Archivio Febbraio 2006

 

 

28 febbraio

Elezioni: regia di Groucho Marx
Lo sport preferito nelle due coalizioni sembra quello di parlar male del proprio gruppo e di esaltarne le divisioni interne

Leggo su uno dei più importanti e seri quotidiani italiani un titolo su molte colonne: 'Scontro Berlusconi-Prodi'. O basta là, come si dice dalle mie parti. Visto che siamo in periodo elettorale e che i due competitori sono appunto Berlusconi e Prodi, che cosa vi sareste attesi, che andassero insieme di nascosto a passare i week-end in un motel per coppiette? Che notizia sarebbe stata, nel corso delle ultime elezioni americane, parlare di uno scontro Kerry-Bush? Eppure anche questo accade, in una corsa dei mass media a trovare ogni giorno spunti drammatici, come se non bastassero le altre pagine dove si parla di assalti alle ambasciate, dell'aviaria, o del gas latitante.

Queste sono indubbiamente elezioni all'insegna della follia, e sembrano svolgersi con la regia di Groucho Marx (che aveva detto "non diventerei mai membro di un club disposto ad ammettere uno come me"). Quello che ho imparato da ragazzo, uscito dal fascismo e iniziato ai misteri della democrazia, è che in periodo elettorale due o più gruppi sono in mutua concorrenza, e gli appartenenti al gruppo A, per tutto il corso della tornata elettorale, debbono parlare bene del gruppo A esaltandone le capacità di governo e parlar male del gruppo B. Ora invece pare che ciò che preoccupa maggiormente gli appartenenti a ciascun schieramento sia parlare male del proprio gruppo ed esaltarne le divisioni interne. Questo non è vero soltanto dell'Unione, che ne ha fatto uno sport ormai consolidato, ma anche della cosiddetta Casa delle Libertà, dove si è solo liberi di sbranarsi a colpi di tridente.

L'epitome, ovvero la sintesi esemplare di questa tendenza, la si è avuta quando è apparso a 'Matrix' Marco Ferrando. Questo signore ha alcune opinioni che sarebbe arduo condividere e altre che, nel corso di una conversazione pacata, non apparirebbero necessariamente deliranti. Per difendere queste opinioni Ferrando ha fatto il possibile per riequilibrarne la portata ed escludere le interpretazioni eccessivamente malevole, ma in compenso ha dedicato la maggior parte del suo tempo a dimostrare che il programma Prodi è praticamente equivalente a quello di Berlusconi, se non peggio, e la sua spietata critica ha presumibilmente fruttato al Polo una cospicua manciata di voti (o all'Unione una manciata di astensioni).

Certo si deve apprezzare l'intemerato coraggio di chi vuole dire a tutti i costi quello che ritiene essere la verità, ma chi fa questa scelta rinuncia a far politica, o almeno non tenta di farsi eleggere parlamentare nello schieramento che disprezza, e sceglie uno sdegnoso esilio di oppositore in pianta stabile. La politica è l'arte del compromesso e, una volta scelta una parte, bisogna fare del proprio meglio per non metterla pubblicamente alla berlina. Almeno, non in periodo elettorale. Se si vuole partecipare alla lizza, si rimanda il dibattito interno a dopo.

Gli spettatori (come suggeriva continuamente Mentana tentando di arrestare, dopo averla scatenata, quell'enfasi suicida) avranno avuto l'impressione che Ferrando sia sul libro paga di Berlusconi. Impressione certamente errata, perché l'ipotesi più ragionevole (e più tragica) è che faccia quello che fa assolutamente gratis.
Le follie elettorali non finiscono qui. Si veda la guerra dei sondaggi. In principio chi fa fare un sondaggio dovrebbe tenerlo segreto, visto che ha il vantaggio di conoscere qualcosa che l'avversario ignora. Ma ormai il sondaggio ha assunto la funzione di profezia che si autodetermina: esso deve elettrizzare gli indecisi, partendo dal principio che essi siano una manica di sottosviluppati il cui unico ideale è stare col vincitore - o con chi si proclama tale in anticipo.

Visto che questa è l'immagine che Berlusconi ha dei suoi elettori, e non solo di quelli indecisi, è ovvio che non si preoccupi se i suoi sondaggi siano o meno attendibili. Potrebbe affidarli anche a Vanna Marchi - e forse lo farà. Ma perché impostare tutta la campagna contraria per dimostrare che i sondaggi della sinistra sono migliori? I veri indecisi che potrebbero votare per l'Unione non sono portati ad amare il vincitore (anzi, molti di loro adorano stare all'opposizione). Essi sono dei delusi del centro-sinistra, che sono però ancora dominati dal terrore che vinca di nuovo Berlusconi. Pertanto potrebbero essere trascinati al voto proprio lasciando capire che (con la loro astensione) Berlusconi ha ancora possibilità di vittoria.

Perdendosi nella guerra dei sondaggi l'Unione rischia di lasciare cadere nel vuoto innumerevoli menzogne dell'avversario. Il Polo sta facendo circolare manifesti che dicono 'Leva obbligatoria? No grazie' e mi pare che, chi dell'Unione appare in televisione, dovrebbe a ogni istante ricordare a gran voce che la leva obbligatoria è stata abolita proprio dal governo di centro-sinistra - e che pertanto Berlusconi sta manifestando ancora una volta la sua impavida fiducia nella sprovvedutezza e nella memoria corta degli elettori.

 


25 febbraio

Strage di tessili in Bangladesh
Muoiono almeno 65 lavoratrici nell'incendio di una fabbrica. Non possono fuggire, le porte sono bloccate. Molte fanno una terribile fine gettandosi dall'alto. Si ripete la storia dell'8 marzo
MAURIZIO GALVANI
L'ultimo bilancio parla di 65 morti e 88 feriti, ma il macabro conto può essere destinato a salire visto che sotto le macerie della fabbrica tessile della di Chittagong, nella zona centrale di Bangladesh, sono rimaste intrappolate la maggior parte delle operaie e degli operai (sembra circa 500 dipendenti) che stavano lavorando, in quel momento, nell'impresa di proprietà della K.T.S Textile Mills. Le prime ipotesi attribuiscono allo scoppio di un radiatore la causa dell'incendio e della sua diffusione. La prima vera e sconcertante certezza pare essere che le lavoratrici e i lavoratori non siano potuti fuggire dalla porta o porte principali perché le stesse erano state bloccate dal proprietario. La morte, secondo le prime testimonianze, è stata terribile anche perché - per sfuggire alle fiamme - c'è chi si è buttato dalle finestre, dai piani più alti. Inoltre, i primi soccorritori e i medici del locale ospedale hanno riferito che molte persone, tra gli 88 feriti, versano in gravissime condizioni di salute e non si sa se ce la faranno a sopravvivere.

Nello stato del Bangladesh incidenti di questa natura non sono inconsueti. Si potrà aprire, anche in questo caso, la normale e consueta indagine ma è difficile pensare ed auspicare che le condizioni di lavoro muteranno, considerato che il settore tessile rappresenta l'85% delle entrate di questo piccolo paese a maggioranza mussulmana. Le ultime stime (risalgono all'anno 2004) quantificano in 6 miliardi dollari il guadagno dall'export tessile; settore che, per lo più, si basa su salari bassi e sullo scarso potere contrattuale dei lavoratori. La situazione delle morti «violente» è diventata già da tempo endemica e, solo nel tessile, si contano - almeno dal 1999 - più di 350 decessi sul lavoro e ben 2500 persone rimaste gravemente infortunate per le stesse cause o per la mancanza di protezione.

E' tanto affermata l'«abitudine» a questi disastri che, anche ieri e giovedì, la stampa locale ha fornito all'inizio le cifre più bizzarre rispetto alla quantità delle morti (si è parlato che fossero appena dieci) e solo quando la rete televisiva locale Atnv ha dato notizie più precise si è dato conto della tragedia. Soprattutto del fatto che la K.T.S. Textile Mills è una impresa che occupa ben 1500 dipendenti e è non tra le più piccole, tra le circa 1500 imprese del settore. Oltretutto che la situazione lavorativa in tutta la regione di Chittagoing è molto simile a quella di questa fabbrica. E' tra l'altro risaputo che in quella zona come nella fabbrica non operasse nessuna organizzazione sindacale; a fronte di una situazione occupazionale che è notevolmente peggiorata dopo il vertice di Doha del Wto (World trade organization) e l'ingresso cinese nell'organizzazione. Con l'entrata della Cina, è stata decretata la fine dell'accordo sulle Multifibre (1970) che «garantiva» i paesi più poveri, sulla base del fatto che il basso costo del lavoro serviva come strumento di protezionismo verso i paesi industrializzati.

L'incendio di Chittagong è avvenuto a pochi giorni dalla ricorrenza dell'otto marzo. Cambia lo scenario, ma rimangono le cause che provocano terribili incidenti per i quali sarebbe possibile almeno perseguire i colpevoli. Nel 1908, a New York, le dipendenti dell'industria tessile Cotton iniziarono a protestare contro le condizioni in cui erano costrette a lavorare. Lo sciopero proseguì per diversi giorni finché l'8 marzo, il proprietario Johnson bloccò tutte le vie di uscita. Allo stabilimento venne appiccato il fuoco (si parlò anche allora di incendio accidentale) e le 125 operaie prigioniere all'interno non ebbero scampo.
 


24 febbraio

FUORILUOGO
Tutte le bugie sulla legge Fini-Giovanardi
GRAZIA ZUFFA
Ora che il decreto Giovanardi-Fini sulle droghe è diventato legge, forzando procedure consolidate e in spregio ad una normale dialettica democratica (nel Parlamento e nel paese, si diceva una volta), il compito del movimento di opinione, che per quattro anni si è battuto contro la sciagurata svolta, è di impedire che al danno si aggiunga la beffa. Ossia che la nuova legge sia utilizzata dal centro destra in campagna elettorale per manovre di propaganda, suonando il trombone assordante della retorica per tacitare la realtà dei fatti. Perciò, il prossimo numero di Fuoriluogo - in edicola col manifesto venerdì 24 febbraio - dedica uno speciale a contrastare la disinformazione, che circola sui media per bocca dei nostri ineffabili governanti, presentando invece un'accurata analisi e commento del testo, a cura del magistrato Franco Maisto (con una scheda riassuntiva delle norme principali). Tra le mistificazioni più grossolane: la legge è sì severa in via di principio, ma in pratica favorisce il recupero del «drogato»; minaccia col bastone delle pene, ma ha pronta la carota del perdono in comunità, in caso di pentimento; vuol dare il «segnale» (morale) che «la droga è droga», senza attributi di leggerezza che tengano, ma i consumatori non finiranno certo in galera. E su questo ultimo punto fanno fede le dichiarazioni televisive del premier: se qualcuno fosse trovato in possesso di 200 spinelli, ha detto, può sempre dimostrare che sta andando in un'altra parte del mondo e ne consumerà uno al giorno. Insomma, un biglietto aereo per i paradisi tropicali come salvacondotto dal carcere: parola di Berlusconi, tra novello azzeccagarbugli e consumato barzellettiere dal greve humour alla Maria Antonietta.

In realtà, il cardine della legge è proprio la penalizzazione del consumo personale, attraverso l'individuazione di una soglia quantitativa fissa, sostanza per sostanza (ma non solo). La soglia quantitativa funziona come «soglia di penalità», spiega Maisto. Come conseguenza, chi detiene una quantità superiore di droga, è considerato presunto spacciatore e punito come tale. Con pene durissime, specie per la canapa (da un minimo di 6 a un massimo di 20 anni di carcere).

Rimandando alla lettura dello speciale per altri importanti risvolti della legge, sul punto cruciale della presunzione di reato anticipiamo qualche riflessione. Si tratta, chiaramente, di una norma illiberale, che introduce l'inversione dell'onere della prova: niente male per una destra sempre pronta a fregiarsi di garantismo. E lo stesso disprezzo delle garanzie si riscontra nelle sanzioni amministrative, fortemente limitative della libertà personale (assimilabili a misure cautelari, sottolinea Maisto), previste, come misure di polizia, per «chi è stato condannato, anche non in via definitiva» , per reati contro la persona, il patrimonio o in violazione della legge antidroga. In breve: nel mirino è una figura sociale precisa, quella del «tossico» di strada, cui è riservato un «diritto speciale» con drastica riduzione di diritti fondamentali (esattamente come per gli immigrati con la Bossi-Fini). La svolta punitiva sulle droghe porta perciò al cuore della funzione del diritto penale e del carcere, nella cultura politica odierna. E' il tema dell'evento della Triennale di Milano (Carcere invisibile e corpi segregati), cui Fuoriluogo di febbraio dedica due pagine, con scritti di Aldo Bonomi, Massimo Cacciari, Sergio Segio. «La detenzione punisce un tipo sociale, non una fattispecie criminale - dice Vincenzo Ruggiero, nella tavola rotonda coordinata da Riccardo Bonacina, a proposito della popolazione di marginali (migranti e tossici) che affolla il carcere - sequestra chi deve rimanere invisibile, mira a ridurre le aspettative di chi vi è sottoposto. Il carcere ha il compito di abilitarlo all'umiliazione, convincendolo del suo scarso valore umano».

 


23 febbraio

Avanti piano: in Europa l'Italia è ultima
Il vecchio continente fatica a riprendersi, e l'Italia è bloccata. La Ue ha ritoccato al ribasso le previsioni per il 2006: il pil salirà appena dell'1,3%. E nel 2005 il prodotto lordo è rimasto fermo
ERNESTO GEPPI
Se la Commissione Ue non ha fatto male i suoi conti il 2006 sarà meno peggio del 2005, almeno sotto il profilo della crescita economica. Secondo Bruxelles il prodotto interno lordo crescerà quest'anno del 2,1% nella media dei paesi dell'unione e dell'1,9% nell'area dell'euro. Ma anche nel 2006 l'Italia sarò il fanalino di coda: il pil aumenterà appena dell'1,3%, peggio di quanto previsto (1,5%) solo pochi mesi fa. I conti relativi al 2005 nel frattempo non sono ancora definitivi ma si sa che non sono stati affatto brillanti: secondo le stime flash diffuse da Eurostat la scorsa settimana, la crescita nell'anno appena passato si è attestata attorno all'1,3% nell'area euro e all'1,6% nell'intera unione, in netta flessione rispetto al 2004 (rispettivamente +2,1% e +2.4%). A titolo di paragone, negli Stati uniti il pil è aumentato del 3,5% nel 2005 e del 4,2% nel 2004. Si tratta di previsioni, e di buoni auspici, che sono sostanzialmente in linea con quelle già elaborate dalla Commissione lo scorso novembre: è stata ritoccata verso l'alto di un punto decimale la sola crescita del pil dell'Ue a 25. Sono invece state riviste in maniera significativa rispetto a novembre le previsioni di crescita dei singoli paesi. Per Germania e Francia, che hanno chiuso in maniera deludente il 2005, si prevede una accelerazione della crescita fra l'1,5 e il 2%. Per la Spagna, che ora viaggia stabilmente attorno al +3,5%, si prevede invece un leggero rallentamento.

L'Italia merita un discorso a parte: in attesa delle stime del 2005, che l'Istat diffonderà il primo marzo, la Commissione anticipa che nello scorso anno non si è avuta nessuna crescita (+0,1%). Nell'ultimo trimestre dell'anno l'Italia era di fatto l'unico paese Ue con una crescita inferiore all'1%. Per il 2006 la previsione formulata a novembre indicava una crescita dell'1,5%, superiore di tre decimali a quella tedesca. A distanza di tre mesi lo scenario si inverte: ci si aspetta adesso un +1,3%. Si tratta di un dato decisamente inferiore alla media dell'area euro, ma occorre tenere presente che è dalla metà del 2001 che il pil italiano arranca sotto questa soglia.

Secondo la Commissione, quella italiana sarà una ripresa modesta, resa possibile dal miglioramento dei conti delle imprese, ma ancora molto debole: sui mercati esteri, ad esempio, ci si aspetta un incremento delle esportazioni non al passo con l'evoluzione e la crescita dei nostri mercati di sbocco. Prodi intanto incassa, prende appunti, e da Napoli rivendica all'Unione l'aver messo la crescita al centro dell'attenzione: «se continuiamo a essere gli ultimi non potremo mai aggiustare il bilancio dello stato né fare progressi, nemmeno nell'occupazione maschile e femminile».

Quali saranno i motori della futura crescita europea? Secondo gli esperti comunitari sarà la domanda interna a spingere l'economia, e in particolare sia gli investimenti sia i consumi. Per quanto riguarda i primi, a incoraggiare il loro ruolo propulsivo sarebbe la loro evoluzione nell'ultima parte del 2005, il miglioramento del clima delle aspettative di domanda e dei bilanci delle imprese.

Meno chiari appaiono le motivazioni a sostegno della prossima espansione dei consumi, ricondotte a non meglio specificati miglioramenti nel clima di fiducia e nelle condizioni del mercato del lavoro. Le aspettative di crescita delle esportazioni sono altrettanto rosee, e altrettanto poco motivate, mitigate in parte dal possibile effetto negativo sul pil del previsto incremento delle importazioni indotto dalla futura crescita.

Mentre spargono come possono ottimismo, gli economisti di Bruxelles mettono anche le mani vanti. Le incognite sono le solite: i prezzi del petrolio, gli squilibri commerciali, la stabilità dei prezzi.

 

RC AUTO
Troppe compagnie fantasma
Negli ultimi mesi si sono moltiplicate le segnalazioni dell'Isvap contro compagnie assicurative «fantasma», che operano cioè sul mercato senza autorizzazione. Dalle 3 compagnie individuate nel 2004 si è passati alle 7 identificate nei 9 mesi da marzo 2005 a gennaio 2006. Un fenomeno che rispecchia in parte la tendenza a sfuggire dalle polizze. È infatti difficile stabilire se l'acquisto di una polizza falsa sia consapevole o meno, ma è probabile che l'elevato livello delle tariffe crei un terreno favorevole al fenomeno. Le compagnie abusive presentano spesso dei nomi fantasiosi o che si rifanno a società effettivamente esistenti: tipici i casi della Onmipol, che si rifà evidentemente alla Unipol, o, della Royal Belgique, nome del tutto inventato.

 

 Si può dire no
MARIUCCIA CIOTTA
La riduzione del danno questa volta non ha funzionato. La «dottrina McNamara» - adoperarsi per rendere più accettabile un crimine di stato - è fallita di fronte a due anestesisti californiani che si sono rifiutati di assistere all'esecuzione di Michael Angelo Morales, 46 anni, prevista per ieri mattina alle 9, ora italiana. La richiesta è «inaccettabile da un punto di vista deontologico», così gli anestesisti si sono opposti: il loro compito è alleviare le sofferenze umane derivate dalla malattia, non quelle causate dal cocktail letale che il boia avrebbe iniettato a Morales. I medici erano stati chiamati su richiesta dei legali del condannato per certificare che il detenuto fosse privo di coscienza prima dell'iniezione mortale. Il «cocktail», messo sotto accusa più volte, provocherebbe atroci dolori alla vittima tanto che la Corte Suprema ha ipotizzato la violazione dell'ottavo emendamento della Costituzione, che proibisce pene «crudeli e inusuali». Da qui la richiesta delle due sentinelle della morte. Ma, a sorpresa (il Los Angeles Times di ieri dava già per morto Morales), gli anestesisti hanno detto «no». Subbuglio e disorientamento nel braccio della morte di San Quentin, dove dal 1981 il reo confesso dello stupro e omicidio di una ragazza di 17 anni aspetta il boia. Il «no» dei due medici non era previsto. La disubbidienza a un ordine (ingiusto) per motivi etici ha fatto saltare la catena di montaggio del consenso, e svelato le responsabilità individuali, democrazia e legge non sempre vanno d'accordo. Così l'insubordinazione dei due anestesisti ha provocato un veloce cambiamento di programma. Morales, mentre state leggendo, probabilmente è morto, ucciso sotto sedativo chimico. Gli ingegnosi carcerieri infatti hanno sostituito il fattore umano - propenso a debolezze morali - con i barbiturici, che notoriamente non si ribellano. E quindi l'esecuzione di Morales è stata rinviata di poche ore e fissata alle 19.30 (le 4.30 di questa mattina in Italia), in tutta fretta perché a mezzanotte, come succede a Cenerentola, scade l'incantesimo ovvero la «death warrant», l'ordinanza di messa a morte. Dopo, lo stesso giudice che emise la sentenza nel 1983 avrebbe potuto cambiare idea, proprio come i due anestesisti, e commutare la pena capitale in ergastolo. Non è un'ipotesi. Il giudice McGrath ha dichiarato di non esser più convinto della condanna, emessa in base a una dubbia testimonianza. E quando un magistrato si pronuncia per la commutazione della pena capitale in ergastolo, in genere, il governatore lo ascolta.

Non va così nell'America forte, quella che in questi giorni piace tanto ai detrattori dell'Europa femminea, incapace di rispondere con la violenza alla violenza. Non va così nell'America di Arnold Schwarzenegger, sordo anche lui alla musica sinfonica della pietà e della giustizia, quella che ha indotto alla diserzione due anestesisti qualsiasi. Terminator, che per la quinta volta ha negato la grazia a un condannato a morte, ascolta solo il rullo dei tamburi e deve essere per questo che un Festival di Sanremo sotto il segno di An l'ha invitato sul palco canoro.


Visita Ue in cpt francesi: «Una vergogna da chiudere»
A.M.M.
PARIGI
Ha fatto tappa nei cpt francesi la commissione Libertà civili, Giustizia e Affari interni del Parlamento europeo. Cinque deputati, tra cui l'italiano Giusto Catania (gruppo Gue) hanno visitato due centri, quello del Mesnil-Amelot, vicino a Roissy, e il famigerato «deposito» negli scantinati del palazzo di giustizia di Parigi, all'Ile de la Cité, in funzione dall'82 e che ora il ministro degli interni, Nicolas Sarkozy, ha promesso di chiudere, dopo le denunce del commissario ai diritti umani del Consiglio d'Europa, Alvaro Gil Robles, sulle «condizioni inumane e degradanti» in cui sono costretti a vivere gli immigrati rinchiusi. Il pellegrinaggio degli eurodeputati in questi luoghi al limite del diritto mira a cambiare un po' le cose nell'Unione, almeno per evitare vergogne tipo Lampedusa o la Cité, anche se il potere di Strasburgo è limitato: le politiche di immigrazione restano nazionali e a livello comunitario è ora in preparazione una direttiva (che sarà presentata all'europarlamento in primavera) che preoccupa i difensori dei diritti dell'uomo, perché introduce la nozione di «espulsione dal territorio europeo» corredata dalla «proibizione alla riammissione», anche con documenti regolari. Con la nuova direttiva, quella che ora viene ancora pudicamente chiamata «ritenzione amministrativa» si trasformerà in una vera e propria «detenzione», anche se le persone rinchiuse nei cpt non sono delinquenti. La durata della «ritenzione» dovrebbe così passare dai 32 giorni attuali (in Francia) a sei mesi. Un vero e proprio carcere preventivo.

La delegazione dell'europarlamento ha visitato Lampedusa, i centri di Ceuta e Melilla, ora la Francia, poi andrà a Malta, nelle Canarie e forse in Irlanda e in Polonia. «Dappertutto abbiamo riscontrato eguali problematiche», spiega Giusto Catania, che rifiuta di fare «classifiche» di questi luoghi di non diritto, anche se sottolinea che il «deposito» della Cité è «indegno di un paese civile». Ma il problema è l'esistenza stessa di questi cpt sparsi in Europa e ora anche appaltati ai paesi di transito (200 milioni di euro, pare, già stanziati dalla Commissione, di cui 40 al solo Marocco, per aprire e mantenere questi centri decentrati). «Sono luoghi di violenza, dove i diritti minimi delle persone non vengono rispettati». Lunedì al Mesnil-Amelot, che è meno peggio di altri, c'erano molti rumeni, lì concentrati perché, spiega un funzionario del ministero degli interni, «c'è un volo di gruppo per la Romania dopo-domani», organizzato da Francia e Spagna (i paesi del G5 hanno messo a punto questa nuova forma di cooperazione per risparmiare).

 

LONDRA
Fermati attori film su Gitmo
Due protagonisti e quattro attori del film britannico «The Road to Guantanamo», premiato a Berlino, sono stati fermati e maltrattati dalla polizia per un'ora all'aeroporto di Luton mentre rientravano a Londra dal festival del cinema nella capitale tedesca. L'episodio è accaduto giovedì scorso, ma se ne è avuta notizia soltanto ieri. Il film, diretto dal regista Michael Winterbottom, racconta la storia vera di tre musulmani britannici che erano andati in Pakistan per partecipare ad un matrimonio e che si sono ritrovati a Guantanamo, sospettati di essere terroristi. Furono rilasciati nel 2004 e non sono mai stati incriminati per alcun reato. Due dei tre, che sullo schermo interpretano se stessi, Shafiq Rasul e Ruhel Hamed erano andati a Berlino alla prima del film. Rizan Ahmed, uno degli attori fermati, racconta di essere stato maltrattato ed insultato dagli agenti. «La legge antiterrorismo ci dà il potere di fermare e controllare qualsiasi persona sospetta», ha detto il portavoce della polizia.

 


22 febbraio

Intervista a Andrea Cammelli, direttore di Almalaurea: "Niente assistenza, verifica di qualità. Ma fermiamo un meccanismo che penalizza il Paese"
"Ora bisogna aiutare le aziende disposte ad assumere laureati"
di FEDERICO PACE

ROMA - "Il nuovo governo, chiunque sarà a vincere le prossime elezioni, dovrà fare qualcosa per loro. Io sono convinto che sia opportuno introdurre agevolazioni automatiche per le imprese che assumono laureati. Questo non vuol dire che chiedo una quota "laureati". Una proposta del genere deve sempre prevedere il merito. Si deve permettere di verificare e valutare le qualità di chi entra in azienda. Ben vengano quindi anche i giovani stranieri." Andrea Cammelli, direttore di Almalaurea, vede questa strada perchè l'Italia torni ad utilizzare appieno i migliori talenti.

La preoccupa il peso crescente della quota di atipici tra i laureati che lavorano?

"Certo. Il precariato sta aumentando. Però va detto che il fenomeno si cala all'interno di un gruppo, quello degli universitari, che ha valori di stabilità più elevati degli altri segmenti della popolazione che lavora. A tre anni dalla laurea quasi il 60 per cento è stabile e a cinque anni lo diventa il 72,6% dei laureati pre-riforma. E' vero che tutte queste cifre sono diminuite rispetto all'anno passato, ma questa è una contrazione che segnala uno stato di sofferenza che sta aggredendo un corpo ancora robusto".

Quest'anno la vostra indagine restituisce tutta la complessità del mondo universitario. Il fatto che molti dei giovani della "laurea breve" continuano a studiare è un elemento negativo o positivo?
"Sono tanti ma meno di quanto pensassimo prima. La quota di chi si iscrive di nuovo alla laurea specialistica è una quota che potrebbe essere naturale ma c'è un segnale che andrebbe seguito con molta attenzione: nove laureati su dieci di coloro che riescono a finire i tre anni regolarmente passano alla laurea specialistica. Questo è l'elemento più significativamente anticipatore di quello che potrebbe essere il futuro. Inoltre proprio i laureati di quelle facoltà con i più elevati tassi di prosecuzione sono anche quelli meno soddisfatti della riforma. Siamo a metà del guado e dunque dobbiamo stare molto attenti a tirare delle conseguenze: è molto difficile leggere i dati. Questa complessità mi fa chiedere a docenti e politici di analizzare a fondo lo scenario".


Intanto la disparità tra uomini e donne non sembra ridursi.

"Dato preoccupante: è il segnale che il Paese è a un punto di svolta che non riesce a compiere. L'economia di una nazione mostra di recuperare proprio quando si riducono queste differenze di genere e territoriali. Da noi i segnali sono ancora timidissimi e contradditori".

In questo contesto si può allora capire la fuga dei cervelli?
"La fuga dei cervelli mi va pure bene, se l'Italia esporta un bravo laureato so che questo torna e porta con sé la sua rete di conoscenze e un'esperienza importante. Il dramma è che il laureato bravo in Italia è sottoutilizzato e atrofizzato nelle sue capacità".

Questo accade sia nel privato che nel pubblico?
"Forse più nel pubblico. Pensi che a cinque anni dalla laurea hanno conquistato la stabilità nel settore privato 73 laureati su 100, mentre nel settore pubblico, dopo cinque anni, diventano stabili solo 31 giovani su 100. Questo è un serpente che si morde la coda, se è vero che il settore pubblico deve mantenere le redini di scelte cruciali, non possiamo lasciare che quel medesimo settore selezioni risorse per tenerle in condizioni di precarietà".

«Guardate come hanno ridotto mio figlio: che c’entra la droga?»
di Checchino Antonini
Sto da schifo... mi è costato tantissimo mettere quella foto sul blog... guardarla mi provoca un dolore incredibile. Ma è nulla in confronto al dolore che deve aver provato Federico nei suoi ultimi momenti di vita. Quella foto parla da sola». Non dev’essere facile parlare per Patrizia Moretti nel giorno in cui la perizia che spiega la morte di suo figlio è finalmente stata depositata in procura. Ma quelle carte, una trentina di pagine attesa da cinque mesi, sono state rifiutate ai legali di parte civile dalla pm che s’è praticamente blindata in procura dopo aver messo alla porta anche la stampa. Fabio Anselmo e Riccardo Venturi, avvocati della famiglia Aldrovandi, dovranno attendere l’avviso di avvenuto deposito per poter fare una copia della relazione dei periti.
Così, a Ferrara, inizia lo stillicidio di anticipazioni che dovrebbe terminare oggi quando Mariaemanuela Guerra, la magistrata che segue il caso, renderà pubbliche le sue conclusioni. Il bivio è tra la richiesta di archiviazione o l’emissione di alcuni avvisi di garanzia. Che la procura parli proprio oggi lo dice Stefano Malaguti, medico all’istituto di medicina legale del capoluogo estense e consulente tecnico del pm, uno dei sei periti che hanno esaminato i dati del diciottenne morto a Ferrara all’alba del 25 settembre scorso durante un misterioso e violentissimo controllo di polizia. Il mattinale della questura suggerì ai giornali locali la tesi del malore fatale dovuto a una presunta overdose. A smentire quasi subito giunse la perizia tossicologica che trovò solo lievi tracce di oppiacei e chetamina insufficienti a spiegare non solo la morte ma anche i comportamenti violenti contro sé e contro gli agenti delle due volanti che intervennero poco prima delle sei del mattino nel parchetto di fronte all’ippodromo cittadino.
Malaguti - che si limita ad assicurare che le trenta pagine forniscono una «conclusione univoca» - conferma le «profonde e concrete divergenze», tra i periti del pm e quelli della famiglia, le stesse a cui vuole accennare il procuratore capo, Severino Messina, che solo 24 ore prima aveva convocato i cronisti locali per assicurare che la procura sarebbe andata fino in fondo su questa vicenda. La parola-chiave dell’autopsia sembra «sovradosaggio», che sarebbe la traduzione italiana di overdose. In pratica, si lascia intendere che sarebbe stata l’eroina a stressare il corpo del ragazzo, con una depressione respiratoria che avrebbe influito sull’arresto cardiaco che constatarono ambulanzieri e medici del 118 accorsi sul posto. In questo modo risulterebbe alquanto temperata la conclusione dei periti della famiglia Aldrovandi per i quali Federico non sarebbe stato ucciso dalle botte e nemmeno dalla droga. Piuttosto dal trattamento complessivo subito quel mattino dagli agenti delle due volanti che, dopo averlo pestato, lo avrebbero immobilizzato con la forza fino a metterlo in condizione di non respirare.
Enfatizzare il ruolo della droga - avverte l’avvocato Fabio Venturi - non esclude i comportamenti umani successivi».
La foto, quella che «parla da sola», è comparsa ieri pomeriggio sul blog che Patrizia Moretti ha voluto aprire cento giorni dopo la morte del figlio. «Rientrava a casa a piedi. Disarmato, incensurato, solo. Non stava commettendo nessun reato. Non aveva mai fatto del male a nessuno nella sua vita», ripeteva, ieri, il cliccatissimo diario elettronico che ha dato una scossa alle indagini. «Mostrare quelle foto era una cosa che avrei evitato se non fossi stata messa alle strette - continua al telefono con Liberazione - ma ora mi sembra un elemento che serve a capire la situazione... tutti gli atti dovrebbero essere pubblici».
Nella foto sembra evidente il segno di una manganellata, probabilmente inferta con lo sfollagente impugnato al contrario. Uno dei due attrezzi riportati a pezzi in centrale, rotti «in prossimità dell’impugnatura», come hanno dichiarato Pisanu e Giovanardi rispondendo alle interrogazioni parlamentari sulla vicenda. Gli stessi rapporti delle due volanti, intervenute in Via Ippodromo, ammettono il contatto, quantomento “brusco” con il ragazzo esperto di karate. Ma i quattro agenti non hanno mai spiegato perchè non hanno resi pubblici da subito i referti degli effetti della colluttazione su di loro. Il personale del 118 si sentirà riferire che Federico si sarebbe accasciato a terra dopo essere stato ammanettato. Il questore dichiarerà che gli infermieri avrebbero chiesto di non togliergli i ferri dai polsi. Ma tutti gli ambulanzieri diranno di aver trovato «inanimato» il diciottenne già morto all’arrivo dell’auto medicalizzata. Senza che nessuno abbia pensato di mettere mano al defibrillatore che doveva essere a bordo di una delle vetture del 113. Che “Aldro” avesse bisogno di aiuto lo hanno ripetuto i testimoni raccontando i rantoli e la disperazione di un ragazzino che, in seguito, sarebbe stato dipinto dalla questura più o meno come un energumeno tossico. Delle evidenti ferite sul corpo si cercherà di dar conto descrivendo la scena di un forsennato che sarebbe saltato su una volante ricadendo a cavallo dello sportello (da cui lo schiacciamento dello scroto) e ricaduto di schiena sul cofano e poi a terra. Sopra di lui, già ammanettato, mentre gridava aiuto, ci sarebbe stato un poliziotto che lo teneva fermo con un ginocchio puntato sulla schiena e, tirandolo per i capelli, gli teneva alzato il capo con un manganello sotto la gola. Su questo punto le relazioni degli agenti ai loro capi sarebbero contraddittorie. Una delle volanti avrebbe detto che i quattro agenti sarebbero tutti finiti a terra, durante la colluttazione, nel tentativo di ammanettare Federico. L’altra sosterrebbe, invece, che uno solo dei quattro poliziotti era chino sulla vittima. Testimoni diretti e indiretti hanno ricordato frasi precise e l’accento veneto di una poliziotta, unica donna su quelle volanti. Voci di poliziotti increduli che quel moretto, senza documenti, e con le sopracciglia folte, fosse davvero italiano. Voci, subito dopo, concitate e incredule che quel ragazzino avesse smesso di respirare. Nel giro successivo di raccolta delle testimonianze tra i residenti di Via Ippodromo, più di qualcuno ricorda il fare «arrogante» di chi indossava la divisa. Sta di fatto che un possibile testimone-chiave lascerà in fretta e furia la città dopo i fatti e altri aggiusteranno più volte il loro racconto o accetteranno di apparire in tv con la voce e il volto camuffati. Ferrara è una città divisa tra chi ha paura - «Non avete visto come hanno ridotto quel ragazzo?!» - tra chi è indifferente - «Tanto era un tossico...» - e chi continua a chiedere verità e giustizia sul blog e nella piazza centrale tra il comune e la Cattedrale, ogni sabato. Il prossimo saranno cinque mesi esatti dal “controllo” di polizia. Dalla questura si tenterà di accreditare la tesi che, se due carabinieri (uno dei quali restato ucciso in uno scontro a fuoco) hanno commesso l’errore fatale di arrestare un evaso senza perquisirlo, è stato per la «tensione provocata dal caso Aldrovandi». In città ci si chiede perché mai le indagini siano state affidate proprio alla polizia, quando addirittura un capo della polizia giudiziaria sarebbe sentimentalmente legato all’unica donna a bordo di quelle volanti. Eppure la Corte europea per i diritti dell’uomo da molti anni ha stabilito il principio secondo il quale in caso di implicazione di appartenenti alle forze dell’ordine, le indagini devono essere affidate a corpi che siano indipendenti da quelli che coinvolti nei fatti.

21 febbraio

PROCREAZIONE
La cicogna non vola più
Il turismo della provetta è in crisi
MONICA SOLDANO
ROMA
A due anni dall'approvazione della legge più restrittiva d'Europa sulla fecondazione medicalmente assistita si continua a viaggiare per nascere? Dice di sì Laura Pisano, presidente della onlus l'«Altra Cicogna» di Cagliari, anche se, avverte, il fenomeno del turismo procreativo si sta modificando: «Viaggiare costa molto ed un solo volo aereo non basta. Vi sono costrette per legge le coppie sterili che necessitano di una donazione di seme o di ovociti (fecondazione eterologa) e quelle portatrici di gravi malattie genetiche che vogliono spezzare la catena ereditaria, ricorrendo alla diagnosi genetica di pre-impianto. Complessivamente il 7-8% della popolazione infertile, mentre il restante 15% delle coppie in viaggio si sposta in cerca di percentuali di successo più rassicuranti, verso paesi che possono selezionare gli embrioni e che non hanno limitazioni numeriche di ovociti da fecondare. Da qualche tempo, però, forse a causa del forte impatto migratorio dal nostro Paese, le delusioni non sono mancate. Ce lo confermano Germana e Sandro, due giovani trentacinquenni milanesi, appena tornati da Bruxelles, dopo il primo ciclo di fecondazione in vitro. «Di congelamento di embrioni neanche l'ombra - racconta Germana -, una dottoressa del centro mi ha fatto capire che non vogliono rischiare di ritrovarsi con troppi embrioni di genitori stranieri, difficili da rintracciare nel tempo». Così i due coniugi milanesi sono tornati a casa. «Se questo ciclo fallisse, ci rivolgeremo ad una clinica in Italia», prosegue Paolo. Raccontano di aver preso carta e penna e di aver telefonato ad alcuni centri italiani ma ora non sanno se possono fidarsi. I centri dichiarano percentuali di successo simili a quelle dei colleghi stranieri - 25-30% - esattamente pari a ciò che accadeva prima della legge 40 nel nostro Paese. «L'enigma è presto risolto», commenta Claudio Giorlandino, ginecologo, direttore scientifico di Artemisia, esperto di sterilità di coppia da oltre venti anni. «Dopo l'entrata in vigore della legge che ci costringe a non fecondare più di tre ovociti c'è un incremento delle gravidanze trigemellari. Un vero miracolo italiano. Che dimostra l'inapplicabilità della legge 40, molto lontana dall'obiettivo di proteggere gli embrioni.

Nel frattempo, la politica risponde con due nuove proposte di legge. La prima, già depositata dalla «Rosa nel Pugno» intende legalizzare e liberalizzare la ricerca. L'altra ha la firma del senatore ds Lanfranco Turci: «Chiederemo l'accesso sia per le coppie che per le donne single. E non escluderemo l'eterologa».



 
 
Chavez sfida Mr. Danger-Bush
Ribatte alla signora Rice, che annuncia azioni per contrastarne l'influenza in America latina, minacciando di tagliare le forniture petrolifere venezuelane agli Usa. E poi annuncia un viaggio in Iran
MAURIZIO MATTEUZZI
Lo scontro fra il presidente venezuelano Hugo Chavez e l'amministrazione di George Bush (che lui chiama «Mr.Danger») si fa globale. Non più solo o principalmente l'America latina ma il mondo. Grazie al petrolio, senza il quale gli americani si sarebbero con ogni probabilità già sbarazzati di Chavez da tempo. «Ho accettato l'invito ai Ahmadi Nejad e andrò a Tehran», ha detto Chavez. Come non bastasse la visita in Iran, il paese diventato il nemico numero uno di Washington, il presidente venezuelano ha anche ribadito che il suo governo «renderà sempre più profondi i rapporti con Cuba», l'altra e più antica ossessione degli Stati uniti. Senza parlare della Bolivia di Evo Morales, ora è arrivato anche René Préval a Haiti che potrebbe essere interessato alle avances petrolifere di Chavez.

Chavez era già stato a Tehran negli anni passati nel suo obiettivo di rafforzare una politica petrolifera coordinata nell'ambito dell'Opec, ma erano i tempi del riformatore Khatami, la faccia più simpatica dell'islamismo iraniano. Ora è diverso perché Ahmadi Nejad rappresenta invece l'islamismo più intransigente e con le sue iniziative sul nucleare nonché le sparate su Israele e l'olocausto costituisce l'uomo nero della politica internazionale. Andare a trovarlo in questo momento è un messaggio chiaro e preciso.

D'altra parte ormai fra Washington e Caracas è uno scambio continuo di colpi. Giovedì la signora Condoleezza Rice davanti al Congresso Usa aveva definito Chavez «uno dei maggiori pericoli per la democrazia in Ameria latina» e aveva ammonito «la comunità internazionale» a essere «molto più attiva nell'appoggio e nella difesa del popolo venezuelano». Il riferimento era al processo per tradimento che si trovano ad affrontare quelli di una ong chiamata Sumate che ha avuto un ruolo di primo piano nella raccolta delle firme per arrivare al referendum revocatorio (perso) nell'agosto del 2004 contro Chavez. Chavez non può esercitare la sua influenza, petrolifera e no, in America latina perché questo è «indebita interferenza» e «destabilizzazione», ma Bush (come tutti i suoi predecessori) può usare tutto il suo peso economico e politico, per esempio sovvenzionando con fondi la ong venezuelana Sumate che si propone di cacciare il presidente legittimo, e questo va bene.

La signora Rice, che dicono abbia soppiantato al Dipartimento di Stato i neo-conservatori con i neo-realisti, ha assicurato i congressiti che l'amministrazione farà di tutto per tagliare l'influenza nefasta di Chavez in America latina e convincere i vari leader della regione che il vero pericolo non sono gli Usa ma il Venezuela di Chavez.

Il giorno dopo le dichiarazioni della Rice, è toccato a Chavez. Che ha a sua volta ammonito e sfidato gli americani. «Il governo degli Stati uniti deve sapere che se oltrepassa i limiti non avrà più il petrolio venezuelano - ha detto in un atto pubblico -. Ho già cominciato a prendere misure al riguardo, ma non dico quali».

Il Venezuela è il quinto esportatore mondiale ma il secondo o terzo fornitore di greggio agli Stati uniti. Il 15% del mercato Usa è coperto dal greggio venezuelano e il 50% del greggio venezuelano finisce negli Usa. Un bell'incastro reciproco. Perché secondo alcuni analisti non sarebbe così facile per il Venezuela trovare altri mercati su due piedi nel caso si arrivasse alla rottura definitiva anche in campo petrolifero. Ma Chavez nega: «Loro non credono che possa decidere di tagliare il petrolio perché non sapremmo poi dove collocarlo. Ma si sbagliano: il petrolio non va a male, è una risorsa strategica per tutto il mondo e ci sono molti paesi che ci chiedono più petrolio e noi dobbiamo dire di no perché la metà dei nostri barili vanno negli Stati uniti...». L'annuncio del viaggio a Tehran rientra in questa strategia.

A rendere ancor più complicato il gioco, sta il fatto che Pdvsa, la compagnia petrolifera venezuelana che Chavez ha riconquistato dopo lo sciopero golpista della fine 2002, possiede attraverso la società Citgo qualche decina di migliaia di stazioni di servizio negli Stati uniti e almeno 6 raffinerie. E' da tempo che Chavez si prepara al momento - forse inevitabile - della rottura: negli ultimi 5 anni l'export petrolifero venezuelano negli Usa è diminuito intorno al 45% mentre è cresciuto quello verso la Cina, l'India e i paesi dell'America latina. Poi alcuni mesi fa Chavez ha annunciato di aver cominciato a ritirare i petro-dollari venezuelani depositati nelle banche Usa per convertirli in euro e depositarli nelle banche europee (ed evitare così anche i rischi di confisca-congelamento). Ora annuncia altre mosse, anche se «non dice quali». La direzione però è chiarissima.

 

16 febbraio

Il comico che interpreta un ultrà di Berlusconi secondo i consiglieri
del Cda di centrodestra viola la par condicio. Contestato invito a Sartori
Rai, la satira di Cornacchione
rischia di essere fermata

di ALDO FONTANAROSA

ROMA - La satira di Cornacchione (che rappresenta il premier come un "malato di mente"); lo stile di conduzione di Fabio Fazio (che gli fa da spalla senza mai arginarlo); gli ospiti stessi del programma (come il politologo Sartori) rappresentano una "violazione gravissima" della par condicio, dunque un pericolo per la Rai. Con questi argomenti i consiglieri polisti della tv di Stato sferrano un attacco mirato a RaiTre e a "Che tempo che fa", di cui chiedono la "chiusura". Sono gli stessi consiglieri polisti che vogliono rimpiazzare il direttore di Rai Due Ferrario con Marano proprio mentre la Seconda Rete ospita l'evento chiave dell'anno, le Olimpiadi. E le nomine di fine legislatura saranno molte di più, sembra: fino a 25.

Due lettere. Testa di ariete del Polo è il consigliere Petroni (Forza Italia). E' lui, il 13 febbraio, a scrivere una prima lettera al direttore generale Meocci. Petroni critica la presenza a "Che tempo che fa", domenica sera, di Giovanni Sartori. Perché chiamare - si chiede - proprio il politologo che nel suo libro ("con toni di parte") ha criticato il federalismo voluto dal centrodestra? Petroni attacca poi gli "accenti sapidi" con cui Cornacchione ha imitato il premier Berlusconi. Ma critica soprattutto il conduttore Fazio "che irride alla par condicio", animato da una "specifica volontà di ignorare le norme in vigore".

Un atteggiamento che esporrebbe l'azienda a gravi sanzioni. Per evitarle, l'unica è congelare Fazio fino a elezioni celebrate. Il 14 febbraio, Petroni scrive ancora. Stavolta ricorda a presidente, direttore generale e consiglieri della Rai che spetta a loro evitare sanzioni di cui sarebbero chiamati a rispondere in prima persona.

Lo scontro. Intorno a Cornacchione, i consiglieri dell'Unione fanno quadrato. Curzi, Rizzo Nervo, Rognoni partono da Mediaset, dalla sua satira irriverente e divertente. La tesi è che se la Rai arrivasse a chiudere la sua, di satira, avvantaggerebbe il diretto concorrente, libero di prendere in giro i politici, da Zelig a Striscia.

Le nomine. In consiglio, il direttore generale Meocci apre questa seconda partita con una mossa a sorpresa. Elenca 25 posizioni dirigenziali che andrebbero assegnate, anche perché scoperte. Ci sono cariche di rilievo, la guida dell'agenzia pubblicitaria Sipra, le Direzioni Acquisti, Immobili, Finanza. Sotto il naso dei consiglieri dell'Unione insomma penzola un osso ghiotto. Il messaggio è chiaro: coraggio, accordiamoci sulle nomine perché c'è qualcosa di buono anche per voi. Freccero, ad esempio, ora in un angolo, è già immaginato al canale in digitale "Rai Futura".

La mossa di Petruccioli. Meocci non fa nomi, per questi 25 incarichi. Eccetto che per uno. A RaiDue propone la staffetta tra Ferrario (direttore leghista amico di Calderoli) e Marano. Che è un altro leghista, ma nel cuore del ministro Maroni. La guida dei Diritti sportivi, liberati da Marano, andrebbe a Meocci in via provvisoria. I consiglieri Curzi, Rizzo Nervo e Rognoni non ci stanno. Ricordano che la Rai non ha mai fatto nomine in campagna elettorale. Sarebbe la prima. Ricordano che Marano sta facendo bene ai Diritti Sportivi, mentre ha fatto male alla guida di RaiDue (dal 2002 al 2004, quando era lui a dirigerla).

E chiedono che il capo della Seconda Rete sia scelto tra professionalità collaudate come Minoli e lo stesso Freccero, e non per forza tra i leghisti. In questo clima di battaglia, appigliandosi a un articolo del codice civile, il presidente Petruccioli scioglie la riunione. I consiglieri polisti protestano e, mentre vanno via, già chiedono un nuovo consiglio per domani, al più tardi lunedì.

 

 

SINISTRA
Gli amici del leopardo
ROSSANA ROSSANDA

Ali Tariq si sorprende per le manifestazioni musulmane davanti alle ambasciate. Scrive: non hanno, i musulmani, altri e più minacciosi nemici di un vignettista? Eccome. Li hanno addosso: dagli eserciti che hanno fatto la guerra in Iraq e in Afganistan per gli interessi geoeconomici dell'occidente, ai governi arabi che la appoggiano mentre deprivano i loro popoli di tutti i diritti e dell'accesso alla ricchezza del proprio paese, alla supponenza europea nei loro confronti pari soltanto alla codardia verso Bush. Ma contro questo schieramento nemico non hanno né gli strumenti né la forza per reagire. Incassano il peggio, cresce l'esasperazione e mettono fuoco ad alcune tranquille ambasciate che non c'entrano molto. Potrebbero fare di più contro i loro nemici veri e astenersi da una protesta deviata dunque vana e che li isola? Non so. Si può rimproverare loro di non essere all'altezza dello scontro? Si può. Ma una soggettività complessa e all'altezza della sfida presente andava da tempo seminata e alimentata, sostenuta da una solidarietà. Nulla di questo è avvenuto. Che è successo dei tentativi delle loro dirigenze laiche? Chi ha difeso il popolo in questo senso più avanzato, i palestinesi? L'occidente, miope, se ne è guardato bene. Gli Usa hanno utilizzato l'Iraq contro l'Iran e oggi un islam contro l'altro, finendo con il cacciare tutto il Medioriente nel fondamentalismo. E quale alleato avrebbe oggi in Europa un islam che si proponesse di sbaraccare la «guerra infinita» tagliando alle radici il fondamentalismo e la sua coda terrorista? Nessuno. Mi si nomini una sola cancelleria che lo farebbe, un movimento sociale che lo sosterrebbe non solo a parole. Io non ne vedo. Ma non è questo deviare della protesta e della mobilitazione dal vero nemico un vizio soltanto loro, del quale hanno qualche giustificazione. È proprio anche delle nostre società.

Già negli anni `70 Franco Fortini scriveva, sulle tracce di Turkey, che quel che era una volta una discesa in piazza del popolo per ottenere un diritto negato o esigere un bisogno, tende a diventare oggi un'autorappresentazione, puro mezzo di visibilità che poi sparisce per repressione, isolamento, stanchezza.
 Non è lo stesso la aspirazione attuale di alcuni gruppi molto minoritari a passare da invisibili a visibili, attraverso presenze che più possono essere mediatizzate, a prescindere dall'obiettivo che li ha mossi? E pazienza quando tendono soltanto a questo. Ma sempre più spesso alcuni di essi parassitano movimenti più vasti, che si aggregano fuori di loro, per coinvolgerli in scontri più accesi sia perché li considerano politicamente opportunisti sia per provocare una reazione della polizia. Della quale nulla giustifica l'intervento repressivo. Ma intanto esso ricade inesorabilmente sulle folle mosse da un intento unitario più puntuale, pacifico e tale da mettere in difficoltà i poteri. Non è avvenuto questo con la manifestazione anti Tav della Val di Susa? È il vecchio vizio di chi si definisce avanguardia. La sua vera radice, anche se non confessata, sta nell'impotenza a incidere il blocco avversario. Di qui la tentazione a ripiegare su un simbolo. Il nemico sono oggi gli Stati uniti e le multinazionali, complesso di enormi dimensioni e capacità non solo repressive. La Coca Cola, che è una multinazionale e simbolo della penetrazione americana attraverso i consumi, ha sponsorizzato le Olimpiadi. Né la Coca Cola né le Olimpiadi in quanto tali si potevano attaccare, per cui ci si è attaccati al loro ultimissimo anello: il tedoforo.

La stampa ha dato loro più corda che mai, Repubblica e Corriere hanno titolato per tre giorni la prima pagina: «Torino sotto assedio» per cambiare nel corso d'una sera con: «Torino in festa», facendo finire in un trafiletto interno le poche decine di ragazzi, nessuno dei quali aveva le mani sporche di sangue né di quattrini, che si ritiravano mestamente. L'impotenza si trova nemici e identità sostitutive.

Anche il mio amato Valentino Parlato rischia di farsi prendere da amico del leopardo. Prima che tutti i nostri valorosi colleghi si lanciassero alla ricerca di tutte le tensioni nella coalizione, di destra, sinistra o centro che siano - chi mai, salvo il rispetto, aveva dedicato tre colonne al coerente trotzkista Ferrando? - siamo stati noi, il manifesto a dirci acerbamente delusi dal programma di Prodi. Io mi sono letta quel malloppo - più voluminoso e meno firmato di quello de l'Ernesto - senza delusione alcuna. Non mi ero affatto aspettata di più, come poteva essere? La coalizione si è data e si è formata su un obiettivo primario: battere la Casa delle Libertà. E non è poco, è una condizione della democrazia.

Soltanto con Berlusconi fuori di scena si potrà ricominciare a parlare di politica. Adesso devi badare a quel che dici, ogni differenza di idee è materia di gossip, ogni, dio non voglia, divergenza è enfatizzata come lacerazione incombente e quindi incapacità di governare. Che la Casa della Libertà abbia governato con Bossi e Fini assieme non importa, e giustamente. Avevano in comune l'attacco alla Costituzione, al lavoro e alla cultura, la privatizzazione di tutto e un colpo decisivo allo stato sociale. Questo li teneva uniti. Sulla sponda opposta, da Rutelli a Bertinotti via Prodi e D'Alema hanno in comune la restaurazione di quel che della Costituzione resta, l'abolizione del conflitto di interessi, l'autonomia della magistratura e della Rai e dell'informazione, un qualche equilibrio fra impresa e lavoro. Non è molto, ma va in direzione del tutto diversa. Che poi Rutelli frascheggi con la Udc non importa granché. A breve termine non andrà molto lontano.

Che Prodi sia tirato da una parte e dall'altra, specie da un'Europa senza più trattato né crescita, non sorprende; nella coalizione la crisi dell'ipotesi liberista che sottendeva la Ue è più visibile e più urgente. Che il rapporto con gli Stati uniti e la guerra infinita diventerà terreno bruciante è prevedibile. Che Rifondazione e la Margherita abbiano un'idea diversa della società, del lavoro e della persona, e che i Ds siano stretti a evitare gli errori che li hanno portati a perdere il governo è sicuro. In un paese che Berlusconi ha trovato guasto e ha guastato ulteriormente, a dinamica produttiva e crescita zero, a egoismi crescenti e senso della solidarietà in gran parte perduto, la partita sarà più difficile che non fosse cinque anni fa. Anche da questo è venuta, penso, la difficoltà di indicare quattro precisissime scelte, al di là del restauro di uno stile istituzionale e della divisione dei poteri. Le Tav sono più d'una.

Sarà sul terreno che, stabilito un qualche orizzonte di rimedi al quinquennio, si disegnerà l'approdo. È mia ostinata persuasione che sarà il rapporto di forza e creatività sociale e intellettuale a deciderne le tappe. Per questo darò il voto a Bertinotti pur sapendo che il governo non sarà il suo, e pur essendo meno vicina a lui che non fossi qualche anno fa.

In questo transito ciascuno di noi, il manifesto incluso, sarà costretto a uscire dalla denuncia e dalle vaghezze, capire le priorità e valutare chi mobilitare - il terreno politico che abbiamo scelto sta nella società, non passa per il parlamento e non ne sottovaluta la funzione. Intanto importa che la maggioranza non sia più quella di ora. Se Berlusconi dovesse passare ancora una volta non ci resterebbe - la rivoluzione non essendo all'o.d.g - che elevare alte strida.

 

 

G8, riconosciuto il «capo» di Bolzaneto
L'ispettore Antonio Gugliotta era il più alto in grado nella struttura. Un teste: mi picchiavano e lui non è intervenuto. Un altro ricorda: in cella con me un fascista. È un ultras della Roma
SIMONE PIERANNI

GENOVA
Un altro riconoscimento «pesante» ieri in aula a Genova, durante l'udienza del processo per i fatti di Bolzaneto. Fabrizio Ferrazzi, cinquantenne di La Spezia, laurea in filosofia e titolare di un'azienda agricola, ha individuato l'ispettore Antonio Gugliotta, all'epoca dei fatti «responsabile della sicurezza e dell'organizzazione dei servizi nel sito penitenziario di Bolzaneto». «Ero nel corridoio - ha detto il teste - mi tiravano calci e lui era lì e non faceva nulla». Antonio Gugliotta era il funzionario con il grado più alto nella struttura ed era direttamente responsabile della custodia dei detenuti una volta passati «nelle mani» della polizia penitenziaria. A Gugliotta sono contestati anche i reati di percosse e violenze privata (uno delle sue vittime testimonierà oggi a Genova). Ferrazzi ha confermato in aula quanto già dichiarato ai pm in sede di indagini, riconoscendo anche Giuliano Patrizi, sovrintendente di polizia penitenziaria in servizio a Bolzaneto (nonostante in prima battuta i pm abbiano mostrato una foto pescata dall'album sbagliato che infatti il teste non ha identificato, salvo poi riconoscere la foto corretta), la cui posizione fu però archiviata dal gip, e infine il medico Giacomo Toccafondi. Per il responsabile del servizio sanitario presso la caserma di Bolzaneto si è trattato del secondo riconoscimento in un giorno solo. Anche Diana Franceschin, 25 anni, milanese, lo ha infatti ricordato come uno dei principali protagonisti delle battute di scherno che regnavano in infermeria, che - a parere dei pm - avrebbe dovuto essere invece un luogo di «forte dissenso» rispetto al resto della caserma. Proprio una maglietta requisita alla Franceschin sarebbe uno dei «trofei» che Giacomo Toccafondi avrebbe conservato.

La deposizione di F.G., primo teste della giornata, ha invece offerto quello che lo stesso testimone, poco dopo la sua deposizione, ha definito «un aneddoto paradossale». «Allo stadio mi denunciano se canto "faccetta nera", qui mi obbligano a cantarla», gli avrebbe infatti detto un ragazzo al suo fianco nella cella. Lo stesso ragazzo che F.G. aveva visto in piazza, picchiato dai poliziotti in modo violento, qualche ora prima: «Gli misero un piede in testa, come per mettersi in posa».

F.G., dopo una simile esternazione, ricorda di avere pensato allora che «i carcerieri avevano arrestato un loro simile». Le circostanze con cui F.G. ha descritto i fatti - sia le fasi dell'arresto, sia le fasi all'interno della caserma - sembrano coincidere con quanto rilasciato in fase di indagini da B.M. (un ragazzo romano, tifoso giallorosso e figlio di un ispettore-capo della Dia di Roma) già ascoltato in aula sulle violenze subite dopo il suo arrivo nella caserma. Questo episodio non è l'unica novità della deposizione di F.G. - che ancora oggi ha problemi di circolazione alle mani a causa delle reiterate occasioni in cui i poliziotti gli stringevano i laccetti neri usati come manette: «In infermeria ero nudo e mi obbligarono a vestirmi con una felpa fradicia di urina», ha detto ieri in aula, aggiungendo un nuovo particolare all'elenco dei «trattamenti inumani e degradanti» ravvisati dai pm in fase di indagine.

 

 

Video-choc su Blair. E Brown
Il video mostrato domenica in tv sulle brutalità dei soldati inglesi su civili iracheni aumenta la turbolenza interna al governo, già provato dall'eterna rincorsa di Brown alla poltrona di Blair
O.C.

Non si placano le polemiche per il video mostrato dalla tv che rivela in modo brutale le torture dei militari britannici nei confronti di civili iracheni. Dopo le foto e il processo ad alcuni soldati, ora questo nuovo scandalo che naturalmente mette a tacere quanti, il premier Tony Blair per primo, difendevano il ruolo dell'esercito britannico (a Bassora specialmente), amato e benvoluto dai cittadini iracheni, che trovavano gli inglesi (col berretto al posto dell'elmetto) più «gentili» dei rambo americani. A giudicare dalle terribili immaginate mostrate domenica, i britannici non hanno nulla da invidiare ai colleghi Usa. Come del resto era già noto. Ieri la polizia militare ha annunciato il fermo di almeno una persona connesso alle torture. Il video cade in un momento di turbolenza interna al governo. Gli spin doctors di Downing street si sono precipitati a spiegare che non c'era nulla di strano nel fatto che Gordon Brown, ministro del tesoro, tenesse un importante discorso sulla sicurezza nazionale. Tutto normale: rientra nei ruoli e nei compiti del ministro del tesoro, hanno cercato di giustificare gli uomini delle public relations del governo Blair, anche parlare di carte d'identità, terrorismo internazionale e legge contro l'odio religioso. Sarà. Ma ai più l'articolato discorso di Brown, ieri al Royal United Services Insitute, è sembrato piuttosto la scesa in campo ufficiale del ministro in vista del passaggio di consegne da parte del premier Tony Blair. In altre parole, quello di ieri è stato il primo passo di Brown verso il trasloco al numero 10, in qualità di primo ministro.

Non è nemmeno un caso che il ministro del tesoro abbia scelto di discutere di sicurezza nazionale e di illustrare la sua visione e opinione in proposito. Che non si discosta molto, per la verità, da quella di Tony Blair. E infatti il discorso di ieri conteneva toni assai duri. Più duri di quanto non si aspettasse chi guarda con favore ad un passaggio di consegne da Blair a Brown. Il ministro del tesoro è notoriamente considerato uomo collocato alla sinistra di Blair. Scozzese, un passato nel sindacato, Brown era il delfino di John Smith. Ma alla sua morte, venne scavalcato dal più giovane e rampante Tony Blair (e dal suo fidato Peter Mandelson) che fu indicato dal partito come premier in caso di vittoria alle politiche del 1997. Il trionfo del new Blair fu memorabile, con i Tories quasi in estionzione. Il patto segreto che Blair e Brown stipularono (con Brown non proprio felice, ma almeno c'era un patto) fu quello di un passaggio di consegne ad un certo punto del mandato di Blair. Il premier però ha sempre negato l'esistenza di quel patto. E ha infatti continuato a governare per due legislature. Questa è la terza. Ma ad un certo punto qualcosa nelle relazioni turbolente tra Blair e Brown è cambiato. Difficile dire se davvero il premier stia pensando alla sua successione o se, come invece sostengono i maligni, questa mossa (nei fatti Blair ha lasciato a Brown una parte di poteri, in una sorta di co-leadership) serva ad indebolire il suo avversario anzichè a rafforzarlo.

A parlare di una co-leadership è stato apertamente Charles Clarke, ministro degli interni scottato dalla sconfitta in parlamento della legge sull'incitamento all'odio religioso e prima ancora delle misure antiterrorismo che prevedevano la detenzione senza processo estesa a 90 giorni. Clarke si trova in pessime acque anche per quanto riguarda la legge sull'introduzione delle carte d'identità, in discussione ieri sera. In una intervista all'Observer, Clarke ha parlato chiaramente di «patto tra Blair e Brown» che si espliciterebbe in una sorta di co-direzione di Downing street. Il che spiega perchè ieri è stato Brown ad indicare la politica governativa in materia di sicurezza nazionale. In un discorso, fra l'altro, molto blairiano, cioè molto netto nella necessità di irrigidire le attuali leggi in materia di terrorismo. Per esempio Brown ha detto che «affrontare la realtà e le cause del terrorismo internazionale è la grande sfida dei nostri tempi. Dal successo in questa sfida, dipende tutto il resto». Parole che riecheggiano il Tony Blair più belligerante.

Brown ha dovuto anche fare i conti con una bruciante sconfitta: alle suplettive in Scozia (considerata il suo regno), infatti, lo scorso week end il ministro del tesoro ha dovuto incassare la vittoria dei liberal-democratici in un seggio Labour di quelli considerati super sicuri. Allora, si chiedono in molti, se Brown non ce la fa a vincere più nemmeno in Scozia come farà a governare il paese? Che Blair stia davvero cercando di dare il colpo di grazia al suo, fino a questo momento, indiscusso successore? Clarke sembra pensarla così e infatti all'Observer ha detto che sarebbe meglio cominciare a parlare di sfida all'inetrno del partito per la leadership. Che ci sia maretta nel new Labour, non è una novità. Le rivolte in parlamento dei deputati laburisti stanno diventando una costante. E questo chiaramente a Blair non piace.

 

16 febbraio

CUBA-USA
5 cubani in attesa di giustizia
Incarcerati da 7 anni da una giuria piena di anti-castristi
GERALDINA COLOTTI
ROMA
 

Inizia oggi nella città nordamericana di Atlanta, in Georgia, l'udienza che in settimana deciderà la sorte dei 5 cubani, detenuti dal 1998 nelle carceri di massima sicurezza Usa con l'accusa di spionaggio. E oggi a Roma alle 18 (teatro Vittoria, piazza Santa Maria liberatrice), Gianni Minà (di Latinoamerica) e Ignacio Ramonet (direttore del mensile francese Le Monde diplomatique) ne discuteranno con il pubblico a partire dal volume Il terrorismo degli Stati uniti contro Cuba, edito da Sperling & Kupfer. Nel libro, 16 intellettuali del calibro di Howard Zinn, Nadine Gordimer, James Petras, Salim Lamrani o Garcia Marquez, raccontano il caso dei cinque, definendolo «una storia inquietante censurata dai media». Tanto che, per farla conoscere, un comitato di solidarietà internazionale (composto, tra gli altri dall'ex ministro della giustizia Ramsey Clark) ha dovuto comprare una pagina del New York Times, pagandola 60.000 dollari. Nei tribunali, il controverso caso giudiziario, iniziato con pesanti condanne e due ergastoli, sembra giunto a una svolta il 9 agosto 2005, quando la Corte d'appello federale di Atlanta, competente per la Florida, annulla il giudizio emesso a Miami nel 2001. Dopo un'analisi dettagliata del processo e delle prove, il collegio di tre giudici - all'unanimità - valuta che a Miami c'era un atteggiamento «così ostile e irrazionale» da aver impedito lo svolgimento di un processo equo agli accusati. Una sentenza storica nella giurisprudenza nordamericana. Per la prima volta, vengono accolti gli argomenti della difesa - guidata da Leonard Weinglass, già avvocato di Angela Davis e Mumia Abu-Jamal - e menzionate le attività anticastriste di Luis Posada Carriles, definito apertamente un «terrorista». Si dà per implicito, dunque, che i cinque agenti segreti svolgessero attività preventiva: impedire, cioè, che altri attentati organizzati in Florida contro Cuba facessero salire ulteriormente il numero dei morti (oltre 2.000 vittime). Finalmente un nuovo processo? Macché. Il 27 settembre 2005, il procuratore generale della Florida presenta appello, chiede ai giudici di tornare sulla decisione. E così avviene il 31 ottobre 2005. Ora, toccherà a un collegio allargato di 12 magistrati confermare il giudizio dei loro tre colleghi - e fissare la data di un nuovo processo - oppure smentire quel giudizio e aprire una vertenza giuridica di competenza internazionale.

Come che sia, i cinque rimangono in carcere. Da sette anni, a due di loro vengono negate le visite delle mogli, in violazione delle stesse leggi nordamericane e delle norme internazionali. E per tutti misure detentive che, l'anno scorso, un gruppo di lavoro delle Nazioni unite ha definito ingiuste e arbitrarie. Come si può considerare equo un processo a Miami, città che conta circa 650.000 esiliati cubani, i cui voti sono stati determinanti per l'elezione di Bush nel 2000? In quale distretto il 20% della giuria è formato da «uomini e donne fuggiti da Cuba perché in disaccordo con il governo che gli accusati cercavano di proteggere?», domanda l'avvocato Weinglass. E accusa i procuratori di aver manipolato il sistema penale a fini politici.

Ma, intanto, nonostante il silenzio dei media, cresce la mobilitazione internazionale.

 

Il colosso energetico dovrà pagare 290 milioni di euro
per aver ostacolato l'ingresso di operatori sul mercato
Antitrust, maximulta all'Eni
per abuso posizione dominante

La replica: "Pronti a impugnare la sentenza, prima valuteremo"

ROMA - L'Eni dovrà pagare una maximulta da 290 milioni di euro per abuso di posizione dominante nel settore dell'approvvigionamento del gas. L'Antitrust ha deciso che il colosso energetico "ha posto in essere un abuso di posizione dominante ostacolando l'ingresso di operatori indipendenti, a partire dal marzo 2007, sul mercato nazionale dell'approvvigionamento all'ingrosso di gas naturale". Il gruppo replica: "Siamo pronti a impugnare la sentenza, ma prima la valuteremo".

In particolare,rileva l'Antitrust, "la condotta accertata è consistita nell'aver interrotto la procedura di potenziamento del gasdotto Ttpc, da tempo avviata, e per la quale erano stati firmati contratti di trasporto ship or pay con alcuni shipper. Per questa ragione l'Autorità ha comminato una sanzione pari a 290 milioni e ha imposto che Eni ponga termine ai comportamenti distorsivi della concorrenza, cedendo ad operatori terzi, tramite la propria controllata Trans Tunisian Pipeline Company Ltd., capacità di trasporto addizionale sul gasdotto Ttpc per 6,5 miliardi di metri cubi annui di gas entro il 1 ottobre 2008".

Oltre alla maximulta, l'Antitrust ha deciso che Eni dovrà aumentare la capacità di trasporto di 6,5 miliardi di metri cubi inn due tranche entro il primo ottobre 2008. L'Eni, spiega l'Antitrust, dovrà garantire l'entrata in servizio di una prima tranche della capacità addizionale, pari a 3,2 miliardi di metri cubi di gas, non oltre il 1° aprile 2008, e di una seconda tranche, pari a 3,3 miliardi di metri cubi di gas, non oltre il 1° ottobre 2008. "Ciò -sottolinea l'Authority- corrisponde a precisi impegni già assunti dalla società".

Inoltre, entro 30 giorni Eni dovrà fornire all'Autorità la documentazione sulla procedura di allocazione della seconda tranche della capacità addizionale sul Ttpc affinché si possa valutare se sia effettivamente improntata a criteri obiettivi e non discriminatori. Entro i successivi 90 giorni dovrà informare l'Autorità dello stato di avanzamento della procedura di allocazione della seconda tranche della capacità addizionale sul Ttpc.

In ogni caso l'abuso accertato, per il periodo marzo 2007 (data entro la quale originariamente avrebbe dovuto essere completato il potenziamento del gasdotto TTCP) e aprile 2008, determinerà il mancato ingresso sul mercato rilevante di 6,5 miliardi di metri cubi di gas. Per il restante periodo aprile 2008 - ottobre 2008 l'effetto è quantificato come mancato ingresso di 3,3 miliardi di metri cubi di gas.

Per l'Antitrust, l'effetto cumulativo della pratica abusiva riscontrata, tenendo conto delle misure proposte da Eni sul gasdotto Ttpc, è dunque pari a 9,8 miliardi di metri cubi di gas su di un periodo di 19 mesi. "Si tratta di un volume di gas notevole- osserva l'Autorità- sia se rapportato al fabbisogno annuo di gas (pari ad 80 miliardi di metri cubi di gas nel 2004 ed a circa 86 miliardi di metri cubi nel 2005), sia se rapportato alla quota approvvigionata da Eni (pari a circa 53 miliardi di metri cubi nel 2004)".

Per l'Autorità, che aveva avviato l'istruttoria il 27 gennaio 2005, "il comportamento di Eni costituisce una violazione grave dell'articolo 82 del Trattato di Roma". Nel determinare la sanzione, l'Autorità ha tenuto anche conto dell'attenuante consistente nel fatto che Eni ha comunque dato avvio, nel corso del procedimento, alla procedura di allocazione della capacità addizionale relativa alla prima tranche del potenziamento del Ttpc. "Gli impegni assunti di recente da Eni - conclude - sono stati pertanto favorevolmente valutati dall'Autorità".

 

 

Nel mirino della Commissione europea gli effetti
della legge Gasparri. E Sky chiede meno vincoli
Frequenze tv, Bruxelles chiede
chiarimenti sui rischi di monopolio

di ALBERTO D'ARGENIO

<B>Frequenze tv, Bruxelles chiede<br>chiarimenti sui rischi di monopolio</B>BRUXELLES - La Commissione europea mette nel mirino la legge Gasparri sul settore televisivo con una lettera inviata al ministero delle Comunicazioni prima di Natale. Si tratta di un vero e proprio interrogatorio sul sistema di distribuzione delle frequenze per il digitale terrestre introdotto dalla legge fortemente voluta dal governo Berlusconi. E il fronte dei media italiani presso gli uffici Ue è destinato ad allargarsi, visto che Sky ha chiesto al capo dell'Antitrust comunitario, Neelie Kroes, di modificare le restrizioni imposte alla piattaforma satellitare ai tempi della fusione tra Stream e Telepiù.

La richiesta di informazioni sulla Gasparri è contenuta in una lettera di otto cartelle firmata da Philip Lowe, direttore generale della Kroes, e di fatto punta il dito contro tre aspetti della ripartizione delle frequenze. Innanzitutto, Bruxelles chiede di spiegare perché il governo abbia deciso di concedere le frequenze per il digitale terrestre solo agli operatori già presenti sul tradizionale mercato della tv analogica (in cui Mediaset fa la parte del leone). Gli esperti domandano poi di spiegare la ragione per cui l'Autorità garante delle telecomunicazioni non abbia dato attuazione al piano di assegnazione delle frequenze analogiche, la cui mancata esecuzione "ha reso estremamente difficile per i nuovi entranti il reperimento delle risorse" per il digitale terrestre.

Ma non finisce qui. L'Ue chiede se esista un limite alla raccolta "di licenze d'operatore per il digitale e di frequenze destinate alla radiodiffusione televisiva" che gli operatori già presenti sul mercato - capitanati dall'azienda della famiglia Berlusconi - stanno rastrellando con il rischio di una trasposizione della propria posizione dominante sul mercato del digitale.

Guardando al momento in cui la tv tradizionale sarà sostituita dal digitale, Bruxelles si preoccupa di sapere se le frequenze liberate saranno restituite allo Stato per una riassegnazione o se, al contrario, saranno mantenute dagli attuali concessionari. Al termine di tutti i quesiti la Commissione chiede di motivare l'eventuale risposta negativa con delle ragioni "di interesse generale" che la abbiano ispirata. Come dire, se non ci sono buoni motivi per il mancato rispetto delle norme europee noi andremo fino in fondo.

L'azione di Bruxelles, al momento ancora informale, prende spunto dalle norme comunitarie che chiedono alle capitali europee di procedere all'assegnazione delle frequenze in modo trasparente e non discriminatorio, di non prendere misure anticoncorrenziali e di non accettare posizioni dominanti sui propri mercati. Princìpi, questo è il timore di Bruxelles, che potrebbero essere stati violati dalla Gasparri in favore dei soliti noti della televisione italiana, Mediaset in testa.

Al momento è difficile dire se l'indagine sarà trasformata in una vera e propria procedura, anche se alcuni osservatori sono pronti a scommettere che Bruxelles andrà fino in fondo. Anche sulla richiesta di Sky di modificare gli impegni imposti nel 2003 dall'allora commissario Ue alla Concorrenza, Mario Monti, è difficile dire quale sarà la reazione della Commissione. Tra le altre cose, il leader del satellite italiano chiede a Bruxelles di cancellare il divieto per cui non può partecipare alle gare di assegnazione dei 'contenuti premium' (essenzialmente quelli sulle partite di calcio) che vedano in lizza altre piattaforme e di rivedere l'obbligo di rivendere agli operatori concorrenti i propri contenuti premium ad un prezzo definito dall'Autorità.

Secondo gli uomini di Murdoch, infatti, con l'avvento del digitale terrestre sono profondamente mutate le condizioni del mercato italiano che avevano dettato a Monti la necessità di imporre dei paletti all'allora monopolista della pay per view.

 

 

Via libera di Palazzo Madama alla cosiddetta "legge Pecorella"
che il Quirinale aveva rinviato alle Camere lo scorso 20 gennaio
Inappellabilità, sì definitivo del Senato
con le modifiche volute da Ciampi

ROMA - Via libera del Senato al provvedimento sulla inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, la cosiddetta "legge Pecorella", che il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, aveva rinviato alle Camere lo scorso 20 gennaio. Nonostante le continue richieste di verifica del numero legale (a ogni voto) avanzate dall'opposizione a fini ostruzionistici, la Casa delle libertà è riuscita a garantire il numero legale. Il provvedimento era stato approvato dalla Camera lo scorso 1 febbraio. La riforma dell'appello è stata approvata, senza modifiche rispetto al testo licenziato dalla Camera, con 159 voti a favore, 55 contrari e un astenuto. L'opposizione ha votato contro.

Il via libera del Senato, dunque, chiude la partita dopo il rinvio della legge per il riesame da parte del Capo dello Stato. Rispetto alla prima versione, la legge è stata modificata in diversi punti per rispondere ai rilievi del Quirinale, modifiche giudicate insufficienti dal centrosinistra. "Abbiamo approvato una buona legge, e da oggi - dichiara il presidente dei senatori di Forza Italia, Renato Schifani - si riduce il rischio che un innocente possa essere condannato ingiustamente".

Lapidario il commento del vicepresidente del Csm, Virginio Rognoni: "Purtroppo era prevedibile". Così come la reazione dell'Associazione nazionale magistrati: "Abbiamo già espresso le nostre critiche. La nuova legge ci sembra sbagliata, sia per quanto riguarda il giudizio di Cassazione, sia per l'inappellabilità delle sentenze di assoluzione" afferma il presidente del sindacato delle toghe, Ciro Riviezzo, per il quale la riforma "non è stata nemmeno adeguata ai rilievi del Capo dello Stato. Si tratta di un'altra brutta legge".

Al momento del voto l'opposizione ha protestato mostrando dei disegni colorati con Silvio Berlusconi nei panni di Napoleone, sorridente mentre guarda una pecora che ha il volto del presidente della commissione Giustizia della Camera, Gaetano Pecorella.

 

14 febbraio

L'iniziativa è di una società che offre sistemi di sicurezza
E scoppia la polemica: "E' violazione della privacy"
Cincinnati, dipendenti "marchiati"
Inserito un chip sotto la pelle
La difesa: "Non è un sistema per seguire le persone"

<B>Cincinnati, dipendenti "marchiati"<br>Inserito un chip sotto la pelle</B>WASHINGTON - C'è chi parla di un vero e proprio marchio sulla pelle dei cittadini.Suscita polemiche l'iniziativa di una compagnia dell'Ohio che offre sistemi di sicurezza che ha inserito un rivelatore elettronico d'identità sotto la pelle dei suoi dipendenti. Un modo, spiegano dalla 'CityWatcher' per agevolare l' identificazione dei dipendenti.

La targhetta elettronica consente alla compagnia di controllare l'accesso ad una stanza del suo quartier generale a Cincinnati dove sono conservate immagini inviate dalle telecamere di sorveglianza vendute ai clienti. L'iniziativa, rivelata oggi dal quotidiano Financial Times, ha suscitato immediate reazioni negative da parte dei gruppi che difendono la privacy dei cittadini. "Marchiare in modo permanente le persone solleva importanti interrogativi legati alla privacy e ai diritti civili", ha osservato Liz McIntyre.

"Non c'è niente nei microchip che emetta pulsazioni o segnali radio di alcun genere - ha affermato il responsabile della società Sean Darks - Non è un sistema per seguire gli spostamenti delle persone. Mia moglie non può sapere dove sono".

I microchip sono stati creati soprattutto per scopi medici: nella targhetta possono essere inserite le informazioni vitali sul curriculum sanitario di una persona. Ma i critici di questa nuova tecnologia sono preoccupati soprattutto dalla possibilità che i microchip possano essere usati per seguire gli spostamenti delle persone che accettano la installazione dei dispositivi elettronici.

Questa tecnologia è da tempo usata in altri campi, come la identificazione degli animali domestici o quella dei pacchi postali in transito. Milioni di animali domestici hanno ricevuto negli Stati Uniti la targhetta elettronica d'identità che si è rivelata efficace per il ritrovamento dei cani e dei gatti smarriti.

 

 

Sbatti il gay in prima pagina. Caccia alle streghe in Camerun
I giornali del paese sub-sahariano pubblicano una lista di omosessuali, in un paese in cui l'omosessualità è legalmente perseguita
Nomi eccellenti Nell'elenco anche alcuni ministri. Sullo sfondo della vicenda un possibile scontro all'interno del partito del presidente Paul Biya, in vista di un prossimo rimpasto di governo

IRENE PANOZZO*

Una vera e propria lista di proscrizione. Pubblicata e ripubblicata su tabloid scandalistici, che sono andati a ruba tra la popolazione del Camerun, richiamata alle edicole da titoli come «Ecco le checche di casa nostra» e «Devianza: la lista completa degli omosessuali del Camerun». Si è aperta così nelle settimane scorse un'insolita caccia alle streghe. Che rischia di fare però vittime eccellenti, visto che nelle famose liste compaiono ministri della repubblica, uomini politici, imprenditori, artisti e perfino un vescovo. L'effetto è stato dirompente. Perché in Camerun l'omosessualità non solo non è socialmente accettata, ma è anche perseguibile per legge. È un'eredità del vecchio codice penale di epoca coloniale, che all'articolo 347 stabilisce che ogni persona che abbia relazioni sessuali con un'altra dello stesso sesso può essere punito con una pena che va dai sei mesi ai cinque anni di carcere e con un'ammenda che può variare tra i 20mila e i 200mila franchi Cfa (dai 30 ai 300 euro). Ma se chi commette il reato è minore di ventun anni, la pena è automaticamente raddoppiata.

Finire sulle prime pagine dei giornali nazionali non è quindi uno scherzo. E le reazioni dei diretti interessati non si sono fatte attendere. A parlare per tutti è il ministro della comunicazione, Pierre Moukoko Mbonjo, che ha domandato come i giornalisti che hanno redatto le liste pensano di dimostrare in tribunale le accuse mosse contro i presunti omosessuali. A meno che, ha concluso affondando il colpo, non siano loro stessi i partner di coloro che sono stati citati dai giornali. Ha poi raddrizzato il tiro, sostenendo che «sia che siano eterosessuali sia che siano omosessuali, i comportamenti sessuali sono una questione privata che riguarda due persone in un ambiente intimo».

Un'affermazione che però è molto lontana dal sentimento diffuso tra la popolazione e che i direttori dei giornali impegnati nella caccia alle personalità gay stanno facendo di tutto per smentire. Fino ad arrivare ad arrogarsi il diritto e il dovere di «purificare» la nazione dal virus dell'omosessualità. «L'amore tra gli uomini è disgustoso», ha dichiarato il direttore di L'Anecdote, uno dei giornali che si sono gettati a pesce sullo scandalo. «Può essere normale in Europa», ha continuato, «ma in Africa e in Camerun è impensabile». Parole che ricordano da vicino quelle di personaggi in vista della scena politica africana, come il controverso presidente dello Zimbabwe Robert Mugabe, che ha abituato cronisti e popolazioni con esternazioni spesso eccessive sul tema.

Lo straparlare di Mugabe o il caso camerunese si inseriscono in un panorama, quello africano, di radicata e persistente omofobia. Nella maggior parte dell'Africa sub-sahariana l'omosessualità è fuorilegge (alcuni paesi prevedono l'ergastolo o la pena di morte per i gay) e non è un argomento di discussione pubblica. In molti casi, anche lo status legale dell'omosessualità non dice molto sul reale stato dei gay e lesbiche, visto che solitamente i tabù hanno una rilevanza maggiore delle leggi. Ciò non significa che comunità omosessuali, per quanto underground, non esistano. Ma non essendo un argomento di discussione, anche il livello di consapevolezza individuale dell'omosessualità può essere basso. Unico caso decisamente in controtendenza è il Sudafrica, unico paese al mondo con una costituzione che proibisce esplicitamente qualsiasi tipo di discriminazione nei confronti delle minoranze sessuali (e dove i matrimoni omosessuali sono diventati legali lo scorso dicembre).

Ma nel caso delle liste sui giornali camerunesi non c'è solo la semplice omofobia a muovere le fila dello scandalo. Alcuni osservatori hanno voluto vedere dietro a tutto questo bailamme delle manovre politiche causate da una lotta di potere interna al partito del presidente Paul Biya, in vista di un prossimo rimpasto di governo. Ma ci sono anche gli interessi commerciali dei giornali, che in pochi giorni hanno visto crescere vertiginosamente le proprie vendite. E mentre i prezzi delle singole copie si decuplicavano, le fotocopie delle liste hanno raggiunto quotazioni astronomiche al mercato nero.

 

 

Diritti al lavoro», le proposte della Cgil in un libro

ANTONIO SCIOTTO

Cancellare la legge 30 e riportare al centro il rapporto a tempo indeterminato; lotta al sommerso, diritti agli immigrati, riforma di scuola, università e collocamento pubblico. Le proposte della Cgil per cambiare segno sono contenute nel volume «Diritti al lavoro» (edizioni Ediesse), a cura di Alessandro Genovesi, Marica Guiducci e Claudio Treves, del dipartimento mercato del lavoro. «Raccoglie le elaborazioni degli ultimi anni di battaglie, un quinquennio di "atti e passioni" Cgil - spiega Genovesi - Sono le nostre alternative alla legge 30 ma anche al pacchetto Treu; alla Bossi-Fini e al decreto Moratti. E non è un caso che il libro esca in questo periodo, quando chi si candida a governare presenta i suoi programmi. Non facciamo mistero di guardare con maggiore attesa nei confronti dell'Unione, ma Guglielmo Epifani lo dice chiaro nella prefazione: la Cgil giudica le proposte e il futuro governo a partire dai propri testi ed elaborazioni, e in questo intende rimarcare la sua autonomia». Sulla legge 30 si presentano le proposte di legge Cgil, firmate da 5 milioni e mezzo di cittadini: va riportato al centro il rapporto a tempo indeterminato, creando la nuova figura del «lavoratore economicamente dipendente», chiaramente distinto dall'autonomo, e sopprimendo l'area grigia dei cococò e cocoprò, sfruttati spesso come «dipendenti mascherati». I rapporti a termine vanno limitati alle causali stabilite per contratto, e non possono essere reiterati oltre un certo numero di volte (anche queste stabilite dai contratti). Va sostituito il contratto di inserimento con il «contratto di inclusione», che non penalizza le fasce deboli. L'apprendistato deve essere limitato a 4 anni e il lavoratore non va più sottoinquadrato. Si riporterebbe - sottolinea la Cgil - la contrattazione e il contratto nazionale alla parità con la legislazione, come era prima della legge 30 e dello stesso pacchetto Treu. Gli ammortizzatori sociali vanno estesi a tutte le categorie: ma soprattutto come cassa integrazione e sostegno al lavoro, non tanto al reddito.

L'impostazione generale è insomma quella di tutelare il cittadino sul posto di lavoro e non solo nel mercato, a differenza di altri punti di vista (in particolare quelli dell'ala «riformista» dell'Unione) che preferiscono rafforzare il solo welfare, per sostenere la flessibilità e poter indebolire il lavoro. Lo stesso programma licenziato ieri dall'Unione, necessario compromesso tra queste due filosofie, deve aver lasciato la Cgil (o almeno la sua parte più avanzata) con la bocca amara.

Sul lavoro nero si propone il concetto di «indice di congruità», ovvero il ritorno alla responsabilità dell'impresa: sarà quest'ultima, quando gareggia per un appalto, chiede finanziamenti o un tot di apprendisti, a dover dimostrare che il numero di lavoratori impiegati è compatibile con la sua produzione e il fatturato. Si mette fine all'esperienza dei contratti di riallineamento, le imprese vanno incentivate con fondi nazionali ad hoc e accordi locali. Le risorse si troveranno con la lotta all'evasione, per recuperare parte dei 200 miliardi di euro che sfuggono ogni anno al fisco, e quei 16 miliardi di mancati versamenti all'Inps.

Sugli immigrati, la Cgil aveva già proposto a Bari, l'anno scorso, quel principio oggi accolto dal programma dell'Unione: concedere il permesso di soggiorno agli extracomunitari che denunciano le imprese che li occupano in nero.

«Le proposte parlano a 8 milioni di persone, un quarto dell'intera forza lavoro del paese - conclude il rappresentante della Cgil - Sono i quattro milioni e mezzo di precari e i quattro milioni di sommersi, spesso "interscambiabili" da un ruolo all'altro, tutti parte di quel "lavoro al margine" a cui le forze politiche italiane devono dare una risposta».

 

 

La scommessa di Zapatero

Laboratorio Spagna Da dove viene, che cosa pensa, dove guarda il premier spagnolo maledetto dai benpensanti italiani. La cornice culturale del «socialismo dei cittadini» e l'idea di libertà che autorizza i matrimoni gay e strappa la tv ai partiti. Un libro-intervista di Marco Calamai e Aldo Garzia
IDA DOMINIJANNI
Quando Luìs Rodriguez Zapatero annuciò il ritiro immediato delle truppe spagnole dall'Iraq erano passate appena cinque settimane dalla vittoria del Psoe alle elezioni del 14 marzo 2004 e dalla sua elezione a premier. Colpì allora, oltre al fatto, lo stile: scarno e diretto, sobrio e definitivo. Non c'erano se, ma, forse, potremmo, chissà. Davanti alle telecamere il giovane premier disse semplicemente: «Ho ordinato al ministro della difesa di ritirare le nostre truppe dall'Iraq», punto e fine della trasmissione. Dai commentatori italiani che da lustri invocano, a ragione e a torto, la virtù della decisione nella leadership politica ci si sarebbe aspettato qualche apprezzamento, invece cominciò la denigrazione sistematica, perché il giovane Bambi aveva osato troppo. Poi Bambi osò sempre di più, sulle donne al governo, sui rapporti con la chiesa, sui matrimoni omosessuali, sul sistema televisivo, e la denigrazione continuò fra i benpensanti di destra, mentre fra i benpensanti di sinistra caddero il silenzio e l'imbarazzo. Zapatero, basta la parola e il centrosinistra italiano entra nel panico: ogni cosa che lui fa in Spagna è una scossa di terremoto per una coalizione attaccata con lo scotch, nella quale può accedere che siano candidati in contemporanea Vladimir Luxuria e la presidente del comitato «Scienza e vita». Leggendo la lunga intervista al premier spagnolo che costituisce la parte centrale di Zapatero. Il socialismo dei cittadini (Feltrinelli) di Marco Calamai e Aldo Garzia, si capisce adesso che quello stile sobrio e deciso del ritiro dall'Iraq non era occasionale ma è una cifra del personaggio. Il quale ha una risposta sobria e decisa, senza se, ma, forse, potremmo, chissà, per ogni grande questione - democrazia, libertà, globalizzazione, guerra, memoria - che gli intervistatori gli pongono e che in altri intervistati eventuali di casa nostra provocherebbero un numero infinito di circonlocuzioni evasive e diversive. Esempi. Sui rapporti con la Chiesa: «Il mio governo non desidera in alcun modo scontrarsi con la chiesa cattolica né con altre organizzazioni religiose. Ma è la nostra Costituzione a stabilire il carattere aconfessionale dello stato spagnolo». Sui matrimoni gay: «Abbiamo riconosciuto un diritto a coloro che prima non lo avevano, senza ridurre di una virgola la libertà di coloro che a quel diritto non sono interessati». Sulla riforma che accelera le procedure per il divorzio: «Il diritto al matrimonio comprende anche la libertà di scioglierlo, quando il progetto di coppia è fallito». Sul ritiro dei simboli franchisti dai luoghi pubblici: «Non mi risulta che esistano paesi democratici dove si conservino le statue dei dittatori. La cosa normale è che questi simboli non ci siano. Mi sembra un fatto ovvio». Sulla riforma del sistema televisivo: «Durante la campagna elettorale avevo detto: `Voglio essere il politico che strappa la televisione ai politici e la restituisce ai cittadini'. Sto facendo ciò che avevo detto». E via così.

Ne viene fuori non solo l'immagine di un leader che pratica quello che predica, cioè che in politica il primo comandamento è «non tradire la parola data». Ma anche e soprattutto quella di un socialista senza sensi di colpa rispetto alla sua provenienza. Zapatero non si sente in obbligo di scusarsi per essere dalla parte dei diritti di libertà, del welfare dei più deboli, della democrazia partecipata; né sente il bisogno di prendere ogni poco le distanze dal socialismo novecentesco, dai suoi errori e dai suoi fallimenti. Tutt'al contrario, dice e comunica l'orgoglio sereno di chi lavora per rilanciare il nocciolo della sua tradizione. Che per lui è un nocciolo di libertà: «Il socialismo è libertà. Non ci può essere socialismo senza libertà e senza democrazia», e se una colpa ha avuto il socialismo novecentesco è stata quella di mettere questo fronte in secondo piano rispetto a quello dell'economia e della giustizia sociale.

Calamai e Garzia, entrambi ottimi conoscitori della storia e della sinistra spagnole, giustamente inquadrano queste posizioni di Zapatero all'esito della lunga vicenda che va dall'uscita dal franchismo al Psoe di Gonzales all'ascesa e declino della destra di Aznar. A chi legge, viene spontaneo invece il confronto con i sensi di colpa della sinistra italiana di oggi e con il suo conseguente moderatismo; e non suonano stonati i riferimenti a Bill Clinton e a Tony Blair che Zapatero fa pur rimarcando le diversità della sua politica rispetto alle loro. In tutti e tre i casi - fatte salve le distanze, specie da Blair, su questioni cruciali come l'Iraq e l'Europa - ha funzionato un rapporto fra discontinuità e tradizione che ha saputo imprimere un colpo di accelerazione e di inventiva alla politica, mentre nel caso italiano quel rapporto s'è bloccato, producendo insieme cattiva continuità e cattiva innovazione.

Vale la pena dunque di leggere con attenzione le parti dell'intervista dedicate agli ingredienti culturali del laboratorio Zapatero: l'idea di libertà come «non dominio», ben diversa da quella liberal-liberista di libertà come affrancamento dallo stato e dal pubblico; la concezione del rapporto fra governo e autogoverno che regge l'impalcatura istituzionale delle autonomie e delle municipalità; l'accento sul «quarto pilastro» del welfare per i cittadini meno autonomi di altri per ragioni di reddito, di salute, di età, di carico familiare; la salda convinzione che dal coinvolgimento femminile sia la democrazia a guadagnarci, prima che le donne. Idee che contano - «per me le idee sono molto importanti in politica come nella vita» -, anche se «non abbiamo alcuna ortodossia da offrire, perché la maggior parte della vita sta fuori da qualsiasi ortodossia». Poi c'è lo stile, come un messaggio in bottiglia per chi voglia raccoglierlo: «Penso che le persone che meglio sanno esercitare il potere sono quelle che non lo amano, non lo rincorrono con ansia, non sentono nei suoi confronti un attaccamento insano. Chi ama molto il potere non è capace di correre rischi e non realizza il cambiamento. La sinistra non può arrivare al potere per gestirlo un po' meglio della destra. Deve andarci per realizzare i suoi principi, e dimostrare che la sua differenza porta benefici alla maggioranza». Se è potuto accadere, come osservano Calamai e Garzia, che mentre a fine anni 70 la sinistra italiana era un punto di riferimento per quella spagnola oggi è l'inverso, qualche ragione c'è.

 

13 febbraio

Il consumo delle carni bianche ridotto del 35%, persi 600 milioni
Le organizzazioni di settore chiedono la proclamazione dello stato di crisi
Aviaria, allarme dei produttori
"Cassa per 30.000 dipendenti"
La Cgil: "Sono a rischio 200mila posti di lavoro"

L'influenza aviaria ha ridotto il mercato delle carni bianche del 35%

ROMA - Dall'inizio della diffusione dell'influenza aviaria nel mondo, il mercato delle carni bianche in Italia ha registrato una contrazione dei consumi pari al 35%. L'emergenza H5N1 è costata al settore avicolo già 600 milioni di euro. Uno studio realizzato dall'Istituto Piepoli di Milano conferma la preoccupazione dei produttori già denunciata nell'ottobre scorso da Gaetano De Lauretis presidente dell'Avitalia, l'Unione nazionale della associazioni di produttori avicunicoli.

"Un miliardo di danni per il settore". Il segretario della Flai-Cgil Franco Chiriaco, ha calcolato che l'allarme aviaria mette in pericolo duecentomila posti di lavoro. Secondo una stima della Cia-Confederazione italiana agricoltori italiana, è corretto prefigurare "un danno all'avicoltura nazionale non inferiore ad un miliardo di euro in un settore che ha un fatturato di quattro miliardi di euro, tre per le carni e uno per le uova".

"I polli italiani sono sicuri". "Eppure il virus dell'influenza aviaria - assicura la Confagricoltura - riguarda esclusivamente volatili selvatici e non c'è alcuna presenza della malattia negli allevamenti italiani. La carne avicola nazionale ha tutti i requisiti necessari in termini di sanità, salubrità e, naturalmente, di qualità".

"La situazione è drammatica". Paolo Bruni è il presidente di Fedagri-Confcooperative, la federazione delle cooperative agricole e agroalimentari italiane che associa circa il 90% dei principali produttori del settore: "Le notizie di queste ore rischiano di dare il colpo definitivo al settore zootecnico. Per gli oltre 7.000 allevamenti, i 900 mangimifici, i circa 700 laboratori di lavorazione, i 180.000 addetti diretti e indiretti che compongono il settore, la situazione si è drammatica".

Trentamila in cassa integrazione. "Il settore avicolo italiano è retto per il 90% da aziende cooperative", spiega Paolo Bruni. "La stagnazione del mercato ha costretto le cooperative a congelare 30 milioni di polli. Dall'inizio dell'anno, 30mila lavoratori sono stati messi in cassa integrazione e si sono registrati punte di calo nelle vendite che hanno sfiorato il 60%. Il restante 40% viene venduto alla metà del suo valore".

"Serve lo stato di crisi". Gaetano De Lauretis, presidente di Avitalia, l'unione nazionale delle associazioni di produttori avicunicoli, lancia due appelli: uno al governo, l'altro ai consumatori. Ai politici chiede contributi economici: "Basta proclami: è ora che l'esecutivo dichiari lo stato di crisi per il settore avicolo. Bisogna sospendere i pagamenti dei contributi previdenziali e tributari". Ai consumatori, il presidente di Avitalia rivolge un invito: ''Continuate a consumare carne di pollo italiana: non c'è nessun pericolo".

 

 

Bush gioca la carta del terrore con il fasullo 
piano dell'attacco a Los Angeles
Di Paul Joseph Watson PrisonPlanet.com 10 febbraio 2006
Traduzione per www.disinformazione.it di Stefano Pravato
Le reti dei media compiacenti si conformano convenientemente mostrando drammatiche immagini della distruzione della Library Tower

Con una messinscena ben orchestrata, George W. Bush ha annunciato che nel 2002 è stato sventato un piano per schiantare un aeroplano sulla Library Tower di Los Angeles, e dopo pochi minuti i notiziari delle varie emittenti stavano mostrando lo spezzone del film Independence Day in cui proprio quell'edificio viene distrutto.

Bush ha affermato che l'attacco è stato evitato solo grazie all'aiuto fornito dalla sorveglianza sulle comunicazioni effettuate dalla NSA, un tentativo di zittire le critiche dello scandalo delle intercettazioni illecite con una mossa tanto sofisticata quanto può esserlo un corpulento Hooligan dopo una bevuta abbondante.

Il sindaco di Los Angeles, Antonio Villaraigosa, ha immediatamente indetto una conferenza stampa esprimendo il suo assoluto sconcerto a riguardo del supposto piano.

"Sono sorpreso che il presidente abbia fatto questo (annuncio) alla TV nazionale e non ci abbia informato di questi dettagli usando i canali predisposti", ha affermato il sindaco in un'intervista con l'Associated Press. "Non mi aspettavo una chiamata dal Presidente — ma da qualcun altro".

A distanza di minuti dal discorso del Presidente, i networks televisivi stavano mostrando immagini tratte dal film Independence Day , in cui la Library Tower viene distrutta a seguito dell'invasione aliena.

Dobbiamo capire che se il sindaco era completamente all'oscuro del supposto piano terroristico con ogni probabilità ciò vuol dire che il piano è stato completamente inventato da Karl Rove e dai sui compagni sceneggiatori. E ciò vuol dire che hanno dovuto scegliere un bersaglio e hanno scelto la Library Tower sapendo perfettamente che i notiziari dei networks avrebbero mostrato immagini della sua distruzione tratti dal film Independence Day.

Nella mente degli spettatori passivi questa informazione penetra nella corteccia cerebrale come se fosse reale, e sospendono pertanto l'incredulità e accettano la nozione che l'edificio è stato distrutto dai terroristi. E' questo il residuo che rimane nella psiche dello spettatore e la validità della risposta del governo all' 'attacco' risulta in questo caso incontestabile, al termine della validità del Patriot Act e giustificando le intercettazioni illegali sugli Americani.

Stavolta non si tratta di una debole teoria cospirativa, la suggestionabilità dovuta alla televisione è un fatto scientifico accertato da decenni.

Il fatto rappresenta una campagna deliberatamente organizzata per il controllo mentale e la genesi della paura. Hanno calato la carta del terrore talmente tante volte che le impronte della falsità possono essere rilevate e controllate quasi immediatamente.

Queste sono le stesse persone che vi hanno mostrato i nastri contraffatti delle 'confessioni' di Bin Laden trovati in una baracca di Jalalabad e che possono come preveggenti predire nastri che collegano Osama a Saddam messi in onda da Al Jazera giorni prima che questi nastri siano ritrovati.

Inoltre, come sottolinea Kurt Nimmo, uno dei supposti capi dell'operazione, Riduan Isamuddin, era “capo operazioni” di Jemaah Islamiyah, che era una creazione dell' intelligence Indonesiana ed è ampiamente riconosciuto come sia completamente controllata dalla CIA.

Se il governo avesse realmente sventato un attacco su Los Angeles, potreste scommettere fino all'ultima monetina che lo avrebbero ben sventolato di fronte alle facce della folla pacifista prima di invadere l'Iraq nel marzo 2003.

Si tratta di una mossa politica per guadagnare punti, ovvia, come ne vedrete altre. E' stata creata deliberatamente e artificialmente per spegnere le critiche infuocate sulle intercettazioni illegali della NSA.

Anche se il dibattito sulle intercettazioni verte sulle telefonate all'estero, questo è successo quando il problema reale è il fatto ammesso che il Pentagono e altre agenzie governative sono state sorprese, e continuano a farlo, a spiare i pacifici gruppi anti-guerra e attivisti interamente costituiti di cittadini Americani.

 

 

In rialzo nell'anno appena chiuso soltanto il comparto dell'energia
Mentre scendono calzature, abbigliamento, apparecchi elettrici
Istat, produzione -1,8% nel 2005
è il dato peggiore dal 2000
A dicembre -2,5%. Balzo degli autoveicoli: +27,5%

<B>Istat, produzione -1,8% nel 2005<br>è il dato peggiore dal 2000</B>ROMA - La produzione industriale del 2005 è diminuita dell'1,8 per cento rispetto all'anno precedente. Lo comunica l'Istat, precisando che il dato corretto per giorni lavorativi è - 0,8 per cento(nel 2005 ci sono stati quattro giorni lavorativi in meno rispetto al 2004). Si tratta del dato peggiore dal 2000 in termini grezzi e dal 2002 al netto dell'effetto dei giorni lavorativi.

A dicembre, l'Istat ha rilevato una diminuzione del 2,5 per cento rispetto a dicembre 2004. Lo stesso dato corretto per i giorni lavorativi si è tradotto in dicembre in un aumento del 3,5 per cento (i giorni lavorativi sono stati 20 contro i 22 di dicembre 2004). Rispetto a novembre, la produzione ha invece registrato un rialzo dell'1,2 per cento.

Nel confronto tra la media del 2005 e quella dell'anno precedente, l'unico raggruppamento che ha segnato una variazione positiva è quello dell'energia (più 4,2 per cento). Hanno presentato variazioni negative del 2,4 per cento i beni di consumo (meno 3,2 per cento i beni durevoli e meno 2,1 per cento i beni non durevoli), dell'1,5 per cento i beni strumentali e dell'1,1 per cento i beni intermedi.

In dettaglio, gli aumenti maggiori hanno interessato i settori dell'estrazione di minerali (più 7,3 per cento), delle raffinerie di petrolio (più 3,8 per cento) e dell'energia elettrica, gas e acqua (più 2,6 per cento).

Le diminuzioni più accentuate hanno riguardato i comparti delle pelli e calzature (meno 7,7 per cento), del tessile e abbigliamento (meno 6,5 per cento) e dei mezzi di trasporto e degli apparecchi elettrici e di precisione (entrambi meno 4,6 per cento).

In calo, nella media annua, anche la produzione di autoveicoli (- 4,2 per cento in termini grezzi e - 2,8 per cento il dato corretto per giorni lavorativi); sulla media d'anno nel 2005 la produzione di autovetture è calata del 12 per cento. Ma a dicembre si registra invece un fortissimo balzo in avanti: la produzione di autovetture è salita, rispetto allo stesso mese del 2004, del 27,5 per cento (dato grezzo). Per quanto riguarda gli autoveicoli, sullo stesso mese dell'anno precedente, la produzione è aumentata del 12,7 per cento in termini grezzi e del 25,2 per cento rispetto al dato corretto.

 

12 febbraio

Chiese, proloco e stradine di campagna

così finiscono le briciole di una legislatura

ROMA - In limine mortis i deputati si sono teneramente divisi gli spiccioli di una legislatura. Come si fa alla prima vincita di un ambo del lotto: pochi euro da spartirsi in quaranta. Giovedì nove febbraio nel bollettino ufficiale della Camera le ultime commoventi richieste, avanzate in una risoluzione delle commissioni riunite Bilancio e Lavori pubblici, al ministro Tremonti. Spese minute, come quando si va al supermarket e alla mamma si raccomanda: ricordati di carote, nutella, corn flakes!

Cose piccole per un'Italia piccola, anzi piccolissima. Stradine di campagne, balaustre di oratorio, i cancelli delle proloco. Regalini, il poco che si è riusciti a concedere in una situazione economica sempre ossessivamente ostile e disperata.

Sono i preti di campagna, i parroci dei paesi, a cui, devoti, i rappresentanti del popolo in periodo preelettorale indirizzano sempre un caloroso segno di amicizia e solidarietà. Un abbraccio e un obolo, da infilare nel cassetto della sacrestia. Quattromila euro alla parrocchia San Giovanni di Avigliana, centomila a quella di Osnago, trentamila alla diocesi di Patti. Cinquantamila, e ancora altri cinquantamila, e ancora cinquantamila: Sacro Cuore, Beata Vergine di Maria, San Giuseppe e San Salvatore, Santa Maria Maggiore e prega sempre per noi, San Carlo, Santo Spirito, San Nicola di Bari, San Gabriele Arcangelo.

Tutti i Santi, insomma. E in tutte le contrade d'Italia. Casola di Napoli, Umbertide, Marcianise, Fragagnano, Paola, Cittadella, Vigodanzere, Spadarolo di Rimini. Nord, sud, centro e isole. Ovunque: cinquemila, cinquantamila, centomila euro. Le parrocchie riunite per diocesi, le diocesi identificate sui collegi elettorali.

A sud di Torino (Giaveno, Avigliana e località limitrofe), c'è la mano dell'onorevole Osvaldo Napoli, di Forza Italia. Uomo minuto, del fare. Persona generosa, volitiva, sempre piena di slancio. E sindaco itinerante: "Dopo Giaveno, mi vorrebbero ad Avigliana. Sanno che con me i paesi rinascono. Non sa se verrà rieletto, ma sa che questa possibilità è l'ultima utile. Fratelli e sorelle, votate per lui. E votate, se potete, anche per il collega e amico Gioacchino Alfano, da Sant'Antonio Abate: settantamila euro alla Pro Loco, diecimila per la "costruenda" Chiesa di Saviano, il campo di bocce a Santa Maria La Carità (ventimila, grazie).

Ci sono anche interventi più possenti. Sono gli zeri che determinano i gradi e anche l'autorevolezza dell'intervento. Angelino Alfano, coordinatore siciliano di Forza Italia, ha sicuramente a cuore Agrigento, che custodisce i maestosi templi.

Ma ad Agrigento l'acqua è un problema. Senz'acqua la città non si lava. Dunque è sporca. E allora, via: acqua e sapone per novecentomila euro complessivi. Sarà una toilette meticolosa. La dizione esatta è: interventi di pulizia straordinaria della città. Carte e cartacce, bidoni, marciapiedi sporchi. Quasi tre miliardi per scope, scopini, pulitori e pulitrici.

In questa vigorosa lotta all'ultimo euro, nell'epico sforzo di raccogliere le briciole, i deputati italiani hanno mostrato compattezza e generosità, in un tentativo di sistemare geograficamente con equilibrio e prudenza ogni centesimo disponibile e spendibile. Dieci pagine scritte fitte, gli assegni da firmare con la preghiera, signor ministro Tremonti, che la maggior parte dei soldi vadano alle case di Cristo.

L'opposizione non ha menato scandalo. Ha tentato, senza pienamente riuscirvi, di sostenere qualche amico. Poi si è arresa. Il fascicolo è ormai chiuso, quello che si poteva fare si è fatto. Amen.

 

8 febbraio

L’oro blu di Sigonella. Quanto ci costano gli USA
Angelo Mastrandea – Fonte: www.ilmanifesto.it - 31/01/2006

Visto su http://www.comedonchisciotte.org/site/index.php

L'Italia di Berlusconi e l'«amico» Bush. Così manteniamo le basi americane
Nella base siciliana, tra bollette «calmierate» e vantaggiosi buoni benzina che alimentano gli incidenti stradali. Come gli americani sperperano acqua ed energia elettrica e come gli italiani contribuiscono a finanziare gli sprechi

C'è fango, molto fango tra gli hangar, i depositi di munizioni e la cittadella made in Usa di Sigonella. Non è una metafora e questa volta non c'entra la mafia che pure di fango ne ha sparso e secondo qualcuno continua a spargerne fuori e dentro i dieci chilometri di filo spinato che circondano una base in continua via di ampliamento. Quello che le ruspe continuano incessantemente a spalare dalla metà di dicembre è il prodotto di quanto la natura ha voluto improvvisamente riprendersi quando i due fiumi che circondano l'area militare hanno deciso di riunirsi in un unico pantano melmoso. Quello che il deputato regionale Lillo Micciché, trapiantato ai Verdi da Rifondazione comunista, definisce sorridendo come il risultato dell'espropriazione delle terre ai contadini. «Se fossero stati coltivati, questi terreni avrebbero tranquillamente assorbito l'acqua piovana e quella esondata dai fiumi». Invece, è bastata un'alluvione a inceppare una delle strutture militari strategicamente più importanti del Mediterraneo, vuoi per il ruolo logistico svolto vuoi per un'altra funzione nel frattempo acquisita: il controllo aereo del Mediterraneo alla ricerca dei barconi di «clandestini».

Sorveglianza delle frontiere della «fortezza Europa» ma anche soccorso quando le imbarcazioni, spesso e volentieri, vanno alla deriva, ci tiene a far sapere il colonnello Antonio di Fiore, comandante italiano della base.

Chi paga le bollette?

L'acqua pare essere così l'elemento predominante in questo lembo di Sicilia, provincia degli States, che di solito fa notizia per siccità e penuria. E il metro e più di fanghiglia che hanno sommerso la base tra il 13 e il 14 dicembre appaiono come una nemesi per una base che spreca «oro blu» più di qualsiasi comune italiano: circa 700 mila galloni al giorno, e se un gallone sfiora i 4 litri vuol dire oltre 976 milioni e 530 mila litri all'anno, su una popolazione di circa 5 mila persone tra militari, loro familiari e operai civili. Fatto qualche altro calcolo, se ne desume che il consumo pro-capite è di circa 210 mila litri all'anno, «un valore nettamente più altro del consumo medio di una città italiana di grandi dimensioni (circa 180 mila litri per abitante, dove però solo il 35-40 per cento è realmente imputabile al consumo casalingo, mentre il resto è destinato a usi civili, industriali e agricoli)», scrivono in un dettagliato dossier gli attivisti del Comitato per la smilitarizzazione di Sigonella, protagonisti nel passato anche di affollate manifestazioni antimilitariste, in particolare alla vigilia della seconda guerra del Golfo, quando dalle basi italiane partivano armi e mezzi americani per l'Iraq. Cosa ne facciano i militari di tutta quest'acqua non è dato sapere, ma di sicuro costituisce un problema anche per le autorità Usa, che hanno avviato campagne di sensibilizzazione del personale e delle loro famiglie per ridurre quelli che loro stessi definiscono «sprechi e abusi». E che tradotti in cifre fanno 1.226.400 dollari all'anno, per il rifornimento e la potabilizzazione.

Ma chi paga tutti questi soldi? A porsi più di un dubbio è il deputato verde Mauro Bulgarelli, forte delle cifre provenienti direttamente dal Congresso Usa. Secondo le quali l'Italia pagherebbe il 37 per cento dei «costi di stazionamento» delle forze armate Usa nel nostro paese. In gergo tecnico si chiama burden sharing, «condivisione del peso», in soldoni fanno centinaia di milioni di dollari, sotto forma di contributi diretti, una minima parte, e di cosiddette facilities, «agevolazioni». Vale a dire sgravi fiscali, sconti e forniture gratuite per trasporti, tariffe e servizi per i soldati e le loro famiglie. Ad esempio, nel 2002 il contributo sarebbe ammontato a 326 milioni di dollari, tre dei quali in contanti, gli altri in facilities.

Il vantaggio di essere yankee

Dunque la questione rimane irrisolta. Perché non ci sono solo le salate bollette dell'acqua ma anche quelle della corrente elettrica, visto che la base divora ogni anno energia per oltre quattro milioni di dollari. Il comandante Di Fiore assicura che ognuno paga per quanto consuma, e solo per alcuni servizi ci sono spese congiunte. «Gli Stati uniti pagano un affitto, dal quale vanno sottratte alcune facilities come il carburante», spiega. E non solo. Ad esempio, la Regione Sicilia ha erogato 388.150 euro per la costruzione delle nuove linee di trasmissione elettrica tra la centrale Enel di Pantano D'Arci e la base. O ancora, dall'aprile 2003 è entrato in vigore un accordo tra Us Navy, Enel e Monte dei Paschi di Siena per assicurare ampi risparmi sulle tariffe e una riduzione dell'Iva sulle bollette elettriche ai correntisti dell'istituto toscano. Solo se americani, s'intende.

Non che agli americani manchino i soldi, se è vero che l'amministrazione Bush ha stanziato, da qui al 2007 per la sola base di Sigonella, ben 675 milioni di dollari per consentirne il potenziamento. Una cifra che ne fa il secondo più oneroso programma al mondo di investimenti in infrastrutture per l'esercito a stelle e strisce impegnato nella «guerra al terrorismo». E infatti, stando a quanto rivelato qualche tempo fa dal quotidiano spagnolo El pais, la base siciliana sarà elevata a «postazione avanzata» nella lotta all'islamismo radicale, insieme a quella navale di Cadice, in Spagna. Ma il punto è che i soldi Usa sono destinati all'ampliamento del sito e non al pagamento delle bollette, per le quali invece gli «alleati» devono ringraziare i contribuenti italiani, che consentono di far risparmiare ai taxpayers americani, secondo stime dei comandi Usa, ben 190 milioni di dollari all'anno.

Militari a tutto gas

Non bastasse, per scorrazzare liberamente sulle strade italiane i militari Usa pagano la benzina appena 40 centesimi al litro, per un totale di 400 litri di benzina al mese a testa. Meno della metà di un qualsiasi automobilista. Cosa che, stando al settimanale destinato agli americani di Sigonella The signature, alimenterebbe un fiorente traffico al nero di buoni benzina, da 5, 10 e 20 litri , da utilizzare in qualsiasi distributore Ip, Agip o Esso, e un discreto numero di incidenti stradali. Circa 800 all'anno, in media 2,17 al giorno, solo in parte giustificati dal pessimo stato delle strade che la provincia di Catania pensa bene di mantenere piene di buche. Un problema anche per i comandi militari, l'indisciplina dei marines. Sul quale l'esercito e le istituzioni italiane paiono pronte a sorvolare, in nome dell'assunto per cui «gli americani portano tanto lavoro e un indotto economico che al sud non c'è da nessun altra parte».
Difficile dargli torto, con 1.200 civili che quotidianamente lavorano nella base più l'indotto, il business dei rifiuti, il vicino porto nucleare di Augusta stretto tra due petrolchimici e i ricchi appalti per l'ampliamento. E si sa, in Sicilia quando si parla di soldi bisogna spesso fare i conti con la mafia, come dimostrano alcune inchieste su Sigonella che negli anni passati hanno visto coinvolti appartenenti alla cosca catanese di Nitto Santapaola. Ma questo è un altro capitolo.

ANGELO MASTRANDREA

 

 

Appello dell'associazione dei magistrati alle forze politiche

"Teneteci fuori dalla campagna elettorale"
I giudici: "Basta attacchi o resteranno solo macerie"

ROMA - Basta con "attacchi, insulti e offese" alla magistratura e a singoli magistrati. "Allarma e preoccupa" la scelta di una campagna elettorale costruita "delegittimando l'intera categoria". Il rischio è che "questa continua rissa, questo terremoto istituzionale provochi lo sfaldamento dello Stato" e lasci dietro di se "le macerie delle istituzioni, soprattutto di quelle di garanzia". E' accorato l'appello che l'Associazione nazionale magistrati lancia "a tutte le forze politiche e alle istituzioni". "Chiediamo con forza che la magistratura sia tirata fuori dalla campagna elettorale e che si parli invece dei programmi che riguardano la giustizia - dice il leader del sindacato delle toghe Cirio Riviezzo - che non prosegua l'attacco alla magistratura e ai singoli magistrati, dando al paese un'immagine distorta. Chiediamo che prevalga il senso di responsabilità".

Nel frattempo l'Anm ha convocato, sabato a Firenze, il parlamentino dell'associazione. In quella sede verrà formalizzata la posizione in un documento. Già si sa però che le toghe non rivolgeranno nessun appello al capo dello Stato perché intervenga in questa vicenda:"Non chiediamo nulla a nessuno, esterniamo la nostra posizione a tutte le istituzioni. Qualsiasi pressione, appello tradirebbe questa fiducia e finirebbe per sminuire eventuali sue parole" commenta il segretario Antonio Patrono.

Per Patrono sono "infondate" le "continue accuse di strumentalizzazione dell'azione giudiziaria. Ma il segretario dell'Anm respinge anche le accuse rivolte al sindacato delle toghe di "favorire una parte politica": "Anche queste sono accuse destituite di fondamento. Noi siamo stati contrari a tutte le ultime riforme non per ragioni di pregiudizio politico o ideologico, ma perchè quelle riforme hanno ricadute negative sull'efficienza della giustizia".

Sollecitati dai giornalisti i vertici dell'Anm parlano anche dell'ex procuratore di Milano Gerardo D'Ambrosio e delle candidature di magistrati alle prossime politiche: sono "scelte individuali", che non impegnano la magistratura (nessuna toga "rappresenta" la categoria) e su cui perciò "non abbiamo nulla da dire". Un discorso che vale tanto più per D' Ambrosio che "da tre anni non è più magistrato" e su cui è stato montato un "caso inventato".

 

7 febbraio

La Corte dei conti frusta il Cavaliere

I magistrati contabili denunciano lo scandalo del condono per i tangentisti inserito nell'ultima Finanziaria. Governo sotto accusa anche per gli sprechi delle consulenze, per «l'evaporazione dell'imponibile» e per i contratti pubblici senza copertura
GALAPAGOS

La Corte dei conti ha frustato il cavaliere: durante l'inaugurazione dell'anno giudiziario della magistratura contabile, il governo Berlusconi è stato accusato (dal procuratore generale Vincenzo Apicella e dal presidente Francesco Staderini) di aver commesso una serie di errori che in moti casi sono dei veri e propri «orrori giuridici». Su tutti il condono per i tangentisti inserito nell'ultima finanziaria. Altra accuse pesante: aver favorito la politica degli sprechi, in primo luogo quelli rappresentati dalle decine di migliaia di contratti di consulenza. Di più: il governo è sotto tiro per quella che i magistrati contabili hanno definito «evaporazione dell'imponibile», l'incapacità cioè di recuperare l'evasione fiscale accertata, e l'aver imbrogliato (anche i lavoratori) siglando una mezza dozzina di contratti per i quali non è prevista copertura finanziaria.

Partiamo dalle tangenti: la finanziaria 2006 ha previsto «un parziale condono» per i tangentisti. Come ha spiegato il procuratore generale Vincenzo Apicella: «nella sostanza e nel contenuto» tale intervento ha «le connotazioni di un parziale condono, realizzato attraverso una sorta di patteggiamento e questo mal si concilia con il rispetto dei principi di certezza del diritto, di parità di trattamento e di eguaglianza tra i cittadini». Il riferimento è alle norme della Finanziaria sulle sentenze di primo grado pronunciate nel giudizio delle sezioni contabili contro i tangentisti, secondo cui: «i soggetti nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di condanna possono chiedere alla competenze sezione di appello, in sede di impugnazione, che il procedimento venga definito mediante il pagamento di una somma non inferiore al 10% e non superiore al 20% del danno quantificato nelle sentenze. A sua volta, la sezione di appello delibererà in merito alla richiesta e in caso di accoglimento, determinerà la somma dovuta in misura non superiore al 30% del danno quantificato nella sentenza di primo grado».

Analoghe perplessità sono state espresse dal presidente della magistratura contabile, Francesco Staderini, il quale ha rilevato che «provvedimenti di questa natura, per di più legati a situazioni eccezionali e non ripetibili, finiscono con il creare aspettative sul loro ripetersi e ridurre ulteriormente l'effetto di deterrenza che rappresenta la primaria ragion d'essere dell'istituto della responsabilità amministrativa».

Altra pesante accusa della Corte dei conti riguarda l'intensificarsi della cosiddetta «evaporazione dell'imponibile», dovuta ai complicati meccanismi di riscossione delle imposte. Ribadendo l'allarme già lanciato lo scorso anno, Apicella ha sottolineato «la bassissima percentuale di maggiore imposta accertata e effettivamente acquisita all'erario a seguito delle fasi del contenzioso e della riscossione da un lato, e la scarsa sostenibilità in sede di contenzioso tributario delle contestazioni elevate a seguito degli accertamenti effettuati dagli uffici e dai corpi tributari dall'altro». Come dire: l'evasione vengono scovati, mai poi lo stato non è capace di incassare le imposte evase.

Altro accusa è quella che riguarda l'attività di un governo imbroglione nel siglare i contratti di lavoro dei pubblici dipendenti. Staderini ha spiegato che cinque contratti di lavoro nel settore della Sanita' non hanno avuto l'ok della Corte dei Conti perché mancavano di copertura. E ha aggiunto: la «certificazione positiva» della Corte è mancata in quanto esisteva «una non esaustiva indicazione dei criteri di quantificazione degli oneri contrattuali e l'incertezza della relativa copertura finanziaria». Un altro contratto, relativo alla dirigenza del comparto regioni e autonomie locali, non ha invece avuto il via libera a causa di problematiche connesse alla mancanza di adeguati vincoli e controlli alla contrattazione integrativa.

Infine, affrontando il capitolo degli sprechi, Apicella ha sottolineato come moltissimi incarichi e consulenze esterne, utilizzati soprattutto da enti pubblici locali, sono, come dimostrano le sentenze di condanna, «non di rado al di fuori delle ipotesi consentite dalla legge e, molto spesso, senza produrre alcun effetto utile, anche a causa del contenuto indeterminato degli incarichi e della loro estraneità ai fini dell'ente conferente».

Apicella ha espresso «perplessità» sull'esclusione dal tetto di spesa annua per consulenze e incarichi, previsto dalla Finanzaria 2006, per gli enti territoriali autonomi e del servizio sanitario nazionale dove, secondo Apicella, «maggiormente si verificano le illecità».

 

 

2 febbraio

Le politiche del 9 aprile
COSA CAMBIERA’ NELLA SICILIA DEL 61 a 0 ?

di Agostino Spataro

Quando, presentate le liste, leggeremo i nomi delle famose “testate” decise dai vertici ristretti dei partiti che scatteranno, su base proporzionale, nella misura dei voti di lista riportati.

Non ci sarà voto di preferenza. Perciò il cittadino-elettore non potrà scegliere fra i numerosi candidati. Chissà perché la preferenza è stata prevista per le quattro circoscrizioni estere, per l’elezione di 12 deputati e 6 senatori.

Sarà questa la prima consultazione elettorale repubblicana in cui non si potrà esercitare il diritto, contemplato nella vigente Costituzione, d’indicare, col voto, il proprio rappresentante alla Camera o al Senato.

La nuova legge, imposta con la “prepotenza dei numeri”da Berlusconi e soci, ha trasferito tale diritto dagli elettori ai gruppi dirigenti dei partiti: il Parlamento invece che eletto, nominativamente, dai cittadini sarà-di fatto- nominato dai capi partito.

E dire che la norma costituzionale considera i partiti alla stregua di associazioni di natura privata.

Con l’aggravante che molti partiti non sono un modello di vita democratica: si va dal partito-azienda a quello di tipo presidenziale che, da Roma o da Varese, decidono su ogni cosa, dai parlamentari ai  dirigenti territoriali.

In Sicilia la situazione peggiora poiché molti partiti importanti sono ampiamente permeati dall’influenza della criminalità mafiosa.

Il voto di preferenza avrebbe potuto arginare tale deriva, ma contro di esso si è verificata la quasi unanimità dei gruppi parlamentari, con un particolare accanimento da parte di quelli del centro- sinistra.

Ovviamente, non tutto sta filando per il giusto verso. Come vediamo, in questi giorni, in Sicilia e altrove. I vertici dei partiti sono alle prese con snervanti problemi di mediazione e di composizione d’interessi elettorali, personali e di corrente, con quote di genere e di tessere, difficilmente componibili in una ristretta testata di lista.

A ciò si aggiungono i complicati calcoli matematici per sfruttare al meglio le furbesche trovate contenute nella nuova legge. Roba da esperti di computazione.

Per l’aspirante deputato o senatore, il grande problema è riuscire ad entrare nella “testata”.

Più che al suo elettorato, deve raccomandarsi al notabile di riferimento, per entrare in quota. Una volta entratovi potrà dormire sonni tranquilli.

E così avremo ambi, terne, quaterne, cinquine di prescelti o unti del signore che capeggeranno le liste. Come nel gioco della tombola, con la differenza che in questo si vince senza aspettare l’uscita dei numeri.

Tuttavia, sarà difficile la quadratura del cerchio: solo pochi saranno accontentati mentre tantissimi resteranno scontenti e arrabbiati. Uno scenario a dir poco deprimente che renderà arduo il completamento delle liste (chi si candiderà sapendo di non avere speranza alcuna? ) e lo svolgimento della campagna elettorale che si annuncia durissima e costosa.

A gran parte di questo disagio si poteva ovviare ricorrendo alle primarie anche per la compilazione della testata di lista che quantomeno avrebbero dato una legittimazione democratica alle candidature e tolto dall’imbarazzo i gruppi dirigenti.

Nel centro sinistra l’idea è caduta nel silenzio, mentre nel centro destra qualcuno la propone, come chiedono diversi dirigenti palermitani di AN.

Ma questo passa il convento e su questo bisogna lavorare. Anche tenendo conto dell’ultima simulazione di calcolo effettuata dall’Ufficio studi della Camera dei Deputati sulla ripartizione dei 54 seggi attribuiti alle due circoscrizioni siciliane.**

Senza dimenticare che la Sicilia è la regione del 61 a 0, (come vedremo, irripetibile col sistema proporzionale) dove il centro-destra conserva un forte insediamento sociale ed un potere clientelare enorme.

Perciò non c’è nulla di scontato. I voti si dovranno conquistare sul campo, uno per uno, con buoni programmi e candidature di grande apertura sulla società e sul territorio.

I siciliani sono stanchi della CdL, tuttavia tale stanchezza non si tradurrà, automaticamente, in consenso per la coalizione di centro-sinistra.

La gente chiede un cambiamento radicale, all’insegna della discontinuità.

Gli elettori, molti dei quali ancora non sanno che non c’è il voto di preferenza, sceglieranno la lista che proporrà candidati che più s’identificano con questo bisogno di cambiamento.

Perciò, le liste siciliane potranno risultare decisive per la raccolta del malcontento e del dissenso e contribuire al risultato nazionale, visto che nell’Isola si concentra circa il 10% dell’elettorato.

Da qui il valore strategico del voto siciliano che tenteremo di delineare con l’ausilio della simulazione dell’Ufficio sudi della Camera, basata sul metodo proporzionale applicato ai risultati delle tre ultime elezioni: politiche del 2001, europee del 2004 e regionali del 2005.

Come illustrato nella seguente tabella, in Sicilia, cui si applicano, per estensione, i risultati delle prime due consultazioni, si prevede che, rispetto al 2001, l’Unione potrebbe attestarsi intorno ai 21 deputati (+ 16), mentre la CdL scenderebbe da 50 a 28 seggi (-22). La rimanente parte dei seggi verrebbe attribuita ad altre liste o coalizioni di liste oppure ai maggiori resti.

                                   Seggi 2001            Politiche 2001                Europee  2004       Regionali 2005

                              ---------------------       ---------------------         ---------------------    --------------------

                                Cdl          Unione       Cdl        Unione            CdL        Unione     Cdl       Unione

Sicilia 1                    25               2             - 9           + 8                 -10           + 9          -12         + 11

Sicilia 2                    25               3             - 8           + 8                 - 7            + 7          - 10         + 10

Ovviamente, la CdL recupererà molto buona parte della perdita (in Sicilia, Lombardia, Calabria) nelle cosiddette “regioni rosse” (Emilia, Toscana, Umbria). A questo fine, il centro destra ha imposto la nuova legge, a colpi di maggioranza e alla vigilia della consultazione.

In ogni caso, l’Unione dovrebbe riuscire vincente dal voto del 9 aprile conquistando 340 seggi, (63 in più della CdL), ovvero la maggioranza assoluta alla Camera.

Per quanto riguarda l’attribuzione alle due coalizioni dei seggi a quoziente intero, la simulazione prevede, sempre sulla base dei voti riportati nel 2001, che alla Cdl, con un quoziente nazionale di ripartizione di 56.587 voti, ne andrebbero 15 nella Circoscrizione “Sicilia 1” e  17 nella “Sicilia 2”, mentre all’Unione (quoziente 62.728) ne sono attribuiti 20, ossia10 per ogni circoscrizione.

Il dato è aleatorio poiché fa riferimento al 2001 e da allora il quadro elettorale è molto cambiato, anche in Sicilia.

Infatti, in base ai risultati delle regionali del 2005, la CdL prenderebbe 28 seggi (13 nella 1° e 15 nella 2° circoscrizione) e l’Unione 26 seggi (13 per ogni circoscrizione), con le seguenti attribuzioni per ciascuna lista:

                                Sicilia 1                                   Sicilia 2                         Totale

Forza Italia                  6                                              6                                    12

A.N.                            3                                              5                                      8

U.D.C.                        4                                              4                                       8

Ulivo                          9                                             10                                    19

Rif. Comunista          1                                                1                                      2

Fed. Verdi                  1                                                -                                      1

Udeur                         1                                                1                                      2

Italia Valori                1                                                1                                      2

  • Pubblicato, con altro titolo, in “La Repubblica/Pa” del 1° febbraio 2006.
  • ** In ordine all’elezione dei 26 senatori, da eleggere in Sicilia nel collegio unico regionale, altre fonti prevedono che 15 andranno alla CdL e 11 all’Unione.

 

 

L'ANALISI. Oltre a Previti e Berlusconi, della riforma Pecorella usufruiranno Mannino e Caltagirone e quattro imputati eccellenti ora sperano nella "grazia", ma spuntano dubbi sull'azzeramento dell'appello Sme per il premier. Il legale della parte civile Cir: il nostro ricorso tiene vivo il secondo grado

di LIANA MILELLA

<B>E quattro imputati eccellenti<br>ora sperano nella "grazia"</B>Il deputato di Forza Italia Cesare Previti

ROMA - Taglia e cuci. Ritaglia e ricuci. Aggiungi un aggettivo di qua, togline uno di là. Per una settimana, Gaetano Pecorella e Isabella Bertolini non hanno fatto altro. Forzisti tutti e due, e tutti e due avvocati, di Milano il primo, di Modena la seconda. Lui, presidente della commissione Giustizia della Camera e inventore della legge sull'appello, lei relatrice del provvedimento.

Alla loro porta hanno bussato in tanti. A cominciare dall'Udc: dopo una legislatura di norme ad personam per Previti e Berlusconi, votate alla fine come soldatini, nell'ultima legge i centristi hanno voluto infilarci qualcosa di utile anche a loro, a un ex pezzo grosso della Dc come Calogero Mannino, che fu ministro per il Mezzogiorno, poi stroncato dall'accusa di concorso in associazione mafiosa. Grande fu la vittoria per l'assoluzione in primo grado, cocente il dolore per la condanna in appello (cinque anni e quattro mesi), la gioia risorse con la Cassazione che azzerava l'appello e chiedeva un'altra pronuncia. Il nuovo processo doveva cominciare il 27 febbraio, ma l'Udc vuole sfruttare i voti di Mannino e candidarlo alle politiche.

Niente di meglio della Pecorella per sopprimere l'appello. La norma transitoria, che applica la legge ai processi in corso, cade a fagiolo. Lì c'è scritto che "l'appello in corso contro una sentenza di proscioglimento viene dichiarato inammissibile ed entro 45 giorni può essere proposto ricorso in Cassazione". L'aggiunta è perfetta per il centrista di Agrigento: la norma si applica anche "nel caso in cui sia annulllata su punti diversi dalla pena o dalla misura di sicurezza una sentenza di condanna di una corte di appello o di assise di appello che abbia riformato una sentenza di assoluzione". L'appello del processo Mannino "muore", si torna il primo grado, all'assoluzione.

Va ancora meglio per Francesco Gaetano Caltagirone, imprenditore romano ed editore di Messaggero e Mattino. Due processi, uno a Perugia per l'ipotetica corruzione dell'ex pm di Roma Vinci, uno a Roma per turbativa d'asta nella gara di affidamento delle licenze Umts. Nel consorzio Blu, Caltagirone era in buona compagnia (Giancarlo Elia Valori, Vito Gamberale, Luigi Abete, Gilberto Benetton tra gli altri 21 indagati). Due processi vinti. Assoluzione in tribunale a Perugia "perché il fatto non sussiste" (febbraio 2005); assolti dal giudice monocratico a Roma cinque mesi dopo. Ma in entrambi i casi la procura generale in Umbria, i pm Sabelli e Vitello a piazzale Clodio, hanno presentato appello. Entrambi i processi saranno spazzati via dalla Pecorella.

Di Previti ormai s'è detto. In Cassazione, il 19 aprile per l'Imi-Sir, potrà ripresentare il suo cahier des doléances per le "prove regine" che la pubblica accusa avrebbe ignorato e che in appello non sono state riconsiderate, riaprendo il dibattimento come lui avrebbe voluto. Oggi con la Pecorella è possibile perché la legge obbliga la Cassazione a verificare "la mancata assunzione di una prova decisiva e la contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione".

Per il processo Sme di Berlusconi, invece, potrebbero esserci dei garbugli interpretativi. Conseguenza di aver previsto l'appello per la parte civile che vuole ottenere il risarcimento del danno. Che succederà a Milano? L'appello di Berlusconi (la prima udienza è prevista subito dopo le elezioni) dovrebbe automaticamente convertirsi in un ricorso in Cassazione. Ma la parte civile, la Cir di De Benedetti rappresentata dall'avvocato Giuliano Pisapia, ha già presentato appello.

Pecorella, nella veste di avvocato del Cavaliere, non ha dubbi: si applica la norma transitoria della sua legge, l'appello si cancella, il processo va subito in Cassazione. Pisapia è d'avviso contrario: il processo resta nella fase d'appello per soddisfare la legittima richiesta della parte civile. In questo caso la legge Pecorella, descritta come l'ultima legge ad personam per salvare il premier, fallirebbe il suo obiettivo. Dice Pecorella: "Sarebbe la dimostrazione che sulla Sme siamo completamente tranquilli, saremo assolti". Il processo potrebbe anche essere diviso in due: resta in appello il troncone della corruzione per ottenere una sentenza favorevole al caso Sme, va in Cassazione l'altra metà, la corruzione dell'ex capo dei gip Squillante. Tutto dipende da come si interpreta la parola "connessione" utilizzata nel testo.

 

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