L'ex presidente : "La Carta è
viva e attuale. E' la mia Bibbia civile
Opporsi al nuovo testo non significa essere conservatori"
Ciampi: "Una
riforma fuori dalle regole
ecco perché voterò contro"
Prodi: ridurremo il numero dei
parlamentari di MASSIMO GIANNINI
ROMA -
"L'ho già detto pubblicamente, e non ho mai avuto dubbi: andrò a
votare al referendum, perché sono un cittadino italiano. E
voterò "no", per difendere la nostra Costituzione, che è bella,
è viva e più attuale che mai". Nel giorno della qualificazione
della nazionale italiana ai mondiali di calcio, e a due giorni
dal referendum sulla riforma del Polo, che riscrive ben 54
articoli della nostra Carta fondamentale, in casa Ciampi circola
un'aria di sano "patriottismo costituzionale", secondo la felice
definizione di Jurgen Habermas rilanciata ieri su questo
giornale da Pietro Scoppola e sul "Corriere della Sera" da
Claudio Magris.
L'ex presidente della Repubblica non fa mistero della sua
soddisfazione per la vittoria degli azzurri, ma non nasconde la
sua preoccupazione per i ripetuti tentativi, sempre più
frequenti in queste ultime ore, di politicizzare e insieme
svalorizzare la Costituzione. Di piegarla a strumento di
propaganda politica. Di farne un uso "congiunturale", di parte e
di partito.
"Lo sapete - ripete ancora una volta Carlo Azeglio Ciampi - nel
corso del mio settennato la Costituzione è sempre stata la mia
Bibbia civile. E continuerà ad esserlo". Per questo il
predecessore di Giorgio Napolitano al Quirinale è più che mai
convinto di dover votare no al "colpo di spugna" voluto dal
centrodestra nella passata legislatura. Per questo l'attuale
senatore a vita non raccoglie l'ultima provocazione lanciata da
Silvio Berlusconi, che aveva definito "indegno" chi non voterà
sì a quella sedicente "riforma".
"Per carità - si schernisce adesso Ciampi - a queste parole non
voglio rispondere. Non voglio entrare in questa polemica, anche
perché mi pare che chi l'ha sollevata sia già stato costretto ad
autosmentirla". Ci tiene, il presidente emerito, a non farsi
travolgere dal chiacchiericcio del teatrino politico. A
mantenere un profilo alto, istituzionale. Ma non per questo
intende rinunciare ad esprimere il suo giudizio sull'oggetto del
referendum, che resta fortemente negativo. "E il mio è un no
ragionato, non un no acritico", conferma Ciampi, che sulla
questione sta studiando da tempo, e ha maturato una convinzione
che gli deriva dai pareri e dagli scritti dei più importanti
giuristi italiani.
Secondo Ciampi, il "pacchetto" di modifiche costituzionali messo
insieme dalla Casa delle Libertà - come ha detto l'ex presidente
della Consulta Valerio Onida - rischia in effetti di "minare il
funzionamento delle istituzioni". Lo confermano i più grandi
costituzionalisti italiani, a partire da Gustavo Zagrebelski
fino ad arrivare a Andrea Manzella. Lo ha ribadito, proprio in
questi ultimi giorni, Francesco Paolo Casavola. "Andate a
rileggere quello che ha scritto sul 'Mattino' di Napoli -
commenta Ciampi - e capirete perché non si può non votare no a
questo referendum".
Di quell'articolo, uscito sul quotidiano partenopeo martedì
scorso, l'ex Capo dello Stato condivide dalla prima all'ultima
riga. A partire da una premessa fondamentale: la riforma del
Polo, passata con la formula della revisione costituzionale
prevista dall'articolo 138 della stessa Carta, è di fatto
illegittima. Il testo approvato dalla Cdl, infatti, mira a
cambiare la forma di Stato e di governo, ma così facendo viola
l'articolo 139 della stessa Costituzione: "La forma repubblicana
- c'è scritto - non può essere oggetto di revisione
costituzionale".
Questo "istituto", secondo l'articolo 138, era stato pensato dai
costituenti per introdurre modifiche "puntuali e circoscritte"
della nostra Costituzione. La riforma del Polo è invece una
riscrittura radicale, confusa e contraddittoria, della Carta del
'48. Qui sta il rimando fondamentale, e di metodo, che Ciampi fa
allo scritto di Casavola: "Passare dallo Stato unitario allo
Stato federale, dal governo parlamentare al premierato che non
ha contrappesi né nel presidente della Repubblica né nel
Parlamento, non si può con revisione della Costituzione, perché
la Costituzione lo vieta".
Meglio di così non si poteva dire. E a chi obietta perché Ciampi,
quand'era sul Colle, abbia dato via libera e abbia promulgato
questo inaccettabile stravolgimento della sua "Bibbia civile",
l'ex Capo dello Stato risponde a tono: "Anche questa - dice - è
una polemica strumentale. Quel testo, dopo la sua quarta
approvazione parlamentare, non è mai passato al Quirinale. E'
stato pubblicato direttamente sulla Gazzetta Ufficiale, perché
gli italiani potessero poi richiedere il referendum
confermativo. E dunque non è mai transitato né sulla mia
scrivania, né su quella dei miei uffici giuridici".
Se in via del tutto ipotetica questo fosse stato permesso dalle
procedure costituzionali, l'ex presidente della Repubblica non
avrebbe esitato ad opporre il suo "no" alla promulgazione
dell'ennesimo strappo legislativo voluto dal centrodestra, dopo
la Gasparri sulle tv, la Castelli sulla giustizia e la Cirielli
sulla prescrizione. Perché a Ciampi, anche nel merito, questa
riforma sembra inaccettabile. Il senatore a vita non vuole
addentrarsi nei dettagli. Ma ancora una volta invita alla
lettura dell'articolo di Casavola.
La devolution non farà altro che privare il cittadino del
principio di uguaglianza di fronte a beni essenziali come la
salute, l'istruzione, la sicurezza, "disponibili solo da quell'unico
sovrano che è la Nazione". Il premierato "forte" significa solo
"l'uscita dal principio delle democrazie costituzionali",
secondo cui "ogni potere è bilanciato da un altro potere".
Ciampi l'ha detto più volte nel corso del suo settennato, ed
oggi ne è ancora più convinto: "La nostra Costituzione è viva e
attuale, perché in essa gli italiani si riconoscono ogni
giorno".
Questo non vuol dire che l'ex Capo dello Stato appartenga alla
schiera dei cultori del "dogma dell'inviolabilità della
Costituzione". Nel corso del suo settennato ha ripetuto più
volte, e oggi ne è ancora più convinto, che si possa anche
"pensare di ritoccarla, di fare delle correzioni, ma nel
rispetto della sua essenza". E purché se ne rispetti il "valido
telaio sul quale operare le modifiche necessarie in un mondo che
cambia, senza disperderne i principi e i valori fondamentali".
Insomma, Ciampi rifiuta lo schema demagogico e ideologico di
chi, sul versante dell'attuale opposizione, oggi sostiene che
votare sì al referendum significa essere "progressisti e
moderni", mentre votare no equivale a qualificarsi come "vecchi
e conservatori".
"Le modifiche alla Costituzione - ragiona in queste ore l'ex
Capo dello Stato - sono possibili nei limiti previsti
dall'articolo 138 combinato con l'articolo 139". Modifiche di
portata più ampia, come ha detto durante la sua permanenza sul
Colle e come continua a dire anche oggi, "non possono essere
affidate solamente ad una parte, sostenendo che vi è una
maggioranza che ha i voti e le fa passare a tutti i costi, salvo
poi fare ricorso al referendum finale del cittadino". E comunque
qualunque modifica dovrebbe assicurare "la coerenza e la
funzionalità del quadro costituzionale, nel suo insieme e in
tutte le sue parti".
E' esattamente questa, la coerenza che manca al disegno "pseudo
- riformatore" della Cdl. Che invece, come afferma Casavola e
come conviene Ciampi, mira solo a "scambiare per Costituzione
un'autorizzazione a governare, per interessi congiunturali o
particolari". Ecco perché, una volta di più, il senatore a vita,
domenica prossima, scriverà sulla scheda il suo no. Un no che
non vuole chiudere, ma semmai aprire una fase di confronto.
Rimettere in moto un processo di revisione coerente con i valori
irrinunciabili di uno Stato costituzionale. Ci ha lavorato per
sette anni, purtroppo inutilmente. Far dialogare i due poli, per
garantire una "difesa dinamica dei nostri valori
costituzionali".
Quel dialogo andrebbe ripreso. Il no al referendum lo consente,
il sì rischia di precluderlo per sempre. Sarebbe il peggiore dei
mali, secondo Ciampi, convinto insieme a Casavola che "la
Costituzione non è di destra né di sinistra, ma è di tutti e per
tutti". Si finisce da dove tutto era cominciato: "patriottismo
costituzionale". Non c'è altra formula, per descrivere le parole
e i pensieri di Ciampi alla vigilia del referendum. C'è giusto
il tempo, prima del voto di domenica prossima, per brindare al
raddoppio di Inzaghi contro la Repubblica Ceca. "Bella partita",
commenta il senatore a vita.
Allora, forza Italia. Ciampi sorride, ci pensa un attimo e poi
aggiunge: "Sì, sì, forza Italia. Ma non equivochiamo: lo dico in
senso calcistico".
Indagine Merrill Lynch e Capgemini: gli Usa sempre in testa ma il salto più consistente in Sud Corea, India e
Russia
Aumentano i Paperoni
sono 8,7 milioni nel mondo
In Italia sono quasi
200.000 ma rallenta la crescita
WASHINGTON - Cresce il numero
dei milionari nel mondo e cambia la geografia del denaro. Secondo
un'indagine Merrill Lynch e Capgemini, nel 2006 i titolari di patrimoni
finanziari netti superiori al milione di dollari sono aumentati del 6,5%
arrivando a quota 8,7 milioni. Signori, quest'ultimi, che sarebbero
detentori di 33.300 miliardi di dollari (+8,5%), residenze e beni privati
ovviamente esclusi.
Quello che però maggiormente colpisce del decimo rapporto
annuale sulla "Ricchezza nel mondo" è il salto in avanti fatto dalle
economie dei paesi in via di sviluppo, dalla Cina all'India, passando per il
Brasile e la Russia. Nonostante, infatti, gli Stati Uniti continuino a
dominare il panorama con ben 2,67 milioni di milionari in casa - circa un
terzo di quelli sparsi in tutto il pianeta - il numero di millionnaires
negli States è diminuito dal 9,9% del 2004 al 6,8% del 2005.
Il salto in avanti più evidente è quello della Corea del
Sud, dove i Paperon de Paperoni sono il 23,3% in più da un anno all'altro.
Seguono l'incremento indiano del 19,3% per un totale di 83.000 milionari;
quello russo, del 17,4% rispetto al 2004 arrivando a quota 103.000, e quello
cinese, del 6,8% pari a 320.000 profumatissimi conti in banca.
Rallenta invece l'Italia, dove i 198.300 milionari
rappresentano una crescita inferiore di due punti percentuali rispetto alla
precedente indagine: dal +3,7% del 2004 si è passati al +1,7% del 2005.
Nello stesso periodo l'Europa ha registrato un +4,5%, l'Asia-Pacifico un
+7,3%, l'America Latina un +9,7% e il Medio Oriente un +9,8%.
Se dividiamo il pianeta in macro-regioni 2,9 milioni di
milionari si trovano nel Nord America, 2,8 in Europa, 2,4 in Asia, 300.000
in America Latina, altrettanti in Medio Oriente e 100.000 in Africa.
Quelli che noi chiameremmo super-milionari, ovvero
persone con attività finanziarie superiori ai 30 milioni di dollari (per
questo definiti nel rapporto "ultra high net worth individuals", ovvero i
possessori di redditi altissimi) sono cresciuti del 10,2%, per un totale di
85.400.
"In America - precisa Gianluca Bussolati, responsabile
Merrill Lynch Wealth Management - la prima causa di ricchezza è il reddito
da lavoro (per il 32%), mentre in Europa il 50% dei patrimoni è frutto della
creazione di imprese". Per quanto riguarda gli investimenti, invece, i
grandi ricchi nell'anno appena concluso "hanno preso decisioni di
investimento più aggressive - ha sottolineato Bussolati - pur mantenendo
un'elevata diversificazione per massimizzare la protezione dei capitali
investiti".
Per i prossimi anni "si prevede che gli investimenti
negli Usa e in Europa continueranno a diminuire con il progressivo
riposizionamento in Asia-Pacifico e America Latina. I grandi ricchi
preferiranno un portafoglio leggermente più aggressivo, alleggerendo le
posizioni in liquidità e immobili, e spostando gli investimenti su 'equity'
e investimenti alternativi".
Secondo le previsioni del rapporto la
ricchezza finanziaria dei milionari raggiungerà i 44.600 miliardi di dollari
entro il 2010, crescendo del 6% ogni anno.
21 giugno
L'ex premier:
"Indegni" gli italiani che bocciano la riforma costituzionale
Immediata la replica del web con il sito sonounindegno.com
Berlusconi insulta
chi vota No
in Rete il blog degli indegni
di CLOTILDE VELTRI
Non ha fatto neanche in tempo a pronunciare l'insulto che i
blogger si sono scatenati online dando vita a
sonounindegno.com. Berlusconi dà degli indegni agli
italiani che voteranno No al referendum. La Rete coglie l'attimo
e risponde a tono. Aprendo un blog e, di conseguenza, il
dibattito.
Come un déjà vu. Sembra ieri che l'allora presidente del
consiglio definiva "coglioni" gli elettori del centrosinistra
colpevoli di non votarlo. Allora, per protesta, la Rete si
ribellò. Nacque sonouncoglione.com che fece migliaia di proseliti e
un esercito di utenti (non solo di sinistra) arrabbiati, offesi,
pronti a dire la propria.
Oggi Berlusconi replica. E il web pure. Nel pomeriggio il leader
di Forza Italia apre la manifestazione romana per il sì al
referendum e si lascia andare a uno dei suoi apprezzamenti verso
chi non la pensa come lui. Dice alla folla: "Nessun italiano può
sentirsi degno di essere tale se domenica non sarà andato a dare
il proprio sì alla riforma costituzionale".
Insomma, quelli che voteranno No sono indegni di essere
italiani. I blogger colgono al volo. E, appena un'ora dopo la
dichiarazione, compare online il sito sonounindegno.com.
Autori, gli stessi di sonouncoglione.com. Che si definiscono
come "un gruppo di amici che in un pomeriggio della primavera
romana, scoprirono d'essere dei coglioni. Adesso che l'estate
sta cominciando, apprendiamo d'esser diventati altro: non più
dei coglioni, ma finalmente degli indegni".
Il blog ha già qualche commento perché gli internauti sono
veloci e hanno voglia di comunicare. C'è chi ironizza: "Per
fortuna che c'è Silvio".
La malattia di Mirafiori
Le ragioni della sconfitta di Fim, Fiom e
Uilm L'uscita dalla crisi Fiat premia l'aziendalismo
Quale sindacato? La Fiom si interroga sui motivi del calo di
consensi in fabbrica Loris Campetti La sconfitta dei sindacati confederali alle
Carrozzerie di Mirafiori, per le sue dimensioni e il contesto in cui
è maturata, merita attenzione. Partiamo dai numeri: la Fim scende
dal 30 al 26,7%, la Fiom dal 28,1 al 23,6% e la Uilm dal 17,2 al
14,3%, cedendo la terza posizione al Fismic che sale dal 13,9% al
19,9%. A guadagnare in voti e in percentuale, insieme al sindacato
giallo (il Fismic è l'erede del sindacato aziendalista che si
chiamava Sida), troviamo l'Ugl, il sindacato di destra erede della
Cisnal che sale dal 6,9% al 9,8% e i Cobas in salita dal 3,7% al
5,5%. Lo schiaffo preso dai confederali al voto per il rinnovo delle
Rsu segue di pochi mesi un altro segnale negativo per Fim, Fiom e
Uilm: nella più grande fabbrica italiana, al referendum per
l'approvazione dell'accordo sul contratto nazionale, solo poco più
della metà dei lavoratori aveva votato sì. Per onestà di cronaca va
detto che in diversi stabilimenti Fiat il contratto è stato
addirittura bocciato.
Dunque, Fim Fiom e Uilm perdono il 10,7%. La Fiom scende in tutti i
settori delle carrozzerie, dalla lastratura alla verniciatura, al
montaggio. Cresce soltanto - ed è curioso - tra gli impiegati e tra
i vigilanti. Che succede a Mirafiori? Innanzitutto va detto che le
dichiarazioni del ministro del lavoro Cesare Damiano, torinese ed ex
segretario della Fiom piemontese, conoscitore attento della realtà
di Mirafiori, vengono contestate dal segretario della Fiom torinese
Giorgio Airaudo: non è vero che i meccanici della Cgil passano dalla
maggioranza assoluta al 23%. Il massimo dei consensi nelle elezioni
delle Rsu dall'84 (le prime dopo fine dell'esperienza dei consigli
di fabbrica, con i delegati eletti dai gruppi omogenei) è il 29%.
Evidentemente Guglielmo Epifani che parla di discesa «dalla
maggioranza a poco più del 20%» è stato «sviato dalle dichiarazioni
di Damiano», insiste Airaudo. Anche secondo il segretario generale
della Fiom Gianni Rinaldini, quello di Damiano «è un commemnto che
nulla ha a che vedere con la realtà espressa dai voti dei lavoratori
ma riguarda il giudizio sulla Fiom, fino al punto di fornire dati
sbagliati». Non è la prima volta, aggiungiamo noi, che viene tentata
un'operazione di attacco-normalizzazione nei confronti della Fiom.
Anche per Rinaldini, lo schema per leggere il voto di Mirafiori non
è quello consunto moderati/radicali. E' in gioco la natura stessa
del sindacato, il suo futuro: «La capacità di esercitare un ruolo
sulla prestazione lavorativa che non può prescindere
dall'attivazione dei lavoratori e dei delegati.
Pur senza esagerare sui numeri, la sconfitta c'è e va analizzata. La
prima considerazione che ci viene dai delegati e dai dirigenti
sindacali a cui abbiamo chiesto «che succede a Mirafiori?» è che tra
il voto per l'elezione delle Rsu di tre anni fa e quello della
scorsa settimana, alla Fiat è cambiato quasi tutto. Quando a
Mirafiori si lottava contro la chiusura, in piena crisi Fiat,
crescevano i consensi all'organizzazione che più si è battuta in
difesa del posto di lavoro e della continuità della produzione
automobilistica, cioè la Fiom. Quando si è vista la fine del tunnel,
quando è arrivata una nuova linea per la Grande Punto, quando la
cassa integrazione è stata riassorbita (salvo tra gli impiegati,
quelli che, soli, hanno fatto crescere i voti della Fiom)), «si è
tornati all'antico», dice Airaudo. Lo spiega bene Fabio Di Gioia,
delegato degli impiegati a Volvera: «Quando c'è da lottare stanno
con noi, quando c'è un po' di grasso da condividere rispunta
l'aziendalismo e molti scelgono i sindacati più vicini all'azienda,
quelli che riescono a ottenere "favori"». I favori sono poi un
cambiamento di turno, un po' di straordinari per chi ha più problemi
economici in famiglia. Su questo terreno, il Fismic funziona meglio
di Fiom, Fim e Uilm.
Però cresce anche il sindacato di destra, l'Ugl. Due le spiegazioni,
una sindacale e una politica. Quella sindacale non si discosta dalle
riflessioni di Rinaldini: «Da 10 anni non riusciamo a contrattare
nulla, non si rinnova l'integrativo, non si contratta
l'organizzazione del lavoro». Al massimo riesci a trattare le ferie
e la festività per il santo patrono», dice Di Gioia. Airaudo
aggiunge che il sindacato ha un ruolo più politico che non legato
alle condizioni di lavoro. In più, non funziona nelle grandi
fabbriche il sistema di rappresentanza delle Rsu: 45 delegati per
5.300 dipendenti, «intere linee e settori non hanno un delegato».
Contrattazione, e rappresentanza: «nei grandi stabilimenti il
sistema delle Rsu non funziona». Per Rinaldini come per Airaudo, il
sindacato deve strutturarsi in modo da tornare a incidere,
rimettendo radici nei reparti».
Infine, un problema politico: lo schema «sindacato rosso» e voto a
destra non funziona più, anche a Torino: «La novità non è che parte
dei lavoratori vota a destra, ma che ora rivendicano questa scelta,
e magari anche l'adesione al sindacato di classe comincia a venir
meno». Qualcuno ricorderà l'inchiesta del manifesto sul voto
a destra degli operai del Nord.
Ferrovieri in sciopero per la
sicurezza
Fs fa
fallire la procedura di conciliazione e non riassume De Angelis,
delegato e licenziato Francesco Piccioni Un braccio di ferro tutto politico. Quella in
corso tra le Ferrovie dello stato e il Coordinamento dei delegati
Rsu e Rls non è una vertenza qualsiasi.In gioco c'è - all'interno di
un'azienda ancora di prorietà pubblica - la possibilità o meno di
ogni singolo lavoratore di far rispettare il diritto alla sicurezza
propria e dei passeggeri.
Ieri mattina è stato esperito il «tentativo di conciliazione»
obbligatorio tra le Fs e i rappresentanti legali di Dante De Angelis,
macchinista e delegato alla sicurezza licenziato per essersi
rifiutato di guidare un eurostar dotato del «pedale a uomo morto»
(vedi l'intervento a pag. 2). Con alle spalle un proscioglimento
pieno da parte del tribunale di Bologna, che aveva giudicato il suo
comportamento perfettamente legittimo, si pensava che l'azienda
avrebbe accettato di minimizzare la sconfitta, accettando di
riassumere Dante, con mansioni e stipendio identici. Per facilitare
la conciliazione Dante si era detto perfino disposto a rinunciare
agli stipendi fin qui perduti. Incredibilmente, però, si è trovato
di fronte all'offerta di essere riassunto, ma solo come usciere in
una società secondaria del gruppo; con in più l'insulto di
presentare questo gesto come un atto caritatevole «per garantire la
sussistenza economica» della sua famiglia. Un insulto gratuito e
autocontraddittorio, come ha rilevato Piergiovanni Alleva,
coordinatore nazionale dell'ufficio giuridico della Cgil e difensore
di Dante. Una «offerta di riassunzione presuppone la ricostruzione
del rapporto di fiducia» con il dipendente e rende illogico il
«diniego di reintegro nelle mansioni». L'azienda, insomma, vuole
continuare a usare questo caso come un «esempio» per piegare gli
altri macchinisti a usare l'«uomo morto» e accettare di viaggiare
soli in macchina (oggi si va in due, «per sicurezza»). Tutto per
ridorre il personale.
L'incontro fallito di ieri mattina era decisivo per scongiurare lo
sciopero che inizierà stasera alle 21 e proseguirà fino alla stessa
ora di domani. L'agitazione è stata decisa dal Coordinamento dei
delegati (oltre che dai sindacati di base Cub e Sult), una struttura
informale di iscritti un po' a tutti i sindacati, e che si è formata
all'indomani del tremendo incidente di Crevalcore, alle porte di
Bologna, dove persero la vita 17 persone, tra cui quattro
macchinisti. La questione della sicurezza, da allora, ha provocato
più scioperi di quanti ne siano stati fatti per il contratto. Un
argomento che ha rafforzato notevolmente il rapporto tra ferrovieri
e passeggeri - diverse associazioni di pendolari hanno solidarizzato
apertamente, protestando con le Fs - ma che viene maneggiato con
qualche difficoltà dai sindacati firmatari di contratto. Si deve
aggiunge poi che la stessa «timidezza» è stata mostrata dai
sindacati nel difendere i quattro ferrovieri licenziati per aver
collaborato con la trasmissione Report di raiTre, due anni fa; e
anche nella vicenda di Dante. A quel punto il movimento spontaneo
dei ferrovieri ha preso l'iniziativa, provocando qualche scossone
alle organizzazioni meno «centralistiche». L'Orsa, per esempio, non
aderisce ufficialmente allo sciopero di oggi (come Cgil, Cisl, Uil,
Ugl); ma molte strutture locali, tra cui quella regionale toscana,
sì. Sulla questione dei licenziati è mosso, infine, anche il neo
ministro delle infrastrutture, Alessandro Bianchi. Il quale ha
inviato una lettera all'amministratore delegato delle Fs, Elio
Catania, per chiedere - «anche in seguito a ripetute sollecitazioni
ricevute dalle organizzazioni sindacali» - «una nota informativa
circa la situazione contrattuale dei lavoratori in questione». Il
vertice di Fs ha voluto fare di quella con De Angelis una vertenza
esemplare; logica vorrebbe che ne pagasse le conseguenze.
Pakistan La protesta dei giornalisti
Centinaia di giornalisti e
oppositori hanno manifestato ieri in Pakistan: chiedono un'indagine
della Corte suprema sull'uccisione di un giornalista rapito mesi fa
e trovato cadavere venerdì scorso. Hayatullah Khan lavorava in Nord
Waziristan, zona tribale teatro di un'offensiva dell'esercito
pakistano contro al Qaeda; aveva riferito dell'uccisione di un
presunto leader di al Qaeda dando una versione diversa da quella
ufficiale. «E' un avvertimento a tutti noi a chiudere la bocca»,
protestano i giornalisti.
Ai palestinesi
«beneficenza» Ue: 200 dollari a famiglia
Aiuti per 126 milioni di
dollari, ecco i «doni» di Ferrero Waldner. Mentre Hamas distribuisce
30 milioni e parla «in modo positivo» con Abu Mazen Michele Giorgio Gerusalemme Nutritevi, consumate, e la prossima volta votate
per i partiti «giusti» e non per Hamas. E' questo il senso del
viaggio in Israele e Territori occupati del Commissario per l'Ue,
Benita Ferrero-Waldner, che ieri ha promesso, a nome dei governi
europei, donazioni (200 dollari al mese) per 180.000 famiglie di
Cisgiordania e Gaza alla fame dopo quattro mesi di boicottaggio e di
interruzione dei finanziamenti all'Anp. 126 milioni di dollari di
aiuti d'emergenza per tamponare le conseguenze umanitarie delle
drastiche decisioni prese da Usa e Ue dopo la vittoria elettorale
del movimento islamico.
Applaude il presidente Abu Mazen pronto a raccogliere i frutti del
«regalo» fatto dagli europei ai palestinesi aggirando Hamas. Ma il
movimento islamico viaggia sullo stesso binario. Nello stesso giorno
dell'arrivo di Benita Ferrero-Waldner, il governo di Ismail Haniyeh
ha annunciato che decine di migliaia di dipendenti pubblici
riceveranno un anticipo di circa 240 euro sugli stipendi arretrati.
I milioni di dollari, circa una trentina, portati nei giorni scorsi
a Gaza da alcuni ministri di Hamas passando per il valico di Rafah,
rappresentano una sorta di risposta alle donazioni europee e
mantengono elevato il consenso al governo.
Rahwi Fattuh da parte sua non ha dubbi. L'ex presidente del
Consiglio legislativo e ora inviato speciale di Abu Mazen, continua
a ripetere che i colloqui degli ultimi giorni tra Hamas e Al-Fatah
«sono stati positivi» e che le due parti hanno raggiunto un accordo
«su quasi tutti i punti» del «documento di pace» elaborato dai
prigionieri palestinesi in Israele. A voler dare pieno credito alle
dichiarazioni di Fattuh, dopo settimane di violenti scambi di accuse
e di scontri a fuoco con morti e feriti a Gaza, i leader di Al-Fatah
ed Hamas sarebbero pronti a sotterrare l'ascia di guerra.
Il referendum sul documento dei prigionieri convocato da Abu Mazen a
questo punto potrebbe essere revocato e non solo per l'intesa
imminente. I sondaggi danno segnali negativi al presidente. L'ultimo
rivela che se il 75% dei palestinesi è favorevole a quanto proposto
dai detenuti - incluso il riconoscimento di Israele - solo il 47%
voterebbe «sì» al referendum poiché vi vede la volontà di Abu Mazen
di sottomettere Hamas.
Scettico sulle possibilità di una intesa «vera» tra Al-Fatah e Hamas
è l'analista Ghassan Khatib. «Hamas e Al-Fatah sono separati da
differenze ideologiche enormi - afferma - temo che l'intesa di cui
si parla si fondi su termini molti vaghi che, di conseguenza, la
rendono fragile». I nodi veri, lascia intendere Khatib, non sono
stati ancora sciolti, a cominciare dal ruolo dell'Olp nella
soluzione del conflitto con Israele, senza dimenticare che Hamas non
ha alcuna intenzione, almeno per il momento, di riconoscere lo Stato
ebraico. «Non è escluso che le due parti stiano cercando un
compromesso allo scopo di agevolare lo stanziamento dei fondi
europei, rinviando ad un secondo momento lo scontro per il potere»,
aggiunge Khatib. Compromesso che consisterebbe nell'accettazione da
parte di tutte le forze politiche palestinesi della risoluzione del
vertice arabo di Beirut (2002) che a Israele offre pace e
riconoscimento in cambio del suo ritiro dai territori arabi occupati
nel 1967. Hamas nel frattempo non conferma né smentisce le voci che
vorrebbero imminenti le dimissioni del governo Haniyeh e la
formazione di un esecutivo di unità nazionale.
15 giugno
Il Guardian compra in Rete l'agente
patogeno. Costo: 33 sterline
In assenza di leggi adeguate i
laboratori vendono pezzi di Dna a chiunque
Terrorismo, il virus del
vaiolo si può acquistare via Internet
LONDRA - Qualunque gruppo terroristico
può acquistare con facilità via Internet alcuni dei maggiori agenti
patogeni utili alla realizzazione di armi batteriologiche. E questo,
a causa dell'assenza di regole certe che impediscano l'acquisto in
Rete di virus mortali per l'uomo.
La scoperta è del quotidiano britannico The Guardian che, per
provare come sia facile realizzare un'arma batteriologica, non ha
fatto altro che acquistare via Internet una piccola sequenza di Dna
del virus del vaiolo. Questo virus, essendo stato debellato circa 30
anni fa, esiste solo nelle versione realizzata in laboratorio.
Il Guardian ha acquistato online la sequenza di Dna dalla VH Bio Ltd,
una società che ha sede a Gateshead (U.K.) e che fornisce
strumentazioni e sostanze chimiche usate nei laboratori genetici.
Attraverso una semplice email il quotidiano si è garantito una
sequenza di 78 lettere di Dna della proteina del vaiolo al modico
prezzo di 33 sterline e 8 centesimi, più 7 sterline di spese
postali.
Uno studio dimostrerebbe che ormai è praticamente impossibile per
l'uomo resistere al vaiolo e che anche se solo dieci persone fossero
contagiate, il virus si propagherebbe velocemente: in 180 giorni
sarebbe in grado di infettare due milioni di persone.
Secondo il Guardian in realtà, qualsiasi terrorista, può acquistare
sequenze di Dna di agenti patogeni o virus mortali e poi assemblarle
creando un arsenale micidiale. I laboratori che vendono questi
piccoli pezzi di codice genetico, infatti, non sono tenuti per legge
a verificare che tipo di frammento di Dna stanno vendendo, nè tanto
meno chi lo sta acquistando.
Nessuna delle quattro principali società inglesi che operano in
questo campo verificano in modo regolare l'origine degli ordini,
spiega il Guardian. E lo stesso vale per le 39 società che lavorano
negli Stati Uniti e in Canada.
Insomma, è la tesi del quotidiano, esiste un pericoloso gap tra
tecnologia e legge che andrebbe colmato al più presto. In realtà il
problema è sorto per la prima volta nel 2002 quando i ricercatori
americani misero insieme il genoma della poliomielite usando,
appunto, corte sequenze di Dna, mentre lo scorso anno un pool di
ricercatori ha ricreato in laboratorio il virus dell'influenza che
nel 1918 fece circa 20 milioni di morti, più della prima guerra
mondiale.
Un po' giocattoli un po'
assassini
di Alessandro Gilioli
Si chiamano Soft air. Sono identiche
alle armi vere. Sparano proiettili di plastica o metallo. Piacciono
alla malavita. Ma anche ai ragazzini. Perché si vendono liberamente
Beretta 92 calibro noveDue gocce d'acqua, anzi di piombo
Stesse dimensioni, fino al millimetro. Persino stesso peso, a
caricatore vuoto: 975 grammi. E materiali molto somiglianti. La
Beretta 92 per Soft air prodotta dalla Tokyo Marui è un capolavoro
di precisione nipponica. Senza il tappo rosso, anche un esperto per
distinguerla da un'arma vera deve riuscire a guardare nella canna.
La Beretta 92 in calibro nove è la pistola più diffusa e famosa del
mondo, adottata anche dalle forze armate americane come nella
versione qui illustrata. Unica differenza tra l'arma reale e quella
soft air è la scritta incisa sulla fiancata: quella vera ha il nome
della Beretta, la replica ha quello della Tokyo Marui. Una
differenza quasi invisibile.
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La legge è chiara: non si capisce niente
A sentire commercianti e appassionati, le Soft air sono del tutto
legali, e in effetti si vendono in tutta Italia. In realtà la
situazione è un po' più complessa, perché se è vero che la potenza
di questi arnesi è inferiore al Joule (quindi sono classificati
'armi non offensive', in libera vendita) è anche vero che l'articolo
5 della legge del 18 aprile 1975 dice che "i giocattoli riproducenti
armi non possono essere fabbricati con l'impiego di tecniche e di
materiali che ne consentano la trasformazione in armi da sparo o che
consentano il lancio di oggetti idonei all'offesa della persona".
Fino a oggi, più che altro per superficialità, le autorità non hanno
ritenuto di applicare questa norma alle Soft air, che tuttavia
possono facilmente essere modificate in modo pericoloso e
soprattutto possono sparare palllini di metallo (come quelli dei
cuscinetti a sfera) "idonei all'offesa della persona" . Ammesso e
non concesso che siano invece innocui i pallini di plastica, che
possono cavare un occhio. ...
Leggi tutta la scheda
Sonni profondi al Viminale?
La questione delle finte armi giocattolo - in grado di ferire e
identiche alle originali - è un ennesimo esempio della scarsa
capacità del legislatore di stare al passo con le evoluzioni del
costume. Entrate sul mercato nei primi anni Novanta e via via
cresciute come fenomeno di massa, le Soft air non esistono né per la
legge né per i suoi regolamenti. Se ne interessa giusto qualche
circolare di Polizia, in modo peraltro assai vago. Il vecchio
governo - che pure aveva fatto della lotta alla microcriminalità uno
dei suoi impegni - non se n'è mai occupato, lasciando che queste
repliche perfette proliferassero a ogni livello, anche nella piccola
malavita. Nessuno si è accorto che giovani 'guappi' e delinquenti di
periferia hanno trovato la loro Mecca, potendo comprarsi come e
quando vogliono, a basso prezzo e senza mostrare un documento,
questi stupefacenti fac-simili di mitra e revolver, magari poi
modificandoli per renderli più potenti. Non esistendo per legge, le
Soft air hanno approfittato della propria eludibilità, sicché non si
è neppure pensato di rendere obbligatorie sulla confezione delle
chiare avvertenze in italiano che potessero mettere in guardia i
genitori su quel che maneggiano i loro figli: una superficialità che
mal si concilia con le tante parole sulla tutela dei minori e della
famiglia. ...
Leggi tutta la schedaL'ultimo incidente è avvenuto un paio di
settimane fa in un appartamento di Milano, zona porta Romana.
Edoardo T., 15 anni, liceale del Berchet, va a trovare un amico,
anche lui minorenne. Che, per scherzo, gli punta contro la sua
Beretta 'giocattolo' in metallo e Abs. e gli spara un colpo al
volto. Il proiettile di plastica spezza gli occhiali da vista del
ragazzo e i frammenti gli finiscono nella cornea. Edoardo viene
portato di corsa al Policlinico, è operato d'urgenza, rischia di
perdere l'occhio, gli mettono un cristallino artificiale. Bene che
gli vada, ci vedrà un po' meno tutta la vita. Male che gli vada,
dovrà tentare un trapianto.
L'ultima bravata invece è accaduta durante il ponte di Pasqua nella
pineta di Marina di Grosseto. Un paio di ceffi in tuta mimetica
puntano le loro mitragliette finte su uno sfortunato passante,
gridando: "Mani in alto, pancia a terra, non si muova!". Solo quando
il poveraccio è sdraiato sull'erba, terrorizzato, i due si mettono a
sghignazzare, "maddai che è solo uno scherzo!".
La replica MaruiBenvenuti nel magico mondo delle Soft air, repliche
di armi perfettamente identiche alle originali, sia come aspetto sia
come peso. Fabbricate perlopiù in Giappone, elettriche o a gas,
impazzano tra i ragazzi che giocano alla guerra ma non sono
disdegnate né dalla piccola malavita, né dai gradi più bassi della
camorra. In altri paesi - come l'Olanda e l'Inghilterra - sono state
vietate o rigidamente regolamentate. Per la legge italiana - in
costante ritardo su ogni gadget tecnologico, specie quelli che
provengono dai mercati orientali - sono invece degli innocui
giocattoli che chiunque, minorenni compresi, può acquistare in
centinaia di negozi o in Internet. In realtà questi aggeggi si
trovano quanto meno in una zona grigia e ambigua. è vero: le Soft
air sparano solo pallini di plastica (dura) che se ti finiscono
addosso da una dozzina di metri ti procurano poco più di un
fastidio. Ma negli occhi - come si è visto - possono far saltare la
cornea. In bocca ti spezzano un dente. Sparati da vicino, se
finiscono su una vena o su un'arteria, possono causare emorragie e
lasciare cicatrici perenni. E soprattutto, somigliano maledettamente
alle armi vere.
Sicché il pericolo non riguarda solo ragazzotti incauti che credono
di avere in mano un giocattolo e invece spediscono gli amici
all'ospedale. Ma anche o principalmente i negozianti che si vedono
arrivare in bottega delinquenti e tossicomani con in mano armi
identiche a quelle originali, che neppure un esperto sarebbe in
grado di sgamare. I mattinali di polizia e carabinieri riportano
sempre più spesso storie di piccole rapine - specie nei minimarket e
dai benzinai - in cui al posto delle pistole vere vengono usati
aggeggi di questo tipo, ma nessuno sa quanti siano in realtà i colpi
effettuati con le 'replica gun', dato che - se il grilletto non
viene premuto e il bandito non viene acchiappato - le vittime non
possono immaginare di avere avuto di fronte una Soft air.
La moda di queste copie perfette viene dal Giappone, dove sono state
inventate negli anni Ottanta. Da noi sono arrivate dopo un paio di
lustri e si sono sposate alla perfezione con la mania crescente dei
giochi di ruolo: a ragazzi d'ogni età e quarantenni un po' in
ritardo piace pittarsi la faccia di verde e marrone, coprirsi da
capo a piedi con tute mimetiche e giocare alla guerra, dividendosi
in squadre e sparpagliandosi tra i boschi fuori città. Quando uno
viene colpito da un pallino di plastica, si dichiara morto e
buonanotte. Fin qui, niente di male o quasi: la gran parte degli
appassionati indossa occhiali protettivi e guanti imbottiti, avvisa
i carabinieri o la polizia prima di cominciare a impallinarsi, non
si diletta a mettere in fuga le famigliole al picnic. Dopodiché,
tuttavia, le recenti cronache locali sono piene di infelici
eccezioni, vale a dire di softgunner (magari un po' sbronzi) che
usano le proprie imitazioni per spaventare i passanti o per fare i
ganzi roteando le pistole fuori dai bar. A Sotto il Monte, paese del
bergamasco noto per aver dato i natali a papa Roncalli, gli episodi
di questo tipo sono diventati talmente frequenti che il sindaco,
Eugenio Bolognini, ha dovuto firmare un'ordinanza per vietare "ogni
simulazione di esercitazioni belliche" nel suo territorio: non ne
poteva più di aspiranti miliziani che spuntavano da dietro gli
alberi agghiacciando i turisti della domenica. Qualcosa di simile
stanno pensando di fare anche a Piobbico, nelle Marche, un altro dei
posti prediletti dai fan delle battaglie simulate.
14 giugno
L'organizzazione internazionale presenta un rapporto sulle 'rendition'
"I governi europei ne discutano a Bruxelles e collaborino alle
indagini"
Amnesty
scrive a Prodi e Mastella
"Basta segreti e complicità su voli Cia"
Una manifestazione
di Amnesty
ROMA - La denuncia c'era già nel
rapporto annuale, ora Amnesty passa all'azione politica
contro la complicità europea nei trasferimenti illegali di
prigionieri voluto dagli Stati Uniti. L'organizzazione
internazionale che si batte per il rispetto dei diritti umani punta
il dito contro i paesi europei, tra i quali quattro membri
dell'Unione (Germania, Italia, Svezia e Gran Bretagna, Macedonia,
Bosnia Erzegovina, Turchia,) che si sono resi complici di una grave
infrazione delle leggi internazionali e chiede loro di "smettere di
non vedere quanto di male c'è stato finora".
La Sezione Italiana di Amnesty International, così come hanno fatte
altre sezioni nazionali nei loro paesi, ha scritto oggi al
presidente del Consiglio, Romano Prodi, e al ministro della
Giustizia, Clemente Mastella, affermando che "la complicità e le
omissioni degli Stati coinvolti, contrarie ai loro obblighi di
diritto internazionale e interno, hanno contribuito fortemente a
rendere possibili gli abusi connessi a questa prassi illegale e tra
tali paesi vi è anche l'Italia".
L'organizzazione per i diritti umani descrive nel rapporto 'Partner
in un crimine: il ruolo dell'Europa nelle 'rendition' Usa', il
trasferimento illegale di tredici persone nell'ambito di sei
operazioni di 'rendition' che chiamano in causa sette paesi europei,
quattro dei quali membri dell'Ue. Il rapporto analizza i vari
livelli di coinvolgimento di questi Stati, evidenziando come essi,
in base al diritto internazionale, siano stati complici negli abusi
dei diritti umani commessi nell'ambito delle 'rendition'. Questa,
sottolinea Amnesty International, è una pratica illegale in cui una
persona viene arrestata illegalmente e trasferita in segreto in un
paese terzo, dove è vittima di altri crimini quali la tortura, i
maltrattamenti e la 'sparizione'.
"Spesso l'Europa si definisce come un punto di riferimento per i
diritti umani - sottolinea Claudio
Cordone, Direttore della ricerca di Amnesty International - La
scomoda verità è che senza il suo aiuto, ora un po' di persone non
starebbero cercando di riprendersi dalle torture che hanno subito in
prigioni situate in varie parti del mondo. Gli Stati europei devono
porre fine all'approccio basato sul detto 'occhio non vede, cuore
non duole' e adottare tutte le misure necessarie per porre fine alla
pratica delle 'rendition' nel loro territorio".
Inoltre, ha aggiunto Cordone, "gli Stati europei non devono
nascondere la propria complicità nel programma Usa delle 'rendition'
dietro lo schermo dei propri servizi segreti. Alcuni Stati hanno
addirittura consegnato persone alla Cia, assumendosi pertanto la
responsabilità delle torture e degli altri abusi loro inflitti".
In base al diritto internazionale, gli Stati che facilitano il
trasferimento di persone verso paesi in cui è noto, o dovrebbe
essere noto, il rischio che queste subiranno gravi abusi dei diritti
umani, sono complici di questi stessi abusi. Le singole persone che
si rendono complici di sequestri di persona, torture e 'sparizioni'
dovrebbero essere considerate responsabili sul piano penale.
Il programma di 'rendition' ha anche messo in luce il fatto che i
servizi segreti Usa possono svolgere operazioni coperte in Europa,
al di fuori della legge e senza essere chiamati a rendere conto
delle proprie azioni. L'Ue deve assicurare lo sviluppo di un quadro
di regole che disciplini le attività dei servizi segreti nazionali
ed esteri.
Il rapporto di Amnesty International si basa su registri di volo,
inchieste giornalistiche, dichiarazioni di agenti dell'intelligence,
denunce di organizzazioni non governative e indagini della
magistratura. Tutte queste fonti fanno suonare sempre più false le
affermazioni dei paesi europei riguardo alla mancanza di un loro
ruolo nelle 'rendition'. "La continua negazione, da parte degli
Stati europei, del proprio coinvolgimento nelle 'rendition' e la
mancanza di qualsiasi significativa risposta da parte dell'Ue, con
l'eccezione del Parlamento europeo, rappresentano un grave problema,
non solo per la credibilità di questa
istituzione ma anche per l'efficacia delle misure anti-terrorismo -
ha commentato Dick Oosting, direttore dell'Ufficio di Amnesty
International
presso l'Ue.
In ambito italiano il rapporto di Amnesty International sulle 'rendition'
fa riferimento al rapimento dell'imam egiziano conosciuto con il
nome di Abu Omar, da parte di agenti della CIA, evidenziando come,
dai molteplici elementi disponibili, appaia inverosimile che tale
operazione sia stata svolta senza che alcun pubblico funzionario
italiano ne fosse a conoscenza. Amnesty International chiede al
governo italiano di contribuire efficacemente a fermare la pratica
delle 'rendition', dichiarando pubblicamente tale impegno, avviando
inchieste imparziali e accurate e cooperando attivamente alle
indagini internazionali e interne già in corso.
In particolare, l'organizzazione per i diritti umani chiede che alle
autorità italiane di collaborare con la magistratura chiedendo
l'estradizione delle persone per cui è stato emanato un mandato di
arresto e di fornire alla stessa tutte le informazioni a propria
disposizione circa le azioni compiute da agenti
della CIA prima, durante e dopo il rapimento di Abu Omar.
13 giugno
Il presidente
degli imprenditori: "Lascio l'impegno
prima o poi potrei chiudere le imprese e trasferirmi" Antiracket,
l'addio di Callipo
"La Calabria è persa, mi ritiro"
di ATTILIO BOLZONI
Filippo Callipo
UN ANNO fa aveva scritto a Ciampi e chiedeva l'esercito in campo
contro la 'ndrangheta. Ma oggi, esattamente dodici mesi dopo quel
suo grido, ha deciso di dimettersi da presidente della Confindustria
calabrese. "Basta, entro giugno scade il mio mandato e me ne vado
per sempre. Non ce la faccio più, se continuo a denunciare quello
che gli altri non vogliono mai denunciare finirà che mi prenderanno
per pazzo e mi chiuderanno in una clinica per malattie mentali". Se
ne va Filippo Callipo, l'industriale calabrese del tonno che ha
provato a ribellarsi al racket e che si è ritrovato solo a
combattere contro i boss.
E' una scelta definitiva, presidente?
"Sì, lascio e forse un giorno o l'altro farò un altro passo ancora.
Come tanti altri miei colleghi, venderò tutto quello che ho e me ne
andrò lontano dalla Calabria".
Perché ha deciso di dimettersi? C'è stato un episodio
particolare, è accaduto qualcosa che l'ha spinta a mollare tutto e
tutti?
"Qui in Calabria la situazione è come cinque annni fa, è come tre
anni fa, è come un anno fa o come la settimana scorsa. O come ieri
l'altro, quando a Vibo Valentia hanno prima ucciso e poi dato fuoco
a quell'imprenditore agricolo che aveva fatto i nomi dei suoi
estorsori. Qui in Calabria non è cambiato nulla, non cambia mai
niente".
Neanche dopo il delitto Fortugno, non c'è stato qualche segnale
nuovo nemmeno dopo le operazioni di polizia partite dopo l'uccisione
del vicepresidente del consiglio regionale?
"Tranne qualche latitante arrestato e un po' di pulizia fatta qua e
là, non vedo grandi mutamenti in Calabria. E soprattutto non vedo
nascere la fiducia nelle persone che vivono dalle nostre parti. Non
voglio essere sempre pessimista ma i fatti sono fatti. E non voglio
nemmeno fare polemica, le cose però stanno così".
Non è cambiato proprio niente allora?
"La settimana scorsa ho saputo che gli avvocati della camera penale
di Vibo hanno firmato tutti insieme un documento dove chiedono più
sicurezza nel loro territorio. Certo, è qualcosa, è importante che
anche le categorie professionali facciano sentire la loro voce. Ma
della sicurezza del territorio ne parlavo da solo già cinque o sei
anni fa e tutti dicevano che ero un pazzo scatenato".
Anche i suoi colleghi imprenditori?
"Alcuni mi battevano la mano sulle spalle e mi dicevano: 'Bravo
Filippo, bravo, continua così'. E poi mi lasciavano andare avanti
tutto solo. Altri invece mi hanno sempre attaccato, altri dicevano
che con le mie denunce pubbliche e con le accuse continue contro la
criminalità organizzata stavo rovinando l'economia della Calabria e
anche il rapporto tra le imprese e la classe politica locale. E
allora che se lo tengano pure quelli lì il loro rapporto con la
classe politica locale, se lo tengano a suon di mazzette. Io non ci
sto, io mi ritiro".
Non crede che ci siano ancora le condizioni per portare avanti la
sua battaglia contro il racket e contro la corruzione nella
burocrazia, nelle amministrazioni?
"No, non ci credo più. E oltre a dimettermi, d'ora in poi non
concederò più neanche interviste ai giornali. Mi sono scocciato di
parlare sempre solo e soltanto io. Questa è l'ultima intervista, non
risponderò più neanche ai giornalisti. Sono veramente sconfortato".
Ha mai parlato con Luigi De Sena, lo ha mai incontrato il
superprefetto mandato a Reggio nell'autunno scorso?
"Mai. L'ho visto casualmente solo una volta durante un incontro. Non
mi ha mai chiamato, non mi ha mai chiesto nulla di tutte le denunce
fatte nei mesi e negli anni passati come presidente della
Confindustria calabrese".
Dopo il suo appello a Ciampi e dopo le polemiche che sono
seguite, da Roma si è fatto sentire qualcuno?
"Silenzio totale. Quel mio sfogo nel giugno del 2005 sulla
'ndrangheta che in Calabria soffocava le imprese e tutto il resto, è
caduto nel vuoto. Ecco perché ho deciso di andarmene".
Pentito di avere parlato a voce alta?
"No, sono pentito di avere iniziato altre avventure imprenditoriali
in questa regione. L'anno scorso ho avviato un progetto per una
fabbrica di gelati a Maierato e un altro progetto per la
realizzazione di alcuni impianti turistici. Oggi non lo rifarei più,
ho capito che non vale la pena di investire in Calabria. Al
contrario, ogni giorno sono tentato di vendere e trasferirmi fuori,
nel nord Italia o da qualche altra parte".
Ha ricevuto altre minacce, altre intimidazioni?
"No, in questi ultimi mesi non più".
L'anno scorso mi aveva raccontato che era stato dall'allora
ministro degli Interni Pisanu e gli aveva chiesto: ministro, mio
figlio studia a Milano e vuole tornare in Calabria, lei mi deve dire
se può tornare o no perché io non so cosa rispondergli. Suo figlio è
tornato?
"Gli mancano pochi mesi per laurearsi e lui vuole tornare per
lavorare nella nostra azienda".
E lei cosa gli ha detto, cosa gli ha consigliato?
"Niente, come un anno fa non so cosa dire a mio
figlio".
12 giugno
Sono oltre 40 i
deputati e i senatori che percepiscono la doppia
indennità. Formigoni farà un referendum prima di decidere Parlamentari e
insieme consiglieri
E' la stagione del "cumulante"
Roberto Formigoni
FURBISSIMI più dei napoletani e veloci quanto
le lepri, incassano tutto quel che c'è da incassare e fin quando si
può. Sono infatti cumulanti. Il cumulante è la figura che inquadra
la legislatura che si è appena aperta. Degno della miglior commedia
all'italiana, il parlamentare cumulante "tiene famiglia" prima di
tutto. E dunque cumula. Cumula, raddoppia, triplica o anche
quadrupla le funzioni e le relative indennità ad essere riferite.
Cumula anche quando la legge in teoria lo vieterebbe, cumula fin che
la legge (e, forse, un po' di imbarazzo) non lo obbligano a
rinunciarvi.
Deputati e consiglieri regionali, sottosegretari e assessori
regionali. Il rapporto incestuoso si sviluppa e prende forma secondo
rituali sperimentati in Italia: la Costituzione dice no, le norme
sono inderogabili, i vincoli stretti, l'obbligo cogente.
Non si può fare, però si fa.
Sono 33 i deputati e 13 i senatori che attualmente hanno dichiarato
di cumulare gli incarichi. E già sono stati corretti e cortesi:
perché la Giunta per le elezioni deve verificare le incompatibilità
sulla scorta delle dichiarazioni personali. Entro trenta giorni
dalla proclamazione, gli eletti saranno chiamati a scegliere, a
optare. E se non lo fanno? Ah, buona domanda. Se il cumulante non lo
fa, se è distratto o all'estero, allora il presidente della Giunta
gli invia una lettera: "Caro collega, hai quindici giorni per
optare". E se non lo fa? Se nemmeno la lettera-diffida serve? Terzo
passaggio di carta: gli scrive il presidente della Camera e lo
costringe. Gli scrive. Quando? Immediatamente.
Nell'interregno dell'immediatamente, in questo periodo di missive e
accertamenti, che dovrebbe iniziare e concludersi in poche
settimane, il cumulante gioca, se vuole giocarla, la partita. Più
allunga il tempo, più rimane in carica, più soldi e potere si
ritrova in tasca. Più resiste più incassa. Due cariche sono meglio
di una.
Al proposito si ricorda la riuscitissima lezione che il presidente
del Molise Michele Iorio (Forza Italia) riuscì a dare ai compaesani
e soprattutto all'opposizione diessina. Nella passata legislatura
per quasi un anno intero cumulò. Come fece nessuno lo sa, ma è
successo, ed è agli atti. Quasi un anno di doppio incarico: una
bella fortuna in banca per sé (400 milioni in più) e tanta
attenzione nazionale ai molisani. Il tiramolla durò il tempo che
durò, alla fine però Iorio venne via. Venne via, diciamolo, anche
perché un cittadino conterraneo gli fece ingiungere dal giudice di
Campobasso il ritorno a casa. Iorio è un cumulante recidivo: oggi è
sempre presidente ma non più deputato. E' senatore. I diessini,
capito l'antifona, hanno immediatamente scritto ma non alla Camera,
bensì al giudice, così non ci vorranno altri dodici mesi per
sbrogliare la matassa.
Matassa semplice a dire il vero. E' che la politica la rende
complicata. Iorio la rese complicatissima. Indugiò così tanto nella
riflessione che finì in carta bollata.
Riflessione che Formigoni, oggi e domani, affida invece ai lombardi.
"Sto realizzando un grande referendum", ha annunciato. Volete voi
che io rimanga a Milano o vada a Roma? Due risposte sulle tre invero
possibili (né a Roma né a Milano) ma comunque efficace e diretto, e
anche molto napoleonico. Fax, lettere, telefonate, web: tutto è
concesso, eccetto le parolacce. Alla fine, scrutinato il voto,
Formigoni deciderà.
Rimarrà in Veneto Galan, rimarrà in Sicilia Cuffaro e questa è una
bella notizia. Perché finalmente Francesco Pionati, notista paludato
del Tg1, riuscirà a strappare il biglietto per palazzo Madama. E'
appiedato da più di due mesi, impossibilitato oramai ad andare in
video, depresso, raccontano gli amici, come non mai. Attende ansioso
la chiamata da primo dei non eletti.
La riflessione costringe anche moltissimi esponenti del
centrosinistra al fermo tecnico cumulante. Rosa Rinaldi, la giovane
comunista di Rifondazione, è deputata (indennità 1), sottosegretaria
al Lavoro (indennità 2), vicepresidente della Provincia di Roma
(indennità 3). Il verde Angelo Bonelli ha fatto invece bingo.
Deputato (indennità numero 1), e capogruppo (con autista e auto blu
e segreteria allargata), consigliere regionale (indennità numero 2),
assessore regionale (indennità numero 3). Bonelli, visto che le sue
giornate sono paurosamente vuote, si è fatto eleggere anche
consigliere municipale di Ostia (indennità numero 4?). Vero,
l'esponente verde, che è giovane e ha grinta da vendere, ha
dichiarato di essersi comunque dimesso da consigliere regionale. La
Camera, che vuol fare le cose in regola, attende che la regione
Lazio prenda nota della rinuncia. E' una parola! Finché non si
riunirà e "accetterà" le dimissioni, gli euro, una valanga, lo
sommergeranno. Può dirsi contento anche Marco Verzaschi (cumulo di
tre indennità), sottosegretario, deputato e consigliere, del
diessino lucano Bubbico (idem), del forzista Maurizio Bernardo,
(assessore della Lombardia e deputato), del romano Andrea Augello,
An (consigliere, vicepresidente del Lazio e deputato).
Tutta questa gente è costretta a ritirare l'indennità parlamentare.
Obbligatoria per legge, difende l'autonomia dell'alto incarico ed è
impignorabile. Chi è immerso nella riflessione e sta decidendo - con
calma, chiaro - dove e quando optare passa nel frattempo anche alla
cassa della Regione e somma (l'indennità di consigliere semplice è
pari al 65 per cento di quella parlamentare, quella di assessore
regionale è pari all'85 per cento, quella di presidente di regione
può arrivare al 120 per cento).
Sommare è sempre più bello che sottrarre.
Orfani del
Monopoli di tutto il mondo: unitevi!
di Carlo Bertani
Sarà proprio vero che il petrolio sale di prezzo? Non sarà, per caso, che
siamo noi occidentali a “scendere”?
“Essenza,
benzina o gasolina,
soltanto un litro: in cambio ti do Cristina.
Se vuoi la chiudo pure in monastero,
ma dammi un litro d’oro nero!”
Rino Gaetano – Spendi spandi effendi – 1977
Negli ultimi
anni gli analisti economici internazionali attendono il crollo dell’economia
mondiale, poiché la situazione economica della maggior potenza mondiale –
gli USA – è prossima alla bancarotta: complesse alchimie finanziarie cercano
di coprire ciò che oramai non è più possibile nascondere (a meno d’essere
degli assidui fan dell’informazione di regime).
Con simili abissi di debiti – che comprendono il saldo con l’estero, il
deficit di bilancio statale e l’indebitamento delle famiglie – non si tratta
di stabilire “se” avverrà, ma “quando” avverrà. Insomma, il re è nudo ed
oramai sono in tanti a gridarlo.
I recenti, violenti squilibri fra le monete e l’oro indicano non più il
nervosismo del mercato, bensì una fase oramai parossistica, da “esaurimento
nervoso” dell’economia internazionale.
In questo
contesto, viene spesso incolpato l’alto costo dell’energia quale fattore che
catalizza il disfattismo dei mercati, la loro “volatilità” e l’altalena
delle borse.
Su questo primo aspetto ci sarebbe molto da approfondire, poiché – se per
l’Europa e per gli USA il petrolio è veramente un freno economico – non
sembra essere lo stesso spauracchio per la Cina.
I cinesi vagano per il pianeta assicurandosi stock di
petrolio a suon di dollari (ossia scambiando della carta) e non badano a
spese: certo, meglio avere petrolio per far funzionare l’apparato produttivo
che rettangoli verdi di dubbio valore.
Se Cina e Russia hanno oramai i forzieri colmi di dollari – circa 1.100
miliardi di dollari in biglietti verdi – altri hanno invece qualcosa che non
teme le avventure monetarie e le acrobazie finanziarie, ossia le operazioni
di “salvataggio” mediante le quali il governatore della FED Bernanke cerca
di difendere latte e corn flake per milioni di prime colazioni – i pasti
degli americani – anche per dopodomani.
1.100 miliardi
di dollari sono un bel gruzzolo, niente da dire: grosso modo l’intero PIL
italiano. C’è però qualcuno che li considera una miseria e punta più in
alto, dove nessuna acrobazia finanziaria può arrivare.
Sappiamo che il mercato dell’energia è il più esteso del pianeta:
considerando che il consumo energetico mondiale assomma a circa 10 miliardi
di TEP[1][1]
– e che il 65% dell’energia proviene da petrolio e gas – al prezzo di 70
dollari/barile il mercato di petrolio e gas vale all’incirca 3250 miliardi
di dollari l’anno.
Ovviamente non tutta l’energia proviene dal petrolio, ma anche il gas – in
quanto a prezzi – non scherza: considerando che produce – a parità d’energia
prodotta – circa il 30% in meno d’anidride carbonica, il suo uso è molto
gradito da chi deve mantenersi all’interno dei limiti imposti dal Protocollo
di Kyoto.
Si comprende
allora facilmente come la Russia sia riuscita in pochi anni a pagare
l’intero debito estero ricevuto in eredità dall’URSS ed a raggranellare
forzieri di dollari nelle casse dello Stato: per farlo ha dovuto
dissotterrare il fantasma di Stalin e spedire gli ex oligarchi dell’energia
in “vacanza” in Siberia, ma non andiamo troppo per il sottile, oggi non sono
più comunisti. Lo erano allora? Sono tornati ad esserlo sotto mentite
spoglie? Non lo sono mai stati? Chi ha tempo da perdere può divertirsi con
questi divertenti sillogismi.
Forse qualcuno storce il naso per le non proprio “limpide” democrazie russa
e cinese ma, suvvia – pecunia non olet – e, compiendo una profonda
genuflessione di fronte al rubinetto del metano che abbiamo sul balcone,
possiamo anche trascurare qualche dimenticato miliardario che conta lo
scorrere dei tramonti in un carcere siberiano. Mica sovietico eh? Russo, non
scherziamo.
Quei 3.250
miliardi di dollari sono la cifra che ricevono ogni anno che passa Russia,
Arabia Saudita, Venezuela…e tutta l’allegra brigata del petrolio e del gas.
Sappiamo che le riserve non sono infinite, e possiamo anche ipotizzare
quanto dureranno ancora: agli attuali ritmi d’estrazione avremo ancora
pressappoco 40 anni di petrolio e 60 di gas. Per ora non consideriamo il
carbone, poiché se dovessimo trasformare i 200 anni d’estrazione che ancora
rimangono in energia faremmo prima a cacciarci direttamente il tubo di
scappamento in bocca. Se non altro, si soffrirebbe di meno.
Facendo una media empirica fra i due più importanti combustibili fossili
possiamo affermare che ne avremo ancora per circa 50 anni: chi ha meno di
quarant’anni può iniziare a preoccuparsi.
La “torta”
dell’energia – ossia la ripartizione dell’energia per fonti (a grandi linee)
– è semplicissima: 5% cadauno per l’idroelettrico ed il nucleare, 25%
ciascuno per carbone e gas ed il restante 40% al re petrolio. Se avanza
qualche decimale possiamo assegnarlo alle energie rinnovabili, che
nell’attuale panorama non contano praticamente niente.
Quei 3.250 miliardi di dollari l’anno, per cinquant’anni di futura
estrazione, fanno la bella cifretta di 162.500 miliardi di dollari. Per
mettere insieme 162.500 miliardi di dollari i cinesi devono lavorare per
circa 20 anni, gli americani circa 15, ma per gli americani non c’è
problema: ci pensa papà Bernanke a stampare dollari (di carta) per comprare
petrolio (vero) che serve per riscaldarsi e viaggiare in automobile, mentre
con la carta si va poco lontano. Finché dura la cuccagna. E, attenzione:
lavorare tutto quel tempo solo per pagare l’energia.
Qualunque sia
il nostro orientamento politico, di quella bella cifretta non riusciamo
nemmeno ad individuare una corrispondenza in beni: 325 milioni
d’appartamenti a Manhattan? 3 milioni di caccia F-16 o Su-27? 15.000
portaerei? Niente da fare, sono cifre da capogiro.
Anche il carbone – però – fa la sua parte, ed il 25% dell’energia prodotta
nel pianeta viene ricavata dal carbon fossile: circa 3.500 milioni di
tonnellate di carbone sono bruciate ogni anno nelle centrali termoelettriche
per produrre energia[2][2].
Il carbone costa assai di meno del petrolio: se una tonnellata di petrolio
costa circa 500$, per il carbone ne basta circa la metà, ossia 250$,
comprendendo anche le cosiddette “carbon tax” per l’alto inquinamento che
comporta l’uso di questa fonte.
Agli attuali
ritmi di consumo, quanto carbone c’è nel pianeta?
In questa previsione non possiamo essere molto precisi, giacché il termine
carbon fossile comprende una panoplia di prodotti assai diversi: si va dalle
più pregiate antraciti (8.000-9-000 Kcal/Kg) alle meno pregiate ligniti
(5.000 Kcal/Kg) – passando per parecchie categorie intermedie – mentre il
petrolio ha un potere calorifico di circa 10.000 Kcal/Kg.
Insomma, il carbone ha una resa minore e costi d’estrazione maggiori, ma
agli attuali ritmi ne rimane ancora per 200 anni: due secoli di locomotive a
vapore? Se lo facessimo, sarebbe la condanna alla camera a gas planetaria.
Ciò nonostante, il carbone è una potenziale risorsa energetica. Se il
consumo annuo è di circa 3.500 milioni di tonnellate e ne rimane per 200
anni, le riserva ammontano a 700.000 milioni di tonnellate, che al prezzo
medio attuale corrispondono ad altri 175.000 miliardi di dollari: aggiunti
ai 162.500 di petrolio e gas portano il valore delle riserve di fossili alla
iperbolica cifra di 337.500 miliardi di dollari.
Per produrre
ricchezza pari a 337.500 miliardi di dollari i cinesi dovrebbero lavorare
forse per mezzo secolo, solo per l’energia, gli USA 30 anni: questa è
l’importanza delle riserve strategiche d’energia. Con una simile cifra
potreste comprarvi una portaerei a testa per voi ed i vostri figli, parenti
ed amici ed usarla per le vacanze, cambiandola ogni anno per un centinaio di
generazioni. Preferite acquistare in blocco l’Italia? Che so io…qualche
migliaio di Louvre…mah, fate voi…
Inutile andare a cercare il pelo nell’uovo in questi calcoli, poiché i conti
si fanno agli attuali prezzi dell’energia e con i consumi di oggi:
domani il conteggio potrebbe essere ancora diverso; d’altro canto, domani un
appartamento a Manhattan od un caccia F-16 potrebbe costare di più o di
meno, chi lo sa?
Già, domani tutto potrebbe costare un po’ di più od un po’ di meno: un
appartamento – a causa della speculazione – potrebbe valere 700.000 dollari
invece che 500.000, mentre i caccia – se scoppiassero delle guerre (e alla
Mac Donnell Douglas pregano, oh quanto pregano…) – potrebbero salire di
prezzo.
Se, però,
pagassimo caccia ed appartamenti in euro risparmieremmo, poiché con un
rapporto di cambio pari a circa
1,25 a favore dell’euro[3][3]
risparmieremmo circa un quarto della somma. Già, però anche i rapporti di
cambio mutano – panta rei – e non sappiamo oggi se ci conviene
buttare dollari ed acquistare euro, per poi cambiare gli euro per gli yen,
poi yuan, rupie, rubli…insomma, basta! Compro dell’oro e non se ne parla
più: già, ma se l’economia cresce tutti vendono oro per acquistare liquidità
da investire per fare altri soldi, ed il prezzo dell’oro scende.
Maledizione a chi ha inventato questo perfido Monopoli! Almeno – nel gioco –
chi ha il Parco della Vittoria sa che qualcuno da “spennare” prima o dopo ci
casca!
Il “Parco della Vittoria” attuale – nel quale tutti dobbiamo forzatamente
passare – si chiama ENERGIA.
Nel preciso
istante nel quale abbiamo premuto sul pulsante d’accensione del computer per
leggere questo articolo, siamo entrati nel “Parco della Vittoria”
dell’economia planetaria: la stessa cosa avviene quando ruotiamo la
chiavetta d’accensione dell’automobile oppure cuciniamo un uovo al tegamino.
Niente da fare: appena usiamo dell’energia siamo dentro al perfido
quadratino del Monopoli e c’è qualcuno che sogghigna, che attende
d’incassare. «Spendi spandi, spandi spendi effendi!» cantava uno
splendido Rino Gaetano in anni lontani.
Ovviamente non incassano solo i barbuti efendiah in caffettano, ma i
caudillo venezuelani, i compassati sov…pardon…russi e poi norvegesi,
nigeriani ed indonesiani…man mano che però si scende nella “scala”
d’importanza di quei paesi cambia la ripartizione della torta fra governi e
holding dell’energia, e questo è un altro aspetto del problema.
Se, invece,
qualcuno vuole tenersi il prezioso conto in banca dei propri giacimenti e
sfruttarlo poco – affinché duri per molti decenni – avrà di che vivere senza
problemi per molte generazioni. Il prezzo, estraendo poco, salirà, ma questi
sono problemi dei paesi consumatori, mica di chi costruisce moschee sui
laghi di petrolio. Proprio per entrare in punta di piedi in questo ovattato
mondo – dalle moquette delle banche svizzere ai cuscini degli harem di Ryad
– lo faremo in modo discreto, con una favola, così come le “Mille e una
notte” hanno cercato di raccontare l’epoca aurea dei grandi califfati.
Il buon
sovrano di Petrolahbad
C’erano una volta due paesi che avevano tanto petrolio, tantissimo: potevano
farci il bagnetto ogni mattina oppure decidere di correre in auto tutto il
giorno spendendo un’inezia.
Un bel giorno, uno dei due paesi decise di vendere grandi quantità del suo
petrolio ai commercianti di lontani paesi: il buon re era sensibile alle
richieste delle sue molte mogli, che desideravano sempre – nella penombra
dell’harem – vestire Valentino e profumarsi con Chanel n. 5. Non c’era
bisogno di copiare i modelli politici di quei lontani commercianti –
parlamenti, governi, presidenti – perché erano inutili: su tutti regnava il
buon re Saud ed i sudditi festanti plaudivano alla sua saggezza ed al suo
buon cuore.
Purtroppo, nel
paese accanto regnavano oscuri individui, avidi, gretti, ombrosi: agitavano
molto le spade e poco il Corano, affermavano che tutti dovevano lavorare ed
avere un reddito – sancendolo come un diritto – ed estraevano poco petrolio,
quel tanto che basta per mandare avanti la baracca.
Un bruttissimo giorno, un certo Hussein – capo della masnada dei miscredenti
– iniziò ad acquistare tante armi perché meditava di diventare il nuovo
Saladino, colui che avrebbe unificato sotto un solo stendardo tutte le
popolazioni di Petrolahbad.
I commercianti stranieri giunsero dal buon re e lo pregarono d’aiutarli a
scongiurare quel pericolo: se il feroce Saladino fosse divenuto il supremo
Califfo di Petrolhabad, avrebbe “stretto” i rubinetti del petrolio e le sue
belle mogli sarebbero state costrette ad acquistare i profumi nel discount
sotto casa…pardon…sotto la reggia.
Detto fatto:
furono tagliate le ali al feroce Saladino ed il buon re accondiscese con
grazia a pagare i buoni commercianti che avevano provveduto – inviando
aerei, navi e soldati – a salvare le carte di credito delle sue belle mogli.
Il buon re era miope e forse non s’accorse – quando firmò il contratto –
della cifra: si sa che gli zeri non contan nulla, ma se seguono una cifra
qualsiasi assumono valore; meraviglie della matematica, ma il buon re era
più avvezzo ai versi dei poeti che alle aride cifre.
Fu così che, per pagare i commercianti stranieri che lo avevano difeso,
dovette estrarre ancor più petrolio e svuotare le casse dello stato: la
notte tornava nell’harem e nel vedere le belle mogli coperte d’oro e
profumate con grazia sospirava: sì, ho fatto la scelta giusta, Allah mi sarà
benigno.
Anche le buone
famiglie, però, covano sempre una serpe in seno: chi non ricorda nelle
proprie ascendenze un lontano zio nullafacente od una bisnonna che amava
solo il ballo ed i divertimenti?
Era stato tutto inutile: aveva inviato quel figlio di lontani cugini a
studiare in Europa, gli aveva acquistato casse d’ottime vesti, camicie
all’ultima moda occidentale, auto di lusso ma niente: il giovane Bin voleva
fare affari come i commercianti occidentali, era quasi diventato come uno di
loro, avido, interessato più ai numeri che ai versi dei poeti.
Non si faceva problemi ad accusare il buon re di sperperare la ricchezza
della nazione estraendo tanto, troppo petrolio, che così costava poco e gli
unici ad arricchirsi erano i facoltosi commercianti occidentali.
Per toglierselo di torno gli proposero una vacanza premio, un viaggio
d’istruzione in Afghanistan, per imparare dagli imam locali come doveva
comportarsi un vero musulmano. Non l’avessero mai fatto! Anche il giovane
Bin meditò di diventare un Saladino e – dopo aver vinto importanti battaglie
contro gli infedeli del Nord – giunse a pretendere il suo stesso trono,
mogli comprese!
Ancora una
volta giunsero in aiuto i fedeli commercianti occidentali – che avevano
tentato d’accoglierlo nel loro grande suk – e che, in lacrime, confessarono
al buon re d’essere stati traditi dal suo giovane nipote.
Per fortuna i buoni commercianti avevano tante navi ed aerei per sconfiggere
i due maligni Saladini, quello che da Baghdad continuava a blaterare
proclami insulsi ed il nuovo, giovane virgulto della stirpe dei condottieri.
Cosa chiesero in cambio i buoni commercianti? Di poter estrarre anche il
petrolio del vicino paese, così anche le mogli dei visir di Bassora, Falluja,
Nassirya, Kirkuk e Mosul avrebbero ricevuto abiti e profumi in quantità.
Al buon re la proposta sembrò accettabile, conveniente: in fondo era l’unica
praticabile, e quello fu il volere di Allah.
Morale
della favola Le
riserve di petrolio dei due paesi – Arabia Saudita ed Iraq – erano così
valutate nel 2002, prima della guerra irachena:
Paese
Stima
delle riserve (miliardi di barili)
Produzione annua (milioni di barili)
Anni
di futura estrazione ai ritmi dell’epoca
Arabia Saudita
260
2.589
100
Iraq
115
776
148
Come si può
notare, gli iracheni erano più “parchi” nell’aprire i rubinetti del petrolio
e, a lunga scadenza, sarebbero rimasti con ancora petrolio nei giacimenti
quando quelli sauditi sarebbero terminati.
Qui inizia il “giallo” delle riserve petrolifere irachene, perché l’IEA (International
Energy Agency) lancia un segnale:
“Il vero potenziale dell’Iraq potrebbe essere molto elevato, in quanto il
paese è relativamente inesplorato a causa di anni di guerre e sanzioni
dell’ONU, in particolare la regione del deserto occidentale potrebbe
contenere ulteriori risorse, forse altri 100 miliardi di barili”[4][4].
Il “giallo” è
tale perché altre fonti indicano che la stima iniziale di 115 miliardi di
barili era molto, molto prudente e che le reali riserve erano di circa 220
miliardi di barili.
C’è molta “confusione sotto il cielo”, ma restiamo con i piedi per terra e
contempliamo soltanto le riserve veramente accertate (115) più quelle molto
probabili – che si trovano nel deserto fra Nassirya ed il confine siriano
(ahi, la missione italiana di “pace”!) – ed arriviamo a circa 215 miliardi
di barili.
Ai prezzi attuali, le riserve irachene valgono 15.050 miliardi di dollari,
circa il 9% del totale mondiale: si può mobilitare il più potente esercito
del mondo per il 9% del petrolio del pianeta? Sì, si può, si può…anzi, forse
si deve.
Si può e si
deve perché quel petrolio rappresenta – in valore – più di un anno di PIL
USA!
E qui viene il bello.
Oro, dollari,
euro, conchiglie, caccia, palazzi…cosa compro?
Finché si tratta di comprare qualche cisterna di Chanel n. 5 non è il caso
di preoccuparsi troppo, ma quando – dopo aver acquistato i palazzi della
nobiltà francese e partecipazioni azionarie a iosa – non si sa più dove
cacciare i soldi è un bel problema. Noi (sic!) lo sappiamo bene.
Il grave problema che si trovano a dover risolvere i buoni sudditi di
Petrolhabad è cosa acquistare in cambio del petrolio: valuta? No, già con i
dollari abbiamo fatto un cattivo affare: sempre più carta e meno valore,
bisogna cambiare rotta. Gli euro? E se facessero anch’essi la fine del
dollaro? Ferraglia militare? No, dopo trent’anni è da buttare, se non ci
pensano gli stessi “buoni commercianti” a bombardare tutto.
Niente, non
c’è niente che vale di più di quel liquido oleoso e puzzolente che sgorga
dalla sabbia, perché è l’unica pietra filosofale in grado di trasformare i
minerali grezzi in metalli, il metallo in navi, le navi in commercio, il
commercio in altra ricchezza.
Già, però non si può conservarlo perché – a differenza dell’oro – l’oro nero
serve a tutti ed ogni giorno. Che fare?
Intanto s’inizia con il mantenere bassa la produzione, ossia non si seguono
i desideri dei “buoni commercianti”, i quali – dato l’aumento della
richiesta di petrolio di Cina ed India – vorrebbero nuovi pozzi, oleodotti,
raffinerie, ecc.
Se la produzione rimane costante od aumenta di poco, il prezzo sale: saranno
pure dollari svalutati, ma sono pur sempre – a parità di barili estratti –
sette volte quelli che a Petrolhabad s’incassavano soltanto sei anni or
sono.
In definitiva
– se consideriamo che l’energia è un bene indispensabile che poche nazioni
gestiscono in un regime d’oligopolio – i prezzi non sono saliti: siccome si
tratta di beni presenti nel pianeta in quantità finite (proprio come l’oro),
i combustibili fossili interpretano – al variare del prezzo – il rapporto
fra chi fornisce l’energia e chi la consuma per produrre beni.
Chi possiede un giacimento petrolifero sa con certezza di possedere un bene
fruibile e fortemente ambito: finché il dollaro rappresentava una moneta
sicura – prima che fosse abolita la convertibilità in oro, ed anche dopo,
quando ancora rappresentava una certezza per la solidità del sistema
finanziario USA – il prezzo aveva oscillato di poco, sempre (salvo
brevissimi periodi) fra i 10 ed i 20 dollari/barile.
Gli alti prezzi raccontano allora un’altra vicenda: la disperazione di
possedere il bene più ambito nel pianeta e di doverlo scambiare – ogni
giorno che passa – con monete che, in definitiva, rappresentano soltanto un
puro valore d’imputazione, un “ci credo” collettivo. Finché dura.
In questa
situazione – già molto critica – si sono andate ad impiantare le guerre USA,
con il timore che i patrimoni esteri dei paesi produttori possano essere
“congelati” dall’oggi al domani nel nome della “guerra al terrorismo” (vedi
Iran).
Come se ne esce? Sotto l’aspetto della teoria economica è assai difficile
trovare soluzioni: secoli di dibattiti sul valore dei beni – da Ricardo a
Marx, e da Keynes a Galbraith – non hanno fornito risposte per assegnare un
valore alle merci senza interpretarlo mediante un “metro”, sia esso l’oro e,
oggi, il petrolio.
Un maggior uso delle energie rinnovabili condurrebbe a “spalmare” su più
soggetti il privilegio di possedere il “metro” mediante il quale si può
misurare – e condizionare – l’economia mondiale, ma non sarebbe una
soluzione poiché continuerebbero ad esistere i “Parchi della Vittoria”: se
esistono simili paradisi, non dimentichiamo che gran parte della popolazione
del pianeta vive nel Vicolo Corto e nel Vicolo Stretto.
Il vero problema è allora una nuova coscienza della ricchezza e del suo uso
– per arricchire pochi oppure per fini di promozione sociale paritaria, fra
tutti gli abitanti della Terra – ma questo è un altro discorso: io, per
prima cosa, ho gettato il Monopoli nella spazzatura.
[5][1]
TEP: Tonnellata Equivalente di Petrolio, ossia l’energia contenuta – in
media – in una tonnellata di petrolio, qualunque sia la fonte energetica. [6][2]
Considerando il minor potere calorifico del carbone rispetto al petrolio,
7000 Kcal/Kg (una media molto approssimativa) contro le circa 10.000 del
petrolio. [7][3]
A volte mi spaventa essere così previdente: nel 2003 – quando scrissi
Europa svegliati! – affermai che il cambio euro/dollaro si sarebbe
stabilizzato intorno ad 1,25 a favore dell’euro,
mentre il cambio – a quel tempo – era di 0,90 a favore del dollaro. [8][4]Fonte:
International Energy Outlook 2004.
9 giugno
Vi lavorano
oltre 400mila persone, guadagnano tra i 5 e i 7 euro all'ora.
L'analisi delle loro condizioni di lavoro in un'indagine Cgil
presentata oggi
Stress
continuo, paga da fame
viaggio nel mondo dei call center
di FEDERICO PACE
All'inizio ci
sono delle aspettative. Dopo, restano solo le delusioni. Per le
condizioni di lavoro, per le prospettive professionali, per lo
stress continuo e per le paga che rimane sempre troppo bassa.
Quello che doveva divenire un settore maturo e più "vivibile"
pare non avere fatto alcun passo avanti. Viene da dire che
questi ultimi due anni siano andati sprecati. L'indagine
presentata oggi a Genova da Cgil "Call Centers. Idee
er un cambiamento" e condotta in sei grandi call center liguri
(tra questi quelli di Telecom, Poste e H3g) restituisce uno
scenario peggiore di quello che ci sarebbe potuti aspettare.
Seppure la crescita del settore, sono oggi 400 mila le persone
che vi lavorano, ha permesso a un elevato numero di persone di
trovare un posto, le condizioni di lavoro di chi con i call
center deve misurarsi tutti i giorni sono tutt'altro che buone.
Organizzazione del lavoro, salute, soddisfazione e prospettive.
Tutto ai minimi. Tutto legato insieme in una specie di spirale
che si torce su se stessa. Tra quelli che in un call center ci
lavorano, sette su dieci (il 66,7%) pensano ormai che il proprio
lavoro non possa avere un'evoluzione positiva all'interno
dell'azienda ed altrettanto pessimistiche sono le attese
rispetto alle opportunità esterne: nove su dieci ritengono che
sia difficile cambiare lavoro e trovarne uno migliore. Per una
paga che in termini orari oscilla
tra i 5 e i 7 euro così che pare naturale che il 40
per cento consideri molto deludente la propria retribuzione.
Una telefonata dietro l'altra, un problema da risolvere dietro
l'altro. Per chi si trova a dovere gestire le telefonate in
entrata, lo stress è rappresentato soprattutto dai ritmi,
dall'ossessione di dovere chiudere le chiamate entro qualche
minuto. E pare quasi assurdo che non possa essere accolta la
richiesta di chi, tra i testimoni, dice che "la cosa ideale
sarebbe avere un intervallo, un minuto, tra una telefonata e
l'altra".
Ma anche quando si tratta di attività di telemarketing le cose
non cambiano. "Le liste dei clienti - ci ha detto Paola
Pierantoni, responsabile sportello sicurezza Cgil Genova e
coordinatrice dell'indagine (leggi
intervista integrale) - vengono date dall'azienda, le
telefonate vengono sparate in cuffia con un sistema automatico
che cerca i numeri. Alle persone arrivano in cuffia anche i fax
con i conseguenti problemi di salute per le scariche di rumore
pesante". Senza contare che spesso i call center vengono
realizzati senza tenere conto delle caratteristiche del lavoro
che vi verrà svolto. E la rumorosità, insieme alle condizioni
climatiche (vedi
tabella), è tra le cause di maggior disagio dei
lavoratori.
Se è vero che nei sei call center messi sotto osservazione, il
65,8% è rappresentato da dipendenti contro il 30,4 per cento dei
lavoratori a progetto, va detto pure che nel Regno Unito, come
fanno notare gli autori della ricerca, il 92 per cento degli
addetti dei call center hanno un contratto permanente. La
"stabilizzazione" dei lavoratori, quella promessa dall'accordo
nazionale tra Assocallcenter e sindacati siglato nel 2004, non
pare proprio esserci stata. In uno dei call center presi in
esame (Call & Call) si sarebbero dovuti stabilizzare il 60% dei
lavoratori entro il 2008. Ad oggi in questo call center è
dipendente solo il 5,2 % degli operatori in cuffia.
Ci sono dei casi positivi. Casi in cui dove si fa formazione, si
offre agli operatori un minimo di rotazione con attività lontane
dalle "cuffiette". Ma è poco. Ancora troppo poco.
Solo quattro su dieci si dicono tranquilli per il proprio
impiego mentre quasi il 35% sente di essere precario. E non per
propria scelta. Già, le scelte. Solo uno su dieci dichiara di
avere deciso la condizione "provvisoria" in cui si trova. Quasi
la metà dei lavoratori ha più di quarant'anni e solo uno su
cinque di loro non è ancora trentenne (vedi
tabella). Il settore mantiene la sua natura "femminile"
(il 77,2 per cento degli addetti è formato da donne) e sono
proprio le donne quelle che, in proporzione, hanno meno accesso
alla stabilizzazione contrattuale. E questo non per scelta,
visto che solo il 12,5 per cento di loro si ritrova "precaria"
per volontà.
Il lavoro nei call center sembra venire meno a anche quella
missione importante che è la realizzazione delle proprie
capacità professionali (vedi
tabella). Tale distacco dal lavoro avviene in maniera
più accentuata dove la comunicazione telefonica è soggetta a
rigidi limiti di tempo. E sono soprattutto quelli che ci
lavorano già da tempo a provare i più elevati livelli di
insoddisfazione personale.
In Italia, rispetto all'Europa, le cose forse vanno anche un
poco peggio: "I call center in outsourcing - ci ha detto
Giovanna Altieri, direttore Ires-Cgil (vedi
intervista integrale) - sono relativamente più
localizzati nel Sud Italia. Grazie ai contributi europei molti
imprenditori hanno delocalizzato l'azienda in queste aree dove è
molto diffusa l'esternalizzazione. Sono frequenti i casi di poca
chiarezza tra intrecci proprietari, ambiguità tra
esternalizzazione e internalizzazione di servizi e appalti
pubblici".
Se si leggono le cronache di questi giorni ci si accorge che in
tutta Italia c'è una specie di febbre che sta salendo. Ci sono i
lavoratori a progetto del call center Cosmed, che lavora per
conto di Sky, che protestano a Palermo. A Bologna, il sindacato
degli atipici della Uil denuncia che nel call center di Hera
gestito dalla Telework, lavorano "oltre 250 falsi collaboratori
a progetto" che operano in condizioni di precarietà "non più
sostenibili". E intanto a Roma centinaia di operatori a cui non
è stato rinnovato il contratto dal mega call center di Atesia
chiedono di venire reintegrati.
Atesia, ora si svolta Ispettori al lavoro
Avrebbero stabilito che i lavoratori sono a tutti gli effetti dei
«subordinati», non dei «collaboratori». Salta il pessimo accordo
firmato ad aprile. Ma l'azienda fa finta di niente Francesco Piccioni Le cose cambiano, anche nelle battaglie che
sembrano disperate. Chi avrebbe mai pensato che quei precari
disperati - sebbene in 4.000 - potessero liberarsi dalla morsa di un
padrone supportato contemporaneamente da una legislazione ad hoc, un
pezzo importante della classe politica e da pezzi di sindacato
quantomeno arrendevoli? Scioperi
Il 74% si dichiara insoddisfatto della
visibilità dei segnali stradali;
il 73% della quantità; il 68% della chiarezza; l'84% della
qualità delle strade
Segnaletica e strade
Italiani i più insoddisfatti
Gli automobilisti italiani sono i più insoddisfatti d'Europa
in fatto si carenza di segnaletica e stato delle strade. E'
quanto emerge da un'inchiesta europea commissionata da
ViaMichelin, filiale del gruppo Michelin. Il 74% si dichiara
insoddisfatto della visibilità dei segnali stradali; il 73%
della quantità; il 68% della chiarezza; l'84% della qualità
delle strade.
L'auto si conferma per il 48% degli automobilisti Europei un
mezzo indispensabile.
Un terzo degli automobilisti europei (Italia, Francia,
Spagna, Germania) percorre più di 20.000 km all'anno gli
Italiani si posizionano al terzo posto (29%, dietro Germania
e Spagna). Guida la classifica l'Italia che con il 61% (pari
a 21.350.000) dichiara di utilizzare l'auto per recarsi al
lavoro o per motivi professionali quasi tutti i giorni. Tre
italiani su 5 affermano, inoltre, di utilizzare l'automobile
ogni giorno per uso personale, nonostante l'adozione di
politiche di limitazione del traffico urbano.
Gli spostamenti in città, secondo lo studio, stanno
diventando sempre più complessi tanto che, soprattutto nei
paesi latini, l'auto viene sempre meno utilizzata sulle
brevi distanze. Solo gli automobilisti tedeschi appaiono
meno smarriti. Gli automobilisti lamentano, in particolare,
che non si trovano con facilità specifiche strade sia in
città che fuori (primeggiano i francesi 51%, seguiti a ruota
da italiani e inglesi 48%). Circa un terzo afferma di
essersi perso spesso e con una maggior frequenza in città.
Inoltre la metà degli intervistati da Viamichelin non esita
a chiedere a un passante se si perde per strada (primeggiano
gli spagnoli, il 73% dei quali si ferma a chiedere
informazioni per strada). La difficoltà ad orientarsi genera
anche pratiche di guida pericolose: quasi 8 automobilisti su
10 ammettono di aver effettuato una manovra all'ultimo
minuto per prendere una direzione male indicata; o guidare
mentre si consulta una carta stradale (48% contro il 43%) o
di usare il cellulare mentre si guida per chiedere
informazioni (dal 24 al 44%, dipende dai paesi e in
prevalenza fra i giovani).
In tema di vacanze, invece, il 38% degli Europei dichiara di
prediligere vacanze in auto per scoprire nuovi luoghi. L'82%
si definisce così 'turista dell'autò, soprattutto nei paesi
latini che si dicono disposti a 'sperimentare',
sottolineando che preferiscono guidare esplorando e andando
alla ricerca di nuovi luoghi e itinerari.
I veri 'turisti dell'auto' sono presenti soprattutto in
Italia (94%), in prevalenza donne, di età superiore ai 35
anni, proprietari di più automobili (il 58% ne possiede
almeno due), si spostano soprattutto nei week-end. Il 75% di
questi automobilisti europei prepara il proprio viaggio con
l'ausilio di carte e guide turistiche e molti dichiarano di
utilizzare di più i sistemi Gps.
, manifestazioni, articoli di
giornale, interventi di amministratori locali... tutto era sempre
passato come un acquazzone estivo, lasciando Alberto Tripi
assolutamente certo di poter padroneggiare la situazione senza
problemi. Se non quelli della pessima immagine. Poi, dai e dai,
qualcosa si rompe. La stagione politica cambia - seppur di poco -
segno ed ecco che si aprono spiragli meno foschi. Nulla è ancora
risolto, sia chiaro.Ma qualcosa si sta spostando. L'ispettorato del
lavoro, infatti, sta per concludere le sue indagini sulle reali
condizioni lavorative all'interno del call center romano. Ma sarebbe
già chiaro che orari e incarichi, nonostante l'enorme libertà
consentita alle imprese dalla legge 30, rientrano nella
«fattispecie» del lavoro subordinato e non in quelle previste per le
numerose forme di «collaborazione » previste dalla normativa.
Tecnicamente non sarebbe neppure una novità: già nel 1998 un primo
rapporto stabiliva la stessa cosa. Ma un pessimo accordo sindacale
fece finta di non saperlo. Di più. All'interno del ministero sarebbe
da tempo pronta una circolare che definisce illegittimi i «contratti
a progetto » applicati ai call center «in bound» (quelli dove si
risponde alle chiamate provenienti dagli utenti), come avviene anche
in Atesia. In pratica, tutta la vertenza potrebbe prendere una piega
diversa. L'accordo firmato l'11 aprile (170 assunzioni part time «in
cambio» di ben 1.100 contratti di apprendistato per una parte dei
precari che lì lavorano da anni) è semplicemente inapplicabile;
anche se l'azienda non dovesse essere costretta ad assumere tutti i
precari «di lungo corso», di sicuro una massa di ricorsi legali
potrebbe costringerla a più miti consigli (la frase finora più
ripetuta dai dirigenti, di fronte alle proteste, pare sia stata
proprio «facci causa»). Atesia ha intanto cominciato a non rinnovare
i contratti a 400 persone, costringendo - pare - i pochi «assunti» a
firmare una liberatoria per le pendenze pregresse. I ragazzi del
Collettivo precari - gli unici che in questi anni si siano impegnati
nell'organizzare scioperi e manifestazioni dei lavoratori - sono
ancora molto cauti e non gridano vittoria. In grave difficoltà
appare invece il sindacato, specie la Cgil che si era platealmente
spaccata al momento di siglare l'ultimo accordo: il Nidil non
l'aveva firmato e in calce appare la firma di Rosario Strazzullo
(del Slc) e della segretaria confederale Nicoletta Rocchi.
Inutilmente, qualche giorno fa, il segretario generale dell'Slc,
Emilio Miceli, aveva diffidato Atesia dall'applicare quanto previsto
d aquel testo. Come riportato anche nelle pagine della cronaca
romana del Corriere della sera (strana scelta, per parlare di una
vertenza ormai paradigmatica della condizione precaria in Italia),
Cecilia Taranto -membro della segreteria regionale - ricorda che
«l'accordo era stato firmato sul presupposto che i contratti di
collaborazione fossero legittimi. Se fosse appurato che le
prestazioni degli addetti devono essere inquadrate come lavoro
dipendente, è chiaro che va tutto rivisto». Parole lunari: un
sindacato non è in grado di decidere se un certo tipo di lavoro è
dipendente o meno? Ha bisogno di attendere - dopo anni - un parere
dell'ispettorato del lavoro? E che ci sta a fare? Se un'associazione
(sia chiaro: una piccola parte di essa) è ridotta così può al
massimo svolgere una funzione di supporto per l'ufficio del
personale, non il sindacato. Visto però che la vertenza è ancora
aperta, i ragazzi di Atesia si riuniranno domani mattina
inunpresidio davanti al ministero del lavoro. Pacifici come sempre,
ma anche determinati a farsi sentire dal ministro Cesare Damiano,
impegnato nel trovare la mediazione. Non sulla loro testa, però.
America sotto choc, turbe psichiche per un
soldato su dieci Franco Pantarelli New York George Bush parla sempre meno d'Iraq. Anche lui
si rende conto che ogni volta che ripete di «mantenere la rotta» o
che le cose vanno bene e presto gli iracheni potranno «difendersi da
soli», quelli che ci credevano restano delusi e quelli che delusi
già lo erano diventano arrabbiati. Gli effetti di questa guerra,
nata su un castello di menzogne e condotta all'insegna
dell'incompetenza, si fanno sentire sempre più e mettono a nudo
tutte le ferite provocate nell'intero corpo sociale americano, per
non parlare dei «valori» di cui i bravi cittadini erano abituati ad
andare fieri. L'America di oggi, sotto la «cura Bush», è il Paese in
cui i poveri aumentano, in cui coloro che godono di assistenza
medica diminuiscono, in cui il carico di debito pubblico che pesa su
ogni cittadino è il più alto di tutta la storia e in cui le
incertezza diventano incubi e la consapevolezza che l'inconcepibile
impreparazione messa in mostra l'anno scorso è ancora tutta lì,
intatta.
Ci sono tante di quelle macerie attorno a questa presidenza che
perfino i «geniali» strateghi di Bush non sanno più che cosa
escogitare. L'ultima loro trovata, quella di riesumare il bando ai
matrimoni gay che dopo averlo agitato in campagna elettorale era
stato rapidamente archiviato a elezione ottenuta, proprio ieri è
miseramente finito prima ancora di cominciare. Il favore dei due
terzi del Senato, indispensabile affinché la procedura
dell'emendamento costituzionale potesse intraprendere il suo iter, è
mancato e l'unica cosa su cui Bush e i (non molti) repubblicani che
lo hanno seguito su questa strada possono sperare è che la parte più
retriva della loro base si lasci ancora una volta prendere in giro.
Ma forse il segno più tangibile dello sgretolamento è proprio il
fatto che ormai sono davvero pochi quelli che ancora seguono Bush,
mentre sono in forte aumento quelli che non temono più l'accusa di
«antipatriottismo». Anni fa, per apprezzare la denuncia delle
nefandezze di Bush contenuta nel film di Michael Moore bisognava
superare una specie di senso di colpa («mio Dio, sarò mica dalla
parte dei terroristi?»), oggi la ricerca di quelle nefandezze è
diventata aperto terreno di caccia. Nascono da qui le rivelazioni
sulla strage di Haditha, sul cui destino ieri sono stati resi noti
dall'IPS dei particolari agghiaccianti: che prima della strage i
soldati americani avevano bloccato la corrente elettrica e l'acqua e
avevano distrutto la farmacia; che ancora un mese prima della strage
era stato occupato l'ospedale per sette giorni («una gravissima
violazione della Convenzione di Ginevra», dice il dottor Salam
Ishmael); che tutte le attrezzature erano state distrutte e che un
paziente era stato ammazzato nel suo letto. E nasce da qui il
reportage che USA Today ha dedicato ieri ai soldati che
tornano dall'Iraq con turbe mentali. Sono uno su dieci, raccontano
al giornale i medici che li esaminano al ritorno, ricordando che in
base alla «turnazione» sono almeno 500.000 i soldati che hanno
«servito» laggiù, sicché è stato creato un potenziale di 50.000
giovani trasformati in spostati, ma siccome al rientro non
presentano ferite «visibili» il loro problema è stato a lungo
ignorato.
E nasce da qui, infine, una storia come quella raccontata da «The
War Tapes», un documentario (è appena stato premiato al TriBeCa
Festival) girato da tre soldati che portavano la loro telecamera
dovunque venissero destinati: una cosa molto più pregnante dei
reportage dei giornalisti embedded, sebbene anche la loro
attività, come dimostrano gli oltre sessanta morti, in una guerra
come questa ha aumentato la pericolosità in modo esponenziale. Si
vedono cose orribili: una bomba che esplode sotto a una jeep; un
raid in una casa con relativo scontro a fuoco e due «insurgent»
abbattuti davanti alla telecamera; una donna irachena investita da
una jeep e tagliata di netto in due tronconi, e anche la difficoltà
di «restare se stessi» in una situazione simile. Non ci riesce un
soldato che, alla vista di cani che si cibano con le carni di un
uomo appena ucciso, dice tranquillo: «Così avranno la pancia piena».
Ci riesce invece un altro soldato che, parlando del «che facciamo
qui», se n'esce con un «Siamo venuti per liberarli e invece li
ammazziamo».
Self service Telecom
di Peter Gomez
e Vittorio Malagutti
Troppo facile violare gli archivi delle telefonate. Senza lasciare
tracce. Lo ha accertato il Garante della Privacy. Che impone all'azienda
controlli più rigidi
Marco Tronchetti Provera
Il tariffario dell'illegalità
Gli spioni Nell'inchiesta della Procura di
Milano che ha portato nel marzo scorso all'arresto dei detective
privati Pierpaolo Pasqua e Gaspare Gallo (gli spioni del
cosiddetto Storace-gate) emerge un fatto inquietante. I dati di
traffico dei clienti Telecom non sono acquisibili soltanto dai
dipendenti della compagnia, ma anche dai semplici collaboratori
di società terze. Basta leggere la richiesta di arresto firmata
dai pm milanesi Fabio Napoleone e Luca Civardi per scoprire che
una semplice operatrice di call center, Alessandra P., era in
grado di sapere tutto: nome, data di nascita, documento di
identità e soprattutto i tabulati. Alessandra digitava il numero
del telefonino o il nome della persona sul computer e forniva in
tempo reale tutto alla sua amica investigatrice Laura Danani
(poi arrestata). Solo in un caso Alessandra dice: "Non ho fatto
in tempo a vedere se la linea è attiva perché è passato
l'assistente". ...
Il Garante della Privacy ha bussato alle porte di Telecom Italia la
mattina di martedì 23 maggio. Un'ispezione lampo, meno di due giorni
per arrivare a una prima, importante conclusione: la più grande
compagnia telefonica italiana non ha protetto a sufficienza i dati
sul traffico dei cellulari dei propri clienti. In sostanza, i
tecnici del Garante, dopo aver trascorso ore e ore negli uffici di
via Torrerossa 66 a Roma, uno dei più importanti centri per la
telefonia mobile del gruppo, si sono resi conto che alcuni
funzionari di alto livello, chiamati in gergo 'addetti IT' o anche
amministratori di sistema (meno di un centinaio in tutta Italia),
potevano consultare ed estrarre i tabulati telefonici degli utenti
quasi senza lasciare tracce. L'apparato informatico, infatti, era
congegnato in modo da segnalare il loro ingresso, ma non le
operazioni compiute. In caso di controlli successivi, quindi, era
impossibile sapere quali fossero le informazioni richieste. I
vertici del gruppo guidato da Marco Tronchetti Provera hanno
risposto ai rilievi dell'Authority attribuendoli a problemi di
natura strettamente tecnica. E hanno assicurato di essersi già mossi
per risolvere la questione nel più breve tempo possibile.
Queste prime spiegazioni di Telecom, però, non hanno soddisfatto il
Garante. Ecco perché, secondo quanto 'L'espresso' è in grado di
rivelare, il primo giugno è stato emesso un provvedimento ufficiale
per richiamare all'ordine il gruppo. Il documento prescrive tre
interventi urgenti, da attuare entro sei mesi, per ripristinare una
corretta gestione dei dati di traffico telefonico. In primo luogo
vanno introdotte soluzioni informatiche che consentano di
individuare sempre e comunque l'identità di chi interpella la banca
dati. Perché finora, come ha rilevato l'Authority, spesso non si
capiva bene chi avesse messo le mani nel database e per fare che
cosa. In secondo luogo il Garante ha ordinato che vengano definiti
con precisione i cosiddetti 'profili di autorizzazione'. In altre
parole, Telecom deve stabilire a quali informazioni sensibili
possono accedere i propri funzionari sulla base del ruolo ricoperto.
Infine, il documento notificato nei giorni scorsi chiede alla
compagnia telefonica di creare una sorta di firma digitale
indelebile che permetta, anche a distanza di anni, di risalire a
ogni intervento nella banca dati.
La presa di posizione dell'autorità presieduta da Francesco Pizzetti
è arrivata in una fase a dir poco delicata. Le vicende di cronaca,
ultima della serie quella dello scandalo calcistico, hanno portato
alla ribalta il tema dell'uso, e dell'abuso, delle intercettazioni
telefoniche. E Telecom Italia è stata anche costretta ad affrontare
il contraccolpo causato dalle dimissioni del suo ex responsabile
della sicurezza Giuliano Tavaroli, finito sotto inchiesta a Milano
perché sospettato di aver messo in piedi una sorta di intelligence
parallela approfittando del proprio ruolo. Ma mentre sul fronte
penale continuano le indagini affidate ai pm Fabio Napoleone,
Stefano Civardi e Letizia Mannella, una nuova tegola è piovuta su
Telecom. Già, perché le verifiche interne sollecitate
dall'intervento del garante della Privacy hanno portato a un'altra
scoperta: l'esistenza di sistemi ad hoc per scaricare tabulati di
traffico telefonico a piacimento senza lasciare tracce. Una scoperta
inquietante che, almeno sulla carta, avrebbe potuto legittimare i
peggiori sospetti. A dar conto di questo problema è stata una
relazione preparata dagli uffici sicurezza della telefonia mobile,
da anni affidata all'ex poliziotto Adamo Bove. Nel giro di poche
ore, dai vertici della multinazionale telefonica è arrivato l'ordine
di procedere a una verifica ancora più approfondita. L'indagine è
stata affidata all'auditing interna guidata da Armando Focaroli. Il
rapporto, redatto a tempo di record, è ormai completato.
A questo punto Tronchetti Provera e i suoi più stretti collaboratori
stanno valutando i prossimi passi. È possibile che lo staff legale
del gruppo presenti in Procura a Milano un esposto sull'intera
vicenda. Sull'argomento non si registrano conferme ufficiali, ma il
fatto che non venga escluso il ricorso all'autorità giudiziaria
lascia pensare che l'auditing sia riuscita a individuare le tracce
di possibili abusi nella gestione dei tabulati. Intanto, la
questione è destinata a passare al vaglio anche del comitato di
controllo interno di Telecom, composto, come prescrivono le regole
sulla governance societaria, da quattro amministratori indipendenti:
Guido Ferrarini, che lo presiede, Francesco Denozza, Domenico De
Sole e Marco Onado.
8 giugno
REFERENDUM
SOCIETA' CIVILE RIFLESSIVA
Scrive Curzio Maltese che ....''la società
civile, che pure è scesa in piazza in innumerevoli occasioni per la difesa della
Costituzione, non si è svegliata dal lungo torpore in cui è piombata''.
Non è solo riempiendo le piazze che si muove la società civile, ma anche
riflettendo, facendo convegni, coinvolgendo persone e personalità sui pericoli e
sui guasti che porterebbe questa riforma costituzionale. Ma i media hanno
ritenuto, nell'anno trascorso, di non accorgersi mai dell'impegno continuo e
faticoso che è stato portato avanti. Il Presidente del Comitato Salviamo la
Costituzione, Pres. Oscar Luigi Scalfaro ha partecipato in media a tre convegni
alla settimana in tutta Italia, e mai nessuno ne ha dato notizia. L'impegno si
sta intensificando ora, dopo gli appuntamenti elettorali, ma affermare che la
società civile è piombata in un lungo torpore è falso e ingeneroso.
E' piuttosto la società civile che avrebbe da lamentare il lungo silenzio dei
media sull'argomento, molto complesso e difficile da illustrare.
Certo, convegni e riflessioni approfonditi con costituzionalisti, docenti e
magistrati fanno meno notizia di piazze piene di gente, ma le piazze erano
stanche, dopo cinque anni di mobilitazioni inutili contro muri di indifferenza
da parte di chi aveva a cuore solo interessi particolari, legati da patti
d'acciaio che non si scalfivano neanche dall'interno della coalizione, con un
sistema radiotelevisivo saldamente in mano dell'oligarchia al potere.
No, non è stato un lungo torpore, ma un lungo e quasi catacombale lavoro di
sensibilizzazione delle coscienze, per arrivare a far capire che occorre un
forte e chiaro NO a questa cosidetta riforma.
E poi chi deve aggiornare lo farà: ma tutti insieme e non gli uni contro gli
altri.
IL COMMENTO
Tutti i
complici
di casa nostra
di GIUSEPPE D'AVANZO
DUE FATTI si sovrappongono. 1. L'investigatore del Consiglio
d'Europa, il senatore Dick Marty, include l'Italia tra i sette Paesi
europei che, violando diritti dell'uomo e Costituzioni, hanno
consentito e "appoggiato" i sequestri illegali di cittadini islamici
organizzati dalla Cia nel Vecchio Continente. 2. Le indagini della
procura di Milano sulla "extraordinary rendition" di Abu Omar si
sono ormai lasciate alle spalle il livello intermedio degli agenti
operativi (diretti dal capo del centro Cia di Milano, Robert Seldon
Lady, latitante) e oggi si muovono intorno alle responsabilità (le
decisioni, i contatti politici e istituzionali) del direttore della
Cia in Italia, Jeff Castelli, rientrato a Langley.
L'una e l'altra novità chiamano in causa, come è chiaro da tempo per
Repubblica, le scelte ancillari di politica estera del governo
Berlusconi; l'autorità politica che ha diretto i servizi segreti
(Gianni Letta); la direzione dell'intelligence politico-militare
(ancora in carica); gli organismi di controllo parlamentare (il
Copaco).
Dinanzi a queste responsabilità, che il tempo e le
indagini potranno soltanto definire più nitidamente, c'è il fuggi
fuggi nelle fila del governo uscente. Tutti gli attori si sono
chiamati fuori e se la danno a gambe.
Alfredo Mantica, già sottosegretario agli Esteri, si è preoccupato
di proteggere le spalle a Gianfranco Fini: "È possibile che uno dei
nostri Servizi sapesse, ma non lo avesse comunicato al governo". Più
sbilenco il passo di Nicolò Pollari, direttore del Sismi. Lascia
dire che la Cia gli propose delle "renditions", ma rifiutò di
sostenerle. Anzi, con Gianni Letta, minacciò di dimettersi se
fossero state accettate dal governo. A confermare la sua
opposizione, Pollari chiama a testimone i membri del Comitato di
controllo parlamentare: ne parlai con loro. Mentre fino agli ultimi
giorni di vita il governo Berlusconi ripete di non aver saputo mai
nulla di quei sequestri illegali che hanno violato la sovranità
nazionale, appare sempre più probabile che molti sapessero. Gianni
Letta e Nicolò Pollari, innanzitutto. Poi, anche il Parlamento
attraverso il Copaco, presieduto da Enzo Bianco. Quindi, tutti.
Governo. Intelligence. Maggioranza. Opposizione.
È chiaro, pensano i protagonisti di quella stagione, che qualcosa
occorre fare per trovare un coperchio a una pentola in ebollizione.
Tacere o invitare con qualche pressione al silenzio appare la mossa
opportuna. Così il presidente del Copaco Enzo Bianco diserta "per
motivi di lavoro" la convocazione della commissione d'inchiesta del
Parlamento europeo. Unico caso in Europa. Antonio Martino, prima di
lasciare il ministero della Difesa, lancia il suo "avviso ai
naviganti": "L'ordinamento giuridico punisce i comportamenti tanto
di chi rivela notizie coperte dal segreto, quanto quelli di chi
tenti di procurarsele o se le procuri".
Messaggio triplo. Alla magistratura di Roma, si chiede di
intervenire per porre argine a ogni ricostruzione del caso. Alla
stampa, si annunciano rigori per "procacciamento di notizie coperte
da segreto di Stato". Agli agenti segreti del Sismi si ricorda che,
se aprono bocca con il procuratore di Milano che indaga sul
sequestro di Abu Omar, incorrono nel reato di "rivelazione di
segreti di Stato". Il malaccorto ministro non si accorge di offrire
una notizia: c'è un "segreto di Stato" da tutelare nel "caso Abu
Omar". Quale segreto può essere, se il governo e il Sismi non hanno
mai saputo nulla?
Fin qui i pezzi e le mosse sulla scacchiera, prima dell'arrivo a
Palazzo Chigi del nuovo governo Prodi. Che dovrebbe sciogliere
finalmente il mistero: è stato autorizzato dal governo l'appoggio
alla "extraordinary rendition" di un cittadino egiziano protetto in
Italia dallo status di rifugiato politico e, per di più, fortemente
indiziato di dirigere, nel nostro Paese, un network terroristico? O
il governo non ne ha saputo nulla e si è trattato di un'autonoma
iniziativa del nostro servizio segreto, subalterno alle politiche
dell'intelligence americana? Che cosa ne ha saputo o è stato detto
al Copaco? Il comitato parlamentare è stato ingannato dalle
relazioni di Pollari o ha coperto consapevolmente un'attività non
autorizzata dal governo o dal governo autorizzata illegalmente?
Che siano interrogativi degni di attenzione e di una pubblica
risposta lo si comprende con quanto accade nelle capitali europee.
Rese note le conclusioni dell'inchiesta del Consiglio d'Europa,
Blair, Zapatero, Marcinkiewicz, il commissario Ue per la giustizia e
la sicurezza Franco Frattini hanno tirato su la testa per ammettere,
smentire, prendere tempo, chiedere chiarimenti, arrabbiarsi.
Da Roma soltanto un silenzio rumorosissimo. Non si sa come
definirlo. Disattenzione? Imbarazzo? O assoluta indifferenza? È
comprensibile che il governo, appena insediatosi, sappia poco di
questa storia. Meno comprensibile che ne voglia sapere nulla. Perché
altrimenti non dichiararlo? Poche parole non avrebbero violato il
codice di discrezione che il presidente del Consiglio ha imposto
alla sua "squadra". Qualcosa del tipo: stiamo cercando di capirci
qualcosa; appena ne verremo a capo, andremo in Parlamento a
raccontare come si è formato il processo decisionale che ha
preceduto il sequestro di Abu Omar (ammesso che di processo
decisionale si sia trattato).
In assenza di una presa di posizione rassicurante quanto ovvia, non
possono che farsi strada due pensieri molesti. 1. Il governo di oggi
è stato informato dei fatti dal governo di ieri e non ha nulla da
dire perché approva incondizionatamente le decisioni del gabinetto
uscente. 2. Il governo di oggi sottovaluta pericolosamente le
conseguenze politiche, domestiche e internazionali, delle violazioni
della Cia in Europa e in Italia. Non si sa quale delle due ipotesi
sia la peggiore.
Sans papiers
Il trucco di Sarkozy Invasioni di
campo avverso Permesso di soggiorno agli immigrati che hanno figli a
scuola. A patto che parlino francese anche a casa loro. Così il
ministro sfida a «sinistra» la socialista Royal che sconfina a
destra Anna Maria Merlo Parigi Mentre il
ministro degli interni, Nicolas Sarkozy, di fronte al Senato
prometteva di regolarizzare le famiglie di sans papiers che hanno
figli che vanno a scuola in Francia, a Le Mans la polizia ha inviato
gli agenti in una scuola materna per prendere due bambini di origine
curda la cui madre è sottoposta a una decreto di espulsione. E' la
prova, secondo le associazioni di difesa dei diritti umani e la rete
Education sans frontières,
che la promessa di Sarkozy è solo fumo negli occhi. Una concessione
parziale, che non è altro che un modo per opporsi alla crescita nei
sondaggi della sua rivale potenziale a sinistra per le presidenziali
del 2007, Ségolène Royal, che ha «sfondato» a destra con le sue
proposte sulla sicurezza e contro le 35 ore. Sarkozy cerca, in
questo modo, di sedurre l'elettorato di sinistra. Con un decreto del ministero degli interni del
31 ottobre 2005, l'espulsione di famiglie di sans papiers che hanno
figli che frequentano la scuola dell'obbligo era stata rimandata
alla fine dell'anno scolastico. Ora la data si avvicina, è nata una
rete di solidarietà è nata, federata da Education sans frontières
(che raggruppa più di 400 organizzazioni), ci sono state diverse
manifestazioni e non passa giorno che in una scuola del paese non
vengano affissi manifesti di solidarietà con una famiglia in via di
espulsione. Da aprile circola una petizione che invita alla
disobbedienza civile, ad «opporsi alle espulsioni massicce di
giovani e di famiglie intere». Sarkozy ha capito l'ampiezza della
protesta e sta cercando di attenuarne la portata. Con la decisione di ieri circa 720 famiglie
potrebbero ottenere il permesso di soggiorno. Ma i casi, ha
precisato il ministro, saranno esaminati «uno a uno». Con criteri
discutibili: i bambini devono essere nati in Francia o almeno
esserci arrivati da piccolissimi, devono aver frequentato
regolarmente la scuola (quella dell'obbligo, quindi la decisione
esclude i bambini dell'asilo, che non è obbligatorio), devono essere
«legati alla Francia» e non devono parlare la loro lingua d'origine
a casa. Questi ultimi due criteri sono sorprendenti e lasciano la
porta aperta all'arbitrio delle Prefetture. A beneficiare del
provvedimento saranno non più di 2000-2500 persone, mentre
Education sans frontières parla di «almeno 10 mila giovani» che
potrebbero essere espulsi alla fine dell'anno scolastico. «Prendiamo
gli annunci di Sarkozy con molta circospezione - afferma Richard
Moyon, portavoce della rete - a ragione viste le difficoltà che ci
sono a far rispettare la circolare che chiedeva la sospensione delle
espulsioni delle famiglie durante l'anno scolastico». Il ministero
degli interni ha sottolineato che non si tratta di «creare una nuova
filiera di immigrazione clandestina, con un diritto automatico al
soggiorno, ma di precisare i criteri di regolarizzazione caso per
caso». Le famiglie che non rientrano nei «criteri» riceveranno un
aiuto finanziario al rientro nel paese d'origine. La decisione di
Sarkozy mira a «umanizzare» il clima, mentre il Senato dovrebbe
approvare nei prossimi giorni la nuova legge sull'immigrazione, già
passata all'Assemblea, che istituisce l'«immigrazione scelta e non
subita», con drastiche limitazioni al diritto al ricongiungimento
familiare.
7 giugno
L'emittente
inglese cita un rapporto del Consiglio d'Europa
Anche l'Italia tra i paesi implicati nel trasferimento di
prigionieri
La Bbc: "14
stati europei
collaborarono ai voli Cia"
Prove basate sui piani di volo dei controllori del traffico aereo
LONDRA - Quattordici Stati europei hanno collaborato con gli
Stati Uniti ed effettuato attività segrete implicanti il
trasferimento di prigionieri accusati di terrorismo, mentre l'Europa
dell'Est ospita o ha ospitato due prigioni segrete della Cia: lo ha
affermato ieri la Bbc basandosi su estratti di un rapporto del
Consiglio d'Europa. La Bbc spiega che in questo rapporto elaborato
dal parlamentare svizzero Dick Marty e che sarà reso pubblico oggi,
questi ha concluso che vi sono stati molteplici voli di
trasferimento di prigionieri attraverso tutta l'Europa, definiti una
"ragnatela" tessuta sul continente.
Lo scorso gennaio, gli Usa avevano respinto le conclusioni di Marty
sulle attività segrete in Europa della Cia, accusata di aver creato
un sistema di subappalto della tortura. La Bbc ha affermato che
Spagna, Turchia, Germania e Cipro sono citati nel rapporto in quanto
"postazioni avanzate" per operazioni di trasferimento di
prigionieri, mentre Irlanda, Grecia e Regno Unito hanno servito da
scali per i voli noleggiati dalla Cia. Londra è inoltre accusata di
aver trasmesso informazioni su suoi cittadini o residenti
all'Agenzia di intelligence americana.
Coinvolti nelle operazioni anche altri Paesi, tra cui Italia,
Svezia, Bosnia-Erzegovina e Macedonia.
"E' grazie alla collusione deliberata o improntata a negligenza da
parte dei partner europei - afferma il rapporto - che questa
'ragnatela' ha potuto estendersi sull'Europa".
Sempre secondo la Bbc, Marty accusa Polonia e Romania di aver
ospitato prigioni segrete della Cia. I due Paesi hanno già smentito
con forza l'esistenza di tali carceri sul loro territorio.
L'emittente britannica aggiunge che le prove di Marty sono basate
sui piani di volo dei controllori del traffico aereo europei.
3 giugno
Sì all'inseminazione
in Danimarca
«Figli per single e lesbiche» Dopo un
lungo dibattito, votata dalla sinistra e da una parte del centrodestra la legge
che concede la procreazione assistita gratuita negli ospedali a donne single o
omosessuali. Il paese si conferma così all'avanguardia in Europa per quanto
riguarda i diritti civili Iaia
Vantaggiato Dopo una
settimana di acceso dibattito parlamentare e dopo «soli» nove anni di battaglie
politiche, cade - in Danimarca - l'ultimo tabù. E' stata infatti approvata ieri, dal
parlamento danese, la legge che consente l'inseminazione artificiale gratuita
negli ospedali per le coppie lesbiche e per le donne single. 86 i voti favorevoli, 61 i
contrari e 21 gli astenuti su un totale di 179 seggi. La proposta era già
passata ad un primo esame del parlamento (il Folketing), il 24 maggio scorso,
con un solo voto di maggioranza. Sulla nuova legislazione si spaccano governo, partiti e
società civile anche perché a far pendere l'ago della bilancia nei confronti
della nuova normativa è stata la defezione di una parte consistente del partito
liberale che - in aperto contrasto con il premier di centrodestra Anders Fogh
Rasmussen - ha dato il suo via libera a che i nuovi provvedimenti venissero
adottati. Fra i deputati liberali che hanno votato a favore della nuova legge,
anche il portavoce del partito, Jens Rhode, che ha dichiarato: «Per quanto
volessimo garantire la presenza di un padre e di una madre, non siamo più in
grado di farlo. Sappiamo dell'esistenza di tanti genitori soli, di tante
famiglie separate e non possiamo legiferare al di fuori di queste
problematiche». Proibire a donne single e alle lesbiche di usufruire dell'aiuto
medico - ha aggiunto - sarebbe stato discriminante. Tutto bene non fosse che le
donne single continuano a essere definite - da media e politici, in Italia, in
Europa e nel mondo - «donne sole». Una geografia del voto da far girar la testa anche ai più
consumati politici italiani. Da un lato, per l'appunto, il governo di
centrodestra che - sostenuto da parte dell'opinione pubblica - aveva cercato di
mitigare e di addolcire la proposta dell'opposizione: sì all'inseminazione
artificiale per coppie lesbiche e single ma solo all'interno di strutture
private e a spese delle eventuali richiedenti. Dall'altro
socialdemocratici, socialisti popolari e Lista Unitaria che non si sa in base a
quali ingegnerie e guizzi istituzionali sono riusciti a spostare dalla loro
anche numerosi liberali. Esultante, come è ovvio, la comunità omosessuale danese:
«Dopo nove anni di battaglie siamo felicissimi - ha dichiarato Mikael Boe
Larsen, dirigente dell'Associazione nazionale danese di lesbiche e gay -, la
gente piange di gioia, le lesbiche sono le più contente e hanno ragione: è
passata la loro 'forma' di famiglia». Mesto e abbacchiato è apparso invece
Rasmussen: «Naturalmente ho sostenuto la proposta del governo e mi dispiace che
non sia passata. Ma è importante aver preso una decisione. La questione è stata
discussa per anni e non avremmo guadagnato nulla ad aspettare ancora». Più
battaglieri del premier, i rappresentanti del partito conservatore alleato di
governo «People's party», una formazione anti immigrati che non riesce ad
accettare la sconfitta e che non rinuncia ad affermare con impropria sicumera:
«Ogni bambino ha diritto ad avere un padre». La Danimarca è stato il primo paese al mondo a introdurre -
il primo ottobre del 1989, il matrimonio gay e lesbico da contrarsi regolarmente
in municipio («unione registrata civilmente») e a concedere a tali coppie gli
stessi diritti di cui godono quelle eterosessuali. Un passo importante che -
all'inizio degli anni '90 - aveva spinto le comunità omosessuali a intraprendere
nuove battaglie: l'adozione, il rito matrimoniale in chiesa (al quale, peraltro,
alcuni vescovi sia pur isolati hanno acconsentito) e la fecondazione assistita. E mentre in Danimarca persino la destra si adegua ai
cambiamenti della società civile, l'Italia si spacca su «pregiudiziali etiche»
che nulla hanno a che fare col vero sentire di quella stessa società. Civile,
appunto.
Usa/Messico
Grande fratello ai confini web cam contro i migranti Il
governatore del Texas, Rick Perry, ha dichiarato lo scorso giovedì di voler
permettere la sorveglianza «on-line» dei confini col Messico; l'installazione di
web-cams alla frontiera permetterebbe ai navigatori di internet di controllare i
confini nazionali sorvegliando in tempo reale le barriere e segnalando eventuali
sconfinamenti alle pattuglie statunitensi.Dubbi di carattere giuridico sono
stati avanzati sulla legittimità di un simile progetto, mentre in tutti gli Usa
continua il dibattito sull'inasprimento delle misure contro l'immigrazione
clandestina. Non sarebbero però pochi i sorveglianti «amatoriali» disposti a
difendere i 1.600 km di confine tra Stati uniti e Messico dai disperati che
cercano di varcarli. Il tutto, per una modesta spesa prevista intorno ai 5
milioni di dollari.
Un velo oscuro
sui crimini di guerra italiani in Etiopia Sara
Menafra È
necessario indagare sui crimini dell'Italia nel mondo, ha detto il giurista
Antonio Cassese quando di recente un ricercatore ha scoperto la fossa comune in
cui i fascisti avevano nascosto le vittime di una strage in Etiopia. Peccato
però che, nel momento in cui questo avviene, non tutti siano disposti ad
accettare quanto viene fuori. Soprattutto quando si scopre che i crimini
potevano essere giudicati a tempo debito e che, nel caso dell'Etiopia, non farlo
fu una precisa scelta delle Nazioni Unite. Lo stesso è accaduto con la
commissione parlamentare sui crimini nazifascisti che ha concluso i propri
lavori a febbraio con una relazione «di maggioranza» da cui erano stati
cancellati diversi particolari scomodi scoperti dai consulenti «di minoranza».
Tra le parti omesse, oltre alle responsabilità legate all'occultamento dei
fascicoli sui crimini nazifascisti in Italia, c'erano le prove di come le
Nazioni Unite, a guerra finita, decisero di evitare che uomini di spicco
dell'Italia fascista e postfascista fossero processati per i crimini commessi
durante il conflitto. «La documentazione contenuta nell'archivio delle Nazioni
Unite a Londra - spiega lo storico Paolo Pezzino, uno dei consulenti della
commissione - dimostra come l'Etiopia abbia chiesto sin dal 1943 che l'Italia
fosse processata. Durante la discussione si formò un fronte internazionale
deciso a salvare l'Italia da questi processi, chiesti anche da Francia,
Jugoslavia e Grecia, almeno fino alla conclusione del trattato di pace con gli
alleati». Per giustificare la scelta, la
Commissione delle Nazioni Unite per i crimini di guerra sostenne che la sua
attenzione si sarebbe dedicata solo ai crimini commessi durante la seconda
guerra mondiale. L'obiezione era pretestuosa, e il trattato di pace del 1947 tra
Italia ed Etiopia riconobbe l'ininterrotto stato di belligeranza fra i due paesi,
dall'invasione fascista (3 ottobre 1935) alla firma dell'armistizio (10 febbraio
1947). Passata la prima votazione e il trattato con gli alleati, l'Etiopia tornò
a reclamare i suoi diritti e nel 1948, poco prima della fine dei lavori, la
Commissione cambiò posizione. Nella riunione del 4 marzo 1948 riconobbe la
fondatezza delle accuse presentate dagli etiopi e iscrisse dieci italiani nelle
liste dei criminali di guerra: otto come responsabili diretti, due come
testimoni. Fra gli incriminati figuravano il comandante in capo delle truppe
italiane, maresciallo Pietro Badoglio, il governatore generale e viceré d'Etiopia,
maresciallo Rodolfo Graziani; il segretario di stato per le colonie Alessandro
Lessona; il segretario del partito fascista ad Addis Abeba, Guido Cortese; alti
generali come Guglielmo Nasi, Alessandro Pirzio Biroli, Carlo Geloso. Accuse
forti ma formali, perché di lì a pochi giorni la commissione si sciolse: «Il
quadro era cambiato - aggiunge Pezzino - e la Gran Bretagna era interessata ad
avere buoni rapporti con le ex colonie. Per questo, avendo la certezza che le
accuse non avrebbero avuto seguito, decise di votare contro l'Italia e a favore
dell'Etiopia». A lavori conclusi, il governo etiope preparò un
aide-mémoire per chiedere all'Italia la consegna di Badoglio e Graziani
sulla base dell'articolo 45 del trattato di pace, affinché fossero processati da
un tribunale internazionale con una maggioranza di giudici non etiopi e secondo
i principi del tribunale di Norimberga. Ma Tommaso Gallarati Scotti,
ambasciatore italiano a Londra contattato informalmente dal rappresentante
diplomatico dell'Etiopia, rifiutò di consegnare il documento a Roma. Le
accuse, conclude la relazione oscurata, finirono nel memorandum Documents on Italian War Crimes
submitted to the United Nations War Crimes Commission:
«Era un ultimo atto di accusa. Addis Abeba, però, non sollevò più la questione
della consegna di Badoglio e di Graziani. Il Foreign Office, interpellato dalle
autorità etiopi, aveva fatto sapere di giudicare il passo dell'ambasciatore
etiope a Londra "estremamente inopportuno" e aveva sconsigliato l'Etiopia dal
ripetere simili iniziative.
Silenzio sul delitto
commesso
dagli americani a Samarra
Se la donna incinta
è irachena Piero
Sansonetti
La “France Press” (principale agenzia di stampa francese) è chiarissima nel suo
racconto. Nabiha Mohammed Jassim aveva 35 anni, era in automobile con sua cugina
Saliha Hammad Hassan, e col fratello di lei, del quale non si conosce il nome;
alla guida dell’auto c’era il fratello, e correva, suonando il clacson. Era
diretto all’ospedale centrale di Samarra. Nabiha era adagiata sul sedile
posteriore, aveva le doglie, si erano rotte le acque, doveva partorire da un
momento all’altro. Sembra che per un errore l’automobile abbia imboccato una
strada sbarrata, proibita. Una strada riservata all’esercito americano. I
soldati hanno visto la macchina, che non era autorizzata, e hanno deciso di
fermarla nel modo più spiccio: sparando. Pare che un tiratore scelto fosse
appostato su un tetto e abbia preso la mira. Il fratello di Nabiha è stato
colpito solo di striscio, se l’è cavata. Nabiha e sua cugina Saliha sono state
fulminate dalle pallottole. Anche il bambino, che avrebbe dovuto nascere nella
notte di mercoledì, non nascerà, un proiettile lo ha trapassato, un proiettile
letale.
Gli americani, in
un comunicato ufficiale, si sono detti dispiaciuti per il piccolo massacro.
«Questi incidenti - c’è scritto nel comunicato - quando portano alla perdita di
vite innocenti sono davvero disdicevoli, e l’esercito americano fa grandi sforzi
per cercare di evitarli». Nella nota del comando statunitense c’è anche scritto
che c’erano molti segnali, però, e chiari, e grandi, evidenti, e questi segnali
dicevano in modo inequivocabile che quella strada non doveva essere percorsa da
un’auto di civili.
I militari americani non sanno spiegarsi come mai le due donne e
il fratello di Nabiha non abbiamo visto quei cartelli.
Chissà perché
questa storia non è stata raccontata ieri dai giornali italiani. Non ho mai
capito bene cosa dicano, al proposito, i manuali di giornalismo, però a me
sembra che se dei soldati americani sparano a freddo, e uccidono, una donna
incinta al nono mese e sua cugina, la notizia c’è (i manuali dicono sempre di
quella storia che se un cane morde l’uomo non è notizia e se l’uomo morde il
cane lo è; ma di come vada valutata l’uccisione di un’irachena da parte di un
americano non se ne sa niente...)
Vi
ricordate, appena un paio di settimane fa, quella polemica furiosa accesa da un
direttore di giornale che aveva deciso di pubblicare in prima pagina l’immagine
del feto (vestito con un trucco del computer, in modo da sembrare un bambino già
nato) che aveva perso la vita insieme alla madre vittima del delitto di un
pazzo, in Veneto? Stavolta niente, né idee scandalose (e piuttosto sciocche,
come quelle della foto) e neppure un titoletto in prima pagina, o magari anche
in una pagina interna. La donna era irachena, e anche il feto - o il bambino
nascente - non aveva niente a che fare con la civiltà occidentale.
Eppure questa
storia di Nabiha ci illustra in modo chiarissimo come ormai occupazione militare
americana sia sfuggita al controllo degli stessi comandi. Avete visto, a suo
tempo, quel film bellissimo, con Marlon Brando, fine anni ’70, che si chiamava
“Apocalypse Now”? Vi ricordate come descriveva bene lo stato mentale delle
truppe occupanti (era la guerra del Vietnam), che non avevano più la capacità né
di governare se stesse, né di controllare la situazione, né di immaginare cose
da fare e da non fare, ma capaci solo di sparare, comunque, ossessionati dalla
paura e dalla assenza di idee e di prospettive? Beh, l’Iraq,
sotto questo punto di vista, è identico al Vietnam. Il disegno politico generale
degli americani è chiaro, ed è un disegno fondamentalmente di dominio - politico
e militare - che sostituisce con la potenza delle armi ogni altro pensiero e
progetto politico, o economico, e sostituisce persino la stessa idea di
globalizzazione. Ma dentro questo progetto di dominio non c’è più nulla di
concreto e di ragionevole. Per questo - per la contraddizione stridente fra
obiettivo e situazione reale - si produce in modo ormai vastissimo e
generalizzato il fenomeno della violenza pura, dell’uso vile e feroce della
forza, della strage, della tortura o - nel migliore dei casi - degli spari nel
mucchio. Questo livello di inciviltà al quale è arrivata l’occupazione guidata
dagli americani è il problema che non si può più nascondere.
L'allarme contenuto nel rapporto
Legambiente-Corpo forestale che presenta dati inediti sullo stato di
salute dei corsi d'acqua
Malato il
21% dei fiumi italiani
Tevere,
Reno e Arno i peggiori
Organizzazioni criminali li attaccano
con ogni tipo di illegalità
Dalla pesca di frodo,
all'inquinamento, ai furti di ghiaia
ROMA - I fiumi italiani sono malati.
Soprattutto quelli più lunghi, e il Tevere sta peggio degli altri.
Lazio, Sardegna e Sicilia sul podio delle acque dolci più inquinate.
Il quadro generale sullo stato di salute dei corsi d'acqua delineato
dal rapporto Legambiente - Corpo forestale dello Stato, presentato
oggi a Roma, non è confortante. Nelle mani della criminalità
fluviale, abbandonati a se stessi e terra di nessuno per anni, oltre
il 20 per cento dei corsi d'acqua risulta sotto la soglia di
sopravvivenza.
Questo l'allarme contenuto dal dossier "Fiumi informa" che contiene
dati inediti sullo stato di salute dei fiumi made in Italy. Sono
stati 117.000 i controlli effettuati dai forestali e quasi 68.000 su
persone; identificati e denunciati più di 700 "criminali fluviali",
7 gli arresti. Quasi un milione e 400 mila euro notificati per
illeciti amministrativi lungo i fiumi e i laghi, con più di 4.000
multe effettuate dal Corpo forestale dello Stato nelle acque interne
dal 2003 al 2005.
Sui nostri fiumi vengono commessi ogni giorno quattro illeciti, per
un totale di 5.000 reati dal 2003 al 2005 di cui oltre quattromila
amministrativi e quasi mille penali, con Lazio, Abruzzo e Toscana
sul podio dell'illegalità. In sofferenza Reno, Arno e Simeto, ma la
situazione più grave riguarda il Tevere. Pesca illegale, sversamento
di sostanze inquinanti, mancata depurazione, furto di ghiaia e
inerti dagli alvei, abusivismo edilizio lungo le sponde alcuni dei
principali nemici degli ecosistemi fluviali.
Dal dossier risulta che il 21 per cento dei fiumi nazionali risulta
malato. Nel Lazio la situazione più pesante, con il 48 per cento
nettamente in sofferenza. Seguono Sardegna e Sicilia (male il 41 per
cento) ed Emilia Romagna (37 per cento). Tra i 20 più grandi fiumi
che attraversano l'Italia per quasi 5.000 chilometri, bollino rosso
al Simeto in Sicilia, con solo il 20 per cento delle acque
qualitativamente positiva, al Reno che attraversa Toscana ed Emilia
(66 per cento negativo) e dell'Arno (44 per cento). Grave anche la
situazione in cui versa il Tevere con un terzo delle stazioni di
monitoraggio che segnalano una qualità delle acque che non raggiunge
la sufficienza.
Tra quelli che si salvano, Ticino, Piave, Isonzo, Brenta e Chiese il
cui stato appare mediamente "buono" o, almeno, sufficiente.
Una situazione che può avere serie ripercussioni sulla salute umana
e sull'economia zootecnica su cui molte comunità vivono, come è
emblematicamente e drammaticamente accaduto nel Lazio sul fiume
Sacco. A questo si aggiunge il comportamento incivile di troppi
cittadini che trasformano i preziosi corsi d'acqua in vere e proprie
pattumiere.
E così per attirare la massima attenzione, oggi da Roma sulle sponde
del Tevere parte la tre giorni di "Fiumi Informa", la campagna
nazionale di Legambiente e Corpo forestale dello Stato contro
l'illegalità sui fiumi. La grande festa dei fiumi continua sino a
sabato 3 giugno lungo 30 aste fluviali dal sud al nord del Paese.
Dal Po al Piave, dal Sacco al Garigliano, dall'Arno al Chienti sino
al Neto e al Basento, saranno organizzate visite a piedi, in
bicicletta, a cavallo e in canoa per riscoprire i fiumi.
1 giugno
Cgil, la sinfonia dei 100 anni P. A. Le note e il timbro della sinfonia
passano dai toni da socialismo sovietico a quelli dell'Intenazionale, fino
al jazz, quando sono stati evocati i morti di Chicago, i primi del Primo
maggio. Cento anni di storia raccontati con la musica e con le parole in un
fitto intrecciarsi di suggestioni, quasi di echi di un passato che sembra
lontano, ma è ancora quasi un presente. «In fondo - dice Vincenzo Cerami,
autore del testo - che cosa sono cento anni nella storia dell'umanità? La
Cgil è giovane e siccome è la cartina al tornasole della democrazia, noi gli
facciamo grandi auguri».
La sinfonia per il Centenario della Cgil, scritta da Nicola Piovani, è stata
eseguita domenica sera a Roma, nella sala grande Santa Cecilia
dell'Auditorium della musica. Rulli di tamburi e suoni che si sono mescolati
alle splendide voci soliste, due maschili (Pino Ingrosso e Alessandro
Quarta) e due femminili (Raffaella Siniscalchi e Gabriella Zanchi) e alla
voce ferma e perfino quasi commossa di un ispirato Gigi Proietti. Era il
primo ottobre 1906. Quel giorno nacque la Cgil. E' stata la frase finale,
prima del grande applauso di una sala stracolma che ha richiamato sul palco
i musicisti e i cantanti per parecchie volte, fino a convincere il maestro
Piovani a concedere un piccolo gradito bis.
Piovani si è sequestrato per quattro mesi per scrivere questa sinfonia
commissionata dalla Cgil, mentre Cerami ha scritto il testo senza tenere
conto di steccati o obblighi di cronologia. Si è inventato piuttosto una
sorta di volo sul mondo degli ultimi cento anni, per rivedere le peggiori
forme di schiavitù, di violenza e di rivincita del movimento dei lavoratori.
Testo e note di Piovani hanno lanciato anche più lontano le lianei della
storia, fino a ricorrere all'Ecclesiaste da cui è stato preso il filo
conduttore: meglio essere in due che soli, meglio essere in mille che in
due. Il valore della solidarietà, del compagno pronto a darti un aiuto
quando cadi. Una musica da sinfonia classica, un testo postmoderno, così
Proietti è diventato quasi il replicante di Blade Runner che ha visto la
storia del mondo passare davanti ai suoi occhi.
Nella sinfonia c'è anche l'eclisse del fascismo e c'è il ricordo della
storia di milioni di individui singoli che si sono messi insieme per essere
più forti. Non è questa, forse, la storia del movimento operaio?
Farmaci Cartello per dividersi il mercato L'Antitrust
multa nove società L'Antitrust ha sanzionato per 3,7
milioni 9 imprese che operano nel mercato della fornitura di prodotti
antisettici e disinfettanti alle strutture sanitarie pubbliche.
L'istruttoria era stata avviata sulla base di una segnalazione della Guardia
di Finanza. Il Garante ha specificato di aver «accertato l'esistenza di
un'intesa, posta in essere tra il 1998 e il 2001, volta a ripartire il
mercato italiano della fornitura di prodotti antisettici e disinfettanti
alle strutture sanitarie pubbliche». Le società sanzionate sono Farmecl,
Nuova Farmec, AstraZeneca, Braun, Esoform, Ims, P Farmaceutici, Meda Pharma,
Sanitas.
Guantanamo
No al cibo per 75 Il numero dei detenuti che sono scesi in sciopero della fame
nel campo di Guantanamo è cresciuto ed ora coinvolge almeno 75 carcerati. Lo
ha riferito il comandante della marina militare statunitense Robert Durant.
Durant ha spiegato che il nuovo sciopero della fame può essere collegato ai
disordini scoppiati il 18 maggio nel campo di prigionia. Circa 460
prigionieri sono ancora a Guantanamo, molti dei quali catturati in
Afghanistan e detenuti da quasi 4 anni senza formale incriminazione da parte
delle autorità giudiziarie.
Usa, missili no-nuke che colpiscono in un'ora
Global strike, tutti nel mirino Manlio Dinucci «Non più di un'ora»: questo il tempo che occorrerà agli
Stati uniti per colpire qualsiasi obiettivo sulla faccia della terra. Lo ha
annunciato ieri il gen. James Cartwright, capo del Comando strategico (Stratcom),
precisando che nei 60 minuti è «compreso il tempo necessario ad avere
l'autorizzazione del presidente per l'attacco» (The New York Times,
29 maggio).
A colpire l'obiettivo sarà una testata convenzionale (non-nucleare),
trasportata però da un missile balistico Trident II D-5 da attacco nucleare.
Il piano presentato dallo Stratcom prevede che, in ciascuno dei 18
sottomarini Trident, due dei 24 tubi di lancio saranno destinati a questi
missili, ciascuno armato di 4 testate convenzionali indipendenti in grado di
colpire altrettanti obiettivi. Negli altri 22 tubi di lancio ci saranno i
«normali» missili, ciascuno armato di almeno 5 testate nucleari
indipendenti. Sono già pronte varie testate convenzionali per i Trident II
D-5: una sparge su una vasta area freccette di tungsteno in grado di
distruggere veicoli e penetrare all'interno di case e rifugi.
In tal modo, ha spiegato il gen. Cartwright, gli Stati uniti potranno
attaccare anche in regioni dove non hanno abbastanza basi e forze e
occorrono quindi giorni per trasferirvi aerei e navi. E lo potranno fare in
tempi rapidissimi, mentre occorrono molte ore perché un bombardiere,
partendo dagli Stati uniti, possa effettuare la missione. I missili
balistici a testate convenzionali, spiegano al Pentagono, potranno essere
usati per «attaccare campi di terroristi, siti missilistici nemici, sospetti
nascondigli di armi biologiche, chimiche o nucleari e altre potenziali fonti
di immediata minaccia».
Una volta individuato l'obiettivo attraverso immagini satellitari o
informatori in loco, il Centcom chiederà l'autorizzazione del presidente che
dovrà decidere in meno di mezzora. Darà quindi ordine al più vicino
sottomarino di lanciare i missili. Le testate, una volta rilasciate fuori
dell'atmosfera, vi rientreranno a una velocità di 28mila km/h colpendo gli
obiettivi a oltre 7mila km di distanza in un tempo massimo di 30 minuti dal
lancio. Data la loro enorme velocità, potranno distruggere gli obiettivi
anche con il semplice impatto cinetico. Il Centcom potrà così agire
fulmineamente, mettendo in pratica la strategia del «Global Strike», ossia
dell'Attacco globale. Non a caso il suo emblema raffigura la mano corazzata
di un guerriero che, dallo spazio sullo sfondo della terra, impugna tre
fulmini, «simboli di velocità e letalità», e un ramoscello d'olivo per
«ricordare che la missione del comando è assicurare la pace».
Ma come potranno Russia, Cina e altri paesi tenuti sotto mira dai missili
nucleari statunitensi capire quale tipo di testata avranno i missili Trident
lanciati dai sottomarini? Nessuna tecnologia permette di farlo. Vi è quindi,
secondo diversi esperti intervistati dal New York Times, «il rischio
di un confronto nucleare accidentale». Lo stesso Putin, nel suo indirizzo
alla nazione l'11 maggio, ha avvertito che «il lancio di un missile di
questo tipo potrebbe provocare una inappropriata risposta da parte di una
delle potenze nucleari, un contrattacco con forze nucleari strategiche».
Negli Stati uniti occorre quindi il nullaosta del Congresso perché il
programma sia reso operativo. E il Pentagono, che ha messo a punto ogni
dettaglio, sta premendo fortemente in tal senso.
Per evitare pericolosi equivoci, ha detto il gen. Cartwright, Russia, Cina e
altri paesi potrebbero essere «informati quando gli Stati uniti lanciano un
missile Trident II a testate convenzionali». Le rassicurazioni però non
bastano: a Mosca e Pechino sanno bene che i missili balistici a lungo raggio
non sono mai stati usati finora in un'azione bellica e che il loro impiego,
anche con testate convenzionali, servirebbe a testarli in condizioni reali
così da migliorarne le prestazioni per un attacco nucleare. Come ha
precisato il gen. Cartwright, dopo un volo di migliaia di miglia le testate
dei missili possono colpire in un raggio di 5 iarde, 4 metri e mezzo,
dall'obiettivo. Precisione anche eccessiva, se le freccette al tungsteno
possono seminare la morte in una raggio di centinaia di metri e una testata
nucleare in un raggio di decine di chilometri.