Archivio agosto 2006

 

31 agosto

I risultati di una ricerca dell'ateneo di Shanghai premiano gli istituti americani
Indietro quelli italiani: il migliore è La Sapienza di Roma, centesima
Dalla Cina i voti alle università
Vince Harvard, Italia rimandata

<B>Dalla Cina i voti alle università<br>Vince Harvard, Italia rimandata</B>
Una veduta dell'università "La Sapienza" di Roma
ROMA - Harvard, Cambridge e Stanford. E poi via via tutte le principali università statunitensi e i più noti istituti europei. Nelle parti alte della graduatoria dei 500 migliori atenei mondiali, stilata dall'università Jiao Tong di Shanghai, mancano però quelli italiani. Il primo, in centesima posizione, è La Sapienza di Roma.

La classifica, pubblicata ogni anno, è basata in particolare sull'importanza della ricerca scientifica svolta presso le università considerate. I fattori determinanti sono la qualità dell'educazione fornita, quella del corpo docente, la produttività di docenti e ricercatori e l'efficienza.

In base a questi parametri, gli atenei americani non temono confronti. Al primo posto c'è, ormai da alcuni anni, Harvard. Alle sue spalle si trovano l'inglese Cambridge e l'americana Stanford. Ma, con l'esclusione di Cambridge, Oxford (decima) e dell'università di Tokio (diciannovesima), nelle prime 20 posizioni ci sono solamente istituti con sede negli Stati Uniti.

Nell'Europa continentale, si difendono bene la Svizzera con lo Swiss Fed Institute of Technology di Zurigo (ventisettesimo), l'Olanda con l'università di Utrecht (quarantesima), la Francia con la Paris VI (quarantacinquesima), la Svezia con il Karolinska Institut di Stoccolma (quarantottesimo) e la Germania, con la Statale di Monaco di Baviera (cinquantunesima).
Per trovare un ateneo italiano, bisogna scendere fino alla centesima posizione, occupata dalla Sapienza di Roma. L'ateneo della capitale perde tre posizioni rispetto al 2005 ed è trentaquattresimo in Europa. Ancora più indietro, nell'ordine, la Statale di Milano e le università di Pisa, Firenze, Padova, Torino e Bologna.

Comunque soddisfatto del risultato Renato Guarini, il rettore della Sapienza. "Con questo riconoscimento - dice - viene affermata la realtà della nostra università, in particolar modo il coordinamento tra ricerca e didattica. Una sinergia che riusciamo a realizzare nonostante le difficoltà finanziarie e superando la poca attenzione da parte del mondo della politica. Tuttavia ritengo necessario rivolgere una riflessione critica nei confronti di tutto il sistema della ricerca in Italia, che si rivela debole su scala internazionale ed eccessivamente frammentato".

Immigrazione
Decreto flussi lumaca. In campo i patronati
Cinzia Gubbini
Roma
Nessuna risposta. Per chi ha partecipato all'ultimo decreto flussi che apriva le porte a 170 mila lavoratori immigrati ancora tutto tace. La realtà che vivono migliaia di famiglie, imprese grandi e piccole, è emersa con la drammatica storia di Iris Palacios Cruz, la baby sitter dell'Honduras che è morta all'Argentario per salvare la bambina di cui si prendeva cura. La famiglia per la quale lavorava è stata denunciata, visto che impiegava un'immigrata clandestina. Eppure i suoi datori di lavoro avevano tentato di farle ottenere un permesso di soggiorno, partecipando a marzo alla corsa del decreto flussi: ore di fila - in genere sopportata proprio dai lavoratori immigrati, la maggior parte già presenti in Italia - per consegnare alle Poste il mitico kit. Ritardi nell'arrivo dell'autorizzazione ce ne sono sempre stati, ma quest'anno le cose vanno peggio del previsto: dopo sei mesi ancora nessuno ha ottenuto risposta. Solo negli ultimi giorni qualche chiamata stia arrivando nella provincia di Roma. Di chi è la colpa?
Certamente qualcosa non ha funzionato con le Poste, che hanno ottenuto l'appalto per gestire la raccolta delle domande, dopo la sperimentazione che ha visto gli uffici postali protagonisti della grande regolarizzazione del 2002. Già allora si verificarono problemi, ma il tempo e l'esperienza non hanno migliorato la performance dell'ente. «Il fatto è che abbiamo ricevuto moltissime domande, non ce le aspettavamo. Ma ormai abbiamo inviato i dati a tutti gli sportelli unici provinciali», fanno sapere alle Poste, declinando qualsiasi responsabilità. Le domande sono state certamente una valanga: 51 mila a Roma, 38 mila a Milano, 22 mila a Torino, 20 mila a Brescia, per restare alle province in cima alla lista. Ma da più parti arrivano voci sul malfunzionamento del lettore ottico delle Poste, che avrebbe dovuto velocizzare l'incanalamento dei dati: pare che non funzioni granché, e che soprattutto sia piuttosto inaffidabile perché quando incontra dati che non riesce a decifrare - ad esempio nomi e cognomi complicati - dà campo bianco, come se la pratica fosse stata compilata male. E per ora gli sportelli unici lavorano soltanto per soddisfare le prime 170 mila richieste. Il bello arriverà quando, a settembre, sarà perfezionato l'atteso decreto che permette di allargare il decreto flussi di quest'anno alle restanti 360 mila domande.
Ma nell'emergenza si apre anche una grande partita: il flop delle Poste sembra aver accelerato il progetto di spostare le competenze dell'ingresso degli immigrati (compresi i rinnovi dei permessi) agli enti locali. La linea del precedente governo, invece, era mettere tutto definitivamente nelle mani delle Poste. D'accordo con il nuovo esecutivo sono i sindacati e i patronati che ora hanno una carta in più da giocare. Con una lettera il ministero della Solidarietà sociale ha chiesto infatti ai patronati di aiutare a smaltire le pratiche che si sono accumulate. «Noi siamo pronti a metterci a disposizione - dichiara Piero Soldini, responsabile immigrazione della Cgil - ma una cosa deve essere chiara: vogliamo lavorare per un progetto che condividiamo. E da sempre sosteniamo che al competenza dei permessi di soggiorno deve essere dei Comuni». C'è anche un'altra condizione che la Cgil pone: «Chiediamo che sia rivista la decisione di fissare la data dello scorso 21 luglio come limite per le domande di ingresso valide. Il decreto flussi vale per tutto l'anno solare, e non condividiamo la preoccupazione del governo secondo cui senza quella data si sarebbe dato adito a un effetto-annuncio per gli immigrati che entrano clandestinamente». Anche perché, osserva il sindacalista: «La psicosi clandestini, con le connesse tragedie nel canale di Sicilia, non permette di vedere qual è la realtà: a Lampedusa arrivano poche migliaia di immigrati, mentre in Italia abbiamo più di 500 mila irregolari prigionieri della burocrazia». Una contraddizione stringente che, per essere risolta, necessita della solita parolina magica: risorse.

Intervista


«Io, Sara, cestinata da Atesia e 1288»
Niente rinnovo dopo ben sette anni al call center del Gruppo Cos. L'ultima campagna per il numero utile dei pupazzi rossi. Una roulette del destino che accomuna migliaia di operatori Un mese mi hanno assegnato una campagna con poche telefonate: la busta paga era sotto 1 euro. Rido o piango?
Antonio Sciotto
Roma
Come da sette anni a questa parte, anche ieri Sara è scesa all'«ufficio nuovi contratti» Atesia, per ritirare il suo rinnovo. L'ufficio dei destini non si trova al piano delle postazioni, ma qualche scala sotto, nella pancia del grande call center di fronte agli studi cinematografici di Fellini, Roma Cinecittà. Lì dentro ci sono almeno dieci, forse anche quindicimila nomi di lavoratori passati in questi anni a conoscere «che ne sarà di loro», alcuni hanno avuto la fortuna di essere confermati, altri sono stati semplicemente «cassati». Senza preavviso. Ogni mese, ogni due, ogni tre o sei, la durata è variabile, ma alla fine c'è sempre la gogna del rinnovo: sì o no. Ieri, per Sara (il nome è di fantasia) è stato un no. Lavorava da ben sette anni in Atesia, l'ultima campagna affidatale era quella del 1288, il numero dei «Pelotti», i pupazzoni rossi che in uno spot pubblicitario si permettono di scherzare con un operatore: tutti sorridenti, ovvio. Alla televisione i lavoratori dei call center sono sempre felici.
Ma lei, Sara, ha 33 anni, e da quando ne aveva 26 soffre l'ansia del rinnovo, ha buste paga elastiche - una media di 400 euro al mese - contributi all'osso e adesso ha anche ottenuto il benservito. Sette anni finiti nel cestino, senza preavviso né liquidazione, senza che il capo finga neppure di dirti: «Mi dispiace, ti dobbiamo licenziare». L'abbiamo intervistata pochi minuti dopo che aveva appreso di essere stata «non rinnovata»: usciva dal palazzone a vetri di Atesia, mentre davanti al call center i lavoratori tenevano un'assemblea-conferenza stampa sul caso delle ispezioni.

Come hai saputo del licenziamento? Te lo hanno comunicato?
No, l'azienda non ti dice nulla. Ogni volta che scade il contratto devi scendere all'«ufficio rinnovi», e lì cercare il tuo nome su due elenchi. Se sei fortunata sei tra i «confermati». Altrimenti trovi il tuo nome nell'altra lista, tra quelli che non avranno un nuovo contratto.

Hanno motivato il «non rinnovo» dopo ben sette anni?
Sono andata a chiedere una spiegazione dal mio project leader, e mi ha risposto che la campagna a cui ero addetta, quella del 1288, non riceveva più telefonate sufficienti a giustificare la mia presenza nel call center. Ma io ho lavorato tutto agosto, e il telefono squillava: chiedevano persino ad alcuni operatori di estendere il loro turno, cioè venire a rispondere anche nel giorno di riposo. Io credo che non mi abbiano rinnovata per un altro motivo: da ottobre avrei compiuto 7 anni esatti dal primo contratto, e secondo l'ultimo accordo sindacale quelli con la mia anzianità avrebbero dovuto essere assunti a tempo indeterminato. Ecco, si sono voluti liberare di me.

Dunque in questi anni hai sempre lavorato. Ogni quanto venivi «rinnovata»?
Non c'è un periodo fisso: all'inizio facevano contratti di un solo mese, poi si è passati a quelli di due e tre. Ultimamente ne stipulavano di sei mesi, io il più recente lo avevo firmato in febbraio. All'inizio ci facevano persino pagare l'affitto per la postazione, quando eravamo partite Iva. Successivamente sono arrivati i contratti cococò e quelli a progetto.

Al mese quanto guadagnavi?
La busta paga èassolutamente variabile, sono stata addetta a molte campagne. In genere riesco a fare 400, massimo 500 euro. L'estate scorsa mi avevano assegnato una campagna per cui arrivavano pochissime telefonate al giorno, per cui non valeva la pena venire. Lo trovavo veramente offensivo per la mia dignità, e a un certo punto ho deciso di non venire più. Un mese ho preso anche una busta paga con il compenso netto sotto un euro. Non so se ridere o piangere.

Hai fatto altri lavori? Come riesci a vivere con 400 euro al mese?
Un anno facevo la mattina in Atesia e il pomeriggio in un call center all'Eur, distante da qui. Lì lavoravo su campagne di Autostrade per l'Italia e dell'Istituto dermatologico dell'Immacolata di Roma. L'ho lasciato, ho preferito conservare il contratto in Atesia, ma evidentemente ho fatto male a fidarmi. Devo ancora vivere con i miei, a 33 anni non ho davvero scelta. Adesso, dopo sette anni di lavoro mi hanno cestinata come una scarpa vecchia. Ma io a questo punto faccio causa.


29 agosto

Allarme dalla Columbia University: un nuovo studio dimostra lo stretto collegamento fra l'uso di farmaci antidepressivi sui minori ed i suicidi infantili.
Comunicato stampa di "Giù le Mani dai Bambini"® - www.giulemanidaibambini.org

I risultati di un nuovo studio del dott. Mark Olfson (Collegio di Medicina della Columbia University e New York State Psychiatric Institute) rafforzano le evidenze del rapporto fra tentati - e riusciti - suicidi di bambini e adolescenti ed il loro trattamento con antidepressivi. 

Il Dott. Mark Olfson, con il suo team, ha predisposto uno studio "case control", ovvero utilizzando i dati certificati dai centri di servizio medico, al fine di valutare il rischio di suicidi tra i giovani pazienti che hanno seguito una "procedura di scarico" (terapia di uscita) dopo l'ospedalizzazione per depressione. Lo studio ha utilizzato come criterio quello di misurare quei casi di tentato e riuscito suicidio che hanno precedentemente ricevuto o meno trattamenti antidepressivi di tipo farmacologico, unitamente ad una comparazione fra i vari livelli di gravità della malattia, al fine di tener conto anche di quella variabile. 

Tutti i casi di tentato e riuscito suicidio sono stati catalogati sulla base molteplici criteri di controllo: età, sesso, razza, residenza, data di uscita dall'ospedale, sostanze usate, eventuali precedenti tentativi di suicidio, e recenti trattamenti con farmaci psicotropi o antidepressivi. Il risultato dello studio ha evidenziato che nel periodo di tempo esaminato 263 (duecentosessantatre) tra bambini ed adolescenti hanno tentato il suicidio, e che esso è riuscito in 8 (otto) casi. 

Lo studio ha confermato come bambini ed adolescenti che avevano usato antidepressivi sono significativamente più soggetti a tentativi di suicidio di quelli che non ne hanno usati. Il rapporto sfavorevole è poi schiacciante se si esaminano solo i casi di suicidi riusciti, anche se il dott. Olfson avverte che occorrerebbe un ulteriore approfondimento statistico. «E' ora importante eseguire studi ambientali per esaminare le risultanze a lungo termine di questi fattori, incluse le relazioni temporali fra l'uso di antidepressivi ed i tentati suicidi per ogni paziente. Questi primi risultati tuttavia - dichiara Olfson - ci suggeriscono l'utilità di maggiori precauzioni e monitoraggi durante l'uso di tali sostanze su minori seriamente depressi».

Luca Poma, Portavoce nazionale di "Giù le Mani dai Bambini"® - prima campagna di farmacovigilanza in Italia - ha dichiarato: «questo studio, di una clinica universitaria autorevole come quella della Columbia University, non fa che confermare i ‘warning’ lanciati in Italia dal ns. ente. I produttori condizionano quotidianamente la ricerca, pubblicando solo gli studi favorevoli al profilo commerciale degli psicofarmaci, studi finanziati da loro: ogni qual volta la ricerca universitaria davvero indipendente si attiva, vengono evidenziati chissà perchè risultati esattamente opposti. L'utilizzo disinvolto di questi farmaci psicoattivi su bambini ed adolescenti è assolutamente da censurare: chi non lo fa e tace davanti a queste evidenze scientifiche si assumerà la responsabilità di questi suicidi e di ogni altro eventuale danno cagionato ai bambini italiani».

 

Corsa alla pensione

di Maurizio Maggi
e Marco Ratti
Nel 2006 le domande per l'assegno di anzianità stanno raddoppiando. Statali e lavoratori privati si preparano alla fuga
Lascia o raddoppia, come ai tempi di Mike Bongiorno? No, stavolta è 'lascia e raddoppia'. Già, perché secondo le proiezioni dell'Inpdap, l'istituto previdenziale che eroga le pensioni del pubblico impiego, nel corso del 2006 si ritirerà in pensione anticipata il doppio dei lavoratori dello Stato e degli enti locali rispetto all'anno scorso. Per la precisione, i dati, rivelati alla vigilia di Ferragosto dal 'Il Sole 24 ore', dicono che le richieste di nuove pensioni di anzianità schizzeranno all'insù del 95 per cento rispetto al 2005: se ne andranno prima del raggiungimento dei limiti di vecchiaia 28.349 mila dipendenti diretti dell'amministrazione statale e altri 17.521 delle amministrazioni decentrate. Innanzitutto si tratta di una fuga dalla cattedra. Dovrebbe essere infatti assai nutrito il gruppo degli insegnanti che partecipa all'esodo: secondo alcune anticipazioni, i maestri e i professori pronti a mollare le aule approfittando del lasciapassare dell'anzianità sarebbero 30 mila, 10 mila in più dell'anno scorso.

A ruota sono poi arrivati i dati dell'Inps, che nella nota di variazione del 2006 rivela che a richiedere quest'anno la pensione di anzianità saranno oltre 200 mila lavoratori: quasi il 50 per cento in più rispetto al 2005. In pratica, nel comparto privato si sta tornando ai livelli del 2004, cioè prima dell'entrata in vigore del superbonus voluto dall'allora ministro del Welfare Roberto Maroni, che sembra proprio aver esaurito il suo appeal, peraltro con risultati inferiori alle attese (vedi box a pagina 123). A optare per l'istituto dell'anzianità - che, a dispetto del nome, significa andarsene in pensione ancora piuttosto giovani - sono soprattutto uomini, per il 75 per cento. Il Meridione rappresenta circa il 20 per cento della torta.

La corsa alla pensione anticipata, se confermata, vanificherebbe i tentativi di far risparmiare danaro allo Stato che avevano motivato la riforma delle pensioni messa in atto dal governo di centrodestra e fortemente sostenuta dall'ex ministro dell'Economia Giulio Tremonti. Sul sito Lavoce.info, animato dall'economista Tito Boeri, docente della Bocconi, molti esperti criticarono duramente la riforma Tremonti, sostenendo già due anni fa che avrebbe alimentato le fughe verso le pensioni di anzianità. Ogni fuggiasco in più riduce i risparmi. Secondo uno studio del novembre 2005, firmato da Boeri e da Agar Brugiavini, se, anziché modificare la legge Dini del 1995 con scaloni e superbonus, si fossero anticipati alcuni suoi passaggi, limando le pensioni di chi si ritira prima dei 65 anni, i risparmi per lo Stato sarebbero stati maggiori, ipotizzando una fuga verso la pensione anticipata di 100 mila lavoratori tra la fine del 2005 e il 2008. Visto che l'Inps si aspetta oltre 200 mila abbandoni nel solo 2006, la rivoluzione delle pensioni ispirata da Maroni e Tremonti viene bocciata sul campo dai lavoratori che se ne vanno in anticipo.
 
Le previsioni avanzate dall'Inpdap e dall'Inps - probabilmente destinati ad essere accorpati (vedi box a pagina 122) - mettono in luce una sorta di transumanza di massa che rinfocola le polemiche e rilancia i timori sui prossimi interventi del governo di Romano Prodi a proposito di previdenza. Ed è facile immaginare che da qui al varo della legge finanziaria per il 2007 le discussioni sull'età pensionabile, sulla riduzione dei coefficienti con cui calcolare le future pensioni e sui modi con cui far finalmente decollare la previdenza integrativa saranno infinite.

La fuga dal pubblico impiego, percentualmente assai rilevante, ha sorpreso gli stessi vertici dell'Inpdap. Il direttore centrale pensioni dell'ente, Costanzo Gala, ha candidamente confessato al 'Sole': "L'incremento ci ha stupito, sia per la portata che per la tempistica. Ci aspettavamo un'accelerazione l'anno prossimo con l'avvicinarsi dell'avvio della riforma". Gala si riferisce al temutissimo 'scalone' tremontiano: una norma secondo cui, dal primo gennaio del 2008 l'età minima per ottenere la pensione di anzianità salirà di colpo da 57 a 60 anni, a condizione di aver accumulato almeno 35 anni di versamenti dei contributi previdenziali pensionistici. Chi si aspettava, come Gala, una fuga concentrata nei mesi più vicini allo scatto dello 'scalone', si trova invece di fronte a una migrazione che sta assumendo connotati di massa in tempi non sospetti. Peraltro, il manager dell'Inpdap incrocia le dita: "A questo punto, è auspicabile che il 2007 si limiti a confermare questi numeri senza ulteriori aumenti".

Perché è scattata la fuga e perché coinvolge anche i lavoratori privati che hanno potuto godere del superbonus (partito nel novembre del 2004 e in vigore sino alla fine del 2007)? Morena Piccinini, segretario confederale della Cgil, da un lato minimizza ("I numeri non sono preoccupanti, rientrano nell'andamento fisiologico") ma dall'altro dà la colpa alle troppe chiacchiere sull'argomento: "Su queste problematiche l'effetto allarme è altissimo: quando un governo, indipendentemente dal suo colore politico, inizia a parlare di pensioni, la gente si preoccupa. C'è bisogno di una normativa stabile". È vero che su come rimettere mano alle pensioni hanno parlato in molti, tra gli esponenti del governo di centrosinistra. Altrettanto vero, tuttavia, è che dai ministri dell'esecutivo Prodi sono arrivati nelle ultime settimane segnali che vanno verso un probabile ammorbidimento dello 'scalone'. Il ministro dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, pur lasciando che a esprimersi in materia sia soprattutto il titolare del dicastero del Lavoro, Cesare Damiano, in luglio ha criticato la mancanza di gradualità prevista dallo 'scalone' di Maroni: "Credo che sia perfettamente possibile conciliare la presa d'atto del fatto che la vita attiva può diventare più lunga di com'era un tempo con un principio di gradualità", ha dichiarato. Padoa-Schioppa ha anche auspicato che l'allungamento dell'attività lavorativa sia volontario, e il collega Damiano ha ribadito: "Lo scalone andrà corretto e bisognerà tornare al principio di flessibilità e di scelta del lavoratore".

Il ministro diessino si è detto d'accordo con l'innalzamento del limite minimo d'età pensionabile, oggi di 57 anni (e 35 anni di contributi). Ma solo con il via libera delle parti sociali. Cioè dei sindacati. I quali sullo spostare in alto l'asticella dell'età sembrano ben disposti, mentre paiono decisi a fare muro su un altro aspetto fondamentale: quello della revisione al ribasso dei coefficienti di trasformazione che servono a calcolare la pensioni per chi è sotto il regime contributivo introdotto dalla riforma del 1996. I coefficienti, così come previsto dalla riforma Dini, debbono essere rivisti per tener conto delle accresciute aspettative di vita. E vengono poi utilizzati per trasformare il cosiddetto montante - la somma dei contributi versati dal singolo durante l'intero arco della carriera lavorativa, a cui vanno aggiunti gli interessi maturati sulla stessa somma - nell'assegno mensile della pensione.

A fine luglio, il Nucleo di valutazione della spesa previdenziale, che fa capo al ministero del Lavoro, ha reso noti i nuovi coefficienti, che riducono la rendita pensionistica con una forchetta che va dal 6,38 per cento per chi vuole andare in pensione anticipata a 57 anni fino alla limatura dell'8,41 per cento per chi arriva ai 65 anni. Decurtazioni che hanno scatenato la reazione di molti esponenti sindacali. "Non bisogna metter mano ai coefficienti", dice a 'L'espresso' il segretario generale aggiunto della Cisl, Pierpaolo Baretta. "Le proposte del nucleo sono inapplicabili perché rendono le pensioni troppo basse. A questi livelli non si può cominciare a discutere", taglia corto il segretario confederale Uil, Domenico Proietti.

Toccherà dunque alla concertazione auspicata da Damiano il compito di aggirare lo scoglio dei coefficienti. Secondo l'economista Boeri, che pure è contrario allo 'scalone' e non ha lesinato critiche alle riforme Tremonti-Maroni, su questo versante i sindacati fanno una battaglia di retroguardia: "Stanno abbracciando l'idea che si debba contrattare tutto, e che questo sia il loro ruolo. Ma i coefficienti attuali non possono reggere, e le revisioni sono effettuate su base scientifica. Anzi, vanno introdotti aggiornamenti automatici che escano dalla contrattazione. Anche perché c'è il rischio che si creino contrapposizioni all'interno dello stesso sindacato, giacché i lavoratori più giovani hanno tutto l'interesse a che questi aggiustamenti vengano fatti, per non dover sopportare in futuro sulle loro spalle il tracollo dell'Inps con tasse più alte, mentre gli anziani hanno esigenze diverse". In effetti, in prospettiva i conti dell'Inps sono destinati a peggiorare: aumenta l'esercito di pensionati, che vivono più a lungo, non cresce invece quanto dovrebbe il numero di chi versa i contributi e molti lavoratori guadagnano poco e quindi versano poco. Il 26 luglio, il presidente del Civ, il Consiglio di indirizzo e di vigilanza dell'Inps, Franco Lotito, ha diffuso un comunicato per sottolineare che "lo stato di salute dell'Inps è più che soddisfacente". Nei primi quattro mesi del 2006, sosteneva la nota, l'avanzo complessivo dell'Inps è cresciuto di 287 milioni di euro. Otto righe più sotto, però, si segnalava che nello stesso periodo i trasferimenti dello Stato erano aumentati di 2.244 milioni di euro. È chiaro che senza l'aiutino statale i conti dell'istituto scricchiolano. Peraltro, un grande esperto di temi previdenziali come Giuliano Cazzola sottolinea che un bel contributo al sostegno dei conti lo porta la categoria dei lavoratori atipici: "Nel 2005 la loro gestione ha avuto un saldo attivo di 4,7 miliardi di euro. Aumentano gli iscritti e le pensioni pagate sono poche e basse, mediamente di mille euro all'anno".

In attesa degli incontri ufficiali di settembre, neppure durante le ferie estive è mai cessato il flusso di contatti tra governo e sindacati sui temi pensionistici. Una delle ipotesi che circola per risolvere il nodo della riduzione dei coefficienti - allo stato, il presumibile punto di maggiore attrito - è quella che li legherebbe a una effettiva partenza dell'agognata previdenza integrativa. Anche perché, quando fu varata la riforma Dini, si riteneva che nel giro di dieci anni i fondi pensioni sarebbero decollati, cominciando a rappresentare un sostegno complementare alla pensione pubblica destinata inesorabilmente ad assottigliarsi. Decisivo appare su questo argomento lo sblocco dell'infinita vicenda del Tfr: il dibattito sulla compensazione alle aziende che si vedrebbero private di questa fonte di finanziamento a basso costo deve tener conto anche dei vincoli europei, che potrebbero vedere nelle compensazioni una distorsione alla concorrenza.

Gli esperti ministeriali guardano anche all'esempio svedese e alla 'busta arancione' inviata dall'Inps scandinavo ai lavoratori. Caldeggiato anche dagli economisti europei del Cepr (Center for economic policy research) che hanno appena pubblicato uno studio sulla previdenza, il sistema funziona così: l'aspirante pensionato viene informato ogni anno su con esattezza su quanto ha versato alle pensioni pubbliche e private, quanto hanno reso i diversi fondi, che pensione ha maturato fino a quel momento e anche sull'ammontare della pensione futura. Mentre i tecnici fanno le analisi col bilancino e sui giornali fioccano gli slogan, la fuga verso la pensione anticipata prosegue.

 

28 agosto

LE STRANE ROTTE CHE PORTANO GLI IMMIGRATI IN SICILIA

 di Agostino Spataro

 Analizzando il corso attuale dei flussi migratori mediterranei sorge un interrogativo che nessuno riesce (o vuole) chiarire all’opinione pubblica: perché la gran parte di tali flussi raggiunge l’Europa attraverso la Sicilia?

La questione non è peregrina poiché produce una serie di effetti a catena sul sistema delle relazioni italo-libiche e, in particolare, sulla Sicilia che vanta il non-invidiabile privilegio di essere, al contempo, generatrice di emigrazione e terra di accoglienza e di transito d’importanti flussi d’immigrati.

Un fenomeno atipico dovuto a diversi fattori. In particolare al fatto di essere un’economia debole e largamente sommersa (quando non illecita) e alla sua collocazione geografica che ne fa una piattaforma posta al confine fra il primo mondo, ricco e iper-industrializzato, e gli altri mondi (2°, 3°, 4° ecc) il cui rango discende dal posto occupato nella graduatoria della povertà.

Alla faccia della globalizzazione!

La Sicilia svolge, in sostanza, un ruolo anomalo impostole dai poteri forti e dalle loro menti direttrici che pare le abbiano affidato la funzione di porta principale dei flussi clandestini per il rifornimento del mercato europeo di manodopera a basso costo.

Ma perché solo la Sicilia?

Se per gli immigrati il problema è quello di raggiungere un lembo qualsiasi d’Europa per poi distribuirsi sul continente, allora non si capisce perché le organizzazioni del traffico hanno optato per la Sicilia, visto che sulla costa europea del Mediterraneo vi sono tanti altri approdi più vicini ed agevoli.

Basta osservare la carta geografica e misurare le distanze fra la costa africana e mediorientale e i possibili punti d' approdo in Europa, per accorgersi che la rotta Libia- Sicilia è la più lunga e, perciò, la più illogica e pericolosa fra le tante praticabili.

Eppure- si stima- che circa l’80% di tali flussi si diriga verso le coste siciliane attraverso questa specie di ponte della disperazione, lungo oltre 300 miglia di mare.

E’ arcinoto che la gran massa dei disperati provenienti dall’Africa (compresi marocchini e algerini) evitano lo stretto di Gibilterra, si sobbarcano altre migliaia di km e sofferenze indicibili per raggiungere i campi di raccolta in Libia e da qui imbarcarsi per la lunga (e talvolta tragica) traversata verso la Sicilia. Da notare che Malta viene saltata anche se si trova a metà strada ed è il primo lembo d’Europa lungo questa rotta.

Un giro molto disagevole e perciò strano, molto strano per non essere sospetto, quando si pensa che esistono altre rotte molto più agevoli di quella praticata.

Infatti, oltre allo stretto di Gibilterra (largo 34 km), ci sarebbe quello dei Dardanelli (Turchia) che con meno rischi consentirebbe di raggiungere la Grecia o, attraverso le vie dei Balcani molto più aduse ai traffici clandestini, l’Europa centro-orientale.

Più breve, inoltre, è la distanza che separa la costa libica dall’isola di Creta o la costa algerina dalla Sardegna (entrambe grandi isoli europee) o quella fra Tunisia e Sicilia ch’era la vecchia rotta stranamente abbandonata dai trafficanti.

Tutto, invece, si svolge lungo l’asse Libia- Sicilia. Normalmente. Come se si trattasse di turismo da crociera. Chi conosce un po’ questo Paese sa benissimo che un traffico di esseri umani di tali proporzioni  non può sfuggire all’occhio vigile di un regime dotato di un efficacissimo sistema di controlli.

Un sistema- per capirci- che ha consentito a Gheddafi di mantenersi, per 36 anni, saldamente al potere e di sopravvivere a decine d' attentati e di tentativi di colpi di stato, taluni organizzati dai  servizi delle più grandi potenze mondiali o con la loro complicità.

Quindi, nessuno crede alla frottola secondo la quale in un paese siffatto possano circolare impunemente, sprovvisti di documenti e di cibo, centinaia di migliaia (c’è chi dice milioni) di clandestini provenienti dai quattro angoli del pianeta-fame, in attesa d’imbarcarsi per la Sicilia.

A noi sfuggono le ragioni di tali comportamenti, soprattutto quelli inerenti la sfera politica e governativa. Si possono formulare solo ipotesi oppure chiedere ragguagli al signor Abdul Rahman Shalgam, brillante suonatore di “aud” (liuto) e attuale ministro degli esteri libico, un tempo molto amico della Sicilia e, in generale, dell’Italia.

Ma lasciamo perdere, sono soltanto ricordi personali. Oggi in Libia la situazione è profondamente cambiata. Il vecchio ceto dirigente, sempre al potere, si trova a gestire interessi e relazioni molto diversi di quelli di qualche anno fa.

E’ chiaro però che la Sicilia non potrà sopportare a lungo un traffico così ingente e problematico. Le diplomazie italiana ed europea dovrebbero attivarsi al Massimo livello, sulla base di proposte un pò più serie delle precedenti, per avviare un negoziato che porti, entro un tempo ragionevole, ad una consistente riduzione e regolamentazione dei flussi e ad un accordo chiaro contro tutti i traffici clandestini fra le due sponde.

Le nuove norme sugli accessi, annunciate dal governo italiano, la lunga telefonata di Prodi a Gheddafi, potrebbero favorire un clima propizio per l’intesa e consentire ai lavoratori immigrati di svincolarsi dalle maglie della tratta clandestina. Fra Sicilia e Libia, così come con altri paesi mediterranei, non possono continuare tali turpi commerci, ma bisogna intensificare il dialogo culturale e gli scambi di beni e servizi per costruire insieme un futuro di libertà e di prosperità, nella pace e nella solidarietà.

                                                   27 agosto

I cattolici e il re senza corona

di EUGENIO SCALFARI

RACCONTANO le cronache che l'altro ieri, al "meeting" riminese di Comunione e liberazione, l'ospite d'onore fosse impacciato. Trattandosi di Silvio Berlusconi l'aggettivo impacciato stupisce. Se c'è un personaggio totalmente disinibito, uno "showman" a prova di bomba, un professionista del video e dei bagni di folla, è lui. Una platea come quella di Cl, settemila allievi di Don Giussani, il crocifisso brandito come una clava e la Compagnia delle Opere come un salvacondotto sulla strada del paradiso, equivale per lui ad una flebo di adrenalina.

Dunque come mai impacciato? Nonostante che un terzo di quei settemila fosse composto dalla "claque" mobilitata da Forza Italia? Io lo capisco Berlusconi, pensava d'essere insostituibile alla guida dell'Italia. Pensava d'aver creato un rapporto di ferro con Putin, con Blair, soprattutto con Bush e Condoleezza Rice. Pensava che i soldati italiani a Nassiriya fossero il pegno la garanzia e il pilastro della sua politica estera.

Pensava che il governo d'Israele avrebbe buttato fuori a calci D'Alema e Prodi semmai avessero osato farsi vedere dalle parti di Gerusalemme. E infine pensava che sulla missione militare in Libano il centrosinistra si sarebbe sfarinato e dissolto come nebbia al sole.
Invece è accaduto tutto il contrario. L'Italia di Prodi, D'Alema e Parisi è diventata il partner più affidabile per Bush.

Il ritiro dall'Iraq del nostro contingente militare non ha provocato neppure un battito di ciglia né al Pentagono né alla Casa Bianca. L'unità europea si è ricostruita proprio sulla questione libanese e l'embrione di una struttura militare ha fatto la sua comparsa per la prima volta proprio in seguito all'iniziativa italiana. Lo credo bene che fosse impacciato. Tanto più che, al punto in cui sono le cose, gli toccherà perfino di dover dare i voti di Forza Italia, graditi ma non determinanti, alla strategia dell'odiato Prodi.


E chi aveva a fianco come ospite d'onore al raduno di Cl? Roberto Formigoni, uno dei suoi concorrenti, il benamato, lui sì, di Don Giussani, il vero padrone della Lombardia teocon, la sua bestia nera dopo Casini o forse perfino prima di lui. Sicché dire impacciato è dir poco. In realtà chi lo conosce riferisce che fosse furibondo, ammalato di malinconia, appannato nella postura e nell'eloquio non più fluente come un tempo. Non avendo molti argomenti da offrire al pubblico, ha ritirato fuori la delicata questione dell'uomo della provvidenza aggiungendo che metà dell'Italia lo odia ma un'altra metà lo ama e lo costringe a restare in politica.

Francamente è raro che un uomo politico si vanti d'aver spaccato il Paese in due e lo consideri un merito storico. Forse qualcuno dei suoi consiglieri dovrebbe avvertirlo che quella spaccatura da lui considerata il segno del suo successo rappresenta invece una pietra tombale sui sogni di rivincita. Se avesse dei consiglieri. Ma non li ha. Ha avuto una corte e dei cortigiani. Scomparso il potere scomparsi i cortigiani. Forse Apicella, ma anche sul chitarrista non ci giurerei.

Tuttavia, lasciando da parte il ciarpame, la claque, il trapianto dei capelli e l'uomo della provvidenza, qualche cosa di serio è venuto fuori nell'incontro tra Berlusconi e Cl. Riguarda una certa idea dell'Italia, una certa idea del cattolicesimo italiano e una certa idea dell'Occidente nei suoi rapporti con le altre culture.
Avesse affrontato temi di questa importanza in una riunione di Forza Italia non varrebbe neppure la pena di parlarne; ma li ha affrontati davanti al popolo di Comunione e liberazione e allora la faccenda cambia aspetto. L'importanza non deriva da chi ha posto il tema ma da chi lo ha ascoltato.

Da come lo ha ricevuto. Dal peso che quel tema ha su una comunità di giovani cattolici cari a papa Wojtyla e al suo successore, cari a Ruini e al patriarca di Venezia che probabilmente ne prenderà il posto, cari ad Andreotti.

Gli invitati ai raduni di Cl ci vanno per essere accettati. Ciò che viene detto a Rimini, chiunque lo dica, serve a guadagnarsi il favore della platea, non a scontentarla e a farla infuriare. Alcuni ci riescono altri no e ne escono scornati e rancorosi. Bocciati. Resta da capire perché tanta gente delle più varie estrazioni voglia farsi esaminare dai giovanotti di Cl. Ecco un punto che va approfondito. Berlusconi l'esame l'ha superato in alcune materie, ma in altre no.

Sull'invito finale a far nascere da Cl un partito moderato e liberale è stato bocciato, i ciellini non sono né liberali né moderati e lo sanno benissimo. Invece è stato promosso sulla sua idea di scuola e di cattolicesimo. Semplicemente perché non ha fatto che ripetere le cose che i ciellini vogliono sentirsi dire.
Ma quelle cose corrispondono alla realtà italiana? Agli interessi del paese? A un rapporto equilibrato tra il cattolicesimo e la modernità?

I giovani di Cl rappresentano una militanza credente. Un Cristo operativo. Pregano e operano. Si comunicano e operano. Organizzano e operano. La solitudine non è il loro forte. La contemplazione meno che mai. Li vedo molto più vicini a Giovanni Bosco che a Francesco d'Assisi. A Teresa di Calcutta che a Giovanni della Croce. Fosse tempo di crociate forse sarebbero crociati. Credo che abbiano un briciolo d'invidia verso l'Opus Dei perché il suo fondatore è già santo e quella comunità è stata elevata a prelatura. Anche Cl vorrebbe diventare prelatura e vedere il suo fondatore sugli altari, ma questi salti di qualità, purtroppo per loro, non sembrano far parte dell'agenda vaticana.

Comunque in Italia sono abbastanza potenti, sempre per via delle opere. Fuori d'Italia li conoscono poco, anzi non li conoscono affatto. Della scuola hanno un'idea che piace molto a papa Ratzinger e a Ruini. Vogliono che lo Stato finanzi le scuole cattoliche e che queste siano equiparate a quelle pubbliche. L'idea fa breccia. Nel polo berlusconiano è condivisa da quasi tutti.

Anche nel centrosinistra non mancano i consensi. Però c'è un problema: bisognerà finanziare anche le scuole musulmane, senza parlare di eventuali scuole protestanti, ortodosse, ebraiche. E poi c'è un altro problema: come si forma una coscienza della cittadinanza interetnica e interculturale se si finanziano le scuole delle varie comunità religiose? In un'Europa e in un'Italia dove la diaspora musulmana è già - e più ancora sarà - una minoranza sempre più numerosa? Con tassi di natalità crescenti?

Infine c'è un terzo problema: se lo Stato finanzia scuole religiose e le parifica alla scuola pubblica avrà ben il diritto di controllare gli standard educativi e formativi con specifica attenzione ai principi della cittadinanza. E un quarto problema ancora: di fronte al moltiplicarsi di scuole religiose quella pubblica dovrà inevitabilmente accentuare le sue caratteristiche laiche.

L'insegnamento della religione cattolica, tanto per dire, cadrà per non diventare un duplicato di quanto si insegna nelle scuole cattoliche. Senza parlare delle scuole private non religiose che diventerebbero (già sono) un meccanismo finalizzato all'ottenimento del titolo di studio.

L'idea di scuola di Cl, rilanciata l'altro ieri da Berlusconi, è in realtà un nonsenso, non incrocia nessuno dei problemi del presente e del futuro. Incrocia soltanto lo slogan: "L'Italia è cattolica e deve essere degli italiani".

Il fatto che l'Italia debba essere degli italiani è ovvio. Dev'essere dei cittadini italiani, quelli che hanno cittadinanza italiana, che lavorano, che pagano le tasse, che usufruiscono dei diritti civili e politici. Quindi anche degli ebrei italiani, dei musulmani italiani, dei valdesi italiani e dei non credenti italiani. Insomma di tutti.

Ma c'è l'altra parte di quello slogan, assai meno ovvia, che afferma: l'Italia è cattolica. Chi l'ha detto? Non esiste nella nostra Costituzione. Anzi c'era nel Concordato del '29 ma è stato abolito. Questo in punto di diritto.

In punto di fatto ha risposto Andreotti. Alla domanda che gli è stata fatta se i musulmani dovrebbero andare a messa, ha risposto sorridendo: sono molti di più i cattolici che non ci vanno. Se lo dice lui...

Per fortuna questi meeting di Cl non contano poi granché. Servono agli sponsor e alla Compagnia delle opere. Ai giovani che ci vanno per stare insieme. Ai politici e agli imprenditori che si guadagnano un titolo sui giornali. Come alle feste dell'Amicizia di questo e di quello e ai festival dell'Unità.
 

 

Controlli di carabinieri e Inps in 126 esercizi di città e provincia. Ascoltati 600 lavoratori

Bar e ristoranti fuori legge
solo il 15 per cento è in regola

Antonio Fraschilla
In un locale del centro tutti i sette impiegati erano in nero
 
Un mondo fatto di lavoratori in nero, senza orari di lavoro regolari e con intere attività commerciali sconosciute al fisco: è il desolante quadro che emerge dai controlli fatti tra luglio e agosto dall´Inps, dall´Ispettorato al lavoro e dai carabinieri in 123 pubblici esercizi di Palermo e parte della provincia. Dei pub, ristoranti e bar esaminati, soltanto diciannove erano in regola con le leggi in materia di lavoro, appena il 15 per cento. Ben dodici attività commerciali sono risultate completamente sconosciute all´Inps. I lavoratori in nero scoperti sono 282 (il 48 per cento). Diffuso anche l´utilizzo di minori e extracomunitari: trenta ragazzini lavoravano senza alcuna visita medica. I sindacati parlano di «dati allarmanti». I carabinieri hanno denunciato per occupazione di minori e extracomunitari 26 datori di lavoro. «Abbiamo controllato locali in quasi tutti i piccoli centri della provincia, specie nella costa da Carini a Balestrate, ma soprattutto a Palermo città», spiegano i carabinieri. «Le ispezioni sono state fatte tra gli ultimi giorni di luglio e i primi di agosto, ne faremo altre nei prossimi mesi: purtroppo il risultato dei controlli conferma la maglia nera del settore dei pubblici esercizi nelle irregolarità», spiega il comandante provinciale dei carabinieri Vittorio Tomasone. «Sono dati allarmanti che richiedono una riflessione immediata da parte di tutti gli operatori del settore - attacca il segretario palermitano della Uil Tucs, Pietro La Torre - Questo è un settore che in Sicilia dà lavoro a 20 mila persone, anche se mancano dati ufficiali vista la grande fetta di dipendenti in nero».
A Palermo vi sono 900 tra pub, ristoranti e bar, tremila in tutta la provincia. I controlli, fatti anche in pubblici esercizi del centro storico di Palermo (dove è stato denunciato il proprietario di un locale che aveva sette dipendenti su sette in nero), hanno messo in luce una diffusa irregolarità che va oltre il lavoro nero: in tutto sono state riscontrate 411 violazioni per irregolarità nella tenuta dei libri contabili, nei contratti e negli orari di lavoro.
Salate le sanzioni amministrative: ogni titolare ha dovuto pagare da 1.500 a 12 mila euro per ciascun addetto, più 150 euro per ogni giornata di lavoro in nero. «C´è un problema legato anche alla stagionalità, in estate molti vanno a lavorare nei bar e aumenta la domanda, ma i dati da due anni a questa parte sono sempre gli stessi - spiega Giuseppe Lo Bello, presidente Inail - Soltanto se accade qualche infortunio sul lavoro allora il titolare cerca di metterlo in regola, così nel 35 per cento dei casi ci arrivano denunce per infortuni nei primi tre giorni di contratto».
Per la Confesercenti questi dati confermano la difficoltà in cui versano i commercianti palermitani: «Tutti devono mettersi in regola ma non è un caso se tanti bar e ristoranti chiudono. C´è un problema di costi che taglia le gambe alle imprese, un lavoratore neo assunto costa al titolare 23 mila euro (di questi soltanto 12 vanno al lavoratore, ndr) - spiega Giovanni Felice, presidente della Confesercenti - Non a caso con la Uil abbiamo fatto un accordo che allunga a sei anni i contratti di apprendistato, esenti dai contributi». Per il presidente della Camera di Commercio Roberto Helg «chi sbaglia deve pagare». «Ad ottobre - dice - avvieremo un monitoraggio per verificare la regolarità delle attività commerciali». Ma gli addetti ai lavori denunciano anche la diffusa «incapacità di fare impresa». «Molti ormai si improvvisano ristoratori senza conoscere le difficoltà di mantenere in piedi un ristorante - dice Pippo Anastasio, ex presidente della Fipe e proprietario de "Il Ristorantino" - Tutti aprono e pensano di fare subito incassi, non sanno che prima dovrebbero predisporre un piano economico per fornitori, dipendenti e tasse».
 
 

25 AGOSTO

Europa un po' vile
Rossana Rossanda
Se non si è embedded, coperti e rincalzati dall'esercito americano, non ci si muove da casa, può essere pericoloso. Se si è embedded, tutte le cause sono buone per muoversi. Siccome gli Usa avevano invaso l'Afghanistan e l'Iraq, siamo volati in ambedue i paesi, che fosse una aggressione o no, che sia una occupazione o no, che ne sia venuta una guerra civile o no. Siccome al confine fra Israele e Libano gli Usa non vanno, si scopre che interporsi fra due paesi in conflitto può essere pericoloso e chi ce lo fa fare? Questa sarebbe guerra e quelle sono missioni di pace.
Le persone e i partiti più curiosi si scoprono adepti di quel pacifismo che hanno dileggiato fino a ieri. E anche qualche pacifista trova che è meglio non mettersi in mezzo: il solo rispettabile, a parer mio, è Gino Strada, che preferirebbe una folla disarmata a quindicimila soldati, perché lui sta in mezzo sempre, ad aggiustare ossa rotte e cicatrizzare ferite e cercare di salvare le vite (e perciò è considerato un eversivo). E avrebbe anche ragione, ma una forza civile di interposizione non c'è.
C'è per una volta la disponibilità dell'Onu, c'è una accettazione di principio delle due parti, Libano e Israele, il primo, demolito dal secondo, la chiede con urgenza - e si continua a traccheggiare? E si ignora che in Libano gli Hetzbollah stanno alla tregua mentre Israele continua raid e bombardamenti finché la forza multinazionale non ci sarà, e qualsiasi rimprovero le venga dal Palazzo di vetro non lo sente?
Siamo stati accusati di essere antieuropei perché abbiamo giudicato indecoroso il trattato che doveva essere la base costituzionale del nostro continente. Oggi siamo noi sbalorditi della sua incapacità di metter assieme la forza di interposizione proposta dall'Onu. La Francia che se ne pretendeva l'alfiere e doveva impegnare 2.000 uomini sui 15.000 giudicati necessari, s'è ricordata che sta entrando in campagna elettorale per le presidenziali e senza arrossire ne manda duecento.
La Spagna più di 700 non ne mette, e fanno 900. La Germania non ne mette nessuno per un certo comprensibile pudore che un soldato tedesco si trovi di fronte, anche per un semplice controllo, un soldato israeliano. La Gran Bretagna di Blair manda i suoi sempre e solo dietro gli Usa. L'Italia s'è impegnata per 3.500 uomini, a certe condizioni che apparentemente sono garantite. Ma ci staremmo, noi gli spagnoli e i duecento francesi soli soletti? D'Alema si dà da fare. Nessun altro, anzi Rutelli mette il bastone fra le già fragili ruote. Quale stupenda prova di solidarietà e saggezza l'Europa sta dando! Come sospettavamo essa esiste soltanto come Banca centrale, moneta unica, libero mercato e coordinamento di polizie. Il resto è nulla.
Peggio, quel che da cancellerie e media stiamo sentendo sono argomentazioni invereconde, a coprire il fatto che chi se ne frega se il Libano è fatto a pezzi. In ogni caso Beirut ha la colpa di albergare i terroristi di Hetzbollah. Noi che difenderemmo l'esistenza di Israele, se fosse messa in causa, con le nostre persone - perché la libertà degli ebrei è un valore nostro - siamo convinti che gli Hetzbollah sono stati creati dalla infausta invasione israeliana del Libano nel 1982.
Senza questa e senza l'occupazione della Palestina dal 1967 ad oggi, non avremmo due forze islamiche e islamiste elette dai due popoli fino al governo, perché sono le sole a costruirne e reggerne la rete civile e sociale. Essi riempiono un vuoto che è stato colpevolmente creato. Israele sembra non rendersi conto ancora dei guasti che ha fatto in Medio Oriente, essa che poteva esserne un lievito. E continua a farne: quale altro paese potrebbe sequestrare la metà d'un governo democraticamente eletto? Chi altro sta da quaranta anni fuori dai propri confini?
La politica di Israele semina odio e poi lo teme. Il tutto senza che il mondo batta ciglio perché tanto, se lo batte, Tel Aviv resta indifferente, convinta come è di avere il più forte esercito di tutto il Medio Oriente e alle sue spalle quello più forte del mondo, cioè il Pentagono? È bene che una presenza internazionale sconsigli alla resistenza armata di Hetzbollah di lanciare missili e razzi, cosa che già adesso ha cessato di fare - dico con intenzione resistenza armata perché Hamas e Hetzbollah non c'entrano affatto con Al Qaida - ed è bene che il solo fatto di esserci, impedisca a Israele di fare raid nel Libano del sud come sta ancora continuando a fare, non senza minacciare un secondo round. Bisognerebbe interporsi anche fra Israele e Palestina, altro che muri. Finché le Nazioni Unite non riusciranno a impedire i conflitti e sanzionarli, conteranno sempre meno. E quanto all'Europa, non si capisce perché dovrebbe essere presa sul serio.
 

Ma alcuni media, i più autorevoli e i fogli locali, potranno salvarsi
«L'ultimo quotidiano? Uscirà nel 2043»
Giancarlo Radice
La profezia dell'«Economist»: in via di estinzione l'informazione su carta stampata. Il «Financial Times»: a ucciderci non sarà
MILANO - «Who killed the newspaper?». «Chi ha ucciso il giornale?». Il punto interrogativo è lì, bello chiaro, fin dal titolo. Ma è come se non ci fosse. Per l'Economist, l'informazione su carta stampata è ormai in via di estinzione in (quasi) tutto il mondo. Destino certo. Solo questione di tempo. Tanto che al problema il settimanale britannico riserva un buon numero delle sue pagine di questo numero, dalla copertina al primo dei commenti fino al dossier d'apertura della sezione economica. E il suo ricordo va subito agli anni '70, quando due oscuri cronisti del Washington Post riuscirono con i loro reportages a far esplodere il Watergate e mandare sotto impeachment il presidente Richard Nixon. Bei tempi, appunto, quando «i giornali dettavano l'agenda per tutti gli altri media».
Oggi, invece — commenta amaro l'Economist «il business di vendere parole ai lettori, e vendere questi lettori agli inserzionisti pubblicitari, sta crollando». Persino uno come Rupert Murdoch, l'editore globale che fino a pochi anni fa definiva la carta stampata «un fiume d'oro», adesso ammette che «il fiume si sta prosciugando». E c'è anche chi ha già preparato la lapide con una data precisa. Come Philip Meyer, autore di «The vanishing newspaper » (ci risiamo con il giornale che «svanisce»), secondo il quale in America «il primo trimestre del 2043 sarà il momento in cui l'ultimo, esausto lettore getterà via l'ultimo, raggrinzito quotidiano». Una tesi quantomeno azzardata, replicano molti addetti ai lavori.
Peter Kahn, giornalista da Pulitzer ed ex numero uno del gruppo Dow Jones (quello del Wall Street Journal), è da sempre convinto che il giornalismo stampato continuerà a navigare a lungo, purché sia consapevole di «rivolgersi a un'élite di pubblico intelligente», che pretende «informazioni e analisi di alta qualità». E purché «non si metta a inseguire tv e internet, trasformando le news in intrattenimento spettacolare». Ottimista sembra anche Rachel Smolkin, direttrice della American Journalism Review, che nel suo saggio « Adapt or die » vede i giornali ancora in grado di «imporre il proprio marchio» e di porsi come «motore centrale da cui espandere l'attività d'informazione verso altre piattaforme, internet o pubblicazioni specializzate».
Nessuno, comunque, nega il declino. «Negli ultimi 10 anni la diffusione dei giornali è in forte calo in Usa come nell'Europa occidentale, in Australia come in Nuova Zelanda e in America latina», elenca l'Economist. In Svizzera e Olanda i quotidiani hanno già perso oltre il 50% della pubblicità. E negli Stati Uniti, secondo la Newspaper Association of America, dal 1990 al 2004 il numero di persone occupate nell'industria del settore è diminuito del 18%. Sempre negli Usa, all'alba del 2005, un gruppo di azionisti ha costretto la Knight Ridder (proprietaria di un'autentica galassia di quotidiani) a vendere tutto al miglior offerente, mettendo la parola fine a 114 anni di storia editoriale.
Insomma: lo stato di grave malattia è accertato. Così come è ormai individuato il potenziale killer: non la tv, ma internet. Meglio: l'informazione via web. A rafforzare la tendenza, come spiega l'Economist, sono stati (e sono) gli stessi editori di carta stampata, con un'inesauribile raffica di errori. Esempio: il settimanale britannico la pensa come Kahn e accusa «molti editori» di «aver ignorato per anni le ragioni del declino dei giornali, concentrandosi solo sul taglio dei costi e riducendo le spese per i contenuti "giornalistici", e adesso cercano di attrarre nuovi lettori puntando sull'entertainment, sull'informazione per il tempo libero e altri generi che si supponga interessino alla gente più che gli affari internazionali o la politica».
Cosa resterà alla fine? «Pubblicazioni come il New York Times oil Wall Street Journal saranno in grado, per l'alta qualità dell'informazione che offrono, di alzare il proprio prezzo di vendita e compensare così il calo degli introiti pubblicitari persi a causa di internet», pronostica l' Economist. Si salveranno, probabilmente, anche i giornali locali. Per tutti gli altri, invece, sarà dura. Una tesi che, pur con meno pessimismo, anche il Financial Times sembra appoggiare. Proprio ieri, in un commento intitolato «OldTube, NewTube» (gioco di parole fra le «condutture» per diffondere contenuti e il sito web YouTube) il quotidiano britannico ha sottolineato che «internet non sarà la fine dei media old-style». Ma, alla fine del ragionamento, arriva alle stesse conclusioni: che i giornali devono sviluppare la «qualità» di quello che offrono. E butta lì un paragone fra fra parole e cinema: «Il web non ha certo cambiato l'economia di Hollywood — osserva il giornale —. Per realizzare il Titanic serve gente che lo sappia fare e abbia 200 milioni di dollari di budget, non bastano i clip amatoriali diffusi via blog».
 
 

24 agosto

Il Libano di Amnesty
Guglielmo Ragozzino
E'in corso un'accesa discussione sulle regole d'ingaggio e sulle caratteristiche dell'intervento militare di interposizione tra Libano e Israele. La discussione finisce per coprirne un altro argomento: quello che riguarda «le responsabilità per le gravi violazioni del diritto umanitario commesse da Hezbollah e da Israele nel mese di conflitto». Occorre in proposito, secondo Amnesty International, «un'inchiesta urgente, esaustiva e indipendente da parte delle Nazioni unite». Sempre secondo Amnesty, «la distruzione di migliaia di abitazioni e il bombardamento di numerosi ponti, strade, cisterne e depositi di carburante (sono) parte integrante della strategia militare israeliana in Libano, piuttosto che «danni collaterali», derivanti da attacchi legittimi contro obiettivi militari». Amnesty ha aggiunto che alle «vittime civili, uccise sui due lati del conflitto, va resa giustizia». E Amnesty (servizio a pagina 5) insiste sul tema dei «crimini di guerra» che poi sono di due tipi, questa volta: uccisione inutile o meglio terroristica di civili e disastri ambientali: disastri dolosi.
Nel corso della guerra Amnesty ha svolto quattro missioni in Libano e Israele, raccogliendo informazioni e testimonianze di centinaia di persone su entrambi i lati del fronte, visitando i luoghi della guerra, le città abbandonate, i paesi rasi al suolo. Il quadro che ne risulta è di un'area distrutta da una sorta di terremoto ambientale e umano. Non che ci si possa stupire, la guerra ha proprio questo compito: distruggere gli insediamenti umani costruiti nel corso di secoli, le attività della vita, la natura, fatta di spazio, di spiagge, di acqua, di campi e città, di boschi e frutteti. I danni in euro si calcolano in migliaia di milioni, ma è un conto crudele e fine a se stesso. Quanto vale una vita di bambino? Da entrambi i lati del fronte qualche capo di guerra, ci sta riflettendo. Molte mamme, molti padri piangono.
Leggere i resoconti di Amnesty, poi riassunti nel suo documento proposto al pubblico e al consiglio di sicurezza del'Onu, è entrare in un mondo di desolazione, di ospedali sotto i colpi di cannone, di paesi e città bersagliati scientificamente dal mare, dal cielo, dalla terra. Solo fatti, nessuno sfogo di emozioni, nessuna parola superflua. Ma la visione della guerra e delle sue distruzioni di vite e di beni comuni è ugualmente intollerabile.
Ora bisogna ricostruire, muovendosi nelle strettoie delle regole d'ingaggio. Sul terreno ci saranno militari dappertutto, gli irriducibili che vorrebbero combattere, e gli altri, chiamati a interporsi, a impedirgli di ricominciare, a garantire che non ci siano errori o colpi di mano. Un compito arduo. Ma bisogna andare oltre, capire cosa è accaduto, trovare il modo di giudicare i responsabili. Il tribunale per i crimini guerra esiste per questo. E poi bisogna scegliere il da farsi. L'Italia sembra decisa a mandare moltissimi soldati, certo con l'intenzione di difendere il cessate-il-fuoco, un impegno assai più generoso di quello di ottenere il generalissimo e il copyright del codice d'ingaggio.
La spesa da stanziare, molto ingente, è considerata necessaria per il mantenimento della pace. E va bene. Ma non sarebbe meglio se gli stessi soldi potessero, in un domani, servire a ricostruire tutti i ponti, a riportare nelle case l'acqua necessaria per vivere, a rifondare alla vita, sicura, pacifica, le città di Haifa e di Beirut?

21 agosto

Intervista a Ruggero Giuliani, coordinatore di Missione Italia

Msf: «Nel Sud vita indecente per gli stagionali immigrati»

Claudia Russo
Medici senza frontiere ha pubblicato la scorsa estate il dossier “I frutti dell’ipocrisia” sulle condizioni di vita e salute degli immigrati che lavorano stagionalmente nel sud Italia, e in questi mesi l’associazione ha operato in alcune regioni del meridione. Ruggero Giuliani, coordinatore del progetto operativo Missione Italia, spiega a Liberazione i risultati emersi da questo lavoro.

In che modo e in quale aree opera Missione Italia?

Dal 1999 ci occupiamo di assistenza sanitaria agli immigrati in prevalenza “regolari” ma anche ai richiedenti asilo e ai rifugiati. Abbiamo due tipi di progetti: uno che riguarda l’accoglienza, e si svolge prevalentemente sulle coste della Sicilia in provincia di Ragusa, Agrigento e Lampedusa, l’altro che riguarda l’assistenza sanitaria ai lavoratori stranieri impiegati nell’agricoltura per incrementare la legge Bossi Fini, che in materia sanitaria non ha assolutamente mitigato i problemi esistenti all’epoca della Turco-Napolitano. La filosofia dei nostri progetti, che abbiamo battezzato come “cometa”, è quella di non creare sistemi paralleli e privati ma di collaborare con le Asl nei territori. Si tratta per lo più di protocolli d’intesa svolti in seguito ad un monitoraggio puntuale nelle zone di Napoli, nel foggiano, nella piana di Gioia Tauro e in tutta la provincia di Reggio Calabria, più le aree siciliane di Cassibile, Siracusa e Ragusa. Queste zone sono interessate da un alto afflusso di lavoratori.

Quali sono stati i dati più rilevanti emersi dalle vostre inchieste?

Nel corso del progetto, Msf ha visitato e intervistato 770 persone (su un totale stimato di 12mila lavoratori stagionali immigrati impiegati in agricoltura nel Sud Italia). I risultati dell’inchiesta, come già successo lo scorso anno sono piuttosto allarmanti: la grande maggioranza dei lavoratori incontrati vive in condizioni igieniche e alloggiative inaccettabili e non rispondenti agli standard minimi fissati dall’Alto commissariato Onu per i Rifugiati (Unhcr) per l’allestimento di campi profughi in zone di crisi: il 40% vive in edifici abbandonati; il 36% vive in spazi sovraffollati; più del 50% non dispone di acqua corrente; il 30% non ha elettricità; il 43,2% non dispone di toilette; la maggior parte dei lavoratori immigrati riesce a mangiare solo una volta al giorno (per lo più la sera), anche nelle giornate in cui lavorano nei campi per 8-10 ore; il 48% di loro ha dichiarato di percepire 25 euro o meno per giornata di lavoro; molti riescono a trovare lavoro solo per tre giorni a settimana e le loro entrate sono quindi molto ridotte; il 30% dei lavoratori deve pagare di tasca propria al caporale il trasporto fino al luogo di lavoro (in media 5 euro al giorno). E’ dunque naturale che il 53,7% dichiari di non riuscire a inviare alcuna somma di denaro nel Paese d’origine.

Ci sono state differenze forti tra l’esperienza dello scorso anno e quella di quest’anno?

Noi gestiamo gli ambulatori per un periodo di tempo limitato che va dai sedici ai diciotto mesi poi ridiamo queste strutture alle Asl con la promessa da parte loro di portarli avanti con personale autonomo. A differenza dello scorso anno, durante il quale abbiamo svolto un servizio itinerante, in questi mesi abbiamo operato con strutture fisse riscontrando maggiore sensibilità ed attenzione da parte delle autorità. Statisticamente i nostri pazienti sono uomini tra i 20 e i 40 anni che arrivano in Italia in buona salute ma che si ammalano a causa delle condizioni igieniche o dello stress da lavoro. Le principali patologie sono legate ad infezioni intestinali causate da cattiva alimentazione oppure a banali dermatiti curabili con farmaci reperibili facilmente.

Esiste un’ assistenza sanitaria pubblica per gli stranieri?

L’accesso all’assistenza sanitaria pubblica sembra ancora un miraggio per questi lavoratori perché manca la figura del medico di base, quello di primo livello. La legge italiana prevede che tutti gli stranieri regolarmente soggiornanti (compresi richiedenti asilo e rifugiati) beneficino di un’iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale (Ssn) alle stesse condizioni degli italiani; gli stranieri irregolarmente presenti sul territorio, in caso di necessità di cure mediche, possono accedere alle strutture pubbliche con la garanzia dell’anonimato (e quindi senza correre il rischio di essere espulsi) grazie al rilascio di un codice numerico detto STP (straniero temporaneamente presente). Questi diritti restano solo sulla carta per la maggior parte degli stranieri impiegati in agricoltura: nonostante la legge, il 75% dei rifugiati, l’85,3% dei richiedenti asilo e l’88,6% degli stranieri irregolarmente presenti visitati da MSF non beneficiava di alcun tipo di assistenza sanitaria.

 

Il governo Blair pensa a restrizioni per l’accesso al mercato del lavoro

Inghilterra, cresce la fobia dell’“idraulico polacco”

Gabriella Alberti
Il 19 Luglio scorso la viceministra dell’interno britannica Joan Ryan ha presentato il documento sull’impatto della nuova immigrazione dai paesi dell’Est Europa sul sistema di welfare nazionale in Inghilterra. Con questo rapporto l’ufficio dell’interno lancia l’allarme sulle pressioni cui sarebbero stati sottoposti i servizi pubblici in seguito all’affluenza dei nuovi lavoratori immigrati dagli otto paesi che hanno fatto ingresso nell’Unione Europea nel maggio 2004, con particolare riferimento a Bulgaria e Romania. Dal canto suo la stampa britannica contribuisce a fomentare il clima di allarmismo denunciando cifre molto più alte rispetto a quelle che il governo aveva previsto: da un massimo di 13mila unità all’anno ci si è trovati di fronte ad un totale di 662mila registrazioni nel solo 2005. L’aumento sostanziale nel numero di registrazioni rispetto agli anni passati è attribuito soprattutto all’afflusso di migranti provenienti dai nuovi paesi membri, i cui ingressi sarebbero aumentati del 143% rispetto a quelli di altre nazionalità.

Il governo britannico si prepara intanto a rielaborare la sua politica migratoria attraverso l’istituzione di una commissione ad hoc che studi nuovi strategie per un’immigrazione meglio “gestita”, proprio mentre procede il dibattito sull’opportunità di imporre ai futuri emigranti bulgari e rumeni il periodo transitorio di 7 anni prima di poter accedere liberamente al mercato del lavoro nazionale. La Gran Bretagna è infatti uno dei pochi paesi dell’UE (assieme ad Irlanda e Svezia) a non aver applicato fino ad ora rinvii o restrizioni alla libertà di circolazione. Fino alla fine del 2005, dei 345.410 lavoratori provenienti dai nuovi 8 paesi membri dell’est Europa, il 95% è stato ammesso e registrato nei Workers Registration Schemes. Per i neo cittadini europei non c’è l’obbligo di ottenere un vero e proprio permesso di lavoro per entrare nel Regno Unito, ma è tuttavia necessaria la richiesta di ammissione in questi schemi di reclutamento, strumento di controllo e regolazione della mobilità e insieme precondizione per l’accesso ad alcuni e benefici sociali.

Così accade che proprio mentre la commissione europea si preoccupa di smentire, cifre alla mano, i timori dei paesi Ue sugli effetti della libera circolazione dall’Est sui mercati interni, (esaltando tra gli altri proprio l’esempio del Regno Unito e gli effetti benefici dei nuovi flussi sul suo prodotto nazionale), ecco il governo Blair fare retro marcia, sull’onda del riaperto dibattito sui classici temi dei costi dell’immigrazione, le pressioni sul welfare e gli effetti depressivi sui salari degli autoctoni. Mentre da un lato la Camera dei Lord si affretta a concludere che i migranti poco o non qualificati dell’Est non rappresentano generalmente una minaccia per lavoratori nazionali, e la stampa dall’altro accusa i polacchi di rubare i lavoretti estivi agli studenti, l’unica certezza è che a guadagnarci sono le agenzie di servizi che reclutano lavoratori a basso costo nel settore delle pulizie, della sicurezza, accoglienza, ristorazione, come anche le famiglie dal reddito medio/alto che impiegano un numero sempre più elevato di domestiche e badanti dall’Est, idraulici, carpentieri, pittori o decoratori polacchi e ungheresi. Il punto, sottolinea The Guardian, è che il boom nell’offerta di lavoro dei nuovi migranti interessa soprattutto il mercato informale, dove il lavoro è più ricattabile, le retribuzioni più basse e i guadagni per i padroni ancora più alti.

Di fronte alla sorprese di quest’anno, allo scopo di diminuire la pressione sui servizi pubblici, il documento dell’ufficio dell’interno propone piani di contingentamento dei flussi non appena si intraveda un aumento nel numero dei nuovi immigrati, rispetto a quelli previsti dai paesi che entreranno nel 2007. Il segretario agli Interni John Reid, alla domanda se l’anno prossimo sarà permesso ai migranti di lavorare legalmente nel Regno Unito, risponde che ciò potrà accadere solo se d’altra parte si difenderanno i cittadini dalle possibili conseguenze dell’“invasione”. Il governo crede così di poter definire a tavolino una gestione dei flussi che stabilisca un optimum level of immigration, capace di riempire i buchi di manodopera, soprattutto qualificata, del mercato interno dimostrando al contempo di tenere in conto «insicurezza sociale crescente di alcune comunità». Ma intanto pare che ancora una volta la “questione immigrazione” venga utilizzata come paravento rispetto al crescente malcontento sociale. Una politica più selettiva a favore della manodopera qualificata, capace di rispondere insieme ai bisogni dell’economia e alle “ansie sociali” dei propri cittadini si riempie però di nuove contraddizioni, se pensiamo alle recenti dichiarazioni del comune di Cracovia, che per frenare la fuga di cervelli e rispondere alla carenza di manodopera qualificata che la città e il paese continuano a registrare, lancia il suo piano “Cracovia ti ama”: una sorta di operazione di “ripescaggio” dei cittadini polacchi impiegati nei pub e negli alberghi di Londra, con l’obiettivo di convincerli a ritornare nel proprio paese, sottrarsi ai processi di svalutazione delle loro competenze e forse, a conti fatti, sperare in una più alta qualità della vita.

 

Abolite la legge Bossi-Fini: subito

Piero Sansonetti

Altri dieci morti, o forse venti, trenta, a pochi chilometri da Lampedusa. Sono stati arrestati cinque scafisti. Giuliano Amato dice che non è solo una tragedia, quella di Lampedusa, è un crimine. Ovvio. Si tratta poi di stabilire se i responsabili del crimine siano solo quei disgraziati - gli scafisti - che fanno i soldi approfittando della disperazione di milioni di persone, oppure se la colpa è anche di chi ha fatto delle leggi sull’immigrazione che neanche prendono in considerazione i bisogni, le aspirazioni e i diritti degli immigrati (che pure dovrebbero essere i protagonisti di queste leggi). Le nostre leggi sull’immigrazione si occupano solo del bisogno di sicurezza degli italiani. Così si sono create le condizioni che inaspriscono la clandestinità e favoriscono lo spirito criminale e ardimentoso degli scafisti. Una legge che prevedesse l’accoglienza dei profughi (se sfuggono a persecuzioni politiche, o alla schiavitù, o alla fame, poco importa: comunque sono i profughi) e che mettesse in secondo piano il problema cosiddetto “securitario”, sarebbe un colpo mortale agli scafisti e alle carrette del mare.

Che vuol dire questa parola un po’ di gergo: securitario? Vuol dire preoccupato della sicurezza. Ma della sicurezza di chi? Non certo degli africani che cercano di attraversare il mare e troppo spesso ne vengono inghiottiti. Per misura securitaria si intende misura che garantisce lo status quo, la sicurezza, la tranquillità di chi è già sicuro e tranquillo. Una volta si diceva: della gente per bene. Non vi pare che questa concezione delle leggi e delle esigenze dello Stato sia un po’ una schifezza?

Ora è chiaro che al governo di centrosinistra non si possono chiedere i miracoli. La destra ha governato davvero male questo paese, in cinque anni. E di danni ne ha fatti tanti. Non sarà semplicissimo correggerli. Come fai a cambiare la legge 30, sul lavoro, se prima non metti a punto una riforma del mercato del lavoro ragionevole? O come fai a cambiare la legge sulla fecondazione assistita, o la legge Moratti o quella che disciplina la Tv e la stampa? E’ un lavoro duro e complicato fare queste riforme, perché non si può rischiare quella che gli esperti chiamano “vacatio legis”, cioè assenza della legge.

Per quel che riguarda la Bossi-Fini le cose sono diverse. La legge Bossi-Fini è quella che ha blindato le nostre frontiere, criminalizzando i migranti senza permesso di soggiorno. Io credo che il governo potrebbe intervenire subito e anche, se è necessario, in modo un po’ grossolano: cancellandola. Poi si penserà a fare una nuova legge. La “vacatio legis” in questo caso è molto meglio che tenerci la legge così com’è per chissà quanti mesi. Con quella legge la gente muore (anche se non era questa l’intenzione né di Bossi, credo, né di Fini, né dei deputati della destra che l’hanno votata: spesso il forcaiolismo è dettato da ottime intenzioni; sempre fa disastri atroci). Non c’è molto da tempo da perdere, si tratta di approvare un decreto che dice solo questo: la legge è abolita.

 

11 agosto

Licenziati per eccesso d'infortuni dall'Ilva, campione dell'insicurezza
Tre operai dell'acciaieria di Taranto licenziati: troppi infortuni. Lunedì, sciopero di 24 ore
Manuela Cartosio
Martedì mattina tre operai dell'Ilva di Taranto si sono accorti che il loro badge d'ingresso era stato disattivato. Il perché l'hanno appreso dopo: padron Riva li ha licenziati per eccesso d'infortuni. Succede nello stabilimento siderurgico dove ogni sei mesi un lavoratore ci lascia la pelle, dove nell'arco di un anno si verificano 3.500 infortuni, uno ogni tre dipendenti. Succede quando le massime autorità dello Stato e l'Osservatore romano ripetono quotidianamente che la misura è colma. Succede proprio nel cinquantesimo anniversario della tragedia di Marcinelle.
«Fossimo a Carnevale, si potrebbe pensare a uno scherzo», commenta il segretario regionale della Uil Aldo Pugliese. Ma siamo a Ferragosto e l'Ilva approfitta della disattenzione vacanziera per mettere a segno un colpo preparato da tempo. Qualche mese fa Pietro De Biasi, responsabile delle relazioni industriali, aveva convocato una conferenza stampa apposta per sostenere che «più del 30% degli infortuni che si verificano all'Ilva di Taranto sono anomali». Anomali nel senso di fasulli, aveva fatto intendere, inventati per mascherare l'assenteismo. Un passo in più rispetto alla linea tradizionale del gruppo Riva, secondo cui la «colpa» degli infortuni è sempre ed esclusivamente della disattenzione e dell'imperizia dei lavoratori.
C'è una palese contraddizione tra non rispettare le norme di sicurezza e inventarsi un infortunio per starsene a casa a poltrire. I tre licenziati, secondo l'azienda, avrebbero fatto entrambe le cose. Sono operai che hanno superato la cinquantina, che lavorano all'Ilva da un pezzo. Perchè l'azienda non ha contestato volta a volta le presunte irregolarità?, domanda il sindacato, ricordando che ogni infortunio viene certificato dal capoturno, dal medico e dall'Inail. Oggi Fim, Fiom e Uilm ricorrono alla magistratura contro i licenziamenti, lunedì prossimo 24 ore di sciopero. «Il minimo a fronte di questa infamità», dice Massimo Battista, dell'esecutivo della Fiom, «altrimenti cosa ci sta a fare il sindacato?».
Battista non ha dubbi sull'adesione allo sciopero: «Tutti hanno capito che l'Ilva ne colpisce tre per ammaestrarne 13 mila. Questa è una caserma, vige lo stato di polizia, 1200 contestazioni disciplinari in un anno, ti negano l'acqua minerale nei reparti a caldo. I lavoratori non ne possono più, reagiranno». E' Taranto, purtroppo, che non si muove, «la città accetta tutto dall'Ilva». Inquina, fa ammalare la gente, «ma è l'unica cosa che fa girare un po' di soldi».
A proposito di soldi, il sindacalista della Fiom ci racconta l'ultima lussuosa offerta dell'Ilva: «Un buono da 100 euro a testa da spendere in un negozio di articoli sportivi, se nell'ultimo semestre dell'anno diminuirano gli infortunia». Nemmeno questo è uno scherzo, è la proposta ufficiale avanzata dall'azienda nell'ultimo incontro con il sindacale. Un'azienda che nel 2005 ha fatto profitti per un miliardo di euro, mentre in un paio d'anni l'indice di produttività dell'impianto di Taranto è aumentato del 35%.
Lo Slai Cobas incita i lavoratori a ribellarsi contro un padrone delle ferriere che «tratta gli operai come schiavi, pretende sempre carne fresca disponibile e sottomessa». Il capogruppo del Pdci alla Camera, Pino Sgobio, ha presentato un'interrogazione urgente al ministro del lavoro: «E' inconcepibile che l'Ilva se tre operai a causa di un infortunio non possono recarsi al lavoro ricorra al licenziamento coatto. E' un comportamento antisindacale, un'inquietante scenario da fabbrica di fine Ottocento».
Lo scorso aprile all'Ilva due «incidenti» in una sola settimana causarono un morto e tre ustionati gravi. I lavoratori risposero con 32 ore di sciopero, il più lungo nella storia dell'acciaieria. Martedì, mentre l'Ilva ne licenziava tre per eccesso d'infortuni, un operaio rischiava di rimetterci una mano e un altro per poco non finiva in camera iperbarica.

 

I dati sono stati elaborati dall'Anmil su fonte dell'Inail
Damiano: "Situazione grave, ma stiamo lavorando alla svolta"

Italia, "morti bianche" in aumento
469 vittime nei primi 5 mesi 2006

<B>Italia, "morti bianche" in aumento<br>469 vittime nei primi 5 mesi 2006</B>

Il ministro Cesare Damiano

ROMA - Nei primi cinque mesi del 2006 le morti bianche in Italia sono state 469: esattamente lo stesso numero dell'anno scorso. A una prima e superficiale analisi, dunque, i dati elaborati dall'Anmil, l'associazione mutilati e invalidi sul lavoro, su fonte dell'Inail, rivelano un trend costante negli infortuni sul lavoro. Conclusione affrettata e subito smentita a una lettura più approfondita del rapporto.

Numeri alla mano, infatti, soltanto lo scorso maggio, gli incidenti mortali sono stati 126, ovvero il 4,13% in più rispetto al maggio 2005. Dato che evidenzia come gli incidenti sul lavoro siano in realtà in aumento. Cresciuti di oltre mille unità, sono infatti passati da quota 375.215 dei primi cinque mesi del 2005 ai 376.495 della stessa data nel 2006.

E il peggio deve ancora arrivare. "Statisticamente - ha infatti detto il presidente dell'Anmil, Pietro Mercandelli - il picco degli infortuni sul lavoro, si raggiunge nei mesi di giugno e luglio, particolarmente intensi per le attività edilizie, agricole e anche manifatturiere". Per questo, "sono ormai necessarie azioni immediate da parte del governo" per arginare il fenomeno, ha concluso Mercandelli.

E dal governo la risposta non si è fatta attendere. "I dati sono gravi e sconcertanti. Il 30 agosto - ha annunciato il ministro del lavoro Cesare Damiano - ci sarà l'apertura ufficiale del tavolo sul lavoro nero con le parti sociali, in vista della prossima legge finanziaria". Il ministro ha assicurato che "stiamo operando per una svolta radicale" e che il testo unico sulla sicurezza sul lavoro vedrà la luce "entro la fine dell'anno". E non solo: il ministero si è già attivato per "una seconda conferenza nazionale sulla sicurezza e sulla salute nei luoghi di lavoro che si terrà nell'autunno a Napoli, in una delle regioni più colpite da questo fenomeno".
In mattinata era stato lo stesso Mercandalli a ricordare che "ogni incidente porta con sè gravi danni umani e familiari. Oltre al costo che la collettività intera è chiamata a sostenere: elevatissimo in termini economici, laddove alcuni traggono profitto dai risparmi sulle misure di sicurezza".

Scandagliando il calendario, in particolare, le morti bianche sono state 90 a gennaio, in aumento del 4,65% rispetto al gennaio 2005; 76 a febbraio (lo stesso numero di febbraio 2005); 93 a marzo, con un incremento del 3,33%. Solo ad aprile, il fenomeno ha registrato un notevole calo (-12,50%) ma è probabile che sia dipeso dalle ferie pasquali. E' poi ripreso il trend in ascesa: volendo semplificare, a maggio sono morte 4 persone ogni giorno (domeniche incluse) sul luogo del lavoro.

Il segretario nazionale della Fillea-Cgil, Mauro Macchiesi, punta il dito contro "l'assenza dell'impresa nei cantieri". "Oggi - denuncia il sindacalista - nei cantieri ci sono i caporali al posto dell'impresa: ciò significa scarsa professionalità e organizzazione del lavoro molto improvvisata". Inoltre, sottolinea Macchiesi, "il rapporto tra giornate lavorative e infortuni mortali di fatto è un infortunio al giorno se si considera che i giorni lavorativi dovrebbero essere 22 al mese".

Più in generale, invece, gli incidenti sono aumentati nei primi cinque mesi in media dello 0,34%: anche in questo caso, a maggio l'incremento è stato sostenuto (4,3%) ma soprattutto a gennaio (+5,01%). Quasi stabile l'andamento a febbraio (0,16%), in ascesa a marzo (3,81%) mentre ad aprile c'è stato un calo del 12,07%. Tirando le somme, a maggio gli incidenti sono stati 90.161, quasi 3.000 al giorno, anche qui domeniche incluse
.

 

TORNA ALLA PAGINA INIZIALE