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agosto 2006

31 agosto
I risultati
di una ricerca dell'ateneo di Shanghai premiano gli istituti
americani
Indietro quelli italiani: il migliore è La Sapienza di Roma,
centesima
Dalla Cina i
voti alle università
Vince Harvard, Italia rimandata
Una veduta
dell'università "La Sapienza" di Roma
ROMA -
Harvard, Cambridge e Stanford. E poi via via tutte le principali
università statunitensi e i più noti istituti europei. Nelle
parti alte della graduatoria dei 500 migliori atenei mondiali,
stilata dall'università Jiao Tong di Shanghai, mancano però
quelli italiani. Il primo, in centesima posizione, è La Sapienza
di Roma.
La classifica, pubblicata ogni anno, è basata in particolare
sull'importanza della ricerca scientifica svolta presso le
università considerate. I fattori determinanti sono la qualità
dell'educazione fornita, quella del corpo docente, la
produttività di docenti e ricercatori e l'efficienza.
In base a questi parametri, gli atenei americani non temono
confronti. Al primo posto c'è, ormai da alcuni anni, Harvard.
Alle sue spalle si trovano l'inglese Cambridge e l'americana
Stanford. Ma, con l'esclusione di Cambridge, Oxford (decima) e
dell'università di Tokio (diciannovesima), nelle prime 20
posizioni ci sono solamente istituti con sede negli Stati Uniti.
Nell'Europa continentale, si difendono bene la Svizzera con lo
Swiss Fed Institute of Technology di Zurigo (ventisettesimo),
l'Olanda con l'università di Utrecht (quarantesima), la Francia
con la Paris VI (quarantacinquesima), la Svezia con il
Karolinska Institut di Stoccolma (quarantottesimo) e la
Germania, con la Statale di Monaco di Baviera (cinquantunesima).
Per trovare un
ateneo italiano, bisogna scendere fino alla centesima posizione,
occupata dalla Sapienza di Roma. L'ateneo della capitale perde
tre posizioni rispetto al 2005 ed è trentaquattresimo in Europa.
Ancora più indietro, nell'ordine, la Statale di Milano e le
università di Pisa, Firenze, Padova, Torino e Bologna.
Comunque soddisfatto del risultato Renato Guarini, il rettore
della Sapienza. "Con questo riconoscimento - dice - viene
affermata la realtà della nostra università, in particolar modo
il coordinamento tra ricerca e didattica. Una sinergia che
riusciamo a realizzare nonostante le difficoltà finanziarie e
superando la poca attenzione da parte del mondo della politica.
Tuttavia ritengo necessario rivolgere una riflessione critica
nei confronti di tutto il sistema della ricerca in Italia, che
si rivela debole su scala internazionale ed eccessivamente
frammentato".
Immigrazione
Decreto flussi lumaca. In campo i patronati
Cinzia Gubbini
Roma
Nessuna risposta. Per chi ha
partecipato all'ultimo decreto flussi che apriva le porte a 170 mila
lavoratori immigrati ancora tutto tace. La realtà che vivono migliaia di
famiglie, imprese grandi e piccole, è emersa con la drammatica storia di
Iris Palacios Cruz, la baby sitter dell'Honduras che è morta
all'Argentario per salvare la bambina di cui si prendeva cura. La
famiglia per la quale lavorava è stata denunciata, visto che impiegava
un'immigrata clandestina. Eppure i suoi datori di lavoro avevano tentato
di farle ottenere un permesso di soggiorno, partecipando a marzo alla
corsa del decreto flussi: ore di fila - in genere sopportata proprio dai
lavoratori immigrati, la maggior parte già presenti in Italia - per
consegnare alle Poste il mitico kit. Ritardi nell'arrivo
dell'autorizzazione ce ne sono sempre stati, ma quest'anno le cose vanno
peggio del previsto: dopo sei mesi ancora nessuno ha ottenuto risposta.
Solo negli ultimi giorni qualche chiamata stia arrivando nella provincia
di Roma. Di chi è la colpa?
Certamente qualcosa non ha funzionato con le Poste, che hanno ottenuto
l'appalto per gestire la raccolta delle domande, dopo la sperimentazione
che ha visto gli uffici postali protagonisti della grande
regolarizzazione del 2002. Già allora si verificarono problemi, ma il
tempo e l'esperienza non hanno migliorato la performance
dell'ente. «Il fatto è che abbiamo ricevuto moltissime domande, non ce
le aspettavamo. Ma ormai abbiamo inviato i dati a tutti gli sportelli
unici provinciali», fanno sapere alle Poste, declinando qualsiasi
responsabilità. Le domande sono state certamente una valanga: 51 mila a
Roma, 38 mila a Milano, 22 mila a Torino, 20 mila a Brescia, per restare
alle province in cima alla lista. Ma da più parti arrivano voci sul
malfunzionamento del lettore ottico delle Poste, che avrebbe dovuto
velocizzare l'incanalamento dei dati: pare che non funzioni granché, e
che soprattutto sia piuttosto inaffidabile perché quando incontra dati
che non riesce a decifrare - ad esempio nomi e cognomi complicati - dà
campo bianco, come se la pratica fosse stata compilata male. E per ora
gli sportelli unici lavorano soltanto per soddisfare le prime 170 mila
richieste. Il bello arriverà quando, a settembre, sarà perfezionato
l'atteso decreto che permette di allargare il decreto flussi di quest'anno
alle restanti 360 mila domande.
Ma nell'emergenza si apre anche una grande partita: il flop delle Poste
sembra aver accelerato il progetto di spostare le competenze
dell'ingresso degli immigrati (compresi i rinnovi dei permessi) agli
enti locali. La linea del precedente governo, invece, era mettere tutto
definitivamente nelle mani delle Poste. D'accordo con il nuovo esecutivo
sono i sindacati e i patronati che ora hanno una carta in più da
giocare. Con una lettera il ministero della Solidarietà sociale ha
chiesto infatti ai patronati di aiutare a smaltire le pratiche che si
sono accumulate. «Noi siamo pronti a metterci a disposizione - dichiara
Piero Soldini, responsabile immigrazione della Cgil - ma una cosa deve
essere chiara: vogliamo lavorare per un progetto che condividiamo. E da
sempre sosteniamo che al competenza dei permessi di soggiorno deve
essere dei Comuni». C'è anche un'altra condizione che la Cgil pone:
«Chiediamo che sia rivista la decisione di fissare la data dello scorso
21 luglio come limite per le domande di ingresso valide. Il decreto
flussi vale per tutto l'anno solare, e non condividiamo la
preoccupazione del governo secondo cui senza quella data si sarebbe dato
adito a un effetto-annuncio per gli immigrati che entrano
clandestinamente». Anche perché, osserva il sindacalista: «La psicosi
clandestini, con le connesse tragedie nel canale di Sicilia, non
permette di vedere qual è la realtà: a Lampedusa arrivano poche migliaia
di immigrati, mentre in Italia abbiamo più di 500 mila irregolari
prigionieri della burocrazia». Una contraddizione stringente che, per
essere risolta, necessita della solita parolina magica: risorse.
Intervista
«Io, Sara, cestinata da Atesia e 1288»
Niente rinnovo dopo ben sette anni al call center
del Gruppo Cos. L'ultima campagna per il numero utile dei pupazzi rossi.
Una roulette del destino che accomuna migliaia di operatori Un mese mi
hanno assegnato una campagna con poche telefonate: la busta paga era
sotto 1 euro. Rido o piango?
Antonio Sciotto
Roma
Come da sette anni a questa
parte, anche ieri Sara è scesa all'«ufficio nuovi contratti» Atesia, per
ritirare il suo rinnovo. L'ufficio dei destini non si trova al piano
delle postazioni, ma qualche scala sotto, nella pancia del grande call
center di fronte agli studi cinematografici di Fellini, Roma Cinecittà.
Lì dentro ci sono almeno dieci, forse anche quindicimila nomi di
lavoratori passati in questi anni a conoscere «che ne sarà di loro»,
alcuni hanno avuto la fortuna di essere confermati, altri sono stati
semplicemente «cassati». Senza preavviso. Ogni mese, ogni due, ogni tre
o sei, la durata è variabile, ma alla fine c'è sempre la gogna del
rinnovo: sì o no. Ieri, per Sara (il nome è di fantasia) è stato un no.
Lavorava da ben sette anni in Atesia, l'ultima campagna affidatale era
quella del 1288, il numero dei «Pelotti», i pupazzoni rossi che in uno
spot pubblicitario si permettono di scherzare con un operatore: tutti
sorridenti, ovvio. Alla televisione i lavoratori dei call center sono
sempre felici.
Ma lei, Sara, ha 33 anni, e da quando ne aveva 26 soffre l'ansia del
rinnovo, ha buste paga elastiche - una media di 400 euro al mese -
contributi all'osso e adesso ha anche ottenuto il benservito. Sette anni
finiti nel cestino, senza preavviso né liquidazione, senza che il capo
finga neppure di dirti: «Mi dispiace, ti dobbiamo licenziare». L'abbiamo
intervistata pochi minuti dopo che aveva appreso di essere stata «non
rinnovata»: usciva dal palazzone a vetri di Atesia, mentre davanti al
call center i lavoratori tenevano un'assemblea-conferenza stampa sul
caso delle ispezioni.
Come hai saputo del licenziamento? Te lo hanno comunicato?
No, l'azienda non ti dice nulla. Ogni volta che scade il
contratto devi scendere all'«ufficio rinnovi», e lì cercare il tuo nome
su due elenchi. Se sei fortunata sei tra i «confermati». Altrimenti
trovi il tuo nome nell'altra lista, tra quelli che non avranno un nuovo
contratto.
Hanno motivato il «non rinnovo» dopo ben sette anni?
Sono andata a chiedere una spiegazione dal mio project
leader, e mi ha risposto che la campagna a cui ero addetta, quella
del 1288, non riceveva più telefonate sufficienti a giustificare la mia
presenza nel call center. Ma io ho lavorato tutto agosto, e il telefono
squillava: chiedevano persino ad alcuni operatori di estendere il loro
turno, cioè venire a rispondere anche nel giorno di riposo. Io credo che
non mi abbiano rinnovata per un altro motivo: da ottobre avrei compiuto
7 anni esatti dal primo contratto, e secondo l'ultimo accordo sindacale
quelli con la mia anzianità avrebbero dovuto essere assunti a tempo
indeterminato. Ecco, si sono voluti liberare di me.
Dunque in questi anni hai sempre lavorato. Ogni quanto venivi
«rinnovata»?
Non c'è un periodo fisso: all'inizio facevano contratti di un
solo mese, poi si è passati a quelli di due e tre. Ultimamente ne
stipulavano di sei mesi, io il più recente lo avevo firmato in febbraio.
All'inizio ci facevano persino pagare l'affitto per la postazione,
quando eravamo partite Iva. Successivamente sono arrivati i contratti
cococò e quelli a progetto.
Al mese quanto guadagnavi?
La busta paga èassolutamente variabile, sono stata addetta a
molte campagne. In genere riesco a fare 400, massimo 500 euro. L'estate
scorsa mi avevano assegnato una campagna per cui arrivavano pochissime
telefonate al giorno, per cui non valeva la pena venire. Lo trovavo
veramente offensivo per la mia dignità, e a un certo punto ho deciso di
non venire più. Un mese ho preso anche una busta paga con il compenso
netto sotto un euro. Non so se ridere o piangere.
Hai fatto altri lavori? Come riesci a vivere con 400 euro al
mese?
Un anno facevo la mattina in Atesia e il pomeriggio in un call
center all'Eur, distante da qui. Lì lavoravo su campagne di Autostrade
per l'Italia e dell'Istituto dermatologico dell'Immacolata di Roma. L'ho
lasciato, ho preferito conservare il contratto in Atesia, ma
evidentemente ho fatto male a fidarmi. Devo ancora vivere con i miei, a
33 anni non ho davvero scelta. Adesso, dopo sette anni di lavoro mi
hanno cestinata come una scarpa vecchia. Ma io a questo punto faccio
causa.
29 agosto
Allarme dalla Columbia
University: un nuovo studio dimostra lo stretto collegamento fra l'uso di
farmaci antidepressivi sui minori ed i suicidi infantili.
Comunicato stampa di "Giù le Mani dai Bambini"®
-
www.giulemanidaibambini.org
I risultati di un nuovo
studio del dott. Mark Olfson (Collegio di Medicina della Columbia
University e New York State Psychiatric Institute) rafforzano le
evidenze del rapporto fra tentati - e riusciti - suicidi di bambini e
adolescenti ed il loro trattamento con antidepressivi.
Il Dott. Mark Olfson,
con il suo team, ha predisposto uno studio "case control", ovvero
utilizzando i dati certificati dai centri di servizio medico, al fine di
valutare il rischio di suicidi tra i giovani pazienti che hanno seguito una
"procedura di scarico" (terapia di uscita) dopo l'ospedalizzazione per
depressione. Lo studio ha utilizzato come criterio quello di misurare quei
casi di tentato e riuscito suicidio che hanno precedentemente ricevuto o
meno trattamenti antidepressivi di tipo farmacologico, unitamente ad una
comparazione fra i vari livelli di gravità della malattia, al fine di tener
conto anche di quella variabile.
Tutti i casi di tentato
e riuscito suicidio sono stati catalogati sulla base molteplici criteri di
controllo: età, sesso, razza, residenza, data di uscita dall'ospedale,
sostanze usate, eventuali precedenti tentativi di suicidio, e recenti
trattamenti con farmaci psicotropi o antidepressivi. Il risultato dello
studio ha evidenziato che nel periodo di tempo esaminato 263
(duecentosessantatre) tra bambini ed adolescenti hanno tentato il suicidio,
e che esso è riuscito in 8 (otto) casi.
Lo studio ha confermato
come bambini ed adolescenti che avevano usato antidepressivi sono
significativamente più soggetti a tentativi di suicidio di quelli che non ne
hanno usati.
Il rapporto sfavorevole è poi schiacciante se si esaminano solo i casi di
suicidi riusciti, anche se il dott. Olfson avverte che occorrerebbe un
ulteriore approfondimento statistico. «E' ora importante eseguire studi
ambientali per esaminare le risultanze a lungo termine di questi fattori,
incluse le relazioni temporali fra l'uso di antidepressivi ed i tentati
suicidi per ogni paziente. Questi primi risultati tuttavia - dichiara
Olfson - ci suggeriscono l'utilità di maggiori precauzioni e monitoraggi
durante l'uso di tali sostanze su minori seriamente depressi».
Luca Poma,
Portavoce nazionale di "Giù le Mani dai Bambini"® - prima campagna di
farmacovigilanza in Italia - ha dichiarato: «questo studio, di una
clinica universitaria autorevole come quella della Columbia University, non
fa che confermare i ‘warning’ lanciati in Italia dal ns. ente. I produttori
condizionano quotidianamente la ricerca, pubblicando solo gli studi
favorevoli al profilo commerciale degli psicofarmaci, studi finanziati da
loro: ogni qual volta la ricerca universitaria davvero indipendente si
attiva, vengono evidenziati chissà perchè risultati esattamente opposti.
L'utilizzo disinvolto di questi farmaci psicoattivi su bambini ed
adolescenti è assolutamente da censurare: chi non lo fa e tace davanti a
queste evidenze scientifiche si assumerà la responsabilità di questi suicidi
e di ogni altro eventuale danno cagionato ai bambini italiani».
Corsa alla pensione
di Maurizio Maggi
e Marco Ratti
Nel 2006 le domande per l'assegno di anzianità stanno raddoppiando.
Statali e lavoratori privati si preparano alla fuga
Lascia o raddoppia, come ai tempi di Mike Bongiorno? No, stavolta è
'lascia e raddoppia'. Già, perché secondo le proiezioni dell'Inpdap,
l'istituto previdenziale che eroga le pensioni del pubblico impiego,
nel corso del 2006 si ritirerà in pensione anticipata il doppio dei
lavoratori dello Stato e degli enti locali rispetto all'anno scorso.
Per la precisione, i dati, rivelati alla vigilia di Ferragosto dal
'Il Sole 24 ore', dicono che le richieste di nuove pensioni di
anzianità schizzeranno all'insù del 95 per cento rispetto al 2005:
se ne andranno prima del raggiungimento dei limiti di vecchiaia
28.349 mila dipendenti diretti dell'amministrazione statale e altri
17.521 delle amministrazioni decentrate. Innanzitutto si tratta di
una fuga dalla cattedra. Dovrebbe essere infatti assai nutrito il
gruppo degli insegnanti che partecipa all'esodo: secondo alcune
anticipazioni, i maestri e i professori pronti a mollare le aule
approfittando del lasciapassare dell'anzianità sarebbero 30 mila, 10
mila in più dell'anno scorso.
A ruota sono poi arrivati i dati dell'Inps, che nella nota di
variazione del 2006 rivela che a richiedere quest'anno la pensione
di anzianità saranno oltre 200 mila lavoratori: quasi il 50 per
cento in più rispetto al 2005. In pratica, nel comparto privato si
sta tornando ai livelli del 2004, cioè prima dell'entrata in vigore
del superbonus voluto dall'allora ministro del Welfare Roberto
Maroni, che sembra proprio aver esaurito il suo appeal, peraltro con
risultati inferiori alle attese (vedi box a pagina 123). A optare
per l'istituto dell'anzianità - che, a dispetto del nome, significa
andarsene in pensione ancora piuttosto giovani - sono soprattutto
uomini, per il 75 per cento. Il Meridione rappresenta circa il 20
per cento della torta.
La corsa alla pensione anticipata, se confermata, vanificherebbe i
tentativi di far risparmiare danaro allo Stato che avevano motivato
la riforma delle pensioni messa in atto dal governo di centrodestra
e fortemente sostenuta dall'ex ministro dell'Economia Giulio
Tremonti. Sul sito Lavoce.info, animato dall'economista Tito Boeri,
docente della Bocconi, molti esperti criticarono duramente la
riforma Tremonti, sostenendo già due anni fa che avrebbe alimentato
le fughe verso le pensioni di anzianità. Ogni fuggiasco in più
riduce i risparmi. Secondo uno studio del novembre 2005, firmato da
Boeri e da Agar Brugiavini, se, anziché modificare la legge Dini del
1995 con scaloni e superbonus, si fossero anticipati alcuni suoi
passaggi, limando le pensioni di chi si ritira prima dei 65 anni, i
risparmi per lo Stato sarebbero stati maggiori, ipotizzando una fuga
verso la pensione anticipata di 100 mila lavoratori tra la fine del
2005 e il 2008. Visto che l'Inps si aspetta oltre 200 mila abbandoni
nel solo 2006, la rivoluzione delle pensioni ispirata da Maroni e
Tremonti viene bocciata sul campo dai lavoratori che se ne vanno in
anticipo.
Le previsioni avanzate dall'Inpdap e dall'Inps - probabilmente
destinati ad essere accorpati (vedi box a pagina 122) - mettono in
luce una sorta di transumanza di massa che rinfocola le polemiche e
rilancia i timori sui prossimi interventi del governo di Romano
Prodi a proposito di previdenza. Ed è facile immaginare che da qui
al varo della legge finanziaria per il 2007 le discussioni sull'età
pensionabile, sulla riduzione dei coefficienti con cui calcolare le
future pensioni e sui modi con cui far finalmente decollare la
previdenza integrativa saranno infinite.
La fuga dal pubblico impiego, percentualmente assai rilevante, ha
sorpreso gli stessi vertici dell'Inpdap. Il direttore centrale
pensioni dell'ente, Costanzo Gala, ha candidamente confessato al 'Sole':
"L'incremento ci ha stupito, sia per la portata che per la
tempistica. Ci aspettavamo un'accelerazione l'anno prossimo con
l'avvicinarsi dell'avvio della riforma". Gala si riferisce al
temutissimo 'scalone' tremontiano: una norma secondo cui, dal primo
gennaio del 2008 l'età minima per ottenere la pensione di anzianità
salirà di colpo da 57 a 60 anni, a condizione di aver accumulato
almeno 35 anni di versamenti dei contributi previdenziali
pensionistici. Chi si aspettava, come Gala, una fuga concentrata nei
mesi più vicini allo scatto dello 'scalone', si trova invece di
fronte a una migrazione che sta assumendo connotati di massa in
tempi non sospetti. Peraltro, il manager dell'Inpdap incrocia le
dita: "A questo punto, è auspicabile che il 2007 si limiti a
confermare questi numeri senza ulteriori aumenti".
Perché è scattata la fuga e perché coinvolge anche i lavoratori
privati che hanno potuto godere del superbonus (partito nel novembre
del 2004 e in vigore sino alla fine del 2007)? Morena Piccinini,
segretario confederale della Cgil, da un lato minimizza ("I numeri
non sono preoccupanti, rientrano nell'andamento fisiologico") ma
dall'altro dà la colpa alle troppe chiacchiere sull'argomento: "Su
queste problematiche l'effetto allarme è altissimo: quando un
governo, indipendentemente dal suo colore politico, inizia a parlare
di pensioni, la gente si preoccupa. C'è bisogno di una normativa
stabile". È vero che su come rimettere mano alle pensioni hanno
parlato in molti, tra gli esponenti del governo di centrosinistra.
Altrettanto vero, tuttavia, è che dai ministri dell'esecutivo Prodi
sono arrivati nelle ultime settimane segnali che vanno verso un
probabile ammorbidimento dello 'scalone'. Il ministro dell'Economia,
Tommaso Padoa-Schioppa, pur lasciando che a esprimersi in materia
sia soprattutto il titolare del dicastero del Lavoro, Cesare
Damiano, in luglio ha criticato la mancanza di gradualità prevista
dallo 'scalone' di Maroni: "Credo che sia perfettamente possibile
conciliare la presa d'atto del fatto che la vita attiva può
diventare più lunga di com'era un tempo con un principio di
gradualità", ha dichiarato. Padoa-Schioppa ha anche auspicato che
l'allungamento dell'attività lavorativa sia volontario, e il collega
Damiano ha ribadito: "Lo scalone andrà corretto e bisognerà tornare
al principio di flessibilità e di scelta del lavoratore".
Il ministro diessino si è detto d'accordo con l'innalzamento del
limite minimo d'età pensionabile, oggi di 57 anni (e 35 anni di
contributi). Ma solo con il via libera delle parti sociali. Cioè dei
sindacati. I quali sullo spostare in alto l'asticella dell'età
sembrano ben disposti, mentre paiono decisi a fare muro su un altro
aspetto fondamentale: quello della revisione al ribasso dei
coefficienti di trasformazione che servono a calcolare la pensioni
per chi è sotto il regime contributivo introdotto dalla riforma del
1996. I coefficienti, così come previsto dalla riforma Dini, debbono
essere rivisti per tener conto delle accresciute aspettative di
vita. E vengono poi utilizzati per trasformare il cosiddetto
montante - la somma dei contributi versati dal singolo durante
l'intero arco della carriera lavorativa, a cui vanno aggiunti gli
interessi maturati sulla stessa somma - nell'assegno mensile della
pensione.
A fine luglio, il Nucleo di valutazione della spesa previdenziale,
che fa capo al ministero del Lavoro, ha reso noti i nuovi
coefficienti, che riducono la rendita pensionistica con una
forchetta che va dal 6,38 per cento per chi vuole andare in pensione
anticipata a 57 anni fino alla limatura dell'8,41 per cento per chi
arriva ai 65 anni. Decurtazioni che hanno scatenato la reazione di
molti esponenti sindacali. "Non bisogna metter mano ai
coefficienti", dice a 'L'espresso' il segretario generale aggiunto
della Cisl, Pierpaolo Baretta. "Le proposte del nucleo sono
inapplicabili perché rendono le pensioni troppo basse. A questi
livelli non si può cominciare a discutere", taglia corto il
segretario confederale Uil, Domenico Proietti.
Toccherà dunque alla concertazione auspicata da Damiano il compito
di aggirare lo scoglio dei coefficienti. Secondo l'economista Boeri,
che pure è contrario allo 'scalone' e non ha lesinato critiche alle
riforme Tremonti-Maroni, su questo versante i sindacati fanno una
battaglia di retroguardia: "Stanno abbracciando l'idea che si debba
contrattare tutto, e che questo sia il loro ruolo. Ma i coefficienti
attuali non possono reggere, e le revisioni sono effettuate su base
scientifica. Anzi, vanno introdotti aggiornamenti automatici che
escano dalla contrattazione. Anche perché c'è il rischio che si
creino contrapposizioni all'interno dello stesso sindacato, giacché
i lavoratori più giovani hanno tutto l'interesse a che questi
aggiustamenti vengano fatti, per non dover sopportare in futuro
sulle loro spalle il tracollo dell'Inps con tasse più alte, mentre
gli anziani hanno esigenze diverse". In effetti, in prospettiva i
conti dell'Inps sono destinati a peggiorare: aumenta l'esercito di
pensionati, che vivono più a lungo, non cresce invece quanto
dovrebbe il numero di chi versa i contributi e molti lavoratori
guadagnano poco e quindi versano poco. Il 26 luglio, il presidente
del Civ, il Consiglio di indirizzo e di vigilanza dell'Inps, Franco
Lotito, ha diffuso un comunicato per sottolineare che "lo stato di
salute dell'Inps è più che soddisfacente". Nei primi quattro mesi
del 2006, sosteneva la nota, l'avanzo complessivo dell'Inps è
cresciuto di 287 milioni di euro. Otto righe più sotto, però, si
segnalava che nello stesso periodo i trasferimenti dello Stato erano
aumentati di 2.244 milioni di euro. È chiaro che senza l'aiutino
statale i conti dell'istituto scricchiolano. Peraltro, un grande
esperto di temi previdenziali come Giuliano Cazzola sottolinea che
un bel contributo al sostegno dei conti lo porta la categoria dei
lavoratori atipici: "Nel 2005 la loro gestione ha avuto un saldo
attivo di 4,7 miliardi di euro. Aumentano gli iscritti e le pensioni
pagate sono poche e basse, mediamente di mille euro all'anno".
In attesa degli incontri ufficiali di settembre, neppure durante le
ferie estive è mai cessato il flusso di contatti tra governo e
sindacati sui temi pensionistici. Una delle ipotesi che circola per
risolvere il nodo della riduzione dei coefficienti - allo stato, il
presumibile punto di maggiore attrito - è quella che li legherebbe a
una effettiva partenza dell'agognata previdenza integrativa. Anche
perché, quando fu varata la riforma Dini, si riteneva che nel giro
di dieci anni i fondi pensioni sarebbero decollati, cominciando a
rappresentare un sostegno complementare alla pensione pubblica
destinata inesorabilmente ad assottigliarsi. Decisivo appare su
questo argomento lo sblocco dell'infinita vicenda del Tfr: il
dibattito sulla compensazione alle aziende che si vedrebbero private
di questa fonte di finanziamento a basso costo deve tener conto
anche dei vincoli europei, che potrebbero vedere nelle compensazioni
una distorsione alla concorrenza.
Gli esperti ministeriali guardano anche all'esempio svedese e alla
'busta arancione' inviata dall'Inps scandinavo ai lavoratori.
Caldeggiato anche dagli economisti europei del Cepr (Center for
economic policy research) che hanno appena pubblicato uno studio
sulla previdenza, il sistema funziona così: l'aspirante pensionato
viene informato ogni anno su con esattezza su quanto ha versato alle
pensioni pubbliche e private, quanto hanno reso i diversi fondi, che
pensione ha maturato fino a quel momento e anche sull'ammontare
della pensione futura. Mentre i tecnici fanno le analisi col
bilancino e sui giornali fioccano gli slogan, la fuga verso la
pensione anticipata prosegue.
28 agosto
LE STRANE ROTTE
CHE PORTANO GLI IMMIGRATI IN SICILIA
di
Agostino Spataro
Analizzando il corso attuale
dei flussi migratori mediterranei sorge un interrogativo che nessuno riesce (o
vuole) chiarire all’opinione pubblica: perché la gran parte di tali flussi
raggiunge l’Europa attraverso la Sicilia?
La questione non è peregrina
poiché produce una serie di effetti a catena sul sistema delle relazioni
italo-libiche e, in particolare, sulla Sicilia che vanta il non-invidiabile
privilegio di essere, al contempo, generatrice di emigrazione e terra di
accoglienza e di transito d’importanti flussi d’immigrati.
Un fenomeno atipico dovuto a
diversi fattori. In particolare al fatto di essere un’economia debole e
largamente sommersa (quando non illecita) e alla sua collocazione geografica che
ne fa una piattaforma posta al confine fra il primo mondo, ricco e
iper-industrializzato, e gli altri mondi (2°, 3°, 4° ecc) il cui rango discende
dal posto occupato nella graduatoria della povertà.
Alla faccia della
globalizzazione!
La Sicilia svolge, in
sostanza, un ruolo anomalo impostole dai poteri forti e dalle loro menti
direttrici che pare le abbiano affidato la funzione di porta principale dei
flussi clandestini per il rifornimento del mercato europeo di manodopera a basso
costo.
Ma perché solo la Sicilia?
Se per gli immigrati il
problema è quello di raggiungere un lembo qualsiasi d’Europa per poi
distribuirsi sul continente, allora non si capisce perché le organizzazioni del
traffico hanno optato per la Sicilia, visto che sulla costa europea del
Mediterraneo vi sono tanti altri approdi più vicini ed agevoli.
Basta osservare la carta
geografica e misurare le distanze fra la costa africana e mediorientale e i
possibili punti d' approdo in Europa, per accorgersi che la rotta Libia- Sicilia
è la più lunga e, perciò, la più illogica e pericolosa fra le tante praticabili.
Eppure- si stima- che circa
l’80% di tali flussi si diriga verso le coste siciliane attraverso questa specie
di ponte della disperazione, lungo oltre 300 miglia di mare.
E’ arcinoto che la gran massa
dei disperati provenienti dall’Africa (compresi marocchini e algerini) evitano
lo stretto di Gibilterra, si sobbarcano altre migliaia di km e sofferenze
indicibili per raggiungere i campi di raccolta in Libia e da qui imbarcarsi per
la lunga (e talvolta tragica) traversata verso la Sicilia. Da notare che Malta
viene saltata anche se si trova a metà strada ed è il primo lembo d’Europa lungo
questa rotta.
Un giro molto disagevole e
perciò strano, molto strano per non essere sospetto, quando si pensa che
esistono altre rotte molto più agevoli di quella praticata.
Infatti, oltre allo stretto di
Gibilterra (largo 34 km), ci sarebbe quello dei Dardanelli (Turchia) che con
meno rischi consentirebbe di raggiungere la Grecia o, attraverso le vie dei
Balcani molto più aduse ai traffici clandestini, l’Europa centro-orientale.
Più breve, inoltre, è la
distanza che separa la costa libica dall’isola di Creta o la costa algerina
dalla Sardegna (entrambe grandi isoli europee) o quella fra Tunisia e Sicilia
ch’era la vecchia rotta stranamente abbandonata dai trafficanti.
Tutto, invece, si svolge lungo
l’asse Libia- Sicilia. Normalmente. Come se si trattasse di turismo da crociera.
Chi conosce un po’ questo Paese sa benissimo che un traffico di esseri umani di
tali proporzioni non può sfuggire all’occhio vigile di un regime dotato di un
efficacissimo sistema di controlli.
Un sistema- per capirci- che
ha consentito a Gheddafi di mantenersi, per 36 anni, saldamente al potere e di
sopravvivere a decine d' attentati e di tentativi di colpi di stato, taluni
organizzati dai servizi delle più grandi potenze mondiali o con la loro
complicità.
Quindi, nessuno crede alla
frottola secondo la quale in un paese siffatto possano circolare impunemente,
sprovvisti di documenti e di cibo, centinaia di migliaia (c’è chi dice milioni)
di clandestini provenienti dai quattro angoli del pianeta-fame, in attesa
d’imbarcarsi per la Sicilia.
A noi sfuggono le ragioni di
tali comportamenti, soprattutto quelli inerenti la sfera politica e governativa.
Si possono formulare solo ipotesi oppure chiedere ragguagli al signor Abdul
Rahman Shalgam, brillante suonatore di “aud” (liuto) e attuale ministro degli
esteri libico, un tempo molto amico della Sicilia e, in generale, dell’Italia.
Ma lasciamo perdere, sono
soltanto ricordi personali. Oggi in Libia la situazione è profondamente
cambiata. Il vecchio ceto dirigente, sempre al potere, si trova a gestire
interessi e relazioni molto diversi di quelli di qualche anno fa.
E’ chiaro però che la Sicilia
non potrà sopportare a lungo un traffico così ingente e problematico. Le
diplomazie italiana ed europea dovrebbero attivarsi al Massimo livello, sulla
base di proposte un pò più serie delle precedenti, per avviare un negoziato che
porti, entro un tempo ragionevole, ad una consistente riduzione e
regolamentazione dei flussi e ad un accordo chiaro contro tutti i traffici
clandestini fra le due sponde.
Le nuove norme sugli accessi,
annunciate dal governo italiano, la lunga telefonata di Prodi a Gheddafi,
potrebbero favorire un clima propizio per l’intesa e consentire ai lavoratori
immigrati di svincolarsi dalle maglie della tratta clandestina. Fra Sicilia e
Libia, così come con altri paesi mediterranei, non possono continuare tali turpi
commerci, ma bisogna intensificare il dialogo culturale e gli scambi di beni e
servizi per costruire insieme un futuro di libertà e di prosperità, nella pace e
nella solidarietà.

27 agosto
I
cattolici e il re senza corona
di EUGENIO
SCALFARI
RACCONTANO le
cronache che l'altro ieri, al "meeting" riminese di Comunione e
liberazione, l'ospite d'onore fosse impacciato. Trattandosi di
Silvio Berlusconi l'aggettivo impacciato stupisce. Se c'è un
personaggio totalmente disinibito, uno "showman" a prova di
bomba, un professionista del video e dei bagni di folla, è lui.
Una platea come quella di Cl, settemila allievi di Don Giussani,
il crocifisso brandito come una clava e la Compagnia delle Opere
come un salvacondotto sulla strada del paradiso, equivale per
lui ad una flebo di adrenalina.
Dunque come mai impacciato? Nonostante che un terzo di quei
settemila fosse composto dalla "claque" mobilitata da Forza
Italia? Io lo capisco Berlusconi, pensava d'essere
insostituibile alla guida dell'Italia. Pensava d'aver creato un
rapporto di ferro con Putin, con Blair, soprattutto con Bush e
Condoleezza Rice. Pensava che i soldati italiani a Nassiriya
fossero il pegno la garanzia e il pilastro della sua politica
estera.
Pensava che il governo d'Israele avrebbe buttato fuori a calci
D'Alema e Prodi semmai avessero osato farsi vedere dalle parti
di Gerusalemme. E infine pensava che sulla missione militare in
Libano il centrosinistra si sarebbe sfarinato e dissolto come
nebbia al sole.
Invece è accaduto tutto il contrario. L'Italia di Prodi, D'Alema
e Parisi è diventata il partner più affidabile per Bush.
Il ritiro dall'Iraq del nostro contingente militare non ha
provocato neppure un battito di ciglia né al Pentagono né alla
Casa Bianca. L'unità europea si è ricostruita proprio sulla
questione libanese e l'embrione di una struttura militare ha
fatto la sua comparsa per la prima volta proprio in seguito
all'iniziativa italiana. Lo credo bene che fosse impacciato.
Tanto più che, al punto in cui sono le cose, gli toccherà
perfino di dover dare i voti di Forza Italia, graditi ma non
determinanti, alla strategia dell'odiato Prodi.
E chi aveva a fianco come ospite d'onore al raduno di Cl?
Roberto Formigoni, uno dei suoi concorrenti, il benamato, lui
sì, di Don Giussani, il vero padrone della Lombardia teocon, la
sua bestia nera dopo Casini o forse perfino prima di lui. Sicché
dire impacciato è dir poco. In realtà chi lo conosce riferisce
che fosse furibondo, ammalato di malinconia, appannato nella
postura e nell'eloquio non più fluente come un tempo. Non avendo
molti argomenti da offrire al pubblico, ha ritirato fuori la
delicata questione dell'uomo della provvidenza aggiungendo che
metà dell'Italia lo odia ma un'altra metà lo ama e lo costringe
a restare in politica.
Francamente è raro che un uomo politico si vanti d'aver spaccato
il Paese in due e lo consideri un merito storico. Forse qualcuno
dei suoi consiglieri dovrebbe avvertirlo che quella spaccatura
da lui considerata il segno del suo successo rappresenta invece
una pietra tombale sui sogni di rivincita. Se avesse dei
consiglieri. Ma non li ha. Ha avuto una corte e dei cortigiani.
Scomparso il potere scomparsi i cortigiani. Forse Apicella, ma
anche sul chitarrista non ci giurerei.
Tuttavia, lasciando da parte il ciarpame, la claque, il
trapianto dei capelli e l'uomo della provvidenza, qualche cosa
di serio è venuto fuori nell'incontro tra Berlusconi e Cl.
Riguarda una certa idea dell'Italia, una certa idea del
cattolicesimo italiano e una certa idea dell'Occidente nei suoi
rapporti con le altre culture.
Avesse affrontato temi di questa importanza in una riunione di
Forza Italia non varrebbe neppure la pena di parlarne; ma li ha
affrontati davanti al popolo di Comunione e liberazione e allora
la faccenda cambia aspetto. L'importanza non deriva da chi ha
posto il tema ma da chi lo ha ascoltato.
Da come lo ha ricevuto. Dal peso che quel tema ha su una
comunità di giovani cattolici cari a papa Wojtyla e al suo
successore, cari a Ruini e al patriarca di Venezia che
probabilmente ne prenderà il posto, cari ad Andreotti.
Gli invitati ai raduni di Cl ci vanno per essere accettati. Ciò
che viene detto a Rimini, chiunque lo dica, serve a guadagnarsi
il favore della platea, non a scontentarla e a farla infuriare.
Alcuni ci riescono altri no e ne escono scornati e rancorosi.
Bocciati. Resta da capire perché tanta gente delle più varie
estrazioni voglia farsi esaminare dai giovanotti di Cl. Ecco un
punto che va approfondito. Berlusconi l'esame l'ha superato in
alcune materie, ma in altre no.
Sull'invito finale a far nascere da Cl un partito moderato e
liberale è stato bocciato, i ciellini non sono né liberali né
moderati e lo sanno benissimo. Invece è stato promosso sulla sua
idea di scuola e di cattolicesimo. Semplicemente perché non ha
fatto che ripetere le cose che i ciellini vogliono sentirsi
dire.
Ma quelle cose corrispondono alla realtà italiana? Agli
interessi del paese? A un rapporto equilibrato tra il
cattolicesimo e la modernità?
I giovani di Cl rappresentano una militanza credente. Un Cristo
operativo. Pregano e operano. Si comunicano e operano.
Organizzano e operano. La solitudine non è il loro forte. La
contemplazione meno che mai. Li vedo molto più vicini a Giovanni
Bosco che a Francesco d'Assisi. A Teresa di Calcutta che a
Giovanni della Croce. Fosse tempo di crociate forse sarebbero
crociati. Credo che abbiano un briciolo d'invidia verso l'Opus
Dei perché il suo fondatore è già santo e quella comunità è
stata elevata a prelatura. Anche Cl vorrebbe diventare prelatura
e vedere il suo fondatore sugli altari, ma questi salti di
qualità, purtroppo per loro, non sembrano far parte dell'agenda
vaticana.
Comunque in Italia sono abbastanza potenti, sempre per via delle
opere. Fuori d'Italia li conoscono poco, anzi non li conoscono
affatto. Della scuola hanno un'idea che piace molto a papa
Ratzinger e a Ruini. Vogliono che lo Stato finanzi le scuole
cattoliche e che queste siano equiparate a quelle pubbliche.
L'idea fa breccia. Nel polo berlusconiano è condivisa da quasi
tutti.
Anche nel centrosinistra non mancano i consensi. Però c'è un
problema: bisognerà finanziare anche le scuole musulmane, senza
parlare di eventuali scuole protestanti, ortodosse, ebraiche. E
poi c'è un altro problema: come si forma una coscienza della
cittadinanza interetnica e interculturale se si finanziano le
scuole delle varie comunità religiose? In un'Europa e in
un'Italia dove la diaspora musulmana è già - e più ancora sarà -
una minoranza sempre più numerosa? Con tassi di natalità
crescenti?
Infine c'è un terzo problema: se lo Stato finanzia scuole
religiose e le parifica alla scuola pubblica avrà ben il diritto
di controllare gli standard educativi e formativi con specifica
attenzione ai principi della cittadinanza. E un quarto problema
ancora: di fronte al moltiplicarsi di scuole religiose quella
pubblica dovrà inevitabilmente accentuare le sue caratteristiche
laiche.
L'insegnamento della religione cattolica, tanto per dire, cadrà
per non diventare un duplicato di quanto si insegna nelle scuole
cattoliche. Senza parlare delle scuole private non religiose che
diventerebbero (già sono) un meccanismo finalizzato
all'ottenimento del titolo di studio.
L'idea di scuola di Cl, rilanciata l'altro ieri da Berlusconi, è
in realtà un nonsenso, non incrocia nessuno dei problemi del
presente e del futuro. Incrocia soltanto lo slogan: "L'Italia è
cattolica e deve essere degli italiani".
Il fatto che l'Italia debba essere degli italiani è ovvio. Dev'essere
dei cittadini italiani, quelli che hanno cittadinanza italiana,
che lavorano, che pagano le tasse, che usufruiscono dei diritti
civili e politici. Quindi anche degli ebrei italiani, dei
musulmani italiani, dei valdesi italiani e dei non credenti
italiani. Insomma di tutti.
Ma c'è l'altra parte di quello slogan, assai meno ovvia, che
afferma: l'Italia è cattolica. Chi l'ha detto? Non esiste nella
nostra Costituzione. Anzi c'era nel Concordato del '29 ma è
stato abolito. Questo in punto di diritto.
In punto di fatto ha risposto Andreotti. Alla domanda che gli è
stata fatta se i musulmani dovrebbero andare a messa, ha
risposto sorridendo: sono molti di più i cattolici che non ci
vanno. Se lo dice lui...
Per fortuna questi meeting di Cl non contano
poi granché. Servono agli sponsor e alla Compagnia delle opere.
Ai giovani che ci vanno per stare insieme. Ai politici e agli
imprenditori che si guadagnano un titolo sui giornali. Come alle
feste dell'Amicizia di questo e di quello e ai festival
dell'Unità.
Controlli di carabinieri e Inps in 126 esercizi di città e
provincia. Ascoltati 600 lavoratori
Bar e ristoranti fuori legge
solo il 15 per cento è in regola
Antonio Fraschilla
In un locale del centro tutti i sette impiegati erano in nero
Un mondo fatto di lavoratori in nero, senza
orari di lavoro regolari e con intere attività commerciali sconosciute
al fisco: è il desolante quadro che emerge dai controlli fatti tra
luglio e agosto dall´Inps, dall´Ispettorato al lavoro e dai carabinieri
in 123 pubblici esercizi di Palermo e parte della provincia. Dei pub,
ristoranti e bar esaminati, soltanto diciannove erano in regola con le
leggi in materia di lavoro, appena il 15 per cento. Ben dodici attività
commerciali sono risultate completamente sconosciute all´Inps. I
lavoratori in nero scoperti sono 282 (il 48 per cento). Diffuso anche
l´utilizzo di minori e extracomunitari: trenta ragazzini lavoravano
senza alcuna visita medica. I sindacati parlano di «dati allarmanti». I
carabinieri hanno denunciato per occupazione di minori e extracomunitari
26 datori di lavoro. «Abbiamo controllato locali in quasi tutti i
piccoli centri della provincia, specie nella costa da Carini a
Balestrate, ma soprattutto a Palermo città», spiegano i carabinieri. «Le
ispezioni sono state fatte tra gli ultimi giorni di luglio e i primi di
agosto, ne faremo altre nei prossimi mesi: purtroppo il risultato dei
controlli conferma la maglia nera del settore dei pubblici esercizi
nelle irregolarità», spiega il comandante provinciale dei carabinieri
Vittorio Tomasone. «Sono dati allarmanti che richiedono una riflessione
immediata da parte di tutti gli operatori del settore - attacca il
segretario palermitano della Uil Tucs, Pietro La Torre - Questo è un
settore che in Sicilia dà lavoro a 20 mila persone, anche se mancano
dati ufficiali vista la grande fetta di dipendenti in nero».
A Palermo vi sono 900 tra pub, ristoranti e bar, tremila in tutta la
provincia. I controlli, fatti anche in pubblici esercizi del centro
storico di Palermo (dove è stato denunciato il proprietario di un locale
che aveva sette dipendenti su sette in nero), hanno messo in luce una
diffusa irregolarità che va oltre il lavoro nero: in tutto sono state
riscontrate 411 violazioni per irregolarità nella tenuta dei libri
contabili, nei contratti e negli orari di lavoro.
Salate le sanzioni amministrative: ogni titolare ha dovuto pagare da
1.500 a 12 mila euro per ciascun addetto, più 150 euro per ogni giornata
di lavoro in nero. «C´è un problema legato anche alla stagionalità, in
estate molti vanno a lavorare nei bar e aumenta la domanda, ma i dati da
due anni a questa parte sono sempre gli stessi - spiega Giuseppe Lo
Bello, presidente Inail - Soltanto se accade qualche infortunio sul
lavoro allora il titolare cerca di metterlo in regola, così nel 35 per
cento dei casi ci arrivano denunce per infortuni nei primi tre giorni di
contratto».
Per la Confesercenti questi dati confermano la difficoltà in cui versano
i commercianti palermitani: «Tutti devono mettersi in regola ma non è un
caso se tanti bar e ristoranti chiudono. C´è un problema di costi che
taglia le gambe alle imprese, un lavoratore neo assunto costa al
titolare 23 mila euro (di questi soltanto 12 vanno al lavoratore, ndr) -
spiega Giovanni Felice, presidente della Confesercenti - Non a caso con
la Uil abbiamo fatto un accordo che allunga a sei anni i contratti di
apprendistato, esenti dai contributi». Per il presidente della Camera di
Commercio Roberto Helg «chi sbaglia deve pagare». «Ad ottobre - dice -
avvieremo un monitoraggio per verificare la regolarità delle attività
commerciali». Ma gli addetti ai lavori denunciano anche la diffusa
«incapacità di fare impresa». «Molti ormai si improvvisano ristoratori
senza conoscere le difficoltà di mantenere in piedi un ristorante - dice
Pippo Anastasio, ex presidente della Fipe e proprietario de "Il
Ristorantino" - Tutti aprono e pensano di fare subito incassi, non sanno
che prima dovrebbero predisporre un piano economico per fornitori,
dipendenti e tasse».
25 AGOSTO
Europa un po' vile
Rossana Rossanda
Se non si è embedded, coperti e
rincalzati dall'esercito americano, non ci si muove da casa, può
essere pericoloso. Se si è embedded, tutte le cause sono
buone per muoversi. Siccome gli Usa avevano invaso l'Afghanistan e
l'Iraq, siamo volati in ambedue i paesi, che fosse una aggressione o
no, che sia una occupazione o no, che ne sia venuta una guerra
civile o no. Siccome al confine fra Israele e Libano gli Usa non
vanno, si scopre che interporsi fra due paesi in conflitto può
essere pericoloso e chi ce lo fa fare? Questa sarebbe guerra e
quelle sono missioni di pace.
Le persone e i partiti più curiosi si scoprono adepti di quel
pacifismo che hanno dileggiato fino a ieri. E anche qualche
pacifista trova che è meglio non mettersi in mezzo: il solo
rispettabile, a parer mio, è Gino Strada, che preferirebbe una folla
disarmata a quindicimila soldati, perché lui sta in mezzo sempre, ad
aggiustare ossa rotte e cicatrizzare ferite e cercare di salvare le
vite (e perciò è considerato un eversivo). E avrebbe anche ragione,
ma una forza civile di interposizione non c'è.
C'è per una volta la disponibilità dell'Onu, c'è una accettazione di
principio delle due parti, Libano e Israele, il primo, demolito dal
secondo, la chiede con urgenza - e si continua a traccheggiare? E si
ignora che in Libano gli Hetzbollah stanno alla tregua mentre
Israele continua raid e bombardamenti finché la forza multinazionale
non ci sarà, e qualsiasi rimprovero le venga dal Palazzo di vetro
non lo sente?
Siamo stati accusati di essere antieuropei perché abbiamo giudicato
indecoroso il trattato che doveva essere la base costituzionale del
nostro continente. Oggi siamo noi sbalorditi della sua incapacità di
metter assieme la forza di interposizione proposta dall'Onu. La
Francia che se ne pretendeva l'alfiere e doveva impegnare 2.000
uomini sui 15.000 giudicati necessari, s'è ricordata che sta
entrando in campagna elettorale per le presidenziali e senza
arrossire ne manda duecento.
La Spagna più di 700 non ne mette, e fanno 900. La Germania non ne
mette nessuno per un certo comprensibile pudore che un soldato
tedesco si trovi di fronte, anche per un semplice controllo, un
soldato israeliano. La Gran Bretagna di Blair manda i suoi sempre e
solo dietro gli Usa. L'Italia s'è impegnata per 3.500 uomini, a
certe condizioni che apparentemente sono garantite. Ma ci staremmo,
noi gli spagnoli e i duecento francesi soli soletti? D'Alema si dà
da fare. Nessun altro, anzi Rutelli mette il bastone fra le già
fragili ruote. Quale stupenda prova di solidarietà e saggezza
l'Europa sta dando! Come sospettavamo essa esiste soltanto come
Banca centrale, moneta unica, libero mercato e coordinamento di
polizie. Il resto è nulla.
Peggio, quel che da cancellerie e media stiamo sentendo sono
argomentazioni invereconde, a coprire il fatto che chi se ne frega
se il Libano è fatto a pezzi. In ogni caso Beirut ha la colpa di
albergare i terroristi di Hetzbollah. Noi che difenderemmo
l'esistenza di Israele, se fosse messa in causa, con le nostre
persone - perché la libertà degli ebrei è un valore nostro - siamo
convinti che gli Hetzbollah sono stati creati dalla infausta
invasione israeliana del Libano nel 1982.
Senza questa e senza l'occupazione della Palestina dal 1967 ad oggi,
non avremmo due forze islamiche e islamiste elette dai due popoli
fino al governo, perché sono le sole a costruirne e reggerne la rete
civile e sociale. Essi riempiono un vuoto che è stato colpevolmente
creato. Israele sembra non rendersi conto ancora dei guasti che ha
fatto in Medio Oriente, essa che poteva esserne un lievito. E
continua a farne: quale altro paese potrebbe sequestrare la metà
d'un governo democraticamente eletto? Chi altro sta da quaranta anni
fuori dai propri confini?
La politica di Israele semina odio e poi lo teme. Il tutto senza che
il mondo batta ciglio perché tanto, se lo batte, Tel Aviv resta
indifferente, convinta come è di avere il più forte esercito di
tutto il Medio Oriente e alle sue spalle quello più forte del mondo,
cioè il Pentagono? È bene che una presenza internazionale sconsigli
alla resistenza armata di Hetzbollah di lanciare missili e razzi,
cosa che già adesso ha cessato di fare - dico con intenzione
resistenza armata perché Hamas e Hetzbollah non c'entrano affatto
con Al Qaida - ed è bene che il solo fatto di esserci, impedisca a
Israele di fare raid nel Libano del sud come sta ancora continuando
a fare, non senza minacciare un secondo round. Bisognerebbe
interporsi anche fra Israele e Palestina, altro che muri. Finché le
Nazioni Unite non riusciranno a impedire i conflitti e sanzionarli,
conteranno sempre meno. E quanto all'Europa, non si capisce perché
dovrebbe essere presa sul serio.
Ma alcuni media, i più
autorevoli e i fogli locali, potranno salvarsi
«L'ultimo quotidiano? Uscirà nel 2043»
Giancarlo Radice
La profezia dell'«Economist»:
in via di estinzione l'informazione su carta
stampata. Il «Financial Times»: a ucciderci non
sarà
MILANO - «Who killed the newspaper?».
«Chi ha ucciso il giornale?». Il punto interrogativo
è lì, bello chiaro, fin dal titolo. Ma è come se non
ci fosse. Per l'Economist,
l'informazione su carta stampata è ormai in via di
estinzione in (quasi) tutto il mondo. Destino certo.
Solo questione di tempo. Tanto che al problema il
settimanale britannico riserva un buon numero delle
sue pagine di questo numero, dalla copertina al
primo dei commenti fino al dossier d'apertura della
sezione economica. E il suo ricordo va subito agli
anni '70, quando due oscuri cronisti del
Washington Post riuscirono con i loro
reportages a far esplodere il Watergate e mandare
sotto impeachment il presidente Richard Nixon. Bei
tempi, appunto, quando «i giornali dettavano
l'agenda per tutti gli altri media».
Oggi, invece — commenta amaro l'Economist
— «il business di vendere parole ai
lettori, e vendere questi lettori agli inserzionisti
pubblicitari, sta crollando». Persino uno come
Rupert Murdoch, l'editore globale che fino a pochi
anni fa definiva la carta stampata «un fiume d'oro»,
adesso ammette che «il fiume si sta prosciugando». E
c'è anche chi ha già preparato la lapide con una
data precisa. Come Philip Meyer, autore di «The
vanishing newspaper » (ci risiamo con il giornale
che «svanisce»), secondo il quale in America «il
primo trimestre del 2043 sarà il momento in cui
l'ultimo, esausto lettore getterà via l'ultimo,
raggrinzito quotidiano». Una tesi quantomeno
azzardata, replicano molti addetti ai lavori.
Peter Kahn, giornalista da Pulitzer
ed ex numero uno del gruppo Dow Jones (quello del
Wall Street Journal), è da sempre convinto che il
giornalismo stampato continuerà a navigare a lungo,
purché sia consapevole di «rivolgersi a un'élite di
pubblico intelligente», che pretende «informazioni e
analisi di alta qualità». E purché «non si metta a
inseguire tv e internet, trasformando le news in
intrattenimento spettacolare». Ottimista sembra
anche Rachel Smolkin, direttrice della American
Journalism Review, che nel suo saggio « Adapt or die
» vede i giornali ancora in grado di «imporre il
proprio marchio» e di porsi come «motore centrale da
cui espandere l'attività d'informazione verso altre
piattaforme, internet o pubblicazioni
specializzate».
Nessuno, comunque, nega il declino.
«Negli ultimi 10 anni la diffusione dei giornali è
in forte calo in Usa come nell'Europa occidentale,
in Australia come in Nuova Zelanda e in America
latina», elenca l'Economist.
In Svizzera e Olanda i quotidiani hanno già perso
oltre il 50% della pubblicità. E negli Stati Uniti,
secondo la Newspaper Association of America, dal
1990 al 2004 il numero di persone occupate
nell'industria del settore è diminuito del 18%.
Sempre negli Usa, all'alba del 2005, un gruppo di
azionisti ha costretto la Knight Ridder
(proprietaria di un'autentica galassia di
quotidiani) a vendere tutto al miglior offerente,
mettendo la parola fine a 114 anni di storia
editoriale.
Insomma: lo stato di grave malattia è
accertato. Così come è ormai individuato il
potenziale killer: non la tv, ma internet. Meglio:
l'informazione via web. A rafforzare la tendenza,
come spiega l'Economist,
sono stati (e sono) gli stessi editori di carta
stampata, con un'inesauribile raffica di errori.
Esempio: il settimanale britannico la pensa come
Kahn e accusa «molti editori» di «aver ignorato per
anni le ragioni del declino dei giornali,
concentrandosi solo sul taglio dei costi e riducendo
le spese per i contenuti "giornalistici", e adesso
cercano di attrarre nuovi lettori puntando
sull'entertainment, sull'informazione per il tempo
libero e altri generi che si supponga interessino
alla gente più che gli affari internazionali o la
politica».
Cosa resterà alla fine?
«Pubblicazioni come il
New York Times oil
Wall Street Journal saranno in grado, per
l'alta qualità dell'informazione che offrono, di
alzare il proprio prezzo di vendita e compensare
così il calo degli introiti pubblicitari persi a
causa di internet», pronostica l' Economist. Si
salveranno, probabilmente, anche i giornali locali.
Per tutti gli altri, invece, sarà dura. Una tesi
che, pur con meno pessimismo, anche il
Financial Times sembra appoggiare. Proprio ieri,
in un commento intitolato «OldTube, NewTube» (gioco
di parole fra le «condutture» per diffondere
contenuti e il sito web YouTube) il quotidiano
britannico ha sottolineato che «internet non sarà la
fine dei media old-style». Ma, alla fine del
ragionamento, arriva alle stesse conclusioni: che i
giornali devono sviluppare la «qualità» di quello
che offrono. E butta lì un paragone fra fra parole e
cinema: «Il web non ha certo cambiato l'economia di
Hollywood — osserva il giornale —. Per realizzare il
Titanic serve gente che lo sappia fare e abbia 200
milioni di dollari di budget, non bastano i clip
amatoriali diffusi via blog».
24 agosto
Il Libano di Amnesty
Guglielmo Ragozzino
E'in corso un'accesa discussione sulle regole
d'ingaggio e sulle caratteristiche dell'intervento militare di
interposizione tra Libano e Israele. La discussione finisce per
coprirne un altro argomento: quello che riguarda «le responsabilità
per le gravi violazioni del diritto umanitario commesse da Hezbollah
e da Israele nel mese di conflitto». Occorre in proposito, secondo
Amnesty International, «un'inchiesta urgente, esaustiva e
indipendente da parte delle Nazioni unite». Sempre secondo Amnesty,
«la distruzione di migliaia di abitazioni e il bombardamento di
numerosi ponti, strade, cisterne e depositi di carburante (sono)
parte integrante della strategia militare israeliana in Libano,
piuttosto che «danni collaterali», derivanti da attacchi legittimi
contro obiettivi militari». Amnesty ha aggiunto che alle «vittime
civili, uccise sui due lati del conflitto, va resa giustizia». E
Amnesty (servizio a pagina 5) insiste sul tema dei «crimini di
guerra» che poi sono di due tipi, questa volta: uccisione inutile o
meglio terroristica di civili e disastri ambientali: disastri
dolosi.
Nel corso della guerra Amnesty ha svolto quattro missioni in Libano
e Israele, raccogliendo informazioni e testimonianze di centinaia di
persone su entrambi i lati del fronte, visitando i luoghi della
guerra, le città abbandonate, i paesi rasi al suolo. Il quadro che
ne risulta è di un'area distrutta da una sorta di terremoto
ambientale e umano. Non che ci si possa stupire, la guerra ha
proprio questo compito: distruggere gli insediamenti umani costruiti
nel corso di secoli, le attività della vita, la natura, fatta di
spazio, di spiagge, di acqua, di campi e città, di boschi e
frutteti. I danni in euro si calcolano in migliaia di milioni, ma è
un conto crudele e fine a se stesso. Quanto vale una vita di
bambino? Da entrambi i lati del fronte qualche capo di guerra, ci
sta riflettendo. Molte mamme, molti padri piangono.
Leggere i resoconti di Amnesty, poi riassunti nel suo documento
proposto al pubblico e al consiglio di sicurezza del'Onu, è entrare
in un mondo di desolazione, di ospedali sotto i colpi di cannone, di
paesi e città bersagliati scientificamente dal mare, dal cielo,
dalla terra. Solo fatti, nessuno sfogo di emozioni, nessuna parola
superflua. Ma la visione della guerra e delle sue distruzioni di
vite e di beni comuni è ugualmente intollerabile.
Ora bisogna ricostruire, muovendosi nelle strettoie delle regole
d'ingaggio. Sul terreno ci saranno militari dappertutto, gli
irriducibili che vorrebbero combattere, e gli altri, chiamati a
interporsi, a impedirgli di ricominciare, a garantire che non ci
siano errori o colpi di mano. Un compito arduo. Ma bisogna andare
oltre, capire cosa è accaduto, trovare il modo di giudicare i
responsabili. Il tribunale per i crimini guerra esiste per questo. E
poi bisogna scegliere il da farsi. L'Italia sembra decisa a mandare
moltissimi soldati, certo con l'intenzione di difendere il
cessate-il-fuoco, un impegno assai più generoso di quello di
ottenere il generalissimo e il copyright del codice d'ingaggio.
La spesa da stanziare, molto ingente, è considerata necessaria per
il mantenimento della pace. E va bene. Ma non sarebbe meglio se gli
stessi soldi potessero, in un domani, servire a ricostruire tutti i
ponti, a riportare nelle case l'acqua necessaria per vivere, a
rifondare alla vita, sicura, pacifica, le città di Haifa e di
Beirut?
21 agosto
Intervista a Ruggero Giuliani, coordinatore di Missione Italia
Msf: «Nel Sud
vita indecente per gli stagionali immigrati»
Claudia Russo
Medici senza frontiere ha pubblicato la scorsa estate il dossier “I frutti
dell’ipocrisia” sulle condizioni di vita e salute degli immigrati che lavorano
stagionalmente nel sud Italia, e in questi mesi l’associazione ha operato in
alcune regioni del meridione. Ruggero Giuliani, coordinatore del progetto
operativo Missione Italia, spiega a Liberazione i risultati emersi da questo
lavoro.
In che modo e in quale aree opera Missione Italia?
Dal 1999 ci occupiamo di assistenza sanitaria agli immigrati in prevalenza
“regolari” ma anche ai richiedenti asilo e ai rifugiati. Abbiamo due tipi di
progetti: uno che riguarda l’accoglienza, e si svolge prevalentemente sulle
coste della Sicilia in provincia di Ragusa, Agrigento e Lampedusa, l’altro che
riguarda l’assistenza sanitaria ai lavoratori stranieri impiegati
nell’agricoltura per incrementare la legge Bossi Fini, che in materia sanitaria
non ha assolutamente mitigato i problemi esistenti all’epoca della
Turco-Napolitano. La filosofia dei nostri progetti, che abbiamo battezzato come
“cometa”, è quella di non creare sistemi paralleli e privati ma di collaborare
con le Asl nei territori. Si tratta per lo più di protocolli d’intesa svolti in
seguito ad un monitoraggio puntuale nelle zone di Napoli, nel foggiano, nella
piana di Gioia Tauro e in tutta la provincia di Reggio Calabria, più le aree
siciliane di Cassibile, Siracusa e Ragusa. Queste zone sono interessate da un
alto afflusso di lavoratori.
Quali sono stati i dati più rilevanti emersi dalle vostre inchieste?
Nel corso del progetto, Msf ha visitato e intervistato 770 persone (su un
totale stimato di 12mila lavoratori stagionali immigrati impiegati in
agricoltura nel Sud Italia). I risultati dell’inchiesta, come già successo lo
scorso anno sono piuttosto allarmanti: la grande maggioranza dei lavoratori
incontrati vive in condizioni igieniche e alloggiative inaccettabili e non
rispondenti agli standard minimi fissati dall’Alto commissariato Onu per i
Rifugiati (Unhcr) per l’allestimento di campi profughi in zone di crisi: il 40%
vive in edifici abbandonati; il 36% vive in spazi sovraffollati; più del 50% non
dispone di acqua corrente; il 30% non ha elettricità; il 43,2% non dispone di
toilette; la maggior parte dei lavoratori immigrati riesce a mangiare solo una
volta al giorno (per lo più la sera), anche nelle giornate in cui lavorano nei
campi per 8-10 ore; il 48% di loro ha dichiarato di percepire 25 euro o meno per
giornata di lavoro; molti riescono a trovare lavoro solo per tre giorni a
settimana e le loro entrate sono quindi molto ridotte; il 30% dei lavoratori
deve pagare di tasca propria al caporale il trasporto fino al luogo di lavoro
(in media 5 euro al giorno). E’ dunque naturale che il 53,7% dichiari di non
riuscire a inviare alcuna somma di denaro nel Paese d’origine.
Ci sono state differenze forti tra l’esperienza dello scorso anno e quella di
quest’anno?
Noi gestiamo gli ambulatori per un periodo di tempo limitato che va dai
sedici ai diciotto mesi poi ridiamo queste strutture alle Asl con la promessa da
parte loro di portarli avanti con personale autonomo. A differenza dello scorso
anno, durante il quale abbiamo svolto un servizio itinerante, in questi mesi
abbiamo operato con strutture fisse riscontrando maggiore sensibilità ed
attenzione da parte delle autorità. Statisticamente i nostri pazienti sono
uomini tra i 20 e i 40 anni che arrivano in Italia in buona salute ma che si
ammalano a causa delle condizioni igieniche o dello stress da lavoro. Le
principali patologie sono legate ad infezioni intestinali causate da cattiva
alimentazione oppure a banali dermatiti curabili con farmaci reperibili
facilmente.
Esiste un’ assistenza sanitaria pubblica per gli stranieri?
L’accesso all’assistenza sanitaria pubblica sembra ancora un miraggio per
questi lavoratori perché manca la figura del medico di base, quello di primo
livello. La legge italiana prevede che tutti gli stranieri regolarmente
soggiornanti (compresi richiedenti asilo e rifugiati) beneficino di
un’iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale (Ssn) alle stesse condizioni degli
italiani; gli stranieri irregolarmente presenti sul territorio, in caso di
necessità di cure mediche, possono accedere alle strutture pubbliche con la
garanzia dell’anonimato (e quindi senza correre il rischio di essere espulsi)
grazie al rilascio di un codice numerico detto STP (straniero temporaneamente
presente). Questi diritti restano solo sulla carta per la maggior parte degli
stranieri impiegati in agricoltura: nonostante la legge, il 75% dei rifugiati,
l’85,3% dei richiedenti asilo e l’88,6% degli stranieri irregolarmente presenti
visitati da MSF non beneficiava di alcun tipo di assistenza sanitaria.
Il governo Blair pensa a restrizioni per l’accesso al mercato del lavoro
Inghilterra, cresce la fobia dell’“idraulico polacco”
Gabriella Alberti
Il 19 Luglio scorso la viceministra dell’interno britannica Joan Ryan ha
presentato il documento sull’impatto della nuova immigrazione dai paesi dell’Est
Europa sul sistema di welfare nazionale in Inghilterra. Con questo rapporto
l’ufficio dell’interno lancia l’allarme sulle pressioni cui sarebbero stati
sottoposti i servizi pubblici in seguito all’affluenza dei nuovi lavoratori
immigrati dagli otto paesi che hanno fatto ingresso nell’Unione Europea nel
maggio 2004, con particolare riferimento a Bulgaria e Romania. Dal canto suo la
stampa britannica contribuisce a fomentare il clima di allarmismo denunciando
cifre molto più alte rispetto a quelle che il governo aveva previsto: da un
massimo di 13mila unità all’anno ci si è trovati di fronte ad un totale di
662mila registrazioni nel solo 2005. L’aumento sostanziale nel numero di
registrazioni rispetto agli anni passati è attribuito soprattutto all’afflusso
di migranti provenienti dai nuovi paesi membri, i cui ingressi sarebbero
aumentati del 143% rispetto a quelli di altre nazionalità.
Il governo britannico si prepara intanto a rielaborare la sua politica
migratoria attraverso l’istituzione di una commissione ad hoc che studi nuovi
strategie per un’immigrazione meglio “gestita”, proprio mentre procede il
dibattito sull’opportunità di imporre ai futuri emigranti bulgari e rumeni il
periodo transitorio di 7 anni prima di poter accedere liberamente al mercato del
lavoro nazionale. La Gran Bretagna è infatti uno dei pochi paesi dell’UE
(assieme ad Irlanda e Svezia) a non aver applicato fino ad ora rinvii o
restrizioni alla libertà di circolazione. Fino alla fine del 2005, dei 345.410
lavoratori provenienti dai nuovi 8 paesi membri dell’est Europa, il 95% è stato
ammesso e registrato nei Workers Registration Schemes. Per i neo cittadini
europei non c’è l’obbligo di ottenere un vero e proprio permesso di lavoro per
entrare nel Regno Unito, ma è tuttavia necessaria la richiesta di ammissione in
questi schemi di reclutamento, strumento di controllo e regolazione della
mobilità e insieme precondizione per l’accesso ad alcuni e benefici sociali.
Così accade che proprio mentre la commissione europea si preoccupa di
smentire, cifre alla mano, i timori dei paesi Ue sugli effetti della libera
circolazione dall’Est sui mercati interni, (esaltando tra gli altri proprio
l’esempio del Regno Unito e gli effetti benefici dei nuovi flussi sul suo
prodotto nazionale), ecco il governo Blair fare retro marcia, sull’onda del
riaperto dibattito sui classici temi dei costi dell’immigrazione, le pressioni
sul welfare e gli effetti depressivi sui salari degli autoctoni. Mentre da un
lato la Camera dei Lord si affretta a concludere che i migranti poco o non
qualificati dell’Est non rappresentano generalmente una minaccia per lavoratori
nazionali, e la stampa dall’altro accusa i polacchi di rubare i lavoretti estivi
agli studenti, l’unica certezza è che a guadagnarci sono le agenzie di servizi
che reclutano lavoratori a basso costo nel settore delle pulizie, della
sicurezza, accoglienza, ristorazione, come anche le famiglie dal reddito
medio/alto che impiegano un numero sempre più elevato di domestiche e badanti
dall’Est, idraulici, carpentieri, pittori o decoratori polacchi e ungheresi. Il
punto, sottolinea The Guardian, è che il boom nell’offerta di lavoro dei nuovi
migranti interessa soprattutto il mercato informale, dove il lavoro è più
ricattabile, le retribuzioni più basse e i guadagni per i padroni ancora più
alti.
Di fronte alla sorprese di quest’anno, allo scopo di diminuire la pressione
sui servizi pubblici, il documento dell’ufficio dell’interno propone piani di
contingentamento dei flussi non appena si intraveda un aumento nel numero dei
nuovi immigrati, rispetto a quelli previsti dai paesi che entreranno nel 2007.
Il segretario agli Interni John Reid, alla domanda se l’anno prossimo sarà
permesso ai migranti di lavorare legalmente nel Regno Unito, risponde che ciò
potrà accadere solo se d’altra parte si difenderanno i cittadini dalle possibili
conseguenze dell’“invasione”. Il governo crede così di poter definire a tavolino
una gestione dei flussi che stabilisca un optimum level of immigration, capace
di riempire i buchi di manodopera, soprattutto qualificata, del mercato interno
dimostrando al contempo di tenere in conto «insicurezza sociale crescente di
alcune comunità». Ma intanto pare che ancora una volta la “questione
immigrazione” venga utilizzata come paravento rispetto al crescente malcontento
sociale. Una politica più selettiva a favore della manodopera qualificata,
capace di rispondere insieme ai bisogni dell’economia e alle “ansie sociali” dei
propri cittadini si riempie però di nuove contraddizioni, se pensiamo alle
recenti dichiarazioni del comune di Cracovia, che per frenare la fuga di
cervelli e rispondere alla carenza di manodopera qualificata che la città e il
paese continuano a registrare, lancia il suo piano “Cracovia ti ama”: una sorta
di operazione di “ripescaggio” dei cittadini polacchi impiegati nei pub e negli
alberghi di Londra, con l’obiettivo di convincerli a ritornare nel proprio
paese, sottrarsi ai processi di svalutazione delle loro competenze e forse, a
conti fatti, sperare in una più alta qualità della vita.
Abolite la legge
Bossi-Fini: subito
Piero
Sansonetti
Altri dieci morti, o
forse venti, trenta, a pochi chilometri da Lampedusa. Sono stati arrestati
cinque scafisti. Giuliano Amato dice che non è solo una tragedia, quella di
Lampedusa, è un crimine. Ovvio. Si tratta poi di stabilire se i responsabili del
crimine siano solo quei disgraziati - gli scafisti - che fanno i soldi
approfittando della disperazione di milioni di persone, oppure se la colpa è
anche di chi ha fatto delle leggi sull’immigrazione che neanche prendono in
considerazione i bisogni, le aspirazioni e i diritti degli immigrati (che pure
dovrebbero essere i protagonisti di queste leggi). Le nostre leggi
sull’immigrazione si occupano solo del bisogno di sicurezza degli italiani. Così
si sono create le condizioni che inaspriscono la clandestinità e favoriscono lo
spirito criminale e ardimentoso degli scafisti. Una legge che prevedesse l’accoglienza
dei profughi (se sfuggono a persecuzioni politiche, o alla schiavitù, o alla
fame, poco importa: comunque sono i profughi) e che mettesse in secondo piano il
problema cosiddetto “securitario”, sarebbe un colpo mortale agli scafisti e alle
carrette del mare.
Che vuol dire questa parola un po’ di gergo: securitario? Vuol dire preoccupato
della sicurezza. Ma della sicurezza di chi? Non certo degli africani che cercano
di attraversare il mare e troppo spesso ne vengono inghiottiti. Per misura
securitaria si intende misura che garantisce lo status quo, la sicurezza, la
tranquillità di chi è già sicuro e tranquillo. Una volta si diceva: della gente
per bene. Non vi pare che questa concezione delle leggi e delle esigenze dello
Stato sia un po’ una schifezza?
Ora è chiaro che al governo di centrosinistra non si possono chiedere i
miracoli. La destra ha governato davvero male questo paese, in cinque anni. E di
danni ne ha fatti tanti. Non sarà semplicissimo correggerli. Come fai a cambiare
la legge 30, sul lavoro, se prima non metti a punto una riforma del mercato del
lavoro ragionevole? O come fai a cambiare la legge sulla fecondazione assistita,
o la legge Moratti o quella che disciplina la Tv e la stampa? E’ un lavoro duro
e complicato fare queste riforme, perché non si può rischiare quella che gli
esperti chiamano “vacatio legis”, cioè assenza della legge.
Per quel che riguarda la Bossi-Fini le cose sono diverse. La legge Bossi-Fini è
quella che ha blindato le nostre frontiere, criminalizzando i migranti senza
permesso di soggiorno. Io credo che il governo potrebbe intervenire subito e
anche, se è necessario, in modo un po’ grossolano: cancellandola. Poi si penserà
a fare una nuova legge. La “vacatio legis” in questo caso è molto meglio che
tenerci la legge così com’è per chissà quanti mesi. Con quella legge la gente
muore (anche se non era questa l’intenzione né di Bossi, credo, né di Fini, né
dei deputati della destra che l’hanno votata: spesso il forcaiolismo è dettato
da ottime intenzioni; sempre fa disastri atroci). Non c’è molto da tempo da
perdere, si tratta di approvare un decreto che dice solo questo: la legge è
abolita.
11 agosto
Licenziati per eccesso
d'infortuni dall'Ilva, campione dell'insicurezza
Tre operai dell'acciaieria di Taranto
licenziati: troppi infortuni. Lunedì, sciopero di 24 ore
Manuela Cartosio
Martedì mattina tre operai dell'Ilva di Taranto si sono
accorti che il loro badge d'ingresso era stato disattivato. Il perché
l'hanno appreso dopo: padron Riva li ha licenziati per eccesso d'infortuni.
Succede nello stabilimento siderurgico dove ogni sei mesi un lavoratore ci
lascia la pelle, dove nell'arco di un anno si verificano 3.500 infortuni,
uno ogni tre dipendenti. Succede quando le massime autorità dello Stato e l'Osservatore
romano ripetono quotidianamente che la misura è colma. Succede proprio
nel cinquantesimo anniversario della tragedia di Marcinelle.
«Fossimo a Carnevale, si potrebbe pensare a uno scherzo», commenta il
segretario regionale della Uil Aldo Pugliese. Ma siamo a Ferragosto e l'Ilva
approfitta della disattenzione vacanziera per mettere a segno un colpo
preparato da tempo. Qualche mese fa Pietro De Biasi, responsabile delle
relazioni industriali, aveva convocato una conferenza stampa apposta per
sostenere che «più del 30% degli infortuni che si verificano all'Ilva di
Taranto sono anomali». Anomali nel senso di fasulli, aveva fatto intendere,
inventati per mascherare l'assenteismo. Un passo in più rispetto alla linea
tradizionale del gruppo Riva, secondo cui la «colpa» degli infortuni è
sempre ed esclusivamente della disattenzione e dell'imperizia dei
lavoratori.
C'è una palese contraddizione tra non rispettare le norme di sicurezza e
inventarsi un infortunio per starsene a casa a poltrire. I tre licenziati,
secondo l'azienda, avrebbero fatto entrambe le cose. Sono operai che hanno
superato la cinquantina, che lavorano all'Ilva da un pezzo. Perchè l'azienda
non ha contestato volta a volta le presunte irregolarità?, domanda il
sindacato, ricordando che ogni infortunio viene certificato dal capoturno,
dal medico e dall'Inail. Oggi Fim, Fiom e Uilm ricorrono alla magistratura
contro i licenziamenti, lunedì prossimo 24 ore di sciopero. «Il minimo a
fronte di questa infamità», dice Massimo Battista, dell'esecutivo della Fiom,
«altrimenti cosa ci sta a fare il sindacato?».
Battista non ha dubbi sull'adesione allo sciopero: «Tutti hanno capito che
l'Ilva ne colpisce tre per ammaestrarne 13 mila. Questa è una caserma, vige
lo stato di polizia, 1200 contestazioni disciplinari in un anno, ti negano
l'acqua minerale nei reparti a caldo. I lavoratori non ne possono più,
reagiranno». E' Taranto, purtroppo, che non si muove, «la città accetta
tutto dall'Ilva». Inquina, fa ammalare la gente, «ma è l'unica cosa che fa
girare un po' di soldi».
A proposito di soldi, il sindacalista della Fiom ci racconta l'ultima
lussuosa offerta dell'Ilva: «Un buono da 100 euro a testa da spendere in un
negozio di articoli sportivi, se nell'ultimo semestre dell'anno diminuirano
gli infortunia». Nemmeno questo è uno scherzo, è la proposta ufficiale
avanzata dall'azienda nell'ultimo incontro con il sindacale. Un'azienda che
nel 2005 ha fatto profitti per un miliardo di euro, mentre in un paio d'anni
l'indice di produttività dell'impianto di Taranto è aumentato del 35%.
Lo Slai Cobas incita i lavoratori a ribellarsi contro un padrone delle
ferriere che «tratta gli operai come schiavi, pretende sempre carne fresca
disponibile e sottomessa». Il capogruppo del Pdci alla Camera, Pino Sgobio,
ha presentato un'interrogazione urgente al ministro del lavoro: «E'
inconcepibile che l'Ilva se tre operai a causa di un infortunio non possono
recarsi al lavoro ricorra al licenziamento coatto. E' un comportamento
antisindacale, un'inquietante scenario da fabbrica di fine Ottocento».
Lo scorso aprile all'Ilva due «incidenti» in una sola settimana causarono un
morto e tre ustionati gravi. I lavoratori risposero con 32 ore di sciopero,
il più lungo nella storia dell'acciaieria. Martedì, mentre l'Ilva ne
licenziava tre per eccesso d'infortuni, un operaio rischiava di rimetterci
una mano e un altro per poco non finiva in camera iperbarica.
I dati sono stati elaborati dall'Anmil su
fonte dell'Inail
Damiano: "Situazione grave, ma stiamo lavorando alla svolta"
Italia,
"morti bianche" in aumento
469 vittime nei primi 5 mesi 2006
Il ministro Cesare Damiano
ROMA - Nei primi cinque mesi del
2006 le morti bianche in Italia sono state 469: esattamente
lo stesso numero dell'anno scorso. A una prima e
superficiale analisi, dunque, i dati elaborati dall'Anmil,
l'associazione mutilati e invalidi sul lavoro, su fonte
dell'Inail, rivelano un trend costante negli infortuni sul
lavoro. Conclusione affrettata e subito smentita a una
lettura più approfondita del rapporto.
Numeri alla mano, infatti, soltanto lo scorso maggio, gli
incidenti mortali sono stati 126, ovvero il 4,13% in più
rispetto al maggio 2005. Dato che evidenzia come gli
incidenti sul lavoro siano in realtà in aumento. Cresciuti
di oltre mille unità, sono infatti passati da quota 375.215
dei primi cinque mesi del 2005 ai 376.495 della stessa data
nel 2006.
E il peggio deve ancora arrivare. "Statisticamente - ha
infatti detto il presidente dell'Anmil, Pietro Mercandelli -
il picco degli infortuni sul lavoro, si raggiunge nei mesi
di giugno e luglio, particolarmente intensi per le attività
edilizie, agricole e anche manifatturiere". Per questo,
"sono ormai necessarie azioni immediate da parte del
governo" per arginare il fenomeno, ha concluso Mercandelli.
E dal governo la risposta non si è fatta attendere. "I dati
sono gravi e sconcertanti. Il 30 agosto - ha annunciato il
ministro del lavoro Cesare Damiano - ci sarà l'apertura
ufficiale del tavolo sul lavoro nero con le parti sociali,
in vista della prossima legge finanziaria". Il ministro ha
assicurato che "stiamo operando per una svolta radicale" e
che il testo unico sulla sicurezza sul lavoro vedrà la luce
"entro la fine dell'anno". E non solo: il ministero si è già
attivato per "una seconda conferenza nazionale sulla
sicurezza e sulla salute nei luoghi di lavoro che si terrà
nell'autunno a Napoli, in una delle regioni più colpite da
questo fenomeno".
In mattinata era stato lo stesso Mercandalli a ricordare che
"ogni incidente porta con sè gravi danni umani e familiari.
Oltre al costo che la collettività intera è chiamata a
sostenere: elevatissimo in termini economici, laddove alcuni
traggono profitto dai risparmi sulle misure di sicurezza".
Scandagliando il calendario, in particolare, le morti
bianche sono state 90 a gennaio, in aumento del 4,65%
rispetto al gennaio 2005; 76 a febbraio (lo stesso numero di
febbraio 2005); 93 a marzo, con un incremento del 3,33%.
Solo ad aprile, il fenomeno ha registrato un notevole calo
(-12,50%) ma è probabile che sia dipeso dalle ferie
pasquali. E' poi ripreso il trend in ascesa: volendo
semplificare, a maggio sono morte 4 persone ogni giorno
(domeniche incluse) sul luogo del lavoro.
Il segretario nazionale della Fillea-Cgil, Mauro Macchiesi,
punta il dito contro "l'assenza dell'impresa nei cantieri".
"Oggi - denuncia il sindacalista - nei cantieri ci sono i
caporali al posto dell'impresa: ciò significa scarsa
professionalità e organizzazione del lavoro molto
improvvisata". Inoltre, sottolinea Macchiesi, "il rapporto
tra giornate lavorative e infortuni mortali di fatto è un
infortunio al giorno se si considera che i giorni lavorativi
dovrebbero essere 22 al mese".
Più in generale, invece, gli incidenti sono aumentati nei
primi cinque mesi in media dello 0,34%: anche in questo
caso, a maggio l'incremento è stato sostenuto (4,3%) ma
soprattutto a gennaio (+5,01%). Quasi stabile l'andamento a
febbraio (0,16%), in ascesa a marzo (3,81%) mentre ad aprile
c'è stato un calo del 12,07%. Tirando le somme, a maggio gli
incidenti sono stati 90.161, quasi 3.000 al giorno, anche
qui domeniche incluse.
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