Archivio Febbraio 2006
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28 febbraio
Elezioni: regia di Groucho Marx
Lo sport preferito nelle due
coalizioni sembra quello di parlar male del proprio gruppo e di
esaltarne le divisioni interne
Leggo su uno dei più importanti e seri quotidiani italiani un titolo
su molte colonne: 'Scontro Berlusconi-Prodi'. O basta là, come si
dice dalle mie parti. Visto che siamo in periodo elettorale e che i
due competitori sono appunto Berlusconi e Prodi, che cosa vi sareste
attesi, che andassero insieme di nascosto a passare i week-end in un
motel per coppiette? Che notizia sarebbe stata, nel corso delle
ultime elezioni americane, parlare di uno scontro Kerry-Bush? Eppure
anche questo accade, in una corsa dei mass media a trovare ogni
giorno spunti drammatici, come se non bastassero le altre pagine
dove si parla di assalti alle ambasciate, dell'aviaria, o del gas
latitante.
Queste sono indubbiamente elezioni all'insegna della follia, e
sembrano svolgersi con la regia di Groucho Marx (che aveva detto
"non diventerei mai membro di un club disposto ad ammettere uno come
me"). Quello che ho imparato da ragazzo, uscito dal fascismo e
iniziato ai misteri della democrazia, è che in periodo elettorale
due o più gruppi sono in mutua concorrenza, e gli appartenenti al
gruppo A, per tutto il corso della tornata elettorale, debbono
parlare bene del gruppo A esaltandone le capacità di governo e
parlar male del gruppo B. Ora invece pare che ciò che preoccupa
maggiormente gli appartenenti a ciascun schieramento sia parlare
male del proprio gruppo ed esaltarne le divisioni interne. Questo
non è vero soltanto dell'Unione, che ne ha fatto uno sport ormai
consolidato, ma anche della cosiddetta Casa delle Libertà, dove si è
solo liberi di sbranarsi a colpi di tridente.
L'epitome, ovvero la sintesi esemplare di questa tendenza, la si è
avuta quando è apparso a 'Matrix' Marco Ferrando. Questo signore ha
alcune opinioni che sarebbe arduo condividere e altre che, nel corso
di una conversazione pacata, non apparirebbero necessariamente
deliranti. Per difendere queste opinioni Ferrando ha fatto il
possibile per riequilibrarne la portata ed escludere le
interpretazioni eccessivamente malevole, ma in compenso ha dedicato
la maggior parte del suo tempo a dimostrare che il programma Prodi è
praticamente equivalente a quello di Berlusconi, se non peggio, e la
sua spietata critica ha presumibilmente fruttato al Polo una
cospicua manciata di voti (o all'Unione una manciata di astensioni).
Certo si deve apprezzare l'intemerato coraggio di chi vuole dire a
tutti i costi quello che ritiene essere la verità, ma chi fa questa
scelta rinuncia a far politica, o almeno non tenta di farsi eleggere
parlamentare nello schieramento che disprezza, e sceglie uno
sdegnoso esilio di oppositore in pianta stabile. La politica è
l'arte del compromesso e, una volta scelta una parte, bisogna fare
del proprio meglio per non metterla pubblicamente alla berlina.
Almeno, non in periodo elettorale. Se si vuole partecipare alla
lizza, si rimanda il dibattito interno a dopo.
Gli spettatori (come suggeriva continuamente Mentana tentando di
arrestare, dopo averla scatenata, quell'enfasi suicida) avranno
avuto l'impressione che Ferrando sia sul libro paga di Berlusconi.
Impressione certamente errata, perché l'ipotesi più ragionevole (e
più tragica) è che faccia quello che fa assolutamente gratis.
Le follie elettorali non finiscono qui. Si veda la guerra dei
sondaggi. In principio chi fa fare un sondaggio dovrebbe tenerlo
segreto, visto che ha il vantaggio di conoscere qualcosa che
l'avversario ignora. Ma ormai il sondaggio ha assunto la funzione di
profezia che si autodetermina: esso deve elettrizzare gli indecisi,
partendo dal principio che essi siano una manica di sottosviluppati
il cui unico ideale è stare col vincitore - o con chi si proclama
tale in anticipo.
Visto che questa è l'immagine che Berlusconi ha dei suoi elettori, e
non solo di quelli indecisi, è ovvio che non si preoccupi se i suoi
sondaggi siano o meno attendibili. Potrebbe affidarli anche a Vanna
Marchi - e forse lo farà. Ma perché impostare tutta la campagna
contraria per dimostrare che i sondaggi della sinistra sono
migliori? I veri indecisi che potrebbero votare per l'Unione non
sono portati ad amare il vincitore (anzi, molti di loro adorano
stare all'opposizione). Essi sono dei delusi del centro-sinistra,
che sono però ancora dominati dal terrore che vinca di nuovo
Berlusconi. Pertanto potrebbero essere trascinati al voto proprio
lasciando capire che (con la loro astensione) Berlusconi ha ancora
possibilità di vittoria.
Perdendosi nella guerra dei sondaggi l'Unione rischia di lasciare
cadere nel vuoto innumerevoli menzogne dell'avversario. Il Polo sta
facendo circolare manifesti che dicono 'Leva obbligatoria? No
grazie' e mi pare che, chi dell'Unione appare in televisione,
dovrebbe a ogni istante ricordare a gran voce che la leva
obbligatoria è stata abolita proprio dal governo di centro-sinistra
- e che pertanto Berlusconi sta manifestando ancora una volta la sua
impavida fiducia nella sprovvedutezza e nella memoria corta degli
elettori.
25 febbraio
Strage di tessili in
Bangladesh
Muoiono almeno 65 lavoratrici
nell'incendio di una fabbrica. Non possono fuggire, le porte sono
bloccate. Molte fanno una terribile fine gettandosi dall'alto. Si
ripete la storia dell'8 marzo
MAURIZIO GALVANI
L'ultimo bilancio parla di 65 morti e 88 feriti,
ma il macabro conto può essere destinato a salire visto che sotto le
macerie della fabbrica tessile della di Chittagong, nella zona
centrale di Bangladesh, sono rimaste intrappolate la maggior parte
delle operaie e degli operai (sembra circa 500 dipendenti) che
stavano lavorando, in quel momento, nell'impresa di proprietà della
K.T.S Textile Mills. Le prime ipotesi attribuiscono allo scoppio di
un radiatore la causa dell'incendio e della sua diffusione. La prima
vera e sconcertante certezza pare essere che le lavoratrici e i
lavoratori non siano potuti fuggire dalla porta o porte principali
perché le stesse erano state bloccate dal proprietario. La morte,
secondo le prime testimonianze, è stata terribile anche perché - per
sfuggire alle fiamme - c'è chi si è buttato dalle finestre, dai
piani più alti. Inoltre, i primi soccorritori e i medici del locale
ospedale hanno riferito che molte persone, tra gli 88 feriti,
versano in gravissime condizioni di salute e non si sa se ce la
faranno a sopravvivere.
Nello stato del Bangladesh incidenti di questa natura non sono
inconsueti. Si potrà aprire, anche in questo caso, la normale e
consueta indagine ma è difficile pensare ed auspicare che le
condizioni di lavoro muteranno, considerato che il settore tessile
rappresenta l'85% delle entrate di questo piccolo paese a
maggioranza mussulmana. Le ultime stime (risalgono all'anno 2004)
quantificano in 6 miliardi dollari il guadagno dall'export tessile;
settore che, per lo più, si basa su salari bassi e sullo scarso
potere contrattuale dei lavoratori. La situazione delle morti
«violente» è diventata già da tempo endemica e, solo nel tessile, si
contano - almeno dal 1999 - più di 350 decessi sul lavoro e ben 2500
persone rimaste gravemente infortunate per le stesse cause o per la
mancanza di protezione.
E' tanto affermata l'«abitudine» a questi disastri che, anche ieri e
giovedì, la stampa locale ha fornito all'inizio le cifre più
bizzarre rispetto alla quantità delle morti (si è parlato che
fossero appena dieci) e solo quando la rete televisiva locale Atnv
ha dato notizie più precise si è dato conto della tragedia.
Soprattutto del fatto che la K.T.S. Textile Mills è una impresa che
occupa ben 1500 dipendenti e è non tra le più piccole, tra le circa
1500 imprese del settore. Oltretutto che la situazione lavorativa in
tutta la regione di Chittagoing è molto simile a quella di questa
fabbrica. E' tra l'altro risaputo che in quella zona come nella
fabbrica non operasse nessuna organizzazione sindacale; a fronte di
una situazione occupazionale che è notevolmente peggiorata dopo il
vertice di Doha del Wto (World trade organization) e
l'ingresso cinese nell'organizzazione. Con l'entrata della Cina, è
stata decretata la fine dell'accordo sulle Multifibre (1970) che
«garantiva» i paesi più poveri, sulla base del fatto che il basso
costo del lavoro serviva come strumento di protezionismo verso i
paesi industrializzati.
L'incendio di Chittagong è avvenuto a pochi giorni dalla ricorrenza
dell'otto marzo. Cambia lo scenario, ma rimangono le cause che
provocano terribili incidenti per i quali sarebbe possibile almeno
perseguire i colpevoli. Nel 1908, a New York, le dipendenti
dell'industria tessile Cotton iniziarono a protestare contro le
condizioni in cui erano costrette a lavorare. Lo sciopero proseguì
per diversi giorni finché l'8 marzo, il proprietario Johnson bloccò
tutte le vie di uscita. Allo stabilimento venne appiccato il fuoco
(si parlò anche allora di incendio accidentale) e le 125 operaie
prigioniere all'interno non ebbero scampo.
24 febbraio
FUORILUOGO
Tutte le bugie sulla legge Fini-Giovanardi
GRAZIA ZUFFA
Ora che il decreto Giovanardi-Fini sulle droghe
è diventato legge, forzando procedure consolidate e in spregio ad
una normale dialettica democratica (nel Parlamento e nel paese, si
diceva una volta), il compito del movimento di opinione, che per
quattro anni si è battuto contro la sciagurata svolta, è di impedire
che al danno si aggiunga la beffa. Ossia che la nuova legge sia
utilizzata dal centro destra in campagna elettorale per manovre di
propaganda, suonando il trombone assordante della retorica per
tacitare la realtà dei fatti. Perciò, il prossimo numero di
Fuoriluogo - in edicola col manifesto venerdì 24 febbraio
- dedica uno speciale a contrastare la disinformazione, che circola
sui media per bocca dei nostri ineffabili governanti, presentando
invece un'accurata analisi e commento del testo, a cura del
magistrato Franco Maisto (con una scheda riassuntiva delle norme
principali). Tra le mistificazioni più grossolane: la legge è sì
severa in via di principio, ma in pratica favorisce il recupero del
«drogato»; minaccia col bastone delle pene, ma ha pronta la carota
del perdono in comunità, in caso di pentimento; vuol dare il
«segnale» (morale) che «la droga è droga», senza attributi di
leggerezza che tengano, ma i consumatori non finiranno certo in
galera. E su questo ultimo punto fanno fede le dichiarazioni
televisive del premier: se qualcuno fosse trovato in possesso di 200
spinelli, ha detto, può sempre dimostrare che sta andando in
un'altra parte del mondo e ne consumerà uno al giorno. Insomma, un
biglietto aereo per i paradisi tropicali come salvacondotto dal
carcere: parola di Berlusconi, tra novello azzeccagarbugli e
consumato barzellettiere dal greve humour alla Maria
Antonietta.
In realtà, il cardine della legge è proprio la penalizzazione del
consumo personale, attraverso l'individuazione di una soglia
quantitativa fissa, sostanza per sostanza (ma non solo). La soglia
quantitativa funziona come «soglia di penalità», spiega Maisto. Come
conseguenza, chi detiene una quantità superiore di droga, è
considerato presunto spacciatore e punito come tale. Con pene
durissime, specie per la canapa (da un minimo di 6 a un massimo di
20 anni di carcere).
Rimandando alla lettura dello speciale per altri importanti risvolti
della legge, sul punto cruciale della presunzione di reato
anticipiamo qualche riflessione. Si tratta, chiaramente, di una
norma illiberale, che introduce l'inversione dell'onere della prova:
niente male per una destra sempre pronta a fregiarsi di garantismo.
E lo stesso disprezzo delle garanzie si riscontra nelle sanzioni
amministrative, fortemente limitative della libertà personale
(assimilabili a misure cautelari, sottolinea Maisto), previste, come
misure di polizia, per «chi è stato condannato, anche non in via
definitiva» , per reati contro la persona, il patrimonio o in
violazione della legge antidroga. In breve: nel mirino è una figura
sociale precisa, quella del «tossico» di strada, cui è riservato un
«diritto speciale» con drastica riduzione di diritti fondamentali
(esattamente come per gli immigrati con la Bossi-Fini). La svolta
punitiva sulle droghe porta perciò al cuore della funzione del
diritto penale e del carcere, nella cultura politica odierna. E' il
tema dell'evento della Triennale di Milano (Carcere invisibile e
corpi segregati), cui Fuoriluogo di febbraio dedica due
pagine, con scritti di Aldo Bonomi, Massimo Cacciari, Sergio Segio.
«La detenzione punisce un tipo sociale, non una fattispecie
criminale - dice Vincenzo Ruggiero, nella tavola rotonda coordinata
da Riccardo Bonacina, a proposito della popolazione di marginali
(migranti e tossici) che affolla il carcere - sequestra chi deve
rimanere invisibile, mira a ridurre le aspettative di chi vi è
sottoposto. Il carcere ha il compito di abilitarlo all'umiliazione,
convincendolo del suo scarso valore umano».
23 febbraio
Avanti piano:
in Europa l'Italia è ultima
Il vecchio
continente fatica a riprendersi, e l'Italia è bloccata. La Ue ha
ritoccato al ribasso le previsioni per il 2006: il pil salirà appena
dell'1,3%. E nel 2005 il prodotto lordo è rimasto fermo
ERNESTO GEPPI
Se la
Commissione Ue non ha fatto male i suoi conti il 2006 sarà meno
peggio del 2005, almeno sotto il profilo della crescita economica.
Secondo Bruxelles il prodotto interno lordo crescerà quest'anno del
2,1% nella media dei paesi dell'unione e dell'1,9% nell'area
dell'euro. Ma anche nel 2006 l'Italia sarò il fanalino di coda: il
pil aumenterà appena dell'1,3%, peggio di quanto previsto (1,5%)
solo pochi mesi fa. I conti relativi al 2005 nel frattempo non sono
ancora definitivi ma si sa che non sono stati affatto brillanti:
secondo le stime flash diffuse da Eurostat la scorsa settimana, la
crescita nell'anno appena passato si è attestata attorno all'1,3%
nell'area euro e all'1,6% nell'intera unione, in netta flessione
rispetto al 2004 (rispettivamente +2,1% e +2.4%). A titolo di
paragone, negli Stati uniti il pil è aumentato del 3,5% nel 2005 e
del 4,2% nel 2004. Si tratta di previsioni, e di buoni auspici, che
sono sostanzialmente in linea con quelle già elaborate dalla
Commissione lo scorso novembre: è stata ritoccata verso l'alto di un
punto decimale la sola crescita del pil dell'Ue a 25. Sono invece
state riviste in maniera significativa rispetto a novembre le
previsioni di crescita dei singoli paesi. Per Germania e Francia,
che hanno chiuso in maniera deludente il 2005, si prevede una
accelerazione della crescita fra l'1,5 e il 2%. Per la Spagna, che
ora viaggia stabilmente attorno al +3,5%, si prevede invece un
leggero rallentamento.
L'Italia merita un discorso a parte: in attesa
delle stime del 2005, che l'Istat diffonderà il primo marzo, la
Commissione anticipa che nello scorso anno non si è avuta nessuna
crescita (+0,1%). Nell'ultimo trimestre dell'anno l'Italia era di
fatto l'unico paese Ue con una crescita inferiore all'1%. Per il
2006 la previsione formulata a novembre indicava una crescita
dell'1,5%, superiore di tre decimali a quella tedesca. A distanza di
tre mesi lo scenario si inverte: ci si aspetta adesso un +1,3%. Si
tratta di un dato decisamente inferiore alla media dell'area euro,
ma occorre tenere presente che è dalla metà del 2001 che il pil
italiano arranca sotto questa soglia.
Secondo la Commissione, quella italiana sarà
una ripresa modesta, resa possibile dal miglioramento dei conti
delle imprese, ma ancora molto debole: sui mercati esteri, ad
esempio, ci si aspetta un incremento delle esportazioni non al passo
con l'evoluzione e la crescita dei nostri mercati di sbocco. Prodi
intanto incassa, prende appunti, e da Napoli rivendica all'Unione
l'aver messo la crescita al centro dell'attenzione: «se continuiamo
a essere gli ultimi non potremo mai aggiustare il bilancio dello
stato né fare progressi, nemmeno nell'occupazione maschile e
femminile».
Quali saranno i motori della futura crescita
europea? Secondo gli esperti comunitari sarà la domanda interna a
spingere l'economia, e in particolare sia gli investimenti sia i
consumi. Per quanto riguarda i primi, a incoraggiare il loro ruolo
propulsivo sarebbe la loro evoluzione nell'ultima parte del 2005, il
miglioramento del clima delle aspettative di domanda e dei bilanci
delle imprese.
Meno chiari appaiono le motivazioni a sostegno
della prossima espansione dei consumi, ricondotte a non meglio
specificati miglioramenti nel clima di fiducia e nelle condizioni
del mercato del lavoro. Le aspettative di crescita delle
esportazioni sono altrettanto rosee, e altrettanto poco motivate,
mitigate in parte dal possibile effetto negativo sul pil del
previsto incremento delle importazioni indotto dalla futura
crescita.
Mentre spargono come possono ottimismo, gli
economisti di Bruxelles mettono anche le mani vanti. Le incognite
sono le solite: i prezzi del petrolio, gli squilibri commerciali, la
stabilità dei prezzi.
RC
AUTO
Troppe
compagnie fantasma
Negli
ultimi mesi si sono moltiplicate le
segnalazioni dell'Isvap contro
compagnie assicurative «fantasma»,
che operano cioè sul mercato senza
autorizzazione. Dalle 3 compagnie
individuate nel 2004 si è passati
alle 7 identificate nei 9 mesi da
marzo 2005 a gennaio 2006. Un
fenomeno che rispecchia in parte la
tendenza a sfuggire dalle polizze. È
infatti difficile stabilire se
l'acquisto di una polizza falsa sia
consapevole o meno, ma è probabile
che l'elevato livello delle tariffe
crei un terreno favorevole al
fenomeno. Le compagnie abusive
presentano spesso dei nomi
fantasiosi o che si rifanno a
società effettivamente esistenti:
tipici i casi della Onmipol, che si
rifà evidentemente alla Unipol, o,
della Royal Belgique, nome del tutto
inventato. |
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Si può dire no
MARIUCCIA CIOTTA
La riduzione del
danno questa volta non ha funzionato. La «dottrina McNamara» -
adoperarsi per rendere più accettabile un crimine di stato - è
fallita di fronte a due anestesisti californiani che si sono
rifiutati di assistere all'esecuzione di Michael Angelo Morales, 46
anni, prevista per ieri mattina alle 9, ora italiana. La richiesta è
«inaccettabile da un punto di vista deontologico», così gli
anestesisti si sono opposti: il loro compito è alleviare le
sofferenze umane derivate dalla malattia, non quelle causate dal
cocktail letale che il boia avrebbe iniettato a Morales. I medici
erano stati chiamati su richiesta dei legali del condannato per
certificare che il detenuto fosse privo di coscienza prima
dell'iniezione mortale. Il «cocktail», messo sotto accusa più volte,
provocherebbe atroci dolori alla vittima tanto che la Corte Suprema
ha ipotizzato la violazione dell'ottavo emendamento della
Costituzione, che proibisce pene «crudeli e inusuali». Da qui la
richiesta delle due sentinelle della morte. Ma, a sorpresa (il
Los Angeles Times
di ieri dava già per morto Morales), gli anestesisti hanno detto
«no». Subbuglio e disorientamento nel braccio della morte di San
Quentin, dove dal 1981 il reo confesso dello stupro e omicidio di
una ragazza di 17 anni aspetta il boia. Il «no» dei due medici non
era previsto. La disubbidienza a un ordine (ingiusto) per motivi
etici ha fatto saltare la catena di montaggio del consenso, e
svelato le responsabilità individuali, democrazia e legge non sempre
vanno d'accordo. Così l'insubordinazione dei due anestesisti ha
provocato un veloce cambiamento di programma. Morales, mentre state
leggendo, probabilmente è morto, ucciso sotto sedativo chimico. Gli
ingegnosi carcerieri infatti hanno sostituito il fattore umano -
propenso a debolezze morali - con i barbiturici, che notoriamente
non si ribellano. E quindi l'esecuzione di Morales è stata rinviata
di poche ore e fissata alle 19.30 (le 4.30 di questa mattina in
Italia), in tutta fretta perché a mezzanotte, come succede a
Cenerentola, scade l'incantesimo ovvero la «death warrant»,
l'ordinanza di messa a morte. Dopo, lo stesso giudice che emise la
sentenza nel 1983 avrebbe potuto cambiare idea, proprio come i due
anestesisti, e commutare la pena capitale in ergastolo. Non è
un'ipotesi. Il giudice McGrath ha dichiarato di non esser più
convinto della condanna, emessa in base a una dubbia testimonianza.
E quando un magistrato si pronuncia per la commutazione della pena
capitale in ergastolo, in genere, il governatore lo ascolta.
Non va così nell'America forte, quella che in
questi giorni piace tanto ai detrattori dell'Europa femminea,
incapace di rispondere con la violenza alla violenza. Non va così
nell'America di Arnold Schwarzenegger, sordo anche lui alla musica
sinfonica della pietà e della giustizia, quella che ha indotto alla
diserzione due anestesisti qualsiasi. Terminator, che per la quinta
volta ha negato la grazia a un condannato a morte, ascolta solo il
rullo dei tamburi e deve essere per questo che un Festival di
Sanremo sotto il segno di An l'ha invitato sul palco canoro.
Visita Ue in cpt francesi: «Una vergogna da
chiudere»
A.M.M.
PARIGI
Ha fatto tappa
nei cpt francesi la commissione Libertà civili, Giustizia e Affari
interni del Parlamento europeo. Cinque deputati, tra cui l'italiano
Giusto Catania (gruppo Gue) hanno visitato due centri, quello del
Mesnil-Amelot, vicino a Roissy, e il famigerato «deposito» negli
scantinati del palazzo di giustizia di Parigi, all'Ile de la Cité,
in funzione dall'82 e che ora il ministro degli interni, Nicolas
Sarkozy, ha promesso di chiudere, dopo le denunce del commissario ai
diritti umani del Consiglio d'Europa, Alvaro Gil Robles, sulle
«condizioni inumane e degradanti» in cui sono costretti a vivere gli
immigrati rinchiusi. Il pellegrinaggio degli eurodeputati in questi
luoghi al limite del diritto mira a cambiare un po' le cose
nell'Unione, almeno per evitare vergogne tipo Lampedusa o la Cité,
anche se il potere di Strasburgo è limitato: le politiche di
immigrazione restano nazionali e a livello comunitario è ora in
preparazione una direttiva (che sarà presentata all'europarlamento
in primavera) che preoccupa i difensori dei diritti dell'uomo,
perché introduce la nozione di «espulsione dal territorio europeo»
corredata dalla «proibizione alla riammissione», anche con documenti
regolari. Con la nuova direttiva, quella che ora viene ancora
pudicamente chiamata «ritenzione amministrativa» si trasformerà in
una vera e propria «detenzione», anche se le persone rinchiuse nei
cpt non sono delinquenti. La durata della «ritenzione» dovrebbe così
passare dai 32 giorni attuali (in Francia) a sei mesi. Un vero e
proprio carcere preventivo.
La delegazione dell'europarlamento ha visitato
Lampedusa, i centri di Ceuta e Melilla, ora la Francia, poi andrà a
Malta, nelle Canarie e forse in Irlanda e in Polonia. «Dappertutto
abbiamo riscontrato eguali problematiche», spiega Giusto Catania,
che rifiuta di fare «classifiche» di questi luoghi di non diritto,
anche se sottolinea che il «deposito» della Cité è «indegno di un
paese civile». Ma il problema è l'esistenza stessa di questi cpt
sparsi in Europa e ora anche appaltati ai paesi di transito (200
milioni di euro, pare, già stanziati dalla Commissione, di cui 40 al
solo Marocco, per aprire e mantenere questi centri decentrati).
«Sono luoghi di violenza, dove i diritti minimi delle persone non
vengono rispettati». Lunedì al Mesnil-Amelot, che è meno peggio di
altri, c'erano molti rumeni, lì concentrati perché, spiega un
funzionario del ministero degli interni, «c'è un volo di gruppo per
la Romania dopo-domani», organizzato da Francia e Spagna (i paesi
del G5 hanno messo a punto questa nuova forma di cooperazione per
risparmiare).
LONDRA
Fermati attori
film su Gitmo
Due
protagonisti e quattro attori del
film britannico «The
Road to Guantanamo»,
premiato a Berlino, sono stati
fermati e maltrattati dalla polizia
per un'ora all'aeroporto di Luton
mentre rientravano a Londra dal
festival del cinema nella capitale
tedesca. L'episodio è accaduto
giovedì scorso, ma se ne è avuta
notizia soltanto ieri. Il film,
diretto dal regista Michael
Winterbottom, racconta la storia
vera di tre musulmani britannici che
erano andati in Pakistan per
partecipare ad un matrimonio e che
si sono ritrovati a Guantanamo,
sospettati di essere terroristi.
Furono rilasciati nel 2004 e non
sono mai stati incriminati per alcun
reato. Due dei tre, che sullo
schermo interpretano se stessi,
Shafiq Rasul e Ruhel Hamed erano
andati a Berlino alla prima del
film. Rizan Ahmed, uno degli attori
fermati, racconta di essere stato
maltrattato ed insultato dagli
agenti. «La legge antiterrorismo ci
dà il potere di fermare e
controllare qualsiasi persona
sospetta», ha detto il portavoce
della polizia.
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22 febbraio
Intervista a Andrea
Cammelli, direttore di Almalaurea: "Niente
assistenza, verifica di qualità. Ma fermiamo un
meccanismo che penalizza il Paese"
"Ora bisogna aiutare le aziende disposte ad
assumere laureati"
di FEDERICO PACE
ROMA - "Il nuovo
governo, chiunque sarà a vincere le prossime
elezioni, dovrà fare qualcosa per loro. Io sono
convinto che sia opportuno introdurre
agevolazioni automatiche per le imprese che
assumono laureati. Questo non vuol dire che
chiedo una quota "laureati". Una proposta del
genere deve sempre prevedere il merito. Si deve
permettere di verificare e valutare le qualità
di chi entra in azienda. Ben vengano quindi
anche i giovani stranieri." Andrea Cammelli,
direttore di Almalaurea, vede questa strada
perchè l'Italia torni ad utilizzare appieno i
migliori talenti.
La preoccupa il peso crescente della quota di
atipici tra i laureati che lavorano?
"Certo. Il precariato sta aumentando. Però va
detto che il fenomeno si cala all'interno di un
gruppo, quello degli universitari, che ha valori
di stabilità più elevati degli altri segmenti
della popolazione che lavora. A tre anni dalla
laurea quasi il 60 per cento è stabile e a
cinque anni lo diventa il 72,6% dei laureati
pre-riforma. E' vero che tutte queste cifre sono
diminuite rispetto all'anno passato, ma questa è
una contrazione che segnala uno stato di
sofferenza che sta aggredendo un corpo ancora
robusto".
Quest'anno la vostra indagine restituisce tutta
la complessità del mondo universitario. Il fatto
che molti dei giovani della "laurea breve"
continuano a studiare è un elemento negativo o
positivo? "Sono tanti ma meno di quanto
pensassimo prima. La quota di chi si iscrive di
nuovo alla laurea specialistica è una quota che
potrebbe essere naturale ma c'è un segnale che
andrebbe seguito con molta attenzione: nove
laureati su dieci di coloro che riescono a
finire i tre anni regolarmente passano alla
laurea specialistica. Questo è l'elemento più
significativamente anticipatore di quello che
potrebbe essere il futuro. Inoltre proprio i
laureati di quelle facoltà con i più elevati
tassi di prosecuzione sono anche quelli meno
soddisfatti della riforma. Siamo a metà del
guado e dunque dobbiamo stare molto attenti a
tirare delle conseguenze: è molto difficile
leggere i dati. Questa complessità mi fa
chiedere a docenti e politici di analizzare a
fondo lo scenario".
Intanto la disparità tra uomini e donne non
sembra ridursi.
"Dato preoccupante: è il segnale che il Paese è
a un punto di svolta che non riesce a compiere.
L'economia di una nazione mostra di recuperare
proprio quando si riducono queste differenze di
genere e territoriali. Da noi i segnali sono
ancora timidissimi e contradditori".
In questo contesto si può allora capire la
fuga dei cervelli?
"La fuga dei cervelli mi va pure bene, se
l'Italia esporta un bravo laureato so che questo
torna e porta con sé la sua rete di conoscenze e
un'esperienza importante. Il dramma è che il
laureato bravo in Italia è sottoutilizzato e
atrofizzato nelle sue capacità".
Questo accade sia nel privato che nel pubblico?
"Forse più nel pubblico. Pensi che a cinque anni
dalla laurea hanno conquistato la stabilità nel
settore privato 73 laureati su 100, mentre nel
settore pubblico, dopo cinque anni, diventano
stabili solo 31 giovani su 100. Questo è un
serpente che si morde la coda, se è vero che il
settore pubblico deve mantenere le redini di
scelte cruciali, non possiamo lasciare che quel
medesimo settore selezioni risorse per tenerle
in condizioni di precarietà".
«Guardate come hanno ridotto mio
figlio: che c’entra la droga?»
di Checchino Antonini
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Sto da schifo... mi è
costato tantissimo mettere quella foto
sul blog... guardarla mi provoca un
dolore incredibile. Ma è nulla in
confronto al dolore che deve aver
provato Federico nei suoi ultimi momenti
di vita. Quella foto parla da sola». Non
dev’essere facile parlare per Patrizia
Moretti nel giorno in cui la perizia che
spiega la morte di suo figlio è
finalmente stata depositata in procura.
Ma quelle carte, una trentina di pagine
attesa da cinque mesi, sono state
rifiutate ai legali di parte civile
dalla pm che s’è praticamente blindata
in procura dopo aver messo alla porta
anche la stampa. Fabio Anselmo e
Riccardo Venturi, avvocati della
famiglia Aldrovandi, dovranno attendere
l’avviso di avvenuto deposito per poter
fare una copia della relazione dei
periti.
Così, a Ferrara, inizia lo stillicidio
di anticipazioni che dovrebbe terminare
oggi quando Mariaemanuela Guerra, la
magistrata che segue il caso, renderà
pubbliche le sue conclusioni. Il bivio è
tra la richiesta di archiviazione o
l’emissione di alcuni avvisi di
garanzia. Che la procura parli proprio
oggi lo dice Stefano Malaguti, medico
all’istituto di medicina legale del
capoluogo estense e consulente tecnico
del pm, uno dei sei periti che hanno
esaminato i dati del diciottenne morto a
Ferrara all’alba del 25 settembre scorso
durante un misterioso e violentissimo
controllo di polizia. Il mattinale della
questura suggerì ai giornali locali la
tesi del malore fatale dovuto a una
presunta overdose. A smentire quasi
subito giunse la perizia tossicologica
che trovò solo lievi tracce di oppiacei
e chetamina insufficienti a spiegare non
solo la morte ma anche i comportamenti
violenti contro sé e contro gli agenti
delle due volanti che intervennero poco
prima delle sei del mattino nel
parchetto di fronte all’ippodromo
cittadino.
Malaguti - che si limita ad assicurare
che le trenta pagine forniscono una
«conclusione univoca» - conferma le
«profonde e concrete divergenze», tra i
periti del pm e quelli della famiglia,
le stesse a cui vuole accennare il
procuratore capo, Severino Messina, che
solo 24 ore prima aveva convocato i
cronisti locali per assicurare che la
procura sarebbe andata fino in fondo su
questa vicenda. La parola-chiave
dell’autopsia sembra «sovradosaggio»,
che sarebbe la traduzione italiana di
overdose. In pratica, si lascia
intendere che sarebbe stata l’eroina a
stressare il corpo del ragazzo, con una
depressione respiratoria che avrebbe
influito sull’arresto cardiaco che
constatarono ambulanzieri e medici del
118 accorsi sul posto. In questo modo
risulterebbe alquanto temperata la
conclusione dei periti della famiglia
Aldrovandi per i quali Federico non
sarebbe stato ucciso dalle botte e
nemmeno dalla droga. Piuttosto dal
trattamento complessivo subito quel
mattino dagli agenti delle due volanti
che, dopo averlo pestato, lo avrebbero
immobilizzato con la forza fino a
metterlo in condizione di non respirare.
Enfatizzare il ruolo della droga -
avverte l’avvocato Fabio Venturi - non
esclude i comportamenti umani
successivi».
La foto, quella che «parla da sola», è
comparsa ieri pomeriggio sul blog che
Patrizia Moretti ha voluto aprire cento
giorni dopo la morte del figlio.
«Rientrava a casa a piedi. Disarmato,
incensurato, solo. Non stava commettendo
nessun reato. Non aveva mai fatto del
male a nessuno nella sua vita»,
ripeteva, ieri, il cliccatissimo diario
elettronico che ha dato una scossa alle
indagini. «Mostrare quelle foto era una
cosa che avrei evitato se non fossi
stata messa alle strette - continua al
telefono con Liberazione - ma ora mi
sembra un elemento che serve a capire la
situazione... tutti gli atti dovrebbero
essere pubblici».
Nella foto sembra evidente il segno di
una manganellata, probabilmente inferta
con lo sfollagente impugnato al
contrario. Uno dei due attrezzi
riportati a pezzi in centrale, rotti «in
prossimità dell’impugnatura», come hanno
dichiarato Pisanu e Giovanardi
rispondendo alle interrogazioni
parlamentari sulla vicenda. Gli stessi
rapporti delle due volanti, intervenute
in Via Ippodromo, ammettono il contatto,
quantomento “brusco” con il ragazzo
esperto di karate. Ma i quattro agenti
non hanno mai spiegato perchè non hanno
resi pubblici da subito i referti degli
effetti della colluttazione su di loro.
Il personale del 118 si sentirà riferire
che Federico si sarebbe accasciato a
terra dopo essere stato ammanettato. Il
questore dichiarerà che gli infermieri
avrebbero chiesto di non togliergli i
ferri dai polsi. Ma tutti gli
ambulanzieri diranno di aver trovato
«inanimato» il diciottenne già morto
all’arrivo dell’auto medicalizzata.
Senza che nessuno abbia pensato di
mettere mano al defibrillatore che
doveva essere a bordo di una delle
vetture del 113. Che “Aldro” avesse
bisogno di aiuto lo hanno ripetuto i
testimoni raccontando i rantoli e la
disperazione di un ragazzino che, in
seguito, sarebbe stato dipinto dalla
questura più o meno come un energumeno
tossico. Delle evidenti ferite sul corpo
si cercherà di dar conto descrivendo la
scena di un forsennato che sarebbe
saltato su una volante ricadendo a
cavallo dello sportello (da cui lo
schiacciamento dello scroto) e ricaduto
di schiena sul cofano e poi a terra.
Sopra di lui, già ammanettato, mentre
gridava aiuto, ci sarebbe stato un
poliziotto che lo teneva fermo con un
ginocchio puntato sulla schiena e,
tirandolo per i capelli, gli teneva
alzato il capo con un manganello sotto
la gola. Su questo punto le relazioni
degli agenti ai loro capi sarebbero
contraddittorie. Una delle volanti
avrebbe detto che i quattro agenti
sarebbero tutti finiti a terra, durante
la colluttazione, nel tentativo di
ammanettare Federico. L’altra
sosterrebbe, invece, che uno solo dei
quattro poliziotti era chino sulla
vittima. Testimoni diretti e indiretti
hanno ricordato frasi precise e
l’accento veneto di una poliziotta,
unica donna su quelle volanti. Voci di
poliziotti increduli che quel moretto,
senza documenti, e con le sopracciglia
folte, fosse davvero italiano. Voci,
subito dopo, concitate e incredule che
quel ragazzino avesse smesso di
respirare. Nel giro successivo di
raccolta delle testimonianze tra i
residenti di Via Ippodromo, più di
qualcuno ricorda il fare «arrogante» di
chi indossava la divisa. Sta di fatto
che un possibile testimone-chiave
lascerà in fretta e furia la città dopo
i fatti e altri aggiusteranno più volte
il loro racconto o accetteranno di
apparire in tv con la voce e il volto
camuffati. Ferrara è una città divisa
tra chi ha paura - «Non avete visto come
hanno ridotto quel ragazzo?!» - tra chi
è indifferente - «Tanto era un
tossico...» - e chi continua a chiedere
verità e giustizia sul blog e nella
piazza centrale tra il comune e la
Cattedrale, ogni sabato. Il prossimo
saranno cinque mesi esatti dal
“controllo” di polizia. Dalla questura
si tenterà di accreditare la tesi che,
se due carabinieri (uno dei quali
restato ucciso in uno scontro a fuoco)
hanno commesso l’errore fatale di
arrestare un evaso senza perquisirlo, è
stato per la «tensione provocata dal
caso Aldrovandi». In città ci si chiede
perché mai le indagini siano state
affidate proprio alla polizia, quando
addirittura un capo della polizia
giudiziaria sarebbe sentimentalmente
legato all’unica donna a bordo di quelle
volanti. Eppure la Corte europea per i
diritti dell’uomo da molti anni ha
stabilito il principio secondo il quale
in caso di implicazione di appartenenti
alle forze dell’ordine, le indagini
devono essere affidate a corpi che siano
indipendenti da quelli che coinvolti nei
fatti. |
21 febbraio
PROCREAZIONE
La cicogna non vola più
Il turismo della provetta è in crisi
MONICA SOLDANO
ROMA
A due anni
dall'approvazione della legge più restrittiva d'Europa sulla
fecondazione medicalmente assistita si continua a viaggiare per
nascere? Dice di sì Laura Pisano, presidente della onlus
l'«Altra Cicogna» di Cagliari, anche se, avverte, il fenomeno
del turismo procreativo si sta modificando: «Viaggiare costa
molto ed un solo volo aereo non basta. Vi sono costrette per
legge le coppie sterili che necessitano di una donazione di seme
o di ovociti (fecondazione eterologa) e quelle portatrici di
gravi malattie genetiche che vogliono spezzare la catena
ereditaria, ricorrendo alla diagnosi genetica di pre-impianto.
Complessivamente il 7-8% della popolazione infertile, mentre il
restante 15% delle coppie in viaggio si sposta in cerca di
percentuali di successo più rassicuranti, verso paesi che
possono selezionare gli embrioni e che non hanno limitazioni
numeriche di ovociti da fecondare. Da qualche tempo, però, forse
a causa del forte impatto migratorio dal nostro Paese, le
delusioni non sono mancate. Ce lo confermano Germana e Sandro,
due giovani trentacinquenni milanesi, appena tornati da
Bruxelles, dopo il primo ciclo di fecondazione in vitro. «Di
congelamento di embrioni neanche l'ombra - racconta Germana -,
una dottoressa del centro mi ha fatto capire che non vogliono
rischiare di ritrovarsi con troppi embrioni di genitori
stranieri, difficili da rintracciare nel tempo». Così i due
coniugi milanesi sono tornati a casa. «Se questo ciclo fallisse,
ci rivolgeremo ad una clinica in Italia», prosegue Paolo.
Raccontano di aver preso carta e penna e di aver telefonato ad
alcuni centri italiani ma ora non sanno se possono fidarsi. I
centri dichiarano percentuali di successo simili a quelle dei
colleghi stranieri - 25-30% - esattamente pari a ciò che
accadeva prima della legge 40 nel nostro Paese. «L'enigma è
presto risolto», commenta Claudio Giorlandino, ginecologo,
direttore scientifico di Artemisia, esperto di sterilità di
coppia da oltre venti anni. «Dopo l'entrata in vigore della
legge che ci costringe a non fecondare più di tre ovociti c'è un
incremento delle gravidanze trigemellari. Un vero miracolo
italiano. Che dimostra l'inapplicabilità della legge 40, molto
lontana dall'obiettivo di proteggere gli embrioni.
Nel frattempo, la politica risponde con due nuove proposte di
legge. La prima, già depositata dalla «Rosa nel Pugno» intende
legalizzare e liberalizzare la ricerca. L'altra ha la firma del
senatore ds Lanfranco Turci: «Chiederemo l'accesso sia per le
coppie che per le donne single. E non escluderemo l'eterologa».
Chavez sfida Mr.
Danger-Bush
Ribatte alla signora Rice,
che annuncia azioni per contrastarne l'influenza in America
latina, minacciando di tagliare le forniture petrolifere
venezuelane agli Usa. E poi annuncia un viaggio in Iran
MAURIZIO MATTEUZZI
Lo scontro fra il presidente venezuelano
Hugo Chavez e l'amministrazione di George Bush (che lui chiama «Mr.Danger»)
si fa globale. Non più solo o principalmente l'America latina ma
il mondo. Grazie al petrolio, senza il quale gli americani si
sarebbero con ogni probabilità già sbarazzati di Chavez da
tempo. «Ho accettato l'invito ai Ahmadi Nejad e andrò a Tehran»,
ha detto Chavez. Come non bastasse la visita in Iran, il paese
diventato il nemico numero uno di Washington, il presidente
venezuelano ha anche ribadito che il suo governo «renderà sempre
più profondi i rapporti con Cuba», l'altra e più antica
ossessione degli Stati uniti. Senza parlare della Bolivia di Evo
Morales, ora è arrivato anche René Préval a Haiti che potrebbe
essere interessato alle avances petrolifere di Chavez.
Chavez era già stato a Tehran negli anni passati nel suo
obiettivo di rafforzare una politica petrolifera coordinata
nell'ambito dell'Opec, ma erano i tempi del riformatore Khatami,
la faccia più simpatica dell'islamismo iraniano. Ora è diverso
perché Ahmadi Nejad rappresenta invece l'islamismo più
intransigente e con le sue iniziative sul nucleare nonché le
sparate su Israele e l'olocausto costituisce l'uomo nero della
politica internazionale. Andare a trovarlo in questo momento è
un messaggio chiaro e preciso.
D'altra parte ormai fra Washington e Caracas è uno scambio
continuo di colpi. Giovedì la signora Condoleezza Rice davanti
al Congresso Usa aveva definito Chavez «uno dei maggiori
pericoli per la democrazia in Ameria latina» e aveva ammonito
«la comunità internazionale» a essere «molto più attiva
nell'appoggio e nella difesa del popolo venezuelano». Il
riferimento era al processo per tradimento che si trovano ad
affrontare quelli di una ong chiamata Sumate che ha avuto
un ruolo di primo piano nella raccolta delle firme per arrivare
al referendum revocatorio (perso) nell'agosto del 2004 contro
Chavez. Chavez non può esercitare la sua influenza, petrolifera
e no, in America latina perché questo è «indebita interferenza»
e «destabilizzazione», ma Bush (come tutti i suoi predecessori)
può usare tutto il suo peso economico e politico, per esempio
sovvenzionando con fondi la ong venezuelana Sumate che si
propone di cacciare il presidente legittimo, e questo va bene.
La signora Rice, che dicono abbia soppiantato al Dipartimento di
Stato i neo-conservatori con i neo-realisti, ha assicurato i
congressiti che l'amministrazione farà di tutto per tagliare
l'influenza nefasta di Chavez in America latina e convincere i
vari leader della regione che il vero pericolo non sono gli Usa
ma il Venezuela di Chavez.
Il giorno dopo le dichiarazioni della Rice, è toccato a Chavez.
Che ha a sua volta ammonito e sfidato gli americani. «Il governo
degli Stati uniti deve sapere che se oltrepassa i limiti non
avrà più il petrolio venezuelano - ha detto in un atto pubblico
-. Ho già cominciato a prendere misure al riguardo, ma non dico
quali».
Il Venezuela è il quinto esportatore mondiale ma il secondo o
terzo fornitore di greggio agli Stati uniti. Il 15% del mercato
Usa è coperto dal greggio venezuelano e il 50% del greggio
venezuelano finisce negli Usa. Un bell'incastro reciproco.
Perché secondo alcuni analisti non sarebbe così facile per il
Venezuela trovare altri mercati su due piedi nel caso si
arrivasse alla rottura definitiva anche in campo petrolifero. Ma
Chavez nega: «Loro non credono che possa decidere di tagliare il
petrolio perché non sapremmo poi dove collocarlo. Ma si
sbagliano: il petrolio non va a male, è una risorsa strategica
per tutto il mondo e ci sono molti paesi che ci chiedono più
petrolio e noi dobbiamo dire di no perché la metà dei nostri
barili vanno negli Stati uniti...». L'annuncio del viaggio a
Tehran rientra in questa strategia.
A rendere ancor più complicato il gioco, sta il fatto che Pdvsa,
la compagnia petrolifera venezuelana che Chavez ha riconquistato
dopo lo sciopero golpista della fine 2002, possiede attraverso
la società Citgo qualche decina di migliaia di stazioni di
servizio negli Stati uniti e almeno 6 raffinerie. E' da tempo
che Chavez si prepara al momento - forse inevitabile - della
rottura: negli ultimi 5 anni l'export petrolifero venezuelano
negli Usa è diminuito intorno al 45% mentre è cresciuto quello
verso la Cina, l'India e i paesi dell'America latina. Poi alcuni
mesi fa Chavez ha annunciato di aver cominciato a ritirare i
petro-dollari venezuelani depositati nelle banche Usa per
convertirli in euro e depositarli nelle banche europee (ed
evitare così anche i rischi di confisca-congelamento). Ora
annuncia altre mosse, anche se «non dice quali». La direzione
però è chiarissima.
|
16 febbraio
Il comico che interpreta un ultrà
di Berlusconi secondo i consiglieri
del Cda di centrodestra viola la par condicio. Contestato invito a
Sartori
Rai, la
satira di Cornacchione
rischia di essere fermata
di ALDO FONTANAROSA
ROMA - La satira di Cornacchione
(che rappresenta il premier come un "malato di mente"); lo stile di
conduzione di Fabio Fazio (che gli fa da spalla senza mai
arginarlo); gli ospiti stessi del programma (come il politologo
Sartori) rappresentano una "violazione gravissima" della par
condicio, dunque un pericolo per la Rai. Con questi argomenti i
consiglieri polisti della tv di Stato sferrano un attacco mirato a
RaiTre e a "Che tempo che fa", di cui chiedono la "chiusura". Sono
gli stessi consiglieri polisti che vogliono rimpiazzare il direttore
di Rai Due Ferrario con Marano proprio mentre la Seconda Rete ospita
l'evento chiave dell'anno, le Olimpiadi. E le nomine di fine
legislatura saranno molte di più, sembra: fino a 25.
Due lettere. Testa di ariete del Polo è il consigliere Petroni
(Forza Italia). E' lui, il 13 febbraio, a scrivere una prima lettera
al direttore generale Meocci. Petroni critica la presenza a "Che
tempo che fa", domenica sera, di Giovanni Sartori. Perché chiamare -
si chiede - proprio il politologo che nel suo libro ("con toni di
parte") ha criticato il federalismo voluto dal centrodestra? Petroni
attacca poi gli "accenti sapidi" con cui Cornacchione ha imitato il
premier Berlusconi. Ma critica soprattutto il conduttore Fazio "che
irride alla par condicio", animato da una "specifica volontà di
ignorare le norme in vigore".
Un atteggiamento che esporrebbe l'azienda a gravi sanzioni. Per
evitarle, l'unica è congelare Fazio fino a elezioni celebrate. Il 14
febbraio, Petroni scrive ancora. Stavolta ricorda a presidente,
direttore generale e consiglieri della Rai che spetta a loro evitare
sanzioni di cui sarebbero chiamati a rispondere in prima persona.
Lo scontro. Intorno a Cornacchione, i consiglieri dell'Unione fanno
quadrato. Curzi, Rizzo Nervo, Rognoni partono da Mediaset, dalla sua
satira irriverente e divertente. La tesi è che se la Rai arrivasse a
chiudere la sua, di satira, avvantaggerebbe il diretto concorrente,
libero di prendere in giro i politici, da Zelig a Striscia.
Le nomine. In consiglio, il direttore generale Meocci apre questa
seconda partita con una mossa a sorpresa. Elenca 25 posizioni
dirigenziali che andrebbero assegnate, anche perché scoperte. Ci
sono cariche di rilievo, la guida dell'agenzia pubblicitaria Sipra,
le Direzioni Acquisti, Immobili, Finanza. Sotto il naso dei
consiglieri dell'Unione insomma penzola un osso ghiotto. Il
messaggio è chiaro: coraggio, accordiamoci sulle nomine perché c'è
qualcosa di buono anche per voi. Freccero, ad esempio, ora in un
angolo, è già immaginato al canale in digitale "Rai Futura".
La mossa di Petruccioli. Meocci non fa nomi, per questi 25
incarichi. Eccetto che per uno. A RaiDue propone la staffetta tra
Ferrario (direttore leghista amico di Calderoli) e Marano. Che è un
altro leghista, ma nel cuore del ministro Maroni. La guida dei
Diritti sportivi, liberati da Marano, andrebbe a Meocci in via
provvisoria. I consiglieri Curzi, Rizzo Nervo e Rognoni non ci
stanno. Ricordano che la Rai non ha mai fatto nomine in campagna
elettorale. Sarebbe la prima. Ricordano che Marano sta facendo bene
ai Diritti Sportivi, mentre ha fatto male alla guida di RaiDue (dal
2002 al 2004, quando era lui a dirigerla).
E chiedono che il capo della Seconda Rete sia scelto tra
professionalità collaudate come Minoli e lo stesso Freccero, e non
per forza tra i leghisti. In questo clima di battaglia,
appigliandosi a un articolo del codice civile, il presidente
Petruccioli scioglie la riunione. I consiglieri polisti protestano
e, mentre vanno via, già chiedono un nuovo consiglio per domani, al
più tardi lunedì.
|
SINISTRA
Gli amici
del leopardo
ROSSANA ROSSANDA
Ali Tariq si sorprende per le
manifestazioni musulmane davanti alle ambasciate. Scrive: non hanno,
i musulmani, altri e più minacciosi nemici di un vignettista?
Eccome. Li hanno addosso: dagli eserciti che hanno fatto la guerra
in Iraq e in Afganistan per gli interessi geoeconomici
dell'occidente, ai governi arabi che la appoggiano mentre deprivano
i loro popoli di tutti i diritti e dell'accesso alla ricchezza del
proprio paese, alla supponenza europea nei loro confronti pari
soltanto alla codardia verso Bush. Ma contro questo schieramento
nemico non hanno né gli strumenti né la forza per reagire. Incassano
il peggio, cresce l'esasperazione e mettono fuoco ad alcune
tranquille ambasciate che non c'entrano molto. Potrebbero fare di
più contro i loro nemici veri e astenersi da una protesta deviata
dunque vana e che li isola? Non so. Si può rimproverare loro di non
essere all'altezza dello scontro? Si può. Ma una soggettività
complessa e all'altezza della sfida presente andava da tempo
seminata e alimentata, sostenuta da una solidarietà. Nulla di questo
è avvenuto. Che è successo dei tentativi delle loro dirigenze
laiche? Chi ha difeso il popolo in questo senso più avanzato, i
palestinesi? L'occidente, miope, se ne è guardato bene. Gli Usa
hanno utilizzato l'Iraq contro l'Iran e oggi un islam contro
l'altro, finendo con il cacciare tutto il Medioriente nel
fondamentalismo. E quale alleato avrebbe oggi in Europa un islam che
si proponesse di sbaraccare la «guerra infinita» tagliando alle
radici il fondamentalismo e la sua coda terrorista? Nessuno. Mi si
nomini una sola cancelleria che lo farebbe, un movimento sociale che
lo sosterrebbe non solo a parole. Io non ne vedo. Ma non è questo
deviare della protesta e della mobilitazione dal vero nemico un
vizio soltanto loro, del quale hanno qualche giustificazione. È
proprio anche delle nostre società.
Già negli anni `70 Franco Fortini scriveva, sulle tracce di Turkey,
che quel che era una volta una discesa in piazza del popolo per
ottenere un diritto negato o esigere un bisogno, tende a diventare
oggi un'autorappresentazione, puro mezzo di visibilità che poi
sparisce per repressione, isolamento, stanchezza.
Non è lo stesso la aspirazione attuale di alcuni gruppi molto
minoritari a passare da invisibili a visibili, attraverso presenze
che più possono essere mediatizzate, a prescindere dall'obiettivo
che li ha mossi? E pazienza quando tendono soltanto a questo. Ma
sempre più spesso alcuni di essi parassitano movimenti più vasti,
che si aggregano fuori di loro, per coinvolgerli in scontri più
accesi sia perché li considerano politicamente opportunisti sia per
provocare una reazione della polizia. Della quale nulla giustifica
l'intervento repressivo. Ma intanto esso ricade inesorabilmente
sulle folle mosse da un intento unitario più puntuale, pacifico e
tale da mettere in difficoltà i poteri. Non è avvenuto questo con la
manifestazione anti Tav della Val di Susa? È il vecchio vizio di chi
si definisce avanguardia. La sua vera radice, anche se non
confessata, sta nell'impotenza a incidere il blocco avversario. Di
qui la tentazione a ripiegare su un simbolo. Il nemico sono oggi gli
Stati uniti e le multinazionali, complesso di enormi dimensioni e
capacità non solo repressive. La Coca Cola, che è una multinazionale
e simbolo della penetrazione americana attraverso i consumi, ha
sponsorizzato le Olimpiadi. Né la Coca Cola né le Olimpiadi in
quanto tali si potevano attaccare, per cui ci si è attaccati al loro
ultimissimo anello: il tedoforo.
La stampa ha dato loro più corda che mai, Repubblica e Corriere
hanno titolato per tre giorni la prima pagina: «Torino sotto
assedio» per cambiare nel corso d'una sera con: «Torino in festa»,
facendo finire in un trafiletto interno le poche decine di ragazzi,
nessuno dei quali aveva le mani sporche di sangue né di quattrini,
che si ritiravano mestamente. L'impotenza si trova nemici e identità
sostitutive.
Anche il mio amato Valentino Parlato rischia di farsi prendere da
amico del leopardo. Prima che tutti i nostri valorosi colleghi si
lanciassero alla ricerca di tutte le tensioni nella coalizione, di
destra, sinistra o centro che siano - chi mai, salvo il rispetto,
aveva dedicato tre colonne al coerente trotzkista Ferrando? - siamo
stati noi, il manifesto a dirci acerbamente delusi dal programma di
Prodi. Io mi sono letta quel malloppo - più voluminoso e meno
firmato di quello de l'Ernesto - senza delusione alcuna. Non mi ero
affatto aspettata di più, come poteva essere? La coalizione si è
data e si è formata su un obiettivo primario: battere la Casa delle
Libertà. E non è poco, è una condizione della democrazia.
Soltanto con Berlusconi fuori di scena si potrà ricominciare a
parlare di politica. Adesso devi badare a quel che dici, ogni
differenza di idee è materia di gossip, ogni, dio non voglia,
divergenza è enfatizzata come lacerazione incombente e quindi
incapacità di governare. Che la Casa della Libertà abbia governato
con Bossi e Fini assieme non importa, e giustamente. Avevano in
comune l'attacco alla Costituzione, al lavoro e alla cultura, la
privatizzazione di tutto e un colpo decisivo allo stato sociale.
Questo li teneva uniti. Sulla sponda opposta, da Rutelli a
Bertinotti via Prodi e D'Alema hanno in comune la restaurazione di
quel che della Costituzione resta, l'abolizione del conflitto di
interessi, l'autonomia della magistratura e della Rai e
dell'informazione, un qualche equilibrio fra impresa e lavoro. Non è
molto, ma va in direzione del tutto diversa. Che poi Rutelli
frascheggi con la Udc non importa granché. A breve termine non andrà
molto lontano.
Che Prodi sia tirato da una parte e dall'altra, specie da un'Europa
senza più trattato né crescita, non sorprende; nella coalizione la
crisi dell'ipotesi liberista che sottendeva la Ue è più visibile e
più urgente. Che il rapporto con gli Stati uniti e la guerra
infinita diventerà terreno bruciante è prevedibile. Che Rifondazione
e la Margherita abbiano un'idea diversa della società, del lavoro e
della persona, e che i Ds siano stretti a evitare gli errori che li
hanno portati a perdere il governo è sicuro. In un paese che
Berlusconi ha trovato guasto e ha guastato ulteriormente, a dinamica
produttiva e crescita zero, a egoismi crescenti e senso della
solidarietà in gran parte perduto, la partita sarà più difficile che
non fosse cinque anni fa. Anche da questo è venuta, penso, la
difficoltà di indicare quattro precisissime scelte, al di là del
restauro di uno stile istituzionale e della divisione dei poteri. Le
Tav sono più d'una.
Sarà sul terreno che, stabilito un qualche orizzonte di rimedi al
quinquennio, si disegnerà l'approdo. È mia ostinata persuasione che
sarà il rapporto di forza e creatività sociale e intellettuale a
deciderne le tappe. Per questo darò il voto a Bertinotti pur sapendo
che il governo non sarà il suo, e pur essendo meno vicina a lui che
non fossi qualche anno fa.
In questo transito ciascuno di noi, il manifesto incluso, sarà
costretto a uscire dalla denuncia e dalle vaghezze, capire le
priorità e valutare chi mobilitare - il terreno politico che abbiamo
scelto sta nella società, non passa per il parlamento e non ne
sottovaluta la funzione. Intanto importa che la maggioranza non sia
più quella di ora. Se Berlusconi dovesse passare ancora una volta
non ci resterebbe - la rivoluzione non essendo all'o.d.g - che
elevare alte strida.
|
G8,
riconosciuto il «capo» di Bolzaneto
L'ispettore Antonio Gugliotta era il più alto in grado nella
struttura. Un teste: mi picchiavano e lui non è intervenuto. Un
altro ricorda: in cella con me un fascista. È un ultras della Roma
SIMONE PIERANNI
GENOVA
Un altro riconoscimento «pesante» ieri in aula a Genova, durante
l'udienza del processo per i fatti di Bolzaneto. Fabrizio Ferrazzi,
cinquantenne di La Spezia, laurea in filosofia e titolare di
un'azienda agricola, ha individuato l'ispettore Antonio Gugliotta,
all'epoca dei fatti «responsabile della sicurezza e
dell'organizzazione dei servizi nel sito penitenziario di Bolzaneto».
«Ero nel corridoio - ha detto il teste - mi tiravano calci e lui era
lì e non faceva nulla». Antonio Gugliotta era il funzionario con il
grado più alto nella struttura ed era direttamente responsabile
della custodia dei detenuti una volta passati «nelle mani» della
polizia penitenziaria. A Gugliotta sono contestati anche i reati di
percosse e violenze privata (uno delle sue vittime testimonierà oggi
a Genova). Ferrazzi ha confermato in aula quanto già dichiarato ai
pm in sede di indagini, riconoscendo anche Giuliano Patrizi,
sovrintendente di polizia penitenziaria in servizio a Bolzaneto
(nonostante in prima battuta i pm abbiano mostrato una foto pescata
dall'album sbagliato che infatti il teste non ha identificato, salvo
poi riconoscere la foto corretta), la cui posizione fu però
archiviata dal gip, e infine il medico Giacomo Toccafondi. Per il
responsabile del servizio sanitario presso la caserma di Bolzaneto
si è trattato del secondo riconoscimento in un giorno solo. Anche
Diana Franceschin, 25 anni, milanese, lo ha infatti ricordato come
uno dei principali protagonisti delle battute di scherno che
regnavano in infermeria, che - a parere dei pm - avrebbe dovuto
essere invece un luogo di «forte dissenso» rispetto al resto della
caserma. Proprio una maglietta requisita alla Franceschin sarebbe
uno dei «trofei» che Giacomo Toccafondi avrebbe conservato.
La deposizione di F.G., primo teste della giornata, ha invece
offerto quello che lo stesso testimone, poco dopo la sua
deposizione, ha definito «un aneddoto paradossale». «Allo stadio mi
denunciano se canto "faccetta nera", qui mi obbligano a cantarla»,
gli avrebbe infatti detto un ragazzo al suo fianco nella cella. Lo
stesso ragazzo che F.G. aveva visto in piazza, picchiato dai
poliziotti in modo violento, qualche ora prima: «Gli misero un piede
in testa, come per mettersi in posa».
F.G., dopo una simile esternazione, ricorda di avere pensato allora
che «i carcerieri avevano arrestato un loro simile». Le circostanze
con cui F.G. ha descritto i fatti - sia le fasi dell'arresto, sia le
fasi all'interno della caserma - sembrano coincidere con quanto
rilasciato in fase di indagini da B.M. (un ragazzo romano, tifoso
giallorosso e figlio di un ispettore-capo della Dia di Roma) già
ascoltato in aula sulle violenze subite dopo il suo arrivo nella
caserma. Questo episodio non è l'unica novità della deposizione di
F.G. - che ancora oggi ha problemi di circolazione alle mani a causa
delle reiterate occasioni in cui i poliziotti gli stringevano i
laccetti neri usati come manette: «In infermeria ero nudo e mi
obbligarono a vestirmi con una felpa fradicia di urina», ha detto
ieri in aula, aggiungendo un nuovo particolare all'elenco dei
«trattamenti inumani e degradanti» ravvisati dai pm in fase di
indagine.
|
Video-choc
su Blair. E Brown
Il video mostrato domenica in tv sulle brutalità dei soldati inglesi
su civili iracheni aumenta la turbolenza interna al governo, già
provato dall'eterna rincorsa di Brown alla poltrona di Blair
O.C.
Non si placano le polemiche per il
video mostrato dalla tv che rivela in modo brutale le torture dei
militari britannici nei confronti di civili iracheni. Dopo le foto e
il processo ad alcuni soldati, ora questo nuovo scandalo che
naturalmente mette a tacere quanti, il premier Tony Blair per primo,
difendevano il ruolo dell'esercito britannico (a Bassora
specialmente), amato e benvoluto dai cittadini iracheni, che
trovavano gli inglesi (col berretto al posto dell'elmetto) più
«gentili» dei rambo americani. A giudicare dalle terribili
immaginate mostrate domenica, i britannici non hanno nulla da
invidiare ai colleghi Usa. Come del resto era già noto. Ieri la
polizia militare ha annunciato il fermo di almeno una persona
connesso alle torture. Il video cade in un momento di turbolenza
interna al governo. Gli spin doctors di Downing street si sono
precipitati a spiegare che non c'era nulla di strano nel fatto che
Gordon Brown, ministro del tesoro, tenesse un importante discorso
sulla sicurezza nazionale. Tutto normale: rientra nei ruoli e nei
compiti del ministro del tesoro, hanno cercato di giustificare gli
uomini delle public relations del governo Blair, anche parlare di
carte d'identità, terrorismo internazionale e legge contro l'odio
religioso. Sarà. Ma ai più l'articolato discorso di Brown, ieri al
Royal United Services Insitute, è sembrato piuttosto la scesa in
campo ufficiale del ministro in vista del passaggio di consegne da
parte del premier Tony Blair. In altre parole, quello di ieri è
stato il primo passo di Brown verso il trasloco al numero 10, in
qualità di primo ministro.
Non è nemmeno un caso che il ministro del tesoro abbia scelto di
discutere di sicurezza nazionale e di illustrare la sua visione e
opinione in proposito. Che non si discosta molto, per la verità, da
quella di Tony Blair. E infatti il discorso di ieri conteneva toni
assai duri. Più duri di quanto non si aspettasse chi guarda con
favore ad un passaggio di consegne da Blair a Brown. Il ministro del
tesoro è notoriamente considerato uomo collocato alla sinistra di
Blair. Scozzese, un passato nel sindacato, Brown era il delfino di
John Smith. Ma alla sua morte, venne scavalcato dal più giovane e
rampante Tony Blair (e dal suo fidato Peter Mandelson) che fu
indicato dal partito come premier in caso di vittoria alle politiche
del 1997. Il trionfo del new Blair fu memorabile, con i Tories quasi
in estionzione. Il patto segreto che Blair e Brown stipularono (con
Brown non proprio felice, ma almeno c'era un patto) fu quello di un
passaggio di consegne ad un certo punto del mandato di Blair. Il
premier però ha sempre negato l'esistenza di quel patto. E ha
infatti continuato a governare per due legislature. Questa è la
terza. Ma ad un certo punto qualcosa nelle relazioni turbolente tra
Blair e Brown è cambiato. Difficile dire se davvero il premier stia
pensando alla sua successione o se, come invece sostengono i
maligni, questa mossa (nei fatti Blair ha lasciato a Brown una parte
di poteri, in una sorta di co-leadership) serva ad indebolire il suo
avversario anzichè a rafforzarlo.
A parlare di una co-leadership è stato apertamente Charles Clarke,
ministro degli interni scottato dalla sconfitta in parlamento della
legge sull'incitamento all'odio religioso e prima ancora delle
misure antiterrorismo che prevedevano la detenzione senza processo
estesa a 90 giorni. Clarke si trova in pessime acque anche per
quanto riguarda la legge sull'introduzione delle carte d'identità,
in discussione ieri sera. In una intervista all'Observer, Clarke ha
parlato chiaramente di «patto tra Blair e Brown» che si
espliciterebbe in una sorta di co-direzione di Downing street. Il
che spiega perchè ieri è stato Brown ad indicare la politica
governativa in materia di sicurezza nazionale. In un discorso, fra
l'altro, molto blairiano, cioè molto netto nella necessità di
irrigidire le attuali leggi in materia di terrorismo. Per esempio
Brown ha detto che «affrontare la realtà e le cause del terrorismo
internazionale è la grande sfida dei nostri tempi. Dal successo in
questa sfida, dipende tutto il resto». Parole che riecheggiano il
Tony Blair più belligerante.
Brown ha dovuto anche fare i conti con una bruciante sconfitta: alle
suplettive in Scozia (considerata il suo regno), infatti, lo scorso
week end il ministro del tesoro ha dovuto incassare la vittoria dei
liberal-democratici in un seggio Labour di quelli considerati super
sicuri. Allora, si chiedono in molti, se Brown non ce la fa a
vincere più nemmeno in Scozia come farà a governare il paese? Che
Blair stia davvero cercando di dare il colpo di grazia al suo, fino
a questo momento, indiscusso successore? Clarke sembra pensarla così
e infatti all'Observer ha detto che sarebbe meglio cominciare a
parlare di sfida all'inetrno del partito per la leadership. Che ci
sia maretta nel new Labour, non è una novità. Le rivolte in
parlamento dei deputati laburisti stanno diventando una costante. E
questo chiaramente a Blair non piace.
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16 febbraio
CUBA-USA
5 cubani in
attesa di giustizia
Incarcerati da 7 anni da una giuria piena di anti-castristi
GERALDINA COLOTTI
ROMA
Inizia oggi nella città
nordamericana di Atlanta, in Georgia, l'udienza che in settimana
deciderà la sorte dei 5 cubani, detenuti dal 1998 nelle carceri di
massima sicurezza Usa con l'accusa di spionaggio. E oggi a Roma alle
18 (teatro Vittoria, piazza Santa Maria liberatrice), Gianni Minà
(di Latinoamerica) e Ignacio Ramonet (direttore del mensile francese
Le Monde diplomatique) ne discuteranno con il pubblico a partire dal
volume Il terrorismo degli Stati uniti contro Cuba, edito da
Sperling & Kupfer. Nel libro, 16 intellettuali del calibro di Howard
Zinn, Nadine Gordimer, James Petras, Salim Lamrani o Garcia Marquez,
raccontano il caso dei cinque, definendolo «una storia inquietante
censurata dai media». Tanto che, per farla conoscere, un comitato di
solidarietà internazionale (composto, tra gli altri dall'ex ministro
della giustizia Ramsey Clark) ha dovuto comprare una pagina del New
York Times, pagandola 60.000 dollari. Nei tribunali, il controverso
caso giudiziario, iniziato con pesanti condanne e due ergastoli,
sembra giunto a una svolta il 9 agosto 2005, quando la Corte
d'appello federale di Atlanta, competente per la Florida, annulla il
giudizio emesso a Miami nel 2001. Dopo un'analisi dettagliata del
processo e delle prove, il collegio di tre giudici - all'unanimità -
valuta che a Miami c'era un atteggiamento «così ostile e
irrazionale» da aver impedito lo svolgimento di un processo equo
agli accusati. Una sentenza storica nella giurisprudenza
nordamericana. Per la prima volta, vengono accolti gli argomenti
della difesa - guidata da Leonard Weinglass, già avvocato di Angela
Davis e Mumia Abu-Jamal - e menzionate le attività anticastriste di
Luis Posada Carriles, definito apertamente un «terrorista». Si dà
per implicito, dunque, che i cinque agenti segreti svolgessero
attività preventiva: impedire, cioè, che altri attentati organizzati
in Florida contro Cuba facessero salire ulteriormente il numero dei
morti (oltre 2.000 vittime). Finalmente un nuovo processo? Macché.
Il 27 settembre 2005, il procuratore generale della Florida presenta
appello, chiede ai giudici di tornare sulla decisione. E così
avviene il 31 ottobre 2005. Ora, toccherà a un collegio allargato di
12 magistrati confermare il giudizio dei loro tre colleghi - e
fissare la data di un nuovo processo - oppure smentire quel giudizio
e aprire una vertenza giuridica di competenza internazionale.
Come che sia, i cinque rimangono in carcere. Da sette anni, a due di
loro vengono negate le visite delle mogli, in violazione delle
stesse leggi nordamericane e delle norme internazionali. E per tutti
misure detentive che, l'anno scorso, un gruppo di lavoro delle
Nazioni unite ha definito ingiuste e arbitrarie. Come si può
considerare equo un processo a Miami, città che conta circa 650.000
esiliati cubani, i cui voti sono stati determinanti per l'elezione
di Bush nel 2000? In quale distretto il 20% della giuria è formato
da «uomini e donne fuggiti da Cuba perché in disaccordo con il
governo che gli accusati cercavano di proteggere?», domanda
l'avvocato Weinglass. E accusa i procuratori di aver manipolato il
sistema penale a fini politici.
Ma, intanto, nonostante il silenzio dei media, cresce la
mobilitazione internazionale.
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Il colosso energetico dovrà pagare 290
milioni di euro
per aver ostacolato l'ingresso di operatori sul mercato
Antitrust,
maximulta all'Eni
per abuso posizione dominante
La replica: "Pronti a impugnare la sentenza, prima valuteremo"
ROMA
- L'Eni dovrà pagare una maximulta da 290 milioni di euro per abuso
di posizione dominante nel settore dell'approvvigionamento del gas.
L'Antitrust ha deciso che il colosso energetico "ha posto in essere
un abuso di posizione dominante ostacolando l'ingresso di operatori
indipendenti, a partire dal marzo 2007, sul mercato nazionale
dell'approvvigionamento all'ingrosso di gas naturale". Il gruppo
replica: "Siamo pronti a impugnare la sentenza, ma prima la
valuteremo".
In particolare,rileva l'Antitrust, "la condotta accertata è
consistita nell'aver interrotto la procedura di potenziamento del
gasdotto Ttpc, da tempo avviata, e per la quale erano stati firmati
contratti di trasporto ship or pay con alcuni shipper. Per questa
ragione l'Autorità ha comminato una sanzione pari a 290 milioni e ha
imposto che Eni ponga termine ai comportamenti distorsivi della
concorrenza, cedendo ad operatori terzi, tramite la propria
controllata Trans Tunisian Pipeline Company Ltd., capacità di
trasporto addizionale sul gasdotto Ttpc per 6,5 miliardi di metri
cubi annui di gas entro il 1 ottobre 2008".
Oltre alla maximulta, l'Antitrust ha deciso che Eni dovrà aumentare
la capacità di trasporto di 6,5 miliardi di metri cubi inn due
tranche entro il primo ottobre 2008. L'Eni, spiega l'Antitrust,
dovrà garantire l'entrata in servizio di una prima tranche della
capacità addizionale, pari a 3,2 miliardi di metri cubi di gas, non
oltre il 1° aprile 2008, e di una seconda tranche, pari a 3,3
miliardi di metri cubi di gas, non oltre il 1° ottobre 2008. "Ciò
-sottolinea l'Authority- corrisponde a precisi impegni già assunti
dalla società".
Inoltre, entro 30 giorni Eni dovrà fornire all'Autorità la
documentazione sulla procedura di allocazione della seconda tranche
della capacità addizionale sul Ttpc affinché si possa valutare se
sia effettivamente improntata a criteri obiettivi e non
discriminatori. Entro i successivi 90 giorni dovrà informare
l'Autorità dello stato di avanzamento della procedura di allocazione
della seconda tranche della capacità addizionale sul Ttpc.
In ogni caso l'abuso accertato, per il periodo marzo 2007 (data
entro la quale originariamente avrebbe dovuto essere completato il
potenziamento del gasdotto TTCP) e aprile 2008, determinerà il
mancato ingresso sul mercato rilevante di 6,5 miliardi di metri cubi
di gas. Per il restante periodo aprile 2008 - ottobre 2008 l'effetto
è quantificato come mancato ingresso di 3,3 miliardi di metri cubi
di gas.
Per l'Antitrust, l'effetto cumulativo della pratica abusiva
riscontrata, tenendo conto delle misure proposte da Eni sul gasdotto
Ttpc, è dunque pari a 9,8 miliardi di metri cubi di gas su di un
periodo di 19 mesi. "Si tratta di un volume di gas notevole- osserva
l'Autorità- sia se rapportato al fabbisogno annuo di gas (pari ad 80
miliardi di metri cubi di gas nel 2004 ed a circa 86 miliardi di
metri cubi nel 2005), sia se rapportato alla quota approvvigionata
da Eni (pari a circa 53 miliardi di metri cubi nel 2004)".
Per l'Autorità, che aveva avviato l'istruttoria il 27 gennaio 2005,
"il comportamento di Eni costituisce una violazione grave
dell'articolo 82 del Trattato di Roma". Nel determinare la sanzione,
l'Autorità ha tenuto anche conto dell'attenuante consistente nel
fatto che Eni ha comunque dato avvio, nel corso del procedimento,
alla procedura di allocazione della capacità addizionale relativa
alla prima tranche del potenziamento del Ttpc. "Gli impegni assunti
di recente da Eni - conclude - sono stati pertanto favorevolmente
valutati dall'Autorità".
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Nel mirino della Commissione
europea gli effetti
della legge Gasparri. E Sky chiede meno vincoli
Frequenze
tv, Bruxelles chiede
chiarimenti sui rischi di monopolio
di ALBERTO D'ARGENIO
BRUXELLES
- La Commissione europea mette nel mirino la legge Gasparri sul
settore televisivo con una lettera inviata al ministero delle
Comunicazioni prima di Natale. Si tratta di un vero e proprio
interrogatorio sul sistema di distribuzione delle frequenze per il
digitale terrestre introdotto dalla legge fortemente voluta dal
governo Berlusconi. E il fronte dei media italiani presso gli uffici
Ue è destinato ad allargarsi, visto che Sky ha chiesto al capo
dell'Antitrust comunitario, Neelie Kroes, di modificare le
restrizioni imposte alla piattaforma satellitare ai tempi della
fusione tra Stream e Telepiù.
La richiesta di informazioni sulla
Gasparri è contenuta in una lettera di otto cartelle firmata da
Philip Lowe, direttore generale della Kroes, e di fatto punta il
dito contro tre aspetti della ripartizione delle frequenze.
Innanzitutto, Bruxelles chiede di spiegare perché il governo abbia
deciso di concedere le frequenze per il digitale terrestre solo agli
operatori già presenti sul tradizionale mercato della tv analogica
(in cui Mediaset fa la parte del leone). Gli esperti domandano poi
di spiegare la ragione per cui l'Autorità garante delle
telecomunicazioni non abbia dato attuazione al piano di assegnazione
delle frequenze analogiche, la cui mancata esecuzione "ha reso
estremamente difficile per i nuovi entranti il reperimento delle
risorse" per il digitale terrestre.
Ma non finisce qui. L'Ue chiede se esista un limite alla raccolta
"di licenze d'operatore per il digitale e di frequenze destinate
alla radiodiffusione televisiva" che gli operatori già presenti sul
mercato - capitanati dall'azienda della famiglia Berlusconi - stanno
rastrellando con il rischio di una trasposizione della propria
posizione dominante sul mercato del digitale.
Guardando al momento in cui la tv tradizionale sarà sostituita dal
digitale, Bruxelles si preoccupa di sapere se le frequenze liberate
saranno restituite allo Stato per una riassegnazione o se, al
contrario, saranno mantenute dagli attuali concessionari. Al termine
di tutti i quesiti la Commissione chiede di motivare l'eventuale
risposta negativa con delle ragioni "di interesse generale" che la
abbiano ispirata. Come dire, se non ci sono buoni motivi per il
mancato rispetto delle norme europee noi andremo fino in fondo.
L'azione di Bruxelles, al momento ancora informale, prende spunto
dalle norme comunitarie che chiedono alle capitali europee di
procedere all'assegnazione delle frequenze in modo trasparente e non
discriminatorio, di non prendere misure anticoncorrenziali e di non
accettare posizioni dominanti sui propri mercati. Princìpi, questo è
il timore di Bruxelles, che potrebbero essere stati violati dalla
Gasparri in favore dei soliti noti della televisione italiana,
Mediaset in testa.
Al momento è difficile dire se l'indagine sarà trasformata in una
vera e propria procedura, anche se alcuni osservatori sono pronti a
scommettere che Bruxelles andrà fino in fondo. Anche sulla richiesta
di Sky di modificare gli impegni imposti nel 2003 dall'allora
commissario Ue alla Concorrenza, Mario Monti, è difficile dire quale
sarà la reazione della Commissione. Tra le altre cose, il leader del
satellite italiano chiede a Bruxelles di cancellare il divieto per
cui non può partecipare alle gare di assegnazione dei 'contenuti
premium' (essenzialmente quelli sulle partite di calcio) che vedano
in lizza altre piattaforme e di rivedere l'obbligo di rivendere agli
operatori concorrenti i propri contenuti premium ad un prezzo
definito dall'Autorità.
Secondo gli uomini di Murdoch, infatti, con l'avvento del digitale
terrestre sono profondamente mutate le condizioni del mercato
italiano che avevano dettato a Monti la necessità di imporre dei
paletti all'allora monopolista della pay per view.
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Via libera di Palazzo Madama
alla cosiddetta "legge Pecorella"
che il Quirinale aveva rinviato alle Camere lo scorso 20 gennaio
Inappellabilità, sì definitivo del Senato
con le modifiche volute da Ciampi
ROMA - Via libera del Senato al
provvedimento sulla inappellabilità delle sentenze di
proscioglimento, la cosiddetta "legge Pecorella", che il Presidente
della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, aveva rinviato alle Camere
lo scorso 20 gennaio. Nonostante le continue richieste di verifica
del numero legale (a ogni voto) avanzate dall'opposizione a fini
ostruzionistici, la Casa delle libertà è riuscita a garantire il
numero legale. Il provvedimento era stato approvato dalla Camera lo
scorso 1 febbraio. La riforma dell'appello è stata approvata, senza
modifiche rispetto al testo licenziato dalla Camera, con 159 voti a
favore, 55 contrari e un astenuto. L'opposizione ha votato contro.
Il via libera del Senato, dunque, chiude la partita dopo il rinvio
della legge per il riesame da parte del Capo dello Stato. Rispetto
alla prima versione, la legge è stata modificata in diversi punti
per rispondere ai rilievi del Quirinale, modifiche giudicate
insufficienti dal centrosinistra. "Abbiamo approvato una buona
legge, e da oggi - dichiara il presidente dei senatori di Forza
Italia, Renato Schifani - si riduce il rischio che un innocente
possa essere condannato ingiustamente".
Lapidario il commento del vicepresidente del Csm, Virginio Rognoni:
"Purtroppo era prevedibile". Così come la reazione dell'Associazione
nazionale magistrati: "Abbiamo già espresso le nostre critiche. La
nuova legge ci sembra sbagliata, sia per quanto riguarda il giudizio
di Cassazione, sia per l'inappellabilità delle sentenze di
assoluzione" afferma il presidente del sindacato delle toghe, Ciro
Riviezzo, per il quale la riforma "non è stata nemmeno adeguata ai
rilievi del Capo dello Stato. Si tratta di un'altra brutta legge".
Al momento del voto l'opposizione ha protestato mostrando dei
disegni colorati con Silvio Berlusconi nei panni di Napoleone,
sorridente mentre guarda una pecora che ha il volto del presidente
della commissione Giustizia della Camera, Gaetano Pecorella.
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14 febbraio
L'iniziativa è di una società che offre sistemi di
sicurezza
E scoppia la polemica: "E' violazione della privacy"
Cincinnati, dipendenti "marchiati"
Inserito un chip sotto la pelle
La
difesa: "Non è un sistema per seguire le persone"
WASHINGTON
- C'è chi parla di un vero e proprio marchio sulla pelle dei
cittadini.Suscita polemiche l'iniziativa di una compagnia dell'Ohio
che offre sistemi di sicurezza che ha inserito un rivelatore
elettronico d'identità sotto la pelle dei suoi dipendenti. Un modo,
spiegano dalla 'CityWatcher' per agevolare l' identificazione dei
dipendenti.
La targhetta elettronica consente alla compagnia di controllare
l'accesso ad una stanza del suo quartier generale a Cincinnati dove
sono conservate immagini inviate dalle telecamere di sorveglianza
vendute ai clienti. L'iniziativa, rivelata oggi dal quotidiano
Financial Times, ha suscitato immediate reazioni negative da parte
dei gruppi che difendono la privacy dei cittadini. "Marchiare in
modo permanente le persone solleva importanti interrogativi legati
alla privacy e ai diritti civili", ha osservato Liz McIntyre.
"Non c'è niente nei microchip che emetta pulsazioni o segnali radio
di alcun genere - ha affermato il responsabile della società Sean
Darks - Non è un sistema per seguire gli spostamenti delle persone.
Mia moglie non può sapere dove sono".
I microchip sono stati creati soprattutto per scopi medici: nella
targhetta possono essere inserite le informazioni vitali sul
curriculum sanitario di una persona. Ma i critici di questa nuova
tecnologia sono preoccupati soprattutto dalla possibilità che i
microchip possano essere usati per seguire gli spostamenti delle
persone che accettano la installazione dei dispositivi elettronici.
Questa tecnologia è da tempo usata in altri campi, come la
identificazione degli animali domestici o quella dei pacchi postali
in transito. Milioni di animali domestici hanno ricevuto negli Stati
Uniti la targhetta elettronica d'identità che si è rivelata efficace
per il ritrovamento dei cani e dei gatti smarriti.
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Sbatti il
gay in prima pagina. Caccia alle streghe in Camerun
I giornali del paese sub-sahariano pubblicano una lista di
omosessuali, in un paese in cui l'omosessualità è legalmente
perseguita
Nomi eccellenti Nell'elenco anche alcuni ministri. Sullo sfondo
della vicenda un possibile scontro all'interno del partito del
presidente Paul Biya, in vista di un prossimo rimpasto di governo
IRENE PANOZZO*
Una vera e propria lista di
proscrizione. Pubblicata e ripubblicata su tabloid scandalistici,
che sono andati a ruba tra la popolazione del Camerun, richiamata
alle edicole da titoli come «Ecco le checche di casa nostra» e
«Devianza: la lista completa degli omosessuali del Camerun». Si è
aperta così nelle settimane scorse un'insolita caccia alle streghe.
Che rischia di fare però vittime eccellenti, visto che nelle famose
liste compaiono ministri della repubblica, uomini politici,
imprenditori, artisti e perfino un vescovo. L'effetto è stato
dirompente. Perché in Camerun l'omosessualità non solo non è
socialmente accettata, ma è anche perseguibile per legge. È
un'eredità del vecchio codice penale di epoca coloniale, che
all'articolo 347 stabilisce che ogni persona che abbia relazioni
sessuali con un'altra dello stesso sesso può essere punito con una
pena che va dai sei mesi ai cinque anni di carcere e con un'ammenda
che può variare tra i 20mila e i 200mila franchi Cfa (dai 30 ai 300
euro). Ma se chi commette il reato è minore di ventun anni, la pena
è automaticamente raddoppiata.
Finire sulle prime pagine dei giornali nazionali non è quindi uno
scherzo. E le reazioni dei diretti interessati non si sono fatte
attendere. A parlare per tutti è il ministro della comunicazione,
Pierre Moukoko Mbonjo, che ha domandato come i giornalisti che hanno
redatto le liste pensano di dimostrare in tribunale le accuse mosse
contro i presunti omosessuali. A meno che, ha concluso affondando il
colpo, non siano loro stessi i partner di coloro che sono stati
citati dai giornali. Ha poi raddrizzato il tiro, sostenendo che «sia
che siano eterosessuali sia che siano omosessuali, i comportamenti
sessuali sono una questione privata che riguarda due persone in un
ambiente intimo».
Un'affermazione che però è molto lontana dal sentimento diffuso tra
la popolazione e che i direttori dei giornali impegnati nella caccia
alle personalità gay stanno facendo di tutto per smentire. Fino ad
arrivare ad arrogarsi il diritto e il dovere di «purificare» la
nazione dal virus dell'omosessualità. «L'amore tra gli uomini è
disgustoso», ha dichiarato il direttore di L'Anecdote, uno dei
giornali che si sono gettati a pesce sullo scandalo. «Può essere
normale in Europa», ha continuato, «ma in Africa e in Camerun è
impensabile». Parole che ricordano da vicino quelle di personaggi in
vista della scena politica africana, come il controverso presidente
dello Zimbabwe Robert Mugabe, che ha abituato cronisti e popolazioni
con esternazioni spesso eccessive sul tema.
Lo straparlare di Mugabe o il caso camerunese si inseriscono in un
panorama, quello africano, di radicata e persistente omofobia. Nella
maggior parte dell'Africa sub-sahariana l'omosessualità è fuorilegge
(alcuni paesi prevedono l'ergastolo o la pena di morte per i gay) e
non è un argomento di discussione pubblica. In molti casi, anche lo
status legale dell'omosessualità non dice molto sul reale stato dei
gay e lesbiche, visto che solitamente i tabù hanno una rilevanza
maggiore delle leggi. Ciò non significa che comunità omosessuali,
per quanto underground, non esistano. Ma non essendo un argomento di
discussione, anche il livello di consapevolezza individuale
dell'omosessualità può essere basso. Unico caso decisamente in
controtendenza è il Sudafrica, unico paese al mondo con una
costituzione che proibisce esplicitamente qualsiasi tipo di
discriminazione nei confronti delle minoranze sessuali (e dove i
matrimoni omosessuali sono diventati legali lo scorso dicembre).
Ma nel caso delle liste sui giornali camerunesi non c'è solo la
semplice omofobia a muovere le fila dello scandalo. Alcuni
osservatori hanno voluto vedere dietro a tutto questo bailamme delle
manovre politiche causate da una lotta di potere interna al partito
del presidente Paul Biya, in vista di un prossimo rimpasto di
governo. Ma ci sono anche gli interessi commerciali dei giornali,
che in pochi giorni hanno visto crescere vertiginosamente le proprie
vendite. E mentre i prezzi delle singole copie si decuplicavano, le
fotocopie delle liste hanno raggiunto quotazioni astronomiche al
mercato nero.
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Diritti al
lavoro», le proposte della Cgil in un libro
ANTONIO SCIOTTO
Cancellare la legge 30 e riportare
al centro il rapporto a tempo indeterminato; lotta al sommerso,
diritti agli immigrati, riforma di scuola, università e collocamento
pubblico. Le proposte della Cgil per cambiare segno sono contenute
nel volume «Diritti al lavoro» (edizioni Ediesse), a cura di
Alessandro Genovesi, Marica Guiducci e Claudio Treves, del
dipartimento mercato del lavoro. «Raccoglie le elaborazioni degli
ultimi anni di battaglie, un quinquennio di "atti e passioni" Cgil -
spiega Genovesi - Sono le nostre alternative alla legge 30 ma anche
al pacchetto Treu; alla Bossi-Fini e al decreto Moratti. E non è un
caso che il libro esca in questo periodo, quando chi si candida a
governare presenta i suoi programmi. Non facciamo mistero di
guardare con maggiore attesa nei confronti dell'Unione, ma Guglielmo
Epifani lo dice chiaro nella prefazione: la Cgil giudica le proposte
e il futuro governo a partire dai propri testi ed elaborazioni, e in
questo intende rimarcare la sua autonomia». Sulla legge 30 si
presentano le proposte di legge Cgil, firmate da 5 milioni e mezzo
di cittadini: va riportato al centro il rapporto a tempo
indeterminato, creando la nuova figura del «lavoratore
economicamente dipendente», chiaramente distinto dall'autonomo, e
sopprimendo l'area grigia dei cococò e cocoprò, sfruttati spesso
come «dipendenti mascherati». I rapporti a termine vanno limitati
alle causali stabilite per contratto, e non possono essere reiterati
oltre un certo numero di volte (anche queste stabilite dai
contratti). Va sostituito il contratto di inserimento con il
«contratto di inclusione», che non penalizza le fasce deboli.
L'apprendistato deve essere limitato a 4 anni e il lavoratore non va
più sottoinquadrato. Si riporterebbe - sottolinea la Cgil - la
contrattazione e il contratto nazionale alla parità con la
legislazione, come era prima della legge 30 e dello stesso pacchetto
Treu. Gli ammortizzatori sociali vanno estesi a tutte le categorie:
ma soprattutto come cassa integrazione e sostegno al lavoro, non
tanto al reddito.
L'impostazione generale è insomma quella di tutelare il cittadino
sul posto di lavoro e non solo nel mercato, a differenza di altri
punti di vista (in particolare quelli dell'ala «riformista»
dell'Unione) che preferiscono rafforzare il solo welfare, per
sostenere la flessibilità e poter indebolire il lavoro. Lo stesso
programma licenziato ieri dall'Unione, necessario compromesso tra
queste due filosofie, deve aver lasciato la Cgil (o almeno la sua
parte più avanzata) con la bocca amara.
Sul lavoro nero si propone il concetto di «indice di congruità»,
ovvero il ritorno alla responsabilità dell'impresa: sarà quest'ultima,
quando gareggia per un appalto, chiede finanziamenti o un tot di
apprendisti, a dover dimostrare che il numero di lavoratori
impiegati è compatibile con la sua produzione e il fatturato. Si
mette fine all'esperienza dei contratti di riallineamento, le
imprese vanno incentivate con fondi nazionali ad hoc e accordi
locali. Le risorse si troveranno con la lotta all'evasione, per
recuperare parte dei 200 miliardi di euro che sfuggono ogni anno al
fisco, e quei 16 miliardi di mancati versamenti all'Inps.
Sugli immigrati, la Cgil aveva già proposto a Bari, l'anno scorso,
quel principio oggi accolto dal programma dell'Unione: concedere il
permesso di soggiorno agli extracomunitari che denunciano le imprese
che li occupano in nero.
«Le proposte parlano a 8 milioni di persone, un quarto dell'intera
forza lavoro del paese - conclude il rappresentante della Cgil -
Sono i quattro milioni e mezzo di precari e i quattro milioni di
sommersi, spesso "interscambiabili" da un ruolo all'altro, tutti
parte di quel "lavoro al margine" a cui le forze politiche italiane
devono dare una risposta».
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La
scommessa di Zapatero
Laboratorio Spagna Da dove viene,
che cosa pensa, dove guarda il premier spagnolo maledetto dai
benpensanti italiani. La cornice culturale del «socialismo dei
cittadini» e l'idea di libertà che autorizza i matrimoni gay e
strappa la tv ai partiti. Un libro-intervista di Marco Calamai e
Aldo Garzia
IDA DOMINIJANNI
Quando Luìs Rodriguez Zapatero annuciò il ritiro immediato delle
truppe spagnole dall'Iraq erano passate appena cinque settimane
dalla vittoria del Psoe alle elezioni del 14 marzo 2004 e dalla sua
elezione a premier. Colpì allora, oltre al fatto, lo stile: scarno e
diretto, sobrio e definitivo. Non c'erano se, ma, forse, potremmo,
chissà. Davanti alle telecamere il giovane premier disse
semplicemente: «Ho ordinato al ministro della difesa di ritirare le
nostre truppe dall'Iraq», punto e fine della trasmissione. Dai
commentatori italiani che da lustri invocano, a ragione e a torto,
la virtù della decisione nella leadership politica ci si sarebbe
aspettato qualche apprezzamento, invece cominciò la denigrazione
sistematica, perché il giovane Bambi aveva osato troppo. Poi Bambi
osò sempre di più, sulle donne al governo, sui rapporti con la
chiesa, sui matrimoni omosessuali, sul sistema televisivo, e la
denigrazione continuò fra i benpensanti di destra, mentre fra i
benpensanti di sinistra caddero il silenzio e l'imbarazzo. Zapatero,
basta la parola e il centrosinistra italiano entra nel panico: ogni
cosa che lui fa in Spagna è una scossa di terremoto per una
coalizione attaccata con lo scotch, nella quale può accedere che
siano candidati in contemporanea Vladimir Luxuria e la presidente
del comitato «Scienza e vita». Leggendo la lunga intervista al
premier spagnolo che costituisce la parte centrale di Zapatero. Il
socialismo dei cittadini (Feltrinelli) di Marco Calamai e Aldo
Garzia, si capisce adesso che quello stile sobrio e deciso del
ritiro dall'Iraq non era occasionale ma è una cifra del personaggio.
Il quale ha una risposta sobria e decisa, senza se, ma, forse,
potremmo, chissà, per ogni grande questione - democrazia, libertà,
globalizzazione, guerra, memoria - che gli intervistatori gli
pongono e che in altri intervistati eventuali di casa nostra
provocherebbero un numero infinito di circonlocuzioni evasive e
diversive. Esempi. Sui rapporti con la Chiesa: «Il mio governo non
desidera in alcun modo scontrarsi con la chiesa cattolica né con
altre organizzazioni religiose. Ma è la nostra Costituzione a
stabilire il carattere aconfessionale dello stato spagnolo». Sui
matrimoni gay: «Abbiamo riconosciuto un diritto a coloro che prima
non lo avevano, senza ridurre di una virgola la libertà di coloro
che a quel diritto non sono interessati». Sulla riforma che accelera
le procedure per il divorzio: «Il diritto al matrimonio comprende
anche la libertà di scioglierlo, quando il progetto di coppia è
fallito». Sul ritiro dei simboli franchisti dai luoghi pubblici:
«Non mi risulta che esistano paesi democratici dove si conservino le
statue dei dittatori. La cosa normale è che questi simboli non ci
siano. Mi sembra un fatto ovvio». Sulla riforma del sistema
televisivo: «Durante la campagna elettorale avevo detto: `Voglio
essere il politico che strappa la televisione ai politici e la
restituisce ai cittadini'. Sto facendo ciò che avevo detto». E via
così.
Ne viene fuori non solo l'immagine di un leader che pratica quello
che predica, cioè che in politica il primo comandamento è «non
tradire la parola data». Ma anche e soprattutto quella di un
socialista senza sensi di colpa rispetto alla sua provenienza.
Zapatero non si sente in obbligo di scusarsi per essere dalla parte
dei diritti di libertà, del welfare dei più deboli, della democrazia
partecipata; né sente il bisogno di prendere ogni poco le distanze
dal socialismo novecentesco, dai suoi errori e dai suoi fallimenti.
Tutt'al contrario, dice e comunica l'orgoglio sereno di chi lavora
per rilanciare il nocciolo della sua tradizione. Che per lui è un
nocciolo di libertà: «Il socialismo è libertà. Non ci può essere
socialismo senza libertà e senza democrazia», e se una colpa ha
avuto il socialismo novecentesco è stata quella di mettere questo
fronte in secondo piano rispetto a quello dell'economia e della
giustizia sociale.
Calamai e Garzia, entrambi ottimi conoscitori della storia e della
sinistra spagnole, giustamente inquadrano queste posizioni di
Zapatero all'esito della lunga vicenda che va dall'uscita dal
franchismo al Psoe di Gonzales all'ascesa e declino della destra di
Aznar. A chi legge, viene spontaneo invece il confronto con i sensi
di colpa della sinistra italiana di oggi e con il suo conseguente
moderatismo; e non suonano stonati i riferimenti a Bill Clinton e a
Tony Blair che Zapatero fa pur rimarcando le diversità della sua
politica rispetto alle loro. In tutti e tre i casi - fatte salve le
distanze, specie da Blair, su questioni cruciali come l'Iraq e
l'Europa - ha funzionato un rapporto fra discontinuità e tradizione
che ha saputo imprimere un colpo di accelerazione e di inventiva
alla politica, mentre nel caso italiano quel rapporto s'è bloccato,
producendo insieme cattiva continuità e cattiva innovazione.
Vale la pena dunque di leggere con attenzione le parti
dell'intervista dedicate agli ingredienti culturali del laboratorio
Zapatero: l'idea di libertà come «non dominio», ben diversa da
quella liberal-liberista di libertà come affrancamento dallo stato e
dal pubblico; la concezione del rapporto fra governo e autogoverno
che regge l'impalcatura istituzionale delle autonomie e delle
municipalità; l'accento sul «quarto pilastro» del welfare per i
cittadini meno autonomi di altri per ragioni di reddito, di salute,
di età, di carico familiare; la salda convinzione che dal
coinvolgimento femminile sia la democrazia a guadagnarci, prima che
le donne. Idee che contano - «per me le idee sono molto importanti
in politica come nella vita» -, anche se «non abbiamo alcuna
ortodossia da offrire, perché la maggior parte della vita sta fuori
da qualsiasi ortodossia». Poi c'è lo stile, come un messaggio in
bottiglia per chi voglia raccoglierlo: «Penso che le persone che
meglio sanno esercitare il potere sono quelle che non lo amano, non
lo rincorrono con ansia, non sentono nei suoi confronti un
attaccamento insano. Chi ama molto il potere non è capace di correre
rischi e non realizza il cambiamento. La sinistra non può arrivare
al potere per gestirlo un po' meglio della destra. Deve andarci per
realizzare i suoi principi, e dimostrare che la sua differenza porta
benefici alla maggioranza». Se è potuto accadere, come osservano
Calamai e Garzia, che mentre a fine anni 70 la sinistra italiana era
un punto di riferimento per quella spagnola oggi è l'inverso,
qualche ragione c'è.
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13 febbraio
Il consumo delle carni bianche
ridotto del 35%, persi 600 milioni
Le organizzazioni di settore chiedono la proclamazione dello stato
di crisi
Aviaria, allarme dei produttori
"Cassa per 30.000 dipendenti"
La Cgil: "Sono a rischio 200mila posti di lavoro"
L'influenza
aviaria ha ridotto il mercato delle carni bianche del 35%
ROMA
- Dall'inizio della diffusione dell'influenza aviaria nel mondo, il
mercato delle carni bianche in Italia ha registrato una contrazione
dei consumi pari al 35%. L'emergenza H5N1 è costata al settore
avicolo già 600 milioni di euro. Uno studio realizzato dall'Istituto
Piepoli di Milano conferma la preoccupazione dei produttori già
denunciata nell'ottobre scorso da Gaetano De Lauretis presidente
dell'Avitalia, l'Unione nazionale della associazioni di produttori avicunicoli.
"Un miliardo di danni per il settore". Il segretario della Flai-Cgil
Franco Chiriaco, ha calcolato che l'allarme aviaria mette in
pericolo duecentomila posti di lavoro. Secondo una stima della
Cia-Confederazione italiana agricoltori italiana, è corretto
prefigurare "un danno all'avicoltura nazionale non inferiore ad un
miliardo di euro in un settore che ha un fatturato di quattro
miliardi di euro, tre per le carni e uno per le uova".
"I polli italiani sono sicuri". "Eppure il virus dell'influenza
aviaria - assicura la Confagricoltura - riguarda esclusivamente
volatili selvatici e non c'è alcuna presenza della malattia negli
allevamenti italiani. La carne avicola nazionale ha tutti i
requisiti necessari in termini di sanità, salubrità e, naturalmente,
di qualità".
"La situazione è drammatica". Paolo Bruni è il presidente di
Fedagri-Confcooperative, la federazione delle cooperative agricole e
agroalimentari italiane che associa circa il 90% dei principali
produttori del settore: "Le notizie di queste ore rischiano di dare
il colpo definitivo al settore zootecnico. Per gli oltre 7.000
allevamenti, i 900 mangimifici, i circa 700 laboratori di
lavorazione, i 180.000 addetti diretti e indiretti che compongono il
settore, la situazione si è drammatica".
Trentamila in cassa integrazione. "Il settore avicolo italiano è
retto per il 90% da aziende cooperative", spiega Paolo Bruni. "La
stagnazione del mercato ha costretto le cooperative a congelare 30
milioni di polli. Dall'inizio dell'anno, 30mila lavoratori sono
stati messi in cassa integrazione e si sono registrati punte di calo
nelle vendite che hanno sfiorato il 60%. Il restante 40% viene
venduto alla metà del suo valore".
"Serve lo stato di crisi". Gaetano De Lauretis, presidente di
Avitalia, l'unione nazionale delle associazioni di produttori
avicunicoli, lancia due appelli: uno al governo, l'altro ai
consumatori. Ai politici chiede contributi economici: "Basta
proclami: è ora che l'esecutivo dichiari lo stato di crisi per il
settore avicolo. Bisogna sospendere i pagamenti dei contributi
previdenziali e tributari". Ai consumatori, il presidente di
Avitalia rivolge un invito: ''Continuate a consumare carne di pollo
italiana: non c'è nessun pericolo".
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Bush gioca la carta del
terrore con il fasullo
piano dell'attacco a Los Angeles
Di Paul Joseph Watson PrisonPlanet.com 10 febbraio 2006
Traduzione per www.disinformazione.it di Stefano Pravato
Le reti dei
media compiacenti si conformano convenientemente mostrando
drammatiche immagini della distruzione della Library Tower
Con una messinscena ben
orchestrata, George W. Bush ha annunciato che nel 2002 è stato
sventato un piano per schiantare un aeroplano sulla Library Tower di
Los Angeles, e dopo pochi minuti i notiziari delle varie emittenti
stavano mostrando lo spezzone del film Independence Day in cui
proprio quell'edificio viene distrutto.
Bush ha affermato che l'attacco è
stato evitato solo grazie all'aiuto fornito dalla sorveglianza sulle
comunicazioni effettuate dalla NSA, un tentativo di zittire le
critiche dello scandalo delle intercettazioni illecite con una mossa
tanto sofisticata quanto può esserlo un corpulento Hooligan dopo una
bevuta abbondante.
Il sindaco di Los Angeles, Antonio
Villaraigosa, ha immediatamente indetto una conferenza stampa
esprimendo il suo assoluto sconcerto a riguardo del supposto piano.
"Sono sorpreso che il presidente
abbia fatto questo (annuncio) alla TV nazionale e non ci abbia
informato di questi dettagli usando i canali predisposti", ha
affermato il sindaco in un'intervista con l'Associated Press. "Non
mi aspettavo una chiamata dal Presidente — ma da qualcun altro".
A distanza di minuti dal discorso
del Presidente, i networks televisivi stavano mostrando immagini
tratte dal film Independence Day , in cui la Library Tower viene
distrutta a seguito dell'invasione aliena.
Dobbiamo capire che se il sindaco
era completamente all'oscuro del supposto piano terroristico con
ogni probabilità ciò vuol dire che il piano è stato completamente
inventato da Karl Rove e dai sui compagni sceneggiatori. E ciò vuol
dire che hanno dovuto scegliere un bersaglio e hanno scelto la
Library Tower sapendo perfettamente che i notiziari dei networks
avrebbero mostrato immagini della sua distruzione tratti dal film
Independence Day.
Nella mente degli spettatori
passivi questa informazione penetra nella corteccia cerebrale come
se fosse reale, e sospendono pertanto l'incredulità e accettano la
nozione che l'edificio è stato distrutto dai terroristi. E' questo
il residuo che rimane nella psiche dello spettatore e la validità
della risposta del governo all' 'attacco' risulta in questo caso
incontestabile, al termine della validità del Patriot Act e
giustificando le intercettazioni illegali sugli Americani.
Stavolta non si tratta di una
debole teoria cospirativa, la suggestionabilità dovuta alla
televisione è un fatto scientifico accertato da decenni.
Il fatto rappresenta una campagna
deliberatamente organizzata per il controllo mentale e la genesi
della paura. Hanno calato la carta del terrore talmente tante volte
che le impronte della falsità possono essere rilevate e controllate
quasi immediatamente.
Queste sono le stesse persone che
vi hanno mostrato i nastri contraffatti delle 'confessioni' di Bin
Laden trovati in una baracca di Jalalabad e che possono come
preveggenti predire nastri che collegano Osama a Saddam messi in
onda da Al Jazera giorni prima che questi nastri siano ritrovati.
Inoltre, come sottolinea Kurt Nimmo,
uno dei supposti capi dell'operazione, Riduan Isamuddin, era “capo
operazioni” di Jemaah Islamiyah, che era una creazione dell'
intelligence Indonesiana ed è ampiamente riconosciuto come sia
completamente controllata dalla CIA.
Se il governo avesse realmente
sventato un attacco su Los Angeles, potreste scommettere fino
all'ultima monetina che lo avrebbero ben sventolato di fronte alle
facce della folla pacifista prima di invadere l'Iraq nel marzo 2003.
Si tratta di una mossa politica per
guadagnare punti, ovvia, come ne vedrete altre. E' stata creata
deliberatamente e artificialmente per spegnere le critiche infuocate
sulle intercettazioni illegali della NSA.
Anche se il dibattito sulle
intercettazioni verte sulle telefonate all'estero, questo è successo
quando il problema reale è il fatto ammesso che il Pentagono e altre
agenzie governative sono state sorprese, e continuano a farlo, a
spiare i pacifici gruppi anti-guerra e attivisti interamente
costituiti di cittadini Americani.
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In rialzo
nell'anno appena chiuso soltanto il comparto dell'energia
Mentre scendono calzature, abbigliamento, apparecchi elettrici
Istat, produzione -1,8% nel 2005
è il dato peggiore dal 2000
A dicembre -2,5%. Balzo degli autoveicoli: +27,5%
ROMA
- La produzione industriale del 2005 è diminuita dell'1,8 per cento
rispetto all'anno precedente. Lo comunica l'Istat, precisando che il
dato corretto per giorni lavorativi è - 0,8 per cento(nel 2005 ci
sono stati quattro giorni lavorativi in meno rispetto al 2004). Si
tratta del dato peggiore dal 2000 in termini grezzi e dal 2002 al
netto dell'effetto dei giorni lavorativi.
A dicembre, l'Istat ha rilevato una
diminuzione del 2,5 per cento rispetto a dicembre 2004. Lo stesso
dato corretto per i giorni lavorativi si è tradotto in dicembre in
un aumento del 3,5 per cento (i giorni lavorativi sono stati 20
contro i 22 di dicembre 2004). Rispetto a novembre, la produzione ha
invece registrato un rialzo dell'1,2 per cento.
Nel confronto tra la media del 2005
e quella dell'anno precedente, l'unico raggruppamento che ha segnato
una variazione positiva è quello dell'energia (più 4,2 per cento).
Hanno presentato variazioni negative del 2,4 per cento i beni di
consumo (meno 3,2 per cento i beni durevoli e meno 2,1 per cento i
beni non durevoli), dell'1,5 per cento i beni strumentali e dell'1,1
per cento i beni intermedi.
In dettaglio, gli aumenti maggiori
hanno interessato i settori dell'estrazione di minerali (più 7,3 per
cento), delle raffinerie di petrolio (più 3,8 per cento) e
dell'energia elettrica, gas e acqua (più 2,6 per cento).
Le diminuzioni più accentuate hanno
riguardato i comparti delle pelli e calzature (meno 7,7 per cento),
del tessile e abbigliamento (meno 6,5 per cento) e dei mezzi di
trasporto e degli apparecchi elettrici e di precisione (entrambi
meno 4,6 per cento).
In calo, nella media annua, anche
la produzione di autoveicoli (- 4,2 per cento in termini grezzi e -
2,8 per cento il dato corretto per giorni lavorativi); sulla media
d'anno nel 2005 la produzione di autovetture è calata del 12 per
cento. Ma a dicembre si registra invece un fortissimo balzo in
avanti: la produzione di autovetture è salita, rispetto allo stesso
mese del 2004, del 27,5 per cento (dato grezzo). Per quanto riguarda
gli autoveicoli, sullo stesso mese dell'anno precedente, la
produzione è aumentata del 12,7 per cento in termini grezzi e del
25,2 per cento rispetto al dato corretto.
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12 febbraio
Chiese, proloco
e stradine di campagna
così finiscono
le briciole di una legislatura
ROMA - In limine mortis i deputati
si sono teneramente divisi gli spiccioli di una legislatura. Come si
fa alla prima vincita di un ambo del lotto: pochi euro da spartirsi
in quaranta. Giovedì nove febbraio nel bollettino ufficiale della
Camera le ultime commoventi richieste, avanzate in una risoluzione
delle commissioni riunite Bilancio e Lavori pubblici, al ministro
Tremonti. Spese minute, come quando si va al supermarket e alla
mamma si raccomanda: ricordati di carote, nutella, corn flakes!
Cose piccole per un'Italia piccola,
anzi piccolissima. Stradine di campagne, balaustre di oratorio, i
cancelli delle proloco. Regalini, il poco che si è riusciti a
concedere in una situazione economica sempre ossessivamente ostile e
disperata.
Sono i preti di campagna, i parroci
dei paesi, a cui, devoti, i rappresentanti del popolo in periodo
preelettorale indirizzano sempre un caloroso segno di amicizia e
solidarietà. Un abbraccio e un obolo, da infilare nel cassetto della
sacrestia. Quattromila euro alla parrocchia San Giovanni di
Avigliana, centomila a quella di Osnago, trentamila alla diocesi di
Patti. Cinquantamila, e ancora altri cinquantamila, e ancora
cinquantamila: Sacro Cuore, Beata Vergine di Maria, San Giuseppe e
San Salvatore, Santa Maria Maggiore e prega sempre per noi, San
Carlo, Santo Spirito, San Nicola di Bari, San Gabriele Arcangelo.
Tutti i Santi, insomma. E in tutte
le contrade d'Italia. Casola di Napoli, Umbertide, Marcianise,
Fragagnano, Paola, Cittadella, Vigodanzere, Spadarolo di Rimini.
Nord, sud, centro e isole. Ovunque: cinquemila, cinquantamila,
centomila euro. Le parrocchie riunite per diocesi, le diocesi
identificate sui collegi elettorali.
A sud di Torino (Giaveno, Avigliana
e località limitrofe), c'è la mano dell'onorevole Osvaldo Napoli, di
Forza Italia. Uomo minuto, del fare. Persona generosa, volitiva,
sempre piena di slancio. E sindaco itinerante: "Dopo Giaveno, mi
vorrebbero ad Avigliana. Sanno che con me i paesi rinascono. Non sa
se verrà rieletto, ma sa che questa possibilità è l'ultima utile.
Fratelli e sorelle, votate per lui. E votate, se potete, anche per
il collega e amico Gioacchino Alfano, da Sant'Antonio Abate:
settantamila euro alla Pro Loco, diecimila per la "costruenda"
Chiesa di Saviano, il campo di bocce a Santa Maria La Carità
(ventimila, grazie).
Ci sono anche interventi più
possenti. Sono gli zeri che determinano i gradi e anche
l'autorevolezza dell'intervento. Angelino Alfano, coordinatore
siciliano di Forza Italia, ha sicuramente a cuore Agrigento, che
custodisce i maestosi templi.
Ma ad Agrigento l'acqua è un
problema. Senz'acqua la città non si lava. Dunque è sporca. E
allora, via: acqua e sapone per novecentomila euro complessivi. Sarà
una toilette meticolosa. La dizione esatta è: interventi di pulizia
straordinaria della città. Carte e cartacce, bidoni, marciapiedi
sporchi. Quasi tre miliardi per scope, scopini, pulitori e
pulitrici.
In questa vigorosa lotta all'ultimo
euro, nell'epico sforzo di raccogliere le briciole, i deputati
italiani hanno mostrato compattezza e generosità, in un tentativo di
sistemare geograficamente con equilibrio e prudenza ogni centesimo
disponibile e spendibile. Dieci pagine scritte fitte, gli assegni da
firmare con la preghiera, signor ministro Tremonti, che la maggior
parte dei soldi vadano alle case di Cristo.
L'opposizione non ha menato
scandalo. Ha tentato, senza pienamente riuscirvi, di sostenere
qualche amico. Poi si è arresa. Il fascicolo è ormai chiuso, quello
che si poteva fare si è fatto. Amen.
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8 febbraio
L’oro blu di Sigonella.
Quanto ci costano gli USA
Angelo Mastrandea – Fonte:
www.ilmanifesto.it - 31/01/2006
Visto su
http://www.comedonchisciotte.org/site/index.php
L'Italia di Berlusconi e l'«amico»
Bush. Così manteniamo le basi americane
Nella base siciliana, tra bollette
«calmierate» e vantaggiosi buoni benzina che alimentano gli
incidenti stradali. Come gli americani sperperano acqua ed energia
elettrica e come gli italiani contribuiscono a finanziare gli
sprechi
C'è fango, molto fango tra gli hangar, i
depositi di munizioni e la cittadella made in Usa di Sigonella. Non
è una metafora e questa volta non c'entra la mafia che pure di fango
ne ha sparso e secondo qualcuno continua a spargerne fuori e dentro
i dieci chilometri di filo spinato che circondano una base in
continua via di ampliamento. Quello che le ruspe continuano
incessantemente a spalare dalla metà di dicembre è il prodotto di
quanto la natura ha voluto improvvisamente riprendersi quando i due
fiumi che circondano l'area militare hanno deciso di riunirsi in un
unico pantano melmoso. Quello che il deputato regionale Lillo
Micciché, trapiantato ai Verdi da Rifondazione comunista, definisce
sorridendo come il risultato dell'espropriazione delle terre ai
contadini. «Se fossero stati coltivati, questi terreni avrebbero
tranquillamente assorbito l'acqua piovana e quella esondata dai
fiumi». Invece, è bastata un'alluvione a inceppare una delle
strutture militari strategicamente più importanti del Mediterraneo,
vuoi per il ruolo logistico svolto vuoi per un'altra funzione nel
frattempo acquisita: il controllo aereo del Mediterraneo alla
ricerca dei barconi di «clandestini».
Sorveglianza delle frontiere della «fortezza
Europa» ma anche soccorso quando le imbarcazioni, spesso e
volentieri, vanno alla deriva, ci tiene a far sapere il colonnello
Antonio di Fiore, comandante italiano della base.
Chi paga le bollette?
L'acqua pare essere così l'elemento
predominante in questo lembo di Sicilia, provincia degli States, che
di solito fa notizia per siccità e penuria. E il metro e più di
fanghiglia che hanno sommerso la base tra il 13 e il 14 dicembre
appaiono come una nemesi per una base che spreca «oro blu» più di
qualsiasi comune italiano: circa 700 mila galloni al giorno, e se un
gallone sfiora i 4 litri vuol dire oltre 976 milioni e 530 mila
litri all'anno, su una popolazione di circa 5 mila persone tra
militari, loro familiari e operai civili. Fatto qualche altro
calcolo, se ne desume che il consumo pro-capite è di circa 210 mila
litri all'anno, «un valore nettamente più altro del consumo medio di
una città italiana di grandi dimensioni (circa 180 mila litri per
abitante, dove però solo il 35-40 per cento è realmente imputabile
al consumo casalingo, mentre il resto è destinato a usi civili,
industriali e agricoli)», scrivono in un dettagliato dossier gli
attivisti del Comitato per la smilitarizzazione di Sigonella,
protagonisti nel passato anche di affollate manifestazioni
antimilitariste, in particolare alla vigilia della seconda guerra
del Golfo, quando dalle basi italiane partivano armi e mezzi
americani per l'Iraq. Cosa ne facciano i militari di tutta quest'acqua
non è dato sapere, ma di sicuro costituisce un problema anche per le
autorità Usa, che hanno avviato campagne di sensibilizzazione del
personale e delle loro famiglie per ridurre quelli che loro stessi
definiscono «sprechi e abusi». E che tradotti in cifre fanno
1.226.400 dollari all'anno, per il rifornimento e la
potabilizzazione.
Ma chi paga tutti questi soldi? A porsi più
di un dubbio è il deputato verde Mauro Bulgarelli, forte delle cifre
provenienti direttamente dal Congresso Usa. Secondo le quali
l'Italia pagherebbe il 37 per cento dei «costi di stazionamento»
delle forze armate Usa nel nostro paese. In gergo tecnico si chiama
burden sharing, «condivisione del peso», in soldoni fanno centinaia
di milioni di dollari, sotto forma di contributi diretti, una minima
parte, e di cosiddette facilities, «agevolazioni». Vale a dire
sgravi fiscali, sconti e forniture gratuite per trasporti, tariffe e
servizi per i soldati e le loro famiglie. Ad esempio, nel 2002 il
contributo sarebbe ammontato a 326 milioni di dollari, tre dei quali
in contanti, gli altri in facilities.
Il vantaggio di essere yankee
Dunque la questione rimane irrisolta. Perché
non ci sono solo le salate bollette dell'acqua ma anche quelle della
corrente elettrica, visto che la base divora ogni anno energia per
oltre quattro milioni di dollari. Il comandante Di Fiore assicura
che ognuno paga per quanto consuma, e solo per alcuni servizi ci
sono spese congiunte. «Gli Stati uniti pagano un affitto, dal quale
vanno sottratte alcune facilities come il carburante», spiega. E non
solo. Ad esempio, la Regione Sicilia ha erogato 388.150 euro per la
costruzione delle nuove linee di trasmissione elettrica tra la
centrale Enel di Pantano D'Arci e la base. O ancora, dall'aprile
2003 è entrato in vigore un accordo tra Us Navy, Enel e Monte dei
Paschi di Siena per assicurare ampi risparmi sulle tariffe e una
riduzione dell'Iva sulle bollette elettriche ai correntisti
dell'istituto toscano. Solo se americani, s'intende.
Non che agli americani manchino i soldi, se
è vero che l'amministrazione Bush ha stanziato, da qui al 2007 per
la sola base di Sigonella, ben 675 milioni di dollari per
consentirne il potenziamento. Una cifra che ne fa il secondo più
oneroso programma al mondo di investimenti in infrastrutture per
l'esercito a stelle e strisce impegnato nella «guerra al
terrorismo». E infatti, stando a quanto rivelato qualche tempo fa
dal quotidiano spagnolo El pais, la base siciliana sarà elevata a
«postazione avanzata» nella lotta all'islamismo radicale, insieme a
quella navale di Cadice, in Spagna. Ma il punto è che i soldi Usa
sono destinati all'ampliamento del sito e non al pagamento delle
bollette, per le quali invece gli «alleati» devono ringraziare i
contribuenti italiani, che consentono di far risparmiare ai
taxpayers americani, secondo stime dei comandi Usa, ben 190 milioni
di dollari all'anno.
Militari a tutto gas
Non bastasse, per scorrazzare liberamente
sulle strade italiane i militari Usa pagano la benzina appena 40
centesimi al litro, per un totale di 400 litri di benzina al mese a
testa. Meno della metà di un qualsiasi automobilista. Cosa che,
stando al settimanale destinato agli americani di Sigonella The
signature, alimenterebbe un fiorente traffico al nero di buoni
benzina, da 5, 10 e 20 litri , da utilizzare in qualsiasi
distributore Ip, Agip o Esso, e un discreto numero di incidenti
stradali. Circa 800 all'anno, in media 2,17 al giorno, solo in parte
giustificati dal pessimo stato delle strade che la provincia di
Catania pensa bene di mantenere piene di buche. Un problema anche
per i comandi militari, l'indisciplina dei marines. Sul quale
l'esercito e le istituzioni italiane paiono pronte a sorvolare, in
nome dell'assunto per cui «gli americani portano tanto lavoro e un
indotto economico che al sud non c'è da nessun altra parte».
Difficile dargli torto, con 1.200 civili che quotidianamente
lavorano nella base più l'indotto, il business dei rifiuti, il
vicino porto nucleare di Augusta stretto tra due petrolchimici e i
ricchi appalti per l'ampliamento. E si sa, in Sicilia quando si
parla di soldi bisogna spesso fare i conti con la mafia, come
dimostrano alcune inchieste su Sigonella che negli anni passati
hanno visto coinvolti appartenenti alla cosca catanese di Nitto
Santapaola. Ma questo è un altro capitolo.
ANGELO MASTRANDREA
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Appello
dell'associazione dei magistrati alle forze politiche
"Teneteci fuori dalla
campagna elettorale"
I giudici: "Basta attacchi o
resteranno solo macerie"
ROMA - Basta con "attacchi, insulti e
offese" alla magistratura e a singoli magistrati. "Allarma e
preoccupa" la scelta di una campagna elettorale costruita
"delegittimando l'intera categoria". Il rischio è che "questa
continua rissa, questo terremoto istituzionale provochi lo
sfaldamento dello Stato" e lasci dietro di se "le macerie delle
istituzioni, soprattutto di quelle di garanzia". E' accorato
l'appello che l'Associazione nazionale magistrati lancia "a tutte le
forze politiche e alle istituzioni". "Chiediamo con forza che la
magistratura sia tirata fuori dalla campagna elettorale e che si
parli invece dei programmi che riguardano la giustizia - dice il
leader del sindacato delle toghe Cirio Riviezzo - che non prosegua
l'attacco alla magistratura e ai singoli magistrati, dando al paese
un'immagine distorta. Chiediamo che prevalga il senso di
responsabilità".
Nel frattempo l'Anm ha convocato, sabato a
Firenze, il parlamentino dell'associazione. In quella sede verrà
formalizzata la posizione in un documento. Già si sa però che le
toghe non rivolgeranno nessun appello al capo dello Stato perché
intervenga in questa vicenda:"Non chiediamo nulla a nessuno,
esterniamo la nostra posizione a tutte le istituzioni. Qualsiasi
pressione, appello tradirebbe questa fiducia e finirebbe per
sminuire eventuali sue parole" commenta il segretario Antonio
Patrono.
Per Patrono sono "infondate" le "continue
accuse di strumentalizzazione dell'azione giudiziaria. Ma il
segretario dell'Anm respinge anche le accuse rivolte al sindacato
delle toghe di "favorire una parte politica": "Anche queste sono
accuse destituite di fondamento. Noi siamo stati contrari a tutte le
ultime riforme non per ragioni di pregiudizio politico o ideologico,
ma perchè quelle riforme hanno ricadute negative sull'efficienza
della giustizia".
Sollecitati dai giornalisti i vertici dell'Anm
parlano anche dell'ex procuratore di Milano Gerardo D'Ambrosio e
delle candidature di magistrati alle prossime politiche: sono
"scelte individuali", che non impegnano la magistratura (nessuna
toga "rappresenta" la categoria) e su cui perciò "non abbiamo nulla
da dire". Un discorso che vale tanto più per D' Ambrosio che "da tre
anni non è più magistrato" e su cui è stato montato un "caso
inventato".
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7 febbraio
La Corte dei conti frusta
il Cavaliere
I magistrati contabili denunciano lo
scandalo del condono per i tangentisti inserito nell'ultima
Finanziaria. Governo sotto accusa anche per gli sprechi delle
consulenze, per «l'evaporazione dell'imponibile» e per i contratti
pubblici senza copertura
GALAPAGOS
La Corte dei conti ha frustato il cavaliere:
durante l'inaugurazione dell'anno giudiziario della magistratura
contabile, il governo Berlusconi è stato accusato (dal procuratore
generale Vincenzo Apicella e dal presidente Francesco Staderini) di
aver commesso una serie di errori che in moti casi sono dei veri e
propri «orrori giuridici». Su tutti il condono per i tangentisti
inserito nell'ultima finanziaria. Altra accuse pesante: aver
favorito la politica degli sprechi, in primo luogo quelli
rappresentati dalle decine di migliaia di contratti di consulenza.
Di più: il governo è sotto tiro per quella che i magistrati
contabili hanno definito «evaporazione dell'imponibile»,
l'incapacità cioè di recuperare l'evasione fiscale accertata, e
l'aver imbrogliato (anche i lavoratori) siglando una mezza dozzina
di contratti per i quali non è prevista copertura finanziaria.
Partiamo dalle tangenti: la finanziaria 2006 ha previsto «un
parziale condono» per i tangentisti. Come ha spiegato il procuratore
generale Vincenzo Apicella: «nella sostanza e nel contenuto» tale
intervento ha «le connotazioni di un parziale condono, realizzato
attraverso una sorta di patteggiamento e questo mal si concilia con
il rispetto dei principi di certezza del diritto, di parità di
trattamento e di eguaglianza tra i cittadini». Il riferimento è alle
norme della Finanziaria sulle sentenze di primo grado pronunciate
nel giudizio delle sezioni contabili contro i tangentisti, secondo
cui: «i soggetti nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di
condanna possono chiedere alla competenze sezione di appello, in
sede di impugnazione, che il procedimento venga definito mediante il
pagamento di una somma non inferiore al 10% e non superiore al 20%
del danno quantificato nelle sentenze. A sua volta, la sezione di
appello delibererà in merito alla richiesta e in caso di
accoglimento, determinerà la somma dovuta in misura non superiore al
30% del danno quantificato nella sentenza di primo grado».
Analoghe perplessità sono state espresse dal presidente della
magistratura contabile, Francesco Staderini, il quale ha rilevato
che «provvedimenti di questa natura, per di più legati a situazioni
eccezionali e non ripetibili, finiscono con il creare aspettative
sul loro ripetersi e ridurre ulteriormente l'effetto di deterrenza
che rappresenta la primaria ragion d'essere dell'istituto della
responsabilità amministrativa».
Altra pesante accusa della Corte dei conti riguarda l'intensificarsi
della cosiddetta «evaporazione dell'imponibile», dovuta ai
complicati meccanismi di riscossione delle imposte. Ribadendo
l'allarme già lanciato lo scorso anno, Apicella ha sottolineato «la
bassissima percentuale di maggiore imposta accertata e
effettivamente acquisita all'erario a seguito delle fasi del
contenzioso e della riscossione da un lato, e la scarsa
sostenibilità in sede di contenzioso tributario delle contestazioni
elevate a seguito degli accertamenti effettuati dagli uffici e dai
corpi tributari dall'altro». Come dire: l'evasione vengono scovati,
mai poi lo stato non è capace di incassare le imposte evase.
Altro accusa è quella che riguarda l'attività di un governo
imbroglione nel siglare i contratti di lavoro dei pubblici
dipendenti. Staderini ha spiegato che cinque contratti di lavoro nel
settore della Sanita' non hanno avuto l'ok della Corte dei Conti
perché mancavano di copertura. E ha aggiunto: la «certificazione
positiva» della Corte è mancata in quanto esisteva «una non
esaustiva indicazione dei criteri di quantificazione degli oneri
contrattuali e l'incertezza della relativa copertura finanziaria».
Un altro contratto, relativo alla dirigenza del comparto regioni e
autonomie locali, non ha invece avuto il via libera a causa di
problematiche connesse alla mancanza di adeguati vincoli e controlli
alla contrattazione integrativa.
Infine, affrontando il capitolo degli sprechi, Apicella ha
sottolineato come moltissimi incarichi e consulenze esterne,
utilizzati soprattutto da enti pubblici locali, sono, come
dimostrano le sentenze di condanna, «non di rado al di fuori delle
ipotesi consentite dalla legge e, molto spesso, senza produrre alcun
effetto utile, anche a causa del contenuto indeterminato degli
incarichi e della loro estraneità ai fini dell'ente conferente».
Apicella ha espresso «perplessità» sull'esclusione dal tetto di
spesa annua per consulenze e incarichi, previsto dalla Finanzaria
2006, per gli enti territoriali autonomi e del servizio sanitario
nazionale dove, secondo Apicella, «maggiormente si verificano le
illecità».
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2 febbraio
Le politiche del 9 aprile
COSA
CAMBIERA’ NELLA SICILIA DEL 61 a 0 ?
di Agostino
Spataro
Quando, presentate le liste, leggeremo i nomi
delle famose “testate” decise dai vertici ristretti dei partiti che
scatteranno, su base proporzionale, nella misura dei voti di lista
riportati.
Non ci sarà voto di preferenza. Perciò il
cittadino-elettore non potrà scegliere fra i numerosi candidati.
Chissà perché la preferenza è stata prevista per le quattro
circoscrizioni estere, per l’elezione di 12 deputati e 6 senatori.
Sarà questa la prima consultazione elettorale
repubblicana in cui non si potrà esercitare il diritto, contemplato
nella vigente Costituzione, d’indicare, col voto, il proprio
rappresentante alla Camera o al Senato.
La nuova legge, imposta con la “prepotenza dei
numeri”da Berlusconi e soci, ha trasferito tale diritto dagli
elettori ai gruppi dirigenti dei partiti: il Parlamento invece che
eletto, nominativamente, dai cittadini sarà-di fatto- nominato dai
capi partito.
E dire che la norma costituzionale considera i
partiti alla stregua di associazioni di natura privata.
Con l’aggravante che molti partiti non sono un
modello di vita democratica: si va dal partito-azienda a quello di
tipo presidenziale che, da Roma o da Varese, decidono su ogni cosa,
dai parlamentari ai dirigenti territoriali.
In Sicilia la situazione peggiora poiché molti
partiti importanti sono ampiamente permeati dall’influenza della
criminalità mafiosa.
Il voto di preferenza avrebbe potuto arginare
tale deriva, ma contro di esso si è verificata la quasi unanimità
dei gruppi parlamentari, con un particolare accanimento da parte di
quelli del centro- sinistra.
Ovviamente, non tutto sta filando per il giusto
verso. Come vediamo, in questi giorni, in Sicilia e altrove. I
vertici dei partiti sono alle prese con snervanti problemi di
mediazione e di composizione d’interessi elettorali, personali e di
corrente, con quote di genere e di tessere, difficilmente
componibili in una ristretta testata di lista.
A ciò si aggiungono i complicati calcoli
matematici per sfruttare al meglio le furbesche trovate contenute
nella nuova legge. Roba da esperti di computazione.
Per l’aspirante deputato o senatore, il grande
problema è riuscire ad entrare nella “testata”.
Più che al suo elettorato, deve raccomandarsi
al notabile di riferimento, per entrare in quota. Una volta
entratovi potrà dormire sonni tranquilli.
E così avremo ambi, terne, quaterne, cinquine
di prescelti o unti del signore che capeggeranno le liste. Come nel
gioco della tombola, con la differenza che in questo si vince senza
aspettare l’uscita dei numeri.
Tuttavia, sarà difficile la quadratura del
cerchio: solo pochi saranno accontentati mentre tantissimi
resteranno scontenti e arrabbiati. Uno scenario a dir poco
deprimente che renderà arduo il completamento delle liste (chi si
candiderà sapendo di non avere speranza alcuna? ) e lo svolgimento
della campagna elettorale che si annuncia durissima e costosa.
A gran parte di questo disagio si poteva
ovviare ricorrendo alle primarie anche per la compilazione della
testata di lista che quantomeno avrebbero dato una legittimazione
democratica alle candidature e tolto dall’imbarazzo i gruppi
dirigenti.
Nel centro sinistra l’idea è caduta nel
silenzio, mentre nel centro destra qualcuno la propone, come
chiedono diversi dirigenti palermitani di AN.
Ma questo passa il convento e su questo bisogna
lavorare. Anche tenendo conto dell’ultima simulazione di calcolo
effettuata dall’Ufficio studi della Camera dei Deputati sulla
ripartizione dei 54 seggi attribuiti alle due circoscrizioni
siciliane.**
Senza dimenticare che la Sicilia è la regione
del 61 a 0, (come vedremo, irripetibile col sistema proporzionale)
dove il centro-destra conserva un forte insediamento sociale ed un
potere clientelare enorme.
Perciò non c’è nulla di scontato. I voti si
dovranno conquistare sul campo, uno per uno, con buoni programmi e
candidature di grande apertura sulla società e sul territorio.
I siciliani sono stanchi della CdL, tuttavia
tale stanchezza non si tradurrà, automaticamente, in consenso per la
coalizione di centro-sinistra.
La gente chiede un cambiamento radicale,
all’insegna della discontinuità.
Gli elettori, molti dei quali ancora non sanno
che non c’è il voto di preferenza, sceglieranno la lista che
proporrà candidati che più s’identificano con questo bisogno di
cambiamento.
Perciò, le liste siciliane potranno risultare
decisive per la raccolta del malcontento e del dissenso e
contribuire al risultato nazionale, visto che nell’Isola si
concentra circa il 10% dell’elettorato.
Da qui il valore strategico del voto siciliano
che tenteremo di delineare con l’ausilio della simulazione
dell’Ufficio sudi della Camera, basata sul metodo proporzionale
applicato ai risultati delle tre ultime elezioni: politiche del
2001, europee del 2004 e regionali del 2005.
Come illustrato nella seguente tabella, in
Sicilia, cui si applicano, per estensione, i risultati delle prime
due consultazioni, si prevede che, rispetto al 2001, l’Unione
potrebbe attestarsi intorno ai 21 deputati (+ 16), mentre la CdL
scenderebbe da 50 a 28 seggi (-22). La rimanente parte dei seggi
verrebbe attribuita ad altre liste o coalizioni di liste oppure ai
maggiori resti.
Seggi
2001 Politiche 2001 Europee 2004
Regionali 2005
--------------------- ---------------------
--------------------- --------------------
Cdl
Unione Cdl Unione CdL Unione
Cdl Unione
Sicilia 1 25 2 -
9 + 8 -10 + 9
-12 + 11
Sicilia 2 25 3 -
8 + 8 - 7 + 7 -
10 + 10
Ovviamente, la CdL recupererà molto buona parte
della perdita (in Sicilia, Lombardia, Calabria) nelle cosiddette
“regioni rosse” (Emilia, Toscana, Umbria). A questo fine, il centro
destra ha imposto la nuova legge, a colpi di maggioranza e alla
vigilia della consultazione.
In ogni caso, l’Unione dovrebbe riuscire
vincente dal voto del 9 aprile conquistando 340 seggi, (63 in più della CdL), ovvero la maggioranza
assoluta alla Camera.
Per quanto riguarda l’attribuzione alle due
coalizioni dei seggi a quoziente intero, la simulazione prevede,
sempre sulla base dei voti riportati nel 2001, che alla Cdl, con un
quoziente nazionale di ripartizione di 56.587 voti, ne andrebbero 15
nella Circoscrizione “Sicilia 1” e 17 nella “Sicilia 2”, mentre
all’Unione (quoziente 62.728) ne sono attribuiti 20, ossia10 per
ogni circoscrizione.
Il dato è aleatorio poiché fa riferimento al
2001 e da allora il quadro elettorale è molto cambiato, anche in
Sicilia.
Infatti, in base ai risultati delle regionali
del 2005, la CdL prenderebbe 28 seggi (13 nella 1° e 15 nella 2°
circoscrizione) e l’Unione 26 seggi (13 per ogni circoscrizione),
con le seguenti attribuzioni per ciascuna lista:
Sicilia
1 Sicilia
2 Totale
Forza Italia
6
6 12
A.N.
3
5 8
Ulivo
9
10 19
Rif. Comunista
1
1 2
Fed. Verdi
1
- 1
Udeur
1 1
2
- Pubblicato, con altro titolo, in “La
Repubblica/Pa” del 1° febbraio 2006.
- ** In ordine all’elezione dei 26 senatori,
da eleggere in Sicilia nel collegio unico regionale, altre fonti
prevedono che 15 andranno alla CdL e 11 all’Unione.
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L'ANALISI. Oltre a Previti e Berlusconi,
della riforma Pecorella usufruiranno Mannino e Caltagirone e quattro imputati
eccellenti ora sperano nella "grazia", ma spuntano dubbi sull'azzeramento
dell'appello Sme per il premier. Il legale della parte civile Cir: il nostro
ricorso tiene vivo il secondo grado
di LIANA MILELLA
Il
deputato di Forza Italia Cesare Previti
ROMA - Taglia e cuci. Ritaglia e ricuci. Aggiungi un
aggettivo di qua, togline uno di là. Per una settimana, Gaetano Pecorella e
Isabella Bertolini non hanno fatto altro. Forzisti tutti e due, e tutti e due
avvocati, di Milano il primo, di Modena la seconda. Lui, presidente della
commissione Giustizia della Camera e inventore della legge sull'appello, lei
relatrice del provvedimento.
Alla loro porta hanno bussato in tanti. A cominciare
dall'Udc: dopo una legislatura di norme ad personam per Previti e Berlusconi,
votate alla fine come soldatini, nell'ultima legge i centristi hanno voluto
infilarci qualcosa di utile anche a loro, a un ex pezzo grosso della Dc come
Calogero Mannino, che fu ministro per il Mezzogiorno, poi stroncato dall'accusa
di concorso in associazione mafiosa. Grande fu la vittoria per l'assoluzione in
primo grado, cocente il dolore per la condanna in appello (cinque anni e quattro
mesi), la gioia risorse con la Cassazione che azzerava l'appello e chiedeva
un'altra pronuncia. Il nuovo processo doveva cominciare il 27 febbraio, ma l'Udc
vuole sfruttare i voti di Mannino e candidarlo alle politiche.
Niente di meglio della Pecorella per sopprimere
l'appello. La norma transitoria, che applica la legge ai processi in corso, cade
a fagiolo. Lì c'è scritto che "l'appello in corso contro una sentenza di
proscioglimento viene dichiarato inammissibile ed entro 45 giorni può essere
proposto ricorso in Cassazione". L'aggiunta è perfetta per il centrista di
Agrigento: la norma si applica anche "nel caso in cui sia annulllata su punti
diversi dalla pena o dalla misura di sicurezza una sentenza di condanna di una
corte di appello o di assise di appello che abbia riformato una sentenza di
assoluzione". L'appello del processo Mannino "muore", si torna il primo grado,
all'assoluzione.
Va ancora meglio per Francesco Gaetano Caltagirone,
imprenditore romano ed editore di Messaggero e Mattino. Due processi, uno a
Perugia per l'ipotetica corruzione dell'ex pm di Roma Vinci, uno a Roma per
turbativa d'asta nella gara di affidamento delle licenze Umts. Nel consorzio
Blu, Caltagirone era in buona compagnia (Giancarlo Elia Valori, Vito Gamberale,
Luigi Abete, Gilberto Benetton tra gli altri 21 indagati). Due processi vinti.
Assoluzione in tribunale a Perugia "perché il fatto non sussiste" (febbraio
2005); assolti dal giudice monocratico a Roma cinque mesi dopo. Ma in entrambi i
casi la procura generale in Umbria, i pm Sabelli e Vitello a piazzale Clodio,
hanno presentato appello. Entrambi i processi saranno spazzati via dalla
Pecorella.
Di Previti ormai s'è detto. In Cassazione, il 19 aprile
per l'Imi-Sir, potrà ripresentare il suo cahier des doléances per le "prove
regine" che la pubblica accusa avrebbe ignorato e che in appello non sono state
riconsiderate, riaprendo il dibattimento come lui avrebbe voluto. Oggi con la
Pecorella è possibile perché la legge obbliga la Cassazione a verificare "la
mancata assunzione di una prova decisiva e la contraddittorietà o la manifesta
illogicità della motivazione".
Per il processo Sme di Berlusconi, invece, potrebbero
esserci dei garbugli interpretativi. Conseguenza di aver previsto l'appello per
la parte civile che vuole ottenere il risarcimento del danno. Che succederà a
Milano? L'appello di Berlusconi (la prima udienza è prevista subito dopo le
elezioni) dovrebbe automaticamente convertirsi in un ricorso in Cassazione. Ma
la parte civile, la Cir di De Benedetti rappresentata dall'avvocato Giuliano
Pisapia, ha già presentato appello.
Pecorella, nella veste di avvocato del Cavaliere, non ha
dubbi: si applica la norma transitoria della sua legge, l'appello si cancella,
il processo va subito in Cassazione. Pisapia è d'avviso contrario: il processo
resta nella fase d'appello per soddisfare la legittima richiesta della parte
civile. In questo caso la legge Pecorella, descritta come l'ultima legge ad
personam per salvare il premier, fallirebbe il suo obiettivo. Dice Pecorella:
"Sarebbe la dimostrazione che sulla Sme siamo completamente tranquilli, saremo
assolti". Il processo potrebbe anche essere diviso in due: resta in appello il
troncone della corruzione per ottenere una sentenza favorevole al caso Sme, va
in Cassazione l'altra metà, la corruzione dell'ex capo dei gip Squillante. Tutto
dipende da come si interpreta la parola "connessione" utilizzata nel testo.
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