo e Abs. e gli spara un colpo al volto. Il proiettile di plastica spezza gli occhiali da vista del ragazzo e i frammenti gli finiscono nella cornea. Edoardo viene portato di corsa al Policlinico, è operato d'urgenza, rischia di perdere l'occhio, gli mettono un cristallino artificiale. Bene che gli vada, ci vedrà un po' meno tutta la vita. Male che gli vada, dovrà tentare un trapianto.
L'ultima bravata invece è accaduta durante il ponte di Pasqua nella pineta di Marina di Grosseto. Un paio di ceffi in tuta mimetica puntano le loro mitragliette finte su uno sfortunato passante, gridando: "Mani in alto, pancia a terra, non si muova!". Solo quando il poveraccio è sdraiato sull'erba, terrorizzato, i due si mettono a sghignazzare, "maddai che è solo uno scherzo!".
La replica MaruiBenvenuti nel magico mondo delle Soft air, repliche di armi perfettamente identiche alle originali, sia come aspetto sia come peso. Fabbricate perlopiù in Giappone, elettriche o a gas, impazzano tra i ragazzi che giocano alla guerra ma non sono disdegnate né dalla piccola malavita, né dai gradi più bassi della camorra. In altri paesi - come l'Olanda e l'Inghilterra - sono state vietate o rigidamente regolamentate. Per la legge italiana - in costante ritardo su ogni gadget tecnologico, specie quelli che provengono dai mercati orientali - sono invece degli innocui giocattoli che chiunque, minorenni compresi, può acquistare in centinaia di negozi o in Internet. In realtà questi aggeggi si trovano quanto meno in una zona grigia e ambigua. è vero: le Soft air sparano solo pallini di plastica (dura) che se ti finiscono addosso da una dozzina di metri ti procurano poco più di un fastidio. Ma negli occhi - come si è visto - possono far saltare la cornea. In bocca ti spezzano un dente. Sparati da vicino, se finiscono su una vena o su un'arteria, possono causare emorragie e lasciare cicatrici perenni. E soprattutto, somigliano maledettamente alle armi vere.
Sicché il pericolo non riguarda solo ragazzotti incauti che credono di avere in mano un giocattolo e invece spediscono gli amici all'ospedale. Ma anche o principalmente i negozianti che si vedono arrivare in bottega delinquenti e tossicomani con in mano armi identiche a quelle originali, che neppure un esperto sarebbe in grado di sgamare. I mattinali di polizia e carabinieri riportano sempre più spesso storie di piccole rapine - specie nei minimarket e dai benzinai - in cui al posto delle pistole vere vengono usati aggeggi di questo tipo, ma nessuno sa quanti siano in realtà i colpi effettuati con le 'replica gun', dato che - se il grilletto non viene premuto e il bandito non viene acchiappato - le vittime non possono immaginare di avere avuto di fronte una Soft air.
La moda di queste copie perfette viene dal Giappone, dove sono state inventate negli anni Ottanta. Da noi sono arrivate dopo un paio di lustri e si sono sposate alla perfezione con la mania crescente dei giochi di ruolo: a ragazzi d'ogni età e quarantenni un po' in ritardo piace pittarsi la faccia di verde e marrone, coprirsi da capo a piedi con tute mimetiche e giocare alla guerra, dividendosi in squadre e sparpagliandosi tra i boschi fuori città. Quando uno viene colpito da un pallino di plastica, si dichiara morto e buonanotte. Fin qui, niente di male o quasi: la gran parte degli appassionati indossa occhiali protettivi e guanti imbottiti, avvisa i carabinieri o la polizia prima di cominciare a impallinarsi, non si diletta a mettere in fuga le famigliole al picnic. Dopodiché, tuttavia, le recenti cronache locali sono piene di infelici eccezioni, vale a dire di softgunner (magari un po' sbronzi) che usano le proprie imitazioni per spaventare i passanti o per fare i ganzi roteando le pistole fuori dai bar. A Sotto il Monte, paese del bergamasco noto per aver dato i natali a papa Roncalli, gli episodi di questo tipo sono diventati talmente frequenti che il sindaco, Eugenio Bolognini, ha dovuto firmare un'ordinanza per vietare "ogni simulazione di esercitazioni belliche" nel suo territorio: non ne poteva più di aspiranti miliziani che spuntavano da dietro gli alberi agghiacciando i turisti della domenica. Qualcosa di simile stanno pensando di fare anche a Piobbico, nelle Marche, un altro dei posti prediletti dai fan delle battaglie simulate.

 

14 giugno

 

L'organizzazione internazionale presenta un rapporto sulle 'rendition'
"I governi europei ne discutano a Bruxelles e collaborino alle indagini"
 

Amnesty scrive a Prodi e Mastella
"Basta segreti e complicità su voli Cia"


<B>Amnesty scrive a Prodi e Mastella<br>"Basta segreti e complicità su voli Cia"</B>
Una manifestazione
di Amnesty

ROMA - La denuncia c'era già nel rapporto annuale, ora Amnesty passa all'azione politica contro la complicità europea nei trasferimenti illegali di prigionieri voluto dagli Stati Uniti. L'organizzazione internazionale che si batte per il rispetto dei diritti umani punta il dito contro i paesi europei, tra i quali quattro membri dell'Unione (Germania, Italia, Svezia e Gran Bretagna, Macedonia, Bosnia Erzegovina, Turchia,) che si sono resi complici di una grave infrazione delle leggi internazionali e chiede loro di "smettere di non vedere quanto di male c'è stato finora".

La Sezione Italiana di Amnesty International, così come hanno fatte altre sezioni nazionali nei loro paesi, ha scritto oggi al presidente del Consiglio, Romano Prodi, e al ministro della Giustizia, Clemente Mastella, affermando che "la complicità e le omissioni degli Stati coinvolti, contrarie ai loro obblighi di diritto internazionale e interno, hanno contribuito fortemente a rendere possibili gli abusi connessi a questa prassi illegale e tra tali paesi vi è anche l'Italia".

L'organizzazione per i diritti umani descrive nel rapporto 'Partner in un crimine: il ruolo dell'Europa nelle 'rendition' Usa', il trasferimento illegale di tredici persone nell'ambito di sei operazioni di 'rendition' che chiamano in causa sette paesi europei, quattro dei quali membri dell'Ue. Il rapporto analizza i vari livelli di coinvolgimento di questi Stati, evidenziando come essi, in base al diritto internazionale, siano stati complici negli abusi dei diritti umani commessi nell'ambito delle 'rendition'. Questa, sottolinea Amnesty International, è una pratica illegale in cui una persona viene arrestata illegalmente e trasferita in segreto in un paese terzo, dove è vittima di altri crimini quali la tortura, i maltrattamenti e la 'sparizione'.

"Spesso l'Europa si definisce come un punto di riferimento per i diritti umani - sottolinea Claudio
Cordone, Direttore della ricerca di Amnesty International - La scomoda verità è che senza il suo aiuto, ora un po' di persone non starebbero cercando di riprendersi dalle torture che hanno subito in prigioni situate in varie parti del mondo. Gli Stati europei devono porre fine all'approccio basato sul detto 'occhio non vede, cuore non duole' e adottare tutte le misure necessarie per porre fine alla pratica delle 'rendition' nel loro territorio".

Inoltre, ha aggiunto Cordone, "gli Stati europei non devono nascondere la propria complicità nel programma Usa delle 'rendition' dietro lo schermo dei propri servizi segreti. Alcuni Stati hanno addirittura consegnato persone alla Cia, assumendosi pertanto la responsabilità delle torture e degli altri abusi loro inflitti".

In base al diritto internazionale, gli Stati che facilitano il trasferimento di persone verso paesi in cui è noto, o dovrebbe essere noto, il rischio che queste subiranno gravi abusi dei diritti umani, sono complici di questi stessi abusi. Le singole persone che si rendono complici di sequestri di persona, torture e 'sparizioni' dovrebbero essere considerate responsabili sul piano penale.

Il programma di 'rendition' ha anche messo in luce il fatto che i servizi segreti Usa possono svolgere operazioni coperte in Europa, al di fuori della legge e senza essere chiamati a rendere conto delle proprie azioni. L'Ue deve assicurare lo sviluppo di un quadro di regole che disciplini le attività dei servizi segreti nazionali ed esteri.

Il rapporto di Amnesty International si basa su registri di volo, inchieste giornalistiche, dichiarazioni di agenti dell'intelligence, denunce di organizzazioni non governative e indagini della magistratura. Tutte queste fonti fanno suonare sempre più false le affermazioni dei paesi europei riguardo alla mancanza di un loro ruolo nelle 'rendition'. "La continua negazione, da parte degli Stati europei, del proprio coinvolgimento nelle 'rendition' e la mancanza di qualsiasi significativa risposta da parte dell'Ue, con l'eccezione del Parlamento europeo, rappresentano un grave problema, non solo per la credibilità di questa
istituzione ma anche per l'efficacia delle misure anti-terrorismo - ha commentato Dick Oosting, direttore dell'Ufficio di Amnesty International
presso l'Ue.

In ambito italiano il rapporto di Amnesty International sulle 'rendition' fa riferimento al rapimento dell'imam egiziano conosciuto con il nome di Abu Omar, da parte di agenti della CIA, evidenziando come, dai molteplici elementi disponibili, appaia inverosimile che tale operazione sia stata svolta senza che alcun pubblico funzionario italiano ne fosse a conoscenza. Amnesty International chiede al governo italiano di contribuire efficacemente a fermare la pratica delle 'rendition', dichiarando pubblicamente tale impegno, avviando inchieste imparziali e accurate e cooperando attivamente alle indagini internazionali e interne già in corso.

In particolare, l'organizzazione per i diritti umani chiede che alle autorità italiane di collaborare con la magistratura chiedendo l'estradizione delle persone per cui è stato emanato un mandato di arresto e di fornire alla stessa tutte le informazioni a propria
disposizione circa le azioni compiute da agenti della CIA prima, durante e dopo il rapimento di Abu Omar.

 

13 giugno

Il presidente degli imprenditori: "Lascio l'impegno
prima o poi potrei chiudere le imprese e trasferirmi"
Antiracket, l'addio di Callipo
"La Calabria è persa, mi ritiro"

di ATTILIO BOLZONI


Filippo Callipo

UN ANNO fa aveva scritto a Ciampi e chiedeva l'esercito in campo contro la 'ndrangheta. Ma oggi, esattamente dodici mesi dopo quel suo grido, ha deciso di dimettersi da presidente della Confindustria calabrese. "Basta, entro giugno scade il mio mandato e me ne vado per sempre. Non ce la faccio più, se continuo a denunciare quello che gli altri non vogliono mai denunciare finirà che mi prenderanno per pazzo e mi chiuderanno in una clinica per malattie mentali". Se ne va Filippo Callipo, l'industriale calabrese del tonno che ha provato a ribellarsi al racket e che si è ritrovato solo a combattere contro i boss.

E' una scelta definitiva, presidente?
"Sì, lascio e forse un giorno o l'altro farò un altro passo ancora. Come tanti altri miei colleghi, venderò tutto quello che ho e me ne andrò lontano dalla Calabria".

Perché ha deciso di dimettersi? C'è stato un episodio particolare, è accaduto qualcosa che l'ha spinta a mollare tutto e tutti?
"Qui in Calabria la situazione è come cinque annni fa, è come tre anni fa, è come un anno fa o come la settimana scorsa. O come ieri l'altro, quando a Vibo Valentia hanno prima ucciso e poi dato fuoco a quell'imprenditore agricolo che aveva fatto i nomi dei suoi estorsori. Qui in Calabria non è cambiato nulla, non cambia mai niente".

Neanche dopo il delitto Fortugno, non c'è stato qualche segnale nuovo nemmeno dopo le operazioni di polizia partite dopo l'uccisione del vicepresidente del consiglio regionale?
"Tranne qualche latitante arrestato e un po' di pulizia fatta qua e là, non vedo grandi mutamenti in Calabria. E soprattutto non vedo nascere la fiducia nelle persone che vivono dalle nostre parti. Non voglio essere sempre pessimista ma i fatti sono fatti. E non voglio nemmeno fare polemica, le cose però stanno così".

Non è cambiato proprio niente allora?
"La settimana scorsa ho saputo che gli avvocati della camera penale di Vibo hanno firmato tutti insieme un documento dove chiedono più sicurezza nel loro territorio. Certo, è qualcosa, è importante che anche le categorie professionali facciano sentire la loro voce. Ma della sicurezza del territorio ne parlavo da solo già cinque o sei anni fa e tutti dicevano che ero un pazzo scatenato".

Anche i suoi colleghi imprenditori?
"Alcuni mi battevano la mano sulle spalle e mi dicevano: 'Bravo Filippo, bravo, continua così'. E poi mi lasciavano andare avanti tutto solo. Altri invece mi hanno sempre attaccato, altri dicevano che con le mie denunce pubbliche e con le accuse continue contro la criminalità organizzata stavo rovinando l'economia della Calabria e anche il rapporto tra le imprese e la classe politica locale. E allora che se lo tengano pure quelli lì il loro rapporto con la classe politica locale, se lo tengano a suon di mazzette. Io non ci sto, io mi ritiro".

Non crede che ci siano ancora le condizioni per portare avanti la sua battaglia contro il racket e contro la corruzione nella burocrazia, nelle amministrazioni?
"No, non ci credo più. E oltre a dimettermi, d'ora in poi non concederò più neanche interviste ai giornali. Mi sono scocciato di parlare sempre solo e soltanto io. Questa è l'ultima intervista, non risponderò più neanche ai giornalisti. Sono veramente sconfortato".

Ha mai parlato con Luigi De Sena, lo ha mai incontrato il superprefetto mandato a Reggio nell'autunno scorso?
"Mai. L'ho visto casualmente solo una volta durante un incontro. Non mi ha mai chiamato, non mi ha mai chiesto nulla di tutte le denunce fatte nei mesi e negli anni passati come presidente della Confindustria calabrese".

Dopo il suo appello a Ciampi e dopo le polemiche che sono seguite, da Roma si è fatto sentire qualcuno?
"Silenzio totale. Quel mio sfogo nel giugno del 2005 sulla 'ndrangheta che in Calabria soffocava le imprese e tutto il resto, è caduto nel vuoto. Ecco perché ho deciso di andarmene".

Pentito di avere parlato a voce alta?
"No, sono pentito di avere iniziato altre avventure imprenditoriali in questa regione. L'anno scorso ho avviato un progetto per una fabbrica di gelati a Maierato e un altro progetto per la realizzazione di alcuni impianti turistici. Oggi non lo rifarei più, ho capito che non vale la pena di investire in Calabria. Al contrario, ogni giorno sono tentato di vendere e trasferirmi fuori, nel nord Italia o da qualche altra parte".

Ha ricevuto altre minacce, altre intimidazioni?
"No, in questi ultimi mesi non più".

L'anno scorso mi aveva raccontato che era stato dall'allora ministro degli Interni Pisanu e gli aveva chiesto: ministro, mio figlio studia a Milano e vuole tornare in Calabria, lei mi deve dire se può tornare o no perché io non so cosa rispondergli. Suo figlio è tornato?
"Gli mancano pochi mesi per laurearsi e lui vuole tornare per lavorare nella nostra azienda".

E lei cosa gli ha detto, cosa gli ha consigliato?
"Niente, come un anno fa non so cosa dire a mio figlio".


 

12 giugno

Sono oltre 40 i deputati e i senatori che percepiscono la doppia
indennità. Formigoni farà un referendum prima di decidere

Parlamentari e insieme consiglieri
E' la stagione del "cumulante"

 
Roberto Formigoni


FURBISSIMI più dei napoletani e veloci quanto le lepri, incassano tutto quel che c'è da incassare e fin quando si può. Sono infatti cumulanti. Il cumulante è la figura che inquadra la legislatura che si è appena aperta. Degno della miglior commedia all'italiana, il parlamentare cumulante "tiene famiglia" prima di tutto. E dunque cumula. Cumula, raddoppia, triplica o anche quadrupla le funzioni e le relative indennità ad essere riferite. Cumula anche quando la legge in teoria lo vieterebbe, cumula fin che la legge (e, forse, un po' di imbarazzo) non lo obbligano a rinunciarvi.

Deputati e consiglieri regionali, sottosegretari e assessori regionali. Il rapporto incestuoso si sviluppa e prende forma secondo rituali sperimentati in Italia: la Costituzione dice no, le norme sono inderogabili, i vincoli stretti, l'obbligo cogente.

Non si può fare, però si fa.

Sono 33 i deputati e 13 i senatori che attualmente hanno dichiarato di cumulare gli incarichi. E già sono stati corretti e cortesi: perché la Giunta per le elezioni deve verificare le incompatibilità sulla scorta delle dichiarazioni personali. Entro trenta giorni dalla proclamazione, gli eletti saranno chiamati a scegliere, a optare. E se non lo fanno? Ah, buona domanda. Se il cumulante non lo fa, se è distratto o all'estero, allora il presidente della Giunta gli invia una lettera: "Caro collega, hai quindici giorni per optare". E se non lo fa? Se nemmeno la lettera-diffida serve? Terzo passaggio di carta: gli scrive il presidente della Camera e lo costringe. Gli scrive. Quando? Immediatamente.

Nell'interregno dell'immediatamente, in questo periodo di missive e accertamenti, che dovrebbe iniziare e concludersi in poche settimane, il cumulante gioca, se vuole giocarla, la partita. Più allunga il tempo, più rimane in carica, più soldi e potere si ritrova in tasca. Più resiste più incassa. Due cariche sono meglio di una.

Al proposito si ricorda la riuscitissima lezione che il presidente del Molise Michele Iorio (Forza Italia) riuscì a dare ai compaesani e soprattutto all'opposizione diessina. Nella passata legislatura per quasi un anno intero cumulò. Come fece nessuno lo sa, ma è successo, ed è agli atti. Quasi un anno di doppio incarico: una bella fortuna in banca per sé (400 milioni in più) e tanta attenzione nazionale ai molisani. Il tiramolla durò il tempo che durò, alla fine però Iorio venne via. Venne via, diciamolo, anche perché un cittadino conterraneo gli fece ingiungere dal giudice di Campobasso il ritorno a casa. Iorio è un cumulante recidivo: oggi è sempre presidente ma non più deputato. E' senatore. I diessini, capito l'antifona, hanno immediatamente scritto ma non alla Camera, bensì al giudice, così non ci vorranno altri dodici mesi per sbrogliare la matassa.

Matassa semplice a dire il vero. E' che la politica la rende complicata. Iorio la rese complicatissima. Indugiò così tanto nella riflessione che finì in carta bollata.

Riflessione che Formigoni, oggi e domani, affida invece ai lombardi. "Sto realizzando un grande referendum", ha annunciato. Volete voi che io rimanga a Milano o vada a Roma? Due risposte sulle tre invero possibili (né a Roma né a Milano) ma comunque efficace e diretto, e anche molto napoleonico. Fax, lettere, telefonate, web: tutto è concesso, eccetto le parolacce. Alla fine, scrutinato il voto, Formigoni deciderà.

Rimarrà in Veneto Galan, rimarrà in Sicilia Cuffaro e questa è una bella notizia. Perché finalmente Francesco Pionati, notista paludato del Tg1, riuscirà a strappare il biglietto per palazzo Madama. E' appiedato da più di due mesi, impossibilitato oramai ad andare in video, depresso, raccontano gli amici, come non mai. Attende ansioso la chiamata da primo dei non eletti.

La riflessione costringe anche moltissimi esponenti del centrosinistra al fermo tecnico cumulante. Rosa Rinaldi, la giovane comunista di Rifondazione, è deputata (indennità 1), sottosegretaria al Lavoro (indennità 2), vicepresidente della Provincia di Roma (indennità 3). Il verde Angelo Bonelli ha fatto invece bingo. Deputato (indennità numero 1), e capogruppo (con autista e auto blu e segreteria allargata), consigliere regionale (indennità numero 2), assessore regionale (indennità numero 3). Bonelli, visto che le sue giornate sono paurosamente vuote, si è fatto eleggere anche consigliere municipale di Ostia (indennità numero 4?). Vero, l'esponente verde, che è giovane e ha grinta da vendere, ha dichiarato di essersi comunque dimesso da consigliere regionale. La Camera, che vuol fare le cose in regola, attende che la regione Lazio prenda nota della rinuncia. E' una parola! Finché non si riunirà e "accetterà" le dimissioni, gli euro, una valanga, lo sommergeranno. Può dirsi contento anche Marco Verzaschi (cumulo di tre indennità), sottosegretario, deputato e consigliere, del diessino lucano Bubbico (idem), del forzista Maurizio Bernardo, (assessore della Lombardia e deputato), del romano Andrea Augello, An (consigliere, vicepresidente del Lazio e deputato).

Tutta questa gente è costretta a ritirare l'indennità parlamentare. Obbligatoria per legge, difende l'autonomia dell'alto incarico ed è impignorabile. Chi è immerso nella riflessione e sta decidendo - con calma, chiaro - dove e quando optare passa nel frattempo anche alla cassa della Regione e somma (l'indennità di consigliere semplice è pari al 65 per cento di quella parlamentare, quella di assessore regionale è pari all'85 per cento, quella di presidente di regione può arrivare al 120 per cento).

Sommare è sempre più bello che sottrarre.

 

Orfani del Monopoli di tutto il mondo: unitevi!
di Carlo Bertani

Sarà proprio vero che il petrolio sale di prezzo? Non sarà, per caso, che siamo noi occidentali a “scendere”?

“Essenza, benzina o gasolina,
soltanto un litro: in cambio ti do Cristina.
Se vuoi la chiudo pure in monastero,
ma dammi un litro d’oro nero!”
Rino Gaetano – Spendi spandi effendi – 1977
Negli ultimi anni gli analisti economici internazionali attendono il crollo dell’economia mondiale, poiché la situazione economica della maggior potenza mondiale – gli USA – è prossima alla bancarotta: complesse alchimie finanziarie cercano di coprire ciò che oramai non è più possibile nascondere (a meno d’essere degli assidui fan dell’informazione di regime).
Con simili abissi di debiti – che comprendono il saldo con l’estero, il deficit di bilancio statale e l’indebitamento delle famiglie – non si tratta di stabilire “se” avverrà, ma “quando” avverrà. Insomma, il re è nudo ed oramai sono in tanti a gridarlo.
I recenti, violenti squilibri fra le monete e l’oro indicano non più il nervosismo del mercato, bensì una fase oramai parossistica, da “esaurimento nervoso” dell’economia internazionale.
In questo contesto, viene spesso incolpato l’alto costo dell’energia quale fattore che catalizza il disfattismo dei mercati, la loro “volatilità” e l’altalena delle borse.
Su questo primo aspetto ci sarebbe molto da approfondire, poiché – se per l’Europa e per gli USA il petrolio è veramente un freno economico – non sembra essere lo stesso spauracchio per la Cina. I cinesi vagano per il pianeta assicurandosi stock di petrolio a suon di dollari (ossia scambiando della carta) e non badano a spese: certo, meglio avere petrolio per far funzionare l’apparato produttivo che rettangoli verdi di dubbio valore.
Se Cina e Russia hanno oramai i forzieri colmi di dollari – circa 1.100 miliardi di dollari in biglietti verdi – altri hanno invece qualcosa che non teme le avventure monetarie e le acrobazie finanziarie, ossia le operazioni di “salvataggio” mediante le quali il governatore della FED Bernanke cerca di difendere latte e corn flake per milioni di prime colazioni – i pasti degli americani – anche per dopodomani.
1.100 miliardi di dollari sono un bel gruzzolo, niente da dire: grosso modo l’intero PIL italiano. C’è però qualcuno che li considera una miseria e punta più in alto, dove nessuna acrobazia finanziaria può arrivare.
Sappiamo che il mercato dell’energia è il più esteso del pianeta: considerando che il consumo energetico mondiale assomma a circa 10 miliardi di TEP
[1][1] – e che il 65% dell’energia proviene da petrolio e gas – al prezzo di 70 dollari/barile il mercato di petrolio e gas vale all’incirca 3250 miliardi di dollari l’anno.
Ovviamente non tutta l’energia proviene dal petrolio, ma anche il gas – in quanto a prezzi – non scherza: considerando che produce – a parità d’energia prodotta – circa il 30% in meno d’anidride carbonica, il suo uso è molto gradito da chi deve mantenersi all’interno dei limiti imposti dal Protocollo di Kyoto.
Si comprende allora facilmente come la Russia sia riuscita in pochi anni a pagare l’intero debito estero ricevuto in eredità dall’URSS ed a raggranellare forzieri di dollari nelle casse dello Stato: per farlo ha dovuto dissotterrare il fantasma di Stalin e spedire gli ex oligarchi dell’energia in “vacanza” in Siberia, ma non andiamo troppo per il sottile, oggi non sono più comunisti. Lo erano allora? Sono tornati ad esserlo sotto mentite spoglie? Non lo sono mai stati? Chi ha tempo da perdere può divertirsi con questi divertenti sillogismi.
Forse qualcuno storce il naso per le non proprio “limpide” democrazie russa e cinese ma, suvvia – pecunia non olet – e, compiendo una profonda genuflessione di fronte al rubinetto del metano che abbiamo sul balcone, possiamo anche trascurare qualche dimenticato miliardario che conta lo scorrere dei tramonti in un carcere siberiano. Mica sovietico eh? Russo, non scherziamo.
Quei 3.250 miliardi di dollari sono la cifra che ricevono ogni anno che passa Russia, Arabia Saudita, Venezuela…e tutta l’allegra brigata del petrolio e del gas.
Sappiamo che le riserve non sono infinite, e possiamo anche ipotizzare quanto dureranno ancora: agli attuali ritmi d’estrazione avremo ancora pressappoco 40 anni di petrolio e 60 di gas. Per ora non consideriamo il carbone, poiché se dovessimo trasformare i 200 anni d’estrazione che ancora rimangono in energia faremmo prima a cacciarci direttamente il tubo di scappamento in bocca. Se non altro, si soffrirebbe di meno.
Facendo una media empirica fra i due più importanti combustibili fossili possiamo affermare che ne avremo ancora per circa 50 anni: chi ha meno di quarant’anni può iniziare a preoccuparsi.
La “torta” dell’energia – ossia la ripartizione dell’energia per fonti (a grandi linee) – è semplicissima: 5% cadauno per l’idroelettrico ed il nucleare, 25% ciascuno per carbone e gas ed il restante 40% al re petrolio. Se avanza qualche decimale possiamo assegnarlo alle energie rinnovabili, che nell’attuale panorama non contano praticamente niente.
Quei 3.250 miliardi di dollari l’anno, per cinquant’anni di futura estrazione, fanno la bella cifretta di 162.500 miliardi di dollari. Per mettere insieme 162.500 miliardi di dollari i cinesi devono lavorare per circa 20 anni, gli americani circa 15, ma per gli americani non c’è problema: ci pensa papà Bernanke a stampare dollari (di carta) per comprare petrolio (vero) che serve per riscaldarsi e viaggiare in automobile, mentre con la carta si va poco lontano. Finché dura la cuccagna. E, attenzione: lavorare tutto quel tempo solo per pagare l’energia.
Qualunque sia il nostro orientamento politico, di quella bella cifretta non riusciamo nemmeno ad individuare una corrispondenza in beni: 325 milioni d’appartamenti a Manhattan? 3 milioni di caccia F-16 o Su-27? 15.000 portaerei? Niente da fare, sono cifre da capogiro.
Anche il carbone – però – fa la sua parte, ed il 25% dell’energia prodotta nel pianeta viene ricavata dal carbon fossile: circa 3.500 milioni di tonnellate di carbone sono bruciate ogni anno nelle centrali termoelettriche per produrre energia
[2][2].
Il carbone costa assai di meno del petrolio: se una tonnellata di petrolio costa circa 500$, per il carbone ne basta circa la metà, ossia 250$, comprendendo anche le cosiddette “carbon tax” per l’alto inquinamento che comporta l’uso di questa fonte.
Agli attuali ritmi di consumo, quanto carbone c’è nel pianeta?
In questa previsione non possiamo essere molto precisi, giacché il termine carbon fossile comprende una panoplia di prodotti assai diversi: si va dalle più pregiate antraciti (8.000-9-000 Kcal/Kg) alle meno pregiate ligniti (5.000 Kcal/Kg) – passando per parecchie categorie intermedie – mentre il petrolio ha un potere calorifico di circa 10.000 Kcal/Kg.
Insomma, il carbone ha una resa minore e costi d’estrazione maggiori, ma agli attuali ritmi ne rimane ancora per 200 anni: due secoli di locomotive a vapore? Se lo facessimo, sarebbe la condanna alla camera a gas planetaria.
Ciò nonostante, il carbone è una potenziale risorsa energetica. Se il consumo annuo è di circa 3.500 milioni di tonnellate e ne rimane per 200 anni, le riserva ammontano a 700.000 milioni di tonnellate, che al prezzo medio attuale corrispondono ad altri 175.000 miliardi di dollari: aggiunti ai 162.500 di petrolio e gas portano il valore delle riserve di fossili alla iperbolica cifra di 337.500 miliardi di dollari.
Per produrre ricchezza pari a 337.500 miliardi di dollari i cinesi dovrebbero lavorare forse per mezzo secolo, solo per l’energia, gli USA 30 anni: questa è l’importanza delle riserve strategiche d’energia. Con una simile cifra potreste comprarvi una portaerei a testa per voi ed i vostri figli, parenti ed amici ed usarla per le vacanze, cambiandola ogni anno per un centinaio di generazioni. Preferite acquistare in blocco l’Italia? Che so io…qualche migliaio di Louvre…mah, fate voi…
Inutile andare a cercare il pelo nell’uovo in questi calcoli, poiché i conti si fanno agli attuali prezzi dell’energia e con i consumi di oggi: domani il conteggio potrebbe essere ancora diverso; d’altro canto, domani un appartamento a Manhattan od un caccia F-16 potrebbe costare di più o di meno, chi lo sa?
Già, domani tutto potrebbe costare un po’ di più od un po’ di meno: un appartamento – a causa della speculazione – potrebbe valere 700.000 dollari invece che 500.000, mentre i caccia – se scoppiassero delle guerre (e alla Mac Donnell Douglas pregano, oh quanto pregano…) – potrebbero salire di prezzo.
Se, però, pagassimo caccia ed appartamenti in euro risparmieremmo, poiché con un rapporto di cambio pari a circa 1,25 a favore dell’euro[3][3] risparmieremmo circa un quarto della somma. Già, però anche i rapporti di cambio mutano – panta rei – e non sappiamo oggi se ci conviene buttare dollari ed acquistare euro, per poi cambiare gli euro per gli yen, poi yuan, rupie, rubli…insomma, basta! Compro dell’oro e non se ne parla più: già, ma se l’economia cresce tutti vendono oro per acquistare liquidità da investire per fare altri soldi, ed il prezzo dell’oro scende.
Maledizione a chi ha inventato questo perfido Monopoli! Almeno – nel gioco – chi ha il Parco della Vittoria sa che qualcuno da “spennare” prima o dopo ci casca!
Il “Parco della Vittoria” attuale – nel quale tutti dobbiamo forzatamente passare – si chiama ENERGIA.
Nel preciso istante nel quale abbiamo premuto sul pulsante d’accensione del computer per leggere questo articolo, siamo entrati nel “Parco della Vittoria” dell’economia planetaria: la stessa cosa avviene quando ruotiamo la chiavetta d’accensione dell’automobile oppure cuciniamo un uovo al tegamino. Niente da fare: appena usiamo dell’energia siamo dentro al perfido quadratino del Monopoli e c’è qualcuno che sogghigna, che attende d’incassare. «Spendi spandi, spandi spendi effendi!» cantava uno splendido Rino Gaetano in anni lontani.
Ovviamente non incassano solo i barbuti efendiah in caffettano, ma i caudillo venezuelani, i compassati sov…pardon…russi e poi norvegesi, nigeriani ed indonesiani…man mano che però si scende nella “scala” d’importanza di quei paesi cambia la ripartizione della torta fra governi e holding dell’energia, e questo è un altro aspetto del problema.
Se, invece, qualcuno vuole tenersi il prezioso conto in banca dei propri giacimenti e sfruttarlo poco – affinché duri per molti decenni – avrà di che vivere senza problemi per molte generazioni. Il prezzo, estraendo poco, salirà, ma questi sono problemi dei paesi consumatori, mica di chi costruisce moschee sui laghi di petrolio. Proprio per entrare in punta di piedi in questo ovattato mondo – dalle moquette delle banche svizzere ai cuscini degli harem di Ryad – lo faremo in modo discreto, con una favola, così come le “Mille e una notte” hanno cercato di raccontare l’epoca aurea dei grandi califfati.
Il buon sovrano di Petrolahbad
C’erano una volta due paesi che avevano tanto petrolio, tantissimo: potevano farci il bagnetto ogni mattina oppure decidere di correre in auto tutto il giorno spendendo un’inezia.
Un bel giorno, uno dei due paesi decise di vendere grandi quantità del suo petrolio ai commercianti di lontani paesi: il buon re era sensibile alle richieste delle sue molte mogli, che desideravano sempre – nella penombra dell’harem – vestire Valentino e profumarsi con Chanel n. 5. Non c’era bisogno di copiare i modelli politici di quei lontani commercianti – parlamenti, governi, presidenti – perché erano inutili: su tutti regnava il buon re Saud ed i sudditi festanti plaudivano alla sua saggezza ed al suo buon cuore.
Purtroppo, nel paese accanto regnavano oscuri individui, avidi, gretti, ombrosi: agitavano molto le spade e poco il Corano, affermavano che tutti dovevano lavorare ed avere un reddito – sancendolo come un diritto – ed estraevano poco petrolio, quel tanto che basta per mandare avanti la baracca.
Un bruttissimo giorno, un certo Hussein – capo della masnada dei miscredenti – iniziò ad acquistare tante armi perché meditava di diventare il nuovo Saladino, colui che avrebbe unificato sotto un solo stendardo tutte le popolazioni di Petrolahbad.
I commercianti stranieri giunsero dal buon re e lo pregarono d’aiutarli a scongiurare quel pericolo: se il feroce Saladino fosse divenuto il supremo Califfo di Petrolhabad, avrebbe “stretto” i rubinetti del petrolio e le sue belle mogli sarebbero state costrette ad acquistare i profumi nel discount sotto casa…pardon…sotto la reggia.
Detto fatto: furono tagliate le ali al feroce Saladino ed il buon re accondiscese con grazia a pagare i buoni commercianti che avevano provveduto – inviando aerei, navi e soldati – a salvare le carte di credito delle sue belle mogli.
Il buon re era miope e forse non s’accorse – quando firmò il contratto – della cifra: si sa che gli zeri non contan nulla, ma se seguono una cifra qualsiasi assumono valore; meraviglie della matematica, ma il buon re era più avvezzo ai versi dei poeti che alle aride cifre.
Fu così che, per pagare i commercianti stranieri che lo avevano difeso, dovette estrarre ancor più petrolio e svuotare le casse dello stato: la notte tornava nell’harem e nel vedere le belle mogli coperte d’oro e profumate con grazia sospirava: sì, ho fatto la scelta giusta, Allah mi sarà benigno.
Anche le buone famiglie, però, covano sempre una serpe in seno: chi non ricorda nelle proprie ascendenze un lontano zio nullafacente od una bisnonna che amava solo il ballo ed i divertimenti?
Era stato tutto inutile: aveva inviato quel figlio di lontani cugini a studiare in Europa, gli aveva acquistato casse d’ottime vesti, camicie all’ultima moda occidentale, auto di lusso ma niente: il giovane Bin voleva fare affari come i commercianti occidentali, era quasi diventato come uno di loro, avido, interessato più ai numeri che ai versi dei poeti.
Non si faceva problemi ad accusare il buon re di sperperare la ricchezza della nazione estraendo tanto, troppo petrolio, che così costava poco e gli unici ad arricchirsi erano i facoltosi commercianti occidentali.
Per toglierselo di torno gli proposero una vacanza premio, un viaggio d’istruzione in Afghanistan, per imparare dagli imam locali come doveva comportarsi un vero musulmano. Non l’avessero mai fatto! Anche il giovane Bin meditò di diventare un Saladino e – dopo aver vinto importanti battaglie contro gli infedeli del Nord – giunse a pretendere il suo stesso trono, mogli comprese!
Ancora una volta giunsero in aiuto i fedeli commercianti occidentali – che avevano tentato d’accoglierlo nel loro grande suk – e che, in lacrime, confessarono al buon re d’essere stati traditi dal suo giovane nipote.
Per fortuna i buoni commercianti avevano tante navi ed aerei per sconfiggere i due maligni Saladini, quello che da Baghdad continuava a blaterare proclami insulsi ed il nuovo, giovane virgulto della stirpe dei condottieri.
Cosa chiesero in cambio i buoni commercianti? Di poter estrarre anche il petrolio del vicino paese, così anche le mogli dei visir di Bassora, Falluja, Nassirya, Kirkuk e Mosul avrebbero ricevuto abiti e profumi in quantità.
Al buon re la proposta sembrò accettabile, conveniente: in fondo era l’unica praticabile, e quello fu il volere di Allah.
Morale della favola
Le riserve di petrolio dei due paesi – Arabia Saudita ed Iraq – erano così valutate nel 2002, prima della guerra irachena:
Paese
Stima delle riserve (miliardi di barili)
Produzione annua (milioni di barili)
Anni di futura estrazione ai ritmi dell’epoca
Arabia Saudita
260
2.589
100
Iraq
115
776
148
Come si può notare, gli iracheni erano più “parchi” nell’aprire i rubinetti del petrolio e, a lunga scadenza, sarebbero rimasti con ancora petrolio nei giacimenti quando quelli sauditi sarebbero terminati.
Qui inizia il “giallo” delle riserve petrolifere irachene, perché l’IEA (International Energy Agency) lancia un segnale:
Il vero potenziale dell’Iraq potrebbe essere molto elevato, in quanto il paese è relativamente inesplorato a causa di anni di guerre e sanzioni dell’ONU, in particolare la regione del deserto occidentale potrebbe contenere ulteriori risorse, forse altri 100 miliardi di barili
[4][4].
Il “giallo” è tale perché altre fonti indicano che la stima iniziale di 115 miliardi di barili era molto, molto prudente e che le reali riserve erano di circa 220 miliardi di barili.
C’è molta “confusione sotto il cielo”, ma restiamo con i piedi per terra e contempliamo soltanto le riserve veramente accertate (115) più quelle molto probabili – che si trovano nel deserto fra Nassirya ed il confine siriano (ahi, la missione italiana di “pace”!) – ed arriviamo a circa 215 miliardi di barili.
Ai prezzi attuali, le riserve irachene valgono 15.050 miliardi di dollari, circa il 9% del totale mondiale: si può mobilitare il più potente esercito del mondo per il 9% del petrolio del pianeta? Sì, si può, si può…anzi, forse si deve.
Si può e si deve perché quel petrolio rappresenta – in valore – più di un anno di PIL USA!
E qui viene il bello.
Oro, dollari, euro, conchiglie, caccia, palazzi…cosa compro?
Finché si tratta di comprare qualche cisterna di Chanel n. 5 non è il caso di preoccuparsi troppo, ma quando – dopo aver acquistato i palazzi della nobiltà francese e partecipazioni azionarie a iosa – non si sa più dove cacciare i soldi è un bel problema. Noi (sic!) lo sappiamo bene.
Il grave problema che si trovano a dover risolvere i buoni sudditi di Petrolhabad è cosa acquistare in cambio del petrolio: valuta? No, già con i dollari abbiamo fatto un cattivo affare: sempre più carta e meno valore, bisogna cambiare rotta. Gli euro? E se facessero anch’essi la fine del dollaro? Ferraglia militare? No, dopo trent’anni è da buttare, se non ci pensano gli stessi “buoni commercianti” a bombardare tutto.
Niente, non c’è niente che vale di più di quel liquido oleoso e puzzolente che sgorga dalla sabbia, perché è l’unica pietra filosofale in grado di trasformare i minerali grezzi in metalli, il metallo in navi, le navi in commercio, il commercio in altra ricchezza.
Già, però non si può conservarlo perché – a differenza dell’oro – l’oro nero serve a tutti ed ogni giorno. Che fare?
Intanto s’inizia con il mantenere bassa la produzione, ossia non si seguono i desideri dei “buoni commercianti”, i quali – dato l’aumento della richiesta di petrolio di Cina ed India – vorrebbero nuovi pozzi, oleodotti, raffinerie, ecc.
Se la produzione rimane costante od aumenta di poco, il prezzo sale: saranno pure dollari svalutati, ma sono pur sempre – a parità di barili estratti – sette volte quelli che a Petrolhabad s’incassavano soltanto sei anni or sono.
In definitiva – se consideriamo che l’energia è un bene indispensabile che poche nazioni gestiscono in un regime d’oligopolio – i prezzi non sono saliti: siccome si tratta di beni presenti nel pianeta in quantità finite (proprio come l’oro), i combustibili fossili interpretano – al variare del prezzo – il rapporto fra chi fornisce l’energia e chi la consuma per produrre beni.
Chi possiede un giacimento petrolifero sa con certezza di possedere un bene fruibile e fortemente ambito: finché il dollaro rappresentava una moneta sicura – prima che fosse abolita la convertibilità in oro, ed anche dopo, quando ancora rappresentava una certezza per la solidità del sistema finanziario USA – il prezzo aveva oscillato di poco, sempre (salvo brevissimi periodi) fra i 10 ed i 20 dollari/barile.
Gli alti prezzi raccontano allora un’altra vicenda: la disperazione di possedere il bene più ambito nel pianeta e di doverlo scambiare – ogni giorno che passa – con monete che, in definitiva, rappresentano soltanto un puro valore d’imputazione, un “ci credo” collettivo. Finché dura.
In questa situazione – già molto critica – si sono andate ad impiantare le guerre USA, con il timore che i patrimoni esteri dei paesi produttori possano essere “congelati” dall’oggi al domani nel nome della “guerra al terrorismo” (vedi Iran).
Come se ne esce? Sotto l’aspetto della teoria economica è assai difficile trovare soluzioni: secoli di dibattiti sul valore dei beni – da Ricardo a Marx, e da Keynes a Galbraith – non hanno fornito risposte per assegnare un valore alle merci senza interpretarlo mediante un “metro”, sia esso l’oro e, oggi, il petrolio.
Un maggior uso delle energie rinnovabili condurrebbe a “spalmare” su più soggetti il privilegio di possedere il “metro” mediante il quale si può misurare – e condizionare – l’economia mondiale, ma non sarebbe una soluzione poiché continuerebbero ad esistere i “Parchi della Vittoria”: se esistono simili paradisi, non dimentichiamo che gran parte della popolazione del pianeta vive nel Vicolo Corto e nel Vicolo Stretto.
Il vero problema è allora una nuova coscienza della ricchezza e del suo uso – per arricchire pochi oppure per fini di promozione sociale paritaria, fra tutti gli abitanti della Terra – ma questo è un altro discorso: io, per prima cosa, ho gettato il Monopoli nella spazzatura.
[5][1] TEP: Tonnellata Equivalente di Petrolio, ossia l’energia contenuta – in media – in una tonnellata di petrolio, qualunque sia la fonte energetica. 
[6][2] Considerando il minor potere calorifico del carbone rispetto al petrolio, 7000 Kcal/Kg (una media molto approssimativa) contro le circa 10.000 del petrolio.
[7][3] A volte mi spaventa essere così previdente: nel 2003 – quando scrissi Europa svegliati! – affermai che il cambio euro/dollaro si sarebbe stabilizzato intorno ad 1,25 a favore dell’euro, mentre il cambio – a quel tempo – era di 0,90 a favore del dollaro.
[8][4] Fonte: International Energy Outlook 2004.

9 giugno

Vi lavorano oltre 400mila persone, guadagnano tra i 5 e i 7 euro all'ora. L'analisi delle loro condizioni di lavoro in un'indagine Cgil presentata oggi
 

Stress continuo, paga da fame
viaggio nel mondo dei call center

di FEDERICO PACE
 
<B>Stress continuo, paga da fame<br>viaggio nel mondo dei call center</B>
All'inizio ci sono delle aspettative. Dopo, restano solo le delusioni. Per le condizioni di lavoro, per le prospettive professionali, per lo stress continuo e per le paga che rimane sempre troppo bassa. Quello che doveva divenire un settore maturo e più "vivibile" pare non avere fatto alcun passo avanti. Viene da dire che questi ultimi due anni siano andati sprecati. L'indagine presentata oggi a Genova da Cgil "Call Centers. Idee
er un cambiamento" e condotta in sei grandi call center liguri (tra questi quelli di Telecom, Poste e H3g) restituisce uno scenario peggiore di quello che ci sarebbe potuti aspettare.

Seppure la crescita del settore, sono oggi 400 mila le persone che vi lavorano, ha permesso a un elevato numero di persone di trovare un posto, le condizioni di lavoro di chi con i call center deve misurarsi tutti i giorni sono tutt'altro che buone.

Organizzazione del lavoro, salute, soddisfazione e prospettive. Tutto ai minimi. Tutto legato insieme in una specie di spirale che si torce su se stessa. Tra quelli che in un call center ci lavorano, sette su dieci (il 66,7%) pensano ormai che il proprio lavoro non possa avere un'evoluzione positiva all'interno dell'azienda ed altrettanto pessimistiche sono le attese rispetto alle opportunità esterne: nove su dieci ritengono che sia difficile cambiare lavoro e trovarne uno migliore. Per una paga che in termini orari oscilla tra i 5 e i 7 euro così che pare naturale che il 40 per cento consideri molto deludente la propria retribuzione.

Una telefonata dietro l'altra, un problema da risolvere dietro l'altro. Per chi si trova a dovere gestire le telefonate in entrata, lo stress è rappresentato soprattutto dai ritmi, dall'ossessione di dovere chiudere le chiamate entro qualche minuto. E pare quasi assurdo che non possa essere accolta la richiesta di chi, tra i testimoni, dice che "la cosa ideale sarebbe avere un intervallo, un minuto, tra una telefonata e l'altra".

Ma anche quando si tratta di attività di telemarketing le cose non cambiano. "Le liste dei clienti - ci ha detto Paola Pierantoni, responsabile sportello sicurezza Cgil Genova e coordinatrice dell'indagine (leggi intervista integrale) - vengono date dall'azienda, le telefonate vengono sparate in cuffia con un sistema automatico che cerca i numeri. Alle persone arrivano in cuffia anche i fax con i conseguenti problemi di salute per le scariche di rumore pesante". Senza contare che spesso i call center vengono realizzati senza tenere conto delle caratteristiche del lavoro che vi verrà svolto. E la rumorosità, insieme alle condizioni climatiche (vedi tabella), è tra le cause di maggior disagio dei lavoratori.

Se è vero che nei sei call center messi sotto osservazione, il 65,8% è rappresentato da dipendenti contro il 30,4 per cento dei lavoratori a progetto, va detto pure che nel Regno Unito, come fanno notare gli autori della ricerca, il 92 per cento degli addetti dei call center hanno un contratto permanente. La "stabilizzazione" dei lavoratori, quella promessa dall'accordo nazionale tra Assocallcenter e sindacati siglato nel 2004, non pare proprio esserci stata. In uno dei call center presi in esame (Call & Call) si sarebbero dovuti stabilizzare il 60% dei lavoratori entro il 2008. Ad oggi in questo call center è dipendente solo il 5,2 % degli operatori in cuffia.

Ci sono dei casi positivi. Casi in cui dove si fa formazione, si offre agli operatori un minimo di rotazione con attività lontane dalle "cuffiette". Ma è poco. Ancora troppo poco.

Solo quattro su dieci si dicono tranquilli per il proprio impiego mentre quasi il 35% sente di essere precario. E non per propria scelta. Già, le scelte. Solo uno su dieci dichiara di avere deciso la condizione "provvisoria" in cui si trova. Quasi la metà dei lavoratori ha più di quarant'anni e solo uno su cinque di loro non è ancora trentenne (vedi tabella). Il settore mantiene la sua natura "femminile" (il 77,2 per cento degli addetti è formato da donne) e sono proprio le donne quelle che, in proporzione, hanno meno accesso alla stabilizzazione contrattuale. E questo non per scelta, visto che solo il 12,5 per cento di loro si ritrova "precaria" per volontà.

Il lavoro nei call center sembra venire meno a anche quella missione importante che è la realizzazione delle proprie capacità professionali (vedi tabella). Tale distacco dal lavoro avviene in maniera più accentuata dove la comunicazione telefonica è soggetta a rigidi limiti di tempo. E sono soprattutto quelli che ci lavorano già da tempo a provare i più elevati livelli di insoddisfazione personale.

In Italia, rispetto all'Europa, le cose forse vanno anche un poco peggio: "I call center in outsourcing - ci ha detto Giovanna Altieri, direttore Ires-Cgil (vedi intervista integrale) - sono relativamente più localizzati nel Sud Italia. Grazie ai contributi europei molti imprenditori hanno delocalizzato l'azienda in queste aree dove è molto diffusa l'esternalizzazione. Sono frequenti i casi di poca chiarezza tra intrecci proprietari, ambiguità tra esternalizzazione e internalizzazione di servizi e appalti pubblici".

Se si leggono le cronache di questi giorni ci si accorge che in tutta Italia c'è una specie di febbre che sta salendo. Ci sono i lavoratori a progetto del call center Cosmed, che lavora per conto di Sky, che protestano a Palermo. A Bologna, il sindacato degli atipici della Uil denuncia che nel call center di Hera gestito dalla Telework, lavorano "oltre 250 falsi collaboratori a progetto" che operano in condizioni di precarietà "non più sostenibili". E intanto a Roma centinaia di operatori a cui non è stato rinnovato il contratto dal mega call center di Atesia chiedono di venire reintegrati.

 

Atesia, ora si svolta
Ispettori al lavoro Avrebbero stabilito che i lavoratori sono a tutti gli effetti dei «subordinati», non dei «collaboratori». Salta il pessimo accordo firmato ad aprile. Ma l'azienda fa finta di niente
Francesco Piccioni
Le cose cambiano, anche nelle battaglie che sembrano disperate. Chi avrebbe mai pensato che quei precari disperati - sebbene in 4.000 - potessero liberarsi dalla morsa di un padrone supportato contemporaneamente da una legislazione ad hoc, un pezzo importante della classe politica e da pezzi di sindacato quantomeno arrendevoli? Scioperi

Il 74% si dichiara insoddisfatto della visibilità dei segnali stradali;
il 73% della quantità; il 68% della chiarezza; l'84% della qualità delle strade

Segnaletica e strade
Italiani i più insoddisfatti


 


Gli automobilisti italiani sono i più insoddisfatti d'Europa in fatto si carenza di segnaletica e stato delle strade. E' quanto emerge da un'inchiesta europea commissionata da ViaMichelin, filiale del gruppo Michelin. Il 74% si dichiara insoddisfatto della visibilità dei segnali stradali; il 73% della quantità; il 68% della chiarezza; l'84% della qualità delle strade.
L'auto si conferma per il 48% degli automobilisti Europei un mezzo indispensabile.

Un terzo degli automobilisti europei (Italia, Francia, Spagna, Germania) percorre più di 20.000 km all'anno gli Italiani si posizionano al terzo posto (29%, dietro Germania e Spagna). Guida la classifica l'Italia che con il 61% (pari a 21.350.000) dichiara di utilizzare l'auto per recarsi al lavoro o per motivi professionali quasi tutti i giorni. Tre italiani su 5 affermano, inoltre, di utilizzare l'automobile ogni giorno per uso personale, nonostante l'adozione di politiche di limitazione del traffico urbano.

Gli spostamenti in città, secondo lo studio, stanno diventando sempre più complessi tanto che, soprattutto nei paesi latini, l'auto viene sempre meno utilizzata sulle brevi distanze. Solo gli automobilisti tedeschi appaiono meno smarriti. Gli automobilisti lamentano, in particolare, che non si trovano con facilità specifiche strade sia in città che fuori (primeggiano i francesi 51%, seguiti a ruota da italiani e inglesi 48%). Circa un terzo afferma di essersi perso spesso e con una maggior frequenza in città.

Inoltre la metà degli intervistati da Viamichelin non esita a chiedere a un passante se si perde per strada (primeggiano gli spagnoli, il 73% dei quali si ferma a chiedere informazioni per strada). La difficoltà ad orientarsi genera anche pratiche di guida pericolose: quasi 8 automobilisti su 10 ammettono di aver effettuato una manovra all'ultimo minuto per prendere una direzione male indicata; o guidare mentre si consulta una carta stradale (48% contro il 43%) o di usare il cellulare mentre si guida per chiedere informazioni (dal 24 al 44%, dipende dai paesi e in prevalenza fra i giovani).

In tema di vacanze, invece, il 38% degli Europei dichiara di prediligere vacanze in auto per scoprire nuovi luoghi. L'82% si definisce così 'turista dell'autò, soprattutto nei paesi latini che si dicono disposti a 'sperimentare', sottolineando che preferiscono guidare esplorando e andando alla ricerca di nuovi luoghi e itinerari.

I veri 'turisti dell'auto' sono presenti soprattutto in Italia (94%), in prevalenza donne, di età superiore ai 35 anni, proprietari di più automobili (il 58% ne possiede almeno due), si spostano soprattutto nei week-end. Il 75% di questi automobilisti europei prepara il proprio viaggio con l'ausilio di carte e guide turistiche e molti dichiarano di utilizzare di più i sistemi Gps.

 

, manifestazioni, articoli di giornale, interventi di amministratori locali... tutto era sempre passato come un acquazzone estivo, lasciando Alberto Tripi assolutamente certo di poter padroneggiare la situazione senza problemi. Se non quelli della pessima immagine. Poi, dai e dai, qualcosa si rompe. La stagione politica cambia - seppur di poco - segno ed ecco che si aprono spiragli meno foschi. Nulla è ancora risolto, sia chiaro.Ma qualcosa si sta spostando. L'ispettorato del lavoro, infatti, sta per concludere le sue indagini sulle reali condizioni lavorative all'interno del call center romano. Ma sarebbe già chiaro che orari e incarichi, nonostante l'enorme libertà consentita alle imprese dalla legge 30, rientrano nella «fattispecie» del lavoro subordinato e non in quelle previste per le numerose forme di «collaborazione » previste dalla normativa. Tecnicamente non sarebbe neppure una novità: già nel 1998 un primo rapporto stabiliva la stessa cosa. Ma un pessimo accordo sindacale fece finta di non saperlo. Di più. All'interno del ministero sarebbe da tempo pronta una circolare che definisce illegittimi i «contratti a progetto » applicati ai call center «in bound» (quelli dove si risponde alle chiamate provenienti dagli utenti), come avviene anche in Atesia. In pratica, tutta la vertenza potrebbe prendere una piega diversa. L'accordo firmato l'11 aprile (170 assunzioni part time «in cambio» di ben 1.100 contratti di apprendistato per una parte dei precari che lì lavorano da anni) è semplicemente inapplicabile; anche se l'azienda non dovesse essere costretta ad assumere tutti i precari «di lungo corso», di sicuro una massa di ricorsi legali potrebbe costringerla a più miti consigli (la frase finora più ripetuta dai dirigenti, di fronte alle proteste, pare sia stata proprio «facci causa»). Atesia ha intanto cominciato a non rinnovare i contratti a 400 persone, costringendo - pare - i pochi «assunti» a firmare una liberatoria per le pendenze pregresse. I ragazzi del Collettivo precari - gli unici che in questi anni si siano impegnati nell'organizzare scioperi e manifestazioni dei lavoratori - sono ancora molto cauti e non gridano vittoria. In grave difficoltà appare invece il sindacato, specie la Cgil che si era platealmente spaccata al momento di siglare l'ultimo accordo: il Nidil non l'aveva firmato e in calce appare la firma di Rosario Strazzullo (del Slc) e della segretaria confederale Nicoletta Rocchi. Inutilmente, qualche giorno fa, il segretario generale dell'Slc, Emilio Miceli, aveva diffidato Atesia dall'applicare quanto previsto d aquel testo. Come riportato anche nelle pagine della cronaca romana del Corriere della sera (strana scelta, per parlare di una vertenza ormai paradigmatica della condizione precaria in Italia), Cecilia Taranto -membro della segreteria regionale - ricorda che «l'accordo era stato firmato sul presupposto che i contratti di collaborazione fossero legittimi. Se fosse appurato che le prestazioni degli addetti devono essere inquadrate come lavoro dipendente, è chiaro che va tutto rivisto». Parole lunari: un sindacato non è in grado di decidere se un certo tipo di lavoro è dipendente o meno? Ha bisogno di attendere - dopo anni - un parere dell'ispettorato del lavoro? E che ci sta a fare? Se un'associazione (sia chiaro: una piccola parte di essa) è ridotta così può al massimo svolgere una funzione di supporto per l'ufficio del personale, non il sindacato. Visto però che la vertenza è ancora aperta, i ragazzi di Atesia si riuniranno domani mattina inunpresidio davanti al ministero del lavoro. Pacifici come sempre, ma anche determinati a farsi sentire dal ministro Cesare Damiano, impegnato nel trovare la mediazione. Non sulla loro testa, però.


America sotto choc, turbe psichiche per un soldato su dieci
Franco Pantarelli
New York
George Bush parla sempre meno d'Iraq. Anche lui si rende conto che ogni volta che ripete di «mantenere la rotta» o che le cose vanno bene e presto gli iracheni potranno «difendersi da soli», quelli che ci credevano restano delusi e quelli che delusi già lo erano diventano arrabbiati. Gli effetti di questa guerra, nata su un castello di menzogne e condotta all'insegna dell'incompetenza, si fanno sentire sempre più e mettono a nudo tutte le ferite provocate nell'intero corpo sociale americano, per non parlare dei «valori» di cui i bravi cittadini erano abituati ad andare fieri. L'America di oggi, sotto la «cura Bush», è il Paese in cui i poveri aumentano, in cui coloro che godono di assistenza medica diminuiscono, in cui il carico di debito pubblico che pesa su ogni cittadino è il più alto di tutta la storia e in cui le incertezza diventano incubi e la consapevolezza che l'inconcepibile impreparazione messa in mostra l'anno scorso è ancora tutta lì, intatta.
Ci sono tante di quelle macerie attorno a questa presidenza che perfino i «geniali» strateghi di Bush non sanno più che cosa escogitare. L'ultima loro trovata, quella di riesumare il bando ai matrimoni gay che dopo averlo agitato in campagna elettorale era stato rapidamente archiviato a elezione ottenuta, proprio ieri è miseramente finito prima ancora di cominciare. Il favore dei due terzi del Senato, indispensabile affinché la procedura dell'emendamento costituzionale potesse intraprendere il suo iter, è mancato e l'unica cosa su cui Bush e i (non molti) repubblicani che lo hanno seguito su questa strada possono sperare è che la parte più retriva della loro base si lasci ancora una volta prendere in giro.
Ma forse il segno più tangibile dello sgretolamento è proprio il fatto che ormai sono davvero pochi quelli che ancora seguono Bush, mentre sono in forte aumento quelli che non temono più l'accusa di «antipatriottismo». Anni fa, per apprezzare la denuncia delle nefandezze di Bush contenuta nel film di Michael Moore bisognava superare una specie di senso di colpa («mio Dio, sarò mica dalla parte dei terroristi?»), oggi la ricerca di quelle nefandezze è diventata aperto terreno di caccia. Nascono da qui le rivelazioni sulla strage di Haditha, sul cui destino ieri sono stati resi noti dall'IPS dei particolari agghiaccianti: che prima della strage i soldati americani avevano bloccato la corrente elettrica e l'acqua e avevano distrutto la farmacia; che ancora un mese prima della strage era stato occupato l'ospedale per sette giorni («una gravissima violazione della Convenzione di Ginevra», dice il dottor Salam Ishmael); che tutte le attrezzature erano state distrutte e che un paziente era stato ammazzato nel suo letto. E nasce da qui il reportage che USA Today ha dedicato ieri ai soldati che tornano dall'Iraq con turbe mentali. Sono uno su dieci, raccontano al giornale i medici che li esaminano al ritorno, ricordando che in base alla «turnazione» sono almeno 500.000 i soldati che hanno «servito» laggiù, sicché è stato creato un potenziale di 50.000 giovani trasformati in spostati, ma siccome al rientro non presentano ferite «visibili» il loro problema è stato a lungo ignorato.
E nasce da qui, infine, una storia come quella raccontata da «The War Tapes», un documentario (è appena stato premiato al TriBeCa Festival) girato da tre soldati che portavano la loro telecamera dovunque venissero destinati: una cosa molto più pregnante dei reportage dei giornalisti embedded, sebbene anche la loro attività, come dimostrano gli oltre sessanta morti, in una guerra come questa ha aumentato la pericolosità in modo esponenziale. Si vedono cose orribili: una bomba che esplode sotto a una jeep; un raid in una casa con relativo scontro a fuoco e due «insurgent» abbattuti davanti alla telecamera; una donna irachena investita da una jeep e tagliata di netto in due tronconi, e anche la difficoltà di «restare se stessi» in una situazione simile. Non ci riesce un soldato che, alla vista di cani che si cibano con le carni di un uomo appena ucciso, dice tranquillo: «Così avranno la pancia piena». Ci riesce invece un altro soldato che, parlando del «che facciamo qui», se n'esce con un «Siamo venuti per liberarli e invece li ammazziamo».

 

Self service Telecom

di Peter Gomez
e Vittorio Malagutti
Troppo facile violare gli archivi delle telefonate. Senza lasciare tracce. Lo ha accertato il Garante della Privacy. Che impone all'azienda controlli più rigidi
 
Marco Tronchetti Provera
 
Marco Tronchetti Provera

Il tariffario dell'illegalità

Gli spioni Nell'inchiesta della Procura di Milano che ha portato nel marzo scorso all'arresto dei detective privati Pierpaolo Pasqua e Gaspare Gallo (gli spioni del cosiddetto Storace-gate) emerge un fatto inquietante. I dati di traffico dei clienti Telecom non sono acquisibili soltanto dai dipendenti della compagnia, ma anche dai semplici collaboratori di società terze. Basta leggere la richiesta di arresto firmata dai pm milanesi Fabio Napoleone e Luca Civardi per scoprire che una semplice operatrice di call center, Alessandra P., era in grado di sapere tutto: nome, data di nascita, documento di identità e soprattutto i tabulati. Alessandra digitava il numero del telefonino o il nome della persona sul computer e forniva in tempo reale tutto alla sua amica investigatrice Laura Danani (poi arrestata). Solo in un caso Alessandra dice: "Non ho fatto in tempo a vedere se la linea è attiva perché è passato l'assistente". ...
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Il Garante della Privacy ha bussato alle porte di Telecom Italia la mattina di martedì 23 maggio. Un'ispezione lampo, meno di due giorni per arrivare a una prima, importante conclusione: la più grande compagnia telefonica italiana non ha protetto a sufficienza i dati sul traffico dei cellulari dei propri clienti. In sostanza, i tecnici del Garante, dopo aver trascorso ore e ore negli uffici di via Torrerossa 66 a Roma, uno dei più importanti centri per la telefonia mobile del gruppo, si sono resi conto che alcuni funzionari di alto livello, chiamati in gergo 'addetti IT' o anche amministratori di sistema (meno di un centinaio in tutta Italia), potevano consultare ed estrarre i tabulati telefonici degli utenti quasi senza lasciare tracce. L'apparato informatico, infatti, era congegnato in modo da segnalare il loro ingresso, ma non le operazioni compiute. In caso di controlli successivi, quindi, era impossibile sapere quali fossero le informazioni richieste. I vertici del gruppo guidato da Marco Tronchetti Provera hanno risposto ai rilievi dell'Authority attribuendoli a problemi di natura strettamente tecnica. E hanno assicurato di essersi già mossi per risolvere la questione nel più breve tempo possibile.

Queste prime spiegazioni di Telecom, però, non hanno soddisfatto il Garante. Ecco perché, secondo quanto 'L'espresso' è in grado di rivelare, il primo giugno è stato emesso un provvedimento ufficiale per richiamare all'ordine il gruppo. Il documento prescrive tre interventi urgenti, da attuare entro sei mesi, per ripristinare una corretta gestione dei dati di traffico telefonico. In primo luogo vanno introdotte soluzioni informatiche che consentano di individuare sempre e comunque l'identità di chi interpella la banca dati. Perché finora, come ha rilevato l'Authority, spesso non si capiva bene chi avesse messo le mani nel database e per fare che cosa. In secondo luogo il Garante ha ordinato che vengano definiti con precisione i cosiddetti 'profili di autorizzazione'. In altre parole, Telecom deve stabilire a quali informazioni sensibili possono accedere i propri funzionari sulla base del ruolo ricoperto. Infine, il documento notificato nei giorni scorsi chiede alla compagnia telefonica di creare una sorta di firma digitale indelebile che permetta, anche a distanza di anni, di risalire a ogni intervento nella banca dati.
 

La presa di posizione dell'autorità presieduta da Francesco Pizzetti è arrivata in una fase a dir poco delicata. Le vicende di cronaca, ultima della serie quella dello scandalo calcistico, hanno portato alla ribalta il tema dell'uso, e dell'abuso, delle intercettazioni telefoniche. E Telecom Italia è stata anche costretta ad affrontare il contraccolpo causato dalle dimissioni del suo ex responsabile della sicurezza Giuliano Tavaroli, finito sotto inchiesta a Milano perché sospettato di aver messo in piedi una sorta di intelligence parallela approfittando del proprio ruolo. Ma mentre sul fronte penale continuano le indagini affidate ai pm Fabio Napoleone, Stefano Civardi e Letizia Mannella, una nuova tegola è piovuta su Telecom. Già, perché le verifiche interne sollecitate dall'intervento del garante della Privacy hanno portato a un'altra scoperta: l'esistenza di sistemi ad hoc per scaricare tabulati di traffico telefonico a piacimento senza lasciare tracce. Una scoperta inquietante che, almeno sulla carta, avrebbe potuto legittimare i peggiori sospetti. A dar conto di questo problema è stata una relazione preparata dagli uffici sicurezza della telefonia mobile, da anni affidata all'ex poliziotto Adamo Bove. Nel giro di poche ore, dai vertici della multinazionale telefonica è arrivato l'ordine di procedere a una verifica ancora più approfondita. L'indagine è stata affidata all'auditing interna guidata da Armando Focaroli. Il rapporto, redatto a tempo di record, è ormai completato.

A questo punto Tronchetti Provera e i suoi più stretti collaboratori stanno valutando i prossimi passi. È possibile che lo staff legale del gruppo presenti in Procura a Milano un esposto sull'intera vicenda. Sull'argomento non si registrano conferme ufficiali, ma il fatto che non venga escluso il ricorso all'autorità giudiziaria lascia pensare che l'auditing sia riuscita a individuare le tracce di possibili abusi nella gestione dei tabulati. Intanto, la questione è destinata a passare al vaglio anche del comitato di controllo interno di Telecom, composto, come prescrivono le regole sulla governance societaria, da quattro amministratori indipendenti: Guido Ferrarini, che lo presiede, Francesco Denozza, Domenico De Sole e Marco Onado.

 

8 giugno

REFERENDUM
SOCIETA' CIVILE RIFLESSIVA

Scrive Curzio Maltese che ....''la società civile, che pure è scesa in piazza in innumerevoli occasioni per la difesa della Costituzione, non si è svegliata dal lungo torpore in cui è piombata''.
 
Non è solo riempiendo le piazze che si muove la società civile, ma anche riflettendo, facendo convegni, coinvolgendo persone e personalità sui pericoli e sui guasti che porterebbe questa riforma costituzionale. Ma i media hanno ritenuto, nell'anno trascorso, di non accorgersi mai dell'impegno continuo e faticoso che è stato portato avanti. Il Presidente del Comitato Salviamo la Costituzione, Pres. Oscar Luigi Scalfaro ha partecipato in media a tre convegni alla settimana in tutta Italia, e mai nessuno ne ha dato notizia. L'impegno si sta intensificando ora, dopo gli appuntamenti elettorali, ma affermare che la società civile è piombata in un lungo torpore è falso e ingeneroso.
E' piuttosto la società civile che avrebbe da lamentare il lungo silenzio dei media sull'argomento, molto complesso e difficile da illustrare.
Certo, convegni e riflessioni approfonditi con costituzionalisti, docenti e magistrati fanno meno notizia di piazze piene di gente, ma le piazze erano stanche, dopo cinque anni di mobilitazioni inutili contro muri di indifferenza da parte di chi aveva a cuore solo interessi particolari, legati da patti d'acciaio che non si scalfivano neanche dall'interno della coalizione, con un sistema radiotelevisivo saldamente in mano dell'oligarchia al potere.
 
No, non è stato un lungo torpore, ma un lungo e quasi catacombale lavoro di sensibilizzazione delle coscienze, per arrivare a far capire che occorre un forte e chiaro NO a questa cosidetta riforma.
E poi chi deve aggiornare lo farà: ma tutti insieme e non gli uni contro gli altri.

 

IL COMMENTO
 

Tutti i complici
di casa nostra

di GIUSEPPE D'AVANZO

DUE FATTI si sovrappongono. 1. L'investigatore del Consiglio d'Europa, il senatore Dick Marty, include l'Italia tra i sette Paesi europei che, violando diritti dell'uomo e Costituzioni, hanno consentito e "appoggiato" i sequestri illegali di cittadini islamici organizzati dalla Cia nel Vecchio Continente. 2. Le indagini della procura di Milano sulla "extraordinary rendition" di Abu Omar si sono ormai lasciate alle spalle il livello intermedio degli agenti operativi (diretti dal capo del centro Cia di Milano, Robert Seldon Lady, latitante) e oggi si muovono intorno alle responsabilità (le decisioni, i contatti politici e istituzionali) del direttore della Cia in Italia, Jeff Castelli, rientrato a Langley.

L'una e l'altra novità chiamano in causa, come è chiaro da tempo per Repubblica, le scelte ancillari di politica estera del governo Berlusconi; l'autorità politica che ha diretto i servizi segreti (Gianni Letta); la direzione dell'intelligence politico-militare (ancora in carica); gli organismi di controllo parlamentare (il Copaco).

Dinanzi a queste responsabilità, che il tempo e le indagini potranno soltanto definire più nitidamente, c'è il fuggi fuggi nelle fila del governo uscente. Tutti gli attori si sono chiamati fuori e se la danno a gambe.

Alfredo Mantica, già sottosegretario agli Esteri, si è preoccupato di proteggere le spalle a Gianfranco Fini: "È possibile che uno dei nostri Servizi sapesse, ma non lo avesse comunicato al governo". Più sbilenco il passo di Nicolò Pollari, direttore del Sismi. Lascia dire che la Cia gli propose delle "renditions", ma rifiutò di sostenerle. Anzi, con Gianni Letta, minacciò di dimettersi se fossero state accettate dal governo. A confermare la sua opposizione, Pollari chiama a testimone i membri del Comitato di controllo parlamentare: ne parlai con loro. Mentre fino agli ultimi giorni di vita il governo Berlusconi ripete di non aver saputo mai nulla di quei sequestri illegali che hanno violato la sovranità nazionale, appare sempre più probabile che molti sapessero. Gianni Letta e Nicolò Pollari, innanzitutto. Poi, anche il Parlamento attraverso il Copaco, presieduto da Enzo Bianco. Quindi, tutti. Governo. Intelligence. Maggioranza. Opposizione.

È chiaro, pensano i protagonisti di quella stagione, che qualcosa occorre fare per trovare un coperchio a una pentola in ebollizione. Tacere o invitare con qualche pressione al silenzio appare la mossa opportuna. Così il presidente del Copaco Enzo Bianco diserta "per motivi di lavoro" la convocazione della commissione d'inchiesta del Parlamento europeo. Unico caso in Europa. Antonio Martino, prima di lasciare il ministero della Difesa, lancia il suo "avviso ai naviganti": "L'ordinamento giuridico punisce i comportamenti tanto di chi rivela notizie coperte dal segreto, quanto quelli di chi tenti di procurarsele o se le procuri".

Messaggio triplo. Alla magistratura di Roma, si chiede di intervenire per porre argine a ogni ricostruzione del caso. Alla stampa, si annunciano rigori per "procacciamento di notizie coperte da segreto di Stato". Agli agenti segreti del Sismi si ricorda che, se aprono bocca con il procuratore di Milano che indaga sul sequestro di Abu Omar, incorrono nel reato di "rivelazione di segreti di Stato". Il malaccorto ministro non si accorge di offrire una notizia: c'è un "segreto di Stato" da tutelare nel "caso Abu Omar". Quale segreto può essere, se il governo e il Sismi non hanno mai saputo nulla?

Fin qui i pezzi e le mosse sulla scacchiera, prima dell'arrivo a Palazzo Chigi del nuovo governo Prodi. Che dovrebbe sciogliere finalmente il mistero: è stato autorizzato dal governo l'appoggio alla "extraordinary rendition" di un cittadino egiziano protetto in Italia dallo status di rifugiato politico e, per di più, fortemente indiziato di dirigere, nel nostro Paese, un network terroristico? O il governo non ne ha saputo nulla e si è trattato di un'autonoma iniziativa del nostro servizio segreto, subalterno alle politiche dell'intelligence americana? Che cosa ne ha saputo o è stato detto al Copaco? Il comitato parlamentare è stato ingannato dalle relazioni di Pollari o ha coperto consapevolmente un'attività non autorizzata dal governo o dal governo autorizzata illegalmente?

Che siano interrogativi degni di attenzione e di una pubblica risposta lo si comprende con quanto accade nelle capitali europee. Rese note le conclusioni dell'inchiesta del Consiglio d'Europa, Blair, Zapatero, Marcinkiewicz, il commissario Ue per la giustizia e la sicurezza Franco Frattini hanno tirato su la testa per ammettere, smentire, prendere tempo, chiedere chiarimenti, arrabbiarsi.

Da Roma soltanto un silenzio rumorosissimo. Non si sa come definirlo. Disattenzione? Imbarazzo? O assoluta indifferenza? È comprensibile che il governo, appena insediatosi, sappia poco di questa storia. Meno comprensibile che ne voglia sapere nulla. Perché altrimenti non dichiararlo? Poche parole non avrebbero violato il codice di discrezione che il presidente del Consiglio ha imposto alla sua "squadra". Qualcosa del tipo: stiamo cercando di capirci qualcosa; appena ne verremo a capo, andremo in Parlamento a raccontare come si è formato il processo decisionale che ha preceduto il sequestro di Abu Omar (ammesso che di processo decisionale si sia trattato).

In assenza di una presa di posizione rassicurante quanto ovvia, non possono che farsi strada due pensieri molesti. 1. Il governo di oggi è stato informato dei fatti dal governo di ieri e non ha nulla da dire perché approva incondizionatamente le decisioni del gabinetto uscente. 2. Il governo di oggi sottovaluta pericolosamente le conseguenze politiche, domestiche e internazionali, delle violazioni della Cia in Europa e in Italia. Non si sa quale delle due ipotesi sia la peggiore.


Sans papiers
Il trucco di Sarkozy
Invasioni di campo avverso Permesso di soggiorno agli immigrati che hanno figli a scuola. A patto che parlino francese anche a casa loro. Così il ministro sfida a «sinistra» la socialista Royal che sconfina a destra
Anna Maria Merlo
Parigi
Mentre il ministro degli interni, Nicolas Sarkozy, di fronte al Senato prometteva di regolarizzare le famiglie di sans papiers che hanno figli che vanno a scuola in Francia, a Le Mans la polizia ha inviato gli agenti in una scuola materna per prendere due bambini di origine curda la cui madre è sottoposta a una decreto di espulsione. E' la prova, secondo le associazioni di difesa dei diritti umani e la rete Education sans frontières, che la promessa di Sarkozy è solo fumo negli occhi. Una concessione parziale, che non è altro che un modo per opporsi alla crescita nei sondaggi della sua rivale potenziale a sinistra per le presidenziali del 2007, Ségolène Royal, che ha «sfondato» a destra con le sue proposte sulla sicurezza e contro le 35 ore. Sarkozy cerca, in questo modo, di sedurre l'elettorato di sinistra.
Con un decreto del ministero degli interni del 31 ottobre 2005, l'espulsione di famiglie di sans papiers che hanno figli che frequentano la scuola dell'obbligo era stata rimandata alla fine dell'anno scolastico. Ora la data si avvicina, è nata una rete di solidarietà è nata, federata da Education sans frontières (che raggruppa più di 400 organizzazioni), ci sono state diverse manifestazioni e non passa giorno che in una scuola del paese non vengano affissi manifesti di solidarietà con una famiglia in via di espulsione. Da aprile circola una petizione che invita alla disobbedienza civile, ad «opporsi alle espulsioni massicce di giovani e di famiglie intere». Sarkozy ha capito l'ampiezza della protesta e sta cercando di attenuarne la portata.
Con la decisione di ieri circa 720 famiglie potrebbero ottenere il permesso di soggiorno. Ma i casi, ha precisato il ministro, saranno esaminati «uno a uno». Con criteri discutibili: i bambini devono essere nati in Francia o almeno esserci arrivati da piccolissimi, devono aver frequentato regolarmente la scuola (quella dell'obbligo, quindi la decisione esclude i bambini dell'asilo, che non è obbligatorio), devono essere «legati alla Francia» e non devono parlare la loro lingua d'origine a casa. Questi ultimi due criteri sono sorprendenti e lasciano la porta aperta all'arbitrio delle Prefetture. A beneficiare del provvedimento saranno non più di 2000-2500 persone, mentre Education sans frontières parla di «almeno 10 mila giovani» che potrebbero essere espulsi alla fine dell'anno scolastico. «Prendiamo gli annunci di Sarkozy con molta circospezione - afferma Richard Moyon, portavoce della rete - a ragione viste le difficoltà che ci sono a far rispettare la circolare che chiedeva la sospensione delle espulsioni delle famiglie durante l'anno scolastico». Il ministero degli interni ha sottolineato che non si tratta di «creare una nuova filiera di immigrazione clandestina, con un diritto automatico al soggiorno, ma di precisare i criteri di regolarizzazione caso per caso». Le famiglie che non rientrano nei «criteri» riceveranno un aiuto finanziario al rientro nel paese d'origine. La decisione di Sarkozy mira a «umanizzare» il clima, mentre il Senato dovrebbe approvare nei prossimi giorni la nuova legge sull'immigrazione, già passata all'Assemblea, che istituisce l'«immigrazione scelta e non subita», con drastiche limitazioni al diritto al ricongiungimento familiare.

 

7 giugno

L'emittente inglese cita un rapporto del Consiglio d'Europa
Anche l'Italia tra i paesi implicati nel trasferimento di prigionieri
 

La Bbc: "14 stati europei
collaborarono ai voli Cia"

Prove basate sui piani di volo dei controllori del traffico aereo
 
<B>La Bbc: "14 stati europei<br>collaborarono ai voli Cia"</B>

LONDRA - Quattordici Stati europei hanno collaborato con gli Stati Uniti ed effettuato attività segrete implicanti il trasferimento di prigionieri accusati di terrorismo, mentre l'Europa dell'Est ospita o ha ospitato due prigioni segrete della Cia: lo ha affermato ieri la Bbc basandosi su estratti di un rapporto del Consiglio d'Europa. La Bbc spiega che in questo rapporto elaborato dal parlamentare svizzero Dick Marty e che sarà reso pubblico oggi, questi ha concluso che vi sono stati molteplici voli di trasferimento di prigionieri attraverso tutta l'Europa, definiti una "ragnatela" tessuta sul continente.

Lo scorso gennaio, gli Usa avevano respinto le conclusioni di Marty sulle attività segrete in Europa della Cia, accusata di aver creato un sistema di subappalto della tortura. La Bbc ha affermato che Spagna, Turchia, Germania e Cipro sono citati nel rapporto in quanto "postazioni avanzate" per operazioni di trasferimento di prigionieri, mentre Irlanda, Grecia e Regno Unito hanno servito da scali per i voli noleggiati dalla Cia. Londra è inoltre accusata di aver trasmesso informazioni su suoi cittadini o residenti all'Agenzia di intelligence americana.

Coinvolti nelle operazioni anche altri Paesi, tra cui Italia, Svezia, Bosnia-Erzegovina e Macedonia.
"E' grazie alla collusione deliberata o improntata a negligenza da parte dei partner europei - afferma il rapporto - che questa 'ragnatela' ha potuto estendersi sull'Europa".

Sempre secondo la Bbc, Marty accusa Polonia e Romania di aver ospitato prigioni segrete della Cia. I due Paesi hanno già smentito con forza l'esistenza di tali carceri sul loro territorio. L'emittente britannica aggiunge che le prove di Marty sono basate sui piani di volo dei controllori del traffico aereo europei.

 

3 giugno

Sì all'inseminazione in Danimarca
«Figli per single e lesbiche»
Dopo un lungo dibattito, votata dalla sinistra e da una parte del centrodestra la legge che concede la procreazione assistita gratuita negli ospedali a donne single o omosessuali. Il paese si conferma così all'avanguardia in Europa per quanto riguarda i diritti civili
Iaia Vantaggiato
Dopo una settimana di acceso dibattito parlamentare e dopo «soli» nove anni di battaglie politiche, cade - in Danimarca - l'ultimo tabù. E' stata infatti approvata ieri, dal parlamento danese, la legge che consente l'inseminazione artificiale gratuita negli ospedali per le coppie lesbiche e per le donne single. 86 i voti favorevoli, 61 i contrari e 21 gli astenuti su un totale di 179 seggi. La proposta era già passata ad un primo esame del parlamento (il Folketing), il 24 maggio scorso, con un solo voto di maggioranza.
Sulla nuova legislazione si spaccano governo, partiti e società civile anche perché a far pendere l'ago della bilancia nei confronti della nuova normativa è stata la defezione di una parte consistente del partito liberale che - in aperto contrasto con il premier di centrodestra Anders Fogh Rasmussen - ha dato il suo via libera a che i nuovi provvedimenti venissero adottati. Fra i deputati liberali che hanno votato a favore della nuova legge, anche il portavoce del partito, Jens Rhode, che ha dichiarato: «Per quanto volessimo garantire la presenza di un padre e di una madre, non siamo più in grado di farlo. Sappiamo dell'esistenza di tanti genitori soli, di tante famiglie separate e non possiamo legiferare al di fuori di queste problematiche». Proibire a donne single e alle lesbiche di usufruire dell'aiuto medico - ha aggiunto - sarebbe stato discriminante. Tutto bene non fosse che le donne single continuano a essere definite - da media e politici, in Italia, in Europa e nel mondo - «donne sole».
Una geografia del voto da far girar la testa anche ai più consumati politici italiani. Da un lato, per l'appunto, il governo di centrodestra che - sostenuto da parte dell'opinione pubblica - aveva cercato di mitigare e di addolcire la proposta dell'opposizione: sì all'inseminazione artificiale per coppie lesbiche e single ma solo all'interno di strutture private e a spese delle eventuali richiedenti.
Dall'altro socialdemocratici, socialisti popolari e Lista Unitaria che non si sa in base a quali ingegnerie e guizzi istituzionali sono riusciti a spostare dalla loro anche numerosi liberali.
Esultante, come è ovvio, la comunità omosessuale danese: «Dopo nove anni di battaglie siamo felicissimi - ha dichiarato Mikael Boe Larsen, dirigente dell'Associazione nazionale danese di lesbiche e gay -, la gente piange di gioia, le lesbiche sono le più contente e hanno ragione: è passata la loro 'forma' di famiglia». Mesto e abbacchiato è apparso invece Rasmussen: «Naturalmente ho sostenuto la proposta del governo e mi dispiace che non sia passata. Ma è importante aver preso una decisione. La questione è stata discussa per anni e non avremmo guadagnato nulla ad aspettare ancora». Più battaglieri del premier, i rappresentanti del partito conservatore alleato di governo «People's party», una formazione anti immigrati che non riesce ad accettare la sconfitta e che non rinuncia ad affermare con impropria sicumera: «Ogni bambino ha diritto ad avere un padre».
La Danimarca è stato il primo paese al mondo a introdurre - il primo ottobre del 1989, il matrimonio gay e lesbico da contrarsi regolarmente in municipio («unione registrata civilmente») e a concedere a tali coppie gli stessi diritti di cui godono quelle eterosessuali. Un passo importante che - all'inizio degli anni '90 - aveva spinto le comunità omosessuali a intraprendere nuove battaglie: l'adozione, il rito matrimoniale in chiesa (al quale, peraltro, alcuni vescovi sia pur isolati hanno acconsentito) e la fecondazione assistita.
E mentre in Danimarca persino la destra si adegua ai cambiamenti della società civile, l'Italia si spacca su «pregiudiziali etiche» che nulla hanno a che fare col vero sentire di quella stessa società. Civile, appunto.

Usa/Messico Grande fratello ai confini web cam contro i migranti
Il governatore del Texas, Rick Perry, ha dichiarato lo scorso giovedì di voler permettere la sorveglianza «on-line» dei confini col Messico; l'installazione di web-cams alla frontiera permetterebbe ai navigatori di internet di controllare i confini nazionali sorvegliando in tempo reale le barriere e segnalando eventuali sconfinamenti alle pattuglie statunitensi.Dubbi di carattere giuridico sono stati avanzati sulla legittimità di un simile progetto, mentre in tutti gli Usa continua il dibattito sull'inasprimento delle misure contro l'immigrazione clandestina. Non sarebbero però pochi i sorveglianti «amatoriali» disposti a difendere i 1.600 km di confine tra Stati uniti e Messico dai disperati che cercano di varcarli. Il tutto, per una modesta spesa prevista intorno ai 5 milioni di dollari.

 

 

Un velo oscuro sui crimini di guerra italiani in Etiopia
Sara Menafra
È necessario indagare sui crimini dell'Italia nel mondo, ha detto il giurista Antonio Cassese quando di recente un ricercatore ha scoperto la fossa comune in cui i fascisti avevano nascosto le vittime di una strage in Etiopia. Peccato però che, nel momento in cui questo avviene, non tutti siano disposti ad accettare quanto viene fuori. Soprattutto quando si scopre che i crimini potevano essere giudicati a tempo debito e che, nel caso dell'Etiopia, non farlo fu una precisa scelta delle Nazioni Unite. Lo stesso è accaduto con la commissione parlamentare sui crimini nazifascisti che ha concluso i propri lavori a febbraio con una relazione «di maggioranza» da cui erano stati cancellati diversi particolari scomodi scoperti dai consulenti «di minoranza». Tra le parti omesse, oltre alle responsabilità legate all'occultamento dei fascicoli sui crimini nazifascisti in Italia, c'erano le prove di come le Nazioni Unite, a guerra finita, decisero di evitare che uomini di spicco dell'Italia fascista e postfascista fossero processati per i crimini commessi durante il conflitto.
«La documentazione contenuta nell'archivio delle Nazioni Unite a Londra - spiega lo storico Paolo Pezzino, uno dei consulenti della commissione - dimostra come l'Etiopia abbia chiesto sin dal 1943 che l'Italia fosse processata. Durante la discussione si formò un fronte internazionale deciso a salvare l'Italia da questi processi, chiesti anche da Francia, Jugoslavia e Grecia, almeno fino alla conclusione del trattato di pace con gli alleati».
Per giustificare la scelta, la Commissione delle Nazioni Unite per i crimini di guerra sostenne che la sua attenzione si sarebbe dedicata solo ai crimini commessi durante la seconda guerra mondiale. L'obiezione era pretestuosa, e il trattato di pace del 1947 tra Italia ed Etiopia riconobbe l'ininterrotto stato di belligeranza fra i due paesi, dall'invasione fascista (3 ottobre 1935) alla firma dell'armistizio (10 febbraio 1947). Passata la prima votazione e il trattato con gli alleati, l'Etiopia tornò a reclamare i suoi diritti e nel 1948, poco prima della fine dei lavori, la Commissione cambiò posizione. Nella riunione del 4 marzo 1948 riconobbe la fondatezza delle accuse presentate dagli etiopi e iscrisse dieci italiani nelle liste dei criminali di guerra: otto come responsabili diretti, due come testimoni. Fra gli incriminati figuravano il comandante in capo delle truppe italiane, maresciallo Pietro Badoglio, il governatore generale e viceré d'Etiopia, maresciallo Rodolfo Graziani; il segretario di stato per le colonie Alessandro Lessona; il segretario del partito fascista ad Addis Abeba, Guido Cortese; alti generali come Guglielmo Nasi, Alessandro Pirzio Biroli, Carlo Geloso. Accuse forti ma formali, perché di lì a pochi giorni la commissione si sciolse: «Il quadro era cambiato - aggiunge Pezzino - e la Gran Bretagna era interessata ad avere buoni rapporti con le ex colonie. Per questo, avendo la certezza che le accuse non avrebbero avuto seguito, decise di votare contro l'Italia e a favore dell'Etiopia».
A lavori conclusi, il governo etiope preparò un aide-mémoire per chiedere all'Italia la consegna di Badoglio e Graziani sulla base dell'articolo 45 del trattato di pace, affinché fossero processati da un tribunale internazionale con una maggioranza di giudici non etiopi e secondo i principi del tribunale di Norimberga. Ma Tommaso Gallarati Scotti, ambasciatore italiano a Londra contattato informalmente dal rappresentante diplomatico dell'Etiopia, rifiutò di consegnare il documento a Roma.
Le accuse, conclude la relazione oscurata, finirono nel memorandum Documents on Italian War Crimes submitted to the United Nations War Crimes Commission: «Era un ultimo atto di accusa. Addis Abeba, però, non sollevò più la questione della consegna di Badoglio e di Graziani. Il Foreign Office, interpellato dalle autorità etiopi, aveva fatto sapere di giudicare il passo dell'ambasciatore etiope a Londra "estremamente inopportuno" e aveva sconsigliato l'Etiopia dal ripetere simili iniziative.

    

Silenzio sul delitto commesso
dagli americani a Samarra

Se la donna incinta
è irachena

 
Piero Sansonetti
La “France Press” (principale agenzia di stampa francese) è chiarissima nel suo racconto. Nabiha Mohammed Jassim aveva 35 anni, era in automobile con sua cugina Saliha Hammad Hassan, e col fratello di lei, del quale non si conosce il nome; alla guida dell’auto c’era il fratello, e correva, suonando il clacson. Era diretto all’ospedale centrale di Samarra. Nabiha era adagiata sul sedile posteriore, aveva le doglie, si erano rotte le acque, doveva partorire da un momento all’altro. Sembra che per un errore l’automobile abbia imboccato una strada sbarrata, proibita. Una strada riservata all’esercito americano. I soldati hanno visto la macchina, che non era autorizzata, e hanno deciso di fermarla nel modo più spiccio: sparando. Pare che un tiratore scelto fosse appostato su un tetto e abbia preso la mira. Il fratello di Nabiha è stato colpito solo di striscio, se l’è cavata. Nabiha e sua cugina Saliha sono state fulminate dalle pallottole. Anche il bambino, che avrebbe dovuto nascere nella notte di mercoledì, non nascerà, un proiettile lo ha trapassato, un proiettile letale.

Gli americani, in un comunicato ufficiale, si sono detti dispiaciuti per il piccolo massacro. «Questi incidenti - c’è scritto nel comunicato - quando portano alla perdita di vite innocenti sono davvero disdicevoli, e l’esercito americano fa grandi sforzi per cercare di evitarli». Nella nota del comando statunitense c’è anche scritto che c’erano molti segnali, però, e chiari, e grandi, evidenti, e questi segnali dicevano in modo inequivocabile che quella strada non doveva essere percorsa da un’auto di civili. I militari americani non sanno spiegarsi come mai le due donne e il fratello di Nabiha non abbiamo visto quei cartelli.

Chissà perché questa storia non è stata raccontata ieri dai giornali italiani. Non ho mai capito bene cosa dicano, al proposito, i manuali di giornalismo, però a me sembra che se dei soldati americani sparano a freddo, e uccidono, una donna incinta al nono mese e sua cugina, la notizia c’è (i manuali dicono sempre di quella storia che se un cane morde l’uomo non è notizia e se l’uomo morde il cane lo è; ma di come vada valutata l’uccisione di un’irachena da parte di un americano non se ne sa niente...)

Vi ricordate, appena un paio di settimane fa, quella polemica furiosa accesa da un direttore di giornale che aveva deciso di pubblicare in prima pagina l’immagine del feto (vestito con un trucco del computer, in modo da sembrare un bambino già nato) che aveva perso la vita insieme alla madre vittima del delitto di un pazzo, in Veneto? Stavolta niente, né idee scandalose (e piuttosto sciocche, come quelle della foto) e neppure un titoletto in prima pagina, o magari anche in una pagina interna. La donna era irachena, e anche il feto - o il bambino nascente - non aveva niente a che fare con la civiltà occidentale.

Eppure questa storia di Nabiha ci illustra in modo chiarissimo come ormai occupazione militare americana sia sfuggita al controllo degli stessi comandi. Avete visto, a suo tempo, quel film bellissimo, con Marlon Brando, fine anni ’70, che si chiamava “Apocalypse Now”? Vi ricordate come descriveva bene lo stato mentale delle truppe occupanti (era la guerra del Vietnam), che non avevano più la capacità né di governare se stesse, né di controllare la situazione, né di immaginare cose da fare e da non fare, ma capaci solo di sparare, comunque, ossessionati dalla paura e dalla assenza di idee e di prospettive? Beh, l’Iraq, sotto questo punto di vista, è identico al Vietnam. Il disegno politico generale degli americani è chiaro, ed è un disegno fondamentalmente di dominio - politico e militare - che sostituisce con la potenza delle armi ogni altro pensiero e progetto politico, o economico, e sostituisce persino la stessa idea di globalizzazione. Ma dentro questo progetto di dominio non c’è più nulla di concreto e di ragionevole. Per questo - per la contraddizione stridente fra obiettivo e situazione reale - si produce in modo ormai vastissimo e generalizzato il fenomeno della violenza pura, dell’uso vile e feroce della forza, della strage, della tortura o - nel migliore dei casi - degli spari nel mucchio. Questo livello di inciviltà al quale è arrivata l’occupazione guidata dagli americani è il problema che non si può più nascondere.

 

L'allarme contenuto nel rapporto Legambiente-Corpo forestale che presenta dati inediti sullo stato di salute dei corsi d'acqua

Malato il 21% dei fiumi italiani
Tevere, Reno e Arno i peggiori

Organizzazioni criminali li attaccano con ogni tipo di illegalità

Dalla pesca di frodo, all'inquinamento, ai furti di ghiaia

ROMA - I fiumi italiani sono malati. Soprattutto quelli più lunghi, e il Tevere sta peggio degli altri. Lazio, Sardegna e Sicilia sul podio delle acque dolci più inquinate. Il quadro generale sullo stato di salute dei corsi d'acqua delineato dal rapporto Legambiente - Corpo forestale dello Stato, presentato oggi a Roma, non è confortante. Nelle mani della criminalità fluviale, abbandonati a se stessi e terra di nessuno per anni, oltre il 20 per cento dei corsi d'acqua risulta sotto la soglia di sopravvivenza.

Questo l'allarme contenuto dal dossier "Fiumi informa" che contiene dati inediti sullo stato di salute dei fiumi made in Italy. Sono stati 117.000 i controlli effettuati dai forestali e quasi 68.000 su persone; identificati e denunciati più di 700 "criminali fluviali", 7 gli arresti. Quasi un milione e 400 mila euro notificati per illeciti amministrativi lungo i fiumi e i laghi, con più di 4.000 multe effettuate dal Corpo forestale dello Stato nelle acque interne dal 2003 al 2005.

Sui nostri fiumi vengono commessi ogni giorno quattro illeciti, per un totale di 5.000 reati dal 2003 al 2005 di cui oltre quattromila amministrativi e quasi mille penali, con Lazio, Abruzzo e Toscana sul podio dell'illegalità. In sofferenza Reno, Arno e Simeto, ma la situazione più grave riguarda il Tevere. Pesca illegale, sversamento di sostanze inquinanti, mancata depurazione, furto di ghiaia e inerti dagli alvei, abusivismo edilizio lungo le sponde alcuni dei principali nemici degli ecosistemi fluviali.

Dal dossier risulta che il 21 per cento dei fiumi nazionali risulta malato. Nel Lazio la situazione più pesante, con il 48 per cento nettamente in sofferenza. Seguono Sardegna e Sicilia (male il 41 per cento) ed Emilia Romagna (37 per cento). Tra i 20 più grandi fiumi che attraversano l'Italia per quasi 5.000 chilometri, bollino rosso al Simeto in Sicilia, con solo il 20 per cento delle acque qualitativamente positiva, al Reno che attraversa Toscana ed Emilia (66 per cento negativo) e dell'Arno (44 per cento). Grave anche la situazione in cui versa il Tevere con un terzo delle stazioni di monitoraggio che segnalano una qualità delle acque che non raggiunge la sufficienza.

Tra quelli che si salvano, Ticino, Piave, Isonzo, Brenta e Chiese il cui stato appare mediamente "buono" o, almeno, sufficiente.

Una situazione che può avere serie ripercussioni sulla salute umana e sull'economia zootecnica su cui molte comunità vivono, come è emblematicamente e drammaticamente accaduto nel Lazio sul fiume Sacco. A questo si aggiunge il comportamento incivile di troppi cittadini che trasformano i preziosi corsi d'acqua in vere e proprie pattumiere.

E così per attirare la massima attenzione, oggi da Roma sulle sponde del Tevere parte la tre giorni di "Fiumi Informa", la campagna nazionale di Legambiente e Corpo forestale dello Stato contro l'illegalità sui fiumi. La grande festa dei fiumi continua sino a sabato 3 giugno lungo 30 aste fluviali dal sud al nord del Paese. Dal Po al Piave, dal Sacco al Garigliano, dall'Arno al Chienti sino al Neto e al Basento, saranno organizzate visite a piedi, in bicicletta, a cavallo e in canoa per riscoprire i fiumi.
 

1 giugno

 

Cgil, la sinfonia dei 100 anni
P. A.
Le note e il timbro della sinfonia passano dai toni da socialismo sovietico a quelli dell'Intenazionale, fino al jazz, quando sono stati evocati i morti di Chicago, i primi del Primo maggio. Cento anni di storia raccontati con la musica e con le parole in un fitto intrecciarsi di suggestioni, quasi di echi di un passato che sembra lontano, ma è ancora quasi un presente. «In fondo - dice Vincenzo Cerami, autore del testo - che cosa sono cento anni nella storia dell'umanità? La Cgil è giovane e siccome è la cartina al tornasole della democrazia, noi gli facciamo grandi auguri».
La sinfonia per il Centenario della Cgil, scritta da Nicola Piovani, è stata eseguita domenica sera a Roma, nella sala grande Santa Cecilia dell'Auditorium della musica. Rulli di tamburi e suoni che si sono mescolati alle splendide voci soliste, due maschili (Pino Ingrosso e Alessandro Quarta) e due femminili (Raffaella Siniscalchi e Gabriella Zanchi) e alla voce ferma e perfino quasi commossa di un ispirato Gigi Proietti. Era il primo ottobre 1906. Quel giorno nacque la Cgil. E' stata la frase finale, prima del grande applauso di una sala stracolma che ha richiamato sul palco i musicisti e i cantanti per parecchie volte, fino a convincere il maestro Piovani a concedere un piccolo gradito bis.
Piovani si è sequestrato per quattro mesi per scrivere questa sinfonia commissionata dalla Cgil, mentre Cerami ha scritto il testo senza tenere conto di steccati o obblighi di cronologia. Si è inventato piuttosto una sorta di volo sul mondo degli ultimi cento anni, per rivedere le peggiori forme di schiavitù, di violenza e di rivincita del movimento dei lavoratori. Testo e note di Piovani hanno lanciato anche più lontano le lianei della storia, fino a ricorrere all'Ecclesiaste da cui è stato preso il filo conduttore: meglio essere in due che soli, meglio essere in mille che in due. Il valore della solidarietà, del compagno pronto a darti un aiuto quando cadi. Una musica da sinfonia classica, un testo postmoderno, così Proietti è diventato quasi il replicante di Blade Runner che ha visto la storia del mondo passare davanti ai suoi occhi.
Nella sinfonia c'è anche l'eclisse del fascismo e c'è il ricordo della storia di milioni di individui singoli che si sono messi insieme per essere più forti. Non è questa, forse, la storia del movimento operaio?

 
Farmaci Cartello per dividersi il mercato L'Antitrust multa nove società
L'Antitrust ha sanzionato per 3,7 milioni 9 imprese che operano nel mercato della fornitura di prodotti antisettici e disinfettanti alle strutture sanitarie pubbliche. L'istruttoria era stata avviata sulla base di una segnalazione della Guardia di Finanza. Il Garante ha specificato di aver «accertato l'esistenza di un'intesa, posta in essere tra il 1998 e il 2001, volta a ripartire il mercato italiano della fornitura di prodotti antisettici e disinfettanti alle strutture sanitarie pubbliche». Le società sanzionate sono Farmecl, Nuova Farmec, AstraZeneca, Braun, Esoform, Ims, P Farmaceutici, Meda Pharma, Sanitas.
 
Guantanamo
No al cibo per 75
Il numero dei detenuti che sono scesi in sciopero della fame nel campo di Guantanamo è cresciuto ed ora coinvolge almeno 75 carcerati. Lo ha riferito il comandante della marina militare statunitense Robert Durant. Durant ha spiegato che il nuovo sciopero della fame può essere collegato ai disordini scoppiati il 18 maggio nel campo di prigionia. Circa 460 prigionieri sono ancora a Guantanamo, molti dei quali catturati in Afghanistan e detenuti da quasi 4 anni senza formale incriminazione da parte delle autorità giudiziarie.
Usa, missili no-nuke che colpiscono in un'ora
Global strike, tutti nel mirino
Manlio Dinucci
«Non più di un'ora»: questo il tempo che occorrerà agli Stati uniti per colpire qualsiasi obiettivo sulla faccia della terra. Lo ha annunciato ieri il gen. James Cartwright, capo del Comando strategico (Stratcom), precisando che nei 60 minuti è «compreso il tempo necessario ad avere l'autorizzazione del presidente per l'attacco» (The New York Times, 29 maggio).
A colpire l'obiettivo sarà una testata convenzionale (non-nucleare), trasportata però da un missile balistico Trident II D-5 da attacco nucleare. Il piano presentato dallo Stratcom prevede che, in ciascuno dei 18 sottomarini Trident, due dei 24 tubi di lancio saranno destinati a questi missili, ciascuno armato di 4 testate convenzionali indipendenti in grado di colpire altrettanti obiettivi. Negli altri 22 tubi di lancio ci saranno i «normali» missili, ciascuno armato di almeno 5 testate nucleari indipendenti. Sono già pronte varie testate convenzionali per i Trident II D-5: una sparge su una vasta area freccette di tungsteno in grado di distruggere veicoli e penetrare all'interno di case e rifugi.
In tal modo, ha spiegato il gen. Cartwright, gli Stati uniti potranno attaccare anche in regioni dove non hanno abbastanza basi e forze e occorrono quindi giorni per trasferirvi aerei e navi. E lo potranno fare in tempi rapidissimi, mentre occorrono molte ore perché un bombardiere, partendo dagli Stati uniti, possa effettuare la missione. I missili balistici a testate convenzionali, spiegano al Pentagono, potranno essere usati per «attaccare campi di terroristi, siti missilistici nemici, sospetti nascondigli di armi biologiche, chimiche o nucleari e altre potenziali fonti di immediata minaccia».
Una volta individuato l'obiettivo attraverso immagini satellitari o informatori in loco, il Centcom chiederà l'autorizzazione del presidente che dovrà decidere in meno di mezzora. Darà quindi ordine al più vicino sottomarino di lanciare i missili. Le testate, una volta rilasciate fuori dell'atmosfera, vi rientreranno a una velocità di 28mila km/h colpendo gli obiettivi a oltre 7mila km di distanza in un tempo massimo di 30 minuti dal lancio. Data la loro enorme velocità, potranno distruggere gli obiettivi anche con il semplice impatto cinetico. Il Centcom potrà così agire fulmineamente, mettendo in pratica la strategia del «Global Strike», ossia dell'Attacco globale. Non a caso il suo emblema raffigura la mano corazzata di un guerriero che, dallo spazio sullo sfondo della terra, impugna tre fulmini, «simboli di velocità e letalità», e un ramoscello d'olivo per «ricordare che la missione del comando è assicurare la pace».
Ma come potranno Russia, Cina e altri paesi tenuti sotto mira dai missili nucleari statunitensi capire quale tipo di testata avranno i missili Trident lanciati dai sottomarini? Nessuna tecnologia permette di farlo. Vi è quindi, secondo diversi esperti intervistati dal New York Times, «il rischio di un confronto nucleare accidentale». Lo stesso Putin, nel suo indirizzo alla nazione l'11 maggio, ha avvertito che «il lancio di un missile di questo tipo potrebbe provocare una inappropriata risposta da parte di una delle potenze nucleari, un contrattacco con forze nucleari strategiche». Negli Stati uniti occorre quindi il nullaosta del Congresso perché il programma sia reso operativo. E il Pentagono, che ha messo a punto ogni dettaglio, sta premendo fortemente in tal senso.
Per evitare pericolosi equivoci, ha detto il gen. Cartwright, Russia, Cina e altri paesi potrebbero essere «informati quando gli Stati uniti lanciano un missile Trident II a testate convenzionali». Le rassicurazioni però non bastano: a Mosca e Pechino sanno bene che i missili balistici a lungo raggio non sono mai stati usati finora in un'azione bellica e che il loro impiego, anche con testate convenzionali, servirebbe a testarli in condizioni reali così da migliorarne le prestazioni per un attacco nucleare. Come ha precisato il gen. Cartwright, dopo un volo di migliaia di miglia le testate dei missili possono colpire in un raggio di 5 iarde, 4 metri e mezzo, dall'obiettivo. Precisione anche eccessiva, se le freccette al tungsteno possono seminare la morte in una raggio di centinaia di metri e una testata nucleare in un raggio di decine di chilometri.
 

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